Devil's Assistant

di Lady1990
(/viewuser.php?uid=89373)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Primo incarico ***
Capitolo 3: *** Il Re degli Elfi ***
Capitolo 4: *** Come Iago ***
Capitolo 5: *** Scorcio sul passato - Prima parte ***
Capitolo 6: *** Scorcio sul passato - Seconda parte ***
Capitolo 7: *** La Caduta ***
Capitolo 8: *** Samael ***
Capitolo 9: *** Alastor ***
Capitolo 10: *** Exurge Domine ***
Capitolo 11: *** Firenze ***
Capitolo 12: *** Quel qualcosa ***
Capitolo 13: *** Lacrime ***
Capitolo 14: *** Amore di demone ***
Capitolo 15: *** Do ut des ***
Capitolo 16: *** Esca ***
Capitolo 17: *** Il polipo piumato ***
Capitolo 18: *** Debole ***
Capitolo 19: *** Sei mio ***
Capitolo 20: *** Sangue sulle piume ***
Capitolo 21: *** Il fattore E ***
Capitolo 22: *** Giusto e sbagliato ***
Capitolo 23: *** Fiamme nere ***
Capitolo 24: *** ''Non guardare, Archie'' ***
Capitolo 25: *** Bentornato a casa ***
Capitolo 26: *** Eredità dal passato ***
Capitolo 27: *** Seconda possibilità ***
Capitolo 28: *** Diversivo ***
Capitolo 29: *** Angelo custode ***
Capitolo 30: *** La tentazione della Luce ***
Capitolo 31: *** Nel limbo ***
Capitolo 32: *** La scintilla divina ***
Capitolo 33: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Note dell'autrice (leggere con attenzione):
Prima di iniziare, vorrei fare qualche precisazione, giusto per mettere le mani avanti. Questa storia parlerà anche di religione, ma avverto che non vuole essere blasfema e non vuole riscrivere il credo cristiano secondo la mia ottica personale. Tutto ciò che scriverò è frutto delle mie malate elucubrazioni e della lettura del "Paradiso perduto" di Milton e del "Faust" di Goethe (ma non solo), a cui devo in parte l'ispirazione. Perciò, se sentite che la storia tocca un punto per voi delicato o se sapete di essere sensibili all'argomento, non leggete! 
A tutti gli altri do il benvenuto e auguro buona lettura!









Alcuni dicono che tutto avviene per una ragione, che c’è uno scopo dietro ogni singolo evento, una grande ed onnipotente Mente Ordinatrice che orchestra la nostra vita: guerre, pestilenze, malattie, violenze, tutto esiste per un motivo, forse per un infantile e crudele capriccio o forse per un disegno più alto e imperscrutabile. Leibniz affermò che tutto è per il meglio e che viviamo nel migliore dei mondi possibili, poiché Dio non avrebbe generato qualcosa se non nel modo migliore, essendo Egli il simbolo della perfezione assoluta. E poi ci sono altri che, invece, asseriscono che non è altro che un enorme caos, il favoloso e terribile regno delle coincidenze, dove ad un’azione ne consegue precisamente un’altra, in maniera del tutto fortuita.
Personalmente, mi sono convinto a credere ad entrambe le teorie, perché tutte e due hanno un fondo di verità: la prima ci permette di addossare ad un'entità superiore la causa delle nostre sofferenze e la seconda incarna il concetto del libero arbitrio - donatoci da Dio stesso -, per cui ciò che avviene è unicamente colpa delle nostre scelte. 
Ma, per conoscere la verità, anzitutto dovrete ascoltare la mia storia. Successivamente sarete liberi di elaborare una vostra eventuale opinione sull’origine dell’universo e sul destino dell’umanità intera, oppure potrete scegliere di ignorare le mie parole e distogliere lo sguardo, dimenticando ciò che avrete udito dalla mia bocca. Di certo quest'ultima sarebbe la via più facile, quella che ogni individuo assennato dovrebbe imboccare, tramutandosi in uno struzzo che a nulla agogna se non all’oscurità e al silenzio della terra. A volte, in effetti, il non sapere può rivelarsi una benedizione, perché avere accesso ad una moltitudine di informazioni riguardanti le leggi che governano il cosmo può destabilizzare, mettere in crisi le percezioni, le sicurezze, la convinzione di esistere veramente qui ed ora. Non è il sonno della ragione, ma è la conoscenza che genera mostri e chi mai opterebbe per essa, quando si è già felici e soddisfatti di vedere sorgere il sole al mattino? Non c’è forse quel famoso proverbio che recita “chi si accontenta gode”? Sarebbe una realtà comoda. Tuttavia, l’accontentarsi va contro la stessa natura umana, in un eterno rincorrersi e scacciarsi a vicenda, come l’olio che si mischia all’acqua. L’uomo non è fatto per accontentarsi, non si ribellò al dominio divino nell’Eden soltanto per accettare passivamente ciò che possiede, nient'altro che briciole se paragonate all'infinito oceano di possibilità che ci circonda. L’uomo desidera, l’uomo anela, l’uomo vuole. E questa sua brama non contempla mai una pace o una tregua: è perpetua, febbrile, incontrastabile e avida. Egli ricerca in ogni momento un qualsiasi appagamento alla sua fame, eppure ne vuole di più, sempre di più, non è mai abbastanza. Poi, quando cerca di sopprimere il desiderio, quando tenta di remare contro la sua essenza, soffre ed è infelice.
Si racconta che fu Satana, travestito da serpente, a indurre in tentazione Adamo ed Eva, ma mi domando se invece non sia stato Dio in persona a plasmare volontariamente delle creature imperfette, così che fossero soggette al fascino del male, della ribellione, della libertà da qualunque vincolo di obbedienza nei confronti di qualcuno al di sopra di loro. Mi domando se colui che noi chiamiamo Diavolo non si fosse precedentemente accordato con il Signore per il gusto di un gioco perverso. Un po’ come gli scacchi: i bianchi muovono per primi e Dio crea gli uomini, poi tocca ai neri e Lucifero fa la sua mossa. Di seguito, sta di nuovo a Dio, che colloca le sue pedine in una posizione di stallo, in cui una sola mossa azzardata potrebbe far pendere la bilancia dall’una o dall’altra parte. Tutto ciò soltanto per sfuggire alla noia, al perpetuo ripetersi del tempo. Per divertimento.
Secondo alcune teorie religiose del passato, l’uomo è votato al male e soltanto la fede può salvarlo. Ma se fosse davvero votato inconsciamente al male sin dalla nascita, perché mai il Signore dei Cieli avrebbe dovuto dar luce a una creatura sostanzialmente in contrasto con Lui? Non si dice, forse, che Egli modellò l’uomo a Sua immagine e somiglianza? Di conseguenza, se si dovesse dare adito a tali teorie, Dio dovrebbe assimilarsi con il Diavolo. 
E a questo punto, se Dio è il Male, cosa rappresenta Satana?
Non vorrei però che qualcuno prendesse alla lettera queste mie confuse disquisizioni teologiche, che il pensiero comune etichetterebbe come blasfeme. Non pretendo di convincere o indottrinare nessuno. Ciò che mi preme, al contrario, è narrare la mia storia così come l’ho vissuta, illustrando ogni passo compiuto fisicamente e spiritualmente su un sentiero impervio e misterioso, che nessuno prima di me aveva mai osato percorrere. 
La storia ebbe principio con poche, comuni ed innocenti domande: “Perché esisto?”, “Perché sono nato?”, “Perché soffro?”, “Perché Dio non mi ascolta?”. Chi non se le è poste? Il mistero della vita ha sempre assillato l'uomo, spingendolo ad affannarsi per trovare delle risposte. 
Ebbene, era una tranquilla notte di fine agosto. L’afa ricopriva come un velo soffocante le pareti color pesca della mia camera e la mia pelle, imperlandola di sudore. All’esterno, nascoste sui rami degli alberi, le cicale frinivano senza sosta, facendo un baccano infernale nonostante fosse mezzanotte passata. Il fuoco nel camino scoppiettava rinvigorito da nuovi ciocchi di legno. Nonostante il caldo estivo, per una qualche assurda ragione di cui ancora oggi non riesco fornire un logico movente, lo avevo voluto accendere, ne provavo un bisogno logorante e disperato. Il calore che si sprigionava da quel cunicolo rovente andava a mescolarsi con quello che saturava l’aria, trasformando la stanza nell’anticamera dell’Inferno. Avevo gettato la legna, afferrato un fiammifero e in un battito di ciglia le fiamme avevano lambito il piccolo bastoncino, che poi avevo buttato tra gli altri suoi simili. Quell’unica fonte di luce mi piaceva, mi affascinava come le lingue di fuoco facevano tremolare le ombre, rendendole vive davanti ai miei occhi vacui e spiritati e nella mia mente suggestionabile lasciata a briglie sciolte. La danza delle fiamme aveva sempre suscitato in me emozioni discordanti, come ammirazione e terrore, brama e ripugnanza. 
Avevo freddo, un insolito ed inquietante gelo mi era penetrato nelle ossa da giorni e non sapevo più come trovare sollievo. I medicinali che mi venivano somministrati con regolarità non facevano effetto e le mie vene pareva che si fossero ghiacciate. Tremavo e pregavo che almeno il fuoco mi abbracciasse e confortasse. Ero lucido, cosciente che la follia stava pian piano distruggendo tutte le mie difese, ma anche esaltato. Mi ero sempre chiesto cosa si provasse ad essere preda della pazzia e finalmente avrei presto potuto scoprirlo e sperimentarlo sul mio stesso gracile corpo da adolescente imberbe, un corpo che detestavo in maniera viscerale. Avrei voluto strapparmi la pelle di dosso, come un vestito troppo attillato, avrei voluto rasarmi a zero, estrarre gli occhi dalle orbite e bruciarli, trafiggermi le orecchie con dei coltelli così da non dover più sentire un accidente di niente. Avrei voluto tagliarmi la lingua. E così, cieco, muto e sordo, con le ossa scarnificate ed esposte, la semplice azione di addormentarmi non mi avrebbe più spaventato a morte. A quel punto l'universo sensoriale sarebbe stato lontano anni luce da me, eternamente irraggiungibile, ed io non avrei più visto, gridato, udito e sentito quando l'Uomo Nero sarebbe entrato in camera mia, strisciando nel mio letto come un serpente. 
Provavo un gusto insano e malato nel realizzare di essere uscito di senno, come se tale consapevolezza mi esonerasse dal tornare nelle gabbie sociali, dal farmi rimettere docile il collare, dal sottomettermi ulteriormente a individui abietti e accettare in silenzio il loro egoistico verdetto. Potevo dire ciò che pensavo, potevo urlarlo, potevo rivelare la verità ai quattro venti, insultare, imprecare, ballare nudo in mezzo ai boschi, bestemmiare e far finta di lanciare malefici. Tanto nessuno mi avrebbe mai preso sul serio. E se qualcuno, eventualmente, lo avesse fatto, di sicuro mi avrebbe concesso la grazia della morte, sgravandomi con un gesto misericordioso dal fastidioso fardello della vita. Sarei stato libero. 
E il bello è che, al risveglio di quella stessa mattina, non avrei mai creduto possibile che la mia routine potesse subire una svolta di proporzioni così drastiche. Inoltre, se qualcuno mi avesse detto che sarei finito a lavorare per il Diavolo, gli sarei scoppiato a ridere in faccia senza troppi scrupoli, dandogli del matto. Poi gli avrei dato ragione e mi sarei messo a cercare il Diavolo, da pazzo quale mi sentivo. E la cagione di tale inatteso e radicale cambiamento fu una preghiera, un desiderio espresso con tutta la forza della mia anima, uno di quelli che non possono venire ignorati, che sconvolgono e scuotono per la loro intensità. Era genuino, potente, capace di annullare qualunque altra emozione. L’unico errore che ho commesso, benché chiamarlo “errore” adesso non mi sembri più appropriato, è stato supplicare inconsciamente Satana, invece che Dio.
Così, una folle, straordinaria, spaventosa e rapida concatenazione di eventi, casuali o meno, mi ha portato qua, seduto sul sedile posteriore di pelle in una limousine di lusso, mentre vengo accompagnato dal signor Fires sul luogo del mio primo incarico in totale autonomia, privo della familiare e rassicurante supervisione del mio mentore. 
Fare l’assistente del Diavolo non è così male come può sembrare: vai lì, riscuoti il contratto e scaraventi le anime all'Inferno. Semplice come bere un bicchiere d’acqua.
In questo momento sto avendo un dejà-vu. Ricordo che ero seduto nella medesima posizione, di fronte alla medesima persona, quando tutto cominciò: la notte che conobbi colui che avrebbe assunto il ruolo di mio protettore, punto di riferimento in mezzo al caos, il mio maestro, il signor Fires. Ora ho ventitré anni, ma all’epoca ne avevo soltanto quindici. Se ci ripenso, rimango sconcertato. 
Il signor Fires è costantemente ammantato da un’aura così autoritaria che, allorché ti trovi al suo cospetto, sembra che ti manchi il respiro, che sia lui a risucchiartelo e strappartelo inesorabilmente via insieme al soffio vitale. Fu il signor Fires a tirarmi fuori dall’inferno che mi ero costruito intorno, per catapultarmi in un altro tipo di incubo con annessi i dolci gratis, dettaglio non da poco, dato che avrei potuto vendere l'anima per una tolta a triplo strato farcita di cioccolato. Anche lui sgobba per Sua Eccellenza Oscura, ma questa, se vogliamo, è la sola cosa che ci accomuna. Appena ho posato lo sguardo su di lui la prima volta, ho capito subito che aveva qualcosa di strano, qualcosa che stonava con tutto il resto, qualcosa di sbagliato. O forse è meglio dire qualcosa di “provvidenzialmente diverso”.
Siamo a Londra, l’anno corrente è il 2012. La destinazione della limousine è Piccadilly Circus, presso la dimora della famiglia Phelps. 
Emetto un lieve sospiro e stringo il manico della rigida valigetta nera che tengo sulle ginocchia fino a farmi sbiancare le nocche. Avverto il peso dei contratti riposti all’interno come se fossero appoggiati sulla mia anima. Il signor Fires mi scruta di sottecchi, iridi del colore delle braci ardenti accese come fari, come se un vero fuoco bruciasse dietro di esse, ed io gli rispondo con un sorriso tirato, anche se il risultato è una smorfia spaventata.
“Basta che tu sia convinto, Archie. Se lo sei, tutto avverrà in maniera naturale, neanche te ne accorgerai.” 
La sua voce mi culla, mi infonde coraggio, mi ammalia come un dolce e venefico incantesimo. È un timbro basso, roco, conturbante, pregno di richiami sessuali, irresistibile. So che ha ragione, come potrebbe essere diversamente? Ma l’emozione mi blocca il respiro in gola e il mio stomaco si attorciglia dolorosamente.
“Non ti agitare, sono certo che ci riuscirai. È il tuo primo lavoro, è normale che l’ansia di fallire ti paralizzi come una bestiolina pronta ad essere infilzata. Confido nella tua ferma decisione e anche Sua Eccellenza ci spera. Non deludere te stesso, quello che sei, quello che hai scelto di diventare.”
Annuisco e chiudo gli occhi, giusto il tempo per un altro sospiro, prima di aprire la portiera e dirigermi verso la porta della casa designata. Sono pronto, sento di esserlo sempre stato. Questo è il mio momento. Osservo con indifferenza l’ennesimo cognome stampato in maiuscolo sulla targhetta di ottone e premo sul pulsante del campanello, mentre gli occhi roventi e sadicamente divertiti del signor Fires mi perforano la schiena e risvegliano in me una scarica di brividi lungo tutta la spina dorsale, facendomi infine rizzare i capelli sulla nuca e venire la pelle d'oca. Finché lui mi permetterà di stare al suo fianco, non tentennerò, lo renderò anzi fiero di me.









 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Primo incarico ***










Non passa molto tempo, prima che una domestica mi venga ad aprire. Ha il volto tirato, l’incarnato pallido e provato dalla stanchezza, forse dalle esigue ore di sonno che le sono concesse, e profonde rughe le solcano la fronte, invecchiandola di dieci anni.
“Desidera?” mi chiede in tono piatto.
“Buonasera. Vorrei vedere il signor Phelps, per cortesia.” sorrido educatamente.
“Il padrone è impegnato.”
“No, non lo è.” ribatto sicuro.
Uno dei vantaggi dell’essere diventato assistente del Diavolo è che sono in grado ormai di percepire la menzogna nelle parole delle persone, come se suonassero una sequela di note stonate nel bel mezzo di una sublime sinfonia.
“Vorrei incontrarlo, se non le dispiace.” insisto pacato.
“Le ho detto che-”
“Signora,” la interrompo, “sappiamo entrambi che il signor Phelps sta fumando tranquillamente il suo sigaro tra le mura dello studio. Le avrà ordinato di non disturbarlo, immagino, ma credo che anche lui aspetti una mia visita.”
“Io… non…” balbetta smarrita, stringendo con la mano scheletrica la stoffa della divisa, all'altezza del cuore.
Questa donna è innocente, lo percepisco. Non ha mai commesso peccati, tuttavia il candore della sua anima è attenuato dal fatto che si è involontariamente resa complice di qualcosa di grave. Non so quale potrà essere il verdetto per lei, ma se la Legge Suprema la dichiarerà comunque colpevole, non potrò oppormi alla sua condanna. La Legge è uguale per tutti, non ammette eccezioni, ed io sono il suo emissario.
“Coraggio.” la esorto con gentilezza e quella si fa da parte per lasciarmi passare.
È fatta. La porta si richiude da sola dietro di me con un sonoro tonfo e la domestica lancia un grido di sorpresa. 
Mi giro a fissarla e ghigno: “Sarà stato il vento, non abbia paura.”
Lei, bianca come un fantasma, mi scruta intimorita e deglutisce, per poi gettare una rapida occhiata fuori dalla finestra: non soffia nemmeno un refolo di vento. 
Io l’abbandono lì, attraverso l’ingresso a passo cadenzato e mi dirigo alla scalinata di legno ricoperta da un soffice tappeto color prugna, intenzionato a recarmi immediatamente al secondo piano, là dove so per certo trovarsi il mio contraente. Percorro un corridoio pieno di quadri impressionistici - riconosco un Turner e due Constable - e sfilo davanti ad uno specchio dalla superficie opaca, senza dubbio un cimelio d’antiquariato a giudicare dagli intarsi e decorazioni pompose tipiche del periodo barocco. Questo mi rimanda il riflesso di un giovane uomo con mossi capelli castani, lunghi fino alle spalle e legati in una coda bassa, e un paio di occhi dalla sfumatura violetta, incastonati come gemme dalla lucentezza sinistra in un viso ovale e perfetto. La carnagione chiara risalta sul completo nero che indosso e non posso fare a meno di notare quanto il mio aspetto sia cambiato, quanto sia divenuto… surreale, etereo quasi. Anche quando ero un adolescente ero bello, ne ero consapevole, ma adesso v’è una scintilla demoniaca nel mio sguardo, che, ricordo, in principio mi fece accapponare la pelle. Adesso mi sono abituato. Benché talvolta il desiderio di sfigurarmi torni ad assalirmi a tradimento, il pensiero che il signor Fires mi trovi attraente, come spesso mi ha ribadito, mi frena sempre dal commettere azioni avventate.
Giungo allo studio del signor Phelps e busso con discrezione, attendendo il suo permesso di entrare, il manico della valigetta ben stretto nel palmo.
“Chi è? Laura?”
Una voce arrochita dal fumo e dal peccato mi perfora le orecchie con un gracidio stridulo. Digrigno i denti infastidito. Difatti, durante il mio apprendistato, ho scoperto che il timbro vocale può essere influenzato da varie cause, tra le quali l’età, l’alimentazione, la posizione della faringe e della laringe, l’altezza del palato, l’allineamento dei denti, il fumo, l’alcool, ma in particolare per il contributo di un elemento da molti sottovalutato: il peccato. Più un individuo commette crimini, più la sua voce ne risente, senza che se ne accorga. O meglio, coloro che possono vantarsi di essere innocenti, di avere l’anima immacolata, sono gli unici capaci di avvertire le onde e le frequenze sgradevoli emesse dagli altri. Oltre ai demoni, ovviamente, e a quelli come me, umani a cui è stata conferita tale facoltà per motivi di ‘lavoro’ e per la misericordia di Satana. Il signor Phelps è evidentemente una persona meschina, crudele ed egoista, nonché depravata. 
Degli invisibili tentacoli mi avviluppano il corpo e per un attimo mi pietrifico terrorizzato. Poi rammento gli insegnamenti e le raccomandazioni del signor Fires e mi tranquillizzo, realizzando che quell’opprimente sensazione è dovuta al fatto che il contratto sta reagendo positivamente alla presenza del bersaglio. In breve, brama la sua anima nera.
“Signor Phelps, buonasera.”
Spalanco la porta senza bussare ed entro con decisione nella stanza finemente arredata e ammantata dal tanfo di sigaro, mentre il potere del contratto mi soffoca impaziente. Quell'odore rievoca in me il ricordo di mio padre, che fumava quella stessa marca. Immagini veloci e dolorose mi trafiggono il cervello e scorrono innanzi ai miei occhi come fotogrammi di una vecchia pellicola. Rabbrividisco, ma mi costringo a scacciarlo, non è il momento di rivangare il passato. 
Un uomo un po’ attempato e grassoccio, seduto su una poltrona imbottita dietro una scrivania in noce con intarsi floreali, scatta in piedi, il sigaro ben saldo fra le dita tozze e l’espressione confusa, sgomenta, incredula.
“Cosa vuole? Chi l’ha fatta entrare?” domanda, studiandomi dalla testa ai piedi con crescente nervosismo.
“Posso accomodarmi?” chiedo di rimando e, senza attendere risposta, mi siedo su una delle due poltrone di pelle rossa davanti al camino acceso, “Prego, prenda posto anche lei.” lo invito con un gesto elegante del polso e un sorriso gelido.
“Ma chi è lei?!” sbraita collerico e il peso dei suoi peccati si riversa su di me come un fiume di densa e fetida melma, mozzandomi il respiro in gola.
I tentacoli rinforzano la presa.
“Non dovrai esternare emozioni, Archie. Per te sarà difficile, lo comprendo, perché sei umano, ma è molto importante non lasciar trapelare neanche il più insignificante turbamento. Devono capire chi comanda, chi detiene l’autorità, e non devi assolutamente fornire loro l’occasione per avere la meglio su un servo di Sua Eccellenza Oscura.”
Le parole del maestro mi cullano, hanno sempre l’effetto della camomilla sulla mia fragile mente.
“Stia calmo, signor Phelps.” stiro le labbra in una smorfia e pongo la valigetta sulle ginocchia, aprendola e accingendomi a rovistarvi all’interno.
In realtà, il contratto è proprio di fronte ai miei occhi, è rovente e sibila rabbioso nel mio cervello, ma preferisco tergiversare e tendere i nervi dell’uomo fino al limite estremo, come una corda di violino. In tal modo la sofferenza sarà più grande, poiché avrà accumulato emozioni negative in eccesso, esattamente ciò di cui l’Inferno si nutre.
“Lei, in una parte recondita di sé, sa perfettamente chi sono o chi rappresento, non è vero?”
Il signor Phelps impallidisce vistosamente, ma poi scuote il capo con veemenza.
“La smetta di scherzare o chiamo la polizia!”
Ghigno serafico ed estraggo dalla valigetta un anello d’oro con un rubino incastonato al centro. Glielo mostro, un gioiello sospeso fra noi come una campana che suona a morto.
“Se lo ricorda? Questo è il simbolo del patto che stipulò tredici anni or sono.”
Dall’anello si irradiano improvvisamente spire venefiche, che si protendono spasmodiche verso il suo proprietario, e un tanfo mefitico si appiccica ai miei abiti firmati. Egli arretra sconvolto, una mano a coprirsi la bocca. Il sigaro cade sul pavimento e la cenere si sparge sul tappeto persiano.
“C-cosa…?”
“Il tempo è scaduto. È ora di pagare.” sussurro, depositando il contratto sul treppiedi a fianco alla poltrona.
Le informazioni riguardo al desiderio espresso dal mio cliente mi travolgono in rapidissimi flash, passano dietro la mia retina e si imprimono nella mia memoria come marchi di fuoco. 
Jeremy Phelps ha barattato la sua anima in cambio della guarigione dal cancro allo stomaco, malattia che tredici anni fa lo stava conducendo alla fossa. Tuttavia, durante la sua vita, si è reso protagonista di azioni turpi come lo stupro, l’incesto e l’omicidio. Un cocktail prelibato.
“Ebbene,” continuo, “si sieda e definiamo i termini dell’accordo. Se vuole, non finirà stanotte.”
È sicuramente il lato che detesto di più, ma è la prassi offrire al peccatore un’alternativa. L’uomo obbedisce e si accomoda sulla seconda poltrona. Le fiamme del camino scoppiettano minacciose, la presenza del Male è palpabile nell’aria e mi dona forza e lucidità.
“Non è finita?”
“Esiste una scappatoia, che le regalerà altri tredici anni.” spiego in tono professionale, intrecciando le dita in grembo e accavallando le gambe.
“In cosa consiste?” domanda ansioso, la faccia imperlata di sudore e segnata dalla malvagità.
Sorrido e chiudo gli occhi. In questo istante, qualcuno bussa alla porta e una voce femminile attutita chiama con apprensione il mio contraente.
“Papà? Tutto bene? Ti ho sentito urlare.”
Spalanco di nuovo le palpebre e fisso in maniera eloquente ed impietosa il signor Phelps, che si è irrigidito come una statua.
“Occorre pagare un pegno. Il patto deve essere saldato stanotte.” 
“Papà? Papà!”
I colpi si fanno più insistenti.
Il signor Phelps corruga le sopracciglia, allibito: “Mia figlia?”
Annuisco. La sua preziosa progenie, con cui intrattiene una relazione innaturale da dieci anni. La piccola, ora, ne ha sedici. Povera creatura, plagiata dalle oscenità e dalle inclinazioni deviate del padre, incapace di comprendere a quale ignominiosa nefandezza il genitore la sottopone all’insaputa di tutti. D’altronde, costui la tiene segregata in casa con la scusa della salute cagionevole e persino le visite degli altri membri della famiglia sono rare e sporadiche. La moglie del signor Phelps è morta in un incidente quando la figlia aveva solo quattro anni, così l’uomo si è preso cura della bambina e infine ha commesso indisturbato i suoi peccati. 
L'anello, abbandonato sul tavolino, rifulge di una luce sinistra e il fuoco si riflette sulla superficie liscia e dorata come su uno specchio.
“No, lei è quanto di più caro ho al mondo! Per favore, la lasci fuori da questa faccenda.” protesta accorato.
Inarco un sopracciglio e lo osservo severo: “Quindi ha intenzione di pagare lei stesso?”
Lo vedo esitare. 
“Non c’è un’altra soluzione?”
“No. O lei o sua figlia. Scelga.” mi impongo.
“Papà! Mi senti?”
Le lingue di fuoco nel camino guizzano feroci alle mie parole, come un monito. Dentro di me, però, prego affinché risparmi la figlia e si assuma le proprie responsabilità. 
Durante il mio “tirocinio” sotto il signor Fires, mi è capitato di assistere a scene melodrammatiche, persone che non indugiavano neppure un secondo nel sacrificare famiglia o amici per salvarsi dalla dannazione eterna, perciò non mi meraviglierei se anche il signor Phelps cedesse alla tentazione. Ma in fondo al cuore non posso esimermi dallo sperare che non succeda. Per quale motivo, poi? Ho perso la fiducia nell’umanità da anni e a causa del mio ruolo mi troverò sempre a contatto con individui ignobili e vili, la feccia peggiore che esista. Allora cosa mi spinge ogni volta a supplicare in segreto che il peccatore si redima? Credevo di essermi disilluso, di essermi arreso di fronte all'evidente natura disgustosa dell'uomo. È così ostico pronunciare la frase “mi pento e mi dolgo delle mie azioni”? Incontrerò mai qualcuno in grado di sfuggire veramente al contratto grazie alla rinnovata purezza della sua anima?
“Accetto.”
Vengo distolto dai miei pensieri e osservo perplesso il mio interlocutore: “Come, prego?”
“Accetto. Prenda mia figlia.”
Come se un fulmine si fosse appena abbattuto su questa casa, l’atmosfera si ghiaccia immediatamente ed un silenzio di tomba cala su di noi. Assottiglio le palpebre, riducendo gli occhi a fessure.
“Ne è sicuro?”
“Sì, sono sicuro.”
“La faccia entrare.”
Il mio cliente esegue e va ad aprire. 
Una ragazza in vestaglia irrompe violentemente nello studio e scandaglia l’ambiente con attenzione. Presto il suo cipiglio indagatore si ferma sulla mia figura e mi analizza in ogni dettaglio.
“Papà, chi è lui?”
Il padre non le risponde e le circonda le spalle con un braccio, portandola al mio cospetto come un agnello sacrificale da sgozzare sull’altare. È molto carina: ha lunghi capelli neri e ricci, due occhi scuri simili ad opali, il viso è tondo e le labbra carnose e piccole. Pare una bambolina. Serro le labbra in una linea retta e me le inumidisco con la lingua.
“Ciao, Laura. Piacere di conoscerti.” le sorrido dolcemente e le faccio cenno di sedersi là dove prima stava il suo deprecabile genitore, “Signor Phelps, lei può andare. La proroga verrà trasposta sul contratto appena avrò finito e sarà valida da mezzanotte, non si preoccupi.”
“Ma… forse è meglio che rimanga…”
“Ho detto che può andare.” scandisco in tono perentorio.
“Papà? Dove vai?” chiede allarmata la giovane, aggrappandosi alla veste da camera dell’uomo.
“Andrà tutto bene, tesoro. Sta’ tranquilla.” la blandisce e si divincola agitato e colpevole, senza avere il coraggio di guardarla in faccia. 
Poi corre fuori dalla stanza, senza voltarsi o dirle addio. Pervertito e codardo.
“Laura, adesso ti spiegherò perché sei qui, anche se, a conti fatti, è superfluo.” esordisco gentile.
“Cosa vuole farmi?” mi interroga, arretrando verso il muro.
Trema, l’agnellino, e la compatisco, ma il suo destino purtroppo è deciso.
“Morirai, cara. Tuo padre ha appena scambiato la sua vita con la tua.”
“Non… non è vero! Non le credo!”
Sospiro e domando: “Tu gli vuoi bene?”
“Sì, è mio padre.” mormora confusa.
“E sei cosciente che ciò che ti fa dall’età di sei anni non è normale?”
“Mh? A cosa si riferisce?”
“Non fare la tonta. È un grave crimine, un atto vergognoso che va contro la legge naturale e quella umana. Ma tu, pura come un tenero fiore, hai vissuto in una gabbia dorata e sei ignorante in materia di diritti e condanne. Io sono venuto dal signor Phelps per prenderlo in custodia, se mi passi l’espressione. Tredici anni or sono stipulò un patto col Diavolo. Sai chi è il Diavolo, vero?”
“C-certo… ma se si aspetta che crederò alle sue menzogne, si sbaglia! Papà mi ama! Il Diavolo non esiste! E... e anche se esistesse, Dio mi proteggerebbe...”
Il volto di porcellana viene deformato dalla paura e dall’angoscia, tutti i suoi castelli di carta vengono distrutti pian piano dalla verità che rotola fuori dalla mia bocca.
“Non sto mentendo e tu lo percepisci, dico bene?”
Ammutolisce, dopodiché pigola: “Cosa mi accadrà?”
“Verrai gettata nelle viscere dell’Inferno al posto di tuo padre, che verrà a tenerti compagnia fra altri tredici anni.”
“No!” sbotta isterica, fuggendo verso la porta.
La strattona, ma non sa che in questo momento ci troviamo in una dimensione diversa. Lo studio si è ormai trasformato nell’anticamera degli Inferi, un ingresso all’Antro Maledetto da cui è impossibile scappare, una sorta di limbo sospeso nello spazio e nel tempo, una prigione pervasa da effluvi maligni. Riesce ad aprirla, tuttavia ciò che le si para innanzi è soltanto il vuoto. Cade in ginocchio e gattona all’indietro spaventata, gridando e gemendo in lacrime.
“No, la prego! La prego! ”
“Mi dispiace davvero, Laura, ma devo riscuotere.” 
Le lancio l’anello e lei, di riflesso, lo afferra. Subito il suo esile corpo viene invaso dalle fiamme, che le bruciano i capelli, gli abiti, la pelle, penetrano nel sangue, negli organi e le divorano l’anima. Le sue urla strazianti riempiono la stanza e mi feriscono il cuore, eppure la guardo con indifferenza, mentre il suo intero essere si carbonizza e lo spirito si separa dalle spoglie mortali sottoforma di nube grigiastra. Invoca suo padre, me, Dio, però le sue preghiere rimarranno inascoltate. Ella sfreccia impazzita per lo studio, in ogni direzione, e alla fine viene risucchiata dal fuoco che arde nel camino, una voragine incandescente che la inghiotte e la precipita nel girone infernale che spettava al genitore. 
Appena sparisce alla mia vista e ai miei sensi, mi alzo e raccolgo l’anello, che normalmente dovrebbe disintegrarsi quando il peccatore paga il suo debito. Però, poiché l’effettivo contraente è ancora vivo e vegeto, esso è rimasto intatto, in attesa del suo padrone. Lo depongo nella valigetta e mi rassetto i vestiti, all’improvviso esausto e consapevole di aver portato a termine con successo il mio primo incarico. Il signor Fires ne sarà orgoglioso e ciò mi rende soddisfatto del mio operato. So che forse tra tredici anni dovrò tornare in questa casa e recitare il medesimo copione, ma adesso voglio solo godermi i complimenti del mio maestro. 
Scocco un'ultima occhiata al cadavere di Laura, riverso sul pavimento, integro e senza alcuna traccia di ustioni. La causa della morte che rivelerà l'autopsia sarà arresto cardiaco, come sempre. L'età della vittima è indifferente.
Chiudo la porta e la riapro, scoprendo il signor Phelps giusto al di là della soglia. Ghigno freddo e lo sorpasso senza proferire parola, salutando con una strizzatina d’occhio la domestica immobile in fondo alle scale. Dopo quella che mi sembra un’eternità, esco in strada. Piccadilly Circus pullula di gente, turisti e giovani allegri e rumorosi. L’orologio del Big Ben rintocca la mezzanotte. 
La limousine nera mi aspetta a pochi passi di distanza e, sorridendo, salgo a bordo. Il signor Fires ha un'espressione fiera e dolce. Solo lui riesce a trasmettermi serenità e pace, cosa lievemente assurda per un demone del suo calibro. Si sposta con un movimento fluido, si siede accanto a me e mi solleva il mento, facendo incontrare i nostri occhi, viola nel carminio.
“Sei stato bravo.” mi sussurra suadente a un paio di centimetri dalle labbra, per poi sfiorarle con le sue in un bacio casto, “Meriti un premio.”
“Quale?” domando emozionato, accostandomi al suo corpo solido e prestante.
“Cinque varietà di torta della più rinomata pasticceria della città.”
Sospiro estasiato e ridacchio compiaciuto: “Ho già l’acquolina!”
“Ti piace proprio peccare di gola, eh?”
“Sono goloso di dolci, non dipende da me, è il mio organismo.” puntualizzo imbronciato.
Si sporge verso di me e strofina il naso sulla mia guancia, provocandomi una nuova e al contempo familiare cascata di brividi di eccitazione. Mi bacia ancora e affonda la lingua nella mia bocca, mentre il desiderio si ridesta in ogni cellula del mio corpo insieme al languore che precede ogni sua carezza. Sono suo, gli appartengo, anche se lui non ha mai dichiarato di volermi tutto per sé. Quello che sento non è amore, non credo, non sono più in grado di provare quel candido sentimento. Però di certo è qualcosa che gli si avvicina. Devozione? Venerazione? Gratitudine?
Ogni pensiero si azzera nell’attimo in cui mi abbraccia possessivo.
La macchina si mette in moto priva di autista e ci lasciamo la dimora dei Phelps alle spalle.










 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Il Re degli Elfi ***










Definire “casa” un hotel a cinque stelle non è esattamente appropriato, ma per il momento, finché ci tratterremo a Londra, lo Sheraton Park Tower a Knightsbridge è la nostra sede. Infatti, per condurre meglio il loro lavoro, col tempo ho imparato che i demoni preferiscono nascondersi in un luogo in bella vista, insospettabile: si spacciano per clienti e, una volta terminato l’incarico, il loro nome scompare dalla lista delle prenotazioni, così come i ricordi dello staff relativi al loro soggiorno in albergo. La memoria dei dipendenti viene cancellata e del passaggio degli emissari del Diavolo non resta traccia.
Tale strategia viene adottata, come mi ha rivelato il signor Fires durante l'apprendistato, per evitare di incorrere in spiacevoli problemi con la fazione opposta, vale a dire i militanti della Chiesa. Vi sono alcuni enti nemici da cui guardarsi e il mio maestro è sempre stato assai prodigo di raccomandazioni. In particolare, il gruppo di sacerdoti che si fa chiamare Exurge Domine è molto pericoloso e comprende una categoria di esorcisti potente e preparata. Dapprincipio, avevo chiesto al signor Fires per quale ragione delle creature forti e scaltre come i demoni dovessero temere dei semplici umani, ma in quella circostanza egli non mi aveva fornito una risposta esauriente, limitandosi a ribadire il concetto di tenermi alla larga da loro. Si possono riconoscere grazie alla loro bellezza, un’avvenenza divina in un certo senso, poiché pare che discendano da una speciale cerchia di angeli che Dio inviò sulla Terra con l’ordine di mischiarsi con gli uomini e impedire al Male di proliferare. Non conosciamo il loro numero, i loro nomi o l’ubicazione della loro tana, tuttavia il signor Fires mi ha rassicurato: il mio istinto mi avrebbe indicato senza esitazioni la presenza del nemico. Per fortuna, finora non sono mai avvenuti simili incontri e per me l’Exurge Domine rappresenta ancora un’entità astratta, senza volto.
Saliamo sull’ascensore privato e le porte si aprono direttamente sul salotto della nostra suite di lusso. L’arredamento è moderno ma non di cattivo gusto, vi sono tutti i comfort di cui l’uomo cosmopolita necessita abitualmente e soprattutto un letto morbido e grande, che per me è la cosa più importante. Nonostante il mio nuovo stile di vita e la natura diabolica mescolata a quella umana, non ho perduto il bisogno primario di dormire. Quattro o cinque ore spesso sono sufficienti, ma comunque non riuscirei a resistere al richiamo del sonno troppo a lungo e il signor Fires coglie ogni occasione per prendermi bonariamente in giro sull’argomento. D’altronde, non sono un demone in ogni cellula, ma un ibrido “artificiale”, dato che sono diventato come sono ora attraverso l’intervento di Lucifero in persona. E a proposito di lui, sebbene il signor Fires si ostini ad affermare che l’ho incontrato, io non rammento niente, nemmeno il più insignificante dettaglio. Un lato di me desidera vedere Sua Eccellenza, parlarci e magari anche toccarlo, l’altro invece è terrorizzato e in soggezione dall’aura di autorità che il solo proferire il suo nome mi incute. Nel caso dovessi trovarmi un giorno faccia a faccia con lui, non ho idea di quale sarebbe la mia reazione. Che aspetto ha? Com’è la sua voce?
“Archie, vieni a mangiare.” mi chiama il mio maestro dalla cucina attigua al salotto, ed io, dopo aver posato la valigetta sul divano, lo raggiungo.
Di fronte a me si stagliano cinque torte farcite e immediatamente il mio stomaco gorgoglia entusiasta. Il signor Fires sorride sardonico e mi dà un buffetto sulla guancia.
“Sono tutte per te. Abbuffati.” mi sussurra all’orecchio.
Non me lo faccio ripetere. 
L’atto del mangiare ormai non rappresenta più un’impellente necessità di sopravvivenza, il mio corpo non urge più cibo da cui poter attingere energie; piuttosto, è un riflesso incondizionato. E sì, c’è di mezzo anche la golosità. Sono stato un divoratore di dolci fin da bambino e adesso mi è rimasto questo automatismo, che, benché piacevole e appagante, non è indispensabile. Di conseguenza, tramite il metabolismo potenziato che ho acquisito, sono perfettamente in grado di ingurgitare tutto ciò che voglio senza sentirmi male: il sogno di tutte le donne, credo.
Il signor Fires va a sedersi sul divano. Mi dà le spalle, perciò posso guardarlo quanto voglio senza imbarazzarmi. Adoro la sua schiena e il suo collo, ho sviluppato un feticismo malato per essi. La sua figura nell’insieme è alta e flessuosa, ben proporzionata, e l’eleganza che traspare da ogni suo gesto, anche minimo, farebbe vergognare persino la famiglia reale. Non so se quella che vedo sia la sua vera forma, sinceramente non l’ho mai scorto con sembianze differenti.
Mentre mastico, rifletto su quanto poco ho capito dei demoni. Il signor Fires, da bravo mentore, mi ha istruito a dovere sulla loro gerarchia e sui loro compiti, ma il segreto che si cela dietro la loro natura mi è ancora incomprensibile e inafferrabile. Forse potrei giungere all’illuminazione se pure io mi trasformassi in un demone, però non sono sicuro di volerlo. Ho paura di cosa potrei divenire, della dimensione ignota in cui verrei catapultato; ho il terrore di perdere tutto ciò che conosco, le mie certezze, i miei pilastri, la mia umanità. Sebbene io disprezzi la mia specie, sono attaccato a ciò che sono, incatenato ad un impulso primitivo di conservazione e rifiuto di qualunque cambiamento. Una formica non avverte l'impellente desiderio di trasformarsi in un lupo. A volte vorrei essere solo più coraggioso.
Inoltre mi dico sempre che, se diventassi un demone, il signor Fires perderebbe tutto il suo fascino e non lo troverei più così irresistibile. A quel punto, penso, bramerei gli uomini e la loro esistenza effimera, costellata di emozioni travolgenti, picchi di dolore e felicità. Rimpiangerei l’essere soggetto allo scorrere del tempo, un cuore che batte, la gioia che provo quando scende la prima neve dell’anno, silenziosa, bianca, pura e mortifera. Forse non sperimenterei più alcun sentimento.
Mi domando se il signor Fires sia diverso dagli altri abitanti dell’Inferno, oppure se conosca l’arte di simulare stati d’animo alla stregua del più abile attore di tutti i tempi, perché sa imitare talmente bene l’umanità da insinuare il dubbio. Non possiedo la risposta, ma il sospetto mi affligge. Sono spaventato dall’idea di vivere in un’illusione. E se tutto questo non fosse reale? Se fosse solo frutto della mia fervida immaginazione, della mia mente ormai distorta, prostrata e distrutta, di un prolungato attacco di schizofrenia, dell’effetto indotto dai farmaci che assumevo prima che cominciasse?
Mi alzo dalla sedia e mi pulisco la bocca con il tovagliolo, poi mi dirigo vero il mio maestro e mi chino per abbracciarlo da dietro. Lui alza un braccio e mi accarezza dolcemente i capelli, senza voltarsi.
“È tutto vero?”
Sembra capire e sorride: “Già il fatto di chiederselo implica lucidità e facoltà di analisi. Non ti vieto di coltivare i tuoi timori, Archie, ma sei tu a decidere cosa è vero e cosa no. Nessuno può farlo al posto tuo.”
“Però…”
“Anche se ti dicessi che questa è la realtà, dentro di te continueresti a covare l’incertezza e non v’è una garanzia o una soddisfacente dimostrazione che la verità risieda nel contrario. Vuoi sapere se esisto? Io ti rispondo di sì, tuttavia sono le tue percezioni a compiere il resto del lavoro.”
“Tu esisti, io lo so.” asserisco con determinazione, rafforzando la presa e immergendo il naso nell’incavo del suo collo, “Tu esisti, ma non ti comprendo.” sospiro mesto.
“Non serve, l’importante è che comprendi te stesso.”
Mi solleva il mento e unisce le nostre labbra in un bacio delicato.
All’improvviso, l’atmosfera viene rotta dall’ingresso di una donna, la quale varca la soglia della suite con passo felpato, nonostante i tacchi vertiginosi.
“Interrompo qualcosa?”
Non posso che fissarla esterrefatto. La sua voce melodiosa squarcia il velo di intimità che ci ha avvolti sino a questo momento e la sua presenza sembra riempire la stanza. Non l’ho mai vista, ma da alcuni tratti indefinibili realizzo che è un demone. Nell’aspetto sembra umana, non c’è nulla di stonato, eppure la sensazione che avverto è identica a quella che ho provato quando ho incontrato la prima volta il signor Fires. Lei è uguale al mio maestro, ne ho la certezza.
I suoi capelli sono lunghi e neri, appena arricciati verso le punte, e i suoi occhi sono verdognoli come acqua di palude. La pelle ambrata pare liscia e vellutata, la bocca carnosa e le forme sono ben pronunciate, fasciate da un abito attillato di raso blu. La sua bellezza è tale da mozzarmi il fiato, però è anche pervasa da un’aura pericolosa e per questo motivo incantevole. Vengo sopraffatto dalla meraviglia, poiché non ho mai avuto l’opportunità di sperimentare un contatto con un altro membro della razza del signor Fires. Sono elettrizzato e impaurito, pietrificato come una statua.
Il signor Fires, al contrario, non si scompone e con un movimento leggero della mano la invita ad accomodarsi.
“Non disturbi, mia cara. A cosa devo la tua visita?”
La donna si siede su una poltrona davanti a noi e il mio maestro mi fa segno di mettermi accanto a lui. Obbedisco, sotto lo sguardo enigmatico della nuova arrivata.
Ella, dopo qualche secondo, sposta la sua attenzione sul maestro.
“Abbiamo scoperto i resti di uno dei nostri in un vicolo vicino alla cattedrale di San Pietro, a Roma.” esordisce con aria grave.
“Cosa intendi?” il signor Fires si fa subito partecipe.
“******* si trovava nella capitale italiana per svolgere un incarico, ma non è più tornato. Di lui sono rimaste le ceneri. Inoltre l’anima che doveva riscuotere è scomparsa, tolta dalla circolazione, non ne abbiamo traccia dall’altra parte. E sarebbe sciocco credere che abbia acceduto in Paradiso, era macchiata a puntino.”
Aggrotto le sopracciglia, stranito, e mi faccio più attento. Osservo con fare maniacale le labbra della sconosciuta e mi concentro.
“E ******* ha detto qualcosa? Vi ha lasciato un messaggio?”
Mi giro di scatto verso il signor Fires. È successo di nuovo: a un punto della frase, il mio udito fa cilecca. Mi infilo un dito nell’orecchio, con l’intenzione di sturarlo, ma non sembra compromesso. Sento tutto benissimo. Allora perché non capto alcun suono, nonostante le loro labbra articolino comunque la parola?
“No. Come ricorderai, ci sono dei precedenti, quindi è stata ordinata la massima allerta. Il caso di ******** potrebbe indicare la loro prima mossa. Per ora non dobbiamo contrattaccare. Discrezione, basso profilo, sensi vigili. Ti informerò se dovessero spuntar fuori delle novità.”
Non riesco a seguire la conversazione, parlano in maniera criptica e la cosa mi infastidisce.
“Grazie, **********.”
“Di niente.” sorride la donna.
Sono sempre più confuso. Lei mi studia da capo a piedi e ghigna.
“Il tuo allievo?”
“Sì.”
“Sembra promettente. Adesso vi saluto. Con permesso.”
Appena le porte dell’ascensore si chiudono, mi volto di scatto verso il signor Fires, una domanda che mi preme sulla lingua: “Maestro! Cosa è successo poco fa?”
“Mh?” mi fissa interrogativo.
“Io… non riuscivo a sentire… io… il nome.”
“Oh, giusto. Dato che non sei un demone, non puoi carpire i nostri nomi. Ovviamente, Fires è un soprannome, un nome d’arte che ho scelto per te. Diciamo che è un incantesimo scagliato su tutta la razza umana, che ci permette di proteggere la nostra identità. E se ti chiedi com’è che in alcuni libri siano presenti gli appellativi di quasi tutti i miei simili, ebbene”, schiocca la lingua seccato, “devi ringraziare i membri dell’Exurge Domine. Su di loro il sortilegio non ha effetto.”
“Per me sarà impossibile conoscere il tuo vero nome?”
“Sì, per ora, ma in futuro chissà? Per te sarò il signor Fires, nulla di più, nulla di meno. Ad ogni buon conto, se una rosa non possedesse tale nome, cambierebbe forse il suo profumo?”
Decido di sorvolare sulla citazione di Shakespeare e mi focalizzo sul significato: in pratica, non saprò mai chi è il mio maestro, mentre lui sa già tutto di me. Non è corretto. Mi imbroncio e il signor Fires mi sfiora la guancia con le dita.
“Non crucciarti, è così fin dal principio.”
“Ma io non sono un comune essere umano! Non più!”
“Sì, ma di base lo sei completamente. Ciò che ti distingue è una superiore intelligenza e resistenza, la capacità di vedere quello che normalmente è celato e interagire col soprannaturale. Non sei un demone, ma un uomo diabolico!” ghigna e mi tira un pizzicotto.
Ridacchio e gli scaccio giocosamente la mano: “Volevo chiederti un’altra cosa: i demoni possono morire?”
Egli si adombra per un attimo, poi torna rilassato: “Morire non è la parola adatta. Possiamo essere distrutti o imprigionati. Se vieni distrutto, smetti di esistere, non c’è un ulteriore mondo parallelo che potrebbe accogliere la tua anima, anche perché i demoni non ne hanno una.”
“Cioè, non esiste un Paradiso o un Inferno per i demoni.”
Mi osserva con sussiego: “Secondo te, un demone potrebbe andare in Paradiso per le sue ‘buone azioni’?”
“Non il Paradiso di Dio, ma uno… infernale.”
“Allora è l’Inferno. Ad ogni modo, i demoni spariscono e basta.”
“Uno di voi è morto…cioè, sparito a Roma?”
“Già.”
“Chi è stato?”
“L’unica organizzazione abbastanza potente da metterci i bastoni fra le ruote: Exurge Domine.” si fa serio e digrigna i denti, i canini appuntiti che protrudono dal labbro inferiore, “Quei maledetti rompiscatole! Non ci lasciano in pace, pensano che la loro sacra missione sia cancellarci dalla faccia della Terra. Idioti.”
“Perché?” mi avvicino e lo squadro interessato, la curiosità sta prendendo il sopravvento.
Ricambia la mia occhiata e assottiglia le palpebre: “Anche noi abbiamo un’utilità, sai? Dovresti averlo capito. Loro, invece, sono convinti che purgare il globo dal Male aiuterà l’umanità a risollevarsi.”
“In un’ottica umana, è forse sbagliato? Nel senso, anch’io sarei arrivato alle medesime conclusioni, se non ti avessi incontrato. Il Male deve essere sconfitto.”
“Archie.” scuote la testa e sospira, “Noi purghiamo la Terra dal Male, togliendo di mezzo i peccatori. Diamo loro tredici anni per redimersi e, se non lo fanno, meritano una punizione. Se ci prendessimo delle ferie, il mondo sprofonderebbe nel caos. Perché, mio caro allievo, il cosiddetto Male ha origine nel cuore di ogni uomo, non da cause o agenti esterni.” sorride in maniera sinistra e nei suoi occhi brilla una luce inquietante, “Per estinguere il Male dovresti eliminare l’intera umanità.”
Sono senza parole, ghiacciato sul posto e stravolto da questa rivelazione. È vero, tutto torna. È un’intuizione, un pensiero dalla portata enorme e insopportabile. Perciò quello che viene identificato come Male, ovverosia gli Inferi e i suoi emissari, in realtà sono il Bene? Sono la Giustizia? Allora come mai Dio e gli angeli li combattono? Perché non riconoscono il loro operato e non li supportano? Qual è il disegno supremo? Però i demoni stipulano patti con le persone e, di conseguenza, li istigano a perpetrare cattive azioni, prima che scada il termine del contratto.
“D’accordo, adesso, se non sei troppo stanco, concentriamoci sul tuo prossimo incarico.”
È il signor Fires a salvarmi un istante prima di venire inghiottito da una voragine, fagocitato dal mostro della Verità. 
“Sì… l’incarico…” mormoro assente.
“Nella tua valigetta troverai il contratto. Si sarà già materializzato, presumo.”
Agguanto la valigetta e la apro. All’interno c’è un libro grande e sottile, ma l’inchiostro che definisce il titolo è consumato e non riesco a leggerlo. Lo sfilo con cautela, temendo che possa sbriciolarmisi tra le mani, e simultaneamente i tentacoli mi ingabbiano, come serpenti particolarmente voraci.
“Ugh!”
“Beh? Cosa te ne pare?” indaga.
Mi calmo e analizzo meglio l’oggetto che stringo fra le mani. Sollevo la copertina di cartoncino e trattengo a stento un verso di sorpresa.
“Uno spartito musicale?”
“La prossima anima appartiene ad un pianista.”
Der Erlkönig…” leggo esitante.
Il nome dello spartito è in tedesco e cerco lo sguardo del signor Fires per una delucidazione circa il significato.
Il re degli Elfi. È una sonata di Schubert e successivamente Goethe ci adattò una ballata. La vuoi sentire?”
“Mi piacerebbe, sì.”
Si alza e si reca innanzi ad un armadio di legno che dovrebbe contenere liquori, da cui estrae invece un grammofono.
“E quello da dove salta fuori?” mi raddrizzo allibito.
Sorride sornione: “Domanda stupida, Archie.”
“Ah, uno dei tuoi trucchetti, immagino.”
“Sì, uno dei miei trucchetti.” ride di gusto e posiziona il grammofono sul tavolo basso davanti al divano.
Sopra il piatto rotondo c’è già un vinile e il signor Fires non deve far altro che posare la punta del braccio metallico sulla superficie lucida e nera del disco per innescare la riproduzione.
“I cd ti disgustano?” gli chiedo divertito.
“Questi marchingegni datati hanno il loro fascino e il suono è più corposo. Ascolta.”
Le prime note di pianoforte invadono l’aria e in seguito la voce possente di un baritono parte per accompagnare la melodia. Chiaramente è in tedesco, ma la bellezza suggestiva della musica mi cattura in un crescendo di pathos e drammaticità, per poi finire con poche, incisive parole.
“Maestro, puoi tradurmela?”
“No, farò di meglio.” 
Si sporge e mi circonda il viso con le mani, sussurrandomi strane parole all’orecchio. Poi si scosta e fa ripartire la ballata. Sgrano gli occhi sbalordito quando mi accorgo che, come per magia, adesso sono in grado di comprendere tutto, quasi che il tedesco sia la mia lingua madre. Il brano termina ed io sono senza fiato per l’emozione.
“Come…?”
“Piccolo incantesimo. Se te l’avessi tradotta io, avresti perso il sublime incanto dell’opera. Commenti?”
“È inquietante.” ammetto.
“Nella mitologia e nel folklore europeo, il Re degli Elfi rappresenta una creatura malvagia che infesta le foreste e conduce i viandanti che le attraversano alla morte. È un personaggio seducente, che irretisce gli uomini promettendo loro ricchezza, gioia e felicità, nonché appagamento dei loro desideri. Poi li uccide. Se tuttavia vogliamo discuterne da un punto di vista cristiano, il suddetto Re veniva associato al Diavolo. Interessante, no?” 
“Aggiungerei anche azzeccato. Questo spartito appartiene ad un uomo che ha venduto l’anima al Diavolo per…” mi concentro, passando i polpastrelli sulla carta, “fama e una notevole abilità nel suonare il piano.”
“Scoprirai da solo quanto è azzeccato. Il quesito che ti pongo è: nella commedia in cui ti troverai invischiato, chi recita la parte del Re degli Elfi? La risposta me la darai dopo che ti sarai occupato del musicista.” mi dice sibillino.
Quando assume questo atteggiamento mi mette sempre in agitazione, poiché mi sta testando. Non mi dispiacciono le sfide, ma con lui sono costantemente sotto esame e spesso cado preda dello stress. Infatti, visto che il mio unico desiderio è compiacerlo e far sì che sia orgoglioso di me, ho una paura matta di deluderlo e non riuscire a dimostrarmi all’altezza del compito.
“Mi stai mettendo in difficoltà.”
“Ti sto stimolando, Archie.”
“Posso sdraiarmi un po’? Ho sonno.”
“Vai pure, io veglierò su di te.”
Mi astengo dal ribattere “so che lo farai” e gli faccio un cenno d’assenso. Il signor Fires ha vegliato su di me da quella notte, mi è rimasto a fianco in ogni frangente, mi ha donato la forza, mi ha insegnato a credere in me stesso e nelle mie potenzialità, mi ha iniziato ad un mondo di cui non ipotizzavo l'esistenza neanche nell’eventualità più remota. Mi ha dato tutto, e anche ora che ho raggiunto l’età adulta persevera nel suo comportamento protettivo. I suoi tocchi e i suoi baci sono come un balsamo miracoloso che cura qualsiasi ferita e il timbro della sua voce è rassicurante, mi coccola l’anima. Cosa ho fatto per meritarmi le attenzioni gentili di un demone come il signor Fires? Considero la sua presenza come una benedizione, un lenitivo per le sofferenze che qualche volta tornano ad assalire il mio spirito, tanto da farmi anelare a trascorrere l’eternità con lui.
“Grazie.” mormoro imbarazzato.
Non posso esimermi dall’arrossire. Fatico ancora ad abituarmi ad averlo accanto ad ogni respiro. È la mia ombra, il mio sostegno, la mia ragione di vita. È un padre, un fratello, un amico. È il mio maestro.
È il mio destino.
 
Sono le undici e trenta del 28 novembre. La limousine “stregata” mi ha condotto fuori città, nei pressi di una villa da sogno a quattro piani, circondata dal verde. Da quello che riesco a scorgere, a dispetto del buio, parrebbe un angolo di paradiso. L’architettura ha degli elementi risalenti all’epoca vittoriana, ma il porticato esterno è di stampo coloniale. Di fronte all’ingresso c’è uno spiazzo con una fontana rotonda, sulla cui cima fa bella mostra di sé una scultura di un adorabile putto che suona il flauto, dal quale zampilla l’acqua. 
La macchina si ferma e mi fa scendere, ma appena poggio la scarpa sulla ghiaia un’orribile sensazione di morte mi provoca un piccolo sussulto. Il Male tiene in ostaggio la casa, lo percepisco nelle viscere e nel sangue, che ha preso a scorrere più veloce nelle vene. Deglutisco e mi allento leggermente il nodo del cravattino viola. Il manico della valigetta sfrigola nel palmo, ma devo mantenere il controllo e atteggiarmi da persona professionale, senza cedere al panico. Del resto, non ho più la scusa del primo incarico, ormai so come funziona.
Salgo gli scalini e arresto il passo davanti al portone, verificando la totale assenza di campanello. In compenso ci sono due grossi anelli di ferro, che fuoriescono dalle fauci di un leone in altorilievo: i classici battenti delle antiche magioni europee. Sbircio nei dintorni, guardingo, ma all’apparenza è tutto tranquillo. Se non fosse per quel continuo bisbigliare. È quasi come se più voci stiano parlando col medesimo tono, tutte insieme, tant’è che non comprendo un accidente. Non ho paura di loro, non sono altro che le reminescenze dei defunti che ancora indugiano in questa dimensione, tuttavia potrebbero risultarmi utili per capire come devo muovermi. 
Scrollo stancamente le spalle e impugno la maniglia, battendola tre volte sulla superficie di legno massiccio. Il suono secco rimbomba come un tuono, rompendo il silenzio della notte e disturbando gli animali, soprattutto gli uccelli, che si innalzano in volo un istante più tardi, scuotendo i rami degli alberi. Mi viene la pelle d’oca. Mi abituerò mai a tutto questo? 
Piego il busto all’indietro per osservare le finestre e alla mia destra, al secondo piano, una luce si accende. Di seguito, noto un bagliore provenire anche dalla finestra d’angolo al piano terra. Un minuto dopo la porta si schiude e il viso pallido e segnato da profonde occhiaie di un anziano si staglia in linea con la mia visuale. Le rughe solcano come un’intricata ragnatela la sua pelle chiara, le guance sono incavate, la bocca è una riga dritta, lievemente coperta da un paio di baffi candidi e crespi. La testa è pressoché calva, le sopracciglia sono folte e irsute e gli occhi due spilli di ghiaccio senza parvenza di vita. Mi trattengo dal ridacchiare incredulo: anche il maggiordomo da brivido! Cos’è, la fiera degli orrori?
Egli mi fissa inespressivo, senza proferire parola. Ammetto che sa come alimentare l’atmosfera, già lugubre e spettrale di suo.
“Buonasera.” accenno un inchino, “Il signor Molloy è in casa?”
È un attimo e la porta mi viene sbattuta in faccia. Un’accoglienza britannica esemplare. Sbuffo e busso un’altra volta, ma nessuno viene ad aprire. Mi gratto nervosamente la nuca, alla ricerca di una soluzione, quando all’improvviso mi sovviene un insegnamento del signor Fires.
“Se un cliente si rifiuta di collaborare con te, il contratto ci penserà in tua vece.”
Scruto perplesso la valigetta, la quale mi spedisce minuscole scariche elettriche tramite la mano, che ha cominciato a formicolare in modo irritante. Sollevo il braccio e, senza un motivo logico, la pongo sul legno liscio della porta. Subito essa si spalanca e una forte folata di vento penetra all’interno dell’abitazione, fischiando, ululando, bisbigliando, travolgendo vasi costosi e fulminando le lampadine, per poi far piombare l’antro nell’oscurità. Avanzo divertito e scioccato, tenendo la valigetta il più lontano possibile dalla mia persona. So che è idiota, io non devo temere niente, però ho rischiato di farmela sotto dalla sorpresa. Se fossi sufficientemente suggestionabile, mi sarebbe sicuramente venuto un infarto, ma per fortuna posso vantare un’ottima salute mentale e fisica, unita all’esperienza acquisita accanto al signor Fires. Una risatina isterica minaccia di rotolare fuori dalla bocca, ma la soffoco immediatamente. Che figura ci farei, se mi mettessi a ridere da solo? 
Mi schiarisco la gola e avanzo ancora, finché non mi accorgo del vecchio di poco fa, rannicchiato e tremante sotto la finestra accanto al portone. Stiro le labbra in una smorfia compassionevole e lo ignoro, non è lui che mi interessa. Proseguo dritto, giro a destra e poi a sinistra, salgo una rampa di scale e sbuco al primo piano. Il contratto mi guida, la destinazione è il terzo piano. Alle pareti sono appesi ritratti di nobiluomini e nobildonne, e quadri con scene di caccia e balli di società, forse appartenenti al diciassettesimo o diciottesimo secolo. I mobili sono pezzi d’antiquariato, la fattura pregiata mi fa pensare che devono valere un mucchio di soldi. Ai lati ci sono innumerevoli porte, tutte sigillate, e in qualche maniera mi ricordano il luogo in cui sono nato, la mia casa, il “labirinto malefico”, ciò che considero tutt’ora il vero Inferno. Scuoto la testa e scaccio le immagini che riaffiorano alla mia mente, non è il momento per abbandonarsi alle terribili memorie del passato. Il presente è quello che conta, solo il presente.
Il secondo piano non palesa molte differenze rispetto al primo, tuttavia a un tratto odo le note ovattate di una melodia. Mi è familiare. Arrivo al terzo piano e realizzo che qualcuno sta suonando Der Erlkönig di Schubert. Mi incanto ad ascoltare quella musica ipnotizzante, mentre i miei piedi avanzano verso la fonte, l’eco dei miei passi cadenzati che rimbalza sui muri. Ha un qualcosa di magico e surreale, mi annebbia la ragione e inibisce i miei sensi. 
Giungo innanzi ad una porta accostata in legno bianco, da cui intravedo uno spiraglio di luce tremolante e soffusa, probabilmente prodotta da una candela. La spingo senza far rumore e la visione di un uomo bellissimo seduto di fronte a un pianoforte mi colpisce come uno schiaffo. È affascinante come un dipinto, perfetto, un artista dell’epoca romantica inserito in universo gotico e vampiresco. I capelli lunghi, neri e lisci adagiati sulla schiena come una cascata di inchiostro e gli occhi chiusi, i lineamenti rapiti ed estatici, le dita che accarezzano rapide i tasti dello strumento senza mai sbagliare, l'intera figura immersa in uno scenario decadente. La candela arde sopra la superficie lucida del pianoforte, illuminando con tinte macabre e misteriose l’ambiente. Sul leggio non v’è alcuno spartito, il musicista suona col solo ausilio dei ricordi.
Sono catturato dalla sua immagine, dall’aura malinconica e conturbante che sembra sprigionare, e mi rendo conto che vorrei solo sedermi da qualche parte per godere della sua bravura. Di certo deve esserci un errore: un uomo così bello e capace di emanare un simile charme, nonché di suonare con tanta maestria, non può essere colpevole. È innocente.
Il manico della valigetta mi ustiona il palmo e involontariamente lancio un grido acuto di dolore, distogliendo l’attenzione dell’uomo dalla musica. La riproduzione dell’opera di interrompe bruscamente con un Re diesis, che crea una crepa stonata nell’esibizione. Mi risveglio dal torpore che mi ha invaso senza preavviso, valicando in sordina le mie difese. Però, grazie al contratto e al suo ruggito rabbioso, rinsavisco.
Un incantesimo. Ed io ci sono cascato come una pera!
Colui che deduco essere il signor Molloy si volta a studiarmi con stupore e rancore, infine si alza e mi si avvicina a piedi scalzi. È alto, magro ed effettivamente molto avvenente. I suoi occhi sono scuri come abissi, ma mancano di quella specifica caratteristica propria del signor Fires. Le iridi di fuoco di quest’ultimo, gemme di lava ardente, mi risucchiano e mi bruciano, mentre quelle del signor Molloy mi incutono inquietudine, ma non mi spaventano. Sono occhi rapaci, decisi, di un individuo estremamente sicuro di sé, abituato a dominare. Però adesso ho scoperto il suo trucchetto e non mi lascerò più mettere nel sacco.
“Sei interessante, ragazzino. Su di te non funziona, eh? Eppure, per un secondo, avevo creduto di sì.” sussurra suadente, camminandomi intorno come un avvoltoio pronto ad avventarsi sulla carogna.
Mi ricompongo, per nulla intimidito. Il contratto è la mia unica difesa e il mio unico attacco. Sarebbe impossibile per un umano avere la meglio su di esso, in particolare se l’umano in questione ne è il proprietario. Questo tizio è spacciato.
“Il signor Molloy, suppongo. Conoscerla non è affatto un piacere.” sorrido affabile.
“Peccato, invece per me lo è. Finora non avevo mai incontrato nessuno in grado di resistere alla mia musica.”
“Nessuno può farlo a causa del contratto, signor Molloy.” chiudo le palpebre e ghigno.
Sento il respiro del mio cliente bloccarsi.
“Chi sei?”
“Indovini.”
“Non ho tempo per i giochi, li detesto.”
“Non è un gioco, signor Molloy. È un incubo, un incubo da cui lei non si sveglierà mai più. È già cominciato.”
La fiamma della candela si spegne e il buio piomba sulla stanza. Le finestre, che fino a un secondo fa mostravano il mondo notturno all'esterno, adesso sono cornici di tenebra, in cui nulla si riflette eccetto il vuoto.
“Cinquantadue anni or sono lei ha stipulato un patto con il Diavolo ed ora io sono qui per fare in modo che lei lo estingua. Ha già esaurito la sola occasione che aveva di immolare un altro al suo posto, quindi non dispone di alcun ulteriore sacrificio. Lei sarà giudicato stanotte.”
“Sei… un demone?”
“No, purtroppo. Sono per la maggior parte ancora umano.”
Sorride sinistro, mostrando il candore della dentatura: “Questo mi aggrada.”
Si posiziona fulmineo dietro di me e con un braccio mi circonda i fianchi, mentre con l’altra mano mi libera il collo dai capelli. 
“Mi intrighi ed è un complimento. Sono sicuro che non mi annoierai.” soffia, poi mi bacia e mi lecca il collo, raggiungendo il lobo dell’orecchio per succhiarlo.
“Si sta per caso illudendo che, riservandomi un determinato trattamento, si salverà? No, signor Molloy, la sua condanna è già scritta, non può scappare.”
“Chi lo sa?”
Una fitta lancinante ai reni mi toglie il fiato. Spalanco gli occhi boccheggiando, mentre mi accascio sul pavimento con un gemito. Mi stendo supino e mi accorgo che la lama insanguinata di un coltello gli esce dalla manica della camicia bianca. Le gocce purpuree precipitano sulle mattonelle, macchiandole di rosso. Sono nei guai.
Le serrature della valigetta scattano in un istante e le pagine sfuse dello spartito di Schubert iniziano a vorticare impazzite per la sala, come mosse da una corrente invisibile. Il signor Molloy arretra e osserva terrorizzato i fogli di carta che gli piroettano attorno, da cui i simboli stampati con l’inchiostro paiono prendere vita, diffondendo l’ormai ben conosciuta sonata. Fa cadere il coltello con un tintinnio e fugge via, ma non riuscirà a percorrere molta strada.
Mi mordo il labbro inferiore e mi sollevo, la sofferenza che pian piano diminuisce fino a scomparire. Guardo il foro nei vestiti provocato dall’arma e noto che la ferita si sta rimarginando ad una velocità impressionante. Le voci che bisbigliano nelle mie orecchie - non hanno smesso un minuto - aumentano di numero e intensità, spronandomi a rincorrere il cliente. Mi scrocchio il collo, riassumo la posizione eretta, schiocco la lingua e poi le dita e infine la valigetta si libra in aria accogliendo al suo interno le pagine dello spartito. Essa si chiude di nuovo e torna nel palmo della mia mano, lì dove deve stare.
“Signor Molloy, le ho già detto che è inutile scappare. Non può nascondersi!” esclamo al silenzio e, non ottenendo risposta, sospiro rassegnato.
Ci voleva proprio un inseguimento, stasera. Controllo l’orologio sul mio polso e, con stizza, mi avvedo di essere in ritardo. Mezzanotte meno dieci e ancora non ho portato a termine l’incarico. Mi frutterà una nota di demerito?
Wer reitet so spät durch Nacht und Wind?” 
Canticchiando la ballata, seguo la scia del profumo del signor Molloy, una fragranza dolce e virile al tempo stesso. L’istinto mi indirizza nelle cantine, dove è conservata una collezione di vini di alta qualità, riposti in ordine sugli appositi scaffali. L’impatto con il tanfo di putrefazione che mi penetra nelle narici mi disorienta per un momento, lasciandomi una sensazione schifata addosso. Senza dubbio, qui sotto ci sono dei cadaveri.
“D’accordo, facciamola finita in fretta.” mormoro serio, avanzando lungo gli stretti corridoi privi di qualsivoglia illuminazione.
Ad un tratto con la coda dell'occhio colgo un fugace bagliore argenteo alla mia destra. Un secondo più tardi percepisco qualcosa di strano e maledettamente sbagliato appena sopra le clavicole, che mi paralizza. L'oscurità mi acciuffa e l’attimo seguente ogni pensiero o domanda cessa di turbinare caotica nella mia mente.
 


Wer reitet so spät durch Nacht und Wind?
Es ist der Vater mit seinem Kind.
Er hat den Knaben wohl in dem Arm,
Er faßt ihn sicher, er hält ihn warm.
Chi cavalca così tardi per la notte e il vento?
È il padre con il suo figlioletto;
se l'è stretto forte in braccio,
lo regge sicuro, lo tiene al caldo.
 
Mein Sohn, was birgst du so bang dein Gesicht?
Siehst Vater, du den Erlkönig nicht!
Den Erlenkönig mit Kron' und Schweif?
Mein Sohn, es ist ein Nebelstreif.
"Figlio, perché hai paura e il volto ti celi?"
"Non vedi, padre, il re degli Elfi?
Il re degli Elfi con la corona e lo strascico?"
"Figlio, è una lingua di nebbia, nient'altro."
 
Du liebes Kind, komm geh' mit mir!
Gar schöne Spiele, spiel ich mit dir,
Manch bunte Blumen sind an dem Strand,
Meine Mutter hat manch gülden Gewand.
"Caro bambino, su, vieni con me!
Vedrai i bei giochi che farò con te;
tanti fiori ha la riva, di vari colori,
mia madre ha tante vesti d'oro".
 
Mein Vater, mein Vater, und hörest du nicht,
Was Erlenkönig mir leise verspricht?
Sei ruhig, bleibe ruhig, mein Kind,
In dürren Blättern säuselt der Wind.
"Padre mio, padre mio, la promessa non senti,
che mi sussurra il re degli Elfi?"
"Stai buono, stai buono, è il vento, bambino mio,
tra le foglie secche, con il suo fruscio."
 
Willst feiner Knabe du mit mir geh'n?
Meine Töchter sollen dich warten schön,
Meine Töchter führen den nächtlichen Reihn
Und wiegen und tanzen und singen dich ein.
"Bel fanciullo, vuoi venire con me?
Le mie figlie avranno cura di te.
Le mie figlie di notte guidano la danza
ti cullano, ballano, ti cantano la ninnananna."
 
Mein Vater, mein Vater, und siehst du nicht dort
Erlkönigs Töchter am düsteren Ort?
Mein Sohn, mein Sohn, ich seh'es genau:
Es scheinen die alten Weiden so grau.
"Padre mio, padre mio, in quel luogo tetro non vedi,
laggiù, le figlie del re degli Elfi?"
"Figlio mio, figlio mio, ogni cosa distinguo;
i vecchi salici hanno un chiarore grigiastro."
 
Ich liebe dich, mich reizt deine schöne Gestalt,
Und bist du nicht willig, so brauch ich Gewalt!
Mein Vater, mein Vater, jetzt faßt er mich an,
Erlkönig hat mir ein Leids getan.
"Ti amo, sono attratto dalla tua bellezza,
e se tu non vuoi, ricorro alla forza."
"Padre mio, padre mio, mi afferra in questo istante!
Il re degli Elfi mi ha fatto del male!"
 
Dem Vater grauset's, er reitet geschwind,
Er hält in den Armen das ächzende Kind,
Erreicht den Hof mit Mühe und Not,
In seinen Armen das Kind war tot.
Preso da orrore, il padre veloce cavalca,
il bimbo che geme stringe fra le sue braccia,
raggiunge il palazzo con stento e con sforzo,
nelle sue braccia il bambino era morto.
 
[ Wolfgang Goethe, "Der Erlkonig"]
 



 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Come Iago ***








 

Di nuovo, le note di Schubert invadono la mia coscienza immersa in un torpore onirico. Mi sento leggero come una piuma, quasi che tutti gli affanni e i dubbi esistenziali patiti ed elaborati fino a questo momento siano stati spazzati via con un’improvvisa manata. Tuttavia, la musica mi chiama come un pifferaio magico, che suona una dolce e ipnotizzante melodia capace di risvegliare ogni cellula del mio corpo intorpidito. Anzi, realizzo di non poter essere un corpo fatto di carne, sangue e ossa. Sono impalpabile come uno spettro. Il signor Molloy mi ha tagliato la gola in cantina. Significa che sono morto?
Uno sprazzo di luce mi abbaglia e mi trovo da un secondo all’altro catapultato da un limbo nero e silenzioso ad una sala gremita di gente. A giudicare dalla foggia dei loro abiti, sono esponenti dell’alta società inglese, aristocratici imbellettati con la puzza sotto al naso, che sfoggiano profumi nauseanti, gioielli vistosi e maniere pompose e viscide. Dietro a questo mondo brillante, lussuoso e all’apparenza fiabesco, si celano le più oscene turpitudini, nascoste a loro volta da una maschera di ipocrisia e falsità. Perché dico questo? Perché, prima di diventare apprendista del signor Fires, anch'io facevo parte di tale universo abietto e disgustoso. Il mio cognome appartiene ad una delle famiglie più nobili e altolocate d’Inghilterra, i Blackwood, un antico casato imparentato con la stessa corona. Circondato dalla menzogna e dal perbenismo, soggetto alla legge della prima impressione, costretto a ingoiare le critiche delle malelingue e i commenti sussurrati all’orecchio, sono vissuto in un incubo da cui, per fortuna, il signor Fires è venuto a salvarmi. Non gli sarò mai grato abbastanza.
Sul soffitto pende il classico lampadario di cristallo e i muri sono affrescati o tappezzati da quadri di pittori in voga. Al centro della sala è posizionato un pianoforte a coda, uguale a quello che ho visto usare dal signor Molloy. Seduto sul panchetto imbottito, un giovane di notevole bellezza fa scorrere le dita sui tasti, con una naturalezza e una leggiadria straordinarie. È lui che sta suonando Il re degli Elfi e prosegue nella sua esibizione con inaudita maestria, finché anche l’ultima nota rimbalza sulle pareti e cade nel vuoto. L’applauso successivo è scrosciante e meritato, solo che c’è qualcosa di strano. L’esecutore è senz’ombra di dubbio il signor Molloy, con il suo aspetto efebico e tenebroso, la pelle inverosimilmente bianca, gli occhi neri contornati da ciglia lunghe e arcuate, i capelli corvini più corti di come li porta nel presente ma pettinati con cura; per finire, due labbra rosse e sottili piegate in un dolce e imbarazzato sorriso. Qui avrà avuto forse quattordici o quindici anni, non di più. Ciò che però mi insospettisce è la luce che brilla nelle sue iridi, una luce innocente, buona e pura, priva di quell’angoscia e di quell’odio che invece ho scorto nel signor Molloy adulto. Probabilmente gli è accaduto qualcosa di brutto o, nel caso più semplice, è stata l’ovvia conseguenza del patto col Diavolo: dal momento che vendi l’anima in cambio di un desiderio terreno, qualcosa dentro di te si spezza irrimediabilmente. Ma, mi chiedo, è stato solo questo il motivo di un così drastico cambiamento? Un candore inquinato in maniera talmente irreversibile da suscitare tristezza. Questo ragazzino, Joseph Molloy, macchiato da un contratto stipulato con la creatura sbagliata.
Nel frattempo, la folla intorno a me si prodiga in sinceri complimenti con il giovane musicista, di certo un prodigio che farà strada e scalerà le vette del successo. Egli ringrazia tutti con un inchino impacciato e occhieggia verso una parte precisa della sala, dove un ragazzo più grande di qualche anno se ne sta immobile e serio in un angolo. Costui non sorride, non ricambia lo sguardo timido e speranzoso di Joseph, ma l’energia negativa che emana è sconvolgente. E anche terribilmente familiare. Il pianista si imbroncia appena, ma poi torna a rivolgersi agli altri con cortesia, partecipando alle loro chiacchiere e accettando di buon grado le loro lodi. Incuriosito, mi avvicino all’individuo dall’aria sinistra e lo osservo con attenzione.
Ho capito da un pezzo di stare assistendo alla rappresentazione tridimensionale di un ricordo del signor Molloy, sebbene la ragione di ciò mi sia ignota. Che prima di morire io sia riuscito a stabilire un contatto con la sua anima? Bah, non lo so. Non è importante. Forse più tardi, se uscirò vivo da questa assurda situazione, domanderò delucidazioni in merito al signor Fires.
Cammino attraverso la stanza, in mezzo agli invitati, passando inosservato come un’ombra che scivola invisibile di fianco a quelle esistenze fatte di fumo, e mi piazzo di fronte al ragazzo. Da cosa deriva la sensazione che provo? Gli giro intorno e lo studio con minuzia, confermando la mia supposizione di trovarmi al cospetto di una persona malvagia e potenzialmente pericolosa. 
L’istante successivo lo scenario cambia, dissolvendosi come nebbia. Stavolta lo sfondo è una camera e sull’imponente letto a baldacchino, che occupa gran parte dello spazio disponibile, è disteso Joseph Molloy. È sveglio, tuttavia il suo sguardo è spento e lontano, l’espressione assente e distaccata e il volto emaciato, deperito. Non deve essere trascorso molto tempo dal concerto, il suo aspetto è identico, tranne che per alcuni dettagli come l'incarnato cadaverico, le guance infossate e una magrezza sconcertante, tanto che riesco a vedere pure la forma delle orbite intorno agli occhi: un teschio con un sottile strato di pelle a coprirlo. Pare un fiore avvizzito, una bambola senza vita abbandonata lì da un proprietario negligente. I capelli neri sono unti e sporchi e tutto nella sua figura evidenzia la trascuratezza che travolge spesso un malato. 
Il ragazzo sconosciuto entra in silenzio nella camera e squadra con un ghigno Joseph, quasi compiacendosi delle sue condizioni. Si siede accanto a lui sulla sponda del letto e gli accarezza con finta dolcezza la testa.
“Come stai, fratellino? Va meglio, oggi?”
“George…” esala il pianista con un filo di voce, mentre una nuova luce carica di supplica si accende nelle sue iridi d’inchiostro, “Non ce la faccio, George. È troppo… non lo sopporto.”
“Lo so, lo so. È difficile, ma io sono sempre stato insieme a te. Ti ho incoraggiato e supportato quando ne avevi bisogno e non posso rimanere impassibile adesso. Dimmi, cosa vuoi che faccia? Se c’è qualcosa che è in mio potere fare per aiutarti, sono pronto, non importa il costo che dovrò pagare.”
“Allora, uccidimi.”
George maschera all’ultimo secondo un altro ghigno soddisfatto e probabilmente reprime una risata.
“Cosa dici, fratellino?” chiede sbigottito, “Questo non posso farlo.”
“Ti prego! Ogni volta che li sento parlare o posano i loro sguardi di ghiaccio su di me, è come morire. Sei stato tu a salvarmi, tu mi hai avvertito delle cattive intenzioni della mamma, che era pazza e che mi avrebbe fatto del male! Io so che tu dici sempre la verità e mi fido, ma non volevo ucciderla! È stato un incidente!”
“L’hai spinta giù dalle scale, fratellino.”
“Avevo paura! Piangeva, urlava e mi stava per tirare uno schiaffo! Avevi ragione, hai sempre avuto ragione. Solo che ora ho perso tutto.”
“Non è vero, io sono ancora qui.”
“Sì, mi sei rimasto solo tu, George.”
“Non chiedermi di ucciderti…”
“Fallo, invece.”
“No, Joseph…” scuote la testa contrito, serrando con forza le palpebre.
Joseph gli afferra saldamente un braccio e lo fissa disperato: “Sono un assassino. La mia colpa non può essere cancellata! Anche papà mi odia, tutti mi odiano, perché non conoscono la verità.”
“Sì, tutti ti odiano.” incalza il maggiore con aria afflitta.
“Vogliono che io muoia… come la mamma.”
“Sì, vogliono che tu muoia.”
“Vogliono che soffra come Hettie… ho ammazzato anche lei perché ha tentato di avvelenarmi, come mi hai fortunatamente riferito tu… e mentre la picchiavo a sangue con il bastone di papà, sai cos’ho pensato?”
“Cos’hai pensato?”
“Ho pensato che è stato solo grazie a te che mi sono salvato; che è stato solo a causa tua che mi sono dannato.”
“L’ho fatto per il tuo bene. Hettie era solo una stupida domestica gelosa, una civetta cattiva.”
“Sì, tu mi vuoi bene, lo so. Ma non posso continuare così… non posso! Per questo tu devi uccidermi!”
“No, Joseph, non lo farò.” rifiuta con fermezza, poi si abbassa sul più piccolo e gli stampa un bacio sulla fronte, “C’è un altro modo per sfuggire a tutto questo dolore, sai? Ne sono venuto a conoscenza da un amico, tempo fa.”
“Cos’è? Dimmelo, dimmelo!” esclama concitato, aggrappandosi con le membra ossute al corpo di George.
“Ti avverto, è un metodo un po’ drastico, ma potrebbe servire allo scopo.” sorride, regalandogli una lieve carezza sulla guancia.
“E sarebbe?”
“Se firmerai un contratto, tutti i tuoi affanni spariranno. Anzi, sarò io stesso a prendermi i tuoi fardelli sulle spalle, risolverò ogni cosa al tuo posto, perché ti voglio bene e per me sei tutto.”
“Che… genere di contratto?”
“Beh, non è esattamente un contratto come uno se lo immagina, piuttosto è un desiderio che esprimi con tutto te stesso a renderlo possibile. Innanzitutto, occorre la cosa a te più cara a questo mondo.”
“Ce l’ho davanti.”
George ride: “No, no, Joseph. Una cosa, non una persona.”
Il fratellino riflette seriamente, infine prende fiato e dichiara: “Lo spartito di Schubert! Der Erlkönig! Adoro quella sonata.”
“E sia! Vado a prenderlo e torno subito. Aspetta.”
“Fa’ presto.”
Sono sempre più confuso. Che cosa ha in mente quel George? Di sicuro ha plagiato Joseph in qualche modo e gli ha fatto commettere orribili crimini, ma perché? Cosa c’è sotto? Adesso, di sicuro farà stipulare il contratto a Joseph, ma perché non farlo lui stesso? Il ragazzino si fida ciecamente di lui, a quanto ho visto, è il suo punto di riferimento, la sua ancora, ma non si accorge che il male risiede proprio in colui che crede sincero e onesto.
Sbuffo divertito allorché mi sovviene della tragedia shakespeariana di Otello, dove il diabolico e invidioso alfiere Iago, al fine di ottenere vendetta e soddisfazione dei suoi più reconditi appetiti, inganna l’eroe Otello e lo indirizza a compiere l’omicidio della moglie Desdemona, oltre che a ordire intrighi contro altri innocenti, ed egli non si accorge che in realtà ad orchestrare il tutto dietro le quinte è quello che ritiene il più caro amico e confidente.
George ritorna con lo spartito fra le mani e riassume la posizione di prima.
“Ecco, ce l’ho! Ora concentrati.”
“Sì.”
“Bada bene, un solo errore e-”
“Ho capito! Facciamo in fretta.”
“Come vuoi. Dunque, fratellino, tu desideri che le tue pene spariscano, giusto?”
“Mh.” annuisce teso il pianista.
“Inoltre, desideri che io le prenda su di me, giusto?”
“Suona orribilmente egoista…”
“Non preoccuparti, lo faccio con piacere perché ti voglio bene. Ehm… ecco, quindi desideri che io prenda il tuo posto e che ti liberi dalle catene che ti imprigionano l’anima, giusto?”
“Mh.”
“Ergo, desideri che io divenga Joseph.”
Joseph tentenna per qualche attimo: “Che intendi?”
“Esattamente ciò che ho detto. Non ci pensare, ho tutto sotto controllo, vedrai che andrà bene.”
“Ho capito. Sì.”
“Perfetto, ora devi solo esprimere questo desiderio come se ne andasse della tua vita. Puoi farcela? Ah, tieni questo fra le dita e stringilo forte.” gli porge lo spartito.
“Sì…”
“Ottimo. Però devo lasciarti solo, altrimenti non si avvererà.” 
George si alza e si dirige velocemente verso la porta.
“George!”
“Sì?” sorride affabile.
“Poi torni, vero?”
Il sorriso si amplia: “Certo.”
Joseph guarda l’altro uscire e chiude gli occhi, concentrandosi.
Io rimango immobile, basito, ad osservare la scena. So cosa sta per accadere, ma stento crederci. Non avrei mai immaginato, neppure nell’ipotesi più remota, che la cosa si è svolta in questa maniera. Assurdo, non è logico! Ma forse finalmente ho compreso. George ha fatto evocare il Diavolo a Joseph e questi, la cui psiche era ormai fragile e malleabile, si è fatto convincere dal fratello maggiore ad esprimere il suo desiderio. Ma George è stato abile nell’inculcarlo in sordina nella mente di Joseph, facendolo così passare per un desiderio del pianista. Lo ha prostrato e oppresso a tal punto da tenderlo come una corda di violino, ha fatto leva sui sensi di colpa del piccolo a causa degli omicidi perpetrati, scommetto ai danni di innocenti, e infine gli ha fatto il lavaggio del cervello: uno Iago da premio Oscar. Così, se il mio ragionamento non va errato, Joseph ha espresso il desiderio che George divenisse lui e, facendolo, la sua anima è precipitata all’Inferno, mentre quella di George è stata trasferita nel corpo di Joseph. Questo significa che…
Mi porto una mano sulla bocca e studio allucinato il giovane seduto sul letto. Se il contratto è stato stipulato da Joseph, ma Joseph è già all’Inferno, esso non può essere riscosso. Ma è impossibile. Ogni contratto equivale ad un’anima. Quando il desiderio viene esaudito, dopo tredici anni un messaggero del Diavolo arriva a chiuderlo e a prendere l’anima che ha deposto la ‘firma’. Tuttavia, dal momento che l’anima in questione già al momento della firma è precipitata negli Inferi, lo stesso contratto avrebbe dovuto disintegrarsi, o perlomeno perdere il suo potere. Invece, esso reclama ancora la sua anima, come un affamato che anela al suo tanto agognato pasto. Non ha senso. In aggiunta, vuol dire che non posso riscuotere l’anima di George Molloy, che ora risiede nelle spoglie mortali di Joseph Molloy, poiché non è lui che ha firmato. Nella giusta ottica, si potrebbe affermare che George Molloy è innocente.
Come fare? Che devo fare? Perché il contratto, lo spartito, è ancora intatto e soprattutto attivo?
Una fitta lancinante di dolore alla gola mi risveglia dal turbine di domande e con un grido strozzato apro di nuovo gli occhi nella realtà. Le mie mani corrono sul collo e si bagnano del sangue che continua a sgorgare dalla ferita infertami. Sono lucido, cosciente, ma sono costretto ad ammettere che non provo un tale dolore da anni. E ho anche paura. Il taglio che mi attraversa la carotide recisa si sta rimarginando, proprio come speravo. Ancora una manciata di istanti e potrò rimettermi in piedi.
“Ah ah ah! Guarda, guarda! Sei un tipo davvero interessante.”
Il signor Molloy si siede all’improvviso sul mio torace, a cavalcioni, mozzandomi il respiro. Un altro coltello affilato e sporco di gocce scarlatte è sollevato sopra la mia faccia, come una spada di Damocle pronta a calare su di me e infliggermi il meritato castigo.
“So chi sei, o meglio so chi rappresenti, ma non sono obbligato a seguirti. Sai, ho pianificato tutto in modo da non rischiare nulla. Il tuo Grande Capo dovrebbe esserne al corrente, no?”
“Agh… la…hhhn… scia… mi…”
“La tua visita mi ha messo addosso un po’ di strizza, te lo concedo. Più che altro perché per un attimo ho messo in dubbio il mio genio, credendo che ci fosse qualche falla chissà dove. Invece, il fatto che io, un comune mortale, sia riuscito ad avere la meglio su di te implica qualcosa, giusto? Evidentemente non è ancora giunta la mia ora e voi avete commesso uno sbaglio. Evidentemente, non sono colpevole…” ghigna feroce e accosta le sue labbra alle mie, “Evidentemente, sono riuscito ad ingannare Satana!”
“Nessuno… può in… gannarlo!” sibilo stentoreo. 
Oramai la ferita è quasi completamente guarita e riesco a parlare in maniera abbastanza decente.
“Allora, forse, lui sa ed è d’accordo!” ridacchia esaltato il signor Molloy, leccandomi una guancia.
“Impossibile!” sputo schifato.
“Mmm… perché non vai a chiederglielo? Sono intoccabile, mio piccolo agnellino, non puoi farmi niente.”
Allunga il braccio destro di lato e agguanta la mia valigetta, sotto i miei occhi strabuzzati. Mi impietrisco e dischiudo le labbra incredulo: un umano sarebbe morto, o quantomeno si sarebbe ferito, se avesse solo tentato di sfiorare la valigetta. Lui, al contrario, è ancora vivo e vegeto e sembra non risentire delle vibrazioni ustionanti del contratto.
“Che ne dici? Proviamo?”
Apre la valigetta ed estrae lo spartito con un movimento fluido. Io trattengo il respiro, convinto di vederlo agonizzare e svanire risucchiato in un vortice di fumo nero nella bocca dell’Inferno da un momento all’altro, ma ciò non accade. Tutto è fermo, persino il tempo pare arrestarsi, mentre fisso stravolto quel sottile libriccino fra le dita del signor Molloy. Egli scoppia a ridere sguaiatamente e mi libera dal suo peso, così che posso rotolare su un fianco e interporre un paio di metri di distanza tra me e quest’uomo.
Perché il signor Fires non mi ha avvertito? Perché non mi ha messo in guardia? A meno che anche lui non fosse affatto informato della questione. Che il potente signor Fires sia veramente all’oscuro di tale vicenda? Sì, per forza, altrimenti non mi avrebbe mai spedito fra le braccia della morte senza previe raccomandazioni. Mi ha solo lasciato con quella strana domanda, ora che ricordo: chi interpreta la parte del Re degli Elfi?
Scrollo le spalle e mi concentro, non posso permettermi di distrarmi in un simile frangente. Digrigno i denti e sollevo una mano. Lo spartito si sfila dalla presa di George e vola nella mia, avvolgendomi con le sue spirali soffocanti e fetide. Sento i miei occhi ardere come fuoco e sono certo di avere un aspetto terribile, complice anche la quantità di sangue che ho perso.
“Fandonie, signor Molloy. Se lei fosse inattaccabile come afferma, il contratto non avrebbe nemmeno ragione di esistere. Invece eccolo qui, più affamato che mai. Mi dica, lei è davvero sicuro che suo fratello Joseph abbia effettivamente espresso il desiderio che lei gli ha astutamente suggerito?” domando beffardo, mentre un’idea serpeggia pian piano nella mia testa.
Sbarra le palpebre e ammutolisce.
“Come fai a saperlo?” indaga cauto.
“Noi, signor Molloy, sappiamo tutto ciò che serve. Lei, in realtà, è George, il fratello maggiore di Joseph. Joseph ha stipulato l’accordo col Diavolo e ha pagato subito con la sua anima, poiché le fondamenta della sua richiesta non potevano essere attuate in caso contrario. Mi spiego: due anime non possono coesistere nel medesimo corpo, quindi una doveva andarsene e, ovviamente, è toccato a lui. Tuttavia, tornando alla mia domanda, può giurare che suo fratello ha eseguito alla lettera i suoi ordini, George?”
“Non poteva fare altrimenti, ho fatto sì che lui stesso pensasse che fosse l’unica soluzione rimasta!”
“Lo so, ma se all’ultimo secondo avesse apportato un piccola modifica? Rifletta attentamente, George. Come mai, se Joseph ha espresso quel particolare desiderio, il contratto” alzo lo spartito e glielo sventolo davanti, “è ancora qui, integro e perfetto in tutto il suo maligno splendore? E perché reclama a gran gloria la sua anima?”
“Io che ne so? Dovresti essere tu l’esperto!” ringhia nervoso, allontanandosi.
Se continuo ad incalzarlo come sto facendo, ho la vittoria in pugno. Forse ho capito che strategia devo usare per riscuotere la sua sozza anima.
“Forse ha imposto una clausola sconosciuta, una condizione di cui lei è ignaro. Forse ha sottoscritto il contratto anche a suo nome, George.” sorrido serafico e mi alzo in piedi, spolverandomi i pantaloni e la giacca, “Questo spartito, che è quanto Joseph aveva di più caro al mondo, palpita, è vivo, è impaziente di ricevere ciò che gli spetta. E l’unico che vuole è lei, signor Molloy. Non può scappare, perché la troverò ovunque andrà. Non può uccidermi, perché risorgerò. Cosa vuole fare, dunque? Mi dica, la ascolto.”
“Stronzate! Joseph, il piccolo e ingenuo Jospeh, non mi avrebbe mai disubbidito! Io ero il suo dio, il centro della sua misera esistenza! Lui aveva tutto, amore, fama, bravura, cose che erano mie di diritto in quanto primogenito. Infatti, me le sono riprese. Ma fino all’ultimo non ha mai sospettato di me, io lo so perché conosco mio fratello.”
“Se lo conosce così bene, mi sa spiegare la ragione per cui questo contratto vuole lei, George? Se vuole, posso illuminarla io.”
Ghigno e mi avvicino lentamente al signor Molloy, accasciato sul pavimento freddo della cantina, il coltello impugnato nella mano sinistra. 
“Questo contratto è la prova che lei è colpevole!” sentenzio, “Evidentemente qualcosa è andato storto e Joseph ha sì espresso il desiderio del suo adorato fratellone, ma in fondo al suo cuore conosceva la verità, sapeva che era lei la causa della sua pazzia e degli attacchi di depressione che avevano cominciato a coglierlo subito dopo l’assassinio di vostra madre. O forse prima? Oppure Sua Eccellenza Oscura era ben consapevole delle sue macchinazioni ed è intervenuto senza che lei se ne avvedesse. Beh, poco importa. Al contrario, ci interessa l’inspiegabile presenza qui ed ora del contratto, presenza che imprigiona lei, George, mettendola sotto accusa e dichiarandola dannato.” cinguetto.
Sono fuori di me dall'eccitazione.
“L’Inferno la reclama e non è cortese farlo attendere.”
“Non è vero!”
Con uno scatto cerca di nuovo di affondare la lama nella mia carne. Prende di mira una gamba stavolta, ma schivo prontamente e gli sferro un calcio nelle costole.
“Lei, George Molloy, confessa di essere colpevole?”
“Io non ho fatto niente!” abbaia e per un attimo ho creduto che mi mostrasse le zanne, “È stato Joseph a fare tutto, io non c’entro!”
La regalità e il fascino che ammantavano la sua figura nella sala di musica sembrano essersi totalmente dissolti. Prima ero rimasto stregato, ammaliato dall’aura misteriosa e dominante che lo circondava, invece adesso pare soltanto un cagnolino spaurito e indifeso. Come ho potuto farmi abbindolare da un individuo del genere?
“Ha lei irretito suo fratello Joseph affinché firmasse il patto al suo posto?”
“No, io gli ho solo suggerito un modo per smettere di soffrire, è stato lui a pregarmi di metterlo in atto.”
“Ha lei, quindi, plagiato suo fratello Joseph, affinché pensasse quello che lei voleva e agisse come lei voleva?”
“Mmm… cos’è? Un terzo grado? Pare di essere in tribunale.” ridacchia.
“Semplici domande, la esorto a rispondere.”
“E perché mai dovrei?”
“Per appurare se lei è veramente innocente come dichiara di essere. Ha la possibilità di dimostrare il suo successo nell’aver ingannato il Diavolo, non vorrà sprecarla…”
“Uhm, se la metti così… sì, ho plagiato Joseph, affinché si trasformasse in un docile burattino.”
“E il suo scopo, signor Molloy, era diventare lei stesso Joseph Molloy per ottenere fama e ricchezza e scampare al contempo alla condanna, giusto?”
“Sì, giustissimo.”
“Lei ha fatto in modo che Joseph sparisse subito e poi ne ha preso il posto, divenendo a tutti gli effetti Joseph Molloy.”
“Esatto, sì. Ma dove vuoi arrivare?” chiese perplesso e abbassò l’arma.
“Ergo…” le mie labbra si stirano in un sorriso trionfante, “lei è, inconfutabilmente, per sua conferma e prove incontrovertibili, Joseph Molloy.”
Si dice che il nome non influisca sulla sostanza delle cose, così come sulle persone. Eppure esso può fare la differenza, talvolta. Ora comprendo la ragione per cui il signor Fires ha citato Shakespeare, il grande dibattito sull'importanza del nome.
“Mmm, beh… sì, in un certo senso. Ho preso il suo posto, quindi adesso non sono più George, perché il caro fratello maggiore è morto. Il ragionamento quadra, ma con ciò?”
“Joseph Molloy, lei ha firmato il contratto, perciò è colpevole.”
“Ehm… d-direi di sì, ma mi spieghi una buona volta dove-”
“Ho finito, l’ho incastrata. Prenda!” gli lancio lo spartito e lui lo afferra al volo.
“Cos-”
I tentacoli lo attaccano, divorando il suo corpo ed estraendo brutalmente l’anima, la quale assorbe il denso miasma tramutandosi in uno scheletro nero e urlante. Dietro di me odo il portale degli Inferi spalancarsi, ne avverto il calore e il fetore, e Joseph, alias George, viene, come mi ero augurato, risucchiato all’interno. 
Appena tutto torna alla normalità, cado in ginocchio privo di energie ed esalo un sospiro per vomitare fuori l’agitazione, artigliando la camicia sgualcita e imbrattata di sangue a livello del cuore, che batte all’impazzata come se volesse schizzar via dal petto. Me la sono vista brutta, ho rischiato grosso, ma alla fine me la sono cavata. Non era vero che Joseph aveva cambiato idea all'ultimo secondo modificando l'accordo preso con George, ma quest'ultimo, credendolo possibile, ha perso le staffe ed è caduto in trappola come volevo. Mi abbandono ad una risata liberatoria e tento di calmare il respiro, divenuto affannoso. Non posso farmi prendere ora da una crisi isterica, non sono più un poppante. Ho concluso il mio secondo incarico e il signor Fires ne sarà felice.
Mi alzo nuovamente e raccolgo la valigetta da terra, poi accelero il passo per uscire in fretta da questa casa infestata, in cui per poco non ci ho lasciato le penne. All’esterno, la limousine è nel solito posto ad aspettarmi: la portiera si apre ed io scivolo dentro con un leggero fruscio di abiti. Il motore si accende e la macchina parte in direzione dei cancelli di ferro battuto dell’entrata.
Chi è il Re degli Elfi? In principio pensavo che fosse il Diavolo stesso, che riempie di lusinghe gli uomini per farli cedere alla tentazione e poi sottrae loro l’anima. Successivamente, alla luce delle rivelazioni del signor Fires, ho pensato che il re fosse rappresentato da noi messaggeri del Diavolo, poiché siamo noi che stipuliamo contratti, promettendo una vita di libertà e delizie. Ma il maestro, nella sua domanda, si riferiva a ciò che avrei vissuto stanotte, non parlava in generale. 
Quindi chi è il Re degli Elfi? Il Re degli Elfi è stata la persona che ha consigliato anni fa all’invidioso e malvagio George di utilizzare il contratto per ottenere ciò a cui aspirava. Il Re degli Elfi è stato George Molloy stesso, che ha tessuto la sua rete intorno al giovane Joseph e infine si è appropriato della sua vita e della sua identità, macchiandosi dell’assassinio di un bambino. Tuttavia, alla fine il male ha tradito e divorato se stesso e, se si vuole, la morale è sempre la solita. Iago avrebbe dovuto accontentarsi a un certo punto, dopo aver ottenuto la posizione sociale tanto desiderata. Invece si è intestardito, si è lasciato guidare dall’avidità e dalla sete di vendetta e rivalsa nei confronti del Moro Otello, chiedendo di più, illudendosi di poter continuare in eterno il proprio gioco. Accontentarsi non è nella natura umana. Joseph era Otello ed è stato sconfitto dalla forza di George, ma costui, ossia Iago, è stato sconfitto da se medesimo. La sua stessa esistenza, il suo stesso desiderio lo ha condannato. Preoccupati e tenuti in ostaggio dal dilemma dell’essere o non essere, dimentichiamo che noi, in questo preciso momento, siamo. Chi siamo o non siamo, beh, lo decidiamo noi. Credo che, in una visione alquanto utopica dell’esistenza, bisognerebbe essere ciò che si sembra, ma purtroppo quasi nulla a questo mondo è ciò che sembra.
Immerso in tali considerazioni, scruto assorto la vegetazione al di là del finestrino. Proprio quando le mie palpebre cominciano a farsi pesanti e sto per assopirmi a causa dell’accumulo di stress e spavento, con la coda dell’occhio noto un’ombra dalle fattezze umane nascosta nel fitto fogliame, in mezzo agli alberi al limitare del viuzzo sterrato che sto percorrendo. Mi è impossibile scorgerne i lineamenti, ma la luce della luna si riflette in un fugace attimo sulla collana che gli penzola sul torace. Vedo chiaramente una croce, di cui le tre estremità più corte fanno da vertici di un rombo. Aggrotto le sopracciglia incuriosito, ma un secondo più tardi l’ombra è scomparsa.










 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Scorcio sul passato - Prima parte ***








 

Le mani del signor Fires mi accarezzano gentilmente la pelle, pulendomi dal sangue e alleggerendo la tensione che mi contrae i muscoli. È inginocchiato sulle piastrelle del pavimento e maneggia il mio corpo con la cura che si riserverebbe al cristallo più fragile. Sono immerso nell’acqua della vasca, le bollicine di sapone galleggiano sulla superficie coprendo la maggior parte delle mie forme e salvandomi dall’imbarazzo che mi provoca tutta la situazione. Non è la prima volta che mi aiuta a lavarmi, ma comunque non riesco a togliermi di dosso la sensazione di disagio. Mi sono sempre piaciuti gli uomini, o forse è meglio dire che a causa delle esperienze vissute sono stato “plagiato”, e il signor Fires, o almeno l’aspetto che assume in mia presenza, sarebbe capace di far cadere ai suoi piedi come burro fuso chiunque. Per tale motivo non posso esimermi dal provare vergogna ed eccitazione quando le distanze si accorciano così tanto, sebbene sappia che non mi toccherà più approfonditamente di quanto farebbe un genitore con il proprio figlio, benché colui che mi toccò in sorte alla nascita non sia stato esattamente un padre esemplare. Mi correggo: il signor Fires mi ha sempre toccato come io credo che un genitore tocchi il proprio figlio, ossia con premura e castità. Tralasciando i baci ardenti, ovviamente, che ricerchiamo un po' a turno per attenuare il nostro reciproco bisogno. 
Le sue dita percorrono le mie membra in modo lento e dolce, senza malizia, infilandosi nei capelli umidi e tergendoli dal sangue rappreso. L’acqua ha assunto un colore rosato, ma non mi importa granché, poiché la mia mente è annebbiata dal piacere e dalla pace dei sensi. Sporgo il capo all’indietro, espongo il collo e poso la nuca sul bordo della vasca, poi apro gli occhi e mi specchio in un altro paio rossi come fuoco e il loro proprietario si scioglie in un sorriso benevolo e comprensivo.
“Va meglio?” mi domanda con un filo di voce.
Mugolo un assenso, sbatto le palpebre e sospiro: “Maestro?”
“Mh?”
“Perché non sono morto?”
“Hai avuto fortuna. Se ti avesse decapitato, a quest’ora non saresti qui.”
Gli ho raccontato come si sono svolti i fatti alla villa dei Molloy e lui mi ha ascoltato in silenzio fino alla fine, consentendomi di sfogare la paura e l’ansia che avevo provato e dalle quali, per pochi istanti, ero stato schiacciato come un novellino. 
A un tratto, mi rammento della figura che ho intravisto in mezzo agli alberi, dettaglio che ho trascurato a causa della rapidità con cui si sono succeduti gli avvenimenti precedenti, così decido di informarlo, con un vago presentimento che mi annoda lo stomaco.
“Ho visto qualcuno fuori dalla casa, nascosto nell’ombra della vegetazione lungo il sentiero sterrato.”
Il signor Fires aggrotta appena le sopracciglia, continuando a strofinare alcune ciocche impregnate di sangue secco. 
“Chi hai visto, Archie?”
“Non lo so, era buio. Però aveva un crocifisso appeso al collo, anche se era diverso da quelli normali.”
“Descrivimelo.”
“La forma era quella di una croce cristiana, con il segmento verticale più lungo di quello orizzontale. Le tre estremità superiori costituivano i vertici di una specie di… rombo. Ma è stato un attimo, non sono sicuro.”
I suoi movimenti si sono arrestati da qualche secondo e adesso mi fissa come se volesse sondarmi l’anima.
“Il simbolo degli Exurge Domine.” dichiara sicuro.
Sgrano gli occhi incredulo e boccheggio: “Ma… è impossibile!”
“Ti stavano spiando. Dovrai stare molto attento in futuro, quei tizi potrebbero rivelarsi pericolosi per te, che non sei un demone completo. Per me rappresentano una mera seccatura, nulla di più, ma se ti hanno puntato come bersaglio… forse è meglio interrompere la tua carriera per un po’.”
“No! Finora ho svolto solo due incarichi, se mi fermo che figura ci faccio?” lo supplico imbronciandomi.
“Tieni di più alla tua vita o al tuo lavoro? Se muori, non ci sarà più alcun incarico, sai?”
“Sì, però…” mugugno imbronciato.
“Fidati di me, ti proteggerò. E se proprio desideri riscuotere qualche contratto, ti accompagnerò.”
Sorrido radioso e gli getto le braccia al collo, facendolo piegare sul mio viso. Lo bacio sulle labbra per ringraziarlo e lui ridacchia sommessamente.
“Alt! Non ti ho dato ancora il permesso. Sarò io a decidere quali contratti presagiscono meno rischi e tu non dovrai mai fare di testa tua, capito?”
“Sissignore!”
“Bravo, Archie.” mi bacia la fronte, “Su, adesso sciacquati, poi asciugati e raggiungimi di là.” 
Obbedisco e, dopo aver indossato una semplice vestaglia di seta lilla, mi reco in salotto, dove trovo il mio maestro seduto sul divano ad occhi chiusi, in una posa languida e apparentemente rilassata. Tuttavia, so perfettamente che lui non riposa mai, è sempre vigile e pronto a scattare in ogni momento, non abbassa mai la guardia. Mi avvicino e mi siedo accanto al signor Fires, poggiando la guancia sulla sua spalla e un braccio sul suo torace, coperto dalla camicia bianca. Lo accarezzo e sospiro appagato, mentre con le labbra cerco alla cieca le sue, nell’ennesimo bacio che non si fa attendere. 
Il signor Fires, come ho imparato vivendo al suo fianco per otto anni, conosce ogni cosa di me e sa anticipare i miei desideri prima ancora che io li esprima. Facoltà, questa, sicuramente propria dei demoni, ma devo ammettere che è utile e soprattutto assai piacevole. La sua lingua si fa strada nella mia bocca, approfondisce il contatto e i nostri respiri si fondono in uno solo. Insinua le dita fra i miei capelli, me li pettina, mi sfiora l’orecchio destro con i polpastrelli, un tocco lieve come quello di una piuma, ma talmente intenso da scatenarmi innumerevoli brividi di eccitazione ovunque. Quando mi abbraccia stringendomi forte a sé quasi fossi una sua proprietà, quando mi culla alla guisa di una madre, come sta facendo ora, e mi riempie il viso di baci e profana le mie labbra con il suo alito rovente, in contrasto col gelo della sua pelle, le mie membra vengono poco a poco pervase da una sensazione di quieta sonnolenza, un richiamo all’oblio che non sono capace di rifiutare. Mi mancano le forze, le palpebre si fanno pesanti e prima che me accorga scivolo nel mondo dei sogni, consapevole di venire risucchiato anche nel labirinto dei ricordi che, ogni volta che allento le difese, mi assalgono come un ciclone. È sempre così, come un incantesimo. Ed ogni volta mi rammarico della mia debolezza, poiché vorrei che questi attimi di serenità non finissero mai. Forse un giorno, se diventerò sufficientemente forte e resistente, se sceglierò di abbandonare in maniera definitiva la mia umanità, riuscirò a soddisfare la mia brama di lui, senza rimanere vittima della stanchezza o dello stress.
E quando supero lo stato di dormiveglia, il passato mi inghiotte in un vortice violento. 
Archibald Abel Amedeus Blackwood, questo è il nome con cui sono registrato all'anagrafe, ma in privato tutti mi hanno sempre chiamato Archie, parenti e amici stretti, sebbene fra questi ultimi non ne vantassi molti. Anzi, ad essere franco, non ne avevo nessuno. 
Appartenevo ad una nobile famiglia aristocratica di Londra ed ero il terzogenito di Eleonora Isabella Harper, unica figlia del ricco banchiere Jonathan Harper, e Amos Anton Amedeus Blackwood, famoso deputato e rappresentante della camera dei Lords. Avevo anche due fratelli maggiori: Allen Alfred Amedeus, che una volta raggiunta l’età adatta seguì le orme di mio padre diventando un membro del parlamento, e Adam Angus Amedeus.
I nostri nomi, tranne quello di mia madre, sono tre e cominciano per “A”. Infatti, nella nostra famiglia si usava ormai da generazioni dare ai figli maschi nomi con questa lettera e il terzo doveva essere assolutamente Amedeus, in onore dell’antenato che portò in auge il casato Blackwood. 
Adam, il secondo in linea di successione, fu cacciato via di casa e diseredato poco dopo il mio quattordicesimo compleanno. Fu bandito solo per aver cercato di proteggermi. Era il mio preferito, era un amico e un vero fratello. Mi aiutava sempre a nascondermi e mi difendeva con coraggio, sfidando l’autorità di nostro padre. Alle volte si prendeva pure delle severe punizioni al posto mio e non credo di avergli mai detto quanto gli ero grato. Ma un giorno osò troppo.

Era una notte stellata, priva di nuvole, e l’aria afosa dell’estate stagnava nelle stanze. Nemmeno un refolo di vento muoveva le tende della finestra, neanche una goccia di refrigerio per la mia gola secca e disidratata, irritata per via delle urla che l’avevano raschiata. 
Da quando avevo compiuto tredici anni, mio padre e Allen, anche se quest’ultimo non per sua scelta, avevano preso a venire a farmi visita in camera quando la luna era ben alta nel cielo, e non per chiacchierare o bere il tè.
Mia madre non sapeva nulla, dato che i sonniferi con cui si imbottiva per curare l’insonnia la stendevano fino al mattino seguente e non si svegliava nemmeno con le cannonate. Se si fosse scatenata l’Apocalisse fuori dalla sua porta, avrebbe di sicuro continuato a ronfare beatamente.
Spesso Allen, se non era costretto a partecipare all’osceno teatrino, se ne stava seduto su una poltrona a bordo letto e osservava la scena con uno sguardo pieno di tormento e paura. Mio fratello era sempre stato un debole senza spina dorsale, aveva troppo timore di nostro padre per opporsi alla sua follia. Così non correva mai in mio soccorso, nemmeno quando, con le lacrime agli occhi, invocavo il suo aiuto, quando il dolore e l’umiliazione gratuita che quella bestia che ero obbligato a chiamare “padre” riversava su di me mi soffocavano, quando credevo di morire a causa dell’inquietante quantità di sangue che perdevo tutte le volte. Se ne stava lì, immobile, il disgusto e la bile trattenuti a labbra serrate, la rabbia bloccata dal ferreo autocontrollo. Ma non faceva niente. Niente, a parte guardare.
Le notti in cui Amos gli ordinava di prendere parte al “gioco” si trasformavano in un vero e proprio inferno e ancora di più allorché veniva invitato pure mio cugino di primo grado da parte di padre, Terence - il suo nome iniziava con un’altra lettera perché apparteneva alla casata cadetta - il quale sembrava, al contrario di Allen, divertirsi molto in quei frangenti. Era il degno erede di Amos, pervertito come lui.
Svariate volte ero stato ricoverato d’urgenza in ospedale per emorragie o lesioni di altro tipo più o meno gravi, ma i dottori erano stati corrotti e pagati con moneta sonante per rimanere in silenzio, limitandosi a prestarmi le cure adeguate, per poi rispedirmi a casa.
Adam, il fratello di mezzo, l'unico membro della famiglia con cui condividevo un rapporto sano, quella notte afosa entrò in camera mia sfondando a spallate la porta, proprio mentre nostro cugino stava abusando del mio corpo. Prese la mira e con la pistola che impugnava saldamente tra le dita fece fuoco. La mole di Terence mi cadde addosso come un masso e rimase inerte sopra di me, dentro di me. Avvenne in un battito di ciglia, tanto che restai fermo e impalato per un lungo lasso di tempo prima di scoppiare a piangere. 
Terence, ventisette anni, sposato, con due figlie, morì sul colpo e Adam, all’età di diciassette anni, divenne un assassino.
Per evitare che la notizia dello scandalo si spargesse e giungesse alle orecchie dei media, non fu chiamata la polizia e si fece passare la cosa come uno sfortunato incidente, anche se non conosco la storia che mio padre propinò al resto della famiglia. Si organizzò un funerale solenne per Terence e dopo un paio di mesi il fatto finì nel dimenticatoio. Cinque giorni dopo l’omicidio, Adam fu messo alla porta con una sola valigia e cinquanta sterline e mio padre si inventò che era andato a studiare in America. Non lo rividi mai più.
Adam era il solo alleato che avessi in quella maledetta casa e, venendo a mancare lui, tutto degenerò. Se almeno prima avevo qualcuno che mi confortava e ascoltava i miei sfoghi, adesso non c'era nessuno con cui potessi confidarmi e alleggerire il peso che mi gravava sul corpo e sull'anima come una frustrante zavorra, che mi trascinava giorno dopo giorno sempre più giù, verso il fondo dell'abisso. A malapena riuscivo a studiare. Nonostante il mio gentile istitutore privato mi esortasse a sbottonarmi con lui, mi rifiutai di aprire bocca, conscio della punizione che sarebbe calata puntuale su di me se lo avessi fatto. L'unica cosa che mi aiutava a rimanere a galla, seppur precariamente, era il pianoforte, che avevo imparato a suonare da solo. Mia madre mi aveva edotto sui nomi delle note e la loro posizione sulla tastiera, mentre il resto era venuto da sé. A undici anni padroneggiavo Chopin senza alcuno sforzo. Se mi avessero tolto pure quello, non so cosa ne sarebbe stato di me.
L’anno successivo compii quindici anni. Allen si sposò con una nobildonna e insieme andarono a vivere in campagna, in Scozia, lontani il più possibile dalla famiglia. Seguitò a farsi vivo solo per gli eventi mondani o per le feste programmate, e non lo biasimo per questo. Anch’io, se mi fossi trovato al suo posto, probabilmente avrei agito così. Quando ci vedevamo nelle suddette occasioni, non mi salutava neanche e manteneva con ostinazione lo sguardo ben lontano da me, i muscoli rigidi e contratti per la tensione e il senso di colpa. 
In breve tempo restai solo nell’immensa magione dei Blackwood. Solo, a subire la violenza di mio padre, notte dopo notte. In silenzio. 
Per non impazzire cominciai a tenere un diario. Non scrivevo mai la data né alcun riferimento a dove vivessi, al mio nome, età o collegio frequentato. Non vi era alcuna informazione su di me, a parte i miei sentimenti e i miei sogni. Anzi, incubi. Lo tenevo nascosto sotto il materasso e lo estraevo sempre prima dell’alba, quando mio padre lasciava la stanza spossato e al contempo rinvigorito.
Ricordo le coperte macchiate di sangue, la sofferenza fisica e psicologica, l'odore acre di sesso e la voglia di cancellare tutto dalla memoria.
Mio padre, un bel giorno, mi proibì di continuare a suonare il pianoforte. Mi convocò nel suo studio e mi informò della sua indiscutibile decisione, imponendomi di non avvicinarmi mai più alla sala di musica. Per me fu peggio di una pugnalata, dato che quello strumento, e la musica, era l’unica cosa che mi permetteva di evadere, sfogarmi e trovare un attimo di respiro in quella cappa puzzolente che impregnava le pareti della villa. 
Quando gli domandai singhiozzando la ragione, lui si alzò, fece il giro della scrivania e con le braccia flaccide mi circondò il busto nella brutta imitazione di un abbraccio. 
“Perché sei troppo bravo e la tua fama ha già raggiunto la famiglia reale. Questo vuol dire che diventerai sempre più popolare e in un futuro non troppo lontano ti porteranno via da me. Ed io non voglio separarmi da te, sei il mio gioiello più prezioso. Sei bellissimo, una vera rarità, la mia bambola prediletta. Non ti lascerò mai andare, Archie. Tuo fratello Allen si è sposato e Katherine è già incinta, quindi gli eredi Blackwood sono ormai assicurati. Di conseguenza, non è necessario che tu ti sposi o faccia figli, sei solo il terzogenito. Resterai qui con me, è tutto già predisposto.” rispose, accarezzandomi con le dita grassocce il collo e suscitandomi fastidiosi conati di vomito.
In quell’istante mi crollò il mondo addosso e presto cominciò il vero supplizio. Non avevo vie di fuga, né fisiche né mentali, mi erano state sottratte tutte quante, e a causa della reclusione forzata e degli stupri ripetuti presi a indebolirmi e ad ammalarmi. I medici iniziarono a ribellarsi e a rifiutare le mazzette di mio padre, forse mossi a pietà, ma Amos - non avevo la più pallida idea di come facesse - riusciva sempre a spuntarla.
Tentai il suicidio, il classico taglio delle vene dei polsi, ma non andò a buon fine. Una cameriera mi scovò in bagno dopo pochi minuti e mi salvò, maledetta lei. La odiai profondamente, perché senza saperlo mi aveva condannato ad un’esasperante ed eterna prigionia.
Continuai a scrivere il mio diario. Dopo appena un mese decisi di riprovare a porre fine alla mia esistenza. Fu durante quella fatidica notte di fine agosto. Stavo appuntando alcuni pensieri senza senso, nascosto sotto le lenzuola con una lucina elettrica attaccata con una calamita al bordo della copertina. Scribacchiavo concentrato, la penna sfregava contro la carta in modo febbrile, il mio respiro era accelerato per i troppi farmaci che avevo inghiottito, il cuore pompava sangue a ritmo forsennato e l’ossigeno pareva non bastarmi mai. Presto le medicine avrebbero fatto effetto e il mio cuore sarebbe esploso.

 
Oggi non è ancora venuto. Spero non venga. Ma verrà sicuramente.
La mia pelle è diventata fredda, non la riconosco più.
I miei occhi mi fissano dallo specchio: sono violetti adesso, mentre prima erano azzurri.
Il fuoco brucia troppo, non mi avvicino mai, ma è sempre acceso.
Ho fame, ma non voglio mangiare, preferisco incantarmi ad ammirare il sangue che mi esce lento dalle ferite.
Mi viene da vomitare.
Voglio vedere il loro sangue scorrere tra le mie mani.
Voglio udire le loro grida.
Se tutti loro soffrissero, se qualcuno mi aiutasse a farli soffrire, se qualcuno uccidesse ognuno di loro, dal primo all’ultimo, lentamente, forse sarei felice.
Però resterei sporco comunque.
La mia anima è già marcita?
Dio, aiutami.


E se Dio non risponde mi appello a te, Satana, pensai.
La porta cigolò appena sui cardini e si spalancò il secondo successivo, rivelando la figura di mio padre con indosso una vestaglia leggera di flanella. Sussultai e mi affacciai dal bozzolo di lenzuola in cui mi ero avvolto come una corazza. Mi rivolse un’occhiata indecifrabile e poi notò il diario. Lo chiusi di scatto e me lo strinsi al petto, dovevo mettere al riparo in fretta il mio tesoro, ma lui mi raggiunse con un paio di falcate e me lo strappò di mano, aprendolo e accingendosi a leggere qualche riga in qua e in là. Dall’espressione che assunse non presagii nulla di buono, tanto meno dopo che udii le sue parole.
“Così ti fa schifo essere toccato da me.”
Rimasi in silenzio, era l’unica cosa saggia da fare.
“Vorresti uccidermi, eh? Se la pensi così, non ci andrò più tanto leggero con te, figliolo. Devi capire chi comanda.”
Lanciò il diario nel caminetto e le fiamme sfrigolarono, cominciando a divorare e incenerire quel piccolo rettangolo cartaceo in cui avevo riversato un pezzo della mia anima ridotta a brandelli. Amos mi afferrò per il collo, forse con l’intenzione di strozzarmi, a giudicare dall’energia che stava impiegando, e mi sbatté con prepotenza sul materasso, denudandomi la parte inferiore del corpo. Sotto la vestaglia mi accorsi che era nudo e stava già posizionandosi fra le mie cosce, cieco alle lacrime che scesero ancora una volta a solcarmi il viso e sordo alle suppliche che mi rotolavano fuori dalle labbra screpolate, lievi pigolii di chi sa di aver perso in partenza. 
Perché stavo ancora lottando? Perché mi aggrappavo ancora così tanto alla vita? Perché faticavo ad arrendermi, nonostante fosse l’unico modo per far cessare il dolore?
Ma in quel momento il fuoco si alzò, scoppiettò minaccioso e una vampata rovente ci colpì in pieno. Mio padre indietreggiò, io invece restai dov’ero, per nulla impaurito, perché in un certo senso quelle lingue di un arancio tendente al vermiglio mi avevano salvato, almeno per un po’; perciò, riflettei, se mi fossi accostato di più, lui sarebbe rimasto lontano. 
Il campanello della villa suonò. Quel tintinnio assolutamente fuori luogo, soprattutto a quell’ora tarda, provocò a entrambi un’ondata di agitazione e confusione. Chi poteva mai essere? Non aspettavamo visite.
Amos si ricompose con un grugnito e uscì per andare ad aprire, poiché i domestici erano già andati a dormire e lui era il più vicino alla porta. Io lo seguii senza farmi vedere. Restai nascosto e mi misi in ascolto. Non sentii perfettamente cosa disse mio padre, ma dal tono di voce mi parve alquanto sorpreso e infastidito. Mi obbligai a riscuotermi dal torpore, che di minuto in minuto si faceva sempre più pressante - segno che mancava poco alla mia dipartita -, e scesi barcollando per le scale, acquattandomi poi dietro la ringhiera di marmo che aggettava sull'androne d'ingresso. 
Vidi Amos gesticolare arrabbiato all’indirizzo del più bell’uomo che avessi mai visto. Aveva i capelli neri, lisci e lunghi fin sotto le spalle, con la scriminatura a destra, e due occhi che sembravano braci ardenti. Era vestito con un completo nero dall'apparenza costosa e una cravatta color malva, un abbigliamento elegante e raffinato che si intonava splendidamente con tutta la sua figura ammaliante. Esercitò da subito un’imponente soggezione su di me, incutendomi terrore e scuotendomi sin nelle viscere. Un campanello di allarme mi riecheggiò nell’anima, un senso di atavica impotenza, il medesimo, fatale presentimento che coglie la preda di fronte al cacciatore. 
Un secondo più tardi, lo sconosciuto puntò lo sguardo su di me e le sue iridi si incendiarono come lava liquida. Mi rimescolai da capo a piedi, non riuscendo ad afferrare quella sensazione di fascino magnetico e paura che mi invase in ogni fibra.
“Se ne vada!” ordinò mio padre perentorio e incollerito, il volto paonazzo per la rabbia.
“Buonasera, Archie.” disse invece il tipo, rivolto a me.
La sua voce era sensuale, incantevole, un suono ipnotico che non aveva niente di umano. Pronunciò il mio nome con la stessa intimità di un amante e involontariamente mi ritrovai ad arrossire. Poi mi bloccai e impallidii. Come faceva a sapere il mio nome? Lo conoscevo?
Non risposi.
“Ho detto che se ne deve andare, è forse sordo?”
Egli scansò mio padre con disinvoltura, come se non lo stesse calcolando di striscio, un misero insetto al cospetto di una tigre. Salì le scale e si avvicinò a me con passo felino, senza interrompere neppure per un istante il contatto visivo.
“Chi sei?” domandai col cuore in gola quando mi fu di fronte.
“Io sono il signor Fires, o almeno così mi presento. Piacere di fare la tua conoscenza.” fece un breve inchino, “Sono qui per lavoro, mi è sembrato che tu avessi richiesto i servigi della mia… azienda.” spiegò con un sorrisetto sghembo, alludendo a qualcosa a me totalmente ignoto.
“Non so di cosa sta parlando, signore.” ammisi. 
Ero confuso, non avevo mai chiesto niente a nessuno, tanto meno l’aiuto di un individuo dall’aria sospetta.
“Invece sì. Pensa attentamente.”
Amos lo afferrò improvvisamente per le spalle, da dietro, e lo spinse via con uno strattone maleducato per allontanarlo da me. Poi mi guardò con occhi iniettati di sangue. 
“Per quale motivo ti sei rivolto questo tizio?” ringhiò, “Cosa mi nascondi?!”
“Io non l’ho fatto... non c'entro niente!” esalai tremando.
“Bugiardo!” mi schiaffeggiò così forte da farmi perdere l’equilibrio e mi accasciai con un guaito sui gradini.
“Signor Blackwood!” lo apostrofò in tono severo l’ospite, agguantandogli prontamente la mano che stava per calare nuovamente su di me, “Signor Blackwood, si calmi. È mio compito assicurarmi che il cliente resti vivo, almeno fino al compimento del servizio.”
“Quale diavolo di servizio? Per chi lavora?” sbraitò fuori dalla grazia, divincolandosi dalla presa.
“Ah, mi perdoni.” frugò nel taschino della giacca e ne estrasse un foglietto di carta, “Questo è il mio biglietto da visita.”
“Agenzia delle Entrate Sotterranee? Che razza di organizzazione è?”
Il signor Fires sorrise affettato e sbuffò, forse ritenendo la domanda inutile. Tornò a fissarmi con un ghigno disegnato sulle labbra.
“Gentile cliente, è arrivato il momento che esprimi il tuo desiderio. A cosa anela la tua fragile anima?”
“Cosa…?” lo scrutai disorientato e mi sentii mancare il fiato.
“Ora basta! Questo scherzo si è protratto fin troppo! Ha idea di che ora è?” tornò alla carica mio padre, impaziente di essere preso in considerazione.
Lo sconosciuto rovistò di nuovo nella giacca, ignorandolo, e ne estrasse il mio diario. Il sangue mi defluì dal volto e lo osservai a bocca aperta.
“Quel diario l’ho distrutto poco fa! Come fa ad averlo lei?!” Amos si girò e mi fulminò con lo sguardo, “Ne avevi due, piccolo bastardo?!”
“No! No, lo giuro!” squittii e mi rannicchiai il più possibile.
L’altro mostrò a entrambi le pagine e appurammo che era autentico. Ma era assurdo, perché era bruciato tra le fiamme poco prima.
“Permettetemi di leggervi un passo in particolare: ‘Voglio vedere il loro sangue scorrere tra le mie mani. Voglio udire le loro grida. Se tutti loro soffrissero, se qualcuno mi aiutasse a farli soffrire, se qualcuno uccidesse ognuno di loro, dal primo all’ultimo, lentamente, forse sarei felice.’” si schiarì la gola e puntò la sua attenzione su di me, “Ebbene, Archie, questa è la richiesta che hai inoltrato. E, miracolo dei miracoli, effettivamente qualcuno ti ha ascoltato. Non colui di cui hai vergato il nome, ma colui a cui hai pensato subito dopo. Io sono qui per esaudirla in veste di messaggero.” sorrise ancora, ma stavolta la sua espressione mi pietrificò. 
“Chi sei?”
“Ti ho già risposto.”
“Cosa sei?”
“Domanda corretta. Sono un demone.”
“U-un demone?”
“Sì.”
“Che scherzo è questo? Basta, chiamo la polizia!” decretò mio padre, risolvendosi una volta per tutte ad agire.
Fece per dirigersi al telefono fisso, ma il signor Fires lo afferrò tempestivo per il collo, sollevandolo da terra come se fosse un sacco di patate. I suoi occhi, ora di un arancio vivo e cupo, rifulgevano come lingue di fuoco. Pareva di guardare dritto nella voragine dell’abisso.
“Non così in fretta.” sibilò divertito. 
Poi mi squadrò con serietà ed io deglutii. 
“Gentile cliente, posso cominciare subito? Ti avverto che, se esiterai ancora, dovrai pagare gli interessi, perché sto facendo degli straordinari non previsti nel servizio.”
Fissai le iridi dell’ospite e il mio volto divenne di granito. Il cuore pompava sangue a un ritmo allarmante, ormai non aveva più niente da perdere. 
“Uccidilo.” proferii neutro. 
L’attimo seguente il mio pigiama si macchiò del sangue di mio padre, che schizzò in tutte le direzioni in una fontana scarlatta, imbrattando le pareti, i mobili e il pavimento di marmo.
Mai in vita mia avevo assaporato una simile, straripante felicità.
Da quel preciso istante, il signor Fires si trasformò nel solo dio che avrei idolatrato per il resto della mia esistenza.

 
“Archie? Archie, svegliati. È ora di andare.”
La voce melodiosa del signor Fires mi penetra nelle orecchie, strappandomi ai ricordi e al sonno. Sbatto un paio di volte le palpebre e tento di mettere a fuoco l’ambiente che mi circonda. Sono disteso sul letto, nella camera dell’albergo di Londra, ma mi sembra di essermi addormentato sul divano abbracciato al maestro, quindi deve essere stato lui a portarmi qui.
Volto la testa e fisso le sue iridi arancioni a qualche centimetro di distanza.
“Stavo sognando.”
“Cosa?”
“Il nostro primo incontro.” sorrido e mi sporgo per un bacio, che non mi viene negato.
“Preparati, stiamo per partire.”
“Per dove?”
“Parigi.”
“Che bello!” esclamo entusiasta, “Non ci sono mai stato!”
“Allora, nei momenti liberi dal lavoro, potremmo fare delle belle passeggiate. Coraggio, sbrigati.”
“Ma come mai proprio Parigi? E perché adesso?”
“Voglio allontanarmi dalla spia degli Exurge Domine. È possibile che non ci segua fino a Parigi, non lo voglio tra i piedi. Proprio ora sta chiedendo informazioni su di noi alla reception dell’hotel.” mi spiega, mentre riempie la mia valigia con gesti rapidi.
Scatto seduto e mi affretto a vestirmi, non c’è un minuto da perdere. Se persino il signor Fires si dimostra così agitato, ci deve essere una ragione più che valida.
E Parigi sia!










 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Scorcio sul passato - Seconda parte ***








 

Il mio pigiama, le mie mani e il mio viso erano sporchi del sangue di colui che un tempo, quando ero ancora troppo piccolo per rendermi conto delle sue inclinazioni perverse, chiamavo ‘padre’. Quel liquido denso e scarlatto non mi provocò disgusto o terrore, anzi al solo vederlo mi sentii libero, come se qualcuno mi avesse sgravato di un enorme peso. Esso era la prova che il mio peggiore incubo era stato sconfitto, che non avrei avuto più nulla da temere, nemmeno la morte. Il cadavere dell’uomo che aveva abusato del mio corpo per anni giaceva in mille pezzi sul pavimento di marmo, lucidato giusto quella stessa mattina dalle cameriere. Amos Anton Amedeus Blackwood era ormai irriconoscibile e solo l’anello d’oro che portava d’abitudine all’indice destro, cimelio di famiglia tramandato da generazioni che faceva sfoggio di sé sul moncherino della mano, poteva fornire un indizio su chi fosse la vittima. Tuttavia quel gingillo non mi interessava, non ero attaccato a niente che appartenesse alla casa in cui ero nato; al contrario, ogni cosa mi ricordava il calvario attraverso il quale ero passato e non desideravo toccare più alcunché, quasi si trattasse di oggetti avvelenati e potenzialmente letali.
Dopo un tempo che mi parve infinito, tornai a fissare il signor Fires e affondai nelle sue iridi: sembrava che all’interno vi ardessero le fiamme dell’Inferno, poiché quel colore tanto inusuale cambiava ogni secondo, talvolta più chiaro, quasi giallo, talvolta più scuro, tendente al rosso. Non ero così ingenuo da credere che fosse finita lì, che a quel punto il demone se ne sarebbe andato e mi avrebbe lasciato stare. Era giunto alla soglia della villa per un motivo, ossia la preghiera che avevo vergato sul mio diario in preda al delirio e alla più nera disperazione. Aveva esaudito il mio desiderio e adesso, com’era ovvio, avrebbe preteso un compenso. Se tutta quella situazione era reale, e ne ero assolutamente convinto, allora, stando alle storielle che giravano in ogni angolo del mondo circa il Diavolo e i suoi emissari, la sola merce con cui potevo pagare il prezzo del servizio del signor Fires era la mia anima. Stranamente non avevo paura. Da quando era entrato dalla porta, avevo sempre saputo dentro di me, non so bene in che modo, che tale scambio sarebbe stato inevitabile. Una miriade di campanelli d’allarme erano suonati nel mio cervello, ma li avevo zittiti nel preciso istante in cui avevo realizzato, seppur inconsciamente, che l’agognata fine era arrivata. Non v’era ragione di temere la morte o l’Inferno, perché niente sarebbe stato peggio della vita condotta fino ad allora. E poi ero troppo stanco per reagire o escogitare un piano per sfuggire al mio destino, e nemmeno lo volevo.
Scrutai attentamente il signor Fires, studiai la sua figura elegante e longilinea, le sue mani, le unghie curate, la pelle chiara, liscia e levigata, le labbra disegnate che parevano l’emblema stesso del peccato. Mi sarebbe piaciuto perire a causa di un demone con quelle fattezze, poco ma sicuro, benché la mia attrazione non fosse di natura sessuale. È vero, quando fissavo le sue mani desideravo che mi accarezzassero; quando fissavo le sue labbra, desideravo che mi baciassero; quando fissavo i suoi occhi, desideravo che guardassero soltanto me. Ma se egli avesse tentato di persuadermi ad un incontro sessuale, mi sarei ribellato con tutte le mie forze. Il volto di mio padre era ancora ben stampato nella mia mente, impresso a fuoco nei miei ricordi, e trovavo ripugnante un contatto fisico più profondo di uno sfioramento o un bacio casto. Il signor Fires non faceva eccezione, nonostante il fascino magnetico che irradiava da ogni poro. Considerai distrattamente che il trauma subito mi avrebbe tormentato finché non avessi tirato le cuoia, ma un secondo più tardi realizzai che, molto probabilmente, non sarei vissuto che per un’altra manciata di minuti. Meglio per me.
“Archibald.” 
Il signor Fires pronunciò il mio nome in un sussurro carico di promesse e, mio malgrado, mi rimescolai da capo a piedi, senza poter fare nulla per impedirgli di scorgere il mio improvviso fremito.
“Preferisco Archie.” rantolai e fui sicuro di essere arrossito.
Come scena pre-morte, dovetti ammettere che era alquanto surreale: la vittima che trema per l’emozione e il carnefice che viene blandamente redarguito sull’appellativo con cui rivolgersi alla succitata vittima. Mi ero appena dato la zappa sulle ginocchia? Insomma, non ero mai stato masochista! Oppure lo ero? Perché non avevo tenuto la bocca chiusa, per una volta?
Puntai gli occhi sulla parete di fronte, smarrito e incredulo. C’era bisogno di fare conversazione con colui che mi avrebbe spedito all’altro mondo? Era per forza necessario tergiversare e lasciarmi stuzzicare da quella creatura? Perché non mi uccideva subito?
“Archie.” si corresse con un brevissimo inchino, che però era tutt’altro che servile o umile.
Era piuttosto quel genere di riverenza che si concede più per accontentare o per celia, giammai per sincero rispetto. Mi sentii vagamente imbarazzato. In fondo, non avevo motivo di sottolineare le mie preferenze in fatto di nomi, non di fronte al signor Fires, dato che non sarei campato abbastanza a lungo da udirglielo ripetere una seconda volta. Tutta quell’attesa mi stava innervosendo e l’ansia si risvegliò con prepotenza là dove aveva dominato una calma piatta mista a sollievo. Potevo accettare di essere scaraventato all’Inferno, potevo accettare l’idea di morire, ma il pensiero che il signor Fires volesse torturarmi in maniera assai più sadica di quanto già non facesse mio padre mi riempì di angoscia. Non che mi aspettassi di essere trattato come un principe dopo la mia morte, poiché nessuno è convinto che l’Inferno sia un resort di lusso, men che meno lo ero io. Quella parte non mi angustiava più del dovuto, perché allora sarei stato solo un’anima. Il corpo lo avrei lasciato a marcire, ergo niente più violenza sessuale. Salvo che i demoni potessero stuprare un’anima, o che laggiù gli spiriti riassumessero una forma materiale. In qual caso… dalla padella alla brace. Magari potevo tastare il terreno col signor Fires, perché avrebbe dovuto mentirmi? Il mio destino era segnato, scappare era impossibile, perciò, a rigor di logica, mi avrebbe detto la verità. 
“Potrei farle una domanda, signore?” esordii con cipiglio deciso, anche se dentro tremavo come una foglia.
Il signor Fires sgranò impercettibilmente gli occhi, forse stupito dal mio desiderio di interagire, ma francamente non mi importava. Il tempo sembrò dilatarsi all’infinito, e quanto più bramavo la morte, tanto più essa ritardava, facendo crescere la frustrazione. Era snervante, ma non quanto la sensazione orribile che provavo quando, di notte, osservavo la porta della mia camera, in attesa che si spalancasse rivelando la figura di mio padre.
“Dimmi pure.” rispose e distese le labbra in un sorriso gentile.
Pareva accomodante. Un buon inizio. Così raccolsi il coraggio, congiunsi le mani e, mentre cominciavo a grattarmi le nocche per la tensione, gli posi gli interrogativi che mi stavano assillando.
“All’Inferno i demoni possono violentare le anime degli esseri umani? Le anime possiedono una propria consistenza, quando scendono laggiù?”
Il suo sorriso si ampliò, ma non vi scorsi alcuna traccia di scherno.
“Le tue sono domande legittime, come per chiunque altro umano. E potrei anche dissolvere i tuoi dubbi, ma a che servirebbe? Presto lo scoprirai da solo.”
“Ma, se non le dispiace, vorrei saperlo ora.” insistetti, cercando di ignorare i brividi freddi che mi percorrevano la schiena.
“No, i demoni non stuprano le anime dei mortali. Se le mangiano e basta.” poi sembrò comprendere quale fosse la mia preoccupazione e si sciolse in una risata, “Archie, non andrai in nessun girone dei lussuriosi, te lo garantisco, a patto che esista.”
“Che significa?”
Il signor Fires portò un indice davanti alla bocca piegata in un leggero ghigno e ammiccò: “Segreto. Ribadisco che lo scoprirai presto.”
“Va bene, va bene.” gettai la spugna, tanto era inutile, “Allora, andiamo?”
Se avessimo aspettato un minuto di più, avrei avuto una crisi isterica. Mantenere il controllo si stava dimostrando più arduo del previsto.
“Sei la prima persona che si finge impaziente di essere fagocitata nelle viscere del Mondo Sotterraneo.” commentò divertito, poi scrollò le spalle e si avvicinò a me.
“Oh, anche prima ha detto qualcosa di simile…”
“Ho detto che lavoro per l’Agenzia delle Entrate Sotterranee. A te l’interpretazione.”
“Quindi l’Inferno è veramente sottoterra?”
Non riuscivo a fare a meno di essere curioso. D’altronde, quanti altri, oltre al sottoscritto, avranno mai avuto il privilegio di udire con le proprie orecchie la verità per bocca di un messaggero di Satana? E perché avrei dovuto piegarmi alla mia timidezza, quando ormai non avevo nient’altro da perdere? Nell’esatto istante in cui mio padre era stato disintegrato, avevo ripreso a respirare. Qualcosa in me era mutato e ad un tratto tutto mi era parso chiaro. Non che non provassi paura o avessi raggiunto quello stadio in cui si sperimenta l’assenza di emozioni, un ascetismo che è sintomo di un'illuminazione spirituale, basato sull’abbandono di tutte le costrizioni materiali. Non ero giunto proprio a nessuna illuminazione, niente di filosofico o edificante, piuttosto avevo realizzato che l’unica cosa che mi spaventava fino a paralizzarmi era soltanto il dolore fisico. Ma se fossi morto, appunto, non ci sarebbe stato più quel tipo di sofferenza, perciò non temevo quello che di norma gli esseri umani temono, cioè la morte o il Diavolo. La morte era parte integrante della vita, ogni essere vivente avrebbe incontrato il medesimo destino, di conseguenza perché fuggirla quando essa arrivava a reclamarti? Il Diavolo, invece, era un altro paio di maniche. Ecco, avrei potuto chiede anche questo al signor Fires: che aspetto aveva Satana?
“Sottoterra? Alcuni affermano di no, dicono che c’è il cielo, anche se è sempre scuro e coperto dalle nuvole. Altri replicano che il cielo non è altro che il soffitto del girone infernale, alto uguale ad ogni ‘piano’, talmente alto da impedire di riconoscerne i contorni in modo netto, mentre le nuvole sono i vapori e il fumo che escono dall’Utero e si ammassano in una coltre fitta e pressoché insondabile. Altri ancora non vedono niente, solo una notte eterna, priva della familiare luce della luna e delle stelle.” parlando si era fatto molto vicino, fino ad arrestarsi ad appena una spanna di distanza.
“E lei a quale categoria appartiene?” 
Assurdo, ma mi sentivo inspiegabilmente rilassato e a mio agio. C’era forse lo zampino di qualche incantesimo diabolico?
“A nessuna, non mi interessano le disquisizioni sul tempo meteorologico all’Inferno.”
“E com’è fatto il Diavolo?”
“Oh, questa è una domanda importante, Archie.”
Si sporse verso di me, tanto che per un attimo credetti volesse baciarmi. All’ultimo si piegò di lato e annusò il mio collo.
“Adesso è il tuo turno di soddisfare una mia curiosità.”
Annuii.
“Perché non hai paura? Sai cosa sono, chi rappresento.”
“Sì, ma non ho nulla in contrario.”
Mi guardò sorpreso e si ritrasse, tornando in posizione eretta.
Mi affrettai a spiegare: “Non mi importa di morire, perché da anni desidero la morte. Non mi importa di finire in un altro inferno, perché sarebbe stato peggio continuare a vivere in questo. Lei mi hai salvato, anche se, salvandomi, mi ha anche condannato. Anzi, io stesso mi sono condannato. Quindi, come spesso si dice, si raccoglie ciò che si semina. Ehm... non so se ciò che ho detto ha senso, non mi sento tanto lucido. Comunque ho stretto inavvertitamente un patto col Diavolo, giusto? E il pegno è la mia anima, giusto? Beh, è normale prassi, e onestamente non mi interessa dove andrò. Quello che mi premeva, ossia liberarmi dalla prigionia inflittami da mio padre, è stato esaudito, il resto non conta. Inoltre, quasi stimo il suo lavoro, signore, se si può definire tale.”
“Apprezzi quello che faccio?” ad ogni parola si mostrava più stupito.
“Sì. Vede, se un innocente stringe un patto di questa natura, la maggior parte delle volte lo fa per punire una persona malvagia, che al termine del contratto precipiterà all’Inferno. Ma nel momento in cui l’innocente stringe il suddetto patto, smette di essere innocente, dato che si arroga il diritto, unicamente divino, di giudicare un suo pari e decidere della vita o della morte di costui, perciò è giusto che anche lui segua il malvagio. D’altro canto, se un malvagio stipula il patto, alla fine sprofonderà comunque all’Inferno, come è giusto che sia, per scontare la sua inevitabile condanna. In sostanza, i cattivi hanno sempre quel che si meritano. Io ho stretto il patto, di conseguenza non sono più puro, ed è giusto che lei mi conduca nel luogo dove vengono gettati tutti i peccatori. Non solo ho pregato affinché mio padre morisse, ma le ho anche ordinato, prima, di ucciderlo. Forse, se non avessi pronunciato quella parola, avrei potuto salvarmi, poiché Dio insegna il perdono e la misericordia. Tuttavia ha smesso di importarmi cosa pensa Dio quando lei ha fatto il suo ingresso in questa casa, come un angelo salvatore, sebbene, di un angelo, non possieda neanche l’aspetto. Senza offesa. Mi pare ovvio che, ecco, in risposta alla mia preghiera sia arrivato un emissario del Diavolo: avevo chiesto a Dio di liberarmi dal giogo dell’oppressione e della violenza garantendomi la morte di mio padre, ma non si può pregare Dio di ammazzare qualcuno. Il mio desiderio si era già macchiato col peccato appena l’ho elaborato nella mia testa e non poteva che giungere un demone in mio soccorso. Gli angeli portano la salvezza, io mi merito solo la condanna.” dissi senza pause, gesticolando e sostenendo lo sguardo del signor Fires.
Trascorsero pochi secondi di silenzio, durante i quali mi domandai se avessi detto qualcosa di sbagliato, ma un attimo più tardi il signor Fires scoppiò a ridere di gusto. In reazione, mi pietrificai sul posto e mi si mozzò il fiato in gola per il genuino stupore.
“Sei il primo umano nella storia a complimentarsi con un demone, e quindi con il Diavolo, per il suo operato! Inaudito.” continuò a sghignazzare ed io non potei fare altro che fissarlo in apprensione.
“Non volevo offendere nessuno…” mi difesi.
“Offendere?” il volume della sua risata aumentò e rimbombò sui muri di tutta la villa, “Gentile cliente, sono onorato di apprendere che ha apprezzato il servizio da me svolto, un servizio oltremodo utile alla comunità e all’intera società, allo stesso livello di una confederazione di spazzini, e al contempo un mestiere, ahimé, sottopagato. Ma niente mi aggrada di più che renderla felice.” disse con aria beffarda.
Ecco, mi stava prendendo in giro.
“M-mi scusi…”
“No, no, Archie! Non devi scusarti, non ridevo così tanto da secoli!” 
Quello scoppio di ilarità si esaurì e finalmente il signor Fires tornò serio, anche se nelle sue iridi potevo ancora notare una scintilla divertita.
“E così ti piace il mio lavoro.”
“Beh… non mi sembra male, no.” confermai esitante.
Presagivo qualcosa, le mie membra furono percorse da strani brividi di anticipazione.
“Allora, quasi quasi ti porto da lui.”
“Satana?!” gracchiai, folgorato dalla proposta.
A onor del vero, l’idea mi ghiacciò il sangue nelle vene. Un conto era chiacchierare con un demone, un altro fare conversazione con il boss. Perché mi ostinavo a dare aria alla bocca senza vagliare tutte le conseguenze? Perché non me ne ero rimasto zitto e muto come un pesce?
“Alt! Odia questo nome. Comunque, noi lo chiamiamo Sua Eccellenza e questo ti deve bastare. Coraggio, andiamo.”
“Ma… ma io devo pagare il mio debito! Voglio andare all’Inferno!” mi opposi.
Il signor Fires non riuscì a reprimere un secondo attacco di ridarella ed io fui obbligato ad attendere che terminasse. Sospirai e levai gli occhi al cielo, maledicendo la mia parlantina. Avrei dovuto lavorarci su.
“All’Inferno ci stiamo andando, tranquillo. Ti presenterò a lui e dopo il colloquio verrà deciso il tuo destino. Ho già una cosuccia in mente…” mi fece l’occhiolino e per qualche ragione mi venne la pelle d’oca.
“Eh?! Quale cosa?” indagai, ma non ricevetti risposta.
Dopodiché fummo inghiottiti da una voragine nera comparsa dal nulla.


“Archieee!” cantilena annoiato il signor Fires, cercando di richiamare la mia attenzione.
Mi ridesto di soprassalto dal labirinto di ricordi che mi ha avviluppato e avvampo per la vergogna di essere stato beccato mentre ero distratto, per di più dal mio maestro. Di solito tendo a restare concentrato, per dimostrare al signor Fires che sono intelligente, arguto e affidabile, e sono rari i casi in cui mi perdo nei meandri della memoria.
“Scusa!” esclamo.
Lui sorride, pare non essersela presa a male, e domanda: “Di nuovo il passato?”
“Precisamente la notte che ci siamo incontrati.” confesso, lievemente in imbarazzo.
“Ah, lo ricordo bene. Alla fine mi faceva male lo stomaco per le risate.” sghignazza e mi spettina giocosamente i capelli, che tra l’altro ho appena finito di acconciare in una coda bassa, dopo averli impomatati il minimo indispensabile per rimettere a posto gli immancabili ciuffi ribelli, dato che il signor Fires tiene molto all’immagine.
“Un emissario di Sua Eccellenza”, suole affermare di frequente con estrema solennità, “deve sempre avere un aspetto dignitoso, elegante, curato, impeccabile in ogni singolo dettaglio. Deve ispirare fiducia e meraviglia, ma non può farlo se si presenta spettinato e vestito con abiti trasandati e fuori moda.”
Mi imbroncio e cerco di riparare al danno inflitto alla mia chioma, prevedendo un ulteriore quarto d’ora davanti allo specchio. Sono convinto che lo ha fatto apposta, una piccola ripicca per la mia scarsa partecipazione al dialogo di poco fa. Sbuffo, mi alzo dal divano e torno in bagno, arreso a ricominciare il lavoro.
Da un paio di giorni ci siamo insediati in una suite di lusso in un hotel parigino, nei pressi degli Champs-Elysées. Non sono mai stato a Parigi, anzi è più corretto dire che non sono mai andato oltre la periferia di Londra, quindi è la prima volta che mi trovo così lontano da casa. Con il termine “casa” intendo il mio paese, l’Inghilterra, non certo la villa della famiglia Blackwood. 
Abbiamo compiuto il viaggio in limousine, che, va specificato, non è una vettura normale: una limousine demoniaca è in grado di coprire mille chilometri in mezzora scarsa e posso dichiarare che è un’esperienza fantastica, soprannaturale, a patto che non ti sporgi dal finestrino. In tal caso, verrai decapitato in un battito di ciglia, a causa dell’alta velocità. Non ho mai provato di persona, altrimenti non sarei qui a raccontarlo, ma il signor Fires mi ha fornito un esempio concreto: dietro mia insistenza, ha materializzato un fantoccio con fattezze umane, senza braccia né gambe, ha aperto un finestrino, ha affacciato la testa rotonda del pupazzo e quella è stata divelta dal corpo senza neanche concedermi il tempo di realizzare cos’era accaduto. Dopo tale dimostrazione che più realistica non si può, ho rinunciato al mio sogno di sporgermi dal tettino panoramico e gridare cavolate come un pazzo, come succede spesso nei film americani. Abbiamo attraversato il Canale della Manica pigiati nel Channel Tunnel, la galleria sottomarina che collega Cheriton a Coquelles, e siamo entrati in territorio francese in sole tre ore, e solo perché nel tunnel c’era traffico.
Non so descrivere a parole la sorpresa e l’emozione che mi hanno travolto appena siamo giunti nella capitale. Le luci, le voci, i suoni, gli odori, l’aria, il cielo, era tutto diverso, un altro mondo. Ne sono rimasto immediatamente catturato e, colto da un incontenibile incantamento, ho fissato per ore le strade, la folla, le colorate boutique, come in trance. Mentre la limousine sfrecciava per i larghi viali alberati, mi sembrava di essere un bambino e il ghigno divertito del signor Fires non faceva che avvalorare la mia impressione. Parigi sarà il nuovo parco giochi che ospiterà me e il mio mentore per un arco di tempo indefinito, spero comunque abbastanza lungo da godere di tutte le attrazioni della città.
Una volta in hotel, abbiamo proceduto a fare il check-in e alla fine, arrivati nella stanza assegnataci - duecentoventi metri quadrati, arredamento sontuoso e dal profumo anticheggiante, privo del minimo accenno del design moderno che di recente è assai in voga un po’ ovunque: due bagni dotati di tutti i confort, un terzo con una Jacuzzi, due camere da letto e un salotto di notevoli dimensioni per trattarsi di una suite per due misere persone -, non abbiamo perso tempo a gingillarci e ci siamo messi subito a parlare di contratti sul comodo divano a quattro posti. Uno di essi riguarda l’anima di un quindicenne ed è stato questo il fattore scatenante del mio flashback, poiché anch’io, all’epoca del patto, avevo quindici anni.
Il ragazzino in questione, Jean Delou, ha stipulato un patto per uccidere il patrigno e la madre, colpevoli rispettivamente di violenza domestica e uso prolungato di droga. Non proprio la famiglia perfetta. Comunque, il contratto scadrà fra tredici anni, perciò non ci occuperemo del suo caso, non adesso. 
“Archie, qui ho qualcosa per te.”
“Arrivo.” 
Faccio dietro front e mi siedo accanto al signor Fires, che si sta rigirando fra le mani un medaglione d’argento. Me lo passa e all’improvviso avverto una scarica elettrica diramarsi dall’oggetto alla mia pelle. Serrò le palpebre e mi predispongo all’ascolto, per scoprire con chi avrò a che fare.
“Matilde Gelotte.” scandisco nel mio francese stentato, “Ha firmato il contratto per ottenere una cospicua eredità…” inizio a descrivere quello che vedo al mio maestro, “L’eredità sarebbe dovuta andare alla figliastra al compimento dei diciotto anni, ma ne ha ancora quattordici… no, ne aveva quattordici al momento della morte. Un incidente piuttosto strano.” sorrido beffardo.
Come se potesse trattarsi di un incidente!
“Che altro?”
Mi concentro e accarezzo il medaglione con il pollice.
“Si era sposata con un ricco imprenditore, seconde nozze per lui, prime per lei. Lui aveva già una figlia di primo letto. Matilde non poteva avanzare alcuna pretesa sull’eredità, perché, nonostante il matrimonio, l’erede legittima era la figlia di lui. Ha fatto in modo che la ragazza morisse tramite il patto, e l’incantesimo ha fatto sì che potesse mettere gli artigli sui soldi senza implicazioni legali. Liscio come l’olio.”
“Bene, continua.”
C’è qualcos’altro. Aggrotto le sopracciglia e cerco di decifrare le immagini sfocate che mi affollano il cervello.
“Lei e il marito hanno avuto un figlio. Ora ha sedici anni.” riapro gli occhi e li punto sul signor Fires, “Potrebbe scegliere lui come sacrificio per procrastinare la propria condanna.”
“Esatto.”
Schiocco la lingua. Non mi piace affatto. Il ricordo della figlia del signor Phelps ancora mi perseguita e preferirei evitare di replicare la scena. Come possono, gli uomini, essere così attaccati al denaro o a un bene materiale, tanto da accettare di maledire un proprio congiunto al loro posto? Gente del genere farebbe meglio a morire, ed è in queste circostanze che sono contento di far parte della cerchia di coloro che si prodigano per fare un po' di pulizia. Spero che in quella donna sia rimasto un briciolo di amore materno e risparmi un destino terribile a suo figlio.
“Il contratto scade stanotte, probabilmente lei ti sta già aspettando.” il signor Fires mi riscuote dalle mie elucubrazioni e mi stampa un bacio sulla fronte, “Io ho un altro lavoro a Pigalle, ci rivediamo qui.” sorride dolcemente e mi spettina di nuovo i capelli.
“Oh, insomma!” sbuffo stizzito e mi reco per la terza volta in bagno per domare la chioma ribelle e bistrattata, mentre in sottofondo odo la risatina del demone. 










 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** La Caduta ***








 

I mesi trascorrono veloci, scanditi da riscossioni di contratti e visite presso i musei parigini in compagnia del signor Fires. D’altronde, non ho mai visitato Parigi, quindi ho subito palesato l’ardente desiderio di scoprire la città e imparare qualcosa, soddisfacendo così la curiosità che fatico a tenere a freno in mezzo a tanti entusiasmanti stimoli. E il mio maestro, apparentemente, si presta volentieri ad esaudire i miei capricci, anche se non voglio tartassarlo con richieste infantili o scocciarlo.
Tuttavia, più il tempo passa, più mi rendo conto di quanto la maggior parte dell’umanità sia feccia. Il signor Fires, vista la dimestichezza che ho acquisito nel fare il mio lavoro, mi affibbia sempre più anime di cui occuparmi. Dice che è importante che mi tenga in allenamento e sviluppi un certo distacco, così da superare il trauma che, quasi ogni notte, mi coglie impreparato allorché mi imbatto nelle più fantasiose manifestazioni del Male: adulteri, ladri, pedofili, serial killer, stupratori, psicopatici, pervertiti, drogati e chi più ne ha, più ne metta. Ogni notte mi trovo ad avere a che fare con gente di questa risma ed ogni notte un pezzo di me si consuma e marcisce. Avverto il cambiamento in modo palpabile, me ne accorgo quando mi guardo allo specchio e studio il mio riflesso: le occhiaie sono sparite, la pelle ha assunto un pallore spettrale, i capelli sono più lucidi e serici e gli occhi sono diventati di un viola più chiaro. Quando qualcuno vive a contatto con il male, questo influenza il suo aspetto e le tenebre si insinuano in lui, modificandolo dall’interno. Perciò è legittimo credere che, al contrario, dovrei somigliare più a un cadavere ambulante che a un semidio, ma io non sono più un essere umano al cento percento. Come mi ha spiegato il signor Fires, stando un po’ di qua e un po’ di là, in una fase di transizione, era inevitabile che qualcosa in me mutasse, tendendo da una parte o dall’altra, perché l’equilibrio su cui mi reggo è sempre stato assai precario. E, a quanto pare, tale mutamento sta propendendo per di là, regalandomi un’apparenza più eterea e al contempo oscura. Come se non bastasse, gli abiti neri fanno risaltare ancora di più l’incarnato pallido e fanno brillare i miei occhi di una luce sinistra. Mi sento tanto il classico bello e dannato. Però, se dovessi fare un confronto tra me e il maestro, di sicuro questa etichetta calzerebbe a pennello a lui. Io sono solamente una mera imitazione, non mi illudo di poter diventare un originale. Infatti, la parola “originale” presuppone che sin dal principio si sia in possesso di determinate caratteristiche, di cui io invece mi sono appropriato a posteriori tramite l’aiuto del signor Fires e l’influsso dei poteri conferitimi da Lucifero.
Ogni giorno che passa, mi rendo conto di quanto lui sia divenuto importante me. È un faro in mezzo al buio, benché il paragone sia piuttosto ironico, dato che il concetto stesso di “luce” stona se riferito ad un demone. Eppure è così che io lo vedo. Quando mi bacia, mi accarezza, mi parla, ho l’impressione di essere a casa, avvolto nel tiepido abbraccio di una famiglia, un vera famiglia. In lui ho scoperto il mio scopo, grazie a lui ho scelto quale sarà il mio destino, con lui sono cresciuto e ho scorto la Verità, sepolta sotto infiniti strati di menzogne. Farei di tutto per renderlo fiero di me, per mostrargli che ha investito bene e che ne ricaverà un enorme profitto. Nonostante io non porti memoria di come si svolse la trattativa tra il signor Fires e Lucifero per accordarmi il permesso di intraprendere la strada di assistente del Diavolo, sono convinto che il maestro si sia fatto da garante per le mie potenzialità e che un mio fallimento equivarrà irrimediabilmente ad una nota di demerito vergata col sangue nel suo encomiabile curriculum. Deluderlo è l’ultimo dei miei desideri e ad ogni contratto che riscuoto è grande l’angoscia che mi pervade per la paura di commettere un errore. Questo timore è giustificabile, me lo sono ripetuto più volte, poiché sono umano per metà e gli uomini sono fallaci per natura. 
All’inizio, mi chiedevo spesso se uno come me fosse adatto a svolgere il mestiere di un demone, e se un umano, soggetto in prima persona all’effetto del male, fosse in grado di perpetrarlo senza farsi fagocitare da esso. Cacciare i mostri senza diventarlo. E i demoni non sono forse mostri? Una specie diversa, ma pur sempre mostri. Tuttavia, definire “mostro” chi, come il signor Fires, si prodiga nel ripulire il mondo dalla feccia mi sembra paradossale. In effetti, è un interessante paradosso: uomini che compiono il male e addossano le loro colpe ai demoni, definendoli mostri, rifiutandosi di realizzare che i veri mostri sono coloro che si rendono colpevoli di azioni turpi e deviate. E Dio, in tutto questo, dov’è? 
Inoltre, sinora ho intravisto soltanto un membro degli Exurge Domine, ma non ho mai avuto contatti con un autentico messaggero divino. Il signor Fires mi ha assicurato che esistono e di norma evitano di avvicinarsi alla fazione opposta abbastanza da farsi notare. Pure loro si nascondono nell’ombra, non sono diversi dai demoni. Pare che agiscano nel medesimo modo, solo che non si avvalgono di contratti, bensì si limitano a sussurrare cose nelle orecchie dei mortali.
C’è una domanda che mi tormenta da anni e, sebbene l’abbia già esposta al maestro, le informazioni che ne ho ricavato non sono ancora sufficienti a dipanare la fitta coltre di dubbi che mi annebbia il cervello: perché Dio ha creato gli uomini così come sono, cioè imperfetti, corruttibili e provvisti di una matrice maligna che li istiga alla disubbidienza?
“Vedi, Archie,” mi disse quando glielo chiesi la prima volta, “posso farti arrivare ad una risposta che appaghi la tua brama di conoscenza, perché no? Posso disseminare sul tuo cammino gli indizi, spargere briciole di pane che ti aiutino a giungere al traguardo, ma sta a te scegliere quale strada imboccare, a dispetto dei miei consigli. Non ti ho mai imposto niente, sei sempre stato libero di fare quello che vuoi, perciò puoi anche decidere di ignorare le mie parole e proseguire lungo il percorso che hai tracciato con la tua volontà.”
“Io ho scelto di seguirti e lo farò. Mi fido di te, come potrei non farlo?”
“Allora ti fornirò uno spunto di riflessione, nulla di più. Sono davvero curioso di vedere dove sarai capace di arrivare con le tue gambe.”
“Sono pronto.”
“Bene, allora.” accavallò le gambe e assunse una posizione più comoda sul divano della nostra suite, “Dio ha creato gli uomini a Sua immagine e somiglianza. Così è scritto nella Bibbia.” esordì in tono casuale, con l’indice proteso verso l’alto come se stesse elargendo una lezione solenne. 
Dopodiché si zittì e mi fissò con un sopracciglio inarcato.
“Intendi che Dio potrebbe essere un drogato, per esempio?”
Il signor Fires scoppiò a ridere di gusto e si piegò in due, me lo ricordo ancora. Cosa avevo detto di così divertente?
“Ah ah ah! Archie, mi hai appena fatto dono di un’immagine impagabile! Questa la devo raccontare, anche Sua Eccellenza si rotolerà dalle risate! Dio, un drogato… ah ah ah!”
A quel punto mi imbronciai e chiusi gli occhi, indispettito e offeso, ma anche imbarazzato per la figura.
“Mio piccolo Archie, prova a pensare come un demone. La frase che ti ho recitato si riferisce forse al fatto che Dio ha creato i drogati?”
“No, Dio ha creato gli uomini…”
“Esatto. Pensaci.”
Ed io ci ho pensato, ho riflettuto tanto, senza mai arrivare a niente. 
La risposta, però, si presenta in maniera del tutto inattesa una sera di fine estate, precisamente il 2 settembre 2013. 
Le strade trafficate accolgono anche a quest’ora centinaia di macchine e turisti. I marciapiedi sono gremiti di persone che camminano indaffarate in ogni direzione, alcune ridono, altre fissano dritto davanti a sé, altre ancora litigano animatamente. I barboni siedono a ridosso dei muri a chiedere l’elemosina, i cuochi dei ristoranti si mettono all’opera, i negozi e le boutique chiudono dopo un’intensa giornata di affari e gli stanchi dipendenti delle aziende si preparano a rincasare. Qualche cantante o pittore freelance si attarda nel suo angolino e prosegue ad allietare il pubblico dei passanti con la propria arte, le metropolitane si riempiono, il sole tramonta oltre i tetti cerulei, i lampioni si accendono e la magia della notte incombe su Parigi.
Nella suite regna un silenzio ovattato, appena inquietante, e adesso come non mai realizzo quanto la presenza del signor Fires possa riempire l’atmosfera, sebbene non faccia mai rumore. Di solito, pur con i sensi più acuti e allenati, non riesco mai a captare i suoi movimenti sovrannaturali e sussulto quando compare innanzi a me all’improvviso. Penso che si diverta a provocarmi gli infarti. Mi sono abituato ai suoi passi felpati, alla quasi totale assenza di suoni che lo circonda come un’aura invisibile, tanto che potrebbe dare l’impressione di essere un fantasma o un’allucinazione, ma talvolta ammetto che riesce ancora a spaventarmi. Vorrei che fosse qui con me, vorrei udire la sua voce, vorrei che scacciasse l'opprimente silenzio che ammanta questa maledetta camera. Ormai sono diventato dipendente da lui e non posso fare a meno di desiderarlo intorno a me in ogni momento. Credo sia questo l'effetto che fa vivere in simbiosi con qualcuno: ad un certo punto non riesci più a concepire di muovere un solo dito senza l'altro.
Il signor Fires è fuori per lavoro ed io non ho incarichi per stanotte, così potrò rilassarmi e dare tregua al mio spirito, prostrato dai continui incontri ravvicinati con gli esemplari più infimi dell’umanità.
Ho appena fatto la doccia e sto rimirando accigliato il mio corpo nudo e gocciolante allo specchio del bagno. Osservo le forme sinuose dei muscoli, la rotondità delle spalle, la sottigliezza dei polsi e delle caviglie, le gambe magre e affusolate, i capelli castani bagnati e lunghi fin oltre le spalle, per poi soffermarmi su due iridi color malva. Esse ricambiano il mio sguardo e mi rispediscono visioni del mio passato che vorrei dimenticare, ma non riesco a distogliere l’attenzione. Mi tornano in mente molti episodi della mia infanzia e adolescenza, tutti i momenti vissuti da che ho memoria sfilano di fronte a me in una parata grottesca e orripilante, schernendomi e biasimandomi, scavandomi dentro come un chiodo appuntito seviziato dai costanti e violenti colpi di un martello. Sono consapevole che ci sono altre persone, nel mondo, che hanno subito cose assai più atroci e che la mia situazione precedente è una minuscola goccia se paragonata alla vastità dell’oceano, ma gli incubi mi perseguitano con una rabbia e un’insistenza implacabili. Perché proprio io mi sono dovuto imbattere in individui come mio padre e mio cugino? Ovviamente, ho avuto in sorte anche un fratello che ha tentato di salvarmi, ma è servito a poco. Perché Dio permette a queste persone di nascere, crescere, esistere, senza far nulla per impedire loro di fare del male? Perché non mi ha inviato un angelo? Perché è rimasto muto alle mie preghiere? Eppure ad alcuni risponde, come ai cosiddetti “santi”. A meno che costoro non siano stati semplicemente dei pazzi fanatici, tutto ci sta, cosa ne posso sapere? Perché Dio plasma gli uomini e poi li lascia andare allo sbaraglio, rifiutandosi di offrire loro una guida chiara e palese? Si dice che abbia mandato suo figlio, Gesù Cristo, il Redentore fra i mortali per mostrare loro la via, ma non è stato sufficiente. Sì, è vero, molte cose sono cambiate da duemila anni a questa parte, ma gli umani restano comunque la piaga più inarrestabile del pianeta, una malattia incurabile che lo deteriorerà e lo mangerà fino all’ultimo boccone.
“Dio ha creato gli uomini a Sua immagine e somiglianza.”
Sgrano le palpebre e ad un tratto non scorgo più il mio riflesso. Lo specchio si distorce, i contorni diventano sfocati e un velo nebbioso mi copre gli occhi. Le parole del signor Fires riecheggiano nella mia testa, spingendomi a riflettere su una questione sulla quale non ho mai voluto soffermarmi più di tanto, poiché troppo vasta per essere presa in considerazione da un misero e limitato mortale.
Quindi sì, Dio ha creato gli uomini a Sua immagine e somiglianza. Ne consegue che Dio è come gli uomini. Non nella forma, non nell’aspetto, ma nell’essenza più intima. E gli uomini sono come Dio. Nell’Eden aveva dato ad Adamo ed Eva la possibilità di vivere felici in eterno, imponendo loro solo una semplice regola: non magiare le mele dell’albero della conoscenza. Però, probabilmente, dall'alto della Sua onniscenza, sapeva che i due avrebbero disobbedito e infatti è bastato l’intervento del serpente, cioè del Diavolo, per spingerli a ignorare la regola. Dio, sin dal principio, li aveva creati imperfetti. E se li ha creati basandosi su Se Stesso, significa che anche Lui è imperfetto. Dio non è infallibile.
Il cuore batte nel mio petto una volta di troppo ed è come se un tamburo mi stia risuonando nelle orecchie. Un solo battito e sento il torace contrarsi in una morsa dolorosa. Mi accascio sul pavimento e l’impatto delle ginocchia con le piastrelle fredde passa del tutto inosservato. Mi porto una mano sullo sterno, a livello del cuore, e premo e stringo nel tentativo di attenuare la sofferenza che senza preavviso si è irradiata in ogni anfratto del mio intero essere. Non riesco a respirare, la vista si appanna, alcune ciocche umide ricadono in avanti, celando il mio viso contratto in una smorfia di indescrivibile disperazione.
In più epoche, se è vero ciò che è scritto nella Bibbia, ha cercato di spazzare via il “germe del male”. Prima con Noè, poi Sodoma e Gomorra, voleva cancellare ciò che c’era di sbagliato nell’uomo e ammonirlo, salvando solo chi invece si era astenuto dal perpetrare i crimini per cui gli altri venivano puniti. Ma i mortali ricadevano sempre nel peccato, non c’erano vie di scampo, perché così li aveva creati. Dentro di loro aveva inserito già la matrice del male, che, se stimolata nel verso giusto, poteva evolversi e maturare, fino ad esplodere. Come un piccolo contenitore vuoto all’interno dell’anima, destinato ad essere riempito solo ed appositamente dall’oscurità. Gli esseri umani sono lo specchio di Dio, poiché Egli li ha creati a Sua immagine e somiglianza. Non potendo tollerare il disgusto che Lo invadeva quando posava gli occhi sul proprio riflesso, Dio ha abbattuto il flagello divino sui Suoi figli per lo shock, immagino. Un po’ come nel “Ritratto di Dorian Gray”: Dorian vuole apparire perfetto, bellissimo, un angelo, ma il quadro che lo ritrae rappresenta ciò che lui è veramente e per questo lo nasconde, se ne tiene a debita distanza e lo disprezza. Ma Dio non accetta un fallimento, non può, perché vorrebbe dire essere Lui stesso un fallimento. Così manda gli angeli a salvare gli uomini, le Sue marionette predilette prive di personalità, perché Egli in persona vuole essere salvato, non vuole arrendersi, non vuole guardare dentro lo specchio. Anzi, vuole pulirlo il più possibile, riparare le crepe, farlo brillare. Ciò che non comprende è che, per quanto possa lucidarlo, questo gli rispedirà la Sua immagine per come è.
Il signor Fires mi ha dato l’indizio fondamentale: tutto era racchiuso in una semplice frase all’interno delle Sacre Scritture. Dio è uguale agli uomini, ma anche diverso. E non è infallibile.
La seconda volta che questo concetto appare nella mia mente, una potente scarica elettrica mi attraversa la carne e mi sottrae, in ordine, l’udito, la vista, il tatto, il gusto e l’olfatto. Cado riverso a terra, con il corpo tremante e scosso da leggere convulsioni.
L’unico angelo che Dio creò munito di personalità fu Lucifero, che però si ribellò a Lui e discese negli Inferi, dove tutt’ora regna indiscusso, insieme agli altri angeli che decisero di seguirlo. E questo fatto è di enorme importanza, in quanto qualcuno, una Sua creatura, si è ribellata al Padre. Si è ribellata. Lucifero si è schierato contro Dio.
Le fitte lancinanti di dolore non mi danno requie, ma credo che tutto si stia svolgendo nella mia testa, non è reale. Non sento più nulla, i confini materiali sono svaniti, eppure ho l’impressione di venire squarciato da uncini invisibili.
No, no! Dio non può essere imperfetto come gli uomini. Egli è Dio, il Creatore dell’universo, dei Cieli e della Terra, Signore di tutto ciò che esiste. Lui è buono e misericordioso, non può fallire. In verità, esiste un disegno di cui solo Lui è a conoscenza, un disegno che diverrà chiaro solo al momento giusto, il Giorno del Giudizio. Sì, sì, ecco, è così. Egli ha concesso ai Suoi figli il libero arbitrio perché si fida di loro, confida nel fatto che sceglieranno Lui e non il Diavolo, il Male, perché da Lui sono nati e a Lui ritorneranno. Ogni genitore nutre la forte speranza che il proprio figlio non lo tradisca mai, o che, se anche lo facesse, un giorno tornerà a casa, come la novella del figliol prodigo. Il libero arbitrio non è stato un capriccio, un gioco pensato apposta per non annoiarsi, e non è in corso nemmeno una gara tra angeli e demoni, Dio e Diavolo, per accaparrarsi quante più anime possibili. Dio è onnipotente, mi guida per la retta strada, mi indica la luce, mi perdona se cado vittima del peccato, mi salva…
Mi aggrappo a questa convinzione come se fosse la mia ultima ancora di salvezza in mezzo all’infuriare della tempesta. Mi ci avvinghio con tutte le mie forze, non mollo la presa. Dio è assolutamente infallibile, non può essere altrimenti.
No… no, non lo è.
L’appiglio scivola via e cado. Qualcosa in me si spacca e percepisco uno strappo secco. La sofferenza che ne deriva è di una potenza indicibile, mi scombussola e mi abbandona in preda al caos e alle tenebre. Apro gli occhi, ma ciò che vedo è solo buio. All’improvviso, vengo cinto da un anello rosso e tremolante costituito da numerose lingue di fuoco e il mio spirito sfrigola e arrostisce lambito dalle fiamme dell’Inferno. Urlo, grido, supplico, ma nessuno giunge in mio soccorso. Nel mondo fatto di tenebra avverto una presenza soverchiante, che mi atterrisce e mi disintegra. Un paio di occhi familiari, nei quali alberga una luce antica che sembra risucchiarmi in un abisso senza fondo, si stagliano innanzi a me, ma non ricordo né dove né quando li ho visti.
“Archie… Archie! Archie, mi senti? Riesci a udire la mia voce? Seguila, vieni da me. Archie, vieni!”
Maestro? Sei qui? Dove sei?
“Archie, vieni qui.”
Schiudo lentamente le palpebre e il viso del signor Fires entra nel mio campo visivo. Pare preoccupato. 
Dopo un’eternità, finalmente torno in possesso del mio corpo e lo scopro con somma sorpresa intorpidito e rigido, come se non mi appartenesse. Lo sento estraneo.
“M-maestro…” 
Rantolo e tossisco, mentre i polmoni mi bruciano in maniera insopportabile.
“Archie.” sospira sollevato e mi sorride con una dolcezza disarmante.
Metto a fuoco l’ambiente che mi circonda e noto di essere sdraiato sul mio letto, nella suite dell’hotel. Riconosco le lenzuola, il mobilio, le decorazioni sul soffitto e il panorama fuori dalla finestra. Tuttavia, registro subito un particolare strano, a cui mai prima d’ora avevo fatto caso: studio con più attenzione i tetti dei palazzi parigini che si stagliano all’esterno della camera, contro il cielo plumbeo - deve essere quasi l’alba - e mi concentro sulle volute di fumo nero che si innalzano da essi e dalle strade, disperdendosi nell’aria. Non si tratta di smog, sono fumi troppo densi.
“Cosa… sono… quelli?” articolo a fatica, indicando debolmente la finestra.
Il signor Fires si gira e fissa assorto lo spettacolo, poi risponde: “È il Male.”
Sono confuso. Cosa mi è successo?
“Maestro… io… cosa…?”
“È la Caduta.”
Aggrotto le sopracciglia e tento di sollevarmi a sedere, aiutato dal signor Fires. Le mie membra sono pesanti come piombo, o forse sono soltanto io ad essere troppo debole.
“Caduta?”
“Sì, Archie. Sei caduto.” mi squadra con espressione seria e mi stringe la mano nelle sue, “Capisci? Sei morto e rinato. Hai rinnegato Dio. Il fatto che tu possa vedere il Male è un effetto collaterale.”
Boccheggio smarrito e sprofondo nelle sue iridi color tramonto, che brillano come lava liquida.
“Hai perduto la tua umanità. Adesso non fai più parte di questo mondo.”
È come una boccata di ossigeno. Vorrei piangere, ma nessuna lacrima rotola giù dalle mie ciglia. In un certo qual modo, è come se fossi libero, come se avessi aperto la cella che mi ha tenuto imprigionato dalla nascita. È una sensazione che non riesco a catalogare, non l’ho mai sperimentata, e sinceramente non ho proprio idea di come dovrei reagire.
“Sta’ tranquillo, lo abbiamo provato tutti. È stato doloroso, vero?” indaga, senza smettere di accarezzarmi.
Lo guardo stralunato: “Anche tu sei… 'caduto'?”
“Sì. Molto, molto tempo fa. Sono un angelo caduto.” rivela con un sorriso enigmatico.
Adesso ho la testa piena di domande, ma il primo passo che mi preme compiere è vestirmi e ritrovare una parvenza di controllo sulla mia vita. Il signor Fires intuisce il mio bisogno e mi dà una mano ad indossare la vestaglia. In seguito, senza darmi l’opportunità di dire o fare alcunché, mi circonda il volto con i palmi, mi trae a sé e mi bacia con trasporto, come non aveva mai fatto. Le nostre lingue si intrecciano in una danza passionale, la sua bocca esplora la mia e mi assapora fin dove può ed io cedo alle sue lusinghe, succube di un incantesimo indirizzato al mio cuore. Le sue mani scorrono sui miei fianchi, al di sotto della stoffa della veste, li tasta delicatamente, ne saggia la consistenza e la mia pelle si accappona ed arde in risposta ai suoi tocchi gentili. Il desiderio sessuale mi travolge per la prima volta, mi disorienta e mi intontisce, lasciandomi in balia di istinti che mi sono ignoti e che non so come gestire.
In questo istante, mi accorgo che il legame che ci unisce si è fatto più solido, il filo si è ispessito ed ha formato una rete che ci avvolge entrambi. Ecco, ora sono sicuro che potrei donargli tutto me stesso, persino il corpo che gli ho sempre negato, non che lui me lo abbia mai chiesto. È una brama spontanea quella che mi coglie, una naturale conseguenza scaturita dalla consapevolezza che lo avrò per sempre al mio fianco. Prima gli camminavo dietro e tutto ciò che mi era concesso vedere era la sua schiena. Adesso, invece, passeggeremo l’uno accanto all’altro.
Le sue dita cominciano a percorrermi la schiena nuda, per poi immergersi nei miei capelli e premere sulla nuca, per farmi aderire al suo corpo ancora di più. Restiamo incollati a scambiarci effusioni per un tempo incalcolabile e il senso di completezza che mi pervade annienta gli ultimi residui di razionalità. Le mani si spostano a sfiorare il torace e risalgono su, sul collo, mentre il bacio si fa più famelico, tanto che temo voglia divorarmi. Quando si stacca, gemo deluso. Allora, per farsi perdonare di avere infranto la bolla di intimità, mi deposita un tenero bacio sulla fronte. 
Infine si piega di lato e mi sussurra all’orecchio: “Vieni, ti racconterò una storia.”










 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Samael ***








 

“Prima di cominciare a narrarti le vicende che accaddero agli albori del mondo, vorrei chiederti una cosa, Archie.”
Seduti sul divano della suite, uno accanto all’altro, con le ginocchia a sfiorarsi e i nostri occhi incatenati, attendo trepidante la storia del signor Fires. Ciò che mi è successo esula dalla comprensione umana, stento ancora a crederci, e le domande che affollano la mia mente anelano ad una spiegazione plausibile, che spero di scovare tra le righe del suo racconto.
“Cosa vuoi sapere?”
“Come sei giunto a pensare… quello che hai pensato?” chiede, scrutandomi con un’intensità che mi mette in soggezione.
“Non capisco…”
“Entrambi siamo consapevoli del motivo per cui sei letteralmente uscito dalla grazia di Dio.” sorride comprensivo, “Piuttosto, mi interessa scoprire l’elemento che ha innescato il processo. Sai, Archie, per tutti questi anni mi sono preso cura di te, ti ho istruito, allevato, rimpinzato di dolci,” non trattengo una risatina sommessa, che lui ignora, “guidato lungo il cammino che hai scelto, ma ammetto di aver covato in me qualche riserva. Almeno, fino ad oggi.”
Distoglie l’attenzione dalla mia figura, permettendomi di calmare i battiti concitati del mio cuore, e si incanta a fissare il panorama diurno fuori dalla finestra con sguardo assente.
“Per credere nel Male è necessario credere nel Bene, e viceversa. Tu hai sempre perseverato nel nutrire fiducia in Dio, hai sempre sperato di scorgere un segno della Sua esistenza, della Sua partecipazione alla vita degli uomini. Non ti sei mai arreso fino in fondo, nonostante l’odio e la disperazione di cui sei costantemente circondato.” torna ad osservarmi con le sue iridi arancio, sporgendosi impercettibilmente verso di me, “Tu credevi in Dio e quando affermo che credevi non mi riferisco soltanto alla Sua esistenza: lo cercavi con una testardaggine commovente, rifiutavi di abbandonarti alle tenebre e una piccola parte della tua anima, proprio per tale motivo, si è sempre mantenuta pura, intatta, pulita da qualsiasi macchia. Prima di stanotte non avevi mai abbracciato la causa di Sua Eccellenza con tutto te stesso, perciò non ti ho mai rivelato i segreti del nostro mondo, non più di quanti te ne servissero per compiere il tuo lavoro. Ti avvinghiavi a Dio come… a una boa in mezzo all'oceano in tempesta.”
C’è solo verità nelle sue parole, lo percepisco dentro di me e persino sulla pelle. Sì, non ho mai voluto davvero voltare le spalle a Dio. Come Sua creatura, la mia anima tende a Lui, è un meccanismo che non ho mai realizzato consciamente, e, siccome non me n’ero mai accorto sino ad ora, non lo avevo mai combattuto sul serio, non mi ero mai ribellato, non avevo mai indagato sulla natura del mio legame col Signore. Si trattava di qualcosa di invisibile e indefinito che albergava al mio interno fin dalla nascita, era una parte di me, come può esserlo un braccio o una gamba. Non ti chiedi perché sei nato con due arti inferiori e due superiori, e perché invece non con uno solo, non ci fai nemmeno caso, perché quando ti guardi intorno vedi esseri identici a te. Solamente quando ti imbatti in individui diversi, zoppi, magari con un braccio amputato, deformi, ti rendi conto che esiste la diversità e che non tutti sono uguali. La medesima cosa vale per l’anima. Normalmente, realizzi che esiste il Male solo quando ti si para davanti nudo e crudo, che le anime delle persone non sono fatte con lo stampino: ci sono quelle pure e incontaminate e quelle sporche, disgustose, orripilanti. A quel punto, prendi atto dei concetti e della differenza che c’è tra bene e male e, appena cominci a riflettere sulla questione, arrivi di fronte ad una biforcazione. 
Purtroppo, io non ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia amorevole e unita e molto presto, troppo, sono stato costretto a conoscere la crudeltà insita negli uomini. Però non tutti erano sottomessi alle leggi del Male: mio fratello Adam, ad esempio, ha cercato di salvarmi. Lui era diverso, era la luce nell’oscurità, ed io mi ci sono aggrappato con le unghie e con i denti per non affogare.
Il mio desiderio di luce, soltanto ora lo capisco, era dato dal fatto che la mia anima chiamava Dio a gran voce e cercava spasmodicamente una Sua manifestazione materiale. Mai ho ponderato di rinnegarLo, di gettarmi nell’abisso di mia volontà, perché avevo paura delle conseguenze, di cosa mi sarebbe capitato una volta smarrita quella fievole fiammella di speranza che illuminava il mio percorso. La notte in cui incontrai il signor Fires ero sicuro di essere pronto a gettare la spugna, ma forse mentivo a me stesso. Ho sempre combattuto per resistere.
“Fino a ieri eri un essere a metà, in tutti i sensi, e non potevo fidarmi totalmente, col rischio di perderti in qualsiasi momento.” continua il signor Fires, “Eri un umano con le capacità di un demone, un messaggero del Diavolo con una fede incrollabile in Dio…”
“Lo so… scusami, non me n’ero mai accorto.”
“Non fa niente, Archie.” sorride apertamente e mi stampa un bacio sulle labbra, “Finalmente hai preso la tua decisione, quella definitiva, e sono molto felice di averti ancora al mio fianco. Sono ebbro di gioia, a dire il vero.”
Mi coinvolge di nuovo in una passionale lotta di lingue e non riesco a trattenermi dall’affondare le dita tra i suoi capelli corvini e attirarlo a me, con un’audacia che non credevo di possedere.
“Adesso rispondi alla mia domanda. Come, Archie? Come hai fatto?” alita ad un centimetro dalla mia bocca.
Non posso che perdermi in quei pozzi di lava bruciante che mi stanno sondando l’anima. Mi pare quasi di essermi trasformato in un topolino indifeso in balia dello scienziato, che studia ogni mio gesto con la lente di ingrandimento. Fremo, in bilico tra la volontà di ritrarmi e quella di aderire al suo corpo fasciato da abiti costosi.
“Non ne sono sicuro. Ero in bagno, avevo appena finito di farmi la doccia e mi sono fermato a guardarmi allo specchio. Ricordo di aver ripensato al mio passato, a mio padre, all’incubo che ero obbligato a subire, e di essermi chiesto perché Dio non è mai intervenuto.”
Tento di dare un ordine alle visioni che mi attraversano il cervello, come pezzi di un puzzle buttati alla rinfusa sul pavimento. Da dove è iniziato?
“Oh… la frase che mi hai detto tempo fa.” spalanco le palpebre e boccheggio, “Dio ha creato gli uomini a Sua immagine e somiglianza. Così sono partito dalla considerazione che, se esistono persone come mio padre, e anche peggio, allora Dio non è l'essere perfetto che tutti immaginano. Ecco, Lui è Dio, eppure ha plasmato l’uomo, imperfetto e fallace, a Sua immagine.”
“Ah ah ah! Quindi sono stato io!” ride e si allontana, liberando dalla sua agghiacciante e al contempo rassicurante presenza il mio spazio vitale, “Ma guarda! Un’innocua frasetta che ho pronunciato anni fa…”
“Non così innocua, direi.”
“Già. In realtà, ho provato a lanciare il sasso nello stagno, per vedere quante increspature ne sarebbero originate, quanto a lungo sarebbero durate e di che genere sarebbero state. Confermo che l’esperimento è riuscito!”
Aggrotto le sopracciglia, leggermente corrucciato: “Sono stato la tua cavia per tutto questo tempo?”
“Beh, non puoi rimproverarmelo. Non ero sicuro che tu potessi superare la prova e diventare un autentico servo di Sua Eccellenza Oscura, dovevo prima accertarmi che tu fossi il candidato perfetto. Insomma, è inammissibile che uno come me conduca al cospetto di Lucifero un umano, pretendendo che questi prenda servizio come suo emissario senza vagliare le infinite opzioni che potrebbero verificarsi. Per esempio, nel corso dell’apprendistato avresti potuto arrenderti, suicidarti, fuggire, ribellarti e cose simili. Ho cosparso il tuo cammino di ostacoli e trappole, ma tu ne sei sempre uscito alla grande. Sono davvero fiero di te, Archie, e con ieri sera ti sei guadagnato il mio sincero rispetto.”
Arrossisco di botto, mentre sento il corpo venire invaso da piacevoli brividi, e avverto lo stomaco fare una capriola. Mi sciolgo in un sorriso felice e imbarazzato, perché ho portato a termine con successo il mio scopo, cioè rendere il signor Fires orgoglioso. Mi sembra di volare sopra una distesa di nuvole bianche.
“Grazie…” farfuglio, tenendo gli occhi piantati sulle ginocchia.
Per sconfiggere la sensazione di goffaggine che provo, comincio a giocherellare con la cintura della vestaglia, rigirandola fra le mani, piegandola in tanti rettangolini partendo dall’estremità, avvolgendomela su due dita a mo’ di fascia e tirandola come per romperla.
“Smettila, o ti salto addosso seduta stante.”
Mi paralizzo e scruto di sottecchi il signor Fires, scoprendolo a concupirmi con lo sguardo, che brilla di una lussuria soffocata a fatica.
“Ho represso il mio desiderio per nove anni, gli otto di apprendistato più quest'ultimo, e ora che sei pronto mi sto sforzando per controllarmi. Non rendermi le cose più difficili, Archie.”
“Io… scusa.” deglutisco.
Se possibile, avvampo ancora di più, sia per le sue parole, che per i pensieri poco edificanti e affatto casti che in un attimo mi hanno attraversato il cervello. La tensione sessuale si sta facendo opprimente. Per la seconda volta, lo sconcerto che mi pervade è enorme, tanto da mettere a tacere ogni altra emozione. Infatti, se bramo il contatto fisico, significa che ho superato anche il mio trauma, causato dalle ripetute violenze di mio padre. Sono veramente pronto a donare il mio corpo a qualcun altro e ad archiviare per sempre gli incubi che mi perseguitano dall’infanzia? Non sarò mai in grado di dimenticare, ne sono certo, ma forse posso seppellire quelle memorie da qualche parte, in un angolino nascosto, un luogo che non attirerà più la mia attenzione, nemmeno per sbaglio.
Un altro quesito si affaccia alla mia mente frastornata: “Maestro, ma come è avvenuta la Caduta? Intendo, a parte l’aver rinnegato Dio… in fondo, ci sono molte persone che non credono in Lui.”
“Lo hai rinnegato tre volte, con tutta l'anima.” spiega pacato.
“Io, uhm, credo di sì. Non rammento.”
“Hai mai letto la Bibbia, Archie?”
“No, ma conosco i passi più importanti.”
“Allora ricordi che Pietro rinnegò Gesù tre volte, prima che il gallo cantasse? Ebbene, tu hai rinnegato Dio tre volte prima dell’alba, e quand’è che il gallo canta?”
“All’alba.”
“Esatto. Questa è la Caduta.”
“Ma Pietro poi è stato perdonato!”
“Perché si è pentito. Tu non hai intenzione di pentirti, vero, Archie? È stata una tua decisione, sei giunto a conclusioni fondamentali, non vorrai tirarti indietro ora per paura di incorrere in un castigo divino!” insinua con una punta di severità nella voce.
“Non ci penso neanche! Ho visto e vissuto troppe cose orribili per avere ancora fede in un Dio che non ascolta. Ho visto cosa c’è dentro l’abisso, ne sono stato risucchiato e l’ho accolto dentro di me. Non posso e non voglio uscirne adesso.”
“Ahh, Archie.” sospira con aria indulgente, “Ti rivelerò una cosa di estrema importanza, ti impartirò una specie di lezione di vita: è proprio quando si brancola nel buio che nasce in noi l’irrefrenabile voglia di aggrapparsi al primo, tenue bagliore che ci salta agli occhi. Nell’oscurità non si può fare affidamento sulla vista e gli esseri senzienti, da che mondo è mondo, ricercano assiduamente e con una tale determinazione una piccola fiammella di speranza in mezzo al fitto velo di tenebra che li circonda, che, se la scorgono, ci si precipitano contro senza riflettere. Tutti noi abbiamo corso il rischio, all’inizio, di cadere in tentazione.”
“L’espressione ‘cadere in tentazione’ di norma è associata all’operato dei demoni.” gli faccio notare.
“Sì, ma in questo caso, nel tuo caso, la situazione è ribaltata. Potresti lasciarti ammaliare dall’innato fascino del Bene in qualsiasi momento, perché una parte di te, quella più profonda e inconscia, non si arrenderà mai al potere del buio. È un istinto naturale, umano e demoniaco. I Caduti, me compreso, i primi tempi esitavano in preda alla confusione e allo smarrimento e molti sono tornati indietro, nel Regno dei Cieli, implorando il perdono divino. Fino ad allora avevamo sempre vissuto avviluppati da un’onnipresente coltre di luce abbagliante e calda e all’improvviso ci siamo ritrovati immersi nella gelida oscurità, ciechi e disorientati. Dio sapeva bene che la maggior parte di noi non era pronta ad un cambiamento così drastico e repentino. Di conseguenza, mandò alcuni angeli a recuperare coloro che si dimostrarono intimoriti e non più tanto convinti di voler passare alla fazione opposta. La stessa cosa può accadere anche a te. Ora che hai rinnegato la Luce, non ti sarà più concesso di vederla, diventerai cieco e la tua determinazione vacillerà, è inevitabile. E sarà allora che dovrai dare prova della tua forza, di una notevole grinta, una prova finale di ribellione. Anch’io ci sono passato ed è stato molto difficile superarla. La tentazione di tornare lassù, dove tutto è pace e serenità, libero dal giogo dell’impurità e dalle turpitudini perpetrate dagli esseri umani, è quasi riuscita a vincermi. Ho corso il rischio di cedere, sono arrivato al confine, ma proprio in quell’istante ho fatto un passo indietro e mi sono voltato. Per questo motivo ti esorto a non cadere in tentazione.”
“Va bene, starò attento. Promesso.” giuro solenne, “Ma di quale storia parlavi poco fa? Cosa mi devi raccontare?”
“Ah, giusto. Me ne stavo scordando.” sorride e mi spettina i capelli con una mano.
"Uffa! Perché lo fai?”" mi lamento scansandomi.
“Perché sei adorabile.” si schiarisce la gola e mi fa segno di restare in silenzio, “Dunque, è arrivato il momento di narrarti cosa avvenne in principio.” mi scocca un’occhiata eloquente, “Di come ebbe inizio la ribellione di Lucifero.”
Rimango immobile, allibito e subito focalizzo la mia attenzione sul signor Fires. Accidenti, sono emozionatissimo! Nessun mortale può sperare di venire a conoscere la verità sui fatti riportati nel Libro della Genesi, ma io sono l’eccezione e mi sono dimostrato degno di essere messo a parte dei segreti inerenti il Regno dei Cieli e l’Inferno. Non sto più nella pelle!
“Bene, calmati e ascolta. Lucifero era un angelo appartenente alla categoria dei Serafini. Sei informato sulla gerarchia angelica?”
“No.”
Adoro quando il signor Fires si mette a spiegarmi qualcosa, ho sempre la netta impressione di trovarmi a scuola, luogo che mi capita di idealizzare spesso perché non l'ho mai frequentato, per il fatto che vivevo da recluso nella villa di famiglia. In queste circostanze, fantastico sempre di essere un alunno che pende dalle labbra del professore. Non per nulla lo chiamo “maestro”.
“Allora partiamo dalle basi. Gli angeli sono suddivisi nei cosiddetti Cori Angelici, in tre diverse sfere. I più potenti sono i Serafini, i Cherubini e i Troni, poi abbiamo le Dominazioni, le Virtù e le Potestà, e infine i Principati, gli Arcangeli e i comuni Angeli.”
“Aspetta…” lo interrompo accigliato, “gli Arcangeli sono nel gradino più basso?”
“Sì, prendono ordini dai Serafini e dai Cherubini, che a loro volta obbediscono al volere di Dio. Lucifero, come stavo dicendo, era un Serafino, il più potente della sua cerchia. Dio lo aveva nominato Suo portavoce e, si sa, la parola del Signore è sinonimo di salvezza, quindi anche di luce. Da qui, il significato del nome di Sua Eccellenza, ossia Portatore di Luce. Tutti lo rispettavano e ammiravano, nessuno provava invidia, ed ognuno di noi si faceva spesso consigliare e guidare da Lucifero. Era il nostro comandante. Prima che cominciasse a nutrire dei dubbi circa l’onnipotenza di Dio, Egli teneva in alta considerazione l’opinione di Lucifero e si relazionava con quel bellissimo Serafino come un padre parla con il proprio figlio. Sua Eccellenza era molto fiero dell'operato di Dio ed eseguiva le Sue direttive alla lettera, senza mai commettere errori.”
Si concede una pausa, durante la quale le sua labbra si piegano in una smorfia amara e nei suoi occhi si fa strada una scintilla nostalgica.
“Lucifero brillava più del sole, era capace di emanare un luce accecante, quasi impossibile da guardare persino per gli altri angeli. Rappresentava l’astro più abbagliante, inferiore soltanto a Dio. Rifulgeva di puro potere divino e le sue ali, grandi, candide e soffici erano uno spettacolo. Lo si sentiva arrivare non appena le sbatteva, provocando, all’attrito con l’aria, quel suono come di un tamburo, che penetrava e rimbombava nelle nostre più intime essenze e le scuoteva facendoci tremare di meraviglia. All’epoca, il Regno dei Cieli era un posto pacifico, privo di qualsivoglia turbamento, almeno finché il Signore non decise di creare gli uomini.” si appoggia allo schienale del divano e incrocia le braccia sul torace, “Sai, Archie, è stato un po’ come se Dio, plasmando la razza umana, si fosse tradito, lasciando trapelare il Suo vero io attraverso la maschera. Lucifero fu il primo ad accorgersene. Fino ad allora, aveva sempre guardato a Dio come all’Essere Perfetto, infallibile, onnisciente ed eterno, senza mai mettere in discussione la Sua maestà. Lo guardava nel medesimo modo in cui un bambino guarda suo padre: è il suo eroe, il suo punto di riferimento, la sua roccia.”
“E poi cosa accadde?”
“Dio disse 'Creerò gli uomini a mia immagine e somiglianza. Saranno soggetti alle leggi del mondo che ho plasmato in sei giorni, ma farò loro dono della facoltà di scelta. Li proteggerò, perché saranno i miei figli, li educherò e li ammonirò quando sbaglieranno. Essi diverranno lo specchio in cui mi rifletterò' e così fece. Ma Lucifero si avvide delle imperfezioni di cui erano provvisti e si chiese perché mai Dio, un Essere Perfetto, li avesse fatti in quella maniera. Erano, diciamo, incompleti e tutti gli angeli lo appurarono. Poco dopo, quello splendido Serafino iniziò a maturare dei dubbi e le domande aumentarono, si accumularono, sommandosi le une alle altre, tanto che un giorno, pervaso dall’irritazione e dalla confusione, non esplose al cospetto del Signore. Affermò che gli uomini erano un fallimento, che andavano fatti tornare alla cenere da cui erano sorti, che simili creature non erano degne dell’amore divino, perché da subito avevano manifestato tendenze perverse.”
“Perverse? In che senso?”
Il signor Fires sbuffa divertito: “Nel senso che, secondo Lucifero, che era un Serafino, gli umani erano inferiori. Ma, in realtà, ciò che non riuscì a chiarire, perché non possedeva le parole giuste per esprimere un concetto così estraneo alla sua natura celeste, era che non comprendeva la ragione per cui Dio avesse voluto creare esseri diversi dagli angeli, più brutti e imperfetti. Dio era orgoglioso degli uomini, tuttavia Lucifero si interrogava sul perché il Padre celeste avesse pronunciato quella frase, cioè 'Creerò gli uomini a mia immagine e somiglianza', e poi avesse plasmato quelle… cose. Sì, così chiamava gli uomini. Non riusciva a far sposare l’idea che aveva di Dio con quella che aveva degli uomini e neppure con quella famosa frase. Cadde in crisi e smise di parlare con gli angeli, persino con quelli a lui più vicini. Trascorreva tutto il tempo a guardare giù, sulla Terra, e a rimuginare. Provò e riprovò, rifletté, ragionò, avvalendosi anche delle nostre opinioni, ma non giunse mai ad afferrare il senso del gesto di Dio, a meno di non dichiarare che Egli aveva torto. Però l’errore esulava dalla natura intrinseca di Dio, di questo Lucifero era fortemente convinto. Quindi, come mai? Comunque, Dio non volle accettare obiezioni e Lucifero si impose, invece, di dimostrarGli che aveva sbagliato. Questa fu la prima crepa, la profonda spaccatura che innescò la guerra. Discusse con gli angeli, che lo ascoltarono attentamente, ma molti non gli credettero e continuarono ad essere fedeli al Signore. Altri, al contrario, intravidero nei suoi discorsi un fondamento di verità e presero a chiedersi a loro volta perché Dio avesse creato quelle creature 'sbagliate', quando aveva detto che le avrebbe plasmate a Sua immagine e somiglianza. Di conseguenza, non passò molto tempo prima che un folto gruppo di angeli, tra cui io, comandati da Lucifero, si opponesse al Sovrano dei Cieli. Egli ci cacciò dal Paradiso e ci scaraventò in un mondo tetro, infuocato e desertico che aveva creato apposta per noi, dominato dalle tenebre e dal gelo. I cancelli del Paradiso si chiusero per sempre dietro di noi e coloro che erano rimasti lassù divennero nostri nemici.”
Poi il maestro prende a recitare:

“[…] la lotta orgogliosa fu inutile, poiché l’Onnipotente
lo gettò a capofitto fiammeggiante dall’etereo cielo
con orrenda rovina riarso in quella perdizione senza fondo, 
dove dimora in catene di diamante, nel fuoco della pena, 
Colui che aveva osato sfidare alle armi il Dio onnipotente. 
Nove volte lo spazio che il giorno e la notte misura 
agli uomini mortali, con la sua orrenda ciurma fu sconfitto, 
e cadde rotolando nel golfo di fuoco, travolto, sebbene immortale. 
Ma il destino altra pena doveva riservargli; il pensiero 
della felicità perduta e insieme al dolore interminabile 
ancora lo tormenta, e così getta attorno i suoi sguardi funesti, 
che testimoniano immensa afflizione e sgomento, 
commisto a odio tenace e a inflessibile orgoglio. 
Per quanto è dato agli angeli distendere lo sguardo, 
egli subito osserva quell’aspro e pauroso e desolato luogo, 
quella prigione orribile e attorno fiammeggiante 
come una grande fornace, e tuttavia da quelle fiamme 
nessuna luce, ma un buio trasparente, una tenebra 
nella quale si scorgono visioni di sventura, 
regioni di dolore e ombre d’angoscia, e il riposo e la pace 
non vi si troveranno, né mai quella speranza che ogni cosa 
solitamente penetra; e solo una tortura senza fine 
urge perenne, un diluvio di fiamme nutrito 
di zolfo sempre ardente, mai consunto: tale è il luogo 
che la Giustizia Eterna aveva preparato per quei ribelli. […]”


“Dimmi, Archie, conosci questi versi?”
“No, non li ho mai sentiti.”
“Sono tratti dal Libro I del Paradiso Perduto di Milton e, a mio avviso, descrivono alla perfezione le emozioni che provammo nell’osservare l’Inferno.” 
Si alza di scatto dal divano e inizia a passeggiare per il salotto, assorto nelle memorie passate. 
“Ricordo bene la battaglia, ogni singolo dettaglio. Mai avrei immaginato di potermi trovare a combattere contro coloro che prima erano miei fedeli compagni e fratelli. Lo scontro fu tremendo e la disperazione che scaturì in me per dover compiere qualcosa che cozzava, strideva e stonava con la mia natura di Spirito benevolo mi folgorò, mi svuotò e mi cambiò radicalmente.”
“Sembra terribile…” rabbrividisco e ingoio il groppo che mi si è formato in gola, “Perché Dio non fece nulla per dimostrare a Lucifero che gli uomini non erano da condannare?”
“Dio, dall’alto del Suo egocentrismo, non reputava necessario dimostrare alcunché. Nessuno aveva mai messo in dubbio il Suo operato e nessuno doveva farlo. Lucifero fu il primo e, appena lo fece, provocò uno scisma. Ma Sua Eccellenza non si arrese. Desiderava mostrare a tutti quanto gli umani non fossero degni del perdono e dell’amore di Dio, perciò si trasformò in serpente e fece cadere Adamo ed Eva dalla grazia, spingendoli a mangiare dall’Albero della Conoscenza. Così divenne evidente che essi erano imperfetti, inferiori, e Dio fu costretto a punirli, come ben sai. Poi maledisse anche Lucifero, che con quell’ultimo gesto aveva spezzato definitivamente il legame di fiducia che lo univa col Padre. Questo gettò Lucifero nel più nero sconforto. Ingenuamente, era sicuro che, agendo in quel modo, Dio avrebbe ammesso i Suoi errori e lo avrebbe riaccolto in Paradiso, ma così non fu. Anzi, in aggiunta lo privò della Luce e gli tinse le ali con il colore del peccato e della vergogna. In seguito, Dio concesse ai Caduti la possibilità di redimersi e molti abbandonarono Sua Eccellenza per far ritorno a casa. In quell’istante, il più potente Serafino del Cielo proferì fiero: 'Meglio essere re all’Inferno, che schiavi in Paradiso!'. Ahh, tremo ancora di eccitazione al solo ricordo! Ti citerò un altro passo dell’opera di Milton per farti capire meglio:

'[…] E tuttavia non per queste, e neppure per quanto 
il Vincitore possente potrà ancora infliggerci con la sua furia, 
per nulla sono disposto a pentirmi e a mutare, 
sebbene sia mutato il mio prestigio esteriore […]
[…] Da questa sconfitta risorgendo, 
gli Spiriti celesti appariranno ancora più gloriosi 
e più tremendi di quanto non sarebbero, 
se non avessero mai conosciuto caduta, sicuri 
di non doverne subire il destino una seconda volta. 
Sebbene giusto diritto e immutabili leggi del cielo 
m’abbiano eletto vostro condottiero, e quindi la libera scelta 
oltre a quanto compiuto in consiglio e in battaglia riguardo 
tale sconfitta, e ciò che almeno in parte è stato rimediato, 
ancora più saldamente mi ha collocato sopra questo seggio 
non invidiato e sicuro, ottenuto con pieno consenso. 
Certo nel cielo un più felice stato, secondo dignità 
potrebbe muovere a invidia ogni inferiore; ma qui 
chi invidierà chi espone il suo più alto incarico 
nella vostra difesa dall’ira del Tonante e si condanna 
a subire la parte maggiore del dolore eterno? 
Quindi là dove non esiste un bene per il quale lottare, non esiste 
nessun motivo di lotte di fazione; perché nell’Inferno 
sicuramente nessuno esigerà una qualche precedenza, 
nessuno la cui porzione di pena presente sia talmente esigua 
che con mente ambiziosa ne pretenda altra. […]'


Questo è il succo, la sostanza di ciò che disse dopo la Caduta. Le prime parole del nostro re.”
“E Milton come lo sapeva?”
“Chi credi che lo abbia ispirato? Alcune cose che ha scritto sono false, altre gli sono state suggerite.”
Il signor Fires si avvicina alla finestra e mi dà le spalle, impedendomi di sbirciare la sua espressione.
“Lucifero si spogliò della propria dignità di Serafino e accettò la condizione in cui era precipitato con immenso coraggio. Io e pochissimi altri restammo al fianco del nostro comandante e ci disfacemmo del ‘desiderio di luce’. Perdemmo le ali, a differenza di Lucifero, e acquisimmo poteri a noi ignoti, terribili. Infine, Lucifero edificò il Pandemonium, il suo palazzo, nel cosiddetto Utero dell’Inferno. Portare gli uomini alla rovina diventò la nostra missione e, per attuarla, Sua Eccellenza Oscura plasmò dei mostri dall’aspetto grottesco e ributtante, imitando Dio quando creò la stirpe umana e quindi prendendosi implicitamente gioco di Lui. Poi li sparpagliò sulla Terra, con l’ordine di seminare terrore, morte e distruzione.” si volta e si appoggia con la schiena al vetro, “Tuttavia, il suo vero obiettivo, ciò che tutt’ora lo anima, è la voglia di dimostrare a Dio che ha torto. È determinato a provocare la Sua resa, brama di udire le Sue suppliche, le Sue scuse, e non si fermerà davanti a nulla pur di riuscirci. Vuole svelare al mondo intero la Verità, cosa si cela dietro il sipario e sotto la maschera dell’Onnipotente; vuole farLo cadere dal trono, così da ottenere la rivincita e far vedere che lui, il grande Lucifero, è sempre stato nel giusto e che il Signore non è infallibile, ergo non può essere venerato come l’Essere Perfetto.”
Rimango in silenzio per qualche attimo, cercando di assimilare tutte quelle straordinarie informazioni.
“Ma Dio avrà preso delle contromisure, no?”
“Certo! Per citarne qualcuna, hai presente il Diluvio universale? Per non parlare della distruzione di Sodoma e Gomorra… la Torre di Babele… e altri genocidi non riportati nelle Sacre Scritture. Ti assicuro che non è stato a gingillarsi, appollaiato fiaccamente sul trono. In più, mai sentita menzionare l’Apocalisse? Il Giorno del Giudizio?”
“Ovvio!”
“Ecco, quello è il Suo prossimo progetto.” si siede di nuovo e accavalla elegantemente le gambe.
“E noi lo sventeremo!” esclamo esaltato, sollevando una mano chiusa a pugno e sfoderando una grinta a me sconosciuta.
“Ma sei scemo? Frena, frena!”
“Eh?” lo fisso spiazzato e mi sgonfio come un palloncino bucato, “Perché no?”
“Perché è ciò che Lucifero vuole, Archie. Se Dio polverizzerà l’umanità intera, Sua Eccellenza avrà raggiunto il suo scopo, ossia far ammettere all’Onnipotente”, ghigna beffardo e sottolinea questo appellativo con aria di scherno, “che l’uomo è un fallimento e per tale motivo merita l’estinzione. Non capisci? Tutto sta procedendo secondo i calcoli del nostro re. Che importa se poi Dio accoglierà ‘i giusti’ in Paradiso e scaglierà i peccatori all’Inferno? Avrà comunque sterminato le Sue amate creature! Allora il Suo errore diverrà palese e tutte le sfere degli angeli si rivolteranno e lo spodesteranno con il nostro aiuto, riapriranno i cancelli celesti e noi potremo riscattarci e tornare da vincitori.”
“Quindi… la nostra missione è accelerare i tempi?”
“No, non serve.”
“E allora?”
“Beh, Sua Eccellenza non si accontenta dell’Apocalisse: vuole fare in modo che il numero delle anime che varcheranno le porte del Paradiso sia assai inferiore a quelle che invece verranno risucchiate nell’abisso. Se con l’Apocalisse fa scacco, grazie al lavoro di noi ‘assistenti’ farà scacco matto. Infliggerà un’ulteriore sconfitta a Dio.”
“Oh…”
Ora è tutto chiaro. È geniale.
“Siamo sicuri che Dio non ha già previsto tutto e che non ha in serbo un asso nella manica da estrarre a sorpresa all’ultimo momento?”
“E chi può dirlo?”
Per poco la mascella non mi cade sul pavimento.
“Ma insomma! Prendete tutto così alla leggera, voi?”
“No, ma non occorre struggersi d’ansia prima che i giochi siano prossimi alla fine. Ognuna delle fazioni farà la sua mossa e via via si vedrà quale strategia adottare.”
“E poi, il Giorno del Giudizio, cosa ne sarà di me? Io non sono nato angelo o demone, sono umano!”
“I poteri di Lucifero sono immensi e sono più che certo che ti conferirà uno statuto speciale per farti accedere al Paradiso, dopo la vittoria. Sennò, nella peggiore delle ipotesi, rimarresti con noi all’Inferno. Stai tranquillo, non ti abbandoneremo in balia del fato. Io non ti abbandonerò mai, te lo prometto.” si sporge e mi bacia con ardore, mentre le sue mani mi cingono il viso e mi traggono a sé.
Le emozioni che provo sono discordanti: da un lato il peso del suo racconto mi grava addosso come un macigno, mi ha sconvolto e ha scosso i pilastri sui quali avevo costruito il mio castello di certezze, dall’altro mi sento entusiasta e pronto a intraprendere finalmente la strada che il signor Fires ha spianato per me durante questi anni. 
Vorrei aprirgli il mio cuore e accoglierlo in esso, proprio come lo sto accogliendo nella mia bocca. Vorrei penetrare nella sua essenza, immergermici tutto, amalgamarmi e fondermi con lui per divenire un’unica entità. Non resisto… come fargli capire che ha il permesso di osare di più e non limitarsi solo ai baci? Non ho mai sedotto nessuno, non sono pratico di tecniche di corteggiamento, non so come emettere segnali di invito. Sono totalmente inesperto, anche perché non avrei mai immaginato che un giorno mi sarei trovato invischiato in una situazione del genere. Mi ero convinto che sarei rimasto casto a vita, nonché impotente, visto che non ho mai avuto un'erezione. Cosa devo fare? Come devo comportarmi?
“Archie…” sussurra il signor Fires al mio orecchio, “non correre, non c’è fretta. Io resterò con te, ti aspetterò e non ti lascerò mai.”
Ridacchio per scacciare il crescente nervosismo che mi annoda lo stomaco e sdrammatizzo: “Cos’è, una dichiarazione d’amore?”
“Puoi anche vederla così.”
Ammutolisco e sgrano gli occhi, sentendomi andare a fuoco.
“Oggi niente lavoro: si festeggia!” dichiara con un sorriso.
La distanza repentina che frappone tra il mio e il suo corpo mi toglie il respiro per un secondo e avverto fisicamente la sua mancanza. Avrei voluto rimanere incollato a lui per ore.
“Ah… che cosa facciamo, maestro?”
“Andiamo a spassarcela e a fingere di essere comuni mortali.” sogghigna, “E non chiamarmi più ‘maestro’ o ‘signor Fires’. Il mio nome è Samael.”
Appena finisce di articolarlo, mi sembra di venire colpito da un fulmine e qualcosa si smuove dentro di me. Mi rimescolo, mi decompongo e mi riassemblo. Ne esco stordito e mi affloscio sul divano a peso morto.
Samael.
“Coraggio, vestiti, ché tra poco usciamo.”
Ridacchia e i suoi occhi guizzano divertiti.










 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Alastor ***








 

La musica è assordante e non riesco a raccapezzarmi in mezzo al caos e al tripudio di ormoni che aleggia sopra la folla scatenata sulla pista. Ancora non so spiegarmi perché ho acconsentito a seguire il signor Fires… no, Samael in questo posto: una discoteca parigina in piena ora di punta, popolata da corpi seminudi che si dimenano forsennati sotto luci stroboscopiche e i riflettori colorati al ritmo di un pezzo house. Davvero, cosa ci trovano di così divertente? 
Osservo una ragazza mora, molto carina: balla ancheggiando come una diva, circondata da due uomini che le si strusciano addosso come mandrilli eccitati. Puah! Sono ridicoli. E il bello è che si credono pure degli invidiabili e prestanti maschi alfa. Vorrei mostrare loro un vero maschio alfa e non dovrei nemmeno andarlo a cercare troppo lontano, perché mi è seduto vicino e sorseggia il suo drink trasparente dall’odore fruttato con un ghigno sornione dipinto sulle labbra. Sembra un gatto che si lecca i baffi dopo aver trangugiato la sua ciotola di latte.
Sono le due di notte a Parigi. Dopo una passeggiata a Pigalle, il quartiere a luci rosse, abbiamo comprato i biglietti per il primo spettacolo delle dieci al Moulin Rouge, finito il quale siamo rimontati in limousine, sino ad approdare in quel locale. Dopo esserci accomodati ai lati opposti di un tavolino dal design ultramoderno, abbiamo ordinato le nostre bevande, più per non apparire fuori posto che altro, e siamo rimasti a scrutare quella bolgia esaltata per una manciata di minuti nel più completo silenzio, ognuno assorto nelle proprie elucubrazioni.
Sono stato catapultato dentro un circo infernale.
Guardo l’orologio.
“Allora, Archie, che te ne pare?”
“Andiamo via?”
Samael scoppia a ridere e il timbro della sua voce fa vibrare ogni cellula del mio corpo, provocandomi una cascata di piacevoli brividi che mi fanno venire la pelle d’oca.
“Non eri mai stato in una discoteca, così ho pensato che almeno una volta avresti dovuto vederla con i tuoi occhi.” ammicca e le sue iridi infuocate rifulgono come torce nella semioscurità della stanza.
“L’ho vista.” mugugno.
Mi sforzo di ingoiare un altro sorso del mio cocktail alla fragola e non riesco a trattenermi dallo storcere la bocca, disgustato dal sapore dell’alcool che mi scivola giù per la gola. Non ho mai bevuto qualcosa di alcolico e, col senno di poi, ammetto che avrei continuato volentieri a farne a meno.
“Guardali, Archie.” indica la pista da ballo, “Guarda come danzano, come si ammaliano e incantano a vicenda, come sfoggiano fieri e audaci le spoglie con cui sono venuti al mondo, le stesse spoglie ispirate a Dio e a Lui rassomiglianti. Gli uomini avrebbero dovuto essere il Suo specchio, ed ecco qui! Sesso, sesso, sesso. Tutto ruota intorno al sesso. E ai soldi, certo. Sai, il sesso fu esattamente la prima cosa che fecero Adamo ed Eva dopo aver mangiato il frutto proibito.” sorride, “Ma ad Eva non piacque!” sussurra e porta l’indice alle labbra per comunicarmi che è un segreto.
“Mi fanno schifo.”
“No, Archie, non è questo l’atteggiamento giusto.” mi rimprovera in tono bonario, “Da buon emissario di Sua Eccellenza, dovresti, al contrario, imparare a comprendere e accettare tutte le sfumature dell’animo umano, per poi manipolarle a tuo piacimento per spingere oltre il baratro tutti quegli insetti che rimangono intrappolati nella tua rete. O fare in modo che ci si buttino loro spontaneamente!” ride di nuovo.
Sembra spassarsela un sacco, per lui è un po’ come essere a teatro: tutto è uno spettacolo a cui assistere e da cui trarre godimento. Forse dovrei prendere esempio e provare a sciogliermi un po’ anch’io, non mi va di fare il guastafeste.
“Dio li crea con gli istinti… istinti da soddisfare… e poi li punisce perché tentano di soddisfarli.” aggiunge meditabondo, “Non trovi che sia sadico? Pure un po’ incoerente. Ha riempito e cosparso la Terra di stimoli, un vero e proprio paese della cuccagna, e pretende che le Sue creature resistano alla tentazione, che soffrano e si consumino nel desiderio e nell’angoscia di non poter appagare e saziare la loro eterna fame. Una vita trascorsa a servire Dio equivale ad un vita votata al totale sacrificio e alla perenne mancanza. Tuttavia, l’uomo non è fatto per il sacrificio. Se lo poni di fronte a una scelta, opterà sempre per quella a lui più comoda e congeniale. Per esempio, se tu imponessi a qualcuno di scegliere tra un grossa fetta di torta, magari la sua preferita, e un pezzo di pane stantio, cosa sceglierebbe, secondo te?” appoggia i gomiti sul tavolino scuro e si sporge verso di me con aria complice, “Noi demoni, invece, diamo loro ciò che vogliono, ciò che può renderli felici, qualsiasi cosa, proprio come una squisita fetta di torta. In cambio chiediamo una cosetta da niente, che riscuotiamo solo al momento della loro morte.”
“Ma la loro morte la provochiamo noi allo scadere del tempo del contratto… e l’anima non è una cosetta da niente: è tutto, è quello che più conta!”
“Sì, però è pur sempre morte, e agli uomini non interessa molto la sorte del loro spirito. Una volta all’altro mondo, i soldi, la carriera, la reputazione, il sesso non servono più, diventano ornamenti inutili. Godere finché si è vivi! Questo è il motto di tutta l’umanità!” esclama allargando le braccia e studiando la sala gremita di gente, “Non ne esiste uno immune al peccato, nemmeno i bambini. Superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira e accidia, per non parlare della vanità: ognuno di questi peccati è insito nella natura mortale ed è impossibile imbattersi in qualcuno che non ci sia cascato almeno una volta.”
“E Buddha?”
“Siddharta*… beh, lui era un principe prima di intraprendere la sua strada di rinuncia. Credi non se la sia goduta? Si è sposato ed ha avuto un figlio!”
Non mi arrendo: “E Gandhi?”
“È diventato famoso per la sua campagna di pace solo in età avanzata. Ma in passato, quando era piccolo?”
“Però deve esistere qualcuno privo di macchia!”
“Stai cercando un Messia?” domanda e scuote la testa, “Archie, vedo che non hai ancora gettato la spugna.”
“No, è che… non penso che tutta l’umanità sia da condannare. Esistono anche le persone buone… Maria Teresa di Calcutta, Martin Luther King, il Dalai Lama! Non si può fare di tutta l’erba un fascio.”
“Davvero?” inarca un sopracciglio e sogghigna dietro il bicchiere di vetro.
“Io…” conduco una mano alle labbra e prendo a mordicchiarmi nervosamente l’unghia del pollice, “se non ti avessi ordinato di uccidere mio padre…”
“Saresti stato innocente?” conclude al mio posto, poi sbuffa, “Ne sei veramente convinto? Ah, quanto sei ingenuo. No, agli occhi di Dio eri già sudicio come un barbone, fidati. Anche se non mi avessi evocato, anche se avessi continuato a sopportare la tortura, per te non ci sarebbe stata salvezza.”
Il mio corpo sussulta in uno spasmo improvviso e strabuzzo gli occhi, segretamente ferito.
“Perché?”
“Sebbene, ad un esame superficiale, tu non sia colpevole per il male che tuo padre riversava su di te, la tua anima era già macchiata dall’odio e dal rancore. Hai provato a suicidarti due volte, se non vado errato. E prima, quando non eri che un minuscolo infante, hai spesso desiderato che la tua famiglia morisse in modi atroci. Prova a negarlo.”
Non posso negarlo, in effetti. Quindi è stata questa la mia colpa? Senza saperlo, ero già destinato a bruciare all’Inferno?
“Avrei potuto redimermi?”
Samael ci riflette, poi sospira: “Se tu ti fossi pentito e avessi abbandonato la mondanità per ritirarti in un convento di frati, dedicando il resto dei tuoi giorni alla preghiera e alla rinuncia… forse sì. Chi può dirlo? Dio perdona criminali incalliti che si dolgono delle loro azioni sul letto di morte e condanna i virtuosi che peccano anche solo una volta… se questa si può definire ‘Giustizia divina’ non lo so.”
Adagio la fronte sulla superficie di plexiglas del tavolino e assaporo la freschezza del materiale, che dona un po’ di sollievo al mio mal di testa. Le tempie mi pulsano in maniera irritante e la musica non aiuta. Da un lato, mi sento come se un enorme peso fosse scomparso dalla mia anima, dall’altro non posso esimermi dal provare avvilimento e delusione.
“Scusa, Sam.”
“Sam?”
“Sì, è un diminutivo. E ‘Sam’ è un nome comune, non fa strano e puoi passare inosservato.”
“Sam sta per Samuel, io mi chiamo Samael.”
“La differenza è in una vocale, non farne un dramma.”
Le sue spalle vengono scosse da una risatina.
“Va bene, vada per Sam. Perché ti scusi?”
“Perché hai ragione: non mi sono ancora arreso all’evidenza. Quante conferme dovrò ancora esigere per convincermi del tutto? Cosa mi manca? Ormai conosco la verità, non dovrei pretendere nient’altro.”
“Archie, questa è la Caduta.”
Piego il collo e lo scruto dal basso curioso, sempre accasciato sul tavolino.
“Te l’ho detto che i primi tempi è dura e che devi quasi violentarti per sconfiggere la voglia di tornare nella Luce. La tua anima percepisce che le manca qualcosa, un pezzo fondamentale, e sa pure dove trovarlo, perciò si protende spasmodicamente verso di esso. Però è inutile affannarsi nella ricerca di qualcosa che si è perduto per sempre, è necessario stringere i denti e non voltarsi indietro. Noi lo chiamiamo ‘desiderio di fede’. Ogni angelo ha attraversato questa fase e pochissimi ne sono usciti vincitori. Su questo punto, gli uomini sono uguali agli Spiriti Celesti, perché Dio ha piantato in loro la medesima ‘matrice’, che li fa guardare a Lui come lo scopo ultimo dell’esistenza. Egli è stato il nostro punto di riferimento per molto tempo e all’improvviso ci venne negato di orbitarGli intorno, come tanti pianeti attratti dalla Sua forza di gravità. Eravamo allo sbando, disorientati, come tante falene a cui viene d’un tratto sottratta la calda e abbagliante luce della lampada.” tracanna il drink in un sorso e contrae i muscoli facciali in una smorfia assurda, tra lo schifato e l’esultante, “A distanza di… beh, di un po’, posso assicurarti che è stata la decisione più saggia che abbia mai preso! Sono contento di aver… strappato il cordone ombelicale, se capisci la metafora.”
“Sì, capisco, ma ancora mi riesce difficile, sinceramente.” 
“Imparerai.”
Rimango in silenzio e mi incanto a guardare il liquido rosa dentro il mio bicchiere, poi stringo la cannuccia tra pollice e indice e mi metto a giocare con i cubetti di ghiaccio.
Le luci psichedeliche mi danno fastidio. Voglio andare via. Mi annoio. Però non voglio imporre i miei capricci sul maestro, non vorrei sembrargli infantile.
“Vieni in pista con me, Archie.”
Mi pietrifico e il fiato mi si mozza in gola. 
“Che?! No, non so ballare e quel fetore mi fa venire la nausea…” lo imploro con voce lamentosa.
“Non è per divertirci, o meglio non solo. È addestramento sul campo.”
Assumo un’espressione scettica: “Non si può evitare? E cosa dovrei fare?”
“Vieni e te lo spiegherò.” mi sorride e mi offre la mano con un gesto elegante, come se stesse invitando una fanciulla a danzare un lento.
“Non siamo neanche vestiti in modo adeguato!” tento un’ultima resistenza, “Due uomini che ballano in giacca e cravatta darebbero nell’occhio.”
“No, saremo coperti da un incantesimo.” ammicca.
“Va bene, ho finito gli assi nella manica.” sospiro rassegnato.
Afferro la sua mano e lo seguo come un condannato che si dirige al patibolo. Devo avere un’aria da funerale in questo momento.
“Rilassati, tanto sei invisibile! Nessuno baderà alla tua goffaggine.”
“Ah. Ah. Ah.” rido senza allegria.
Mi porta proprio al centro esatto e subito mi coglie un giramento di testa, che quasi mi fa perdere l’equilibrio. Aguzzo la vista e noto numerosi fili di fumo nero che si innalzano dai corpi sudati intorno a noi e salgono in alto, fino a formare una cappa soffocante, persino un po’ opprimente, sul soffitto della discoteca. È come una foschia, una sottile e orripilante coltre di nebbia che mi fa frizzare gli occhi, mi formicola sulla pelle, si infila sotto la stoffa dei vestiti e mi penetra nelle narici. Mi copro la bocca e il naso con una mano e mi aggrappo a Samael, che mi cinge i fianchi e mi sorregge senza sforzo.
“Non ce la faccio… ti prego, non ce la faccio!” esclamo sull’orlo delle lacrime.
Mi solleva il mento e mi coinvolge in un bacio passionale, che mi distrae per qualche secondo.
“Lascialo entrare.” mi sussurra soavemente all’orecchio, cominciando ad ondeggiare piano, come se davvero stessimo danzando un lento, “Fonditi con esso, non opporti. Più lo respingerai, più sarà doloroso. Permetti al Male di mischiarsi con la tua essenza, prova a comprendere la sua natura. Consideralo come una specie di approccio sessuale: ti sta corteggiando, ti vuole e se tu vuoi sul serio camminarmi accanto, accetterai le sue avances e ti unirai a lui come un partner consenziente, senza ritrarti o rifiutarlo. Io sono qui, non c’è pericolo.”
Le sue parole suscitano in me sensazioni contrastanti, come al solito. Mi sento schiacciare. All’improvviso, realizzo il messaggio che Samael ha voluto inviarmi e lo squadro atterrito, forse per la prima volta. È come se mi avesse detto di accettare uno stupro. Il cuore accelera, una paura atavica mi travolge e il viso deformato dalla lussuria di mio padre sostituisce quello del demone. Mi divincolo, sono spaventato e rischio di vomitare ad ogni movimento brusco. 
Il fumo nero mi entra nei polmoni, facendomi tossire e provocandomi un potente conato. Il rumore è assordante, tanto che perdo l’orientamento e tutto inizia a girare come una giostra, mentre le gambe mi si fanno molli come gelatina e gli occhi prudono per il desiderio di piangere. Non sono in grado nemmeno di urlare, perché il fumo mi ostruisce la gola e gli attacchi di tosse non accennano a placarsi. Mi dimeno come un’anguilla, tiro calci e pugni alla cieca, ma non riesco a liberarmi dalla morsa delle mani del mio aguzzino, che mi violano in ogni anfratto. No, non sono le sue mani, sono quei tentacoli maledetti di Male puro. Le dita di mio padre sono ferme sui miei fianchi e stringono la presa come artigli, si incuneano nella mia carne e temo che vogliano lacerarmela. 
In un istante, la mia mente viene soggiogata da qualcosa, una presenza viva e pulsante che abbatte con violenza tutte le mie barriere. Vengo catapultato di nuovo nel passato e rivivo tutti gli stupri che ho subito, le percosse, l’agonia, il desiderio di morte; riassisto all’omicidio di mio cugino Terence da parte di Adam, avverto chiaramente l’epidermide dei polsi squarciarsi sotto la pressione del coltello e il sangue caldo e denso colare in copiosi rivoli sul pavimento di marmo del bagno; vedo il mio riflesso nello specchio e l’immagine magra ed emaciata di me da ragazzo si mescola ad una più recente. In seguito, la scena cambia per un attimo, trasportandomi nel bagno della suite parigina. Lo specchio è appannato e vorrei allungare un braccio per togliere la condensa. Poi il pavimento cede sotto di me e precipito.
 
Sono in piedi nell’ingresso di casa mia. Villa Blackwood è identica ai miei ricordi, ma è immersa nel silenzio e dalle finestre non filtra alcuna luce. Fuori è completamente buio, uno spesso velo nero, fitto e impenetrabile. L’atmosfera che aleggia tra quelle quattro mura è la stessa della notte in cui il signor Fires mi strappò alle grinfie del mio incubo: le lampade sono accese e gettano una luce fioca sull’ambiente, tutto sembra sospeso. Le mattonelle sotto i miei piedi scalzi sono gelide e arriccio le dita pervaso dai brividi. Mi accorgo di essere nudo e che il mio corpo è costellato di lividi e succhiotti. Le mie cosce sono bagnate e su di esse scivolano gocce di liquido perlaceo, che so essere sperma. I muscoli delle gambe lanciano costanti fitte di dolore, ma il mio cervello è pieno di ovatta e a malapena sento cosa accade intorno a me. 
Ad un tratto, sulla pelle appaiono dei graffi ed è come se qualcuno me li stesse infliggendo proprio adesso. Grido con tutta l’energia che mi è rimasta, cado a terra e striscio lontano, fino ad aderire con la schiena al muro, terrorizzato. Ansimo e cerco di incamerare ossigeno, ma una forza invisibile mi agguanta per le caviglie, mi trascina per qualche metro, mi divarica le gambe ed entra in me senza garbo. Piango, tento di scacciarlo, di ferirlo a suon di morsi e schiaffi, poi la voce di mio padre mi accarezza l’orecchio, paralizzandomi come un agnellino di fronte al lupo affamato.
“Stai buono, Archie. Non ti agitare e vedrai che andrà tutto bene.”
Sfioro qualcosa di freddo con la punta delle dita. Giro la testa e scorgo il baluginare di un coltello. Lo osservo per una manciata di secondi e scopro che è il medesimo che usai anni fa per tagliarmi le vene. So che è affilato, so che è d’argento, so che è un pezzo d’antiquariato prezioso, che fa parte di un servito altrettanto costoso. Rammento che lo rubai dal cassetto delle posate dopo pranzo, di nascosto dalle domestiche. Lo stringo fino a far sbiancare le nocche, imprimo le impronte sulla lama e un leggero taglio si apre sul mio palmo. 
Poi torno a fissare sopra di me e mi scontro con le iridi azzurre di mio padre, con i suoi gemiti strozzati dal piacere. Lo trafiggo nel bulbo oculare destro con una ferocia che non mi è mai appartenuta e lo infilzo fino al cervello. Affondo il coltello molte volte, impossibili da quantificare, e nessun centimetro di quelle membra grassocce e disgustose viene risparmiato. Il sangue schizza in tutte le direzioni, una cascata rossa infinita che va ad imbrattare il marmo e l’intonaco bianco della parete, compreso qualche quadro antico di incommensurabile valore. Lo faccio a pezzi, mi accanisco con furia sui filamenti di cartilagine che tengono attaccati i vari moncherini, lo eviro con un sorriso folle, gli stacco la testa dal collo e faccio scempio dei suoi organi, in maniera tale che nessuno possa risalire a lui. Gli schiaccio le dita, trito le unghie delle mani e dei piedi, gli strappo le orecchie, il naso e le labbra, lo mutilo più che posso, finché le forze non si esauriscono.
Allora allento la presa sull’arma del delitto e fisso assente lo spettacolo raccapricciante che si para davanti a me: è uguale a ciò che vidi quando il signor Fires lo ammazzò, gli scarabocchi e le forme di sangue disegnate su ogni superficie ne sono l’esatta riproduzione. Tuttavia, non è stato il signor Fires l’autore di questo massacro, sono stato io. Io ho ucciso mio padre. Anzi, non l’ho solo trucidato, ma ho anche infierito sul suo cadavere, e niente mi ha mai arrecato più gioia e appagamento. Ho sperimentato un’estasi incomparabile, un delirio che credo solo una droga come l’ecstasy o l’LSD possa regalare.
Studio il mio corpo martoriato e mi pare di aver fatto il bagno in una vasca di sangue: ne sono interamente ricoperto, da capo a piedi, e non solo con qualche schizzo. I miei capelli ne sono intrisi, sono proprio zuppi, tanto che potrei strizzarli come una spugna. Ma ciò che accentua il mio schifo è il pensiero che questo sangue è di mio padre, quell’infimo bastardo. Voglio lavarmelo via di dosso, voglio ripulirmi dalla sua sporcizia. Quel sangue non è solo su di me, ma anche dentro. È parte di me.
Dei bisbigli confusi mi riscuotono dal torpore e dall’immobilità. Alzo lo sguardo e mi scontro con un crocifisso, grande come quelli che si vedono in chiesa. Come ci sia finito in casa mia, non ne ho la minima idea. Gesù è raffigurato nella famosa posa sofferente, ma il dettaglio che mi ghiaccia è che sta piangendo lacrime rosse. In cima torreggia la scritta I.N.R.I e sopra la testa del Redentore c’è il disegno di una colomba in volo che emana raggi di luce. Alla base del crocifisso ci sono delle candele accese, la cui debole fiammella sfrigola a contatto con l’aria. A questo punto non so più cosa stia succedendo. Onestamente, neanche mi importa.
Scruto il volto del Figlio di Dio, ma non provo niente: né pena, né colpa, né odio, né amore, né paura, né serenità. Nulla. Quello è solo un banale pezzo di legno. Appena lo penso, gli occhi neri della scultura guizzano e si posano veloci su di me. Sussulto e arretro, ma scivolo sul pavimento a causa della pozza di sangue dietro di me. Quelle biglie nere mi sondano l’anima, mi sento più nudo di quanto già non sono. Mi sento colpevole, sudicio, immondo, una creatura che non è più degna di camminare sulla terra, un essere che dovrebbe solo marcire nelle profondità dell’Inferno in preda alle più atroci torture.
“Perché?” mormoro, “Non è colpa mia, è mio padre il cattivo! Perché devo pagare anch’io? Mi sono solo difeso!” esclamo frustrato.
L’omicidio va contro il volere di Dio. Uno dei comandamenti recita “Non uccidere”.
“Avrei dovuto continuare a subire senza ribellarmi?! Avrei dovuto continuare a soffrire e a gridare?! Perché? Perché anch’io? Mio padre è il mostro ripugnante, non io!”
Quando uccidi un malvagio, compaiono due fosse: una per la vittima e l’altra per l’assassino.
“Non è giusto! Io non c’entro! Mi stava facendo del male! Perché non mi hai aiutato? Dio mio, perché mi hai abbandonato?!” urlo con rabbia.
Mi prostro di fronte a Gesù Cristo, piango e singhiozzo disperato, ma presto i miei lamenti patetici si trasformano in una grassa risata. Sputo un grumo di sangue e saliva e sghignazzo divertito, ricambiando lo sguardo severo del Salvatore con uno saturo di scherno. Gratto le mattonelle di marmo in modo convulso, staccandomi le unghie dalle dita, ma non mi fermo. Tiepide gocce scarlatte colano sulla mia faccia e vanno a sommarsi a quelle che già mi colorano tutto il corpo: sono divenuto un demone rosso.
Scocco un’occhiata alla mia destra e lì dove dovrebbe esserci la porticina che conduce agli alloggi della servitù, di fianco alla grande scalinata centrale, vedo invece l’ingresso del bagno della suite parigina. Sulla traiettoria del mio sguardo c’è lo specchio, ma non è più appannato ed ora posso osservarmi senza ostacoli. Sembro un pazzo. Le iridi viola rifulgono come piccoli fuocherelli, ardono di pura follia, e il sangue che mi fa da seconda pelle rende la mia figura inquietante. Scoppio a ridere di gusto.
“Se stai cercando di farmi provare ribrezzo per la mia immagine, non ci riuscirai! Sono fiero dell’atto che ho compiuto! Ammazzerei quell’uomo di nuovo, ancora e ancora, e proverei la stessa, soverchiante ebbrezza, puoi starne certo.” sibilo con un ghigno derisorio e diabolico, poi gattono verso lo specchio, lasciando al mio passaggio una scia cremisi sul pavimento.
Tocco la superficie gelida e mi stupisco di quanto la sensazione sia reale. Poi esamino le mie spoglie mortali con cipiglio critico e infine, soddisfatto, do un bacio al mio riflesso, come Narciso.
Un attimo più tardi, un profilo conosciuto entra nella mia visuale, attraverso lo specchio.
“Archie, cos’hai fatto?”
“Adam…” boccheggio e mi ritrovo a desiderare di avere a portata di mano qualcosa per coprirmi, per nascondere i segni del mio peccato.
Mio fratello mi fissa sconcertato e impaurito e le lacrime non tardano a rigargli il volto di adolescente.
“Perché…?” soffia con voce incrinata, “Bastavo io, Archie. Ho sparato a Terence per salvarti e con quel gesto mi sono sporcato l’anima per sempre, ma tu… tu avevi una possibilità. Perché l’hai fatto?”
“I-io… io… Adam…” i singhiozzi spezzano la frase a metà, impedendomi di respirare regolarmente, “Adam!” protendo le braccia verso di lui, ma mio fratello indietreggia scuotendo il capo.
“Perché l’hai fatto?” mi domanda ancora.
“Sarei morto!”
“No, saresti sopravvissuto, invece. Tu sei forte, più forte di me, e papà non sarebbe campato per molto. Sai, aveva il cancro.”
È come se un macigno di dimensioni colossali mi investisse in pieno.
“Co-cosa?” balbetto incredulo e intontito.
“Dovevi solo aspettare e resistere, poi tutto sarebbe finito da sé. Archie, perché ti sei arreso?”
È lui ora ad allargare le braccia, un implicito incitamento a gettarvisi dentro. 
“Vieni con me, ti aiuterò. Vieni e troveremo insieme una soluzione per redimerti.”
“Il dolore era insopportabile… tu non capisci! Anche tu mi hai scopato, te lo ricordi?!” lo aggredisco, ma resto inginocchiato accanto allo specchio, “Anche tu hai provato piacere e hai spruzzato il tuo sperma nella mia carne! L’hai dimenticato?! Non me ne frega un cazzo della redenzione! È troppo tardi, ormai.”
“Papà mi costringeva, lo sai bene. Forse tu hai dimenticato quanto piangevo in quelle situazioni. Piangevo per te.”
Rido e mi alzo in piedi barcollando: “Certo, papà ti obbligava, ma tu hai goduto come un porco. Negalo, se hai il coraggio.”
Indico a destra. Una porta comparsa dal nulla si spalanca sulla mia camera, principale palcoscenico di quel teatrino di cattivo gusto, e lo spettacolo ributtante che lo assale lo fa irrigidire: mio padre è lì, accanto al letto, nudo ed eccitato, mentre osserva il suo intrattenimento quotidiano, cioè me, venire sodomizzato da mio fratello. Decido di prolungare quella tortura per metterlo di fronte alla realtà, privandolo di ogni via di fuga. Voglio che guardi attentamente. La violenza dura per un arco di tempo incalcolabile, finché l’Adam della visione non si svuota i testicoli nel mio ano con un gemito roco e compiaciuto.
La porta si chiude ed io torno a fronteggiarlo. Digrigno i denti, stringo i pugni e lo raggiungo. I miei capelli gocciolano, il sangue non cessa di sgorgare da una fonte ignota, ma adesso non so più se si tratta del mio o di quello di mio padre.
“Tu non sei migliore di me, Adam. Sei nauseante come lui. Ero solo un bambino!” grido accusandolo. 
Lo spintono e Adam inciampa, ma miracolosamente mantiene l’equilibrio.
“Ti ho salvato! Terence, a differenza di me, si divertiva a stuprarti. L’ho tolto di mezzo!”
“È vero, però hai risparmiato il re.” ringhio e avanzo, saturo d’ira e risentimento, “Avresti dovuto mirare a papà, non a quell’idiota di Terence. Dopo la tua drammatica uscita di scena, ne è passato di tempo prima che riuscissi a liberarmi di quel mostro. E tu dov’eri?” gli arrivo ad un palmo di naso e affondo nei suoi occhi azzurri, identici a quelli di Amos, “Adam, perché mi hai abbandonato?”
Il coltello riappare tra le mie dita, non so come, così lo stringo e lo affondo nello stomaco di mio fratello, dove apro uno squarcio. Si ripete il medesimo scenario di prima, solo che non mi sfogo contro Adam come ho fatto con mio padre. Adam mi voleva bene, lo so, e sono consapevole che ciò che mi ha fatto non l’ha fatto volontariamente. Lo pugnalo più volte sul busto, lo trafiggo all’inguine per rimembrargli la sua colpa, poi lo afferro per la cute, lo giro di schiena e gli poso la lama sulla gola.
“Ti amo, Adam, anche se l’omicidio di cui ti sei macchiato è stato inutile, purtroppo. Ti amo e continuerò a farlo, tuttavia ora devi morire e pagare per il dolore che mi hai inflitto, allo stesso modo di papà.” gli dico all’orecchio.
Ormai è in fin di vita e il cuore sta pompando molto lentamente. Pochi minuti, forse un paio, e scivolerà nel gelo della morte.
“Avrei voluto essere come te.” 
Gli piego la testa verso sinistra, intercetto le sue labbra e lo bacio con trasporto, assaporando il gusto del sangue sulla lingua. 
“Avrei voluto essere immune alla depravazione di papà, avrei voluto essere brutto, deforme, con un qualche disturbo mentale, qualsiasi cosa che potesse impedirgli di sfruttarmi. Ahimé, sono nato con questo corpo e sfortunatamente pure con una discreta intelligenza. Il mio aspetto ha contribuito a trasformarmi in una preda, ma non lo rinnegherò, perché non ho scelto io di venire al mondo così.”
Gli accarezzo gentilmente una guancia.
“È giunto il momento di cancellarti.” sollevo il coltello in aria, nella parodia dell’arcangelo Gabriele che sconfigge l’orda demoniaca, “Io ti uccido, Adam, figlio di Dio.” sibilo trionfante.
Calo l’arma e un arco scarlatto si disegna nell’aria, schizzando impetuoso dal taglio sulla gola di mio fratello. Mollo la presa sui suoi capelli, chiudo gli occhi e sospiro, sentendomi più leggero. Quando li riapro, al posto del cadavere di Adam c’è la statua di Gesù Cristo, o ciò che ne resta. Le schegge di legno sono volate dappertutto e frammenti del crocifisso sono sparsi caoticamente qua e là, come se fosse esploso.
“Archie.”
Samael?
Mi giro di scatto e mi imbatto nel mio maestro, nel mio angelo, che mi porge una mano dallo specchio in un esplicito invito ad avvicinarmi. Sorrido rassicurato, lascio cadere il coltello, che rimbalza sul marmo con un tintinnio metallico, e mi dirigo verso di lui senza esitare. Alle mie spalle, le candele si spengono una dopo l’altra, come vittime di una leggera raffica di vento, e l’illusione si sgretola e torna ad essere cenere vorticante.

Mi ridesto come se riemergessi da una prolungata apnea e annaspo alla ricerca d’aria. 
Sono ancora in discoteca, sulla pista da ballo, e sembra non essere trascorso più di un secondo. Una lacrima mi riga la guancia e Samael la raccoglie prontamente su un polpastrello.
“Ecco, l’ultima stilla di purezza…” la contempla come ipnotizzato, “Qui dentro è racchiusa la più intima essenza della tua anima, il baluardo finale del tuo candore.” se la porta alla bocca e la lava via con la lingua.
Serra le palpebre e trema, impossibile dire se di piacere o disgusto, ma il sorriso che mi rivolge subito dopo mi suggerisce che ha gradito. Le percussioni mi rimbombano nello sterno, ogni cellula del mio corpo vibra e la testa è leggera come una piuma. L’impressione di essere cambiato è ancora più forte e il fumo che sale in spirali verso il soffitto non è più un nemico, il serpente maligno che vuole avvilupparmi tra le sue spire. È parte di me, ora.
“Ah, dovresti vederti, Archie.” sospira il demone, “Sei uno splendore! Ne ero sicuro.” mi adula e mi fa voltare per riflettermi in uno degli specchi attaccati alle pareti del locale.
Ammiro la mia immagine e quasi non mi riconosco. Gli occhi color malva brillano come lava liquida, la pelle ha assunto un pallore spettrale e conturbante, è serica e priva di imperfezioni, mentre i capelli castani si sono liberati dalla consueta costrizione dell’elastico e si sono adagiati in soffici onde sulle mie spalle. Non sono più umano. È una certezza che striscia nella mia coscienza e mi pervade di un’euforia inaspettata.
“Che ne dici, ti troviamo un nome?”
“Eh?” chiedo perplesso.
“Ogni demone che si rispetti ha un nome importante, un nome che lo rappresenta, che fa tremare gli esseri inferiori di paura. ‘Archie’ non ti calza più a pennello, è troppo… non mi viene la parola giusta.”
Sì che la sa, ma vuole farla pronunciare a me.
“Umano.” scandisco.
“Precisamente! Ne ho pensato uno che potrebbe essere adatto, ma la scelta spetta a te.”
“Ti ascolto.”
“Alastor.”
“Alastor? Ha un significato?”
“Sì, vuol dire ‘vendicatore’. Sai, nella mitologia greca era lo spirito delle lotte famigliari. Egli è stato anche associato con i peccati che si tramandano dal padre al figlio.” mi scocca un sorrisino insinuante, “Nella mitologia romana, invece, ha incitato le persone a uccidere e a compiere altri peccati. Secondo la leggenda, era un mortale, in origine, poi è stato abbassato di grado a demone minore dopo che lui e suo fratello uccisero Eracle. Nella mitologia greca classica, Alastor era anche il soprannome di Zeus, in qualità di punitore delle malefatte e giudice universale. Non è un caso che la ‘figura alastoriana’ sia sovente associata al fulmine. Alastor è anche il nome di uno dei cavalli che trainano il carro di Ade. Beh, che te ne pare? Mi sembra azzeccato.”
“Wow… ma non è che il vero Alastor poi si offende?”
“Il vero Alastor? No, no, questo spirito non è mai esistito, è soltanto frutto di antiche superstizioni. Tranquillo, al momento non è usato da nessuno. Non ti avrei mai proposto un nome di uno spirito o un demone realmente esistenti, altrimenti si farebbe confusione.”
“Allora vada per Alastor.” annuisco e mi guardo allo specchio, “Io sono Alastor, emissario di Sua Eccellenza Oscura, e sono qui per riscuotere la tua anima!” recito e mi metto in posa tipo James Bond, fingendo di aver in mano una pistola.
Samael ridacchia, poi mi afferra per i fianchi e mi fa piroettare in mezzo alla pista, mentre gli altri ballerini, ignari della nostra presenza, continuano a strusciarsi e ad irradiare effluvi tossici.









*Siddharta: nome secolare del Buddha. 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Exurge Domine ***








 

Le grida disperate del cliente mi perforano le orecchie come una cacofonia di suoni molesta, ma mi trattengo dal coprirmele con le mani, nonostante la tentazione sia forte. D’altronde, devo mantenere il contegno di un messaggero del Diavolo, non posso comportarmi da femminuccia isterica. Lo osservo dimenarsi sul pavimento di cucina, nel suo modesto bilocale al quarto piano di un edificio del ghetto parigino, e non riesco a reprimere un sorriso soddisfatto. L’uomo agonizzante ai miei piedi, di una quarantina d’anni, protende una mano ossuta con l’intento di agguantare la mia caviglia, ma faccio un passo indietro per impedirgli di toccarmi con le sue dita adunche e lo guardo a metà tra l’indifferente e il trepidante, curioso di scoprire in quale girone precipiterà.
“Ti prego, aiutami! Farò qualsiasi cosa, lo giuro!” implora con la voce rotta dal pianto, mentre si gratta via con le unghie le pustole infette che sono esplose sul suo viso butterato, in risposta alla riscossione del contratto.
Quando gli ho restituito una fiala contenente il suo sangue, pochi minuti fa, essa si è frantumata in mille pezzi alla minima pressione e il contenuto è schizzato sulla sua faccia, provocandogli una reazione istantanea e piuttosto disgustosa, come fa l'acido.
Schiocco la lingua infastidito e dentro di me avverto il bisogno di sputargli addosso farsi sempre più impellente.
Poi, nella moquette, a pochi centimetri di distanza dal mio cliente, si apre una voragine dalla forma rotonda e i bordi frastagliati, come fatti di roccia, da cui fuoriescono lingue di fuoco e urla raccapriccianti. Delle mani nere e grinzose, tanto da dare l’idea di essere state abbrustolite ben bene su una griglia, lo afferrano per la gola, affondando gli artigli ricurvi nella carne del collo, e lo trascinano giù, sorde alle vane suppliche e ai rantoli strozzati del peccatore. Mi sporgo nel buco in cui ardono vivaci e crepitanti le fiamme dell’Inferno, quel tanto per sbirciare, appunto, in quale cerchio quell’infame verrà scaraventato. Lo vedo venire risucchiato nel settimo, quello dedicato ad ogni manifestazione di violenza, precisamente nel girone dei colpevoli di omicidio. Personalmente lo avrei spedito nell’ottavo cerchio, nella settima bolgia, quella dei ladri, ma va bene anche il girone degli omicidi. Infatti, dopo aver ucciso trentadue persone, il suo destino non avrebbe mai potuto essere rose e fiori. In pratica, tale signor Gouvion, è stato un ladro di professione, uno scassinatore, ma negli ultimi tredici anni si è dato alla pazza gioia, grazie al patto col Diavolo, che gli aveva dato la possibilità di sfogare il suo istinto di psicopatico senza il timore di venire arrestato dalla polizia.
Osservo dentro l’abisso e una vampata di calore bruciante mi schiaffeggia il volto. Prima che la voragine scompaia, faccio in tempo a scorgere la struttura a spirale dei cerchi: sono predisposti a terrazzamenti, impossibile calcolare a quanta distanza l’uno dall’altro, e sull’orlo di ciascuno di essi, col pericolo di cadere nell’Utero, intravedo i peccatori che si muovono in maniera caotica e per niente naturale, come se per loro non valessero più le leggi dell’anatomia o della fisica. Mi sembrano dei mostri, come quelli di alcuni film horror, privi di articolazioni fisse e capaci di compiere contorsioni orribili. Urlano e gemono, alcuni ridono, per giunta. 
Ad un tratto, delle ombre nere, alte e scheletriche attirano la mia attenzione. Queste si aggirano fra le anime dei dannati senza toccarle, ma al loro passaggio le grida si intensificano e diventano assordanti e i peccatori si accasciano sulle braci che sfrigolano sotto i loro piedi con espressioni vacue o terrorizzate. Una di quelle creature alza lo sguardo e incrocia il mio: nelle sue orbite prive di palpebre brillano delle iridi nere e profonde, immerse in una sclera così bianca che rifulge in modo inquietante in quella luce arancione. Potrebbero sembrare occhi normali, benché esageratamente grandi per la mancanza delle ciglia, ma in un secondo mi provocano una scarica di brividi lungo la spina dorsale e per la prima volta dopo anni mi ritrovo a provare una paura cieca e primitiva. 
Il portale si richiude e la moquette torna intatta.
Ok, lo ammetto: sono scioccato. Se avessi ancora un cuore, starebbe battendo all’impazzata. Mi è venuta la pelle d’oca. Cosa mi è saltato in mente? Non è il mio lavoro ficcanasare in giro. Accidenti, spero di non aver provocato un casino o destato la collera di qualche demone, laggiù, perché non voglio più averci nulla a che fare con quei… cosi. Una volta mi è bastata.
Deglutisco e mi accorgo di avere ancora i nervi tesi e vigili, talmente contratti che è arduo persino cercare di muovere un dito. Sono rimasto letteralmente paralizzato dal terrore e quegli occhi danzano ancora davanti a me come se fossero reali. Finora solo mio padre era riuscito a suscitare in me questa sensazione, ma non credevo di poterla sperimentare di nuovo, non adesso che sono un demone a tutti gli effetti. Quindi anche i demoni sanno cos’è la paura. Samael l’ha mai provata? Quando? Voglio chiederglielo.
Il silenzio ammanta l’ambiente in cui sono venuto a ripescare il mio cliente e l’aria stantia, con un leggero effluvio di nicotina, mi aiuta a rilassarmi un pochino. Sono odori nauseanti, ma appartengono a questo mondo, e il pensiero di essere davvero qui, in questo bilocale parigino, con i piedi ben piantati sul pavimento, mi tranquillizza. Stringo la valigetta e mi massaggio l’attaccatura del naso, nel tentativo di riacquisire il controllo di me stesso e delle mie percezioni. La finestra dell’appartamento è aperta e da essa, insieme alle luci dei lampioni e i rumori delle macchine, entrano dei sottili fili di fumo nero, che mi circondando come richiamati dal canto di una sirena. Rimango immobile, so che non mi faranno del male, e i loro leggeri sfioramenti assomigliano alle gentili carezze di un amico, quasi vogliano consolarmi e calmarmi. Scrocchio il collo ed esalo un sospiro, rilasciando tutto lo stress e la tensione accumulata. Poi mi volto ed esco dalla porta d’ingresso, pronto a ricongiungermi con Samael, che mi aspetta in albergo.
Sono passati cinque anni da quando ci siamo stabiliti a Parigi e ormai questa città è diventata il nostro terreno di caccia. Durante questo periodo non ho mai incontrato altri demoni, tanto meno esponenti della fazione avversaria, come gli Exurge Domine, e tutto pare procedere liscio come l’olio, senza eventi degni di nota. 
Il rapporto con Samael, col trascorrere del tempo, si è fatto più intimo ed esattamente quattro anni fa sono riuscito a sconfiggere i miei incubi e a donarmi a lui in veste di amante. È stato bellissimo e il mio maestro e compagno si è preso cura di me come mai nessuno aveva fatto. È stato perfetto, premuroso, accorto, lento e non c’è stato dolore, ma soltanto un’avviluppante coltre di piacere ed estasi che mi ha invaso le membra e il cervello. I nostri corpi si sono fusi, si sono incastrati come pezzi di un puzzle, in un’armonia che non avrei mai immaginato di poter raggiungere. Da allora abbiamo condiviso il letto molte volte ed ognuna è stata speciale, diversa da quella precedente. Il mio attaccamento verso di lui è aumentato a dismisura e non saprei come descrivere il legame che ci unisce se non con la parola “amore”. È stupido, ne sono consapevole, perché in quanto demone non dovrei essere più in grado di provare questo sentimento, così umano e puro, però avverto che è qualcosa di molto simile e molto intenso, una comunione spirituale e carnale che potrebbe essere inserita legittimamente sotto questa etichetta. Samael mi ha detto che le emozioni non sono estranee ai demoni, così come agli angeli, ma i primi non se ne lasciano influenzare e le rilegano in un anfratto remoto della loro essenza, per non mostrare punti deboli. 
Tuttavia, come spiegare le sensazioni che mi pervadono quando mi bacia, l’eccitazione mista a felicità che fa palpitare il mio cuore quando mi abbraccia stretto, come se non volesse più lasciarmi, i sorrisi che mi rivolge appena i nostri occhi affogano gli uni negli altri e le carezze che mi dona quando mi appoggio a lui, alla fine di una stancante giornata di lavoro? Un senso di appagamento e serenità che mi è sempre stato ignoto e incomprensibile, finché non l’ho scoperto con Samael. Non ha mai confessato di amarmi, ma ha più volte dichiarato che sarebbe disposto ad ammazzare chiunque, mortale, demone o angelo, pur di tenermi con sé, prigioniero della sua aura sulfurea e del calore innaturale irradiato dal suo corpo. Il meccanismo di soffocante dipendenza che si è innescato quando mi sono trasformato non accenna ad esaurirsi e continua a pulsare come un organismo vivente dentro di noi, attirandoci l’uno verso l’altro come una calamita, un’inarrestabile forza magnetica alla quale è impossibile opporsi.
Esco in strada e salgo sulla limousine, impaziente di incontrare Samael per trascorrere qualche ora di tranquillità con lui. Mentre l’auto sfreccia per i viali trafficati, fisso il mio riflesso al finestrino, constatando che, nonostante abbia compiuto ventotto anni, la mia crescita si è arresta quella notte in discoteca. Sono rimasto identico a come ero cinque anni fa e la cosa non mi dispiace affatto. Non sono mai stato un narcisista e, anzi, ho sempre detestato il mio aspetto delicato e vagamente femmineo, che ha spinto mio padre ad abusare di me. Però il mio maestro mi ha insegnato pian piano ad apprezzarlo ed ora sono contento di possedere questi lineamenti armoniosi e dolci, che a lui piacciono tanto.
All’improvviso mi viene da ridere al realizzare che tra me e me lo chiamo ancora “maestro”. Sì, è vero, non ho ancora concluso il mio apprendistato, se così si può definire, perché Samael mi ha spesso ribadito che durante il primo periodo è molto difficile ignorare la Luce e occorre seguitare ad allenarsi sotto la tutela di un supervisore più esperto. Eppure non sono più un giovane novizio. Attualmente posso vantare un cospicuo bagaglio di esperienze e una certa abilità nel destreggiarmi con i contratti e le riscossioni, tanto che Samael si gonfia sempre d’orgoglio quando torno in hotel per raccontargli i particolari.
La limousine mi scarica di fronte alle porte girevoli dell'hotel ed io schizzo fuori, diretto all’ascensore, senza badare al via vai di gente che mi circonda, tutta ammassata nella hall. 
Ad un certo punto, poco prima di entrare nella scatola di latta che mi porterà al penultimo piano, dove c’è la suite che condivido con il mio demone, percepisco qualcosa di strano sulla pelle, come se una forza invisibile stesse premendo sulle spalle e sulla schiena. Mi giro di scatto, a disagio, con l’impressione di essere osservato in modo insistente, ai limiti della maleducazione, ma intorno a me non vedo nessuno. Un gruppo di turisti americani è in fila alla reception, le valige ammonticchiate vicino ad una colonna poco distante, e il resto dei clienti sono seduti su delle comode poltroncine in attesa del loro turno o di qualche mezzo per tornare in aeroporto. Annuso l’aria, ma non sento niente di insolito: c’è soltanto il familiare fetore umano che impregna persino le pareti, ma nulla che faccia presupporre la presenza di “altri”.
Scrollo la testa - forse sto diventando paranoico - mi infilo nell’ascensore e premo il pulsante del piano.
“Alastor,” mi accoglie Samael con un sorriso nervoso, “abbiamo un incarico.”
Mi piaceva di più quando mi chiamava Archie, ma ormai mi sono abituato al mio nuovo nome.
“Non mi merito nemmeno un bacino, stavolta?” borbotto imbronciato, poi strabuzzo le palpebre, “Eh?! Che incarico? Adesso? Nooo, è tardi! Non possiamo farlo domani?”
“No, è urgente. Secondo le informazioni, gli Exurge Domine sono invischiati nella faccenda.”
“Cosa?!”
“Andiamo.” dice sbrigativo, già vestito in maniera impeccabile, e si fionda a razzo nell’ascensore, valigetta alla mano.
“Di che si tratta? Sam, aspettami!”
Lo seguo a ruota ed entro un attimo prima che le porte si chiudano dietro di me.
“Mi spieghi che succede? Dove siamo diretti?”
“A Notre-Dame.”
“Uh!” esclamo colpito.
Una cattedrale. A chi apparterrà l’anima che dobbiamo scagliare all’Inferno? Un prete, forse. O una suora. Prevedo risvolti interessanti. 
Scruto di sottecchi Samael, che mi sembra un po’ troppo agitato per i miei gusti. Perché è così rigido? Perché non mi sorride rassicurante come al solito?
“C’è qualcosa di grosso sotto?” indago, distogliendo lo sguardo e puntandolo sulla pulsantiera.
“Qualcosa del genere.”
“E l’Exurge Domine cosa c’entra?”
“Potrebbero interferire. Non dovrebbero farlo, ma è possibile. Stai all’erta.”
“Ricevuto.”
Il viaggio in limousine lo passiamo in silenzio. Samael è molto preoccupato, lo noto da come contrae la mascella e da come i suoi occhi saettano da un lato all’altro dell’abitacolo. È la prima volta, da quando lo conosco, che lo vedo ridotto in questo stato. Mi mordo il labbro inferiore e poi mi decido: mi sporgo verso di lui e gli stampo un bacio su una guancia, intrecciando la mia mano con la sua, stretta a pugno in grembo. Si gira e mi regala un leggero sorriso di gratitudine. Le nostre fronti aderiscono e rimaniamo a fissarci per incalcolabili minuti, sospesi in un eterno momento di intima quiete.
“Promettimi che non ti allontanerai mai da me.” mormora, accarezzandomi il dorso della mano con il pollice.
“Lo prometto.”
“Se la situazione prenderà una brutta piega, promettimi che scapperai.” aggiunge e mi circonda il viso con il palmi, sollevandolo un poco.
“Perché dovrei…?” affogo nelle sue iridi del colore delle braci sonnecchianti e sospiro rapito.
“Promettilo e basta.”
Deglutisco e gli faccio un cenno d’assenso. Decisamente c’è qualcosa di strano.
Riassume una posizione composta e per il resto del tragitto mi ignora, assorto a guardare il paesaggio notturno fuori dal finestrino.
Veniamo scaricati in prossimità della cattedrale e scendiamo dalla macchina in religioso silenzio. Per fortuna non c’è gente in giro, solo qualche sparuto turista americano mezzo ubriaco che barcolla alla ricerca di un taxi. Sono le tre e tutto è immerso in una placida quiete. Sebbene non sia la prima volta che mi trovo a passeggiare davanti a Notre-Dame, la bellezza dell’architettura mi lascia senza fiato. Con le sue torri e le sue guglie che paiono toccare il cielo, i gargoyle che osservano in basso e sorvegliano la città, accucciati sulle balaustre, con le facce ghignanti, le fauci spalancate e le ali ripiegate, le vetrate in stile medievale, alte e strette, il rosone finemente scolpito con arabeschi e la pietra scura delle mura, tutto questo conferisce un’atmosfera misteriosa e cupa all’imponente struttura. 
Ora che ci penso, ci è permesso entrare in una chiesa? Non mi è mai passato per la mente di farlo, anche perché non ho mai avuto un valido motivo per recarmi nella casa di Dio.
“Sam, sei sicuro che nessuno si arrabbierà se sconfiniamo in territorio nemico?”
Lui si blocca, piega la testa nella mia direzione e mi squadra con sussiego. Poi ridacchia.
“Alastor, credevo avessi letto la Bibbia, ormai.”
“Ehm… ce l’ho sulla lista delle cose da fare.” bofonchio imbarazzato.
Samael sospira e si liscia i capelli con una mano. 
“Gesù Cristo non ordinò mai che venissero costruite delle dimore di legno e pietra per adorare Dio e deprecò il culto delle immagini, esortando i fedeli a pregarlo nel proprio cuore e non solo ed esclusivamente in edifici creati dall’uomo o di fronte ad un crocifisso. Gli esseri umani si illudono che il Male non possa entrare nelle chiese, ma in realtà queste non hanno mai posseduto un vero potere repellente. Se un demone non riesce a farsi largo in una delle case del Signore, significa che colui che la custodisce, cioè il sacerdote, ha una fede inattaccabile, molto forte, capace di sconfiggere il Male. Ma, di norma, i preti non eccellono per virtuosismo e principi morali, anche se dovrebbero essere pastori di pecore. Molti, come ben sai, sono più sporchi di un criminale incallito e ateo. Notre-Dame non fa eccezione. Stanotte possiamo entrare, perché il prete è uscito dalla grazia di Dio proprio ieri. Lucifero in persona mi ha spronato ad occuparmene, poiché ciò che avverrà tra qualche minuto pianterà il seme di una rivolta.” conclude solenne e non posso fare a meno di rabbrividire.
Inspira l’aria frizzante a pieni polmoni e volge lo sguardo al firmamento punteggiato di stelle. 
“Non senti niente, Alastor? Non percepisci la terra e tutto il Creato vibrare e scuoterti dentro? Tutti stanno osservando, tutti stanno aspettando. Noi saremo gli attori e ci muoveremo sul palcoscenico recitando le nostre battute. Dopodiché, il pubblico farà la sua mossa.”
“Per ‘pubblico’ intendi…?”
“Gli Exurge Domine. Sono già qui.” ghigna e in questo momento so che è tornato ad essere il mio amato demone e non più quell’ombra tetra dall’espressione lugubre che è stato in limousine.
Successivamente, realizzo il senso delle sue parole e sgrano gli occhi: “Sono qui? Dove?”
Perlustro con crescente agitazione ogni palazzo, ogni finestra, ogni tetto, ma non scorgo e non avverto alcuna presenza ostile.
“Fidati, sono molto vicini. Hanno il fiato sospeso. Se non li vedi, vuol dire che non vogliono farsi vedere. Andiamo.”
Il portone d’ingresso è sigillato, ma Samael mi fa strada verso una porticina laterale, adibita al transito dei preti o dello staff. È aperta. I nostri passi non producono alcun rumore sul pavimento, i nostri respiri sono fievoli e a malapena udibili e le tenebre regnano sovrane in ogni angolo, tanto che per un occhio umano sarebbe assai arduo distinguere i contorni delle panche e delle colonne che separano la navata centrale da quelle laterali. Le volte a sesto acuto sul soffitto, gli affreschi a tema religioso e i simboli sacri mi suscitano un certo disagio, ma se Samael è tranquillo e padrone della situazione, beh, voglio esserlo anch’io.
Attraversiamo la cattedrale fino all’altare e mentre cammino mi soffermo a fissare il viso sofferente di Gesù Cristo. È identico a quello che ho visto nella mia visione, cinque anni fa. Sulla destra c’è un’altra porticina di legno, che con ogni probabilità conduce alla sagrestia, ma stavolta è chiusa. Samael sfiora con due dita la serratura, che scatta senza problemi, permettendoci di procedere. Non ho idea di quanti corridoi percorriamo e quante scale saliamo, è come un labirinto, ma dopo un po’ mi rendo conto che ci stiamo inerpicando sui ripidi gradini di una delle due torri della facciata. Se fossi ancora mortale, a quest’ora avrei già il fiatone e le gambe a pezzi per la fatica. 
Giungiamo sulla sommità e a ridosso del balcone che aggetta sulla piazza vediamo la sagoma di un uomo. Di primo acchito dimostra una quarantina d’anni, ma è difficile affermarlo con sicurezza, dato che mi dà le spalle.
“Sapevo che sareste venuti.” scandisce in un francese molto chiaro, “Ho fatto un sogno, ieri notte, che mi annunciava il vostro arrivo.”
Si gira e le luci della strada illuminano appena il suo viso. È giovane, sicuramente ha meno di quarant’anni. Ha i capelli corti e castani, gli occhi piccoli e marroni e una faccia dai tratti spigolosi. Sul naso porta un paio di semplici occhiali dalla montatura rettangolare e sul torace, attaccato ad una catenina d’oro, brilla un crocifisso. Indossa la divisa nera da sacerdote, col colletto bianco e rigido. All’apparenza mi dà l’impressione di una persona gentile, sarà per la calma che scorgo riflessa nei suoi occhi, e non mi trasmette alcuna sensazione di ribrezzo. Non scorgo nemmeno le familiari volute di fumo nero, che normalmente vengono sprigionate dal corpo del peccatore. È veramente lui il nostro uomo? Non riesco a capirlo, tutto lascia supporre il contrario. Tuttavia, il mio maestro non si sbaglia mai, perciò deve esserci qualcosa che non va con i miei sensi sviluppati. 
La postura del prete è rilassata, le mani sono intrecciate dietro la schiena, e non emana ostilità, quanto piuttosto un’aura pacifica e innocua. Egli sorride cordiale e una raffica di vento fa svolazzare le falde della sua tunica.
“Perdoni il ritardo.” risponde Samael con lo stesso tono.
“No, no, nessun ritardo, non si preoccupi.”
“Ottimo, allora cominciamo.” 
Il maestro estrae dalla valigetta una Bibbia, con la copertina di pelle nera e la scritta dorata. Comprendo subito che è preziosa e la rilegatura pare fatta a mano.
“Oh! Dove l’avete presa? Sembra proprio la mia! Ma l’ho lasciata un paio d’ore fa nei miei alloggi.” esclama sorpreso il prete, protendendosi verso di noi per studiare l’oggetto.
“Trucchi del mestiere. Dunque,” Samael brandisce la Bibbia e ghigna, cominciando a misurare a piccoli passi l’esigua superficie della torre, “lei è Albert Felix Duvonne, giusto?”
“Giusto.” annuisce.
“Mi conferma che ieri, alle ore sette e trenta della sera, ha ripetutamente violentato uno dei bambini a cui insegna catechismo, per di più autistico?”
Mi ghiaccio, incredulo davanti a questa rivelazione. Non è possibile. Non sono stupito del fatto che un prete si sia reso colpevole di stupro, purtroppo non è una cosa rara. Ciò che mi coglie alla sprovvista è il fatto che non percepisco ancora niente, neanche una minima traccia di peccato o l’odore di zolfo che accompagna chi si è dannato l’anima perpetrando azioni turpi su degli innocenti, come se già l’Inferno lo avesse marchiato come sua proprietà. Ah, aspetta un secondo. Esatto, non percepisco niente. È forse questa la chiave di lettura?
Analizzo meglio Duvonne, scandaglio ogni particolare con meticolosità e all’improvviso mi accorgo che non fiuto nemmeno la dolce fragranza della purezza. Quest’uomo è… come dire… trasparente. Ma non di una trasparenza che potrebbe far pensare al cristallo, al candore o ad una persona che può essere letta o decifrata come un libro aperto. Si tratta, al contrario, di una trasparenza innaturale, sporca. Ecco, è “un’assenza” totale, che mi disorienta e mi fa indietreggiare, quasi mi sia imbattuto in un mostro.
“Sì, corretto.” dichiara.
“E mi conferma che dall’età di quattordici anni ha istigato al suicidio diversi giovani e adulti per puro divertimento e manie di onnipotenza?”
“Sì.”
“Inoltre, dieci anni fa ha officiato un rito satanico nella campagna vicino a Giverny ed ha ucciso, stuprato e sgozzato cinque donne.”
“Esatto.”
Sono sempre più sconcertato. Cos'è, la fiera degli orrori? La lista sembra ancora lunga.
“Ha compiuto sacrifici umani e animali, ha distrutto intere famiglie fingendosi una guida spirituale saggia e disponibile, ha esorcizzato dei poveri malati mentali senza il consenso del Vaticano ed ha avuto una relazione clandestina con sedici suore, dieci delle quali le ha messe incinte. Dopodiché, ha ammazzato i suoi stessi figli quando erano appena nati e ha bevuto il loro sangue durante la cerimonia dell’eucaristia, al posto del vino.” elenca Samael, come se stesse esponendo dei progetti per le vacanze, “È tutto o ho dimenticato qualcosa?”
“No, è tutto. Anzi, a cinque anni ho avvelenato il mio cane.”
“Mi scusi, mi era sfuggito.”
“Non si preoccupi.”
“Fermi un attimo!” li interrompo bruscamente, “Coma accidenti ha fatto, signor Duvonne, a uscire dalla grazia di Dio solo ieri? Avrebbe dovuto già essere stato condannato all’Inferno sin dalla tenera età!”
“Alastor, stai buono.” mi blandisce il maestro, ma io non posso restarmene zitto a guardare, voglio conoscere la verità. 
Che diamine, un tizio del genere da dove spunta fuori?
“Risponda, per favore.” ridimensiono un po’ i toni e incrocio le braccia sul petto, riducendo gli occhi a fessure minacciose.
“Non ne ho la più pallida idea.” mi spiega sincero il sacerdote e mi regala un sorriso.
“Calmo, tra poco te lo dirò.” mi promette Samael.
Annuisco imbronciato e mi appoggio allo stipite della porta da cui siamo sbucati, con la scala a chiocciola alle mie spalle.
“Quindi, signor Duvonne,” riprende, “come ha ben arguito, Dio l’ha abbandonata. Di conseguenza, noi emissari di Sua Eccellenza Oscura siamo venuti a scortarla nelle viscere dell’Inferno, dove verrà consegnato ai demoni che la relegheranno per sempre nel girone a lei più confacente. Ha domande? Perplessità? Rimostranze?” chiede educato, fin troppo secondo me.
“Ho solo un appunto da farvi.” alza l’indice e lo punta sul crocifisso che gli pende dal collo, “Il Signore mi ha abbandonato solo temporaneamente. Presto tornerò nelle Sue grazie.”
“Come mai ne è così sicuro?”
“Dio accetta coloro che si pentono. Ogni volta che mi macchiavo col peccato, mi pentivo intimamente e aprivo il mio cuore a Lui. Mi ha sempre perdonato.”
“È davvero convinto che la passerà liscia anche ora?” sputo pieno di odio.
“Alastor, a cuccia.”
Sbuffo e mi zittisco di nuovo.
“Va bene, signor Duvonne, allora scopriamo insieme se, effettivamente, sia i Cieli che l’Inferno sono d’accordo con lei.” proferisce affettato e gli lancia addosso la Bibbia.
Ma il prete si scansa e il pesante volume atterra sulla pietra con un tonfo. Non accade nulla. Mi aspettavo che il libro si animasse e risucchiasse Duvonne in un abisso di fuoco, invece tutto rimane immobile e silenzioso. Samael fissa sbigottito la Bibbia, ma poi rivolge all’uomo un ghigno trionfante. Cos’ha da sorridere? Abbiamo palesemente perso! Questo qui la farà franca!
“Qualcosa la diverte, signor…?”
“Fires.”
“Un nome, un programma. Perché sta sorridendo?”
“Perché, ad essere onesto, non me ne importa un accidente della fine che farà lei. Mi interessano solo le ripercussioni che questo fatto avrà nel mondo e la luce che getterà sull’istituzione ecclesiastica.”
Duvonne aggrotta le sopracciglia, confuso: “A cosa si riferisce?”
“Non è affar suo.” sibila e le sue iridi rifulgono come lava liquida, vive e guizzanti, “Lei continui pure con il suo teatrino, perché le posso assicurare che a nessuno di noi frega niente. Ho ottenuto quello che volevo, adesso tolgo il disturbo. Vieni, Alastor.”
“Tutto qui? Non cercherete di prendere la mia anima con la forza?” domanda basito.
A giudicare dalle sue parole, deduco che si aspettasse di dover combattere una guerra contro i messaggeri del Diavolo. Sinceramente, anch’io ho creduto che la vicenda avrebbe preso quella piega, ma a quanto pare mi sono sbagliato.
“Il contratto non ha reagito, segno che, proprio come lei ha asserito dianzi, Dio presto tornerà dalla sua parte. Tanti saluti, arrivederci.”
Schizza giù per le scale ed io mi ritrovo a correre per stargli dietro, attento a non inciampare sui gradini scoscesi e usurati dal tempo. 
Se proprio devo mettere le mie impressioni nero su bianco, tutto si può riassumere in una banale frase: non ci ho capito un fico secco. Che senso ha avuto venire fin qui? Qual è il piano di Samael?
“Alastor, stammi vicino. Anzi, stammi incollato.”
“Perché? Cosa succede?”
“Shhh.”
Spuntiamo nella navata centrale e la percorriamo a grandi falcate. Sento l’agitazione di Samael come se fosse la mia. La mia pelle formicola ed è attraversata dai brividi, mentre un macigno mi si è depositato sullo stomaco da circa un minuto. Mancano solo una decina di passi e finalmente saremo fuori. Non vedo l’ora di farmi un bel bagno caldo e sdraiarmi sul letto. Però, appena finisco di formulare tali pensieri, delle ombre si parano dinanzi a noi, sbarrandoci l’uscita. Sono quattro e i loro visi sono nascosti da un cappuccio. Per un misero istante mi viene quasi da ridere, perché sembra tanto la scena di un film, quando appaiono i tanto famigerati giustizieri. 
Samael arresta la sua carica di botto e per poco non vado a sbattere contro la sua schiena.
“Consegnaci il registratore, demone.” esordisce uno di quei loschi figuri.
Registratore? Quale registratore?
Spiazzato e vigile, punto lo sguardo sul mio maestro, impaziente di ricevere risposte, ma lui non distoglie il suo da quegli uomini. Un vago sentore di pericolo inizia a serpeggiarmi nei muscoli e l’ansia acuisce i miei sensi, li rende sensibili a qualsiasi stimolo e pronti a scattare al minimo cenno di Samael. Non ho mai lottato contro qualcuno, non ho mai fatto a botte o partecipato a risse, né tanto meno usato i miei poteri per altri scopi che non fossero riscuotere anime. Cosa dovrei fare in una simile circostanza? 
Attendo istruzioni dal mio mentore, ma pare che la sua attenzione sia stata completamente assorbita dagli ultimi arrivati.
“D’accordo.” acconsente Samael e con un gesto indica la mia valigetta.
“Cosa? È qua dentro?” balbetto allibito.
“Dagliela.” mi ordina.
Io la lancio ad uno di quegli individui incappucciati, che l’agguanta prima che tocchi il suolo. A quel punto, dalla valigetta fuoriescono numerosi tentacoli neri, che avvolgono i quattro in spesse spirali di fumo denso e tossico.
“Ora! Alla porta, presto!” sussurra concitato Samael.
Mi aggrappo alla manica del suo cappotto e mi faccio trascinare, troppo stordito per suggerire alle mie gambe di accelerare e troppo occupato ad osservare la scena. Siamo in prossimità della soglia, vicinissimi, quando un’onda d’urto ci scaraventa all’indietro e ci proietta sulle panche con una forza inaudita. Con la coda dell'occhio vedo una luce azzurra che risucchia il fumo della valigetta, lo divora e lo ingloba, neutralizzando il suo potere infernale. Comprendo immediatamente che abbiamo perso un’occasione d’oro per fuggire, anche se non ho idea di cosa sia accaduto.
Mi rialzo in piedi, incolume, e Samael fa lo stesso. Alcune panche si sono rotte all’impatto e le schegge di legno sono volate dappertutto. Fronteggiamo i nemici, tesi come prede braccate.
“Bel trucchetto!” esclama uno di loro, “Avrebbe potuto funzionare, se non avessimo predisposto una barriera intorno al perimetro della cattedrale. Siete in trappola.”
Il cappuccio gli scivola sulle spalle, rivelando un aspetto, oserei dire, quasi angelico. È un uomo bellissimo, con i capelli lunghi, biondi e ricci e gli occhi celesti. I lineamenti aristocratici gli conferiscono un’aura regale, ma qualcosa in lui mi fa tremare di paura.
Chi sono?
“Finiamola qui. Dateci il registratore e vi lasceremo andare.” ci intima.
“No.” risponde Samael, scrollando le spalle come se fosse ovvio.
Perché? Che importanza può avere un registratore? Che diamine sta architettando?
“Allora, preparatevi ad essere distrutti.”
“Queste frasi a effetto puoi risparmiartele, Spennato, sono demodé.”
“La sostanza non cambia.”
Avverto lo spostamento d’aria troppo tardi e di nuovo vengo catapultato all’indietro. Cozzo con la nuca sul bordo dell’altare, mentre Samael atterra su altre panche.
“Hey, tu! Qual è il tuo nome? Declamalo ora!” mi grida il biondo, ma l’intontimento che mi annebbia il cervello mi impedisce di mandarlo a farsi fottere come si deve.
“Silv, secondo me è un novizio.” borbotta un altro di quei tizi, “Non senti com’è debole? La sua energia non è affatto paragonabile a quella di Samael. Bianca, tu che ne pensi?”
Conoscono il mio maestro? Sentono l’energia? Quindi non sono umani…
“Zitto!”
L'ordine del maestro mi perfora le orecchie come se avesse urlato, ma in realtà il suo non è stato che un bisbiglio. L’ho udito forte e chiaro e giuro che non aprirò bocca.
“Forse appartiene ad una categoria inferiore.” interviene un terzo, ma stavolta la sua voce ha un timbro femminile. 
Deduco che sia quella Bianca a cui si è rivolto l'altro pochi secondi fa.
“E per quale ragione un demone potente come Samael dovrebbe accompagnarsi ad uno di classe inferiore alla sua?” ribatte Silv, il biondo, avvicinandosi a me con passo marziale.
Non riesco a muovermi, il mio corpo non reagisce. Sono paralizzato. Digrigno i denti e mi sforzo, ma le mie membra sembrano essersi trasformate in cemento. Silv si accuccia davanti a me e appoggia i gomiti sulle ginocchia, sostenendosi in equilibrio precario sulle piante dei piedi. Mi studia, mi tocca i capelli e mi sfiora la guancia destra, dove mi sono procurato un taglio quando sono finito contro l’altare. Non c’è sangue, solo un piccolo squarcio nero. Poi estrae da sotto il mantello una specie di mazzo di chiavi, a cui però sono attaccate delle monete, con incisi sopra vari simboli a me sconosciuti. Ne rigira una fra le dita e me la schiaccia sulla fronte. 
“Che stai facendo?” rantolo.
Una palla di fuoco saetta per la navata e colpisce gli altri tre scagnozzi, che erano rimasti in disparte, distratti dai movimenti di quello che, presumibilmente, è il loro leader. Due vengono tramortiti, mentre il terzo, la donna, si erge fiera e implacabile in mezzo ad un tappeto di schegge e pezzi di colonna. Quell’attacco non l’ha scalfita neanche di striscio. Ora che il cappuccio è scivolato pure a lei, noto che è mora, con i lunghi capelli castano scuro raccolti in una treccia e la pelle abbronzata. Possiede i tipici tratti mediterranei: occhi marroni, labbra carnose e lineamenti marcati ma al contempo sensuali. Scommetto che è italiana o spagnola, anche se non saprei dirlo con certezza perché il suo accento è molto lieve.
“Bastardo.” ringhia all’indirizzo di Samael, il quale scaglia un’altra palla di fuoco verso Silv.
Questi la respinge con una mano come si fa con una mosca, mandandola a schiantarsi contro una parete. Il biondo riprende a premere le monete, una ad una, sulla mia fronte e via via l’irritazione affiora e gli deforma l’espressione severa e austera, per un motivo che non riesco ad afferrare. Appena le esaurisce, emette un verso frustrato e mi agguanta per il bavero della giacca, sollevandomi alla stessa altezza dei suoi occhi, ora gelidi come iceberg.
“A quale classe appartieni? Qual è il tuo nome?” scandisce lentamente, in maniera tale che il messaggio giunga a destinazione e oltrepassi la barriera del ronzio che mi ha invaso le orecchie.
Scocco un’occhiata a Samael, nella speranza che possa aiutarmi, ma vedo che è impegnato in un corpo a corpo con la donna. Sbalordito, li fisso mentre sbattono sul muro alla mia sinistra e cominciano a rotolare verso l’alto, fino al soffitto, dove ingaggiano un combattimento a colpi di artigli, fuoco e luce azzurra. Adesso finalmente capisco cosa intendeva il maestro quando diceva che la forza di gravità è solo una legge umana. 
Gli altri due si riprendono in quel preciso istante, si rialzano e scrollano la testa frastornati. Dopodiché analizzano la situazione e decidono di comune accordo di precipitarsi a dare manforte alla loro compagna, lasciandomi nelle grinfie di Silv.
“Hey, guarda me.” Silv mi schiaffeggia e mi strattona, quel tanto che basta a rintronarmi ancora di più.
C’è qualcosa che non va. Una presenza estranea si è infiltrata nella mia mente, la percepisco e fa male. 
Dimmi il tuo nome.
Vuole sapere il mio nome? Oh, quanto vorrei confessarglielo. È giusto che lui lo sappia, non devo oppormi al suo volere. Lui è il mio padrone, lui è…
“No!” grido.
Odo uno schiocco secco e in un istante mi libero dalle catene invisibili che mi tenevano bloccato. Una nuova energia mi inonda le vene, sfrigola e vibra come il fuoco che brucia in un vulcano in procinto di eruttare; mi travolge con la violenza di un uragano, aderisce alla mia pelle, penetra in ogni estremità e fa contrarre i miei organi, facendoli pulsare. Un attimo più tardi, Silv arretra come ustionato e dal suo mantello sbuca una collanina d’oro, a cui è appesa una croce con un rombo al centro. Ricordo di aver già visto quel simbolo, anni fa, mentre tornavo dalla casa del signor Molloy.
“Exurge Domine.” esalo in un soffio.
In risposta a questa rivelazione, quello strano potere che mi ha pervaso esplode nel mio sterno e un vortice di fiamme nere colpisce in pieno il biondo, polverizzandolo in pochi secondi. Per un attimo mi focalizzo sulla montagnola di cenere ad appena due metri di distanza e la contemplo atterrito e confuso all’inverosimile. 
Un leggero boato si propaga per la navata e la donna svanisce oltre la porta della cattedrale in un lampo, levitando come un fantasma, mentre gli altri due nemici giacciono sul pavimento di pietra totalmente carbonizzati. 
Non sono riuscito a seguire lo scontro, ma qualcosa mi dice che i quattro Exurge Domine fossero di livelli diversi. La coppia carbonizzata, ad esempio, mi è parsa molto più debole rispetto alla donna e a Silv, anche se quest'ultimo ha fatto una brutta fine. Ancora non me ne capacito, è stato figo e assurdo allo stesso tempo. Le domande che mi frullano nel cervello mi pungolano con insistenza. 
Ansimo spaventato. Se non fossi un demone, sarei già scoppiato a piangere da un po’. 
Il terrore che per tutto il tempo mi ha annichilito scompare quando Samael si materializza al mio fianco. Mi accarezza dolcemente i capelli e mi stampa un bacio casto sulle labbra, sorridendo con una dolcezza disarmante.
“Sei stato molto bravo, sono fiero di te. Avanti, torniamo in hotel. Domani vacanza, che ne dici?” mormora, stringendomi nell’abbraccio che desideravo da ore.
Annuisco debolmente e mi aiuta a sollevarmi e a spolverarmi i vestiti strappati e sudici.
“Ti spiegherò tutto in macchina. Perdonami se ho taciuto la verità così a lungo.” si scusa.
“Non fa niente, l’importante è che siamo vivi.”
“Solo grazie a te, cucciolino.” ghigna e mi scompiglia i capelli.
“Cucciolino?”
“Per stavolta passami il vezzeggiativo. Non avrei potuto chiedere un compagno migliore di te.”
Lo scruto falsamente sconvolto: “Non è che mi stai diventando sentimentale?”
Samael ridacchia e mi fa strada verso la limousine, che ci aspetta fuori da Notre-Dame, proprio dove l’abbiamo lasciata.
“Ebbene?” lo interrogo, accomodandomi meglio sul sedile.
“Sul registratore di cui parlavano quei guastafeste,” sfila da sotto il colletto della giaccia un piccolo microfono, che per fortuna non si è danneggiato durante la lotta, “ho impresso la confessione di Duvonne. Domani la darò ad un amico che lavora al giornale Le Figaro, in modo che ci scriva sopra un articolo. La notizia farà scalpore e il giro dei continenti, e la Chiesa verrà screditata e accusata di aver coperto le malefatte di un criminale. Questo provocherà una crisi in tutto il mondo cattolico, vedrai.”
“Quindi è per questo che lo hai liquidato in quattro e quattr’otto!”
“Esatto. Non mi interessava la sua anima, volevo estorcergli tutti i suoi segreti. Con gli opportuni tagli e le necessarie modifiche, questo nastro potrebbe pure arrivare nelle grinfie dei media, i quali non oseranno ignorare un bocconcino così succulento. La carriera di Duvonne è giunta al capolinea, ma cosa ancor più importante è la figura che ci farà la Chiesa. Uno scandalo del genere non finirà nel dimenticatoio tanto presto.”
“Wow… ma siamo certi che gli Exurge Domine non ci ostacoleranno? Voglio dire, potrebbero ridurre al silenzio la stampa. Anche loro avranno degli agganci, no?”
“È probabile, ma il mio amico è un demone a cui piace il giornalismo. È bravo nel manipolare le informazioni e spacciarle per vere, anche se qui non avrà da fare molto, perché è già tutto spiattellato e cristallino. In pratica, gli serviremo la pappa bell’e pronta.”
“A proposito, cos’è successo prima? Cosa erano quelle monete? E quelle fiamme nere? Come ho potuto evocare un potere di quel livello? Gli Exurge Domine torneranno? E perché li hai chiamati ‘Spennati’?”
“Calma, calma, Alastor! Avrai le risposte alle tue domande dopo esserti fatto un bagno caldo, promesso. Intanto, però, posso dirti che abbiamo affibbiato loro il nomignolo di ‘Spennati’ perché, come ti ho già raccontato, discendono dagli angeli, ma sono nati senza ali. Dio ordinò ad alcuni angeli di mischiarsi ai mortali per generare uomini 'angelici', i quali si sono poi organizzati e hanno istituito l'ordine degli Exurge Domine. Ah, un'altra cosa: non rivelare mai il tuo nome a nessuno, specialmente alla loro setta. Fanno uso di molti stratagemmi per plagiare la volontà dei demoni, ma tu non devi cascarci.”
“Allora…” esito, mordicchiandomi l’unghia del pollice.
Mi sento avvampare e ho l’impressione che il mio corpo si surriscaldi a velocità pazzesca.
“Mh?” mi esorta, osservandomi con aria curiosa.
“Perché non riprendi a chiamarmi Archie? Così il mio nome da demone è al sicuro e nessuno lo udirà nemmeno per sbaglio.”
Mi squadra divertito, poi si sporge e mi coinvolge in un bacio saturo di passione repressa. Pare che mi voglia mangiare e la forza che sta esercitando per trattenere il mio viso incollato al suo è più marcata del solito. Tuttavia, con questo bacio mi trasmette anche tutto il suo sollievo per averla scampata e non riesco ad esimermi dall’accogliere il suo trasporto con entusiasmo. Mi cinge i fianchi con le braccia e mi attira a sé, mentre le nostre lingue danzano ad un ritmo folle e bisognoso. Non c’è un altro posto dove vorrei essere, in questo momento.









 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Firenze ***








 

Proprio come ha predetto Samael, l’articolo del suo amico sul Le Figaro non impiega molto a fare il giro del mondo. Non trascorrono che pochi giorni, prima che l’opinione pubblica si sollevi contro la Chiesa e i suoi membri. Persino il Papa diviene oggetto di accese critiche e per circa due mesi i telegiornali non parlano d’altro. 
Sull’onda dello scandalo, spuntano fuori altri casi di preti che hanno abusato della loro carica per perpetrare soprusi e nefandezze di ogni sorta, soprattutto a discapito di bambini e ragazzi innocenti. Non si tratta certo di una novità, ma in questi giorni più che in ogni altro periodo della storia attuale il virus dello scontento infetta le conversazioni e i programmi televisivi, dando luogo ad un’insurrezione di massa come se ne sono viste poche dal 1500, secolo di Martin Lutero.
Duvonne viene scomunicato dopo un paio di settimane dalla diffusione della notizia, ma la gente comincia presto a domandarsi perché il Papa abbia atteso così tanto per prendere una decisione: criminali del genere avrebbero dovuto ricevere una punizione immediata, non rimanere a rigirarsi i pollici nelle proprie abitazioni sotto la tutela delle forze dell’ordine e guardie del corpo. E una scomunica non è chissà quale punizione per un ateo. 
Per giunta, sono numerosi coloro che si schierano a favore dell’ergastolo o della pena capitale, benché quest’ultima sia stata dichiarata contro la legge in Europa da ormai molti anni. L’opinione pubblica è furiosa, anche perché è risaputo che individui come Duvonne potevano uscire di prigione per buona condotta dopo un po’ di tempo. I test psicologici potevano essere elusi, truccati, perciò non erano obbiettivi e degni di fiducia. La sola idea che un mascalzone come lui possa un giorno tornare a camminare fra la gente getta le persone nella più totale agitazione e le fila di quelli che premono per una condanna a vita, esemplare per i mostri della risma di Duvonne, si infoltiscono.
Fuori dalla casa di Duvonne si raccoglie un congruo manipolo di fedeli, fra cui anche coloro che hanno sempre partecipato alle sue messe e ascoltato i suoi sermoni, e persino dimostranti con striscioni, che urlano a gran voce insulti e minacce, maledicendolo e augurandogli di patire tutte le pene dell’Inferno. 
Alcune delle suore maltrattate testimoniano in Vaticano contro di lui, mentre altre, plagiate dal carisma del sacerdote, confessano di aver preso parte ai rituali. Metà di loro vengono spogliate del titolo e incarcerate, mentre l’altra metà viene internata in manicomio a causa di preoccupanti sintomi di schizofrenia. 
I famigliari delle vittime si fanno avanti pretendendo giustizia e molti di questi si recano al cospetto del Papa per domandare spiegazioni ed ottenere un risarcimento, appoggiati da abili avvocati.
Si scatena il putiferio e i media si gettano sopra tale prelibato banchetto come lupi affamati, seguendo lo sviluppo degli eventi in diretta e intervistando le persone coinvolte più o meno da vicino. I canali televisivi e i programmi radiofonici non trasmettono altro per un arco di tempo infinito, tengono vive le discussioni e alimentano il fuoco dell’insoddisfazione, a scapito di altre importanti notizie come la guerra in Medio Oriente, che sta mietendo centinaia di vittime, e quella di uno tsunami che si è abbattuto sulle Filippine, decimando la popolazione. A nessuno interessa più cosa accade al di fuori dell’Europa, tutti gli occhi sono puntati sul Vaticano.
L’istituzione ecclesiastica, come mai prima di ora, sprofonda in una crisi da cui non sembra esserci via d’uscita. Molti teologi e storici iniziano a disquisire sui giornali, su internet o nei Talk Show a proposito della Bibbia e i suoi insegnamenti, contrapponendola alle tesi di Martin Lutero e ad altri vangeli apocrifi mai resi pubblici. Non importa a nessuno che tali studiosi siano di tendenze protestanti, cristiane, anabattiste, ortodosse o atee: l’intero universo cattolico è in fermento e sull’orlo di un collasso. Mettono in luce come la Chiesa, sin dai suoi albori, abbia distorto il Credo e lo abbia plasmato a seconda delle proprie esigenze, cancellando e omettendo elementi che in origine, ormai più di duemila anni fa, erano chiari e lampanti fondamenti della dottrina, oppure aggiungendone altri che non sono mai esistiti, solo per venire incontro al disagio provocato dal passaggio dal panteismo al monoteismo: il culto dei santi, l’adorazione delle immagini, i Dieci Comandamenti, i Sette Sacramenti, le traduzioni del Sacro Libro errate, l’invenzione del Purgatorio come mezzo per rimpolpare le ricchezze, la creazione del Limbo e dell’intero universo dei dogmi. Tutto viene vagliato, analizzato e ribaltato.
Si riparte dall'analisi della cultura preistorica, evidenziando come la religione abbia sempre ricoperto un ruolo fondamentale nella civiltà umana, poiché i rituali incoraggiavano la coesione sociale e regalavano un mezzo di conforto all'individuo che si sentiva smarrito sotto al cielo. L'uomo ha sempre provato un desiderio struggente di vedere al di là del concreto, aspirava a conoscere l'inconoscibile e sentire il soprasensibile, una brama che però è destinata ad esaurirsi in se stessa. E allora, a causa della frustrazione di tale desiderio, l'uomo cerca di ribellarsi ai vincoli della sua natura inferiore ed elevarsi per ritrovare un'armonia vagheggiata, pur sapendo che alla fine perderà, come fece il titano Prometeo quando rubò il fuoco degli dei e venne punito per la sua tracotanza. Ma gli intellettuali sono concordi nel dire che la Chiesa non è Dio e che non credere nella prima non preclude la fede nel secondo.
Poi arriva lo scisma. Il numero di fedeli che, precedentemente al caso Duvonne, andavano in chiesa cala drasticamente e sono davvero tanti quelli che si allontanano dalla religione o si convertirono al protestantesimo, che invece incoraggia una lettura individuale della Bibbia e non obbliga a recarsi nelle Case del Signore per ascoltare l’omelia del prete, messaggero della parola di Dio. I pastori, anzi, attraverso i vari mezzi di telecomunicazione ribadiscono più volte che sono solo delle guide, il cui scopo è spronare la comunità a ricercare Dio dentro di sé. In più, il fatto che questa confessione di origini luterane non impone ai sacerdoti il celibato - peraltro introdotto a posteriori nel cristianesimo, perché in principio i preti potevano sposarsi e avere una prole - dà speranza alla gente, che vede in loro dei padri di famiglia, più vicini al popolo e meno arroccati sul piedistallo: infatti, in generale, chi ha già una moglie su cui sfogare i propri istinti naturali e dei figli di cui occuparsi non ha bisogno di scovare altrove strane distrazioni o la soddisfazione carnale, e quindi è più degno di fiducia. A meno che non sia un depravato per natura. 
La campagna a favore del protestantesimo e dei credi religiosi ad esso collegati dura per mesi. Mai le chiese appartenenti a questa istituzione hanno registrato un’affluenza così alta. Per non parlare di chi si converte al Buddismo.
Nonostante la tempesta provocata da Duvonne si plachi un po' in seguito ad un discorso del Papa, declamato dalla terrazza di San Pietro a Roma e trasmesso da ciascun telegiornale di ogni paese, il Vaticano non si risolleva e molti si convincono che è destinato alla distruzione. Tuttavia, i critici non condannano la figura del Papa, che al contrario è un esempio di pia rettitudine; piuttosto, lottano per far sì che la Chiesa metta in atto delle riforme interne e confessi le proprie mancanze, ammettendo nelle sale del Concilio anche i giornalisti con le telecamere per rendere pubbliche le riunioni. 
Il Vaticano subisce forti pressioni dallo Stato italiano e dall’estero, ma dopo qualche giorno chiude i cancelli e gli accessi stradali, trincerandosi dietro al silenzio stampa con la scusa che i cardinali e i più alti prelati della cristianità devono discutere in privato. Nessuno può più entrare o uscire, tutto viene sigillato e i confini cominciano ad essere pattugliati dall’esercito. Le guardie svizzere sorvegliano ogni porta, i carabinieri fanno la ronda, vengono allestiti posti di blocco per arginare le proteste e le manifestazioni, violente e non violente: per la prima volta San Pietro assume i connotati di una fortezza inespugnabile, un’isola sulla terra.
Tutto questo si svolge in due anni.
In seguito alla diffusione della notizia dei crimini di Duvonne, io e Samael ci trasferiamo di nuovo a Londra, anche per evitare di imbatterci una seconda volta negli Exurge Domine, che ci braccano come segugi. Sappiamo che ci stanno dando la caccia e nasconderci a Parigi non è più possibile. Però, appena rimettiamo piede sul suolo inglese, decidiamo di non fermarci mai troppo a lungo nella stessa città e cominciamo a migrare come nomadi senza fissa dimora per tutto il Regno Unito: prima nella capitale, poi in cittadine di periferia, poi ancora sulla costa est e dopo a nord, in Scozia. 
Trascorso un altro anno di peregrinazioni, ci spostiamo in Irlanda, a Dublino, poi a Belfast, finché le alte sfere dell’Inferno non ci impartiscono l’ordine di recarci in Italia, direttamente nel focolaio della rivoluzione. La ragione che adducono è che, a causa della crisi religiosa, le persone hanno perduto la fede e si stanno rendendo colpevoli di atti scellerati. La quantità di contratti è infatti cresciuta a dismisura e c’è molto lavoro da fare. I demoni stanziati nel Bel Paese non riescono più a gestire la situazione e gli Exurge Domine hanno rimpinguato le loro file, organizzando sortite per ostacolare l’operato degli emissari di Lucifero. Di conseguenza, c’è bisogno di aiuto e veniamo convocati con la massima urgenza per dare il nostro supporto. 
Samael scoppia a ridere quando ci perviene l’ordine. D’altronde, tutto sta andando secondo i suoi piani, come le tessere di un domino predisposte secondo un preciso disegno, che lui ha già da tempo intuito. So che ha calcolato ogni cosa, me ne sono accorto, anche da prima di recarci a Notre-Dame da Duvonne. Forse pure il fatto di traslocare a Parigi non è stata una mera coincidenza: è perfettamente plausibile che avesse già in precedenza organizzato ogni dettaglio, non mi stupirei. A volte la sua lungimiranza mi spaventa, tanto che spesso mi chiedo quanto in realtà io abbia agito di mia iniziativa e non secondo le oscure trame ordite di nascosto dal mio maestro. Il libero arbitrio che mi vanto di possedere è un’illusione? Fin dove posso spingere la mia volontà, prima di accorgermi che c’è qualcun altro, un ignoto burattinaio, che muove i miei fili?
Per lui il mondo è una scacchiera e, da esperto giocatore qual è, si diverte a piazzare le sue pedine dove gli suggerisce l’istinto e a prevedere le mosse del nemico, ad anticiparle e volgerle a suo favore. Credo che quasi niente possa sorprenderlo, perché il suo cervello può scandagliare migliaia di possibili risvolti in una manciata di secondi, e tramite questo accurato esame è in grado di progettare contromisure impeccabili, come se avesse già visto con chiarezza il futuro o lo avesse già vissuto. La sua intelligenza è diabolica, letteralmente, ed è dura farci l’abitudine quando la sfoggia senza tanti complimenti. Oppure lo sto solo sopravvalutando e dietro le azioni di Samael c’è Lucifero. Forse anche il mio maestro è una pedina.
Comunque, come da programma rispondiamo alla chiamata e partiamo in tutta fretta per l’Italia, stanchi e fiaccati dal perenne tran-tran. 
Quindi eccoci qui, nella culla della cristianità. Più precisamente in un appartamentino un po’ fatiscente - ci sarebbe un gran bisogno di una piccola ristrutturatina - al secondo piano di una palazzina dall’architettura contemporanea, risalente all’epoca della seconda guerra mondiale, con tre vani più bagno, situata nel pieno centro storico di Firenze, nei pressi di piazza Santa Croce.
È il 14 dicembre 2020 e sono le cinque del pomeriggio. Fuori è già buio e i lampioni delle strade sono accesi da qualche minuto. Sdraiato sul letto matrimoniale dell’unica camera mi rigiro per trovare una posizione comoda, ma il materasso duro come il cemento me lo impedisce. 
Samael è seduto di fronte alla finestra, ad un paio di metri da me. Le rare volte che si muove, la sedia di legno produce un irritante scricchiolio, segno che le giunture ormai sono andate. Sta guardando fuori, ma non saprei dire a cosa stia pensando. Ha l’aria meditabonda e concentrata, tanto che non ho l’ardire di disturbare le sue riflessioni solo perché mi sto annoiando a morte. Quando si avvolge in questo mutismo impenetrabile, ogni tentativo di ingerenza esterna risulta vano e la sola maniera per ottenere qualche reazione è aspettare che si ridesti da sé.
Distolgo l’attenzione dalla sua schiena rigida e la punto sul soffitto. Scruto le crepe e le macchie marroncine che rovinano l’intonaco, poi mi focalizzo su un piccolo ragno, che sta tessendo la sua tela in un angolo con gesti esperti e zelanti, zampettando in qua e in là, affaccendato a costruirsi una tana e insieme una trappola per gli insetti. Lo osservo distratto, invidioso della sua alacrità, convinto che la sua vita, seppur breve se paragonata a quella umana, sia molto più entusiasmante della mia. Le uniche cose di cui deve preoccuparsi un ragno sono: trovare un posticino perfetto per tessere la tela - possibilmente vicino alla finestra, così da catturare gli insetti che si avventurano oltre la soglia, ignari del pericolo che li attende una volta varcata -, poi aspettare che qualcuno di questi rimanga aggrovigliato alla rete, mangiarselo e pregare che nessun essere umano si accorga della sua presenza, altrimenti il ragno sa che finirà spiaccicato da una ciabatta o da uno straccio. Insomma, in confronto a me quel ragnetto è fortunato. Quando sei un ragno non te ne può fregare di meno della religione e del destino delle anime: ti bastano un paio di mosche al giorno e sei contento. Un ragno non cova vendetta e non conosce i sentimenti, si limita a mangiare, secernere una sostanza appiccicosa dalla bocca, intrecciare con essa i fili della tela con abili movimenti e riposare nel suo minuscolo anfratto. Vorrei essere un ragno anch’io, per cessare di provare sensazioni, di pensare, di arrovellarmi con domande e dubbi esistenziali; vorrei esserlo per regalarmi una pausa dal mondo e trovare requie, libero dalle afflizioni, privo di un cuore.
Non dovrei lamentarmi ora, perché ho scelto io questo stile di vita. Però confesso che, da quando è esplosa la “bomba”, sono diventato insofferente. Ho smesso di ridere e di sentirmi in pace. Avverto una specie di seme maligno germogliare in me, qualcosa che assorbe all’istante ogni emozione positiva, e non riesco a contrastarlo. Samael non mi aiuta, mi ignora per la maggior parte del tempo, e quando finalmente pare accorgersi della mia presenza apre bocca solo per parlare di lavoro.
Ogni notte, a partire dal tramonto, ci adoperiamo per riscuotere anime senza un attimo di respiro e tutto questo sta diventando stressante. Rimpiango i momenti in cui non avevamo così tanta fretta e ci potevamo concedere qualche ora di intimità per chiacchierare e fare l’amore. Nell’ultimo periodo il contatto fisico si è ridotto all’osso e ammetto che sto iniziando a risentire degli effetti dell’astinenza: sono diventato più irritabile, scorbutico e nervoso. Ho bisogno delle sue carezze, di sentire le sue mani sul mio corpo, mi mancano i suoi baci appassionati e i suoi sguardi cupidi. Il mio intero essere è proteso spasmodicamente verso di lui. Tuttavia, sembra che non avremo l’opportunità di assaporarci per un bel pezzo, vuoi per l’asfissiante routine, vuoi per le domande e le preoccupazioni che ci frullano in testa quando per miracolo ci capitano dieci minuti di quiete. 
Durante il giorno, invece, disponiamo barriere e incantesimi per proteggere il nostro covo, analizziamo contratti, estraiamo dal mazzo quelli più urgenti, ne stipuliamo altri, facciamo la ronda per la città e ci ammazziamo di straordinari come degli stacanovisti. Voglio le ferie. È possibile chiedere le ferie? Esiste un dipartimento o un ufficio infernale che si occupa dei dipendenti? Ah ah, credo proprio di no.
All’improvviso, Samael si risveglia dalla sua immobilità e si alza dalla sedia con una scioltezza così innaturale che mi provoca un principio di infarto. Infatti, mentre ero immerso nelle mie turbe mentali, il mio cervello aveva erroneamente catalogato il maestro come parte integrante dell’arredamento, una statua che non si sarebbe mossa di un centimetro nemmeno fra un secolo. Quindi, quando la sua schiena si piega in avanti per darsi la spinta, i miei sensi subiscono uno shock non indifferente. Lo fisso stralunato e mi porto una mano sul petto.
“Andiamo, Archie, abbiamo del lavoro da sbrigare.” asserisce con freddezza, senza guardarmi.
Sbuffo scocciato, abbandono il letto e mi vesto rapidamente.
“Quanti ce ne toccano oggi?”
“Diciannove.”
Mi affloscio come un palloncino bucato e levo gli occhi al cielo disperato: “Perché così tanti?”
“Ce li dividiamo. Io ne prendo dieci, tu nove.”
“Perché io di meno?”
“Sei stanco, lo vedo. Dai, stringi i denti. Ci rivediamo qui all’alba.” 
Mi scocca un veloce bacio a stampo sulle labbra che mi lascia alquanto deluso: ero impaziente di ricevere una dimostrazione d’affetto un po’ più profonda, più sentita. Cioè, in parole povere avrei desiderato un vero bacio, ecco. 
Si infila il cappotto con gesti automatici, afferra la valigetta ed esce dalla porta prima di me, come abbiamo stabilito. Non usciamo mai insieme e lui va sempre per primo, per verificare che non ci siano nemici appostati nei dintorni. Nel caso, torna indietro e mi intima di non varcare la soglia per qualche ora.
Non mi ha salutato. Quel bacio non era un saluto. In verità non mi saluta quasi più e tutte le volte resto con l’amaro in bocca, un po’ a disagio, mentre l’insicurezza e il complesso di inferiorità che mi coglievano al suo cospetto quando ero solo un apprendista tornano alla carica, gettandomi nel più totale sconforto. In questi momenti mi viene da pensare che Samael si sia stufato di me, che non mi voglia più, che io non sia più capace di suscitare in lui alcuna attrattiva. Dentro di me avverto montare la paura che si annoi in mia compagnia, ma che per educazione si astenga dal dirlo ad alta voce. Come un giocattolo usato mille e mille volte, vengo lasciato ad ammuffire in fondo ad uno scatolone, in trepidante attesa che nel mio padroncino si rinnovi l’interesse e mi ripeschi con una nuova luce eccitata negli occhi. Spero che non sia veramente così, spero di sbagliarmi, perché se a Samael non importa più davvero di me io morirò dentro e la mia vita perderà senso.
Aspetto cinque minuti, fissando la porta con i nervi tesi per captare qualche movimento estraneo. Non accade nulla, perciò indosso anch’io il cappotto nero, prendo la valigetta dal divano del salotto e mi tuffo nelle viuzze fiorentine con espressione cupa e infastidita. 
Mentre cammino sui marciapiedi affollati sfilando accanto a ignari passanti, rimugino sui recenti avvenimenti, tanto per tenere occupata la mente. Le suole delle mie scarpe non fanno rumore e il mio respiro non si condensa in piccole nuvolette come quello dei mortali. Sono un fantasma, invisibile alla vista e a qualsiasi altro senso: nessuno può udirmi, nessuno può toccarmi, nessuno può fiutare il mio odore. Potrei mettermi a cantare e ballare come un invasato in mezzo alla strada e passerei comunque inosservato. Le persone che marciano nella direzione opposta, imbacuccate nei loro piumini, cappelli e sciarpe fino al naso, si spostano per cedermi spazio, proprio come se percepissero la mia presenza, eppure non la registrano veramente e non si rendono neanche conto del loro gesto istintivo. In principio lo trovavo spassoso e mi divertivo a fingere di andare incontro a qualcuno, per poi vederlo scansarsi all’ultimo istante per non travolgermi, senza che costui realizzasse ciò che aveva fatto. Adesso, però, vorrei tanto che un mortale che non sia un cliente posasse gli occhi su di me, che mi notasse e mi rivolgesse un cenno di saluto, anche solo per educazione. Non avrei mai creduto di poter provare nostalgia per l’umanità. Questo sentimento è fuori luogo per uno come me, mi destabilizza e fa nascere nel mio cuore una frustrazione che non riesco a imbrigliare, che mi avvelena dall’interno. 
Samael non comprende il mio stato d’animo, non può, perché lui è estraneo a tutto questo. È il carico di esperienza che ci portiamo dentro che ci definisce, che ci plasma e ci modella per renderci quelli che siamo, me lo ha insegnato lui. Samael non è nato come uomo, ma come angelo, e gli esseri superiori ragionano in modo diverso: a loro non interessa conoscere l’uomo, non sono mai stati uomini e non vogliono esserlo. Perciò non può concepire cosa provo, dal momento che non ha mai sperimentato una vita mortale. Benché le distanze tra noi si siano accorciate con la mia trasformazione, non posso fare a meno di considerare che l’abisso che ci separa rimarrà per sempre incolmabile. Le nostre menti sono lontane anni luce e le nostre anime, intese come essenze intime e non nell’accezione religiosa del termine, non si sono mai veramente toccate. Per un certo periodo mi sono illuso di essere uguale a lui e che solo le nostre origini, non più importanti, ci differenziassero, ma mi sbagliavo. Sono anzi proprio quelle il fattore fondamentale, l’elemento che fa di me e Samael due creature simili e al contempo opposte, incapaci di condividere appieno i pensieri ed avere un proficuo scambio di opinioni come due individui alla pari. Alla fine, il nocciolo della questione è che io sono rimasto umano, mentre lui ha continuato ad essere un demone purosangue. Il mio mutamento è stato inutile, perché non mi pare di aver acquisito uno status superiore. Sono sempre il solito Archie, anche se ora posso abbrustolire il nemico con un vortice di fiamme nere e levitare e saltare sui tetti come un supereroe dei fumetti. Sono nato uomo e il retaggio di memorie che mi porto dietro mi identifica, delinea sia il mio carattere che le mie abitudini. So come pensa un uomo, so come e perché agisce in un modo anziché in un altro, posso scavare nei recessi più reconditi del suo spirito senza fatica e comprenderne le infinite sfumature. Non è un’impresa ardua per me immaginare i motivi che spingono una madre ad uccidere il proprio figlio, per quanto assurdi o inspiegabili possano apparire ad uno studio superficiale, e forse è questo che mi rende vulnerabile e sensibile. 
Quando riscuoto un contratto, i ricordi del colpevole mi invadono il cervello, impetuosi e inarrestabili. In quella circostanza sento e vivo ciò che ha sentito e vissuto quella persona, entro nella sua anima, mi approprio metaforicamente di un minuscolo frammento di essa e questo si deposita dentro di me, provocandomi incubi terribili, da cui a volte non riesco a svegliarmi nonostante non stia affatto dormendo. Quei frammenti mi contaminano e disturbano il mio equilibrio, ma ci riescono perché io so cosa vuol dire essere umano, ci riescono a causa di questa maledetta empatia: io li capisco, perché l’ho provato sulla mia pelle. Impotenza, angoscia, vergogna, disperazione, tristezza, desiderio di vendetta, ho sperimentato direttamente tutte queste sensazioni. A differenza mia, nessuno degli assistenti del Diavolo, o demoni in generale, potrebbe sopportarlo.
In sostanza, mi sono reso conto che nelle mie attuali condizioni conosco gli umani come il palmo della mia mano, per ovvie ragioni, e che con un po’ di sforzo potrei arrivare a conoscere anche i demoni, sebbene questi ultimi siano un rebus difficile da risolvere, anche se non impossibile. Proprio perché sono un ibrido, in me albergano le potenzialità per ridurre drasticamente il divario tra le due specie. Un demone, al contrario, pur avvalendosi di un’esperienza millenaria, non potrà mai afferrare davvero la natura umana. Precisamente come un’aquila che tenta di comprendere le ragioni di un lupo, o una rana che riflette sul significato intrinseco del ronzio di una mosca, così Samael non potrà mai carpire il mistero che si cela dietro i sorrisi e le lacrime di un mortale, nonché le sue azioni. 
Quando realizzo che non potremo mai raggiungerci, che le nostre mani, per quanto vicine, non potranno mai sfiorarsi e intrecciarsi, che non potrò mai specchiarmi nei suoi occhi e dichiarare di essere un demone puro come lui, vengo colto da un soffocante abbattimento. Lo amo, so di amarlo, eppure non potrò mai stringere il suo cuore tra le mie dita, quasi che un muro, una sorta di barriera spessa e invisibile, me lo impedisca. 
Mi chiedo se davvero non esista una maniera per collegare angeli, demoni e uomini, una soluzione per permettere a tutti di capirsi ed entrare in sintonia. La comprensione non implica l’accettazione, ne sono consapevole, ma sarebbe un inizio.
Dio ha creato gli uomini a Sua immagine e somiglianza e questo dovrebbe presupporre che gli umani ragionino come Lui; non solo, perché Egli ha plasmato anche gli angeli, quindi tutti dovremmo, in teoria, pensare come Dio. Tuttavia, sia gli angeli che i demoni rimangono distaccati e non si premurano di ricercare un contatto più profondo: i primi si limitano a suggerire al mortale la via da seguire secondo la volontà del Signore, i secondi sfruttano le sue debolezze per traviarlo e precipitarlo all’Inferno, solo per mettere Dio di fronte alla verità, cioè che gli uomini sono un fallimento. In pratica, ho evinto da tempo che questi ultimi sono delle impotenti marionette nelle mani di esseri superiori, che si divertono a muovere i fili secondo i loro capricci.
So che è strano, non dovrei preoccuparmi della sorte di quelli che, anni fa, erano i miei simili, perché ora non appartengo più alla loro razza, o almeno non totalmente. Ciononostante, mi sento vicino a loro, adesso più che in passato. Un po’ come l’anello che congiunge due delle tre estremità di una singolare collana. Il punto di partenza comune a tutti è Dio e da Lui si dipartono due biforcazioni, ossia gli angeli puri e i Caduti. Infine, sempre da Lui, scaturisce un altro filo, che rappresenta l’umanità. Questi tre rami sono divisi ed io fungo da fragile legame tra i demoni e gli uomini, perché sono nato uomo e successivamente sono divenuto demone, il che fa di me una creatura a metà, immobile nel mezzo di un fiume, fra le due sponde. E il peggio è che le mie gambe sono bloccate, perciò anche se lo desidero con tutto me stesso non potrò mai propendere per l’una o l’altra riva.
È inutile che mi intestardisca ad alimentare il sogno di diventare un purosangue, perché la mia essenza di base rimarrà immutata per l’eternità. Posso acquisire nuovi poteri e capacità, lanciare incantesimi, percepire vibrazioni sovrannaturali e addirittura mantenermi sospeso a mezz’aria per qualche minuto, come se volassi. Però resterò sempre un “uomo diabolico”, proprio perché non sono in grado di penetrare nella mente di un angelo o di un demone e appropriarmi dei loro segreti. Quel che certo è che non sarò mai come loro, poiché i sentimenti che ancora fanno battere il mio cuore ostacolano il processo di trasformazione.
Dalle lezioni teoriche che mi ha impartito Samael, ho dedotto che gli angeli non hanno una vera personalità, non provano emozioni: essi sono parte di una grande coscienza collettiva, che ragiona e agisce seguendo un’unica direzione e il volere di Dio. I Caduti, invece, sono angeli che hanno sviluppato una volontà propria e per questo si sono ribellati e hanno spezzato le catene che li costringevano ad una cieca ubbidienza. Ma la qualità e la quantità di sentimenti che sono capaci di provare sono nettamente inferiori a quelle umane.
Da tempo mi sono avveduto di essere l’unico ad aver smesso di appartenere ad una categoria ben definita e circoscritta: non posso più far parte del mondo umano, ma non posso nemmeno entrare in quello demoniaco. Sono solo, in bilico su una corda, e non ci sono ponti che mi permettano di raggiungere un lato piuttosto che un altro. Samael è il mio appiglio, la sola creatura che mi ha teso una mano per aiutarmi a mantenere il precario equilibrio. Se la ritirasse, precipiterei.
A volte penso che vorrei tornare indietro e lasciarmi divorare da lui. Farla finita, insomma, e non essere obbligato a vivere quest’esistenza a metà. Se soltanto avessi previsto un simile futuro, avrei fatto in modo di essere divorato il giorno che ho stipulato il contratto. Da una parte sono felice di aver conosciuto Samael, dall’altra vorrei non fosse mai accaduto: perché adesso soffro per la mia miserabile condizione e la tristezza permea il mio cuore come una spessa membrana. Prima consideravo eccitante essere ciò che sono e fare ciò che faccio, e in certa misura ancora è così, ma ora vedo le cose sotto una prospettiva differente, un’ottica che non avevo mai concepito, e mi accorgo di aver sbagliato tutto. Non mi piace essere un ibrido. Vorrei trasformarmi in un demone completo o tornare ad essere uomo. Forse esiste una maniera per passare ad un livello superiore e diventare come il maestro. Forse se glielo domandassi… o forse no.
L’alba arriva in fretta, tanto che mi stupisco quando vedo il cielo rischiararsi all’orizzonte. Ho appena riscosso l’ultima anima e sono esausto. In pochi minuti sono davanti al portone di casa e lo apro con un lieve movimento verticale delle dita, senza bisogno della chiave. Potrei avere una proficua carriera da scassinatore, se lo volessi. Lascio che si richiuda alle mie spalle e salgo le scale strascicando i piedi, indifferente al problema del rumore, tanto nessuno degli inquilini degli altri appartamenti può udirmi. Abbiamo occupato uno dei locali del secondo piano perché era disabitato e ancora nessuno è venuto a reclamarlo. Samael lo ha scelto per la semplice ragione che una donna ci si è impiccata di recente e nessuna agenzia ha voluto avanzare proposte di vendita o affitto. La suicida in questione non aveva parenti in vita, perciò per noi è stato facile appropriarcene. Certo è che, se qualcuno dovesse comprarlo, io e il maestro saremmo costretti a sloggiare e cercare un’altra base. Per il momento, però, per tutti i condomini il nostro piccolo trilocale è deserto, e grazie agli incantesimi nessuno è in grado di registrare delle presenze all’interno. Possiamo entrare e uscire quando ci pare e, anche se incrociamo i vicini, essi non riescono a notarci.
Non faccio una piega, infatti, quando mi imbatto in un uomo con al seguito la figlioletta, vestita con il grembiulino rosa e il cappotto pesante per andare a scuola. Non è la prima volta che li incontro, ma non trattengo un sorriso divertito alla vista della pettinatura di Carlotta: sua madre, a quanto sembra, stamattina ha voluto intrecciarle i capelli. Questo di per sé non sarebbe un male, se solo non glieli avesse poi legati in cima alla testa: ha una fontanella al posto della splendida chioma castana che sfoggia di solito e non si può guardare. Povera. Spero che i compagni di classe non la prendano in giro. Mi accingo a sorpassarli senza battere ciglio e lo stesso fanno loro. Lo zaino della bambina è più grosso di lei e vedo che fa fatica a scendere le scale, attenta a non inciampare e al contempo a tenere il passo di marcia del padre. Nel momento in cui un piede manca l’appoggio del gradino, come in cuor mio temevo, neanche un attimo per realizzarlo che sono lì a sorreggerla per evitare che sbatta la nuca, dato che si è sbilanciata all’indietro, tirata giù dal peso dello zaino. La rimetto in posizione eretta e scivolo via in un lampo, prima che si renda conto di cosa è successo. Poi sparisco silenzioso oltre rampa del secondo piano.
“Carlotta, sbrigati.”
“Sì… arrivo…”
Li sento scambiarsi un paio di battute frettolose, ma dimentico subito l’accaduto.
Al medesimo modo di prima apro la porta dell’appartamento che condivido con Samael e varco la soglia con un sospiro. Lo trovo seduto sul divano da rigattiere a leggere un libro, immerso nella semioscurità del salotto, fatta eccezione per la luce di una piccola lampada, che diffonde un alone opaco nell’ambiente da sopra un comodino posto a ridosso del bracciolo destro del divano. Tra poco gli dirò di spegnerla, perché il sole sta sorgendo e i suoi raggi hanno già cominciato a filtrare attraverso le tendine color crema della finestra, dall’altro lato della stanza. 
Ha l’aria concentrata, ma i suoi lineamenti sono più distesi rispetto a quando ci siamo separati. Deduco che ha smaltito il cattivo umore lavorando: lui è il tipo che si diverte a veder agonizzare i clienti, prova una gioia perversa nel contemplare le loro facce sconvolte e disperate. Questo posso capirlo, nemmeno io sono immune all’adrenalina che suscita l’assistere alla deportazione di un’anima malvagia, però Samael ne trae un godimento particolare.
Sposto l’attenzione alla sua sinistra e vedo una scatola di cartone bianco piuttosto grande. Aguzzo la vista e leggo la scritta stampata sopra con caratteri blu: Toshiba. Inarco un sopracciglio, confuso, ma non oso disturbare il mio mentore durante la lettura di quel tomo che tiene posato sulle ginocchia. Lo stringe quasi gelosamente. Di rado assume un’espressione così corrucciata, quindi di sicuro è qualcosa di molto impegnativo, capace di mettere a dura prova persino un demone. Tengo a freno la curiosità e decido di aspettare che sia lui, nel caso, a rivelarmi di che si tratta.
Volta pagina con un gesto elegante delle dita, continuando ad ignorarmi.
Lascio cadere la valigetta accanto al divano, mi spoglio del cappotto e approfitto della quiete creatasi per fare una doccia rilassante. Quando esco dal bagno, tutto pulito e profumato, noto che Samael non si è spostato di un millimetro. Mi dà la schiena e l’unico modo che ho per sbirciare il suo viso è attraverso lo schermo nero della televisione, incassato in una libreria vuota di fronte al divano. Ci si riflette appena, ma mi è sufficiente per prendere atto che i suoi tratti perfetti sono dieci volte più corrucciati e contratti di poco fa.
Con ancora l’accappatoio addosso, mi accosto a lui da dietro e mi sporgo apprensivo. Voglio dare una mano, se posso.
“Sam?”
Sussulta come punto da un ago e lo avverto con chiarezza soffocare a stento uno squittio. Si gira verso di me e mi squadra con occhi sbarrati.
“Archie! Quando sei rientrato? Cavolo, mi si sono rizzati tutti i peli del corpo…”
“Eh?” lo fisso basito.
“Per tutti i diavoli, questa non me l’aspettavo! Quand’è che sei diventato così bravo ad azzerare la tua presenza? Fino a ieri non ci riuscivi.”
“Ehm… non è che eri distratto tu, invece? Non sono stato proprio silenzioso.”
“Mmm, può essere.” scrolla il capo liquidando il discorso e mi fa cenno di sedermi alla sua destra, “Sono giunto a una svolta e voglio fartene partecipe.” 
Vuole parlarmi del libro? E cosa c’è nella scatola? Sono emozionato: finalmente mi sta dando le attenzioni che desidero.
“Stanotte ho avuto un’illuminazione.” esordisce solenne, per poi picchiettare con le unghie sulla scatola bianca, ancora sigillata, “Stavo riscuotendo un contratto, il terzultimo. Come da prassi, mi sono presentato al domicilio di questo tale - non sto a spiegarti i dettagli, sono irrilevanti - e tutto è filato liscio. Però, un momento prima di smaterializzarmi per proseguire la ronda, mi è caduto l’occhio sul computer di quel tizio. Era acceso, perché stava… come si dice… ecco, stava aggeggiando lì sopra fino al mio arrivo. Così mi sono seduto davanti alla scrivania, ho fissato lo schermo e ho provato a premere a caso alcuni tasti, per vedere cosa succedeva.”
Sono teso, fremo di eccitazione. Sento che è accaduto qualcosa di grosso, che ha scosso nel profondo il mio maestro.
“Beh, credo di averlo rotto. Qualcosa è esploso.” agita la mano in un gesto vago con fare annoiato, “Ma non è questo il punto.”
Mi trattengo dal cadere giù dal divano.
“Vedi, in quell’istante ho capito cosa può rendere assai più facile il nostro compito. Con ‘nostro’ intendo quello di tutti i messaggeri di Sua Eccellenza Oscura. Ci sto ancora riflettendo, devo ragionarci bene e ho deciso di cominciare dalle basi. Tuttavia, fidati quando ti dico che siamo vicini ad una rivoluzione epocale! Non avevo mai preso in considerazione la tecnologia, perché il mio orgoglio mi impediva di fare sforzi per apprendere qualcosa inventato dagli umani. Lo ritenevo un comportamento da perdente, però ho cambiato opinione. Per la prima volta sono felice di studiare e lo faccio per una buona causa.”
“Maestro, non ti seguo… cosa stai leggendo? E cosa c’è nella scatola?”
Abbassa le palpebre a mezz’asta e alza la copertina in maniera che possa leggere il titolo: “Informatica per idioti”.
“Ah.” osservo la scatola, “Quindi lì dentro c’è un computer.”
“Sì.” annuisce grave, “La mia idea è di creare un sito…” sfoglia febbrilmente le pagine del manuale, “un sito internet per stipulare contratti, senza più la scocciatura di dover correre di qua e di là come delle trottole per interagire personalmente con i clienti. Ottimizzeremo i tempi. Le persone che vogliono fare un patto col Diavolo dovranno accedere a questo sito, inserire i propri dati personali, scrivere cosa desiderano in cambio della loro anima e…” legge, “cliccare sull’apposito tasto di invio. Geniale, eh? Ovviamente, non so ancora come, tale sito dovrà essere protetto da degli incantesimi, in modo che solo i potenziali clienti possano accedervi.”
“Intendi installare un firewall?”
“Firewall! Muro di fuoco. Che nome azzeccato!” esclama trionfante, ma subito dopo aggrotta le sopracciglia, pensoso, “A questo capitolo non ci sono arrivato. È il numero venti, io sono fermo al quindici: ‘Che cos’è e come si usa il mouse’. Sai, Archie, non ho mai provato un briciolo di deferenza nei confronti degli esseri umani, ma adesso devo ricredermi: inventare un sistema del genere deve essere stata un’impresa, non immaginavo che la loro intelligenza si fosse evoluta così tanto. Li ho sottovalutati, ma imparo in fretta dai miei errori. Perciò mi metterò in pari con la modernità e adotterò strategie all’avanguardia, come mai nessun demone ha osato fare. Dobbiamo tutti darci una ripulita e levarci di dosso la polvere, ormai sembriamo fossili. Basta giochetti di prestigio, addio pergamene! È arrivata l'era della digitalizzazione!”
Lo guardo. Lo guardo e non so cosa pensare. Il mio cervello si è spento.
“Ora finisco di assimilare le informazioni contenute in questo manoscritto e poi mi metto all’opera. Vedrai, tutti mi faranno i complimenti e verranno da me a chiedermi come funziona, strisciando e pregandomi di insegnare loro i segreti dell’informatica. Diverrò il loro dio per un po’. Persino Lucifero mi riempirà di lodi. Non sto nella pelle!”
Sbaglio o ha un’espressione sognante - e leggermente spiritata - stampata in faccia? E cosa diamine è quel luccichio infantile nelle iridi color tramonto che tanto amo? Sembra un bambino il giorno di Natale.
“Finora abbiamo sempre attinto la nostra forza dalla magia, ma i tempi cambiano in fretta e siamo costretti ad adeguarci. I vecchi metodi non sono più così effettivi come lo erano in passato. Il progresso ci sta lasciando indietro. Ah, Archie, mi sento così vivo!” 
Torna a sfogliare febbrilmente le pagine del libro e si arresta a pagina 112. Indica un punto con il dito e di nuovo si imbroncia.
“Questa parte è molto ostica. Ci ho dato un’occhiata veloce, non ho ancora letto questo capitolo, ma in quelli precedenti ci sono molti riferimenti.”
Piega il busto a destra e si ferma a un palmo di naso dal sottoscritto, tanto che il profumo della sua pelle mi penetra nelle narici e mi infiamma il sangue.
“Tu che sei stato umano, sai spiegarmi in parole spicce che cos’è esattamente Windows 8? ‘Windows” vuol dire ‘finestre’ in inglese e 8 è 8. Vuol dire che ci sono otto finestre? Dove? Perché? E francamente, Archie, l’idea di dover stringere tra le mani un topo per usare questo marchingegno mi ripugna. Ma suppongo che non ci sia un’altra strada e qualche sacrificio si deve pur fare per raggiungere la gloria.”
“Maestro.”
Mi sta venendo il mal di testa.
“Mh?”
“Si chiama ‘mouse’.”
“A-ha: il topo.”
“Non è un topo.”
Alla mia affermazione, proferita in tono neutro e senza mezzi termini, ci resta di stucco. Si blocca, gira le pagine con movimenti rapidi e scorre i righi con il polpastrello, forse alla ricerca di una base da sfruttare per avvalorare la sua tesi. Sotto questo aspetto Samael è un po’ un bambino: detesta perdere e detesta ancor di più essere contraddetto, abituato com’è ad avere sempre ragione.
“Maestro, si chiama ‘mouse’ perché la sua forma ricorda vagamente quella di un topo. In realtà non lo è.”
“Allora perché chiamarlo ‘topo’ se non è un vero topo?”
“Io che ne so.”
Sospira: “Lo sapevo. Questo mondo dell’informatica è pieno di misteri e oscuri abissi… è diabolico! Ma io sono Samael e svelerò gli arcani segreti custoditi in questo volume, abilmente celati con un linguaggio criptico. In confronto, i geroglifici sono una passeggiata.”
“Ah.”
Ho paura di vederlo alle prese con la tecnologia.
“Cos’è un’interfaccia? Perché io, che conosco qualsiasi lingua parlata dai mortali, compresi i dialetti, non riesco a decifrare questo dannato codice?”
Poggio i gomiti sulle ginocchia e mi porto le mani fra i capelli.










 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Quel qualcosa ***








 

Sono le cinque del pomeriggio della vigilia di Natale. Come d’abitudine, sono sdraiato sul letto, intento a scrutare nel vuoto con aria vacua. Samael, seduto sul divano del salotto, picchietta con le dita sulla tastiera del suo nuovo giocattolo con una velocità sovrumana, creando un monotono sottofondo che mi martella il cervello e incrina la rilassante cappa di silenzio che ammanta l’appartamento.
È trascorsa circa una settimana da quando il maestro si è fatto risucchiare dal mondo virtuale. Ha appreso tutte le basi in pochissimo tempo, complice la sua intelligenza demoniaca. Il giorno che ha scoperto internet, però, ha segnato la fine di qualunque dialogo tra noi e ciò è accaduto quarantotto ore fa. 
Di norma, per usufruire di una connessione è necessario possedere una rete telefonica fissa o una chiave USB come supporto, ma Samael, dall’alto della sua saggezza e onnipotenza, ha interferito con le frequenze - non ho la più pallida idea di come abbia fatto - e ha dirottato il segnale dei vicini sul suo pc: adesso può navigare quanto vuole a costo zero, inserendosi nel sistema tramite qualche incantesimo diabolico in grado di influenzare gli algoritmi. È sempre pieno di risorse, non faccio che stupirmi di continuo. Credo sia un hacker mancato.
Tuttavia, ormai non parliamo neanche di lavoro. Per sapere quante anime dovrò raccogliere una notte, è sufficiente che apra la mia valigetta e conti il numero di contratti in essa contenuti. Se prima almeno Samael mi degnava di un briciolo di attenzioni, seppur per commentare qualcosa di futile, adesso non mi elargisce nemmeno un cenno del capo. Mi dà l’impressione di essersi trasformato in uno di quegli adolescenti fissati con la tecnologia, che passa tutto il santo giorno davanti allo schermo a fare chissà cosa, dimentico della realtà che lo circonda.
La solitudine che mi opprime è aumentata in maniera esponenziale e il mio umore, di conseguenza, ne ha risentito parecchio. Molto spesso sono tentato di strappargli di mano quell’aggeggio e scaraventarlo fuori dalla finestra, più che disponibile ad accettare di subire la sua collera, ma so benissimo che non farebbe una piega e andrebbe a comprarsene un altro. Quel maledetto computer si è intromesso nella nostra routine e pare che non ci sia modo di liberarsene. Un vero e proprio terzo incomodo, nonché uno snervante supplizio. D’accordo, essere geloso di un oggetto è ridicolo, ma nel mio caso penso sia più che legittimo. Non so come stia procedendo la creazione di quel sito di cui mi ha parlato Samael, ma, a giudicare dalla sua espressione concentrata e dalla luce sinistra che arde nei suoi occhi ogniqualvolta mi soffermo ad osservarlo, deduco che sia a buon punto. 
Eppure mi chiedo: è davvero necessario? Insomma, per millenni i demoni hanno tirato avanti benissimo senza avvalersi dell’aiuto di questi affari, perciò che senso ha cominciare a sfruttarli ora?
Mi annoio. Sono frustrato, nervoso e arrabbiato con il maestro e il mio stato d’animo peggiora di ora in ora, senza concedermi un attimo di pace. Vorrei ignorare queste emozioni, accantonare la presenza di Samael in un angolino della mente e scordarmene per un po’, ma non ci riesco. Lui è sempre stato una potente calamita per me, ormai non è un segreto. Un po’ come un alcolizzato che è cosciente di avere la bottiglia del suo liquore preferito a pochi passi di distanza e prova a non farci caso: proposito inattuabile.
Mi alzo di scatto, deciso a recarmi in salotto per riscuoterlo dall’apatia, distrarlo dal suo nuovo hobby e cercare di focalizzare la sua attenzione su di me. Sì, esatto, gli chiederò “Chi è più importante: io o quel coso?”. E se sceglie il computer? Mi ghiaccio sul posto e un secondo più tardi i miei occhi cominciano a frizzare. Mi mordo un labbro per seppellire in un remoto anfratto della coscienza questi sentimenti inopportuni, anche perché l’ultima cosa che desidero è mettermi a piagnucolare come una fidanzatina trascurata di fronte a lui. Inspiro ed espiro, calmo i battiti del mio cuore, mi pettino i capelli all’indietro con le dita e fisso con cipiglio agguerrito la soglia del soggiorno. Da dove sono non posso vedere Samael, ma non occorre nemmeno che mi sprema le meningi o che compia alcuno sforzo titanico per immaginarmelo stravaccato sul sofà con il computer portatile sulle ginocchia: ormai questa è la posa che assume la maggior parte del tempo, eccezion fatta per quando esce a riscuotere anime.
Comunque, una cosa è certa: non si può continuare così. Io non posso continuare così. Ho raggiunto il limite di sopportazione. Non mi interessa cosa mi accadrà. Samael sarà libero di spezzarmi tutte le ossa, sbranarmi o torturarmi, a lui la scelta. Ciò che conta è che torni a vedermi, perché la sua mancanza mi provoca un dolore fisico. A volte vorrei gridargli in faccia “io sono qui, guardami!”, ma allora davvero si scadrebbe nel melodrammatico. Non voglio apparire patetico come un essere umano.
Mi dirigo in salotto con rinnovata determinazione, armato di un’aura battagliera, e lo scopro nella solita posizione, come previsto. Mi dà le spalle, però stavolta non mi avvicinerò in silenzio per non disturbarlo, non avrò il minimo rispetto. Quando è troppo, è troppo. Stringo i pugni e marcio verso di lui, come un soldato pronto allo scontro bellico più cruento del secolo, mentre i miei passi riecheggiano per l’ambiente e spezzano la placida quiete che ha regnato fino a questo momento. Nel breve tragitto dalla porta di camera al divano tento di fare più rumore possibile, così da annunciarmi e al contempo distoglierlo dalla schermata colorata che pare averlo ipnotizzato. Io sono molto più bello, che diamine! 
Non ottengo la reazione sperata, perché Samael seguita a premere tasti e a cliccare sul mouse. Tentando di tenere a bada l’indignazione, mi schiarisco la voce e aspetto paziente che mi rivolga almeno un cenno di invito a parlare. Niente.
“Sam, voglio farmi suora.” sbotto, improvvisando.
“Tch! Non farmi ridere…” sbuffa.
“Dico sul serio.”
Schiocca la lingua e scuote la testa con un sorrisetto divertito.
“Va bene, era una cosa un po’ inverosimile, te lo concedo. Però ci sono degli Exurge Domine fuori dall’appartamento.”
Samael scoppia in una grassa risata e si accanisce ancora di più sulla tastiera. 
“Che stai facendo?”
D’accordo, mi arrendo. Se non riesco ad attrarre un grammo della sua attenzione con le buone, è inutile provarci con le cattive, non funzionerebbe comunque. Perché sono così… impotente? Mi sembra di valere meno di zero, di trovarmi addirittura sotto l’ultimo gradino della gerarchia, tanto che un verme è considerato più interessante e conta più del sottoscritto. Sono depresso.
Ad ogni modo, non mi risponde. Aggrotto le sopracciglia, assumo un’espressione corrucciata e piego il capo di lato, scrutandolo come se stessi studiando un esemplare di una specie animale mai vista prima.
“Sam…?”
Mi accosto a lui, preoccupato. Perché mi ignora? Posso capire che sia stato assorbito dal nuovo obiettivo che si è prefissato, ma qui la faccenda sta prendendo una direzione inattesa. Insomma, far finta che qualcuno sia invisibile è sinonimo di maleducazione e il mio maestro non mi ha mai trattato così. Forse è colpa mia. Mi sono comportato male senza avvedermene e questa è la sua tattica per punirmi. Anche se fosse, tuttavia, è strano, perché non si è mai fatto problemi a parlarmi con schiettezza dei miei errori. Questo suo nuovo modus operandi mi disorienta e non so più che pesci pigliare.
“Samael…”
Sussulta e sgrana gli occhi, quasi si sia svegliato solo adesso da un lungo sonno.
“Archie!” mi guarda basito, poi i suoi lineamenti si rilassano e sorride orgoglioso, “Noto con piacere che sei sempre più bravo a celare la tua presenza, mi complimento! Hai talento. Cosa c’è?”
Stavolta è il mio turno di fissarlo completamente a bocca aperta, pieno di sgomento.
“Ma… ci siamo scambiati un paio di battute un minuto fa…”
“Mh? Ah, no, scusami, stavo rispondendo ad un tizio in chat.”
In un attimo mi sento come svuotato. Non sono altro che un guscio che svolazza senza meta nell’etere.
“Archie, stai bene?”
No, non sto bene. Ti sembra che stia bene?! Vorrei sputarglielo in faccia, ma ora non ho neanche la forza di rispondere. Ho appena ricevuto uno dei colpi più bassi della storia e credo di aver bisogno di qualche secondo per riprendermi.
“Se non hai niente da dirmi, torno a fare quello che stavo facen… ah! È già ora.” esclama, controllando l’orologio sul desktop, “Non mi succede spesso di cadere dalle nuvole! Ah ah! Eri venuto a chiamarmi, vero? Cinque minuti ed esco.” 
Preme il tasto di spegnimento e aspetta che il dispositivo si disattivi.
Lo squadro dall’alto imbronciato e a malapena riesco ad arginare le lacrime, non so per quale miracolo divino. Pure questo dettaglio si aggiunge alla lista di cose che mi destabilizzano, perché ormai non dovrei più essere in grado di piangere. Anzi, a dirla tutta non dovrei più nemmeno provare l’impulso di farlo. Per l’ennesima volta mi trovo a chiedere a me stesso: cosa mi sta succedendo?
“Sam, tu mi ami?” queste parole sfuggono dalle mie labbra prima che possa fermarle o realizzare di averle pronunciate ad alta voce.
Devo essere trasalito notevolmente, perché mi sbilancio di qualche centimetro di lato. Avvampo per la vergogna e abbasso lo sguardo, dandomi dello stupido per aver permesso alle mie emozioni di prendere il sopravvento. Affibbio la colpa allo stress, perché francamente non ho la minima idea su quale fronte debba scaricare il mio malessere. Non posso che imputare la causa di tutto a fattori esterni, anche all’atteggiamento scostante di Samael, poiché è il solo modo che ho per evitare di sbirciare dentro la voragine che si è aperta nel mio cuore, per paura di vedere qualcosa di scomodo di cui in parte ho già preso coscienza, qualcosa che non dovrebbe più esserci dal giorno della mia Caduta. Questo “qualcosa” è lì, lo sento, è una presenza impalpabile e al contempo tangibile, che si annida nei recessi più bui del mio animo e se ne sta in attesa, pronta a cogliere l’occasione propizia e a sfruttare la più piccola crepa per emergere ed esplodere. So che ciò non deve accadere, non devo lasciare che questa cosa fuoriesca e si palesi, specialmente di fronte al maestro, perché so che è sbagliato. 
Non sono in grado di descrivere o analizzare con procedimenti logici tale sensazione. È strano e mi provoca un enorme turbamento. Però sono più che certo del fatto che, se abbasso la guardia e la faccio trapelare all’esterno, Samael non reagirà bene. Beh, alla fine è solo una congettura, non posso dichiarare con assoluta sicurezza come la prenderà, non sono un veggente, eppure covo in me un terrore apparentemente immotivato che mi suggerisce di tacere, di nascondere sotto innumerevoli strati di menzogne e silenzi la tempesta che imperversa in me: è una sorta di istinto di conservazione, che mi urla a gran voce di stare in campana. Credo che sia meglio non rivelare al maestro che cosa si dimena nel mio cuore come un’anguilla, c’è in ballo la mia sopravvivenza. Non capisco bene in che modo, ma una specie di sesto senso animale si è attivato appena ho posto a Samael la domanda di poco fa, facendomi scattare come una molla e comprendere con spaventosa chiarezza di aver compiuto un passo falso. Devo farne uno indietro, subito.
“C-cioè… mi vuoi ancora? Insomma, non facciamo sesso da mesi e… mi sento solo.” balbetto nervoso, sperando che non abbia preso sul serio l’altra frase.
In un’altra circostanza potrei tentare, ma al momento mi risulta difficile esaminare tutto il processo che in uno schiocco di dita mi ha condotto alla sconcertante rivelazione di aver articolato una parola tabù, ovverosia “ami”; non possiedo i mezzi, materiali e teorici per illustrare in che maniera l’assoluta certezza di essermi appena tirato il bastone sui piedi mi abbia attraversato la spina dorsale come una doccia d’acqua ghiacciata. Potrei stare a lambiccarmi il cervello per ore, ma non ne caverei alcuna risposta sensata, non ho dubbi in merito. So solo che è stato quasi come schiantarmi a massima velocità contro un muro di cemento armato.
Samael, dopo un istante di perplessità, si scioglie in un ghigno ferino. Poi depone il computer sul divano, si alza e si avvicina, cingendomi i fianchi in una morsa possessiva.
“Oh, adesso è tutto chiaro: sei in astinenza. Hai ragione, sono stato occupato con altre questioni e ti ho trascurato.” mi bacia la fronte e affonda il naso nell’incavo del mio collo, inalando il mio odore, “Scusa, Archie. E poi è colpa mia che ti ho viziato troppo.” ammicca sornione, “Ora devo prendermi le mie responsabilità. Pazienta ancora un po’ e quando avrò portato a termine questo progetto mi dedicherò a te. Recupereremo il tempo perduto, promesso.”
Mi accarezza una guancia con i polpastrelli ed io non posso fare altro che serrare lentamente gli occhi, estasiato dal quel contatto così lieve, appena accennato, eppure così agognato. La paura di poco fa è scemata e per fortuna Samael non mi ha rimproverato. Accantono tutti i tarli molesti che mi assediano la mente, contento di essere di nuovo così vicino al mio demone. 
Mi protendo verso di lui per reclamare un bacio, ma Samael mi afferra saldamente la mandibola con pollice e indice e mi fa piegare la testa all’indietro, in maniera tale da esporre la mia gola ai suoi denti. Morde, lecca e succhia, senza mai però essere violento, mentre io gemo e ansimo tra le sue braccia, bramoso di quelle effusioni che troppo a lungo mi ha negato. Tuttavia, si stacca dalla mia pelle proprio quando le cose cominciano a farsi bollenti e il mio cuore manca un battito al pensiero che voglia interromperla qui.
Sorride e si china sulle mie labbra, sussurrando lascivo: “Ti meriti un premio per aver resistito per tutti questi mesi. Sono stato un maestro cattivo, ma saprò farmi perdonare…”
Lo fisso languidamente, carico di aspettativa, e con mia somma gioia Samael decide di non tirarla per le lunghe. Mi fa schiudere la bocca e vi aderisce con la sua, tenendomi immobile in una morsa d’acciaio. Lì per lì penso che voglia baciarmi, perciò mi spingo in avanti alla ricerca della sua lingua, ma un attimo più tardi una scarica elettrica mi attraversa il corpo, paralizzandomi e mozzandomi il fiato. Sbarro le palpebre nel vuoto, incredulo, sconvolto e incapace di elaborare una risposta alle domande che mi frullano impazzite nel cervello. Sono in preda al caos. Percepisco qualcosa, come una corrente calda, scaturire impetuosamente dalla cavità orale di Samael e riversarsi in me al galoppo, scivolando giù per la gola, invadendomi lo stomaco e incendiandomi il ventre. Urlo mentre le mie membra vengono scosse da spasmi convulsi. Non ho più il controllo dei miei arti e della mia voce, graffio l’aria e le spalle del demone con le mani, emetto rantoli spezzati e la vista si annebbia. Mi sembra quasi di precipitare dalla cima di una montagna, la sensazione è molto simile. Mi sento violare in ogni cellula, esposto e vulnerabile, ma allo stesso tempo sono felice. Il peso delle preoccupazioni e dei dubbi che mi gravava sulle spalle è sparito, sono più leggero delle nuvole e mi pare di volare, libero da ogni costrizione. Il piacere divampa e dei lampi bianchi mi accecano, finché non mi accascio privo di forze, soddisfatto. 
Samael passa un braccio dietro la mia schiena e mi sorregge, risparmiandomi la caduta, ed io mi affloscio come un palloncino bucato, con la bocca socchiusa, le guance in fiamme e gli occhi riversi al soffitto, senza realmente vederlo. Odo la sua risata come un’eco lontana, ma non mi interessa di apparire ridicolo. Credo di aver toccato il paradiso per qualche secondo e posso affermare che è stata un’esperienza fuori dal mondo.
“E questo era un assaggio del mio potere. Piaciuto?” bisbiglia al mio orecchio, alitandoci dentro.
Vengo attraversato da un brivido e mugolo qualcosa di indefinito. Focalizzo la mia attenzione sul suo viso, in un blando tentativo di riacquistare contegno, e lo scorgo umettarsi le labbra con la lingua, proprio come un gatto che si lecca i baffi dopo aver gustato un prelibato banchetto.
“Perché sei così dolce? Sei ancora più delizioso di quando eri umano…” mormora a quel punto con aria assorta, vagamente predatrice. 
La sua voce rimbomba nel mio corpo, facendomi vibrare. Pare quasi che mi stia accordando, come se fossi uno strumento da suonare e vezzeggiare a suo piacimento. Gemo ancora, anzi squittisco, e il suo sguardo ha un guizzo improvviso.
“Il tuo odore è diverso dall’ultima volta che ti sono stato così vicino, è cambiato. Strano che non me ne sia accorto prima.” 
Inarca un sopracciglio e mi annusa il collo, dato che la posizione gli permette pieno accesso a quella parte delicata. Io non riesco ad oppormi, benché pian piano avverta le energie tornare a irrorare le mie vene, ma il processo è infinitamente lento rispetto alle sue azioni.
“Perché sei così buono, Archie? Mi fai venire l’acquolina… voglio mangiarti.”
Sgrano gli occhi nel vuoto e mi irrigidisco per la paura, la medesima paura atavica e primordiale che blocca la preda quando sa di non avere scampo davanti al cacciatore. 
Mi faccio forza e sollevo la testa per studiare la sua espressione, che è quanto di più famelico e primitivo abbia mai visto. Non mi ha mai osservato in questo modo, nemmeno quando ero ancora mortale. Le sue iridi color arancio, più grandi del normale, rifulgono di una luce sinistra, tendente al carminio, e le pupille si sono assottigliate come quelle dei felini. Mi ritrovo a fissare due fari ardenti, che a loro volta mi trafiggono come spade e si incuneano nella mia carne. Vuole divorarmi. È una certezza, questa, un’asserzione inoppugnabile. Non so se sia lucido o se la coscienza lo abbia abbandonato, fatto sta che se non trovo una soluzione morirò entro pochi istanti, senza che possa evitarlo.
Guardo il suo viso, i suoi tratti così familiari distorti in una maschera bestiale, come se anche la conformazione stessa delle ossa sia mutata. Gli zigomi pronunciati, il mento affilato, il naso dritto, le sopracciglia ben disegnate, le orecchie leggermente appuntite e la bocca… un buco nero ornato da due file di denti aguzzi. Avverto i suoi artigli perforarmi la stoffa sottile della camicia e stracciarla a causa della pressione, mentre un calore intossicante e insopportabile si sprigiona dalla sua figura, che torreggia su di me. Di nuovo, i miei occhi vengono calamitati dai suoi, attratti da quel bagliore infernale che brucia e annienta le mie difese. Cerco di ribellarmi, però mi è impossibile districarmi dalla sua presa ferrea. Sono alla sua totale mercé, non posso scappare, non con la forza. Devo escogitare a una strategia per distrarlo e destarlo da questa strana trance in cui sembra essere caduto.
Pensa, pensa, pensa!
La distanza si accorcia, sta quasi per azzerarsi, e una zaffata di fiato bollente mi penetra nelle narici. Sa di bruciato e ho la vaga impressione di udire uno sfrigolio di fiamme sulla legna, ma forse è solo un’allucinazione. Non ho più scampo e il potere che danza nelle sue iridi mi tiene incatenato, tanto che a un tratto mi accorgo di non riuscire più a muovermi, per quanto ci provi.
“Samael!” un grido roco, un’invocazione disperata, l’ultima possibilità a cui posso aggrapparmi.
Grazie a Dio è sufficiente. 
Sbatte le palpebre e torna in sé. Appena realizza che cosa stava per fare, mi scosta bruscamente e arretra, coprendosi le labbra con una mano. Senza più il braccio di Samael, cado a terra, le gambe improvvisamente molli e tremanti. Sono terribilmente consapevole di aver rischiato grosso, anche se non sono in possesso di alcuna spiegazione logica per quello che è accaduto. È successo tutto in pochi minuti ed è buffo che, da quando ho messo piede in salotto, io abbia trovato ogni emozione e ogni singolo gesto di Samael privi di basi razionali a cui attingere, più che altro per placare l’ansia che mi stritola il cuore. 
La confusione regna sovrana e i pensieri vorticano impazziti. Tanto per cominciare, il maestro non mi ha mai attaccato, mai. Non mi ha mai trattato come cibo, né mi ha mai considerato tale. Almeno credo. Perché quindi questo cambiamento repentino?
Lo sorprendo a fissarmi come se mi vedesse per la prima volta. Il tempo si ferma, l’atmosfera rimane sospesa per un lasso di tempo incalcolabile. Poi, quando si inginocchia e gattona verso di me per circondarmi in un abbraccio confortante, finalmente i minuti riprendono a scorrere ed esalo un sospiro di sollievo, rilasciando di botto tutta la tensione e il terrore che mi attanagliano le viscere.
“Scusa, Archie, scusami. Non so cosa… mi dispiace. Non aver paura, non voglio farti del male.” mormora, la bocca incollata alla mia fronte per trasmettermi calore, “Sei prezioso per me, lo sai, vero?”
Annuisco, ma la voce mi resta incastrata in gola.
“Molto prezioso.” continua, “Non succederà più, te lo prometto. Sì, il tuo odore è sublime, ma non ti mangerei mai, altrimenti chi stuzzicherei?” scherza, probabilmente con l’intento di sdrammatizzare.
Il suo volto, come al solito, non tradisce alcun turbamento, eppure percepisco quanto sia sconvolto. Sta dicendo la verità: lui non vuole farmi del male. Ma se un giorno lo facesse comunque, a dispetto di quello che vuole?
“Archie.” mi chiama in tono carezzevole, “Archie, sta’ tranquillo. Tu sei speciale, non dimenticarlo. Sei mio.”
Lo sento esitare e non ne comprendo la ragione. Lo osservo interrogativo.
“Beh, per fartela semplice, ti considero il mio tesoro più inestimabile, un tesoro da proteggere e di cui prendermi cura. Il desiderio che nutro per te è reale, da sempre, dal giorno in cui mi hai evocato. Scordiamoci di questo triste episodio, ti va? Ti garantisco che non si ripeterà più.”
“Cosa…?”
“È possibile che in me sia scattato qualcosa in risposta agli stimoli sessuali che mi spedivi e che in qualche maniera io abbia travisato tali segnali, mettendoti involontariamente in pericolo.”
“Io non spedivo niente…”
“Oh sì, invece.”
Una cascata di baci cade su tutta la mia faccia. Arrossisco e cerco di ritrarmi per l’imbarazzo crescente.
“Tutto il tuo corpo mi stava invitando a banchettare.” prosegue, “Devo aver confuso appunto il desiderio carnale con l’appetito. Cioè…” indietreggia quel tanto che basta per mettersi alla mia stessa altezza, “non sono sicuro, ma penso di aver scambiato il tuo invito a scopare per un invito a mangiare. Il che non è molto diverso… ah, è complicato!” scrolla il capo, arreso.
“Stavi per… per mangiare la mia anima?”
Ridacchia e mi fissa divertito: “Già. Però è alquanto ironico, visto che tu non ne hai più una. Chissà cosa stavo cercando di fare. In ogni caso, sarei rimasto a bocca asciutta!”
Mi scocca un bacio casto sulle labbra e mi dà un buffetto sul naso, però mentirei se dicessi che sono a mio agio. Ad essere onesto, in questo momento vorrei allontanarmi da lui e schiarirmi le idee. Non mi importa più della mancanza di contatto fisico tra noi. La paura mi ha abbandonato e so che il pericolo è passato, ma un fastidioso campanello d’allarme non smette di suonare e seguita a pungolarmi in modo ossessivo. Devo stare all’erta.
“È tardi, il lavoro ci attende. Ne riparliamo dopo, va bene?” mi sollecita ad alzarmi in piedi, porgendomi poi una mano per aiutarmi.
“Sì…” biascico, ancora frastornato.
“Perfetto. Siccome mi sento in colpa, stasera ti alleggerisco e mi farò carico io di una parte dei tuoi contratti. Te ne lascio giusto due o tre, così poi hai tutto il tempo per fare i tuoi comodi: girellare per la città, farti una doccia, riposare, quello che vuoi.” sorride sereno, o forse vuole solo sembrarlo.
Dopodiché agguanta cappotto e valigetta ed esce dall’appartamento, non prima di avermi coinvolto nell’ennesimo bacio, dove imprime tutto il suo dispiacere.

Grazie alla gentile concessione di Samael, ho solo tre contratti di cui occuparmi stanotte, di conseguenza decido di fare con calma. Per la prima volta dopo non so più quanto tempo non ho fretta e non ho bisogno di affannarmi per riuscire a raccogliere tutte le anime entro l’alba. 
I domicili dei clienti sono tutti in centro, quindi ne approfitto per dare un’occhiata in giro e ammirare le decorazioni natalizie che adornano le strade e i negozi, immergendomi in quel tripudio di luci come se rinascessi a nuova vita. È da molto che non respiro un’aria così satura di allegria e spensieratezza e di sicuro è tutta opera della festa in questione. 
Le vie sono affollate ed è un’impresa ardua camminare in linea retta, pur avvalendomi dello strano potere di “dividere le acque” come Mosè. Famiglie e coppiette passeggiano scambiandosi risate o fermandosi in qualche boutique a comprare dei regali, mentre a ridosso di un angolo uno zingaro suona con impegno e passione una vivace melodia con il violino, impaziente di ricevere qualche moneta come premio per la sua bravura; i turisti fotografano il Duomo o le opere degli artisti di strada, che riproducono con stupefacente maestria quadri di famosi pittori rinascimentali, disegnandoli direttamente sulle mattonelle di pietra, nelle piazze o ai lati delle strade, armati di gessetti colorati; dai ristoranti si sprigiona un effluvio squisito di carne o dolciumi, che attira le persone a frotte, e una sinfonia di voci, accenti stranieri e suoni diversi riempie l’aria fredda di dicembre.
Accolgo dentro di me tutti i particolari che riesco a carpire con la vista, l’udito e l’olfatto, li assaporo meravigliato e mi tuffo nella marea di sensazioni che il periodo natalizio fa germogliare in me. Sono sempre stato suscettibile al fascino del Natale, anche se non ricordo di averne mai vissuto uno felice. A casa mia lo festeggiavo con la famiglia, ovvio, ma non ho mai provato questa pace, come se non esistesse più l’odio, la violenza o l’oscurità e tutto il mondo si trasformasse in una gigantesca palla multicolori; come se per una sola notte mi venisse dato il permesso di smettere di angustiarmi per i contratti, di prendermi una pausa dall’onere di estirpare il germe del male che consuma il pianeta per sperimentare invece il lato luminoso della vita. In questo periodo dell’anno spesso mi gingillo col pensiero che c’è anche qualcosa di buono, qualcosa che si può salvare, e che non è tutto da buttare. La speranza si riaccende, come le candele poste accanto al presepe, e ogni anno, in questo giorno, si rinnova e splende più fulgida che mai.
Sorrido distratto, lo sguardo per aria e lontano, il corpo leggero come una piuma.
Dopo qualche minuto, la mia attenzione si sofferma su una coppietta di innamorati che si sbaciucchia su una panchina, in Piazza della Repubblica. In un battito di ciglia mi torna in mente ciò che è successo nell’appartamento con Samael, la sua aggressione, la sua espressione, i suoi occhi. Rabbrividisco e una raffica di vento più forte mi scompiglia i capelli trattenuti in una coda bassa, intrufolandosi sotto i vestiti. Ad un tratto, ogni goccia di gioia e contentezza provata fino a un attimo fa sparisce e lascia dietro di sé una landa desolata, grigia e spoglia, gelida. Scuoto il capo con veemenza, tentando di scacciare il ricordo, ma più cerco di respingerlo, più esso si fa insistente. 
Mi stringo nelle spalle, sollevo il colletto del soprabito pesante per ripararmi dal freddo pungente e serro le dita intorno al manico della valigetta. Ogni traccia di buon umore è scomparsa e tutto ciò a cui sono capace di pensare è il prossimo contratto da riscuotere. I familiari tentacoli neri, fili maligni e ingordi, mi sfiorano il braccio, ci si avviticchiano intorno e risalgono verso il mio viso, accarezzandomi con gentilezza.
Spicco un salto e mi libro nel cielo, sopra i tetti dei palazzi fiorentini, creando una piccola corrente d’aria che si esaurisce in un paio di istanti. Atterro sulle tegole e scrocchio il collo, piegandolo prima a destra e poi a sinistra. Dopodiché volgo l’attenzione davanti a me e la punto su una finestra illuminata, all’ultimo piano di un edificio storico. Il primo cliente si trova lì, posso fiutare l’odore ributtante della sua anima lercia, una scia talmente nauseabonda da farmi storcere il naso disgustato. Fletto le gambe e mi catapulto sul balcone del suo appartamento, pronto a dare il via alle danze ancora una volta.
Concludo i primi due incarichi in circa due ore. Sono le dieci e la notte si prospetta essere lunga. Se almeno avessi più lavoro da sbrigare, il tempo scorrerebbe più in fretta. Lo so, fino a ieri mi lamentavo perché volevo le ferie e ora mi lamento perché non sgobbo abbastanza. No, non sono una persona coerente.
Sbuffo e controllo il terzo e ultimo indirizzo. Prendendo la scorciatoia per i tetti, dovrei arrivarci in tre minuti, massimo cinque. E poi che faccio? A casa la televisione è rotta e non c'è nemmeno un libro. Beh, forse potrei usare il computer di Samael, ma non sono pratico e temo di mandarglielo in corto circuito. E allora chi lo sente? 
Sbuffo ancora, scocciato, e plano delicatamente su un terrazzo di pietra, risalente ai primi decenni del novecento. Scruto oltre i vetri della portafinestra e vedo un ragazzino di non più di diciotto anni che legge un fumetto, sdraiato sul letto.  Aggrotto le sopracciglia e assottiglio le palpebre. Sì, è lui: Marco Spadoni.
Mi muovo con circospezione e, dato che ho tempo, decido di studiarlo un po’. È raro che ne capiti uno così giovane, non nego di essere curioso. Mi siedo sul bordo della massiccia ringhiera di pietra del terrazzo, con la schiena rivolta verso la strada. La camera è piccola e arredata in modo semplice, con un letto a una piazza a ridosso della parete sulla mia destra e una scrivania da quella opposta. Accanto a questa c’è un armadio di legno a due ante, mentre sopra il letto noto due scaffali pieni di libri scolastici e fumetti. Sembra la cameretta di un liceale ordinario. Sul muro sopra la scrivania è stato affisso un poster di una squadra di calcio. Sorrido quando mi imbatto nella classica pila di vestiti sgualciti abbandonati sulla sedia, messi lì da un ragazzo troppo pigro per concepire di ripiegarli e riporli nell’armadio. Due paia di scarpe giacciono sul pavimento come se fossero state scalciate via con indifferenza e qua e là vedo sparsi dei fogli, forse appunti di qualche lezione, insieme a penne e cianfrusaglie varie, disseminate senza criterio anche sulla scrivania.
Tocco la valigetta, chiudo gli occhi e mi concentro. Subito delle visioni mi attraversano la retina e precipito nel vortice di memorie del contraente.
Marco ha stipulato il patto quando aveva sei anni, perciò ora ne ha diciannove. Ha venduto l’anima per ammazzare un bulletto che faceva del male a lui e ad un suo amico alle elementari. Le emozioni contenute nel pegno del contratto, un braccialettino comprato a qualche mercato etnico, sono contrastanti: c’è paura, angoscia, ma anche sollievo e determinazione, la stessa di qualcuno che è convinto di stare facendo la cosa giusta. Al contrario degli altri individui con cui ho sempre avuto a che fare, Marco non presenta le peculiari caratteristiche di un peccatore. Sì, ha venduto l’anima per uccidere un bimbetto arrogante, presuntuoso e prepotente, ma lo ha fatto per salvare il suo amico. Non so, voglio vederci chiaro. È la primissima volta che scopro di dovermi occupare di una persona che ha firmato un patto per il bene di qualcun altro e, sinceramente, non so bene come comportarmi.
Mi alzo e mi smaterializzo, così da passare attraverso la finestra sprangata. Come da copione, Marco avverte la mia presenza e compie un balzo sul materasso, trattenendosi a stento dal gridare. Lo squadro da capo a piedi: di costituzione debole, magro e gracile come un giunco, pure un po’ basso per la sua età. Appena incontro il suo sguardo, però, non riesco a frenare un moto di stupore: i suoi sono gli occhi di qualcuno che è cosciente di cosa lo aspetta. Marco sa chi sono, lo percepisce, e sa cosa gli succederà stanotte, proprio la vigilia di Natale. Rimane muto e immobile, pallido come un fantasma, ma non cerca di scappare. Conosce il suo destino e in qualche strana maniera me lo sta comunicando. 
Ammetto di essere spiazzato anch’io. Questo è un risvolto che non avevo mai preso in considerazione. Cioè, normalmente il cliente inizia a strillare e a implorare pietà, oppure nega l’evidenza, attribuisce la mia comparsa a un effetto collaterale di qualche pillola o dell’alcool e si convince di stare sognando. Mai mi è capitato di fronteggiare un ragazzino con degli occhi così maturi, due laghi montani calmi e placidi come stagni, privi di increspature. È pietrificato, eppure sento che non è sorpreso. I riccioli scuri, che costituiscono il suo cesto informe di capelli, sono arruffati e disordinati e un secondo più tardi un ciuffo ribelle gli cade sul naso, provocandogli uno starnuto. 
“Salute.”
“Grazie.”
Questo rompe il ghiaccio tra noi e noto segretamente colpito che Marco si tranquillizza e si accomoda a gambe incrociate sul letto. Mi scruta dal basso. Ha riacquisito un colorito roseo e adesso sembra più a suo agio.
“Sapevo che qualcuno sarebbe venuto a prendermi.” esordisce pacato, ma con voce ferma, “Ho contato i giorni e le ore sul calendario. Sono pronto.”
Mentre poco fa lo esaminavo dal terrazzo, avevo intuito che era un giovane introverso e intelligente, con una marcia in più. Avevo inoltre ottenuto alcune informazioni sulla sua vita attuale: nessuna fidanzata, un solo amico - per l’appunto colui che ha salvato alle elementari - una famiglia assente, figlio unico. Un cane, che dorme con lui tutte le notti. 
“Che aspetti? Guarda che non ho paura.”
“Dovresti, invece.” replico.
“Tanto non esiste un modo per evitarlo, giusto?”
“Puoi chiedere una proroga.”
“In che senso?” mi osserva perplesso e interessato.
“Qualcun altro deve prendere il tuo posto e in questo caso… direi che si tratta proprio del tuo amico. Immolalo e ti saranno conferiti altri tredici anni.”
Tra noi piomba il silenzio. Marco abbassa la testa e si rannicchia, raccogliendo le ginocchia al petto.
“Non posso farlo.”
“Perché? Non ti è cara la vita?”
“Ho venduto l’anima per proteggerlo, non posso sacrificarlo adesso. Gli voglio bene, siamo sempre stati inseparabili, sin dalla seconda elementare. Non tradirò la sua amicizia, è una delle poche cose belle che ho conservato.”
Questo ragazzo è una persona buona. Lo fisso corrucciato ed esitante. Non ho idea di come dovrei procedere, giunti a questo punto. In teoria, sarebbe meglio che mi sbrigassi a portare a termine l’incarico, senza tergiversare, ma il mio corpo rifiuta di muoversi.
“Come ti chiami? Ce l’hai un nome? Non sei come quello che ho incontrato tredici anni fa.”
“Chi sarebbe?” schivo la domanda.
“Non lo so, però ricordo che mi incuteva soggezione. Ho provato un terrore reverenziale. Non rammento il suo aspetto, le immagini sono sfocate. Solo la sua voce è rimasta impressa nella mia mente: era metallica e profonda, mi entrava dentro e mi sembrava che potesse vedere tutto di me.”
“I demoni fanno questo effetto.” annuisco comprensivo.
“Ma tu sei diverso. Sei… non so… sembri umano.”
Mi rabbuio e giro il capo di lato, per non incrociare i suoi occhi indagatori.
“Non mi vuoi dire il tuo nome?”
“Al…” comincio, ma poi mi correggo, “Archie. Mi chiamo Archie.”
Sorride: “È un nome molto umano.”
“Non siamo qui per parlare di me.”
“Sì, scusa.” infossa la testa nelle spalle, “Te l’ho detto, io sono pronto. Quando vuoi.”
Non resisto, devo chiederglielo. Non è mia abitudine ficcanasare negli affari altrui, ma sento che c’è una ragione dietro il mio tentennamento. Devo sapere.
“Senti, come mai hai firmato un patto col Diavolo, invece di farti aiutare dai tuoi genitori o da qualche insegnante?”
Sospira e lascia vagare lo sguardo per la camera con aria assente: “È una storia lunga.”
“Sono curioso.”
Simpatizzare con il cliente va contro il codice, ne sono consapevole, ma ho la netta sensazione che non potrò agire se prima non ascolto dalla sua bocca quello che è successo. Non mi capacito di come un bambino abbia avuto il fegato di vendere l’anima. Inoltre, cosa alquanto strana, Marco non pare diffidente, non avverto alcuna traccia di ostilità in lui. 
“Beh, all’inizio ero solo io quello preso di mira. Ero magrolino e ingenuo. Volevo fare amicizia con tutti, desideravo farmi accettare dai miei compagni, perciò tendevo a prestarmi agli scherzi e ad evitare i litigi. Non mi importava che mi rubassero lo zaino per giocarci a calcio o che mi buttassero le scarpe da ginnastica nel cesso. Ci ridevo su come uno stupido, perché pensavo che prima o poi si sarebbero stancati. Se invece avessi reagito, si sarebbero accaniti ancora di più. Le maestre qualche volta intervenivano, ma io coprivo spesso quei bulletti e mi beccavo le loro punizioni. Speravo di diventare loro amico. Leonardo, così si chiamava il bambino che comandava il gruppetto, era vivace, iperattivo, e aveva anche un brutto carattere. Non so come fossero i suoi genitori, non me ne sono mai preoccupato, ma a posteriori ho realizzato che forse il suo comportamento era dovuto ad una situazione familiare non esattamente rose e fiori. Comunque, poco importa.”
Si interrompe e mi fa cenno di sedermi sulla sedia davanti alla scrivania. Scosto i suoi vestiti stropicciati e li faccio cadere sul pavimento, al che lui ridacchia.
“Scusa, non sono un maniaco dell’ordine come mia madre.”
“Sei perdonato.”
“Dicevo…” tossicchia, “Ero la vittima designata di Leonardo e quasi ogni giorno mi faceva i dispetti. Niente di che, intendiamoci, ma all’epoca uno spintone equivaleva ad un pugno sul naso. Tornavo a casa con le ginocchia sbucciate, i pantaloni sporchi e qualche graffio, però tutto sommato resistevo. A metà del primo anno delle elementari arrivò un altro bambino, che si era trasferito in zona: Claudio, quello che ancora oggi è il mio migliore amico. Io fui il primo ad avvicinarmi a lui, dato che era timido e impacciato, e stringemmo subito un solido legame. Mi piaceva giocare con lui, avevamo gli stessi gusti in tutto, tranne che per il cibo. Su questo non ci siamo mai intesi. Insomma, come si fa a preferire un hamburger alla pizza?!” accenna una risata e scuote il capo, “Passavo molti pomeriggi a casa sua e lui da me, ma Leonardo non ci mise tanto a prendere di mira pure lui. Anzi, le sue attenzioni virarono da me a Claudio. Ma Claudio non era forte, o stupido, come me. Piangeva sempre e io lo consolavo. Cominciai a desiderare di proteggerlo e, di conseguenza, cominciai ad oppormi alla ‘dittatura’ di Leonardo, che ovviamente non reagì bene. Gli scherzi divennero più crudeli, tanto che una volta arrivò persino a strappare i libri scolastici di Claudio durante la ricreazione, quando in classe non c’era nessuno. L’indomani seppi dal mio amico che era stato severamente sgridato dai suoi genitori, perché non gli avevano creduto quando aveva giurato di non essere stato lui a far scempio dei suoi libri. Per farla breve, la situazione degenerò in fretta e io tornai ad essere un bersaglio, ma non mi dispiacque: non avrei abbandonato Claudio, ci saremmo spalleggiati a vicenda. Era il fratello che non avevo mai avuto e lo è ancora. Poi, verso Natale, prima delle vacanze, Leonardo venne a scuola con un coltellino svizzero, molto piccolo, vantandosi di averlo fregato a suo padre, che faceva il ferramenta. Per tutta la mattina lo sfoggiò di nascosto e lo mostrò ai nostri compagni di classe, attento a non farsi scoprire dalle maestre. Dopo il pranzo, tornando dalla mensa, ci portarono in giardino a giocare e lì Leonardo colse l’occasione per usarlo. Con la scusa di far finta di essere un pirata, attaccò Claudio brandendo il coltellino e in qualche modo riuscì a procurargli un graffio sulla fronte. Ad un’occhiata veloce non parve profondo, ma in realtà dovettero applicargli i punti all’ospedale. Quando lo venni a sapere, mi arrabbiai talmente tanto con Leonardo, che espressi il desiderio che morisse. Il resto… credo non ci sia bisogno di raccontarlo.”
Non è difficile capirlo. È possibile evocare un demone se il desiderio è abbastanza forte, e nel caso di Marco si è trattato di vendetta. Non è stata una richiesta innocente, non lo ha fatto per proteggere Claudio, ma per vendicarlo. Covare questo tipo di sentimento verso qualcuno è male, ergo Marco non è puro come un giglio. Tuttavia, se non avesse agito, forse Leonardo avrebbe continuato a vessare Claudio e il bullismo può avere gravi ripercussioni su un bambino così piccolo.
“C’è ancora una cosa che non mi è chiara: perché non lo hai detto ai tuoi genitori? Perché non li hai coinvolti?”
Sbuffa e si gratta la nuca.
“Quando Leonardo è morto, mi sono pentito di quello che avevo fatto. Quando sono cresciuto un po’, ci ho riflettuto e il peso del mio peccato mi è piombato addosso come un macigno. Sono colpevole di omicidio, in fin dei conti. Ho capito dopo che avrei potuto risolvere da solo il problema, denunciandolo alle maestre e ai miei genitori, ma ero troppo piccolo e troppo spaventato per rivelarlo a qualcuno. Anzi, ho agito d’impulso. Non mi rendevo davvero conto delle implicazioni del mio gesto.” assume un’espressione seria e comincia a mordersi le unghie, “Ero qui, su questo letto, sotto le coperte. Cercavo di dormire, ma l’odio verso Leonardo e il ricordo del sangue sulla faccia di Claudio mi tenevano sveglio. Ho pensato 'vorrei che Leonardo morisse, vorrei che sparisse e che ci lasciasse in pace'. Io sarei sopravvissuto ai suoi dispetti, ci avevo fatto il callo, ma per Claudio era diverso. Lui sarebbe crollato. Poi è accaduto tutto in un attimo, così velocemente che ho dimenticato come si svolse. Quell’essere… quel demone mi propose un accordo: in cambio della mia anima, avrebbe tolto di mezzo Leonardo. Come pegno gli diedi il braccialetto che Claudio mi aveva regalato per il mio compleanno.” fa una pausa e si sdraia supino, “A quell’età non avevo ben chiaro il concetto di anima, né ero cosciente del casino in cui sarei andato ad infognarmi. Ho commesso un errore, che ora mi costerà caro. Però va bene. In vista di questa notte, non ho mai fatto progetti per il futuro, perché sapevo che non ne avrei mai avuto uno. Non ho mai ceduto all’illusione che fosse stato tutto un brutto sogno, sapevo che era reale. Ho tenuto alta la media scolastica per dare qualche soddisfazione ai miei, e ho pure cercato di allontanare Claudio, in modo che non si affezionasse troppo e non soffrisse quando me ne sarei andato. È stato inutile, ma confesso che una parte di me è felice che il mio migliore amico mi sia rimasto accanto. Almeno sono stato attento a non innamorarmi.” sorride triste, mentre i suoi occhi azzurri si riempiono di lacrime, che si affretta ad asciugare con le maniche della maglia. 
Poggio i gomiti sulle ginocchia e il mento sulle dita intrecciate. Rifletto.
“Per quello che vale, mi dispiace.”
Devo aver detto qualcosa di strano, perché Marco strabuzza gli occhi e mi scruta inebetito.
“Un demone non dovrebbe provare dispiacere… anche se non so niente dei demoni, quindi forse mi sbaglio.”
Reprimo una risatina e mi biasimo tacitamente. Diavolo, cosa mi sta succedendo in questo periodo? Non mi riconosco più. Fino a qualche mese fa non mi sarei mai seduto a chiacchierare con un cliente, avrei considerato assurda anche solo l’idea.
“Lascia perdere.” borbotto a disagio, “Davvero non vuoi una proroga?”
“No. Se il prezzo da pagare è la vita di Claudio, rifiuto.” risponde deciso.
Deve esistere una soluzione. No, aspetta, perché mi ostino a volerlo salvare? È un peccatore e come tale merita la dannazione eterna. Tuttavia, una domanda mi frulla nel cervello: perché uno come Marco è destinato a patire le pene dell’Inferno, se dal contratto non ha ricevuto alcun beneficio per se stesso? D’accordo, era mosso dal desiderio di vendetta, ma lui che ne ha ricavato? Ricchezza? Prestigio? Felicità? Il contratto gli ha solo tolto dalle scatole un bullo, quindi presumo abbia trascorso il resto delle elementari tranquillo, insieme al suo amico. E con ciò? Nel senso che pochi anni di serenità sono stati la ricompensa?
“Claudio è mai stato vittima di altri episodi di bullismo, in questi anni?”
“Oh, sì. È stato picchiato varie volte, colpa della sua timidezza. Ma io sono sempre stato lì a fargli da scudo e a rispondere ai pugni per lui.” 
Lo osservo meditabondo, finché una lampadina si accende.
“Lo ami.”
Arrossisce e torna a mangiucchiarsi le unghie.
“Non so cosa sia l’amore. Sono attratto dalle ragazze, ma per lui farei qualsiasi cosa. Bah, che importa! Domani non camminerò più in questo mondo.” mormora.
Questo adolescente mi stupisce sempre di più. Mi ha subito ispirato fiducia e affetto, appena i suoi occhioni azzurri hanno incontrato i miei, e con mia somma sorpresa mi accorgo solo adesso che non irradia i classici tentacoli neri, manifestazioni della natura maligna di un individuo. 
“Archie, perché hai voluto chiacchierare con me? Perché non la fai finita?” 
Le sue parole mi distolgono dalle mie elucubrazioni e mi gettano nella confusione più nera. Stavolta è il mio turno di restare zitto. Già, perché non la faccio finita? Perché esito? Il silenzio si protrae per infiniti secondi, senza che riesca ad elaborare una risposta convincente. In realtà non lo so. Non so perché, ma non voglio smettere di parlare con lui. Voglio conoscerlo meglio… voglio fargli compagnia per un po’. Sto sbagliando, sto andando contro tutti gli insegnamenti che Samael mi ha impartito, ma non posso farne a meno. Qualcosa in me mi spinge a continuare questo teatrino, che avrà un solo, possibile epilogo, per quanto tragico. È quel “qualcosa” che alberga in fondo al mio animo a trattenermi dal compiere il mio lavoro, quel “qualcosa” a cui non riesco a dare un nome. Quel “qualcosa” che non dovrei più possedere da anni e che invece è rimasto lì, in silenzio, sempre presente. Si agita, si divincola nella gabbia in cui l’ho costretto, ed oggi gli ho già dato fin troppi stimoli, a partire dalla scena nell’appartamento. Devo calmarmi. Devo soffocarlo. 
“Raccontami di te.” lo esorto con un sorriso partecipe e sincero. 
Mi squadra confuso per una manciata di istanti, dopodiché accetta l’invito e ricambia il sorriso, che è quanto di più bello e genuino abbia mai visto sul volto di un peccatore.
Forse è troppo tardi per tornare indietro. Percepisco quel “qualcosa” guizzare felice e invadermi lo sterno di un piacevole tepore.










 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Lacrime ***








 

Sono da poco passate le due di notte e in giro non c’è nessuno, per mia fortuna. Anche se le persone non possono vedermi, mi sento a disagio a camminare in mezzo a loro in queste condizioni. Provo il medesimo disgusto di qualcuno che esce di casa lindo e profumato, con i vestiti puliti ed eleganti, e torna ricoperto di melma puzzolente: vorrei spogliarmi, togliermi di dosso il sudiciume e farmi una doccia rigenerante. Tale fastidiosa sensazione si ripercuote sulla pelle, sulle mani, sul palato, provocandomi l’allucinazione di aver fatto il bagno nel fango. Per quante docce possa farmi, l’acqua non purificherà il lercio che si è insinuato dentro di me, come un ripugnante veleno che mi logora dall’interno. Mi sento sporco, un essere rivoltante. Credo che se mi guardassi allo specchio, vomiterei. Ma non sono i miei abiti ad essere macchiati. È qualcos’altro. Che sia l’anima? No, impossibile.
Inoltre, confesso che non riesco ancora a liberarmi del disagio che mi porto dietro da quando il maestro mi ha aggredito. Cioè, lo ha detto anche lui di non sapere cosa gli sia preso: ha agito come se cercasse di divorare la mia anima, ma è strano perché si suppone che io non la possieda più. E se invece fosse sempre rimasta qui? E se non se ne fosse mai andata? Forse si è solo nascosta astutamente per anni eludendo la sorveglianza, come un carcerato che cerca una via di fuga e attende che le guardie si distraggano per cogliere l’occasione. Forse è quel “qualcosa” che ho tentato di ignorare per tutto questo tempo.
No, assolutamente no. Calmati, Archie, ragiona. Anzi, non ragionare affatto, cancella tutto. Cancella, cancella!
Non posso tornare all’appartamento, perché non so se Samael sia già rientrato: se lo fosse, per me sarebbe difficile schivare le sue domande, per quanto legittime. Non voglio che mi veda in questo stato. Voglio stare solo. Dove vado? Dove mi nascondo? Mi sono accorto di non possedere un rifugio personale, un eremo isolato in cui rinchiudermi per un po’, per staccare la spina e tagliare i ponti con il mondo. In teoria sono libero, potrei andare ovunque e fare qualsiasi cosa, eppure mai come adesso mi sono sentito così in gabbia. Questo perché mi sento in colpa e covo in me l’orribile sensazione di essermi comportato in modo sbagliato.
Bramo la libertà, ma cos’è la libertà se non un’illusione? Proprio quando penso di essere libero, le mura della prigione diventano più spesse e opprimenti, facendomi capire che sì, sono sempre state lì, invisibili ma reali. Nemmeno da morti si può assaporare questa sensazione: se sei un peccatore finisci all’Inferno, altrimenti vai in Paradiso. E quando precipiti nell’Abisso realizzi che per te non ci sarà mai la libertà, ma soltanto un’eterna agonia; e quando ascendi non te ne frega più un accidente della libertà, perché non possiedi più il concetto di prigionia. Libertà è solo una parola, che assume il suo significato solamente nel caso in cui esista la sua controparte, il suo opposto. Libertà e prigionia sono concetti che vanno a braccetto, si equivalgono, e quando si incontrano poi si annullano a vicenda, perché in verità non sono mai esistiti. Sono solo convenzioni create dall’uomo. 
Però non è veramente della libertà che ho bisogno. Piuttosto, il mio è un desiderio di liberazione. È una differenza sottile, ma c’è. Voglio essere liberato. Da cosa? Non lo so nemmeno io. Forse da “quel qualcosa”. Brancoliamo nel buio, sin dal giorno in cui nasciamo e fino a quello in cui spiriamo. Siamo schiavi. Schiavi del mondo, schiavi della vita e schiavi della morte. Sto brancolando nel buio. Mi sono perso.
Respiro affannosamente e Dio solo sa quanto sia potente e disperato il grido che preme per uscirmi dalla gola. Invece lo costringo a restare lì, incastrato, muto, spaventato dall’idea di attirare l’attenzione, in particolare quella di Samael. Non è qui con me, ma so che potrebbe udire le mie urla, anche a chilometri di distanza. Le lacrime, stille salate che pensavo evaporate del tutto anni fa, mi rigano le guance in scie calde e amare. Nel preciso momento in cui riprendono a scendere, percepisco uno strappo: qualcosa in me si rompe, ma dubito che si rivelerà qualcosa di buono. È solo un’intuizione, che però preme per tramutarsi in certezza. Così, una goccia fa capolino dalle ciglia, seguita a ruota da altre sue simili. A quel punto il cuore viene trafitto da milioni di spilli e il corpo viene attraversato da fiotti di lava bollente, che mi restituiscono la sensibilità agli arti intorpiditi. È come riemergere dall’apnea, per poi essere risucchiato in una pozza di melma ancora più densa. È doloroso. 
Poi realizzo che pure il convincermi di non essere più capace di versare lacrime è stata un’illusione. Perché nella mia fantasia i veri demoni, come il maestro, non piangono. Anzi, il punto è che non so se ne siano in grado, o se il problema risieda nel fatto che è quasi impossibile commuoverli e provocare in loro quella scarica emotiva necessaria ad innescare il processo. So solo che Samael non ha mai pianto. Da qui e da quel sussurro di origini primordiali che suggerisce agli uomini pezzi di verità fin dall’alba dei tempi, altrimenti noto come istinto primitivo, ho sempre dato per scontato che i demoni non piangessero, perché le lacrime sono per gli umani, cioè per i deboli. Le emozioni sono per i deboli. I demoni non lo sono, non si abbandonano a quel flusso distruttivo, ne sono estranei. Di conseguenza non soffrono e, ancora di conseguenza, non possono nemmeno gioire. Non conoscono la felicità perché non hanno mai sofferto e non possono di certo conoscere né l’una né l’altra perché non possiedono un’anima, e le emozioni scaturiscono da lì. O almeno questo ho sempre creduto. Tra i mortali esistono pure coloro che attribuiscono l’emotività a dei semplici processi mentali, ad un mero scambio di endorfine. Ma è davvero assodato che i demoni non possano sperimentare le emozioni? Samael talvolta mi sembra fin troppo emotivo…
Mi sono sempre chiesto cosa ho di diverso dal maestro, perché non sono come lui, perché continuo a sentire quella forza indefinita e potente dimenarsi dentro di me. Mi sono chiesto perché soffro quando il maestro mi ignora o mi tratta male, perché gioisco quando mi bacia, perché provo solitudine quando lui non c’è. Mi sono sempre chiesto perché vengo colto da una rabbia, un rancore e una delusione così profondi quando scaravento un’anima colpevole all’Inferno. Non sono queste forse emozioni? Non ho mai smesso di provarle, ho solo finto di non vedere, finto di non sentire. 
E Samael cosa ne pensa? Perché non se n’è accorto? Perché non me lo ha fatto notare?
Io che mi ritenevo ormai un demone sotto ogni aspetto, o perlomeno sulla buona strada per diventarlo, ecco che ora vado a sbattere contro un ostacolo e l’impatto è considerevole. Sono rintronato. Il peso delle mie conclusioni è troppo schiacciante per permettermi di analizzarlo a mente lucida. Cieco e sordo: due aggettivi di cui mi sono appropriato senza accorgermene. 
Perché le lacrime e l’atto di versarle sono così importanti? Forse perché è una manifestazione fisica, concreta, della facoltà umana di provare emozioni. Puoi simulare felicità, odio, rabbia, serietà, ma è difficile simulare il pianto. C’è chi lo sa fare, certo, ma il vero dolore si riconosce. Come non si può fingere una vera risata, di quelle che scaturiscono dal cuore. Piango, ergo sono umano. Non sono più un “uomo diabolico”, ma solo un uomo. Eppure so volare, lanciare incantesimi… non sanguino! Sono immortale! Qualunque cosa io sia, non sono umano. Sono un ibrido, ma più demone che uomo. Eppure piango.
Prima non piangevo perché mi ero fatto da solo un lavaggio del cervello, e a regola d’arte aggiungerei. Ero convinto di essermi trasformato in un demone e che i miei occhi non fossero più in grado di produrre quel liquido salato. Come nel mito della caverna di Platone, mi sono sempre limitato a fissare le ombre proiettate sulla roccia, credendo che esse riflettessero fedelmente la realtà, senza mai fermarmi a considerare che ciò che è non è ciò che appare. Di quante altre cose mi sono illuso? Samael lo sa? Lo ha sempre saputo? Se la risposta è sì, significa che finora si è divertito a prendermi in giro e che per lui tutto questo è uno stupido gioco. Mi ha imbottito il cranio di menzogne e storielle e io le ho alimentate come uno sciocco. Oppure Samael non c’entra assolutamente nulla e ho costruito questo colossale castello di carte con le mie manine. Qual è la verità? Cosa sono? Il dubbio mi perseguita.
Ho acquisito dei poteri demoniaci e ho ricevuto il dono dell’eterna giovinezza. Sono Alastor! Non sono più umano. Ma, in fondo, cosa ci sarebbe di male ad esserlo? Cosa vuol dire essere umano? E cosa vuol dire essere un demone?
Marco era umano.
Rallento il passo barcollante e mi appoggio con un sospiro alla pietra gelida del muro di un palazzo in stile rinascimentale. I lampioni illuminano di una luce giallognola il lastricato delle strade deserte e il tempo sembra sospendersi. L’atmosfera è surreale e mi trasmette un inquietante turbamento, lo stesso che si può osservare in un quadro di Giorgio de Chirico. C’è qualcosa di strano in questa immobilità, in questo silenzio. Le forme che mi circondano sono familiari: non trovo nulla di strano nel profilo delle macchine parcheggiate a ridosso del marciapiede o in quello delle biciclette incatenate a sbarre di ferro, tutte allineate. Tuttavia, al mio sguardo allucinato appaiono mostri in procinto di divorarmi. Le finestre sono buie, alcune sono sprangate. I negozi hanno le saracinesche abbassate, i piccioni dormono sulle grondaie. Le stelle brillano nel cielo, ma è come se qualcuno le avesse dipinte sopra una tela. Sono lucciole prive di vita. Ho paura.
Colgo un movimento alla mia destra con la coda dell’occhio e un gatto nero si arresta a una decina di metri da me, squadrandomi freddamente con due piccoli fari gialli, una zampa a terra e l’altra sollevata a mezz’aria. Deglutisco, sforzandomi di distogliere l’attenzione. Faccio aderire la fronte madida di sudore alla superficie grigiastra e ruvida del muro e ce la strofino sopra, nell’intento di ferirmi fisicamente per attenuare il dolore spirituale. Una voragine si apre sotto i miei piedi e la mia coscienza vi affoga, mentre i ricordi freschi di due ora fa pongono la mia mente sotto assedio.

“Sei sicuro che i miei genitori non ci disturberanno?”
“No, stai tranquillo. La tua stanza, da quando sono entrato dalla finestra, è stata catapultata in un’altra dimensione. Se tu aprissi la porta adesso, vedresti solamente una fitta coltre di tenebra.”
“Meglio così. Beh, cos’altro vuoi sapere? Ti ho raccontato dei miei professori, dei miei nonni, di Claudio, dei videogame che mi piacciono, dei miei voti…”
“Cosa avresti voluto diventare da grande?”
“Ah! Bella domanda! Non ci ho mai pensato, perché sapevo che non sarei mai arrivato all’età adulta. Perché mai avrei dovuto preoccuparmene?”
“Pensaci lo stesso.”
“Mmm… forse l’astronauta!”
“Eh! Che sei, un bambino? O magari volevi fare il pompiere!”
“Sì, anche quello sarebbe stato figo. E non ridere!”


Per un’ora abbondante non abbiamo fatto altro che sghignazzare insieme per degli aneddoti scolastici. Abbiamo preso in giro i suoi professori e i suoi compagni di classe. Ad un certo punto Marco si è improvvisato attore e ha imitato i docenti, esagerandone alcuni tratti divertenti e alleggerendo la tensione. 
Un ragazzino deliziosamente normale, ma al contempo profondamente diverso dai suoi coetanei. Marco non aveva mai sognato il futuro, non se ne era mai dato la briga. Per questo motivo i suoi occhi erano in parte spenti, disillusi. Gli occhi di un condannato a morte. 
L’unica nota stonata che solo io potevo udire era il suo cane, che abbaiava e uggiolava disperato fuori dalla soglia, grattando la porta con le unghie. Gli animali percepiscono molte più cose rispetto agli uomini. Avrei voluto farlo entrare per permettere a Marco di salutarlo, ma non potevo rompere l’incantesimo sulla camera.
All’improvviso, le sue labbra si sono stirate in un sorriso sincero e si è alzato dal letto per venire verso la scrivania. Mi ha abbracciato di slancio, senza darmi l’opportunità di reagire per tempo. Avrei dovuto prevedere le sue azioni e scostarlo prima che il suo corpo magro si accostasse al mio, perché nell’esatto istante in cui ci siamo toccati tutti i suoi ricordi e le sue emozioni mi hanno travolto come un violento uragano. Non sono riuscito ad arginarli, così mi hanno invaso, mi hanno violato da capo a piedi e scombussolato. Hanno portato il caos, infrangendo l’equilibrio che avevo faticosamente creato. Per un attimo ho sentito il cuore scoppiare dalla tristezza. Sono rimasto senza fiato, perché nessun contraente mi ha mai dimostrato affetto finora. Ero spiazzato, senza parole, e ho dovuto combattere contro l’impulso di ricambiare, per non rendere la situazione ancora più straziante per entrambi.

“Ho solo un favore da chiederti. Se puoi, cancella a Lucky i ricordi di me. Non voglio che soffra. L’unico rimorso che ho è non averlo portato fuori a passeggiare stasera. Ero troppo concentrato a pensare al tuo arrivo e l’ho trascurato. Sarebbe un problema?”
“Cancellare i ricordi di un cane è facile, ma nella sua memoria olfattiva rimarrà sempre il tuo odore. Anche se intervenissi, lui saprà che in questa stanza viveva qualcuno a cui voleva molto bene, non potrò cambiarlo.”
“Va bene lo stesso.”
“Lo farò.”
“Grazie, Archie. Sei gentile.”


Vinto dalla compassione, gli ho pure domandato se desiderasse lasciare un biglietto ai suoi cari, gli avrei concesso il tempo per scriverlo. Ma lui ha replicato che non voleva procurare loro altro dolore, oltre a quello della scoperta del suo corpo. Gli ho parlato, l’ho avvertito della sofferenza che avrebbe patito e l’ho preparato a ciò che lo attendeva. Durante il mio discorso non ha mai fatto una piega.

“Quale sarà la causa della morte che risulterà dall’autopsia?”
“Insufficienza cardiaca.”
“Perché ho l’impressione che tu mi stia facendo un favore?”
“Non ti sto facendo alcun favore, è semplicemente così che si fa.”
“Capisco… beh, almeno avrò un funerale.”
“Non servirà a niente: la tua anima resterà all’Inferno, non verrà mai assolta.”
“Lo so, ma lo dicevo per i miei genitori. Avranno una salma su cui piangere.”


Dopodiché, ha afferrato spontaneamente il braccialetto, pegno del contratto. La sua anima si è subito separata dalle spoglie mortali, pur mantenendo la fisionomia di Marco. Fino all’ultimo, fino a quando non si è dissolto in minuscole particelle di cenere ed è stato risucchiato nel buco infuocato sottoforma di fumo grigio, non ha mai distolto lo sguardo colmo di gratitudine dal mio. Non ha pianto, ma sono sicuro che avrebbe voluto. Al contrario, prima di sparire mi ha regalato un sorriso. Quale peccatore sorride al demone che lo scaglia all’Inferno?
Quando il portale si è richiuso, sono crollato in ginocchio sul pavimento, accanto al suo cadavere, e mi sono rannicchiato su me stesso, artigliandomi la camicia a livello del cuore. Ho soffocato i gemiti, ho cercato di piangere per buttare fuori la frustrazione, ma lì per lì dalle mie ciglia non è sgorgata nemmeno una lacrima. Una dopo l’altra, hanno invece cominciato a cadere appena il venticello invernale mi ha schiaffeggiato la pelle.
Prima di andarmene, ho alterato la memoria del cane, come promesso. Infine, dopo aver sfiorato di nuovo il viso cereo di Marco in un tacito addio, ho rubato un portachiavi a forma di ippopotamo, che penzolava fuori da un cassetto della sua scrivania. 
I suoi occhi mi si sono impressi nella mente come un marchio indelebile e temo che non me ne libererò mai più. Il suo caso è stato il primo del suo genere, non potrò mai dimenticarlo. 
Torno nel presente e la solita immagine della strada illuminata dai lampioni entra nel mio campo visivo. Infilo una mano in tasca e tocco il portachiavi. Non so perché l’ho preso, so solo che a un tratto ho avvertito il desiderio di appropriarmene, come una sorta di souvenir.
Un gelo inaspettato mi penetra nelle ossa e un brivido di inquietudine mi serpeggia lungo la spina dorsale. Decido di scovare un posto caldo in cui pensare con calma, perché stare a bighellonare per le vie fiorentine a quest’ora di notte e con questo freddo mi mette a disagio. È tutto troppo statico, quasi come se le lancette dell’orologio abbiano cessato di emettere il loro ticchettio. Il silenzio è assordante, irreale. Avverto l’ansia montare e il suono del mio respiro misto al battito del cuore mi rimbomba nelle orecchie. In un certo qual modo, mi pare che i contorni delle cose siano distorti, grotteschi, come in un incubo.
È il senso di colpa. 
Ho tradito gli insegnamenti di Samael e disubbidito alla Legge, perché ho provato compassione per un peccatore. Quindi adesso è normale avere paura, non devo farne un dramma. D’altronde, se Samael lo scopre, è assai probabile che reagisca male ed io non voglio farlo arrabbiare. Mi viene quasi da ridere. L’Archie, detto anche Alastor, il cui unico sogno e scopo nella vita era compiacere il proprio mentore con cieca devozione, è scomparso. Ora un altro Archie si è plasmato da solo, uno che agisce di soppiatto, infrange le regole e poi si rintana in un angolo buio a tremare e pregare di non ricevere una punizione. Mi sono scisso. Da quando, mi chiedo? Quando ho cominciato a vergognarmi di ciò che sono diventato? Da quanto tempo ho sviluppato questa insofferenza? Da quanto ho cessato di sentirmi fiero di seguire le orme e i precetti di Samael? 
Mentre cammino a passo spedito verso Piazza Santo Spirito, vengo avviluppato dalla familiare e irritante sensazione di essere osservato. Non è la prima volta che mi succede. Questa cosa va avanti da anni, in particolare da quando io e Samael ci stabilimmo nella capitale francese. All’inizio era solo un’impressione vaga e ho ritenuto fosse il frutto della mia fantasia. In seguito allo scontro con gli Exurge Domine a Notre-Dame si è però fatta più forte e palpabile. Dopo Parigi, credevo di aver appurato che la causa di tale sensazione fosse riconducibile alla presenza di un nemico che mi stava spiando, ma ora, senza nessuno Spennato nei paraggi, non sono più tanto sicuro della mia ipotesi. O forse il mio radar è difettoso ed effettivamente ce n’è uno nelle vicinanze? 
Da qualche mese, anzi dal preciso giorno in cui sono giunto a Firenze, ho realizzato che c’è veramente qualcuno che mi osserva, nascosto nell’ombra. Non ho idea di chi sia, non so cosa voglia. Mi guarda e basta, tenendo i suoi occhi incollati alla mia persona, più precisamente alla mia nuca. Ne ho parlato con Samael qualche settimana fa e mi ha rimproverato per non averglielo detto prima. Per tale ragione si è fatto più circospetto e guardingo e ha iniziato a voler uscire separatamente per sondare il terreno e farmi da scudo. Mi ha ribadito con severità che non devo ignorare il mio istinto, che esso potrebbe salvarmi la vita quando meno me lo aspetto; ma, soprattutto, che gli devo raccontare tutto, anche i dettagli stupidi, perché si occuperà lui di classificarli come “stupidi”. Mi ha fatto promettere di confessargli ogni mio cruccio, vuole trasparenza tra di noi, ma quando mai gli ho spiattellato senza tanti fronzoli tutto ciò che mi frulla nella testa? Anch’io ho conservato dei segreti e continuerò ad accumularne. Per fare un esempio banale, so che non gli rivelerò mai del portachiavi e di Marco, o almeno non nel dettaglio: è una cosa mia e non voglio condividerla, ma più che altro manterrò il riserbo per timore delle conseguenze. Onestamente, non mi sento nemmeno in colpa per questa decisione, dato che il maestro non capirebbe e mi spingerebbe anzi a gettare il portachiavi nella spazzatura, insieme al ricordo di quel ragazzino. Nutro la sensazione che l’incontro con Marco non sia stato casuale, che si rivelerà fondamentale in futuro. Non so spiegarmelo meglio. E poi pure Samael ha dei segreti, non è che mi dice tutto. Insomma, è normale, è… ops, stavo per dire “umano”. Meglio “universale”, almeno per quanto riguarda le creature dotate di intelletto.
La pressione sulla mia schiena aumenta esponenzialmente e quasi credo di percepire un soffio caldo sul collo, che mi spedisce una scarica di brividi. Mi giro di scatto, ma dietro di me non c’è anima viva. La strada è ancora deserta e il silenzio ammanta gli edifici come una membrana collosa e asfissiante. Dalle finestre non filtra alcun timido raggio di luce, segno che tutti stanno dormendo. Forse sono solo paranoico.
“Chi c’è?” domando a voce bassa, i sensi vigili e i nervi tesi allo spasmo.
Serro le dita intorno al manico della valigetta e con l’altra mano stritolo il portachiavi, come se fosse un talismano capace di proteggermi dal pericolo. Non arriva risposta. Mi volto di nuovo e mi metto a correre, scivolando nei vicoli veloce come un lampo. Devo trovare un posto in cui rintanarmi, almeno per qualche ora. Devo riprendere il controllo di me stesso, quel controllo che si è sgretolato appena ho messo piede nella camera di Marco. Devo rimettere insieme i pezzi, ricucirli con cura, rattopparli in modo che tutto sembri tornato come prima.
Sfreccio accanto ai muri, un’ombra indistinta che si mescola ad altre ombre, il cuore che martella nel petto e l’ansia mista alla consapevolezza di essere braccato che mi dilaniano le viscere. I negozi sono chiusi, ma sono sicuro che qualche pub o qualche discoteca siano ancora aperti. Sono solo le due e mezza! 
Svolto a destra, poi a sinistra, poi di nuovo a destra. Procedo alla cieca, cercando di mimetizzarmi con le tenebre e azzerare la mia presenza ai minimi storici. Adesso più che mai desidero trasformarmi in un fantasma. Sorpasso un gruppetto di adolescenti ubriachi, che ciondolano in mezzo di strada ridendo sguaiatamente, ma l’unico cambiamento che avvertono è un piccolo spostamento d’aria e non ci fanno nemmeno troppo caso. Solo una ragazza si ferma, bloccandosi a metà di un passo, e si volta indietro per scrutare l’oscurità con le sopracciglia aggrottate, finché non viene richiamata dai suoi amici. Allora torna a scherzare con gli altri.
Per un attimo mi viene la pelle d’oca, ma giro l’angolo prima che possa realizzare di aver “visto” qualcosa. Strano. Si è davvero accorta di me? Mi ha percepito, lo so. I miei poteri si sono indeboliti? Come? Quando? Perché? 
Non ho tempo per pensare, devo mettermi al riparo. Subito.
Pochi minuti dopo scovo un piccolo pub, incassato tra un negozietto di bigiotteria e una bottega di anticaglie. Ha il classico design di un pub inglese, con arredamento di legno e stampe vintage affisse alle pareti. Da un vecchio jukebox proviene un pezzo di un gruppo rock degli anni ottanta. L’illuminazione è tenue e buona parte del locale è immersa nella penombra, tanto da conferire all’ambiente una confortante atmosfera di intimità. Gli avventori sono pochi, una decina al massimo, e tutti un po’ attempati. Dietro il bancone un ragazzo sta lavando dei boccali di birra con aria assorta. 
Appena entro, la porta tintinna, ma nessuno bada a me. Gli sguardi dei presenti rimangono puntati altrove e in qualche modo mi sento sollevato. Sebbene l’agitazione non sia del tutto scemata, adesso sono più calmo e riesco a far lavorare il cervello. Mi siedo a ridosso del muro, sulla destra rispetto alla porta. Poso la valigetta sulla panca di legno ed esalo un sospiro stanco, chiudendo gli occhi e prendendomi tutto il tempo per raggranellare i residui del contegno perduto nelle ultime ore. In confronto al calore dentro il pub, le mie guance fredde pizzicano in maniera piacevole, essendosi ghiacciate durante la corsa. Le lacrime si sono asciugate, ma gli occhi sono ancora irritati. Devo avere un aspetto sconvolto in questo momento, ma non mi importa.
Passa forse un minuto e all’improvviso sbarro le palpebre, mentre vedo i tentacoli neri fuoriuscire dalla valigetta per avvinghiarsi al mio busto e alle mie gambe. Comprendo immediatamente che il loro intento è quello di consolarmi e tranquillizzarmi, però l’effetto che ottengono è mettermi sempre più in allarme. Quei “cosi” sono senzienti, diciamo. Sono la manifestazione materiale del Male e della bruttezza degli uomini e ora, per la prima volta, mi domando se siano dalla mia parte o se debba considerarli dei nemici. Non ho idea se abbiano avvertito il mio turbamento, né se siano in grado di comunicarlo ad altri, per esempio a Samael. Anche se “comunicare” è un verbo che non ci incastra niente. Forse “trasmettere” sarebbe più adeguato. Attraverso il carico di emozioni negative di cui sono fatti, potrebbero spifferare al maestro ciò che è successo… devo fidarmi? Bah, magari mi sto solo facendo paturnie inutili e questi tentacoli non hanno alcun potere. Finora li ho sempre etichettati come innocui.
Una coppia esce dal pub. Siamo in sette, barman escluso. 
Mi gira la testa. Vorrei soltanto addormentarmi e non svegliarmi più. La mia mente è instabile, i miei sensi sono alterati e non riesco quasi più a discernere la realtà dalla fantasia. Infatti, gli occhi dolci di una ragazza ritratta su una stampa vintage si trasformano in orbite cave che mi scrutano intensamente. Percepisco sulla pelle il peso di quello sguardo vuoto e diabolico. Chiudo di nuovo le palpebre e faccio respiri profondi. Dopodiché mi alzo e mi dirigo al bancone per chiedere una pinta di birra. Odio l’alcool, ne detesto sia il sapore che l’odore, ma forse mi aiuterà a dissipare la coltre di inquietanti allucinazioni che mi appanna la vista. 
Il giovane mi rivolge un’occhiata distratta e mi serve in dieci secondi. Torno al mio tavolo e inizio a sorseggiare con palese disgusto il liquido ambrato. Tracanno la pinta in meno di un quarto d’ora. La mia testa si è alleggerita e le allucinazioni sono scomparse, ma in compenso i contorni delle cose si sono fatti nebbiosi. Comunque, meglio questo che le visioni. Non mi occorre molto per realizzare di essere alticcio, dato che non sono abituato a bere.
Controllo l’orologio che ho al polso e noto che sono le tre e mezza di notte. Gli altri clienti hanno lasciato il pub da un po’. Sono rimasto solo io, ma è come se non ci fossi. 
Il barman si accinge a chiudere il locale.
Mi alzo sbuffando ed esco senza pagare. Cammino leggermente a zig zag. Più tento di procedere in linea retta, più il mio baricentro si sbilancia da un lato o dall’altro. Le strade sono deserte e il panorama che mi si presenta davanti è il medesimo di poco fa. Stessi lampioni giallognoli, stesso silenzio, stesso alone spettrale, stesse ombre. Non è cambiato niente all’esterno, sono io ad esserlo: sono ubriaco. Però non così tanto. Sto male. Le raffiche di vento invernale mi tengono sveglio e stimolano i miei nervi a restare vigili, almeno il necessario per ritrovare la via di casa.
Firenze è un città bellissima, piena di arte e cultura, ma di notte assume dei connotati perturbanti, da incubo. Con le sue viuzze strette e non illuminate, i suoi palazzi di pietra, i negozi sigillati, le fontane spente, sembra che venga catapultata in una dimensione parallela, un limbo da cui non esiste via d’uscita. Un labirinto in stile rinascimentale, con statue e monumenti, piazze, portici, logge, un groviglio di vicoli dalle tinte oscure, quasi gotiche. L’unico suono che giunge alle mie orecchie è il sibilo del vento. Dove sono finiti i colori delle decorazioni natalizie? Perché mi appare tutto così lugubre e desolato?
Perdo l’orientamento e vago barcollando confuso, come una falena in cerca di un bagliore in grado di squarciare lo spesso velo di tenebra. Mi immetto in una strada più grande, ma la sensazione di claustrofobia che provo si acuisce. Mi sento pesante. La testa pulsa dolorosamente, mi pesa sulle spalle. Le gambe pesano. Strascico i piedi sull’asfalto, stravolto dalla stanchezza. La valigetta pesa. La lascio cadere e compio altri quattro passi, prima di appoggiarmi esausto ad una vetrina di un negozio di scarpe. 
Riprendo fiato, ma è difficile respirare. Perle di sudore freddo mi costellano la fronte e ogni fibra del mio corpo è scossa dai brividi. Stupito, porto una mano al viso e la ritraggo umida di lacrime: non mi ero reso conto di aver ricominciato a piangere. Quanto sono patetico? Ho toccato il fondo e sto sguazzando nelle sabbie mobili. È proprio vero che non c’è mai fine al peggio. 
Le palpebre si fanno di piombo, tanto che diventa un’impresa ardua tenere gli occhi aperti. Mi specchio nella vetrina, spinto da una curiosità malsana, ma la vista è sfocata e non vedo niente.
Ad un tratto, una luce si accende alle mie spalle. Attirato da essa, volgo lo sguardo e mi rifletto nella vetrina del negozio dall’altro lato della via. Lì per lì non registro niente, ma poi un particolare inquietante mi pietrifica sul posto e il cuore manca un battito. Rimango folgorato per alcuni istanti. La luce in questione è quella del lampione sopra la mia testa. Scorgo la mia sagoma, un’ombra nera che si staglia solitaria di fronte alla boutique. La mia faccia è oscurata per via dell’alone giallo che viene dall’alto e che riesce a illuminare solo i contorni della mia figura. Peccato che, quando sollevo il capo, noto che il suddetto lampione è spento, come tutti gli altri. Alzo un braccio e il mio riflesso mi imita subito. Muovo una gamba, scuoto una mano, alzo il dito medio. Sì, quello sono io. Ma il lampione acceso, che nella realtà è spento, fa nascere in me un pensiero: c’è qualcosa di sbagliato. E il non sapere perché è sbagliato mi innervosisce. Si tratta di un’allucinazione causata dai fumi dell’alcool? Probabile. Però non temo nulla, perché i tentacoli neri mi proteggeranno. Devo solo stringere la valigetta ed essi usciranno per… la valigetta. Dov’è la valigetta? I miei occhi saettano febbrili a destra e a sinistra, ma della mia valigetta non c’è traccia. È caduta prima sul marciapiede, ho mollato io la presa, ho udito il tonfo. La valigetta è viva, non abbandona mai il suo padrone. Il suo padrone sono io. Dov’è la mia valigetta?
“Valigetta…?” chiamo con voce roca e smarrita.
Mi sento idiota.
Il mio riflesso si muove, ma stavolta non copia i miei movimenti. Piega il braccio destro verso l’alto e mi accorgo che stringe nella mano sinistra la valigetta. Guardo la mia mano: è vuota. Deglutisco. Il sangue mi defluisce dal volto e so di essere impallidito. Mi appiattisco contro la vetrina con un groppo in gola. L’altro Archie, in risposta, compie un passo in avanti e solleva la testa, incatenando il mio sguardo stralunato al suo. Tuttavia, al posto degli occhi ci sono due orbite cave, le stesse che ho visto su quella stampa vintage al pub. Mi fissano, mi trafiggono e mi violano. Sembra che mi stiano stuprando l’anima. 
Mi sento esposto, vulnerabile, debole. Il terrore mi annoda lo stomaco, ma i muscoli si rifiutano di obbedire ai comandi del cervello. 
Il mio alter-ego distende le labbra in un sorriso grottesco e sghignazza. 
“Archie, Archie… stai facendo il birichino.” sussurra divertito.
La sua voce non ha niente di simile alla mia: è più metallica e fredda, ha il potere di ghiacciarmi le ossa.
“C-chi sei?” gracchio.
“Sono te, che domande.”
“No… no, tu non sei me…”
“Io sono Alastor. Sono te.”
“Il mio nome è Archie.”
“Mmm, dipende dai punti di vista.”
“Cosa vuoi da me?”
“Voglio aiutarti.” 
Il ghigno si amplia quasi fino agli zigomi e la bocca diventa una mezzaluna orripilante, mostruosa. Non ci sono denti, solo una voragine nera.
“Di’, cosa dovrei farne di questa?” chiede e brandisce in aria la valigetta.
“Ridammela!”
“No.”
“Si può sapere chi diavolo sei?!” esclamo alterato, ma più che altro è la paura a parlare.
“Diavolo… che bella parola, non trovi? Hai fatto una scelta interessante di vocaboli: avresti potuto dire 'diamine', 'cavolo', 'accidenti', o addirittura 'cazzo'. Invece hai usato 'diavolo'. Perché?”
“Non… non lo so, chi se ne frega! Lasciami stare!”
“Immagino debba tagliare corto.” sospira fingendosi afflitto, “Devi stare attento, Archie. Sin dall’inizio ti sei guadagnato un bel pubblico, ma adesso sei famoso. Ti trovi proprio sotto le luci della ribalta!” spalanca le braccia con fare teatrale e si scioglie nell’ennesima risatina canzonatoria.
“Che intendi? Eri tu ad osservarmi per tutto questo tempo?”
“No.” il sorriso di attenua un poco, “Ripeto: hai molti fan. Però sappi che io sono il tuo ammiratore numero uno!”
“Non capisco…”
Ha schivato l’argomento. Perciò qualcuno mi sta effettivamente spiando? Se non è lui, chi è?
“Capirai quando sarà il momento.” si schiarisce la gola e prosegue, “Comunque, non sono qui per fomentare il tuo ego. Se devo essere franco, stanotte non mi sei piaciuto. Anzi, non ci sei piaciuto. Per niente.”
“Che-”
“Marco. Quel ragazzo. Ti sei fatto accalappiare dal suo bel faccino e dai suoi modi innocenti, come un dilettante alle prime armi. Sono rimasto sorpreso, perché non credevo fosse così facile metterti in crisi. Fai questo lavoro da anni e Samael ti ha insegnato molto. Mi domando… no, nulla. È stata sufficiente una lacrimuccia… sei forse un debole? I demoni non piangono perché sono superiori alle emozioni. Tu cosa sei, invece? Umano come Marco?”
“Marco è… era…” balbetto, ma non possiedo argomenti per ribattere.
“Dilla ad alta voce, la domanda che ti sta consumando dall’interno. Dilla.”
Non c’è neanche bisogno che ci pensi, essa rotola fuori dalle mie labbra come se non avesse aspettato altro: “Vendere l’anima per salvare qualcuno è un peccato?”
Il “me” nella vetrina sorride beffardo e all’improvviso imita la mia voce: “Non esiste una scappatoia dal contratto? Ho fatto bene a spedire all’Inferno un’anima come la sua? D’accordo, non era candida, perché il sangue che ha versato l’ha macchiata irrimediabilmente, ma, a mio avviso, il ragazzo avrebbe potuto riscattarsi senza sforzo. Era una persona buona, come se ne vedono poche, non meritava una condanna così irreversibile. E se avesse domandato perdono a Dio? Se si fosse pentito? Ha detto chiaramente che, se fosse tornato indietro, non avrebbe firmato nessun patto, perciò forse non era impossibile.”
Oddio, mi legge nel pensiero?
“Io sono te, è ovvio che abbia accesso alla tua mente.”
“Cosa vuoi? Ti prego, basta…” gemo e mi accascio al suolo, privo di forze.
Quell’essere che ha assunto le mie sembianze getta il capo all’indietro e la sua risata riecheggia nella mia testa con un fastidioso stridio. Poi comincia a danzare sul marciapiede, muovendosi come se stesse ballando uno swing.
“Basta, smettila di giocare!” sbraito.
Sono pericolosamente vicino all’orlo del collasso. Sto per svenire. Il dolore alle tempie si fa più martellante e non riesco ad incamerare abbastanza ossigeno. Il cuore pare voglia sfondarmi il petto.
“Non sai divertirti, Archie. Mh, no, penso che non ti sia mai divertito in vita tua. Di certo non ti divertivi quando tuo padre di montava, giusto?”
In un istante il suo aspetto muta e quello successivo mio padre è lì, a guardarmi con scherno. Ma gli occhi sono ancora due buchi tondi color pece.
“Che ne dici, Archie, rivanghiamo i vecchi tempi?”
Il mio corpo intorpidito riceve una scossa elettrica che lo fa sobbalzare. Scatto in piedi, sbarro le palpebre e senza accorgermene evoco dalle mani delle fiamme nere.  
“Stammi lontano!” ringhio, mentre un’ondata di rabbia cieca si riversa nelle mie vene.
“O-ho! Quanta energia!” fischia ammirato, “Tranquillo, non serve che mi avvicini. Posso fare tutto da qui.”
Le sue mani, che ora sono quelle del maiale che chiamavo “papà”, scivolano sul suo torace e finiscono nei pantaloni. Mi gelo e squittisco quando avverto quei tocchi sulla mia pelle, come se fossi io stesso ad accarezzarmi. Dita invisibili mi esplorano tra le gambe, superano i genitali e si insinuano prepotenti nell’ano, in una fedele riproduzione di ciò che accadeva realmente allora. Grido e scaglio un vortice di fiamme contro la vetrina. A dispetto di ogni mia aspettativa, l'attacco viene risucchiato al suo interno, senza intaccare la fragile superficie trasparente. Mio padre è scomparso, ma il mio riflesso mi scruta sornione.
“Ti ho spaventato? Sì, ti ho spaventato. Bene. Come ti senti ora?” piega la testa di lato e poggia una mano sul fianco, in una posa annoiata.
“Sparisci.” sibilo tra i denti, facendo fatica a trattenere la collera crescente.
“Non posso, mio caro. Sono legato a te.” sospira e leva gli occhi al cielo, “Veniamo al punto, che ne dici? Sei tornato lucido, piccolo Archie? Ti sei ricordato perché hai scelto questa strada? Prova a ripescare dalla memoria le emozioni che ti hanno convinto a rinunciare alla tua parte umana, coraggio.”
Le emozioni? Ah, sì. L’odio verso mio padre, mia madre, i miei fratelli, i dottori. L’odio verso gli uomini e la consapevolezza che sono tutti marci fino al midollo, tutti quanti. Non ce n’è uno pulito.  Lo schifo che germogliava in me al cospetto di qualunque creatura dotata della facoltà di respirare.  La sofferenza e l’umiliazione che ho subito senza che nessuno si degnasse di ascoltare le mie urla e le mie preghiere. L’ira. Il desiderio di vendetta e quello di far patire il medesimo dolore agli infami peccatori. 
La vittima che diventa carnefice.L’incubo che diventa realtà. Sono un messaggero del Diavolo per scelta e sono fiero di esserlo. Scaraventerò all’Inferno tutti i vermi che strisciano su questa terra, la purificherò e la renderò un paradiso. 
Le gambe tremano e crollo in ginocchio sul marciapiede ansimando, incapace di gestire e arginare la rabbia che ruggisce dentro di me, come una belva inferocita tenuta in catene per troppo tempo, senza niente di cui cibarsi.
Non devo dimenticare. Non posso dimenticare. Sul serio, cosa mi è preso? Farmi tante seghe mentali per un singolo ragazzino! Marco non era innocente, non meritava la mia pietà. Mi sono fatto abbindolare dai suoi occhioni azzurri come uno stupido. Non sono più un novellino. Non avrei dovuto abbassare la guardia. A mia discolpa, posso dire che i clienti con cui ho avuto a che fare finora erano criminali incalliti, alieni al rimorso. Marco invece era diverso. So che lui aveva una chance, una chance che, con ogni probabilità, non aveva nemmeno preso in considerazione, troppo concentrato sulla punizione che avrebbe ricevuto allo scadere dei tredici anni. 
Ora che ci rifletto bene, l’anima della gente che stipula contratti è putrida, arida. I motivi che la muovono concernono soprattutto il denaro e il potere, sia esso un potere da esercitare su una persona, su una cosa o quello di passare attraverso i muri. Per tale feccia non esiste un Dio che potrebbe perdonarli. È come se inconsciamente sapessero sin dal principio di essere destinati al fuoco eterno. Eppure, quando si trovano di fronte al portale, pregano e implorano me di risparmiarli. Non Dio, me. Ma se avessero supplicato Dio? Se si fossero pentiti dal profondo del cuore e avessero invocato la misericordia divina? Se Marco avesse invocato il Signore? Il contratto è davvero così vincolante? Non c’è un modo per spezzarlo?
La mia risata infrange il silenzio che permea i palazzi e le strade e rimbalza per le viuzze deserte. Come un folle a cui un grande segreto è appena stato rivelato, mi sganascio fino alle lacrime, ma non sto ridendo di gioia. Rido perché è divertente. È un meccanismo congegnato in maniera talmente geniale e minuziosa, che mi sorprendo di esserci arrivato. È così evidente da passare inosservato.
“Beh? Ti esalta, Archie?” torna alla carica il mio doppio.
“Da morire.” sghignazzo, sbattendo ripetutamente il pugno sull’asfalto per sfogare l’ilarità.
“Vuoi scervellarti ancora dietro inutili congetture sull’innocenza delle anime mortali?”
“No, ho già capito tutto. Avevo perso di vista il sentiero. L’insicurezza è stata solo l’ovvia conseguenza della mia immaturità, segno che non sono ancora pronto per reclamare la mia indipendenza. C’è molto da imparare, Samael non ha finito con me.” sbuffo e focalizzo l’attenzione sulla vetrina, “Hey, tu!”
“Sì?” sorride diabolico, ma stavolta il suo ghigno mostruoso è speculare al mio.
“Sembri tanto informato, quindi puoi rispondere ad una semplice domanda.”
“Sicuro.”
“È questa la ‘tentazione della Luce’ di cui mi ha parlato Samael?”
“No, Archie. Quando la Luce cercherà di indurti in tentazione, lo capirai immediatamente. Ciò che è successo con Marco è stata una piccola deviazione e menomale che sono intervenuto subito per salvarti. Altrimenti qualcuno avrebbe potuto cogliere la palla al balzo e accelerare i tempi. Non c’è bisogno di affrettarli.”
“Cosa intendi?”
Decide di tacere.
“D’accordo. Allora, dimmi chi sei.” 
Attraverso la strada, raggiungo il marciapiede opposto e fronteggio il mio riflesso senza più alcun timore. Anzi, non provo niente. Mi sento vuoto, come se tutte le emozioni mi avessero abbandonato. Le mie dita formicolano e in un battito di ciglia vengono avvolte dai familiari tentacoli neri. Ah, quanto mi sono mancati! E il manico della valigetta è di nuovo ben stretto nella mia mano. Le orbite cave del doppio si illuminano nel centro. Una scintilla rossastra, come una minuscola fiammella che arde in fondo a un mare di tenebra, rifulge timidamente.
Sorride per l’ultima volta e dichiara: “Sono il tuo ammiratore numero uno.”
Infine scompare, inghiottito dall’oscurità. Il lampione si spegne e il vetro torna finalmente a rispecchiare la realtà. Ci sono io, Alastor, e c’è la valigetta, che fa le fusa nel mio palmo; c’è il lampione grigio e c’è il negozio di scarpe. Ci sono i miei occhi, di una singolare sfumatura violetta. E c’è il mio ghigno: il ghigno di un messaggero del Diavolo. Mi pare quasi di aver vinto una specie di sfida. Mi sento rinato e al contempo morto. Realizzo di aver salito un altro importante scalino e digerito un’epifania.
Io sono Alastor, non Archie. Devo chiedere a Samael di non pronunciare più quel nome. Più che altro, voglio diventare Alastor a tutti i costi, anche se dovesse significare calpestare e ridurre a brandelli Archie. Il mio vecchio io è ancora dentro di me, sopravvive ostinato, lotta strenuamente contro l’inevitabile distruzione, ma d’ora in avanti non cederò più alle sue lusinghe. Non lo ascolterò più e inizierò ad ignorarlo, sperando che così smetta di esistere. Alastor è venuto al mondo davvero e da oggi camminerà sulla terra.
Quanto sono figo! Samael sarà orgoglioso, lo so.
“Grazie, Archie. Sei gentile.”
Scrollo il capo con stizza e scaccio la voce di Marco, un blando tentativo di ribellione della mia parte “bianca”.
Il cielo è più chiaro. Sta per spuntare il sole.
Poi, come un lampo, la consapevolezza di essere osservato con insistenza mi travolge. Giro di scatto la testa, scandagliando le ombre più rade, infastidito da quella costante pressione sulla schiena. Non noto nulla, tutto è immobile. Ruoto lo sguardo verso il cielo, sulle tegole rosse dei tetti, e all’improvviso mi imbatto in una sagoma minuta, accucciata sui piedi. La fisionomia è umana, o almeno mi sembra tale. 
Il cuore fa una capriola. La mano destra corre nella tasca del cappotto a stritolare il portachiavi a forma di ippopotamo, senza che la mia coscienza registri il gesto. Subito dopo vengo distratto dal rumore di una saracinesca che viene alzata, assordante in mezzo al silenzio. Un piccolo stormo di piccioni si leva repentino dalla grondaia di una casa e una manciata di piume bianche e grigie ricade mulinando sul lastricato. Avendo interrotto il contatto visivo con la figura sul tetto, quando torno a scrutare lassù non c’è già più. 
Un momento più tardi, un gattone bianco fa capolino da dietro il comignolo di quel tetto. Miagola, si siede e si lecca una zampa, assumendo la stessa posizione della sagoma che ho scorto dianzi.
Sono paranoico. È stata una lunga notte. Ho proprio bisogno di una doccia e un po’ di riposo. Magari anche qualche coccola da parte di Samael non guasterebbe.
Il portachiavi è ancora incollato alle mie dita.
“Io sono Alastor… sono Alastor…” mormoro come un mantra.










 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Amore di demone ***










Quando torno a casa c’è Samael ad attendermi. I tenui raggi del sole invernale filtrano timidi attraverso le tende, ma non riescono a dissolvere l’oscurità che regna nella stanza. Lo vedo seduto sul divano, immerso nella penombra, con un’espressione corrucciata: ha gli occhi ridotti a fessure, fissi sul pavimento, le sopracciglia aggrottate e la bocca nascosta dalle dita intrecciate. I gomiti posati sulle ginocchia e la schiena gobba gli conferiscono un’aria meditabonda, ma qualcosa mi dice che è angustiato.
“Archie.” mi chiama a mezza voce, “Siediti accanto a me. Ti devo parlare.”
Rabbrividisco e avverto il sangue defluirmi dal volto. Che abbia scoperto cosa è accaduto con Marco? Che mi abbia visto? Tutta l’euforia provata durante il tragitto verso l’appartamento sfuma. Volevo rendere partecipe il maestro della mia piccola epifania, ma deduco che al momento sia meglio restarmene muto come un pesce, da bravo scolaretto di fronte al severo insegnante, in attesa della ramanzina. 
Faccio come dice. Poso la valigetta sul pavimento e mi accomodo sul divano, le mani artigliate ai pantaloni. Assumo una posa rigida, che tradisce tutto il mio nervosismo. Non lo guardo, preferendo tenere la testa bassa in atteggiamento remissivo, non tanto per muoverlo a compassione - con lui questi stratagemmi non funzionano -, quanto perché mi viene spontaneo. Non mi chiedo se sia meglio essere coraggioso e fronteggiarlo a viso aperto, piuttosto che comportarmi da docile cagnolino: semplicemente il mio istinto di autoconservazione sa bene che non devo osare sfidarlo, mai, a meno che io non nutra impulsi suicidi repressi.
“Non essere teso, non è mia intenzione rimproverarti. Anzi, il contrario: ci terrei a scusarmi ancora per averti aggredito. Non so davvero cosa mi sia preso. Devo averti traumatizzato.”
Sgrano impercettibilmente gli occhi, sorpreso, e intercetto il suo sguardo, che mi osserva enigmatico.
“Te l’ho già detto qualche ora fa, ma te lo ripeto. Mi dispiace. Ti ho spaventato a morte e credimi quando ti dico che è l’ultima cosa che vorrei. Ciò che desidero è farti sentire al sicuro in mia presenza, non impaurito come un coniglietto indifeso. Non avrei dovuto perdere il controllo e, in tutta onestà, non ho idea di come sia successo. Come sai, ho innumerevoli millenni alle spalle e controllarmi non è mai stato un problema. Ieri sera, però, mi è parso quasi di tornare ai primissimi tempi in cui ero diventato un demone, con gli irrefrenabili istinti di un novellino. Non so se sei tu a provocare in me certe reazioni, oppure se è solo fame. Non mi capitava da secoli di incontrare qualcuno come te, in grado di far traballare i pilastri che mi sorreggono, e non so quanto questo possa considerarsi una fortuna.”
Si avvicina, si sporge verso il mio collo e mi annusa, le palpebre chiuse per godersi meglio il mio odore. Tremo di nuovo e trattengo il fiato, nel timore che possa attaccarmi una seconda volta. Poi il mio cervello registra le sue parole e reagisce, plasmando una miriade di domande.
“In che senso?” domando.
“Mh?”
“Hai già incontrato qualcuno come me? Cosa intendi?”
“Era una donna, una contraente. Si chiamava Maria Antonietta.”
“Che?! Quella Maria Antonietta?” esclamo basito.
“Sì. Esaudii il suo desiderio di essere regina e allo scadere dei tredici anni divorai la sua anima. Era deliziosa, come la tua quando ti ho conosciuto. Anime come le vostre sono rarissime e stimolano il palato come la più gustosa delle prelibatezze. Di solito, come ti ho insegnato, le anime dei peccatori vengono scagliate all’Inferno, poiché è questo il nostro lavoro. Tuttavia, talvolta, il demone scova un’anima speciale e non vuole lasciarsela sfuggire per niente al mondo. Così la mangia.”
Distolgo l’attenzione dalle sue iridi fiammeggianti, in soggezione: “Volevi mangiarmi?”
“Il pensiero mi ha attraversato la mente, lo confesso. Però, se c’è una cosa che l’episodio con Maria Antonietta mi ha insegnato, è che una volta divorata la preda, essa smette di esistere. Non puoi più respirare il suo profumo, non puoi più vederla danzare tra le tue mani, non puoi più udire il suo canto, simile a quello di una sirena, che ti ammalia e ti rende schiavo. Per questo ho deciso di non ucciderti: volevo tenerti con me e continuare per l’eternità a pascermi della tua bellezza.”
“Ma io non possiedo più un’anima.” replico incerto, “Seguendo il tuo ragionamento, adesso non sono più bello come prima.”
“È vero, però il suo effluvio, non so come, è rimasto su di te, come un odore che ti impregna i vestiti e la pelle. È una scia divina che ti porti dietro e mi rende… debole.” alita ad un soffio dalle mie labbra, suadente come quando tenta di sedurmi.
“È possibile? Sarebbe come dire che ho ancora un’anima.” mormoro, cercando di ignorare il suo fiato caldo a un centimetro dalla bocca.
Basterebbe un nulla per unirci in un bacio, ma resisto e mi impongo di restare lucido. Percepisco i suoi occhi su di me, che studiano ogni minuscolo cambiamento di espressione, ed è dura fingere di essere indifferente.
“L’ho detto ora: non lo so. Ero consapevole che se volevo tenerti al mio fianco, non avresti potuto conservare la tua umanità per sempre. L’avevo messo in conto. Quando sei ‘caduto’, ho considerato il fatto con una nota di sollievo, così non avrei più corso il rischio di distruggerti con le mie stesse mani. Infatti, se ricordi, non ti ho mai toccato troppo intimamente prima che accadesse. Ho atteso paziente, struggendomi dal desiderio. Potevo baciarti e sfiorarti senza temere conseguenze catastrofiche, ma con il sesso…” 
Lo vedo ghignare con la coda dell’occhio.
“Sai come divento in quelle situazioni.”
Oh, sì che lo so. Avvampo, mentre la memoria mi ripropone le immagini relative a tutte le volte che mi ha preso.
“Comunque,” prosegue, “qualche pezzo della tua anima ha rifiutato di staccarsi. Bada bene, non l’avevo mai realizzato pienamente fino a ieri sera, era più che altro una sensazione astratta. Ci ho riflettuto di frequente in questi anni, soffermandomi sulla ragione per cui ti desiderassi così tanto. La paura costante di perderti mi punzecchiava come un tarlo molesto. Se tu te ne fossi davvero liberato, avrei cessato di provare questa fame nei tuoi confronti. Sarebbe rimasta l’attrazione e il senso di responsabilità che ogni mentore ha per il proprio allievo, ma niente di più. Invece non riesco a sopprimere la mia brama di demone e…” sorride mesto, “vivo nel terrore, Archie, che tu un giorno possa respingermi. Un piccolo esempio: un tempo ti saresti gettato senza riserve tra le mie braccia, mentre adesso, proprio in questo momento, faccio fatica ad attirare la tua attenzione. Sei sfuggente, schivi il contatto visivo, ritrai impercettibilmente il corpo… ”
Si accosta un po’ di più ed io, in risposta ad un riflesso incondizionato, arretro.
“Vedi? È questo ciò che intendo.”
Le sue dita mi afferrano il mento gentili ma ferme e mi costringono a girare il capo per fissarlo.
“Se tu mi lasciassi, di sicuro tenterei di ucciderti. E senza dubbio cadresti morto in un battito di ciglia, dato che sappiamo entrambi che la differenza tra i nostri poteri è ancora molto grande. L’idea di ammazzarti mi ripugna, ma so che ne sarei capace. Non sopporterei di separarmi da te e neppure di essere abbandonato. È in assoluto la prima volta che mi sento… in balia del fato. Anzi, diciamo pure che sono sottomesso alla tua volontà. Non posso manipolarti più di tanto, sei tu che decidi cosa fare - l’altro lato della medaglia del libero arbitrio, suppongo -, mentre io ho le mani legate. Però posso viziarti, coccolarti e trattarti come un principe, in modo tale da divenire indispensabile per te. È una tattica come un’altra per plagiarti e incatenarti a me, ma l’esito, ahimé, è incerto.”
“Perché?”
D’accordo, in maniera assai contorta si sta dichiarando, o almeno questa è l’impressione che mi dà. Non mi hai mai fatto un discorso del genere e, se da un lato mi imbarazza, dall’altro mi riempie il cuore di un’emozione indescrivibile. Forse è gioia, forse compiacimento, forse vittoria. Sono le parole che ho sempre sperato di udire. È innegabile che stia ammettendo che io sono importante per lui, più di quanto Samael stesso abbia mai immaginato. Allora, come recita il proverbio, non tutto il male viene per nuocere. Se non mi avesse aggredito, non avrebbe mai aperto il suo cuore.
“Perché… beh, si ritorna sempre lì: possiedi il libero arbitrio. È un’arma a doppio taglio e va saputa usare con cautela. Ma, nel mio caso, il tuo libero arbitrio è l’elemento di disturbo, proprio perché la sua caratteristica di base è l’imprevedibilità. Mi suscita frustrazione, rabbia, ansia. Dentro di me sono conscio di non avere alcun vero potere sulle tue scelte e questo mi spaventa. Ti dirò: spesso, durante il periodo di apprendistato, ho ponderato di mangiarti e mettere la parola ‘fine’ alla mia perenne angoscia, ma mi sono sempre fermato per due motivi. Il primo è che, ora come ora, non hai più un’anima da mangiare e i resti che ti trascini dietro non mi sazierebbero. In secondo luogo, se ti avessi divorato allora, non avrei potuto più stringerti fra le mie braccia o gonfiarmi di orgoglio per i tuoi progressi. La via di mezzo, che mi appaga ma non mi riempie la pancia, è il sesso. Attraverso di esso posso farti mio e avere un assaggio della tua essenza, senza quindi disintegrarti e rischiare di annientare la meraviglia che sei.”
Mi mordo l’interno di una guancia e inizio a giocherellare con le dita, tradendo un nervosismo misto a eccitazione. Abbasso ancora la testa, troppo imbarazzato per sostenere il suo sguardo indagatore.
“Perciò… in sostanza… sei innamorato di me?”
Il cuore batte forte nel mio petto, così forte da realizzare che Samael può udirlo senza sforzo. 
“Di un amore di demone.” risponde in un sussurro all’altezza del mio orecchio.
La sua voce roca e vibrante mi fa rimescolare dalla punta dei piedi a quella dei capelli. Mannaggia a lui e ai suoi poteri! Squittisco involontariamente, mentre mi abbandono alle sue carezze e ai suoi baci senza opporre resistenza. Mi spoglia del cappotto, mi sbottona la camicia e mi sfila le scarpe, il tutto in meno di cinque secondi. Non mi dà nemmeno la possibilità di ricambiare, perché comincia a strusciarsi su di me, zittendo i miei blandi lamenti con baci passionali. Mentirei se dicessi che non ho nessuna voglia di farlo, in particolare dal momento che sono passati mesi dall’ultima volta in cui ci siamo uniti carnalmente.
“Archie…” esala sul mio collo, prima di morderlo e spedirmi scariche di piacere dappertutto.
“A-Alastor.” balbetto tra un bacio e l’altro.
“Mh?” si interrompe e mi scruta perplesso.
“Sono Alastor.” ribadisco con più convinzione.
Samael rimane immobile per qualche istante, stranito. Poi si china di nuovo e mi annusa.
“Il tuo odore è cambiato ancora.” commenta scuotendo il capo, “Questo è inspiegabile.”
“Non è più di tuo gusto?” piego le labbra in un sorriso.
“No, è sempre buonissimo, ma… come fai?”
“O-oh! Sono riuscito a spiazzare il grande Samael!” scherzo.
Lui mi scocca un’occhiata che mi zittisce. Forse non ha apprezzato la battuta. Si rabbuia, mi scosta una ciocca di capelli dal viso e le sue iridi si animano di una luce sinistra, circospetta, diffidente.
“Archie, cosa ti succede? Non mi hai mai mancato di rispetto.”
“S-scusa… non volevo, sul serio. Perdonami. E non chiamarmi più Archie, se non ti dispiace.”
“Come mai? Anni fa mi pregasti tu di non usare il tuo nome di demone.”
“Beh… diciamo che ora mi piace.”
“C’è qualcosa sotto, non mi freghi. Ti conosco troppo bene. Parlami.”
Inspiro profondamente e chiudo gli occhi, deciso ormai a raccontargli per sommi capi cosa è accaduto con Marco. Non gli descriverò le mie sensazioni o la crisi di cui sono stato vittima, come tacerò pure sullo strano incontro avvenuto prima di rincasare e sul portachiavi. Mi interessa solamente ricevere delle risposte circa i dilemmi esistenziali che mi tormentano da quando ho intrapreso la via di assistente del Diavolo. Finora essi sono sempre stati pungoli discreti, non mi hanno impedito di svolgere il mio lavoro: erano lì, dormienti, e anche se ne avvertivo la presenza non me ne curavo troppo. La notte passata, invece, sono venuti a galla con prepotenza e per la prima volta sono stato obbligato a vagliarli scrupolosamente, a viverli sulla mia pelle e combatterli faccia a faccia. I consigli di Samael potrebbero rivelarsi utili per fronteggiare anche in futuro una fase simile, se mai capiterà. Non sono così infantile da rifiutarmi di ammettere che il maestro ne sa più di me e che potrebbe aiutarmi. Quando sono in difficoltà, lui mi tende sempre una mano. Inoltre, durante la sua lunga esistenza chissà quanti tipi di anime ha incontrato, di sicuro più del sottoscritto, quindi affidarmi alla sua saggezza mi tornerà comodo. È il mio faro, la boa in mezzo all’oceano. Ora, a maggior ragione, è giunto il momento di affidarmi a lui completamente, visto che ho scelto di abbandonare la mia umanità. Solo Samael, come mio mentore, è in grado di illuminare la strada da percorrere, di suggerirmi le scorciatoie e indicarmi le trappole in anticipo. Perciò per quale motivo dovrei schiaffeggiare le dita che protende verso di me?
Lo confesso: gira e rigira, a dispetto delle mie belle parole, non ho mai scavalcato con tutti e due i piedi la barriera che ho costruito per difendermi da lui. Per quanto sia sempre stato affascinato dalla sua natura e dai suoi modi gentili, arrivando ad attaccarmi a lui come un figlio con la madre - dato che nell’infanzia non ho mai sperimentato l’affetto di una famiglia -, sotto sotto ho esitato a lasciarmi andare. Affermavo con convinzione che Samael era tutto per me, il centro del mio mondo, la mia luce, ma in realtà covavo delle riserve, nutrivo un timore quasi reverenziale, e l’istinto di fuga talvolta tornava a farsi sentire con allettanti bisbigli. 
Il mio desiderio di compiacerlo non era dettato dall’amore o dalla stima, o almeno non solo: esso derivava piuttosto dalla paura che potesse punirmi se commettevo degli errori, proprio come mi puniva mio padre. Non amavo Samael, ne ero spaventato. Provavo quasi un terrore agghiacciante. Perché lui era un demone, ossia una creatura che esula dalla comprensione umana. Ero consapevole che avrebbe potuto farmi del male se lo avessi offeso in qualche modo e che la mia vita era legata a un filo sottilissimo, soggetto ai capricci di un essere indecifrabile e imprevedibile. Il punto fondamentale era che, se non volevo finire all’Inferno insieme ai peccatori, dovevo stare al gioco e danzare come un giullare per allietare il mio padrone. Samael mi ha sempre tenuto in pugno ed io, per sopravvivere, mi sono lasciato manovrare a suo piacimento, facendomi il lavaggio del cervello da solo per riuscire ad accettare la mia condizione. Così ho etichettato come amore ciò che in verità era paura. 
In più, mi sono comportato da puttana: gli ho concesso il mio corpo per non farlo arrabbiare, perché lui lo bramava - i suoi sguardi cupidi non mi erano nuovi - e non perché io lo volessi davvero. Le violenze di mio padre mi hanno traumatizzato talmente tanto che, scavando sin nei recessi della mia mente, un occhio acuto scorgerebbe il nulla più assoluto nel “reparto del sesso“. È inutile che lo neghi, perché ormai me ne sono accorto da un pezzo: sono impotente. Non ho mai avuto un’erezione mattutina, non mi sono mai masturbato e non penso mai al sesso. Non reagisco con nessuno a parte Samael, ma solo perché lui sa come stimolarmi. Inoltre fa uso dei suoi poteri, che spediscono impulsi mirati ai nervi e muscoli atti alla riproduzione. È magia mista a tecnica, ma la sola tecnica credo che non sarebbe sufficiente. Il contatto fisico mi ripugna, però con lui, alla fine, mi sento al sicuro. Non mi ha mai preso con la forza, benché comunque mi sia donato a lui anche quando non avevo voglia, timoroso che potesse infuriarsi con me. Ha riguardo per il mio corpo, mi tocca con dolcezza, non mi obbliga. Eppure spesso, se non addirittura ogni volta, mi sono sentito costretto.
Adesso, tuttavia, è diverso. Adesso sono io a desiderarlo, perché non ho più paura. Sì, Samael continua a incutere soggezione, come potrebbe non farlo? Ma ora so, a monte del suo monologo di poco fa, che non ho ragione di preoccuparmi di un’eventuale punizione, perché egli stesso mi ha fatto realizzare di avere un certo potere su di lui, di non essere proprio inerme come pensavo. Ha detto che il mio odore lo rende schiavo e se questa non è un’ammissione di debolezza, allora cos’è? Mi sento molto più vicino a Samael di quanto lo sia mai stato. Io che lotto per essere un demone e lui che palesa atteggiamenti umani.
Ora, dopo lunghi anni, posso concepire di amarlo per ciò che è, per il suo carattere e per i suoi difetti. Prima mi appariva troppo perfetto e cotanta perfezione la percepivo come sbagliata, innaturale, poiché essa non appartiene a questo mondo. Si dice che tutto il Creato sia perfetto nella sua imperfezione: è una contraddizione in termini, ma descrive in maniera netta e precisa la vera essenza delle cose che ci circondano. Adesso è un po’ come vedere il maestro per la prima volta. La realtà dei miei sentimenti mi colpisce e comprendo che l’amore che provo è amore, che la devozione è devozione, la fiducia è fiducia e il rispetto è il rispetto. Tutto è tornato ad essere quello che deve essere e il mio cuore, all’improvviso, si sgrava di un peso enorme, che non mi sono mai reso conto di portarmi appresso.
“Sì, sono strano.” esordisco dopo un minuto scarso di silenzio, “Stanotte mi è capitato un caso difficile, l’unico del suo genere in cui mi sia mai imbattuto durante la mia breve esperienza.”
“Oh.”
Si allontana, si rimette seduto e accavalla le gambe, d’un tratto interessato e ben disposto ad ascoltare. Gli racconto approssimativamente cosa è successo e gli espongo i miei dubbi ad alta voce, come non facevo da tempo. Non ricordo quando è stata l’ultima volta in cui abbiano conversato così, con toni pacati e menti attente, immersi in un complicato dibattito filosofico.
“Quello che voglio dire è che,” mi spiego gesticolando, “dal momento che chi firma il contratto è animato da scopi venali e per nulla edificanti, sarebbe sciocco sperare nel perdono di Dio, una volta compiuto il ciclo dei tredici anni. Secondo la Bibbia, Egli concede la misericordia anche a coloro che si pentono sul letto di morte, ma gli uomini non si illudono che un atto del genere sia in grado di salvarli davvero, nonostante io sia convinto che potrebbe eccome. Infatti, le persone che vendono l’anima al Diavolo non credono sul serio nell’onnipotenza di Dio. È un paradosso notevole, perché quando un demone prende contatto con loro, immediatamente comprendono che Satana esiste. Quindi, se esiste il Male, perché non credere che esista anche il Bene?”
“È semplice.” risponde Samael, “Coloro che firmano un patto, nel preciso istante in cui accettano i termini, vengono fagocitati dal Male e digeriti in tutta tranquillità nell’arco di tredici anni. Non sono più capaci di vedere il Bene e questo li condanna a priori. Anzi, il potere dell’Inferno li soggioga a tal punto che l’idea di affidarsi a Dio non passa neanche per l’anticamera del loro cervello, come se fossero stati catapultati in una dimensione parallela e la loro mente fosse stata riempita di ovatta, per ingabbiare il loro spirito nelle tenebre e renderli ciechi e sordi.”
“Ma Marco ha detto che, tornando indietro, non l’avrebbe mai fatto. Era pentito.”
“Un conto è provare rimorso, Alastor, un altro è pentirsi di fronte a Dio. C’è differenza.”
“Allora perché nessuno lo fa?”
“Gli uomini che vendono la propria anima, di solito, sono coloro che pensano che Dio li abbia abbandonati. La vita non è soddisfacente ai loro occhi e vorrebbero di più, ossia ciò che ritengono di meritare. Altri, invece, non hanno mai creduto in un’entità superiore che giudica la loro condotta e quindi non vanno in crisi quando capiscono che, al contrario, qualcosa di sovrannaturale esiste e li osserva. Semplicemente, realizzano di essere sempre stati perduti, perché non hanno mai avuto fede. Però, se solo tentassero di avvicinarsi al Bene, Dio li accoglierebbe nella Sua luce. E proprio qui sta il divertimento: questa categoria di esseri umani è perduta perché convinta di esserlo, seppur in maniera del tutto inconsapevole. Parlo in generale, ma anche Marco, con ogni probabilità, era sicuro di non avere vie d’uscita, quando invece una era lì, a portata di mano. Le regole parlano chiaro: chi si pentirà, entrerà nel Regno dei Cieli. È una delle più importanti leggi divine ed è anche alquanto ironico, perché solo una minima percentuale ci crede. Molti vanno in chiesa la domenica, pregano, cercano di seguire i Suoi insegnamenti, eppure quasi nessuno si pente quando commette uno sbaglio.”
“Perché?”
“Colpa dell’istituzione ecclesiastica e del sacramento della Confessione. Le persone pensano che, per ottenere il perdono, sia necessario vuotare il sacco con il prete. Si vergognano di dover spiattellare i loro peccatucci a qualcun altro, così rimangono zitti e non si accorgono che basterebbe rivolgersi direttamente a Dio. Non serve recarsi in chiesa, né occorre la presenza di un sacerdote. Dio ascolta sempre tutte le preghiere. Confessare i propri peccati è un atto che richiede coraggio, è una presa di coscienza enorme e assai difficile da mettere in pratica. Per gli uomini è un po’ come mettersi a nudo e mostrarsi per i mostri che sono. Però, da secoli, la Chiesa si è arrogata il titolo di ‘portavoce della Sua parola’, quindi la gente crede che per arrivare a Lui si debba per forza passare dai tramiti, cioè i preti o chi per loro. Se tutti realizzassero l’infondatezza di questo teatrino, la Chiesa perderebbe il suo prestigio.”
“Capisco. Nessuno vorrebbe mai rivelare al mondo la propria natura aberrante, perché, sebbene ci piaccia ripeterci che non ci importa niente del parere altrui, esso in realtà ci condiziona a tal punto da precluderci la via di salvezza.”
“Esatto.” annuisce Samael, “Ogni giorno, da quando nascete, orbitate attorno agli altri. Siete tutti legati da un filo sottile e invisibile e le vostre azioni vengono influenzate dalle parole di chi vi circonda, dalle opinioni del prossimo, che lo vogliate o meno. Ammettere di avere sbagliato provocherebbe una sorta di ‘caduta’ agli occhi di questi altri, perciò celate le vostre brutture dentro di voi, le tenete al sicuro alla stregua di preziosi tesori, terribili segreti da non rivelare mai, neanche a voi stessi. Smettete di guardarvi allo specchio, poiché, proprio come dei moderni Dorian Gray, sapete che vi vedreste riflessi come creature grottesche e ripugnanti e temete che tutti possano scorgere tale immagine. La paura dell’umiliazione e della condanna da parte dei vostri simili è più importante di quella di Dio, vi annichilisce. Vi rimpicciolite davanti alla possibilità che dei conoscenti o delle persone che vi hanno sempre stimati scoprano chi siete veramente. Questa è la maledizione degli uomini, scaturita dall’aver mangiato il frutto dell’Albero della Conoscenza. Da allora siete divenuti coscienti dell’oscurità che alberga dentro il vostro cuore e anche ‘l’altro’ ha visto il germe maligno che si annida nei recessi delle vostre anime impure. Si ha più terrore del giudizio degli uomini che di quello divino.”
“Sono così miserabile?” mormoro mortificato.
“No, no. Non più. Hai salito numerosi gradini da quando stai con me, tranquillo.” mi rassicura sorridendo, “Sai, la consapevolezza di non essere poi molto differente da uno scarafaggio suscita nell’uomo l’istinto di nascondersi, di coprire le proprie ‘nudità’ e mascherare i difetti, altrimenti evidenti. E Dio non è diverso.” 
Si protende verso di me e mi squadra con un cipiglio serio.
“Dio non è diverso? Che dici, certo che lo è. È Dio!” replico.
Scrolla le spalle con aria di sufficienza e mi spiega: “Anche Lui non vuole specchiarsi, perché nel Suo riflesso vedrebbe l’umanità intera, ossia tante minuscole e disgustose creaturine che si accoppiano e si divorano l’un l’altra, rifiutando di ammettere di essere scarafaggi. Proprio come Egli si rifiuta di ammettere di aver commesso un errore a plasmare tali schifosi insetti, per di più a Sua immagine e somiglianza. Continuando a utilizzare questa metafora, un po’ infelice temo, Dio è il re degli scarafaggi e gli angeli sono una Sua versione un po’ più carina, mentre i demoni si sono evoluti in ragni grassocci e affamati che mangiano i suddetti scarafaggi.”
Ridacchio, mentre penso ad uno scarafaggio gigantesco con tanto di barba bianca e aureola in testa. Se partorisco certe idee, significa che sono davvero caduto, senza dubbio.
“D’accordo. Quindi, ricapitolando: il contratto prevede una via d’uscita ed essa consiste nel pentimento del peccatore. Però il peccatore non può pentirsi, perché non crede di poter essere salvato e non vuole nemmeno confessare i propri crimini, da orgoglioso e stupido scarafaggio quale è. Marco, tuttavia, avrebbe potuto farlo, so che ne sarebbe stato capace. Se qualcuno glielo avesse suggerito, a quest’ora sarebbe ancora vivo e alla sua morte sarebbe asceso in Paradiso.” 
Perché non gliel’ho detto? Perché non l’ho avvertito? Beh, ancora non ero giunto a questa rivelazione, ma avrei potuto… no, non avrei potuto procrastinare il suo momento, a meno che lui non avesse accettato di sacrificare il suo amico per ottenere tredici anni in più. Non che mi interessi, comunque. Ormai quel ragazzo sta bruciando all’Inferno e da lì non si esce.
“Alastor, il nostro lavoro consiste nello scagliare quante più anime all’Inferno, non di preoccuparci per la sorte di quelle che potrebbero salvarsi con un piccolo sforzo. Non è affar nostro dispensare consigli di salvezza ai peccatori. Chi firma un contratto diventa in quel momento un peccatore, se prima non lo è mai stato. Anche Marco. Non è mai stato degno del tuo coinvolgimento emotivo. Dimenticalo e serba nel cuore solo la lezione che hai imparato.” 
Sbuffo e mi accascio sullo schienale del divano. Chiudo gli occhi, colto da un improvviso attacco di stanchezza, sia fisica che mentale.
“C’è altro che vuoi dirmi?” mi esorta Samael.
“Mmm, beh… un’altra cosa c’è: qualcuno mi segue.”
“Me lo avevi già detto. Chi credi che sia? Exurge Domine?”
“Tu che dici?” sputo con una nota di sarcasmo.
Prima che mi renda conto del tono che ho usato, il maestro mi placca, facendomi finire disteso. Mi monta sopra, a cavalcioni, e mi blocca le braccia sopra la testa in una morsa ferrea, da cui non riesco a liberarmi. Non che ci provi più di tanto. I miei non sono che blandi tentativi dovuti a un riflesso incondizionato, più che a un vero desiderio di ribellarmi. Forse ho esagerato, ma onestamente non me importa nulla. Sono esausto e di cattivo umore a causa di questa costante sensazione di essere osservato. Non dovrei sfogarmi su Samael, lo so, ma non posso farne a meno. O lui o il muro. Magari era meglio il muro, ma è troppo tardi per fare marcia indietro.
“Questa tua nuova impertinenza mi stuzzica e al contempo mi irrita da morire. Non so decidermi se infliggerti una punizione per ricordati chi sono io, oppure darti corda per vedere fin dove hai il coraggio di spingerti.” sibila, ma stranamente non ho paura.
“Entrambe le opzioni vanno bene, non mi interessa. Però penso che se continuerò a sentirmi braccato, altro che frecciatine! È snervante e non capisco chi diavolo sia.”
Allenta la presa e si immerge in una riflessione silenziosa, di cui mi fa partecipe solo un paio di minuti dopo.
“Non sono Exurge Domine, perché non ne avverto la presenza nei paraggi.” borbotta tra sé e sé, poi torna a fissarmi, “Sei tu che sei seguito, quindi sei tu che devi descrivermi che cosa senti di preciso.”
“Non lo so. È come se gli occhi di questo… stalker mi stessero incollati sulla schiena. Non riesco a seminarlo o a sfuggirgli. L’unica cosa che sono riuscito a fare è ignorarlo e far finta che non esiste.” 
Lo scruto intensamente e Samael ricambia il mio sguardo con una sfumatura apprensiva a velargli le iridi arancioni.
“Va avanti da anni, ormai. Credevo si trattasse di un’allucinazione, credevo di essere paranoico. Ma adesso sono sicurissimo che ci sia qualcuno, là fuori, che mi tallona senza darmi tregua.”
Il maestro scuote debolmente la testa, confuso: “La città è sicura, non c’è alcun pericolo. Non ti avrei mai portato in un posto pieno di insidie.”
“Eppure qualcuno c’è!” insisto, “Non mi ha mai fatto del male, è vero, non ha mai cercato un qualche tipo di contatto. È sempre rimasto nascosto nell’ombra, perciò non ho idea se si tratti di un nemico.”
“Va bene.” sospira, d’un tratto più rilassato, e si stende sul mio corpo, “Di una cosa puoi stare certo, Alastor: se lo prendo, gli farò passare la voglia di tormentarti, te lo garantisco. Il tuo benessere mentale mi sta a cuore come quello fisico.”
“Sì, ma come puoi catturarlo se non lo hai mai percepito?”
Si gratta il mento, poi esclama: “Tu farai da esca!”
“Eh?!”
“Cercherai di attirarlo, di convincerlo a uscire allo scoperto. Quando accadrà, se si rivelerà essere un nemico lo ridurrò in cenere in un attimo. Altrimenti lo interrogherò alla vecchia maniera.” ghigna sinistro.
Deglutisco, rifiutandomi di immaginare i metodi che Samael potrebbe utilizzare per estorcere informazioni.
“E se non raccoglie la provocazione?”
“Lo farà. Dobbiamo solo capire qual è il suo punto debole. Se non risponde al tuo invito diretto, gli daremo un altro genere di incentivo. Comunque, mentre tu ti concentrerai su di lui, io perlustrerò la zona intorno per scovarlo e sorprenderlo alle spalle.”
“Ho i miei dubbi che funzionerà. Ha fatto il bravo per anni… sembra più un ninja addestrato che un semplice stalker dilettante. È furbo ed è pure capace di ingannare i sensi di un demone come te. Secondo me non devi sottovalutarlo.”
“Hai qualche proposta migliore, Alastor?” mi domanda sorridendo, ma il suo è un sorriso freddo, tirato, che tradisce fastidio per il fatto di venire continuamente contraddetto.
È evidente, e non ci vuole un genio per capirlo, che non è abituato alle obiezioni. Si fa come dice lui e basta, mentalità tipica di un leader egocentrico. Ma mi piace, mi intriga e fa germogliare in me la voglia di stuzzicarlo ancora un po’.
“No.” rispondo.
Se fossimo in un fumetto, a questo punto una vena comincerebbe a pulsare sulla sua fronte.
“E allora qual è il problema?”
“Non mi esalta l’idea di fare da esca, tutto qua. Perché non ci mettiamo un manichino e gli facciamo indossare i miei vestiti e una parrucca?”
“Sei serio?”
“No.”
Adesso la vena esploderebbe.
Serra le labbra, stringe i pugni e si scosta con un movimento repentino. Lo vedo agguantare il computer portatile, accenderlo, tamburellare con le dita sulla gamba e scrocchiarsi il collo come se niente fosse.
“Che fai?” domando cauto.
Resta zitto, ma contrae la mandibola. Dopodiché, una volta che il pc ha finito di caricarsi, picchietta sui tasti a velocità supersonica e si connette a internet.
“Che stai facendo?” riprovo.
“Aggiorno il mio blog.”
“Eh?”
“Ci scrivo ogni giorno.”
“B-Blog…? E il sito di cui parlavi?”
“Devo aggiustarlo, perché è andato in sovraccarico. Troppi utenti connessi.”
Sullo schermo si apre una pagina con lo sfondo nero e qualche scritta colorata in cima e ai margini. Leggo il titolo: Il Travaglio Quotidiano Di Un Demone. Poi gli occhi mi scivolano sul sottotitolo.
Le peripezie di Sam e del suo adorato pupillo. Highway to Hell.” pronuncio ad alta voce.
Non mi lascia il tempo di leggere il resto, che apre una finestra bianca, nella quale si mette a scrivere.

“Il mio adorato pupillo è entrato nella fase di ribellione: mi risponde male e mi prende in giro. Non l’aveva mai fatto. È sempre stato un allievo modello, di cui potevo vantarmi a destra e a manca facendo la ruota come un pavone. Ora, invece, ha cominciato a  manifestare i sintomi e non so cosa fare. Non è colpa dell’adolescenza, perché ormai è intorno alla trentina (anche se ne dimostra sedici XD). Quindi vorrei chiedere a voi, miei diavoletti, quale linea di condotta dovrei adottare. Commentate numerosi! Vi terrò aggiornati. 
Kiss kiss & Lucifer 4ever!”


Osservo basito lo schermo, incapace di articolare un discorso logico. Davvero, non ho parole. Non tanto per il linguaggio da teenager che usa Samael - oddio, mi fa venire i brividi anche quello -, quanto per quel “Commentate numerosi”. Chi dovrebbe commentare? Chi oserebbe commentare?!
Neanche un minuto dopo un utente di nome Lucy_Thekingofhell risponde al disperato appello del maestro. Ci ritroviamo a scrutare insieme il rettangolino appena apparso sotto il messaggio, senza sapere cosa dire. 
Sullo sfondo nero, in caratteri verdi, lampeggiano cinque lettere scritte in maiuscolo: “SESSO”.
Mi alzo in silenzio e mi reco indispettito in bagno per farmi una doccia, incurante del tonfo seguito da scricchiolio che emette la porta quando la sbatto con violenza.

Ci dividiamo di nuovo dopo il tramonto. Prima di uscire dall’appartamento, Samael mi ha baciato con ardore, come non faceva da tempo, e mi ha promesso una piccola sorpresa al mio ritorno. Questo mi ha messo di buon umore e tutte le preoccupazioni sono svanite per qualche minuto. 
Riscuoto undici anime in poche ore e alle due circa termino il giro. Salto sui tetti delle chiese e dei palazzi, deciso a prendermela comoda. L’aria frizzante mi scompiglia i capelli, mi provoca una vaga sensazione di sollievo nel cuore e mi alleggerisce lo spirito.
Il pensiero di Marco aleggia ancora nella mia mente, ma non è più pressante come prima. 
Atterro sulle tegole di una casa nei pressi di Piazza Santo Spirito e mi fermo. Poi infilo la mano in tasca ed estraggo il portachiavi. Lo guardo intensamente, quasi sia un oracolo in grado di rivelarmi altre verità scomode e inopportune. Lo stringo con forza, alzo il braccio e faccio per scaraventarlo lontano, ma all’ultimo mi blocco. Non posso. Nonostante le parole del maestro e il traguardo interiore che ho raggiunto, non riesco a fare a meno di chiedermi se ho compiuto davvero la scelta giusta. Andiamo, è ridicolo! In sedici anni che non ho mai lasciato il fianco di Samael non mi sono mai posto questi problemi. Ho rinnegato Dio e sono diventato a pieno diritto un emissario di Sua Eccellenza Oscura. Perché farsi venire dubbi proprio adesso? Perché farsi venire crisi di coscienza? Ho abbracciato la causa di Lucifero e non mi tirerò indietro, perché sono più che convinto che il novantanove percento dell’umanità meriti di bruciare sino alla fine dei tempi.  Ma quel restante un percento? Cosa devo fare? Bah, è inutile pensarci, poiché costoro non stipuleranno mai un contratto. E se mi imbattessi in altri ragazzini come Marco?
All’improvviso vengo distolto dalle mie elucubrazioni e l’impressione di essere osservato torna a farsi viva, più concreta che mai. Mi irrigidisco e i miei sensi si fanno vigili.
“Hey!”
Sussulto visibilmente e per poco non mi strozzo con la saliva. Mi giro di scatto, pronto allo scontro. Rimango di stucco quando un ragazzo, che dimostra all’incirca vent’anni, mi si para di fronte. È vestito con un abbigliamento casual che non gli dona affatto, ma che di certo lo fa mescolare alla massa: jeans sbrindellati, maglietta monocromatica e piumino nero. Ai piedi indossa delle ordinarie scarpe da ginnastica, anche se sono un po’ rovinate. Capisco subito che è un demone, perché l’aura che irradia mi accarezza la pelle come tanti tentacoli freddi e fastidiosi. Però non mi trasmette la medesima sensazione di Samael: è più lieve, meno opprimente. Ha i capelli biondi, che si pettina subito all’indietro con le dita in una mossa studiata per sedurre, e ammicca con gli occhi di un colore a metà fra l’azzurro e il rosso, quasi amaranto. Il viso di un pallore cadaverico possiede i lineamenti regolari e perfetti di una scultura greca e il fisico magro e flessuoso si muove un po’ a scatti, in modo innaturale, segno che non è molto abituato a camminare sulla terra. Non è sciolto come Samael, ha una postura rigida e sembra che non abbia ancora preso dimestichezza con le sembianze umane. Dev’essere qui da poco. 
Che vuole? L’ennesima scocciatura non pianificata. Però ammetto che sono curioso. Dopo quella donna che venne a far visita al maestro a Londra, non ho mai incontrato altri demoni.
“Ciao. Ero nei paraggi, ti ho visto quassù e ho pensato di presentarmi.” snocciola e mi sorride impacciato.
Gli regalo una smorfia, della serie “non ci casco”, ma lui non pare afferrare il messaggio.
“Ehm, mi chiamo Andras. Il mio nome da umano, invece, è Andrea. Sono qui da poco.” si gratta la nuca, nervoso.
“L’avevo capito.”
“Ah… è così palese?”
“Sì. Ti muovi a scatti. Devi rilassarti e imitare bene gli uomini sotto tutti gli aspetti, se non vuoi essere beccato.”
“Oh, grazie. Chi sei?”
“Archie.”
Aggrotta le sopracciglia e commenta: “Non conosco nessun demone di nome Archie.”
“Il mio maestro mi ha ordinato di non rivelare il mio nome agli sconosciuti.”
“Chi è il tuo maestro?”
Esito, arretrando di un passo, attento a non scivolare sulle tegole con le suole delle scarpe. Se mi attacca? Non credo di essere abbastanza forte per contrastarlo. Qual è l’etichetta dei demoni? Siamo tutti amici? Ci sono faide in corso? Siamo rivali? Come devo comportarmi?
“Ti ha ordinato di non rivelare neanche il suo nome?”
Ci penso. In effetti, non ha mai detto niente in proposito.
“Si chiama Samael.”
“Samael! Lo conosco! Aspetta, aspetta!” mi punta l’indice contro e assume un’aria incredula, “Non sarai mica tu il suo ‘adorato pupillo’?!” 
Socchiudo gli occhi e schiocco la lingua: “Fammi indovinare. Segui anche tu il suo blog.”
“Sì!”
La valigetta quasi mi cade dalla mano, ma mi impongo di conservare un certo contegno.
Si accosta con aria amichevole, però decido di non abbandonare la cautela.
“Tranquillo, rilassati. Samael appartiene alla cerchia degli aristocratici, non mi azzarderei mai a torcere un capello al suo protetto. A dire il vero, sono felice di essermi imbattuto in un fratello. Sono mesi che non ne vedo uno e stavo cominciando a sentirmi solo.” infila le mani nelle tasche dei jeans e mi sorride solare.
Fratello? Proprio questa parola, pronunciata con una naturalezza disarmante, mi aiuta a distendere i nervi. Se mi considera un fratello, forse posso fidarmi. Decido di rischiare. Questo Andras mi trasmette onde positive, sebbene sia assurdo per un demone.
“Sono Alastor.”
“Mmm… sei nuovo?”
“Ho preso servizio ufficialmente sette anni fa.”
“Capisco, allora è recente. Piacere di conoscerti, Alastor.” mi tende la mano nel tipico saluto umano.
Gli scocco un sorrisino divertito e gliela stringo.
“Piacere mio, Andras. Che ci fai in giro a quest’ora?”
“Cercavo prede. Tu?”
“Ho appena finito di riscuotere anime.”
“Quante?”
“Undici.”
Fischia ammirato: “Wow, complimenti. Scommetto che sei stanco.”
“Da morire.”
Ride alla mia battuta e a quel punto mi calmo. Un mortale non potrebbe comprenderla, ma un demone sì: infatti, i demoni non sono mai stati “vivi” e ovviamente non possono morire. Tuttavia, non intendo metterlo al corrente che sono nato uomo, altrimenti chissà quali reazioni potrei scatenare. Meglio mantenere un profilo basso.
“Scusa se ti ho disturbato, è solo che mi annoiavo. Ti lascio tornare alla tua tana, da Samael. Ah, salutamelo quando lo vedi! Resti qui a Firenze per molto?”
“Non lo so. Credo che rimarremo finché ci sarà bisogno.”
“Ok.”
“Ok.” sbuffo, ma non riesco a nascondere un ghigno, “Perlomeno sai imitare bene il linguaggio.”
“Sì, ma dovrò impegnarmi di più. Grazie della chiacchierata, Alastor. A presto!”
“Aspetta, Andras!”
“Mh?”
“Per caso… cioè…” mi gratto la nuca a disagio e punto gli occhi su una finestra buia, “mi hai seguito in questo periodo?”
Mi fissa perplesso, poi però si scioglie in un sorriso mesto.
“Non ti sfugge niente, eh? Dovevo immaginarlo, d’altronde sei l’allievo di Samael. Beh, sì, ti ho visto per la prima volta una settimana fa, un paio di giorni dopo il mio arrivo. Ti ho spiato da lontano, ma non mi sono mai intromesso per non disturbarti durante il lavoro.”
“E ieri notte?”
“Perché?”
Sembra confuso.
“Tu rispondi.”
“Ieri ero in campagna, ad una festa. Lo giuro. Ho creato un po’ di scompiglio e poi me ne sono andato, ma a quel punto il sole era già alto.”
“Mh, va bene, grazie.” sospiro afflitto.
Non è lui lo stalker. Anche se ha ammesso di avermi pedinato, lo ha fatto comunque per un tempo troppo breve per corrispondere al profilo del mio attuale inseguitore. Non che abbia chissà quanti elementi su cui basarmi. Anzi, ho solo la certezza di essere braccato da prima del trasferimento a Parigi, nulla di più. Sempre che Andras non stia mentendo. Però a scagionarlo c’è anche un altro fattore: in sua presenza non mi sento in ansia, come invece accade quando il vero colpevole mi scruta dall’oscurità. Con lui non avverto alcun pericolo, sebbene sia un personaggio ambiguo che fatico ad inquadrare. 
“Se ti dà fastidio, la smetto. Non voglio distrarti, soprattutto se sei costretto a lavorare così tanto.”
Sembra pure gentile ed educato. No, decisamente non si tratta di lui.
“In teoria la cosa mi è indifferente, però ti confesso che percepire due occhi incollati alla schiena non è piacevole.”
“D’accordo, chiedo scusa. Spero di rivederti!” esclama sventolando la mano.
“Ciao.” lo saluto in tono neutro.
Salta giù dal tetto e si dilegua come un’ombra.
Da un lato speravo che fosse lui. Se lo fosse stato, gli avrei fatto capire di girare al largo, oppure lo avrei spedito dritto da Samael. In più mi sarei tolto un cruccio. Perciò rimane ancora l’incognita e questo non fa che alimentare la mia frustrazione. Chi diavolo è?










 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Do ut des ***








 

Un nuovo anno è appena cominciato. È la seconda settimana di gennaio. La routine procede senza intoppi, eccetto che Samael pare turbato da qualcosa. Stamattina, per l’ennesima volta, dopo vari tentennamenti gli ho chiesto cosa c’è che non va e lui ha fatto il vago, dicendomi di non preoccuparmi. Ma come faccio a non preoccuparmi di fronte a quel muso lungo e allo sguardo assente, che fissa la parete, il soffitto o il cielo plumbeo fuori dalla finestra tutto il giorno? Davvero, ho un brutto presentimento. L’ultima volta che l’ho visto con questa espressione in viso - che comunque non è mai rimasta così a lungo come adesso - è stata quando siamo dovuti fuggire da Londra per andare a Parigi.
“C’entrano gli Exurge Domine?” gli ho domandato.
Samael è rimasto zitto e ha continuato ad ignorarmi. Dovevo prenderlo come un sì? Mi sembra di essere tornato a qualche settimana fa: lui che finge che io non esista e io che fingo che non mi importi, anche se l’intera situazione mi riempie di frustrazione e il suo atteggiamento mi ferisce. Credevo che la crisi di coppia fosse superata. Proprio quando le cose parevano essere migliorate, ecco che precipitano di nuovo. Cosa è successo? Perché non mi parla? È stato lui il primo a raccomandarmi di non tenermi niente dentro, di esprimermi liberamente qualora ne senta il bisogno. Il discorso, quindi, è unilaterale? Non si fida abbastanza di me per aprirsi e sfogarsi? 
In più, dal momento che abbiamo preso le distanze l’uno dall’altro - e, ci terrei a precisare, non per colpa mia -, mi ritrovo molto spesso a giocherellare distratto con il portachiavi di Marco, che ancora conservo nella tasca interna del cappotto. È diventato una specie di tic nervoso: quando sono infastidito o pensieroso, ecco che la mia mano, da sola, scivola nella tasca ed afferra quel piccolo oggetto di plastica, rigirandoselo tra le dita. Neanche fosse un anti-stress.
Sono le sei e mezzo di sera. In teoria saremmo dovuti uscire già da un’ora, ma Samael non fa che contemplare il vuoto, seduto sul divano con le gambe accavallate e gli occhi spenti. Ha messo da parte persino il suo blog, ormai non accende quasi più il computer. 
Mi sporgo oltre lo schienale e lo osservo corrucciato.
“Sam? Ci sei? Oggi non si lavora?” tento ancora, ma so per certo che le mie parole non verranno ascoltate.
Il silenzio assordante che segue mi risucchia le energie. Mi siedo accanto a lui con un sospiro stanco e demoralizzato, ma sono tutt’altro che rilassato. Credo che il mio nervosismo sia palese, sia per la rigidità della mia postura che per gli incessanti tic che non mi danno tregua. Il mio corpo li compie inconsciamente, non riesco a controllarli. Perciò la suola di una scarpa inizia a tamburellare sul tappeto a ritmo sostenuto, le dita si intrecciano, grattano, si piegano e scrocchiano senza sosta e la testa scatta alternativamente da una parte all’altra, imitata dagli occhi che saettano sulle superfici della stanza in cerca di stimoli. 
Faccio un respiro profondo e mi sforzo di concentrarmi. Voglio scoprire la ragione per cui Samael si sta comportando in questo modo, perché il silenzio fra di noi mi sfinisce. La memoria torna al periodo natalizio appena passato e ripercorre i giorni saltando da una scena all’altra. Tuttavia, per quanto mi ci metta, proprio non capisco cosa possa averlo indotto al mutismo.
Come se non bastasse, la snervante sensazione di essere braccato non accenna a sparire ogni volta che metto il naso fuori di casa. Mi sento fiacco, demotivato, spaventato, costantemente sulle spine. Il non comprenderne il motivo non fa che acuire il mio malumore e, se Samael ci aggiunge il suo carico da cento, posso affermare di essere arrivato alla frutta. 
Ok, mi rifiuto di continuare oltre questo teatrino. Devo reagire, per il bene di entrambi. Non ho idea se queste “fasi depressive” siano una cosa comune fra i demoni, se siano permanenti o se durino solo qualche giorno. In tutta franchezza, da un lato, nemmeno mi interessa. Ora voglio solo scrollarmi di dosso la negatività che il maestro sembra emanare a ondate, insieme al senso di inadeguatezza e quello di essere di troppo. Ho bisogno di lavorare, è quasi paragonabile ad una necessità fisica. Se Samael vuole seguitare ancora per molto ad emettere queste vibrazioni spiacevoli, che faccia pure. Io le ho provate tutte.
Accenno ad alzarmi, con l’intenzione di afferrare cappotto e valigetta e fiondarmi a massima velocità fuori da quella gabbia asfissiante, quando all’improvviso un pensiero mi blocca. No, non le ho provate tutte. Resta solo…
Avvampo in un secondo e, davvero, non posso farne a meno. Non so perché non ci abbia riflettuto prima - o forse lo so, ma non voglio ammetterlo per la vergogna -, però, in effetti, potrebbe rivelarsi la soluzione che cerco. Di cosa sto parlando? Il sesso. D’accordo, diciamo la verità: non lo facciamo da mesi e, personalmente, non ho mai sedotto nessuno. È Samael, durante i nostri incontri intimi, a compiere la prima mossa e a tenere le redini del gioco. Io mi sono sempre limitato a subire beato le sue carezze, senza mai ricambiare il piacere, perché non lo percepivo come un gesto naturale o dovuto. So che fra amanti è un dare e un ricevere allo stesso tempo, ma finora per me è sempre stato piuttosto un chiedere e un concedere: Samael chiedeva, io concedevo. E, nel concedermi, Samael prendeva e donava in egual modo. È sempre lui a gestire tutto, io devo solo stare sdraiato con le cosce spalancate. Comunque, a mia difesa, posso dire che per me anche soltanto l’atto di donarmi a qualcuno è un enorme traguardo. Mio padre, mio cugino e mio fratello non mi chiedevano certo il permesso per abusare del mio corpo, non c’è mai stata una volta in cui fossi consenziente. Con Samael, invece, sono consenziente eccome e lo dimostro aprendo le gambe. Questa, ne ero fortemente convinto, era la più concreta manifestazione di totale fiducia che potessi fare e il maestro non ha mai mancato di “ringraziarmi”. 
Eppure mi domando se talvolta lui non desideri che sia io a prendere l’iniziativa. Teoricamente so come dare piacere a un uomo, in passato sono stato spesso costretto a farlo, ma non mi è mai passato per l’anticamera del cervello di offrirmi volontario senza chiedere nulla in cambio, solo per la gioia che deriva dal soddisfare il proprio compagno. Sentirlo gemere grazie a te, realizzare che i tuoi sforzi saranno ripagati quando si scioglierà tra le tue braccia in preda all’estasi, non badare all’imbarazzo o alla goffaggine e impegnarti con tutto te stesso al fine di procurargli un momento in puro appagamento. Non avevo mai concepito niente di tutto ciò. Cosa voglio fare a Samael? Beh, per non sbilanciarmi in modo eccessivo e sondare il terreno, potrei cominciare a sbottonargli i pantaloni e masturbarlo con le mani. Nel caso non dovessi ottenere nessuna reazione, potrei provare con la bocca…
L’immagine di mio cugino, che forza la mia mandibola con le dita per ficcarmi in gola la sua erezione, mi attraversa la mente rapida, in maniera talmente violenta che indietreggio barcollando, come se qualcuno mi avesse appena schiaffeggiato. È simile a un colpo di frusta, doloroso, disgustoso e nauseante. Mi sembra perfino di udire lo schiocco secco. Il ricordo mi risveglia dal torpore che ha avvolto le mie membra e, con uno scatto repentino, quasi scottato, mi allontano da Samael. Accidenti, nemmeno fosse diventato tutto ad un tratto pericolosamente radioattivo. 
Raccolgo la mia roba più in fretta che posso, tentando di restare lucido quanto basta per non dimenticare nulla, mentre il cuore batte impazzito nel mio petto - non so se per la paura o la disperazione - e rimbomba nelle orecchie. Poi mi precipito fuori dall’appartamento, scapicollando giù per le scale col respiro accelerato. Credo di essere pallido come un morto, ma poco mi importa del mio aspetto. Mi infilo il cappotto in strada e mi pettino i capelli indietro con le dita, legandomeli in un codino con un elastico. 
Vorrei scacciare le visioni del passato che mi assediano la mente. Vorrei dimenticare, lo vorrei tanto, ma a quanto sembra è un’impresa impossibile. Ero convinto che Samael avrebbe funto da balsamo, che avrebbe, con tempo e pazienza, lenito le ferite, però ormai ho realizzato che è tutta fatica sprecata. Cosa si dice dei traumi, infatti? I miei incubi continueranno a perseguitarmi per l’eternità, nonostante provi a disfarmene tramite insulsi sotterfugi. Non posso scappare da loro, è chiaro, ma non riesco nemmeno ad affrontarli come desidero. Sono più forte adesso, ne ho viste tante di cose, cose che un normale essere umano neanche si sogna. 
Mi chiedo cosa sia la forza. Quella fisica non è di alcun aiuto, perché i ricordi non mi attaccano con calci e pugni. No, loro sono più subdoli, mi tendono trappole quando meno me lo aspetto e mi travolgono dall’interno come un fiume in piena, che non può essere arginato con una fragile diga di traballanti certezze.
Dopo gli strani fatti di qualche settimana fa, quando ho avuto quel faccia a faccia con “l’altro me”, le memorie mi hanno dato tregua e davvero credevo di averle sconfitte. Eppure è stato sufficiente un minuscolo pensiero poco casto su Samael per riaccenderle e farle divampare più feroci che mai. Non capisco. Ero sicuro che, prendendo atto di essere Alastor, liberandomi così della maschera chiamata “Archie”, tutto sarebbe cambiato in meglio, che avrei iniziato una nuova vita. Ero sicuro di aver raggiunto una tappa importante del mio percorso, di aver tagliato un traguardo e vinto un premio speciale, però pare che mi sia costruito tanti castelli in aria come un idiota. Di nuovo. Mi sono imbottito di illusioni, che si sono rivelate tali solo poco fa. Diamine! In sostanza quanto è durato il periodo “rosa e spensierato”? Due settimane circa. Che palle. Ora sono punto e a capo.
“Chi se ne frega! Concentriamoci sul lavoro e facciamola finita, per una notte.” borbotto tra me e me, rivolgendomi ad un interlocutore immaginario.
Mi fermo ad un angolo, sollevo la valigetta davanti al viso e la scruto intensamente, in attesa che mi dica a chi tocca oggi. Una miriade di immagini, chiare quanto basta, si riversa nel mio cervello, ma non mi scompongo. Sono abituato ed è necessario per portare a termine i miei compiti, altrimenti andrei alla cieca. Serro le palpebre e resto a guardare per un po’, mentre dei volti grotteschi sfrecciano di fronte ai miei occhi chiusi. Dopo un paio di minuti aggrotto le sopracciglia e quasi vedo un grande punto interrogativo disegnarsi sopra la mia testa: perché il “filmino” non è ancora finito? Al massimo dura trenta secondi, se proprio vogliamo metterci a cronometrare. 
Dopo una manciata di istanti si conclude, lasciandomi avvolto dall’oscurità. Riapro gli occhi e fisso confuso il muro di pietra di un palazzo, senza realmente vederlo. Deve esserci un errore. Sì, per forza. Cioè, non è possibile che debba riscuotere trentaquattro anime stanotte. No, non ce la farei, più che altro per questioni di tempo. Per un’anima mi occorrono in media trenta minuti: devo sincerarmi che l’ambiente sia privo di elementi di disturbo - se non lo è, fare in modo che lo diventi - e illustrare al malcapitato la sua situazione, compresa la “scappatoia” che gli permetterà di assicurarsi altri tredici anni di vita. Non è semplice. Se si arrotonda per difetto e si ottimizza i tempi, il risultato si aggira comunque intorno ai venti minuti. Quindi, venti minuti moltiplicati per trentaquattro anime fa… seicentottanta minuti. Guardo l’orologio da polso e registro l’orario: le diciannove e un quarto. Ok, posso farcela, dovrei finire per le sei del mattino, più o meno. Se mi sbrigo e non mi gingillo… ah, però non ho calcolato i minuti che mi servono per spostarmi da un posto all’altro. Maledizione!
La gente passeggia per le vie del centro, ignara dei miei problemi, quando all’improvviso una testa bionda e due occhi amaranto entrano nel mio campo visivo, provocandomi un principio di infarto. Sussulto e mi spalmo sul muro dell’edificio alle mie spalle, trattenendo il fiato.
“Heilà!” mi saluta il nuovo arrivato con un sorriso raggiante.
“Andras, per la miseria!” sbotto, premendo una mano sul cuore per placare i battiti impazziti.
Lo osservo con cipiglio critico. Stanotte indossa dei jeans sbrindellati, con vari buchi piazzati in posizioni strategiche, e, sopra la canottiera nera, un piumino verde con la cerniera aperta. Ai piedi ha delle scarpe da ginnastica consunte, con le stringhe annodate alla bell’e meglio. La canottiera mi fa impressione, dato che siamo in pieno inverno, ma dubito che gliene importi qualcosa. Per finire, ai polsi porta dei bracciali di pelle nera con le borchie e noto che si è bucato le orecchie per sfoggiare quattro o cinque piercing. Se dovessi dare un parere personale, direi che non ha affatto buon gusto per la moda, ma forse sono io quello troppo attaccato al modello aristocratico inglese per permettermi di avanzare delle opinioni in merito, complice la cerchia sociale in cui sono nato e cresciuto. Ci capisco poco in quanto a look giovanili. Sì, sono all’antica. Per me niente può battere un completo formale con giacca e cravatta, abbinato a delle belle scarpe costose ed eleganti.
“Paura? Scusa, ti ho visto da lassù”, indica il tetto di una casa, “e non ho resistito. E poi avevi quell’espressione stranissima in faccia, ero curioso conoscerne il motivo.”
“Cos- no, un attimo, aspetta. Che ci fai qui?”
Mi occorrono solo un paio di secondi per realizzare che ho appena beccato Andras a bighellonare per il mio quartiere e che l’appartamento che divido con Samael è giusto dietro l’angolo.
“Mh? Nulla di particolare.” si gratta il mento e scrolla le spalle.
“Ok, senti, io devo lavorare. Ogni minuto è prezioso, dato che ho una caterva di anime da raccogliere stasera. Perciò, se non ti scoccia, potremmo rimandare la nostra chiacchierata alla prossima volta, va bene?” sfodero un sorriso di circostanza per mascherare il mio crescente nervosismo e spero che il demone abbocchi.
“Beh, ok, ma non ho niente da fare. Ieri sera ho avuto una caccia grossa e ho mangiato fino a scoppiare, quindi per oggi sono a posto. Ti faccio compagnia?”
Sospiro laconico e mi massaggio l’attaccatura del naso con due dita, cercando di riflettere velocemente. Poi vengo folgorato da un’idea.
“Hey, che ne dici di aiutarmi con il lavoro?” butto lì con tono casuale.
“Eh?” mi scruta spaesato.
“Cioè, ho trentaquattro anime da mietere e pochissime ore per farlo. Una mano non guasterebbe.”
Mi guarda in silenzio, il viso d’un tratto granitico e privo di espressione. Sembra una statua di cera.
“E Samael?” domanda.
Giusta osservazione, quantomeno legittima.
“Sta attraversando l’ennesima crisi mistica e non è d’aiuto.”
“Crisi mistica?” indaga interessato e, non so davvero perché, il disagio comincia a serpeggiare nelle mie vene.
“Beh, io la chiamo così. Diciamo che se ne sta tutto il giorno a fissare il vuoto e non mi considera. Sembra sordo e cieco. Mi sa che è per questo che ho così tante anime: mi sono toccate anche le sue.”
Lo vedo infilare le mani nelle tasche dei jeans e spostare l’attenzione sul muro dietro di me, perso in chissà quali riflessioni. D’accordo, lo ammetto: i demoni mi fanno venire la pelle d’oca, soprattutto quando smettono di fingere una parvenza di umanità.
“Potrei aiutarti…” esordisce dopo un po’.
Temevo che avrebbe declinato la mia offerta, ma il sollievo che mi pervade all’udire le sue parole mi rinfranca.
“Se lo farò, tu lo dirai a Samael, vero?” aggiunge.
“Beh, sì. Non devo?”
“Il contrario, semmai: vorrei che tu lo facessi.” proferisce sibillino.
“Andras, poche chiacchiere, grazie.” taglio corto, non ho tempo da perdere.
“Semplice, Alastor: io aiuto te e tu parli bene di me a Samael.”
“Oh, tipo… una raccomandazione? È questo che vuoi?”
Sono sorpreso. Tra tutte le richieste, questa non me la sarei mai aspettata. Lui finge una risata allegra, ma l’effetto che ottiene è di farmi rabbrividire.
“Samael è potente, molto potente. Farsi amici i potenti spiana la strada verso vette più alte, mai raggiunte prima. Tu sei il mio biglietto vincente per quelle vette. Io ti aiuto, tu mi aiuti. Do ut des. Uno scambio equo. Così non sarai in debito.”
“Come mai proprio Samael?”
“Non è ‘proprio Samael’. Non ho preferenze. Solo che tu mi hai appena fornito un’occasione ghiotta e sarei stupido a lasciarmela sfuggire.”
“E una volta ottenuta la sua stima, che farai? Anche se non è detto: magari ti ringrazia e tanti saluti, finisce lì.”
“Nah, non credo. Samael sa come ricompensare chi gli fa dei favori. Non mi preoccupo.”
Cosa faccio? Accettare il suo aiuto mi semplificherebbe molto il lavoro, anche se poi dovrei ammettere con il maestro di aver fatto ricorso a un altro demone, perché da solo sono inutile; ma non accettare significherebbe sgobbare come un mulo con la consapevolezza che non farò mai in tempo prima dell’alba, anche se Samael mi elogerebbe comunque e riconoscerebbe i miei sforzi, non ha mai mancato di farlo. Non mi punirebbe per non aver riscosso tutte le anime, sa che ho pur sempre dei limiti. Però che male c'è a farsi aiutare nel momento del bisogno? D’altronde, non riesco a immaginare quali potrebbero essere le conseguenze se non riscuoto un’anima il giorno prestabilito. Se si tarda, cosa succede? Il patto si estingue lo stesso? No, meglio non rischiare.
“Ok, ci sto. Dobbiamo fare presto.”
“Fantastico! Sei grande, Alastor!” mi assesta una pacca amichevole su un braccio e improvvisamente sembra recuperare tutta la giovialità che fa parte della sua maschera umana.
“Bene, andiamo.”
“Ah, aspetta!”
“Che c’è?” chiedo esasperato girandomi.
“Ecco, in verità non ho mai riscosso anime. Io le mangio.” mi spiega con l’indice alzato, come un docente che ammonisce il suo allievo.
Sbuffo e roteo gli occhi. Ho voglia di piangere. Perfetto. Assolutamente perfetto. Sul serio.
“Allora mi dici perché mi vuoi aiutare?!” esclamo sull’orlo di una crisi isterica.
“Per farmi bello davanti a Samael!” risponde con una sfumatura ovvia nella voce e, nel farlo, ammicca.
Provo a mantenere la calma e addolcisco i toni: “Andras, ascoltami: hai detto che vuoi darmi una mano e perché vuoi farlo, ok, ma se io ti devo insegnare come fare, beh, puoi anche andartene. Non ho tempo, capisci? Se devo pure sprecarne un po’ per insegnarti come fare il mio lavoro, allora no, grazie tante.”
“Hey, sei tu che hai bisogno di me.” si difende.
“No, avrei bisogno di ‘personale con esperienza’. Posso farcela anche da solo. Sarà sfiancante, ma è fattibile. Quindi, non farmi perdere altri minuti preziosi e sloggia!”
“Imparo in fretta.” insiste, avanzando di qualche passo nella mia direzione con un’aria mortalmente seria.
Cielo, cosa non si farebbe per una raccomandazione nei piani alti…
“Quanto in fretta?” decido di dargli una chance.
“In fretta.”
Lo squadro da capo a piedi, ma l’impressione che ne viene è una sfilza di punti interrogativi. 
“E va bene! Tanto, peggio di così… ma se per colpa tua non raccoglierò tutte e trentaquattro le anime, a Samael non dirò proprio nulla, sappilo!”
“Affare fatto.” annuisce.
“Ok, seguimi. Il primo indirizzo non è lontano.”
Arriviamo nei pressi della dimora della prima anima in un paio di minuti. Planiamo sulle tegole del tetto silenziosi come ombre, poi faccio cenno ad Andras di aspettare. Scivolo verso il basso con cautela, attento a non perdere aderenza con le suole delle scarpe, mi aggrappo alla grondaia e con un balzo atletico raggiungo il balcone della finestra dell’appartamento. Sbircio all’interno per appurare che il contraente sia solo e, per fortuna, lo vedo seduto sul divano a guardare la televisione con espressione sonnolenta. 
Nella mente ripeto le informazioni in mio possesso: Carlo Ferrante, chirurgo, cinquantacinque anni, divorziato, ha stipulato il patto per ottenere una posizione di prestigio nell’ospedale in cui lavora, togliendo di mezzo la concorrenza. 
Acuisco i sensi per sondare le altre stanze della casa e confermo che la vittima è sola. Sollevo una mano verso l’alto, là dove penso ci sia Andras, e gli intimo di scendere. Dopodiché faccio scattare il fermo della finestra e irrompo nel salotto senza tante cerimonie. Non mi curo di essere silenzioso, non me ne frega un accidente della teatralità, non stanotte che mi toccano gli straordinari a causa di un demone che ha ben deciso di fare il lavativo. 
Ferrante sobbalza e schizza in piedi, il telecomando stretto nella mano come un’arma, ma Andras è più rapido e gli appare alle spalle, immobilizzandolo.
“Signor Ferrante, buonasera. Sarò breve. Oggi scade il suo contratto e io sono qui per riscuotere il prezzo, ossia la sua anima.” espongo annoiato.
“Co-come sarebbe-” boccheggia, terreo in volto, ma non lo faccio rispondere.
Ci manca soltanto che debba ascoltare le lamentele di un cliente.
“I tredici anni sono passati. La prego di collaborare, perché la lista è molto lunga. Ora, lei desidera una proroga? Altri tredici anni di vita?”
“Io… sì! Sì!”
“Ottimo. In tal caso, un altro prenderà il suo posto.”
“Un altro? Chi?”
“Sua figlia. Giulia, diciassette anni, studentessa al penultimo anno di Liceo scientifico.”
“Giulia…? Dovrei sacrificare mia figlia-”
“Sì, ha sentito bene! Allora? Accetta o no?”
Tace per qualche secondo e l’attesa si fa snervante. Il mio socio improvvisato pare divertirsi, perché ha un ghigno inquietante stampato in faccia.
“Vorrei… se possibile vorrei del tempo per pensarci su e…”
“Non abbiamo tempo, signor Ferrante. Andras.”
Come se fossimo diventati telepatici, Andras annuisce. Spinge Ferrante a inginocchiarsi sul pavimento ed emette un ringhio basso e gutturale, quasi da lupo in procinto di avventarsi sulla preda. Soffoco una risata e mi godo lo spettacolo. Il demone sa recitare bene e non mi dispiace averlo come complice. Guardo l’orologio e mi accorgo che sono di ben dodici minuti in anticipo! Ne terrò conto.
“No! Non mia figlia, ti prego!” implora con le lacrime agli occhi.
“Come desidera.” grugnisco spiccio.
Apro la valigetta e un bisturi si adagia nella mia mano, freddo e letale. Lo soppeso con le dita, affascinato dal bagliore metallico che l’acciaio riflette quando le luci soffuse della stanza ci rimbalzano sopra. Poi lo faccio roteare nel palmo e un secondo più tardi lo lancio verso l’uomo. La lama gli trafigge il cuore e si fa spazio nella sua carne come se stesse affettando del soffice burro. Nel medesimo istante, oltre al rantolio strozzato che fuoriesce dalla sua gola, un altro suono inonda il salotto, simile a un lontano boato, accompagnato dallo stridio di migliaia di voci che gridano in coro disperate. Il portale dell’Inferno si spalanca sotto Ferrante e delle mani ossute e nere si artigliano alle sue gambe, per poi trascinarlo negli abissi. 
Tutto si svolge talmente veloce, che per un istante rimango senza parole per lo stupore.
“Wow… quindi è questo che fate. Mi piace!” esclama Andras.
Sorrido e gli scocco una smorfia saccente: “Di norma il teatrino dura di più. Sono certo che te la spasseresti un sacco a sentirli supplicare di non ucciderli. In questi momenti viene fuori tutto lo schifo che si portano dentro e, a volte, ti capita di assistere a scene assurde! Fidati, te lo dico per esperienza.”
“Mmm… potrei decidere di accompagnarti più spesso.”
“Come più ti aggrada, socio.” scherzo.
“Il prossimo?”
“Qua vicino. Di questo passo, finiremo prima del previsto!” dichiaro, ora molto più rilassato e di buon umore.
“E chi devi ringraziare? Eh?”
“Mah…” sbuffo, “questo caso era semplice. Ferrante non ha opposto resistenza, potevo farcela da solo.” borbotto mascherando un ghigno.
“Eddai!” mi dà un leggero pugno sulla spalla e insieme scoppiamo a ridere.
Sono le cinque del mattino quando terminiamo. È andato tutto liscio e posso dirmi più che soddisfatto. Io e Andras ci siamo divisi bene i ruoli e, grazie alla nostra eccellente coordinazione, non ci sono stati intoppi. Questo, devo dirlo, in particolare per merito suo: se non ci fosse stato lui a placcare letteralmente alcuni contraenti per non farli scappare, chissà quanto mi ci sarebbe voluto. Di sicuro l’avrei tirata per le lunghe. Perciò, tutto sommato, questo esperimento ha avuto esiti positivi. Sono sbalordito.
“Che non diventi un’abitudine però, eh.” mi fa notare dopo un minuto scarso di silenzio.
Siamo seduti sulla cupola del Duomo, con la testa vuota e l’aria intorno a noi piena dell’eco delle nostre risate. Faccio scorrere lo sguardo sui tetti senza soffermarmici troppo, per la prima volta davvero in pace con il mondo. Con Samael non ho mai riso così tanto. Anzi, con lui è capitato raramente di trovarmi da qualche parte solo per il desiderio di gioire della reciproca compagnia. Sì, con il maestro ho trascorso momenti sereni e piacevoli, ma se affermassi di essermi abbandonato all’ilarità come ho fatto con Andras, mentirei. Ho trovato un amico.
Il vento invernale mi sferza le guance, ma quasi non lo sento. La mia pelle è diventata più dura e spessa, immune a qualsivoglia temperatura considerata proibitiva per l’uomo. Per me il freddo e il caldo non esistono più, perché ho una specie di termostato interno che regola il calore del mio corpo e fa sì che esso non venga intaccato né dal ghiaccio né dal fuoco. Tuttavia, se percepisco il gelo, esso non è dovuto alla temperatura esterna, ma a qualcosa di spirituale. Se invece sento caldo, è perché sono eccitato sessualmente. In questo momento sto divinamente, nemmeno l’aria di gennaio riesce a scalfirmi. Credo sia anche colpa dell’adrenalina.
“Ok.“ sbuffo, ma il sorriso non abbandona le mie labbra, “Torno a casa, per oggi ho sgobbato abbastanza. Ah, tra parentesi, ho visto che ti muovi in maniera più sciolta. Hai fatto pratica, eh?”
“Sì, confesso.” conferma Andras orgoglioso, poi ride e mi dà una spintarella, “Parli in maniera molto fluente il linguaggio umano. Da quanto tempo sei qui sulla Terra?”
Ah! Sono appena entrato in un campo minato. Meglio cambiare argomento in fretta.
“Sedici anni circa. Tu come ti trovi? Ti sei ambientato bene?”
“Insomma, così così. Non è la prima volta che salgo quassù, ma devo dire che l’umanità si è molto evoluta rispetto a due millenni or sono.”
“Due millenni?!”
“A-ha. Di’ un po’, tu quanti anni hai, Alastor? Sembri molto giovane.”
Maledizione, un altro campo minato. Ma perché cavolo non ho girato i tacchi subito? Perché rimango qui a cincischiare? Devo trovare una scusa per filarmela, tant’è che sono pure stanchissimo.
“Due secoli, su per giù.” mi invento.
“Oh! Sei una matricola!” mi cinge le spalle e mi spettina giocosamente i capelli, “Allora, anche se in ritardo, ti do il benvenuto, fratellino!”
“G-grazie, Andras.” balbetto imbarazzato.
Mi alzo e lui mi imita. Avanziamo sopra i tetti l’uno accanto all’altro per un po’, scambiandoci considerazioni sul tempo, sull’architettura, sul rincaro dei prezzi e sulla crisi economica. Argomenti neutri, insomma. Però Andras fa sfoggio di un’incredibile cultura, dato che ha vissuto per innumerevoli ere e conosce l’umanità. In questo lui e Samael si somigliano.
“Sai quali misure precauzionali prese il governo egiziano per sopperire alla carenza di cibo e posti di lavoro? Ti parlo dell’epoca dei primissimi faraoni, quando ancora non esisteva una civiltà sviluppata nel campo dei diritti dell’individuo. La dinamica era io-re-tu-schiavo, ma molto più spiccata rispetto a qualche secolo dopo.”
“No, cosa fece il governo?” domando interessato.
“Beh, raggrupparono i poveri, specialmente mendicanti e accattoni senza casa e famiglia - ti assicuro che erano migliaia - con la scusa di raccogliere i loro nomi per inserirli in una lista da presentare al faraone, così che costui potesse provvedere al loro fabbisogno. In tutte le città che sorgevano sul Nilo, i messaggeri eseguirono gli ordini del loro sovrano e allestirono dei palazzi, sorvegliati da un cospicuo numero di guardie, per accogliere quei derelitti. Essi si presentarono animati di speranza ed entrarono alla spicciolata, due per volta, in una stanza adibita a ‘ufficio’, dove era stato loro detto che si sarebbero registrati. Ma lì due soldati attendevano con le armi in pugno e, appena la coppia di sfortunati varcava la soglia, li sgozzavano senza pietà. Fu un massacro. Migliaia di persone vennero trucidate e i loro corpi bruciati. Alla fine, la crisi venne superata in un solo anno e l’Egitto tornò ad essere prospero e pieno di possibilità come un tempo. Interessante, non credi?”
“Stai suggerendo che gli uomini dovrebbero essere sterminati in massa?” sono allibito.
“Più persone muoiono, più opportunità ci sono per quelli che rimangono. Non ci sarebbe più necessità di disperarsi per trovare un lavoro e gli uomini sarebbero più sereni e meno ansiosi. La gente pontifica: ogni uomo ha diritto al cibo, all’acqua, a una casa e ad un lavoro. Ma se le risorse della terra sono insufficienti, è chiaro che si debba agire di conseguenza.” annuisce convinto.
“Quindi, tipo, saresti a favore di una terza guerra mondiale?”
“Sarebbe la cura migliore. In fondo, basterebbe una leggera spintarella. Che ne so, qualche guasto a qualche reattore nucleare, qualche pulce nell’orecchio, qualche attacco terroristico in più e… boom!”
“Andras, tu cosa fai di preciso? Intendo, non riscuoti anime come me e Samael, me lo hai detto stanotte.”
“No, il mio compito, anche se è più un divertimento, è provocare discordia.” si tira indietro la frangia bionda e ammicca come un playboy, mentre le iridi azzurre luccicano di un bagliore rossastro, “Ah, guarda, ti faccio vedere!”
Si sporge sul cornicione di un palazzo e ci si accuccia sopra, indicandomi una coppietta che sta attraversando ora Piazza della Repubblica. Un uomo e una donna di mezza età si tengono per mano e ridacchiano con aria complice, interrompendosi ogni tre per due per sbaciucchiarsi. Poi cosa diavolo ci faccia una coppietta in giro alle cinque del mattino è un dettaglio secondario. Noto le fedi e deduco che sono sposati. Mi esibisco in una smorfia disgustata: sono sempre stato allergico alle smancerie. Con Samael non mi comporto mai in modo così stucchevole, non siamo affatto pucci-pucci di qui e orsacchiottino di là, cosa che apprezzo moltissimo. Oddio, sarebbe ripugnante.
“Ecco, ora apri bene gli occhi e non distrarti.” mi esorta Andras.
Protende le mani, come se volesse afferrare i due mortali, piega le dita a uncino, le unisce e infine le separa con un movimento brusco. In quell’istante, l’uomo pesta per sbaglio un piede della donna, che inizia a inveirgli contro per il dolore. Il tacco della scarpa si rompe e lei cade, storcendosi una caviglia. Il compagno la sorregge prontamente, ma lei è arrabbiata. Lo rimprovera, sorda alle sue scuse, allora lui le risponde per le rime. I due prendono a litigare con toni accesi, poi parte uno schiaffo da parte della donna, che si abbatte con uno schiocco sulla guancia dell’altro. Dopodiché, senza alcuna ragione, cominciano a rinfacciarsi torti subiti anni fa, mentre io osservo la scena sconcertato. Tutto si conclude con la coppia che si manda a quel paese e lei che chiama un taxi per farsi riportare a casa. Nell’arco di cinque minuti, Andras ha messo in crisi un matrimonio.
“Wow…” esalo colpito, “Notevole!”
“Grazie! Modestamente, vado piuttosto fiero delle mie doti. Sai, all’occasione mi improvviso persino avvocato divorzista. Il mio nome è celebre nel settore.” gongola beato.
Scoppio a ridere divertito e ammirato.
“Cavolo, sei bravo!”
“No, Alastor, smettila. Se mi aduli ancora, rischio di montarmi la testa.” si schermisce.
Ridere così, senza alcun cruccio a pesarmi sulle spalle, è nuovo per me, perché la mia vita è stata costellata di brutti episodi sin da quando ho memoria, che mi hanno “spento” e fatto maturare troppo presto. Non ho mai avuto un amico con cui chiacchierare o scherzare, visto che il rapporto con Samael è sostanzialmente assai diverso, perciò sono proprio felice di aver incontrato Andras. Non mi sono mai divertito tanto e lui mi mette a mio agio con le sue maniere scanzonate e gioviali, quasi fosse un ragazzino, anche se ha più l’aria di un teppista, complice anche il suo abbigliamento. 
“Hey, Alastor, so che sei impaziente di tuffarti di nuovo tra le braccia di Samael, ma ti va di rimanere qui per un po’ a farmi compagnia? A che ora devi tornare?”
“Sembra quasi che tu mi stia facendo il filo.” piego la bocca in un sorriso sghembo.
“Fare il filo?”
“Significa ‘corteggiare’. Poi cosa farai? Ti offrirai di accompagnarmi fino al portone per rubarmi il bacio della buonanotte? O del buongiorno, in questo caso. Sta per albeggiare.”
“Ho il vago sentore che Samael mi ucciderebbe.” sta al gioco, “Ma potrei rubarti un bacio qui ed ora e lui non lo saprebbe mai, a meno che tu non vada a… spifferarglielo. Ah ah! Ho imparato ieri questo verbo: spifferare. Ha un suono buffo, vero?”
“Fidati, lui verrebbe a saperlo anche se tenessi la bocca cucita.”
“Ci credo. Impossibile ingannare il fiuto di un demone.” sorride e si siede sul cornicione, probabilmente stufo di restarsene appollaiato come un piccione di vedetta, lasciando penzolare i piedi nel vuoto.
Beh, posso ritardare qualche minuto in più, in fondo non può farmi male staccare la spina qualche volta. Accidenti, cosa mi sta facendo Andras? Un momento prima mi fa venire voglia di scappare e quello dopo di restare ancora un po’ con lui e fermare il tempo. 
Mi siedo, poso la valigetta sulle ginocchia e inspiro l’aria frizzante, riempiendomene i polmoni.
“Non sei molto socievole, eh?” dice dopo un attimo di silenzio.
“Cioè?”
“Non inizi mai un discorso, a meno che tu non sia obbligato. C’è qualcosa che ti disturba in me? Oppure sei preoccupato in generale? Stanotte ce la siamo cavata egregiamente insieme, no?” 
“Che dici? Certo che mi trovo bene con te! Sei simpatico.”
“Sai, la prima volta che ti ho avvistato su uno di questi tetti, avevi un’espressione così cupa e infelice che non ho resistito ad intromettermi. Volevo tirarti su il morale.” spiega con un’alzata di spalle, “Samael ti fa fare spesso gli straordinari?”
Sbuffo: “Sì, ma non è colpa sua. Anche lui lavora molto e non c’è mai un momento di pace. Non immaginavo che questa vita potesse essere così dura. Mi assorbe completamente e non ho tempo per pensare o dedicarmi ad altro.”
“Capisco, ma questi sono tempi difficili. Pare che l’Inferno e il Paradiso siano in fermento. Stanno tramando qualcosa di grosso, parola mia.”
“Che cosa vuoi dire?”
“Non ne ho la più pallida idea!” esclama con una risatina.
Rimango perplesso. È chiaro che sa qualcosa, ma non vuole rivelarmi i dettagli.
La sua faccia si avvicina di scatto e adesso ci sono solo un paio di centimetri a dividere i nostri nasi. Ammutolisco e mi tendo, un po’ nervoso per l’esigua distanza. In un secondo la azzera e preme le sue labbra sulle mie, in un bacio di durata breve e inaspettatamente casto, lieve come il battito d’ali di una farfalla, tanto da farmi dubitare che sia davvero avvenuto.
“A-Andras, cosa…?”
“Mi sono tolto uno sfizio.” risponde semplicemente, per poi riassumere la posizione iniziale.
“Samael-”
“Non si infurierà per una cosetta del genere, sta’ tranquillo. Sei molto devoto.”
“Ehm, sì…” arrossisco e distolgo lo sguardo, “Forse è meglio che vada.”
“Ok. Ci si becca in giro!” solleva un braccio e mi saluta con un gran sorriso.
Rido per l’ennesima volta: “Sì, ci si vede.”
Mi alzo e mi spolvero i pantaloni, poi mi volto e salto su un altro tetto, allontanandomi da quello strano demone dai modi imprevedibili. Non so come prenderlo, il suo atteggiamento mi disorienta. Però gli sono veramente grato per il suo aiuto, è stato provvidenziale. Chissà, magari la prossima volta gli chiederò di Samael. So poco del mio maestro, ma sono tremendamente curioso di sapere come lo vedono gli altri demoni. Per Andras forse è una sorta di boss mafioso. Ridacchio spensierato all’immagine di Samael con un sigaro in bocca, attorniato dai suoi sgherri loschissimi. Gli parlerò dell’aiuto che ho ricevuto questa notte e al contempo cercherò di conoscere meglio Andras attraverso i racconti del maestro. Ovviamente, se il suddetto maestro sarà in vena di chiacchiere. Spero che riemerga presto dal suo stato vegetativo, perché mi sto scocciando e parecchio.
Sto per spiccare un salto per raggiungere il prossimo tetto, ormai sono vicino all’appartamento, quando una specie di contraccolpo mi scaraventa all’indietro, facendomi cozzare con violenza la schiena contro un muro. Avverto un dolore sordo allo stomaco e un ronzio mi invade le orecchie, mentre aspetto di precipitare al suolo. Siccome l’inevitabile non accade, abbasso lo sguardo, sbigottito, e noto una sbarra di ferro con strani fregi trapassarmi il corpo da parte a parte. È questa che mi tiene inchiodato al muro, sospeso a una decina di metri da terra. E, proprio sul muro, sono comparse delle crepe dovute all’impatto, come una fitta ragnatela leggermente concava. Se fossi stato umano, mi sarei rotto una dozzina di ossa. 
Con una mano rinserro la presa attorno alla valigetta e con l’altra afferro la sbarra facendo forza, nell’intento di sfilarmi. Fortuna che non provo dolore. Neanche finisco di pensarlo, che una stilettata improvvisa si dirama dal buco nel mio addome in tutti i muscoli. Grido, più per la sorpresa che per l’agonia. Una seconda scarica mi attraversa le membra e, involontariamente, le dita mollano la valigetta, che cade sull’asfalto. Guaisco, mentre la testa si piega verso l’alto e gli occhi incontrano il cielo quasi azzurro. La paura scivola sulla mia pelle come acqua gelata. Rabbrividisco e i pensieri vorticano impazziti nel cervello, però nonostante questo mi impongo di rimanere lucido. Non so cosa stia succedendo, ma poco importa.
“Se mai ti troverai in difficoltà o in pericolo, pronuncia il mio nome. Urlalo o sussurralo, non è importante, e aspetta il mio arrivo. Ovunque sarò, ti sentirò forte e chiaro. E verrò a salvarti, Archie.”
“Samael…” rantolo con voce roca.
Poi un’ombra cala su di me.










 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Esca ***










Avviluppato da una fitta coltre di oscurità, dei bisbigli confusi pian piano squarciano lo spesso velo di silenzio che mi circonda, facendomi tornare alla realtà. Mi occorre un po’ per dare loro un senso, ma poi tutto si fa chiaro.
“Non ci posso credere… lo hai preso!”
“Certo. Con chi pensi di aver a che fare?”
“Beh, a Parigi te lo sei lasciato sfuggire.”
“Siamo stati colti alla sprovvista. E poi allora c’era Samael con lui, mentre stanotte era solo.”
“Come vuoi. Ma perché ti sei fissata con questo qua? Mi dà l’idea di essere un pesce piccolo.”
“Voglio distruggerlo una volta per tutte, lo devo a Silv. E magari condurrà Samael tra le nostre grinfie, così prenderemo due piccioni con una fava.”
“Bianca, senti, dovresti lasciartelo alle spalle. Silv è morto con onore, combattendo per la nostra causa.”
“No, ti sbagli! È stato polverizzato, lo capisci? Davanti ai miei occhi, lui… ed è stato questo pesce piccolo! Ce lo insegnano durante l’addestramento a non sottovalutare nessuno di loro, perciò non farti ingannare dalle apparenze. Tu non c’eri, non hai visto ciò che ha fatto, ma io… il modo in cui Silv è caduto non ha avuto nulla di eroico, credimi. È mio compito riscattarlo.”
Mentre ascolto, la certezza di trovarmi in guai enormi comincia a strisciare nelle mie vene, facendomi accapponare la pelle. 
Sono sveglio ormai da qualche minuto, ma l’istinto, per fortuna, mi ha suggerito di non muovermi e restare ad ascoltare quelle voci che sussurrano vicino a me. Sono ancora intontito, eppure i sensi mi trasmettono sensazioni vivide e nette: l’attrito della stoffa sugli zigomi mi dice che sono bendato e il doloroso sfregamento di qualcosa di sottile e tagliente sulla carne dei polsi mi fa capire che sono anche legato con le mani dietro quello che sembra lo scomodo schienale di una sedia, forse con del filo di ferro. Le caviglie sono libere. L’addome continua a dolere in maniera insopportabile e costante, segno che la ferita che mi è stata inferta con quella strana barra di metallo è ancora aperta. Perché non sto guarendo?
Annuso l’aria e l’odore di umidità mi penetra nelle narici. Forse mi trovo in un seminterrato o una cantina. Non percepisco altri suoni a parte un costante sgocciolio, come un rubinetto che perde. Non odo rumori provenienti dalla strada, il rombo delle macchine, lo scalpiccio di tacchi sui marciapiedi o il chiacchiericcio delle persone: solo il silenzio più assordante, interrotto dalle voci dei miei rapitori e da quell’incessante “plic plic” prodotto da chissà cosa.
Grazie ai discorsi che mi giungono alle orecchie, non ci metto molto a realizzare di essere stato catturato da una coppia di Exurge Domine. Però il dettaglio che mi ghiaccia e che mi incoraggia a rimanere immobile fingendo di essere ancora svenuto, con la testa ciondoloni, è la terribile consapevolezza che la donna di nome Bianca ha combattuto contro me e Samael a Notre-Dame. È quella che è riuscita a fuggire, lo ricordo bene. E Silv era il tizio biondo, quello che mi aveva interrogato e che ho ridotto in un mucchietto di cenere. Ce l’ha con me, a quanto sembra, vuole vendetta. Come se non bastasse, in caso di pericolo non potrò neanche difendermi, visto che sono stato legato come un salame, e il dolore che il buco nello stomaco mi provoca mi impedisce di concentrarmi. Merda.
Non so quanto tempo sia passato da quando sono stato portato qui privo di sensi, ma Samael dovrebbe aver sentito il mio richiamo. Perché non è ancora arrivato? O forse mi sta cercando, ma non riesce a trovarmi. Forse gli Exurge Domine hanno creato una barriera intorno a questo posto, come fecero a Notre-Dame, così che chi è dentro non possa uscire e chi è fuori non possa entrare. Accidenti! Perché capitano tutte a me? Perché ho così tanta sfiga? Temo che dovrò cavarmela da solo.
Tuttavia, mi chiedo come sia possibile che i nemici siano giunti in città senza che Samael se ne sia accorto. Il maestro mi aveva assicurato che Firenze era sicura, oppure mi avrebbe avvisato. Tutta quella cosa di uscire separati, lui per primo per perlustrare i dintorni e proteggermi da eventuali pericoli, era reale, vero? Non era solo un’insulsa pantomima, giusto?
Samael, dove sei?
“Comunque, perché il nostro ospite non si è ancora svegliato?”
“Ho usato il Bastone di Gabriel.”
“Ma che…? Bianca! Avresti potuto ammazzarlo! E allora addio ai tuoi piani di vendetta.”
“Beh, non è morto.”
“Fammi controllare.”
Sento dei passi che si avvicinano e si arrestano a pochissima distanza. Poi delle dita mi sollevano il mento, probabilmente alla ricerca di qualche indizio che possa confermare che io sia ancora vivo. Infine, inaspettato e violento, uno schiaffo si abbatte sulla mia guancia, facendomi schizzare il capo di lato. A quel punto, un rantolio mi esce a tradimento dalla bocca.
“Eccolo qui.”
Mi viene tolta la benda e sbatto le palpebre per mettere a fuoco l’ambiente. Noto che, proprio come immaginavo, sono rinchiuso in un seminterrato. Sembra il locale delle caldaie di un palazzo. Ci sono dei grossi tubi che spuntano dal muro, in parte ricoperti da una sostanza non bene identificata, e, salvo per una lampadina che pende dal soffitto appesa ad una catenella, la stanza è completamente in ombra. 
Poi passo alle due figure che torreggiano su di me, bardate da una tunica nera con cappuccio. Al loro collo scorgo la collana con lo stemma del loro ordine, come a voler sottolineare che farei meglio a cominciare a scavarmi la fossa, tanto non camperò ancora per molto.
Bianca è bellissima come la ricordavo: carnagione olivastra, occhi e capelli scuri, labbra carnose. Il suo compagno, invece, non mi è familiare. Il suo aspetto è piuttosto anonimo, anche se perfetto, con corti e ricci capelli castani e occhi marroni. È di media statura, né troppo esile né troppo muscoloso, ma c’è qualcosa di letale in lui che mi fa rabbrividire.
“Ok, è tutto tuo.” dice l’uomo alla collega, mentre si sposta verso destra per cederle il posto.
Bianca si china su di me e mi scruta con espressione glaciale. Intravedo una scintilla omicida nel suo sguardo e mi trattengo a stento dal deglutire.
“Ti ricordi di me, demone?”
Annuisco, rigido come una statua.
“Sai perché sei qui?”
Nego.
“Ho intenzione di ucciderti, ma non adesso. Aspetterò che Samael venga a cercarti e lo attirerò in trappola. In pratica, sarai l’esca.”
Ma che hanno tutti con questa storia di volermi immolare come esca?!
Riduco gli occhi a fessure e proprio non riesco a soffocare un ghigno: “Samael è troppo furbo per cadere in un simile tranello.”
“Lo so.” ammette Bianca, “Normalmente non mi farei illusioni, ma stavolta ho la carta vincente: te. Ho notato che fra voi due c’è qualcosa di profondo, un legame molto forte, che sfrutterò a mio vantaggio. Il mio istinto mi dice che non ti abbandonerà e finora non ho mai sbagliato.”
“E questo tuo istinto non ti aveva avvertita che i tuoi compari sarebbero stati massacrati, quella notte a Parigi?” la sfido.
Un secondo schiaffo giunge puntuale. Grugnisco per il bruciore, ma scrollo subito la testa per scacciare l’annebbiamento, obbligandomi a restare lucido. 
Bianca torna in posizione eretta e sbuffa divertita mentre osserva la ferita sul mio addome. Allunga una mano e io mi allontano di riflesso, pur sapendo che qualunque sforzo sarà vano. Infatti, il suo indice sfiora i bordi del foro, per poi affondarci dentro, artigliando la carne. Sta letteralmente rigirando il dito nella piaga. 
Non faccio in tempo a reprimere un guaito. Digrigno i denti all’udire la sua debole risata, ma la fisso di nuovo con arroganza, nel desiderio di comunicarle senza usare le parole che ci vuole ben altro per piegarmi. Lei ammicca sorpresa, ma non raccoglie la provocazione.
“Sai perché non guarisci? Il Bastone di Gabriel è stato forgiato dall’Arcangelo in persona, per questo porta il suo nome. Serve per uccidere quelli come te. È un vero miracolo che tu sia vivo, è un evento alquanto raro. Molto interessante da un punto di vista scientifico. Mi piacerebbe studiarti, peccato non avere abbastanza tempo.”
“Bianca.”
“Che vuoi, Titus?!” borbotta scocciata.
“Hai raccontato al Consiglio che Silv non è riuscito a capire a quale classe appartiene questo demone, pur utilizzando le Dracme, dico bene?”
“Esatto.” si gira e lo fissa interrogativa.
Titus si fa avanti deciso, scosta la mora con delicatezza e mi squadra dall’alto in basso con cipiglio serio.
“E se non fosse un pesce piccolo come crediamo? Come forse lui vuole farci credere per far sì che abbassiamo la guardia. Magari lo stiamo sottovalutando.”
“Che intendi?”
“Se si trattasse di una nuova classe?”
“Impossibile.”
“O forse Lucifero non c’entra niente. Se fosse una specie di… evoluzione? Un’evoluzione che va oltre il suo controllo?”
“Cioè una mutazione? Di che genere? Scusa, ma non ti seguo.”
Bianca guarda il compagno scettica, in attesa di spiegazioni. Distolgono l’attenzione da me, così ne approfitto per dedicarmi indisturbato all’esame delle vie di fuga. C’è solo una porta di acciaio rinforzato, apparentemente sigillata, alla mia sinistra. Non ci sono finestre e i muri sembrano fatti di cemento armato, spessi e robusti. Inoltre, c’è poco ossigeno, perché non vi sono neanche condotti di areazione, ma a nessuno di noi importa perché non abbiamo bisogno di respirare: il vantaggio di essere creature soprannaturali. Questo, però, complica le cose, perché non posso nemmeno fingere un mancamento e costringerli ad aprire la porta per far cambiare aria. Finalmente localizzo il tubo che perde, in alto a destra.
“D’accordo, facciamolo di nuovo e verifichiamo.”
Odo un tintinnio. Mi focalizzo di nuovo sulla coppia di Exurge Domine, appena in tempo per notare un cerchio d’oro simile ad una moneta attraversare il mio campo visivo, per poi venire premuto sulla mia fronte. Questo mi riporta indietro nel tempo, a Notre-Dame, durante la notte più spaventosa della mia vita: la prima volta che ho rischiato davvero di lasciarci le penne. Proprio come fece allora Silv, Titus appoggia via via tutte quelle monete sulla mia pelle, indugiando solo un paio di secondi per ciascuna, finché non le esaurisce.
“Niente.” commenta atono, girandosi verso Bianca, “Le Dracme non funzionano. Non ci sono precedenti, questo è un caso unico. Penso che dovremmo portarlo ai Sommi e lasciar perdere Samael, per ora.”
“No! A maggior ragione dobbiamo arrivare fino in fondo. Abbiamo a che fare con qualcosa di nuovo e per scoprire di che si tratta potremmo procedere in due modi: sperimentare su di lui, ma purtroppo non c’è tempo, oppure aspettare Samael, intrappolarlo e interrogarlo. E poi distruggerlo, ovvio.”
“Samael non parlerà, Bianca, e acchiapparlo non sarà una passeggiata. È sfuggito al nostro ordine per millenni, cosa ti fa credere che ci cascherà adesso?”
“Perché adesso abbiamo qualcosa che lui vuole indietro.” dice con un sorrisetto e mi scocca un’occhiata di sbieco.
“Mah… ti ripeto che non mi convince. Mi sembra una mossa azzardata e quantomeno rischiosa. Rifletti: siamo solo in due. Se portassimo questo demone al quartier generale, Samael ci seguirebbe - sempre se le tue supposizioni sono esatte - e a quel punto avremo il numero dalla nostra parte, quindi più possibilità di sconfiggerlo. Non devo ricordarti che Samael appartiene alle schiere nobili, vero? E se lo sconfiggessimo, avremmo anche via libera per studiare questo qui, senza più ostacoli. Da soli non abbiamo chance.”
Bianca si morde il labbro inferiore, indecisa. Immagino che stia architettando la tattica migliore da adottare e ammetto che questo Titus è intelligente. Diamine, è un gran bel piano, e se tutto dovesse filare liscio otterrebbero ciò che vogliono con relativamente poco sforzo. Mi pare evidente che sono finito in un grosso guaio e, in tutta franchezza, non so come tirarmene fuori. Potrei usare i miei poteri e provare a fare una cosa simile a quella che ho fatto a Silv anni fa, ma da allora non mi sono più esercitato, non ne ho avuta l’occasione. Non ho idea di come evocare le fiamme nere, poiché l’altra volta è stata una reazione legata al mero istinto di sopravvivenza, non ero del tutto cosciente. Non riesco ad accendermi a comando. Poi ho pure perso la valigetta, che forse avrei potuto usare come risorsa dell’ultimo minuto. Di male in peggio, non c’è che dire. D’accordo, devo pensare, trovare una soluzione al più presto e magari prendere tempo per permettere al maestro di scovare questo scantinato. Come posso fare? Capiranno che sto tergiversando, non ho argomenti che possano interessare a degli Exurge Domine. Come attiro la loro attenzione? 
E se collaborassi? Beh, per modo di dire. Potrebbe funzionare.
Mi schiarisco la gola ed entrambi si girano verso di me, curiosi e diffidenti.
“Ehm… di preciso, qual è il problema?” domando pacato, mostrandomi ben disposto nei loro confronti.
“Taci!” mi ordina Bianca.
Titus frappone un braccio tra noi, facendole cenno di lasciargli spazio, e si fa avanti.
“Chi sei? Qual è il tuo nome?”
“Mi dispiace, non posso rivelarvi il mio nome, sarebbe controproducente per me, nonché una mossa alquanto stupida, perché equivarrebbe a consegnarmi spontaneamente nelle mani dei miei nemici.” sorrido falso, “Se proprio vuoi, puoi chiamarmi Archie. Comunque, forse posso darvi un piccolo indizio su cosa sono.”
Titus e Bianca si guardano per un momento, poi annuiscono.
“Parla.”
“Non sono un demone.”
Sgranano gli occhi, ma il loro stupore dura un attimo, rimpiazzato da sorrisi sardonici, sbuffi scocciati e scrollate di spalle.
“Non mentire, è palese che tu sia un demone. Potevi inventartene una migliore.”
“Ti chiami Bianca, giusto? Perché sei così sicura che lo sia? Le vostre monete non hanno avuto effetto, no? E, a quanto ho afferrato dai vostri discorsi, finora non era mai successo.”
“Se non sei un demone,” interviene l’uomo, zittendo la compagna con un’occhiata gelida, “cosa sei?”
“Beh… umano?” butto lì con una smorfia esitante.
Titus inarca un sopracciglio: “Umano. Tu saresti umano.”
“Già.”
“Mh, peccato che un umano non sia in grado di polverizzare uno di noi o evocare un vortice di fiamme nere. E perché mai, poi, un demone potente come Samael si interesserebbe ad un semplice… oh. A meno che tu non sia affatto un semplice umano.”
“Titus…”
“Uno stregone? Un rinnegato? Un satanista?”
Scoppio a ridere e scuoto la testa: “No, niente di tutto ciò. La verità è che sono debitore a Samael. È stato lui a concedermi questi poteri per aiutarlo a riscuotere le anime dannate. Sono una sorta di assistente temporaneo, finché non avrò saldato il mio debito.”
“Menti. Lo sento, fiuto il puzzo della menzogna.” sibila Bianca. 
Reclina il capo all’indietro per inspirare profondamente e mi incenerisce con due iridi di un azzurro fosforescente, come due faretti al neon. 
“Non puoi ingannarci.” aggiunge ghignando.
“No, ti giuro che è vero.”
“Menti!” ringhia a pochi centimetri dalla mia faccia e la sua voce subisce una lieve alterazione, assumendo tratti non umani.
“Bianca!” si intromette l’altro tirandola via, “Calmati. Annusa per bene, concentrati. Sì, avverto anch’io la lieve scia della menzogna, ma percepisco pure la verità. Sono mischiate ad arte, tanto che le si confonde.”
“È questo che vuole fare, Titus: confonderci. Ci sta distraendo. Sono degli ingannatori, non dobbiamo dimenticarlo.”
“Va bene, aspetta.”
Titus estrae dalla tunica un coltello, sulla cui impugnatura risplendono strani e incomprensibili simboli. Lo fa ruotare nel palmo e in un attimo traccia un solco abbastanza profondo poco sotto il mio zigomo sinistro. Sibilo e stringo i denti, mentre loro osservano il taglio rimarginarsi poco a poco. 
“Non sanguina e la ferita è nera.” mormora la donna, “Invece quella inferta dal Bastone di Gabriel è ancora aperta: è la medesima reazione fisica che hanno i demoni. Lui è uno di loro, Titus, sebbene di una tipologia insolita. Per quanto ne sappiamo, potrebbe essere rimasto nascosto sino ad ora, oppure Lucifero stesso potrebbe averli tenuti al riparo, in serbo come assi nella manica da sguinzagliarci contro. Se ce ne fosse un’armata come lui? Non sappiamo come combatterli. Forse sono speciali, in grado di fare cose che gli altri demoni non possono.”
“Sì, ma ucciderlo comporterebbe dei rischi troppo alti. Dobbiamo tenerlo in vita e condurlo al cospetto dei Sommi.”
Bianca annuisce solenne. Mi mordo il labbro inferiore, ma sono decisamente più tranquillo: a quanto pare non morirò così presto e ho tutto il tempo per escogitare un modo per scappare. Cerco di ruotare i polsi, ma il filo di ferro mi sega la carne e non mi permette di compiere alcun movimento. Potrei usare le gambe e affibbiare loro qualche calcio ben mirato, ma sono in netto svantaggio. Hanno quel dannato bastone e potrebbero usarlo per colpirmi ancora, infliggendomi ferite ben più gravi. In fondo devo solo restare vivo, ma non è detto che debba pure rimanere incolume. 
Sento la frustrazione crescere e il dubbio che Samael mi abbia abbandonato al mio destino si insinua nei miei pensieri. Non lo avrei mai ritenuto possibile, eppure non posso credere altrimenti. Ci sta impiegando troppo per venire a salvarmi. Accidenti, non voglio diventare una cavia da laboratorio!
L’istante successivo Titus torna a squadrarmi e le sue iridi, come quelle della compagna, assumono una sfumatura azzurro vivo.
“Che c’è?” domanda Bianca allarmata.
“Avverto una presenza intorno a lui. Qualcosa di… puro.” sussurra e aggrotta le sopracciglia confuso.
Allunga una mano verso il mio viso ed istintivamente mi ritraggo di qualche centimetro. Le sue dita tiepide si posano delicatamente sul mio collo, per poi iniziare a scendere sul torace, sopra gli abiti. Accarezza la stoffa del cappotto con i polpastrelli, alla ricerca di chissà cosa, finché essi non arrestano il loro percorso sulla tasca destra. Le dita si infilano all’interno ed estraggono con un gesto rapido il portachiavi di Marco. Non ricordavo di averlo messo lì, troppo impegnato a preoccuparmi di altre questioni.
“Cos’è?”
“Un portachiavi.”
“È mio, ridammelo.” gli intimo con un ringhio basso, ma vengo deliberatamente ignorato.
“Senti l’energia? È benigna.”
“Mmm, è simile a quella di una sacra reliquia.” commenta Bianca, “Ma non altrettanto potente, un po’ come se dovesse ancora sbocciare.”
“Come mai un demone dovrebbe conservare un oggetto del genere?” si volta verso di me, sospettoso, “Voi dovreste provare ribrezzo per questa roba. Dimmi, Archie,” pronuncia il mio nome con una nota di sarcasmo, “perché lo rivuoi indietro?”
“Perché mi appartiene. È un trofeo.”
“Un trofeo. Ma non è tuo. A chi lo hai rubato?”
“A un’anima dannata.”
Si blocca e osserva il portachiavi come se si trattasse di tutt’altro, rigirandoselo tra le mani con dolcezza, quasi fosse fatto di cristallo.
“È solo un maledetto portachiavi. Restituiscimelo.”
“No, lo terrò io. Sottoporrò anche questo all’attenzione dei Sommi.” alza il capo e mi scocca un sorriso sinistro, il primo da quando sono qui, “Complimenti, Archie, avrai gli occhi di tutti gli Exurge Domine puntati addosso d’ora in avanti.”
“Che fortuna! È sempre stato il mio sogno diventare il beniamino di voi Spennati.” sputo con una smorfia esasperata.
“Modera i termini, noi abbiamo il Bastone. Bianca, affrettiamoci. È chiaro ormai che Samael non verrà. Abbiamo tergiversato anche troppo, è giunto il momento di metterci in cammino. Il sole sta calando.”
Come? È già il tramonto? Vuol dire che ho trascorso un giorno intero qui sotto?
“Ma-”
“Niente ‘ma’! Ti ho dato corda perché mi dispiaceva vederti così afflitta per la morte di Silv, ma adesso abbiamo qualcosa di ben più importante e unico fra le mani. Se esiteremo ancora, è probabile che ci sfugga e io non tollero i fallimenti, come neanche i Sommi. Faremo rapporto appena usciremo di qui.”
Bianca sbuffa, però cessa di ribellarsi. Titus ripone il portachiavi di Marco in una tasca interna della tunica, nascondendolo alla mia vista. Mi verrebbe da scalpitare e fare i capricci, come un bambino a cui è stato sottratto il suo giocattolo preferito, ma mi costringo a mantenere la calma e la freddezza. Niente è perduto, mi basterà solo trovare l’occasione giusta. E se non la troverò, la creerò da solo.
La donna si avvicina per rimuovere il filo di ferro, mentre il collega torreggia su di me con espressione indecifrabile, di sicuro pronto a sedare qualsiasi tentativo di ribellione da parte mia. Appena i miei polsi sono liberi, prendo a massaggiarmeli con le dita, ma i tagli e le abrasioni guariscono in pochi secondi.
Titus mi strattona in piedi, tanto che non posso fare a meno di gemere di dolore, e Bianca mi affianca dal lato opposto. Pare quasi di avere due guardie del corpo. Peccato che, invece, siano i miei carcerieri. Raggiungiamo la porta blindata, che viene fatta scattare senza l’ausilio di alcuna chiave. Essa si apre da sola, come sospinta da una forza invisibile, ed è allora che una violenta onda d’urto ci scaraventa tutti quanti di nuovo dentro lo scantinato. Le orecchie mi fischiano e per un po’ non sento niente, nemmeno la mia stessa voce. Il buco nel mio stomaco pulsa dolorosamente e mi spedisce fitte lancinanti fino al cervello, rendendomi fiacco e lento. Con la coda dell’occhio vedo Titus sollevarsi a fatica ed estrarre il coltello da una manica, ma qualcosa lo risucchia oltre l’uscio prima che possa sferrare qualunque attacco. Il buio mi ostacola la visuale e non ne capisco la ragione, dato che con i nuovi poteri vedo benissimo anche nell’oscurità più fitta. Allora realizzo definitivamente che c’è lo zampino del sovrannaturale. Che sia Samael? 
Odo sbatacchiamenti, gemiti, tintinnii metallici, stridii e tonfi sordi, finché l’uomo non ricompare sottoforma di proiettile, schiantandosi di schiena contro il muro di mattoni alle spalle mie e di Bianca. Lei grugnisce mettendosi in ginocchio, chiama più volte il compagno svenuto, consapevole che non le avrebbe risposto, e indurisce lo sguardo. Dopodiché, senza indugio, si scaglia contro il nemico oltre la soglia brandendo il Bastone di Gabriel, gli occhi che brillano di un alone azzurro. La lotta dura forse un paio di minuti, ma purtroppo anche Bianca fa la stessa fine del collega. 
In un battito di ciglia mi ritrovo sdraiato fra i corpi privi di sensi dei miei rapitori e di certo io non sto messo poi tanto meglio. Insomma, ho un maledetto buco nella pancia! E sono anche parecchio ammaccato. Non ho speranze di sopravvivere a uno scontro, specialmente con qualcuno che ha mandato al tappeto due Exurge Domine con facilità.
“Hey, ok, mi arrendo!” esclamo e alzo le mani in alto per far vedere di essere disarmato.
Tuttavia, ciò che mi giunge non è una risposta. Il portachiavi di Marco attraversa l’aria, descrive una parabola e atterra rimbalzando a qualche centimetro da me. Lo fisso come fisserei un serpente a sonagli, cioè con sconcerto, paura e diffidenza. Protendo una mano e lo afferro con dita tremanti, studiandolo con attenzione per accertarmi che sia autentico e non frutto di un’illusione. D’altronde, io che posso saperne? Potrebbe trasformarsi proprio in un serpente a sonagli appena abbasso la guardia. 
Dopo aver appurato che è quello vero, torno a scrutare nelle tenebre e stavolta riesco a scorgere i contorni di una figura dalle sembianze umane. Poi sento un fruscio, come il battito delle ali di un uccello. Tale suono viene decodificato dal mio cervello come stonato, del tutto fuori luogo e assolutamente inaspettato. Non so come reagire, lo confesso.
All’improvviso un boato spezza il silenzio soffocante che era piombato nella stanza e dentro di me prego che non sia un altro nemico, perché altrimenti giuro che… boh, organizzerò una protesta in piazza. Magari indirò lo sciopero della fame. 
Ma, a scanso di equivoci, una voce familiare mi accarezza l’udito.
“Preso!”
Anzi, due voci.
“Tienilo fermo.”
Ok, sono perplesso.
“Andras? Samael? Che diavolo succede?”
“Vai, ce l’ho.” dice Samael.
Andras fa capolino oltre la porta e mi saluta con un cenno della mano e un sorrisone.
“Heilà! Come butta?”
“Ho un buco nella pancia.” rispondo neutro.
“Oh. Stai bene?” domanda preoccupato.
“Non lo so. Fa male.” scrollo le spalle e mi affretto a nascondere il portachiavi nella tasca del cappotto.
“Capisco. Dopo ti daremo un’occhiata.”
“Andras, cosa cavolo sta succedendo?” indago, assottigliando le palpebre minaccioso.
“Eh? Ah, uhm, beh, ecco…” borbotta a disagio, alternando il peso da un piede all’altro, poi si illumina, “Te lo spiega Samael.”
“Non scaricare il barile, io ho altri problemi adesso!” lo rimprovera il maestro, che ancora non riesco a vedere perché avvolto da quella strana e impenetrabile oscurità.
Odo rumori di colluttazione e un’imprecazione masticata fra i denti.
“Ok, va bene. Ehm…”
Andras mi raggiunge e si inginocchia di fronte a me, esaminando i danni.
“Hai detto a Samael di avere l’impressione di essere seguito, giusto?”
“Sì. Come lo sai?”
“Ieri notte ho continuato a spiarti dopo averti salutato, perché avevo percepito qualcosa nell’aria. Era una sensazione, puro istinto, avrei potuto anche sbagliarmi. Poi ti ho visto mentre gli Exurge Domine ti catturavano, così sono andato subito ad avvertire Samael. Fatto sta che ci siamo incrociati a metà strada e a quanto pare lui sapeva già cosa ti era capitato. Era teso, ma non scosso. Poi siamo arrivati qui, ci siamo appostati fuori e abbiamo atteso il momento adatto per intervenire. Volevamo far uscire allo scoperto il tuo pedinatore.” mi scocca un sorriso innocente.
Mi incupisco all’istante e punto lo sguardo incazzato oltre la soglia del seminterrato.
“Non dirmelo: mi hai davvero usato come esca, Sam?”
“Suvvia, l’occasione si è presentata da sola.” scherza, “Diavolo… sta’ fermo!”
“Tutto a posto, Samael?” chiede Andras.
“Sì, più o meno.”
“Suvvia? Cioè, io ho rischiato di farmi ammazzare e l’unica cosa che sai dire è ‘suvvia’?!” lo aggredisco, ma me ne pento un attimo più tardi.
Infatti, la ferita allo stomaco comincia a bruciare talmente tanto da obbligarmi a tornare sdraiato.
“Va bene, era premeditato.” ammette con un sospiro, “Ma ne è valsa la pena! L’ho preso per te!”
“Lo abbiamo preso.” lo corregge Andras senza distogliere l’attenzione da me, “Alastor, resisti.”
“Almeno si può sapere chi è? Ahia.” sibilo di dolore e mi riadagio supino sul pavimento.
Samael finalmente entra nella stanza fiocamente illuminata dalla lampadina sul soffitto, trascinandosi appresso la fonte del mio stress. Strabuzzo le palpebre. Sono sicuro di essere impallidito e le mie membra sembrano essersi pietrificate. 
Sono ali quelle? Ali bianche e piumate, come quelle di un angelo. Poi vedo una zazzera rossa e riccia e infine due occhi bianchi, tanto intensi che mi pare quasi di sentirli scavare dentro le viscere.
“Oddio…”
Il dolore e lo shock decidono di combinarsi e far fronte comune proprio in questo momento. Svengo con un rantolo.










 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Il polipo piumato ***










Mi sveglio nel letto dell’appartamento che condivido con Samael, intontito e dolorante. Non so di preciso che cosa mi sia accaduto. L’ultimo ricordo che ho è quello del seminterrato in cui i due Exurge Domine mi avevano rinchiuso. Andras e il maestro mi hanno salvato, ma le immagini seguenti sono sfocate. 
Mi tocco l’addome alla ricerca del buco inflittomi dal Bastone di Gabriel, sfioro la pelle e con genuino stupore la scopro intatta. La ferita è miracolosamente scomparsa. Subito dopo mi rendo conto di essere nudo dalla cintola in su, segno che qualcuno deve aver rimosso la camicia.
Mi siedo sul materasso e mi massaggio la fronte, impaziente di scacciare via gli ultimi stralci dell’incubo che mi ha avviluppato. È stato orribile, come essere imprigionati in un limbo senza uscita, costretto a rivivere all’infinito gli eventi più brutti della mia vita. Non è stato affatto piacevole rivedere il volto di quel pervertito di mio padre, né assistere di nuovo all’omicidio di mio cugino Terence da parte di mio fratello Adam. Stavo per impazzire. Poi mi sono svegliato, chissà come. E comunque non avevo idea che un demone fosse in grado di svenire. Dovrò chiedere delucidazioni a Samael.
Mi alzo e cammino cauto verso la porta di camera, sforzandomi di restare concentrato sull’equilibrio e la traiettoria. Mi sento ancora molto debole, come se mi fosse passato sopra un camion. Esco e faccio per dirigermi in salotto, dove spero di trovare il maestro. La luce dei lampioni filtra attraverso le finestre, ma a parte suggerirmi che è notte non mi fornisce alcuna indicazione su quanto sia rimasto privo di sensi. Spero non più di un giorno. Le mie speranze vengono esaudite e trovo Samael in piedi sulla soglia della cucina. Mi dà le spalle ed è appoggiato allo stipite della porta, intento ad osservare chissà cosa. Odo dei rumori, una sorta di biascichio, e mi avvicino incuriosito.
“Sam?”
Sussulta, si volta di scatto e mi squadra con espressione indecifrabile per qualche secondo, come se mi stesse facendo la radiografia. Un attimo più tardi sfoggia la medesima faccia di uno che si trova improvvisamente al cospetto di una singolare apparizione e non riesce a stabilire se è reale o frutto della sua fantasia. Poi in un lampo è di fronte a me e mi abbraccia come se non mi vedesse da secoli. Trattengo il fiato, sbigottito per questo gesto così strano, più che dalla reazione generale. Non che non mi abbia mai abbracciato prima, ma non capita spesso che accada fuori dal letto o in altre circostanze che non siano maratone di sesso selvaggio. E non credo proprio che abbia voglia di farlo adesso. Allora perché mi sta stritolando in questo modo? 
Esalo un sospiro e mi scrollo di dosso le domande, dal momento che qualcosa dentro di me sta cantando di gioia nel sentire il suo calore dopo quella che mi sembra un’eternità. Ricambio l’abbraccio, affondo la faccia nel suo torace ampio e solido e mugolo soddisfatto, come un gatto che fa le fusa. Restiamo in questa posizione per incalcolabili minuti, ma poi, con mio grande disappunto, lui si stacca lentamente e comincia a fissarmi con… dolcezza? Tenerezza? D’accordo, mi sfugge un passaggio fondamentale.
“Cos’è successo?” chiedo sussurrando.
Samael mi accarezza le guance con i pollici e, dopo avermi dato un bacio a fior di labbra, risponde: “Sei morto.”
“Eh?” 
La mia faccia confusa deve divertirlo parecchio, perché si abbandona ad una piccola risata che sa di sollievo, un suono che ha il potere di alleggerire l’atmosfera che ci circonda e provocarmi le cosiddette farfalle nello stomaco. Si calma e torna a farmi le coccole.
“Sei rimasto morto per una settimana. Non ti muovevi, eri immobile come un cadavere e pure il tuo cuore, che nonostante la trasformazione non ha mai cessato di battere, seppur in maniera più fievole, era muto. Ho provato a scrollarti, ho persino usato i miei poteri per darti una scossa, ma niente. Ero molto in ansia.” rivela, mentre delle rughe di apprensione si disegnano intorno agli occhi e sulla fronte.
“Ma… la ferita?”
“È stata la prima cosa di cui mi sono occupato e si è rimarginata senza causare altri danni. Tuttavia, il Bastone di Gabriel è un’arma molto particolare. Come sai, noi non abbiamo un corpo. Quello che vedi di fronte a te, le sembianze che ho assunto, non sono altro che un’illusione. Puoi toccarmi, baciarmi, percepire il mio calore, ma… in un certo senso, non è reale. Il Bastone è fatto apposta per non arrecare danni fisici, perché il suo scopo è distruggere l’essenza. È un’arma letale per i demoni. Tu sei sopravvissuto forse grazie alla tua matrice, che è umana. Non sei nato demone o angelo, per questo hai avuto, diciamo, una marcia in più che ti ha permesso di scampare alla morte. Cioè, è un’ipotesi.”
“Aspetta, non ho capito. Se sono morto, come ho fatto a resuscitare?”
“È questo il bello! Non lo so. Ma non ho mai perso le speranze.” ammette con un sorriso.
“Come non lo sai? Tu sai tutto!”
Stavolta ride di cuore e scuote debolmente la testa: “Io so tante cose, ma non so proprio tutto. Alastor, tu sei un caso unico, un vero e proprio mistero. Con te ogni cosa è una novità e di sicuro io non possiedo tutte le risposte. È già accaduto in passato che un umano diventasse il cagnolino di un demone, ricevendo in cambio poteri oscuri, ma tu sei diverso. Sei un demone e allo stesso tempo conservi qualcosa di innegabilmente umano, che probabilmente influenza la tua parte diabolica. Pensaci: provi ancora compassione, rabbia, paura, tristezza e tutta la gamma di emozioni tipiche dei mortali - sì, me ne sono accorto, benché tu abbia cercato di nasconderlo -, e in più hai la natura di un demone, riesci a gestire le fiamme dell’Inferno ed esso stesso ti ha riconosciuto come una specie di figlio. Hai presente quei tentacoli che vengono sprigionati dai contratti? Non sono altro che la materializzazione della Volontà infernale, che, bada bene, non ha niente a che vedere con Lucifero. Hai notato come ti adorano?”
“L’Inferno ha una volontà? Come dire una coscienza? E poi ero convinto che i tentacoli neri fossero i contratti!”
“Calma, una cosa per volta. Mmm… è difficile da spiegare. Immaginati l’Inferno come un organismo a sé stante, svincolato dall’autorità di chiunque. Sua Eccellenza Oscura ne è il re, non c’è dubbio in merito, ma esso talvolta - anzi, davvero molto raramente - agisce per conto proprio. Ricordi? Fin da subito, quando hai iniziato a riscuotere anime, i tentacoli - che sono sì i contratti, ma non solo - ti hanno protetto, hanno vegliato su di te e sono giunti in tuo soccorso in caso di pericolo. Sono loro che ti mostrano le visioni e ti indicano il Male, come dei connettori altamente sensibili che ti mettono in contatto con l’Etere.”
“Cos’è l’Etere?”
“Ah…” si gratta la nuca e sospira frustrato.
“Anche questo è complicato da spiegare?” sorrido mesto.
“Già. Però, per fartela semplice, potresti pensare ad uno spazio parallelo, disgiunto e al contempo strettamente collegato al mondo umano, dove si raccoglie tutta la negatività dei vivi. È da lì che l’Inferno attinge le visioni, che poi catalizza e trasmette a te per aiutarti a svolgere il tuo lavoro. Un po’ come avere davanti un recipiente pieno zeppo di biglie e un braccio meccanico che pesca quella che ti serve e te la mette in mano. L’Etere, in sostanza, è un luogo inaccessibile, privo di confini, dove passato e presente si fondono.”
“Mh. Dici che la Volontà dell’Inferno mi ha dato una mano a risorgere?”
“Può darsi. Forse l’unico che potrebbe possedere la risposta è Lucifero: è lui il più ‘vicino’ alla Volontà.”
“Quindi posso chiedergli udienza?”
Samael scoppia di nuovo a ridere e mi regala un’occhiata indulgente, nemmeno fossi un bambino scemo. Metto il broncio e incrocio le braccia sul petto, scocciato per il fatto che il maestro non mi prenda quasi mai sul serio.
“No, non puoi, ma io posso per te.”
Sgrano gli occhi eccitato e mi aggrappo alla sua camicia: “Come?”
“In chat.” dichiara.
Assottiglio le palpebre e lo scruto spaesato, con un enorme punto interrogativo che mi lampeggia nella mente, ma dopo un attimo una lampadina si accende. 
“Il blog. Il tuo blog? Vuoi chiederglielo lì?”
“Perché no? È stato uno dei miei primi fan.” rivela con orgoglio, “Alastor, tu sei una risorsa preziosissima per l’Inferno, ma per me hai un’importanza particolare, immensa. Sei mio e non ti cederò mai a nessuno.” conclude in tono accorato, per poi chinarsi a baciarmi con trasporto.
Dio, quanto ho atteso questo bacio. Le sue mani sono ancora sulle mie guance, le stringono senza premere troppo, mi guidano nei movimenti e mi impongono la loro autorità. Io non posso che subire inerme, contento di ricevere le attenzioni che a lungo mi sono mancate. 
Ma all’improvviso un ricordo preciso mi assale e mi scanso sbuffando dalla bocca del maestro.
“Mi hai usato come esca.” borbotto cupo, accusandolo.
“Ah, ehm, sai, mi era parsa l’idea migliore. Scusa se sono stato scostante in questo periodo, ma c’è una ragione valida: avevo già definito il piano e, se mi fossi comportato normalmente o ti fossi stato vicino, avrei vuotato il sacco senza neanche passare attraverso la fase del ‘glielo dico o non glielo dico?’. Il mio istinto di protezione nei tuoi confronti è più forte di quanto immagini e ti avrei messo in guardia contro i nemici. Sapevo che gli Exurge Domine erano arrivati in città e sapevo che mi stavano cercando, ma non ti ho detto niente per non farti stare in ansia ed evitare di calarti in uno stato di ipervigilanza. Loro ci osservano, studiano le nostre mosse come abili cacciatori e poi colpiscono quando sono sicuri di poter catturare la preda. Se tu avessi mutato atteggiamento a causa della paura, se ne sarebbero accorti e allora avrebbero cambiato strategia. Non potevo permetterlo. Se avessero creato un altro schema, non so quanto avrei impiegato a comprenderlo e bisogna dar loro atto che sono molto intelligenti e scaltri, come i demoni. Non avevo tempo, Alastor. Così ti ho consegnato nelle loro mani e ho aspettato la loro mossa, che è arrivata prima di quel che mi aspettassi. Ho sentito quando ti hanno preso, ho udito il tuo richiamo e, credimi, ho dovuto far violenza su me stesso come non avevo mai fatto per astenermi dall’intervenire subito.”
“E Andras?”
“Oh, sì. Lui ha assistito alla tua cattura ed è venuto ad avvisarmi, ma ho preferito andargli incontro io e coinvolgerlo nel salvataggio. Se tutto fosse andato come avevo previsto, avremmo messo fuori gioco due Spennati e catturato il tuo pedinatore, e così è stato. Sono un genio.” gongola con falsa modestia.
“Abbassa la cresta, genio. Io sono morto.”
Si rannuvola all’istante e in un secondo mi ritrovo di nuovo con la faccia seppellita nella sua camicia e le sue braccia intorno al busto, come in una gabbia.
“Questo non rientrava nel mio piano.” bisbiglia aumentando la presa, “Non hai idea di come sia stato… di cosa io abbia provato. Mi sono sentito completamente annientato. Quando ho realizzato che eri morto, ho avvertito qualcosa spezzarsi… non so come descriverlo, ma è stata una sensazione terribile, come se avessi perduto una parte di me, una parte basilare. Ti ho vegliato per giorni e Andras mi ha fatto compagnia, anche se spesso se ne andava per conto suo ad irretire anime pure. Beh, è la sua natura, in fondo. Ho dovuto spiegargli cosa sei e imporgli di mantenere il segreto, non ho potuto evitarlo perché stava cominciando a fare troppe domande. Certo, avrei potuto distruggere il suo nucleo e cancellare la sua esistenza - non mi sarebbe costato alcuno sforzo -, però non mi conveniva.”
“Perché?”
“Ho dei progetti per lui, mi sarà utile. La sola cosa che gli interessa è il potere per risalire la gerarchia ed io posso fornirglielo in cambio della sua cieca obbedienza.” scrolla le spalle, mi prende una mano e se l’appoggia su una guancia, “Alastor, sono stato malissimo. Per me è strano provare sentimenti, non dovrei esserne in grado. Soltanto tu riesci a suscitare queste reazioni in me e spero tu capisca quanto sei speciale. Prometti che non lascerai mai il mio fianco.”
“Lo prometto.”
“Giuralo.”
“Lo giuro.”
“Giuralo ancora.”
“Sam, non vado da nessuna parte.” lo tranquillizzo sorridendogli, ma i suoi occhi stanno brillando di una luce sinistra, come se un fuoco stesse bruciando al loro interno.
“Dillo di nuovo.”
“Non vado da nessuna parte.”
“Se non manterrai la promessa, ti ucciderò.”
La serietà con cui proferisce queste parole mi raggela. Mi ucciderà davvero, è una certezza che si radica in me in un battito di ciglia. Decido di cambiare argomento, sviandolo su questioni più leggere.
“Dov’è Andras? Tornerà?”
“È uscito da un pezzo, ma si rifarà vivo prima o poi.”
“Cosa ne hai fatto degli Exurge Domine?”
“Li abbiamo portati a Roma, sani e salvi e… incoscienti. Non potevamo ucciderli, altrimenti ne avrebbero mandati altri per indagare. Abbiamo alterato la loro memoria per alcuni dettagli che riguardano te - ho visto nelle loro menti che avevano capito che non sei un demone vero e proprio -, ma dovrebbero ricordare tutto quello che è successo.”
“Perché non li hai tolti di mezzo? Adesso ce li ritroveremo alle calcagna!”
“Probabile, ma non subito. Intanto l’incantesimo intorno all’appartamento ci proteggerà finché lo vogliamo.”
“E dopo?”
“Dopo ce ne andremo da Firenze, non è più un territorio di caccia sicuro.”
Annuisco mordendomi il labbro inferiore.
“E il pedinatore? Chi era?”
“Ah, giusto. Affacciati in cucina.”
Obbedisco accigliato. Samael si irrigidisce e serra la mascella, assumendo un’aria tetra che mi fa preoccupare. Le sue mani abbandonano le mie spalle e si stringono a pugno lungo i fianchi, quasi si stia trattenendo dallo sbranare qualcuno. Intuisco che chiunque si trovi in cucina non sia una presenza a lui gradita. 
Quando metto piede nella stanza, mi ghiaccio sul posto e schiudo le labbra, completamente sbalordito. Ci rimango di stucco, certo di stare sognando, perché assistere ad una simile visione nella realtà è privo di senso logico. Scocco un’occhiata smarrita al maestro, che ricambia sfoggiando un’espressione infelice e irritata. Allora realizzo che ce l’ha con me per qualche arcano motivo e la cosa mi disorienta, perché sono sicuro di non aver fatto nulla di male. Insomma, sono stato morto per una settimana!
“Lo conosci?” indaga con un sussurro appena percettibile.
Scuoto la testa con veemenza, sinceramente sorpreso quanto lui, immagino, e torno a fissare stralunato la figura che sembra riempire con la sua aura l’intera cucina.
Un angelo, uno vero, se ne sta appollaiato su una sedia di legno sbocconcellata dalle tarme ed ingurgita alla stregua di un bambino una torta di panna e fragole, adagiata su un vassoio di plastica. Le sue ali, candide come la neve e ripiegate sulla schiena, sono così grandi che quasi sfiorano terra. All’apparenza sembrano morbide e soffici come zucchero filato e la tentazione di toccarle mi fa prudere le mani di impazienza. I corti capelli rossi come il sangue sono pieni di voluminosi boccoli che gli sfiorano il collo, mentre le iridi bianco latte si confondono con la sclera, tanto che solo la pupilla nera crea un distacco evidente e al contempo inquietante. È magro e minuto e la sua figura sembra ancora più esile a causa della leggera canottiera bianca che indossa, insieme ad un paio di pantaloni al ginocchio dello stesso colore. I suoi polsi e caviglie appaiono davvero fragili, talmente sottili da dare l’idea di potersi spezzare alla minima pressione, e i piedi scalzi sono poggiati saldamente sul bordo della sedia. 
Se ne sta lì rannicchiato a ingozzarsi di dolce, staccandone dei pezzi enormi direttamente con le mani. Ha la faccia impiastricciata di panna e parrebbe davvero un bambino, se non fosse per il suo aspetto da adolescente. Sembra uno dei quei cherubini raffigurati negli affreschi rinascimentali delle chiese, eccetto che per la tinta dei capelli e degli occhi. Se questi fossero rispettivamente biondi e azzurri, potrebbe benissimo dare l’impressione di essere appena uscito da uno di quei quadri. Ha davvero l’aspetto di una bambola, con la pelle di porcellana, le labbra piccole e rosee e il nasino all’insù. È una meraviglia.
Pieno di stupore, osservo questo spettacolo surreale e assolutamente improbabile: un angelo, in bilico su una sedia della cucina del nostro appartamento fiorentino, che divora una torta come se fosse un prelibato nettare divino.
“Ah, perdonami.” mi sussurra all’orecchio il maestro, distraendomi dalla contemplazione, “Si è avventato sulla torta che ti avevo comprato come regalo di risveglio. Cioè, a dire la verità non sapevo se ti saresti mai svegliato, solo che… beh, come una sorta di buon auspicio, ogni mattina andavo a comprarti una torta, così, ecco, per farti felice nel caso avessi riaperto gli occhi. Ma puntualmente, verso sera, dato che non ti svegliavi, lui non si è mai fatto problemi a ripulire la dispensa al posto tuo. Gliel’ho sempre lasciato fare perché mi dispiaceva buttare via una torta intera.”
Le mie torte… come ha osato?! La sorpresa viene soppiantata subito dal rancore e stringo i pugni per reprimere l’impulso di saltargli addosso e allontanarlo da ciò che resta del mio dolce, che Samael si è disturbato ad acquistare per me.
“No, ripeti: ha mangiato tutte le mie torte? E tu glielo hai permesso?”
“Non si spreca il cibo.”
“E anche adesso la sta divorando fregandosene bellamente di me?!”
“Ah.”
“Che ci fa qui un nemico?” sibilo minaccioso.
L’angelo non si è ancora degnato di salutarmi e questo fatto mi provoca un attacco di stizza che a stento riesco a tenere al guinzaglio.
“Erano millenni che non capitava, ma sembra che presto avremo un’altra recluta tra le nostre file. Dice di conoscerti e afferma che vuole far parte della nostra… ‘famiglia’. Sarebbe il primo Caduto dopo la Guerra.”
“Oh… in effetti, un angelo che mangia una torta in questo modo… sarebbe un peccato di gola, giusto?”
“Proprio così.”
“Però continuo a non capirci nulla. Chi è? Come si chiama? Quando se ne va? Non dovremmo ucciderlo? E poi: è maschio o femmina?”
“È asessuato. Se cadrà, acquisirà il genere a lui più congeniale.”
“Oh. Bello.”
Ma le altre domande vengono ignorate - non che mi aspettassi una risposta immediata - ed entrambi restiamo a studiare sconcertati lo spirito celeste dalla soglia della cucina. 
Dopo qualche minuto, dopo essersi rimpinzato a dovere e aver finito di spazzolare la torta con una foga sovrannaturale, si volta verso di noi e catalizza la sua attenzione su di me. Mi scruta e mi esamina così a fondo da farmi sentire nudo. Poi mi regala un sorriso entusiasta, compie un balzo felino e si lancia contro il sottoscritto, stritolandomi in un abbraccio soffocante.
“Ugh! Aiuto!” rantolo e cado all’indietro, atterrando col sedere sul pavimento.
“Deduco che gli piaci.” commenta Samael serio.
Evidentemente è indispettito e non approva tutto questo contatto. Ma perché non mi salva dall’assalto di questo polipo piumato?!
“E scollati!” esclamo rabbioso, divincolandomi come un’anguilla.
L’angelo obbedisce e si scosta, pur rimanendo accanto a me, accucciato sui talloni. Le sue ali sbattono appena e vibrano, mentre mi guarda con un sorrisone infantile.
“Che ha?” interrogo il maestro, ma lui alza le spalle.
“Credo sia eccitato. È felicissimo di vederti.”
“E perché?”
“Chiedilo a lui.”
Mi rivolgo all’angelo e lo squadro minaccioso: “Chi sei e cosa vuoi da me?”
In risposta, mi afferra per la nuca e mi stampa un bacio sulla bocca. Allora Samael fa un salto, lo scansa brutalmente da me e lo tira su per il bavero della canottiera, portandolo ad altezza occhi.
“Ti stai prendendo troppe libertà.” ringhia, le iridi che rifulgono come lava liquida.
Lo spirito celeste, per nulla spaventato, gli fa una linguaccia e gira il viso di lato.
“Tch! Ecco perché odio gli angeli: per loro il concetto di ‘proprietà’ non esiste.”
Scruto Samael, interdetto. Una vampata di calore si diffonde sul mio viso e celo un sorriso compiaciuto dietro la mano, colto da un piacevole solletico allo stomaco.
“Non lo toccare, capito?” lo ammonisce.
L’angelo gli regala una pernacchia e Samael fa scrocchiare il collo.
“D’accordo. Alastor, tu non lo conosci, vero?”
“Esatto.” confermo.
“Allora posso ammazzarlo. Con le sue piume ci faremo dei comodi cuscini.” ghigna e rinforza la presa sulla canottiera.
A quella minaccia, l’altro gli assesta un pugno sulla mandibola e lo fa schiantare contro il muro, liberandosi dalla prigionia. Schiudo le labbra in una muta esclamazione di sorpresa: non ho mai incontrato qualcuno capace di mettere al tappeto Samael con tale facilità. L’angelo comincia a svolazzare per il salotto, scatenando piccole correnti d’aria con il movimento ritmico delle ali, e si appallottola sul soffitto scrostato in un bozzolo rotondo fatto di piume. Da una fessura tra di esse indirizza smorfie e linguacce a Samael, il quale nel frattempo si è rialzato, più furente che mai. Non l’ho mai visto così imbestialito e mi fa paura.  Arretro fino al divano e mi riparo dietro lo schienale per tenermi lontano dal fuoco incrociato.
“Va bene, cervello di gallina.” il maestro si aggiusta la cravatta e ghigna di nuovo, “A noi due. È da un po’ che non mi sgranchisco le ossa.”
Il “cervello di gallina” gli fa un gestaccio con il dito medio e quella è l’ultima goccia che fa traboccare il vaso. Samael si scaglia contro di lui, ma l’angelo schiva l’attacco rifugiandosi dietro il tavolo di cucina. Il demone lo placca e gli lancia addosso una palla di fuoco, che l’altro riesce a deviare con il piatto di plastica della torta. Iniziano a rincorrersi per tutta la casa, mettendo a soqquadro l’arredamento. In poco tempo le pareti presentano chiazze nerastre là dove le palle di fuoco di Samael si sono abbattute senza centrare il bersaglio e piccoli incendi divampano sui mobili di legno e sulle tende. Il letto matrimoniale viene ribaltato dall’angelo per usarlo come barriera provvisoria, poi si spalma sul soffitto, striscia rapido in bagno e si rintana nella doccia chiudendo le ante opache di plexiglas. Samael lo insegue, fa per aprirle, ma l’avversario ne approfitta per balzare all'esterno e avvolgerlo dentro un asciugamano, agguantato con un movimento fulmineo dal panchetto alla destra della doccia. Posso udire il ringhio di Samael dalla mia postazione e rabbrividisco di terrore.
Trascorrono interminabili minuti, durante i quali i due nemici combattono a suon di calci, piatti, cuscini, mobili e palle di fuoco. Alla fine, rimangono entrambi in piedi in mezzo al salotto distrutto e bruciacchiato, in una situazione di stallo. Il maestro ha i capelli spettinati e il completo rovinato e sporco, mentre il pennuto ha solo qualche ciocca fuori posto e un taglio sui pantaloni. Ad un tratto, l’angelo si esibisce in una posa di Kung Fu, come se stesse cercando di provocare il demone, con tanto di esclamazioni senza senso, tipo “Uataaa!”, ma in realtà è solo ridicolo. Scoppio a ridere di gusto e la tensione si scioglie come neve al sole. 
L’angelo sorride e mi si butta addosso, abbracciandomi e riempiendomi di baci affettuosi sulla faccia. Sembra un cucciolo. Samael grugnisce e gli dà uno spintone, facendolo rotolare via.
“Brutto pollo!” gli urla contro inferocito e palesemente geloso.
A quel punto, realizzo che sarà una convivenza alquanto problematica. Confesso che sono un po’ in ansia. 
Il resto della notte trascorre senza incidenti degni di nota, eccetto qualche accesa colluttazione tra Samael e l’angelo, di cui ancora non conosco il nome, ma non mi interessa. 
L’alba mi sorprende stravaccato sul divano in contemplazione del soffitto, mentre il maestro aggeggia sul computer e lo spirito celeste mi sorride con aria ebete dal pavimento. Si è disteso accanto a me circa un’ora fa e non si è più mosso. Sembra quasi che stia imitando un cane da guardia.
Di lavoro non se ne parlerà per un po’, visto il pericolo che corriamo, perciò il problema a cui adesso devo far fronte è come passare il tempo nei momenti morti. Oddio, non che di solito sia così impegnato. Andras non si è fatto vivo. Mi domando dove sia e cosa stia facendo. Se ci fosse lui, magari avrei qualcuno con cui chiacchierare. L’angelo non emette suoni, se non squittii o mugugni, ma so che conosce il linguaggio degli uomini, dato che l’ho sentito insultare Samael poco fa. Non ho idea del perché non raccolga i miei tentativi di conversazione. Mi annoio.
“Sam, che dobbiamo farne di lui?” domando riferendomi all’angelo.
“Tu che vuoi farne?”
“Non lo so. Consigli?”
“Rimango dell’opinione che le sue piume sarebbero perfette per dei cuscini.”
“Eddai… comunque non può restare con noi, giusto? Attireremmo l’attenzione con un angelo appresso.”
Odo un lamento provenire dal basso, ma non mi serve voltarmi per immaginare che il pollo ha messo il broncio.
“Non possiamo fare altrimenti, Alastor. Ti ha seguito per anni senza farsi scoprire e continuerebbe a farlo anche se scappassimo dall’altra parte del mondo. Per lui la distanza non è un problema.”
“Possiamo fidarci?”
“No.”
“Uh. Perché?
“Ha ancora le ali. Vuol dire che non è ancora un Caduto.”
Vengo folgorato da tale rivelazione e mi congelo sul divano: “Cosa?!”
Il maestro interrompe il ticchettio delle dita sulla tastiera ed alza il capo per scrutarmi gelido e impassibile. Rabbrividisco all’istante e appuro che è ancora arrabbiato. Penso che lo sia in generale, per l’intera situazione in cui ci siamo cacciati, o almeno lo spero. Ho ribadito di non conoscere l’angelo e non è colpa mia se è apparso dal nulla. Se ha una fissazione per me, non riesco a comprenderne la ragione. Insomma, che c’entro io? Non è trascorso nemmeno un giorno da quando questo polipo piumato è entrato nelle nostre vite, che ha già rivoluzionato la nostra routine alla stregua di un terremoto. Tra lui e Samael non scorre buon sangue, ma posso capirlo: un demone e un angelo non potranno mai andare d’accordo, sono come l’Alfa e l’Omega, il diavolo e… l’acqua santa. Già, paragone più azzeccato non esiste. 
Samael depone il computer sul pavimento con un sospiro, si scrocchia le dita e in un attimo mi sale sopra, sdraiandosi sul mio corpo come se fossi un comodo materasso. Boh, forse sta marcando il territorio. Lo vedo scoccare occhiate in cagnesco all’angelo, come a sfidarlo. Diamine, non è mai stato così protettivo e geloso, ma non nego che mi fa un immenso piacere.
“Quando il pollo perderà le ali, potremo considerarlo dei nostri.” aggiunge in un mormorio, “Ma prima di allora non possiamo fidarci. Potrebbe essere una spia.”
“E Dio invierebbe uno dei suoi angeli nel covo di due demoni, mettendo a rischio la sua purezza?”
“Le vie del Signore sono infinite!” recita teatrale.
Mi sento a disagio sotto lo sguardo dell’angelo, come se mi stesse esaminando l’anima. Non smette di osservarmi per un attimo e quelle iridi bianche e inquietanti mi seguono con insistenza ovunque vada, senza perdersi neanche un minimo accenno di movimento o una smorfia. Ho quasi l’impressione che riesca addirittura a leggere i miei pensieri. Mi pare di essere diventato un animale in gabbia, come quelli che si vedono allo zoo, costretti a mostrarsi alla marea di visitatori per essere guardati e ispezionati dalla punta degli artigli a quella delle orecchie, con un atteggiamento al limite della maleducazione. Per fortuna Samael monitora la situazione costantemente, per prevenire attacchi a sorpresa contro la mia persona. 
“Sam.”
“Mh?” 
Strofina il naso sul mio collo e inspira il mio odore. I suoi capelli, una liscia cascata di tenebra, mi sfiorano le guance, serici e stranamente profumati. Li annuso, faccio mio il loro odore e cerco di catalogarlo: la nota di base è il classico odore di legna bruciata, ma è molto lieve. Il resto è… semplicemente “profumo di Samael”. 
“Promettimi che rimarrai sempre al mio fianco.”
Si tira su, quel poco da riuscire a guardarmi negli occhi.
“Lo prometto.” dice direttamente sulle mie labbra e poi mi bacia con dolcezza.
Sono così concentrato che non registro in tempo i movimenti dell’angelo: lo scorgo mentre si sporge verso di noi, allunga una mano, tira un orecchio al maestro e con una spinta sovrannaturale lo lancia verso la cucina. Assottiglio le palpebre trattenendomi dallo sbuffare e incrocio le braccia sul petto, irritato e al contempo arreso ad assistere all’ennesima lotta senza vincitori né vinti. L’appartamento non resisterà a lungo, di questo passo.










 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Debole ***








 

Le mani di Samael scivolano veloci ed esperte sul mio corpo, facendomi sospirare. Le sue dita liberano i bottoni della camicia dalle asole senza movimenti superflui, mentre la sua bocca bacia e lecca il mio collo, spedendomi scariche di piacere dritte al basso ventre. Rabbrividisco e mi lascio accarezzare, conscio che potremmo riuscire a stabilire un nuovo record: dato che sono passati mesi dall’ultima volta che lo abbiamo fatto e siamo entrambi al limite, potrebbe durare pochissimo, basterebbe uno sfregamento di troppo. Nemmeno fossimo due adolescenti con gli ormoni a mille. Samael non sarà in grado di trattenersi a lungo, l’ho realizzato poco fa, appena mi ha sbattuto sul letto con forza e si è avventato sulle mie labbra come un lupo affamato. 
Prima che io possa anche solo pensare di reagire, i miei pantaloni sono già slacciati e con gesti bruschi mi sta scostando la biancheria per impugnare la mia erezione. Adoro quando è così passionale. Lo voglio da impazzire. La sua lingua cerca la mia, il suo corpo mi schiaccia sul materasso privandomi di ogni via di fuga, le sue iridi bruciano e mi divorano, pezzo dopo pezzo, e le sue mani si arpionano ai miei fianchi per coinvolgermi nell’ondeggiare ritmico del suo bacino. È eccitato da morire, sento il suo membro ancora rinchiuso nella prigione dei pantaloni che si struscia sulla mia coscia, impaziente di trovare sollievo. Le nostre bocche si intercettano di nuovo e affoghiamo nei nostri rispettivi sapori, intraprendendo una lotta di cui conosciamo ogni singolo passo. Affondo le unghie sulla sua schiena nuda e lo graffio per fargli capire quanto ho bisogno di lui. Samael afferra al volo il messaggio e con uno strattone mi spoglia della camicia, lanciandola poi in un angolo a caso della camera. Scende a mordermi una spalla strappandomi un gemito e i segni dei suoi denti mi provocano un piacevole formicolio. 
Il desiderio ardente che ci ha travolti da pochi minuti decide di esplodere del tutto in questo momento con una potente deflagrazione nei nostri cuori e ci infiamma come rare volte è capitato. I movimenti si fanno più febbrili e disordinati, tanto che senza volerlo finiamo per ostacolarci a vicenda a causa della foga. Gemo estasiato quando si china a suggere i miei capezzoli. Intreccio le dita nella sua chioma corvina e lo spingo verso di me, smanioso di essere mangiato e dilaniato dalle zanne che solo in questi frangenti protrudono dalle sue labbra. Allora è come se l’illusione di cui si riveste di solito si sciogliesse come cera a contatto con il fuoco e parte del suo vero aspetto emerge senza che lui possa controllarlo. Amo quei denti appuntiti che penetrano nella mia carne e vorrei tanto che qualche stilla di sangue sgorgasse dalle ferite per saziare la sua fame, ma purtroppo non sanguino più. Le mie vene sono vuote e all’interno non vi scorre più alcun fluido vitale.
I suoi artigli neri mi perforano l’esterno coscia e la violenza che esercita nella pressione è un chiaro segnale della sua frustrazione. Non impiega che una manciata di secondi per divaricarmi le gambe e caricarsele sulle spalle, per poi accucciarsi in mezzo ad esse e avvicinare la faccia al mio sesso, ancora parzialmente nascosto dall’intimo, deciso a regalarmi una temporanea soddisfazione. Non distoglie mai lo sguardo ferino dal mio, quasi in un implicito e osceno invito ad osservare quello che mi farà. Mi scocca un’occhiata talmente lasciva che mi fa rimescolare peggio di una ragazzina. Mi sollevo sui gomiti ed alzo la testa per guardare meglio mentre mi lecca sotto l’ombelico e bagna quella striscia di pelle con generose lappate. Soffoco per miracolo il grido che mi sale improvviso su per la gola: sa che quella zona è il mio punto debole e basta uno stimolo assai leggero per condurmi vicino al baratro. Lo fisso con aria vacua, ma successivamente la mia attenzione si focalizza sul mio stesso torace. Con stupore mi rendo conto che è costellato di morsi a forma di ellissi: i marchi delle sue zanne sono piccoli cerchietti grigiastri, insopportabilmente bollenti, da cui si irradia un bruciore che mi fa fremere e ansimare, in preda ad una soffocante impazienza che non riesco a gestire.
“Sam… presto!”
Tuttavia, contro ogni più remota aspettativa, lui si ferma di colpo ed emette un ringhio roco.
“Così non va.” dichiara. 
Il timbro della sua voce mi paralizza di paura, perché è quello che usa quando è furioso. Negli ultimi giorni mi è accaduto di udirlo spesso e non mi piace per niente. È una voce che sembra provenire dalle viscere dell’Inferno, capace di far vibrare ogni muscolo, nervo e cellula, tanto inquietante che pare grondare potere liquido e ustionante.
“C-che…?”
Gira di scatto il capo e guarda in basso, verso la sponda del letto.
“Vattene, dannato pollo!” sputa minaccioso.
Sbigottito, seguo la direzione dei suoi occhi e mi imbatto in due iridi bianche, coperte da qualche ribelle ciocca rossa: l’angelo è accovacciato sul pavimento, con le mani strette alle lenzuola e un’espressione da cucciolo bisognoso di coccole. Solo la fronte, gli occhi e il nasino all’insù spuntano dal bordo. Con un paio di orecchie pelose e una coda potrebbe benissimo passare per un cane scodinzolante, felice di essere stato notato dal padrone, che sarei io. Al posto della coda, però, ha le ali, che sbatte giusto un pochino e in maniera frenetica: Samael mi ha detto che è il suo modo per manifestare gioia. Quasi quasi gli compro un osso, così vediamo se va a rosicchiarlo da un’altra parte e mi lascia in pace a scambiare effusioni spinte con Samael. Diavolo, mancava così poco!
Mi isso sui gomiti e mi sporgo appena, colpito da una rivelazione: quando è entrato? Sono certo che Samael abbia chiuso a chiave quando mi ha trascinato in camera, ho udito lo scatto della serratura! Bah, evidentemente, una semplice porta non è sufficiente a tenerlo fuori. Ha un futuro da scassinatore, poco ma sicuro. Forse dovrei domandare al maestro di predisporre qualche incantesimo repellente sulla soglia.
Mi accascio sul materasso con un sospiro stanco, d’un tratto svuotato, e mi sforzo di ignorare quei due che si azzuffano e distruggono l’appartamento, che è già in cattivo stato a causa loro. Torno a sdraiarmi comodo sul letto e mi incanto a contemplare le crepe sul soffitto con le mani poggiate mollemente sullo stomaco e le caviglie accavallate, chiedendomi sconsolato per quanto ancora io e Samael saremo obbligati dal fato a condurre la vita dei frati. Insomma, non ci si addice per niente.

Cammino tranquillo sui tetti delle case, buttando di tanto in tanto un’occhiata in basso, per vedere come se la passano quei quattro mortali che ancora se ne vanno a zonzo alle tre del mattino, per lo più turisti americani ubriachi fradici appena usciti da qualche pub. Scuoto la testa e sbuffo seccato. Si può sapere cos’hanno questi americani? Il novanta per cento delle volte che li scorgo per strada sono sbronzi e l’altro dieci per cento stanno scattando fotografie, facendo sciocchezze o mangiando gli hamburger di McDonald’s. Bah, quando mi capita di avere a che fare con gente così, sono fiero delle mie origini britanniche. Lunga vita alla regina!
Continuo sul mio percorso, una mano in tasca a giocherellare distrattamente col portachiavi di Marco. I miei pensieri volano a Samael e all’angelo, che ho lasciato a litigare a casa. Infatti, dopo l’ennesima colluttazione, qualcosa come la quarta della giornata, ho sbottato e li ho rimproverati come farebbe una mamma con i figlioletti discoli. È stata una reazione che ha sorpreso anche me, a dire la verità, perché mai mi sarei sognato che un giorno avrei redarguito il maestro per qualcosa. Cioè, è stata una cosa alquanto surreale. Pure lui ci è rimasto di stucco ed è ammutolito di colpo, con le mani ancora ben strette sul collo dell’angelo. Non ha risposto, mi ha solo fissato con tanto d’occhi, ascoltando la mia sclerata senza battere ciglio. E nel momento in cui ho afferrato cappotto e valigetta e sono uscito lui non mi ha fermato. Non ce la facevo più a stare in mezzo al caos. Sono contento che Samael non mi abbia seguito, ho bisogno di restare da solo per un po’ per sfogare lo stress e l’unico modo per farlo è riscuotere qualche contratto: gettare le anime dannate nella bocca dell’Inferno mi rilassa e mi appaga in una maniera che non so descrivere.
Per esempio, circa un paio d’ore fa, ad un certo punto mi sono ritrovato coinvolto in una rissa con due teppisti adolescenti, che proprio non ne volevano sapere di arrendersi e consegnarsi all’Inferno. Hanno continuato per un bel pezzo a blaterare roba del tipo che non erano pronti, che erano ancora giovani, che erano disposti a pagare qualsiasi somma per essere risparmiati, che non poteva finire proprio adesso che avevano ottenuto il rispetto di altre bande rivali, che dovevo sparire o mi avrebbero impallinato, eccetera eccetera. Quindi, come da prassi, ho proposto ad uno di sacrificare la fidanzata, di cui era molto innamorato, e all’altro di fare la medesima cosa col fratellino di sette anni. Quello con la fidanzata ha accettato ed ha ricevuto una proroga, mentre il secondo si è rifiutato ed è stato risucchiato dentro il portale. Ma insomma, se sai che il periodo in cui potevi spassartela è giunto al capolinea, perché intestardirti a imbastire scuse talmente ridicole da suscitare pietà? Seppur non quella pietà che è sinonimo di compassione. Cioè, ci fai solo una figura patetica. Accettalo e basta, cavolo, e poi… beh, poi vai all’Inferno! 
Non importa, ora ho decisamente questioni più urgenti di cui occuparmi, come scoprire chi è quell’angelo che ci è piombato fra capo e collo. Il comportamento del maestro è sospetto e non posso che pensare che lui sappia qualcosa che io non so, anche se finora non sono mai riuscito a scucirgli di bocca informazioni utili. E poi perché il pennuto ha detto di conoscermi? E, notare, l’ha detto a Samael, non a me. A me non parla, non mi rivolge la parola, solo cenni. Comunque, sono più che sicuro di non averlo mai visto in vita mia, mi ricorderei di una faccia così singolare.
Sospiro e sollevo la valigetta, per vedere quanti contratti restano da riscuotere. Con mio sommo stupore mi accorgo che non ce ne sono più. Ho finito e nemmeno me ne sono reso conto, assorto com’ero in riflessioni filosofiche. Magari Samael sarà fiero di me e per premiarmi mi comprerà un’altra torta, che, giuro, proteggerò a costo della vita dalle grinfie del pollo. Va bene una volta, ma la seconda lo azzanno se solo osa avvicinarsi.
Spicco un salto e atterro su un altro tetto, quando avverto un improvviso spostamento d’aria alle mie spalle. Mi volto di scatto, con i sensi vigili e pronti all’azione. Non mi farò infilzare di nuovo da un maledetto bastone come uno spiedino.
“Ciao, Alastor!”
Mi rilasso e restituisco il saluto: “Ciao, Andras. Come stai?”
“Bene, grazie. Tu? Come ti senti?”
“Bene. Sono in piena forma.” sorrido nervoso.
“Fantastico.”
Rimaniamo in silenzio per qualche secondo, senza sapere cosa dire. D’altronde, Samael mi ha riferito di aver raccontato ad Andras la verità su di me e non so come un “esterno” potrebbe prendere una notizia simile. Un conto è il maestro, che conosce i fatti sin dall’inizio, un conto è un demone estraneo, che magari ha delle idee… conservatrici sulla propria razza. Non so se Andras mi guarderà con disprezzo d’ora in avanti. E se tentasse di uccidermi? O di mangiarmi?
“Beh?” lo esorto con un cenno del capo, costringendo i miei piedi a restare ben ancorati sulle tegole.
Mi sto facendo violenza per reprimere l’impulso di scappare come un coniglio, ma non voglio mostrarmi debole. 
“Quindi…” si fa serio, distoglie lo sguardo e infila le mani nelle tasche dei jeans, “eri umano, eh?”
Rilascio un profondo sospiro e mi gratto la nuca.
“Per me non c’è problema, Alastor, davvero.” mi rassicura, “E capisco perché tu mi abbia mentito. Se fossi stato nei tuoi panni, avrei fatto lo stesso. Sei sempre stato sulla difensiva con me e finalmente adesso ne comprendo la ragione. Non ti farò del male, l’ho promesso a Samael.”
Le sue parole mi provocano un’insperata onda di sollievo, ma nonostante ciò non riesco ad abbandonare la posa rigida che ho assunto.
“Mi dispiace, Andras, non potevo fare altrimenti.”
“Lo so.” accenna un sorriso.
“Ci sono ancora molte cose che ignoro sui demoni e non ho mai idea di come debba comportarmi con gli sconosciuti, cosa dire, cosa fare… a parte non accettare caramelle.” ghigno appena, “Insomma, non mi sento mai del tutto a mio agio. Ah, però sto facendo un discorso in generale quando in realtà, oltre a te, ho conosciuto solo un altro demone, tanti anni fa. Perciò, ecco, io…”
“Alastor, non devi scusarti.” dice con fermezza mentre si avvicina, “Capisco, accetto e dimentico. Ok?”
“Non ti mette a disagio? Il fatto che la mia matrice sia umana, intendo.” insisto.
“No, per nulla. Non nascondo che sono molto curioso, ma non ti temo. Non ti considero neanche una preda. Cioè, se ti divorassi, mi attirerei addosso l’ira di Samael e senza dubbio ci rimarrei secco. Però non è che non ti mangio solo perché ho paura di Samael. Piuttosto non lo faccio perché siamo diventati amici, mi piace chiacchierare con te, ridere con te e salvarti da morte certa.” scrolla le spalle e stavolta mi scocca un sorriso gentile, che mi aiuta a sciogliere i muscoli contratti per via della tensione.
Sbuffo con l’intenzione di apparire scocciato, ma non riesco a mascherare il divertimento.
“Alastor… siamo amici, vero?” domanda titubante.
“Sì. O meglio, adesso lo siamo veramente, dato che conosci il mio segreto.” abbozzo un sorrisino.
Fa una smorfia soddisfatta: “Bene. E l’angelo? Ci sono novità? Lo avete ucciso?” 
“Sam vuole fare delle sue ali dei cuscini.”
“Approvo. Saranno morbidissimi.” annuisce solenne, poi sembra registrare il significato della mia frase, “Aspetta, è ancora vivo?!”
“Già. Abbiamo deciso di tenerlo con noi e aspettare la sua Caduta.”
“Oh, capisco.”
“Andras, permetti una domanda?”
“Certo.”
“Che diavolo ci fai qui?”
“Niente, bighellonavo un po’ in giro.” risponde di getto, forse troppo velocemente.
“A-ha. Certo. Fammi indovinare: Samael ti ha ordinato di farmi da guardia del corpo.” affermo sicuro, con le palpebre a mezz’asta e un’aria seccata.
“Scusa. Non posso oppormi, lo sai.” 
“Tch.”
“È preoccupato per te.”
“Grazie, lo so.” borbotto incrociando le braccia sul petto.
“No, non capisci. Sei una preda facile, Alastor, non avresti possibilità contro gli Spennati e ne hai avuto la prova concreta. Sei più forte di qualsiasi umano, non posso darti torto, ma sei anche assai più debole di qualsiasi demone degno di questo nome. Non puoi difenderti da solo.”
“Ho ucciso un Exurge Domine a Notre-Dame, qualche anno fa. L’ho incenerito con un vortice di fiamme nere.” lo correggo, ma non posso fare a meno di mettere il broncio, “Non sono così inutile.”
“Quello è stato un caso isolato. Samael me lo ha raccontato, so come sono andate le cose. Magari hai le potenzialità, ma sei ben lungi dall’essere in grado di affrontare un nemico di quel calibro. Quindi smettila di fare il bambino e accetta il mio aiuto. Al massimo, pensala come un amico che ti tiene compagnia, qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere leggere. Non ti intralcerò durante il lavoro, anzi, se me lo chiedi potrei aiutarti come ho fatto l’altra volta.”
Esalo un sospiro stanco: “No, hai ragione. Sono uno stupido. È che… mi pesa non essere capace di difendermi. Ho sempre bisogno della balia, per intenderci. È frustrante. Vorrei imparare ad essere più indipendente, così da non essere più un fardello per Samael, ma non so come fare per liberarmi della mia umanità. L’ho respinta in una parte remota di me, però non sono riuscito ad eliminarla del tutto. È ancora presente, lo sento.”
Artiglio la stoffa del cappotto all’altezza del cuore e mi stringo nelle spalle.
“Forse è solo questione di tempo.” cerca di consolarmi Andras, “Forse tra qualche anno potrai vantarti di essere diventato un demone completo.”
“Lo spero tanto.” mormoro a capo chino.
Una raffica di vento gelido mi scompiglia i capelli e mi accarezza le falde del cappotto, facendo mulinare nell’aria qualche sacchetto di plastica e qualche cartaccia abbandonata sul marciapiede. C’è silenzio, tranne che per delle deboli risate provenienti da qualche parte, in lontananza. Le porte delle case sono sigillate, le finestre sprangate e buie. È uno scenario monotono, il medesimo di ogni notte. Ammirando questo paesaggio desolato mi sento un po’ abbattuto, soprattutto se lo metto a confronto con quello parigino e londinese, pieni di stimoli e distrazioni interessanti. Firenze non è una metropoli, sempre in fermento a qualunque ora, e la differenza si vede. Confesso che mi manca passeggiare accanto alla gente, ascoltarne l’allegro cianciare e confondermi tra la folla come un normale cittadino. La mia esistenza è diventata quella di un emarginato, alla stregua di un barbone rivestito da uno spesso mantello magico, che lo rende invisibile e lo ripara dallo sguardo delle persone come una madre iperprotettiva. Mi sento escluso dal mondo. A conti fatti, checché se ne dica, l’uomo è un animale sociale e, nonostante io non lo sia più, ho conservato qualcosa della mia perduta umanità, come un irriducibile baluardo a cui, forse, non ho mai davvero voluto rinunciare. Voglio calore, contatto, voglio essere parte di un gruppo, di una comunità. Ne ho piene le scatole di starmene per conto mio, anche se Samael riesce a stemperare puntualmente questa sensazione di angoscia senza fare alcunché, è sufficiente che entri nel mio campo visivo. È il mio irriducibile faro, che risplende nel mare di tenebra che mi circonda, e come un naufrago mi aggrappo a lui con le ventose, mi abbarbico con la stessa virulenza di un polpo che arrotola i tentacoli intorno al braccio e non si stacca più, allo stesso modo di una colla super appiccicosa o di un adesivo che rifiuta di staccarsi dalla superficie che ha scelto. 
Ho paura della solitudine, eppure non dovrei sentirmi così. C’è Andras, adesso, e Samael è sempre con me, non mi lascerà mai. Poi è arrivato anche l’angelo a movimentare la nostra routine, perciò è assurdo credere di essere solo. Tuttavia, non è una solitudine legata alla materialità, è piuttosto un concetto astratto. Mi sento solo in senso lato, direi, tipo l’ultimo sopravvissuto della mia specie, benché io non abbia una specie di appartenenza.
Beh, per oggi non mi va più di lavorare. Sono esausto, psicologicamente parlando. E, non meno importante, sono in astinenza, la qual cosa mi provoca stress, malumore e nervi a fior di pelle. In breve, divento scontroso, una bomba ad orologeria pronta ad esplodere. Appena torno a casa voglio fare sesso con il maestro, a tutti i costi. Mi manca terribilmente condividere un po’ d’intimità con Samael e il minuscolo assaggio di poche ore fa non mi è bastato. Sì, chiuderò l’angelo in bagno e dirò a Samael di erigere una barriera magica, in modo che quel maledetto polipo piumato non esca neanche per sbaglio per venire a romperci di nuovo le uova nel paniere. 
“Alastor?”
“Mh?” mi riscuoto dai miei pensieri.
“Fino a un attimo fa avevi uno strano sguardo assente. Tutto ok?”
“Sì… ascolta, torno a casa. Non disturbarti ad accompagnarmi.”
“Sai benissimo che ti seguirò comunque da lontano.”
“D’accordo, fai come vuoi.” 
Liquido Andras con un gesto vago della mano e comincio a correre in direzione dell’appartamento, senza badare alla sua presenza costante che mi sta incollata alle costole. Non è che mi dispiaccia averlo intorno, sia chiaro, ma mi dà noia sapere che è stato Samael ad ordinargli di pedinarmi e non perdermi mai di vista. Questo implica che Samael in persona non ha fiducia nelle mie capacità, che mi reputa un novellino buono a nulla. Beh, anche se fosse, perché dovrei fargliene una colpa? Sono consapevole dei miei limiti e delle mie debolezze. Però il rimarcarle in questo modo mi fa sentire inadeguato. Forse non riuscirò mai veramente a fare parte del mondo di Samael, questo mondo fantastico, sovrannaturale e incredibile in cui sono stato trascinato di mia volontà. Avevo giurato che lo avrei reso orgoglioso di me, ma mi sembra di avergli procurato più delusioni che soddisfazioni. Sono un inetto, un ibrido senza un dannato posto in questo altrettanto dannato universo. Non sono niente di definito e questo non essere non fa che sospingermi verso un abisso di disperazione.
A dispetto delle mie speranze, ad accogliermi a casa trovo solo il pennuto, che mi salta addosso e si avvinghia come una piovra appena varco la soglia. La delusione fa precipitare il mio cuore sottoterra, così come il mio umore. Se Samael non c’è, significa che verrò fagocitato inesorabilmente dalla valanga di domande e pensieri cupi che mi frulla nel cervello. So già che darò loro corda, perché solo il maestro è in grado di distrarmi e alleggerirmi la coscienza, e ci riesce sempre con un semplice sorriso o una carezza.
L’angelo, forse percependo la mia tristezza, mi stritola in un abbraccio soffocante, avvolgendo il mio corpo anche con le sue ampie ali.
“Sì, sì, ora basta.” lo blocco.
Molla la presa e rimette i piedi sul pavimento. Poi mi prende le mani e mi sorride, entusiasta come un bambino. Vorrei che fosse Samael a darmi un simile bentornato…
“Sam?” mi informo.
Lui scuote la testa.
“Di’ un po’, perché non parli? È noioso chiacchierare con uno che si finge muto, anche perché, al contrario, dovresti spiegarmi un sacco di cose.”
Alza le spalle, continuando a sorridere.
“Perché perdo tempo con te?” mugugno seccato, “Vado a farmi una doccia, guai a te se provi a spiarmi.” lo ammonisco.
Vado in bagno e inizio a spogliarmi, posando i vestiti ripiegati con cura su uno sgabello. Apro il getto dell’acqua e aspetto che si scaldi, mentre occhieggio la porta chiusa a chiave con la vaga impressione che l’angelo sia appostato proprio là fuori. Forse sta sbirciando dalla serratura. Maniaco. Se continua così, la Caduta giungerà prima di quanto immagino.
Entro nella doccia e per i minuti successivi tento di estraniarmi dalla realtà e non pensare a niente, perché sono davvero sfinito. Desidero soltanto un attimo di quiete, nulla di più. Per questo non sento la chiave nella toppa scattare e la porta del bagno aprirsi. 
Proprio quando termino di insaponarmi, una matassa di piume bianche entra nel mio campo visivo, mi viene sbattuta in piena faccia e mi schiaccia su una parete del box. L’angelo fa il suo ingresso, nudo e con quello stupido sorriso da ritardato dipinto sulle labbra.
“Che… che cacchio fai?! Esci!” sbraito.
Non ci stiamo, le sue ali occupano tutto lo spazio disponibile e lui non riesce a piegarle o a distenderle come vorrebbe. Si gira e si rigira in cerca di una posizione comoda, mi sale in braccio per vedere se così risparmia qualche centimetro, ma ancora l’ingombro delle ali gli impedisce di cessare di divincolarsi come un’anguilla e ritagliarsi un posticino tutto per sé. Ciò che segue è una lotta senza esclusione di colpi per cacciarlo via e riguadagnare l’angusto spazio vitale, ma ogni sforzo risulta presto vano e mi arrendo.
“Aaaargh! Piantala! Sta’ fermo!” ringhio in preda alla rabbia.
Si pietrifica, si accuccia sui talloni e mi guarda dal basso come un cucciolo indifeso. L’acqua scorre, schizza sui muri e imbratta le mattonelle del pavimento, poiché l’anta della doccia è rimasta spalancata. Grugnisco esasperato, mi scanso, aggiro a fatica le sue ali e la chiudo.
“Seduto.” ordino.
Obbediente, l’angelo si siede sotto il getto e l’acqua calda gli infradicia le piume.
Agguanto la boccetta del bagnoschiuma, ne spremo un po’ sulle mani, mi accovaccio alle sue spalle e comincio a insaponare la sua chioma rossa. Lo vedo serrare le palpebre e assumere un’aria sognante.
“Sì, goditela finché puoi. Appena abbassi la guardia, ti raso a zero.” lo minaccio, ma in realtà non lo farei mai.
I suoi capelli sono morbidi e serici, sarebbe un peccato tagliarli e lui lo sa, perché non fa una piega e continua a lasciarsi massaggiare la cute con espressione beata. Mi fa rabbia. E anche tanta tenerezza. Suppongo che sappia come usare le sue armi a proprio vantaggio, è più subdolo di quanto pensassi.
È così che ci scopre Samael, di ritorno da qualsiasi cosa sia andato a fare. Spalanca bruscamente l’anta della doccia e resta allibito, con la bocca semiaperta e gli occhi sgranati, senza parole.
Non mi scompongo e bofonchio: “Storia lunga.”
L’angelo gli fa una linguaccia.
“Ho incontrato Andras, stanotte.” dico in tono neutro mentre risciacquo lo shampoo, curandomi di non farlo colare sugli occhi del pennuto.
“Oh.”
“Ho saputo che gli hai ordinato di seguirmi.”
“Non è sicuro per te, Alastor. Voglio proteggerti.” mormora dispiaciuto.
“Posso cavarmela per conto mio.”
“Sei in gamba, non ho dubbi, ma fallo per me. Ti prego, accetta Andras come guardia del corpo in mia assenza. Sarà discreto. Non posso sopportare l’idea di saperti solo là fuori e non voglio sottovalutare la situazione. Al momento non ci sono Exurge Domine in città, ma potrebbero ricomparire all’improvviso e…” lascia la frase in sospeso e si morde il labbro inferiore.
Resto in silenzio per un minuto scarso, che però pare dilatarsi all’infinito. Le mie mani accarezzano e lavano i capelli dell’angelo, ma con la testa sono altrove.
“Non voglio farti preoccupare, Sam.”
Mi squadra confuso, poi annuisce: “Collaborerai con Andras?”
“Se è ciò che desideri…”
Mi accingo a lavare anche le ali, perché non ho intenzione di farmi sfuggire l’occasione per toccarle e saggiarne la consistenza, sebbene le circostanze attuali non siano affatto rilassanti. Avverto ancora lo sguardo di Samael su di me, ma mi impongo di mantenere il mio focalizzato sulle piume dell’angelo.
“Hey, tu, stendi un po’ le ali.” intimo al pennuto.
“Alastor.” mi chiama il maestro.
Sospiro esasperato e alzo il capo, scontrandomi con la sua espressione imbronciata: “Che c’è?”
“Non abbiamo mai fatto la doccia insieme.”
Arresto i movimenti e lo scruto basito dal basso. Questa non me la sarei mai aspettata.
“Perché tu non ti lavi mai.”
“Non ne ho bisogno! I demoni sono puliti.” protesta.
“È comunque rilassante. Dovresti provare.”
L’angelo prende a mugolare, estasiato per il trattamento che gli sto riservando. Emetto una risatina e gli do un buffetto affettuoso sul collo. A questa scena il maestro schiocca la lingua ed esce a passo di marcia dal bagno, sbattendosi la porta alle spalle con troppa foga, tanto che si formano altre crepe intorno agli stipiti.
“Che dici,” mi rivolgo allo spirito celeste, “è geloso?”
Lui si gira e ghigna sornione.
“Mi farai impazzire.” sbuffo divertito.
Di rimando sbatte le ali con enfasi, sprigionando una marea di bolle che invadono tutto il bagno. Mi paro con le braccia ed emetto un ringhio.
“A cuccia!”










 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Sei mio ***







 


Un’altra notte passa veloce. Degli Exurge Domine non c’è ancora traccia, ma Samael è sicuro che torneranno presto. Ha deciso che entro un paio di giorni lasceremo Firenze e per un po’ vagabonderemo in qua e là senza fermarci troppo a lungo nello stesso posto, per precauzione. Tutta la faccenda mi mette ansia, ma anche il maestro sembra agitato. 
In più, dovremo portarci appresso pure l’angelo e celare la sua presenza non è così facile come sembra. Certo, è un pennuto in gamba, visto che è riuscito ad eludere il radar di Samael per anni, ma non crediamo che alla lunga sarà sufficiente. Parlandone con Samael, ci siamo trovati d’accordo sul ritenere opportuno che l’angelo perda le ali più in fretta possibile, ma purtroppo non è qualcosa che possiamo influenzare. Non dipende da noi, ma da lui. La sua Caduta è più che auspicabile, date le circostanze, e spero non ci impieghi lo stesso tempo che ho impiegato io. Abbandonarlo è fuori questione, più perché continuerebbe a seguirci alla stregua di un cagnolino fedele che per compassione nei suoi confronti.
L’angelo, che per ora resta senza nome, ha un bel caratterino, come ho avuto modo di appurare. Risponde sempre alle sfide, è impertinente, permaloso e un filino arrogante, nonché infantile. Samael ha un gran da fare per tenergli testa e un po’, solo un pochino, mi fa pena. Mi auguro che si abitui in fretta a lui, perché non posso concepire di trascorrere la mia vita in compagnia di due esseri sovrannaturali che bisticciano tutto il giorno come cane e gatto, con annessi danni domestici.
È una situazione spinosa e dobbiamo essere cauti. 
Tuttavia, la paura non mi ferma dal compiere il mio lavoro, ormai divenuto la mia unica fonte di distrazione. Il maestro e l’angelo non fanno che litigare e scontrarsi per un nonnulla e, in tutta onestà, mi sono rotto le scatole dei loro battibecchi. Così cerco di restare fuori casa a lungo e riscuotere quante più anime riesco per tenermi occupato e non pensare al fatto che potrei rischiare la vita ogni minuto che passa. 
Sono le quattro del mattino e mi sto preparando a rientrare dopo una nottata abbastanza faticosa. Per esempio, ad un certo punto mi sono ritrovato a dover inseguire un avvocato di quarant’anni per mezza città, perché, consapevole che oggi il suo contratto sarebbe scaduto, ha fatto di tutto per restare in luoghi affollati. Si è pure astenuto dal recarsi nel bagno di uno dei locali in cui ha fatto una sosta con il gruppo di colleghi a cui si era aggregato, nonostante ne avvertisse l’impellente necessità. Forse si reputava scaltro, convinto che non sarebbe stato preso in un luogo pubblico e in presenza di testimoni, ma i suoi sforzi non sono serviti allo scopo: il Male sa far buon uso dei suoi mezzi, non lo si può ingannare. 
Infatti quando è uscito da un pub per fumarsi una sigaretta con un amico, dopo pochi secondi costui ha attraversato la strada per salutare altri conoscenti di passaggio e l’avvocato è rimasto solo di fronte all’ingresso. Sul marciapiede non passava nessuno e l’amico era distratto, perciò mi è occorsa appena una frazione di secondo per scaraventargli addosso dall’alto il pegno del contratto, che consisteva in un’agenda rilegata in pelle, regalo di laurea da parte di suo padre, anch’egli avvocato. Lui l’ha afferrata di riflesso, lasciando cadere la sigaretta, ed è stato prontamente avviluppato e trasportato nella dimensione parallela. 
All’improvviso non c’era più nessuno intorno a lui. Il chiacchiericcio del pub, ora deserto, era scomparso, sebbene le luci all’interno fossero accese, e non si udiva alcun suono provenire dalle vie vicine.
Io l’ho aspettato seduto davanti al bancone, voltato di schiena e facendo finta di sorseggiare una birra. 
Si è avvicinato circospetto e mi ha domandato: “Mi scusi, sa dove sono finiti tutti?”
Stringeva in mano l’agenda e aveva l’aria smarrita. 
Ho fatto incrociare i nostri sguardi e allora ha capito. Ha mollato il contratto ed è corso via come una lepre, ma dopo neanche un minuto era di nuovo davanti al pub, affannato e pallido come un fantasma. È scappato ancora due volte, ma infine, con mio grande rammarico - mi stavo divertendo - ha compreso l’antifona ed ha accettato il mio invito a sedersi sullo sgabello alla mia sinistra.
“Signor Neri, è inutile che faccia quest’espressione funerea. Si adegui alla realtà e risponda alla mia domanda. Desidera una proroga?”
“Eh?” mi ha fissato scioccato.
“Le verranno concessi altri tredici anni, a patto che lei dia qualcosa in cambio.”
“Che cosa? Faro qualunque cosa!” ha esclamato accorato.
“Ottimo. Il prezzo che dovrà pagare sarà l’anima del suo miglior amico. Se egli prenderà il suo posto, lei avrà diritto ad altrettanti anni quanti ne ha già vissuti dopo aver siglato il patto, cioè tredici. Altrimenti, dovrò consegnarla all’Inferno, come da contratto.”
“F-Federico? Io… lui… io dovrei…?” ha balbettato, completamente spiazzato.
“Sì. A lei la scelta.”
Si è mordicchiato l’unghia del pollice e ci ha riflettuto, poi ha acconsentito.
“Tanto Federico è single e l’unica parente in vita è sua madre, che è vecchia e con un piede nella fossa. Ha già assunto una badante, perciò ci sarà comunque qualcuno ad occuparsi di lei.”
“Bene.” ho annuito e ho raccattato l’agenda, riponendola nella valigetta.
“Ah, ehm, non devo fare più niente?” ha indagato, cereo in viso e con gli occhi spiritati.
“No, la sua parola è ciò che conta. Stia tranquillo, l’Inferno ha già preso nota.” l’ho rassicurato con un sorriso e, dopo avergli assestato una pacca sulla spalla, me ne sono andato.
Certo che il mondo è pieno zeppo di individui abietti. Non c’è legame che tenga quando si tratta di sopravvivenza, ognuno pensa a sé e al proprio tornaconto, senza badare agli altri. L’egoismo umano mi sorprende ogni volta di più, anche se ormai dovrei esserci abituato.
Mentre salto sopra i tetti dei palazzi, di tanto in tanto non posso fare a meno di serrare le dita intorno al portachiavi di Marco, nascosto nella tasca destra del cappotto. Per una ragione che non so spiegarmi, toccarlo mi aiuta a placare l’irritazione, ha un effetto calmante, quasi si tratti di una camomilla in versione solida, che penetra sotto la pelle al primo contatto. Alla fine non sono riuscito a liberarmene, nonostante i buoni propositi di abbandonare per sempre il mio lato umano. Forse sono solo un ipocrita. Mi faccio chiamare Alastor, mi comporto in maniera distaccata con i clienti, non mi faccio più irretire dalle loro lacrime grondanti pentimento, eppure… 
Riflettendo, mi è venuto in mente un paragone: è come se mi fossi tinto i capelli e messo le lenti colorate per ottenere un aspetto diverso, però di base nulla è cambiato. Lo detesto, detesto la mia debolezza, la mia umanità. Probabilmente non sono in grado di liberarmene con le mie sole forze, mi serve aiuto. Un aiuto sovrannaturale.
Quando sono nei pressi di Piazza Santa Croce, arresto la mia corsa in cima a un comignolo, confuso dalla presenza che avverto stare avanzando a massima velocità nella mia direzione. Sono curioso di scoprire chi è. Mi occorre un attimo per individuare Samael a ore dodici. Ma che ha? Perché sfreccia come un razzo? È braccato dai nemici? Gli Exurge Domine sono tornati?
Mi arriva ad un palmo di naso e senza volerlo mi sbilancio indietro.
“Sam-”
“Vieni con me.” mi ordina sbrigativo.
“Eh? Dove?” chiedo stralunato.
Mi agguanta per un polso e mi trascina in volo sopra la città, rapido come una scheggia. Cavolo, mi spaventa quando fa così. 
Dopo un minuto scarso atterra all’ingresso di un hotel del centro storico, che sembra alquanto lussuoso, con tanto di bandiera italiana, francese, giapponese, americana e inglese, che sventolano dalla terrazza sulla facciata. 
Entriamo di corsa, neanche fossimo inseguiti da un branco di tori inferociti, passiamo accanto alla reception invisibili come ombre e ci catapultiamo nell’ascensore. Samael preme il pulsante del quinto piano e per i secondi che ci occorrono per raggiungerlo mi spalma contro la parete di acciaio inox e si avventa sulla mia bocca come un assetato, mentre le sue mani avide si intrufolano sotto il mio cappotto. Non mi oppongo al suo assalto, felice di sentire tutto il suo desiderio represso attraverso la stoffa degli abiti. Mi aggrappo alle sue spalle per ricambiare con altrettanto impeto, smanioso di un contatto più diretto.
L’ascensore si apre con un ‘ding’, proprio quando la situazione si sta facendo interessante. Mi afferra ancora per il polso e mi conduce davanti alla porta di una camera, che scardina con uno spintone senza troppe cerimonie. 
“Ma non hai la chiave? Che motivo c’era di romperla?” lo interrogo, sempre più perplesso.
Lui mi ignora, mi scaraventa all’interno con malgarbo e la richiude con un calcio. Poi mi aggredisce di nuovo e mi spoglia in quattro e quattr’otto. Non mi concede nemmeno il tempo di realizzare cosa stia accadendo e un attimo più tardi planiamo insieme sul morbido materasso matrimoniale della suite, nudi e bisognosi di divorarci a vicenda. 
Smetto di pormi domande, perché in realtà ho capito che cosa aveva in mente appena ho visto quale era la sua destinazione. D’altronde, a casa c’è il pollo, che è più fastidioso di una piattola: spunta ovunque e quando meno te lo aspetti, rovinando tutti i nostri progetti in camera da letto.
L’atmosfera si fa bollente in un battito di ciglia e non è solo un’impressione causata dalla scarica di eccitazione che ci ha travolti. Sul serio, la temperatura aumenta drasticamente e l’aria diventa torrida. Pare di essere nel deserto. Impiego un istante a comprendere che è Samael a sprigionare tutto questo calore e mi sembra di scorgere i contorni del mobilio dietro di lui, a ridosso del muro, ondeggiare appena, come succede con l’asfalto sotto gli implacabili raggi del sole estivo. Però sulla mia pelle non avverto alcun cambiamento, sebbene la sua sembra che stia per andare a fuoco. Non è che bruceremo la stanza? Dovremo pagare i danni? Ci denunceranno per incendio doloso? Osservo preoccupato il soffitto, mentre subisco docilmente i suoi morsi animaleschi sul collo e sui capezzoli e i graffi dei suoi artigli sulle cosce, che si rimargineranno fra pochi minuti. 
Non si dilunga nei preliminari, con mia grande gioia, la sua voglia è più che palpabile. Quando entra in me con una poderosa spinta, dalla sua epidermide scaturisce impetuoso un vortice di fiamme, che ci avvolge entrambi come un bozzolo e lambisce tutta la camera d’albergo. Eppure non sento dolore e non mi scotto. Benché quelle lingue ustionanti mi accarezzino il corpo, sfrigolando e crepitando minacciose, rimango illeso. Le fiamme attaccano presto ogni superficie, abbrustoliscono e riducono in cenere i pezzi di design moderno che costituivano l’arredamento, mangiano le coperte, il materasso e i cuscini e penetrano con vigore dentro di me insieme a Samael, dal punto in cui siamo connessi.
Confesso di aver paura, perché il maestro non mi ha mai posseduto con una lussuria così violenta e inarrestabile. Il suo incarnato alabastrino sembra brillare di luce propria e i suoi occhi rifulgono come tizzoni ardenti. In essi posso quasi vedere il fuoco del desiderio tremolare come la fiammella di una candela, tanto che temo di bruciarmi se solo provassi a toccarli. I capelli neri ricadono sul mio petto, lisci come la seta, provocandomi il solletico, ma questa sensazione non placa la mia apprensione. Non posso far altro che sopportare gli attacchi della sua bocca e delle sue mani, succube della sua furia demoniaca, sebbene ad una parte di me non dispiaccia poi molto.
Quando però concentro l’attenzione sulla sua testa, smetto di respirare per svariati secondi: due corna arcuate sbucano fuori dalle sue tempie e finiscono arricciate trenta centimetri più in alto. In realtà, un attimo fa ho pensato si trattasse di un’allucinazione, perché la loro sagoma è sfocata e posso guardarci attraverso, dal momento che sono quasi trasparenti. Ma se le fisso per un po’ il loro contorno diviene più netto e concreto. Non credevo che Samael avesse le corna, nonostante mi abbia più volte ripetuto che quello che mi ha sempre mostrato non è il suo vero aspetto.
Il piacere passa in secondo piano e pian piano mi abituo ai suoi affondi frenetici. Mentre il mio corpo sussulta in risposta alla sua foga, mi incanto ad ammirare la sua figura sensuale e imponente e l’espressione persa nell’estasi sessuale. 
Ad un tratto, nel cerchio di fuoco che lo circonda appare una frusta fiammeggiante, che sferza l’aria e schiocca a pochi centimetri da me, facendomi irrigidire per lo sconcerto. Essa ondeggia senza criterio a destra e a sinistra, come quella di un gatto, mi ipnotizza e mi priva della facoltà di ragionamento. Scivolo con lo sguardo per tutta la sua lunghezza e a stento soffoco un urletto sorpreso quando scopro che è attaccata all’osso sacro di Samael. Una coda. Sam ha una coda?! Sono sconvolto. Beh, non dovrei meravigliarmi, in fondo è un demone e i demoni vengono ritratti da secoli in questo modo, muniti di corna e coda. Mancano solo le zampe caprine… mica ha pure le zampe caprine?! Controllo le sue gambe, ma ancora sono umane. Esalo un sospiro di sollievo. 
Un ringhio di Samael, il pungolare dei suoi artigli sui miei fianchi e lo schioccare della sua coda mi riportano con i piedi per terra. Anzi, con la schiena su ciò che rimane del letto. “Scusa, mi sono distratto” vorrei dirgli, ma non me ne dà l’occasione.
China il busto in avanti, ingabbiandomi con la sua considerevole mole, leggermente più grande del normale. Mi scruta con desiderio e con un’intensità tale da strapparmi l’ossigeno dai polmoni. Continua a spingere come un invasato, talmente forte che per un secondo credo voglia spezzarmi in due. Non si ferma nemmeno per permettermi di riprendere fiato. È tutto caotico, animalesco, primitivo, selvaggio. Non l’avevamo mai fatto così. Mi tiene le gambe ben aperte, piegato su di me come un leone in procinto di sbranare la preda, e il suo fiato bollente mi inonda la faccia. Intravedo delle zanne protrudere dalle sue labbra e immagino di sentirle penetrare ripetutamente nella mia carne, col medesimo ardore con cui il suo membro mi scava dentro. All’istante vengo pervaso da una cascata di brividi e un’ondata di piacere mi travolge. 
Appena mi coinvolge in un bacio passionale decido di piantarla di pensare e spengo il cervello, abbandonandomi con un’imbarazzante sinfonia di gemiti alla tempesta che mi brucia nei lombi, consapevole che Samael non mi farebbe mai del male, altrimenti sarei già spirato da un bel pezzo.
Quando si svuota dentro la mia carne chiudo gli occhi, trattengo il respiro e tendo i muscoli, invaso da fiotti di lava che inceneriscono ogni residuo di lucidità. Raggiungo l’apice anch’io con un grido, inarcando la schiena e offrendogli il collo, che lui marchia con i denti aguzzi senza esitare. 
In lontananza odo l’allarme antincendio risuonare per tutto l’hotel, ma adesso non sono in grado di elaborare un piano di fuga. Fatico persino a muovere un dito.
Le fiamme si estinguono da sole, come risucchiate da un buco nero, e Samael si accascia con uno sbuffo appagato sopra di me, schiacciandomi sotto il suo dolce peso. La coda e le corna spariscono e il suo aspetto torna ad essere quello che conosco, così familiare e “normale” che quasi rischio di commuovermi. Alcuni ciuffi dei suoi capelli mi finiscono in bocca e li sputacchio via con indolenza. Mi stanca persino respirare.
“Alastor.” mi chiama con voce bassa e virile.
Singhiozzo e rabbrividisco di piacere. Ogni volta che quel timbro vocale unico mi stuzzica le orecchie, mi ritrovo a sperimentare la sensazione che proverebbe un cocktail a venire shackerato dalle mani esperte di un barista. Se il cocktail fosse un essere vivente e senziente, ovvio. Perché sentirlo pronunciare il mio nome deve farmi questo effetto? Perché i neuroni vanno in sempre in vacanza? Pensa, Alastor, pensa! Resta presente e non gettare nel cesso la dignità, se mai l’hai avuta. 
“Dobbiamo filarcela.” aggiunge.
“Mh.”
“Ora.”
“Mh.”
“Alzati.”
Calo le palpebre a mezz’asta e lo sbircio irritato: come faccio ad alzarmi se non si sposta lui per primo?
Odo uno scricchiolio inquietante, seguito da un rumore metallico e uno scatto improvviso, poi le molle cedono. Cadiamo a terra con un tonfo attutito, mentre un grosso buco al centro del materasso pare accusarci della grazia inesistente con cui ci siamo approfittati di lui. Delle piccole piume bianche vorticano intorno a noi, che restiamo immobili e silenziosi, con i corpi ancora saldamente allacciati.
“Sul serio, l’astinenza ti fa male.” borbotto, “Come facevi prima di incontrarmi?”
“Tra demoni non ci si fa problemi.”
“Oh. Quindi eri un playboy?” domando, senza curarmi di nascondere una punta di fastidio.
“Da quando ti ho preso con me non c’è stato nessun altro. Sei tu il mio compagno, ti ho scelto e ti ho allevato affinché lo diventassi.”
“Cosa? Era tutto calcolato?!” esclamo basito, ma arrossisco comunque.
Questa è una dichiarazione in piena regola e l’emozione che mi pervade mi fa sorridere come uno scemo. Lo abbraccio forte e strofino il naso sulla sua spalla. 
Poi Samael tira su la testa e mi fissa.
“Alastor.” proferisce serio.
“Dimmi.”
“Dobbiamo uccidere il pollo.”
Roteo gli occhi esasperato.
“No, no, ascolta.” insiste piccato, “Non possiamo andare per hotel e distruggere camere ogni notte, non è educato e attireremmo l’attenzione. Già abbiamo attirato quella degli Spennati giunti poco fa a Firenze, perciò non vorrei-”
“Che? Exurge Domine?!” 
“Stanno arrivando, sì. Ecco perché ti ho detto che dobbiamo filarcela.”
“E di chi è la colpa?!” lo rimprovero in tono aspro e gli schiaffeggio blandamente un braccio.
“Del pollo.” dichiara tranquillo.
“E perché?”
“Se non si mettesse sempre in mezzo e non ci rompesse le scatole con una sistematicità frustrante, a quest’ora sarei fresco come una rosa.” annuisce con una nota di solennità, del tutto fuori luogo.
“Sei tu la bestia, non fare lo scarica barile! Dai, togliti, dobbiamo scappare in fretta.”
Faccio per alzarmi, ma Samael mi blocca per le spalle e me le stritola in una morsa ferrea.
“Ahi!” 
“Ti interessa più lui che il tuo maestro e padrone?”
Sgrano gli occhi e lo guardo confuso: “No, certo che no.”
Deglutisco, a un tratto intimorito.
“Chi è il tuo maestro, Alastor?”
“T-tu.”
“E il tuo padrone?”
“Ehm… tu?”
“Non devi esitare. Perché hai esitato? Avresti dovuto rispondere a colpo sicuro.” 
Mi afferra i capelli sulla nuca e li strattona all’indietro, esponendo il mio collo alle sue zanne. 
“Ngh!” reprimo un guaito e inizio a tremare.
“Per te devo esistere solo io, io sono più importante di qualunque altra cosa o persona. Giuro che ti incatenerò se cercherai di fuggire via da me. Sono stato chiaro?” ringhia feroce, poi affonda i denti nella mia gola come una belva affamata, quasi voglia aprirvi uno squarcio.
Il terrore mi annoda lo stomaco e le sue parole categoriche rimbombano nel mio cervello con la forza di mille gong, riecheggiano senza sosta, mi attraversano le membra indolenzite fino alla punta dei piedi, rimbalzano da un’estremità all’altra e mi scuotono dall’interno come scariche di elettricità. La sua voce riesce sempre a schiacciarmi più del suo corpo, è satura di potere e annienta ogni tentativo di ribellione, facendomi sentire minuscolo e vulnerabile, inerme come un agnellino. Quando se ne approfitta, come adesso, mi riduce ad un animaletto ammaestrato, incapace di disubbidire all’ordine impartito con così tanta veemenza e autorevolezza. Ormai ho cessato di crucciarmi per questo, perché ho scoperto che mi piace essere sottomesso a Samael, dato che so per certo che non ricorrerebbe mai alla violenza, né fisica né psicologica, per ammansirmi. Lo fa e basta e tale atteggiamento fermo e deciso, da maschio alfa, mi aiuta a ricordare lo scopo ultimo della mia esistenza: soddisfarlo e renderlo fiero di me. 
Forse l’esperienza vissuta con mio padre ha distorto la mia percezione dell’affetto, forse mi ha influenzato più di quanto sarei disposto ad ammettere e mi ha reso ciò che sono, cioè una specie di masochista. Da piccolo non riuscivo a contrastarlo, provavo una paura cieca quando entrava in camera mia durante la notte ed ero più che sicuro che, se non avessi represso i moti velenosi del mio animo, mi avrebbe fatto ancora più male. 
Samael non è come mio padre, non ha mai avuto bisogno di alzare le mani su di me, non è nel suo stile, ma quella sensazione di essere dominato da una forza fuori dalla mia portata è rimasta ben radicata nel mio spirito e nei miei ricordi. Però la differenza sostanziale risiede nella consapevolezza che il maestro tiene a me più di quanto ci teneva mio padre. Samael non mi usa solo per sfogare i suoi istinti carnali, bensì mi vuole, mi desidera e mi vezzeggia proprio come farebbe un amante dolce e premuroso. Anzi, tra noi c’è un legame assai più profondo, intessuto in anni e anni di vicinanza, anni che abbiamo trascorso vivendo a stretto contatto, in una simbiosi perfetta. Rispetto, stima e fiducia: queste sono le parole chiave che definiscono la nostra relazione. E a me piace credere che ci sia ancora l’amore, seppur contorto e strano. D’altronde, anche dopo averla a lungo studiata, non sono ancora riuscito a carpire la natura intrinseca di un demone, in particolare di uno così criptico come Samael. Nonostante questo, sono convinto che i suoi sentimenti, per quanto difficili da decifrare, siano quanto di più prossimo ci sia all’amore. Sono sentimenti che trascendono le mere definizioni umane ed esulano da ogni convenzione. 
Rifletto sulle parole che ha pronunciato poco fa, le analizzo e alla fine comprendo quale emozione lo anima, allora la paura evapora in un soffio. Il sorriso rassicurante che vorrei regalargli si deforma subito in una smorfia di sofferenza a causa della sua stretta d’acciaio, ma non desisto.
“Non essere geloso…” rantolo, tentando di non badare alla sua mandibola serrata sul mio collo come una tenaglia, “Io amo solo te, lo sai. Sei tutto per me, non potrà mai esserci qualcun altro. Ti appartengo completamente e non ti lascerò mai. Sei un padre, un fratello, un amico, una guida e un amante. Sei tutta la mia vita. E fidati, non mento se ti dico che vorrei essere ancora umano per poterti donare ogni singola goccia del mio sangue, per essere in grado di saziare la tua brama non solo col mio corpo, ma anche con la mia essenza vitale… ah!”
Compiaciuto dalla mia risposta, comincia a succhiare la ferita che mi ha inferto, poi la lecca e la bacia con delicatezza per lenire presto il dolore. Il suo viso è più disteso adesso. 
“Ti amo, Samael.” sospiro.
Sarebbe bello se potesse aprire il mio petto e stringere tra le sue dita il mio cuore, che batte solo per lui. Forse a quel punto la finirebbe di preoccuparsi di questioni futili, come se fossi davvero in grado di voltargli le spalle dopo tutto questo tempo. Non è più possibile e nemmeno voglio farlo. Sono suo, gli appartengo. Per l’eternità.
Con le labbra mi sfiora la mascella e risale fino a stamparmi un bacio sulla guancia.
“Non tradirmi.” sussurra al mio orecchio, in una preghiera che mai è stata espressa in modo così diretto.
Percepisco il suo turbamento e la tristezza che deriva dal pensiero di esserne io stesso l’origine, di essere stato io ad aver alimentato involontariamente simili sentimenti negativi, mi folgora come un fulmine e fa germogliare in me i sensi di colpa.
“Non lo farò, promesso.” lo abbraccio con più enfasi e aderisco a lui come se volessi far fondere i nostri corpi.
“Tu sei mio, Alastor.”
“E tu sei mio?” domando, dandogli un pizzicotto giocoso sul fianco.
“Sì.” risponde sincero.
Lo bacio e gli accarezzo la nuca per calmarlo: non mi piace quando si arrabbia. È assai probabile che la sua ansia sia dovuta anche all’astinenza e alla presenza dell’angelo. Anzi, sono convinto che questi siano almeno due dei fattori fondamentali. Chissà da quanto cova in sé tali pensieri. 
A causa del quantitativo di lavoro che siamo chiamati a svolgere ogni notte, accompagnato da un cospicuo ammontare di stress, è difficile trovare il tempo per condividere qualcosa che non siano opinioni su contratti, ma mi impongo l’obiettivo di non trascurarlo più e racimolare anche solo dieci minuti per stargli accanto. Inoltre, Samael non ha mai smesso di preoccuparsi per me e lo dimostra sempre con piccoli gesti, come acquistare delle torte squisite appositamente per farmi contento. Le attenzioni che mi riserva sono rimaste immutate negli anni e con quelle torte, ma non solo, cerca di farmi capire che il suo affetto è sempre vivo. Samael non è il tipo da prodigarsi per il prossimo, non è un buon samaritano e la compassione è estranea alla sua natura. Non riempie qualcuno di attenzioni senza un valido motivo, ma, se lo fa, significa che ci tiene davvero. Ho dato spesso per scontate molte cose e mi riprometto che non lo farò mai più.
“Ti amo.” bisbiglio di nuovo. 
Lui mi sorride dolce, strusciando il naso sul mio. 
“Ma il pollo non lo uccidiamo.” ribadisco serio.
Schiocca la lingua e si imbroncia. Quanto può essere adorabile? In determinate circostanze, come questa, mi assale la voglia di coccolarlo e viziarlo.
Delle voci provenienti dal corridoio del nostro piano ci riscuotono dalla tiepida bolla che ci ha avviluppati e realizziamo subito che si tratta dei vigili del fuoco. Stanno sbraitando ordini in tono concitato e urgente e pare che vogliano buttar giù la porta della nostra camera.
“Leviamo le tende.” mi esorta Samael, alzandosi in piedi con agilità e recuperando i nostri vestiti, miracolosamente intatti.
Ci ricomponiamo alla velocità della luce e usciamo dalla finestra, sicuri che nessun mortale potrà vederci.
“Exurge Domine in vista?” indago, mentre voliamo sopra i tetti di Firenze.
“No, siamo ancora in vantaggio.”
“Perché gli abiti non sono bruciati come tutto il resto?”
“Li ho protetti con un incantesimo, sennò avremmo dovuto scorrazzare per mezza città nudi come vermi.”
“Sei pure lungimirante! Proprio un ottimo partito. Perché non ti ho ancora sposato?” lo prendo in giro.
Volta di scatto la testa verso di me e mi scruta enigmatico, con un’espressione che non riesco a decifrare. Rabbrividisco senza motivo e l’aria si fa satura di tensione. Non capisco cosa ho detto di strano. Se è l’argomento matrimonio che lo ha turbato, stavo scherzando. 
Però gli sono veramente grato per aver risparmiato i nostri vestiti, perché il portachiavi di Marco è ancora integro nella tasca destra del cappotto. Resisto stoicamente alla tentazione di giocherellarci: non voglio subire un terzo grado dal maestro, non adesso che sembra essersi rasserenato. Sono più che certo che si infurierebbe e per oggi ne ho avuto abbastanza dei suoi scatti d’ira, sebbene la sua costante apprensione per la mia incolumità non possa che farmi piacere. Mi fa sentire importante.
“Beh? Ti è piaciuto?” ghigna sornione.
Avvampo e confesso: “È stata un’esperienza davvero… mistica.”
Mi sfiora la mano e intreccia le dita con le mie, mentre i suoi bellissimi capelli fluttuano nel vento in morbide spirali corvine e gli occhi guizzano di un bagliore rossastro.










 

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Sangue sulle piume ***







 


Chiudo gli occhi e inspiro, incamerando un po’ d’aria fresca nei polmoni. Il cielo è coperto da una spessa coltre di nubi, ma qua e là è possibile scorgere il bagliore delle stelle. Forse pioverà. 
Di ritorno dall’hotel, dove finalmente io e Samael abbiamo condiviso un momento di carnalità dopo mesi, mentre i nostri passi riecheggiano sui muri dei palazzi e i lampioni rischiarano l’oscurità con la loro fioca luce, ascolto gli sporadici suoni notturni che mi giungono alle orecchie: il miagolio di un gatto, il fruscio di qualche sacchetto di plastica abbandonato sul marciapiede, i capricci di una caldaia, un’anta che sbatte, il cigolio di un cancello. 
Samael cammina al mio fianco in silenzio, lo sguardo dritto innanzi a sé. Le nostre mani sono ancora intrecciate e nessuno di noi vuole interrompere il contatto. Trovo che sia un gesto molto intimo, più di un bacio: la sensazione della sua pelle sulla mia, la percezione delle nostre dita che si incastrano in un’armonia perfetta, la durezza delle sue unghie in contrasto con la morbidezza dei polpastrelli, il suo palmo che aderisce al mio con una naturalezza disarmante. La consapevolezza che mi è vicino, non solo fisicamente, mi scalda dentro e al contempo mi innervosisce. Vorrei ritrarmi e mettere distanza tra noi, ma una parte di me rifiuta di allontanarsi, incapace di concepire anche solo l’idea di separarsi da questa fonte di benessere, non ora che l’ho riscoperta dopo settimane di astinenza. Forse è un pensiero puerile, non sono mica una ragazzina che si emoziona a camminare mano nella mano col proprio fidanzato, ma qualcosa si agita nel mio stomaco. Non so come descriverlo. È un misto fra compiacimento, felicità, aspettativa e paura. Vorrei che questi attimi durassero in eterno, io e Samael a passeggiare per le strette vie del centro storico fiorentino, di notte, nel silenzio, con solo le stelle e i lampioni a fare da testimoni. Però so che appena varcheremo la soglia dell’appartamento la bolla che ci avvolge scoppierà e la realtà tornerà a bussare alla porta della mia coscienza. 
È possibile fermare il tempo? I demoni possono riuscirci? Avevo smesso di temere l’incedere inesorabile del futuro, vivevo alla giornata senza preoccuparmi di cosa sarebbe accaduto l’indomani o il giorno seguente. Adesso, invece, mi spaventa. È la paura dell’ignoto, il terrore che pervade l’uomo quando realizza che il domani non esiste ancora, c’è solo il vuoto. Aristotele lo chiamava horror vacui, la natura che aborrisce il vuoto e perciò lo riempie costantemente. Noi riempiamo il domani di pensieri, progetti, supposizioni, fantasie, uno sforzo inutile che tuttavia ci consente di accettare quel vuoto, quella mancanza, quella non esistenza. È un meccanismo di compensazione, che ci aiuta ad accogliere il sonno e riposare sereni, sicuri che una nuova alba sorgerà e che tutto ricomincerà da capo. Ma se non dovesse esserci niente? Se il domani non arrivasse? Non voglio che arrivi, non voglio che mi strappi via questo istante, così raro e prezioso da farmi desiderare di custodirlo per sempre, intatto, al riparo dallo scorrere del tempo.
Eppure sono già passati undici anni dal mio primo incarico a Londra e diciannove da quando ho iniziato l’apprendistato sotto l’egida di Samael. Mi pare trascorsa un’eternità, invece è stato veloce. Ecco che quasi vent’anni della mia vita sono volati senza che me ne accorgessi, una vita vissuta al limite dell’umana comprensione. 
Samael si pone mai queste domande? Avendo vissuto molto più di me, mi chiedo se qualche volta abbia provato nostalgia, se si sia mai guardato indietro o se si sia fermato a pensare al tempo che gli è scivolato via dalle dita come la sabbia di una clessidra. Se si osserva il passato, si deve fare i conti col rimpianto oppure con il sollievo di averlo superato, ma non credo che a Samael interessino simili emozioni. È pragmatico, i suoi ragionamenti sono più logici e concreti di quello che ci si aspetterebbe da una creatura come lui, un demone che esiste al di fuori del tempo e dello spazio e che non risponde alle leggi terrene. 
Sono curioso di scoprire se il baratro che ho sempre avvertito tra noi non dipenda invece da un puro atto di volontà: la volontà di cancellare il concetto di distanza e ricondurre il tutto alla semplice nozione di esistenza. Non più un “qui” e un “ora”, soltanto “essere”. Io sono, Samael è, noi siamo. Fine della storia. È un modo come un altro di vedere le cose, di certo è la prospettiva più comoda. Però, al contrario, siamo vincolati al “qui” e “ora” e non possiamo disfarcene a piacimento. Tutto scorre, tutto passa, tutto sfuma e si disintegra in un perpetuo divenire, un processo inarrestabile che tiene il mondo in equilibrio. Molti filosofi hanno ipotizzato che senza il tempo la stessa esistenza verrebbe a mancare. La vita è strettamente collegata ad esso e se il tempo cessasse sarebbe solo morte. La morte è non essere. Io, invece, voglio essere, qui e ora, con Samael. Ma cosa sarebbe meglio? Essere per sempre, in un'immobilità simile alla morte, o essere in divenire, sempre nuovi a noi stessi?
“A cosa pensi?”
La domanda di Samael, proferita in un sussurro delicato, mi risveglia. Sbatto le palpebre e mi giro a guardarlo.
“A tutto e a niente. Cose filosofiche.” rispondo con una scrollata di spalle.
“Mh. Cose filosofiche dopo una scopata coi fiocchi?”
Scoppio a ridere e gli tiro una spinta giocosa, mentre anche lui ridacchia tra i denti.
“Ci siamo, manca poco.” dice sorridendo.
“Lo so, conosco la strada.”
Mi stringe la mano per un secondo, poi la solleva e se la porta alla bocca, depositando un bacio casto sul dorso. 
“Smettila.” borbotto fingendomi infastidito.
Samael ghigna, si abbassa e lambisce con la lingua calda il lobo del mio orecchio destro. Allora decido di stare al gioco. Ringhio, mi sporgo verso di lui e mimo un morso, ritirandomi un attimo dopo con una mezza risata. I suoi occhi hanno un guizzo improvviso e lo sbircio mentre si umetta le labbra.
“Cosa c’è?” chiedo stranito.
“Vorrei che mi mordessi.”
Inarco un sopracciglio e mi volto a scrutarlo con aria perplessa, continuando a camminare.
“Lo faccio spesso quando siamo a letto.”
“Non sul serio. Mi mordi, ma è come se tu avessi paura di farmi male.”
“Uhm, non ci ho mai fatto caso.”
“Io sì.”
“E come vorresti che lo facessi?”
“Con violenza. Come se desiderassi strapparmi la carne dalle ossa, farmi a brandelli, dilaniarmi.”
Mi fermo di colpo e lo squadro dal basso con gli occhi fuori dalle orbite.
“Sei masochista?” esalo, folgorato dalla rivelazione.
“No, sono un sadico, se proprio vogliamo tirare in ballo i ruoli. Ciò che intendo è che mi piacerebbe sentire i tuoi denti che affondano senza riserve nella mia pelle, quasi tu volessi sbranarmi. Non so, questa fantasia mi eccita.”
“Tu vuoi che io ti morda.” ripeto con voce assente.
“Sì.”
“Quindi vuoi il dolore.”
“Non so cosa sia.”
“Proprio per questo lo vuoi. Speri che io sia in grado di dartelo. In pratica, desideri sperimentare emozioni forti.” gli scocco un’occhiata divertita, “Mai tentato con lo sport estremo?”
“Preferisco il sesso estremo.” dichiara lapidario, sfoggiando pure un cipiglio severo.
Al che scoppio a ridere di gusto, tanto che devo appoggiarmi a lui per non cadere.
“Ride bene chi ride ultimo, Archie.” cantilena in tono casuale.
Un istante più tardi realizzo quello che ha detto e mi blocco di nuovo, piantato con i piedi sull’asfalto del marciapiede. Mi ha chiamato per nome. Il mio nome umano. Gli avevo espressamente domandato di non farlo più, ma il modo in cui se lo è lasciato sfuggire, così spontaneo, mi fa pietrificare in preda allo sconcerto e alla sorpresa. Percepisco qualcosa muoversi a livello del cuore, stavolta, e mi duole ammettere che è dannatamente piacevole. Deglutisco, strizzo le palpebre per scacciare il moto di nostalgia che mi ha assalito e svio il discorso con un sorriso falso.
“Dai, muoviamoci. Speriamo che l’angelo non abbia combinato guai mentre non c’eravamo.”
“Se lo ha fatto, non importerà quanto lo difenderai: le sue ali diventeranno cuscini in uno schiocco di dita.”
Un minuto dopo faccio scattare la serratura con un movimento delle dita e spalanco la porta. Tutto l’ambiente è immerso nel buio, ad eccezione della luce gialla che filtra dalla fessura sotto la soglia del bagno. Deduco che l’angelo sia andato a farsi una doccia: ci ha preso gusto da quando l’ha fatta con me.
Le tende delle finestre dovrebbero essere tirate per non far penetrare nemmeno il più irrisorio raggio di luce, sia artificiale che naturale, ma, a causa delle palle fiammeggianti che Samael ha scagliato contro il pennuto mancando il bersaglio, ora sono annerite e sbrindellate e presentano grossi buchi sfilacciati che le privano di ogni utilità. Dovrei sostituirle. Anche i mobili sono tutti bruciacchiati e alcuni sono stati fracassati e sfondati. Abbiamo ripulito il pavimento dalle schegge, ma non ci siamo disturbati ad acquistarne di nuovi. Beh, sarebbe il minimo, dato che l’appartamento non è nostro. È una questione di educazione.
Scambio un’occhiata furtiva con Samael e lo vedo aggrottare le sopracciglia. Sembra preoccupato per qualcosa. Continua a fissare intensamente la porta del bagno e confesso che mi sta facendo montare l’ansia. 
Sospiro per darmi un contegno. Scrollo la testa, poso la valigetta sul divano e mi tolgo il cappotto. Getto un’occhiata in cucina e la trovo in disordine, quasi che in quei pochi metri quadrati si fosse scatenato un tornado di dimensioni ciclopiche in nostra assenza. Schiocco la lingua frustrato: sicuramente c’è lo zampino dell’angelo. Sul serio, dovrei insegnargli le buone maniere.
Sto per recarmi in camera da letto, quando odo dei deboli singhiozzi provenire dal bagno. Mi paralizzo. Incrocio di nuovo lo sguardo di Samael e un brivido mi risale lungo la schiena. Sembra una statua, per quanto è immobile. Ma è la sua espressione granitica a provocarmi agitazione, soprattutto perché non ne conosco la causa. 
Restiamo fermi per pochi attimi, poi il mio corpo decide di muoversi da solo, come se un burattinaio stesse giocando con dei fili invisibili collegati ai miei arti. Scatto in avanti e scardino con un calcio violento la porta del bagno, chiusa a doppia mandata. Essa ruota sugli infissi e sbatte sul muro con un fragore assordante, che nel silenzio dell’appartamento pare il boato di un tuono.
L’angelo è rannicchiato sulle piastrelle del pavimento, completamente nudo e intento a dondolarsi sulle piante dei piedi. La faccia è nascosta nelle ginocchia, avvolte dalle braccia magre, ed è scosso da forti tremori, quasi avesse freddo. La sua pelle chiara appare traslucida, segno che non deve aver finito la doccia da molto e non si è ancora asciugato. I capelli rossi e umidi sono appiccicati sul collo e i ciuffi ribelli della frangia ricadono sulla fronte. Se ne sta accucciato in un angolo, a destra rispetto al lavandino, accanto al termosifone spento, e i suoi deboli lamenti strozzati, simili a pigolii sofferenti, mi straziano il cuore. 
Il vetro dello specchio è appannato, ma su di esso noto una striscia più nitida, come se qualcuno ci avesse passato sopra una mano per levare la condensa e ammirare il proprio riflesso.
Perché piange?
“Hey…” lo chiamo prudente, a bassa voce, per non allarmarlo.
Mi avvicino in apprensione, mi piego e protendo lentamente una mano verso di lui. Calpesto qualcosa, che scricchiola e si spezza con un rumore secco sotto la mia scarpa. In questo momento mi accorgo che intorno alla sua figura ci sono delle piume - una marea di piume - a cui in principio non ho badato perché si mimetizzano con le mattonelle bianche. Sono tutte ammonticchiate disordinatamente le une sulle altre, alcune delle quali macchiate di sangue nero.
Dio. È successo.
Blocco il gesto a metà e lascio la mano sospesa a mezz’aria. Contemplo sbalordito la sua schiena, aderente alla parete: non c’è più alcuna traccia delle sue splendide ali. Mi accascio a terra stordito, a poco più di un metro da lui, senza parole, inaspettatamente annientato a questa vista. Le braccia si adagiano lungo i fianchi, prive di forza, e il mio corpo si svuota di ogni energia, mentre una tristezza infinita e opprimente mi invade.
Fisso la sua chioma piena di morbidi boccoli scarlatti nel vano tentativo di scorgere i suoi pensieri e in seguito il mio sguardo scivola ancora sulle piume sparse sul pavimento, più lunghe del palmo di una mano. Ne raccolgo una dal mucchio, la sfioro con riverenza, ne traccio il profilo con un dito e l’accarezzo dolcemente, rapito e incantato, ma anche disperato. Non è giusto. È una cosa orribile. Un angelo non può perdere le ali, è… contro natura! È sbagliato, profondamente sbagliato. Cosa gli è capitato? Perché è caduto? Come? Accidenti, non dovrei pensare questo. Io e Samael non vedevamo l’ora che succedesse, anzi era di vitale importanza che l’angelo perdesse le ali, ma adesso non riesco a concepire come… maledizione! Non posso accettarlo, io non… ecco, è come guardare un bambino a cui viene strappata via l’innocenza, con forza e crudeltà. A nessuno dovrebbe essere permesso di sporcare la purezza di un bambino e gli angeli sono il simbolo della purezza. Lo so, lo so, era necessario, doveva accadere, ma…
“Sam… aiutami. Aiutalo.” soffio senza voltarmi, ipnotizzato ad ammirare lo spettacolo lugubre dinanzi a me.
La morte cala nel mio cuore e un senso di vuoto lo stritola in una morsa dolorosa.
Gli incessanti singhiozzi dell’angelo mi ridestano dal torpore e in un secondo sono su di lui, a cingergli le spalle tremanti in un abbraccio confortante. Lo stringo al mio petto e affondo il viso nei suoi capelli profumati, serrando le palpebre per sopprimere l’ondata di angoscia che mi ribolle dentro, in attesa di esplodere sotto forma di grida. Lo cullo, lo coccolo, cerco di trasmettergli calore e tranquillizzarlo, sussurrandogli che va tutto bene, che sono qui con lui, che non lo lascerò solo. Pian piano i suoi gemiti si placano e abbandona la sua posizione per avvinghiarsi a me e sedersi sul mio grembo. Lancio un’occhiata alla sua schiena nuda, la palpo e scopro che è liscia e levigata. Non vi sono cicatrici o ferite, però, indubbiamente, la sensazione che provo è straniante, poiché in questi pochi giorni mi ero abituato a toccare le ossa delle ali attaccate alle scapole. Gliele ho pure lavate col sapone, le ho sfiorate, le ho accarezzate, ci ho strusciato sopra la faccia. Adesso non c’è più niente.
Rimaniamo così per un lasso di tempo incalcolabile. Infine l’angelo alza la testa e mi mostra le sue iridi bianche, impregnate di struggente sofferenza.
“Laeriel.” dice a un tratto rompendo il silenzio, con l’inflessione vocale tipica di un ragazzino che è appena entrato nella pubertà.
“Eh?”
“Il mio nome è Laeriel.”
Un improvviso scampanellio mi risuona nel cervello e vengo travolto da uno stranissimo senso di familiarità, come se questo nome, Laeriel, non mi fosse affatto nuovo. Eppure non mi pare di averlo mai udito. È piuttosto quella singolare emozione che ti coglie quando hai l’impressione di aver già vissuto qualcosa in un sogno, ma non ricordi né cosa né chi né quanto tempo fa l’hai sognato. Non è un déjà vu, concetto prettamente legato alla vista, quanto un’idea che prende forma dalle orecchie e ti fa pensare “Ah, sì, mi sembra di averlo già sentito da qualche parte”. Io lo conosco. Conosco questo angelo, ma non rammento dove o quando l’ho incontrato. Forse ero troppo piccolo, nel periodo in cui la memoria non è ancora sviluppata, o forse è stato proprio in un sogno, chi lo sa. Comunque ne sono certo: lo conosco. Qual è il nostro legame? Perché mi ha seguito per tutti questi anni? Perché io?
“Chi sei?” chiedo in un bisbiglio.
Mi sorride e mi bacia sulla guancia: “Sono tuo amico.”
“Perché ora parli?”
Si esibisce in una smorfia amara, immensamente afflitta, e scruta le piume sparpagliate sul pavimento.
“Come hai fatto a cadere dalla grazia di Dio?”
“L’ho rinnegato.”
“Perché?”
“Era l’unico modo per starti accanto. Ora però sto meglio, il dolore è quasi svanito.” mi rassicura con un sorriso dolce.
Vorrei domandargli come mai è così attaccato a me, tanto da rinunciare alla Luce. Vorrei sapere quando ci siamo incontrati, qual è il suo piano e cosa lo ha spinto a compiere un atto estremo come rinnegare il Creatore per una ragione tanto ridicola come rimanere con me. Chi mai respingerebbe tutto ciò che c’è di buono a questo mondo per stare con uno come me? Posso capire Samael, ma lui non ha mai rinunciato a niente, non ha mai fatto sacrifici pur di restare al mio fianco.
È colpa mia. In qualche modo devo aver indotto un angelo a privarsi delle ali e questo è un crimine che non potrò mai cancellare. È imperdonabile. Dio, cosa ho fatto? 
Sono obbligato a ricacciare indietro tutti i miei interrogativi, perché Samael si staglia sulla soglia del bagno senza dire una parola, con l’espressione seria e indecifrabile. Lo guardo turbato, non so come gestire la faccenda, non so cosa dire o cosa fare. Cosa succederà adesso? Come sopravvive un angelo subito dopo la Caduta? Il maestro mi ha raccontato che è stata molto dura all’inizio, ma non abbiamo tempo per occuparci di un neo-demone, non quando abbiamo degli Exurge Domine alle calcagna.
Laeriel si nasconde tra le mie braccia, raggomitolandosi ancora di più, e ricomincia a tremare, forse spaventato dalla possibilità che Samael possa fargli del male ora che è più vulnerabile. Però, al di là di ogni più remota fantasia, Samael si avvicina, si accuccia alle mie spalle e mi circonda in un abbraccio, comprendendo per forza di cose anche l’angelo. 
Il mio stupore è grande e la confusione minaccia di farmi uscire gli occhi fuori dalle orbite, ma al contempo provo sollievo. Piego la testa indietro, poggio la nuca sulla sua spalla e premo le labbra sulle sue in un bacio casto e impregnato di gratitudine, che lui ricambia pigramente sforzandosi di apparire svogliato, sebbene la scintilla che sta bruciando nei suoi occhi di lava suggerisca che non è affatto dispiaciuto per questa tenera effusione. Quando ci stacchiamo e torniamo a rivolgere la nostra attenzione su Laeriel, notiamo che ci sta studiando timidamente.
Accenno un sorriso e gli accarezzo una guancia con gentilezza. Lui imita il mio gesto e ricambia, mentre avverto lo sguardo di Samael su di noi. Temo ancora che siano due bombe a orologeria pronte a esplodere al minimo stimolo e proprio non ci tengo a trovarmi in mezzo a due fuochi, ma forse posso tenere sotto controllo la situazione. Io sono il collante, l’anello di congiunzione, forse l’unico capace di sgonfiare i loro bollenti spiriti. E devo dare atto al maestro che sta compiendo un notevole sforzo per non abbandonarsi a scenate di gelosia in questa circostanza, lo apprezzo moltissimo.
“Sam.”
“Mh?”
“Dovrai aiutare Laeriel.”
“Lo so.” mormora sul mio collo.
“Non essere troppo severo con lui.”
“Non posso non esserlo. Non c’è tempo per andarci leggeri. Sarà un corso accelerato.”
“Ok, solo non…”
“Non gli farò del male, non è più un nemico. Non mi sta simpatico, lo ammetto, ma è dalla nostra parte e pertanto potrebbe rivelarsi un alleato prezioso.”
Annuisco e mi lascio coccolare da un angelo e un demone che, rispettivamente uno davanti e uno dietro di me, iniziano ad accarezzarmi i capelli e cospargermi il viso di baci. Li lascio fare, li accetto entrambi, e spero che imparino ad andare d’accordo.
Presumo che l’apprendistato di Laeriel comincerà domani e mi riprometto che lo guiderò anch’io al massimo delle mie possibilità. Farò la mia parte, non mi va di venire tagliato fuori. D’altronde, l’angelo è più legato a me che al maestro, perciò suppongo che la responsabilità sia più mia che sua. Prego solo di non commettere errori da principiante e salvaguardare al meglio l’incolumità psichica di Laeriel. Fino a poche ore fa era la creatura più vicina a Dio e ad un tratto non lo è più. Lo sosterrò per aiutarlo a superare lo shock, anche se non ho idea di cosa si prova. Samael lo sa e potrà istruire Laeriel al meglio, tuttavia ribadisco fra me e me che un po’ di dolcezza potrebbe indorare un po’ la pillola e rendergli la situazione più facile da affrontare. 
Il demone farà a modo suo, l’uomo diabolico anche.
Il sentiero che sto per imboccare è impervio e costellato di ostacoli, ma confido nelle mie capacità. Inoltre, Samael resterà con me, quindi se dovessi scivolare lui mi prenderà al volo, come sempre. Non so cosa mi riserverà il futuro d’ora in avanti, mi fa paura l’ignoto, detesto non avere certezze, ma giuro che non lascerò mai andare le loro mani. 
“Facciamo le valige, Alastor. Dobbiamo andare.” mi esorta Samael alzandosi.
“Adesso?” protesto, deluso dal non sentire più le sue labbra e le sue mani su di me.
“Sì. Il tempo è scaduto. Ci rimettiamo in viaggio.”
“Per dove?”
“Dove i piani alti ci diranno di andare.”
“D’accordo. Dacci solo qualche minuto per ricomporci. Potresti vedere se ci sono dei vestiti per Laeriel?”
“Qualcosa di tuo gli andrà bene, per ora.”
“Ok. Mi serve una camicia e un paio di pantaloni.”
“Vado a prenderteli.”
Fa per uscire dal bagno, ma lo fermo prima che raggiunga la soglia: “Cosa ne facciamo delle… delle piume?”
“Non c’è bisogno di fare alcunché. Guarda.”
Si china, ne afferra una e chiude la mano a pugno. Quando la riapre sul suo palmo c’è soltanto un mucchietto di cenere.










 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Il fattore E ***








 

Il silenzio della notte mi culla come neanche mia madre è mai riuscita a fare. È una muta ninnananna che spazza via i pensieri e mi fa sentire più leggero, anche se solo per poche ore, che mi appaiono sempre come attimi troppo brevi, troppo sfuggenti. Il luccichio delle stelle non è invadente né disturbante, anzi rendono l’oscurità più bella da guardare e percepire. Eppure, il silenzio non è mai tale: è piuttosto un insieme di suoni quieti e gentili, che uniti insieme creano una melodia piacevole all’orecchio di chi l’ascolta. C’è il delicato sciabordio dell’acqua che si infrange sulla riva e sulle chiglie delle barche e il cigolio delle assi di legno delle banchine dei piccoli moli a cui sono ormeggiate, il soffice e fresco venticello primaverile che soffia tranquillo tra le fronde degli alberi, il ronzio dei lampioni, il battito delle ali di un piccione, l’incedere felpato di un gatto sul tetto di una casa. I respiri regolari dei mortali dormienti, immersi in chissà quali sogni.
Seduto su una panchina lungo uno dei numerosi canali in cui si divide il fiume Amstel, osservo il cielo di Amsterdam, nostra dimora da circa otto mesi, mentre Laeriel struscia la guancia sulla mia spalla e strofina il naso sul mio collo.
“A cosa pensi, Archie?” chiede bisbigliando.
“A niente.”
“Lo dici tutte le notti, ma so che non è così.”
“Lo è.”
“Dopo il lavoro vieni sempre qui, ti siedi su questa panchina e alzi la testa per contemplare il firmamento. Spesso emetti dei sospiri. Sei triste?”
È vero, mi sento triste, per tale motivo cerco conforto nel silenzio e nel cielo, così da potermi illudere di essere libero per pochi istanti.
“Forse sono solo stanco.” mormoro dopo un po’, in tono assente.
“Perché guardi in alto?”
“Non lo so.”
“Credi di trovarci Dio?”
“Non lo so.”
Laeriel mi circonda i fianchi con le braccia, mi attira verso di sé, solleva una mano e comincia ad accarezzarmi i capelli.
“Sta’ tranquillo. Va tutto bene.” sussurra.
Le sue parole riescono a lenire appena la mia sofferenza interiore, ma è già qualcosa. Sembra che sia sempre in grado di capire quando ho bisogno di un abbraccio, o anche soltanto di comprensione. Stranamente con lui non mi sono mai sentito in dovere di mascherare le mie emozioni e debolezze, come se sapessi per certo che non mi avrebbe giudicato né schernito. È probabile che tale sensazione derivi dal fatto che Laeriel era un angelo fino a pochi mesi fa e non è stato ancora corrotto per intero. Mentre Samael è un demone da millenni e ormai ha abbandonato la Luce definitivamente, ho quasi l’impressione che il mio nuovo amico dai capelli rossi continui a conservare una scintilla divina dentro di sé. Con lui sono al sicuro, posso essere me stesso senza temere di deluderlo. Ecco, forse è questo il problema: per anni ho desiderato compiacere Samael, renderlo fiero di me mostrandogli quanto potessi essere forte, degno del suo rispetto e della sua fiducia. Così ho seppellito tutti i sentimenti e i pensieri inopportuni nei recessi più profondi della mia coscienza, in maniera tale che il maestro non potesse scorgerli nemmeno per sbaglio. Con lui mi sento obbligato ad essere perfetto, impeccabile in ogni minuscolo dettaglio, all’altezza delle sue aspettative, ma con Laeriel è diverso. Laeriel mi è vicino. A volte ho l’impressione di conoscerlo da sempre e di aver sempre saputo che lui era accanto a me, in qualunque frangente della mia vita, triste o felice che fosse. Che cosa stupida.
“Rientriamo?” domanda cauto.
“Non ancora.”
“Solo se mi dici che cosa ti tormenta. È da mesi che ti vedo ridotto così e non mi piace. Non inganni neanche Samael, per quanto tu ti ci metta di impegno. Lui lo ha notato. Parlane con me, sbarazzati del fardello prima che sia lui ad importi di farlo.”
Roteo gli occhi esasperato, sospiro di nuovo e abbozzo un sorriso stanco. Avere a che fare con due demoni - se prima, quando ne accompagnavo soltanto uno, non fosse stato già abbastanza chiaro - significa gettare alle ortiche la propria privacy e mettersi a nudo completamente. È snervante, perché non mi è permesso tenere quasi nulla per me, avere dei segreti o riflettere per conto mio su qualcosa senza che qualcuno ci ficchi il naso. Talvolta sogno di mollare tutto, rifugiarmi in cima a un monte e diventare un eremita. Probabilmente è questo che intendeva Samael quando mi disse che non sarei mai rimasto solo. E che cavolo?! Se solo lo avessi capito in tempo, mi sarei risparmiato un sacco di grattacapi.
“Alcune settimane dopo essere arrivati qui ho ritrovato il portachiavi di Marco.” confesso con voce mesta, “Era nella tasca interna del mio cappotto. Sai, credevo di averlo perso e per un po’ avevo smesso di pensarci. Me l’ero buttato alle spalle, capisci? Avevo buttato via tutto, quell’oggetto e il bagaglio di problemi e crisi esistenziali che mi aveva causato. Quando me lo sono ritrovato in mano, però, i ricordi relativi a quella notte sono tornati a galla. Sai chi era Marco, vero?”
“Sì, lo so. Ero lì.” bisbiglia.
Infilo una mano dentro la tasca interna ed estraggo il portachiavi, lasciandolo penzolare da un dito. Il suo movimento oscillante ci ipnotizza per qualche attimo e osserviamo in silenzio come la luce dei lampioni si riflette sull’ippopotamo stilizzato.
“Ho anche ricordato il giorno del mio rapimento, quando mi hai lanciato questo portachiavi attraverso la porta di quello scantinato, come se volessi restituirmelo. Perché l’hai fatto?”
“Secondo te perché l’ho fatto?”
“Non ne ho idea.”
“Bugiardo.” sorride e mi guarda.
I suoi occhi bianchi mi scrutano con una tale intensità da farmi credere che possa leggermi nella mente. Anche con Samael ho sempre provato questa sensazione, l’essere un libro aperto alla totale mercé del lettore curioso. Lo detesto. Distolgo lo sguardo da Laeriel e lo punto sul portachiavi.
“Questo portachiavi è importante.”
“Deduzione corretta. E un punto va ad Archie!” ironizza.
“È importante per me.”
“Due punti!”
“Nasconde un segreto.”
“Mmm… mezzo punto…?” fa una smorfia esitante.
Ridacchio scuotendo la testa: “Forse è la chiave per capire qualcosa.”
“Tre punti e mezzo.”
“Per capire il segreto dell’universo!” scherzo, mentre lancio il portachiavi in aria e lo riafferro al volo.
Laeriel resta zitto, al che mi giro e mi imbatto nella sua espressione indecifrabile. È serio, ha smesso di sorridere, ma le sue iridi stanno brillando, in un certo senso. Quasi riesco a vedere delle deboli fiammelle che ardono all’interno.
“Dieci punti, Archie.”
Mi irrigidisco di colpo e sgrano le palpebre. Rimango immobile col portachiavi adagiato sul palmo della mano, quasi si tratti di una bomba.
“In che senso? Cosa vuol dire?”
“Questo è solo un portachiavi, ma è ciò che significa per te a dargli un valore. È un po’ come il detto umano ‘non è bello ciò che è bello, è bello ciò che piace’. Dal momento che qualcosa ti piace, per te diventa bella. Dal momento che questo portachiavi per te è importante, si è guadagnato un valore inestimabile.”
Aggrotto le sopracciglia e fisso l’oggetto come se dovesse rivelarmi chissà quali misteri.
“Gli Exurge Domine lo volevano. Dicevano che emanava l’aura di una sorta di reliquia sacra, anche se non lo è.” proferisco piano.
“Sei stato tu a conferirgliela.”
“Io? E come?”
“Attraverso i sentimenti che hai provato per Marco. Erano sentimenti puri, Archie.”
“Oddio… quindi questo coso è pieno di… Luce? Energia benevola?”
“Direi di sì.” sorride e torna ad appoggiare la guancia sulla mia spalla.
“Ma Samael deve essersene accorto! Lui percepisce queste cose!”
“No, non lo sa. E non dovrà mai saperlo, ok?”
Prende la mia mano e me la fa chiudere a pugno sul portachiavi. Mi alzo in piedi di scatto e arretro di qualche passo, fissandolo per la prima volta con genuina diffidenza.
“Laeriel, perché lo fai? Cosa stai tramando?”
“Ti voglio bene, Archie. Anzi, ti amo. Voglio solo vederti felice. Fidati di me.”
“Come posso fidarmi dopo quello che mi hai detto? Sa tanto di… cospirazione. Samael… lui deve sapere.”
“No!” esclama agitato, balzando in avanti, “No. Fidati di me, Archie.”
“E vuoi metterti in testa una buona volta che mi chiamo Alastor?! Sono mesi che te lo ripeto.”
“Tu sarai sempre Archie.” replica testardo, mentre si allunga per aggrapparsi al mio cappotto.
“Archie non esiste più. Sono Alastor, adesso, un fedele seguace ed emissario di Lucifero.” dichiaro sicuro.
Il sorriso che mi scocca è insinuante e al contempo indulgente: “Come vuoi.”
“Non trattarmi come un bambino capriccioso!” sbotto infastidito.
“Ma lo sei!” ride e si solleva sulle punte dei piedi per stamparmi un bacio a fior di labbra, “Sei il mio bambino.” sussurra con affetto.
Il suo fiato caldo mi accarezza il mento e senza volerlo rabbrividisco di piacere.
“Non sono tuo. Appartengo a Samael.” borbotto con voce roca.
“Indubbiamente.” annuisce e si allontana.
D’accordo, è giunta l’ora di ammetterlo chiaro e tondo: non ci sto capendo un’acca. Che intenzioni ha Laeriel? E perché è così fissato con me? Lui non vuole dirmelo, Samael non ne ha la più pallida idea ed io non so più che pesci prendere.
A causa della violenza con cui migliaia di domande si affollano nella mia mente, non mi accorgo di stare stringendo nel pugno il portachiavi di Marco, così forte da far sbiancare le nocche. Quando la mano inizia a farmi male mi ridesto e metto a tacere il turbine di emozioni che mi hanno travolto all’improvviso, un miscuglio di rabbia e frustrazione. Infilo il portachiavi all’interno del cappotto e serro la mascella, più deciso che mai ad estorcere dalla bocca di Laeriel le risposte che cerco. Sono stufo di prestarmi come cavia per creature soprannaturali, che si divertono a giocare con me come un burattino da manovrare a loro esclusivo piacimento. 
“Voglio che mi spieghi, Laeriel. Se non lo farai, spiffererò tutto a Samael appena rientriamo.” lo minaccio.
Adesso è lui ad irrigidirsi.
“Non lo farai.” mi sfida.
“Credo proprio di sì, invece.”
“No.”
“Sì.”
Serra le labbra in una linea retta e mi scruta in profondità, forse nella speranza di trovare qualche traccia di menzogna. Ma, purtroppo per lui, non sto affatto mentendo. Lo dirò a Samael, come avrei dovuto fare l’anno scorso, subito dopo aver spedito l’anima di Marco all’Inferno.
Si volta stizzito e torna a sedersi sulla panchina. Accavalla le gambe, fasciate da un paio di jeans neri aderenti, e incrocia le braccia sul petto, coperto da una t-shirt nera col simbolo di Superman. Samael lo lascia vestire come gli pare, ma i suoi gusti in fatto di abbigliamento lasciano molto a desiderare. Beh, non ho mai criticato Laeriel - ok, forse una o due volte -, ma comunque potrebbe sforzarsi un po’ di più per apparire raffinato o quantomeno per avere un aspetto presentabile. Invece quella zazzera rossa perennemente arruffata e i vestiti da adolescente con tendenze punk gli conferiscono un’aria ribelle, che non mette esattamente a loro agio i clienti, come al contrario dovrebbe essere. Affari suoi.
Si imbroncia, sbuffa ed evita il contatto visivo, ma vedo che è lì lì per cedere. Trascorre un minuto di silenzio, poi si decide a parlare. Tento di trattenere un ghigno trionfante e tossisco, facendo finta di schiarirmi la gola.
“Il legame che ti unisce a Marco è indefinito, ma comunque spesso e resistente. Sebbene vi siate conosciuti per la prima e ultima volta una notte di circa un anno fa, le vostre essenze sono entrate in contatto, così come i vostri cuori e le vostre menti. Vi siete toccati, vi siete incastrati e alla fine fusi, e grazie al portachiavi che hai rubato non vi siete mai davvero lasciati. Marco è rimasto una presenza costante nella tua vita, una sorta di tiepida energia che ti avvolge in una specie di abbraccio e ti consola quando ti senti perso. Non è così?” mi provoca. 
Non rispondo, ma non posso negarlo. Non mi è mai successo di attaccarmi in questo modo ad un altro essere umano. Anche se ormai Marco è morto, il nostro legame è rimasto solido e intatto. È sopravvissuto a causa del mio gesto, ovverosia l’essermi appropriato di qualcosa di suo, quasi non volessi accettare il fatto di aver pronunciato io stesso la sua sentenza. Il portachiavi è un monito, mi ricorda con insistenza l’errore che ho commesso e la mia condizione, forse irreversibile: sono un demone, sono dannato per definizione, ma quando ho guardato quel ragazzo precipitare nelle fiamme eterne mi sono domandato se veramente debba essere fiero di me stesso e di ciò che sono diventato. 
Essere un demone è un dono? Ho sempre pensato di sì. È come dire che sono un supereroe? No, piuttosto un antieroe. Non proteggo i deboli, coloro che si lasciano tentare dal Male, io li distruggo. 
Forse essere un assistente del Diavolo non è poi una carica così virtuosa e giusta come mi aspettavo. Per certi versi mi pare di agire per il meglio e contribuire attivamente per ripulire il mondo dalla feccia; per altri, dalla sera in cui Marco ha posato i suoi occhi puri e ingenui, ma al contempo maturi, su di me, la mia concezione della realtà è cambiata. Se finora ero proteso verso un obiettivo ben preciso, adesso sto ancora una volta compiendo un passo indietro per osservare le rovine che ho seminato alle mie spalle, indeciso se continuare a camminare o fermarmi. Odio contraddirmi e tornare sulle mie decisioni, ma quando ci ripenso non posso farne a meno.
Ad ogni modo, il legame con Marco, se paragonato a quello che ho instaurato con Samael, chiaramente non regge il confronto, vuoi per la complicità, vuoi per la reciproca conoscenza che mi avvicina al maestro. Mi fido di lui, eppure non mi sono fidato abbastanza da raccontargli del portachiavi.
“Non hai mai parlato apertamente con Samael, hai scelto di tenerti tutto dentro piuttosto che accettare le conseguenze.” prosegue Laeriel, “Non posso fartene una colpa e secondo me, per quello che vale, hai fatto bene. Avevi paura della sua reazione, vero?” 
“Sì.” sospiro e vado a sedermi accanto a lui, “Non si è mai infuriato con me e non mi ha mai urlato contro. Talvolta è stato severo, ma la sua è una severità pedagogica, ha lo scopo di insegnare una lezione e mostrare con una logica ineccepibile gli errori che mi capita di fare. Si siede accanto a me, mi fissa negli occhi ed espone fluidamente il suo punto di vista, intavolando un discorso privo di contraddizioni che mi conduce sempre alla realizzazione dei miei sbagli. Non è una persona intransigente, non mi ha mai imposto delle regole insensate, e quando mi redarguisce non c’è traccia di disapprovazione nel suo sguardo, piuttosto condiscendenza. Però le sue parole, sempre articolate in tono gentile, risultano alle mie orecchie anche tassative, perentorie, penetrano dentro di me e mi incatenano come una grande palla di piombo legata saldamente a entrambe le caviglie, che mi impedisce di marciare spedito in una direzione, secondo i miei ideali.”
“Ti controlla perché tu vuoi farti controllare da lui. Non puoi lamentartene adesso, saresti un ipocrita. Tu adori essere controllato da Samael.”
“Io…” stringo le mani a pugno e chiudo gli occhi, “Io sono sempre stato controllato. Mio padre mi controllava, avvertivo sempre il suo fiato sul collo, anche quando non era presente. Per me è naturale essere controllato.”
“Eppure aneli alla libertà come un assetato a una goccia d'acqua. Hai sempre vissuto in gabbia e forse hai pensato che Samael ti avesse regalato le chiavi per uscirne e disfarti delle catene, ma così non è. Non sei mai uscito e questo anche perché tu non vuoi uscire. O magari lo vuoi, ma non abbastanza intensamente. Desideri sbarazzarti veramente del giogo di Samael?”
Rifletto a lungo sulla risposta e alla fine esalo arreso: “No, non voglio.”
“Perché?”
“Perché…” scuoto il capo e mi incanto a fissare il cielo, in cerca delle parole giuste, “Sai, una caratteristica di Samael che apprezzo molto è la capacità di ascoltare senza giudicare. È un demone e per di più millenario. Anzi, è più vecchio del mondo stesso, letteralmente. Di conseguenza, il suo approccio alla realtà e alla quotidianità è diverso da come potrebbe essere quello di un essere umano, poiché lui ragiona in maniera differente, al di fuori di ogni schema noto. La sua scala di valori non condivide che pochissimi punti con quella dei mortali, e ciò che un uomo comunemente considera sbagliato per lui, invece, è giusto e viceversa. I suoi metodi potrebbero non essere proprio ortodossi, moralmente parlando, eppure non falliscono mai e centrano sempre il bersaglio. E poi, dai, parlare di morale quando c’è di mezzo un demone è un paradosso. Mi ha sempre guidato con pazienza sul cammino che ho scelto, sa tutto di me. Non mi sono mai sentito a disagio per questo, bensì sono felice di aver trovato qualcuno che mi accetta a dispetto dei miei difetti e del mio passato. Non mi ha mai fatto pesare niente, spronandomi, al contrario, a lasciarmi dietro tutto quanto, a crescere e a trasformare le mie debolezze in punti di forza. Ha tanti pregi, non lo si può negare, ma per quanto riguarda la suddetta scala di valori mi domando se io sia costretto a farla mia e ad adottare il suo punto di vista senza obiettare, facendo leva sul fatto che Samael è il mio maestro e la mia sola ancora in questo mondo. Dovrei prendere ogni suo insegnamento alla stregua di oro colato? Dovrei assentire ad ogni regola o dato di fatto che esprime con naturalezza e fascino disarmante, come un procedimento matematico e inoppugnabile? Mi ha aperto gli occhi su parecchie questioni, mi ha aiutato a ragionare e a capire i meccanismi dell’universo; lo ammiro, gli sono devoto e grato, ma devo veramente pensare come lui? Devo acquisire i suoi stessi metri di giudizio? Lui non è…”
“Chi è il tuo maestro, Alastor?”
“Tu.”
“E il tuo padrone?”

Mi piego in avanti, appoggio i gomiti sulle ginocchia e nascondo il viso tra le mani. Sento che Laeriel mi posa una mano sulla spalla per trasmettermi conforto.
“Lui ha potere su di te perché tu vuoi che lo abbia.”
“Dovrei rifiutarlo e rivendicare l’autonomia che non ho mai avuto?”
“No.”
“Allora cosa?!” sbotto frustrato.
“Puoi deciderlo tu.”
“Ah ah. Grazie. Mi sei stato di grande aiuto. Tutto questo cianciare per poi non arrivare a nulla.” sibilo sarcastico.
“Beh, possiedi il libero arbitrio, in fin dei conti, quindi puoi fare quello che ti pare.”
“Indipendentemente dal fatto che le mie azioni siano giuste o sbagliate? Dio cosa ne pensa del libero arbitrio? Si è mai pentito di avercelo dato? Non siamo stati certo dei figli modello da quando ci ha creati. Li aveva appena plasmati, quand’ecco che Eva mangia la mela e la dà ad Adamo, disobbedendo ai Suoi ordini, e la frittata è fatta. Perché non dice chiaramente ciò che si può e non si può fare?”
“Archie, che domande fai? Lui si è incarnato in Gesù Cristo e prima ancora ha usato Mosè e le sue tavole per guidare l’umanità sulla retta via. Il non averGli dato ascolto è solo colpa vostra, non Sua.”
“Hai ragione, non dovrei parlare così. Solo che…”
“Non capisci perché Lui permetta al Male di esistere. Pensi a tuo padre.”
“Sì.”
Laeriel rilassa le spalle e si stravacca sulla panchina, con le braccia appoggiate sullo schienale e lo sguardo rivolto al cielo.
“Vedi, Laeriel, gli umani sono complicati. Quando si discute di morale e di etica, nonché di religione, non si può stabilire dei canoni fissi, come se si stesse parlando di un concetto scientifico. La fisica e la matematica si fondano su regole esatte, dalle quali, se poste come basi solide, si può cominciare ad argomentare sui massimi sistemi del mondo. In un certo senso sì, qualcosa posso affermare con la sicurezza di un matematico, perché ormai per me è un dato di fatto, per quanto molte persone non ci credano: Dio ha creato l’uomo a Sua immagine e somiglianza, ma nonostante questo l’uomo è fallace. Detta in termini matematici, da A è nato B, ma A non è B; ed è valido anche il contrario. Ciò significa che Dio non è uomo e l'uomo non è Dio, sebbene siano 'imparentati'. Per alcuni aspetti l'uomo è uguale a Dio, quindi B è in parte uguale ad A, perché Dio durante la creazione ha posto nell'uomo una scintilla divina. Poi abbiamo C ed D, rappresentati rispettivamente dagli angeli e dai demoni, i quali influenzano solo ed esclusivamente B, cioè l’uomo. Tuttavia, gli angeli sono a loro volta influenzati da Dio. Senza contare che angeli e demoni sono nati da Dio, proprio come gli uomini. Dio non ha creato i demoni, poiché essi sono una… corruzione degli angeli, ma il legame che continuano ad avere con Colui che li ha messi al mondo permane. Ne scaturisce una formula insensata e allo stesso tempo piena di potenziali risvolti interessanti. Immagina che questi elementi, ossia A, B, C e D, siano come particelle in perpetuo movimento, che vibrano e cozzano appena entrano in collisione. Potrebbero fondersi a coppie, per esempio A con C e B con D, vale a dire Dio con gli angeli e gli uomini con i demoni, ma potrebbe accadere anche una fusione del genere: Dio con gli angeli e gli uomini, mentre i demoni restano fuori. Tutti e quattro, comunque, sono uniti dal fattore E. Questa minuscola variabile è il filo conduttore che viene ignorato, il collante per eccellenza, ciò che rende possibile la relazione fra questi elementi e che forse potrebbe fungere da input decisivo per innescare una reazione chimica e alterare le loro caratteristiche. Chissà, magari è l’anima, magari è la morale, o magari una sostanza indefinibile e sconosciuta insita in ogni essere vivente, terreno e ultraterreno, la matrice che accomuna tutte le creature e che, forse, ha origine da Dio.”
Laeriel soffoca a fatica una risata divertita e mi assesta una pacca sul braccio: “Beh, quel che è chiaro è che non sei mai stato un asso nelle discipline scientifiche.”
“Ero l’incubo del mio insegnante privato. Ci ho messo due mesi per capire le divisioni.” sorrido sghembo e ridacchio.
“Ne deduco che tu voglia individuare il fattore E.”
“Vorrei, sì. Quantomeno per comprendere me stesso e il mio ruolo nel mondo. Se riuscissi a trovare una risposta, potrei liberarmi definitivamente dei crucci esistenziali e proseguire nel mio cammino a testa alta, senza esitazioni, ripensamenti o timori. Essere un ibrido mi disorienta e nel mio caso è uno stato contraddittorio dell'essere, poiché la natura umana e demoniaca non si sono ancora fuse e armonizzate come speravo facessero. Lottano dentro di me ogni giorno e generano domande su domande, sbalzi d'umore, depressione, esaltazione e incertezza.”
“Mmm, beh, intanto è un bene che tu abbia conservato la facoltà di analisi e discernimento, segno che non ti sei trasformato in un robot.” scherza Laeriel, assestandomi una leggera gomitata sul braccio.
“Magra consolazione. E se invece ti dicessi che a volte mi sembra di essere diventato davvero un robot, nel cui chip della memoria sono state registrate delle frasi che sono costretto a pronunciare all’infinito con la medesima intonazione? Se decidessi di esprimere tutto quello che ho dentro e commettessi degli errori? E se me ne pentissi? Samael mi ha elargito molte lezioni utili, ho appreso una valanga di informazioni stupefacenti stando al suo fianco, ma devo davvero continuare su questa strada? Non mi riempie di gioia considerarmi alla stregua di un cagnolino ammaestrato che ripete a pappagallo tutto ciò che ha imparato dal suo padrone. Per quanto tale padrone sia amorevole e premuroso.”
“Pensi a Samael come il tuo padrone?”
“In un certo senso lo è, perché io gli ho permesso di diventarlo.”
“Vedo che ci sei arrivato.”
“Da un bel pezzo, anche, e non riesco ad oppormi a questo legame. È la mia linfa vitale, la fune che mi tiene sospeso sull’abisso, il mio faro, il mio porto sicuro. Non voglio privarmene. La verità è che… vorrei condividere con lui ogni cosa, fargli vedere ogni aspetto di me e convincerlo a fare lo stesso. Per quanto mi abbia raccontato della sua Caduta e della guerra che l’ha preceduta, non si è mai aperto con me. Non so, forse è perché non ha niente da dire, forse perché non mi considera all’altezza o forse perché, direttamente, non gliene frega niente del passato. Magari non sa nemmeno provare emozioni, è solo bravo a simularle. È questo che mi spaventa: io non conosco Samael. Mi fido di lui, mi ha sempre protetto, ha vegliato per anni su di me, ma… manca qualcosa. A volte ho l’impressione che la nostra ‘relazione’ sia univoca, con me che mi prostro ai suoi piedi appena schiocca le dita e lui che mi fa la carezzina sulla testa quando mi comporto bene, solo per blandirmi e farmi contento, non perché provi affetto per me.”
“Lo sai che Samael è geloso.”
“Sì, lo ha dimostrato.”
“Se prova gelosia, significa che non è estraneo ai sentimenti.”
“Penso che quello che prova sia… attaccamento morboso. Non mi ama come lo amo io. Non ne è capace.”
“Lo ami veramente, eh? Ami un demone?”
“Lo so, è da masochisti.”
“Che c’è di male?”
“Nulla, gliel'ho già confessato. Però non ha fatto una piega, non mi ha risposto che mi ama pure lui, e una parte di me teme che stia solo giocando. Da un lato posso capirlo, perché in teoria l'amore rappresenta 'il male' per i demoni, dato che è un sentimento puro e tutte le cose pure derivano da Dio.”
“Mi stai dicendo che è proibito?” inarca un sopracciglio e mi scruta perplesso.
“No, credo sia solo… inopportuno. O meglio, forse lo è per Samael. Io, grazie alla mia natura ibrida, penso di essere giustificato... bah, non lo so. Comunque, i demoni non provano amore, giusto? Quindi non se ne preoccupano. Eppure ci sto male se solo accarezzo il pensiero che sia tutto falso.”
“Lo ami a dispetto della consapevolezza che lui non ti ricambierà mai, perché non è nella sua natura amare.” riassume Laeriel, ma la sua voce sembra lontana, assente, “Lo ami nonostante tutti i dubbi che hai su di lui, nonostante ti tratti come un animaletto domestico con cui a volte sfogare i propri istinti sessuali, nonostante tu abbia dichiarato poco fa di non conoscerlo.”
“L’amore non è razionale.”
“Già ed è questo che rende voi umani così affascinanti e belli, Archie. Avete la possibilità di essere irrazionali, seguite gli impulsi e il vostro animo può essere soggetto a continui cambiamenti. Gli angeli e i demoni, invece, sono creature ‘statiche’. Noi non mutiamo nel tempo e le nostre emozioni sono limitate, pure un po’ superficiali. In questo, nella capacità di provare sentimenti profondi e vari, sta la vostra grandezza. Siete la Sua opera più riuscita!”
Mi giro a fissarlo sgomento: “Alt, frena. Cosa sono questi discorsi? Dovresti provare ribrezzo per l’umanità, non simpatizzare con essa. Sei un demone ora, hai perso le ali, perciò non dovresti più essere in grado di vedere la bellezza negli uomini. E perché diavolo stai elogiando l’opera di Dio, quando il nostro compito, e quindi anche il tuo, è distruggerla?”
“Tu affermi di essere un demone, eppure hai visto la bellezza in Marco. Vuoi venire a fare la predica a me? Trovi davvero che sia tutto da buttare?”
“No, ma… la mia matrice è umana, sono diverso da te.” lo scruto severo e annego nelle sue iridi bianche, “Da che parte stai, Laeriel?”
“Dalla tua.” risponde in tono ovvio.
Se non lo ritenessi poco fine, grugnirei tutto il mio disappunto. Accidenti, parlare con Laeriel è quasi peggio che parlare con Samael: entrambi a volte sono così enigmatici da farmi salire la disperazione.
Traggo un respiro profondo, serro la mascella e cerco di rilassarmi, mentre attingo alla calma interiore che ho in serbo per situazioni stressanti come questa, dove il mio non capire si trasforma in un Cerbero pronto a divorarmi. Devo restare lucido e non lasciarmi trasportare dalla rabbia, è una questione di sopravvivenza.
“Torniamo a casa.” ordino secco. 
Mi alzo e abbandono la panchina e il canale che ogni notte mi tengono compagnia, con la tacita promessa di tornare domani.
“Glielo dirai?” mi chiede Laeriel saltellando a un paio di passi di distanza, di fronte a me.
“Cosa?”
“Del portachiavi.”
“No, non oggi.” sbuffo grattandomi la nuca.
Annuisce vago e trotterella ancora più avanti, canticchiando un motivetto che non riconosco. I capelli rossi e pieni di soffici boccoli tagliati in un elegante caschetto si muovono seguendo il ritmo dei suoi saltelli, le mani sono intrecciate dietro la schiena e le gambe magre si flettono con leggerezza. Sembra quasi che stia su un prato fiorito invece che sul ruvido cemento del marciapiede.
Attraversiamo un ponticino e ci dirigiamo verso il Prinsengracht, uno dei canali principali. Ho scoperto che deve il suo nome proprio al principe d’Orange. Poi imbocchiamo il Leidsegracht e raggiungiamo l’Herengracht. In seguito svoltiamo a destra e tutto dritto fino a Koningssluis, proseguendo per Koningsplein e infine affacciandoci sul Singel. La casa a due piani che abbiamo “preso in prestito” è vicina alla biblioteca universitaria di Amsterdam: si tratta di una villetta a tre piani, con stanze strette e soffitti alti, un po’ angusta ma confortevole. I muri esterni sono dipinti di un tenue rosso e sui davanzali delle finestre fanno bella mostra di sé dei vasi di fiori, che ho comprato per dare quel tocco in più.
Abbiamo appena imboccato Heiligeweg, perciò altri due minuti scarsi di cammino per arrivare alla meta, quando all’improvviso Laeriel blocca il suo irritante saltellare e si gira di tre quarti verso di me. Mi scruta con un sorrisino saputo e di rimando inarco un sopracciglio, senza arrestare il passo. Aspetta che mi accosti a lui, poi riprende a camminare tranquillo.
“Stavo pensando…”
“Quando pensi bisogna correre ai ripari.” borbotto cupo.
“Antipatico. Comunque, pensavo al tuo fattore E, il collante per eccellenza.”
“E allora?”
“Potrebbe essere ciò che provi per Samael. È innaturale e irrazionale, ma vi tiene uniti. Ovviamente è solo una teoria.” 
Mi scocca un’occhiata in tralice, come per sondare le mie reazioni, ma non faccio in tempo a rispondere che una voce familiare ci richiama entrambi all’ordine.
“Laeriel, Alastor, siete in ritardo. Ditemi che non siete rimasti di nuovo a bighellonare per la città.”
“Ehm… vedi, noi…” farfuglio imbarazzato, a testa bassa.
“È pericoloso, gli Exurge Domine potrebbero essere ovunque! Pare ce ne siano cinque qui ad Amsterdam, ma di certo è molto meglio della cinquantina di stanza a Berlino o della quarantina a Parigi. Per non parlare di Londra! Un vero focolaio infernale. Quante volte vi ho detto di…”
Mentre lo ascolto rimproverarci - ormai è diventata routine -, lo osservo attentamente, sincerandomi di non risultare sgarbato. Appena i miei occhi si posano sulla sua splendida figura, che si staglia in cima alla piccola rampa di scale prima della porta d’ingresso, avverto il mio cuore mancare un battito e fermarsi per un secondo, per poi cominciare a correre come un forsennato. 
L’amore sarebbe il fattore E?










 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Giusto e sbagliato ***








 

Socchiudo appena le palpebre quando sento un fruscio di lenzuola a poca distanza da me. Spio Samael mentre, completamente nudo, perlustra la camera da letto alla ricerca dei suoi vestiti, lanciati alla rinfusa in qua e là poche ore fa. Il sesso è stato magnifico, anche se i fianchi indolenziti mi impediscono di muovermi senza sembrare ingessato. Osservo Samael, la sua schiena muscolosa, i bicipiti gonfi, le ossa iliache, la curva del sedere - tutto da mordere - e le gambe sode e tornite. Deglutisco e avverto l’erezione risvegliarsi ancora una volta, nonostante la stanchezza fisica. Lo vedo infilarsi i pantaloni - non ha mai portato le mutande, dice che non gli servono - e il suono della cerniera che si chiude sa di sporco, chiara testimonianza del rapporto appena consumato. Mi mordo il labbro inferiore e il ricordo di quanto avvenuto sino a poco fa mi spedisce ondate di calore alle guance.
Samael indossa la camicia, celando al mio sguardo la sua ampia schiena, e se le abbottona.
“Alastor, dopo tutto quello che abbiamo fatto hai ancora voglia?” mi provoca.
Sussulto, colto in flagrante. Spesso mi chiedo come diavolo faccia a sapere sempre come mi sento, in particolare mentre mi dà le spalle. È sleale.
“No. Cosa te lo fa pensare?”
“Stai emanando feromoni a tutto spiano.”
Si gira con un ghigno saputo dipinto sulle labbra - quelle labbra che mi hanno divorato di baci e morsi - e ammicca sornione.
“Non sto emanando proprio niente! Il tuo naso non funziona bene.” replico, nascondendomi imbarazzato sotto il lenzuolo.
Nella stanza cala il silenzio, ma un secondo più tardi percepisco il suo peso su di me, che mi preme sul materasso e mi ingabbia precludendomi ogni via di fuga.
“Ero convinto di averti soddisfatto a dovere, eppure noto che ti è rimasta un po’ di energia.” dice, scostando con uno strattone le coperte ed esponendo il mio corpo senza veli ai suoi occhi carichi di lussuria, “Rimedio subito, che non si dica che sono un maestro negligente che trascura il suo adorato pupillo.” soffia suadente direttamente sulla mia pelle.
Mi solleva i fianchi e in un istante il mio membro sparisce all’interno della sua bocca. Un inferno bollente mi avvolge stretto in una guaina umida e mi fa gemere in maniera oscena. Mi inarco e afferro le lenzuola già stropicciate, cercando di controllare l’istinto di muovere le anche e andare incontro ai suoi risucchi, ma è un’impresa epica. Vengo dopo un paio di minuti, svuotandomi nella gola di Samael, che ripulisce tutto con dei giochi di lingua che dovrebbero essere bollati come illegali.
“Sei indecente…” ansimo esausto, fissando il soffitto della camera senza realmente vederlo.
“E tu sei buono.” sorride, leccandosi le labbra lucide a causa dei residui del mio seme.
“Dio.”
“Non nominare il Signore invano, Alastor. Chiama me, piuttosto.” mi incoraggia, mentre mi mordicchia giocoso la pancia.
“Sam.” biascico privo di forze.
“Mh?”
“Resta qui ancora un po’.”
“Il sole è già tramontato, il lavoro ci attende.”
“Non possiamo saltare per una notte?”
“No, lo sai. Coraggio, vestiti. Laeriel ti sta aspettando di sotto.”
“E tu come…?”
“Percepisco la sua presenza. È impaziente. Sbrigati, avanti. Se vuoi continueremo il nostro discorso domani.” ghigna e i suoi occhi hanno guizzo.
Mi schiaffeggia piano il sedere, ma prima di alzarsi si allunga per baciarmi. Gusto il mio sapore nella sua bocca e trovo che non esista nulla di più erotico. Mi lascio mangiare docile per una manciata di secondi, poi Samael si stacca, mi stampa un bacino sul naso e si scosta.
“Devo partire subito, ho tante anime da riscuotere. Tu andrai con Laeriel.”
“Come al solito.” borbotto cupo.
“Vorresti venire con me, come ai vecchi tempi?”
“Sì!”
Ridacchia e scuote il capo: “Ti ci porterò appena Laeriel sarà diventato autonomo. Devi istruirlo nel mestiere in maniera tale che non commetta errori. È ancora inesperto e rischia di combinare un disastro. Non mi fido a lasciarlo solo.”
Grugnisco contrariato, ma se il maestro vuole che vada con Laeriel non posso fare altrimenti.
Dopodiché si chiude la porta alle spalle, abbandonandomi riverso sulle coltri sfatte, impregnate dei nostri odori, in preda all’intontimento post-orgasmo. A fatica rotolo fino alla sponda del letto, mi metto seduto e scrollo la testa per scacciare via il torpore. Mi faccio una doccia veloce, mi vesto e scendo al piano di sotto, dove trovo Laeriel stravaccato sul divano, con le gambe appoggiate sul bracciolo che dondolano in un moto nervoso.
“Eccomi, possiamo andare.”
“Alleluia!” esclama allargando le braccia e alzando gli occhi al cielo.
Sbuffo, agguanto la valigetta accanto all’ingresso e lo precedo in strada. I lampioni sono accesi e alcune persone ancora si attardano a passeggiare tra i negozi e le stradine della città. I canali vengono attraversati da barche e piccoli traghetti stipati di turisti, mentre ragazzi e adulti pedalano tranquilli sulle loro biciclette e le panchine sono occupate da coppiette o famiglie decise a godersi il panorama e l’aria serale prima di andare a cena.
“Qual è la prima tappa?” mi interroga Laeriel, affiancandomi.
“Non lontano.”
“Non ti ho chiesto dove.”
“È una giovane donna. Ha stipulato il contratto per ottenere una promozione al fine di provvedere ai suoi figli. Il marito l’ha mollata per un’altra, lasciandola con tre pargoletti e sull’orlo della povertà, così ha fatto in modo di togliere di mezzo il candidato che la ostacolava nel raggiungimento del suo obiettivo - pare fosse il favorito del direttore - e ora è lei a ricoprire la carica a cui mirava. Stanotte finirà tutto e i suoi figli, ancora studenti, non avranno di che campare. Beh, così va la vita.”
Laeriel mi trotterella accanto con aria pensierosa. Mi stupisco che non stia commentando, di solito non si fa sfuggire l’occasione.
“Ti pare giusto?” domanda dopo poco.
Ecco, ci risiamo.
“Non pensi al destino dei suoi figli? Dove andranno? Cosa faranno? Chi li accoglierà?”
“Il più grande è maggiorenne. Probabilmente interromperà gli studi e si cercherà un lavoro. Con i risparmi che lascerà la madre potranno sopravvivere tutti e tre per almeno un anno. Dovranno tirare la cinghia, certo, ma non finiranno sul lastrico subito.”
“Abbandonati dal padre… e adesso strapperemo loro pure la madre. È crudele. Parenti in vita?”
“Una zia che vive a Dublino.”
“Mh, potrebbero avere ancora una possibilità.”
“Ricoverata per instabilità mentale in manicomio.” aggiungo.
“Oh. Ritiro quello che ho detto.” mormora abbassando il capo.
Prende a osservare per terra, lo sguardo lontano anni luce. Sospiro stanco e mi gratto la nuca, portandomi dietro le orecchie delle ciocche di capelli sfuggite alla coda.
Laeriel mi ha domandato se sia giusto privare la gente dei propri affetti, ma noi emissari non dovremmo porci tali quesiti. Il nostro compito è raccogliere le anime dannate, non dispiacerci per il futuro di coloro che restano. Le persone dovrebbero pensarci prima di firmare il patto, ma egoiste e cieche come sono trascurano dei dettagli fondamentali. Quando il tempo scade e l’Inferno ti reclama, non c’è legame terreno che regga. Gli amori si sfaldano, le relazioni si rompono, tutto si riduce in polvere e la vita degli altri continua.
Guardo il mio compagno di sottecchi e noto la sua fronte corrugata, come se fosse turbato. Non è la prima volta che reagisce in questo modo, ma quando capita è snervante, perché devo ripetergli la medesima lezioncina fino alla nausea: i demoni non si preoccupano per gli umani, quegli umani sono dannati e non meritano compassione, in primis non dovremmo provare compassione, non è più nella nostra natura, quella gente è feccia, eccetera. Tuttavia mi sento veramente a pezzi e non ho voglia di fargli di nuovo la predica.
“Sai, Laeriel, all’inizio mi chiedevo anch’io cosa fosse giusto o sbagliato. È stato forse approvato all’unanimità un metodo infallibile per decretarlo? No, perché tali concetti sono relativi e variano da persona a persona. Per fare un esempio semplice: un adolescente in piena fase di ribellione, che non vuole soffocare la propria personalità a favore di un’autorità, non trova giusto obbedire in tutto e per tutto al genitore, mentre quest’ultimo lo trova più che giusto e anche indispensabile; oppure, per qualcuno che soffre la fame, che non ha soldi né un lavoro per potersi procurare del cibo, è giusto e necessario rubare per sopravvivere, ma per la legge il furto è un reato, perciò sbagliato. Il confine che divide entrambe le idee è molto labile e soggetto ad infinite interpretazioni. Si dice che esistano altrettante sfumature di giustizia quanti sono gli esseri umani sul globo. Se è così, come si può stabilire il confine?”
“Sei tu che lo tracci.” risponde pacato, “Hai il libero arbitrio, Archie. Puoi scegliere di risparmiare quella donna e darle una seconda chance.”
“Sarebbe inutile e sai perché? Perché qualcun altro verrà a prenderla al mio posto, se non oggi, magari domani, e allora? Gli uomini sono gli artefici del proprio destino grazie al libero arbitrio, ma io non sono l’artefice dei destini di tutti quelli che incontro. Non sono un dio. E poi sarebbe una seccatura.”
“Però non sei sempre stato convinto di questo, vero? Hai detto che all’inizio ti domandavi cosa era giusto e sbagliato.” insiste.
“Non solo all’inizio. Il dubbio mi ha tormentato per anni, a fasi alterne. Trascorrevo dei periodi calmi e sereni, durante i quali adempivo con piacere alla mia missione, e altri… un po’ meno spensierati.”
“Come quando hai conosciuto Marco.”
“Sì, come quando ho conosciuto Marco.” soffio laconico, perdendomi nei ricordi.
La mia mano corre a tuffarsi nella tasca interna del cappotto e ne estrae il portachiavi.
Per Samael è giusto quello che facciamo, cioè riscuotere le anime dei peccatori o indurli in tentazione affinché stipulino il contratto e cadano così dalla grazia di Dio, per dimostrare che Egli ha fallito. Anch’io ho sempre ritenuto che fosse giusto nella maggior parte dei casi, ma chissà quante persone come Marco nascono, vivono e muoiono nel mondo ogni giorno: persone che non meritano di soffrire nel fuoco perenne dell’Inferno, ma che anzi sarebbero degne di un’altra opportunità. Da qui, ecco il cruccio che mi tormenta da quella fatidica notte, in cui la mia strada ha incrociato quella del ragazzino umano che ha scombussolato i pilastri che sorreggono il mio castello di certezze: vendere l’anima per salvare qualcuno, e quindi per amore, senza ottenere nulla in cambio, è tacciabile di peccato? Secondo l’ottica religiosa, precisamente cristiana, lo è, perché il peccatore abbandona la fede in Dio e si rivolge alla fazione opposta per ottenere una risposta alla sua preghiera. D’altro canto, si tratterebbe di sacrificio e questo è ritenuto la più alta forma d’amore. È una contraddizione evidente.
Perciò mi chiedo come mai Dio non agisca e lasci i Suoi figli a brancolare nel buio. Egli insegna la carità, la gentilezza, il rispetto per il prossimo e il rifiuto della violenza. Insegna l’amore, in quanto ascesa dell’individuo ad un livello di beatitudine spirituale, in grado di spazzare via i desideri materiali. Ma, di nuovo, il mondo cristiano condanna per esempio l’omosessualità, intesa come devianza e disubbidienza alle regole della Sua parola, basandosi sull’episodio di Sodoma narrato nella Bibbia. Gesù Cristo non ha forse detto “amatevi l’un l’altro”? Quindi, se c’è amore, perché deprecare l’omosessualità? Non è il corpo ciò che conta, ma l’anima. Quando moriamo, abbandoniamo le nostre spoglie mortali sulla Terra e diveniamo pura essenza vitale: da questo enunciato scaturisce il dilemma sulla presunta giustizia della condanna per sodomia. Vero, essa non incoraggia la riproduzione e da un rapporto omosessuale niente è destinato a nascere, ma è davvero così importante far proliferare la specie? “Andate e moltiplicatevi”, così è stato detto. Perché, invece, non dire “Andate ed amatevi”? Amatevi l’un l’altro, andate e moltiplicatevi: due esortazioni che, talvolta, entrano in contrasto fra loro.
Dio ha donato all’uomo l’anima, allora non è questa la cosa più importante? Se qualcuno ha amato in vita a tal punto da sacrificare se stesso, non è meritevole della grazia, sebbene il suo interesse carnale fosse indirizzato verso persone dello stesso sesso?
Non è il caso di Marco, che è morto vergine, ma il concetto alla base è simile: un maschio che ama un altro maschio è colpevole, una donna che ama un’altra donna è colpevole, un infante che sacrifica quanto ha di più prezioso per salvare un amico è colpevole allo stesso modo. Si tratta comunque di forme d’amore. Marco ha venduto l’anima per aiutare il suo migliore amico quando era solo un bambino. Benché ci sia l’attenuante della tenera età, durante la quale non si ha ben chiaro il significato di “bene” e “male”, perché Dio non è intervenuto per farlo desistere? Perché ha permesso che una creatura innocente stringesse un patto con il demonio? I bambini dovrebbero essere immuni a tutto ciò, non dovrebbero nemmeno venire a sapere che esiste il contratto o il Diavolo. Invece, la legge divina pone sul medesimo piano bambini e adulti.
Secondo quale logica distorta vendere la propria anima per amore è condannabile con l’Inferno? Non ha senso. È inconcepibile. Tuttavia, come ho già intuito, se una persona pura si trova costretta a firmare un patto, successivamente, in teoria, dovrebbe ravvedersi e chiedere perdono a Dio con cuore sincero. In tal caso, Dio accorderebbe la sua misericordia e l’anima sarebbe salva. Però non succede quasi mai. Perché? A quanto pare c’è una falla nel sistema, un ingranaggio che non funziona bene, un anello debole che fa traballare tutta la struttura: questo elemento di disturbo credo sia rappresentato dall’uomo stesso, che nei secoli ha modellato la parola di Dio sulle proprie necessità e ha costruito una religione che proclama solo per metà, o meno, il Suo vero messaggio. 
Eppure come si può raccogliere tutta l’umanità in un unico fascio? Per ogni concetto collettivo esistono una o più eccezioni, capaci di mettere in crisi la generalità. Non è possibile condannare gli esseri umani a priori, tutti quanti, perché non tutti sono perduti. Forse il genere umano non merita di essere distrutto, ma solo ridimensionato. O, almeno, occorre che qualcuno indichi in modo netto e preciso la via, così che non ci siano più dubbi.
Non posso parlare a Samael di queste teorie. I demoni come lui, sotto l’egida di Lucifero, vogliono annientare l’uomo per dimostrare a Dio che ha sbagliato a plasmare forme di vita così inferiori, deboli e corruttibili. Ma, forse, l’uomo può essere salvato, forse possiede tutte le potenzialità per riscattarsi dalla sua condizione e innalzarsi verso la Luce.
Sono sempre stato dell’opinione che i mortali - quelli della risma di mio padre o peggio - meritassero una punizione esemplare, persino la distruzione. Poi, dopo aver conosciuto Marco, tutto è cambiato. Qualcosa in me è mutato in maniera irreversibile, anche se tento di non pensarci e dimenticare, e temo che Samael possa accorgersene appena mi distraggo e abbasso la guardia. Non è da escludere che abbia già notato qualcosa, non mi stupirei.  
Sono consapevole che al momento, per quanto cerchi di negarlo a me stesso, mi trovo in una situazione di stallo, pericolosamente in bilico tra le due fazioni, anche a causa dei discorsi di Laeriel. Perché spesso ho l’impressione che mi stia sospingendo nella direzione opposta a quella che ho scelto? Come se volesse distogliermi dall’obiettivo che mi sono prefigurato dal giorno in cui Samael è diventato il mio maestro, come se volesse farmi cambiare idea o mettermi la pulce nell’orecchio affinché mi ribelli alle tenebre.
È pur vero che riscuotere anime non mi ha mai procurato la soddisfazione che immaginavo, poiché ogni volta vengo messo di fronte alla caducità della natura umana. All’inizio della mia carriera ero entusiasta e orgoglioso del mio operato, ma a lungo andare la mia sicurezza ha cominciato a sfaldarsi e disperdersi nella nebbia di domande che mi avvolge. Non sono mai stato davvero contento di scaraventare un peccatore all’Inferno, perché una parte di me veniva puntualmente pervasa dalla delusione e dalla tristezza. Quando si apre il portale penso “ecco, un altro che se ne va”. Non penso mai “fuori un altro, passiamo al prossimo”. È una differenza sottile.
Adesso mi trovo ad un bivio e non ho ancora elaborato una strategia d’azione. Se il legame che mi unisce a Samael, pur essendo blasfemo e imperdonabile agli occhi di Dio, è puro e forte come ho sempre creduto, perché esito ad aprirmi con lui e ad esprimere le preoccupazioni che covo dentro di me? Perché non gli parlo a cuore aperto? Perché non gli espongo il mio punto di vista? Forse perché so che non mi capirebbe, dato che viviamo su piani diversi. Resterebbe ad ascoltarmi fino alla fine, senza dubbio, ma poi troverebbe una valida argomentazione per ribaltare tutte le mie certezze e confutare le mie tesi. 
Sono diventato un emissario di Lucifero per aver rifiutato il Signore, ma sono rimasto umano perché non ho rinnegato veramente i Suoi figli. E cosa sono gli umani se non lo specchio di Dio? Ergo, non l’ho rinnegato del tutto. In fondo, per quanto sia assurdo, io amo l’uomo, che è come dire che amo Dio. L’uomo non è Dio, ma è comunque una Sua emanazione. E Lui ama l’uomo.
Mi fermo di colpo, sbarro le palpebre e impallidisco. Trattengo il fiato e il mondo che mi circonda diviene sfocato, come in un sogno. Percepisco le dita di Laeriel che si serrano con forza, come tenaglie, intorno al mio braccio e mi strattonano da qualche parte. Odo la sua voce, che pronuncia il mio nome in tono agitato, ma è lontana. Le orecchie mi fischiano, ma sento perfettamente il battito del mio cuore rimbombare nel cervello, il suo pulsare accelerato e doloroso che pare dilaniarmi dall’interno.
Amo gli uomini, quindi anche Dio. È per questo che non riesco a trasformarmi in un demone completo.
“Sono umano…” esalo disperato.
Il colpo che mi infligge tale constatazione mi scuote nel profondo e mi obbliga ad appoggiarmi al muro di un palazzo per non cadere. C’è silenzio intorno a me, segno che Laeriel mi ha trascinato via dalla strada affollata per darmi modo di sfogarmi indisturbato. Mentre riprendo fiato, mi copro la bocca con una mano e chiudo gli occhi. La valigetta precipita sul marciapiede e dei conati improvvisi mi causano fitte lancinanti allo stomaco. Qualche secondo più tardi, appena riacquisto la lucidità, sicuro che l’attacco sia passato, mi ghiaccio sconvolto. Conduco un dito verso la faccia e mi accarezzo la guancia destra con un polpastrello. Scruto stranito la lacrima che vi si è depositata, confuso e allibito, poi mi piego nuovamente sulle ginocchia per vomitare. Dalla mia bocca esce solo un rigagnolo di saliva, mentre le lacrime bagnano il suolo e solcano il mio volto una dietro l’altra, in un fiume inarrestabile che mi provoca tremori e brividi gelidi in tutto il corpo.
“No… no, no!” sibilo frustrato, poi mi volto verso Laeriel.
La sua figura è una chiazza nera a pochi passi da me, vedo il rosso dei suoi capelli e il pallore del suo viso, ma non riesco a mettere a fuoco i dettagli.
“Cosa mi stai facendo?” ringhio furioso, “Cosa mi hai fatto?!”
La mano sinistra corre alla tasca interna del cappotto, ci si infila dentro e stringe spasmodicamente il portachiavi, quasi sia l’unica ancora di salvezza che mi è rimasta, la sola boa in mezzo ad un oceano in tempesta.
“Non tradirmi, Archie.”
Gemo disperato e fisso i blocchi di pietra del marciapiede senza realmente vederli, con gli occhi sgranati e vacui, offuscati da un velo liquido che me li fa prudere in modo fastidioso. La tentazione di invocare l’aiuto di Samael è pressoché irresistibile, eppure non voglio che mi sorprenda in questo stato: potrebbe pensare che lo stia tradendo o che stia mettendo in dubbio il suo operato e la nostra causa in generale. Devo controllarmi e ingoiare la bile che mi è risalita su per la gola. Devo seppellire il dolore, fingere che niente sia accaduto e continuare lungo il cammino che mi sono prefissato. Non spezzerò il nostro legame. Non posso tornare indietro, non ora. Non posso! Ma come farò a nasconderlo? Prima o poi emergerà e il maestro vedrà che sono cambiato. Si arrabbierà, lo so, e mi punirà. Forse mi ucciderà.
Ho paura. Sono in trappola. Non posso scappare.
“Io sono un demone. Non sono umano, non sono umano!” 
Maledizione, perché mi ostino ad assecondare il mio “io filosofico”? Non sono capace di restarmene buono per un giorno? Perché sono così idiota? Mi scaverò la fossa da solo, me lo sento nelle ossa.
Digrigno i denti e faccio leva sulle gambe per alzarmi. Lo sforzo mi costa una fatica enorme, ma alla fine riesco a rimettermi in piedi. Afferro la valigetta, mi pulisco la bocca con l’orlo del cappotto e mi asciugo il viso con la manica. In seguito, scocco un’occhiata ostile a Laeriel, che nel frattempo non ha mosso un muscolo ed è rimasto a osservarmi agonizzare.
“Chi sei, Laeriel? Cosa mi hai fatto?” lo scruto minaccioso, desideroso ora più che mai di stringere le mani intorno al suo collo sottile e strozzarlo.
“Io non ho fatto niente, Archie. Hai fatto tutto da solo. Sei tu l’artefice del tuo destino, giusto?” 
Piega la testa di lato e mi squadra con un sorrisetto che mi fa saltare i nervi. 
“Basta giochetti! Dimmi la verità.”
“Non serve che mi aggredisci, calmati. Non ho intenzione di fuggire.”
“Sei un bastardo…” sibilo affannato, “So che mi hai fatto qualcosa. Da quando sei arrivato non fai altro che manipolarmi.”
“Hey, io mi esprimo proprio come te, sei tu che decidi se ascoltarmi o meno.” solleva le mani e si mette sulla difensiva, “È forse un crimine pensare? Tu stai pensando, il che è un bene.”
“Dove vuoi arrivare? Qual è il tuo scopo?”
“Renderti felice, te l’ho detto e ripetuto. E se per farlo devo provocarti una crisi di coscienza, non esiterò.”
“Lo dirò a Samael.”
“E io gli dirò che cosa si agita nella tua testolina da un po’ di tempo a questa parte, inclusi i tuoi sentimenti di amore puro per lui. Ti sei confidato con me, ricordi? Mi hai rivelato più di quanto tu non abbia mai rivelato a Samael. Sono informazioni preziose, che potrebbero addirittura fargli perdere la fiducia che nutre in te. Davvero vuoi ricattarmi, Archibald?” domanda sarcastico.
Nella sua voce colgo una freddezza che non avevo mai notato, tanto che rabbrividisco. Laeriel si avvicina lentamente e mi circonda il viso con le mani, in una carezza dolce e gentile come i suoi occhi, che ora mi fissano pieni di affetto.
“Non devi avere paura. Ho rinunciato alle ali per te, bambino mio, non dimenticarlo. Resterò al tuo fianco per sempre, qualunque cosa accada, e stavolta ti proteggerò da ogni male, lo prometto.”
“S-stavolta?” balbetto, ormai sicuro che qualcosa stia bollendo in pentola, e pure da un bel pezzo.
Sorride enigmatico, poi scioglie la presa e indietreggia liberando il mio spazio vitale.
“E perché mi chiami ‘bambino mio’?”
“Perché sei il mio bambino.”
“Non sei mia madre e dubito che tu sia la reincarnazione, se così si può dire, di mio padre.”
“Non siamo legati dal sangue, Archie, e non lo saremo mai.” dichiara conciso, infine si volta e si rincammina verso la strada principale, deciso a chiudere qui la questione.
“Aspetta un attimo… Laeriel!” lo chiamo rincorrendolo.
Lui si gira di tre quarti e protende una mano verso di me, sorridendo tranquillo: “Vieni, Archie.”
Intreccio le dita alle sue senza pensarci, come se fosse naturale, e una stranissima sensazione di dejà vu mi travolge. Non faccio a tempo a domandarmi a cosa sia dovuto, perché un’onda d’urto improvvisa ci scaraventa contro il muro di mattoni di una casa con incredibile violenza.










 

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Fiamme nere ***








 

L’impatto con il muro è violento e mi spezza la spina dorsale e qualche costola in un colpo solo. Non che questo sia un problema, non impiegherò poi molto a guarire. Piuttosto, la cosa che mi preoccupa è un’altra: quella manciata di minuti che mi occorre per rimettermi in sesto potrebbe rivelarsi fatale in un simile frangente. Mentre sono riverso a terra a rantolare di dolore aspettando che le ossa si rinsaldino e le ferite si richiudano, qualche nemico potrebbe avvicinarsi e approfittarne per farmi fuori. Perché è chiaro che qui c’è lo zampino di un Exurge Domine, o più di uno. E dire che Samael mi ha pure raccomandato di fare attenzione, cavolo! Io non sono un demone, perciò, se con uno come Samael ci vorrebbero - ipoteticamente parlando - un paio d’ore, per il mio assassino due secondi sarebbero più che sufficienti per spedire me, povero mortale, all’altro mondo. 
Pessimo tempismo, davvero pessimo. Prima la crisi esistenziale, ora questo. Perché capitano tutte a me? Perché sono così sfigato? Sto cominciando a credere che sia il karma.
Non so in che condizioni sia Laeriel, dalla mia posizione non riesco a vederlo. Anche lui è stato preso in pieno dall’onda d’urto, ma prego che stia bene, così può soccorrermi e portarmi via da qui. Forse non è troppo tardi, ma ad ogni secondo che passa la salvezza si allontana sempre di più. 
Non mi sono accorto che ci stavano seguendo ed è strano. Avrei dovuto avvertire almeno un minuscolo segnale di allarme. Però ciò che mi stupisce di più è che nemmeno Laeriel abbia percepito il pericolo. I suoi sensi dovrebbero essere più acuti dei miei, no? Perché non mi ha avvisato? Che sia in combutta con la fazione nemica? Beh, tutto è possibile, visto che era un angelo. No, pure lui è stato colto di sorpresa, altrimenti si sarebbe spostato dalla traiettoria in tempo. A meno che non sia una tattica astuta per spingermi a pensare che lui sia innocente e che non c’entri niente con questo attacco. Dopo ciò che mi ha detto poco fa, sono poco propenso a fidarmi. Ha giocato con me, mi ha manipolato, mi ha ingannato. Avrei dovuto ascoltare Samael quando insisteva per ucciderlo e toglierlo di mezzo. Non ho compreso la minaccia che Laeriel rappresentava e ora mi pento di averlo difeso. È un traditore. È solo colpa sua se gli Exurge Domine ci hanno trovati, non può essere una coincidenza: siamo stati attenti per mesi e stasera non abbiamo fatto nulla di diverso.
Maledizione! Perché sono così debole e ingenuo? No, devo calmarmi, non posso permettermi di trarre conclusioni affrettate. Devo analizzare la situazione, osservare i dettagli e tenermi pronto.
Non posso girare la testa, sono totalmente paralizzato dalla testa ai piedi. Impreco a denti stretti e mi faccio forza, sperando di non essere costretto ad affrontare uno Spennato proprio adesso. Le volte precedenti ho avuto fortuna e, volendo essere onesti, Samael era sempre a vegliare su di me, ma ora dovrò contare solo su me stesso. E su Laeriel, se non è troppo ammaccato e se sta dalla mia parte, come ha affermato. 
Inspiro, chiudo gli occhi e mi concentro. Perfetto, riesco già a muovere le dita dei piedi. I detriti mi pungono una guancia e la polvere che si alza dalle macerie si infila nelle narici. 
Apparentemente nessun umano è stato richiamato dal fracasso e questo non fa che avvalorare l’ipotesi che si tratti del gruppo di Exurge Domine di stanza ad Amsterdam. Il chiacchiericcio della gente, che passeggia tranquilla nella strada accanto, mi accarezza le orecchie. Vorrei gridare aiuto, ma dalla mia bocca escono solo gemiti strozzati. Ma che mi sforzo a fare? Tanto non possono sentirmi, la mia voce non è in grado di raggiungerli.
Grugnisco e torno a concentrarmi sulla guarigione, ma all’improvviso un’ombra cala su di me.
“Preso.”
Qualcuno mi afferra per i capelli e mi solleva la testa con uno strattone sgarbato, facendomi piegare il collo all’indietro. Caccio un grido, la sofferenza fisica è davvero insopportabile. Lo sconosciuto ridacchia trionfante, soddisfatto della mia reazione. Mi tira un calcio su un fianco e mi fa girare supino, incurante dei miei gemiti di dolore. A quanto ho avuto modo di notare, gli Exurge Domine ci godono a comportarsi da bulletti con i demoni, o forse sono io che ho avuto solo incontri ravvicinati del terzo tipo con elementi disturbati e aggressivi. Che fortuna.
Tutto gira come una giostra. Frastornato come sono, fatico a mettere a fuoco il mio aguzzino, ma la vista si rivela presto superflua.
“Finalmente ci rivediamo, Archie.” sussurra il tizio a pochi centimetri dalla mia faccia.
Riconosco questa voce. Spalanco le palpebre e mi scontro con due iridi azzurre fluorescenti - marchio tipico degli Spennati -, un viso dai lineamenti anonimi e un cesto di corti capelli ricci e scuri.
“T-Titus.” balbetto spaventato, memore di ciò che mi ha fatto passare pochi mesi fa in quel maledetto scantinato fiorentino.
“Sono felice che ti ricordi di me.”
Accenna un sorriso e un brivido mi risale lungo la schiena all’istante. Se Titus è qui, significa che…
“No, Bianca è rimasta a Roma.” proferisce, quasi mi leggesse nel pensiero, “È troppo coinvolta per addossarsi l’incarico di farti fuori, i piani alti l’hanno trattenuta. L’ultima volta ha commesso degli errori da dilettante ed io le sono andato dietro come uno scemo, quindi adesso saremo solo io e te.”
Di male in peggio. Bianca avrei potuto gestirla facendo leva sulla sua emotività, così da farle perdere le staffe e spingerla a compiere gesti impulsivi. Samael mi ha insegnato che quando il nemico non è lucido c’è un cinquanta percento di probabilità di uscirne vivi, rispetto al cinque percento di quando è completamente calato nel ruolo di freddo carnefice. Titus è lucido. Terribilmente lucido. Ok, potrei non avere scampo. Dove diavolo è andato a finire Laeriel?!
“Ho delle domande da farti, Archie. Se risponderai, ti ucciderò velocemente, promesso.” esordisce, sfoggiando un ghigno per nulla rassicurante.
Mi irrigidisco e serro la mascella, più che intenzionato a mantenere il silenzio. Posso immaginare cosa vuole chiedermi, ma non tradirò Samael. Non confesserò l’ubicazione del nostro nascondiglio, né alcun dettaglio che possa aiutarli a distruggerlo. Resisterò, lo giuro, anche se dovesse costarmi l’uso delle parti motorie per il resto della mia sfortunata esistenza. Questa potrebbe essere la prova finale e non voglio deludere il maestro. Gli dimostrerò che sono forte, che ho piena fiducia in lui e nella nostra causa e che non nutro alcun desiderio di rinnegare Lucifero facendomi indurre in tentazione dalla Luce. Dimostrerò a me stesso che posso farcela, a dispetto della mia dannata umanità.
“Sai, non mi è affatto piaciuto lo scherzetto di circa nove mesi fa.” mi rimprovera Titus con il medesimo tono severo ma indulgente che un genitore usa con il proprio figlio.
Lo fisso senza capire, ancora troppo intontito dalla botta. Tuttavia, le ossa stanno guarendo. Devo solo riuscire a guadagnare qualche minuto in più e tenerlo distratto abbastanza  a lungo affinché non si accorga del processo e non lo arresti con un’altra deflagrazione.
“Alterazione della memoria.” spiega paziente, “Non me ne sarei mai accorto se un mio collega non mi avesse posto le domande giuste. A quel punto ho capito che qualcuno aveva manomesso i miei ricordi, che c’erano dei pezzi mancanti. Sono stato aiutato a rimettere i tasselli a loro posto e - indovina un po’? - la tua faccia è ricomparsa nella mia mente il mese scorso. È stata una specie di folgorazione.” si china su di me e mi alita sul naso, “Vuoi sapere che effetto mi ha provocato sapere che un demone ha osato intrufolarsi dentro la mia testa? Vuoi sapere come mi sono sentito? Violato. Umiliato. Stuprato nello spirito. L’odio che ho provato mi ha reso cieco, tanto che i miei poteri sono andati fuori controllo. È stato come se il Male mi avesse corrotto, sporcato irrimediabilmente. I Sommi hanno pure ponderato l’idea di ammazzarmi, per evitare che diventassi pericoloso e mi rivoltassi contro l’ordine. L’unica cosa a cui riuscivo a pensare e che mi ha permesso di restare aggrappato alla razionalità è stata la vendetta. Ho secoli di servizio alle spalle e mai alcun demone ha avuto l’ardire o la capacità di seminare il caos nel mio cervello! Poi ti presenti tu e zitto zitto metti a soqquadro la mia anima. Capisci che non potevo prenderla tanto bene.”
Mi agguanta il collo con la mano destra e stringe. Se intende strangolarmi ha fatto male i conti, non funzionerà. Comunque non va a mio vantaggio, perché se mi blocca le vie respiratorie non sono in grado di spiegargli che non sono stato io a modificargli la memoria, ma Samael. Ad ogni modo, il maestro mi aveva avvisato che l’incantesimo non sarebbe durato molto, per tale motivo siamo fuggiti in Olanda. Però perché devo pagare io per qualcosa che non ho fatto? Non è giusto! Maledetta sfiga.
“Mi hanno rinchiuso in una fottuta cella per giorni, senza la possibilità di vedere la luce. Ho rischiato di impazzire a causa tua! Come hai osato, razza di diavolo schifoso?!”
Ipnotizzato ad osservare le sue labbra sottili muoversi per articolare le parole, non vedo in tempo il suo braccio sinistro, che, sospeso a mezz’aria sopra il mio petto, cala repentino e mi sfonda la cassa toracica in un battito di ciglia, trapassandomi da parte a parte, fino a colpire il suolo.
Apro la bocca in un grido muto e la vista si annebbia. Ho sentito distintamente le costole cedere di schianto e gli organi lacerarsi. Non è stata una sensazione piacevole, proprio per niente. Il peggio è che sono ancora cosciente e il dolore fa vibrare ogni singola cellula del mio corpo in preda ad una terribile agonia. Il suo arto è conficcato dentro di me, immobile, impedendo ai tessuti di rigenerarsi.
“Cosa succederebbe se ti decapitassi? Ti va di fare un esperimento?” sibila minaccioso, mentre rigira con studiata lentezza le dita nello squarcio.
Poi estrae la mano dalle mie carni e osserva con disgusto il sangue nero che la imbratta.
“Siete creature immonde e disgustose. La vostra stessa esistenza è un oltraggio al Signore.”
Le mie membra vengono attraversate da spasmi e si contorcono per cercare di sfuggire alla presa ferrea sul mio collo, un ultimo tentativo dell’istinto di sopravvivenza di tirarmi fuori dai guai. Circondo il braccio che ancora mi tiene bloccato con le mani e provo ad allontanarlo, ma sono troppo debole e i miei sforzi sono vani. Mi sembra di lottare contro un mostro fatto di granito.
Perché Laeriel non arriva a salvarmi? Che lo abbiano catturato? E Samael dov’è? Non sa che sono in pericolo? E perché cavolo devo sempre mettermi a pregare che qualcuno mi salvi?! Non sono un buono a nulla, posso farcela.
Rinsaldo la presa sul polso di Titus, ma in tutta risposta mi solleva di qualche centimetro e mi fa sbattere il cranio sull’asfalto con violenza. Abbandono sconfitto gli arti lungo i fianchi, immergendoli nella pozza di sangue color pece che si allarga sotto di me, mentre sento la vita scivolare via inesorabile. 
“Coraggio, non fare la vittima! Non morirai mica per così poco… no, no, no! Hey, non fare scherzi, mi servi vivo.”
Mi schiaffeggia le guance, ma odo la sua voce a malapena. Mi ronzano le orecchie, quasi mi sembra di averle imbottite di ovatta, e il dolore lancinante al petto e alla testa mi impedisce di pensare. Vorrei avere un dottore qui con me per vantarmi della frattura cranica con relativo trauma e del buco nel torace grosso come una palla di cannone, e nonostante ciò essere ancora vivo. No, non è bello. Però ammetto che il Bastone di Gabriel faceva più male, sono contento che Titus non se lo sia portato dietro. 
Mi chiedo quanto resisterò prima che Samael giunga in mio soccorso. Tento di invocare il suo nome, ma ho la gola ostruita dal sangue e tutto ciò che fuoriesce dalla mia bocca sono rantoli rochi.
Laeriel! Avevi promesso che mi avresti protetto da ogni male! Dove sei?! Che tu sia dannato, stupido pollo codardo!
“Mmm… non sei un demone, giusto? Così dicesti nel seminterrato. Però vediamo se questo funziona.” borbotta Titus fra sé e sé.
Ma lo vede in che stato mi ha ridotto? O no? Titus, abbi pietà e uccidimi in fretta e… Dio, sono ali quelle? Ha le ali? No, frena, gli Spennati non hanno ali, altrimenti non si chiamerebbero “Spennati”. Aspetta, non sono le sue. Laeriel? No, non vedo la sua zazzera rossa. Acuisco la vista e mi do dell’idiota: non sono ali, ma due finestre da cui filtra la luce di una lampada particolarmente potente e dalla mia prospettiva stanno ai lati del collo di Tituts, quindi mi parevano ali. Le ali di Laeriel erano bellissime, soffici e candide come zucchero filato. Peccato che le abbia perse. Anzi, ha detto di averci rinunciato per me, ma perché non è qui al mio fianco a scacciare i mostri cattivi? È solo un voltagabbana, quando lo rivedo lo massacro di botte.
Mi sento sollevare di nuovo il capo e mi risveglio immediatamente dal delirio febbrile in cui sono precipitato. Mi irrigidisco, tremo e serro con forza le palpebre, pregando che Titus non voglia aggiungere un’altra frattura alla mia superba collezione. Un attimo più tardi posa qualcosa di freddo sulle mie labbra dischiuse, forse una boccetta, non ne sono sicuro, e riversa il contenuto nella mia bocca. Eppure niente tocca la mia lingua, non percepisco alcun corpo estraneo accarezzarmi il palato e non avverto alcun sapore o odore eccetto quello del mio sangue. Nonostante questo, l’incendio che divampa improvviso nelle mie membra mi fa urlare a pieni polmoni come un maiale sgozzato. Il cervello si riempie di grida altrettanto forti, acute, assordanti, disperate, che scaturiscono da dentro e rimbombano nelle mie vene, consumandole come un potente veleno. Sono le grida di un’anima dannata, uguali a centinaia di altre che ho avuto occasione di udire negli anni passati, appena il portale dell’Inferno si apriva per accogliere il peccatore di turno. Titus mi ha fatto mangiare un’anima? Ok, i demoni si nutrono di anime, salvo che io non sono un demone. E ho appena ingoiato l’anima di qualche povero cristo macchiatosi di chissà quale crimine abominevole. Aiuto.
I muscoli guizzano e il corpo reagisce da solo, facendomi scattare seduto e piegare di lato per vomitare una cascata di liquido nero, denso e viscoso, che va a macchiare l’asfalto e i vestiti impolverati. Un piccolo lago si forma sotto di me. Beh, almeno non sento più dolore alla testa o al petto, visto che adesso ogni singola fibra delle mie bistrattate spoglie mortali è sul punto di strapparsi e trasformarsi in ciocchi di carbone, bruciata tra le fiamme della dannazione eterna.
“Cosa…?” esala Titus a mezza voce, senza osare intervenire.
Ma che ti ho fatto, lurido pezzente? Dovresti andare a riempire di calci il diabolico culo di Samael, non il mio!
Mi afferra per le spalle e mi riadagia per terra. Un’insignificante parte di me è stupita, perché la sua presa è inconfondibilmente gentile ora. Non mi strattona più, qualsiasi cenno di irritazione è sparito e, mentre mi accompagna disteso, maneggia la mia povera testa con estrema cura. Vedo tutto a chiazze. Abbandono il capo all’indietro e, nella nebbia di dolore che mi offusca la ragione, cerco di incrociare il suo sguardo. Sembra preoccupato. Poi sgrana gli occhi e, prima che possa domandarmene il motivo, allunga un dito verso di me e mi sfiora la tempia, come se volesse raccogliere qualcosa. Fissa il polpastrello con aria incredula, se lo porta alle labbra e lo lecca assorto.
“Piangi?”
Sì, idiota! Mi hai fatto un male cane! Piangere è il minimo, cacchio. Vorrei mandarlo a quel paese, ma sono troppo stremato per sprecare ulteriori energie in azioni prive di senso. Perché non la fa finita? È peggio di un gatto che si diverte a giocare con il topo prima di divorarlo. Non voglio essere il topo, basta! Ti prego, basta… mi arrendo. Samael… Laeriel… mamma…
Le palpebre si chiudono piano piano, pesanti come piombo, e le forze residue svaniscono come spazzate via da una brezza invisibile. Non sento né freddo né caldo. All’improvviso diventa tutto statico, un’assenza priva di confini che mi avvolge alla stregua di una coperta di lana in un giorno invernale. Non odo suoni, non vedo niente. Intorno a me c’è il nulla, di un grigio spento e insipido. Che sia questo il limbo? 
Poi avverto i palmi delle mani di Titus sulle guance. Sono caldi e delicati, mi toccano la pelle con dolcezza, come se fossi fatto di cristallo, ma forse è solo frutto delle mie percezioni distorte, perché proprio non ce lo vedo uno spietato Exurge Domine con i controfiocchi a farmi le coccole. Infine una bocca preme sulla mia, mi costringe ad aprirla e un vento tiepido e rigenerante mi invade le membra, sconfiggendo la sofferenza provata sino ad ora. Esalerei un sospiro di sollievo se non avessi le labbra impegnate in una sorta di bacio. Se le circostanze non fossero così assurde, direi che Titus mi sta praticando la respirazione artificiale.
Quando si stacca mi sento meglio. Il torace non duole più, le ossa sono quasi tornate al loro posto e le ferite sono ormai rimarginate. Un’appagante spossatezza mi pervade e per un istante ho come l’impressione di essere tornato bambino, prima che mio padre sviluppasse quell’interesse morboso e malato nei miei confronti, quando ancora mia madre mi teneva in braccio e mi cullava cantando una ninnananna. Non dovrei ricordare cose del genere, ero troppo piccolo, eppure non ho mai dimenticato quella sensazione: la certezza di essere protetto, di non avere nulla da temere, di essere amato. 
Ad un tratto, dalla trama della memoria emerge un’immagine sfocata: una figura china su di me, con la pelle bianca come il latte e un cespuglio di capelli rosso sangue. Mi è familiare, ma al momento non riesco a ricollegarla ad una persona reale. Sono così stanco…
“Archie.”
Apro appena gli occhi e mi immergo in quelli azzurro brillante di Titus. Non so perché mi stia guardando come se mi vedesse per la prima volta, ma noto che sul suo volto non c’è più traccia di rabbia o furia omicida. Forse l’ho scampata, anche se non ho idea di come abbia fatto.
“Titus, attento!” grida qualcuno.
Il richiamo fa scattare la sua testa verso destra, i sensi all’erta. Qualcosa lo colpisce sul naso - il rumore della cartilagine che si rompe è raccapricciante -, facendolo volare lontano senza concedergli il tempo di assumere una posizione di difesa. 
Sdraiato supino in mezzo alle macerie, mi volto allibito, alla ricerca della fonte di tanta agitazione, e mi si forma un groppo di felicità in gola quando scorgo Laeriel a pochi passi da me. Mi dà le spalle, le gambe divaricate e i piedi nudi poggiati senza paura su sassi e schegge, e fronteggia altri tre nemici incappucciati. I suoi vestiti sono laceri e pieni di buchi, ma la sua pelle è liscia e vellutata, priva di ferite, persino di un minuscolo taglietto. Lo vedo imitare una figura del Kung fu e aspettare l’attacco degli avversari. Ha messo Titus fuori gioco con un pugno fenomenale. Dopo gli farò i complimenti. 
Ne approfitto per rotolare sulla pancia e mettermi carponi. Nonostante la debolezza, riesco ad alzarmi, ma un capogiro mi coglie impreparato e mi spinge a barcollare all’indietro. Sbatto la schiena contro il muro del palazzo distrutto e osservo la scena che mi si para di fronte senza sapere come intervenire.
Un Exurge Domine parte alla carica e si avventa su Laeriel, che schiva agile e gli assesta un calcio nelle terga, mandandolo al tappeto. Un altro evoca una sfera di luce azzurrina, ma Laeriel non gli dà modo di scagliarla, poiché è già su di lui a tartassarlo di pugni e ginocchiate nello stomaco. L’ultimo rimasto estrae due coltelli da sotto il mantello, li fa roteare sui palmi e li impugna, per poi lanciarsi sul nemico. Stavolta Laeriel fa fatica ad aggirare i colpi, arretra e salta da una parte all’altra come un canguro, rischiando di venire infilzato se rimane fermo per più di mezzo secondo. I loro movimenti sono talmente rapidi che mi è difficile seguirli con lo sguardo. Corrono, fanno delle finte, si arrampicano sui muri delle case incuranti della forza di gravità, cercando di uccidersi a vicenda.
Sono così concentrato sul combattimento che non mi accorgo del pericolo che si avvicina a me strisciando, silenzioso come una serpe. Il primo Spennato che Laeriel ha pestato mi afferra la caviglia e mi sbilancia. Cado a terra soffocando un gridolino, ma non passa che un istante prima che me lo ritrovi a cavalcioni sulla pancia, con le mani strette intorno al mio collo. Ma che hanno tutti, con questa mania di strozzare il prossimo? Gli sferro una ginocchiata nei testicoli e mi libero, poi gli tiro un calcio sul naso.
“Stronzo.” farfuglio con l’adrenalina a mille, massaggiandomi la gola.
Indietreggio a distanza di sicurezza, ma in un lampo è di nuovo su di me, irriducibile e determinato a porre fine alla mia vita. Allora sollevo il busto e faccio per morderlo. Lui si scansa come avevo previsto, così riguadagno lo spazio di manovra sufficiente per assestargli una seconda ginocchiata fra le gambe.
Con la coda dell’occhio cerco Laeriel, che adesso è incalzato da due nemici, uno per lato. Se la caverà, è forte. Io un po' meno. Riporto l’attenzione sul mio avversario, rannicchiato su se stesso, con le mani premute sui gioielli di famiglia. Ghigno vittorioso. Tuttavia, torno presto serio, perché una stretta - ahimé - familiare cala sulle mie spalle, spingendomi di nuovo giù.
I miei occhi e quelli di Titus si incontrano. Nei suoi scorgo esitazione, come se fosse in preda ad un conflitto interiore. Non fa niente, si limita a tenermi bloccato sul cemento, schiena a terra, mentre il suo compagno tenta di riprendersi dal colpo basso che gli ho inferto, letteralmente.
I rumori della lotta richiamano la mia attenzione su Laeriel. È in difficoltà, perché ora i nemici hanno cominciato ad usare la magia e la supervelocità. Devo aiutarlo, anche se non so quanto potrò essergli utile.
Poi le mie orecchie iniziano a fischiare e in un secondo tutto viene fagocitato dal silenzio. Continuo a vedere Laeriel combattere e spedire gli Spennati contro i muri a suon di calci e mosse di Kung fu, ma non odo alcun suono. Fisso Titus stranito e lui ricambia con un’espressione interrogativa. Mi guardo intorno e deglutisco, mentre una sensazione opprimente mi provoca la pelle d’oca. C’è qualcosa di maligno intorno a noi. Titus non riesce a percepirlo? Pare di no.
Appena poso lo sguardo su una finestra rotta del primo piano di un palazzo, sbarro le palpebre e mi pietrifico. Scruto il mio riflesso con terrore, ricordando la notte in cui sono stato vittima di quella strana allucinazione. Anche allora vidi me stesso nella vetrina di un negozio fiorentino, ma non ero io. Quello non sono io e non è solo il fatto che io sono disteso e lui è in piedi a farmelo pensare: sono i suoi occhi a farmi paura, due inquietanti orbite nere, in fondo alle quali arde una scintilla rossa. Mi squadra con quel sorrisino che già un anno fa trovavo irritante, solleva una mano, la chiude a pugno e la riapre. Sopra il suo palmo fluttua un globo di fuoco nero, il medesimo fuoco che ho usato a Notre-Dame per uccidere l’Exurge Domine di nome Silv. All’epoca non l’ho fatto volontariamente, è stato istintivo. Mi sta forse suggerendo di ricorrere di nuovo a quella magia? E come? Non ne sono in grado e, anche se lo fossi, Titus mi fermerebbe ancor prima di cominciare. Ah, però ho scagliate quelle fiamme nere contro il mio doppio mentre ero in preda alla rabbia, se non ricordo male, e le ho viste essere risucchiate nella vetrina... perciò come funziona? Devo arrabbiarmi come l'incredibile Hulk? 
Il globo sul suo palmo scoppia e avvolge la sua figura in un turbine di fumo, inghiottendolo fino a sparire.
“Cosa vedi?” indaga Titus, piegandosi su di me, rughe di apprensione gli solcano la fronte.
Sto per rispondergli, quando il suo compagno dolorante spicca un balzo verso di noi, una sfera di luce azzurra protesa minacciosamente verso di me. Vedo Titus muoversi a rallentatore, sporgendosi verso l’altro per farmi da scudo. Ma ciò che non avrei potuto prevedere neanche lontanamente è il vortice di fiamme nere che circonda in un attimo il tizio incappucciato, riducendolo in un mucchietto di cenere in meno di cinque secondi.
Titus si ritrae di scatto, permettendomi di sgusciare via dalla sua presa. Rotolo di lato, mi alzo in piedi e mi guardo le mani euforico. Vorrei emettere un'esclamazione di giubilo, ma mi trattengo. Digrigno i denti, battagliero e determinato a fargliela pagare, e avanzo verso il punto dove i due Exurge Domine stanno dando del filo da torcere a Laeriel, pericolosamente prossimo alla strada principale pullulante di umani. Non occorre che mi sforzi, prenda la mira o dia alcun comando, perché, come se obbedisse ai miei desideri più profondi e inespressi, il fuoco nero scaturisce dal mio corpo da solo. Si innalza sopra le nostre teste e travolge con violenza gli Spennati, bruciandoli vivi, ma risparmiando il mio amico dai capelli rossi. Mi concedo giusto tre secondi per godere di quello spettacolo, poi mi giro per affrontare Titus, più agguerrito che mai e deciso a rendergli pan per focaccia per quello che mi ha fatto poco fa. Però, stupito, mi accorgo che non c’è più. È scappato come un coniglio. Beh, non importa.
Sorrido spavaldo, schiocco le dita e una fiammella nera appare innanzi a me, ondeggiante e allegra. Sono impaziente di tornare a casa e comunicare a Samael che finalmente sono riuscito a controllare i miei poteri. Sarà fiero di me. Sono curioso di scoprire come mi premierà. Altro che umano, sono un aspirante demone a tutti gli effetti! Un uomo normale non avrebbe saputo fare ciò che ho fatto io.
“Archie.”
La voce di Laeriel mi fa sussultare, anche perché è troppo vicina. Lui è decisamente troppo vicino.
“Scusa, ma devo farlo.” dice sbrigativo. 
Mi sferra due pugni, uno nello stomaco e l’altro sulla guancia, per poi finire con una botta precisa sulla nuca. 
L’ultima cosa che vedo è la sua folta chioma rossa. Ho un déjà vu.










 

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** ''Non guardare, Archie'' ***







 


Mi gira la testa. La vista è sfocata e le orecchie ronzano fastidiosamente, captando suoni familiari e al contempo sbagliati, fuori posto, estranei alla situazione e privi di un contesto logico. Per esempio, odo un allegro brusio, risate grasse e acute, il tintinnio di bicchieri di cristallo, la musica di una piccola orchestra, lo scalpiccio di numerose scarpe sul pavimento e il fruscio degli abiti. Alle mie narici giunge l’effluvio di champagne e caviale, insieme ad altri odori che non riesco a distinguere. In seguito, è il turno delle sensazioni tattili: il mio collo è stretto dal bottone di una camicia che puzza di lavanda, mi sento ingessato nel gilè che mi fascia il busto come un sudario soffocante e le scarpe hanno le suole dure, mi fanno male.
Una nuvola color malva ondeggia di fronte a me, spedendomi zaffate di un profumo troppo forte.
“Ah, questo deve essere il piccolo Archibald! Che amore!”
“Archie, saluta la cugina Fiona.”
Mamma?
Finalmente riesco a mettere a fuoco l’ambiente e subito mi rendo conto di stare rivivendo un ricordo. Non è un sogno, le sensazioni sono vivide e tangibili. Alla vigilia del mio sesto compleanno c’era stato un ricevimento a villa Blackwood, a cui erano stati invitati i più illustri esponenti dell’alta società, oltre a parenti vicini e lontani. Un’occasione come un’altra per celebrare i vizi e la vita mondana.
Ad un tratto, grazie alla consapevolezza che ciò che sto ripercorrendo appartiene ormai al passato, mi separo per metà dal “me bambino” e prendo dimora nella sua ombra, osservando tutto dall’esterno. È strano guardare il piccolo Archie, come quando fissi una foto di te stesso e non ti riconosci. La prospettiva che ho assunto è doppia, perché sono il bambino e al contempo conservo la coscienza dell’Archie adulto.
“Oh, vieni qui, angioletto. Dammi un bacio!”
La cugina Fiona si piega a cingermi con le sue braccia scheletriche e per un momento smetto di respirare a causa di quel dannato profumo. Cerco di sorridere, ma mi esce una smorfia tirata e poco convinta. Intercetto lo sguardo di mia madre, che mi lancia un’occhiata ammonitrice dall’alto. Allora amplio il mio sorriso.
“Ma quanto sei tenero! Dio, Eleonora, vorrei adottarlo. Adoro queste guanciotte rosa e questi occhioni azzurri. Li ha ereditati dal bisnonno Anton, vero? Ma certo che sì! Non ci sono dubbi. Ah, che meraviglia di bambino! Vedrai quanti cuori spezzerà crescendo.” proferisce ghignando saccente, “Non posso biasimare Amos per essere così protettivo…”
Cosa c’entra mio padre?
“Ah, Fiona, ultimamente mio marito si comporta in modo… beh, strano.” mormora mia madre, incupendosi.
“Cosa intendi, cugina?”
“Tratta Archie come… una bambina.”
All’espressione scettica di Fiona sbuffa e le si accosta, attenta a portarsi il ventaglio davanti alla bocca per non farsi sentire dagli altri ospiti e non permettere a nessuno di leggerle il labiale. Ma io sono qui, appiccicato a loro - anzi, prigioniero dei tentacoli di Fiona - perciò le sue parole giungono forti e chiare.
“Insomma, non sto dicendo che gli regala bambole o vestiti da femmina, assolutamente. Piuttosto è… il suo atteggiamento. Hai presente come sono permissivi e iperprotettivi i padri verso le figlie? Soprattutto quando queste hanno un bel faccino. Amos mi preoccupa e il modo in cui osserva il piccolo Archie mi… inquieta. Secondo te sono pazza?”
Fiona la scruta con perplessità: “Mia cara, a mio avviso stai esagerando. Amos vuole bene ad Archibald, non c’è niente di strano in questo. Magari è intenerito dai lineamenti dolci del bambino, ma vedrai che, appena Archibald entrerà nell’età adulta, le cose cambieranno. È compito dei genitori viziare i propri figli, non farne un dramma. Sei sempre stata troppo apprensiva, Eleonora. Se continui così, rischi un esaurimento nervoso! Coraggio, beviamoci su.” ride, levando in aria il calice di champagne.
“Sì, forse… forse hai ragione.” risponde mia madre, sfoggiando lo stesso sorriso che ho fatto io dianzi.
Tuttavia, in un secondo vengo gentilmente strappato alle grinfie della cugina e messo al riparo tra le braccia di mia madre, che mi stampa un bacio sulla fronte e mi pettina i capelli con gesti nervosi. Nel suo sguardo leggo preoccupazione, inquietudine, anche se cerca di mascherarla con un lieve stiramento di labbra. 
Non me la ricordavo così bella e fragile. I capelli scuri sono legati in un’elaborata acconciatura, lasciando libero l’ovale del viso. La carnagione chiara fa risaltare due occhi nocciola, grandi e caldi, incorniciati da ciglia nere e lunghe, e la bocca sottile tinta di rosa pallido completa il quadro. Sembra una di quelle dame ottocentesche ritratte nei dipinti appesi in casa, salvo per il vestito lungo dal taglio moderno e i tacchi a spillo che si intravedono appena al di sotto dell’orlo. Anzi, no, sembra una dea.
“Hai fame, tesoro? Adesso chiamo tuo fratello, ti accompagnerà al buffet. Adam! Vieni qui!”
Mio fratello maggiore si avvicina a noi e si ferma di fronte a nostra madre. Se la memoria non mi inganna, dovrebbe avere nove anni qui. Accidenti, è identico a come lo ricordo. Certo, l’ultima volta che l’ho visto era già un ragazzo diciassettenne, ma i suoi occhi marroni, uguali a quelli della mamma, sono gli stessi di sempre.
Quando Adam mi guardava, mi faceva sentire protetto, quasi come se il mostro nascosto sotto al letto non fosse altro che una favola del terrore per costringere i bambini a non abbandonare il rifugio delle coperte fino all’alba, per saperli al sicuro. Se si osava poggiare un piede per terra durante la notte, gli artigli del mostro afferravano la caviglia e trascinavano l’infante all’Inferno. Così mi ha sempre detto mia madre, ma a sei anni avevo capito che era solo una storia, grazie anche a mio fratello, che veniva a dormire con me quando glielo chiedevo, e con la sua sola presenza scacciava via le ombre che si annidavano nell’oscurità. 
“Porta Archie a mangiare qualcosa.”
“Sì, madre.” risponde obbediente.
Adam mi porge la mano e io la prendo senza esitazione.
Ad un tratto, il tempo pare scorrere in avanti velocissimo e arrestarsi poche ore dopo. Il ricevimento è ancora in corso, gli invitati sono alticci per via del vino e le danze continuano. Mia madre scherza con degli amici di famiglia, alcuni uomini parlano di affari fumando sigari puzzolenti e delle coppie ballano al ritmo di un walzer. Mio fratello non è più accanto a me e all’improvviso vengo colto dall’ansia. Non rammento perché Adam si sia allontanato lasciandomi solo, ma la voglia di andare in bagno mi distoglie dagli altri pensieri. E ho anche sonno.
In un secondo, senza sapere come, sto attraversando il corridoio che mi avrebbe condotto ai bagni della servitù, i più vicini alla sala da ballo. Non dovrei usare quelli, mia madre è convinta che sia disdicevole, ma non è la prima volta. Arrivo negli alloggi dei domestici, quando dei bisbigli richiamano la mia attenzione. Vorrei davvero andare in bagno, ma la curiosità sopprime i miei bisogni, spingendomi a spiare cosa sta succedendo. Mi apposto dietro una porta spalancata e mi affaccio appena, sporgendo solo la fronte e gli occhi. Vedo Gwen, una cameriera che mi ha spesso passato di nascosto i biscotti, seduta su una sedia, in lacrime, circondata da altre donne della servitù che cercano di consolarla. Perché piange? Mi mordo un labbro e vado via, poiché se mi scoprissero adesso lo andrebbero a riferire ai miei genitori e non voglio ricevere una punizione.
Torno indietro ripercorrendo i miei passi, finché, svoltato un angolo, mi ritrovo nei sotterranei di villa Blackwood. Non ricordo come ci sono finito, ma sento che non ha importanza. Mi trovo all’interno di un frammento di memoria, il tempo scorre in maniera diversa e non c’è necessariamente un nesso logico tra una scena e l’altra. 
Adam mi ha raccontato che questo seminterrato, tanti anni fa, veniva usato dai nostri antenati come punto di raccolta segreto per discutere di politica e scienza. Era l’epoca della rivoluzione e la casa ospitava spesso i raduni dei massoni. Poi, con l’avvicendarsi dei vari discendenti di sangue Blackwood, i sotterranei erano stati trasformati in un’enorme cantina, piena di vini pregiati e altri oggetti d’antiquariato che, in caso di bisogno, sarebbero stati venduti all’asta per ricavarci del denaro. Erano cimeli di famiglia, ma per me, un bambino di sei anni, non erano che mobili polverosi e quadri anonimi.
Con la coda dell’occhio colgo un movimento alle mie spalle. Mi giro di scatto col cuore in gola e faccio in tempo a vedere qualcosa di nero svolazzare rasente al pavimento. Il mio corpo si mette in moto da solo e seguo un uomo incappucciato attraverso un lungo corridoio mal illuminato, fino a scorgerlo sparire dietro una pesante porta di legno. Mi appiattisco sul muro, ma appena sento il tonfo del legno esco fuori dal mio nascondiglio e saltello silenzioso fino alla soglia, appoggiando l’orecchio sulla porta. Odo solo dei sussurri e una specie di canto basso, ma non ne comprendo le parole, sembra pronunciato in una lingua che non conosco. Allora mi piego in ginocchio e avvicino il viso al buco della serratura, dalla quale filtra la debole luce giallognola di una o più candele. Sbircio all’interno, il fiato bloccato in gola. Appena metto a fuoco le immagini, sgrano gli occhi e mi pietrifico, incapace di emettere un grido.
Dalla piccola fessura riesco a intravedere un tavolo di legno, sul quale è sdraiato Cody, il figlio di Gwen. Abbiamo giocato insieme qualche volta, anche se è più grande di me di due anni. È nudo e legato per i polsi e per le caviglie con delle cinghie. Pare dormire, perché ha gli occhi chiusi ed è immobile. Degli uomini incappucciati come quello che ho seguito gli stanno intorno, ma mi è impossibile stabilire il loro numero. Sono loro a cantare la strana litania e, non so bene il perché, percepisco una cascata di brividi freddi risalirmi la spina dorsale fino a drizzarmi i capelli sulla nuca per la paura. Sul tavolo viene posto un teschio col cranio spaccato e altri oggetti, fra cui un pugnale.
Non dovrei essere qui. Sta per accadere qualcosa di terribile, me lo sento.
Un uomo articola delle parole incomprensibili, solleva il teschio, posa le labbra sul cranio bianco e beve. Non idea di che genere di intruglio contenga. Poi lo passa all’uomo accanto a sé, che lo passa a un altro e così via, finché non si conclude il giro. Le fiammelle delle candele tremolano e gettano bagliori inquietanti sui muri di pietra e l’odore di fumo alimenta l’atmosfera claustrofobica e opprimente. 
Dopodiché, l’uomo che per primo ha bevuto dal teschio si china e torna in posizione eretta con un agnellino stretto tra le braccia, che emette teneri belati. Il pugnale sguainato viene posato sul suo palmo destro e in un battito di ciglia l’uomo apre uno squarcio profondo nella gola dell’animale, versando il suo sangue denso e caldo sul corpo di Cody. Altri due lo spalmano con cura sulla sua epidermide come se fosse una crema, poi gliene fanno colare un po’ in bocca. Allora l’uomo adagia accanto a Cody la carcassa dell’agnello, si spoglia e rimane nudo, mentre i suoi compari lo imitano. Solo un cappuccio nero resta a celare i loro volti. Si accostano tutti al tavolo, levano le mani al cielo e aumentano il canto di intensità e ritmo, che si fa più veloce, incalzante, primitivo. Cody è immobile, sembra non respirare nemmeno.
Non capisco cosa stanno facendo, per questo non reagisco come dovrei, cioè urlando e correndo di sopra per andare ad avvisare mia madre. Sono triste per l'agnello, mi sono sempre piaciuti gli animali, ma non riesco ad avere paura per Cody. La scena è molto strana, ma magari si tratta di un gioco.
All’improvviso il canto cessa, un uomo agguanta il pugnale, dice qualcosa e in un attimo lo affonda nel cuore del bambino. Il liquido rosso sgorga lento dalla ferita e a quel punto realizzo che ciò a cui sto assistendo è sbagliato. Tutto quello è male. Hanno fatto del male a Cody. Lo hanno ucciso. Avverto il sangue defluirmi dal volto e la sudorazione aumentare, insieme al battito cardiaco. Sto per gridare, quando dal nulla un ciuffo di capelli rossi e ricci entra nel mio campo visivo dall’alto. Piego la testa all’indietro, terrorizzato come non mai, ma due mani gentili, fresche e delicate calano sulle mie palpebre, costringendomi a chiudere gli occhi. Sento un sussurro nella mia testa e mi paralizzo, ma dura poco.
“Non guardare, Archie. Non guardare. È solo un brutto sogno.”

Mi sveglio di soprassalto, scontrandomi con un soffitto basso, pieno di crepe e macchie marroncine. L’aria è stantia e satura di umidità. Strizzo gli occhi e scuoto il capo con veemenza, troppo sconvolto per l’incubo che ho fatto. Anzi, non era un incubo, ma un ricordo. Un ricordo soppresso per anni. Che cosa l’ha sbloccato? 
Cazzo. In casa mia avevano luogo riti satanici, come ho fatto a dimenticarlo? E scommetto che mio padre c’entrava qualcosa, forse era pure il leader della setta. Quegli uomini indossavano i cappucci, quindi non ne sono sicuro, ma ho il vago sentore che Amos fosse lì. E mia madre ne era al corrente? Chi lo sa. Tuttavia, la domanda che mi preme di più in questo momento è: che ci faceva Laeriel laggiù? Perché l’ho riconosciuto, è stato lui ad impedirmi di guardare. Quando lo rivedrò non lo lascerò scappare, lo obbligherò a rispondermi. Deve spiegarmi molte cose e mi sono stancato dei suoi giochetti.
Mi giro su un fianco e mi accorgo di essere sdraiato sul pavimento di uno scantinato, ma l’ambiente non è familiare. Osservo le pareti spoglie e sprovviste di finestre, finché non individuo una porta. Mi metto seduto, tentando di alzarmi in piedi, ma chissà perché faccio fatica a mantenere l’equilibrio. Mi sento debole, privo di energie.
Dove sono? Come ci sono arrivato qui? L’ultima cosa che ricordo è il combattimento con gli Exurge Domine. Titus, quel maledetto bastardo, mi ha torturato e quasi ucciso. E Laeriel ha lottato per difendermi, pur comparendo in ritardo. Dove diavolo era mentre stavo per tirare le cuoia? E Samael? Dov’è Samael? Dio, non dirmi che, nonostante io abbia polverizzato i nemici con i miei poteri, sono stato catturato!
Mi appoggio al muro di mattoni, la testa che gira come una giostra e le gambe molli, per poi procedere a tentoni verso la porta. Afferro la maniglia e spingo. Un’altra stanza, identica a quella in cui mi sono svegliato, mi accoglie al suo interno e di fronte a me noto una porta uguale a quella che ho appena aperto. Barcollo verso di essa, ruoto la maniglia e spingo, solo per vedere lo stesso panorama una terza volta. D’accordo, c’è qualcosa che non va. 
Serro le palpebre e mi concentro, acuendo tutti i sensi. Non è reale, credo sia una dimensione diversa, come quella in cui vengono catapultate le anime dei peccatori prima di venire scagliate oltre il portale dell’Inferno, il banco di prova per decidere se vivranno altri tredici anni o se è giunto il loro momento. 
All’improvviso la stanza comincia a vorticare e io finisco col posteriore a terra in meno di un secondo. Il movimento si ferma una manciata di attimi più tardi e la porta innanzi a me si accosta silenziosamente, offrendo un sottile spiraglio da cui filtra la luce tremolante del fuoco. Ma non è lo stimolo visivo a colpirmi, quanto piuttosto quello acustico. Qualcuno sta gridando. Le sue urla disumane mi trafiggono le orecchie, penetrandomi nel cervello con la gentilezza di un trapano. Di riflesso mi copro con le mani, ma continuo a sentirle nella mia testa. Striscio verso la fessura, deciso a porre fine a questo strazio allucinante, ma, come nel sogno, quando sbircio oltre la porta inorridisco e contemplo atterrito lo spettacolo.
Laeriel è rannicchiato per terra completamente nudo, con braccia e ginocchia strette al petto. I capelli gli nascondono il viso, ma è chiaro che è lui ad emettere questi versi sofferenti, misti a singhiozzi e lamenti disperati. Samael torreggia su di lui, gli occhi che brillano come tizzoni ardenti e l’espressione deformata in una maschera di mostruosa collera. Non l’ho mai visto così furioso. I suoi occhi guizzano e l’istante successivo Laeriel viene avvolto e divorato dalle fiamme, che bruciano le sue carni sfrigolando ed emanando un fumo tossico. Le sue grida riecheggiano di nuovo per la stanza e, senza rendermene conto, permetto alle lacrime di rigarmi le guance. La mia voce è bloccata in gola e i muscoli sono intorpiditi e pesanti, ma se potessi farei irruzione e fermerei Samael. Il fuoco si esaurisce da sé e in pochi secondi, riempiti da urla e singhiozzi, la pelle carbonizzata di Laeriel si ricompone guarendo dalle ustioni, tornando intatta, liscia e pallida. Non faccio in tempo ad esalare un sospiro di sollievo che Samael rinnova la tortura e Laeriel prende fuoco un’altra volta. Da quanto va avanti? Perché il maestro sta facendo del male a Laeriel?
“Non guardare, Archie. È solo un brutto sogno.”
Il terribile spettacolo si ripete ancora e ancora, in un loop infinito da cui sembra non esserci uscita. Alla fine, stanco di vedere Laeriel ardere tra le fiamme infernali, trovo la forza di alzarmi e lanciarmi verso di lui, facendogli da scudo col mio corpo.
“Samael, basta!” esclamo con tutto il fiato che mi è rimasto.
Avverto uno spostamento d’aria, seppur lieve, e quando riapro gli occhi sono di nuovo fuori dalla porta socchiusa a guardare Samael punire Laeriel.
Non è reale, dannazione! Ringhio frustrato, strizzo le palpebre, digrigno i denti e comincio a tirarmi i capelli e a darmi delle botte in testa.
“Svegliati! Svegliati!”
“Non guardare, Archie. È solo un brutto sogno.”
Le mie grida si fondono con quelle di Laeriel, le nostre voci rimbalzano sulle pareti in un’eco senza fine, andando e venendo come un pendolo. 
A un certo punto, mi scopro disteso supino accanto a Laeriel, che mi fissa con aria disperata. Prende fuoco a pochi centimetri da me. Il mio corpo è diventato di piombo e non riesco a scansarmi. Però le fiamme non mi toccano, limitandosi ad avvolgere solo lui. Quando i suoi resti carbonizzati giacciono sul nudo pavimento, sia Laeriel che Samael svaniscono in volute di fumo, come se non fossero mai stati qui.
“Non guardare, Archie. Non guardare.”
“Guardami, Archie.”
Mi volto di scatto e punto gli occhi alla mia sinistra. Ci sono io lì, ma non sono io. È il mio doppio, quell’essere terrificante che… oh… se non sbaglio, mi ha aiutato durante il combattimento con gli Exurge Domine, mostrandomi come usare il mio potere. Forse non è un nemico. Però ciò non toglie che sia qualcosa di profondamente malvagio. Lo sento. Non posso fidarmi.
“Chi sei?” soffio spaventato.
“Lo sai.” ghigna divertito.
“No, non lo so.”
“Sì, invece, ma la tua mente rifiuta la risposta.”
“Che cosa vuoi?”
“Voglio te.”
“Perché?”
“Sei speciale. Sei unico e voglio che resti con me per l’eternità.” espone in tono ovvio.
“Io non ti conosco.”
“Oh, sì che mi conosci. Ci siamo già incontrati molti anni fa.” si china su di me, mi sorride e assottiglia gli occhi, “Avevi sei anni.”
Mi irrigidisco e il fiato mi si mozza in gola: “Cosa?”
“Ti ho visto sbirciare dal buco della serratura. E tu hai visto me.” rivela con voce melliflua, “Hai guardato, Archie.” sibila, alitando sul mio viso.

Tra le fessure lasciate in mezzo alle dita che mi coprono la visuale, scorgo Cody che si mette seduto sul tavolo, la testa ciondoloni sul petto. Poi raddrizza le spalle, scrocchia il collo e solleva il volto, un volto che non riesco ad associare a quello del figlio di Gwen. Quello non è Cody. I suoi occhi, due orbite vuote incastonate su una faccia scheletrica, incrociano i miei e immediatamente un incendio divampa nella mia anima, provocandomi un dolore indescrivibile.

“No… no! No!”
Indietreggio agitato, una patina di sudore freddo mi imperla la fronte, e striscio finché non mi trovo con le spalle al muro.
“Sai, avresti dovuto diventare mio, un giorno. Volevo te, non Cody, ed ero stato chiaro con quei pervertiti imbecilli, soprattutto con tuo padre: se desideravano la mia benevolenza, dovevano pagare un prezzo e darmi quello che volevo. Ma Amos…” scuote la testa e fa un gesto vago con la mano, “Tentò di ingannarmi attraverso vari espedienti, con l’aiuto dei suoi amichetti. Volevano fregarmi, riesci a crederci? Loro volevano fregare me! Sembra una barzelletta.” ridacchia e accorcia ancora le distanze, “Ti ha tenuto lontano da me per molto tempo e alla fine, proprio quando stavo per catturarti - ero così vicino! -, ti ha rubato la verginità. Ti ha macchiato per salvarti, in modo che nel tuo cuore e nella tua anima germogliasse l’odio e questo inghiottisse la purezza, affogandoti nell’oscurità. E così è stato. Certo, Amos era un pervertito pedofilo, non c’è dubbio, ma non posso negare che ti amasse davvero tanto. Vedi, io non posso toccare le anime immonde.” confessa osservandosi le mani, “Strano, vero? Per questo ho bisogno di innocenti. Cody era innocente, ma la sua anima era insipida. La tua, invece, emanava un profumo delizioso.”
Cammina verso di me, si inginocchia e accosta le labbra al mio orecchio, leccando il lobo con la punta della lingua. Rabbrividisco in preda al disgusto e alla paura, ma non posso ritrarmi. È strano parlare così con qualcosa che ha assunto il mio aspetto, mi mette a disagio.
“Mio padre voleva… salvarmi?” gracchio incredulo.
No, questo è assurdo! Era un mostro! Non è possibile che… no, mi rifiuto di pensarlo.
“Sì. Diciamo che ha optato per il male minore. Cos’è peggio: consegnare il proprio adorato figlio nelle grinfie del Male o lordare la sua anima affinché sopravviva?” abbozza una risatina, come se trovasse la cosa divertente, “Mi ha tenuto a bada con le anime di altri bambini innocenti, orfani raccattati per le strade o i figli piccoli dei domestici, ma non ho mai rinunciato a te. Poi ho realizzato che potevo sfruttare le circostanze avverse a mio vantaggio e invitarti dalla mia parte senza dover muovere un dito.” sussurra lascivo, spostandosi appena, “Hai iniziato a scrivere un diario e il ‘fato’ ha voluto che tuo padre entrasse in camera tua proprio mentre vergavi quella preghiera, la leggesse e gettasse il quaderno tra le fiamme. Pessima idea, visto che a quel punto il rito di invocazione è stato completato. Ho mandato Samael a prenderti e gli ho ordinato di metterti alla prova. Hai superato tutti i test con successo, anche quando in realtà credevi di aver fallito. Sei un fenomeno, Archie, ti faccio i miei complimenti!”
“No…”
L’essere solleva una mano e mi accarezza dolcemente una guancia: “In te coesistono Bene e Male, in un equilibrio che ha dello straordinario, in costante mutamento. Talvolta il Bene viene divorato dal Male e talvolta accade il contrario, come lo Yin e lo Yang, dove alla fine nessuno prevale sull’altro. In sostanza, Archie, sei un demone con un’anima e la natura demoniaca e quella divina, benché in lotta perenne, hanno trovato il giusto incastro, un’armonia inspiegabile.”
Mi stampa un bacio sulla bocca cogliendomi di sorpresa, ma lo interrompe subito. È un po’ come baciare il proprio riflesso allo specchio. Ma cosa vuole da me? Io vorrei solo che la smettesse di tormentarmi.
“Sei prezioso, infinitamente prezioso, e neanche te ne rendi conto. Però sei pure molto fragile e Samael nell’ultimo periodo non ti ha protetto come si deve. Ti ha donato l’indipendenza, e questo va bene, ma ti ha dato anche un margine di libertà che potrebbe costarti la vita.” appoggia la fronte sulla mia e la sua espressione si fa seria, “Sta’ attento. Quel Titus ha capito cosa sei e cercherà di tirarti dalla sua parte. Non abbassare mai la guardia.”
“Io non…” biascico smarrito.
“Mh?”
“Non voglio diventare tuo. Amo Samael e resterò con lui, non con te.”
Scoppia a ridere di gusto e la sua risata rimbomba nella stanza con un fragore assordante.
“Archie, sei davvero perfetto.” dice accarezzandomi le labbra, ma si arresta di botto, “Ah, quasi dimenticavo. Sta’ attento anche a Laeriel, sta tramando qualcosa. Purtroppo non riesco a vederlo, c’è una barriera divina intorno a lui che non sono in grado di penetrare, ma proprio per questo motivo penso che sia pericoloso. Tieni gli occhi aperti.” mi bacia i capelli, “Non temere: se sarai in difficoltà verrò a salvarti, come ho sempre fatto.”
“C-che… che intendi…?”
“Chi credi che abbia sventato i tuoi tentativi di suicidio? Dio?” chiede retorico, senza curarsi di mascherare l’ironia, “Se non ci fossi stato io, saresti già a bruciare all’Inferno, fidati.”
“Sei… sei stato tu?” balbetto sbigottito.
“Sì.” annuisce e sorride spavaldo, “Ho dovuto. Non avrei mai permesso alla tua anima di precipitare all’Inferno, perché in quel caso non avrei più potuto averti.”
“Chi sei?” domando di nuovo, un filino arrabbiato.
“Sono colui che porta la Luce. Io illumino il cammino, mostro la via e metto uno specchio davanti ai mortali, in maniera tale che affrontino la sporcizia che infanga la loro anima e capiscano quanto la loro esistenza sia un insulto a questo universo. Sono l’astro della conoscenza, che accende la ragione e spalanca gli occhi sulla realtà. Sono colui che porterà a galla le brutture del mondo e mostrerà all’Onnipotente il Suo fallimento con la luce della Verità.” afferma teatrale.
Impallidisco e boccheggio: “Lucifero.”
“Non guardare, Archie.”
La sua bocca si stira in un sorriso sinistro e il fuoco nei suoi occhi mi ingoia in un sol boccone, trascinandomi nell’abisso di tenebra da cui sono sempre fuggito. 
Il mostro è uscito da sotto il letto.

Non guardare!










 

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Bentornato a casa ***







 


Mi sveglio di soprassalto, urlando fino a farmi bruciare i polmoni. Ho la vista annebbiata e i muscoli del corpo indolenziti, come se fossi rimasto fermo per giorni nella medesima posizione. Scatto a sedere, le mani a coprirmi la faccia e il respiro affannato. Mi sembra di essere appena riemerso da un terribile incubo, di cui però ricordo solo una parte.
Inspiro profondamente e cerco di calmarmi, cominciando a prendere nota dei dettagli dell’ambiente che mi circonda. Per prima cosa, sono seduto su una dormeuse scomodissima, rivestita di una stoffa chiara che emana puzzo di muffa. Lascio spaziare lo sguardo per la stanza, senza riconoscerla in alcun modo, ma vengo colto da un attacco di panico appena mi rendo conto di trovarmi in un seminterrato. Ho avuto brutte esperienze in questo genere di posti, non piacciono affatto. Non ci sono finestre, l’aria è gelida, umida e stantia, i muri sono di pietra, di sicuro costruiti in un passato ormai lontano, e il buio ammanta ogni superficie. Perché sono qui? 
Rammento lo scontro con gli Exurge Domine, Titus, Laeriel e… qualcos’altro, che però sfugge e respinge i miei tentativi di afferrarlo. Frammenti del sogno - se di questo si tratta - continuano ad indugiare nella mia mente, provocandomi brividi freddi dappertutto. Tuttavia, il particolare che più di ogni altro mi suscita inquietudine è l’assenza di Samael. Non si è fatto vivo durante il combattimento e di per sé è strano, poiché quando sono in pericolo arriva sempre a salvarmi. Forse anche lui stava affrontando dei nemici e non è riuscito ad intervenire in tempo. 
Però c’è qualcosa che non mi torna. È una sensazione, un turbamento di cui non posso sbarazzarmi con una semplice scrollata di spalle o raccontandomi menzogne. O magari le mie sono davvero stupide paranoie, perché altrimenti chi mi avrebbe adagiato su questa specie di divano? Ah. E se fossi stato catturato? No, Laeriel non l’avrebbe permesso.
Osservo degli scatoloni impilati gli uni sugli altri, dei quadri accatastati ordinatamente a ridosso delle pareti, cornici ammonticchiate in un angolo, oggetti e mobili antichi pieni polvere e tarli. In questa cantina ci sono pezzi d’antiquariato che dovrebbero valere milioni di sterline, e me ne intendo dal momento che la mia famiglia possedeva cimeli degni di un museo. Come un maestoso cassettone intarsiato risalente all’epoca napoleonica, lì a destra, con sopra altri scatoloni… cassettone che ho già visto da qualche parte. Corrugo la fronte e mi soffermo a studiarlo con attenzione, percependo un’emozione simile all’angoscia crescere dentro di me. 
Mi raddrizzo, mi alzo in piedi e mi avvicino lentamente, quasi mi trovassi al cospetto di un animale feroce e selvaggio in procinto di attaccarmi. Mi chino sul cassettone, sfiorando timoroso i fregi e le scanalature con i polpastrelli, riempiendoli di polvere. Diamine, è identico a quello che una volta vidi durante una delle tante spedizioni esplorative nei sotterranei di Villa Blackwood in compagnia di mio fratello Adam, solo che si trovava in un’altra stanza, più spoglia e piccola. Mi accovaccio, mentre il cuore mi martella nel petto come se volesse sfondarmelo, e allungo una mano per aprire l’ultimo cassetto. Se non ricordo male, Adam ed io incidemmo le nostre iniziali con un chiodo, per gioco, pensando di ingannare i prossimi proprietari facendo loro credere che gli autori fossero stati dei bambini morti secoli prima, durante il regno di Napoleone. Ma non può essere, giusto? Insomma, questo cassettone dovrebbe trovarsi a Villa Blackwood. Magari è una copia, un falso. 
Tasto con circospezione, finché con le unghie non gratto qualcosa che sembra intagliato nel legno. Percorro i segni con le dita e il terrore mi attanaglia le viscere in un secondo. Ritraggo il braccio come se mi fossi ustionato e mi tiro su tremando da capo a piedi. Questo cassettone non è identico, è quello della mia infanzia! Ciò significa che sono nei sotterranei di Villa Blackwood. Dio, no…
No, aspetta, forse è stato spostato in un altro scantinato, forse qualcuno lo ha rubato o comprato. L’occhio mi cade su uno dei quadri allineati accanto alla porta, il primo del mucchio, adagiato sul pavimento ammuffito. Non c’è dubbio, quello è il ritratto di mia madre, Eleonora Blackwood. Prima, però, era appeso in cima alla scalinata centrale, dalla parte opposta alla porta d’ingresso, accanto al ritratto di mio padre, in maniera tale che chiunque entrasse potesse ammirare i volti dei padroni di casa. Quindi perché si trova qui sotto? Chi ce lo ha messo?
Mi porto una mano sulla bocca per soffocare un grido, poi mi precipito verso la porta, spalancandola con un gran fragore. Voglio uscire, non posso restare un minuto di più. Ma i miei propositi scivolano in secondo piano appena mi affaccio sul lungo corridoio buio, adornato da pesanti porte di legno su entrambi i lati. Sì, riconosco tutto, ogni pietra, ogni mattone. Dio, perché sono qui?! 
Mi aggrappo allo stipite per non cadere, mi sento le ginocchia molli, pronte a cedere alla minima distrazione. Le lacrime pungono i miei occhi e la paura scorre nelle mie vene come veleno paralizzante, tanto che a malapena riesco ad incamerare ossigeno. Mi pare di essere tornato bambino, provo lo stesso terrore. Non mi sono mai piaciuti questi corridoi, mal illuminati, deserti e silenziosi, dove gli spifferi mi mordevano le caviglie e il sibilo del vento che si infilava tra le fessure sembrava il lamento di un fantasma. Immaginavo sempre che un mostro sarebbe spuntato fuori da una di quelle porte per mangiarmi. Allora c’era Adam a tenermi per mano, la sua stretta era rassicurante. Anche se mi prendeva in giro chiamandomi “fifone”, gli ero grato per la sua presenza. 
Adesso, invece, sono solo. Il mostro verrà a prendermi e mi mangerà. Non posso rimanere qui, altrimenti mi renderò una preda facile. Devo scappare, correre veloce come una lepre. 
Inspiro di nuovo, raccolgo tutto il coraggio che ho e in un attimo sto sfrecciando lungo il corridoio immerso nell’oscurità. Non temo di andare a sbattere, conosco la strada, i miei piedi non l’hanno mai dimenticata. Svolto a sinistra, poi imbocco il secondo corridoio a destra e infine il primo a sinistra. A questo punto dovrei arrivare in fondo, dove c’è una porta che dà su una sorta di vestibolo, attraversarlo, varcare un’altra porta e salire le scale fino a raggiungere l’ala riservata ai domestici. 
Giungo all’intersezione con un corridoio identico a tutti gli altri, quando capto qualcosa con la coda dell’occhio. Arresto la corsa, ghiacciandomi sul posto, mentre il mio cervello tenta di elaborare ciò che mi è parso di scorgere. Torno indietro, mi affaccio sul corridoio appena superato e sgrano le palpebre smettendo di respirare: a qualche metro di distanza c’è una porta accostata, dalla quale filtra la luce tremolante di alcune candele.
Si tratta di quella porta, la stessa del mio incubo.
“Non guardare, Archie.”
Mi irrigidisco e mi giro a controllare in ogni direzione, per capire da dove provenga la voce che ha sussurrato al mio orecchio, ma non vedo nessuno.
“Chi c’è?” chiedo in un bisbiglio roco, per non disturbare le tenebre e qualsiasi cosa si annidi in esse.
Ovviamente non ottengo risposta. Mi avvicino con cautela, cercando di fare meno rumore possibile, e mi porto di fronte alla porta, curioso di dare una sbirciatina. La mano si solleva e il busto si sporge in avanti, gli occhi pronti a nutrirsi di qualunque scena mi verrà proposta. 
No, dannazione! Non voglio toccare la maniglia, non voglio sapere cosa c’è dentro a questa stanza. Ciò che ho visto da bambino mi è bastato per una vita intera, non intendo ripetere l’esperienza, grazie tante. Coraggio, è ora di andarmene.
Ma le dita sono sempre più prossime alla maniglia, stanno per afferrarla. Il corpo non obbedisce ai miei comandi, le gambe sono pesanti e piantate al suolo, come incollate, e le ossa scricchiolano per le forze contrarie a cui sono soggette, quasi che la mia volontà si sia spaccata in due e queste mie spoglie mortali non sappiano più quale corrente seguire.
Dio, aiutami.
I polpastrelli sfiorano il freddo metallo e immediatamente avverto una presenza maligna intorno a me, che mi avvolge, mi soffoca, mi alita sul collo. Affamata.
“Non guardare, Archie.”
“Non… non guardare…” ripeto tra i denti, mentre tento di resistere all’impulso che mi spinge ad aprire la porta maledetta.
Sul serio, che diavolo sta succedendo? Sto ancora sognando?
Arretro di un passo, nonostante questo movimento mi costi uno sforzo colossale. Chiudo gli occhi, stringo i pugni e volto le spalle a quel luogo terrificante, teatro di un rito satanico a cui avevo dimenticato di aver assistito. Devo aver subito un’amnesia selettiva, così che il mio cervello ha rimosso dalla memoria quell’episodio per proteggersi dalla pazzia. Ora, però, mi è tornato in mente, risvegliato da qualcosa, probabilmente il trauma che mi ha inflitto Titus con le sue torture, e non credo che riuscirò ad accantonarlo una seconda volta.
Ricomincio a correre e in meno di un minuto sono nel vestibolo. Salgo le scale che mi porteranno agli alloggi della servitù e li attraverso senza osare fermarmi, cieco a qualsiasi cosa che non sia la meta, ossia la porta a vetri in fondo alla grande sala delle cucine. Mi ci fiondo con impeto violento, la spalanco e solo quando mi trovo avvolto dai tiepidi raggi del sole mi azzardo a rallentare il passo. La debole luce del tramonto filtra attraverso le finestre, tingendo di rosso e arancione ciascuna superficie e conferendo all’ambiente un’atmosfera sospesa, surreale, come se il tempo si fosse arrestato. 
La saletta di collegamento tra l’ingresso e le cucine è completamente vuota, eccetto per un mobiletto con sopra un vaso di fiori, posto in mezzo alle due grandi finestre sulla sinistra. L’abbandono senza indugiare oltre e decido di esplorare la casa alla ricerca di Samael e Laeriel. Devono pur essere da qualche parte.
“Sam! Laeriel!” chiamo.
La mia voce riecheggia sulle pareti, diffondendosi nelle varie stanze. Percorro con ampie falcate il salone d’ingresso e la scalinata centrale, diretto al piano superiore. Cammino senza meta, perlustrando le camere e i salottini, pervaso da un’angoscia opprimente. Mi sento soffocare, benché gli ambienti siano spaziosi: troppi ricordi sono racchiusi in queste mura, la maggior parte orribili. Lo stomaco si comprime in una morsa dolorosa, la gola si chiude per l’ansia e l’agitazione, mentre lo smarrimento aumenta in modo esponenziale.
Senza accorgermene, mi fermo davanti allo studio di mio padre. I miei piedi mi hanno condotto qui, guidati da un impulso che non riesco a comprendere, forse un malato istinto masochista. Entro trattenendo il fiato.
“Oh, Archie, finalmente.” mi apostrofa un uomo grassoccio, con radi capelli bianchi sul cranio e occhi piccoli, affilati come spilli.
Se ne sta seduto sulla poltrona in pelle dietro la scrivania, intento a firmare dei documenti con una raffinata penna stilografica. È vestito di tutto punto, con un costoso completo giacca e cravatta. L’anello di famiglia brilla sul suo dito medio ed emana bagliori sinistri. Il caminetto è acceso e lo scoppiettio del fuoco è il solo suono che rompe il silenzio.
“P-papà…?” esalo scioccato.
Mi sento svenire. Questo è un incubo, vero?
“Mh?” mi squadra dall’alto in basso, appare confuso.
Indietreggio e in risposta lui si alza, facendo perno con le mani nodose sulla scrivania. La aggira rapidamente con l’intenzione di venirmi incontro, ma in un istante la paura mi acceca. Il mio corpo ricorda troppo bene, non gli occorre che un misero secondo per rievocare la violenza, il dolore e l’umiliazione, nonostante tutti gli anni passati. Perché ne sono passati tanti, giusto? Io adesso sto con Samael, sono un messaggero di Satana, scaravento le anime dei peccatori all’Inferno, non sono più un ragazzino umano e indifeso.
“Archie, cos’hai? Sei pallido come uno spettro.”
Mi porto a distanza di sicurezza, ma ad un certo punto la mia schiena cozza contro il muro del corridoio, di fronte allo studio di mio padre, che continua ad incedere verso di me. I suoi occhi mi scavano dentro, annientano le mie barriere, si intrufolano nella mia anima ravvivando la disperazione come si ravviva un fuoco dormiente.
Scuoto la testa, provando a mantenere la calma e il sangue freddo. Non può essere reale, quel pervertito è morto tempo fa. È un’allucinazione. Sto sognando ancora, in verità non mi sono mai svegliato. Dev’essere così, per forza.
“Archie? Mi senti? Sta’ tranquillo, sei al sicuro. Vieni, vieni da me.” dice allargando le braccia.
“No! Sta’ lontano!” urlo, ormai sull’orlo di un pianto isterico, “Vattene! Non sei qui, non sei reale!”
Mi appiattisco contro la parete, ma non mi muovo. Non perché non lo desideri - ogni cellula mi sta gridando di scappare -, piuttosto per via della paura, che mi pietrifica come un lago di sabbie mobili. Non voglio che lui mi tocchi con quelle mani schifose.
“Archie.”
Avanza inesorabilmente, tra poco sarà vicinissimo.
“Archie!” esclama perentorio, ma la sua voce d’un tratto pare strana, distorta.
Lo guardo, non riesco a distogliere gli occhi dai suoi, che mi risucchiano in un abisso senza fine. Mi afferra le braccia, stringe e mi chiama ancora. Sono paralizzato dal terrore, tanto che le urla, per quanto impazienti di uscire, rimangono incastrate in gola.
“Archie! Archie, mi senti?”
Forte e chiaro, purtroppo.
“Lasciami…” mormoro flebile.
“Archie… sono io.”
L’istinto di sopravvivenza decide di agire, permettendomi di riemergere dal torpore e sferrare a mio padre una ginocchiata fra le gambe. Tuttavia, il movimento repentino mi fa sbilanciare e incespicare, e prima che me ne renda conto mi ritrovo all’interno dello studio, in trappola. Ispeziono la stanza con sguardo febbrile, smanioso di scovare una via d’uscita o un’arma con cui difendermi. Focalizzo il camino, le braci sfrigolanti e l’attizzatoio riposto sull’apposito gancio. Mi lancio su di esso, lo agguanto e mi volto appena in tempo per evitare che una della mani di mio padre mi ghermisca per la spalla. Sollevo il bastone di ferro e lo calo sulla sua faccia. Lo sfiora provocandogli un taglio superficiale sulla guancia, ma almeno si allontana. La tregua dura pochi attimi, perché in men che non si dica mi è di nuovo addosso, intenzionato a strapparmi l’attizzatoio dalle dita. Gli assesto altre percosse sulle braccia, sulle ginocchia e sulla schiena, colpisco alla cieca con l’unico scopo di ferirlo abbastanza da renderlo inoffensivo, e magari ucciderlo ancora. Lui non fa molti sforzi per fuggire, per lo più schiva e scansa più fendenti che può, ma rimane nel mio raggio d’azione.
“Archibald!”
Il mio nome rimbomba persino nelle mie ossa. La sua voce fa vibrare ogni fibra del mio corpo come un diapason, azzerando il mio spirito combattivo, la mia volontà. No, non mi piegherò, stavolta lotterò.
Compio una finta a destra, faccio una piroetta, mi accovaccio e gli passo dietro, superandolo. Allora impugno per bene l’attizzatoio e, prima che si giri e intercetti il colpo, gli trafiggo il torace, trapassandolo da parte a parte. Emette un grugnito, ma stranamente non si accascia sul pavimento. E solo ora noto che non c’è sangue. Deglutisco, mollo la presa e arretro ancora, finendo di nuovo spalle al muro. Mio padre si volta lentamente e un istante più tardi mi specchio in due iridi arancioni, spaventosamente familiari.
“Alastor.” scandisce minaccioso.
Come fa a conoscere il mio nome da demone? Non può… oh.
Nel momento in cui realizzo cosa sta accadendo, i contorni della realtà si sfaldano poco a poco, fondendosi in uno spesso banco di fumo grigio. In seguito, riapro gli occhi sul mondo e vedo una stanza mezza distrutta, con i mobili in mille pezzi, le finestre rotte, le tende sfilacciate e piene di buchi, il camino spento e il tappeto sbrindellato e bruciacchiato. Sì, è lo studio di mio padre, ma deve essere successo qualcosa.
Riporto l’attenzione innanzi a me e incontro la figura di Samael, che si erge come una divinità in mezzo alla devastazione. Afferra saldamente l’attizzatoio conficcato nel suo petto e tira per estrarlo, poi lo lascia cadere a terra senza fare una piega.
“Sam…” pigolo mortificato, “Scusa, io… io non so cosa…”
Mi raggiunge, si inginocchia davanti a me e mi scruta con i suoi occhi di fuoco. Dovrebbe spaventarmi, invece provo sollievo. Protende una mano verso il mio viso e la posa sulla mia guancia, il palmo gelido a contatto con la mia pelle scossa dai brividi.
“Chi vedevi al posto mio?” mi interroga corrucciato.
“M-mio padre…” farfuglio in preda alla confusione.
“È morto, Alastor, ricordi? L’ho ucciso di fronte a te, quella notte.”
“Sì… sì, è morto.” ripeto, come in trance.
“Non avere paura. Sei al sicuro con me.”
“Lo so… lo so, io…” balbetto e deglutisco, “Perché siamo qui, Samael? Perché mi hai portato qui? Perché mi sono svegliato nei sotterranei?”
“Calmati, sta’ tranquillo.” sussurra dolcemente, accogliendomi tra le sue braccia per trasmettermi conforto, “Siamo stati attaccati dagli Spennati ad Amsterdam e siamo dovuti fuggire. Tu eri privo di sensi, così ti ho trasportato fino a Londra. Non ho avuto scelta, eravamo accerchiati. E, per quanto assurdo ti possa sembrare, questo posto è il più sicuro.”
“Come può esserlo?”
“Sai cosa accadeva in questa casa. Le sue mura sono impregnate di energia maligna. È una specie di anticamera dell’Inferno e col tempo è diventato un luogo di passaggio. Gli Exurge Domine non possono entrare.”
“Un luogo di passaggio? Intendi tipo… un limbo?”
Percepisco che sta sorridendo anche senza vederlo. Le carezze sulla mia schiena si fanno più gentili, infondendomi calore. Mi stampa un bacio fra i capelli, continuando a cullarmi, e finalmente rilascio tutta la tensione accumulata con un sospiro angosciato.
“Nei sotterranei il potere del Male è più forte. Ti ho lasciato lì in modo che ti curasse, che ti proteggesse in caso i nemici avessero deciso di fare irruzione. A loro rischio e pericolo, comunque.”
La visione della porta accostata, la voce nella mia testa che mi intimava di non guardare, il terrore suscitato dalla fitta oscurità dei corridoi tornano a farmi visita e senza volerlo ho uno spasmo.
“Shhh. Va tutto bene.” bisbiglia Samael al mio orecchio.
“Perché ho visto mio padre?” singhiozzo, “Era così… così reale…”
“È il Male che lui ha evocato. Te l’ho detto, questa casa è infestata dal miasma infernale, perciò può capitare di vedere qualcosa…”
“Qualcosa?”
“Tuo padre è morto qui, come anche tua madre, tuo cugino, i figli innocenti delle cameriere e pure qualche domestico. Per non parlare delle altre vittime, persone che non vivevano a Villa Blackwood ma che sono state uccise qui dentro.”
“Uccise? Quando?”
“Oh, beh, durante gli anni, già da prima che tu nascessi. Parevano incidenti, per esempio una brutta caduta dalle scale, annegamenti nelle vasche da bagno, qualcuno che inciampa e si spezza l’osso del collo, fulminamenti dovuti al malfunzionamento della corrente, roghi accidentali… senza contare i decessi per malattia, i suicidi e gli omicidi. La famiglia Blackwood ha una storia interessante.” ridacchia divertito, “I tuoi avi adoravano il Diavolo, lo hanno fatto per secoli, e compivano sacrifici e rituali nei sotterranei per accaparrarsi i suoi favori e ottenere fama, potere o persino l’immortalità. Alla fine, i Blackwood si sono ritagliati un posto d’onore alla tavola dei sovrani d’Inghilterra e pure costoro si sono fatti coinvolgere, qualche volta, in questi… festini. Sei nato in una casa maledetta, Alastor, ma sono contento, perché sennò non saresti qui adesso, tra le mie braccia.” mi scocca un bacio sulla fronte e mi sorride, “Con questo non voglio dire che sprizzo gioia da ogni poro per ciò che ti hanno fatto, ma è stato necessario, forse. La legge del contrappasso, un prezzo da pagare per raggiungere un obiettivo, la sofferenza da patire per ottenere il premio finale. Hai incontrato me, d’altronde.”
Non riesco a commentare, sono troppo scioccato. Osservo la stanza, totalmente allibito: nulla è stato risparmiato, sembra quasi che sia passato un tifone.
“Cos’è successo?”
“Dalla notte in cui ti ho preso con me, i decessi sono aumentati, fino a decimare gli abitanti della magione. I sopravvissuti sono fuggiti e la casa è stata messa in vendita. Ci sono stati due diversi proprietari nel giro dello stesso anno, poi Villa Blackwood è stata rilevata da un’azienda che voleva trasformarla in un complesso di uffici. I lavori non sono ancora iniziati, però. È in stato di abbandono, ormai. Tanti criminali si sono intrufolati per rubare i cimeli della tua famiglia o l’argenteria. Peccato che più di metà siano morti tragicamente…” ghigna allusivo, “Hanno appiccato un incendio una quindicina di anni fa, ma esso si è estinto da solo dopo un paio d’ore. Poi dei vandali sono entrati e hanno distrutto quasi tutto per divertimento. Inutile dirti che nessuno di loro è mai tornato a casa. Ad ogni modo, il risultato è quello che vedi. La rovina regna sovrana.”
“Quei tizi sono morti qui…?”
“Sì. Non immagini neanche quanti umani abbiano perso la vita tra queste mura. Un piccolo esercito.”
“E dove sono i cadaveri?”
Samael assume un’espressione enigmatica e mi scruta intensamente: “Secondo te?”
“Sono stati mangiati.” rispondo di getto, per poi domandarmi cosa cavolo significhi.
“Esatto. Sai, la casa ha sempre fame…”
Mi agito ancora di più, mentre i miei occhi saettano da un angolo all’altro per verificare che non ci siano mostri in agguato.
“Non voglio rimanere qui. Ti prego, Sam, portami via.”
“Rilassati, non possono farti dal male. Godi della protezione di Lucifero, sei intoccabile. Non preoccuparti. Inoltre, sottolineo che questo è il posto più sicuro al momento. Elaboreremo una strategia e lo faremo qui, dove gli Spennati non sono i benvenuti. Villa Blackwood veglierà su di noi.” sorride incoraggiante.
Tremo al solo pensiero di dover trascorrere i prossimi giorni nel mio inferno personale, ma se Samael ritiene che sia meglio così, non mi resta che fidarmi. 
“Laeriel dov’è?”
Il maestro fa una smorfia che non riesco a interpretare.
“Di sotto. Non ho ancora finito con lui, perciò ti pregherei di aspettare.”
“In che senso?”
“Lo sto punendo per aver permesso ai nemici di ferirti.”
“No!” scatto a sedere e stritolo i polsi di Samael.
Lui mi guarda stupito. 
L’incubo è ancora vivido nella mia memoria, sento persino il tanfo di carne bruciata nelle narici.
“Mi ha salvato! Cioè, è arrivato in ritardo, ma è arrivato. Non prendertela con Laeriel, non ha fatto nulla di male.” lo supplico, sporgendomi a baciarlo.
“Lo ha fatto, invece.” replica, per niente scalfito, “Sapeva che vi stavano seguendo e non ti ha avvertito. Adesso sto cercando di capire se è in combutta con gli Exurge Domine oppure no. Devo accertarmi che sia un nostro alleato e non una spia, capisci?”
“Samael, ti prego! Lui è con noi, te lo assicuro! E poi tu non c’eri. Sei tu che mi hai abbandonato quando ne avevo bisogno.” lo accuso.
Incassa il colpo e chiude le palpebre colpevole: “Hai ragione. Vedi, il fatto è che ero stato convocato all’Inferno per discutere di alcune questioni. Non potevo sentire cosa stava accadendo. Mi dispiace. Però avevo raccomandato a Laeriel di starti appiccicato come una zecca in mia assenza e, al contrario, ti ha lasciato alla mercé di un nemico. Per questo motivo devo punirlo.”
“Ma-”
“Smettila, Alastor, non contraddirmi.” mi sgrida severo.
Ammutolisco all’istante, rigido come un tronco.
Il suo sguardo si addolcisce un attimo dopo, infila le dita tra i miei capelli, mi accarezza il collo e si china a baciarmi sulla bocca.
“Sei ancora sconvolto, non dovrei rimproverarti. Scusami, ma devi capire che è necessario. Non possiamo tollerare altri passi falsi, i piani alti sono in fermento. Fidati di me, come hai sempre fatto.” sussurra suadente, ipnotizzandomi con la sua voce e i suoi occhi di brace, “E goditi la tua permanenza qui, senza paura. In molti sono lieti di rivederti, soprattutto una bella signora di nome Eleonora.” stampa un ultimo bacio sulla mia fronte e si ritrae con un sorriso, “Bentornato a casa, Archie.”
La disperazione mi attanaglia le viscere. Per fortuna non c’è stato alcun comitato di benvenuto, non oso immaginare cosa proverei se rivedessi i miei genitori. Perché Samael non comprende che per me è una tortura restare bloccato qui dentro? Perché mi fa questo? 
Chiudo gli occhi e nascondo la faccia sul suo petto ampio, cercando di placare i tremori e i cattivi presentimenti.










 

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Eredità dal passato ***







 


“Sam, portami da Laeriel, devo parlargli.”
Samael mi fissa con irritazione e storce la bocca.
“No.”
Sbuffo spazientito e metto il broncio, ma vengo distratto dal maestro, che cambia abilmente argomento.
“Piuttosto, voglio che mi racconti com’è andata con gli Exurge Domine. Voglio la tua versione dei fatti, non mi fido del pollo.”
“Beh, che c’è da dire? Stavamo andando a riscuotere un’anima e all’improvviso siamo stati attaccati. C’era Titus, uno dei due Exurge Domine che mi hanno catturato a Firenze. È stato lui a ridurmi male. Gli altri quattro placcavano Laeriel, che ha avuto il suo bel da fare. È stato figo, si vedeva che era su tutto un altro livello rispetto agli Spennati, ma comunque gli hanno dato del filo da torcere. Poi... Laeriel deve averli sconfitti. Ma Titus è fuggito. Non ricordo bene, ero un colabrodo.”
Cala il silenzio. Samael continua a scrutarmi in attesa, al che inarco un sopracciglio e gli scocco un’occhiata interrogativa.
“E?” mi esorta.
“E cosa? Non c’è altro.”
“Sicuro?”
“Sì.” rispondo sincero.
“Mmm. Come si sono risvegliati i tuoi poteri?”
“I miei poteri? Che dici?”
“Ho trovato mucchietti di cenere al posto dei cadaveri, proprio come accadde quella notte a Notre-Dame. Ricordi di averli usati?”
Rapide immagini  confuse mi trafiggono il cervello. Mi metto seduto, scostandomi di qualche centimetro. Incrocio le gambe e mi gratto il mento, assorto nei ricordi, che mi appaiono vaghi, nebulosi, come se avessi sognato.
“Non ne sono certo. Mi chiedo come abbia fatto a dimenticarmene.”
Fisso i palmi delle mie mani, come se fossero depositari di qualche importante rivelazione.
“Non rammento bene. Da quella notte a Notre-Dame non sono più riuscito ad usarli.” decido di sorvolare sull'incontro con il mio doppio a Firenze, “Forse mi è mancata l’occasione giusta. La prima volta che ho evocato le fiamme nere ero in pericolo: l’Exurge Domine di nome Silv mi stava facendo qualcosa… credo stesse cercando di piegare la mia volontà. In quel momento ho avvertito una scossa e… non so come, un vortice nero è partito da me e lo ha colpito in pieno. Anche nell’ultimo scontro ero in pericolo, ma…” 
“Ma?”
Doso le parole con difficoltà, quasi faticassi ad esprimermi o a cavarle fuori di bocca: “Non era Titus che temevo. Ce lo avevo vicino, a portata di mano, eppure ho scelto di scagliarmi contro i suoi compagni. L’ho ignorato.”
“Perché?”
Mi prendo la testa tra le mani ed emetto un lamento frustrato. Le visioni della lotta mi appaiono come attraverso un vetro appannato. 
“Non lo so… non ricordo. Comunque, la mia distrazione lo ha fatto scappare.”
“Titus ti stava facendo qualcosa? Anche lui ha tentato di piegare la tua volontà come Silv?”
Mi concentro, provando a riportare alla mente i ricordi, sebbene sia tutto confuso e caotico. Mi risulta difficile riordinare le varie scene, come se qualcuno avesse sparpagliato consapevolmente i pezzi per impedirmi di ricostruire il disegno.
“Lui…” mi sforzo di più, “Lui, beh, mi ha gonfiato di botte. Non sono riuscito a tenergli testa, era troppo forte. Ricordo i suoi occhi di un azzurro brillante, la sua figura che torreggia su di me, il peso del suo corpo sul mio e la sua mano conficcata nel mio torace. Ma non sentivo male. Poi… poi ha detto che non voleva che morissi, non era nei suoi piani. Così mi ha fatto bere qualcosa…”
“Che cosa?” chiede Samael, protendendosi verso di me con aria interessata.
“Era una fiala, ma… era vuota. Eppure ho ingoiato qualcosa. Ecco, sì, ricordo il dolore atroce. Quella sostanza mi avrebbe ucciso, ne sono sicuro. E lui è parso… turbato.”
“Turbato?” mi fissa curioso.
“Sì, turbato. Sorpreso. Quindi si è chinato su di me, mi ha aperto la bocca e mi ha… mi ha…”
Sgrano le palpebre stranito e ricambio lo sguardo indagatore di Samael.
“Mi ha baciato.” esalo senza tanti giri di parole.
Il maestro sbarra appena gli occhi, ma in un secondo si esibisce nell’espressione infastidita che ben conosco. È geloso. Mi verrebbe da ridacchiare, ma non è il momento adatto.
“Anzi, mi correggo: ha solo posato le labbra sulle mie, poi ha soffiato dell’aria nella mia bocca. Insomma, sembrava aria. E dopo mi sono sentito subito meglio, ho recuperato le forze in men che non si dica. Pure le ferite sono guarite.”
“E questo come si spiega?”
“Che ne so? Dimmelo tu.”
Socchiude gli occhi e inizia a riflettere, mentre io non posso fare altro che attendere trepidante il responso.
“Ripetimi come ti sei sentito quando hai ingerito qualsiasi cosa ci fosse in quella fiala.”
“In una parola: male. Era un’agonia.”
“Mmm… perciò verrebbe quasi da pensare che Titus ti abbia intenzionalmente guarito. Assurdo. Perché l’avrebbe fatto? Qualcosa non quadra.”
Borbotta teorie per un minuto buono, ma le scarta tutte con crescente nervosismo.
“Beh?” lo riscuoto dopo un po’.
“Mi spiace, non ne ho idea.” rilascia un sospiro pesante, “Noi demoni sappiamo di cosa sono capaci gli Spennati, sono i nostri nemici da sempre, però non siamo a conoscenza delle loro abilità peculiari. Ciò che intendo è che sappiamo come combattono, che tipo di poteri hanno, di che armi fanno uso, ma ignoriamo i dettagli. Per esempio, è noto che usano cose come il Bastone di Gabriel, quello con cui ti hanno acciuffato a Firenze, e possono evocare la Luce, data la loro natura angelica. Tuttavia, non ho mai sentito di qualcuno di loro che usa fiale o che… soffia qualcosa dentro un demone.”
“Nessuno di voi lo sa? Proprio nessuno?” insisto.
“Forse Lucifero ha la risposta. Lui sa molte cose.”
“Puoi chiederglielo?”
Annuisce.
“Perfetto! Mi porti con te?” gli sorrido speranzoso.
È da anni che sogno di conoscere Sua Eccellenza, mi metterei pure a scalpitare come un infante che fa i capricci se non avessi un minimo di contegno.
“Alastor.”
Il suo tono serio mi rimette in riga all’istante. Torno a sedermi composto, leggermente deluso, le mani intrecciate sulle ginocchia, attento come un bravo scolaretto.
“Come è finito lo scontro con gli Exurge Domine? Perché Laeriel ti ha riportato da me privo di sensi? Tu non puoi svenire, a meno che di mezzo non ci sia un potere divino, come nel caso del Bastone di Gabriel. Cioè, non puoi più sperimentare le comuni reazioni umane al dolore o alla fatica. Quindi sei svenuto perché…?”
Mi osserva intensamente, sembra quasi voler scavare dentro di me, sotto la pelle, i muscoli e le ossa, fino a violare la mia parte più intima.
“Ehm… io… non me lo ricordo.” confesso, “Stavo esultando con Laeriel, quando all’improvviso tutto è diventato nero.”
Annuisce di nuovo, poi compie un gesto vago con la mano.
“D’accordo, ne parliamo più tardi. Stanotte si lavora, ma andremo insieme. Il pollo resta qui.”
“Insieme?”
Mi illumino d’immenso. Accidenti, quanto è passato dall’ultima volta in cui io e Samael abbiamo svolto un lavoro in coppia? Dalla fine del mio apprendistato, credo. D’un tratto non mi importa più un fico secco di Laeriel.
“Sì, insieme. Non me la sento di lasciarti solo dopo ciò che è successo, voglio tenerti d’occhio.” ghigna e si sporge a stamparmi un bacio sulla fronte.
Mi accarezza la guancia e si scosta. In un attimo è già in piedi e mi tende la mano per aiutarmi. L’afferro emozionato, intreccio le nostre dita e mi lascio trascinare fuori dallo studio, lungo il corridoio e poi giù per la scalinata centrale. Ci fermiamo davanti all’ingresso, Samael apre una porta laterale che funge da guardaroba e ne estrae i nostri cappotti e valigette.
“Destinazione?” indago allegro, tutta l’angoscia di poco fa dimenticata.
Il pensiero di trascorrere un po’ di tempo con il maestro mi esalta sempre a tal punto, non riesco a controllarmi. In più voglio mostrargli quanto sono diventato bravo sul campo.
“Rammenti il caro signor Phelps? Tredici anni fa immolò la figlia al suo posto.”
Schiudo la bocca in preda allo stupore: “Certo! È stato il mio primo incarico! Wow, sono già passati tredici anni…”
“Beh, è giunta l’ora di riscuotere.”
Mi fa l’occhiolino, volta le spalle alla porta ed esce in strada. Osservo la sua schiena ampia e i lunghi capelli scuri, lasciati sciolti, in cui immagino di affondare la faccia per bearmi della loro morbidezza. Il mio cuore, senza che me ne renda conto, batte vari colpi, facendomi accapponare la pelle per il piacere.

Rivedere questa casa, questi mobili, questi quadri mi provoca un brivido lungo la schiena. Il signor Phelps è invecchiato, ma è rimasto il solito schifoso bastardo. Lo osservo mentre mi prega in ginocchio di risparmiarlo, piangendo e tremando, e la scena mi provoca un disgusto che rare volte ho sperimentato.
“Aspetta, posso darti un’altra anima, un’anima innocente! Il nipote della mia domestica, lui è perfetto, puoi prenderlo!” grida fra le lacrime.
“Non funziona così, signor Phelps.” rispondo annoiato, “Deve trattarsi dell’anima di qualcuno che lei ama, qualcuno con cui ha un legame abbastanza profondo. Sua figlia era adatta al ruolo di agnello sacrificale, il nipote della domestica, invece, non significa niente per lei. Il tempo è scaduto e ho altri impegni per stanotte, perciò si dia un contegno e accetti il suo destino.”
“No! Aspetta!”
Storco la bocca in una smorfia e gli metto a forza l'anello in mano. Il portale dell’Inferno si spalanca sotto il signor Phelps, una voragine infuocata dalla quale sgorgano, impetuose come un fiume in piena, le urla di agonia dei dannati. Arti neri e scheletrici si affacciano e si protendono verso l’alto per afferrare le gambe del signor Phelps, che invano tenta di scappare ghermendo l’aria con le dita grassocce. Viene risucchiato tutto intero, la pelle si trasforma in uno strato incartapecorito e rugoso e gli occhi si sciolgono come burro, lasciando le orbite vuote. Sparisce in una manciata di secondi e nello studio in cui venni ricevuto tredici anni fa cala di nuovo il silenzio. Il cadavere del mio cliente giace supino e integro sul tappeto persiano. 
Ma la quiete dura poco, poiché Samael apre la porta e applaude con un sorriso compiaciuto.
“Bravo, Alastor. Devo ammettere che sei stato perfetto, hai un talento naturale. Adesso più che mai sono certo di aver fatto la scelta giusta a prenderti con me.” si complimenta.
Sorrido anch’io, impacciato, e mi gratto la nuca.
“Beh, ho fatto pratica.”
Inarca un sopracciglio, ma non abbandona l’espressione soddisfatta da gatto.
“Coraggio, abbiamo altri clienti, non è educato farli attendere.” dice, invitandomi con un blando gesto della mano a seguirlo dabbasso, per salire ancora sulla limousine e farci scarrozzare dall’autista invisibile in giro per Londra, verso la prossima meta.
Sono felice di aver fatto una buona impressione ed è inutile sottolineare quanto le sue lodi mi facciano gongolare di gioia. È emozionante lavorare con lui, proprio come ricordavo.
Samael sta tenendo la portiera aperta per me, quando senza alcun preavviso mi agguanta per il bavero del cappotto e mi scaraventa in alto, quasi mi spedisce in orbita. Non ho né il tempo né il modo di capacitarmi di cosa stia succedendo. So solo che per fortuna - o forse il maestro l’aveva calcolato - atterro sul tetto di un palazzo, rotolando sul cemento. Perdo la presa sulla valigetta, che slitta lontano. Stringo i denti e pianto le mani e i piedi per frenare lo slancio, quindi mi rialzo e faccio dietro front, con tutta l’intenzione di tornare giù e chiedere spiegazioni a Samael. Tuttavia, appena la mia testa fa capolino dal tetto, noto che sulla strada la limousine è sparita, come anche Samael. Che se ne sia andato senza di me? Per quale motivo?
Percepisco un debole fruscio alla mia sinistra, mi giro e scorgo due ombre che volteggiano nel vuoto. Si muovono troppo rapidamente perché io riesca a seguirle, ma durante un momento in cui una delle due rallenta, quasi come per prendere la rincorsa, riconosco Samael. Ha una manica strappata. Allora la consapevolezza che siamo sotto attacco mi colpisce come un fulmine. E pensare che il maestro l’aveva anche detto che Londra è un focolaio di Spennati.
Scatto in piedi, richiamo la valigetta e chiudo gli occhi per concentrarmi. Chiudo la mano libera a pugno e raccolgo le energie, nella speranza che le fiamme nere rispondano all’evocazione. Sono in pericolo, giusto? Perciò dovrebbe funzionare. Resto immobile per un paio di minuti, ma non succede nulla. Sibilo frustrato e torno a guardare Samael e l’Exurge Domine combattere. Si sono spostati, sono più lontani ora, tanto che nel buio della notte, per quanto le luci della città illuminino i dintorni, è difficile distinguerli. 
A un tratto intercetto un’occhiata di Samael. È uno scambio di sguardi fugace, non dura nemmeno un battito di ciglia, ma mi è sufficiente per capire che se ne occuperà lui. Sta portando il nemico lontano da me per permettermi di scappare. Eppure, per quanto i suoi piani facciano nascere nel mio petto un piacevole calore, non mi illudo: gli Exurge Domine non lavorano mai da soli, sono sempre in coppia o in gruppi più numerosi, dipende dal livello di forza del demone che devono affrontare. E un singolo Spennato non ha possibilità contro Samael. Ergo, ce ne sono altri, appostati dietro gli edifici o dentro le case, che studiano la situazione in silenzio, in agguato, pronti a far scattare la trappola.
“Sam! Andiamo via!” esclamo agitato, continuando a scrutare le sagome dietro le finestre degli appartamenti e le ombre sui tetti.
Un attimo più tardi, come previsto, mi ritrovo accerchiato. Sono addirittura in cinque. Mi è subito chiaro che non posso farcela. Se solo riuscissi ad usare i miei poteri… come faccio ad innescarli? Non voglio farmi pestare come è successo con Titus, perché in quel frangente ho davvero creduto di morire.
Ecco. La paura della morte. Forse è questo che fa divampare le fiamme. Ciò significa che dovrei spingermi sino al limite, mettere in gioco la mia vita e prenderle di santa ragione finché l’istinto di autoconservazione non si accende. È troppo rischioso. Non poteva capitarmi un potere meno estremo? Tipo, che so, la telecinesi.
Avanzano, serrano i ranghi e mi costringono ad arretrare. Spicco un salto e atterro sul tetto del palazzo accanto, di poco più basso. Ovviamente mi inseguono senza indugio, così, pregando che Samael non ci impieghi troppo a disfarsi del suo avversario e venga ad aiutarmi, fuggo in una direzione a caso, veloce come il vento. Eppure, di male in peggio, durante la mia corsa altri Exurge Domine sbucano dalle zone d’ombra e si lanciano su di me per colpirmi. Schivo i loro attacchi come posso, ma vengo spesso obbligato a cambiare strada, quasi mi sembra di girare in tondo.
Ci metto un po’ per accorgermi di una cosa strana: i nemici non mi si scagliano addosso con la dovuta grinta, come se non desiderassero uccidermi. Si limitano a confondermi con i loro globi di luce azzurra, movimenti bruschi, ritirate, affondi, cariche, ma lasciano sempre una via di fuga, una sola, come se stessero tracciando un percorso per condurmi chissà dove. E il brutto è che non posso fare altro che imboccare quel percorso per evitare di ingaggiare uno scontro diretto.
Noto che mi sto allontanando sempre di più da Samael - e forse il loro intento è proprio quello di dividerci -, addentrandomi in una zona più povera. I palazzi sono più bassi, leggermente fatiscenti, e dai tombini fuoriesce l’effluvio maleodorante delle fogne. Mi sono ancora alle calcagna, saltano agili sui tetti tenendo il mio passo, ma, a conferma della mia teoria, non compiono alcuno sforzo per raggiungermi, anche se potrebbero farlo con facilità. Spicco un balzo giù, calcolando le mie probabilità di fuga in mezzo ai vicoli del quartiere in cui sono stato guidato. Magari riesco a seminarli. Mi infilo in una stradina stretta, tra due edifici di mattoni, e corro alla ricerca di una porta che non sia quella di una casa. Un magazzino o il retro di un negozio sarebbe l’ideale. Con mia grande sfortuna, tutte le porte sono sigillate e non ho il tempo per fermarmi. Sento i nemici vicini, troppo. La mia ansia aumenta.
Non so più dove sto andando, ho perso il senso dell’orientamento. Il labirinto di vicoli in cui sono entrato non mi aiuta, perché sembrano tutti identici. Ad ogni bivio mi chiedo se per caso non sia già passato di lì, ma le domande restano prive di risposta, il cervello impegnato a pieno ritmo ad elaborare una strategia che mi consenta di ricongiungermi a Samael, così da avere più chance di vittoria.
All’improvviso uno Spennato scende in picchiata da un tetto e atterra innanzi a me, costringendomi a tornare indietro. Non capisco cos’hanno in mente. Mi hanno in pugno, perché non la fanno finita? Pare quasi che stiano giocando con un topo, divertendosi a piazzare trappole o bocconcini per condurlo fino alla meta. Ma qual è la meta?
“Merda.” ringhio fra i denti, scavalcando con un salto un cassonetto.
Non so quanto tempo passa, forse pochi minuti o delle ore, quando finalmente percepisco la loro presenza sparire in prossimità di un ospedale. Le porte sono aperte, le luci accese, ma non c’è molto via vai. 
Mi guardo intorno circospetto, poi varco la soglia senza curarmi di niente, tanto gli esseri umani non possono vedermi. Supero la reception e la sala d’attesa, le infermiere e i dottori che incrocio mi ignorano. Imbocco un corridoio a caso e mi rintano nella parte più interna dell’edificio, sperando che gli Exurge Domine non decidano di braccarmi anche qui dentro. Mi aggiro in qua e in là con i sensi tesi e vigili, senza incontrare nessuno. Ad un tratto, mi fermo di fronte a una porta che indica il reparto di terapia intensiva. L’apro e scivolo oltre, silenzioso come uno spettro.
Il corridoio è vuoto e tutte le stanze sono immerse nella penombra, illuminate appena dalle spie dei macchinari e da lampade alogene. I pazienti lì ricoverati dormono attaccati alle flebo e ai respiratori, soli, abbandonati al loro sonno indotto dai farmaci. Alla fine del corridoio, sulla destra, intravedo una luce più forte provenire dall’ultima stanza, poco prima di un’altra porta che conduce alle scale d’emergenza. Devo passarci davanti per raggiungerla. Marcio a grandi falcate, il manico della valigetta ben stretto nella mano, ma un istante dopo inchiodo e faccio un passo indietro. 
“Titus…” soffio spaventato.
Titus mi scruta con espressione seria e tranquilla, il viso dai lineamenti regolari accarezzato dalla luce della lampada. È fermo proprio davanti all’ultima stanza, appoggiato con la schiena al vetro, le braccia incrociate sul torace, come se mi stesse aspettando. Non sembra aver voglia di attaccarmi, ma per precauzione sollevo la valigetta per usarla come scudo.
“Archie, ben ritrovato. Come stai?” mi saluta in tono neutro.
“Non credo ti interessi.”
“Se non mi interessava, non lo chiedevo.”
“Sto bene, grazie. Vorrei passare.”
“Non così in fretta.”
Ecco, appunto, mi pareva troppo facile. Indietreggio, pronto a scattare nella direzione opposta.
“Non voglio attaccarti, Archie.”
Arresto di nuovo il passo e gli scocco un’occhiata scettica: “Ah no?”
“Voglio solo farti vedere una cosa. Vieni qui.”
“Così puoi uccidermi meglio?”
Sbuffa divertito e scrolla il capo.
“Vieni qui.” ripete, indicando con un cenno oltre il vetro che separa la stanza dal corridoio, “Vieni a vedere.”
Non guardare, Archie.
Un’ondata di gelo mi paralizza, mozzandomi il fiato. Ho di nuovo udito quel sussurro nella mia testa e non promette nulla di buono.
“Avanti, vieni.” mi invita ancora Titus.
Deglutisco, ignorando la voce che bisbiglia avvertimenti, e mi affianco a lui. Studio la stanza e pianto lo sguardo su un letto, su cui è disteso un bambino. Accanto, seduta su una sedia e con la fronte adagiata sulle lenzuola, c’è una ragazza, che tiene la mano del bambino fra le sue. Entrambi stanno dormendo.
Aggrotto le sopracciglia e sfoggio un’aria perplessa: “E allora? Che c’è di strano?”
Titus sospira, alterna il peso da un piede all’altro e, per un secondo, sembra esitare.
“Ho fatto delle ricerche su di te, Archie. Mi hai incuriosito, dovevo saperne di più.” 
Sembra voglia giustificarsi per aver ficcato il naso nella mia vita, ma onestamente le sue parole mi scivolano addosso senza scalfirmi, anche perché tutte le informazioni su di me dovrebbero essere state cancellate da Samael.
Si volta a fissarmi e mi trafigge con le sue iridi azzurro vivo: “So chi sei, Archibald Blackwood. Anzi, so cosa eri fino ai quindici anni. Conosco il tuo passato, ciò che hai subito a causa di tuo padre e cosa è successo la notte in cui hai stretto un patto col demonio. So persino dei tuoi fratelli e cugini.”
Per poco la mia mascella non tocca il pavimento. Sono certo di essere pallido come un cencio.
“Cosa… come…?” balbetto spiazzato.
“Non ha importanza.” torna a girarsi verso la coppia di umani, “I nostri archivi sono ben forniti e sempre aggiornati nel dettaglio. All’inizio non mi era mai passato per la mente di controllare nei registri dei contraenti umani…” abbozza un ghigno e mi fissa in tralice, “Credevo tu fossi un demone. Ho perso giorni interni a spulciare le liste dei nomi dei servi di Lucifero, senza trovare alcun ‘Archie’ - ma me lo aspettavo, perché ricordavo che durante il rapimento non volesti confessare il tuo nome - o alcun diavolo con poteri come i tuoi. Come servo dell’Inferno sei molto debole, ti avevo etichettato subito come uno che rasenta la base della gerarchia, ma ammetto di aver sempre nutrito qualche dubbio a riguardo, dato che Samael aveva così tanta cura di te.”
“Samael mi troverà, stanne certo. E ti ucciderà se proverai a torcermi un capello.” lo sfido, frapponendo tra noi una distanza di sicurezza.
“Tutto vero. Samael verrà qui seguendo il tuo odore, ma i miei lo terranno impegnato abbastanza a lungo da permettere a me di dirti quel che devo. E non mi ucciderà, perché quando giungerà io sarò già andato via.” sorride beffardo.
Il suo atteggiamento mi innervosisce, ma adesso sono più curioso che all’erta.
“Cosa devi dirmi? E cosa vuoi farne delle informazioni che hai trovato?” domando a raffica, infastidito per la violazione della mia privacy. 
Il mio passato non riguarda nessuno tranne me, non mi piace che un estraneo spulci tra i miei segreti.
“Calmati.” mi intima, poggiando le mani sulle mie spalle, “Archie, non sono tuo nemico.” proferisce lentamente, scandendo ogni parola per rendere chiaro il messaggio.
Sbarro le palpebre, stranito: “Che… eh? Non dire assurdità! Sei uno Spennato e io un-”
“Un umano.” mi interrompe, squadrandomi con un sorriso diverso, quasi dolce, “Sei umano e possiedi ancora un’anima, per quanto essa sia stata schiacciata, accartocciata e infilata a forza in un pertugio piccolissimo, per far spazio al male. C’è ed è qui dentro.” appoggia l’indice sul mio petto, a livello del cuore, “Questo fa di te un nostro protetto. Noi vegliamo sui mortali, proprio come gli angeli, poiché da loro discendiamo. Certo, siamo anche soldati e diamo la caccia al Male come fa il lupo con la lepre.”
Mi divincolo stizzito e sollevo il mento con fare provocatorio: “Io non sono più umano. Come spieghi sennò la superguarigione e i poteri?”
Storce la bocca e si gratta il mento: “Beh… conosci il detto ‘chi va con lo zoppo impara a zoppicare’? Sei rimasto con Samael molti anni e Samael è il male. Stando a stretto contatto con lui, il seme maligno che era stato piantato dentro di te ha potuto crescere e germogliare, conferendoti abilità sovrumane. Ma sono quasi sicuro che se tu tornassi a camminare tra gli uomini, presto o tardi i tuoi poteri svanirebbero e torneresti in possesso della tua vera natura.”
“Non voglio tornare umano! Non sai cosa ho visto in questi anni. Gli umani sono… sporchi, hanno il Male nell’anima già dalla nascita. Sono molto più simili ai demoni di quanto immaginano.”
“Ed è qui che ti sbagli. Gli uomini sono stati creati da Dio, ergo possiedono una matrice divina, non demoniaca. E non è vero che nascono malvagi, sono solo corruttibili a causa della loro innocenza. Dio ha donato ai mortali il libero arbitrio, possono fare ciò che vogliono nel breve lasso di tempo loro concesso. Fanno delle scelte, sbagliano, si pentono o scivolano nell’oscurità. Tutto avviene, però, esclusivamente per loro volontà. Non precipitano all’Inferno perché sono nati con il Male nell’anima, come dici tu, ma perché hanno scelto di non pentirsi. E, viceversa, salgono in Paradiso perché hanno scelto la Luce invece delle Tenebre. Angeli e demoni si limitano a guidare gli esseri umani, li mettono di fronte a delle possibilità. Sta agli uomini decidere quale strada imboccare.”
Scuoto il capo con veemenza: “È inutile che mi riempi il cervello di questi discorsi, so già come vanno le cose. Sai quante anime ho scagliato all’Inferno?”
“Seicentonovantaquattro.” snocciola rapido.
Mi blocco stupito, senza sapere come ribattere.
“Esatto.” borbotto, ma non mi lascio intimorire, “Erano tutti individui abietti, meritevoli della dannazione eterna e-”
“Tutti?”
Si china su di me incatenando i nostri sguardi e infila le dita nella tasca interna del mio cappotto, estraendone il portachiavi di Marco.
“Non lui, vero? Lui non era come gli altri.” sussurra a pochi centimetri dal mio viso, “Lo sai che era diverso, l’hai capito subito, e hai provato tristezza.”
“Coma fai a…?” esalò con voce strozzata.
“So molte cose, Archie, ma non grazie ai nostri archivi. Ti conosco nel profondo, ma solamente perché qualcuno mi ha trasmesso tale conoscenza, qualcuno più vicino a te di chiunque altro, e non mi riferisco a Samael.”
“Chi?” lo interrogo smarrito.
Sorride mesto: “Non spetta a me rivelartelo. Purtroppo abbiamo poco tempo, quindi verrò subito al sodo. Ti ho fatto condurre qui per un motivo preciso e quel motivo si trova al di là di questo vetro.”
Osservo confuso prima Titus e poi i giovani umani nella stanza.
“Perché?”
“Tuo fratello Adam venne cacciato di casa e non ne hai mai avuto più notizie.”
Mi irrigidisco e drizzo le antenne, mentre ferite che credevo cicatrizzate ricominciano a dolere.
“In realtà, è sempre rimasto vicino a te. Era proprio qui, a Londra, in questo quartiere. Ha pregato giorno e notte per anni, ha pregato Dio, gli angeli e i santi affinché la speranza non ti abbandonasse. Avrebbe voluto tornare a salvarti, ma quando finalmente riuscì a convincere la polizia ad indagare tu eri ormai scomparso e tuo padre era ridotto a un colabrodo. Nessuna prova dei suoi peccati era rimasta, a parte una camera segreta, nei sotterranei, addobbata con teste di animali e simboli satanici. Era arrivato troppo tardi.”
“Adam era qui? Adam era…” balbetto incredulo, mentre una strana emozione mi pervade.
“Sì. Dopo la tua uscita di scena, ti ha cercato per tre anni ininterrottamente, ma poi gli investigatori lo hanno abbandonato e il tuo caso è stato archiviato. Ciononostante, tuo fratello non si è mai dato pace, si sentiva in colpa. In seguito ha conosciuto una giovane donna inglese, si è innamorato, ha accantonato le ricerche e ha messo su famiglia. Il tuo ricordo era sempre vivo in lui, ma l’amore che lo circondava ha alleviato un po’ la sua pena. Ha avuto due figli. Cinque anni fa è morto a causa di un tumore ai polmoni, fumava come un turco. Sua moglie è ancora viva e abita con i figli a una decina di minuti a piedi da qui. Tuttavia, se anche tu ti recassi là, adesso non troveresti nessuno. La moglie di tuo fratello è in visita da sua madre, una vecchia signora malata di diabete, che ha bisogno di continue cure. I suoi figli, invece…”
Lancia un’occhiata eloquente in direzione della ragazza e del bambino chiusi nella stanza.
“Oh mio Dio…” mi porto una mano davanti alla bocca.
“Sì. I tuoi nipoti. Archibald e Laura Blackwood.”










 

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Seconda possibilità ***








 

Il mio cervello smette di funzionare per qualche istante. Fatico ad assimilare l’informazione che mi è stata appena rivelata, mi sembra impossibile. 
Per anni non ho più saputo nulla di Adam, dopo che mio padre l’ha cacciato di casa, e ora scopro che non solo è sempre rimasto nei paraggi, ma che ha pure tentato di aiutarmi. Mi ha cercato e poi, vedendo che i suoi sforzi erano vani, ha messo su famiglia, chiamando uno dei figli col mio nome. Non so come sentirmi, se contento per il fatto che non mi ha mai veramente abbandonato al mio destino o pieno di rancore per l’ipocrisia che ha mostrato e per l’essersi arreso. Non ho mai dimenticato che anche lui prendeva parte agli spettacoli osceni di papà, ricordo ancora come mi violavano le sue mani e come affondava in me, a dispetto dell’espressione sofferente e colpevole che gli si dipingeva sulla faccia. Non era innocente. Se fosse stato onesto, si sarebbe costituito e consegnato alla polizia confessando i suoi crimini, invece ha preferito restare nell’ombra a mordersi le mani per la paura e il rimorso. Non solo! Ha persino osato provare ad essere felice con qualcun altro, accantonando, per quanto possibile, il suo oscuro passato. Ha messo al mondo dei figli, che scommetto ha amato molto. Si è costruito una maledetta famiglia! Anch’io avrei voluto avere una famiglia, una vita normale, magari una moglie dolce e simpatica che col suo amore avrebbe lenito il mio dolore e curato le ferite della mia anima. Invece sono precipitato nelle tenebre, che mi hanno divorato e fatto a brandelli. È vero, sono stato io a decidere, ma non avevo scelta. Ero prigioniero, desideravo soltanto fuggire, è forse una colpa?
Adam, il mio inutile fratello, che quella fatidica notte sbagliò la mira facendo fuori mio cugino Terence invece di mio padre, ha ricevuto, se non la felicità, almeno la serenità di un ambiente colmo di calore e affetto. E io? Cosa ho ricevuto io? Oh, beh, ho incontrato Samael e mi sono innamorato, giusto. Ma non riceverò niente in cambio di questo amore, un demone non potrà mai eguagliare un sentimento del genere. Sono destinato alla rovina, da qualsiasi prospettiva la si guardi.
Dannazione, dei figli! Io cosa dovrei fare adesso? Vegliare su di loro? Adottarli? Spedire assegni a Natale? Che senso avrebbe a questo punto? Non mi hanno mai conosciuto e chissà se Adam ha parlato loro di me.
Indietreggio, malfermo sulle gambe.
“Perché mi stai facendo questo?” domando in un soffio, rivolto a Titus, ma non distolgo lo sguardo dalle figure dormienti nella stanza.
Lo sento sospirare accanto a me e una sua mano si poggia con delicatezza sulla mia spalla, non so se per sorreggermi o trattenermi nel caso voglia scappare.
“Laura ha venduto la sua anima cinque anni fa e tra pochissimo il suo tempo scadrà. L’ha fatto per salvare il fratello, malato di cuore.”
Sgrano gli occhi. Mi pare quasi che all’improvviso una tonnellata di piombo si sia depositata sul mio stomaco. Poi realizzo una cosa strana.
“Cinque anni? Non è possibile. Il contratto prevede una durata fissa di tredici anni.”
“Sì, di norma è così. Ma, vedi, Laura ha posto ingenuamente una condizione: ha chiesto che la vita del fratellino venisse risparmiata 'finché non si fosse trovato un donatore'. E, guarda caso, una settimana fa è arrivato un cuore nuovo.”
Osservo la piega delle spalle di Laura e la sua mano pallida stretta intorno a quella del fratello. Mi sembra così fragile, come il cristallo, tanto da dare l’impressione di potersi ridurre in mille pezzi al minimo sfioramento.
“Quindi cosa succederà? Laura precipiterà all’Inferno stanotte?”
“Non ancora. Il cuore del donatore deve essere sottoposto a esami di controllo per valutarne la compatibilità. Se passerà i test, Archibald verrà operato. Avverrà tra due giorni.”
Titus rinsalda la presa sulla mia spalla e mi costringe a fronteggiarlo. Lo fisso con aria persa, incapace di pensare o articolare una frase di senso compiuto. Non comprendo la ragione per cui io debba sapere queste cose e le domande si affollano nella mia testa come sciami di api impazzite.
“Archie, accadrà qualcosa di peggio, in realtà. I test saranno positivi e i medici procederanno con il trapianto, ma qualcosa durante l’operazione andrà storto e tuo nipote morirà. Lei ha detto 'voglio che resti vivo finché non si trova un donatore': questo può essere interpretato come 'Archibald potrà restare in vita finché non si trova un donatore e, dopo averlo trovato, morirà' e così lo ha interpretato l'Inferno. Perciò anche la morte di Laura sarà stata vana. Lei voleva solo salvare il fratello, assicurargli una vita, ma la verità è che…” si morde il labbro e sfugge il mio sguardo per un attimo, “In qualsiasi caso, tuo nipote era destinato a morire giovane, purtroppo. È nato con una malformazione cardiaca, non c’è niente che la medicina moderna possa fare. Il suo corpo è troppo debole. Nessuno può salvarlo.”
“E allora cosa-”
“Laura.” scandisce, tornando di nuovo a scrutarmi con le iridi accese, “Laura deve essere salvata.”
“P-perché io dovrei…?”
“Lei è come Marco. Ricordi? Hanno venduto l’anima per amore. Con Marco hai scelto di seguire gli insegnamenti che Samael ti ha impartito: nonostante fosse meritevole di salvezza, tu l’hai scagliato oltre il portale e il peso di quel gesto continua a tormentarti, seppur inconsciamente. Il portachiavi che ti porti sempre dietro ne è la prova. Non hai dimenticato, non puoi. Questa è una seconda chance per fare la cosa giusta.”
Avverto il gelo invadermi le ossa e involontariamente mi ritrovo a scuotere il capo.
“Non posso, io… io non posso…”
“Per Dio, Archie! Le tue azioni possono fare la differenza, ancora non lo capisci? Sei unico e questo ti rende imprevedibile. Samael ti tiene al guinzaglio per ordine di Lucifero, non perché sia davvero affezionato a te. I demoni non sono in grado di provare sentimenti profondi, lo sai, vero? Ma tu hai il potere di cambiare qualcosa, puoi ribellarti. Possiedi ancora il libero arbitrio perché hai un’anima. Finché te la terrai stretta, il Male non potrà toccarti. Però potresti perderla in ogni momento, dipende da ciò che decidi di fare.”
Mi districo dalla sua presa con uno strattone e lo fisso con astio, frustrazione e rabbia repressa.
“Cosa credi? Pensi che mi sia piaciuto condannare Marco all’eterna agonia? Sei davvero convinto che non abbia mai pensato ad una soluzione, a cosa avrei potuto fare per impedire che un’anima simile alla sua cadesse vittima del Male? Sì, una via d’uscita c’è ed è il pentimento di fronte a Dio! Laura dovrebbe chiedere perdono per le sue azioni, dovrebbe rinnegare con tutta se stessa il suo peccato, ma così facendo rinnegherebbe l’atto d’amore che l’ha spinta ad aiutare il fratello, lo condannerebbe senza alcun margine d’appello, poiché rescinderebbe il contratto. E lo so, non è giusto che lei soffra! È peccato vendere l’anima per amore?!” grido, sputando fuori tutti i crucci che negli ultimi anni sono andati ad accumularsi e ad appesantire la mia coscienza.
“Deve… pentirsi?”
Mi blocco e lo guardo come se mi trovassi di fronte ad un alieno: “Non lo sapevi?”
“No.” ammette agitato, “Oh, santo cielo… ecco la risposta! Come ho fatto a non arrivarci prima?”
“Sei serio?”
“Non sono mai stato tanto serio in vita mia.” dichiara, gli occhi che mandano bagliori azzurrini.
“Ma sei metà angelo, le dinamiche dovrebbero esserti note!”
“Beh, come posso spiegare? Durante l’addestramento favoriamo la nostra parte angelica a svantaggio di quella umana, questo per individuare meglio il Male e i suoi messaggeri. Siamo dotati di sensi sviluppati, sensi che hanno poco a che fare con il corpo, e questi possono emergere solo se ci immergiamo completamente nella luce di Dio. Essendo i Suoi soldati, coloro che militano sulla terra in opposizione alle forze di Lucifero, ci concentriamo solo sul lato bellico della faccenda, non stiamo a farci pensieri filosofici sulla dottrina. Quelli li lasciamo volentieri ai preti. Va da sé che alcuni elementi ci sono ignoti, come il pentimento. Noi non pecchiamo, perché combattiamo il Male nelle sue manifestazioni demoniache secondo la volontà di Dio, perciò non conosciamo nemmeno il pentimento.”
“E se succedesse? In fondo, possedete pur sempre una parte umana.” lo interrogo curioso.
“In tal caso, procediamo con l’espiazione, ovverosia compiamo opere buone, in maniera tale da cancellare l’errore. Comunque è molto raro. Il concetto di peccato esula dalla nostra natura, dal momento che discendiamo dagli angeli, che sono servi di Dio. Quando capita - e si parla di un caso su dieci milioni, più o meno - colui che si è macchiato di un crimine smette di essere… uno di noi. Cioè, la sua parte angelica sparisce e diventa un essere umano, mortale e privo di poteri. Una volta umano, dedicherà il resto della sua vita all’espiazione.”
“Compiere opere buone e basta, senza esserne realmente convinti e solo per cancellare un peccato, serve a poco. Uno dovrebbe pentirsi con sincerità innanzi a Dio e chiedere perdono, e soltanto dopo cercare di fare ammenda.”
“Intendi che dovremmo chiedere scusa a Dio?”
“Non è a Lui che hai fatto un torto, ma ad un altro.”
“Perciò dovrei chiedere scusa a quest’altro?”
“Beh, sì… dovresti farlo con cuore sincero, però. E poi pentirti veramente dentro di te, impegnandoti per non commettere di nuovo lo stesso sbaglio e danneggiare il prossimo. Insomma… a quel punto domandare perdono a Dio e… il percorso di redenzione… ok, non so come funziona esattamente, non mi sono mai pentito nemmeno io.” 
Ci squadriamo a vicenda con espressioni confuse e scettiche, consci di essere entrati in un campo complesso, in cui non è possibile giungere ad una risposta esaustiva in quattro e quattr’otto. Alcuni studiosi ci hanno riflettuto sopra per anni e ci hanno scritto interi saggi.
Titus si schiarisce la voce, fa un gesto vago con la mano e aggrotta le sopracciglia, riprendendo a studiarmi interessato: “Ehm, tornando a monte, al problema di base… quindi perché i peccatori non si pentono?”
“Per vari motivi, alcuni anche piuttosto comprensibili.” alzo una mano e mi preparo ad elencare con le dita, “Prima possibilità: non sanno di sbagliare, quindi non sanno nemmeno che devono pentirsi. Seconda possibilità: sanno di sbagliare, ma credono di essere troppo lontani dalla grazia divina per sperare di ottenere il perdono. Terza possibilità: sanno di sbagliare e sono felici di farlo, quindi perché dovrebbero pensare di pentirsi? Quarta possibilità: non credono in Dio, di conseguenza non concepiscono il pentimento innanzi a Lui. Basandomi sulla mia esperienza con Marco e sul presupposto che Laura ami Archibald più di se stessa, essendo arrivata persino al punto di vendere l’anima per lui, il suo caso è il seguente, a mio parere: è convinta di aver fatto la cosa giusta e che suo fratello, una volta eseguito il trapianto, starà bene. Non le interessa continuare a vivere, purché Archibald guarisca. Non capisce la portata del suo gesto, né ciò a cui andrà incontro a breve, e quando se ne accorgerà sarà troppo tardi. Perché dovrebbe pentirsi e tornare sui propri passi disfacendo ciò che ha fatto, sapendo che così condannerebbe a priori il fratellino? Non lo farebbe mai. Ergo, è ben lontana dal pentimento, più di un vero peccatore, perché lei è certa di non aver commesso alcun peccato. È anche vero che Samael mi disse che quando una persona stipula un contratto, il suo cervello viene riempito di ovatta in modo che non arrivi mai a concepire di pentirsi. È il potere del Male, che penetra nel contraente rendendolo cieco e assicurando la sua anima all'Inferno. Tuttavia, in questa circostanza, cioè quando qualcuno fa qualcosa per amore, automaticamente Dio dovrebbe essere dalla sua parte. Al contrario, sembra che l’Onnipotente si tenga ben alla larga, lasciando campo libero ai demoni. Spiegami dove sta la giustizia divina, Titus.”
Lo vedo raccogliersi in riflessione, osservando intensamente l’interno della stanza d’ospedale. Rimane in silenzio per un po’, mentre io non so che fare. Potrei cogliere l’occasione per scappare e ricongiungermi a Samael, ma stranamente ho perso la voglia. Percepisco qualcosa di insolito nell’aria, sento che è importante che io rimanga e vada fino in fondo a questa storia. Samael può aspettare. Inoltre, ci sono ancora un paio di cose che devo chiedere a Titus e non me ne andrò senza delle risposte.
“Potresti convincere Laura a pentirsi?”
La sua domanda mi riscuote: “Eh?”
“Potresti parlarci tu? Se c’è anche una minima chance di salvarla, direi di provarci.”
“Non posso.”
Si volta di scatto e mi trafigge con le perle di ghiaccio che ha incastonate nelle orbite.
“Non puoi o non vuoi?” sibila minaccioso.
“Non posso, a causa del mio status. Non mi è permesso illustrare ai peccatori la via d’uscita. Non ne sono in grado, come se un potente incantesimo mi smembrasse le parole direttamente in gola, prima che io possa articolarle. Sono un demone, un mietitore di anime, un emissario di Sua Eccellenza Oscura, perciò non sono capace di fare alcunché che esuli dai miei compiti, soprattutto qualcosa relativo al reame del Luce. In verità, non dovrei nemmeno elaborare simili pensieri. Tu potresti aiutarla, forse. Sei mezzo angelo.”
“No, io… sì, magari potrei, ma…” si gratta la nuca a disagio e schiocca la lingua nervoso, “No, devi essere tu a farlo, Archie. Questa è la tua occasione, io non c’entro. Dovevo solo condurti qui e mostrarti ciò che ti era stato nascosto, nient’altro.” all’improvviso si illumina e mi circonda il viso con le mani, parlando con un’euforia trattenuta a stento, “E poi hai ancora l’anima! Non è impossibile ingannare l’incantesimo, no? La tua volontà è ciò che conta, non sei un soldatino di Lucifero. Sei ancora legato a Dio attraverso l’anima e Lui può darti la forza, basta che glielo chiedi.”
“Tch! Dovrei pregarlo?” sputo sarcastico, allontanandomi e incrociando le braccia al petto.
“Perché no?”
“Perché per me Lui non c’è mai stato! Che vada a farsi fottere. In compenso è arrivato Samael, che non solo mi ha salvato, ma mi ha regalato anche uno scopo, una vita.”
“Questa vita non è mai stata quella che desideravi. Tu non vuoi tutto questo e lo sai.” punta l’indice accusatorio sulla mia persona, al ché mi ritraggo istintivamente, “Puoi fermarlo, puoi capovolgere il tuo destino, Archie. L’occasione è qui, non devi fare altro che coglierla. Non fartela sfuggire, non scappare con la coda fra le gambe, non avere paura di Samael o del Male. Davvero vuoi che Laura muoia senza conoscere il modo per salvarsi? Chiaro, alla fine spetterà a lei la scelta, ma perlomeno ne avrà una! In quanti possono vantarsi di averla avuta? Pure tu l’avevi.”
“No, ti sbagli! Io non avevo scelta, sarei morto in quella maledetta casa! È stato Samael ad aprirmi la porta e non voglio lasciarlo. Non gli volterò le spalle, intesi? Lo amo, Titus.”
“Come puoi amare un… no, lasciamo perdere.” scuote la testa e sospira, “Piuttosto, sì che avevi una scelta. Quante vie di fuga hai sprecato? Diamine, ogni volta che andavi in ospedale avresti potuto parlare con qualcuno, un’infermiera, un dottore, un inserviente, avresti potuto metterti a urlare per attirare l’attenzione, fingere malesseri che non avevi per costringere qualcuno a intervenire, invece sei sempre rimasto in silenzio!” mi aggredisce, torreggiando su di me, “Se avessi voluto scappare, le occasioni c’erano eccome. Dio le predisponeva per te, ma tu non le vedevi! E osi dire che Lui non c’è mai stato?! Fandonie, il Padre c’è per tutti, non fa preferenze. E soprattutto non abbandona mai nessuno. Fornisce scappatoie, possibilità di redenzione, futuri migliori, ad ogni angolo delle strade di ogni fottuta città, ogni giorno e ogni notte. Siete voi che non vedete, perché vi ostinate a guardare con gli occhi e non con il cuore. Quando si parla dell’Onnipotente, non si può ragionare con il cervello.” punta il dito sul mio cappotto, all’altezza del cuore, e mi pungola ad ogni parola, “Dio ti sta guardando, proprio adesso.”
“Come fai a saperlo?” esalo in un soffio, facendo guizzare lo sguardo sulle pareti, come se da un momento all’altro potessi scorgere una faccia.
“Perché io sono i Suoi occhi e le Sue orecchie. Egli non può interferire direttamente, per questo invia gli angeli, che agiscono secondo il Suo volere. E poi ci siamo noi, che cerchiamo di ripulire la terra dal Male per tenere al sicuro gli uomini.”
“Sono gli uomini che evocano il Male, non capisci? Finché esisteranno gli uomini e finché esisterà la facoltà di scelta, il Male continuerà a vivere e a prosperare. Se vuoi sradicare il Male alla radice, devi sterminare la razza umana!” scandisco avvicinandomi, squadrandolo dal basso, per nulla intimorito.
Fa un passo indietro e libera il mio spazio vitale, ma non smette di fissarmi come se volesse scavarmi dentro.
“Forse hai ragione, ma noi non ci arrenderemo. Dio ha fede negli uomini. Egli crede in voi e non cesserà mai di farlo, perché il Suo amore è immenso, non conosce confini. Fallo entrare nel tuo cuore, Archie, dai al Signore una possibilità. E danne una anche a te stesso.”
Sospiro e serro le palpebre, tentando di ritrovare la calma. Devo pensare, non è facile decidere su due piedi. Francamente, anche se potessi veramente, non so neppure se mi conviene aiutare Laura. Sebbene sia mia nipote, non la conosco, è un’estranea. D’accordo, il suo caso è molto simile, se non praticamente identico, a quello di Marco, e dovrei provare empatia, ma… non ci riesco. Devo ammetterlo: ho paura dell’ira di Samael. Ho promesso che non l’avrei mai tradito e non ne ho alcuna intenzione, su questo non ci piove, perché non potrei amare nessuno come amo lui; se ho un cuore, esso gli appartiene completamente. Ma, se vogliamo interpretare la mia promessa da un punto di vista concettuale, non ho esplicitamente giurato di non tradire la sua causa, cioè quella di Lucifero. Sono fedele a Samael, non a Lucifero. C’è una sottile differenza, che forse potrebbe rivelarsi il mio lasciapassare per agire indisturbato senza sentirmi in colpa di essere venuto meno alla mia parola.
Lancio un’occhiata a Laura. Non riesco a scorgerne il viso, perché la testa è adagiata sul letto in modo che la nuca sia rivolta verso la vetrata. Sposto l’attenzione su Archibald, studiandolo nel dettaglio, e noto che ha lo stesso mento di Adam, forse anche la fronte. Dato che ha gli occhi chiusi, non so se abbia ereditato pure quelli da mio fratello. E Laura? Somiglia di più alla madre o al padre? È importante? No. Potrebbe essere chiunque, ma non cambia il fatto che anche lei ha venduto l’anima per salvare qualcuno di caro e non per un tornaconto personale, proprio come Marco. Quanto sono stato male per non averlo salvato, ho pure avuto una crisi di coscienza. Sono disposto a sperimentare di nuovo quel dolore?
Stringo i pugni, contraggo la mascella e infine espiro profondamente.
“Va bene.”
“Mh?”
“Aiuterò Laura. Non sono sicuro di poter scansare l’incantesimo che mi vieta di parlarne, ma prometto che cercherò di farla arrivare da sola alla risposta. Ho due giorni, giusto?”
“Sì.” conferma, più rilassato rispetto a un momento fa, e azzarda pure un mezzo sorriso.
“Ma prima ho delle domande da farti.”
“Spara. Però fai veloce, Samael sta arrivando ed è meglio che non ti trovi qui. Non deve sapere cosa vuoi fare, altrimenti tenterà di fermarti. Potrebbe addirittura ucciderti.”
“Lo so.” annuisco serio, certo che Samael lo farebbe e questo mi sconcerta più di tutto il resto.
“Allora vai.”
“Cosa mi hai fatto ingoiare quel giorno ad Amsterdam? Cosa c’era nella fiala?”
“Un’anima dannata.”
Spalanco la bocca per la sorpresa e lo guardo incredulo: “Cosa?!”
“Beh, ero convinto che tu fossi un demone e i demoni si nutrono delle anime dei peccatori. Visto che volevo tenerti in vita, pensavo che le tue ferite sarebbero guarite e la forza sarebbe tornata se ti avessi dato da mangiare.” risponde ghignando.
“Sei pazzo! Non immagini neanche la sofferenza che-”
“No, infatti. Poi?”
“Ah, ehm… dunque… ecco, cosa è successo quando mi hai baciato? Cioè, non era un bacio, mi hai soffiato dentro qualcosa… cosa?”
“Un po’ della mia essenza, Luce pura. E ha funzionato. Questo ha avvalorato la mia ipotesi, fino a quel momento remota, che non eri un vero demone. Se lo fossi stato, ora non saresti qui.”
“Oh, ok.”
Cavolo, sono stato smascherato così facilmente…
“C’è altro?”
“Come ti sei procurato un’anima dannata?”
Inarca un sopracciglio e mi scruta con le palpebre a mezz’asta: “Non è questo che vuoi sapere.”
“No, hai ragione. Ehm, chi è che ti ha dato le informazioni su di me? Com’è che sai tutte quelle cose sul mio passato?”
“Non posso rivelarlo, ho giurato.”
Storco le labbra in una smorfia delusa, ma mi ricompongo subito: “Un’ultima domanda: perché d’un tratto gli Exurge Domine sono così interessati a me? Perché vuoi aiutarmi?”
“Uhm, diciamo che qualcuno mi ha contattato e mi ha messo al corrente della tua situazione, immediatamente prima del tuo rapimento a Firenze. Mi ha messo la pulce nell’orecchio e mi ha indicato come e quando catturarti per verificare con i miei occhi. Però, evidentemente, i suoi piani non coincidevano con i miei, quindi mi ha intralciato. Per dissolvere definitivamente i miei dubbi, mi ha invitato ad Amsterdam per metterti alla prova e devo dire che non ho sprecato il mio tempo. Una volta compreso che cosa eri, ho seguito il suggerimento di questo qualcuno di condurvi qui a Londra. Vi abbiamo accerchiati e sospinti in questa città, perché mi era stato riferito che qui avresti trovato la tua seconda occasione.” fa un cenno del capo in direzione di Laura e Archibald, “Sono un burattino nelle mani di entità superiori, ma non mi dispiace se serve ad aiutare una pecorella smarrita. Non sono interessato a te in senso stretto, mi preme di più ciò che deciderai di fare. Come ti ho detto dianzi, le tue azioni saranno importanti, potrebbero cambiare forse persino il mondo. È assurdo da credere, ma è così. Voglio aiutarti perché Dio sta cercando disperatamente di farlo e, poiché io eseguo le Sue direttive, ti aiuto. Raramente Egli si concentra su un solo individuo, ma se lo fa significa che tale individuo ha il potere di influenzare il corso della storia. Il Signore ti ama e ti protegge, Archie, anche se tu non te ne rendi conto.” conclude sorridendo, poi riassume un’espressione seria e gira di scatto la testa verso destra, mentre il suo sguardo si fa lontano.
“Cosa c’è?” bisbiglio, non vorrei disturbarlo durante una visione, anche se non ho idea se gli Exurge Domine siano capaci di avere visioni.
“Samael sta arrivando. Corri, va’ via, fai finta di scappare. Io fingerò di inseguirti e appena lui sarà in vista me la squaglierò.” poggia le mani sulle mie spalle e stringe appena, “Stai tranquillo, Archie, e abbi fede. Io rimarrò nei paraggi, pronto a intervenire se sarai in pericolo.” 
Mi stampa un frettoloso bacio sulla fronte, afferra la mia mano e mi trascina lungo il corridoio, verso l’uscita di emergenza che avevo puntato prima che mi si parasse davanti. Scendiamo di corsa le scale e in pochi secondi sgusciamo fuori dall’ospedale. Titus mi scocca un’occhiata d’intesa, quindi prendo un bel respiro e comincio a correre a perdifiato per le strade illuminate dai lampioni, attraversando a zig zag i vicoli come se volessi seminarlo. Avverto la sua presenza dietro di me, mi tallona da vicino, quando all’improvviso si ferma, sussulta e batte in ritirata nella direzione opposta.
Allora arresto la corsa anch’io e mi guardo intorno per localizzare Samael. Sono teso come una corda di violino e l’ansia ha già iniziato ad annodarmi le viscere. Se temo che il maestro scopra tutto? Ovvio. Se sono terrorizzato per eventuali e non piacevoli ripercussioni sulla mia persona? Senza dubbio. Ma se voglio salvare Laura - voglio davvero? Ne vale la pena? - devo attenermi al piano e tacere a Samael la verità. Non ho idea se abboccherà o se vedrà la menzogna, d’altronde è un demone e dovrebbe avere molta familiarità con le bugie, eppure non riesco a pensare a delle alternative. Ormai ci sono dentro, mi sono fatto coinvolgere, e il peggio è che non posso incolpare nessuno, l’ho scelto io.
Mi volto per guardare dietro, all’imboccatura del vicolo, e sondo l’oscurità con gli occhi, senza però vedere nulla. Quando riporto l’attenzione di fronte a me, mi scontro con un torace ampio fasciato da una camicia nera, pulita e perfettamente in ordine, e una raffinata giacca del medesimo colore priva del più minuscolo granello di polvere. L’unica cosa che fa da contrasto è la cravatta bianca, che spicca in mezzo al mare di stoffa nera come uno strappo verticale di luce. Alzo gli occhi e incontro quelli di fuoco di Samael.
Mi solleva dolcemente il mento con un dito e mi scruta meticoloso, forse alla ricerca di ferite.
“Stai bene?” chiede in tono carezzevole.
“Sì. Tu?”
“Nemmeno un graffio. Erano deboli e male addestrati. Suppongo che gli Spennati stiano attraversando una crisi interna, tipo, che ne so, un calo di personale, se si arrischiano a spedire reclute del genere a caccia di un demone come me.” ghigna beffardo.
“Li hai uccisi tutti?”
“La maggior parte. Me ne sono scappati quattro, ma la mia priorità era trovare te e assicurarmi che fossi incolume.” dice piegandosi in avanti per baciarmi.
Permetto alle nostre labbra di sfiorarsi, per un attimo dimentico tutto, ma un secondo più tardi la realtà torna a gravarmi sulle spalle, ancora più pesante. Mi scosto e deglutisco, raccogliendo l’energia necessaria per mascherare le emozioni che si agitano nel mio petto. Rilasso i muscoli della faccia e ricaccio indietro il nervosismo.
“Che cosa facciamo adesso?” indago, sfoggiando la mia solita disinvoltura.
“Beh, mi pare ovvio che non possiamo restare. Sanno che siamo qui, torneranno presto con i rinforzi. Dobbiamo andarcene, nascondere le tracce e-”
“Secondo me, invece, dovremmo rimanere.” replico di getto, sperando che il tremolio nella voce sia passato inosservato.
Samael mi guarda interrogativo. Prendo il suo silenzio come un’esortazione a continuare, perciò mi schiarisco la gola e mi faccio coraggio.
“Non voglio più scappare. Ci costringono sempre a tirare la corda come dei vigliacchi, ma noi siamo più forti. O, almeno, tu lo sei. Sei praticamente imbattibile, non dovresti temerli. E io… io vorrei riuscire a usare ancora i miei poteri. Prima Titus mi inseguiva, sapevo di essere in pericolo, eppure le fiamme nere non si sono attivate. Mi sono ritrovato a fuggire come un coniglio, di nuovo. Credo che questi scontri potrebbero essere un banco di prova per me. Devo mettermi in gioco e rischiare se voglio imparare come controllare le mie abilità.” lo fermo quando noto che sta per dire qualcosa, “No, tu non puoi aiutarmi, perché a quanto pare devo essere in bilico tra la vita e la morte per usare le fiamme. Tu non arriveresti mai ad uccidermi, io lo so, e tale consapevolezza mi rasserena. Non entrerei mai nello stato d’animo adatto, insomma. Mi servono gli Exurge Domine, mi serve combattere contro di loro.”
Mi fissa stupito e anche un po’ scettico: “Vorresti disegnarti un bersaglio sulla schiena?”
“Uhm… sì…?”
Scuote il capo e sospira: “Alastor, non puoi chiedermi di attirarli da te e metterti in pericolo, io non-”
“Non lo faresti, esatto. E anche se provassimo, so che non lasceresti mai il mio fianco, restando nei paraggi, pronto a intervenire in caso di necessità.”
Ok, ora viene il difficile: devo convincerlo ad allentare la sorveglianza, così potrò avvicinarmi a Laura senza destare in lui troppi sospetti. Dubito che se la berrà, ma devo tentare.
“Per questo devo essere solo quando arriverà il momento. Devo essere sicuro che non ti intrometterai, non devo nemmeno percepire la tua presenza, perché quello soltanto contribuisce a tranquillizzarmi.”
“Vuoi che ti abbandoni nel bel mezzo di una battaglia, quando hai più bisogno di me?” sbotta incredulo.
“Sì.”
“Non essere sciocco.”
“Se non facciamo così, sarà tutto inutile. Io sarò inutile. Vorrei poter lottare al tuo fianco, Sam, darti supporto. Ne ho abbastanza di sentirmi un peso e di rifugiarmi in un angolino aspettando che tu te la veda da solo contro orde di nemici. Non è giusto e… non mi piace. Non sono un fifone. Certo, spesso ho paura, ma solo perché non so come difendermi. Se imparassi almeno questo, sconfiggerei la paura.” insisto, diventando di minuto in minuto sempre più nervoso.
Cavolo, so che è testardo come un mulo, ma se seguita in questa maniera non ho speranze.
“Non devi avere paura se ci sono io. Sarò il tuo scudo, ti proteggerò.”
“Così facendo acuirai la mia consapevolezza di essere inutile! E io ci starei male, molto male.” opto per giocare l’ultima carta, “Vuoi farmi stare male, Sam?” 
Sgrana impercettibilmente gli occhi, l’ho preso in contropiede. Ho toccato il tasto giusto, per fortuna, anche se mi sento uno schifo per approfittare in questo modo del suo attaccamento.
“Io… no, è chiaro. Però, rifletti, è davvero troppo rischioso. E se morissi?”
Sospiro, faccio ciondolare la testa in avanti e cerco una risposta che non ho. Allora scrollo le spalle e torno a guardarlo con le labbra curvate in un debole sorriso.
“Significherà che non era destino che diventassi un demone. Significherà che non ero degno del tuo rispetto, né del tuo prezioso tempo.”
Stavolta è lui a sospirare. Porta una mano a coprirsi la bocca e si massaggia il mento.
“È una decisione importante, non posso dare il consenso così, su due piedi. Torniamo a villa Balckwood e parliamone di fronte a una bella torta, che ne dici? Appronteremo un buon piano e agiremo insieme. Siamo una coppia, no?” ammicca, avvolgendomi le spalle con un braccio.
Maledizione, non c’è tempo! Ho solamente due giorni, poi sarà troppo tardi. Mi sforzo di sorridere contento, ma la mia smorfia non risulta convincente come avrei voluto.
“Che c’è?”
“Nulla.” rispondo imbronciato, “È che mi sembra che tu non abbia fiducia in me.”
“Non è vero, nutro piena fiducia in te.”
“Allora perché non mi lasci provare?”
“Perché c’è in ballo la tua vita, Alastor, e per me non esiste niente di più caro. Vorrei andarci piano e ti consiglio di fare lo stesso. Abbiamo tutta l’eternità per aiutarti a sviluppare il tuo potenziale, non c’è fretta.”
“Sì, ma l’occasione si sta presentando adesso. Perché lasciarsela sfuggire da sotto il naso?”
Riduce le palpebre a fessure e mi sorride affabile, scompigliandomi i capelli con un gesto giocoso.
“Dov’è finito il mio adorabile pupillo, che riponeva in me i suoi sogni e speranze? Penso a tutto io, piccolo, non devi preoccuparti. Samael è qui con te, non ti abbandonerà mai. Sono la tua inseparabile ombra.” mi sussurra suadente all’orecchio, scandendo bene le ultime due parole.
Per la prima volta rabbrividisco di terrore, e non di eccitazione, quando il suo fiato caldo mi accarezza la pelle.










 

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Diversivo ***








 

Il sole è sorto da un paio d’ore e ancora non ho trovato una soluzione al dilemma esistenziale che mi tormenta. Una parte di me vorrebbe lasciar perdere, ma l’altra rifiuta di arrendersi e ciò risulta in un conflitto interiore che non mi dà pace. 
Titus ha detto che Laura è la chiave per la mia redenzione e questo, se facessi quel che si aspetta che faccia, non può che implicare il mio ritorno all’umanità, spoglio dei miei poteri e di tutto quello che ne deriva. Dovrei rinunciare a Samael, voltargli le spalle, cosa che ho giurato non avrei mai fatto. E non voglio nemmeno, ad essere onesto, perché, per quanto possa sembrare illogico, lo amo. Tuttavia, il pensiero che un innocente, come lo era Marco, precipiti all’Inferno solo per aver venduto l’anima per salvare una persona cara mi provoca la nausea. Per non parlare della perdita dei poteri: mi dispiacerebbe venirne privato, sono abbastanza fighi.
Non ho idea se il maestro abbia subodorato qualcosa, la sua natura enigmatica mi impedisce di decifrarlo, nonostante col tempo io abbia imparato a cogliere le piccole sfumature. 
Quando siamo rincasati, ho trovato una torta deliziosa, sbucata da chissà dove, ad aspettarmi sul tavolo della sala da pranzo e Samael mi ha invitato a gustarmela con calma, mentre lui rifletteva a voce alta sui pro e i contro di rimanere a Londra.
“Siamo gli unici emissari presenti in questa città, al momento.” ha detto, “Non abbiamo compagni su cui contare. Siamo solo in due, tralasciando Laeriel, di cui non mi fido per niente. È troppo rischioso indugiare. Ieri notte, durante il combattimento, in effetti ho notato qualcosa di strano, ma lì per lì ero troppo preso per ragionarci: ti ho accennato che gli Spennati che ho ucciso erano delle reclute fresche fresche, prive di una concreta esperienza, soprattutto nella lotta contro un demone del mio livello, e dapprima ho pensato che fosse a causa della carenza di personale. Però poi ho realizzato che, se il loro ordine avesse realmente voluto abbattermi, avrebbe mandato dei guerrieri più forti, di certo non gli mancano. Chiaro è che dovrei tener conto di alcune variabili, come il fatto che forse adesso non sono io la loro priorità, quindi hanno deciso di immolare i deboli per risparmiare la forza bellica dei più forti, ma qualcosa non quadra. Intendo che ieri non mi pareva che quelle reclute stessero cercando di farmi fuori, piuttosto mi stavano trattenendo. Questa ipotesi viene avvalorata proprio dal fatto che Titus, uno dei più abili fra gli Exurge Domine, a quanto mi è dato sapere, sia andato dietro a te, snobbandomi completamente. Deduco che mirasse a te sin dall’inizio, di conseguenza non posso esimermi dal preoccuparmi per la tua incolumità. Sembra che tu abbia attirato il suo interesse e non è un bene, specialmente se dovesse scoprire cosa sei. Per tale motivo insisto per partire subito, devo metterti al sicuro. Ci sarà tempo per addestrarti e aiutarti a sviluppare i tuoi poteri.”
Mi sono morso l’interno della guancia per non emettere un verso frustrato o fare commenti caustici e ho continuato a mangiare la torta fino all’ultima briciola. Era davvero ottima, una delle migliori che io abbia mai assaggiato. 
Ad ogni modo, è evidente che non la spunterò con Samael, non così a buon mercato. Mi occorre trovare una scusa plausibile e convincente, ma è più facile a dirsi che a farsi. Sto rimuginando da ore e non sono giunto a nulla. 
Samael è seduto sul divano del salotto al pian terreno, concentrato a digitare qualcosa sul suo computer - forse sta aggiornato quel suo stupido blog -, mentre io me ne sto spaparanzato su una poltrona, lo sguardo rivolto verso la finestra. Il cielo terso fa a pugni con la depressione che avverto montare in me di minuto in minuto. E il peggio è che non posso neanche uscire alla chetichella accampando un pretesto qualsiasi, perché il maestro mi farebbe il terzo grado e mi seguirebbe come “un’inseparabile ombra”. So che mi tiene d’occhio, persino se cambio stanza. Percepisco le sue iridi infuocate sulla schiena, anche se è fuori dal mio campo visivo. Comunque l’istinto mi suggerisce di non allontanarmi da lui per più di tre metri finché mi trovo in questa casa, infestata da spiriti maligni appartenenti al mio passato e chissà cos’altro, in agguato dietro ogni angolo. Avrei preferito un infimo ostello della gioventù, invece che rimettere piede in questo postaccio.
A questo punto mi pare ovvio che da solo non riuscirò mai ad aiutare Laura, sempre se è quel che desidero. Mi servirebbe un aiuto esterno, un diversivo, che distragga Samael il tempo necessario a prendere contatto con mia nipote, illustrarle la situazione e convincerla in qualche modo a pentirsi. E non è qualcosa che posso fare in cinque minuti. Non so nemmeno come aggirare l’incantesimo che mi impedisce di mostrare ai peccatori la via di fuga: non posso parlarne direttamente, quindi dovrei, che ne so, mimarlo? O fare un disegnino, magari? Bah. E non è detto che l'ovatta che riempie il loro cervello si lascerà togliere per far spazio al sale.
Ma perché devo sempre lasciarmi coinvolgere in faccende complicate? E perché continuo a esitare e avere dubbi dopo tutti gli anni passati accanto a Samael? Il mio stato psicologico, costantemente altalenante, mi innervosisce e mi confonde. È tanto difficile costruirsi dei pilastri solidi? Sembra di sì, soprattutto se ti trovi a metà tra due mondi molto diversi che, in quanto a ideologie, fanno a pugni tra loro. Cosa voglio davvero? Qual è per me la cosa più importante in assoluto? Rispondere sarebbe facile: Samael. Ho immaginato spesso di trascorrere l’eternità con lui e l’idea mi fa attorcigliare lo stomaco, ma non in maniera spiacevole, anzi. 
D’altro canto, abbandonare Laura al suo immeritato destino non è giusto. Devo fare qualcosa, o almeno tentare. Perché? Beh, perché so. Sono stato informato delle sue vicende, perciò ormai ci sono dentro. Conoscenza è potere, dicono, ed è proprio così. Se non agissi, mi sentirei in colpa e odio sentirmi in colpa. È già successo con Marco e non voglio ripetere l’esperienza, grazie. Ma se agissi, perderei Samael, poco ma sicuro. Perché lui scoprirebbe il mio piano, cercherebbe di sventarlo e alla fine mi ucciderebbe per aver… per avere fatto cosa, in effetti? Non intendo tradirlo. Si tratterebbe di una questione personale da risolvere a sua insaputa, per poi tornare da lui e proseguire per la strada che ho scelto. Sarebbe solo una piccola deviazione, nulla di grave, insomma. La vita è piena di deviazioni, no? Non rinnegherei la causa di Lucifero, il cui scopo è punire i peccatori, sono d’accordissimo su questo punto. Ma Laura non è una vera peccatrice, quindi devo impedire che Sua Eccellenza Oscura commetta un errore madornale, che lo screditerebbe agli occhi di Dio e nella guerra in corso. Ecco, lo sto aiutando. E contemporaneamente aiuto Laura. 
Ok, sono piuttosto bravo a trovare giustificazioni o alibi, ma il problema di come eludere la stretta sorveglianza di Samael resta. 
Dov’è Laeriel? Potrei usare lui come esca. Non lo vedo da un pezzo e ammetto di essere un po’ in apprensione. Cosa gli ha fatto Samael?
“Sam.” lo chiamo svogliato.
Distoglie subito lo sguardo dallo schermo del portatile e lo posa su di me, scrutandomi con curiosità.
“Sì?”
“Mi serve Laeriel.”
“Per cosa?” domanda inarcando un sopracciglio.
“Per allenarmi e come guardia del corpo.”
Esala un sospiro teatrale e alza gli occhi al cielo: “Alastor, ne abbiamo già parlato. Per favore, non ricominciare.”
“Voglio vedere Laeriel e se tu continuerai a impedirmelo, troverò da solo il modo.” replico con fermezza, tenendogli testa.
Stavolta solleva entrambe le sopracciglia e abbozza uno sbuffo divertito. Poi le sue labbra si curvano in un sorriso sghembo e da esse rotola fuori una risata roca che mi fa accapponare la pelle. Con un movimento fulmineo, che a malapena riesco a captare, è già di fronte a me, sopra di me. Le sue braccia sono ai lati del mio corpo, le sue mani arpionate ai braccioli della poltrona e il suo busto piegato in avanti, come un predatore in procinto di divorare la preda. Sono in trappola. Le sue iridi brillano di una luce sinistra, ma sono anche cariche di una lussuria che mi travolge come lava ardente, mi fa rimescolare e mi trasforma in un budino tremolante.
“Le rare volte che mi remi contro susciti in me sensazioni contrastanti, Alastor: da un lato penso ti occorrerebbe un po’ di disciplina, dall’altro mi ecciti all’inverosimile, tanto che sento l’impulso di possederti con furia animale, montarti e schiacciarti finché non gridi il mio nome, supplicandomi col viso bagnato di lacrime cristalline. Non istigarmi.” sibila a un centimetro dalla mia faccia, il suo fiato caldo che mi accarezza le guance e mi spedisce brividi di anticipazione in tutto il corpo.
“Perché non…” deglutisco, mi schiarisco la gola e mi faccio coraggio, “Perché non vuoi farmi vedere Laeriel? Cosa gli è successo?”
“L’ho punito per aver permesso che un nemico ti ferisse. Doveva proteggerti, invece sei arrivato a tanto così dal restarci secco. Credevi che avrei lasciato correre?” rivela, mentre il suo ghigno si allarga.
Assumo un’espressione perplessa e corrucciata.
“Se non vado errato, a Firenze sono morto a causa del tuo piano 'geniale'. Perché non ti sei punito? Tu puoi sbagliare e Laeriel no?” lo sfido, “E poi, se dobbiamo andarcene, non dovrebbe essere in forze per seguirci? Oppure vuoi portarti appresso un peso morto?”
“Ho pagato per quello che ti è successo a Firenze, credimi.” borbotta incupito, lo sguardo perso e lontano in balia di brutti ricordi che non ha mai condiviso con me, “Per quanto riguarda Laeriel, sto ponderando di mettere fine alle sue sofferenze. Ce la siamo cavata egregiamente per anni senza di lui, solo io e te, non vedo il motivo per cui un terzo dovrebbe fare la differenza. All’inizio credevo che ci sarebbe stato utile, grazie alla sua apparentemente immotivata devozione nei tuoi confronti. Insomma, avrei potuto usarlo attraverso di te. Però si è dimostrato più una palla al piede che uno strumento a nostro vantaggio, perciò lo trasformerò in cenere prima di partire.” mi fissa intensamente con un sorriso cattivo dipinto sulla bocca e quasi mi sembra di scorgere dei fili di fumo uscire dalle sue labbra, “Ci sono obiezioni, vostro onore?”
Lo guardo incredulo e, di nuovo, mi pare di vederlo per la prima volta. Perché si comporta così? Oddio, è geloso?
“Sei geloso?” chiedo titubante, a bassa voce, per non irritarlo ulteriormente.
Schiocca la lingua e fa una smorfia: “Un pochino, lo confesso. Ma non è la gelosia che mi muove, quanto accurati calcoli in previsione del futuro. Non ho tempo né voglia di addestrare Laeriel, che è un demone da troppo poco per poterci fidare interamente. È ancora troppo vicino alla Luce, capisci cosa intendo? I Caduti sono vulnerabili nel primo periodo, perché potrebbero decidere di tornare a far parte delle schiere divine in ogni momento. Serve una grande forza di volontà e un chiaro obiettivo per opporsi alla tentazione e Laeriel… beh, non me la racconta giusta. Ho come la sensazione che stia facendo il doppio gioco e sai quanto detesto che mi si prenda per i fondelli.”
L’ultima frase la pronuncia ringhiando e sibilando, poi serra di scatto i denti come se volesse mordermi e lo schiocco mi fa sussultare. Con la coda dell’occhio noto la sua mano destra che si solleva e infine sento la consistenza delle sue dita sul collo, che sfiorano la pelle disegnando fantasiosi ghirigori e si aprono sempre di più, fino a cingermi delicatamente la gola, senza stringere, facendomi però temere che voglia strangolarmi qui e ora. Un secondo più tardi il suo sorriso si addolcisce, si china ancora un po’ e sfrega il naso sulla mia fronte, inspirando il mio odore a pieni polmoni.
“So che tu non lo faresti mai, Alastor, mi fido di te. La mia paura è che qualcun altro possa influenzarti negativamente e portarti via. L’ho visto, sai? Ho visto come qualche volta esiti e quasi leggo le tue domande sulla tua faccia, come se tu fossi un libro aperto. Spesso vorrei rispondere, dipanare tutti i tuoi dubbi, ma non sei pronto per conoscere ogni singolo segreto. La strada è lunga e piena di ostacoli. Io resterò con te e ti guiderò, ti proteggerò, di questo puoi esserne certo. Tuttavia, per farlo bisogna che tu ti affidi a me, ciecamente. Te l’ho detto e ripetuto in precedenza, ma sembra che non ti entri in testa: io non ti abbandonerò mai. Potrai sempre contare su di me, per qualsiasi cosa. Ok?”
Le nostre labbra si sfiorano, affogo nei suoi occhi e mi arrendo al bacio famelico in cui mi coinvolge un attimo dopo, esplorando la mia bocca con foga, alla stregua di un assetato. Mi sbottona la camicia con gesti rapidi e tasta il mio torace con tocchi decisi, per nulla gentili ma non per questo meno piacevoli. Ansimo forte e Samael beve i miei gemiti con desiderio, per poi liberare la mia cavità orale e scivolare lungo il collo e il petto, depositando una scia di baci infuocati al suo passaggio. Aggredisce i miei capezzoli strappandomi un grido, al che mi mordo due dita e chiudo gli occhi per trattenermi dall’emettere versi ancora più osceni.
All’improvviso una forza invisibile si avvinghia intorno ai miei polsi e me li inchioda allo schienale della poltrona, ai lati della testa, e adesso non c’è più niente che mi impedisca di esprimere il mio godimento a voce alta.
Samael scende più giù, mi morde la pancia, la pelle attorno all’ombelico, e lecca la porzione appena sopra la cintura dei pantaloni, che sono diventati fastidiosamente stretti. Me li toglie con movimenti veloci, così veloci che neanche me ne rendo conto. Percepisco solo un lieve sobbalzo e l’istante successivo vedo le mie gambe nude appoggiate sulle sue spalle e i suoi lunghi capelli corvini adagiati sul mio ventre e sulle cosce, un manto di pura seta in cui vorrei affondare il naso e le mani. Mi scruta dal basso con espressione languida e predatrice insieme, dopodiché impugna la mia erezione e in un attimo vengo inghiottito in un universo bollente e umido che mi mozza il fiato. Roteo gli occhi all’indietro per l’indescrivibile estasi che sto provando e gemo incontrollato. Non riesco a muovermi come vorrei, perché le braccia sono bloccate, così mi limito a far ondeggiare i fianchi, per quanto possibile, visto che Samael me li tiene fermi. L’aria si riempie dei miei sospiri e gridolini beati, ma, benché sia imbarazzante, non me ne vergogno più di tanto, poiché so bene quanto gli piaccia sentirmi urlare il mio apprezzamento, quasi questi versi andassero a rimpolpare il suo ego virile. Spesso, in passato, mi ha detto che la certezza di essere l’unico a cui è concesso di accompagnarmi oltre il baratro e innalzarmi nell’ebbrezza sessuale gli provoca una grande soddisfazione, come se fosse un privilegiato. È solo un bastardo egocentrico. Però è innegabile che il piacere che lui mi ha regalato non l’ho mai provato con nessuno. E mi pare ovvio, visto che i miei partner erano dei depravati pedofili. A volte mi sono domandato se sarei stato capace di provare le stesse emozioni con qualcun altro, magari un umano, uno normale, senza disturbi mentali, devianze o strani fetish. Oppure con una donna.
Squittisco sonoramente e contraggo i muscoli, poi abbasso lo sguardo su Samael e lo osservo sorpreso: mi ha morso, proprio lì, sulla punta. Non è stato forte, ma l’ho sentito comunque e ha fatto un po’ male. Mi imbroncio e gli scocco un’occhiata risentita.
“È colpa tua, Alastor. Dove eri con la testa?” chiede sogghignando, dando una veloce lappata sul glande e facendomi fremere d’impazienza.
“Sc-scusa…”
“A cosa pensavi?” insiste.
“Mi chiedevo se un altro sarebbe in grado di donarmi questo piacere. Magari una donna.” rispondo sincero.
“O-ho! Cos’è, una sfida? O forse stai ponderando di tradirmi? E poi, una donna? Davvero?” commenta divertito.
“Eh? No, cioè, no- ah!”
Mi riprende in bocca e in poco tempo raggiungo l’apice, sciogliendomi sulla sua lingua in gemiti estasiati. Ma se penso che sia finita qui, mi sbaglio di grosso e la spinta secca che assesta col bacino, unita al leggero dolore che si propaga nella mia carne alla sua intrusione, me lo confermano. Perdo la cognizione del tempo e dello spazio e la realtà precipita nel caos.
Quando Samael esplode dentro di me per l’ennesima volta - dopo la terza ho smesso di contare -, mi desto un po’ dallo stato di trance in cui sono caduto. Realizzo che la sensazione di ruvidità sotto la schiena è data dal tappeto polveroso e che l’oscurità che avvolge il salotto è da ricondurre al fatto che è notte fonda. I lampioni filtrano appena dalle finestre, ma non arrivano ad illuminare i nostri corpi avvinghiati e ansimanti. O perlomeno io sono a corto di fiato, Samael sembra uscito da una S.p.a. Come cavolo fa ad apparire sempre così impeccabile, anche dopo una maratona di sesso selvaggio? Sì, ok, ha un paio di ciocche fuori posto, ma per il resto pare una statua di marmo, perfetta in ogni dettaglio. Io, invece, sono sicuro di essere un disastro, a partire dallo sperma - il mio - che mi imbratta lo stomaco.
“Sei bellissimo.” sussurra al mio orecchio, come se mi leggesse nel pensiero, lambendomi il lobo con la lingua.
“Seee…” sbuffo scettico.
“Sul serio. Hai questa…” mentre si sorregge su un braccio per non gravarmi addosso, compie un gesto vago con la mano e mi indica in generale, “quest’aria sbattuta che ti dona assai.”
“Perché mi hai sbattuto. Tante volte. Per tutta la giornata. E non ricordo nemmeno quand’è che sono finito sul pavimento.”
Si esibisce in un ghigno sornione e per un secondo mi sembra che stia per mettersi a gongolare felice. Mi aspetto pure di vederlo fare la ruota come un pavone.
“Allora? Piaciuto? Credi che qualcun altro riuscirebbe a soddisfarti come ho appena fatto?”
“Non lo so. Per saperlo dovrei… farlo con qualcun altro.” ribatto per stuzzicarlo.
“Puoi scordartelo. Non lascerò che qualcuno a parte me ti tocchi.”
“Eh, ma così non posso fare paragoni.”
“Continua a non farli, starai bene lo stesso.”
“Mmm… però la curiosità rimarrebbe inappagata.”
“Posso conviverci.”
Ridacchio e gli stampo un bacio giocoso sul naso: “Gelosone.”
Stringe le labbra e piega gli angoli all’ingiù.
“Tu non saresti geloso se io scopassi con altra gente?”
Questa domanda mi trafigge in pieno cuore e boccheggio, punto sul vivo: “Non osare! Sei mio.”
“Ecco, non osare nemmeno tu.”
“Mh.”
“Siamo d’accordo?” bisbiglia, accorciando di nuovo le distanze.
“Mh.”
Mi bacia con passione e la sua erezione, premuta contro la mia coscia, si risveglia.
“Ehm… Sam? Sam, no, basta, altrimenti non mi reggo in piedi.” dico, cercando di scostarlo senza riuscirci, “Ugh! Quanto pesi?”
“Non devi per forza reggerti in piedi.” borbotta e cosparge di morsetti le mie clavicole.
“Perché no?”
“Tanto non andremo da nessuna parte stanotte. Non hai niente da fare, è il tuo giorno libero. Possiamo spassarcela quanto vogliamo.”
“E chi ha deciso che è il mio giorno libero?” 
“Io.”
“Ah.”
Subisco docile i suoi assalti successivi, mirati al mio collo, finché ad un tratto, un momento prima che la sua mano ricominci a stimolarmi, si pietrifica. Il suo sguardo si fissa su un punto a caso del tappeto e le palpebre si assottigliano. Allora mi irrigidisco anch’io e scandaglio il salotto. Solo adesso faccio caso ad un particolare che dianzi non ho notato, ancora frastornato dall’ultimo orgasmo: tutto sembra immobile, sospeso nel tempo. Dall’esterno non giungono suoni, l’aria stessa pare bloccata.
“Dove siamo?” lo interrogo, diventando irrequieto.
“Nell’altra dimensione.”
“C-cosa?! E quando-”
“Mentre stavamo facendo sesso. Non volevo essere disturbato.” snocciola sbrigativo.
Lo scruto ansioso, in attesa di risposte. Si scansa bruscamente e si alza in piedi, focalizzando l’attenzione fuori dalla finestra. Contemplo i muscoli della sua schiena e delle natiche, che guizzano mentre cammina e si avvicina al vetro, e non posso fare a meno di deglutire, smanioso di riportare le mani su tutto quel ben di dio. Mi tiro a sedere in silenzio, trattenendomi a stento dal sommergerlo di domande.
“Dei ratti si sono introdotti nella villa.” esordisce dopo qualche minuto.
“Ratti?”
“Tanti ratti. Urge un’immediata disinfestazione.” sibila rabbioso.
Rabbrividisco e mi rannicchio. Sicuramente non si riferisce agli animali che popolano le fogne.
“Exurge Domine?”
“Sì.”
Balzo in piedi anch’io, agguerrito e determinato a partecipare, e mi affretto a recuperare i vestiti sparsi a terra alla rinfusa. Vengo fermato inaspettatamente dalla presa salda di Samael su un polso e dal dito indice dell’altra mano che oscilla a destra e a sinistra, parato davanti al mio viso.
“No, Alastor, tu resti qui. Me ne occupo io.”
“Cosa?! Perché?” chiedo stringendomi al petto pantaloni e camicia.
“Se stanno dando la caccia a te, è meglio che rimani in questa dimensione, per loro inaccessibile. Qui sei al sicuro.”
Mi libera e in una frazione di secondo, giusto il tempo di un battito di ciglia, è già vestito. Un giorno dovrà insegnarmi come fa.
“Obbedisci, Alastor. Fa’ il bravo.” mi intima perentorio, senza darmi la possibilità di replicare.
La sua voce è così schiacciante che per un attimo mi dimentico di respirare. Incapace di proferire verbo, lo guardo sparire oltre la porta del salotto, inghiottito da una spessa e torbida oscurità.
Indosso i miei abiti lentamente e mi metto a riflettere sul da farsi. Tecnicamente non sono prigioniero di questa dimensione, poiché posso accedervi anch’io con i miei poteri quando riscuoto un’anima. Di conseguenza posso anche uscirne senza problemi. Il punto è che Samael mi ha ordinato di restare qui. Per quanto tempo? E se avesse bisogno di me?
Poi realizzo un dettaglio cruciale: gli Exurge Domine hanno fatto irruzione nella villa. Samael aveva detto che c’era una barriera, grazie alla quale i nemici non avrebbero potuto entrare, ma a quanto sembra ha sbagliato alla grande. Comunque, se gli Spennati sono qui, forse significa che c’è anche Titus e se Titus è qui, allora…
È un diversivo.
Non so come faccio ad esserne sicuro, ma lo sono. È lampante. Titus deve aver capito, chissà come, che non avevo modo di compiere la mia missione con Laura e mi sta offrendo una via di fuga. Però se abbandonerò questa dimensione, Samael se ne accorgerà e mi verrà dietro. Non posso disobbedirgli. Cioè, posso? Potrebbe finire in tragedia. Che faccio?
Non mi viene data l’occasione di rimuginarci sopra a lungo, poiché la finestra cede di schianto e migliaia di schegge di vetro esplodono e volano sul pavimento o si conficcano nei muri. Mi osservo e appuro che per fortuna sono illeso. Ma non è questo l’importante: qualcuno ha appena forzato i cancelli dell’altra dimensione e mi ha raggiunto. Chi? Solo un demone può riuscirci.
Sto per fiondarmi verso la porta del salotto, quando odo una voce chiamarmi.
“Archie!”
Mi volto di scatto e sul marciapiede vedo Laeriel, affiancato da Titus, che mi fa cenno di sbrigarmi. È agitato, ma sembra stare bene. Esalo un sospiro di sollievo. No, aspetta, che diavolo ci fanno quei due insieme? Esito e faccio un passo indietro.
“Non posso…” soffio dispiaciuto.
Titus digrigna i denti, scambia un’occhiata d’intesa con Laeriel, prende la rincorsa e salta attraverso la finestra. Atterra sul tappeto cosparso di frammenti di vetro, si protende verso di me e mi agguanta per un polso, trascinandomi fuori con la forza prima che possa elaborare cosa sta accadendo.
“Andiamo, presto!” mi incita.
Spicca un balzo e in un istante stiamo volando sopra i tetti di Londra, con Laeriel alle calcagna che tiene il nostro passo, anzi quello di Titus, senza apparente fatica. Io vengo sbatacchiato modello bandiera, ma fa niente.
“Dove stiamo-”
“All’ospedale, da Laura.” taglia corto Titus, rinsaldando la presa sul mio polso.
“Ma Samael-”
“I miei lo terranno occupato.”
“Sono troppo deboli!”
“Non stavolta. Ho chiamato dei compagni abili, che gli daranno del filo da torcere. Hai bisogno di tempo, noi lo guadagneremo per te.”
Fisso allibito la sua nuca castana, troppo intontito per riordinare il caos di domande e pensieri che mi affollano il cervello. Mi giro e incrocio gli occhi bianchi di Laeriel, che abbozza un sorriso rassicurante.
“Voglio che qualcuno mi spieghi subito cosa sta succedendo. Laeriel, perché fai coppia con lui? E perché diamine gli Exurge Domine si danno tanto da fare per me?”
“Non ora, Archie. Se avremo tempo e modo, te lo dirò più tardi.” risponde pacato.
“Forza!” ci sprona Titus, mentre aumenta la velocità.
L’angoscia mi pervade il cuore e la paura mi attanaglia le viscere. Ho un brutto presentimento e la netta sensazione che non finirà bene.










 

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Angelo custode ***








 

La corsa sfrenata dura appena un paio di minuti, durante i quali mi ritrovo stranamente a pregare di uscirne, se non illeso, almeno vivo. Mi fido del mio istinto e quando mi grida “pericolo” a gran voce lo ascolto. Forse dovrei liberarmi dalla stretta d’acciaio di Titus, girare i tacchi e andare a dar man forte a Samael, per poi levare le tende e dire addio a questa maledetta città, che mi porta solo guai.
Fatto sta che all’improvviso Titus si blocca, piantando i piedi sul cornicione di un grattacelo, e senza volerlo vado a sbattere sulla sua schiena. Anche Laeriel arresta il passo e atterra accanto a noi. Impreco massaggiandomi il naso e sbircio in direzione di Titus. Mi irrigidisco alla vista della sua espressione tesa, così sposto l’attenzione davanti a me. Sgrano gli occhi incredulo e schiudo la bocca, mentre le parole mi muoiono in gola.
“Archie! Non avrei mai immaginato di rivederti così presto. Dove vai di bello? Noto anche che ti sei fatto amici alquanto bizzarri.”
Capelli biondi, iridi color amaranto, abbigliamento casual tendente al punk, atteggiamento spavaldo e un po' sbruffone...
“Andras. Che ci fai qui?” esalo sconvolto.
“Oh, beh…” si gratta la nuca e sorride incerto, “ordini dei piani alti. Molto alti. Così alti che più alti non si può. Che combini?”
“Ah, eh, io, ecco…”
“Spostati, demone, o dovrò distruggerti.” si intromette Titus, materializzando nella mano destra il Bastone di Gabriel.
Al solo vederlo, un brivido freddo mi corre lungo la schiena. Brutti ricordi.
Andras sbuffa divertito, scrocchia il collo e in un attimo scompare, per poi riapparire dietro di me. Sussulto quando mi cinge le spalle con un braccio, ma non riesco a reagire, come se i miei muscoli si fossero trasformati in piombo.
Titus si volta fulmineo brandendo il Bastone, lo fa roteare velocemente e mira al fianco di Andras, che si scansa con altrettanta agilità. So quanto sia forte, nonché arguto e sempre vigile, però devo confessare che sono sorpreso della sua capacità di tenere testa ad uno Spennato come Titus. Ah, forse so cosa gli è successo. 
Lo osservo in tralice, concentrandomi, e benché non riesca ad individuare cambiamenti palesi, percepisco che è diverso dall’ultima volta, più... potente. Ha risalito la gerarchia. A quanto pare l’aver aiutato me, e di conseguenza Samael, ha dato i suoi frutti.
Titus torna all’attacco, ma Andras lo aggira, gli fa uno sgambetto e gli assesta un calcio nelle terga, mandandolo a rotolare a svariati metri di distanza, fino al cornicione opposto. Dopodiché torna a guardarmi, anche se per pochi secondi, perché il suo sguardo viene immediatamente calamitato da Laeriel, che non si è ancora mosso. Si scrutano a vicenda per alcuni istanti, impassibili, poi le labbra di Andras si curvano in un sorriso amichevole.
“Uh! Ciao, matricola! Come te la passi?”
“Meglio di come te la passerai tu tra due secondi.” risponde neutro Laeriel.
Andras ha giusto il tempo di aggrottare le sopracciglia perplesso, prima di essere scaraventato via a sua volta da un fendente di Titus. Il Bastone si illumina e sfrigola contro i vestiti e la pelle del demone, ma il contatto si esaurisce in un battito di ciglia, troppo breve per aver arrecato ingenti danni. Eppure sono più che convinto che gli ha fatto male. Quel Bastone è infido. D’altronde non ci si può aspettare nulla di meno da un’arma forgiata dall’Arcangelo in persona per combattere e distruggere l’esercito infernale, forse persino Lucifero stesso.
Andras grugnisce, si mette prono e porta una mano sullo squarcio che gli deturpa il fianco destro, da cui esce una sostanza nera e viscosa e pure del fumo, quasi fosse incandescente. I suoi occhi guizzano feroci e, se potessero, incenerirebbero Titus su due piedi. Lo Spennato, invece, ghigna vittorioso e fa mulinare il Bastone nel palmo come un giocoliere.
Laeriel scivola di fronte a me e non mi occorre che un attimo per capire che vuole farmi da scudo. È allora che una zaffata che sa vagamente di carne bruciata mi invade le narici. Mi ritraggo basito e quando realizzo che quest’odore terribile proviene proprio da Laeriel rimango sconcertato.
“Che diavolo…? Laeriel, stai andando a fuoco per caso?” domando confuso e abbozzo anche una risatina.
Sennonché Laeriel si volta di tre quarti e ciò che scorgo riflesso nelle sue iridi bianche mi pietrifica. Come un flashback, le immagini del sogno che ho fatto prima di risvegliarmi a Villa Blackwood mi assalgono con la forza di un uragano. Rivedo la stanza buia, la porta, anzi le porte tutte uguali, e quella accostata da cui mi sono sporto per spiare; rivedo Laeriel a terra mentre Samael si diverte ad arderlo vivo, odo le sue grida e sperimento di nuovo quell’opprimente dolore nell’anima. C’è una voce nella mia testa, che mi sussurra “Non guardare, Archie”, e Laeriel che continua a bruciare e bruciare, ancora, ancora, ancora…
“Archie.” bisbiglia al mio orecchio.
Non so quando si è avvicinato tanto, ma il tepore del suo alito nel padiglione auricolare riesce a calmarmi. Mi accorgo di stare piangendo solo nel momento in cui le sue dita vanno ad asciugare delicatamente le lacrime che mi rigano le guance. Come ho fatto a dimenticarmi di un simile incubo? Circondo l’ovale di Laeriel con gentilezza, senza curarmi di celare lo smarrimento e l’afflizione. Lo accosto al mio viso e respiro il leggero effluvio di carne abbrustolita che emana. Altre stille salate ricominciano a scendere e mi mordo il labbro inferiore per trattenere almeno i singhiozzi. E lui invece sorride, sorride con una dolcezza disarmante. Come può sorridere dopo quello che ha subito? E non era un sogno, ormai ne sono certo.
“Cosa ti ha fatto?” mormorò con voce rotta.
Non risponde, si limita ad una mera scrollata di spalle, mantenendo quel maledetto sorriso. È un sorriso che ha solo per me, un sorriso speciale, unico, che mi fa desiderare di chiedergli scusa dal profondo del cuore. E lo faccio.
“Mi dispiace… perdonami, ti prego…”
Laeriel si solleva in punta di piedi e mi stampa sulla fronte un bacio che ha qualcosa di materno. Mi pulisce di nuovo le guance, ma il suo sorriso adesso appare smorzato dalla tristezza.
“Non l’ho fermato… non ho…” 
Non riesco più ad arginare i singhiozzi. La pena che mi pervade è straziante, mi mozza il fiato. È insopportabile.
“Qualcosa hai fatto.” dice finalmente in un sussurro che sa d’intimità e accende in me un piacevole calore, “Eri lì con me, ti ho sentito. Mi hai dato la forza di resistere.”
Scuoto il capo angosciato, le lacrime non paiono aver intenzione di arrestare la loro discesa. Mi sento sconfitto, in un certo senso, svuotato fino al midollo. La consapevolezza che è stato Samael a torturarlo mi provoca fitte lancinanti al centro del torace. In effetti, per quanto insistessi non voleva che vedessi Laeriel, e da questo posso solo dedurre che abbia voluto evitare che lo scoprissi e fuggissi inorridito da lui, dal mostro che è. “Occhio non vede, cuore non duole”, giusto? Non sono un ingenuo, ho capito che Samael è potente e spietato - è un demone, dannazione! -, eppure mi sono attaccato con un’ostinazione infantile all’ideale che mi ero costruito: dato che non ha mai usato la violenza su di me, mi sono convinto come uno sciocco che non fosse capace di arrivare a tanto, o che al limite si accanisse con tale ferocia solo sui peccatori, ossia coloro che lo meritavano. Lo consideravo una sorta di principe dal fascino oscuro, severo, deciso, autoritario, ma mai crudele, con saldi principi di giustizia. Perché ha punito Laeriel in quel modo? Cosa ha fatto di così grave da meritarsi un simile, barbarico trattamento? 
Ormai è chiaro come il sole che non riuscirò più a guardare Samael come ho fatto sino ad ora. La verità, nonostante gli sforzi di colui che chiamo ancora “maestro”, è venuta a galla e mi sarà impossibile ignorarla. Che devo fare? Samael è tutto per me, ma non so se sarò in grado di rimanere al suo fianco dopo gli atti abominevoli di cui si è reso colpevole nei confronti di Laeriel. E chissà quanti altri macchiano la sua coscienza, sempre se ne possiede una. Un demone come lui non potrà mai rendermi felice, in fondo l’ho sempre saputo. La disparità tra i nostri modi di pensare e agire è troppo grande per essere colmata e il mio amore non è sufficiente, non lo sarà mai.
“Andate! Io vi raggiungo!” grida Titus, parando all’ultimo secondo un pugno di Andras.
La loro lotta è andata avanti senza che me ne rendessi conto e Titus sembra in vantaggio. Andras ha varie ferite sul corpo, che da lontano mi paiono molto dolorose, ma non demorde e continua ad attaccare.
Laeriel mi prende per mano e sale sul cornicione, pronto a spiccare il salto.
“Alastor, no! Qualsiasi cosa tu voglia fare, non farla, altrimenti ci saranno terribili ripercussioni!” esclama Andras senza guardarmi, ringhiando verso Titus quando tenta un affondo laterale, “Ma quanto sei appiccicoso?! Dicevo, non andare o si arrabbieranno!”
Appena finisce di parlare, compie una capriola in aria e si smaterializza, per poi riapparire a un palmo dal mio naso, sospeso nel vuoto. Ora vola addirittura! Balzo indietro di riflesso, ma Laeriel mi trattiene.
Chi si arrabbierà? Se si riferisce a Samael, lo so anche da me.
“Alastor, non andare. Torna da Samael, ci penserà lui a proteggerti.” pronuncia in tono affettato, quasi stia cercando di persuadere un bambino, poi torna serio e si rivolge a Laeriel, “E tu da che parte stai? Hai per caso nostalgia di casa? So che i Caduti provano l’impulso di volare di nuovo in Paradiso durante il primo periodo. È così anche per te? Sei in quella fase?”
“Non sai fare altro che blaterare?” replica il rosso, inarcando con eleganza un sopracciglio.
Andras lo imita e lo squadra dall’alto in basso: “Se ti metterai in mezzo-”
Un forte colpo di Bastone si abbatte con inaudita violenza sulla sua testa e l’attimo seguente vedo Andras precipitare giù a velocità disumana. Stringo i denti e chiudo un occhio, perché non so se ho voglia di osservarlo sfracellarsi al suolo, ma a dispetto dei miei timori arresta la caduta con i suoi poteri e atterra leggiadro sul marciapiede. Alza lo sguardo su di noi e noto che ha definitivamente perso l’aria amichevole. Si mette male.
“Sbrigatevi, di lui mi occupo io.” ci esorta Titus, brandendo il Bastone di Gabriel come una lancia.
Laeriel annuisce, rinserra la presa sulla mia mano e salta. Mi giro e incontro per un istante gli occhi azzurro vivo di Titus, che accenna un lieve sorriso e muove le labbra per dire qualcosa.
“Buona fortuna.”
Poi Laeriel mi dà un secco strattone, perdiamo quota e in un attimo veniamo inghiottiti dall’oscurità dei vicoli londinesi.

Arriviamo all’ospedale ed entriamo tranquillamente dalla porta principale, senza essere notati. C’è un discreto via vai di persone, tra infermieri, dottori e pazienti, ma non ci facciamo distrarre. Ci dirigiamo verso l’ascensore e saliamo fino al reparto di terapia intensiva. Il corridoio è illuminato dalle lampade al neon, che gettano sui muri e sul pavimento una luce fredda e asettica. Marciamo a passo spedito - Laeriel non ha ancora abbandonato la mia mano -, per poi fermarci di fronte alla stanza in cui è ricoverato il piccolo Archibald. 
È sdraiato sul letto, con gli occhi chiusi e un colorito pallido ed emaciato. Un tubicino trasparente attaccato ad una flebo gli esce dal braccio e su naso e bocca gli è stato applicato un respiratore. Laura è accanto a lui, nella stessa posizione di ieri notte, come se non si fosse mai mossa: seduta su una sedia di plastica a fianco del letto, con il busto chinato in avanti e il capo appoggiato sul materasso, in una posa che trasuda prostrazione.
Esito, senza sapere bene come comportarmi. Covo ancora qualche riserva sullo scopo di questa missione e non ho ancora deciso da che parte stare.
Laeriel mi stringe la mano e si appoggia a me, contemplando la scena nella stanza.
“Cosa vuoi fare, Archie?”
“Non lo so.” rispondo sincero, esalando un sospiro stanco.
Questi giorni sono stati pesanti, pieni di avvenimenti, mi sono sentito sballottato in qua e là da una corrente incontrollabile, e non sembra aver intenzione di finire tanto presto.
“Cosa provi guardandoli?”
Scrollo debolmente le spalle e corrugo la fronte: “Non lo so.”
“Indifferenza?”
“Può darsi. Anche se condivido con loro un legame di sangue, sono estranei per me.”
È il turno di Laeriel di sospirare, avverto una sfumatura frustrata. 
Restiamo ad osservare Archibald e Laura per incalcolabili istanti, finché Laeriel non rompe il silenzio.
“Ti sei accorto che tua nipote porta lo stesso nome della defunta figlia del signor Phelps? L’hai scaraventata all’Inferno anche se era innocente, ricordi? Lo so, allora non potevi rifiutarti, inoltre ancora non avevi realizzato molte cose. Quella Laura è perduta, condannata a patire indicibili e immeritate torture per l’eternità, ma questa puoi ancora salvarla.” indica con un cenno del capo la ragazza dormiente al capezzale del fratellino, “Hai la possibilità di cancellare il passato. In fondo è quello che hai sempre voluto, no? Ricominciare da zero. E non negarlo, io so cosa si agita nel tuo animo.”
Lo guardo perplesso e, fra tutte le domande che vorrei porgli, solo una rotola di getto fuori dalla mie labbra: “Come sai di Laura e del signor Phelps? Tu non c’eri.” 
“Sì che c’ero. Sono sempre rimasto al tuo fianco, Archie, sempre, dal giorno in cui sei stato concepito.” afferma a bassa voce, quasi temesse di spezzare l’atmosfera satura di tensione che aleggia in questo corridoio d’ospedale.
Ora lo fisso corrucciato, la confusione che minaccia di farmi esplodere. Ne ho abbastanza di non capirci un accidente, voglio sapere, perdiana! 
“Chi sei?”
“Non l’hai ancora intuito?” chiede di rimando con un’espressione di genuina sorpresa.
Mi sto innervosendo. Perché nessuno vuole darmi delle risposte chiare? Le esigo! È così difficile non parlare per enigmi? Pare che sia un marchio di fabbrica delle creature soprannaturali, e non è un complimento. Mi fa uscire di senno.
Laeriel sembra leggermi nel pensiero. Sospira e avanza di un passo, appoggiando una mano sul vetro della stanza. Quindi si gira verso di me e riduce le distanze. Benché io sia più alto di una spanna abbondante, all’improvviso ho l’inquietante impressione di trovarmi al cospetto di un gigante. Mi intimorisce. Per la prima volta provo l’impulso di indietreggiare, cosa che con lui non mi è mai successa.
“Sono il tuo angelo custode.” rivela senza tante cerimonie, la voce priva di inflessione, “Anzi, lo ero.”
Per poco non ci resto secco. Sbarro le palpebre e mi divincolo dalla sua presa, mentre la nebbia di interrogativi che mi ha affollato il cervello sino ad ora si dipana fino a svanire del tutto. Ecco svelato il mistero. Ecco per quale motivo ho sempre avuto la sensazione di conoscerlo. Ecco perché mi sono sempre fidato di lui, a dispetto del consiglio di Samael di non farlo. Inconsciamente sapevo che Laeriel era dalla mia parte e che non mi avrebbe mai fatto del male.
Il mio angelo.
Torna a studiare le due figure nella stanza con aria afflitta, ma non perdo d’occhio il suo riflesso sul vetro. Quando ricomincia a spiegare, sembra che parli più a se stesso che a me.
“Sono stato assegnato a te da prima che tua madre ti partorisse e non ti ho mai abbandonato. Avrei dovuto farlo quando hai scelto di percorrere la strada del Male, ma non ho voluto. Tutti ti avevano lasciato o tradito e io non volevo diventare come loro, non me lo sarei mai perdonato. Non mi sono arreso, perché non ho mai dubitato che tu un giorno potessi riavvicinarti alla Luce.” storce la bocca in una smorfia amara e il suo sguardo si fa lontano, “Ho tentato di aiutarti, di trasmetterti la forza necessaria, la speranza, ma ho sottovalutato l’influenza che Samael aveva su di te. Stavo perdendo la battaglia e stavo perdendo te.”
“Quindi che hai fatto?”
“Ho preso una decisione drastica. Una notte d’inverno, a Firenze, ho infranto le regole, soccorrendoti quando ne avevi bisogno. La ragione è semplice: desideravo raggiungerti per poterti parlare e ho persino sacrificato le mie ali per ottenere la tua fiducia. Ho rinunciato alla Luce per te, la stessa che mi ha generato e nutrito, ma confesso che è stata una scelta facile: tu per me sei molto più prezioso.” mi fronteggia e mi scocca un’occhiata severa, “Giunto a questo punto, non mi arrenderò finché non avrò ripulito la tua anima e non ti avrò reso la vita che ti è stata strappata. Ecco qual è il mio scopo.” 
Nel suo sguardo arde una scintilla che non ho mai visto, una determinazione tale da travalicare le leggi che governano questo mondo. Ha rinnegato Dio per me. 
Poi pare di nuovo chiudersi in se stesso, sorride mesto e abbassa il capo, tormentandosi il labbro inferiore con i denti.
“Il compito degli angeli custodi è vegliare sui propri protetti e sussurrare al loro orecchio consigli, ma io ho fallito. Ho permesso che l’odio, il rancore e la rabbia prendessero il sopravvento nel tuo cuore, non sono riuscito a proteggerti dalle tenebre e nemmeno dalla morte. Per quanto gridassi, non riuscivi ad udire la mia voce: eri diventato sordo e il tuo desiderio di vendetta talmente forte da respingere qualunque mio tentativo di intromissione. Non sapevo che fare. Le regole prevedevano che gettassi la spugna, tornassi in Paradiso e accettassi un nuovo incarico, un nuovo protetto, ma ho disobbedito. E Dio me lo ha lasciato fare.” 
Torna a scrutarmi e le sue iridi bianche, lucide come se si stesse trattenendo dal piangere e animate dal fuoco della convinzione, si specchiano nelle mie, abbagliandomi.
“Me lo ha lasciato fare, capisci? Non mi ha mai ostacolato, forse perché tutto questo è il Suo volere. Sono sicuro che non abbia mai smesso di credere in te, Archie, non ha mai cessato di amarti o guardarti. Adesso ti sta dando una chance, perché esiti a coglierla? Cosa ti blocca? Di cosa hai paura?” chiede e mi afferra per le braccia, scuotendomi appena.
“Samael.” borbotto cupo, concentrandomi sui lacci delle mie scarpe.
“Ti proteggerò io da lui.”
“Nessuno può proteggermi da lui, tanto meno tu! È molto più forte di te.” mi libero ancora e arretro per riguadagnare il mio spazio vitale, “Non essere idiota e guarda in faccia in realtà: Samael arriverà qui, scoprirà cosa vuoi farmi fare e ti ucciderà. Dopodiché se la prenderà con me e non posso giurare di non lasciarci le penne.” 
Rabbrividisco di terrore e incasso la testa nelle spalle all’immaginare le più svariate punizioni a cui Samael mi sottoporrà.
“Ci proverò lo stesso, guadagnerò tempo. Fidati di me.”
“Ma per quale dannato motivo devo salvare proprio Laura?! Dimmelo! E non tirare fuori patetiche scuse come il nome uguale a un’anima che ho scagliato all’inferno tredici anni fa o la parentela. Fare ammenda per cosa? Io non mi sento in colpa. Sì, è vero, l’episodio di Marco mi ha scombussolato non poco, ma da qui a tradire la causa per cui ho lottato durante tutti questi anni ce ne corre. E solo ora comprendo che tradire Lucifero comporterà tradire anche Samael, cosa che ho promesso di non fare e nemmeno voglio fare. Tu e Titus non fate altro che confondermi, volete mandarmi in crisi, ma io non ve lo permetterò.” ringhio stringendo i pugni.
Laeriel mi guarda sgomento, la bocca dischiusa per lo stupore.
“Archie, non sto cercando di farti il lavaggio del cervello. Semmai è Samael che non ha fatto altro da quando ti ha preso con sé e ci è riuscito abbastanza bene grazie delle cose orribili che hai dovuto subire per mano di tuo padre, dei tuoi fratelli e di tuo cugino. Ti ha preso per i fondelli e non te ne sei nemmeno accorto. Ma adesso non devi lasciarti traviare, pensa con la tua testa.”
“Lo sto già facendo!” sibilo rabbioso, “Continui a dire che Samael mi sta manipolando, ma sai una cosa? Ormai mi accorgo quando lo fa, non sono così stupido e cieco! Il punto fondamentale, e che sembra non entrarti nel cervello, è che lo amo! È sciocco e da masochisti amare un demone, so pure questo, ma non posso cambiare o rinnegare ciò che provo.”
“Non sto dicendo questo! Io voglio solo aiutarti, renderti felice. Se continui per questa strada, non lo sarai mai e tu lo sai.”
“Taci! Dici che vuoi aiutarmi, ma finora non hai fatto nulla! Anzi, mi hai complicato l’esistenza! Se tutti gli angeli custodi sono come te, allora l’umanità sta messa davvero bene! Io non ho mai udito la tua voce. La mia vita è stata un incubo continuo e non ho neppure un ricordo felice di quando ero umano. Con Samael, invece, ho ricominciato a respirare, mi è parso di riemergere da un’apnea durata quindici dolorosi anni! Vegliavi su di me, eh? Certo, e come? Cos’hai fatto per impedire che soffrissi? Te lo dico io: un bel niente!”
“Non potevo interagire con te sul piano materiale.” mormora disperato, “Credimi, se avessi potuto, lo avrei fatto. Chiediti perché gli esseri umano possono, all’occorrenza, vedere solo i demoni. Perché, Archie? Perché Dio non vuole che gli angeli si mettano in mezzo fra voi e il libero arbitrio! Avete la possibilità di compiere le vostre scelte e scrivere il vostro destino e gli angeli intervengono solo quando voi glielo concedete, quando la vostra anima li chiama e si aggrappa spasmodicamente all’ultimo filo di speranza che vi rimane. Eppure persino in quelle circostanze estreme non è detto che li sentiate. Ma questo solo perché voi non volete davvero ascoltare. Tu non volevi ascoltare, non negarlo. Ti sei arreso subito e hai costruito un muro invalicabile tra te e la Luce. Hai pensato spesso di essere solo, che tutti ti odiassero, che avresti preferito morire. Non potevi immaginare che tutta quella negatività ti avrebbe fatto affondare sempre di più, ma è stata una tua decisione. E io che dovevo fare? Ho insistito a lungo, ma rimbalzavo sempre su questo muro, senza mai riuscire a raggiungerti. Però, quando alla fine arrivò il momento di abbandonarti, non l’ho fatto!”
Sbuffo esasperato, ma mi impongo la calma, poiché c’è un’altra questione da risolvere.
“E Titus cosa c’entra in questa faccenda? Perché mi ha aiutato?”
“Sono stato io a coinvolgerlo.”
“Tu?!”
“È una storia lunga, non abbiamo tempo per discuterne adesso.”
“Invece lo abbiamo eccome!” incrocio le braccia sul petto e mi appoggio sul vetro della stanza in cui riposano Laura e il piccolo Archibald, “Non farò nulla finché non mi dici tutto.”
Laeriel leva gli occhi al cielo e si massaggia l’attaccatura del setto nasale. Lo vedo che è irrequieto, so che ogni minuto che passa potrebbe essere l’ultimo, ma le mie domande devono trovare una risposta ora, sono stufo di rimandare.
“D’accordo, ti farò un breve riassunto.” capitola dopo appena una manciata di secondi. 
Mi trattengo a fatica dal curvare le labbra in un ghigno compiaciuto.
“La notte dello scontro con gli Exurge Domine a Notre-Dame, Dio mi inviò delle visioni del passato e di un probabile futuro. Non so perché proprio quella notte, quindi non chiedermelo. In principio non capii e a stento riuscii a dare loro un senso, ma pian piano diventarono più chiare e via via gli eventi che avevo visto iniziarono ad avverarsi. Come per esempio la crisi della Chiesa, i tuoi viaggi, gli incontri. Sapevo che tu e Samael un giorno sareste capitati a Firenze e sapevo che lì avresti conosciuto Marco. Tuttavia, non avevo idea di quando sarebbe accaduto di preciso. Divenni impaziente e decisi di agire di mia volontà, sperando di non far infuriare l’Onnipotente e di non mutare troppo il corso del destino: ti guidai da Marco, osservai le tue reazioni e realizzai che anche quella visione si stava avverando. Compresi che la chiave era proprio la mia intromissione e, se non ci avessi messo io lo zampino, non avresti mai incontrato quel ragazzo umano.”
“No, un attimo, com’è possibile? L’anima di Marco era fra quelle da riscuotere quella notte, il suo contratto era dentro la valigetta. Anche senza il tuo intervento, sarei dovuto andare da lui.”
Fa un sorriso sghembo e mi scruta di sottecchi con aria birichina: “Ti sbagli. L’anima di Marco doveva essere riscossa il mese successivo. Ho alterato i suoi ricordi in maniera che pensasse che fosse già giunto il momento, di conseguenza l’Etere ha attinto a tale informazione falsa e ti ha consegnato il pegno del contratto. Non sapevi che l’Etere potesse essere ingannato?”
“No…”
Questa è buona. Samael lo sa?
“Si tratta di un piccolo trucchetto che conoscono solo gli angeli custodi, poiché sono gli unici tra gli angeli che vivono a stretto contatto con i mortali.” asserisce con orgoglio, “Inoltre, ti sorprenderesti di cosa è capace di fare l’essere umano.” ghigna, esibendosi in un’espressione saputa che gli cancellerei volentieri dalla faccia a suon di schiaffi.
“Significa che i mortali hanno il potere di evitare la dannazione eterna, nonostante il patto?”
“Se loro sono fermamente convinti di non meritarselo o quantomeno credono che la loro ora non sia ancora giunta, possono influenzare il loro destino, sì. I misteri del cervello. Solo che non sanno di possedere tale potere, o se anche lo intuiscono, lo usano male.”
“Oh.”
“Insomma, il resto ti è noto. Marco doveva essere sacrificato per permettere a te di maturare delle idee. La crisi esistenziale che hai avuto ha piantato in te il seme di una rinnovata speranza per il genere umano, che è andata ad alimentare l’anima che così cocciutamente hai tentato di schiacciare. Le tue emozioni si sono risvegliate, hai sperimentato di nuovo la pietà, la compassione, la tristezza, necessarie affinché tu riscoprissi l’amore per i tuoi simili e la grinta per opporti alle tenebre.”
Sono sempre più allibito. Ma in tutto questo ho mai avuto la facoltà di scelta? Che fine ha fatto il mio libero arbitrio? Sono veramente stato una marionetta nelle mani di potenze superiori per tutto il tempo?
“Eppure non era sufficiente, avevi bisogno di una spinta in più e solo io potevo dartela.” prosegue Laeriel, incurante del mio profondo turbamento, “Così ho preso contatto con le alte sfere degli Exurge Domine, ho discusso con loro, ho raccontato di te, del legame che ci unisce e li ho informati delle mie intenzioni.”
“E ti hanno dato retta?”
“Ero un angelo. Nutrono un enorme rispetto per noi, anche se i custodi occupano l’ultimo posto della gerarchia. Hanno messo al corrente Titus, a cui ho fatto una soffiata, e insieme a Bianca l’ho condotto a Firenze, da te. Volevo che vedesse con i suoi occhi. Solo che si è lasciato prendere un po’ troppo la mano, rischiando di rovinare i miei piani, di conseguenza ho accelerato i tempi e sono intervenuto. Dal momento della mia cattura, già preventivata, ho tagliato i ponti con lui e con i suoi simili, sperando che i Sommi si attenessero alla strategia e mi lasciassero campo libero. Per fortuna così è stato. Ma Titus voleva altre prove, così gli ho fornito un’occasione ad Amsterdam. In realtà, io e quei quattro Exurge Domine stavamo lottando per finta, ma dovevamo essere credibili per non destare in te dei sospetti, poiché c’era il rischio che andassi a spifferarlo a Samael, vista la tua assurda devozione. Certo non mi aspettavo che li facessi fuori tutti! Hai dei poteri spaventosi, lasciatelo dire. Ad ogni buon conto, Titus ha finalmente capito e ha deciso di aiutarmi nella mia missione: ha fatto in modo di costringere Samael a tornare a Londra, dove, se tutto fosse filato liscio, avresti trovato la redenzione. Siamo complici.”
Rimugino sulle sue parole, ma proprio non riesco a scrollarmi di dosso la sensazione che manchi qualche passaggio.
“Mi sfugge ancora qualcosa. Titus ieri notte mi ha detto che ho il potere di cambiare lo status quo della guerra tra Bene e Male, forse persino il mondo. Cosa intendeva? È così importante che io salvi mia nipote?”
“A questo non so proprio come risponderti.” ammette mogio, “Le mie visioni, da qui in poi, sono confuse e nebbiose. Non ho idea di come tu possa cambiare il mondo impedendo a Laura di precipitare all’Inferno. Qualcosa mi dice che potrebbe accadere, ma so per certo che cambierà la tua vita. Evidentemente, Dio non vuole che io sappia tutto.”
“Perché io?”
“Perché sei speciale. Sei unico, te l’avranno ripetuto fino alla nausea. Ma il punto focale è che non sei completamente umano, quindi hai il potere di agire anche sul piano soprannaturale. Se tu fossi stato un comune mortale, dubito che avresti attirato tanta attenzione da parte di Lucifero e l’Onnipotente.”
“Sono un demone con un’anima.” sussurro.
Non mi accorgo di aver espresso il pensiero a voce alta finché Laeriel non si materializza a pochissimi centimetri da me, squadrandomi dal basso con uno strano cipiglio.
“L’anima ti rende umano, ciò vuol dire che non sei un demone. Chi ti ha detto una cosa simile?”
Mi pietrifico all’istante, mentre la seconda parte del sogno riemerge dagli anfratti più remoti della memoria.
“Lucifero.” esalo col cuore in gola.
“È stato Lucifero?!”
“Sì. Ha detto anche di avere grandi progetti per me.”
Laeriel si morde il labbro inferiore e abbassa lo sguardo, assorto in chissà quali riflessioni.
“Mh, ora capisco.” borbotta.
“Cosa?”
“Ti rivelerò un’informazione che Samael ti ha taciuto sin dall’inizio: è stato Lucifero ad ordinargli di recitare la parte dell'emissario, prenderti con sé e istruirti. Samael è uno dei Nove Principi dell'Inferno, Archie, non un demone qualsiasi, bassa manovalanza. Gli emissari appartengono a gerarchie minori, non lo sapevi? Per non fartelo scoprire e non insinuare in te il dubbio, ha fatto sempre in modo che tu non incontrassi mai altri emissari. Non ci hai mai fatto caso? Gli unici demoni che hai conosciuto sono stati Astaroth, la donna che venne a far visita a te e a Samael in hotel molti anni fa, e Andras. Ti ha distratto, in maniera tale da non farti vedere ciò che avevi sotto il naso. E non fu il tuo caro maestro a decidere di risparmiarti quella fatidica notte, né era lì per caso. Ti ha fatto credere che fossi stato tu a evocarlo, ma non è così. Aspettava solo il momento opportuno per intervenire e mettere le mani su di te, per conto del Diavolo. Durante tutti questi anni, ha fatto costantemente rapporto a Lucifero per mostrargli i tuoi progressi e in cambio riceveva nuovi ordini. In tutta onestà, non ho ancora capito come mai il re dei Caduti sia così interessato a te. Cioè, se ci pensi sembri il protagonista di un film, quello che tutti vogliono o cercano di ammazzare. Non lo trovi strano?” 
Non riesco a respirare e il mio cervello fatica ad elaborare tutte le informazioni, per alcune addirittura si rifiuta categoricamente di concepirle. 
Laeriel solleva la testa e immerge le sue iridi bianche nelle mie, guardandomi con una nota di dispiacere. Lo ricambio con espressione attonita e disorientata. Tentenna, rifugge il mio sguardo, ma alla fine si decide.
“È stato Lucifero ad ordinare a Samael di vincere le tue difese e portarti a letto.” snocciola tutto d'un fiato.
Ammutolisco, totalmente scioccato. Spero di aver capito male.
“Sapeva quanto il sesso per te rappresentasse un ostacolo, qualcosa da temere e respingere, per cui provare ribrezzo. Perciò deve aver pensato che se Samael fosse riuscito ad ottenere la tua fiducia, tanto da guadagnarsi il permesso di possederti carnalmente, tu ti saresti legato a lui a doppio filo, di tua spontanea volontà. Va da sé che Lucifero, di riflesso, avrebbe ottenuto la garanzia di usarti per i suoi scopi e manipolarti attraverso Samael. Se l’idea di essere una pedina ti turba, forse ti consolerà sapere che pure il tuo demone lo è. Come tu ti fidi ciecamente di Samael, lui si fida ciecamente del suo signore e sovrano, non metterebbe mai in dubbio le sue decisioni.”
“Che stai dicendo…?”
Arretro lentamente, sopraffatto dalle rivelazioni di Laeriel. Mi sento poco stabile sulle gambe e quasi mi sembra di vedere tutte le mie certezze crollare davanti ai miei occhi come un castello di carte.
“Come fai a saperlo?” gracchio con voce roca.
“Ti ho detto che le mie visioni concernevano anche il passato, ma non ho specificato che riguardassero soltanto te. Mi è stata fornita una prospettiva generale, insieme a molti dettagli che ti sono stati taciuti. Vedi, Dio ha sempre saputo tutto. Posso affermare con sicurezza che aveva già previsto le mosse di Lucifero e che gli eventi che si sono susseguiti fanno parte del Suo disegno. Egli è sempre stato numerose mosse avanti rispetto a Lucifero, ma non credo che quest’ultimo l’abbia realizzato.”
“Quindi sono stato ingannato?”
“Sì. Sei stato guidato lungo una strada che qualcun altro aveva già spianato per te, rimuovendo i maggiori ostacoli per fartela apparire semplice. D’altronde lo capisco, Lucifero non poteva utilizzare le stesse tattiche di persuasione con te, dato che eri umano. Ha fatto leva sulla tua fragilità emotiva, ha isolato e rafforzato i sentimenti negativi e li ha indirizzati dove voleva lui agendo tramite Samael, che è uno dei suoi più devoti servitori. Non posso biasimarti per esserci cascato, sei nato con una mente ristretta e non sei in grado di comprendere come ragionano gli angeli o i demoni. Non puoi farci nulla.”
“Come faccio a sapere che non sei tu a raccontarmi balle? Se fossi ancora un angelo, sarei più propenso a crederti, ma ora sei un demone, un ingannatore. Sei come Samael. E io non posso sul serio credere che lui… non posso…”
Scivolo con la schiena contro il vetro e mi accascio sul pavimento privo di forze, schiacciato dal peso delle menzogne che mi sono state riversate addosso dall’unico di cui mi fidavo. Perché Samael mi ha fatto questo? Ero convinto che in qualche modo tenesse a me, che fossi importante per lui, ma mi sbagliavo. Anzi, magari sono importante, ma non nel senso che speravo. Mi prendo la testa fra le mani e ingoio con difficoltà il groppo di cemento che mi ostruisce la gola. Non riesco a respirare.
Laeriel si accovaccia accanto a me e mi posa una mano sulla spalla, nel tentativo di confortarmi.
“Io non ti mentirei mai, Archie, e dentro di te lo sai. Forza, non hai tempo per crogiolarti nella disperazione. Laura è a pochi metri, la sua ora è vicina e se non la salvi perderai non solo una parente, ma anche l’occasione per redimerti. Perderai te stesso. A quel punto non potrò fare più niente per aiutarti. E poi tra non molto supererò la fase d'incertezza che attraversano tutti i Caduti e le tenebre mi divoreranno. Ho resistito a lungo alla tentazione di pentirmi e tornare nella Luce, l'ho fatto per restarti vicino, ma in questo modo ho dato potere al Male che dimora dentro di me. Quando il mio tempo scadrà, diventerò anch'io un servo di Lucifero e sarò costretto ad eseguire i suoi ordini. Non sarò più in grado di provare amore per te, né riuscirò a trasmetterti calore o speranza. Diventerò un demone a tutti gli effetti, Archie, e allora per te sarà finita.”
Rabbrividisco involontariamente, poi alzo il capo e punto l’attenzione sul muro di fronte a me. Vorrei piangere, ma mi parrebbe quasi di darla vinta a chi non ha fatto altro che riempirmi il cervello di bugie. Digrigno i denti, affondo le unghie nei palmi e raccolgo il coraggio che avverto ardere nel mio cuore infranto, il coraggio che finora mi è mancato. Il coraggio di fare la cosa giusta, non per me stesso, ma per qualcun altro. Devo smetterla di comportarmi da egoista, cosa ho ottenuto finora?
Mi rimetto in piedi da solo, scacciando con un gesto brusco la mano che Laeriel protende per aiutarmi. Questa è la mia battaglia. 
Non mi sono ancora arreso del tutto, continuo a sperare che Samael venga qui a smentire le accuse che Laeriel gli ha scaricato addosso, ma non posso più indugiare.
Mi giro ad osservare Laura, accarezzo i contorni del suo corpo con gli occhi e contraggo la mascella. Un secondo più tardi, busso alla porta della stanza.










 

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** La tentazione della Luce ***








 

Non aspetto che qualcuno dall’interno mi dia il permesso di entrare. Spalanco la porta e varco la soglia con il cuore stranamente leggero. Il mio respiro è regolare, mi sento pervaso da una calma e una pace interiore che non ho mai provato. Non so se è questo ciò che si prova quando si raggiunge uno stato dell’essere in totale armonia con il cosmo e si è pronti ad accettare qualsiasi cosa il fato abbia in serbo. In ogni caso, la sensazione che si irradia nel mio corpo a partire dal centro del petto è tiepida, lieve e soffice, e ad un tratto il mio passato, presente e persino il mio futuro non hanno più importanza. Non vedo più Laura e Archibald, non avverto più la presenza di Laeriel dietro di me; la paura evapora, le voci nella mia testa che bisbigliano senza sosta infinite domande si zittiscono di colpo e i pensieri negativi mi abbandonano. Tutto scompare. E io inspiro a pieni polmoni per la prima, vera volta dopo anni.
Poi la realtà riassume altrettanto repentinamente dei contorni netti e torna a piombarmi addosso, ma stavolta mi scivola sulla pelle e sull’anima senza attaccarsi come un parassita velenoso. Mi accarezza piano e solo alcune cose indugiano nella mia coscienza, il tempo necessario per essere analizzate e assimilate.
Chiudo le palpebre e credo di accennare un sorriso. Mi sento così bene adesso. Vada come vada, ora so cos’è che voglio veramente e forse so anche come ottenerlo. Intanto mi occuperò di Laura, in qualche modo. Ho promesso che avrei tentato di aiutarla e non mi rimangerò la parola.
Avanzo lento ma deciso nella stanza e Laura solleva il capo dal letto, stropicciandosi gli occhi gonfi dal sonno. La osservo con discrezione e un altro piccolo sorriso, insieme a un genuino stupore, mi fa curvare le labbra: ha i capelli castani, lunghi e mossi, e gli occhi di un azzurro che mi è familiare, lo stesso colore che avevano i miei prima che Samael mi accogliesse come novizio. Anche i lineamenti del viso sono qualcosa di incredibile, non tanto per chissà quale perfezione o difetto, quanto perché sono uguali ai miei. Per un infinitesimale momento mi pare di stare guardandomi allo specchio. Ho di fronte una versione femminile di me stesso, almeno fisicamente. Da un lato è sconcertante, dall’altro sembra quasi destino.
Lei sgrana gli occhi, mi studia con palese confusione, si alza in piedi e schiude la bocca sbalordita mentre si sofferma studiare la mia faccia come io ho fatto con la sua.
“Chi è lei?”
La sua voce è quella di una tipica ragazzina, niente di particolare, ma mi piace. E mi piace anche il suo accento, leggermente più arrotondato del mio.
“Sono Archie.” 
Aggrotta le sopracciglia e si esibisce in un’espressione corrucciata. Arretra di un passo, diffidente. Se fossi al suo posto, anch’io nutrirei dei sospetti su un estraneo praticamente identico a me che si presenta col nome di mio fratello.
“Cosa vuole? Non è un medico…”
“No, ma non perdiamoci in chiacchiere inutili, Laura. Dentro di te sai chi sono.”
Scuote la testa, protende una mano alla sua sinistra e stringe quella del piccolo Archibald, forse in cerca di coraggio.
“Hai firmato un patto col Diavolo cinque anni fa e il tempo è quasi arrivato al termine: domani verranno a riscuotere la tua anima e tu precipiterai all’Inferno.” continuo.
“Oddio…” esala scioccata a voce abbastanza alta, come se l’avesse trattenuto troppo a lungo e ora desiderasse solo urlarlo.
Si porta la mano libera davanti alla bocca per soffocare i singulti. Le lacrime le si incastrano nelle ciglia, per poi rotolare giù sulle sue guance pallide, sul mento e nascondersi tra le dita. È sconvolta, terrorizzata, ma noto che si sforza di mantenere stoicamente il contegno e la lucidità. L’emozione che provo è indescrivibile, ma credo si tratti di orgoglio. Sono fiero di lei. Non avrei mai immaginato di poter essere fiero di qualcuno in vita mia.
Sorrido apertamente e per fortuna la vedo rilassarsi un poco, nonostante rimanga sulla difensiva.
“Non preoccuparti, sono qui per evitarlo.”
Libera la bocca dalla barriera della mano e mi scruta perplessa: “Che significa? E tu cosa sei?”
“Voglio aiutarti.” rispondo, ignorando deliberatamente la seconda domanda, “Tuttavia, sappi che anche per la redenzione c’è un prezzo da pagare.”
“Quale? E come faccio a sapere che non stai mentendo?” scatta di nuovo.
Al che rilascio un sospiro abbattuto. La invito a sedersi con un gesto della mano, ma lei non lo fa.
“Laura, non devi aver paura di me.”
“Perché no? Se sei qui e sai del patto, vuol dire che… oppure…” sbarra gli occhi ed emette un verso stupito, “Sei… sei un angelo?”
Il suo viso si accende di speranza e per un attimo la tristezza mi assale, ma la scaccio subito.
“No. La tua prima intuizione era corretta. Beh, diciamo che lo è per metà.”
“In che senso?”
“Nel senso che per metà sono umano.”
Assottiglia le palpebre e si chiude nel silenzio. Riflette, so che sta cercando di mettere insieme i tasselli. Infine spalanca ancora gli occhi e stavolta scorgo una scintilla di consapevolezza.
“Io ti ho già visto.” mormora.
“Dove?” domando curioso.
“Mio padre. Lui aveva… un disegno a matita, tipo quelli che fanno per gli identikit. Lo guardava spesso quando ero bambina. Un giorno gli chiesi chi fosse il ragazzo lì ritratto e mi parlò di suo fratello minore. Non scese nei dettagli, ma mi raccontò che era scomparso.” fa una pausa e mi squadra intensamente, “Tu ti chiami Archie, come quel ragazzo. Hai dei tratti molto simili ai miei. Eppure l’età non corrisponde… sembri giovane, sulla ventina, ma se non sbaglio dovresti avere ormai più di trent’anni. E poi… intendi dire che sei un… un demone solo per metà? Come?”
“Non c’è tempo per questo.”
“Ma ho indovinato? Sei tu, vero? Sei Archie, il fratello di mio padre. Mio zio.”
Annuisco e storco la bocca in una smorfia amara.
“Laura, adesso dobbiamo concentrarci su di te. Sono qui per-”
“Hai detto che vuoi aiutarmi.” mi interrompe e si avvicina.
Ha riacquisito sicurezza, non ha più paura e ciò mi fa piacere.
“Mi offrirai una via d’uscita? Esiste? Devo firmare un altro patto con te? Cosa devo fare? Mio fratello, lui è… è malato, il suo cuore non funziona bene, così gli ho comprato del tempo per trovare un donatore e finalmente domani subirà l’operazione e così-”
“Laura, ascoltami.” la fermo.
Lei ammutolisce e arresta il passo. 
“Non ti offrirò una via d’uscita, perché in verità ce l’hai sempre avuta. E non posso parlartene, purtroppo, non ci riesco, la mia metà demoniaca me lo impedisce e quella umana non è abbastanza forte per contrastarla. Devi arrivarci da sola, ma non è difficile.”
Inspira profondamente, stringe i pugni e mi scocca un’occhiata determinata: “D’accordo, spiegami.”
È forte per essere così giovane. Ignoro cosa abbia passato, come sia stata la sua vita, che rapporto avesse con suo padre e cosa abbia provato nel perderlo, ma è chiaro che possiede una tempra d’acciaio. Forse può farcela. 
Mi mordo il labbro inferiore, alla ricerca di un modo per aggirare l’incantesimo.
“Hai stipulato un patto col Diavolo, giusto? Ma se esiste il Diavolo, allora esiste anche Dio, no?”
“Non ti seguo.”
“Sforzati! Non ho molto tempo.” 
Tentare di aiutarla, come sto facendo, è l’unica cosa buona che ho mai cercato di fare. Sono sempre stato un egoista, concentrato solo ed esclusivamente su me stesso, senza curarmi degli altri. Pensavo soltanto ai miei problemi, alle mie ansie, alla mia vita e non mi sono mai domandato cosa ne era stato di quella degli altri… di quella di Adam, l’unico che in passato era dalla mia parte. L’ho incolpato di molte cose e non gli ho mai dato l’occasione di scusarsi o spiegarsi. Non ho mai fatto nulla per il prossimo. Non ho mai fatto nulla di buono per nessuno. Adesso posso riscattarmi attraverso di lei. 
“Laura, devi collaborare, perché io non posso superare un certo limite e il resto devi farlo per conto tuo. Coraggio, ascoltami attentamente.”
Annuisce seria, anche se il tremore del suo corpo minuto tradisce un certo nervosismo. Interpreto il suo gesto come un invito a continuare.
“Dicevo, Dio e il Diavolo. Se il Diavolo ti mette alle strette…” 
Serro i denti di scatto, essi stridono gli uni sugli altri e la gola viene ostruita da qualcosa di solido, come un pezzo di cibo andato di traverso. Mi faccio violenza, ma non sono più in grado di proferire parola. 
A questo punto, Laura viene in mio soccorso.
“Se il Diavolo mi mette alle strette, devo… devo combatterlo?” azzarda.
Nego con veemenza.
“Devo scappare?”
“No.”
“Devo… cosa?”
Grugnisco e decido di prenderla alla larga: “Sei religiosa?”
“Sì.”
“Sei cattolica?”
“Sono cristiana battezzata.”
“In cosa credi?”
“In Dio.”
“Ecco.”
“Devo credere in Dio per scampare all’Inferno? Devo sperare che allunghi la Sua mano per aiutarmi?”
“Non esattamente.”
Sospira frustrata: “Non capisco.”
“Cosa fanno i credenti?”
“Mh? Ehm, non so, vanno in chiesa… leggono la Bibbia… pre-” si illumina, “Pregano! Devo pregare Dio?”
“Non solo. Devi… devi… maledizione! Ok, aspetta.” raccolgo le idee mentre mi massaggio le tempie doloranti, “Tu hai detto che devi pregare Dio ed è… ugh!” scandisco a fatica, “Quando lo fai, però, non devi solo chiedere… argh!”
Ho voglia di riempire di pugni il muro. Ho un sapore disgustoso sul palato e la nausea e il mal di testa aumentano di secondo in secondo.
“Ok, prego Dio, chiedo aiuto e…?”
“Non aiuto. Perché hai stretto il patto, Laura?”
“Per salvare mio fratello.”
“E le conseguenze quali sono state?”
“Archie ha ottenuto tempo e… cos’altro?”
“Tu hai venduto l’anima e rinnegato Dio. Per sfuggire al tuo destino, devi disfare ciò che hai fatto.”
La sua espressione mi suggerisce che ha compreso. Alleluia!
“Cioè devo spezzare il patto in anticipo? Beh, posso farlo, tanto l’operazione di Archie è fissata per domani-”
“No!” sbotto esasperato, poi mi impongo di darmi una calmata, così non arrivo da nessuna parte, “D’accordo, ehm… ecco, cosa dice la Bibbia a proposito della misericordia di Dio?”
“Ah, eh… che Dio perdona tutti? Anche i peccatori.”
“Sì, ma solo se…?” la esorto a continuare il ragionamento.
“Solo se… c’è il prete che li confessa.”
Affloscio le spalle, alzo gli occhi al cielo ed emetto un lamento.
“Scusami, è che io non capisco! Non ci arrivo!” 
Sapevo che non sarebbe stato semplice. Se tutti i peccatori, o almeno coloro che hanno firmato un patto, concepissero l’idea di domandare perdono al Signore e pentirsi dei propri crimini, nessuno andrebbe all’Inferno. Ora che mi torna in mente, Duvonne riuscì ad annullare la condanna pentendosi tutte le volte che commetteva un crimine, e se ci riusciva lui che era un depravato della peggior specie, perché non dovrebbe riuscirci anche Laura? Ah, giusto, perché Laura non vuole accettare di aver fatto qualcosa per cui pentirsi. Il contratto stesso, forte della convinzione della ragazza, le impedisce di arrivarci, come un incantesimo che ha imposto un sigillo proprio su quel determinato pensiero. Mi sono illuso di poterla guidare, ma il potere del Male è molto più coriaceo di quanto avessi preventivato, esercita un controllo pressoché inviolabile. 
A questo punto c’è soltanto una cosa che posso fare, anche se la prospettiva mi mette i brividi: prenderò il suo contratto su di me e la libererò da questo fardello. Credo sia possibile visto che sono umano per metà, e a quanto pare possiedo ancora un’anima da vendere. Però sono davvero disposto a farlo? Per ottenere ciò che desidero non posso ancora permettermi di venire dannato per l’eternità. Quindi il dilemma è il seguente: sacrificare Laura o sacrificare le mie ambizioni e rinunciare per sempre ad una ipotetica felicità?
Non voglio commettere altri errori, non tollererò oltre la mia debolezza, non accetterò di sottostare ad una volontà superiore, benigna o malvagia che sia. Ne ho abbastanza di essere manovrato da altri, d’ora in avanti intendo fare quel che reputo giusto. Non per me stesso, ma per qualcun altro, come ha detto Laeriel. 
Osservo mia nipote, che mi guarda a sua volta, perplessa e impaziente. Poi fisso il piccolo Archibald, steso su quel letto di ospedale, imbottito di morfina e ignaro di cosa stia accadendo a una manciata di metri da lui. Se esiste una sola cosa buona che ha fatto Adam, è stato metterli al mondo. Grazie a loro ho ritrovato la grinta e ho scoperto per cosa lottare. Mio fratello, seppur in ritardo e per vie traverse, mi sta salvando di nuovo.
A questo mondo la giustizia divina è costantemente minacciata dalle tenebre, con le quali sfortunatamente ho avuto un contatto ravvicinato sin dalla tenera età. Questo non mi ha dato modo di vedere anche le cose buone, sono stato divorato senza che me ne accorgessi e prima di realizzarlo ero già a militare nelle schiere di Lucifero. Sono stato uno sciocco e un cieco. Per anni mi sono fossilizzato sui peccatori, la feccia dell’umanità, mi sono concentrato solamente sul “lato oscuro”, rifiutandomi di vedere le piccole luci che non hanno mai smesso di danzarmi intorno. Ho camminato con i paraocchi, distogliendo lo sguardo come un bravo cavallino addestrato, ma se solo mi fossi fermato a sbirciare avrei scorto qualcosa di bello, qualcosa che mi avrebbe fatto pensare “oh, ecco perché Dio ama gli uomini”. Ok, alla fine non sono stati anni terribili, anzi. Grazie a Samael li ho affrontati con coraggio e successo e, sempre grazie a lui, ho maturato la verità dentro di me. Senza il mio maestro, forse non ci sarei mai arrivato. Inoltre, ho scoperto l’amore, anche se mi ci è voluto parecchio per riconoscerlo. Sì, dai, ne è valsa la pena, tutto sommato. Ho mangiato pure delle torte squisite! 
“Laura.” la chiamo sorridendo dolcemente, “Non preoccuparti, andrà tutto bene. Troverò il modo di salvarti, farò il possibile, te lo prometto. Abbi fede.”
Mi scruta con aria interrogativa, ma non le concedo di parlare. Mi porto l’indice sulle labbra, intimandole di fare silenzio, poi la vedo socchiudere gli occhi assonnata, la sento borbottare parole indefinite e aspetto che si risieda al capezzale del fratellino, tornando a dormire. La guardo ancora un po’, solo un po’, dopodiché mi volto ed esco dalla stanza. Sfioro la vetrata con le dita e mormoro un flebile “addio”. Infine mi giro e comincio a percorrere il corridoio d’ospedale a ritroso. 
Innanzitutto, devo scovare un posticino appartato dove procedere con lo scambio del contratto, anche se ancora non ho bene idea di come fare. Non mi rendo conto che Laeriel non c’è, troppo preso dalle mie elucubrazioni e fantasiose strategie per agire nel minor tempo possibile, prima che sorgano degli ostacoli.
Svolto a destra e, assorto come sono, vado a sbattere contro qualcuno. Arretro di un paio di passi, confuso, ma impallidisco subito appena vedo Samael, che torreggia su di me in tutta la sua tenebrosa gloria. Deglutisco atterrito, poi un lamento alle sue spalle attira la mia attenzione. Mi sporgo e il fiato mi si mozza in gola: Laeriel è spiaccicato di schiena sul muro, con i polsi e le caviglie immobilizzati da quattro tentacoli di pura oscurità che fuoriescono dal cemento.
“Archie, mi dispiace…” rantola debolmente, ma non ha l’opportunità di aggiungere altro, perché altri tre tentacoli gli trafiggono il torace.
Dai fori inizia a sgorgare del liquido nero e dalla bocca di Laeriel escono delle grida roche e cariche di sofferenza.
“Alastor, esigo delle spiegazioni.” mi richiama all’ordine Samael, facendo guizzare le iridi rosso fuoco, “Prima gli Spennati che rompono la barriera e invadono la villa, poi tu che scompari, poi ancora quel Titus che fa fuori Andras con le ultime forze e tira le cuoia un attimo dopo, e ora tu qui in compagnia di questo inutile scarto.” fa un cenno in direzione di Laeriel, “Che. Cosa. Sta. Succedendo.”
Il sorriso appena accennato stampato sulle sue labbra non mi fa presagire niente di buono.
“Archie, non-” prova a dire Laeriel.
In un attimo, Samael gli scaglia contro una palla di fuoco, senza degnarsi di distogliere lo sguardo dal mio. Laeriel incassa il colpo in pieno stomaco e sputa fiotti di sangue nero sul pavimento bianco. Il muro è pieno di crepe, spero che non crolli.
“Quante volte ti ho detto che non devi avvicinarti a lui, stupido pollo! Avrei fatto meglio ad ucciderti.” ringhia minaccioso.
“Sam, è colpa mia!” lo fermo sconvolto, aggrappandomi al suo braccio.
Si volta con lentezza, troppa lentezza. Quando torna a fronteggiarmi, non riesco a sostenere il suo sguardo penetrante e saturo di volontà omicida. Tremo spaventato, tutto il coraggio e il benessere di poco fa totalmente svaniti. All’improvviso mi accorgo che Samael è capace di divorare con la sua mera presenza ogni briciola di qualunque sentimento positivo tenti di germogliare in me, come un buco nero che risucchia la luce e la annulla. La sua aura è schiacciante, preme direttamente sull’anima e la soffoca. Finora non l’avevo mai realizzato: è anche a causa sua che i miei pensieri sono sempre stati un turbine di negatività.
“Cos’hai fatto, Alastor?” domanda pacato, ma la sua voce mi spedisce brividi freddi lungo la schiena. 
“N-nulla…” gracchio agitato.
In effetti non ho ancora attuato il mio piano per salvare Laura, Samael mi ha anticipato.
Riduce gli occhi a fessure e mi scruta attentamente. Solleva una mano e posa il pollice sulla mia guancia sinistra, ritraendolo un pochino umido. Lo esamina con aria critica, si porta il dito alle labbra e lo lecca, per poi sussultare basito. Mi guarda spiazzato, come se faticasse a riconoscermi e, non so perché, mi ritrovo a indietreggiare. E infatti un secondo più tardi avvolge la medesima mano intorno alla mia gola e mi sbatte con forza contro la parete alla sua destra. Lo schianto rimbomba per il corridoio, ma io non lo sento, perché le orecchie cominciano a fischiarmi. L’intonaco si riempie di crepe, che corrono in alto, fino al soffitto.
“E io che mi scervellavo per capire il motivo per cui ultimamente tu emanassi di nuovo un odore così delizioso…” sibila a pochi centimetri dal mio viso, “Adesso mi dici tutto, compresi i dettagli.”
Stringe le dita e la vista mi si sdoppia. I polmoni bruciano per la carenza di ossigeno, il cuore batte all’impazzata e dalle mie labbra fuoriescono rantoli senza senso. Agguanto la manica della sua giacca e la strattono per fargli allentare la presa, ma sono troppo debole e le energie si esauriscono in fretta. Dagli occhi sgorgano altre lacrime, ma adesso non mi curo di celarle. Voglio che le veda.
“S… Sam…”
All’improvviso mi lascia andare. Crollo a terra stordito e mi piego in due a causa di un repentino attacco di tosse.
“Samael…”
“Invochi il mio nome.” sussurra assorto, si accovaccia accanto a me e mi abbraccia con gentilezza, coccolandomi come faceva spesso quando ero ancora umano, “Sono qui, Alastor, sono qui. Dimmi, ti ascolto.”
“Ti amo…” singhiozzo nell’incavo del suo collo.
Mi solleva il mento per costringermi ad incontrare le sue iridi infuocate.
“Sì, lo sento che mi ami. La devozione che traspare dal tuo sguardo… sono debole di fronte ai tuoi occhi, quando bruciano d’amore per me.”
“Sam, ho promesso che non ti tradirò e mai lo farò. Io sono tuo e tu sei mio. Però c’è una cosa che voglio fare. È una mia scelta.”
Scandaglio il corridoio e focalizzo l’attenzione su Laeriel, che adesso giace al suolo dolorante, ma cosciente. Devo distrarre Samael. Se scopre che cosa sono venuto a fare qui, proverà in tutti i modi ad ostacolarmi e impedirmi di raggiungere il mio obiettivo, cioè liberare Laura dal contratto.
“Io ho cominciato…” balbetto esitante.
“Bravo, confessami i tuoi crucci.” mi incoraggia partecipe.
“Ho cominciato a provare pietà per gli umani.” estraggo il portachiavi di Marco dalla tasca del cappotto e glielo mostro, “Questo apparteneva ad un ragazzo a cui ho riscosso l’anima mesi fa, a Firenze. Ricordi? Te ne parlai. Aveva venduto l’anima per salvare un amico quando era solo un bambino. Io… la tristezza che mi ha assalito…”
“Pietà.” scandisce funereo.
Ammutolisco e attendo nervoso il resto del suo discorso.
“La pietà. Come ho fatto a non pensarci prima?”
Raccoglie il portachiavi dal mio palmo, lo studia con aria meditabonda e infine lo stringe tra le dita e lo stritola, disintegrandolo. Mi pietrifico.
“È questo che mi nascondevi? O c’è altro?”
D’un tratto si blocca, annusa l’aria, dilata le pupille e punta lo sguardo in direzione della stanza in cui ci sono Laura e Archibald. Dalla sua espressione pare quasi che li stia fissando con la vista a raggi X. Contrae la mascella in un moto d’ira, che tuttavia reprime. Quando si rivolge a me è più tranquillo, ho quasi l’impressione di scorgere una scintilla di comprensione nei suoi occhi.
“Adesso mi è tutto chiaro. Avevi paura che potessi infuriarmi con te, mh? Per questo sei stato zitto.” mi abbraccia una seconda volta, mi fa sedere sul suo grembo e mi culla dolcemente, sommergendomi di teneri baci, “Non potrei mai arrabbiarmi sul serio con te, Alastor. E, da un lato, non sono così sorpreso di averti beccato in questa situazione. Rammenti quando ti ho raccontato della ‘tentazione della Luce’? Ti spiegai che se questo momento fosse arrivato, te ne saresti accorto. È l’ultimo banco di prova, il traguardo finale. Ti ho già detto cosa devi fare: non devi cedere. Lotta contro la Luce, respingila, voltale le spalle. È dura, lo so, ma puoi farcela, sei forte. Io ho piena fiducia nelle tue capacità.” mi esorta con un sorriso.
Il bacio che mi regala subito dopo è profondo e passionale, ma non riesco ad abbandonarmi del tutto. Quando si stacca, mi sfiora le labbra con il pollice.
“Ahh, sei squisito.” bisbiglia.
Lo scosto e mi impongo di restare calmo.
“Sam, io…”
“Non preoccuparti, ci sono io qui con te. La Luce non ti avrà.” afferma con un sorriso tutt’altro che rassicurante. 
“Lascialo.”
Il mormorio roco di Laeriel ci interrompe. Entrambi ci giriamo a guardarlo, io con crescente angoscia, Samael con fastidio. Ci alziamo in piedi, poi il maestro mi ordina di non muovermi e con poche falcate raggiunge Laeriel. Lo solleva per i capelli, incurante del gridolino di dolore che rotola fuori dalla sua bocca sporca di sangue. Lo squadra con un ghigno cattivo, dopodiché fa cozzare il suo cranio contro il muro già crepato.
“Forse ora la finirai di mettermi i bastoni fra le ruote.” sibila, mentre continua a picchiarlo con una metodicità e indifferenza che mi lascia esterrefatto.
“Archie…” balbetta Laeriel, imperterrito, “Non arrenderti. Non scappare.” 
“Stai zitto! Se non fosse per Lucifero, che ti vuole vivo, ti avrei già distrutto quella notte a Firenze!”
Non posso restare a guardare, ne ho abbastanza di violenza, inganni e trucchetti.
“Ha ragione Samael.” dico di punto in bianco.
Samael arresta il pugno a mezz’aria e Laeriel mi osserva scioccato.
“Maestro, so cosa fare per ribellarmi al potere della Luce. Dio mi sta offrendo l’occasione di redimermi attraverso Laura, mia nipote. Vuole che io le indichi la via per la salvezza e le risparmi un’eternità all’Inferno. Ma invece che non fare niente, ho in mente qualcosa.” illustro in tono neutro, sperando di non tradirmi.
“E cioè?” domanda Samael, senza mollare la presa sui capelli di Laeriel, che nemmeno si divincola, sconvolto com’è.
“La spedirò io stesso oltre il portale.”
Samael amplia le labbra in un sorriso entusiasta: “Mi pare un’ottima idea.”
“Mi serve la valigetta, l’ho dimenticata a casa.”
Egli schiocca le dita della mano libera e la mia valigetta si materializza all’istante. Me la lancia e io l’afferro prontamente. Stringo il manico con forza, poi la apro e ci infilo una mano, tastando all’interno. Mi concentro, artiglio il vuoto, ma non smetto di provare. Dopo un minuto ritraggo la mano sconfitto, ma è allora che un’altra idea mi attraversa il cervello.
“Devo parlare con Laura. Sarò veloce.”
“Posso vedere?”
Non so perché, ma la sua non suona proprio come una domanda.
“Certo.”
Finalmente abbandona Laeriel sul pavimento, che non tenta nemmeno di sollevare la testa o muovere un dito, e insieme ci dirigiamo verso la stanza di Archibald Balckwood. Stavolta non busso, entro rapido e vado a svegliare mia nipote, mentre Samael assiste alla scena dalla soglia. Lei apre piano le palpebre e mi fissa intontita. Quando mi riconosce, sgrana gli occhi e fa per alzarsi, ma la fermo trattenendola per una spalla.
“Laura, mi sono sbagliato. Il tuo tempo scade oggi, anzi praticamente adesso.”
Il sangue le defluisce dal volto, boccheggia e inizia a tremare.
“Che significa? Oddio…” squittisce disperata.
La ignoro. Riapro la valigetta, frugo di nuovo e con un sorriso vittorioso estraggo una collanina con un ciondolo di metallo a forma di goccia. Lo tocco e scopro che gliel’ha regalata il piccolo Archie per il suo sedicesimo compleanno, con la prima paghetta ricevuta dai genitori.
“Quella è…” balbetta spaesata.
Prima che lei o Samael possano realizzare cosa sto per fare, me la infilo al collo. In questo preciso istante, il portale si spalanca con un boato innanzi a me. Una zaffata di zolfo e una vampata di calore ustionante mi investono con la potenza di un treno lanciato a piena velocità, tanto da lasciarmi frastornato. Lingue di fuoco scaturiscono da esso, insieme alle urla dei dannati e a una decina di braccia carbonizzate, che si protendono nella mia direzione.
“Prendo il contratto di Laura Blackwood su di me, il suo peccato ora è il mio, pertanto reclamo la sua pena.” dichiaro sicuro.
All’improvviso vengo sommerso da un’ondata di puro terrore e rassegnazione. È finita. Il mio viaggio si conclude qui e non ho ottenuto ciò che desideravo. Resisto alla tentazione di voltarmi verso Samael, non saprei neanche cosa dirgli. Vorrei piangere, implorare pietà, ma ormai il dado è tratto.
Samael si sposta con un movimento fluido, fulmineo, e si pone di fronte a me come scudo. Incatena i suoi occhi nei miei e, come previsto, vi noto soltanto una furia cieca. Mi ruggisce contro come una belva, inviperito e furente, e l’onda d’urto emanata dalla sua voce mi colpisce in pieno. Le suole delle mie scarpe perdono aderenza col pavimento e vengo scaraventato all’indietro da una forza invisibile, sfondo il muro della stanza e mi schianto su quello del corridoio adiacente. La schiena e la nuca cozzano con inaudita violenza contro il cemento, tanto che il grido di dolore che mi è risalito su per la gola arresta il suo percorso sulla lingua, ghiacciato per lo shock.
Appena recupero il controllo sui cinque sensi, lancio un’occhiata stanca oltre il buco nel muro. Laura giace a terra svenuta, mentre Samael pare una statua di marmo, perfetto e terribile insieme. Il portale è ancora aperto alle sue spalle, smanioso di ricevere in dono un’anima dannata.
Il ciondolo è pesante, mi piega il collo in avanti e quasi mi sembra che voglia costringermi a inginocchiarmi. Non cedo, mi stacco dalla parete e barcollo per mantenere l’equilibrio. La valigetta è volata via chissà dove, ma non mi interessa.
“Avevi giurato di non tradirmi.”
Odo il ringhio di Samael direttamente nella mia testa.
“Non l’ho fatto.” rantolo allo stremo e non so per quale miracolo non mi accascio inerte sul pavimento.
“Sì, invece.”
Scuoto debolmente la testa: “Il mio amore per te è immutato, soltanto le mie priorità sono cambiate.”
“Perché?”
“Perché sei stato tu a tradirmi per primo.”
Ammutolisce e una parte della sua aura demoniaca si disperde.
“Laeriel mi ha rivelato la verità. Non sono che un giocattolo per te e Lucifero, sin dal principio mi hai imbottito di menzogne. Mi domando se tu sia mai stato sincero, almeno una volta.”
“Cosa ti ha detto?”
“Tutto, Samael. Tutto. E mentre parlava sentivo che era vero. Proprio come te, anch’io so riconoscere la menzogna, ma in Laeriel non l’ho scorta. Per questo gli credo. Per quanto riguarda te, non ho mai voluto notare quel che avevo sotto il naso, troppo accecato dai sentimenti.” lo guardo con immensa tristezza, “Tante belle parole, in realtà solo una marea di bugie. Hai insistito fino alla nausea per farmi promettere di non tradirti e, siccome io non sono come te, manterrò la promessa, ma non mi farò più usare da te o da Lucifero, compirò le mie scelte in totale autonomia. Se resterò al tuo fianco, sarà perché lo voglio io, non perché qualcun altro me lo impone o mi abbindola per far sì che lo desideri. I miei sentimenti per te sono puri. Non pretendo niente da te, so che non sei in grado di ricambiarmi, e va bene. L’ho accettato tanto tempo fa.”
Si ridesta dall’immobilità innaturale di cui si era ammantato e cammina verso di me. Intravedo rabbia, rancore, smarrimento e una lieve nota di dispiacere nel suo sguardo. Si sente in colpa?  Arresta il passo a circa due metri di distanza e mi scruta serio.
“Ho solo eseguito gli ordini di Sua Eccellenza, come ogni demone è chiamato a fare.”
“Lo so, non ti biasimo.”
Esita, sembra turbato.
“Ma mentirei se dicessi che mi sei indifferente.”
Mi esibisco in una smorfia amara: “È un modo per dire che ci tieni sul serio a me, almeno un pochino?”
“Sì. Non voglio che tu finisca all’Inferno come la feccia di cui ci occupiamo, non è quello il posto che ti spetta.”
“E dov’è, allora?”
“Con me. Per sempre.”
Mi si accosta, mi solleva il mento con due dita e immerge le sue iridi di lava nelle mie.
“Togliti quel ciondolo, Archie.”
Sentirlo pronunciare il mio nome mi provoca piacevoli brividi e il mio cuore sussulta felice, ma dura poco, una frazione di secondo.
“No.” soffio con voce tremante.
La mia risposta non lo aggrada. Serra la mascella, i suoi occhi brillano collerici. Avverto una lacrima rigarmi la tempia, poi una fitta al torace, seguita da un prurito fastidioso che presto si trasforma in dolore. C’è qualcosa che brucia. Abbasso lo sguardo e vedo il suo braccio sinistro che mi trapassa da parte a parte, conficcato nelle mie carni, da cui salgono sottili fili di fumo. Il sangue nero non tarda ad imbrattarmi i vestiti e a riversarsi sulla manica della sua giacca. Torno a scrutarlo con incredulità, ma tutto quello che ora scorgo è un desiderio spietato di farmi del male. Come al solito, non conosce le mezze misure.
“Ti mostrerò ciò che ti aspetta, Archie, preparati. Confido che dopo questa esperienza tu non faccia più simili sciocchezze. Prendilo come un atto di misericordia, una chance, la dimostrazione che per me sei prezioso. Per me, non per Sua Eccellenza.” mi strappa il ciondolo dal collo e lo getta lontano, “Lucifero ti vuole come soldato, non come peccatore penitente in uno dei gironi infernali!”
“E tu? Tu come mi vuoi?” soffio, sull’orlo dell’incoscienza.
Sbarra appena le palpebre e assume un’aria corrucciata. Ma, prima che possa udire la sua risposta, scivolo in un abisso di torbida oscurità, dove i suoni e la luce cessano di esistere.










 

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** Nel limbo ***








 


Le tenebre che mi circondano sono fitte e insondabili, tanto che perdo all’istante la nozione di spazio e tempo. I miei piedi poggiano su una superficie dura, ma non riesco a vedere niente, nemmeno il mio corpo. Mi sento soffocare come se fossi in una bara. 
Poi dei sussurri indefiniti mi giungono alle orecchie. Acuisco l’udito e mi concentro per carpire le parole, che via via si fanno sempre più chiare e si alzano di tono, rimbombando nel buio.
“Sorgi, Satana, Signore degli Inferi, Padrone del caos!” 
“Ascoltate, vi dico, le porte dell’Inferno sono spalancate!”
“Gridate e piegatevi al Re Caduto, che il sangue vergine venga offerto!”
“Tremate, il suo regno è vicino!”

Rabbrividisco. Paiono quasi gli slogan di un sermone pronunciato da un prete fanatico, anche se in questo caso è ovvio che si tratti di qualche esaltato adoratore del Diavolo.
“Lui ti divorerà, ti masticherà e si pulirà i denti con le tue ossa…”
Scuoto la testa con veemenza e mi tappo le orecchie. Le voci si zittiscono.
Ad un tratto scorgo una luce in lontananza, un leggero chiarore che mi attrae come una falena verso la fiamma di una candela. Non è eccessivamente luminosa e pian piano assume contorni netti, squadrati. Si avvicina. O forse sono io che mi sto avvicinando? Assimilo i dettagli velocemente, la distanza che si accorcia sempre di più. Un attimo più tardi una porta mi si para davanti, aperta su una stanza riccamente arredata e rischiarata da un paio di lampade, che gettano un alone giallognolo sulle pareti. 
Odo due diverse voci provenire dall’interno, così, incuriosito, mi affaccio. Sbarro gli occhi e il respiro mi si blocca nei polmoni quando il mio sguardo si posa sulla figura di mio padre, benché assai più giovane di quanto ricordo, seduto comodamente su una poltrona con le spalle alla finestra, dalla quale intravedo solo un velo nero e spesso. Di fronte a lui c’è un uomo, più o meno suo coetaneo, con dei tratti spigolosi e duri, capelli neri e occhi grigi, vestito di tutto punto. Una scrivania di mogano li divide, ma lo sconosciuto sembra quasi in procinto di scavalcarla e saltare alla gola di mio padre: infatti tiene i palmi ben piantati sul legno scuro, i muscoli delle braccia tesi allo spasmo e il busto sporto in avanti, come una pantera pronta ad azzannare la preda indifesa.
“Sarà una cerimonia importante, Amos, e tu darai il tuo contributo come tutti gli altri, sono stato chiaro?”
“Sì, non mancherò. L’unica cosa che mi lascia perplesso è la richiesta del Re. Insomma, ho già un primogenito da immolare, per di più vergine, anche se grandicello. Oppure, al limite c’è il mio secondo figlio. Non capisco perché devo mettere di nuovo incinta mia moglie e offrire il mio terzo erede, non ha molto senso.”
“Egli vuole il tuo terzogenito e tu glielo darai. Tra tredici anni i tempi saranno maturi e finalmente riceveremo la nostra ricompensa.”
“Va bene, va bene! Non serve arrabbiarsi. Lo farò.”
“Ah, un’altra cosa. Dalila ha letto le carte e ha avuto una visione a tal proposito. Proprio stamattina mi ha comunicato che il Re desidera che chiami tuo figlio Archibald.”
“Come mai proprio Archibald?”
“Lei non me l’ha saputo dire, così ho fatto qualche ricerca per conto mio e sono risalito all’etimologia del nome: sembra che derivi dall’antica lingua germanica ed è composto dalla parola ‘erchan’, cioè ‘genuino’ o ‘prezioso’, e dalla parola anglosassone ‘bald’, che ha dato il nostro ‘bold’, di cui uno dei significati è ‘audace’. Inoltre, in greco il prefisso ‘archi’ vuol dire ‘capo, signore’. Così è anche in linea con la tradizione della tua famiglia di mettere ai figli nomi che iniziano con la lettera ‘A’. È mia convinzione che il Re abbia dei progetti per tuo figlio, non sarà solo uno degli agnelli sacrificali.”
Mio padre lo squadra positivamente impressionato.
Io li osservo entrambi, attonito, aggrappato allo stipite della porta con le unghie. Non so neanche cosa pensare. Deve trattarsi di un episodio del passato, risalente, a quanto sembra, a prima che nascessi - il discorso dell’uomo mi ha fatto accapponare la pelle -, ma non sono sicuro che sia accaduto realmente. Insomma, e se fosse una visione fasulla presentatami allo scopo di confondermi? Se fosse l’ennesima menzogna ordita da Lucifero per farmi capitolare? Non posso fidarmi di ciò che vedo, non qui, non adesso. Potrebbe non essere mai successo. Però, in effetti, i tempi combacerebbero: se mio padre mi ha concepito subito dopo questa conversazione e le violenze sono cominciate poco dopo il mio tredicesimo compleanno, si spiegherebbero le parole che Lucifero mi ha rivolto nel sogno. Infatti disse che mio padre mi stuprò per salvarmi, quindi deduco si riferisse a questa fantomatica cerimonia. Il fatto di non essere più vergine mi ha risparmiato lo sgozzamento sull’altare. Non è una coincidenza.
All’improvviso, dalla parte opposta della stanza si materializza un’altra porta, che aggetta su un anonimo corridoio con i muri bianchi e il pavimento a scacchiera. Esito, poi avanzo di un passo, cauto, ma mio padre e l’uomo non mi calcolano di striscio. Così cammino deciso in quella direzione e mi inoltro nel corridoio, percorrendolo con ampie falcate. Il nervosismo mi fa contrarre le viscere e i battiti del mio cuore paiono assordanti nel silenzio ovattato che mi avvolge.
Alla fine del corridoio sbuco in una biblioteca che non riconosco, con alti scaffali ricolmi di libri a ridosso dei muri e un grande tavolo al centro. Gelo sul posto quando vedo un me stesso bambino seduto su una sedia, chino su un libro di grammatica inglese e intento a completare un esercizio. Un uomo anziano è in piedi dietro di me, mentre osserva impassibile il mio operato da dietro le lenti sottili di un paio di occhiali. È il signor Thully, il mio istitutore privato. Mi ha seguito fino a che non ho compiuto dieci anni, poi è morto di vecchiaia. Lo ricordo con un misto di affetto e timore reverenziale. Tuttavia, non mi sovviene di questo momento in particolare a cui sto assistendo, perché facevamo sempre lezione nella biblioteca della villa. È probabile che sia accaduto, ma ero troppo piccolo per badare ai dettagli.
“Bravo, Archibald, non hai fatto nemmeno un errore.” si complimenta.
Il me bambino arriccia gli angoli delle labbra in un sorriso timido ma felice. Il signor Thully piega un po’ il busto per indicare il prossimo esercizio da svolgere sul libro, ben attento a non sfiorare il suo allievo neanche di striscio. In effetti, ora che ci penso il signor Thully non mi ha mai toccato, nemmeno per sbaglio. All’epoca non ci facevo caso, però ammetto che era un comportamento strano. 
In quel preciso istante, mentre sta ancora spiegando, dalla sua camicia scivola fuori una catenella d’oro, che colpisce il piccolo me sulla nuca, restando a penzolare a mezz’aria.
Oddio… sì, questo me lo ricordo. Io e la mia famiglia eravamo ospiti dalla nonna, quando era ancora viva.
Mi basta un’occhiata fugace per registrare tutti i particolari del ciondolo, ma in questa visione il vecchio è lesto a nasconderla di nuovo sotto il colletto e l’Archie bambino è troppo lento nel voltarsi per intercettare il movimento. Credo di essere impallidito. Mi sento mancare per la sorpresa e lo sconcerto e involontariamente arretro di un passo.
“Scusa, ti ho fatto male?” 
“No, sto bene.”
Il ciondolo raffigurava una croce con un rombo e questo significa soltanto una cosa: Exurge Domine. Il signor Thully era uno Spennato. Ok, stento a capacitarmene, poiché non ho mai conosciuto Spennati anziani: tutti quelli che ho incontrato avevano un aspetto giovanile. Gli Spennati possono invecchiare? Beh, non è da escludere, dato che sono per metà umani, ma Titus mi ha detto che durante l’addestramento privilegiano la parte angelica, in maniera tale da staccarsi dal mondo terreno ed essere immuni alle tentazioni e alle debolezze che assillano i comuni mortali. Di conseguenza, la natura di angeli dovrebbe preservarli dal degrado del corpo, donando loro la longevità e una sorta di eterna giovinezza. Eppure il signor Thully me lo ricordo sempre con la chioma argentea e la barba incolta, sul viso una ragnatela di rughe e le mani leggermente tremanti per un principio di Parkinson. Chissà, forse aveva rinunciato alla parte angelica, senza però smettere di appartenere all’ordine. O forse era uno di quegli Spennati che si sono resi colpevoli di qualche crimine ed è stato punito con la sottrazione dei suoi poteri, come ha spiegato Titus. Comunque è inutile domandarmelo adesso, il signor Thully è morto da anni.
Piuttosto, come mai sto vedendo queste cose? Anzi, chi me le sta mostrando?
La visione svanisce, dissolvendosi in spirali di fumo grigio. L’oscurità mi circonda nuovamente, ma il silenzio dura poco. 
Dei singhiozzi mal trattenuti attirano la mia attenzione. Mi giro e un cono di luce sporca proveniente da chissà dove illumina una figura assisa su una roccia, le ginocchia strette al petto e la faccia celata dalle braccia. Scorgo solo dei corti capelli castani, nient’altro. È un uomo e sta piangendo.
Per una frazione di secondo penso sia Adam, ma quando solleva la testa vengo travolto dalla nausea e da un malessere che mi strappano il fiato dai polmoni, lasciandomi boccheggiante.
“Terence…” soffio atterrito.
Il suo viso è ricoperto di sangue, sangue che sgorga dai suoi occhi sottoforma di lacrime. Quando mi mette a fuoco sbarra le palpebre, si alza e si protende verso di me come se volesse afferrarmi. Mi scanso, arretro velocemente, ma inciampo e mi sbilancio all’indietro. Lui è subito su di me, mi sovrasta e mi ingabbia tra le sue braccia. Mi scruta con odio, digrigna i denti e mi stringe la gola con una mano, immobilizzandomi a terra.
“È tutta colpa tua!” sibila rabbioso.
Inizio a dimenarmi, scalcio con vigore e artiglio la sua mano per fargli allentare la presa sul mio collo, ma non molla. Non sembra minimamente scalfito dai miei tentativi di ribellione, anzi le sue labbra di curvano in un ghigno divertito.
“Ti va di spassarcela un po’ noi due, prima che torni mio zio? Prometto che sarò gentile.”
Il paesaggio cambia in modo repentino e il buio si schiarisce, delineando i contorni di una stanza familiare, un letto, un camino acceso, un armadio e una finestra affacciata sul nulla. In un attimo sono nella mia vecchia camera, disteso sul materasso, completamente nudo e alla mercé di mio cugino. I ricordi mi assalgono violenti, mi paralizzano, e il terrore mi inonda le vene. 
Terence mi tocca come faceva in passato, le sue mani scorrono sgraziate sul mio corpo acerbo e il senso di sporcizia mi pervade. Ho paura, non riesco a reagire. Perché Adam non viene a salvarmi?
All’improvviso la mia mano sinistra si serra attorno a qualcosa di duro e freddo. Volto il capo e osservo il coltello che è comparso dal nulla nel mio palmo. Ho un dejà vu. La lama emana riflessi fiammeggianti, gelidi, e la legna che arde nel camino scoppietta allegra di rimando. 
Non esito neanche per un secondo. Sollevo il coltello e lo affondo nella carotide di Terence. Il suo sangue mi imbratta il torace e il viso in una fontana vermiglia, si insinua nella mia bocca, mi impasta la lingua e penetra fino in gola. Il sapore ferroso è così reale da provocarmi conati di vomito. Estraggo il pugnale e lo conficco una seconda volta nelle sue carni, fra le scapole, ma non è sufficiente. Grido sfogando la rabbia e il dolore che ruggiscono dentro di me e colpisco ancora e ancora, dove capita. Infine Terence si accascia su di me, esanime. Lo scosto con uno spintone e un grugnito, poi riprendo a trafiggerlo in preda a una furia cieca. 
Quando torno in me mi accorgo che sul medio della mano destra ha l’anello di famiglia, quello che indossava sempre mio padre. Osservo meglio il cadavere che giace riverso sulle lenzuola impregnate di sangue e fisso stralunato Amos Blackwood, senza capire perché sia lì e dove diavolo sia finito mio cugino. Stringo il coltello spasmodicamente, come se la mia vita - e la mia sanità mentale - dipendesse da quello. Sguscio fuori dal letto incurante della mia nudità e mi allontano dal luogo del delitto, fiondandomi fuori dalla camera col cuore in gola. 
Rammento la visione che ebbi subito dopo la Caduta, in quella discoteca parigina, mentre ballavo con Samael. Anche allora ero tutto ricoperto di sangue dalla testa ai piedi e stringevo un pugnale, con cui uccisi le proiezioni di mio padre e mio fratello Adam.
I corridoi deserti di villa Blackwood che mi trovo ad attraversare sono riprodotti fedelmente sulla base dei miei ricordi, così bene che per un secondo dubito delle mie percezioni. So che tutto questo non è reale, ma lo sembra in modo alquanto inquietante. 
Mi dirigo verso la scalinata centrale del primo piano con l’intenzione di raggiungere l’ingresso e uscire, ma una volta giunto a destinazione mi fermo in cima alla rampa. In fondo alle scale, proprio di fronte alla porta, c’è un enorme crocifisso con l’immagine di Gesù Cristo piangente circondato da numerose candele che gli volteggiano intorno. Resto a guardarlo per svariati istanti, finché la sua faccia non si trasforma in una maschera grottesca, con tanto di ghigno beffardo e occhi totalmente neri, inumani. Serro di più le dita sull’elsa del pugnale e mi irrigidisco, consapevole dell’identità dell’essere che ha preso le sembianze del Cristo.
Egli scende dalla croce con movimenti agili e disinvolti, poggia i piedi scalzi sul pavimento e mi scruta dal basso con espressione affamata. Sì, “affamata”, non so come descriverla altrimenti.
“Allora, Archie. Hai fatto il birichino, eh? Samael è molto arrabbiato con te.”
Contraggo la mascella e lo fisso impettito in un gesto di sfida.
“Lucifero.” lo saluto, “Stavolta non copi il mio aspetto? Devo dire che le tue scelte, in quanto a manifestazioni, sono sempre di cattivo gusto.”
“Quanta arroganza per essere un umano.” ridacchia.
“Ma io non sono umano, me lo hai detto tu: sono un demone con un’anima.” ribatto, fingendo una spavalderia che non sento.
“E, secondo te, ciò ti dà il diritto di rivolgerti a me con questo tono?”
“Vorresti che mi prostrassi e ti chiamassi ‘mio re’?”
“Uhm, beh, sì, non sarebbe male…” dice accarezzandosi il mento con aria meditabonda, “Di sicuro appagherebbe il mio lato narcisistico.”
“Scordatelo.”
Scoppia a ridere di gusto. La sua risata somiglia allo stridio di un gesso su una lavagna, mi ferisce le orecchie e mi fa venire la pelle d’oca.
“Va bene, ho capito, sei di cattivo umore. È comprensibile, non ti biasimo. Ma sei anche confuso, desideri delle risposte… o sbaglio?” ammicca sornione.
“Non sbagli. Però dubito che tu possa darmele, e anche se lo facessi non ti crederei: sei l’Ingannatore, non mi fido di te.”
“Giusto, ma personalmente non ti ho mai mentito.”
“Oh, questa è buona!” sbuffo offeso, roteando gli occhi esasperato.
“No no, sul serio. Ho ordinato a Samael di mentirti, non l’ho mai fatto direttamente. Dalla mia bocca è uscita sempre la verità ogni volta che ci siamo incontrati faccia a faccia. Quindi, tecnicamente, non ti ho mai mentito.” ribadisce serio.
“Vuoi dire la mia faccia.”
“Su su, non badare a queste sottigliezze. Non posso assumere il mio vero aspetto. Anzi, ad essere sincero non ne possiedo più uno, quello originale se l’è tenuto Dio, quindi devo pur ricorrere ad altre tattiche.”
“Che intendi? Uno non può tenersi l’aspetto di qualcun altro.”
“Dio può. In sostanza, possiedo ancora il mio corpo, se un ammasso di densa energia spirituale può definirsi tale, ma ho perduto i miei tratti peculiari, la mia… concretezza. Prendi ad esempio Laeriel: ha conservato il suo aspetto originale, la sua concretezza, grazie alla quale tu lo vedi per come è, di statura bassa, con i capelli rossi, gli occhi bianchi e la pelle chiara. Io ero bellissimo, il più bello fra gli angeli, ma i tratti che definivano la mia bellezza sono rimasti incagliati negli artigli dell’Onnipotente e tanti saluti. È come se fossi un manichino privo di faccia. Per questa ragione sono obbligato ad assumere le sembianze di qualcosa o qualcuno, per ritrovare l’identità che mi è stata strappata. Non volermene se mi sono presentato a te… beh, uguale a te, o se ora ho questo aspetto.”
Lo studio poco convinto, indeciso se bermela o meno. Magari, se recito bene la parte dell’ingenuo, abbasserà la guardia. Comunque decido di cambiare discorso e condurlo nella direzione che mi interessa adesso. C’è una questione che mi preme più delle altre e ha a che fare con…
“La visione iniziale, quella di mio padre e l’uomo sconosciuto… è successo davvero?”
“Sì. Sai, Amos era uno dei miei adoratori più fedeli, così volli fargli un dono.” 
“E quale?”
“Essere il padre del mio erede.”
Indietreggio come colpito da uno schiaffo. Lo fisso accigliato ed esamino minuziosamente il viso ieratico di Lucifero, cioè del Cristo, alla ricerca di indizi per appurare che non mi stia rifilando l’ennesima bugia, tanto per gradire. Gli occhi dalla forma leggermente a palla paiono vacui, due pozzi color pece, profondi come abissi, solcati da strisce di sangue, che cola dalla corona di spine sulla fronte. È pittura, infatti non si muove, però ammetto che mi fa un certo effetto. Dopodiché, dal momento che non scorgo un bel niente - si meriterebbe un premio per la miglior faccia di bronzo - e non voglio dargli la soddisfazione di vedermi tremare come un agnellino, opto anch’io per assumere l’espressione più granitica del mio repertorio.
“Ok.” 
“Ok?” ripete perplesso.
“Sì, ok. Sono il tuo erede? Intendi l’Anticristo?”
“No, non in quel senso. Non abbiamo legami di sangue, io e te, sei figlio di tuo padre e di tua madre. Ma, come Dio si è servito di Gesù per guidare gli uomini, anch’io desideravo un ‘figlio’ di cui disporre per i miei scopi. Durante il tuo concepimento ero presente, proprio accanto al letto dove Amos Blackwood scopava sua moglie Eleonora. Come hai visto, gli avevo ordinato di procreare una terza volta e lui ha obbedito come mi aspettavo. Laeriel è arrivato solo quando uno degli spermatozoi di tuo padre ha attecchito su un ovulo di tua madre.”
Cercando di non mostrarmi sconvolto, mi schiarisco la voce e ribatto: “Allora non sono esattamente il tuo erede.”
“Non lo sei, ma voglio che lo diventi, Archie, ne hai tutte le potenzialità. Ti ho cresciuto, in un certo senso. Noi due abbiamo un legame che affonda le sue radici da ben prima della tua nascita e durante la tua infanzia sei venuto a contatto con me svariate volte, sebbene non ne porti memoria. Ti sei mai chiesto perché solo di recente tu abbia iniziato a ricordare? Come quella notte in cui per sbaglio assistesti ad una delle tante messe nere che avevano luogo nei sotterranei di Villa Blackwood. Devi ringraziare me per averti risparmiato ingenti traumi in così tenera età, altrimenti saresti impazzito.”
“Spiegati meglio.” lo esorto, mentre l’ansia e l’agitazione aumentano con il procedere della conversazione.
“Potrei farti rivivere tutti i momenti in cui hai percepito la mia presenza o in cui ho parlato con te attraverso qualche domestica, ma non mi va. Una volta abbiamo persino chiacchierato tranquilli per un’ora! Avevo assunto le sembianze di tuo fratello Adam per non allarmarti. Però, quando ti proposi di assassinare la tua cara mammina, scoppiasti a piangere, perciò mi vidi costretto a battere in ritirata, cancellando quell’episodio dalla tua mente. Eri molto sensibile. E adorabile, non lo nego. Anche adesso ti trovo adorabile, mentre fai il duro quando in realtà vorresti fuggire urlando.” 
Gli angoli della sua bocca si stendono fino agli zigomi, davvero troppo, e quello che in principio poteva considerarsi un semplice sorriso acquisisce all’improvviso dei tratti mostruosi, perché le labbra umane non hanno una tale estensione.
Mi mordo l’interno di una guancia per non squittire terrorizzato. Diamine, se anch’io fossi capace di questi trucchetti, gliela farei vedere.
“Comunque, non ho voglia di rivangare il passato e non è importante. Ciò che conta è il presente. Quindi sarò chiaro: Dio ha avuto il suo Messia, io voglio che tu diventi il mio. Sei già consapevole di quanto la natura umana tenda all’aberrazione e io sono già al corrente dei dubbi che Laeriel ha instillato in te. Di conseguenza, la domanda è: sei disposto a lasciare impuniti coloro che si meritano l’eterna dannazione soltanto per la salvezza di un’anima o due? Ne vale la pena? Per mille mortali di infimo livello ce ne sarà sempre uno che non lo è, e per questo dovresti risparmiare gli altri novecentonovantanove?” mi scocca un’occhiata indulgente, poi abbozza una risata.
“Parli di Laura?”
“Non di lei in particolare, ma di tutti gli innocenti che tu hai scagliato all’Inferno per regalare ai peccatori altri tredici anni di vita. Quanti sono stati, Archie?”
“Non… non avevo scelta! Era la prassi…”
“Sì, certo, la prassi. Non scappare dalle tue responsabilità, non è un atteggiamento maturo.” mi rimprovera pacato.
“Io…” balbetto, preso in contropiede.
La mia maschera di imperturbabilità scivola via e il viso di Marco si delinea innanzi a me, come se qualcuno lo stesse dipingendo con un pennello.
“Povero ragazzo, così giovane… non hai avuto pietà.” commenta distratto Lucifero e adesso avverto l’impellente bisogno di riempirlo di pugni, “Tuttavia, pensa a tuo padre, al signor Phelps, al signor Molloy e a tutti gli altri che hanno avuto la sentenza che si meritavano. Non credi di aver agito per il verso giusto? Stando alla legge di Dio, pure loro avrebbero potuto accedere al Paradiso, se si fossero pentiti. Lo trovi corretto? Ti sarebbe andato bene che tuo padre ascendesse nella Sua grazia dopo le cose che ti ha fatto? O invece sei felice che ora stia soffrendo all’Inferno? No, non ti sprecare a rispondere, non serve, me l’hai dimostrato poco fa, quando con quel coltello hai fatto nuovamente scempio del suo corpo.” 
Indica l’arma che stringo ancora nella mano sinistra e di riflesso la lascio cadere, come se mi fossi scottato.
“Cosa vuoi? Dimmelo!”
“Voglio tante cose, Archie. Voglio vendetta, voglio tirare giù il Signore dal Suo trono e sterminare la razza umana. Uhm, voglio anche indietro la mia concretezza per soddisfare la mia vanità. Voglio regnare sulla terra e nei cieli. Voglio diventare Dio.”
Lo scruto con gli occhi fuori dalle orbite, basito e sconcertato. Scuoto la testa cercando di schiarirmi le idee.
“Intendevo dire, cosa vuoi da me.”
“È semplice: voglio che scegli tra il Bene e il Male. No, anzi, voglio che scegli il Male, me. Voglio essere accettato da te, dalla tua ragione, dal tuo cuore e dalla tua anima.” ad ogni frase comincia a salire uno scalino e in men che non si dica è già a metà della rampa.
“Perché io?”
“Perché no?”
“Cosa ci guadagneresti?”
“Tu porteresti il mio messaggio agli umani, diventeresti il simbolo della mia ribellione a Dio, proprio come un Messia. Solo che non dovrai morire su una croce per convincerli.”
Rimango in silenzio a riflettere su questa cosa del Messia. Mi sfugge un passaggio fondamentale. 
Stando alla tradizione, Maria rimase incinta grazie allo Spirito Santo e diede alla luce Gesù, il Figlio di Dio, che altri non era che la Sua incarnazione. Però è un paradosso notevole, poiché sulla croce Gesù dice “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. In pratica si sta riferendo a se stesso. Il dogma della Trinità, cioè Padre, Figlio e Spirito Santo, è un puro rompicapo a livello ontologico: esso afferma che Dio è uno solo, unico e semplice nella sua sostanza, ma al contempo è anche tre diverse entità. Si tratta di “ipostasi”, che sta ad indicare ognuna delle diverse dimensioni della realtà appartenenti alla medesima “sostanza divina”, che le emana da sé come proiezione di sé. Quindi le tre entità sono ben distinte ma sono anche fatte della stessa sostanza, ossia Dio. C’è il Padre, creatore del cielo e della terra, il Figlio, il Redentore del mondo, generato dal Padre e fatto uomo in Gesù Cristo, e infine lo Spirito Santo, che il Padre e il Figlio inviano ai discepoli di Gesù per far sì che comprendano e diffondano le verità rivelate. Di conseguenza, Padre e Figlio, Dio e Gesù Cristo sono la stessa entità. Dio non ha avuto un Messia, non ha eletto Gesù affinché lo fosse, ma lo era Lui stesso.
Sgrano gli occhi e mi trattengo dal portarmi le mani nei capelli. Per la miseria… in che guaio mi sono cacciato? Dio, ti prego, aiutami…
Sollevo bruscamente lo sguardo e per poco non ho un infarto appena mi specchio nelle orbite nere di Lucifero, che ora se ne sta immobile a una ventina di centimetri da me. Non so quando si è avvicinato tanto, ad ogni modo la sua presenza incombente mi schiaccia e mi toglie il respiro. È terrificante, senza mezzi termini. Sussulto e compio un salto all’indietro, spaventato fino al midollo. 
Mi riprendo a fatica, deglutisco e lo osservo dal basso con timore.
“Tu non vuoi un Messia.” esalo sull’orlo di una crisi, “Tu vuoi essere il Messia.”
Lucifero mi guarda con le palpebre a mezz’asta, una statua priva di emozioni, vuota e fredda.
“Dio non ha scelto Gesù come Messia, Dio era Gesù. Il Padre è anche il Figlio.” continuo, arretrando piano piano verso il muro alle mie spalle, “Tu non vuoi Archie come Messia, vuoi essere Archie e anche il Messia. Vuoi me, vuoi il mio corpo, e per ottenerlo devo accettare te e la tua causa. Devo donarmi a te spontaneamente.” 
Via via Lucifero mi insegue, senza permettere che la poca distanza che ci separa aumenti di un singolo millimetro. Un attimo più tardi la mia schiena nuda tocca la parete e mi scappa un singhiozzo disperato, mentre alcune lacrime mi si incastrano tra le ciglia.
“Per questo hai fatto in modo di usare Samael per plagiarmi e ottenere la mia fiducia. Eri sulla buona strada fino a poco tempo fa, poiché il lavoro che ero chiamato a svolgere - scommetto una delle tue idee geniali - mi imponeva di disegnare una linea netta tra Bene e Male per non rischiare di farmi coinvolgere e impazzire, e al contempo mi impediva di vedere altro eccetto il male. È stata una mossa furba.” ingoio il groppo di saliva che mi ostruisce la gola e mi faccio forza, “Inoltre, l’appartenenza di mio padre a una setta satanica, ma soprattutto i suoi stupri sono serviti allo scopo di accostarmi a te. Dicesti che mio padre, strappandomi la verginità, tentò di salvarmi, di tenermi al sicuro da te. È assurdo, ma diciamo che lo ha fatto per amore. Tuttavia, adesso penso proprio che fosse tutto nei tuoi piani: l’avergli ordinato di fare un terzo figlio, l’averlo in qualche maniera informato di avere grandi progetti per me, di volermi per te, l’hanno spinto a compiere tali nefandezze da far inorridire il peggiore dei pedofili, e solo per proteggermi. Grazie a ciò io ho conosciuto l’odio, il rancore, la disperazione, tutti sentimenti che mi hanno guidato fra le tue braccia tramite quelle di Samael. Sbaglio, forse? Mio padre era un tuo burattino e magari lo hai scelto a caso fra tanti. Poi è stato il mio turno e ora tutti gli eventi mi hanno condotto qui, di fronte a te, per la fine dei giochi. Cercherai di farmi guardare la realtà dalla tua prospettiva, di convincermi che i motivi che ti muovono siano giusti e a quel punto, quando cederò, mi divorerai, mi masticherai e ti pulirai i denti con le mie ossa.”
Riprendo fiato, respiro affannato e tento di calmare i battiti frenetici del mio cuore. Le mie membra sono state invase da una colata di gelo denso e ustionante, che si dirama lento ma inesorabile in ciascuna estremità. 
Lucifero mi squadra in religioso silenzio con la solita, snervante espressione indecifrabile, ma almeno sembra che non abbia intenzione di farmi del male, non adesso. Devo sfruttare ogni attimo che mi è concesso.
“Volevi uccidermi sin dall’inizio.” sussurro con voce tremante, “Mi hai addestrato affinché ti cedessi il mio guscio e ti lasciassi mangiare la mia anima; mi hai fatto cadere dalla grazia, mi hai tarpato le ali e precipitato in un abisso di oscurità. Sei tu la causa delle mie sofferenze, della mia tristezza e di tutte le cose brutte che mi sono successe. Sei tu la causa della mia infelicità. E dopo averlo finalmente realizzato, sei davvero convinto che mi piegherò al tuo volere senza alzare un dito? Io ti odio, Lucifero. Ascoltami bene tu, ora: non mi avrai mai. Forse ti conviene cercarti qualcun altro per i tuoi malsani giochetti di potere.”
All’improvviso sferra un pugno sul muro, a pochissimi centimetri dal mio viso. L’intonaco si crepa e si sgretola all’impatto, ma lui non batte ciglio. Ghigna e si china su di me, in modo da portare i suoi occhi alla stessa altezza dei miei.
“Disse la vittima, già opportunamente legata a un lettino come un salame, al suo carnefice, che brandisce divertito gli strumenti di tortura. Non trovi che sia un’immagine calzante? È troppo tardi, Archie. Cosa speri di ottenere con i tuoi bei discorsetti, giunti a questo punto? La parlantina non ti manca, te ne do atto, ma non ti servirà. Credi che mi importi che tu abbia scoperto le mie carte? Credi che cambi qualcosa per me? Non sei altro che un misero umano a cui ho elargito una minuscola parte dei poteri dell’Inferno, non sei nessuno. Archibald Blackwood è nato solo per diventare il mio contenitore, il veicolo attraverso il quale io potrò agire sul piano terreno. Non vali niente, a nessuno interessa di te, nemmeno a Samael. Ti ha rigirato come un calzino per tutti questi anni e tu ti sei lasciato sballottare da lui in ogni senso possibile. E ti è piaciuto, ho visto come pendevi dalle sue labbra e gli trotterellavi dietro alla stregua di un cagnolino fedele. Lo ami, povera stella.” assume un finto broncio e mi dà un buffetto affettuoso su una guancia, “Sai, un po’ mi dispiace per te. Ti eri rimesso in gioco con Samael, avevi superato il trauma delle violenze e trovato un nuovo equilibrio, equilibrio che adesso ti è stato sottratto ancora. Perché hai capito che tutto ciò che il tuo caro maestro ha fatto era per uno scopo superiore, ovverosia aiutare me a realizzare il mio. Tutti i baci, le carezze, le paroline dolci erano solamente una strategia come un’altra per plasmare un burattino ubbidiente e devoto. Non c’è mai stato nulla di vero.” si piega di più e alita sulla mia bocca, riducendo la voce ad un bisbiglio, “Povero, dolce bambino.”
Le lacrime rompono gli argini delle ciglia e mi rigano la pelle in copiose scie salate, senza che possa fermarle. Fa male. Il mio cuore è stato fatto a pezzi in pochi istanti e non riuscirò mai a ricomporli. Quel che dice Lucifero, mi duole ammetterlo, è la verità, che era già stata ampiamente espressa da Laeriel. Samael mi ha ingannato, mi ha usato e lo ha fatto con una tale, disarmante naturalezza da risultare disgustosa.
“Non hai scelta, Archie. Se mi rifiuti, non sarà l’Inferno la tua prossima meta.”
Lo fisso stralunato e lui ridacchia.
“Sono io che decido chi mandarci e chi no, dovresti saperlo. Per te, invece, avevo pensato ad un’eternità in questo limbo, costretto a rivivere gli stupri e gli orrori che hanno costellato la tua infanzia e prima adolescenza, senza vie d’uscita. Cosa ne dici?”
Serro le labbra e gli scocco un’occhiata carica d’odio: “L’alternativa è farmi divorare da te, perdere per sempre la mia identità e consegnarti la chiave per distruggere il mondo. Vuoi scatenare l'Apocalisse indossandomi come un vestitino.”
“Esatto. Beh, puoi vederla anche in questo modo: quando lo farò, tutte le tue pene finiranno e cesserai di esistere. Non dovrai più soffrire, mai più. Non è una prospettiva allettante?”
Deglutisco rumorosamente, incapace di proferire parola. Sono stato messo all’angolo e stavolta so che non me la caverò. Ho fallito su tutta la linea. Mi sono montato la testa, convinto che una volta intuito il disegno del Male avrei potuto sventarlo, ma sono stato un illuso. Il mio più grande peccato è sempre stato l’ingenuità. D’altronde, come speravo di tenere testa a un’entità superiore come il Diavolo? Spesso si dice per scherzo “saperne una più del diavolo”, ma in realtà lui le sa tutte, non c’è verso di fregarlo. Non puoi combatterlo, puoi solo augurarti di non attirare la sua attenzione. 
Stringo i pugni, le mie unghie affondano e lacerano i palmi e il sangue scalda le mie falangi infreddolite. Non voglio arrendermi! Non può finire così. Eppure non ho piani di riserva, né alleati su cui poter contare. Sono solo, lo sono sempre stato.
“Sono il tuo angelo custode. Sono sempre stato qui con te, Archie, non ti ho mai lasciato. Fidati di me.”
Laeriel, dove sei? Ti prego, aiutami!
“Stai evocando il tuo angioletto, per caso?” mi schernisce Lucifero e scrolla il capo sconsolato, “Sei testardo, ma è tutto inutile.”
“Che vuoi dire?”
“Me ne sono occupato appena sei entrato in questa dimensione. Ho fatto il pollo alla piastra.” rivela con un inquietante luccichio negli occhi.
Mi sento morire.
“L’hai ucciso?”
La sua bocca si amplia nell’ennesimo ghigno: “Adoro il profumino di bruciato che gli angeli emanano quando li cuoci a puntino.”
“Laeriel aveva perso le ali, era un demone!”
“Sì… e no. Era ancora nella fase di mezzo. Per un momento ho ponderato di servirmene per farti passare dalla mia parte, ma poi ho pensato che mi avresti odiato per aver sporcato irrimediabilmente il tuo angioletto. Anche se comunque alla fine non hai ceduto, a scapito del mio piano geniale e delle cautela che ho adottato. Forse ho sottovalutato il potere del libero arbitrio.” mugugna sfoggiando una smorfia scontenta, ma si riprende in fretta, “Pazienza! Tempo scaduto, Archie.”
“N-non puoi toccarmi se non ti do il mio esplicito consenso!” ribatto in un ultimo, disperato tentativo, aderendo ancora di più al muro e desiderando di fondermici per sfuggire all’aura opprimente di Satana.
“Mio caro, a differenza tua io ce l’ho un asso nella manica. Dimentichi che posso usare la forza. L’unica conseguenza sarà che non potrò usufruire delle tue spoglie per un periodo molto lungo - come avevo sperato -, poiché si disintegreranno lentamente invece di rimanere intatte; infatti perderai i poteri, che finora ti hanno mantenuto giovane, sano e forte, e tornerai umano, mortale, soggetto all'invecchiamento e alle malattie, ed io non posso arrestare più di tanto il processo, è inevitabile e fa parte della natura di tutte le creature che nascono sulla terra. Ma il tempo che otterrò sarà sufficiente a raggiungere il mio obiettivo, non c'è problema.”
Mi afferra per i fianchi nudi e mi attrae a sé, forzando le mie labbra a schiudersi per lasciar entrare la sua lingua. Mi dimeno come un ossesso, ma non riesco a liberarmi. Lo sento scavare nella mia bocca ed esplorarla, poi in qualche modo penetra più a fondo e lo avverto risucchiare qualcosa dall’interno.
Mi sta mangiando l’anima.
“Lui ti divorerà, ti masticherà e si pulirà i denti con le tue ossa…”
Le energie mi abbandonano, e così la voglia di lottare. Non ne posso veramente più, desidero che tutto questo finisca.
Affogo nei suoi occhi bui, due voragini che annientano le ultime barriere della mia mente.

Non guardare, Archie. Non guardare!









 

Ritorna all'indice


Capitolo 32
*** La scintilla divina ***










In un certo senso è come precipitare: un attimo prima stai attraversando un ponte sospeso a migliaia di metri dal fondo di un burrone e quello dopo perdi l’equilibrio e cadi giù. Allora trattieni il respiro, chiudi gli occhi, il cuore rallenta i battiti, si fa più rumoroso, e tutto il corpo si irrigidisce e i muscoli si contraggono, preparandosi all’impatto. Solo che in questo momento una parte della mia coscienza sa che non ci sarà alcun impatto, perciò i muscoli, per quanto tesi, non diventano di pietra. Un po’ come sulle montagne russe, quando si avverte il vuoto nello stomaco durante una rapida discesa, ma ti ci abbandoni per sperimentare l’adrenalina. Ecco, qualcosa di simile. Però non sento l’euforia scorrermi nelle vene, piuttosto una placida quiete, che mi fa galleggiare sulla superficie di un oceano invisibile e impalpabile.
Sto bene e questo mi disorienta. Credevo sarebbe stato doloroso, invece la leggerezza e la calma che mi pervadono scacciano via le emozioni negative. Morire è bello. Anzi, cessare di esistere è bello. Non sento più male, adesso. Il passato è lontano, le mie paure si sono dissolte e la rabbia ha ceduto il posto all’accettazione. Non posso più lottare, neanche lo voglio, e va bene così.
Non vedo niente, nemmeno un ricordo. La mia vita non mi passa davanti agli occhi, come molti dicono che accada prima di esalare l’ultimo respiro, c’è soltanto una fitta e calda oscurità, accogliente, che mi culla come una madre. È perfetto.
Ad un tratto avverto la mia identità scivolare via pezzo dopo pezzo. Me ne accorgo perché all’improvviso non so più chi sono, quale sia il mio nome, cosa ci faccio qui. Va bene pure questo, non sono spaventato. Mi sembra di rammentare qualcosa, a un certo punto, ma la memoria viene rubata prima che possa afferrarla. Non importa, davvero. Non ha più importanza.
Mentre sono immerso in questo stato di non essere - impossibile calcolare il tempo trascorso -, odo uno strappo violento e percepisco un contraccolpo sulla schiena, che mi spinge in avanti in maniera così potente da riaccendere l’istinto di sopravvivenza.
Quando riapro gli occhi, spalanco la bocca in un grido muto. Gli occhi mi si riempiono di lacrime e il corpo viene attraversato da forti e dolorosissimi spasmi. Sento freddo, il gelo mi è penetrato sin nelle ossa e, in qualche modo, ogni fibra del mio essere sta cercando disperatamente di espellerlo. In un secondo ricordo chi sono e il peso della realtà torna a gravarmi sulle spalle, schiacciandomi a terra. 
L’attenzione si concentra sulle mie gambe, fasciate da un paio di comodi pantaloni neri, poi sulle scarpe lucide e dall’apparenza costosa. In seguito, risalgo sul busto coperto da una camicia bianca, una giacca dello stesso colore e materiale dei pantaloni e una cravatta grigio perla stretta sul collo, il tutto celato, in parte, da un cappotto pesante con una doppia fila di bottoni. Porto le mani sulla testa e scopro che i capelli sono legati ordinatamente in una coda di cavallo, nemmeno una ciocca fuori posto. Insomma, ho il solito abbigliamento di sempre. Il fatto di non essere nudo mi consola, ma non capisco com’è che di punto in bianco io sia di nuovo vestito. E al livello dello stomaco non c’è neanche uno squarcio - rabbrividisco al ricordo di Samael che mi trapassa le carni con un braccio -, come neppure un granello di polvere a sporcare la stoffa scura dei miei abiti. Sono lindo e impeccabile come se fossi pronto per andare ad una festa.
Immediatamente mi allarmo. Dovrei essere morto stecchito, Lucifero avrebbe dovuto divorare la mia anima e la mia intera esistenza… allora perché sono vivo? Lo sono, giusto? Oppure quel maledetto Diavolo non ha mantenuto il patto e mi ha relegato nel limbo, in cui continuerò a rivivere i miei incubi per l’eternità? Cosa è successo?
Scandaglio con sguardo febbrile l’ambiente che mi circonda e con sommo stupore mi rendo conto che sono in ospedale. La stanza di Laura e Archibald è vuota, anche se non sono sicuro al cento percento che sia la loro: qui le camere sono tutte identiche. Tuttavia, mi basta un’occhiata alla mia destra per individuare il buco nel muro lasciato da Laeriel, quando ci è stato sbattuto da Samael.
Mi alzo in piedi e mi avvicino, ansioso e con il cuore stretto in una morsa d’acciaio.
Laeriel è davvero morto? Non tornerà mai più? Non riesco a capacitarmene, ad assimilare il concetto. È sbagliato. Laeriel non sarebbe dovuto morire. 
E perché Samael mi ha tradito? Perché mi ha fatto del male? Domande stupide: è un demone! Fare del male è la sua natura.
Emetto un lamento affranto e mi prendo la testa fra le mani.
“Archie.”
Mi volto di scatto, atterrito e frustrato per questo irritante tira e molla: è tanto difficile uccidermi e farla finita? A quanto pare sì. 
Samael è a poco più di due metri di distanza, si erge fiero in mezzo al corridoio, nudo, con le corna ricurve ben visibili sulla testa, la lunga coda che dondola, striscia e si avvolge intorno alle sue caviglie e due ali spiegate a metà che vibrano dietro la schiena. Il piumaggio all’apparenza mi ricorda quello di Laeriel, talmente soffice da sembrare cotone, ma non è candido, anzi: le piume sono di un nero carbone così uniforme che è difficile distinguerle le une dalle altre, come se inghiottissero persino le ombre. E i suoi occhi sono due cerchi di un rosso acceso che talvolta vira sull’arancio, quasi che dietro di essi stia divampando un incendio. Invece i capelli sono gli stessi in cui ho infilato le dita numerose volte: neri, lisci e lunghi fino al torace, una cascata di seta lucida, tanto da dare l’impressione di essere finta. Cavolo, è bellissimo. Un demonio dotato dei tratti raffinati e delicati di un angelo. Se non fosse per le sue iridi rossastre, il pallore innaturale della pelle, le corna, la coda, le ali nere e l’espressione truce, sarebbe davvero una visione celestiale, ma tant’è. 
“Archie.” ripete senza alcuna inflessione, ridestandomi dallo stato contemplativo in cui sono caduto.
La sua voce mi riecheggia nel cervello e mi scuote dall’interno. Rabbrividisco di piacere, mio malgrado e nonostante tutto, poiché non posso fare a meno di tremare come una foglia e sciogliermi quando mi parla con questo tono, assuefatto al suo calore e alle vibrazioni che spedisce nel mio petto alla stregua di dardi infuocati, quasi si rivolga direttamente alla mia anima. 
Deglutisco e ancora avverto le lacrime incastrarsi tra le ciglia. Dio, vorrei correre da lui, gettarmi fra le sue braccia e dimenticare tutto, e al diavolo, letteralmente, la guerra e le ambizioni di divinità egoiste! Ma il suo tradimento continua a bruciare.
“Sam…” biascico roco.
“Sono giunto ad un accordo con Lucifero.” esordisce dopo qualche secondo, “Ti lascerà stare se ti schiererai con lui. Diverrai un demone completo e otterrai poteri formidabili.”
Comincia ad avanzare verso di me e io lascio che lo faccia. Non ho più paura di lui, fondamentalmente perché non ho più niente da perdere. 
“Dove siamo?” chiedo ignorando le sue parole, poiché le sto ancora metabolizzando e mi serve tempo.
“Ancora nel limbo.”
“Dov’è Lucifero?”
“Ovunque.”
“Qui?”
“Sì.”
“Come lo hai convinto? Cos’hai fatto? Io stavo… stavo…”
“L’ho fermato prima che ti divorasse del tutto. Non è stato facile persuaderlo ad ascoltarmi, ma per fortuna lo ha fatto. Sono arrivato appena in tempo, sai? Se avessi atteso un secondo in più, saresti scomparso dalla faccia dell’universo.”
Lo guardo incredulo e, improvvisamente, una minuscola scintilla di speranza si riaccende in mezzo al mare di tenebra.
“Perché?” indago esitante.
Samael azzera la distanza, torreggia su di me e appoggia una mano sulla mia guancia: “Perché tu sei mio. Non voglio cederti a nessuno, nemmeno se si tratta di Sua Eccellenza Oscura. Ho imposto il mio marchio su di te, dentro di te. Mi appartieni ormai, mi appartieni tutto.”
Contro ogni logica, mi viene da sorridere, un timido stiramento di labbra che sa di sollievo, rinnovata fiducia e instancabile amore. Sono un caso perso. Amen. 
Un istante più tardi anche lui sorride appena, curva leggermente gli angoli della bocca e i suoi lineamenti si addolciscono. Osservo le sue ali vibrare e, se prendo a riferimento Laeriel, direi che è un segno di contentezza. La sua coda descrive cerchi nell’aria, accarezzando il pavimento. 
Si accosta un po’ di più, mi fa piegare il capo all’indietro, si china e adagia la sua fronte sulla mia. I nostri occhi si incatenano gli uni agli altri e mi ritrovo a sospirare felice, dato che questo contatto mi è mancato più di qualsiasi altra cosa, persino più dei baci. Negli ultimi anni, infatti, non sono più riuscito a guardarlo in faccia come facevo all’inizio, arrendevole, fiducioso e innamorato. Troppo preso da dilemmi esistenziali, crucci e paure, ho dimenticato com’è starmene a fissare Samael in silenzio, occhi negli occhi, senza muovere un muscolo, solo per il piacere di sentirmi avvolgere da una coperta invisibile e abbandonarmi senza alcuna remora alla tana offerta da quei pozzi di lava, una cuccia calda in cui rifugiarmi con la consapevolezza di essere al sicuro.
“Archie, vieni con me.”
Vorrei rispondere sì, ma qualcosa mi blocca.
“Se mi rifiutassi, cosa succederebbe?”
Si allontana per scrutarmi intensamente, di nuovo rabbuiato: “Cesseresti di esistere, perché Lucifero tornerebbe a finire l’opera. Ma per quale motivo dovresti rifiutare? Ti sto offrendo una via d’uscita, anzi la soluzione a tutti i tuoi problemi! In quanto demone, ti toglieresti di dosso il peso dell’anima e degli scrupoli morali, saresti libero. In più otterresti incredibili poteri, poteri che un mortale neanche si immagina. Archie, unirti all’esercito di Lucifero è un’alternativa molto più gradevole dell’essere prigionieri nel limbo per l’eternità, giusto? Quindi perché esiti? E poi io sarei con te, non ti lascerei mai.”
Mi mordo il labbro e distolgo lo sguardo.
“È che non credo più nella causa di Lucifero. Cioè, una parte di me sa che in molti meriterebbero l’Inferno, ma non trovo giusto condannare anche gli innocenti, corromperli e spingerli a cadere dalla grazia per mezzo di sporchi trucchetti. Perché è questo che vuole il Diavolo, no? Non gli interessano i peccatori, poiché sono già destinati a soffrire tra le fiamme. Lui desidera insozzare anime pure, così da strapparle a Dio e al Paradiso. Per tale ragione prende di mira soprattutto i bambini o ragazzi molto giovani e io ne sono la prova, come lo erano anche Marco e mia nipote. A proposito, che fine ha fatto Laura?” mi sporgo agitato verso di lui e appoggio le mani sul suo torace scolpito, avvertendo i polpastrelli formicolare per il desiderio di tastarlo in un lungo e in largo.
“L’hai salvata.” proferisce secco e conciso, senza far trapelare alcuna emozione.
“Vuoi dire che è viva?” faccio fatica a trattenere un sorriso vittorioso.
“No, è morta, ma la sua anima è ascesa in Paradiso, insieme a quella del piccolo Archibald.”
Mi affloscio e per un attimo smetto di respirare. I miei nipoti sono morti. Non sono riuscito a regalare loro la vita che si meritavano. Ho fallito. Però il pensiero che ora siano nella luce di Dio mi dà un po’ di conforto, almeno si sono disfatti delle loro ansie e paure e possono scorrazzare gioiosi per immensi prati fioriti.
“Archie, perché non ragioni?!” mi aggredisce Samael, cogliendomi alla sprovvista, tanto che barcollo all’indietro.
Compie un ulteriore passo in avanti costringendomi ad arretrare, mi agguanta per i polsi, li stringe e mi attira a sé, facendo aderire i nostri corpi finché neanche un filo d’aria passi tra di noi.
“Perché ti fai venire crisi mistiche nei momenti meno opportuni? Perché non guardi in faccia la realtà? Perché sei così… cocciuto!” sibila alitandomi sul viso, “Sono sceso a patti con Lucifero pur di tenerti con me e proteggerti dalla sua ira, sapendo di rischiare grosso. Egli non conosce la clemenza e contestare i suoi ordini può rivelarsi fatale persino per noi Caduti. Inoltre, è restio a fornire più di una possibilità. Io, invece, ti sto dando una seconda chance, puoi fare una scelta, una vera scelta. Ovvio che alla prospettiva di un’eternità nel limbo o la distruzione totale, anch’io opterei per la seconda, ma adesso puoi decidere tra una vita diversa e la distruzione, non tra due tipi di morte. Preferiresti sul serio smettere di esistere, piuttosto che militare nelle sue truppe? Riflettici, per favore. Non agire impulsivamente, vaglia tutti i pro e i contro e decidi sulla base di un attento esame critico, d’accordo?”
Esalo un sospiro triste e appoggio la fronte sui suoi pettorali, mentalmente stanco e vagamente spossato anche nel fisico. Sarebbe bello credere che i problemi si risolveranno non appena darò il mio consenso per divenire un demone a tutti gli effetti, ma alla fine si rivelerebbe una mera illusione. Perché ho perso la fiducia nelle azioni e nell’ideologia di Lucifero e penso che i suoi sforzi siano inutili. Non si può combattere Dio, è assurdo, insensato. Al limite puoi voltare le spalle e ignorarLo, ma non puoi certo sperare di deporLo dal Suo trono. È il Padre del mondo, Creatore del cielo e della terra, non una qualsiasi divinità pagana e umanizzata. Comunque, a parte questo, ormai non nutro più il desiderio di respingerLo, non sono più arrabbiato con Lui per avermi abbandonato e lasciato ad agonizzare durante gli anni in cui qualsiasi essere umano è più fragile. Non mi interessa sapere perché lo ha fatto, non mi importa neanche di un Suo ipotetico progetto per me. Me ne infischio.
“Sam, come mai sei ancora qui?” sussurro sulla sua pelle, mentre una delle sue mani sale ad accarezzarmi dolcemente i capelli.
“Per te.”
“Voglio crederti, ma non ci riesco interamente. Mi hai ingannato, hai giocato con i miei sentimenti e forse hai anche riso di me. Non lo sopporto… perché lo hai fatto?”
“Sì, in principio ho recitato il copione come voleva Lucifero, però… ad un certo punto, non so bene quando, qualcosa è cambiato. Dico sul serio! Io non lo so, ho iniziato a sentire qualcosa. Penso davvero che tu sia prezioso. Sei prezioso per me, Archie. Il mio attaccamento nei tuoi confronti travalica ogni spiegazione logica che riesca a concepire e non… l’idea che tu possa scomparire mi fa… non mi piace. Tutte queste sensazioni mi innervosiscono, io non capisco come… cazzo!” impreca a denti stretti.
Esita, pare turbato. Corruga la fronte, si incupisce, ha difficoltà ad esprimersi, come se non trovasse le parole adatte.
“Io non voglio perderti. Resta con me per sempre, ti prego.”
Si piega, mi solleva il mento con due dita e fa combaciare le nostre labbra. Il tocco è delicato, per niente invasivo, quasi supplice, come se stesse sondando il terreno per scoprire se può osare di più. Non capisco tutta questa titubanza da dove derivi, considerando che non ha mai dimostrato alcuna incertezza in nessuna circostanza, ma ammetto che lo fa apparire… tenero.
“Con te mi sento… vivo, come se volassi nel cielo. Come quando ero ancora nella grazia di Dio…” mormora assente, “E questo… questo è una specie di… non so come definirlo-”
“Un miracolo?” gli vengo in soccorso.
“Sì, uhm, tipo. È strano, spiazzante… doloroso. Io sto male, Archie, soffro se tu mi rifiuti. Perché non mi accetti?”
“Ti amo, Samael.” dico di getto, senza soffermarmi troppo a pensare.
Lo sa che lo amo, gliel’ho ripetuto svariate volte, ma è come se adesso queste due paroline assumessero un significato diverso, più profondo, più ampio, più vero. E lui si scioglie in un sorriso genuino e luminoso, un sorriso di una bellezza accecante, che fa palpitare il mio cuore come non è mai successo. Mi tremano le gambe e il fiato si blocca nei polmoni, mentre mi incanto a contemplarlo come se mi trovassi al cospetto della creatura più splendida dell'intero universo, un capolavoro di perfezione. Non ha mai sorriso in questo modo. Mi sembra quasi di stare assistendo ad un miracolo, una manifestazione del potere di Dio.
Mi pietrifico di colpo, travolto con la forza di uno tsunami da una nuova rivelazione. Mi torna in mente il fattore E, il collante per eccellenza, il legame invisibile che connette angeli, demoni e uomini. Laeriel ipotizzò che si trattasse dell’amore, ma ora so che si sbagliava. E non sono io l’incarnazione di tale fattore, come a volte ho creduto. È vero, riunisco in me le tre dimensioni, cioè quella divina grazie all’anima, quella terrestre grazie al corpo e quella demoniaca grazie ai miei poteri, ma non c’entra niente. Tutti gli eventi accaduti e le varie circostanze mi hanno condotto qui, e ignoro quanto sia stato opera del caso e quanto frutto delle mosse di Dio o del Diavolo. Se ci rifletto, è da pazzi. 
Mio padre, il suo patto col Diavolo, la setta, il mio concepimento, i segreti; la mia solitudine da bambino, il distacco con cui mi trattavano i miei fratelli e i miei genitori - con l’eccezione di Adam, che fra tutti tentava di ignorarmi il meno possibile -, il signor Thully; e, dopo, la scomparsa di alcune domestiche e dei loro figlioletti, la scoperta della stanza delle cerimonie nei sotterranei, il sacrificio di Cody sull’altare, la disperazione causata dal non sapere cosa fare, l’angoscia di non poterne parlare con nessuno e la triste consapevolezza che, anche se lo avessi fatto, nessuno mi avrebbe creduto. Anni di solitudine, insonnia, incubi, pianti sotto le coperte, la lieve consolazione che ricavavo dal suonare il pianoforte; poi gli stupri, singoli o di gruppo, gli ospedali, la depressione di mia madre, i farmaci, le grida, le lacrime, l’odio, i tentati suicidi, la disperazione più nera, l’oscurità. Ed ecco che il mio diario brucia nel camino e Samael appare pochi minuti più tardi e mi libera dalla prigionia, facendo di me il suo apprendista. E anni dopo rinnego Dio e passo dalla parte di Satana. Eppure, l’anima di cui l’Onnipotente mi ha fatto dono alla nascita è sopravvissuta a dispetto di tutto lo schifo con cui l’ho ricoperta e avvelenata, mantenendo intatto il filo che mi collega al divino. Poi, ancora, l’intervento di Laeriel, che mi ha guidato da Marco, e quello degli Exruge Domine, di Titus, e contemporaneamente Samael e Lucifero che facevano il loro gioco; il fantasma del mio passato, il passato che ritorna con Laura e Archibald, il ritorno a Londra, dove tutto è cominciato e dove tutto finirà. È un cerchio che si chiude. 
Ma la verità è che non sono io la chiave di questa guerra, non lo sono mai stato. Dio aveva già tracciato il percorso prima ancora che Lucifero elaborasse il suo folle piano, con tanto di Messia e ambizioni visionarie. L’arrivo di Samael ha cambiato tutto, dentro di me e intorno a me. E il nostro incontro ha cambiato lui. È lui il miracolo.
“Sei tu…” esalo in un bisbiglio strozzato, fissando Samael con occhi nuovi, incapace di comprendere fino in fondo la portata del disegno a cui ho preso parte.
Piega appena la testa di lato, confuso.
“Mi ami, Samael?” domando direttamente sulle sue labbra.
Non risponde e me l’aspettavo, ma lo sguardo che mi regala vale molto di più.
Una voce indistinta e vaga che bisbiglia nelle mie orecchie mi sprona ad osservarlo da vicino. Ed ecco che la vedo brillare in fondo alle sue iridi calde come il fuoco: la scintilla divina. Il fattore E. Perché tutti veniamo da Dio e i Caduti, in quanto angeli in origine, hanno conservato inconsapevolmente quella matrice che è presente in tutti i Suoi figli. La scintilla di Samael si è appena riaccesa e sono stato io a scatenare il suo risveglio. Persino Lucifero la possiede, solo che non lo sa.
Allora la stessa voce mi dice che Dio lo ha lasciato agire indisturbato affinché un giorno Samael bussasse alla mia porta e desse inizio al miracolo. Perché l’amore è un sentimento puro e può germogliare solo là dove già c’è il seme. Non nasce dal niente. Io ho innaffiato quel seme per anni e, senza che nessuno se ne accorgesse, esso è cresciuto piano piano, manifestandosi timidamente ogni tanto e in sordina. I gesti di Samael non erano interamente dettati dagli ordini impartiti dal Diavolo, ma frutto del suo desiderio, di quella minuscola scintilla divina che albergava in lui, dormiente e in attesa di qualcuno che si prendesse cura di lei. Il suo attaccamento verso di me è stato alimentato in silenzio e senza una reale intenzione, alimentando emozioni sopite che questo povero angelo caduto non ha mai saputo spiegarsi e che l’hanno portato, soprattutto nell’ultimo periodo, a cercare di legare a sé la fonte, come un drogato che non vuole separarsi dalla sua dose. 
Un Caduto che prova amore per un essere umano, cioè un figlio di Dio, è un vero miracolo, poiché, attraverso l’uomo, il Caduto ama Dio e amandolo torna nella Luce. Tanto di cappello all’Onnipotente per questa trovata. Lucifero dovrà prepararsi a ricevere uno smacco senza precedenti.
La voce suggerisce altre cose alla mia anima e in qualche maniera realizzo che è la verità.
“Archie?” mi chiama e mi studia con perplessità.
Sorrido e unisco le nostre bocche. Samael risponde con fervore e mi avvolge con le sue ali riparandoci dal resto del mondo, racchiudendoci in un bozzolo saturo di sentimenti inesprimibili se non tramite baci struggenti.
Francamente, nonostante la rivelazione che ho appena avuto sia scioccante, non mi interessa granché. Non mi importa cosa ne sarà di me, di Samael, dell'Apocalisse e dell’umanità. Desidero solo abbattere una volta per tutte i confini che dividono me e il mio demone, nient’altro che convenzioni in attesa di essere superate. Tutto è strettamente legato da una singola scintilla, che rifulge non vista nei meandri di un labirinto fatto di tenebra, un labirinto che si chiama “vita”. Ciascun essere vivente è chiamato ad attraversarlo e le azioni compiute generano il futuro di ognuno, in una reazione a catena. La nostra esistenza è frutto delle nostre scelte, poiché possediamo tutti il libero arbitrio, persino gli angeli - e Laeriel ne era un esempio, ma prima di lui Lucifero e i Caduti hanno dato sfoggio di questo potere -, e da ogni incontro e da ogni decisione si aprono altrettante strade, che conducono ad altrettanti possibili futuri. Si può superare qualsiasi confine, a patto che prima si arrivi a concepire di poterlo fare, che sia quello della salvezza o della dannazione. 
Il peccatore può salvarsi, se accetta di essere un uomo e comprende che cosa implica davvero esserlo. Poiché ciascun uomo ha dentro di sé il seme del Male - piantato dal Peccato Originale - insieme alla scintilla divina, e perciò può diventare sia il peggiore dei demoni che il migliore degli angeli. E siamo tutti contemporaneamente angeli, demoni e uomini, poiché ognuno di noi è un potenziale angelo, demone e uomo. Questa potenzialità è insita nella matrice da cui siamo stati generati e ci trasforma seguendo i nostri più intimi desideri, mossa dal libero arbitrio. 
Ma cosa significa essere uomini? La risposta sta nel mezzo: significa essere ibridi, fallaci, in costante oscillazione fra l’una e l’altra sponda. Occorre una forza incredibile per non cadere né dall’una né dall’altra parte, ma restare sempre nel centro, fedeli alla propria umanità, alla natura con la quale Dio ci ha creati. 
Siamo stati partoriti tutti dallo stesso grembo e le nostre essenze resteranno intrecciate fino alla tomba. Angeli, demoni e umani: siamo tutti figli di Dio, identici nell’essenza più intima. I nostri cuori battono all’unisono in una sinfonia universale e i confini che ci separano sono solo un’illusione. La nostra vita si estende ben oltre i limiti che ci siamo imposti, bisogna soltanto avere il coraggio di guardare oltre l’orizzonte.
Samael è un demone, ma perché non dovrebbe essere in grado di amare?
Laeriel era un angelo, ma perché non avrebbe dovuto essere in grado di odiare?
Stupide convenzioni che rovinano ciò che di potenzialmente bello può esistere in questo mondo.
Io potrei divenire un demone per far contento Samael, o lui potrebbe divenire un essere umano per far contento me. Oppure entrambi potremmo elevarci di più e diventare angeli, basta volerlo e non temere le barriere inesistenti che scorgiamo innanzi a noi. Dobbiamo solo scegliere e siamo liberi in questo: le catene che ci identificano non ci sono mai state, le abbiamo sempre immaginate.
“Non sceglierò né Dio né il Diavolo. Voglio solo te, Samael. Sei tu la mia scelta.” pronuncio con fermezza, seppur in tono lieve, “E tu cosa vuoi?”
Struscia il naso sulla mia guancia, inala il mio odore e mi abbraccia stretto, quasi timoroso che possa sfuggirgli. Rimane in silenzio per una manciata di istanti, poi inspira e immerge le sue iridi del colore delle braci sonnecchianti nelle mie.
“Voglio te.” sussurra.
Fa per riprendere il bacio interrotto, ma si stacca all’improvviso e trattiene rumorosamente il respiro. Sbatte le palpebre, scrolla il capo, poi le sue gambe cedono e cade in ginocchio con un tonfo.
La sorpresa ci lascia interdetti per infiniti attimi. Qualcosa è cambiato, lo vedo nei suoi occhi, che brillano più del solito. Credo che abbia appena superato il confine.
Apre la bocca e urla con tutto il fiato che ha in gola. Si rannicchia su se stesso in preda ad un dolore che non comprendo, le sue ali fremono, la coda guizza impazzita e afferra con le mani le corna, come se volesse strapparsele. Assisto impotente ad una scena che mi lascia basito: le piume nere cominciano a staccarsi e si adagiano silenziose sul pavimento, ammonticchiandosi intorno a lui. Grida ancora, si dibatte in agonia, ringhia, emette lamenti strazianti che mi lacerano il cuore. Sul suo volto scivola lenta una lacrima cristallina.
Lo raggiungo, mi accovaccio accanto a lui, gli circondo le guance con le mani e lo osservo annichilito per lo shock. Dopodiché mi chino per bere quella lacrima solitaria, la assaporo sulla lingua e la commozione che mi pervade mi fa provare l’impulso di riempirlo di baci.
“Cosa mi sta succedendo? Che cosa mi stai facendo?! Smettila subito! Smettila!” esclama fuori di sé.
“Hai fatto tutto da solo. Ma non avere paura, io rimarrò con te. Sono qui.”
“Fa male…”
“Ti amo, Sam. Ti amo con tutto me stesso.”
A quel punto udiamo il fragore assordante di un tuono rimbombare dappertutto in un’eco senza fine. Le pareti del corridoio iniziano a tremare, vengono attraversate da numerose crepe da cui cola del denso liquido nero, e pezzi di cemento si staccano e si schiantano a terra, riempiendo il pavimento di polvere e detriti. I vetri delle finestre e quelli delle camere esplodono in migliaia di schegge, che sferzano l’aria intorno a noi.
Avvolgo Samael col mio corpo per proteggerlo, lo tengo giù e cerco di trasmettergli forza.
Un boato riecheggia nel limbo e scuote le sue fondamenta.
Abbraccio il mio demone, ignoro gli scheletri delle sue ali, bianchi come il marmo, che scattano in ogni direzione, contorcendosi in spasmi sofferenti, e tento di non soffermarmi a studiare gli orrendi buchi che adesso ha al posto delle corna. Anche la coda è scomparsa.
“Archie, mi fa male!”
“Resisti, tra poco sarà tutto finito.” lo incoraggio, depositando un bacio sulla sua fronte.
Un’altra scossa e stavolta sottili voragini si aprono sul pavimento, minacciando di inghiottirci da un momento all’altro. È probabile che moriremo qui, ma che importa. Che si fotta la guerra, che si fotta Dio e che si fotta Lucifero! Ho ottenuto l’unica cosa che ho sempre sognato, tutto il resto non conta più.
Il dolore sembra attenuarsi un poco e Samael torna a guardarmi con un’espressione carica di emozioni contrastanti.
“Ti odio, miserabile umano.” rantola.
Scoppio a ridere, non posso impedirmelo, e lui mi fissa come se fossi pazzo. Beh, giustamente. Gli cingo il collo con le braccia e lascio che mi attiri di nuovo a sé. Affonda il viso nel mio collo, mugola e mi fa reclinare la testa all’indietro, in modo da potersi avventare sulle mie labbra dischiuse in un sorriso. Le divora famelico, introduce la lingua ed esplora la mia bocca quasi con disperazione. Avverto il suo bisogno di me sulla pelle e attraverso il bacio gli concedo tutto senza remore, sperando che capisca quanto totalizzante sia il mio amore per lui. 
Dopo qualche minuto, la realtà perde consistenza e tutto viene fagocitato dal buio. Mi aggrappo a Samael, la mia ancora, e lui rinserra la presa di rimando. Non so più chi stia tranquillizzando chi.
Poi avverto una spinta, come una corrente tiepida che mi sballotta in avanti, e una luce si accende. Una luce piccola, eppure forte, pulsante, viva, che presto aumenta di dimensioni e ingoia le tenebre. Il mondo si fa di nuovo luminoso, ma di una luminosità accecante, quasi fastidiosa. Strizzo gli occhi, fletto le dita e riconosco tra di esse la morbidezza dei capelli di Samael. 
Ci stacchiamo, sospettosi e guardinghi, poi torniamo ad abbracciarci, come se non riuscissimo a concepire l’idea di restare lontani per più di un secondo. Accarezzo la sua schiena liscia e mi faccio coccolare a mia volta dalle sue mani.
Il silenzio fa da padrone, non riesco ad udire i nostri respiri. I miei sensi sono alterati, tanto che non capisco più dove finisco io e cominci Samael. Siamo una cosa sola ed è bellissimo.
“Ti amo.” scandisce chiaro e senza alcuna esitazione, pur mantenendo la faccia nascosta nell’incavo del mio collo.
Sbarro le palpebre e mi sento mancare. Stringo i denti, mentre lacrime di gioia mi rigano il volto. Non credevo che avrei mai vissuto questo momento. Sono così felice che vorrei esplodere e gridare a Dio e al mondo intero quanto amo questa creatura che porta il nome di “Samael”.
Dopodiché inizia ad emanare luce, come se scaturisse proprio da dentro di lui, un soffice alone che ci avvolge come dianzi hanno fatto le sue ali. Mi circonda, mi sfiora dapprima con timidezza, poi con più decisione, cingendomi con mille tentacoli di tenero calore. Sorrido e rilascio un sospiro appagato, poi chiudo gli occhi e appoggio la guancia sulla sua spalla, sconfitto dalla sonnolenza. Non sono preoccupato, so già che farò un sogno stupendo.
Samael mi bacia un’ultima volta vicino all’orecchio e finalmente cadiamo addormentati, nel medesimo istante, protetti dalla Luce.










 

Ritorna all'indice


Capitolo 33
*** Epilogo ***










 

Laeriel si svegliò nella Luce, la stessa che gli aveva dato la vita e lo aveva protetto e amato. Era a casa. Non sapeva come fosse possibile, ma dentro di sé tirò un sospiro di sollievo e ringraziò suo Padre per non averlo abbandonato. 
Alle orecchie gli giunsero gli inni di lode a Dio dei suoi fratelli, che riecheggiavano per tutti i Cieli senza sosta, un canto d’amore eterno che celebrava la Sua gloria. 
Un movimento alle sue spalle attirò la sua attenzione e, quando si voltò, osservò piacevolmente incredulo due grandi ali bianche, che gli spuntavano dalla schiena. La gioia che provò fu immensa.  Aveva creduto di restarci secco sul serio nel momento in cui Lucifero aveva stretto il suo nucleo nella mano e lo aveva ridotto in mille pezzi. Aveva sentito la sua intera essenza bruciare ed emettere un ultimo grido angosciato, dilaniata dalle fiamme infernali. Poi il nulla, ogni dolore era scomparso, così come i pensieri e la coscienza di sé. Tuttavia, l’attimo prima di venire avvolto dall’oblio aveva pregato per la salvezza del suo umano: non gli importava niente della propria sorte, per quanto terribile fosse, piuttosto gli premeva quella di Archie, che tanto aveva sofferto, anche a causa della sua inettitudine come custode. Aveva implorato misericordia per lui, supplicato Dio di perdonarlo, di vegliare su quel ragazzo ingenuo che non si meritava di precipitare nelle tenebre. Che l’Inferno divorasse invece l’angelo di nome Laeriel, che più volte aveva fallito nel conservare la purezza del proprio protetto. Avrebbe accettato di sacrificarsi con piacere, se fosse servito a risparmiare ad Archie la morte o un futuro come schiavo del Male.
E adesso, di nuovo in possesso delle sue ali e dei suoi poteri, capì cosa fosse successo. Fu la voce del Padre a suggerirglielo, un sussurro che parlava a tutto il suo essere, e in un istante sul suo volto si dipinse un sorriso radioso. 
Laeriel era felice di aver ottenuto il perdono divino e intuì il motivo: aveva amato un essere umano più di se stesso, di Dio e di tutto il Creato, tanto da rinunciare al Paradiso e alla sua essenza celeste pur di rimanere al suo fianco. Ma in fondo cos’erano gli uomini se non un’emanazione di Dio? Amando un umano aveva amato Dio, al di sopra di sé e di tutto il resto, con devozione, umiltà e spirito di sacrificio. Non era mai davvero caduto dalla grazia, l’Onnipotente aveva sempre vegliato. Perché è ciò che fanno i padri: vegliano sui loro figli.
Poi gioì per Archie e Samael, ai quali Dio aveva concesso una seconda opportunità. Aveva raccolto l’anima dell’umano e la scintilla del demone e aveva dato loro nuova dimora in corpi mortali: reincarnazione, un evento più unico che raro, poiché Egli non regalava mai altre occasioni. Si dice che la vita, per i mortali, sia una soltanto e così è, ma stavolta il Padre dei Cieli aveva voluto fare un’eccezione, forse mosso a compassione dall’amore che avevano dimostrato di provare l’uno per l’altro, o forse l’aveva deciso sin dall’inizio. Impossibile stabilire se i sentimenti di Archie per Samael fossero stati frutto del libero arbitrio o di una macchinazione divina, ma Laeriel non aveva dubbi che l’umano avesse fatto tutto da solo. Non era stato Dio a costringerlo ad amare un demone, era semplicemente accaduto. 
Di certo, Laeriel non avrebbe mai immaginato che il bambino a cui era stato assegnato si sarebbe rivelato talmente importante da spingere proprio un demone a dare una svolta alla lotta tra Bene e Male. Perché Archie era stato uno strumento, un mezzo per arrivare a Samael, la cui redenzione aveva rappresentato lo scacco matto di Dio su Lucifero. Un emissario del Male aveva aiutato il Bene a vincere, senza rendersene conto. Laeriel aveva compreso il disegno troppo tardi, ma per fortuna il Signore aveva già operato attraverso di lui, facendogli adempiere al suo compito. Poiché un essere umano che si innamora di un demone poteva già essere considerato una sorta di miracolo, ma un demone che si innamora di un umano aveva ancor più del miracoloso: amare i mortali significa amare Dio e Samael, amando Archie, si era innamorato ancora una volta di Dio, che lo aveva riaccolto tra le Sue braccia.
Così, senza alcuna memoria a guidarli lungo il cammino, prigionieri in una diversa forma e con diversi nomi, Archie e Samael un giorno, forse, si sarebbero incontrati sulla terra. Difficile prevedere se sarebbe successo o meno, ma Laeriel confidava in Dio e nel Suo progetto. Si augurò che Archie trovasse quella felicità che aveva sempre sognato, se l’era ampiamente guadagnata.
Chiuse gli occhi e continuò ad ascoltare la voce del Padre. L’ennesima valanga di informazioni lo travolse, lasciandolo un po’ intontito.
Gli Exurge Domine erano in crisi, ma non perché avessero perso una battaglia, quanto perché per la prima volta non avevano idea dell’esito della guerra. Da sempre convinti che esistesse una linea di confine netta tra Bene e Male, adesso non sapevano più cos’era giusto o sbagliato. Credevano fosse contro natura e inaudito amare un demone, una creatura non più meritevole nemmeno dell’amore di Dio, eppure uno dei Suoi figli si era innamorato di un Caduto, uno dei Nove Principi dell’Inferno e uno fra i più potenti e fedeli alla causa di Lucifero, per giunta. E quel demone, a dispetto di ogni logica, aveva ricambiato l’umano, riguadagnando la grazia. Quindi era l’amore l’arma vincente? L’amore di un essere umano, poi. E come avrebbero fatto a far innamorare altri demoni di altrettanti esseri umani? E Lucifero? 
Per quanto tali domande li gettassero in confusione, ora si stavano tutti chiedendo come mai avessero sempre agito con la medesima spietatezza di coloro che combattevano. Con la certezza che gli angeli non fossero capaci di pensare il Male e i demoni il Bene, erano caduti nell’errore e nella cecità, ignorando il fatto che già Lucifero si era dimostrato un’eccezione alla regola al principio dei tempi: il più luminoso, bello e forte degli angeli si era ribellato al Padre e aveva conosciuto il Male, quindi non era da escludersi il ragionamento inverso, cioè che un demone potesse conoscere il Bene. E infatti era successo: Samael era stato la seconda eccezione. 
La verità era che non esistevano confini precisi, ogni cosa era destinata a mutare e tutti, angeli e demoni compresi, possedevano il libero arbitrio. La crociata degli Exurge Domine aveva assunto nuovi contorni, nuovi scopi mai concepiti e il futuro, ora più che mai, appariva pieno di possibilità.
Comunque, da quando Samael se n’era andato, nelle profondità dell’Inferno Lucifero era all’erta, non avrebbe permesso che un altro dei suoi cadesse vittima di quella trappola. I demoni erano vigili, decisi più che mai a non farsi coinvolgere più del necessario. Avevano stabilito nuovi ruoli, nuove regole, nuove gerarchie. Lucifero non voleva lasciare più niente al caso e avrebbe monitorato l’operato delle sue schiere con meticolosità, pieno di rancore per la sconfitta subita e per la prima volta spiazzato dall’evolversi degli eventi.
La guerra si sarebbe protratta ancora, ben lungi dal giungere ad una conclusione, ma all’orizzonte, finalmente, si poteva scorgere la speranza. La strada era irta di ostacoli, eppure il traguardo non era impossibile da raggiungere. Archie aveva aperto una porta che tutti credevano sigillata e aveva mostrato una via che mai nessuno aveva considerato. Come Gesù Cristo era stato il Messia degli uomini, così Archibald Blackwood era stato inconsapevolmente il Messia di angeli e demoni: aveva spalancato non solo i loro occhi, ma anche il loro cuore.
Laeriel rise e si unì al coro degli angeli, cantando l’onnipotenza del Signore e rendendoGli grazie per tutto.
All’improvviso la Sua voce invase di nuovo la sua coscienza e in un attimo seppe cosa doveva fare. 
Si sporse ad osservare giù, tra i mortali, finché non individuò la città e l’edificio indicatigli dal Padre. Aguzzò la vista e il suo sguardo si posò su una donna, sdraiata sul letto di un ospedale. Stava partorendo ed era bellissima, come può esserlo solo una madre che sta mettendo al mondo il proprio figlio: il suo viso era rosso per lo sforzo, le rughe le solcavano la fronte, i denti erano digrignati per la fatica e i suoi lamenti disperati rimbalzavano fra le mura della stanza, eppure in quel momento era ammantata della Sua luce. Il dottore e l’ostetrica la incoraggiavano a spingere, a non mollare, le tenevano la mano, esortandola a donare la vita alla creatura che portava in grembo e non vedeva l’ora di nascere. Si stupì che il piccolo non avesse ancora un angelo custode, ma un secondo più tardi intuì che Dio stava aspettando lui. 
Laeriel sorrise, si sporse e cadde. Sbatté freneticamente le ali, ma non fermò la discesa, impaziente di conoscere il suo nuovo protetto. Mentre precipitava, scoccò una rapida occhiata intorno a sé e vide dei custodi risalire, pronti ad assumere un altro incarico, e altri cadere in picchiata dai Cieli, diretti in ogni angolo della terra. Rise di cuore e alcuni lo imitarono, e nell’aria si diffuse la loro risata argentina.
Atterrò al fianco della donna proprio quando il dottore stava estraendo il bambino, che emise il primo vagito, e con gesti esperti tagliò il cordone ombelicale.
“Il nome?” chiese alla madre.
“Sam.” soffiò lei con un filo di voce, esausta ma felice.
Il neonato strillava come un ossesso, con la faccia gonfia e le manine chiuse a pugno. Prima di consegnarlo all’infermiera affinché lo lavasse, il dottore gli accarezzò la testa pelata, eccezion fatta per qualche ciuffo di capelli neri, e gli diede un buffetto sulla guancia. 
“Benvenuto, Sam.” gli sussurrò con dolcezza.
Laeriel si avvicinò immediatamente ed entrò nel campo visivo del piccino. Lo scrutò per un paio di secondi, pieno di stupore, poi sorrise intenerito e gli ammiccò. Sam gorgogliò e, come se avesse percepito la sua presenza, smise subito di piangere.


 

Fine 





Ed eccoci qui, alla fine di un’altra avventura che mi ha preso due anni. È stato faticoso, a volte ho pensato di abbandonare il progetto, ma grazie a voi, lettori silenziosi e recensori pazienti, sono andata avanti. Il vostro sostegno è stato decisivo e vi ringrazio dal profondo del cuore per aver seguito le peripezie (e le seghe mentali) di Archie. Che dire, in questa storia ci lascio un pezzo di me, mi sono impegnata molto e quasi non mi sembra vero di averla conclusa. Devo assimilare lo shock XD 
Per chi ancora non l’avesse fatto, vi invito a farmi sapere se la storia vi è piaciuta o vi ha fatto schifo, sono aperta anche alle critiche, purché costruttive, e siete liberi di segnalarmi eventuali errori o incongruenze che avete riscontrato durante la lettura (se ce ne sono, spero di no >.<), poiché mi aiuterete nella revisione che seguirà a breve. Mi auguro di non essermi persa dettagli importanti per strada ^^’
Poi, per chi fosse interessato, ho una pagina facebook (Lady 1990) in cui ho inserito le immagini di Archie e Samael e spero di trovarne qualcuna anche per gli altri (finora non sono stata fortunata). Tali immagini, ovviamente, sono solo indicative e non rispecchiano a pieno il personaggio come me lo sono immaginato io (o come ve lo siete immaginato voi), quindi prendetele solo come spunti ^^
Concludo qui, mi sono dilungata fin troppo. Grazie a tutti, vi mando un bacione!
Lady1990

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1447370