Tempo Antico di Blacket (/viewuser.php?uid=79894)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo sesto ***
Capitolo 7: *** Capitolo settimo ***
Capitolo 8: *** Capitolo ottavo ***
Capitolo 9: *** Capitolo nono ***
Capitolo 1 *** Capitolo primo ***
Tempo antico cap 1
Note
utili: non volevo iniziare con le note, mi spiace spaventarvi.
Sarò più breve possibile, concisa e quel che occorre.
Essendo
un AU dove compaiono gli Ancients, spesso dovrò creare la
personalità ed informazioni che l'autore stesso non ha mai
precisato, o trascurato. Compare immediatamente Diederik, ossia
scandinavia, che ho scelto essere fratello di Magna Germania.
Cercherò
di essere il più possibile precisa nei legami storici, anche se
in un contesto simile è -se non difficile-, impossibile. Se
avete correzioni o consigli di qualunque tipo, fatemi sapere!
Note
poco utili: si tratta di una fic particolare- non essendo più
attiva nel fandom, l'avevo accantonata con dispiacere, ed oggi l'ho
ripresa (forse con coraggio, chi tratta ancora degli antichi?)-
nonostante gli impegni vari ho già preparato la prima parte
della storia, che irrimediabilmente subirà cambiamenti,
tant'è.
Spero di poter vedere nuove persone appassionarsi a questi personaggi, che tanto mi stanno a cuore.
Personaggi:
Lucio Cincinnato (Antica Roma), Ariovisto Beilschmidt (Germania Magna,
il nome suona particolarmente male, è voluto), Diederick
Beilschmidt (Scandinavia).
Tempo antico
-capitolo primo-
“All’inizio di una vita
ben spesa, Io fui empio, intento a disfare strade percorse da altri e
rifarne di mie, e volendole rendere praticabili ho rotto i miei piedi e
spezzato le mie gambe, avendo come spettatore il cielo.
Grigio, un uragano, sorrideva verso me.”
La Torino del 1755 porta
nell’aria il nuovo ed il ferro; si fa grande pian piano sotto la
sicura dei Savoia, che voglion là le reali presenze, per poi
goderne.
Ora che la città alza fiera
i fumi del proprio lavoro, la mattina si ferma per poco a sospirare
d’impazienza: era il diciotto ottobre, e l’aria pallida
tremolava e fremeva attorno ai movimenti sicuri della Torino operaia.
Ariovisto ne annusò l’odore umido e bagnato, e gli ricordò casa.
Cercò, forse illudendosi
speranzoso, il muschio scuro degli abeti e la chioma bruna dei pini, il
cinguettio lontano dei passeri migranti- trovando solo il ciottolato
composto e dei guardinghi pennacchi sulle case più alte.
Impiegò un respiro profondo,
quel giovane tedesco, per dissimulare lo stupore e la rabbia ribelle
che pungeva le gote, e gli occhi verdi e diffidenti. Questi ultimi,
selvaggi, erano divenuti il metodo di comunicazione più efficace
in suo uso; puntandoli poi sull’Accademia, si intese la
vicendevole repulsione.
Ne osservò curioso la
squadratura, la componente di più stabili, e la studiò da
lontano come un nemico non voluto, seguendo ad ammirare e detestare la
salda figura dell’edificio.
-Non averla così in odio, Ariovisto.-
Il giovane osservò muto il
fratello, e la divisa blu che corredava il suo disgusto. Infine
rifiutò di vederne lo sguardo buono, ed i capelli legati secondo
etichetta.
Diederik era un candido punto
bianco fra vie fuligginose e sguardi indiscreti, portava con eccessiva
baldanza lo stereotipo base del grande uomo del nord, e sul volto
marcato aveva incise le tracce delle sue origini. Le adornava con
discreta nostalgia.
La visibile differenza fra i due,
per l’appunto, sedeva nell’immagine data di sé e di
quella che si rifletteva nei loro occhi chiari- le avrebbero chiamate
opinioni, se non fossero stati entrambi così bramosi di scovare
novità nel paesaggio, come fa in eugual modo la bestia ferita e
tolta dal loco natio.
Se il più grande dei due si
adattava ammorbidito dall’esigenza, Ariovisto in cuor suo ancora
scalciava urlante, preso nel suo odio verso Torino, e grato di aver
ricordi buoni e profumati su cui rimuginare.
-Se non vuoi che ti dia il suo calore, almeno lascia che ti regali un riparo e del cibo. -
Ora Ariovisto sente gli abiti
stretti ed il cuore borbottante, è estraneo agli altri e a se
stesso- non vi è nulla che lo accolga dopo un viaggio
disturbante quanto terribilmente sofferto.
Ha occhi solo per i sapori lontani delle sue terre, e nella sua ignoranza ne trova alcuni nella voce del fratello.
L’accademia militare di
Torino, nell’anno corrente, rappresenta l’avanguardia
dell’insegnamento- modestamente cosmopolita, d’ampia veduta
illuminista, economicamente sorridente, in quanto si dava diritto del
vanto di poter ospitare giovani allievi aristocratici e borghesi di
paesi differenti.
Orgoglio!, sentimento così
ben suddiviso fra studenti e militari, volti inconsciamente o meno
verso il progresso, troneggiante nella Guardia reale e l’esercito
studente, capace di un caloroso benvenuto alle reclute volontarie.
“Il
militare è ora felicemente in ginocchio verso la sua fazione, e
nel caso di fortuna avversa se ne aggrapperà con forza, trovando
in lei buone parole.”
L’Accademia urlava in faccia
la propria rilevanza, e non fossero le mura stesse ad esser austere e
fredde, Ariovisto le avrebbe sentite bisbigliare curiose ai suoi lati,
fra le divise e i tomi di sapere, riecheggianti sulle alte volte. Vide
poi i volti curiosi dei giovani pronti a far carriera, che veloci
scivolano fuori dalla loro adolescenza; eppur trovano tempo di lanciare
un occhio veloce all’entrata, poiché dei probabili figli
d’Asburgo varcavano la soglia di un posto che semplicemente non
era loro.
L’ambiente li rifiutò con fretta, cercando di marcare il contrasto delle loro spoglie bianche e selvagge.
Non aspettandosi altro che il
delinearsi di una mancanza profonda, Ariovisto prese di nuovo aria, e
sperò fosse fredda, poiché poteva saggiarne di uguale al
nord- e giusto la presenza di lei, “dolce”, pensò,
fu per lui una mera consolazione.
-Ti diranno come e dove lavorare,
dove alloggiare…- preoccupazione istintiva del fratello
maggiore, che lo portò a stringere con vigore la spalla del suo
familiare, nascosta da un vestiario troppo sobrio e semplice, troppo
sporco per l’élite. –Parla, Ariovisto.-
Sorrise poi perché in colpa,
perché timoroso di dimenticare il volto di un passato più
roseo a cui aveva voltato le spalle da tempo.
Il più giovane era sempre
stato malinconico e curioso, e pure saltando a piè pari
l’adolescenza si trascinava cocciuto la sua frustrazione.
-Non ho niente da dire.- fu
semplice, quanto i suoi più fervidi desideri ed il suo essere.
Nella sua gioventù, non conosceva altra complessità che
quella del suo pensiero.
Vi fu una seconda pacca vigorosa
sulle spalle ed un saluto poco formale- lì Ariovisto riconobbe
suo fratello, nella camminata sicura e le falcate grandi, ed il curarsi
di lui con un sorriso ed un drastico abbandono; osservò
più arrabbiato il corridoio ampio, perso.
Si rivide nel quindicenne inesperto
quale era, che ignorava sia francese che italiano piemontese, su di lui
sguardi ed occhi compassionevoli, sconosciuti ed estranei capaci di
vedere il mondo un gradino sopra rispetto a lui.
Studiò la costruzione
con cura, la serie di vetrate in rigida fila, il pavimento liscio e ben
levigato, la dispersione dovuta a quell’esagerata e voluta
grandezza; e d’improvviso la solitudine gli pesò meno,
poiché altro aveva da pensare.
Il suo senso felino si acuì,
ed il respiro si fece leggero, gli occhi grandi e l’udito teso ad
un equilibro più precario. Si sentiva osservato, e gli occhi che
indecentemente lo tastavano nascondevano un’anima feroce.
Voltandosi vide la sua preoccupazione, che crebbe e si assestò poi sul suo orgoglio, impietrita.
Rompendo la monotonia del
chiacchiericcio provinciale, un ragazzo bruno si fece avanti- nella sua
acuta provocazione, i suoi gesti ed il suo fare chiedevano luce ed
attenzioni. Era sicurezza e genuina gloria quella di cui si vestiva, e
nel suo passo fluido si ricalcava il superiore condottiero.
Fu vicino ad Ariovisto, ed il suo fiato sapeva d’oro.
-Visto da lontano, somigliavi ad una donna.-
scherno, mostrò i denti felini con un sorriso accomodante, lo
scrutò da sotto i ricci scuri- mostrandosi poi incredibilmente
padrone delle proprie parole, sfiorò incauto i suoi capelli
biondi.
Parlò ed Ariovisto non
capì, l’accento particolare lo confuse, le parole ignote
lo intimorirono; il suo sguardo rimase vigile su quel particolare
ragazzo, sugli occhi voraci e la barba appena accennata.
-Barbaro.- un sospiro da parte
dello sconosciuto, un’altra parola vuota per Ariovisto. Gli occhi
scuri scivolarono intraprendenti sulla sua figura, ed il tedesco si
sentì abbracciato da un’attenzione spinosa e scomoda,
punto poi dalla ridente superiorità dell’altro.
Cercò di scostarsi, diffidente, quando di nuovo sentì il tono pretenzioso del riccioluto conquistatore.
Il tedesco era così giovane
e poco istruito al pensiero astratto, che ancora non era in grado di
analizzare l’effetto bruciante che quello sconosciuto dedicava
agli altri, ed il suo rimuginare si traduceva solo in confusione.
-Se parlo tedesco, mi capisci?
È questa la tua lingua?- sorrise ora, quasi intenerito; e per
Ariovisto fu solo una vergogna montante, devastata nel colorito del
viso, non pudico ma rabbioso.
-Adoro gli animali esotici.-
La risa ironica non scomparve, ed
il ribollire nei suoi occhi divenne lacerante, insostenibile per
un’indole tanto impulsiva e orgogliosa come quella di Ariovisto-
che avrebbe voluto scorgere la bruma mattutina, le fronde cariche
d’acqua e la natura prepotente, il cielo plumbeo e turbolento, il
calore del focolare di casa.
I suoi occhi reclamavano il verde
vivo delle colline, chiedevano delle case profumate e dei fiori e delle
poche parole pronunciate, dato che a lui non ne sono mai servite molte.
Fu per questo, che caricò il pugno destro e lo colpì.
Note volanti:
Grazie! Grazie lettore, che con pazienza e forse curiosità sei arrivato al fondo.
Chiunque abbia idee, correzioni,
probabili aggiunte (perchè no?) e consigli, non esiti a farmelo
sapere lasciando un commento o una breve opinione.
Buone cose, un abbraccio!
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Capitolo 2 *** Capitolo secondo ***
tempo antico due questo
Note: in questo capitolo introdurrò un personaggio
particolare, parecchio difficile da trattare.
Rappresenta il popolo celta, ed è stato magnificamente
creato da Kochei, che grazie alla sua arte e al suo talento, quanto la
sua precisione, mi ha concesso di usarlo per questa storia. Potete
trovarlo su ask-the-celts, soprannominato come papa Celt (è,
tra l'altro, un ask blog divertente e dinamico, lo consiglio!).
Vi era un sentore dolce di zuccheri, un amaro mascherato dalla chimica
più nuova- fastidioso ed acuto, tappava le narici e
indolenziva gli umori.
Esso, prepotente, copriva l’umidità nascosta sugli
alti soffitti, che pacata rimirava uno dei suoi figli accucciato e
guardingo ed intimorito, livido nella sua folle anima quanto sul volto
pallido.
Ariovisto teneva le mani strette e convulse, il viso stropicciato nel
suo ribelle essere e nella bruciante sconfitta- giovane come lui,
fiammeggiava indomita.
-Sei un cretino.-
la pronuncia impura e sibilante, nuova derisione unita ad una sana
curiosità, fastidiosa quanto bastava per non darle adito.
Il rosso, quel leone, lo affiancava iroso per i fatti suoi, spesso in
movimento, inacidito ma compiaciuto dell’avvilente
stupidità del tedesco; alzare le mani su uno studente
dell’accademia militare! Sfidare rabbiosi un più
che benestante dalle larghe vedute, dal potere di interessante portata.
-Si chiama Lucio, ricordati il suo nom-..- e rise di nuovo,
disturbante, scuotendo la chioma rossa e folta e ribelle, sbarazzina e
acuta come il suo animo.
Il suono strideva minaccioso, ed Ariovisto potè solo volgere
uno sguardo eloquente alla rubiconda figura rossa di quel ragazzo che
in poche parole avrebbe dovuto spiegare le sue mansioni- ed erano
così simili, sotto gli sguardi beccati e la pelle e le ossa.
Vi era in lui l’essenza concentrata di isolamento e rabbia,
tanto forte e odorosa da farla percepire ad Ariovisto, altro malato del
vizio chiamato orgoglio. S’insinuava serpentino fra le
fessure della loro corazza, e sibilante annunciava il proprio cammino-
così possessiva e sicura, l’indole selvatica di
entrambi chiama la terra lontana, ne ulula il nome piangendo di quei
capelli e tratti diversi che l’ambiente par rigettare.
Il biondo lo aveva percepito nel passo pesante ed il borbottio di
fondo, l’etichetta che solo le umili genti portavano, forse
pregne d’ignoranza- si era presentato con il ghigno di una
volpe, e rosso e bruno era entrato nella stanza facendo vacillare la
sua solitudine vaneggiando di come e perché “hai tentato di dare
un pugno a Lucio, a quel bastardo!”.
Ignorando il compagno, Ariovisto tastò grave la
luminosità scarsa della stanza, così fioca e
breve, così veloce e fallacea; la candela che aveva a
disposizione era un moccio consumato, e la fiammella rimaneva
accucciata innanzi alle finestre e scoppiettava sull’occhio
nero del ragazzo- sciocco, credere che quel lupo, quel Lucio,
non avrebbe risposto alla sua provocazione- e fu un bene preoccuparsi
del male e della sua vergogna, della sua becera stanza e
dell’umido forte, degli occhi fugaci di
quell’italiano riccioluto, poiché al loro posto vi
sarebbe stata l’immagine sorridente della sua casa in
territorio Austriaco, il grembo materno ed il dover lavorare a schiena
curva fra borghesi e militanti.
Tastò insicuro la pelle molle e dolorante
dell’occhio destro, si morse le labbra subito dopo.
-Bionda,
capisci il mio tedesco?- serio, Connell, come disse di chiamarsi, volse
lo sguardo ad Ariovisto; e non vi erano lampi iracondi o meschini,
quale semplice e devastante normalità.
-Mi irriti.- ed ora il giovane biondo, sebbene nel suo fastidio,
mostrò coinvolgimento che in effetti piacque
all’altro, che sottolineò becero il “bionda”,
prima di lasciargli una risata sommessa. Accennando poi ad andarsene,
si alzò malamente, trascinando un fisico fin troppo alto e
dal portamento contadino.
Tutto in lui era riflesso d’una natura indomita:
portò fugace una mano ai pantaloni, alleviando fastidiosi
pruriti e abbattendo feroce il termine di grazia, cercando un varco per
uscire dalla stanza scura.
Ed il buio, tanto suadente, sussurrava rimorsi all’udito teso
di Ariovisto, di nuovo malandato e goffo nella sua inadeguatezza.
Respirò per la prima volta sul guardo alto delle stelle, e
la loro piccola luce intermittente- ora il volto rilassato, gli occhi
stanchi nella scura immensità del vuoto, coscienti di aver
cambiato vita ma non cielo.
L’accademia si svegliò su giri di valzer,
vorticosi e letali nel saluto dei cadetti, brulicante
d’aspettativa fra le menti acute di futuri intellettuali;
dirigente, l’austero edificio si sottoponeva al principio di
massima economia, quale il controllo delle attività,
compartimentazione e collocamento- rigido nei costumi, pretendeva la
presenza di buonsenso e dovere, intenta com’è a
farsi vanto di lei stessa.
Saluta il sole in anticipo, nella pallida bruma d’un autunno
malato- danza il velo di nebbia basso a terra, le divise blu ed i gesti
indaffarati di chi s’è alzato presto, tanto da
poter salutare con riguardo la luna.
Ariovisto stesso le fece cenno, impastato dal sonno e
dall’inevitabile dolore al volto, iniettato di stanchezza,
ammaccato, seguì il suo spaesamento sul pavimento liscio dei
corridoi, legato ora ai suoi doveri.
S’intese presto- menagramo a chi disse il contrario- che
Lucio non mosse dito o parola per aggravare la condizione del tedesco;
lasciò cadere il fattaccio e non si prodigò per
raccoglierlo, peggio ancora per l’orgoglio smisurato di
Ariovisto, ora a testa china e traboccante di repulsione.
L’italiano giocava con carte diverse dalle sue, e parevano
assai più complete e complesse, preparate ad essere
utilizzate per gonfiarsi di vittorie fisiche e mentali. Lucio era un
lupo, ed era più furbo di lui.
Null’altro che la solitudine, per il biondo, fu rasserenante
quanto un medicinale. Ringraziò d’aver avuto un
compito facile, e la mente guizzava dispettosa sia alla voce secca di
Connell “Archivia
le armi bianche,
biondina!” ed il fratello.
Per quanto infantile, Ariovisto sperò nella totale ignoranza
di Diederik sull’accaduto, e forse di vederne la figura; non
per consolarsi, quanto averla vicina.
Il giovane aveva sempre avuto una mente sensibile e felina,
incontrollabile a differenza del fisico già stranamente
maturo per un quindicenne, confusionaria e audace. Il pensiero si
articola in più rami, e questi diventano folti e scuri, per
quanto spinosi e carichi di rovi s’intrecciano, e fan fiorire
preoccupazione.
Ariovisto li analizza e scruta, e non fa che paragonarli alla pianta
complessa dei primi piani dell’Accademia, sì bella
e pulita, quanto persa e grande.
Il salone da scherma occupava uno spazio ovale e caloroso, chiuso
quanto ampio; lasciava trapassare la luce livida da piccole arcate e
sapeva di polvere. Questa defluiva in spirali veloci, fendendosi
attorno ai gesti rapidi degli allievi, ora spadaccini.
Portavano l’abito bianco del mestiere muovendosi secondo
tecnica- eppure, curiosi, si affollavano nei dintorni di una figura
particolare, che pareva dar prova della sua particolare bravura.
Il lupo non arricciava il pelo furente, piuttosto serbava controllo e
forza, per poi agire guidato da istinto e acume; la marcia perfetta di
una bestia letale, indomita e padrona.
Ariovisto osservò i suoi muscoli guizzare
all’improvviso, ed essere precisi e delineati.
Guardò con un tuffo al cuore –furioso!- il fisico
prestante allungarsi e schivare e muovere passi contati, sino alla
vittoria.
Lucio accoglieva sornione sia applausi che invidia, divertito dalla sua
bravura.
Ed Ariovisto ora era al lato della sala in compagnia di una morsa
furiosa allo stomaco, un digrignare seccato dei denti, un pulsare
frenetico del suo occhio malandato.
Il fastidio di aver un tale personaggio lì innanzi ad
acclamare gli applausi, quando lui doveva pulire ed accatastare spade e
fioretti- un divario abissale fra alta borghesia ed umile persona,
ingiusto quanto sofferente.
Il biondo fece scivolare un panno sull’elsa
dell’arma più vicina, temerariamente
concentrandosi su di lei e la sua linea.
-Tu, Barbaro!-
la voce sonora e forte di Lucio implose, s’adornò
di malizia e superiorità –Ti ho fatto troppo male
ieri?- iniziò ad avvicinarsi a grandi falcate, di nuovo gli
occhi scuri divennero un pozzo fondo e pieno della sua
personalità. Luccicarono curiosi sulla figura del tedesco,
accoppiati ad un’espressione ora torva e lunatica.
Ariovisto divenne rigido ed il cuore impazzì di conseguenza,
allarmato dal pericolo ed animato dall’onta subita
precedentemente. Incontrò il suo sguardo con coraggio,
sapendo di non possedere null’altro di più
eloquente che le iridi chiare, innaturalmente mutevoli.
-Sei stato stupido a volermi colpire, ieri.-
L’italiano sorrise ora, buono, accompagnando nel suo gesto
anche i ricci scuri- e tutto in lui era un movimento armonioso ma
ridondante. Lucio era padrone e soldato di una terra sconosciuta e
lontana, calda e vivace e la teneva stretta a sé e cucita
sottopelle come uno dei ricordi più cari.
-Io ho il dovere di farti capire quanto pericoloso tu possa essere.-
mosse nuovamente il corpo verso di lui, intrappolato nella divisa, ed
Ariovisto l’osservò con titubante pazienza. Ogni
cosa dell’italiano era diversa e affascinante,
perciò la detestava.
Il lupo concluse la sua recita indicando serio la spada che Ariovisto
teneva stretta in pugno, chiamandolo guerriero, sfidandolo, facendo
scivolare sulla sua lingua il tedesco con una terribile morbidezza.
-Ti sfido! Afferra la spada, sei hai coraggio!-
Il più giovane lo vide posizionarsi deciso, forte e
calcolatore, e fece lo stesso di rimando. Gli aveva appena offerto una
trappola, puntando dritto sul suo sentimento ferito, perché
se Lucio era addestrato e talentuoso, Ariovisto ricordava
l’istinto grezzo: l’uno adornato da divisa,
l’altro da stracci; l’uno sorrideva sbieco,
l’altro mostrava prorompente uno sguardo selvatico.
Senza un vero e proprio maestro a sorvegliare la sfida ma con occhi
curiosi di pettegoli astanti, il tedesco afferrò stretto
l’elsa ruvida, ad una maniera tale che Lucio rise per la sua
stranezza.
Respirarono l’aria legnosa e ferrigna, prima di liberare la
mente e muovere entrambi il primo passo.
Il primo di quei borghesotti intenti a parlare sommessi, non si
stupì nel constatare che il bruno parava con disinvoltura
gli attacchi ricevuti, mentre il secondo, non più sveglio
del primo, seguiva interessato la figura del biondo sconosciuto, che
ancora non era stato sconfitto.
Si agitavano in una sfida che pian piano diveniva sentita ed ansante,
cambiando piedi e posizione, negli umori fragorosi che agitavano i due
ragazzi.
Lucio si confermava un canide dal pelo irsuto e dal pensiero profondo-
poiché Ariovisto ancora non aveva decifrato la sua
decisione, non ne aveva tempo, e non aveva scorto il genunino interesse
che lo aveva portato a voler dichiarare controllo su di lui, per quanto
ambiguo.
L’italiano, quel gran filosofo, nel suo straparlare teneva in
considerazione l’ambiente di cui era circondato, e non era
intenzionato a convivere con pericoli quali un biondo giovane e
rabbioso e violento, dagli occhi smeraldini e lo sguardo triste.
Continuarono quella danza sudata ed aggressiva per poco tempo, si
presero tempo per conoscersi in un modo anticonvenzionale e
fraintendibile; ciò prima del veloce scarto destro di Lucio,
della mancina immobile e la sua lama puntata alla gola di un barbaro
caduto a terra, ansante e nuovamente sconfitto.
Ariovisto tremò di nuovo, iracondo, osservando lo sguardo
schifosamente benevolo dell’avversario, e percepì
gli applausi di poi come sberle.
La sua netta inferiorità lo incupiva, la sua
incapacità intaccava un umore che riusciva a controllare
pian piano- e sperò fortemente di affinare col tempo quella
sua tecnica.
Eppure aveva innanzi un ragazzo dai particolari pensieri, ed ora dalla
fronte sudata, che si affrettò a smorzare la reazione della
piccola folla, cacciandola con un gesto di cortesia.
- Sei stato bravo.-
Tese poi la mano, con l’intenzione di offrire aiuto- regalo
che Ariovisto rifiutò, ignorandola ed alzandosi, paonazzo
per la fatica e l’indignazione, eppure serissimo. Odiava
mostrare una simile debolezza, e tentò, scostando lo
sguardo, di camuffarla.
- Mi piaci, sei interessante.- Lucio figurò mollemente un
sorriso, pungendo l’occhio già livido
dell’altro con il suo sguardo felino. Ed Ariovisto, a quel
tragico e terribile punto, non riuscì a reggere
più la sua presenza, ed irritato, frustrato, calpestato come
lui pensava d’essere cercò l’uscita, non
riuscendo però ad evitare l’insistenza
incredibilmente benigna del romano.
-E qual è il tuo nome?- si fece silenzio, in un trepidante
attendere; una scena tanto banale quanto stupida, che pure tale,
diverrà un germoglio sano ed incredibilmente potente dei
loro ricordi.
-Ariovisto.-
Il biondo non si voltò, eppur ricevette, suo malgrado,
un’ultima stoccata, una risata piena ora confusa dalla
polvere e dalla luce, -Che nome ridicolo!-
Solo poi, nel tornare a pulire, si notò un inaspettato e
forte odore di legno, ed esso sgusciava lento da travi scaffali,
incredibilmente dolce, incredibilmente piacevole.
Ringraziamenti dovuti:
Grazie a H2o, Adeline_Mad, McBlebber, Aranciata_, GrandeMadreRussia,
Il_Signore_di e Cosmopolita che hanno recensito. Grazie per i vostri
pareri e per la vostra attenzione, risponderò in privato a
qualsiasi altra domanda vogliate farmi!
Grazie infinite a Kochei e al suo meraviglioso talento, che mi ha
permesso di inserire un bellissimo personaggio nella mia storia;
e grazie a te, lettore, che hai avuto buon cuore di leggere il tutto.
Baci, Blacket.
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Capitolo 3 *** Capitolo terzo ***
Tempo antico 3
"Così giovane, così sciocco."
-Avanti, mangia!-
Connell diede sfogo a quella sua
voce rauca e sporca di un terribile accento tedesco. La fece scandire
secca ed asciutta, e ribollente fra le pareti strette della taverna,
illuminata prepotentemente dal chiacchiericcio insistente dei clienti,
ridondante nella sua effettiva modestia.
Vi era uno sciabordio continuo di
pinte piene, e le risate gonfie di stanchezza e sudore- sedevano operai
unti dal ferro e la fatica, dalle mani callose e grandi e stanche.
Ariovisto non apprezzava il rumore
insistente, ma il silente senso di comunanza che derivava dalle vesti,
dai modi, lo tranquillizzava e chetava come un animale selvatico oramai
domato.
-Signorina, non ho intenzione di aspettare che quella faccia fessa
rinsavisca, mangia.- tirò da parte di capelli folti e rossi,
ponendo poi una mano sulla barba che già iniziava a crescere,
tempestando il volto d’una peluria purpurea, -Come mai sei finito
a Torino, poi?-
Sul bollore continuo delle voci altrui, il giovane biondo prese a mangiare, osservando con diffidenza il suo compagno.
Eppure non si lamentò come
dovuto, non fece intendere la sua rabbia e la sua stizza, in quanto la
polenta e la carne lasciata nel piatto davanti a sé catturavano
con ferocia la sua attenzione- affamato ed in un certo senso
riconoscente, dimenticò gli spifferi freddi che sgusciavano
maligni da sotto i vetri, ed il legno dei tavoli dall’odore
alcolico, il volto spigoloso di Connell che lo osservava soddisfatto.
Fra le luci dorate e opache del
posto, Ariovisto approfittò di quella magra consolazione alla
sua becera condizione, che nemmeno tentava di accettare- oh!, ragazzo
impudente e selvaggio, sopravvive solo il cauto che scaccia
l’infido orgoglio e si adatta volgendo la mala sorte ai suoi
affari, non certo la tua rabbia.
Connell fiutava silente
l’anima ribelle del biondo, e si compiaceva, sornione, di aver
trovato un altro individuo tanto impudente e cocciuto. Sebbene
più giovane di lui, Ariovisto gli somigliava nello schietto modo
di mangiare e riempirsi la bocca con fretta, quasi a voler impedire al
cibo di fuggire, poiché vi era un solo tipo di fame che portava a quell’esasperazione.
Insoddisfazione.
-Hai proprio capelli da donna. Come il culo, del resto.-
Il tedesco tossì più
volte, spaventato dall’affermazione così grezza e dura,
tremenda perché fatta scivolare in modo naturale dalle labbra
del rosso, tranquillo e curioso nell’osservare il rossore
prorompente delle guance di Ariovisto: è ancora troppo inesperto
ed altalenante per poter nascondere l’imbarazzo sotto uno sguardo
carico d’odio.
Dopo la tosse dalla sua gola
uscì un ringhio infastidito, uno sguardo tagliente quanto la
brina serale, ora umida ed aggrappata alle inferiate legnose, grattava
sulla pelle, la penetrava con indiscrezione.
Per quanto fosse animato da insano
fastidio, Ariovisto apprezzava il latitante silenzio dell’altro,
impegnato a fischiettare una vecchia giga dai toni opachi ed imprecisi-
non vi era necessario ausilio di parole, tanto di gesti o di inutile
sproloquiare, ambi apprezzavano il silenzio oltre il rumore soporifero
del luogo, gli odori acri e pungenti, i chiari scuri stilettati sulle
pareti dalle poche luci.
Il giovane vide, fra i ricordi
mutevoli e foschi, le osterie appollaiate nei pressi della
Schwartzwald, che più lontana ululava il suo mistero e la sua
potenza.
Era scura e violenta, sfidava la
volta scura con le sagome appuntite dei cipressi e i pini, dirimpetti ,
precisi soldati di guardia. Volle ricordare ancora l’odore di
muschio e bagnato, il tempo lontano nel quale lui e Diederik si
allenavano con un paio di spade di legno, complici di desideri e
speranze molto simili- immersi in una semplicità genuina e
felice.
E d’improvviso, le memorie si
fecero più violente e fastidiose, atte ad incorniciare il muso
appagato di Lucio, che giorni prima lo aveva sconfitto dopo poche
stoccate. Aveva mostrato le fauci in un sorriso, sorprendendolo
impacciato persino dove credeva d’eccellere, facendo poi leva su
una bontà che Ariovisto disgustava.
Non la comprendeva, e per questo non la assaporava con la stessa attenzione con cui lo faceva Lucio.
Ricordò poi i ricci scuri, i gesti semplici e calorosi.
S’innervosì.
-Ah, domani hai da fare la
biblioteca. – Connell lo riscosse battendo una mano sul tavolo,
annuncio palese della sua stanchezza e malavoglia, minaccioso a vedersi
se incorniciato dalla ribelle chioma rossa, sorretto dalla sua
vertiginosa altezza nonostante l’età tutto sommato
giovane.
Ed era ancor più estraneo ed escluso, il suo aspetto strinava dolorosamente se confrontato con quello di chiunque altro.
-Biondina, muoviti.-
Le notti scorrono su basi disarmoniche e fredde, l’Accademia ne respira comunque le esalazioni stanche.
L’aria è livida e bruna, si affaccia scura sul novembre a
venire, più rigido ed umido del previsto- la luna culla docile
l’edificio, ne accarezza le membra molli, sorride fra la nebbia
spessa e traditrice, presente in eugual misura nei sogni turbolenti e
negli spasmi di un ragazzino malinconico; la falce sussurra, convinta,
che domani si vedrà di nuovo il sole.
Per un intorno frenetico vi è un punto statico, e viceversa.
Così si combatteva, fra rovi
pungenti e radici spinose; così si danzava nella lotta,
più con la pancia che con la logica.
Ariovisto aveva fatto suo il
precetto, e viveva con la stessa volontà con cui scendeva sul
campo bellico; istinto fugace e diffidenza, lui punto fermo e silente,
attorno grida e polvere devastanti- e sebbene il binomio fosse
incredibilmente semplice, gli occhi verdi del ragazzo indugiano
sorpresi su una quantità memorabile di tomi, carta, giunture in
ferro e pelle spessa, e poi rotoli più ampi e scaffali ripieni
quanto un tacchino nelle più gaie festività; incredibile
odore di polvere e silenzio.
Il biondo osservava con cura lo
sconosciuto ed il nuovo, avanzò come un esploratore nelle
foreste cariche di fronde e piene di frutti esotici. Lo sguardo si
posò insicuro sugli scaffali ampi, i tavoli cosparsi di
pergamene particolari, serbate per studi altrettanto inusuali.
Fu un momento di totale spaesamento
ed apprensione- poiché posto la solitudine e la totale ignoranza
culturale, il libro non poneva giudizio sulle mani di chi lo afferrava,
che fossero rozze o gentili o distratte e si lasciava aprire senza
remore, conscio della portata del suo sapere.
Conoscenza proibita ad Ariovisto,
osservata con languore da lontano e nulla più. Era un neonato
nel vasto mondo del sapere, e tale probabilmente sarebbe rimasto.
Il giovane sfilò i libri per
poi impilarli al suo fianco, e ne tastò curioso le fattezze e la
consistenza, riservò per loro carezze rozze ma aride: non poteva
apprezzarne il contenuto, le parole, il messaggio. Eppure vi era pace,
circondato dal silenzio e la luce tremolante di una giornata ibrida,
appena iniziata.
-Non è il tuo posto, questo.-
Ariovisto s’irrigidì
in modo secco, respirò piano captando la voce milleflua di
Lucio, seduto poco più in là, in mano un enorme tomo
scuro. Era rimasto mobile e guardingo, felino, osservando ridacchiando
l’intimità fra il biondo, il suo sfidante, e la
biblioteca.
La figura del tedesco era livida e
immobile, concentrata sugli occhi della fiera inannzi a lui. Oltre la
rabbia ed il rancore, aveva desiderato scontrarsi con lo sguardo
ambrato dell’altro per poterci trovare un’occasione buona e
prospera, ed il suo orgoglio fremeva per ottenerla.
Lo sguardo si fece tagliente, tanto
che un osservatore acuto come Lucio avrebbe potuto accoglierlo
direttamente come una sfida, mentre pensava ed analizzava, la mano
destra ad accarezzare la barba curata.
Lucio era abile imperatore della
sua persona ed i suoi gesti, colpiva con lo sguardo potente la sua
preda, la incatenava a sé col suo sorriso.
-Ariovisto, giusto?- si alzò
con calma, ostentando il suo portamento deciso e padrone, avvicinandosi
all’altro con cautela, impegnato ad imitare il cacciatore che
spera di non far fuggire la preda, entrando con discrezione nel suo
spazio personale.
-Che vuoi?- il biondo
bisbigliò, indeciso, senza però essere ascoltato; Lucio
teneva ora in mano il suo libro, lo rigirava e curava curioso, ridendo
ancora.
-Erbologia alchemica. Ti
interessano le piante? Peccato sia in francese.- rigirò
distratto l’oggetto fra le mani, prima di posarlo e concentrare
l’attenzione sul biondo, ancora rosso e frastornato, umiliato nel
suo io più profondo. Non conosceva altre lingue, Ariovisto, ed
era quella una limitazione terribile oltre che sfavorevole- ed il
romano giocava sulle sue sventure, insisteva nel vedere in
difficoltà il più giovane, ne assaporava
l’imbarazzo e la rabbia, uniche espressioni che senza remore
mostrava.
Lucio sorrise di nuovo, distogliendo il suo fastidioso sguardo dal ragazzo e posandolo lieve sull’ambiente.
-Amico mio! Ti insegnerò a
parlare francese e italiano, se questo può rassicurarti.-
Ariovisto lo guardò stranito, incapace di ribattere a tanta
incredibile spavalderia, quale l’utilizzo improprio della parola
“amico”, quella forzata apertura e calore che lo
spaventavano terribilmente- ore gli occhi chiari squadrano il capo
riccioluto dell’altro, colgono lo sbuffo ilare in seguito alla
sua reazione.
-Tu, in cambio, la pianterai di essere così ostile. Anche le bestie più selvagge possono essere domate, sai?-
Rosso, il viso del biondo, una
rabbia ed orgoglio crescenti che ruggivano e latravano d’essere
liberati, contenuti a stento dai lineamenti già duri di un
ragazzino.
L’idea suadente di conoscere
e portarlo ad un livellamento istantaneo con gli altri lo rinfrancava,
eppure il mezzo della sua riuscita lo faceva desistere e digrignare i
denti. Un mezzo spiacevole, incredibilmente facile da incontrare:
così diverso, colorati di ori e fuoco, pareva lo cercasse e
stanasse, pregiudicando la sua pace. Agì d’istinto,
cocciuto, com’era abituato a fare.
-Nein.-
Non vi era rapporto alcuno che
facesse intuire un loro legame o amicizia, ma il romano pareva
costretto a fargli credere il contrario.
Fece per voltarsi, ma la presa
autorevole di quel fastidioso lupo si serrò sul polso,
fermandolo. Nonostante il gesto semplice, l’unica arma che Lucio
stava utilizzando per catturare la sua attenzione era lo sguardo severo
ed acuto- antico, sibilante, temibile.
I ricci solleticavano il volto
espressivo, tradendo della pacifica preoccupazione. Eppure il polso di
Ariovisto scottava, bruciava sotto quel contatto indesiderato,
formicolava impietoso e distruttivo, un disagio sia mentale che fisico.
-Non sopravviveresti senza saperti esprimere.-
Lucio si avvicinò sinuoso,
lasciandolo intuendo il fastidio crescente per poi posizionarsi a poco
da lui, attendendo una qualche reazione. Utilizzava la sua statura per
darsi autorità, per dominare e non farsi dominare, ed Ariovisto
inconsciamente lo comprese.
Osservò gli occhi bruni, il
sorriso e gli intenti benevoli, e volle scrollarseli di dosso
velocemente, timoroso di quella vicinanza soffocante.
Infine il lupo rise, un suono ricco e spontaneo, mentre scostò i capelli ribelli.
- Puzzi di muschio.-
Vide Diederik dopo tempo, il cuore
si mosse dolcemente verso lui- lui che era casa, una pacca confortante
sulla schiena, un silenzio cercato quanto benevolo.
Ne vide gli occhi, illuminati e
grigi, il sorriso vibrante, sincero, desiderato da Ariovisto. Le
fatiche lo lasciarono per poco, scambiate veloci con un senso di
sicurezza estrema, di un odore pungente di casa.
-Ariovisto, che ne dici se ti propongo per l’allenamento?-
Il sorriso continuò ad
alimentarsi, speranzoso, sicuro di essere accompagnato da un piano
più grande e sinceramente migliore. Incontrò noncurante
il volto rilassato del più giovane, che ancora scalciava nella
sua scomoda posizione, e chiedeva più spazio.
Nella piccola stanza fu solo silenzio e muffa, prima d’un lieve sorriso fiducioso.
-Va bene, ‘Erik.-
Ringraziamenti dovuti:
Grazie!
Grazie al lettore giunto alla fine del capitolo. Grazie per aver dato
attenzione alla fic, per aver proseguito- e forse, per esserti fatto
un'idea di quello che è.
Proseguo,
a volte, indecisa, e nel caso vi fossero consigli di qualsiasi tipo non
esitare a farmeli sapere, a dire la tua in qualche modo.
Ricordo ancora che il personaggio ci Connell (nome che io ho scelto) è di Kochei e della sua splendida arte.
Grazie ancora a Adeline_Mad, Aranciata_, Il_Signore_di, GrandeMadreRussia, McBlebber, H2o, Cosmopolita per aver recensito!
A poi, auguro una buona settimana a tutti!
Blacket
|
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Capitolo 4 *** Capitolo quarto ***
Tempo antico 4
Note:
mi scuso in anticipo per la brevità- ho dovuto accorciare la
concentrazione di eventi a causa del tempo e probabilmente da un
quesito sollevato da una gentile ragazza che ha recensito.
La
storia è suddivisa in più parti. Si vedrà
sicuramente Ariovisto crescere e divenire un uomo più che
adulto, ed allo stesso tempo si assisterà alla sua tarda
adolescenza. I capitoli che posto ora, che vanno da ottobre 1755 a
gennaio 1756 sono effettivamente introduttivi di una situazione solo
all'inizio stabile, dell'impressione che deve dare al lettore.
In ogni caso, i prossimi capitoli saranno sicuramente più lunghi.
Personaggi: Olympia Karpousi (Magna Grecia)
"Chi vive di luce fulgente, avrà sotto i propri passi il deserto"- detto arabo.
Il Lupo aveva dovuto aspettare il nove novembre e la pioggia battente.
Fu obbligato- per quanto poco
consono e fastidioso, tanto indispettito ma gonfio d’orgoglio- ad
attendere il cheto profumo di bagnato e l’aria umida, il battito
debole del tempo sui vetri opachi-e attese! Lo fece con noncuranza e
assoluta convinzione di vincere, perché di tale disputa si
trattava.
Sospeso quindi, bruno, Lucio
sorrise cauto al carattere indomito che sperava di dominare e rendere
finalmente docile quell’anima tanto triste e tormentata che era
Ariovisto.
Il biondino fuggiva cauto e
guardingo, cercava ansante di volgere a proprio favore
l’ambiente, tanto che il romano gongolava sincero su come “è selvatico, è cresciuto così!”.
Fu costretto, Lucio, a volere
più forte l’odore intenso dell’acqua, lo sciabordio
freddo che rimbombava per i corridoi alti- ne facevano eco le volte
più profonde, e parve a tutti che nel fondo più alto del
soffitto vi fosse battaglia: il tedesco immaginò fosse un
borbottio ingiurioso e festante, e l’altro se ne compiacque.
Perché l’italiano
osservò lo sguardo teso e verde puntare dritto verso
l’alto, ed il ragazzino più giovane cercar di indovinare
come la gaia pioggia potesse divenire tanto furibonda da creare echi
così grotteschi.
Ariovisto trascinava poco composto
un cipiglio arrabbiato e vergognoso, gli imporporava le guance pallide
e pizzicava l’occhio destro, lievemente più scuro e
dolente, memore del primo incontro con la bestia sorniona e riccia che
lo scrutava contenta. Se solo quell’occhio malandato avesse avuto
cuore di dedicare la propria attenzione alla ridente soddisfazione di
Lucio al posto che al bianco livido delle mura, sarebbe avvampato
nuovamente di rabbia.
Accettare o quantomeno accennare
assenso verso l’aiuto del romano, seppur in ritardo, disegnava la
più disonorevole condizione per Ariovisto; l’essere
seguito, deriso come un bimbo in fasce, calpestato nuovamente là
dove si evidenziavano le sue mancanze.
-Finalmente.-
Parlò in italiano, e al tedesco non piacque.
Nemmeno apprezzò il sorriso
sincero del vincitore, dove si mostravano le fauci bianche e animali,
ornate ad uno sguardo intenso ed indagatore.
Il biondo avvertì le gote
farsi calde, ed i denti digrignare scontenti innanzi alla
più brutale delle realtà. Avrebbe dovuto imparare ed
assimilare il suono dolce della lingua italiana attraverso il
fastidioso insegnamento di chi già prima si era prodigato per
umiliarlo più volte- e non vi era ragione alcuna per la quale lo
stesso Ariovisto avrebbe cambiato idea sulla situazione. Ai suoi occhi
era un’onta aggiunta alle altre, un disgusto crescente verso le
attenzioni baldanzose del più anziano.
-Avanti, non rivolgermi sguardi
tanto cattivi. Sono un ottimo insegnante! Ho già diciotto anni,
sono un uomo oramai fatto, Ariovisto.- fece in modo di farsi capire,
tornando al tedesco, sproloquiando delle sue solide conoscenze e
straordinarie doti- non era certo modesto nel figurare se stesso.
Eppure il giovane osservava rapito
i gesti, e le mani grandi ed incredibilmente espressive,
l’agitarle per aria quasi avesse un disegno preciso in mente, la
pronuncia aperta del suo nome.
Se non era Lucio a chiedere
attenzione, questa spontaneamente andava da lui: non vi era singolo
sospiro e lieve guizzo dei suoi muscoli che non fosse anche
un’opera teatrale, una commedia- Lucio era una fiamma rovente e
carica, elettrica, ed avvicinarsi senza protezione era un rischio.
D’improvviso Ariovisto
sentì il bisogno di distrarsi con il silente riverbero che vi
era in biblioteca, e gli scaffali ampi e pieni di ciò che era
così lontano da lui.
L’imperiosità del romano gli feriva la vista.
- Ti piacciono i libri? Forse poi
arriverai a leggerli, sebbene tu sia un po’..- prese tempo, il
Lupo, la mano destra accompagnò amica l’uscita delle
parole, -rustico.-
Uscì un ringhio contrariato
dalla gola del tedesco che andò a confondersi col brusio creato
dalla pioggia, un’occhiata eloquente e tremendamente tagliente,
simile al suo carattere- seguì la risata trattenuta e arida,
piena di polvere del romano, quasi erosa e gracchiante.
-Iniziamo. Cose semplici, come “io sono Ariovisto”. Prova!-
Altrove imperava silenzio, e la
voce calda di Lucio suonò musicale ed armoniosa. Per qualche
strana congettura, ove la mente s’inganna e s’insegue
precipitosa, erano ora gli occhi ambrati lava bollente, sì densa
che nessuno, affacciandosi, ne avrebbe visto il fondo. La pioggia non
avrebbe scalfito il loro calore, e nemmeno il freddo ne avrebbe
diminuito la misura.
Ariovisto serrò le labbra, concentrato, così stupidamente messo alla prova e pressato dalla soggezione.
-Je zon..- zsono, jo zsono Arch..-
fece perno sulla memoria, scandendo lentamente le sillabe,
l’espressione grezza ed accartocciata contro quella
dell’italiano, che si fece via via più dolce, prima di
aiutarlo nella composizione del nome.
-Ariovisto.-
Mimò i gesti, li fece
passare soavi sulle labbra, sul sorriso, appena sopra la barba scura,
nel suo essere incredibile e grande, verso la determinazione spaventosa
del biondo; imbronciato ed insoddisfatto nel suo continuo malumore.
Il tempo uggioso accarezzò
mansueto l’aria statica, l’umido prorompente fece festa
attorno alla precaria complicità dei due ragazzi, flebile ed
equilibrata dal nulla- e persino il Sole, che venne giorni dopo,
salutò l’Accademia con un inchino beffardo prima di dare
attenzione ad un patto tanto pericoloso quanto screziato, devastato
dalle incomprensioni ed unito da fili sottili.
Fu come vedere due antitesi
cercarsi controvoglia, osservarle apprezzarsi e conoscersi e
detestarsi, poiché la diversità è dono solo per
chi ha l’animo puro e maturo, e né Ariovisto né
Lucio potevano darsene vanto. L’uno conosceva solo le fatiche del
lavoro e dell’alienamento, l’altro costruiva giorno dopo
giorno la sua bravura e la sua potenza; eppure la bruma vide curiosa,
la sera, gli insegnamenti del Lupo attecchire negli occhi del giovane
Ribelle e viceversa.
Complici di nulla ed amici di niente, tornavano spesso al primo passo dove ancora era difficile accettarsi.
La forte Torino, a quel punto, passava a piè pari la metà di Novembre.
Il teutonico marciava ora
più sicuro fra i corridoi dell’Accademia –ora
vivendo silente ed indifferente rispetto agli altri- ed i suoi passi
eran fatti d’ombre.
-Forza, aiutami! Barbaro, parlo con te!-
La voce di Lucio biascicava
naturale la provocazione, e ne avrebbe fatto arte solo avendone tempo;
ora bofonchiava parole e sussurri sulla portata dei tomi, la
quantità e l’insensibile percentuale di essi che veniva
applicata da Ariovisto, avido di conoscenza ma non certo di fastidiose
presenze.
Conciliare i desideri da ambe le
parti era difficile se non ansioso, ed il volere di uno quasi mai
coincideva con quelli dell’altro.
-Mi chiamo Ariovisto.-
il biondo esalò il proprio
disappunto, limitandosi a pungere con le iridi chiare i libri che mano
a mano passavano sotto le sue mani, osservandoli con apprensione e
particolare attenzione- la stessa che serbava ai piccoli germogli
diafani in primavera, e le punte brune delle foreste.
I titoli erano francesi, non li comprese.
-Il tuo accento tedesco è
ancora ridicolo.- rise di nuovo, Lucio, riempiendosi contento delle
proprie risa, non vergognandosi di lasciarle straripare ovunque,
voraci. Camminava tranquillo, seguendo però le proprie grandi
falcate, delegando il biondo ad equivoca servitù-
quest’ultimo, adirato e irrispettoso, reggeva malamente i pacchi
cartacei e facendo piroettare il proprio scontento verso corridoi
più ampi, più puliti, incontro agli alloggi di Lucio.
Pareva buffamente che il rango
portasse luce, poiché le vetrate di quell’ala prestigiosa
irradiavano un bagliore violento per chi non è abituato; in
questo frangente il giovane tedesco socchiuse gli occhi chiari. Oltre a
non avere consuetudine con la luce diffusa, diceva estranei gli abiti
più che puliti ed il pavimento marmoreo, lo sguardo fiero e alto
di chi ci abitava.
-Non mi hai ancora detto da dove
vieni.- fece il riccioluto proseguendo nel proprio discorso-terribile,
giacchè ascoltato da nessuno, nemmeno da lui stesso-, fermandosi
a poco d’una porta, e con la stessa calma flemma, aprendola.
Al che Ariovisto cercò di
arraffare meglio il bagaglio, goffo e rozzo, estremamente sbagliato
nell’ambiente in cui si trovava- quasi strinante! Ed
avvicinandosi, d’improvviso,
notò l’esitazione di Lucio, tanto sicuro di per sé,
il suo sguardo sornione e felice volto all’interno della stanza.
-Olympia!-
Un sussurro veloce quanto deciso,
Lucio fu nuovamente una fiera presa da un dolce istinto che lo
portò a danzare al centro dell’abitacolo, lasciando per il
tedesco un’evoluzione schietta della mano, un invito di
sospensione- attese lui, questa volta, bloccato sull’uscio e
sulla curiosità dirompente fissata nelle iridi verdi.
Curiosità saziata solo alla
vista di una ragazza, ah, no!, una donna, il volto radioso e la
bellezza semplice che cascava dai capelli raccolti.
Ariovisto ne osservò la
bassa statura, il fisico morbido coperto ora dall’abbraccio di
Lucio e quei suoi gesti che usava tanto per parlare che ora si
muovevano incauti sulla vita di lei- non guardò più il
viso, il giovane, poiché il romano se ne stava impossessando
ridendo, le labbra si schiudevano molli contro quelle di lei,
schioccavano voluttuose e d’un tratto voraci; fu gioco di
sospiri, risolini trattenuti.
L’imbarazzo, placcando il
biondo, gli impose di distogliere la vista ed irrigidire i tratti
già marcati, gli occhi brillanti saettarono dai libri alla luce
e al cielo libero. Sensazione vergognosa, quanto incredibilmente
silente e tenera.
Vi era profumo di miele nell’aria.
Il sudore bruciò e fu
piacevole, salino, solcò indomito la fronte di Ariovisto,
incorniciò la ridente voglia e soddisfazione di mettersi alla
prova. Sul suo viso tirato concorsero polvere e nervi saettanti,
avvolgendo le braccia pronte, le gambe lunghe e forti.
Sospirò, avvertendo sulla
lingua il sapore amaro della terra, sollevata e fluttuante dopo la sua
ultima azione- scoccata veloce, movimento istintivo che si era
frantumato sul campo battuto.
Il soldato imbracciava
un’asta di legno, impugnandola con fermezza e cura, dirimpetta
ora allo sguardo volto solo al fratello, anch’esso ansante.
-Ti prenderanno, a breve.-
Voce forte e tonante, la guardia che si abbassa e lascia al sole pomeridiano tempo di infrangersi sul viso stanco.
-Ti prenderanno davvero negli allenamenti, perché sei bravo, Ariovisto.-
Il Ribelle inspirò ancora, e
più che polvere entrò in lui orgoglio bruciante. Non
patì più freddo, men che meno la calura dello sforzo e
fece gli occhi limpidi dei fratello il pozzo in cui, assetato, avrebbe
trovato ristoro.
Mugugnò soddisfatto, preparando di nuovo il fisico e la postura; su di lui una terribile ed affamata aspettativa, prima di colpire ancora.
Ringraziamenti:
Grazie a
chiunque abbia tempo per leggere i capitoli, chi si prodiga per
arrivare sino in fondo e mi regala un briciolo del suo tempo! Grazie!
Grazie
anche a chi avrà cuore di lasciarmi un commento, un consiglio,
un dubbio sulla storia- e a chi già l'ha fatto: grazie a Adeline_Mad, Cosmopolita, McBlebber, H2o, GrandeMadreRussia, Il_Signore_di, Aranciata_!
Baci, Blacket.
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Capitolo 5 *** Capitolo quinto ***
tempo antico 5
Note:
Ho impiegato moltissimo a cercare la giusta formazione di ogni tipo di
divisa! Nonostante io non mi dilunghi troppo causa disperazione, mi
scuso nel caso vi sia qualche errore, cambiavano moda e vestiario ogni
tanto, premunendosi di fare impazzire me.
Personaggi: Iago (Gallia)
-riflettendo se inserire due Gallie data la divisione storica, fatemi
sapere in caso vi fossero suggerimenti! Inoltre, sebbene i nomi
precedenti fossero calibrati ad Hoc per significato e quanto altro, per
Gallia mi sono basata sulla sonorità, mi piace molto per lui.
Buona lettura!
“Nell’Europa
del 1755 vi fu il disastroso terremoto di Lisbona, centrato nella parte
sud della cittadina. Il rombo fu talmente forte, le case talmente
fragili, che mi parve di vedere la filosofia ben congeniata di Voltaire
e Rousseau sibilare fra le macerie.
Se il terremoto aveva mosso incurante la terra, il loro pensiero faceva tremare menti di ben altra portata.”
-Lucio, ad un amico.
Si sfiorava con le dita il 1756, e
Torino festosa attendeva la nascita della futura Margherita di Savoia-
un altro dolce fiore femmineo, forse non atteso con l’ardore che
ci si aspettava.
Si credeva che il padre di lei
avrebbe voluto il riconoscimento e la parata, la fila lunga dei
cavalieri dell’accademia abbigliati coi pennacchi rossi e la
stella sul petto gonfio, gli stalloni fumanti e intrepidi, sui dorsi le
frange dorate degli ornamenti.
L’Accademia militare diveniva
Reale, e gaia, sorpresa, s’inchinava brusca innanzi ad un
dicembre che pian piano agguantava i mattoni di cotto con un freddo
tagliente, minacciando di spaccarli. Eppure l’aere fingeva solo
di rabbrividire per la bassa temperatura; fremeva difatti per
l’olezzo di cambiamento che permeava i discorsi dei filosofi, la
monarchia prussiana- sino al più piccolo e labile mutamento.
Lo sguardo, si sa, per quanto
avvezzo all’abitudine e stanco, guizza rapido innanzi alla
novità, che sia positiva o meno. Ed appunto gli occhi, che
parevan si puntuti, toccavano malamente l’oggetto della loro
curiosità, guardandolo di sbieco e senza fingersi lontani o
distratti.
Ariovisto era tanto giovane e
insolito da sembrare uno scherzo se affiancato ad un qualsiasi soldato
della cavalleria; i capelli biondi venivano scostati malamente, la
pelle bianca tirata tanto quanto lo sguardo severo- prestando quindi
più attenzione ad una figura tanto bizzarra, un normale militare
avrebbe però notato la muscolatura accennata, i sensi acuti e
animaleschi.
Il tutto così sbagliato,
poco consono se affiancato al viso che solo da pochi anni aveva
salutato l’adolescenza- Ariovisto era d’una specie tutta
sua, ma per curiosità e pacata noncuranza ancora nessuno si
sentiva in diritto di tenerlo lontano.
Vi era un fruscio costante di
vestiti, borbottio rigoglioso e crescente, la luce mal messa che
faticava a fendere la nebbia mattutina; e riflettendo su di essa dava
toni bianchi e accesi a tutto l’intero spogliatoio, una fabbrica
instancabile di giovani in divisa, che or ora raccoglievano le braghe
scure dell’addestramento, la giacca stretta ed il cinturone
pesante; come un collare di ferro si agganciava alla vita.
Eppure il biondo, così
illuminato dalla luce malata da essere anch’egli un punto
luminoso, avvertiva con piacere i pantaloni nuovi e morbidi aderire
alla sua pelle, tralasciando i suoi, decisamente più poveri.
Nonostante non amasse doversi separare dalla sua quotidianità,
doversi preparare per l’allenamento lo inorgogliva, aiutandolo a
rialzarsi con compostezza dopo tante cadute fragorose.
L’occasione che aveva lo
rendeva più dinamico ma anche più docile, portandolo solo
a ricambiare con uno sguardo indifferente le occhiate curiose volte su
di lui.
-Sei troppo giovane, biondina. Ecco perché ti guardano così.-
Connell sbuffò per niente
sorpreso, vestito per metà, accortosi solo dopo della divisa
tremendamente semplice del compagno- giornata di prova, date le umili
origini, e null’altro gli spettava.
Borbottò poi proprie
considerazioni in un dialetto stretto ed inglese, accompagnato dalla
chioma furente e rossa, tastata poi da gesti veloci ma sgraziati. Si
stava abbottonando la divisa con rancore, e pareva volesse ella stessa
scappare via dalla pelle pigmentata del rosso, sentendo in lui
un’insofferenza crescente.
-Spero tu non sia così
cretino da pensare di smettere il tuo lavoro. Dovrai semplicemente
portare il tuo culo anche qui.-
Connell parlò in modo rauco
e rozzo, vomitando come a suo solito parole ed improperi grezzi che
però ben s’adattavano all’animo burbero di
Ariovisto, ben lontano dalle convenzioni civili e comuni.
La voce dell’uno strideva
contro la pazienza dell’altro, un binomio che intercorreva
placido ed equilibrato fra ambe le parti.
Il giovane soldato venne poi
afferrato malamente per i fianchi da Connell, che bruscamente lo
aiutò ad agganciare correttamente lo spadino sul lato destro, in
parte deridendolo col suo sorriso forzato.
-Non avevo pensato di mollare.- e
lasciare la quotidianità che lo vedeva come fantasma
nell’accademia, aggirarsi silente per i corridoi lasciando che
gli studenti e i militari perdessero interesse in lui, sopravvivendo di
sporadici incontri con lo stesso Connell e suo fratello.
E Lucio.
Si rabbuiò al suo pensiero, al sorriso sincero e la pazienza sporadica che dedicava alla sua “orribile”
pronuncia dell’italiano- masticava ora le basi di quella lingua
ancora imperfetta, faticando però a riconoscerne le
sonorità e pronunciare alcune sillabe.
Si corrucciò, osservando il
legno consumato delle panche, la fila storta delle armi bianche
addossate ad una parete; concentrandosi sulla lama pulita, fredda,
quasi tentando di cercarvi il suo riflesso.
Le mani vagavano sole sulla giacca
ed il vestiario, quasi tentando di acclimarlo al proprio corpo, la
mente girovaga fra pensieri poco graditi e gli occhi verdi persi nel
vuoto, catturati poi dal gesto veloce di una mano.
La polvere vorticò scomposta
attorno al viso di un terzo ragazzo, non troppo più vecchio di
lui, che curiosava indiscreto nella sua direzione. Persino Connell, che
scapestrato e brutalmente diretto era più impegnato a notare
come ad Ariovisto donassero i pantaloni stretti, notò il
fuggente contatto visivo fra i due che lasciò il giovane tedesco
perplesso.
Portava la divisa dal cappotto
verdastro, ed era anche lui una semplice forza militare. Il volto
rasato, le pieghe ai lati della bocca, come i capelli disordinati
d’un confuso biondo cenere e gli occhi vivi, ma di un colore
opaco e indefinito. Tastarono con noncuranza la figura di Ariovisto,
quasi a volerlo saggiare, parevano spavaldi ma non cattivi.
-Viene dalla Francia.- Connell si
alzò, già sfatto, addosso di lui delle movenze
strascicate e masticate male, intente a sistemarsi la folta chioma
rossastra, che sanguigna cadeva sul viso. –Credo sia indebitato
con Lucio, quel bastardo.-
Vi fu un lieve sobbalzare a quel
nome tanto sgradito, che pareva esser coperto d’oro e amore e
odio nella bocca di ognuno; il capo riccio del ragazzo dalla tanta
buona nomea non accennava ad abbassarsi innanzi a nessuno, conquistava
con sottile maestria l’attenzione ed i pensieri di chiunque
capitasse sotto suo tiro e non solo- forse anche per questo si
presentò con esagerata spavalderia al suo ingresso in Accademia.
E nel mentre che Ariovisto voltava
il capo verso il cortile interno, trasalì ancora: Connell diede
una pacca sentita sul sedere del giovane, farfugliando di come “sei lenta, fanciulla, muoviti!”,
e superandolo poi a larghe falcate- ciò che gli permetteva la
divisa ora pulita, giusto in tempo di sentire un ringhio selvatico
gorgogliare alle sue spalle.
L’accademia poneva testa alta, verso il cielo poiché forte; lo sguardo basso verso le genti, poiché umile.
Non vi era affare che il ducato non
le consegnava con cortesia, fingendo fosse estremamente civile ed utile
farsene carico- quanto la repressione di atti ignobili, che siano essi
esempi di ladrocinio, di una madre che ancora non benestante rubava
pane per i figli, e di forza veniva trascinata nella polvere rovente,
trattenuta con forza per i capelli, strattonata e livida, giudicata
giustamente come amorale.
Nessuno ribatteva contro il volto
contrito e dispiaciuto di lei, marchiato da una rosa violacea sul
volto, le labbra tremanti ed il fiato corto.
La trionfante Accademia le
dedicò pochi secondi, spostando poi lo sguardo curioso su un
paio d’occhi nuovi a quella vicenda. Ad Ariovisto ciò che
vedeva non piaceva, eppure, con estremo stupore anche da parte di lui
stesso, ne era totalmente indifferente.
Lucio s’annoiava, stretto
nella giacca blu ed i suoi bottoni, nella fascia che copriva il petto e
la divisa tutta. Osservava spossato dal troppo pensare, cercando
l’incentivo che lo avrebbe tenuto attivo e sveglio; attorno i
soliti volti adulanti, le stesse movenze che persino dopo allenamenti
rimanevano immutate- e la luce sempre più forte d’un sole
che nasceva gli feriva il volto, ancora assonnato.
Stirò le gambe, i muscoli,
sotto il portico ed innanzi ai saluti freschi dei suoi compagni, ai
complimenti non sempre graditi- distratto, rispose pensando invero (con
tremenda soddisfazione) alle notti precedenti e al sorriso provocante
di Olympia, il seno morbido fra le sue mani- sbadigliò.
Teneva lo spadino arroccato al
fianco, bianco, la guaina sporca di graffi di cui solo andava fiero, ed
il fioretto dalla parte opposta, leggero e snello.
Carezzava per abitudine
l’elsa delle armi, impugnandola a volte, cercando disperatamente
qualcosa che risvegliasse in lui l’adrenalina, lo invitasse a
sfoderare le proprie capacità e furbizia.
Non potè quindi evitar di
notare l’insolita facciata straniera che passava poco più
in là, e rifletteva tanta luce nei suoi occhi da poter far
nascere un riso spontaneo. Il suo sguardo indagatore si posò
poco più giù della volta rotonda del portico,
all’altezza delle aste di legno gnoccate e scheggiate- Ariovisto
osservava il campo con estrema cupidigia, e gli occhi iridescenti
saettavano dal campo della corsa ai militari sparsi ed intenti ad
affrontare l’umidità mattutina di dicembre.
Lucio lo squadrò con
perizia, analizzandone la postura imprecisa, la divisa decisamente
più umile della sua. Si perse poi nel constatare quanto il volto
giovane stridesse con l’altezza, le gambe lunghe, le pieghe tese
del viso- avrebbe sorriso ancora, se non avesse notato la confidenza
fra lui e l’omone rosso, una complicità che forse ancora
non si poteva definire amicizia.
Fastidio, nel constatare di non
essere l’unico appiglio sociale di quella bestia bionda; credeva
invano di poterlo addomesticare con pazienza e devozione, come una
pianta rampicante- sebbene secca e arida, dopo anni, rimane vicina alla
sua presa, senza apparente fatica.
Il romano era un lupo calcolatore e
preciso, s’interessava già da tempo alla fitta
interpretazione delle relazioni altrui, ed affinava il suo pensiero su
ambiti diversi, tanti quanti i suoi ricci ribelli. Palesò il suo
interesse con un sospiro, decidendo di non avvicinarsi ed osservare lo
straniero da lontano, curioso di vedere muovere passi incerti sul
terreno sconosciuto.
Trovò infine positivo che
Ariovisto socializzasse, pareva fosse più civile e meno legato
alla sua natura solitaria- “un animo indomito necessita d’adattarsi se vuole sopravvivere”.
-Ragazzino!-
Tuonò gioviale, la sua voce,
indicando il vestiario insolito del biondo: la casacca verdognola,
semplice, forse nemmeno troppo pulita, le fibbie slacciate ed i capelli
indecorosamente sciolti e morbidi sul petto.
-Sei di prova? Dimostra di meritare
il tuo posto!- Lucio scherzava nel trattarlo come sconosciuto, ed
accolse gioioso l’occhiata di puro odio che gli volse, una
stilettata glaciale per chiunque non ne fosse abituato- dopo che giorni
prima aveva accennato a spiegare il congiuntivo al suo selvaggio
allievo, si poteva dire pronto a tutto.
Volle provocarlo, mangiando
l’espressione viva di Ariovisto con lo sguardo, seguendo gesti
semplici, concentrando il pensiero di tutti sopra sé –ed
era un mago, nel farlo!-, lasciando scivolare il brusio curioso della
massa, gestendolo con estrema familiarità sebbene rappresentasse
in verità un disagio.
-Devo battermi?-
La voce secca del tedesco fu per
lui come acqua fredda, acqua fresca, ed il lupo di risposta si
acconciò il pelo ispido, eloquente.
-Oh, moi!
Mi offro io, sarà per me il riscaldamento!- alzò il
braccio il furbo soldato francese, accompagnando la pronuncia imprecisa
e forzatamente attaccata al suo dialetto con un cenno del capo, ed i
capelli, scomposti sulla sua testa come fieno, lo accompagnarono nel
gesto.
“Ah, Iago”,
borbottò poi Lucio, ancor più compiaciuto della notevole
novità, ed i suoi occhi si posarono sul più bello stimolo
che potesse trovare in giornata: i due biondi si scrutavano incerti,
l’uno rabbioso e confuso quanto l’altro divertito e
curioso, senza una vera e propria ostilità- vibrava del sano
interesse, voglia rude e barbara di mettersi in gioco battendo i piedi
nella polvere.
Vennero dati due bastoni lunghi e
scuri, giacchè un paio di lame si sarebbero solo rovinate in una
prova d’orgoglio come quella, o avrebbero rischiato di
imbrattarsi inutilmente.
Non si riusciva ad afferrare
completamente la comunanza fra i due, che forse s’accentuò
non appena Ariovisto si mosse, sicuro, allungandosi verso il centro del
campo e sollevando l’aria umida, posizionandosi davanti
all’avversario su guardia alta; il cuore febbricitante, il senso
acuto dell’udito in tensione ed un paio di occhi famelici si
sgranarono sull’avversario.
Ariovisto si muoveva seguendo
istinto, a tratti brusco, in altri selvatico ballerino; e la sua
agilità piaceva a Iago, che sorrideva battagliero contento di
sentir scorrere l’adrenalina nel suo corpo, e che si fosse
destata davanti ad un ragazzino tanto particolare.
Lucio in quel momento sorrideva, li
rimirava come due gladiatori e due bambini che si rincorrevano per i
giochi- eppure vi era una serietà tribale, così vecchia
da farli sembrare compagni da tempo.
Sotto uno sbuffo soddisfatto del
romano, il più giovane mostrava il fisico già pronto, i
muscoli scattanti, quanto i lineamenti che s’intuivano diafani: i
capelli biondi vorticavano leggeri, luminosi, lo sguardo sicuro lo
rendeva più uomo di quanto non fosse- Ariovisto era bello, orgoglioso, nonostante la sua tenera età.
Lucio socchiuse gli occhi,
allontanando dalla mente i rumori concitati di quel giocoso scontro,
immaginando il ribelle nella cavalleria da due, tre anni a quella
parte, e gli piacque.
Anche gli occhi incauti di una
giovane visitatrice si puntarono sugli scatti precisi dei due
combattenti, ed il rumore secco delle due armi in collisione- lei che
camminava silente ed imporporava le guance con un nonnulla, ed aveva
tanta forza in sé da riuscire a nasconderla sotto
l’ondulata chioma bruna, gli occhi chiari ed il fisico asciutto.
Un profumo forte di erba e fiori dal collo fine, negli occhi chiari il
piacere di assistere ad un allenamento, quasi incantati.
Rinsavirono imbarazzati,
constatando di averne incontrati altri più profondi e scuri,
appartenenti ad un bel ragazzo riccioluto e bruno, che lei mai aveva
visto prima.
Questo le sorrise, bonaccione, prima di mandarle da lontano un lascivo bacio.
Ringraziamenti e avvisi:
Grazie
mille a chiunque abbia avuto la pazienza di giungere sino in fondo e al
quinto capitolo: chiunque abbia inserito nelle preferite, seguite e
ricordate merita un mio abbraccio e un ringraziamento sentito, non
immaginate quanto mi faccia piacere!
Inoltre,
la settimana prossima sarò via, quindi impossibilitata a
scrivere; il capitolo prossimo arriverà in ritardo rispetto al
solito (Meta: Spagna. Sia mai che venga ispirata per scrivere di
Iberia?)
Inoltre, grazie infinite a chi ha lasciato un commentino:
Il_Signore_di:
Grazie mille! Sono gentilissime le tue parole. Rispondendo alla
domanda: cercherò di inserire molti degli ancients presenti
nell'opera, spero di riuscire a fare un buon lavoro!
Adeline_Mad, McBlebber, GrandeMadreRussia, H2o, Aranciata_.
Alla prossima!, Blacket.
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Capitolo 6 *** Capitolo sesto ***
tempo antico 6
Note: Grazie mille per tutto il supporto ed i complimenti! Li apprezzo moltissimo.
Tenevo a
precisare che questi capitoli rappresentano la primissima parte della
fanfic in sè ed è normale che i tempi paiano accelerati,
che ogni capitolo copra un lasso di tempo lontano da un altro (sebbene
si parli di giorni). Voglio usare questi primi testi per dare idee
chiare di come sono i personaggi all'inizio della vicenda, che poi si
troveranno più grandi andando avanti.
Se ci
sono consigli, richieste, appunti da farmi, sono ben lieta di leggerli
ed ascoltarli: ho l'ossessione che possa non andare bene la trattazione
essendo tempo e personaggi parecchio particolari. Accolgo volentieri
qualsiasi commento, anche via mesaggio privato, poichè
l'obiettivo è sempre migliorare. Grazie, buona lettura!
Personaggi: Liina (Aeesti, in questo capitolo solo comparsa).
“Suvvia, la sessualità è fatto popolare, non
crucciartene troppo, non tenerla fra le tue grinfie, che ti
soddisferà poco.
Hai qualità che farebbero più credere al vizio- e non guardarmi così, per l’amor del cielo!
Sei forse stanco dei miei rimproveri?” –Lucio, ad un amico.
L’alba era silente, e si
distillava in gocce salate sull’erba secca, vibrava nella
nebbiolina stanca ed apriva gli occhi serena con uno sbadiglio
profondo- ed il muschio, più forte ancora, saliva sereno su per
i tronchi forti, segnando il nord come la natura voleva.
E come muschio, Ariovisto aveva lo
sguardo fisso sulle montagne, ed il suo pensiero scalava le nicchie
delle cortecce e si ergeva in alto sperando di vedere casa. Grattava il
suo appiglio, e diveniva numeroso sino a voler essere come le stelle in
cielo: il biondo ricordava la sua casa mille volte, ed altrettante
mille spume verdi tappezzavano chete i boschi, arrampicandosi
così da non farsi calpestare.
La fitta boscaglia verde era un
tempio, e si ergeva su arbusti forti sebbene giovani, piantava le
radici nella propria terra sino a sentirla propria nel profondo- tale
era Ariovisto, una quercia giovane che staglia la chioma e le foglie
sagomate sul chiaro lume del giorno, alza i rami secchi al cielo ed
osserva l’aridità dei meli e pioppi che un tempo gli
fecero compagnia, ed ora stanchi cedono al freddo.
Il tedesco li osservò come
compagni, ne accarezzò le figure e le forme con lo sguardo
stanco, e verde tanto quanto il passato brulicare d’erba fresca,
che ora diviene ricordo nelle iridi di lui.
Due specchi che assorbono
l’odore del fieno, traspirano i suoni mal graziati delle
cornacchie e dei passi incerti delle altre reclute.
Soldatini piccoli, ma privi
dell’energia furente scoppiettante nel giovane ribelle; avanzava
pestando il suolo con noncuranza, evitando di avere al fianco il fiato
rovente d’un obbligo quale l’abbigliamento di un cavallo.
Aveva gambe veloci, Ariovisto, era
agile e marciava con la polvere, camminava nella nebbia e fra le sue
volute- particolare che gorgogliò divertito nella risata di
Connell.
Dal volto ammaccato del rosso si
costruì un sorriso storto, asimmetrico e sfatto,
nell’osservare il compagno più giovane ed impegnato ad
incantarsi sui solchi ruvidi dei tronchi grigi e freddi, chiaro
avvertimento dell’inverno. Vide l’animalesca somiglianza
che legava entrambi alla natura, così stretti da avere
rampicanti pungenti nelle viscere e nel petto, se ne compiacque e
sospirò lasciando l’aria traumefatta e condensata
ballargli innanzi al muso vermiglio.
Entrambi, condividevano
nell’incertezza il silenzio di chi lo accoglie come dono, e
questo rese felici i tratti perennemente tesi dei due, ispidi come
ghiacciai, le sopracciglia incrinate che trovavano sollievo.
Ariovisto si fermò, resosi
poi conto della presenza dei compagni, di Iago preso ad esplorare la
propria saccoccia di cuoio e Connell concentrato sulle macchie
infestanti di felci, e brune e scure e fitte come la barba che correva
infuocata sul viso.
-Moi, je ne cr-..
non credo ancora che ti abbiano messo con noi, sei un ragazzino!- Iago
aveva un accento terribilmente marcato, non ne voleva sapere di
dissimulare le discrepanze della sua lingua e mal guardava
l’italiano, poiché il francese era lingua ufficiale dei
savoiardi e non solo; si concesse dunque di sbagliare, appiattire le
vocali e premere sulle nasali, fischiettando con la sua voce da
cantante.
-Ragazzina.-
Connell precisò noncurante,
evitando volutamente di incontrare l’umore contrariato di
Ariovisto, che si ergeva snello, efebo, guardandolo con rabbia. Era una
trappola, un marchingegno pronto a saltare, come quei fuochi portati
dalla Cina, che d’improvviso esplodevano radiosi e prima ancora
ringhiavano.
Un quindicenne ancora non aveva sufficiente controllo su ogni qualsiasi emozione, un guizzo di nervi continuo.
Eppure Iago rise, i capelli che
parevano ad ogni singulto sempre più crespi e sbarazzini,
picchiò l’aria pesante coi suoi gesti secchi, sfiorando la
spalla del rosso- vi passò una complicità fulminea, che
il biondo aveva ignorato forse volutamente, magari per scarso interesse
nei loro battibecchi; li vide uniti da una fiducia malata, vecchia e
selvaggia, e capì che prima o poi vi sarebbe cascato anche lui-
forse imbrogliandosi, picchiando a terra i pugni e sguainando lame per
poter tagliare i legami che andavano creandosi.
-Però sei capasce.-
chiocciò il francese, la voce tintinna chiara sulla brina, -da
dove vieni, dunque?- si portò avanti, con grandi falcate, quasi
a voler catturare il movimento di una creatura tanto sfuggente- e
magari la sua voce, che aveva udito così poche volte, ben chiusa
e ferma, non ancora matura.
-Germania. Vivevo vicino alla
Schwartzwald.- chiuse le labbra in un broncio tirato, lo sguardo fisso
ed attento alle balconate dell’accademia, poco più in
là. Erano grosse, virili, davano cornice ai dormitori ed erano
aperte ed ariose, ma semplici.
Ariovisto le stava puntando, il
giovane falchetto acuiva la vista su ombre snelle, in movimento, ed
indicavano il sole nascente; piccoli baluardi della mattina, le voci
lontane accompagnavano i gesti di una figura in particolare.
Pensò a Lucio.
-Ah, donne! Ecco perché non
mi ascolti.- al sorriso di Iago si aggiunse il commento più
rauco e conciso di Connell, slabbrato, sognante, molto più
osceno dei semplici riferimenti alle scollature dei vestiti.
Ariovisto sentì salire i
suoi latrati sulle schiena, pungerlo, attorcigliarsi come rovi sul
petto e sul collo presagendone vergogna e inadeguatezza innanzi ad un
mondo che mai aveva osato sfiorare, se non l’occhiata veloce che
volgeva alle gonne ampie e ai fianchi stretti.
S’imbronciò, torto
ancora da quelle spine, l’attenzione volta di nuovo ad un
orizzonte poco lontano, ornato da timidi arbusti invernali, dal freddo
e dalla condensa, dallo sguardo trasandato dei tre soldati immersi fra
i ricci scuri del boschetto.
-Ti piacciono le donne, Ariovisto?-
Il cavallo nitrì infastidito
quando Connell scese, finendo per ritmare quel vocabolario e
sfrontatezza tanto interessati, forse voluti per incitare il più
giovane ad aprirsi- “si parla di ciò a cui tutti piace, suppongo”.
Quindi si sporse, il biondo si sentì affiancare dal passo
pesante dell’altro, e non vide altro modo di rispondergli se non
uno sguardo più simile ad una tagliola, una difesa che voleva il
suo istinto attento e rapido, fosse il caso di ritirata o turbolento
attacco.
L’occhio volse verso il
basso, schiantato dalla vergogna non più irosa ma pudica e
silente, Ariovisto tornava adolescente sotto la divisa che poco prima
lo rendeva simile ad un uomo- perse il lineamento duro della mascella,
la linea retta delle labbra ed il pensiero malinconico che lo seguiva
adombrandogli il volto chiaro.
Il fastidio incoraggiò il
suo desiderio d’avere addosso una maschera convincente e felina,
disegnata sui tratti di chi già era abituato a maneggiarla con
passione maniacale, e di volta in volta la ritoccava in bellezza,
sottolineava il dettaglio e la sua indistruttibilità.
L’avrebbe voluta, Ariovisto, poiché il suo volto veniva
spesso lavato d’acqua pura, e se non era il volto ad avere nuove
espressioni queste le aveva il cuore- non dimostrava nulla solo
perché era sua abitudine non provare alcunché sentimento.
Eppure, venuto a galla ed arpionato da parole indecenti, il sentimento trovava spazio solo sulle gote rosse.
-Io non disdegno ambe le parti.- gracchiò Connell, infilandosi le mani in tasca.
Una risata, due, secca come cenere,
strascicata e grinzosa, i gesti molli che si frantumarono sulla divisa
andandola a sgualcire; e lo stesso fece il naso di Ariovisto, che
fiutò la novità ed il catastrofico imbarazzo di esserne
totalmente estraneo.
Il giovane vagò confuso con
il capo, poi respirando e divenendo scuro, un sottobosco fitto di
pensieri che avrebbero voluto dirsi innocenti. Volle istintivamente
allontanarsi avendo paura che il viso rosso potesse addirittura
scottare ed essere un lume vivido ancor più del sole, alimentato
da una preoccupazione inesperta e fresca.
“Magari una delle belle vuole un soldatino come me!”
ed i cinguettii di Iago giungono da lontano, nel mentre che si sposta e
segue le dolci visioni femminili, li saluta distratto, e poco importa
perché nemmeno viene udito. Scavalca le radici nodose e i grumi
secchi di foglie e lo segue docile il vento- Ariovisto bramava esserlo,
e di andar lontano leggero piuttosto che ragionare di cose così
torve e complesse, così umane; lo stanavano cacciatrici nella
sua tana.
-Ho scandalizzato il tuo animo
gentile, fanciulla?- anche un osservatore poco sveglio avrebbe visto
nel frigido Ariovisto un tumulto confuso, e Connell già da tempo
lo fiutava con pazienza; lo aveva sorpreso con parole semplici,
violentando la pelle sempre chiarissima con pochi schiocchi dati alla
lingua.
-La tua ignoranza in merito mi fa cadere le palle, ma dopotutto sei ancora un ragazzino.-
Furono più lance e spilli ad
aizzarsi contro il biondo, terrificato dall’autocontrollo
sgusciato via con la bruma, tanto forte da far nascere nel suo freddo
la rabbia selvaggia che spesso sventolava negli occhi chiedi ed
innaturali; si sciolse il suo essere impacciato, divenne ghiaccio e
acqua e vapore caldo sul viso quando si voltò verso Connell,
iracondo, sfatto e più simile ai capelli vermigli del compagno
che alla neve bianca dei suoi inverni.
Risaltavano le iridi diafane, la
smorfia storta della bocca sul volto mal fatto dell’irlandese e
sul sorriso spezzato- si osservarono come nemici e cani ringhiosi,
prima che il rosso, ora sghembo e ridente, afferrò con forza la
nuca del più giovane.
Ariovisto scoppiò e fu un
vulcano, esalò le sue spire, arrabbiato, ostentando ostruzione:
vedeva il rosso delle divise sugli occhi, sul volto il fiato bollente e
caldo e chiuso sulla sua bocca; il respiro imprigionato dalle labbra di
Connell nei loro movimenti bruschi e serpentini, sinuose contro
le sue. Sentì i denti morderlo e la propria confusione chiedere
aria, bloccato dalle mani dell’altro e dall’agitazione;
spingeva contro il suo viso, lo pungeva con la barba tentando di
smorzare la resistenza ed ansia dell’altro.
Ariovisto scattava istintivo lontano dal rosso, e poco dopo lo sentì mugolare, appagato da quel dettaglio.
Uno schiocco più delicato,
sulle labbra, ricambiato con una spinta forte e a tratti euforica e
maldestra- il tedesco respirò di nuovo, e mai l’aria gli
parve più fresca e la polvere più densa; mai subì
un tale affronto ed uno scontro che non era in grado di affrontare.
- Trottel*!-
Ruggì in tedesco, dando una
misura secca e terribile alla parola- Ariovisto quasi volò
sull’erba e sul campo, ad incalzarlo la risata profonda del
compagno, voltandosi e chiedendo ai suoi passi di essere uguali alle
proprie speranze. Sperò di falciare l’aria nel silenzio e
non trovare sasso ed increspatura sul cammino; pregò di non
essere tanto disperato e sovragitato, volle la sua famiglia e la sua
casa e la sua sicurezza addirittura sbranarlo e togliere un sapore
sconosciuto sulle labbra, il calore al ventre ed il dubbio terribile di
essersi lasciato andare ad un fremito.
Scosso, credeva di avere lividi sul
busto ed il petto bollente, nei pantaloni un poco più stretti
della divisa chiara- l’avrebbe strappata durante il rapido
tragitto, mentre falciava il freddo e perdeva l’andatura militare
insegnatagli giorni prima, ridotta in briciole per trovare frescura,
perché “Dio, un uomo mi ha baciato”.
Don giovanni, donnaiolo, amante del gentil sesso e non solo;
ammiratore della beltà e dei piaceri terreni, del soave canto
d’una fanciulla in fiore e dal sorriso candido- Lucio ne aveva
fatto culto, un intreccio perfetto fra lui ed il bello.
Con i suoi gesti piacioni e
naturali catturava l’occhio di giovani visitatrici, che fosse un
occhiolino discreto o un baciamano più posato, sprigionava
incredibile fascino latino, e cosciente se ne compiaceva.
Stava discorrendo
–giust’appunto- con altre tre gonne azzurrine, coi loro
fiori nei capelli ed il viso pieno, Lucio cinguettava amabile del
più e del meno, il sorriso placido e la divisa buona: un
ricciolino dallo sguardo caldo, dal complimento facile, che indocile si
aggrappava al balcone ed osservava le sue grazie.
Ne catturò di nuove, sebbene
punto dal freddo mattutino, ed ammirò il sole, cheto e
tranquillo e rosa nell’aere fiacco.
Notò, sornione, il collo
lungo e pallido di una ragazzina a cui già aveva dedicato un
bacio volante, ed i capelli bruni e mossi, il vago profumo delle viole
ed una pudica timidezza che lo interessavano, e catturarono gli occhi
del Lupo sulla piccola figura, tralasciando le altre, che cauta
s’avvicinava alle scale.
Scossa da una visita, le spalle fragili sobbalzarono, e l’italiano sorrise.
La giovane fata stringeva timida i
fiori, ed era tanto inadatta a quell’austera accademia che
Lucio l’avrebbe portata fuori volentieri, sottobraccio,
guardandone gli occhi da cerbiatta e ciò che vi era sotto e
sopra.
La vide sporgersi, il mazzolino in
mano, ed immediatamente scostarsi: l’occhio catturò il
violento contrasto dei colori che portava Ariovisto, furibondo e
terribile, correva quasi sul marmo liscio.
Era biondo e bianco e rosso e pure
incredibilmente inavvicinabile e selvaggio; scomposto, sfatto, al che
Lucio rise bonario alla caduta delle sue difese.
-Buongiorno! E dire che è solo una settimana che ti alleni!- scandì bene le parole, la voce piena e curiosa.
La risposta non arrivò- e
forse, il giovane, aumentò ancora il passo, lasciando la giovane
attonita e delusa; un piccolo fiore curvo e triste che si volse poi al
gaio romano puntellato sulla ringhiera.
-Ignoralo, bella mia, è un barbaro!-
*Idiota
Ringraziamenti:
Grazie al lettore che giunge in
fondo e continua a seguire la fic! E' un piacere sapere che qualcuno
può trovare la fic un passatempo, un grande grazie anche a chi
piace poco, ma butta un'occhiata. Grazie a chi inserisce fra preferiti
e seguite e ricordate, un abbraccio grande a chi recensisce: Cosmopolita (Iberia è ancora da calcolare, penserò bene a come farla! Promesso!), Adeline_Mad, H2o, McBlebber, Aranciata_, GrandeMadreRussia, Il_Signore_di.
Un bacio, alla prossima!
|
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Capitolo 7 *** Capitolo settimo ***
Tempo antico 7
Note:
Ebben si, ci son voluti sei capitoli per poter introdurre la prima
parte. In verità, la motivazione è molto semplice:
trattandosi di personaggi molto poco trattati inserti addirittura in un
Alternative Universe ho avuto bisogno di presentare al meglio alcune
loro caratteristiche e la loro personalità in modo da renderli
figure ben definite e a sé stanti.
Ho
dovuto fare ricerche particolari per il capitolo- fra la nascita della
bambina al luogo in sé che una volta ho anche avuto la fortuna
di visitare. Chiunque avesse domande, suggerimenti di qualsiasi tipo,
non esiti a commentare o farmelo sapere! Buona lettura :)
Personaggi: Morad Jahandar Farrokhi (Persia)
Inizio parte prima
“Erano giorni in cui avevo il sole negli occhi, amico mio, e non mi dava fastidio.
Camminavo sia nei campi che nella
terra e nel fango, sicuro di essere in prima fila; ero troppo sciocco
per vederne la retroguardia.
C’eri tu, vero? Negli ultimi posti, a guardare le schiene della truppa intera!” –Lucio, ad un amico.
30 gennaio 1756, Palazzo Reale di Torino, ora settima.
I fiati d’ottone con i
tamburi e le mazze appresso, gli sguardi fissi ed i destrieri tutti-
s’intonò la marcia savoiarda quel trenta gennaio del 1756
nel cortile del Palazzo Reale di Torino, e gli echi sonori scivolavano
forti sulle giovani guarnigioni nella Piazzetta Reale e ancora in
Piazza Castello, e sulle tonanti cornici barocche e le scalinate
marmoree.
Risuonarono attente le membra dei
soldati all’ora delle lodi, in fila e di marcia, sotto i
colonnati enormi e potenti e le scale ampie tanto che una gavetta*
avrebbe potuto posizionarvi il suo giaciglio. Si intendeva il brusio
degli abitanti, dei Savoia destati dal sonno- e d’un vagito
acuitosi un’ora prima, la potenza che diveniva uomo ed
abbracciava con tenerezza la neonata Principessa Margherita.
Il palazzo fu calcato dagli sguardi
attenti dei medici di Francoforte e Parigi, la flotta composta dei
più mirabili soldatini dell’Accademia, ordinati e della
miglior misura; sciame composto di trafile blu e rosse, pose rigide e
petti in fuori fermati dalla fascia onoraria- stella a destra,
cavalleria palpitante di fregi e briglie, ornamenti sul pelo strinato
dei destrieri e sulle selle dei fantini.
Si alzava il vento dei nuovi
giorni, dell’anno incombente e dell’Europa tonante sopra ai
festeggiamenti della piccola reale.
Ci si ritrovò sul piazzale
pulito dal freddo, rubando pochi minuti al tempo per ridefinire le
apparenze ed entrare come giovane perla nel Palazzo- Lucio
era tale, che al suo nome chiunque accompagnava un sorriso. Aveva le
tasche piene di danari, un appellativo forte e audace, la feroce
ambizione scambiata da altri per elegante determinazione; lo dicevano
dei suoi calzari, dell’abito da parata, del giovane uomo che
nascondeva un ghigno divertito sulla barba bruna e raccoglieva i
capelli con le dita e il vento.
La sua presenza era voluta e la
cercavano spesso nei convenevoli, e più le preghiere si facevano
insistenti e più gli occhi brillavano compiaciuti, in una
litania quotidiana e cadente, che sebbene desiderata da molti a lungo
andare toglieva il fremito dell’azione.
Per questo Lucio non scostò lo sguardo dal visibile broncio del suo scudiero,
e non ignorò la luce flebile risaltare sui capelli biondi,
l’aria livida affogare su un viso pallido ma pieno e tenace-
suscitava in lui un interesse smodato, tanto da ignorare l’oro
laccato delle trombe, che s’infrangeva pretenzioso
sull’alba nascente.
-Ariovisto, tu rimani qui.-
Vi fu un veloce scambio di sguardi,
uno scontro silente che vide l’occhio animale del tedesco colpire
in pieno viso il Lupo, che carezzava molesto la sua brulicante rabbia.
Ebbene, quindi!- vi era un motivo per cui Lucio non si soffermò
sulla preparazione della parata, il brusio latente dei militari
compatibile e fuso alla brina fredda, pungente.
Era preso ad osservare i gesti
rigidi e secchi dell’altro, l’interesse ingenuo per una
città che aveva mai visto e rifiutava- Ariovisto era uno spreco,
poiché sotto a quel suo mitologico incidere e il dolce moto che
prendeva Lucio al guardarlo, teneva stretto un groviglio di radici e
spine, rovi, felci, bacche scarlatte e muschio, e ancora risentimento e
rabbia ed un rozzo pensare.
Inconciliabile, terribile, un
funesto fauno curioso di sapere il perché della propria
ignoranza, ma stretto ed avvinghiato alle fronde scure della propria
casa.
-Sei arrabbiato? E dire che credevo
di aver fatto un favore a sceglierti, così avresti vist-…
no, no, la stella sulla destra. Dei, come sei barbaro!- il bruno scostò le mani di Ariovisto dal petto, volendosi poi vestire solo della stizza furente dell’amico.
“Si stuzzica la bestia per vederne i limiti!”-
e non vi era interazione più stimolante e acuta del rivoltare un
animo tanto complesso come quello del biondo; fatto solo
d’inceppi e incompletezza, impulsività e onore.
-Preparati da solo, allora.-
strinò la voce del più giovane, lasciando cadere la
propria pazienza e i fregi che ancora mancavano al cavaliere,
ritirandosi scuro nella propria naturale ribellione ad una qualsiasi
forma di costrizione, serrò le labbra ed i lineamenti chiari
divennero più marcati.
Eppure Lucio apriva le fauci in un
sorriso ampio, dedito a concentrarsi sui piccoli cambiamenti che il
biondo si concedeva di far trasparire: pareva una pianta su un terreno
incredibilmente fertile, quale la pubertà, che cambia e snoda
viso e corpo, gioca sulle abitudini ed espressioni e sui vergognosi
desideri dell’inconscio e sorride sul fisico che muta e
s’allunga da un giorno con l’altro.
-È così difficile
farsi obbedire da te.- la voce si piegò in un tono non
più ironico e fece capolino alle orecchie di Ariovisto con uno
sbuffo contrariato, subito confuso dal fruscio di fasce e cotone; Lucio
si appuntò il proprio grado sulle spalle, collaudando la divisa
con tocchi esperti e leggeri, osservandosi e rimirandosi e piacendosi.
Così fasciato avvertì i muscoli tirare sulla stoffa e
raddrizzò le spalle ampie sino a ergersi in tutta la sua modesta
imperiosità, specchiandosi volutamente nel marmo liscio del
piazzale ed abbracciando spavaldo l’umidità.
Lucio porta corone fatte di gigli,
e crescono e s’inerpicano voluttuose a partir dai suoi piedi:
nella piazza v’era una grande bolgia di soldati e divise moventi
ed oscillanti, tanto confuse che si sarebbe faticato solo a riconoscere
uno dei loro visi- eppure il romano rifletteva naturalmente la luce
quasi fosse la natura stessa a volerlo. Ciò feriva gli occhi di
chiunque, disgustando però quelli più irosi di Ariovisto,
che avrebbero preferito più verde e semplicità.
Il lupo osservò
l’altro spostar il capo, piccato, malconcio, più umile,
incartato in abiti modesti- poiché ciò e non altro si meritava.
-Oh!- ed il bruno rovinò
finalmente il suo umore placido, schioccando le dita e la lingua sul
palato, curvando le sopracciglia e sembrando solo più ferino e
pericoloso, perché credendosi grande già si dimenticava
d’esser giovane, -Vento d’oriente!-
S’accorse poi di sibilare,
inconsciamente serpentino e così intrappolato nella sua
lunaticità, accompagnando l’attenzione del più
giovane verso dei colori più accesi, ed il turchese e il
porpora, quel rosso pompeiano che in verità non gli apparteneva-
un cavaliere dalle fronde ampie e scure, che nei capelli neri aveva in
sé riflesse tutte le ombre del selciato, alcuni rimasugli di
queste sulla pelle e negl’occhi; “forse, dico io, forse fin nell’anima”, il rosso rovente sul petto e sul capo e teneva il mento ancor più alto di come faceva Lucio d’abitudine.
Persino il sole pallido parve
rabbrividire quando capì che il suo ruolo era già stato
preso e trafugato dagli ori e rossi strabordanti e ruggenti, quasi a
voler lasciar segni caldi e vistosi nell’aere- come la rabbia
divertita di Lucio, fuoco e focolare tenuto abilmente a bada.
Sperò, il baldanzoso condottiero, d’ignorare al meglio
l’infausta presenza che gli era capitata sotto gli occhi;
più che capelli corvini dell’orientale, Lucio vedeva un
fitto nido di corvi gracchianti e strinanti e fastidiosi.
Li sentì urlare nei timpani,
e quasi si tappò un orecchio nel vedere la genuina
curiosità di Ariovisto per movenze a sguardi tanto diversi
quanto sconosciuti, un’enorme stizza!, malcoperta da un bieco
sdrammatizzare.
“Il ricordo sovviene da un soggetto”, mugugnò Lucio, “ed il soggetto è pessimo”-
poiché la memoria, come un velo, lieve andò a posarsi sul
ricordo d’una vocetta stridula ed un fare irriverente, un
insolito modo di impugnare l’elsa e l’imbottirsi di oro e
risate sguaiate. Ricordò i capricci dell’orientale e
gli schiaffi sonori dati alla sua servitù, quel segnare
sgraziatamente con una piccola daga croci incredibilmente storte sulla
pelle di chi lui stesso considerava tale.
-Lo conosci?-
Ascoltare Ariovisto era udire una
melodia piatta e rara ed incredibilmente rozza talvolta, eppure Lucio
fu quasi grato di averne percepito il tono duro e le fattezze spaccate
e nordiche. Avrebbe voluto portar alle labbra quell’interesse
tanto contadino ed ignorante, impossibile da non notare da chi ne
è superiore- eppure apprezzato perché semplice e umano,
un fiore fresco nel biondo che non avesse petali di ghiaccio.
La situazione lo divertiva, la
stizza di Lucio gli piaceva, e fu un piacere acuto e soddisfatto
accorgersene in tempo, cogliere il bagliore fugace negli occhi chiari
che non era riflesso del sole ma l’ombra di una statica smorfia.
E mentre s’intonarono i rulli
e le piccole percussioni- che grezze fecero cadere i suoni a terra e
sul pavimentato liscio, Lucio si portò una mano al grosso naso,
imitando subito dopo una vocetta falsa e macabramente bianca, la
caricatura d’un povero eunuco.
-Sono Morad dei Farrokhi!- cinguettò stridulo, librando la mano destra verso il lontano persiano, -E Jahandar è il mio secondo nome! Si direbbe “possessore del mondo”, nella tua sciocca lingua!-
Il lupo aveva mosso un passo verso
lo sguardo vivo di Ariovisto, colto dall’immortale enfasi della
satira e muovendosi a tal punto da far sussultare i ricci scuri,
scompigliati e belli ora sul viso.
Intrigante, scoprire che il piccolo
ribelle era di compagnia solo nel silenzio, ed esotico come i pavoni
orientali e le serpi di Cartagine si faceva rimirare solo se non si
sentiva minacciato; al che l’occhio fugace di Lucio colse quattro
ciclamini perlati sulla fibbia della divisa del compagno. Riposavano
candidi, nascosti dal petto e dalla puerile vergogna del biondo
giovane.
-Amico mio! Qualcuno ti ha regalato dei fiori!-
Dal momento che si ruppe quel breve
incanto complice, il sorriso di Lucio si fece immenso e vivido quanto
la rabbia e il silenzio di Ariovisto, che preferì osservar
l’inizio della parata ed i cavalli di marcia e la luce ora
ridondante sui volti freddi dei soldati; si chiuse nell’imbarazzo
e lo trasformò in fastidio, lo decorò sfiorando inerme il
bocciolo tenero di un ciclamino.
30 gennaio 1756, osteria “Il baccante”sul decumano Nord, ora sesta della sera
-Per gli dei, c’era una folla fuori dal Palazzo Reale, e le donne che si alzavano sulle punte per vedere, comari e galline che ho dovuto fermare la marcia del mio cavallo, pensa…-
Lucio parlava e la sua voce fluiva
giocosa sui ritmi di un fiume, raccontava di visioni e aneddoti che lui
solo conosceva e modulava i toni e scatenava un riso biascicato-lui
stesso comunicava con le mani, le braccia tese nell’imitazione di
quel tal generale e si rifrangevano e mischiavano col ribollire di voci
umide e impastate della viva osteria.
Vi era odore di malto, odore di
birra, sulle bocche il sorriso sguaiato dell’operaio nero di
fuliggine e del carpentiere che sapeva dello stesso legno consumato di
inferiate e tavoli- egli odorava di alcool bagnato e cibo e
chiacchiere e canzonacce oscene, era scheggiato ma ridente come
chi vi batteva sopra i pugni e i gomiti doloranti.
-Merda per Signori.- esalò
poi Connell, rosso anche sulle gote, un vulcano gorgogliante e
scoppiettante solo d’obiezioni e birra scura, dal sorriso storto
e slabbrato come una malmessa cicatrice. Le mani vagavano inquiete
dalla divisa di Ariovisto al braccio di Lucio agli occhi divertiti e
sorridenti di Iago, che smise di intonare la sua limpida voce su
ambigue inflessioni francesi, ridendo e volendo di nuovo birra dorata
ad infangargli il viso e malmenargli la gola, in uno sciabordio di
odori acuti e non sempre piacevoli.
-Allora, Ariovisto!- il bruno aveva
sulle gote il languore del vino, e ad esso si lasciava andare come
fosse il migliore fra gli amanti, d’una relazione passionale e
incredibilmente duratura. –Mi dici di chi erano quei benedetti
fiori?- si sporse ora, volendo osservare il viso giovane che cambiava e
mutava e veniva piacevolmente toccato dalla schiuma della birra. Era
livido, rabbioso, lievemente rosato e bello.
-Appunto, fanciullina.
Preferisci me o le attenzioni di Liina?- Connell ridacchiò
provocatore, ed ascoltarlo era come sentir due lamiere stridere fra
loro fragorosamente, scoordinate. Guidato da una rozzeria comune es
estremamente spontanea, battè una mano sulla coscia del giovane
tedesco- e questo sussultò irato, violato nel suo intimo
personale, scuotendo i capelli biondi e raccolti e sentendoli scottare
sul viso a causa dello sguardo di Lucio. Ed era intenso e forte ed
eloquente, e pareva saper più di ciò che dava ad
intendere, ed era interessato e famelico e compassionevole- lo
detestò, poiché gli ricordava di nuovo d’esser
troppo giovane, d’aver ancora l’edera delle sue terre
avvinghiata ai piedi consumati da impulsività e rabbia.
Ciò non gli impedì di
esplicitare il proprio sentimento col medio della mano sinistra,
tenendo l’altra ancorata alla birra e alle risa belle e giocose
del francese.
Erano giovani tutti, ed affamati
mangiavano i giorni che li avrebbero portati alla ribalta- avevano la
mente lontana, dei cuori vibranti e spauriti, un coraggio neonato che
li vedeva ruggire senza paura innanzi al divenire. Lo prendevano,
agguantavano con ambe le mani, ed erano un fuoco vivo, una risata
sguaiata ed un silenzio trattenuto, si ergevano sull’orizzonte
con mani tremanti di voglia e sfida cercando di superarne il confine a
grandi falcate.
Erano giovani tutti, ed accoglievano ballando la vita.
-A me, che tornerò in Franscia
dai miei fratelli!- Iago alzò il boccale ondeggiando, i capelli
sparati agli umori di birre e suoni. Brillavano gli occhi alle fiaccole
luminose, ed erano come magneti.
-Uscirò
da questo schifo.- si aggiunse la mano del rosso irlandese, sciupato ma
fiducioso, tendeva il braccio ancor più in alto.
-A me! Che
avrò il mondo fra le mie mani!- la voce di Lucio era una melodia
forte, e fece tremare sguardi e boccali; ed erano tre, sulla testa dei
soldati.
Ariovisto non
parlò, ma sorrise. Allungò anche il suo di boccale, lo
schiantò contro quello degli altri, e sentì poi bagnato
sul braccio e sul volto e l’odore intimo del branco, il turbine
forte di un coro, la freschezza del domani.
*inteso come militare in tirocinio, soggetto alla condivisione di letti in caserma.
Avviso:
la pubblicazione non potrà essere frequente per un paio di mesi,
dato che sarò impegnata con gli esami di maturità.
Ciò non vuol dire che bloccherò completamente la stesura
di capitoli! Quando i primi di luglio sarà tutto finito
potrò finalmente tirare un sospiro di sollievo.
Altro avviso:
cercherò di inserire personaggi già accennati o stilati.
Nonostante io MUOIA dalla voglia di creare di sana pianta un Iberia, ad
esempio, cercherò di non forare troppo anche per non
disorientare troppo il lettore. Ovviamente, ciò significa che
entreranno in scena altri personaggi, nel corso della storia. In questo
caso, sono sempre ben accetti consigli, dato che cerco di far
inquadrare caratteri, abitudini, aspirazioni anche alle vicende
storiche e tipiche di un certo popolo.
Ringraziamenti:
Grazie
infinite a chiunque abbia letto, visitato, abbia dato supporto e
pareri, perché ho apprezzato infinitamente ciascun intervento!
Grazie mille, davvero, siete ossigeno per le mie parole.
Un grazie speciale a chi ha lasciato la sua gentilissima opinione:
Cosmopolita, Il_Signore_di, Aranciata_, McBlebber, Adeline_Mad, H2o, GrandeMadreRussia.
Alla prossima, Blacket.
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Capitolo 8 *** Capitolo ottavo ***
Tempo antico otto
Note: Finalmente
son tornata! Spero di poter aggiornare presto questa fanfic, a cui in
verità sono molto legata- ringrazio immensamente voi lettori
che mi date sostegno e idee sempre gradite, siete la mia benzina!
Un paio di
precisazioni riguardo al capitolo:
-Ho inventato di
sana pianta la via e il luogo in cui risiede uno dei luoghi citati, mea
culpa! Nel caso qualche torinese leggesse, non me ne voglia male.
-La bicicletta
nel 1758 non è ancora stata inventata. Ciò di cui
parla Lucio, è però un prototipo abbastanza
strano- ne giravano alcuni abbastanza bizzarri in europa, al tempo.
-La
storia è situata due anni dopo il capitolo precedente. In fondo al capitolo
inserirò un elenco di nomi e età, giusto per non
far perdere il lettore.
Vi ringrazio
ancora per la pazienza, spero il capitolo possa piacere! Buona lettura
:)
"Ho in mente quella grande e vecchia quercia, e ne ho rammarico, in
verità. Sarebbe bello rivederne i colori, sebbene i miei
occhi siano troppo stanchi e vecchi per poterla apprezzare come facevi
tu- o sbaglio?" -Lucio, ad un amico.
Giugno 1758,
appartamenti di Lucio, ora quinta
Sapeva di miele e pane, delle lussureggianti colline morbide di muschi
mediterranei- in lei v’era il tiepido vapore del mare, i
flutti giocosi ad adombrare le spalle brune, l’odore di donna
dalla voce d’un guerriero tonante.
Olympia raccoglieva l’oro dal cielo, dalla luce e dalla bruma
estiva, lo posava sugli abiti tanto leggeri che davano dispiacere e
singulto e solo sapevano invitare l’immaginazione a fare del
suo corpo una morbida statua d’abbracciare; e ciò
nonostante il cipiglio irsuto d’un rammarico, un
problema che vagava fra le gote sorridenti e le palpebre stanche di
ragionare di alte cose con asini cocciuti e imprevedibili, famelici
come le belve delle foreste.
- Morad aspetta di vederti cadere, Lucio.-
Ed il sole entrò con un sussurro,
nell’indiscrezione rosea dell’alba che
già andava ad importunare il cielo placido e vivo- e
così fece una risata vorace e piena, giovane ed antica come
il mondo, dura perché sgattaiolata fuori dalle labbra di un
uomo che già da tempo aveva abbandonato le spoglie di un
ragazzino.
Lucio aveva vent’anni, era bello ed era forte, era pragmatico
e sorridente ed era duro e dolce come i datteri di cui si sporcava le
mani grezze. Olympia lo sentì vicino, ad ingarbugliarsi le
gambe con le coperte, a cercare la fenditura che avrebbe permesso alla
sua mano bollente di raggiungere i seni di lei, coperti solo da caldo e
aria secca.
-Quando verrà sarò pronto.- dita calde sui
fianchi, bollenti, andarono a viziare la pelle profumata con
un’insistenza che nascondeva solo voglie, - Non ho paura, lo sai.-
Le mani si mossero in placide carezze, e a seguire tutta la mole di
Lucio andò incontro alle forme sinuose della sua Dea,
sfiorate dai raggi nascenti e dall’odore prorompente del
grano maturo che sulle sue labbra diveniva il miele delle regine-
morbido e sfuggente, da saggiare con prepotenza.
Questa volta fu lei a ridere, e Lucio avvertì gli spasimi
sprezzanti dal suo ventre, dove i polpastrelli iniziavano a bruciar le
resistenze della bella greca, girovagando cheti e predatori
sull’ombelico. Il lupo sorrideva sornione, le labbra distese
e gli occhi pieni d’aspettativa feroce, ma ora buoni e docili
se accarezzati dai ricci bruni- non vi era altro che sicurezza e
sensuale compiacimento nei suoi gesti, che potevano solo esser fuoco e
passione ridente se fra le sue mani aveva i fianchi morbidi di una
donna.
- Dei, quel tipo non vuole solo
umiliarti!, e non sei tanto sciocco da non averlo notato.-
sospirò poi, frustrata di non essere ascoltata: il verbo era
potente ed era primo e ultimo, ed il romano ne ignorava
l’importanza con gesti frivoli delle mani ed un sorriso- e
quella mattina lo fece con le sua labbra, posandole sul petto di lei ed
accompagnando il suo muoversi con una carezza.
Lucio era bollente e pareva esser fatto di fuoco e lava, energia pura a
librarsi sotto la pelle bronzea, attorno al sorriso trionfante- sapeva
d’oro e delle colline romane, sapeva di vino e polvere, e
nulla sarebbe stato più splendente poiché si
ergeva sull’assoluta convinzione di stringere fra le fauci la
vittoria.
Un trionfo che marcia su sussurri voluttuosi che conoscono solo parole
di vergogna e lussuria, e che son rauchi e caldi sulla pelle di
Olympia, ora che il Lupo la intrappola nella sua rete di braccia e
mani, si strofina nudo su di lei e volutamente la provoca con malizia; “le donne parlano e
creano dispiaceri”, il romano mugugna,
poiché vorrebbe sentire solo il proprio nome decorato di
ansiti coraggiosamente mal trattenuti, magari un risolino frivolo e
leggero ad increspare l’aria.
-Chi ti guarderà le spalle, Lucio? Ariovisto non
è più sotto il tuo comando, da…mesi,
oramai-..-
Venne interrotto un sospiro, provocato dai ricci scuri di lui sul
collo, sui seni morbidi, sul ventre. La donna rivide il volto del
giovane tedesco farsi più duro con gli anni, rimanere
diafano e imprendibile quanto selvaggio e accartocciato in un grugno
d’insofferenza.
- Ariovisto è un bell’uomo.-
“Stupido,
sciocco!- sciocco d’un romano”,
abituato a vedere il proprio ego dominare la negatività
degli occhi altrui, che ignorava parole tanto vere quanto sgradite e
che addirittura non si vogliono sentire. Lucio viaggiava col vento e
brama di vedere lontano, la disgrazia lo toccava ma non arriva a
ferirlo, la sfortuna cercava di pestare i suoi piedi inutilmente: forse
era proprio quella sua esagerata confidenza nella propria
determinazione a renderlo tanto forte.
Eppure Olympia ricordò con un sorriso i fiori che Lucio le
regalava –non mancava di rose rosse, di tenere margherite,
dell’odore pieno e dolce del glicine che le intrecciava fra i
capelli-, ricordò i suoi gesti semplici e curiosi, il modo
in cui accarezzava il grano quando insisteva per portarla nelle bionde
campagne a farsi baciare dal sole.
Osservò le mani del cadetto strette sui fianchi, gli occhi
felini puntati su di lei, la lingua impudica a giocare col suo
ombelico.
Fremette e gli sorrise, perché nulla del genere poteva
essere nascosto ad un condottiero simile, che stava ancora cercando il
proprio stendardo e la propria vittoria, sicuro già
d’averla. Non v’era più resistenza,
remore, parole indesiderate o dubbio. Il romano la guidava sapendo di
averne il permesso, felice di oscurare il volto contratto del persiano
dal suo immaginario.
- Ma è così giovane.- Olympia si distese sorniona
come i suoi gatti dalle zampe chiare, stringendo le cosce attorno
all’intruso che la pizzicava prima ancora che il sole si
svegliasse con prontezza, -Ariovisto è così
giovane, con quei suoi diciassette anni…-
Non sentì Lucio sorridere, ma le labbra si distesero sulla
sua pelle.
-Ed è un uomo.-
Non avrebbe avuto tempo nemmeno per ribattere, perché il
Lupo si faceva insistente e il pensiero di doverlo fermare le stringeva
il cuore. Rimangiò la propria preoccupazione in un ansito,
perché era donna e forte e audace, e un avviso era tutto
ciò che della sua mente poteva ancora donare.
Le sarebbe piaciuto potersi dire infastidita, far si che il suo sguardo
fosse duro e saggio, ma le mani di Lucio parevano ancora più
risentite di lei; cercavano le sue forme, straziavano le curve,
s’insinuavano fra le sue ombre in modo sfacciato ed
eccitante. La smussavano come l’artista fa sulla scultura, le
dita premevano sui nervi rilassati e venivano seguiti dai mugugni
profondi che Lucio lasciava scivolare, come a dirle di non parlare
più, che non v’era bisogno o necessità
di farlo.
Il romano si espresse con estrema chiarezza bruciando le sue labbra con
le proprie, che erano felici e sapevano dove muoversi, saggiavano
sapori dolci e intrappolavano ansiti- così naturalmente, che
pareva essere solito ad assuefarsi di quei baci da tutta una vita.
Eppure nel fronteggiarsi con la verità più
pericolosa, Olympia realizzò diverse volte, dopo e prima dei
loro amplessi, che se il soldato ben conosceva la
sensibilità della sua pelle altrettanto bene si era fatto
spazio con forza ed un sorriso fra i suoi pensieri.
Lucio conosceva la sua mente e la osservava come avrebbe fatto
ammirando le statue della sua patria, e ciò la faceva
sentire irata e spoglia della sua privata interiorità.
“Anche
se”, e la greca lo pensò schiudendo
le labbra in un gemito, “forse,
non mi è mai servita”.
Si calcavano i contorni di un 1758 che traboccava caldo e sudore;
sfiorava le campagne il sole, sfiorava le guglie della gotica
città Torinese, carezzava con troppa forza i san pietrini
del luogo.
L’Accademia torceva il naso ed annaspava il suo sorriso-
stupidamente, attribuì gli umori appiccicosi
dell’afa all’anomalo bruciore che il persiano Morad
Jahandar dei Farrokhi aveva portato infra le scale marmoree e le grandi
navate. Che fossero state le sue vesti, di così vistosi
colori? L’occhio acuto, brillante e nero; forse fu il suo
sorriso, la sua ambizione e il suo astio verso un ben conosciuto Lupo a
portare i placidi venti di Scirocco?
Giugno 1758,
in parallelo alla via Alighieri, ora sedicesima
Raggiunse il campetto di corsa, calpestando le spighe e
l’erbacce e i soffioni, tenendo stretta a sé la
bicicletta nera, stanca più di lui ma ben funzionante.
Lucio era veloce, poiché conosceva la stradina di terra
battuta che portava ad un piccolo campetto- là, dietro
l’accademia reale, dove si alzava la polvere e una quercia
tanto bella da esser scambiata per una compagna. Aveva grandi fronde
robuste, foglie dorate e fresche, portava ai suoi piedi gobbe di radici
tanto grandi da non riuscir a sprofondare con dovizia, che divenivano
panchine e ritrovi per i soldatini in pausa.
Nel campo dietro a via Alighieri vi era il suono delle campanule
fiorite, il riverbero lontano di una piccola fontanella e
l’aspra terra battuta ornata di verde e placidi germogli
maturi- un melo sostava selvaggio e solitario, offrendo frutti teneri e
farinosi, ma gratuiti e ben graditi.
Il romano afferrò una piccola mela giallognola, strappandola
alla madre e mordendola con gusto. Si bagnò le
labbra col succo dolce, pensando che le felci stavano soffrendo il
calore e l’erba si sforzava per essere fresca- la natura gli
ricordò Ariovisto e il suo continuo spogliarsi della divisa
a causa di un sole malandrino e troppo acuto. Sperò di
trovare l’amico appuntato su un ramo, il suo aspetto silvano
a decorare la grande quercia, il fare pensoso volto al nulla.
La sua compagnia gli era cara poiché quell’essere
suscitava interesse, e ai suoi occhi era ancora un animale posto in
cattività, che ancora ringhiava e si ribellava al padrone ,
mostrava i denti non per abitudine ma per il prepotente orgoglio che
gli impediva di adattarsi come sarebbe dovuto essere.
Eppure Lucio continuava a far leva sul suo potere di smussarlo-
insistenza che portò a pochi risultati, sebbene consistenti:
ora Ariovisto lo insultava e provocava in più lingue, col
tempo si era fatto non meno selvaggio ma più composto.
Il moro sorrise, vedendo il tedesco seduto ai fianchi delle radici,
cercando la solitudine a lui tanto cara. Non era raro che sparisse
d’un tratto, lasciando a volte preoccupazione in quel forte
ragazzone, Diederik, che spesso lo osservava risentito del malumore che
si portano a dietro i fratelli.
-Ariovisto!-
La risposta fu un alzare gli occhi al cielo, un velo
d’impazienza a velare gli occhi verdi che si facevano sempre
più vicino, “ed
è vero, è vero”, Lucio
aumenta il passo, tiene stretto il manubrio della bici con la mano
destra, “non
è ancora in grado di controllarsi”.
-Questo è un marchingegno un po’ complicato, non
guardarlo a questa maniera, mica ti mangia!- l’italiano
sorrise, accovacciandosi vicino al compagno, attento a non sfiorare il
moschetto da tiratore. Il giovane biondo aveva da tempo dimostrato di
avere in sé la temibile mira della dea Diana, e
l’accademia ne aveva approfittato, offrendogli con un sorriso
la possibilità di divenire ancora più acuto e
terribile- lo chiamavano Falco sorridendo e ghignando, ma senza osar
mettersi sulla sua traiettoria.
- Non mi piace essere disturbato.-
Ariovisto gli regalò uno sguardo torvo, prima di afferrare
la mela dalle mani di Lucio per morderla con forza, accigliandosi
progressivamente. Era fiorito d’un botto, divenendo alto e
slanciato, acuendo i propri lineamenti, facendo divenire la propria
espressione ancora più brusca ma sempre bella
perché legata ad un aspetto piacente e irraggiungibile.
Il biondo guerriero veniva dalle foreste, e Lucio non poteva immaginare
per lui una madre che fosse umana; forse una ninfa, magari una
Valchiria, addirittura la Schwartzwald stessa!, con le sue fronde brune
e fitte.
- Non disturbo, sono venuto a prenderti. Suvvia, non atteggiarti a me
con quell’aria da brigante.-
Lucio gli scostò i capelli, si prese la libertà
di sfiorare e tastare il labbro viola e traumefatto, forse desiderando
di scatenare in lui una qualsiasi umana reazione. –Ti alleni
ancora così tanto? Ti stanchi solo di ascoltarmi mentre
cerco di insegnarti qualcosa, a quanto vedo.-
Alla provocazione seguì una risata, a sua volta interrotta
da una pesante gomitata nelle costole del romano, che
mugugnò e inspirò l’aria calda,
borbottando qualcosa a proposito della barbarie incivile che pareva
animare Ariovisto.
-Dei, come sei barbaro!
Cerca di non far così al nostro prossimo turno!-
tossì e si alzò, incontrando i pochi
raggi luminosi che fendevano le foglie e saggiandoli come fossero vino-
il romano tratteneva un’energia spaventosa e distruttiva, che
inutilmente cercava di distillare infastidendo chi gli gironzolava
attorno; energia che sublimava con la buona tavola, con il
combattimento e il sesso.
-Vicino ad un bordello.- precisò, sfiorandosi la barba
curata coi polpastrelli, mostrando lo sguardo audace di un predatore e
un compiacimento che avrebbe causato vergogna in chiunque. Lucio
combatteva anche a letto, non era difficile immaginarlo. Dominava,
mordeva e grugniva ansiti atti solo a far sciogliere il proprio
avversario fra le mani- sentire i muri della pudicizia cedere, il
proprio nome invocato come quello di un dio.
- Non so come tu faccia ad essere così insensibile verso le
donne, Ariovisto.- ed istintivamente gli occhi si soffermarono sulle
labbra, sì belle ma contorte in una smorfia e rosse e viola
d’un livido ben evidente. Il biondo non le schiuse, chiudendo
il proprio pensiero fra i rami boschivi della sua mente, forse
segregandolo col muschio umido del nord.
-Ti piacciono gli uomini?- Lucio borbottò tranquillo, non
vedendo mali nella sua curiosità, che era ora limpida e
acqua zampillante che tossiva poco più in là- non
v’era malizia sul volto, poiché concentrato a
stirare le pieghe della divisa blu e non sullo spintone che gli rivolse
l’amico, che aveva cara la propria intimità quanto
lui i vini rossi della Puglia.
-Sei sfacciato.- la voce di Ariovisto era un contrasto duro e dolce, un
addio definitivo alla sua fanciullezza.
-E tu un incivile! Staresti meglio a vivere nelle foreste con i lupi, bifolco!-
Seguirono pochi passi, colpi e mugugni, una risata e ringhi sommessi
che fecero da eco ai loro passi, al ticchettare di
quell’arnese che Lucio portava sottobraccio.
Si chiudevano le parole in quel campetto ora vuoto, che ora ospitava
solo briciole di una compagnia: l’eco del parlottare di
Lucio, le risposte secche di Ariovisto, e nulla più che un
torsolo di mela lanciato distrattamente nei pressi della quercia.
Giugno 1758,
vicolo di guardia, ora ventunesima
Fu complicato schiarire la vista sugli edifici storti, sui mattoni
sporchi quanto il vociare confuso degli avventori di ogni tipo; chi
cercava il sorriso rincuorante del vino, chi il calore che poteva
offrire una prostituta dai tratti esotici.
L’aria era densa e malfatta, era storta e alcolica, eppur
Iago non voleva farci caso: fischiettava una melodia malata, alla quale
ogni tanto lasciava aggiungere qualche parola tanto grezza che pareva
stonare con la perfetta musicalità della sua voce.
Il tragitto era stato intervallato da un gorgogliare sommesso, di come
Connell salutò Ariovisto nominandolo fanciullina e
proponendosi da fargli d’accompagnatore, e di come Ariovisto
contrattaccasse con ruggiti pari a quelli delle più violente
fiere. Il discorso degenerò quando Lucio vide le belle forme
di una donna, e contemporaneamente il vulcano irlandese chiese
all’amico biondo quanto volesse per un servizietto- senza
alcuna remora, per carità.
Infine, dopo un gancio destro andato a segno, il romano si fece guidare
nei suoi giudizi dalla vocalità di Iago, soffermandosi sulla
diaspora forzata della scorta, sui tendaggi indaco e porpora che vide
fluttuare all’entrata della casa di piacere.
Pensò a Morad,
pensò che non sarebbe stato piacevole trovarlo in certi
atteggiamenti- eppure il cuore di Lucio esplose adrenalinico, non vide
più donne ma un’eccitante occasione d’un
inconsueta lotta; strinse lo spadino, i pugni, brillò della
sua solita alterigia sperando quasi di poter afferrare con forza e
superiorità i capelli corvini del persiano, invitandolo allo
scontro.
Era tanto preso nella gloriosa elucubrazione, che non badò
più alla sgangherata melodia che uno dei suoi compagni gli
offriva, tantomeno alle lamentele di Connell circa il dolore al naso-
ignorò stupidamente e inconsapevolmente il frastornante
battito del cuore di Ariovisto.
Egli guardava rapito un voluttuoso vortice di capelli rossi e lentiggini chiare;
osservava una donna
preso dolcemente dal desiderio di sfiorarla e di carpirne il nome-
divenne rosso quando incontrò gli occhi verdi, il fisico
asciutto, le movenze che per lui erano tali a quelle di una fata.
Ariovisto ricordò Liina, dalle guance rosee e dalla fiera
timidezza, e non vide nulla di lei nel portamento fiero della
fiammeggiante sconosciuta che risvegliava pericolosamente i fuochi
della sua pubertà- e lo faceva con la folta chioma
vulcanica, le pupille dilatate e curiose e tanto luminose da
ricordare la volta e le stelle.
Fu solo quando la gola divenne secca e i pantaloni troppo stretti, che
preferì annegare gli occhi spaventati nel cielo estivo.
Piccolo glossario:
Lucio Tullio Cincinnato (20 anni): Impero Romano
Ariovisto Beilschmidt (17 anni): Magna Germania
Morad Jahandar dei Farrokhi (21 anni): Persia
Olympia (24 anni): Magna Grecia
Iago (21 anni): Gallia
Connell (20 anni): Configurato come padre dei Celti, personaggio creato
da Kochei
che mi ha gentilmente dato il permesso di poterlo utilizzare nella mia
fic.
Liina (16 anni): Aestii
Diederik (23 anni): Scandinavia
Ringrazio di cuore chiunque continui a seguire la vicenda, invitando a
lasciare un commentino. Nel caso aveste richieste, dubbi, idee per
altri personaggi, sono prontissima ad ascoltare con piacere!
Un grazie speciale a: Cosmopolita,
McBlebber, Aranciata_, Adeline Mad, GrandeMadreRussia, H2o,
Il_Signore_di che mi lasciano sempre un parere.
Alla prossima (spero il più presto possibile), Blacket.
|
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Capitolo 9 *** Capitolo nono ***
Tempo antico 9
Note:
Finalmente riesco ad aggiornare! In questi mesi ho stravolto la trama,
fatto la maturità, iniziato un qualcosa di nuovo e diversi altri
progetti che potete trovare sul profilo. Spero mi perdonerete per il
ritardo, difficilmente abbandonerei una Fiction a cui sono tanto
legata. In cambio, lasciatemi un commentino- è essenziale per me
sapere cosa sto combinando, capire se ciò che scrivo può
dare qualcosa a qualcuno e se vale la pena continuare.
Passando al capitolo: abbiamo due comparse già preannunciate nelle note precedenti, Arinne (Antica Britannia) e Isabél (Iberia).
Le vedremo più spesso in seguito, e mi piacerebbe sapere che
pensate di personaggi come loro, oltre al ruolo che ricopriranno poi.
Vi ringrazio di cuore, buona lettura!
“Le carezze non son mai state tanto dure e soffocanti, amico mio.
Là –per Dio!- ho lasciato il mio cuore giovane, bestemmie,
lacrime! Avresti dovuto prender la tua parte, erano anche per
te.” –Lucio, ad un amico.
Giugno 1758, osteria delle quattro stagioni, ora ventunesima
L’osteria delle quattro
stagioni ospitava l’anima del farabutto, del brutto e della
polvere, della birra e del vento di qualsiasi contrada e altra
cittadina; s’incastrava a Torino per puro caso, e non v’era
uno solo degli avventori che si sentisse fra la morsa dei Savoia se
sedeva sui tavoli beccati e unti- di birra e di alcool, delle curve
delle belle donne giunte dai quattro angoli della terra, a ricordare
che di bello v’era tutto o ovunque si cercasse.
Il locale portava un paio
d’occhi ciechi, le finestre dai vetri colorati di oro e porpora e
verde che lasciavano solo le ombre a passare pretenziose da fuori;
giusto s’intravedevano i corsetti stretti di chi serviva piaceri,
lo slancio dello stanco avventuriero che posava mano sul proprio
boccale. Era l’udito ad ingannare il luogo, l’olfatto a
renderlo quasi appetibile a chiunque avesse abbastanza fame da ignorare
i latrati e le canzonacce che solevano cantarsi solo in compagnia. Chi
avrebbe teso l’orecchio sarebbe andato incontro al sussurro
d’un paio di amici, al gemito degli amanti e le porte delle
camere che andavano chiudendosi frettolose, timbri di voce mai normali
e atoni, un gorgogliare che non conosceva accento udibile altrove.
Lucio s’incamminò
all’entrata tenendosi la casacca da caserma, scintillante e
armata e bellissima; gli pareva sentire il profumo delle vesti Persiane
che Morad si portava appresso e il suo cantare di imprese mirabolanti-
il romano ghignò perché furioso, felice e adrenalinico di
trasformare le proprie mani in un paio di pugni che non erano tanto
concordi con la giustizia. Connell seguì il viso di
Isabél, che diceva di essere catalana e aveva la pelle bruna, ed
era semplice tanto quanto bastava per dimenticare che Ariovisto con lui
non ci voleva stare- il giovane fauno era stato rapito per la prima
volta in vita sua, e il cuore adolescente tamburellava sconvolto da
simili voglie. Avrebbe conosciuto il suo desiderio come Arinne, e non
avrebbe più staccato gli occhi dalle lunghe trecce rosse che si
sarebbe prodigata a sciogliere solo per vedere il volto pallido fiorire
in una maschera di spavento e meraviglia. Il giovane guerriero biondo
ignorava sé e i ciottoli irregolari- l’osservava tenendo
il fiato in una saccoccia, estraneo allo sguardo curioso di Lucio, che
era un lupo ed era furbo, e aveva capito più di quello che
avrebbe dovuto.
Iago non smise di cantare. Fu un bene, poiché ai tre stupidi
omini che si lasciavano prendere dalle emozioni e dalla vita tutto
parve di norma e regola- e fino a che l’accento francese
dell’amico avrebbe scandito il pulsare di mani, cuore e
pantaloni, tutto andava bene. Attorcigliava le erre
e univa gli accenti di parole diverse, andando a creare una sinfonia
che non era invero di nessuna lingua, ed era comunque perfetta: Iago
andava là per dar voce al meraviglioso dono del canto che Dio
aveva voluto che usasse in più modi, per aver sue donne, soldi o
il semplice ed elementare cardine filosofico di quattro disgraziati
senza alcuna percezione del mondo reale.
Si abbassava l’occhio del
sole sulle guglie della Torino magica e oscura, gotica e puntuta e
ancor più potente se buia- piena degli anfratti ove chinavano il
capo i fantasmi e le streghe. Giocava a ridere illuminata dal sole
rabbioso, baciando con imbarazzo il cielo ancora roseo, pallido e viola
dopo un sospiro che fece da corona all’orizzonte caldo
dell’estate. V’erano le lucciole a cantare del sole,
fluttuavano fuori dagli schemi di qualsiasi casa o strada. Ronzavano
pigre sperando –un poco, quel che basta- di somigliare alle
sorelle stelle.
Vi fu un sussulto conciso di
un’atmosfera già ubriaca, e parve più il salto
della dama in una giga- la musica non si smorzò, e persino
l’ometto tremulo che cerca Gin scadente e nulla più ha
visto le rose dell'Accademia appuntate alle divise dei soldatini, lo
spadino di guardia e la rocchetta al fianco; uno di loro ha la
baionetta, ed è rosso ed enorme, chiama pericolo e le terre
della bassa Irlanda, dove si dormiva più in una birreria che con
la moglie.
V’erano foglie d’alloro
secche appese alle travi –zuppe di freddo e nebbia e di alcool-,
e Iago le scelse per cantare ed intonare una vecchia canzone dal
parlato tanto verde da sembrare un epilogo e un commiato adatto alle
piantine secche che l’osservavano tanto curiose.
S’iniziò strimpellando una pianola sfatta e fumata quanto
gli avventori, placida e abbastanza fortunata da incontrare ogni tanto
qualcuno che coraggiosamente inforcava i tasti -ancora bianchi!-,
e iniziava a dare l’accompagnamento ai ventri contorsi in risa,
al parlare sguaiato e sputato fra i denti che dava sostegno al luogo-
forse più dell’oro e dell’argento. “Oh yew tell me Sean O’Farrell, tell me why you hurry so!”, un ibrido di suoni e cantilene aggrappate con forza sovrumana alla langue d’Oil
delle sue terre; ma nessuno fece caso, poiché la voce del
giovane francese dai capelli di paglia avrebbe fatto piangere Angeli e
Santi.
Un paio d’operai andarono
incontro al suo fare, e con loro un ragazzo tinto dei più focosi
colori dell’Asia. Portava la porpora violenta ed il ciano ancor
più denso a decorare il petto, l’oro sibillino ad
incrociare i polsi fini e le spalle, la fronte colorata dal catrame
soffocante dei capelli e la mano tesa a mezz’aria, quasi si
aspettasse d’essere ancora baciata. Non chinava la testa, Morad,
né per guardarsi il petto o i piedi, e così lasciava che
altri facessero per lui- quale Lucio, che osservava munito da un
ghignare spaventoso la scimitarra, che odorava di vecchio e
dell’antico, e forse aveva qualcosa da insegnare pure alla
vecchia via del Decumano Sud.
- Speravo d’incontrare il tuo harem,
Morad!- il lupo si muoveva sugli stessi assi dell’asiatico, che
erano sconnessi e fitti di genti che amavano guardar in alto, ed era
elegante e spartano in più modi, portava in gola il dono
dell’orazione pungente ed era afflitto da una determinazione
votata al successo e al dio Saturno, tanto era pesante. Raccolse i
ricci fra le dita tozze, lasciando lo sguardo a sibilare sul volto
sbarbato di quel ragazzetto che voleva farsi vedere e conoscere come i
vecchi sultani d’oriente. Era nero e curvo, e Lucio subiva il
puzzo del narghilè.
-Voglio vederti cadere, Lucio.-
“Serpente, vipera!”, e andò disegnandosi una calma esagitata sul volto bruno, il riso forte sotto la barba scura, schiuso a mezzaluna, -Voglio la tua testa sul banco del tribunale dell’Accademia.-
Il corvo alzò il mento e le
labbra morbide, stirando le proprie ali nere e lo sguardo vivo
d’un demone- e questa era l’opinione di Lucio, che mai
aveva avuto modo di vedere con obiettività il proprio mondo,
tanto da disegnarsi i propri problemi da sé. Suonarono parole
aspre e di malaugurio, e vennero percepite come accartocciate e
nauseabonde dall’orecchio di chiunque e dell’altrui, che
curioso si posava sui vestiti di giovanotti tanto inconsueti e
spavaldi. Un vecchio manovale, un avvoltoio piegato sul proprio ventre,
pensò fossero pure tanto stupidi oltre che belli, e senza
saperlo concordò con una dozzina d’operai che avevano mani
così sporche da non poterle più lavare.
- Voglio
il nome della tua casa fuori da Torino.- sistemandosi la giubba
insolita e coperta di veli, iniziò a somigliare in maniera
raccapricciante ai volti presi nei Giardini Pensili, al caldo afoso
d’una terra ricca che portava ancora sul palato, insaporita dal
miele più di altre. S’accese tardi l’occhio
scurissimo e furbo, perché il furore e lo scoppiettare che vide
in Lucio provocò in lui un singulto; tanto era vivo come
multiforme, dalla potenza vigorosa dei titani di cui si narrava a
partire dalle fredde terre di Sif.
Furono sguainate le fauci bianche del lupo, torte in
un’espressività poco ingannevole: s’avvicinò
sino a potergli mangiare il volto, i capelli, accartocciare con una
zampata le ali nere e unte di qualsivoglia vizio.
- Sei un cane, Morad.- “Un cane!, un vile che volta la schiena alla mia spada!”,
lo pensò con la spontaneità di chi si crede nel giusto,
gonfiandosi del tremore furibondo del fuoco e dell’anima ululante
della tempesta.
-Fanciullina,
piantala di strisciare il culo a questa maniera.- Connell parlava col
suono che faceva la macina schiacciando il grano, irrobustiva la voce
con termini tanto schietti da far bruciare le orecchie; non era suo
compito dar vanto d’eleganza, e spesso s’impegnava nel
cantare come avrebbe fatto una lamiera scossa e percossa dagli spadoni,
borbottando un’invidiabile varietà di parlato grezzo e
occasionale. Muggiva e barriva al posto di parlare come si conveniva, e
andava giustificandosi delle attenzioni mancate di Ariovisto “per chi, poi? Una prostituta da capelli rossi?”.
Teneva il muso animale accartocciato sotto le sopracciglia spesse, la
barba smozzicata veniva turbata dalle mani scure e gentili di
Isabél- buona e cara e bella, dal viso dolce e i palmi grezzi,
abbracciata dai gesti bruschi di un soldatino irlandese. Veniva
dall’anziana Toledo, e non v’era nessuno che aveva occhi
tanto misericordiosi e lucidi come i suoi, ed i sospiri tanto profondi
e sporchi di farina. Ascoltava con un orecchio Connell, che conosceva
da tempo in tutti i modi più intimi possibili, e con l’altro il cantare allegro di Iago che era giunto sulle note basse latrando la parola moon più volte, prendendosi gli applausi gravosamente secchi di pochi intenditori già alticci.
- Arinne è molto bella.- ballava e teneva con rigore il fisico minuto, era una fiamma piroettante.
- Io ho lo stesso colore dei suoi
capelli…- la mano della volpe andò a salutare le curve
morbide di lei, tastò Isabél con irriverenza ed una sana
frustrazione –come andava pensando-, facendo balbettare le dita
sui nastri del corsetto, che non voleva saperne di allentarsi quel poco
che avrebbe voluto lui. –… Eppure non mi guarda così!-
batté poi un palmo sulle cosce, pizzicandosi come il visino
selvatico di Arinne pizzicava le gote tirate di Ariovisto, che era
impettito e seduto davanti al compagno ma che sentiva e vedeva solo
quello che il cuore d’un ragazzetto comanda. Aveva il fiato e
polmoni gravidi d’un interesse genuinamente appena fiorito, pieno
delle labbra di una piccola folletta rossa che non si schiudevano mai,
del saltellare rapido attorno ai tavoli- era sfuggente, fatta di vento!
Anche il guerriero boccheggia se
preso alla sprovvista, ed è costretto ad abbandonare
l’arma ed il cuore alla cintola, subendo ciò che
c’è di bello e brutto al mondo; la giovane gli
passò attorno, osservò il volto contratto schiantato sul
tavolo dell’omino biondo, che seppur bello era più simile
a quello di martire messo in croce. Non le piacque, quell’uomo
non la guardava.
- Cara, fermati, fermati un attimo!-
Isabél lasciava i desideri
di Connell realzzarsi sulla vita, sul petto, sull’imminente
scelta di una camera, e teneva per sé un piccolo riguardo
capriccioso ma docile- prese lo sguardo di Arinne e indicò
Ariovisto, il broncio scolpito agli angoli delle labbra fini, fra le
sopracciglia corrotte dalla preoccupazione e prese in giro dal riso
faticoso dell’amico, divertito dall’improbabilità
del caso e da un nastrino d’un busto che oramai aveva ceduto. "Fermati a dar compagnia!”, e Ariovisto non la sentì bene, perché Iago aveva rinforzato la gola e
la fata rossa aveva gli occhi d’una cerva e le lentiggini sul
musetto fine, era una triste ribelle che meritava il capo altrui
rispettosamente chino. Così fece il tedesco, prima del secondo giro di valzer.
Furono le undici, e l’osteria
prese fiato di nuovo, in una sera presa dal balbettare allegro
d’un vulcano: dopo un tonfo arrivò il ringhiare di Lucio,
che parlava di madri, figli, Dei e porci tutti assieme, in un’ouverture di rabbia che fece scappare un mezzo applauso a Connell, forzato a staccar le mani dall’ispanica.
Si spaventò Iago,
riattaccando a suonare come meglio poteva; lo fece Arinne dopo aver
visto per bene il biondo fattosi freccia e balzare in piedi scostandosi
dal tavolo, arraffando con decisione i rantoli che facevano a loro modo
la musica del luogo- ed erano un poco italiani, latini e volgari,
animali quanto bastava.
Arrivò alle scale, senza
accorgersi che le lunghe trecce d’una donna lo seguivano curiose
e feline. Queste lasciarono i baci caldi di Isabél, le risa che
facevano da risacca, il modulare molle di un francese che ancora si
chiedeva che poteva farci una tastierina simile alle quattro stagioni-
ella aveva visto e viaggiato molto più di lui, conoscendo il
mare tempestoso e saggiando le spezie d’oriente!, ma questo Iago
non poteva certo saperlo.
Il piano superiore era modesto,
perché non doveva certo soddisfare i piaceri d’un esteta.
Curava con sguardo silenzioso sei letti e qualche finestra di meno, i
piedini frettolosi delle prostitute e i compagni che le sceglievano.
Contava poca fedele mobilia, metà della quale era riversa nel
corridoio, morente e beccata e spaccata in più punti, trafitta
dal fare volgare di due sciocche bestie.
- Lucio?!- la voce di Ariovisto non
tradiva la sua gioventù in alcun modo, era ancora limpida e
aveva tempo per corrompersi di ogni cosa, e tintinnò grave sugli
ansiti di un palese scontrarsi. Moderò la camminata, si fece la
lince che con stupore veniva seguita al campo, poco prima che venisse
nominata cecchino d’insaziabile bravura.
-Perché non mi guardi?- un
cinguettare deciso e sporco gli gonfiò le orecchie rosse,
andando ad infrangersi sulle membra ora rigide e colte dallo spavento;
Arinne più che guardarlo annusava il suo profumo, ed era
scattante e nervosamente selvaggia nel suo fare veloce, distante
dall’odore di campo di Liina e lo sguardo placido che gli volgeva.
- Non ho tempo.-
- Perché non mi guardi?-
tirò la divisa, il naso orgogliosamente portato
all’insù le carezzava il broncio, di certo non nato per
una rissa, quanto dall’incomprensione testarda e offesa che si
trascinava a dietro: Arinne era rossa, rossa la sua anima furiosa
piegata dalla disgrazia. Aveva tenuto la testa china fra le gambe di
più d’un uomo accogliendo spinte accompagnate solo da un
paio di povere lacrime, eppure restava fiera e feroce e indomita.
- Sei bella.- lo sguardo smaliziato
di Ariovisto le fece piacere, poiché da tempo aveva smesso di
definirsi donna, tanto che le trecce vaporose e lunghe avevano iniziato
ad irritarla, -ma non ti voglio così. Non sei il mio premio.-
Se la bella fata d’Albione si
tendeva commossa, Ariovisto accennò al suo cuore di morire un
paio di volte, rinfrancato da una limpidezza che avrebbe potuto gestire
solo a quella maniera- che de facto,
aveva logica tutta sua. Non trovò male in un agire tanto franco,
nemmeno quando la ragazza lo prese vicino scacciando il pensiero del
compagno, suggerendogli che no, “nemmeno tu sei mio cliente”,
baciandolo e spingendolo verso una camera, le manine forti a premere
sul petto gonfio di sorpresa. Lo ebbe fra le braccia preso da un panico
languido- le fece tenerezza, e l’avrebbe lasciato respirare per
conto suo se non fosse stato bello come quegli dei di cui aveva sentito
da piccina, e ancora dubitava fossero veri o meno.
Si sentì stringere i
capelli, e il biondo cedette alla pressione sulle sue labbra, che erano
gentili e timide non solo per l’intuibile inesperienza. Il
disegno dei due andò complicandosi, e le mani non ebbero
più pudore di andare dove preferivano, lo sguardo offuscato
dall’intrecciarsi stentato di un abbraccio infinitamente
semplice, posato sui fianchi e stretto ai seni di lei- che non ignorava
nulla di Venere e dell’amore, e colse il sospiro del giovane quando gli slacciò i pantaloni bianchi della divisa, “non esiste altrimenti!”.
Li abbassò con uno strattone che pareva esser stato chiesto, e
si prese tutti i gemiti dovuti- accolse i morsi, le domande soffocate e
spezzate, un tremolio dolce e sincero.
Ariovisto non si accorse che Arinne
rimase vestita, e null’altro poteva far a riguardo: teneva la
testa forzata verso l’alto, le labbra morbide bisbigliavano sul
suo ventre e solo gli occhi della giovane fata incontravano di tanto in
tanto le stelle curiose, impegnata com’era a lasciare che
Ariovisto facesse uscire dalle proprie labbra quello che a lei rimaneva
bloccato in gola.
Il secondo piano ospitava le
carezze date con una sciabola e botte che si schiudevano in un bacio-
poté giurare, suo malgrado, che i sospiri e ansiti, i bisbigli
che udì impicciandosi, avevan tutti la stessa tremenda natura.
Accadde poi un fatto curioso, di
cui si san vicende e fini solo a metà, come è lecito in
questi casi- lo dicevano le sei stanze della seconda pianta, che
avevano assistito ad un movimento interessante, una musica piacevole ed
un epilogo che sapeva di fumo e carbone.
Videro Lucio, che aveva il volto
pesto e riusciva ad essere comunque bello perché vincente e
arrabbiato, lasciava le botte a macinare e il sangue bagnare le labbra
livide; chiamava Ariovisto, canticchiava e borbottava per sé,
quando una piccola dama rossa uscì picchiettando prima una
porta, poi saltellando com’era suo solito fare. La seguì
l’occhio, sorridendo come un gattone placido.
-Ariovisto!-
Stava sullo stipite, e pareva fosse
reduce dalla medesima lotta- lo dicevano i capelli scompigliati, il
volto che pareva voler scoppiare e prendere aria, la divisa maltrattata
e le braghe ancora da tirar a posto come dovuto. Divenne una statua
scossa e percossa, e a Lucio piacque.
- Mi abbandoni per una donna?-
ridente gli fu vicino, e lo trovò bello. Non aspettò
risposta, poiché era inutile farlo: l’amico pareva aver
visto la morte, la vita e tutti i suoi miracoli assieme, stravolto dal
cuore e dalla passione per la prima volta in vita sua. Il romano ebbe paura
quando si sporse a baciarlo, e non tentò di eludersi poi,
credendo di non aver desiderato un gesto tanto pacato e sfuggevole- un
reagire tanto inconsueto avrebbe voluto tenerlo per qualche sua
fantasticheria, eppure le labbra ancora dolenti forzavano quelle
dell’altro in un bacio, le mani trattennero i capelli biondi per
poco.
Non guardò più i suoi occhi verdi e malinconici. Anche la sua abile voce da oratore si fece secca.
- Mettiti a posto e vieni giù.-
Il conquistatore prende ciò
che piace, e non si rammarica del proprio sdegno- non è avvezzo
alla limpidezza, e chiama umiliazione la propria paura. Avrebbero
concordato a favore degli spettatori critici e precisi, non sapendo poi
a chi dare l’onore di un forte applauso alla stupidità,
magari lasciando spazio per un giubilo sincero al sentimento che
portavano nel petto i giovani, alla rabbia e all’amore- allo
spavento, al dubbio e al sospiro che una mente fresca poteva dare- e
alla musica di Iago!, che, per Dio, è tutto fuorché male.
Glossario:
Lucio Tullio Cincinnato (20 anni): Impero Romano
Ariovisto Beilschmidt (17 anni): Magna Germania
Morad Jahandar dei Farrokhi (21 anni): Persia
Olympia (24 anni): Magna Grecia
Iago (21 anni): Gallia
Connell (20 anni): Configurato come padre dei Celti, personaggio creato da Kochei che mi ha gentilmente dato il permesso di poterlo utilizzare nella mia fic.
Liina (16 anni): Aestii
Diederik (23 anni): Scandinavia
Arinne (17 anni): Antica Britannia
Isabél (22 anni): Iberia
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