In my veins

di FCq
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1) Un giorno qualsiasi ***
Capitolo 3: *** 2) Una prigioniera libera ***
Capitolo 4: *** 3) Figlio, fratello, marito ***
Capitolo 5: *** 4) Tra il fango e il cielo ***
Capitolo 6: *** 5) Cenere ***
Capitolo 7: *** 6) 812 Medford street(parte prima) ***
Capitolo 8: *** 7) Medford street(parte seconda) ***
Capitolo 9: *** 8) Il calore dell'adulterio ***
Capitolo 10: *** 9) Guerriero ***
Capitolo 11: *** 10) Luce del giorno ***
Capitolo 12: *** 11) Buon pellegrino... ***
Capitolo 13: *** 12) Requiescat in pace... ***
Capitolo 14: *** 13) Isa ***
Capitolo 15: *** 14) The dark city ***
Capitolo 16: *** 15) Ribelle ***
Capitolo 17: *** Aspettando... ***
Capitolo 18: *** 16) Un luogo per la tua anima -parte prima ***
Capitolo 19: *** Aspettando... ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Buonasera! E buona Pasqua! Sono le 11:30 e io ho appena deciso di postare la mia nuova storia. L'ho pensata diverso tempo fa, ma non ho avuto il tempo di scrivere, fino ad ora. E' una storia che ha molto di me. Naturalmente questo è soltanto un prologo, che mi permette di costruire le basi per la storia. Mi auguro, spero davvero con tutto il cuore che possa interessarvi. Bene, detto questo ( se doveste trovarla orrenda date la colpa a Masini, non dovrei ascoltarlo a quest'ora perché mi fa male : ) ) vi lascio alla storia. Fatevi sentire!

 

Prologo

 

Avevo undici anni quando mia madre ebbe il suo primo attacco di panico. Ricordo ogni particolare di quell'episodio con sorprendente lucidità: il fattore scatenante, il suo decorso e in particolare la sua inquietante conclusione. Ricordo che accadde un giorno di febbraio non particolarmente caldo, nonostante abitassimo a Phoenix, nell'assolata Arizona, e io, una bimbetta minuta con i capelli a caschetto, iniziavo a interessarmi ai classici e ai romanzi d'amore, tanto che portavo sempre con me un'edizione tascabile di Romeo e Giulietta. Ricordo Renée, seduta immobile intorno al tavolo circolare color ebano al centro della nostra piccola cucina. Ricordo di aver notato, nel freezer quasi completamente vuoto, un barattolo di burro d'arachide che inizialmente mi era sfuggito, di averlo afferrato soddisfatta, e, prese due fette di pane dalla dispensa, le ultime, di aver iniziato a spalmarvi la soffice cremina, che poi tanto soffice non era. Ricordo che, dopo aver addentato il primo morso, percepì un sapore acido sulla lingua, ritrovandomi a sputacchiare di qua e di là, attirando l'attenzione di mia madre che mi guardò come se mi vedesse per la prima volta, come si guarda un estraneo che si ferma improvvisamente per strada a parlarti. Ricordo che osservò il barattolo con un'espressione imperturbabile sul volto, prima di scaraventarlo a terra, producendo centinaia di schegge e un rumore stridulo che ancora oggi mi risuona nella mente. Ricordo che sia io, sia mia madre restammo immobili a fissare i frammenti di vetro che tintinnavano sul pavimento come stessimo assistendo alla scena dall'esterno, anziché esserne protagoniste. Renée osservò i palmi delle proprie mani come se non le appartenessero e a un tratto sembrò riprendere coscienza di se stessa perché il suo volto si deformò in una smorfia atroce e immerse le dita tra i capelli, stringendoli tanto che pareva volesse strapparli dal cranio come se fossero l'origine del suo dolore, così come si tirano le erbacce da un bel giardino fiorito. La stanza si colmò dei suoi lamenti, mentre il suo corpo scosso dai tremori si accasciava al suolo e mia madre si raggomitolava su se stessa facendosi sempre più piccola, come se avesse paura, forse di quella stanza che era diventata improvvisamente molto grande. Ricordo di aver desiderato che qualcuno aiutasse mia madre e proteggesse me da ciò che stava accadendo, magari Charlie, con la sua uniforme e i suoi baffi lucidi. Compresi di star trattenendo il respiro quando due braccia tremanti si aggrapparono alle mie caviglie e due enormi occhi blu come il mare d'inverno mi fissarono dal basso, pregandomi silenziosamente di essere quella persona. Ricordo di aver posato le mia mani ancora un po' paffute sulle guance di mia madre, accarezzandole il volto sfigurato e di aver poggiato il capo sulla sua testa. Tuttavia non ricordo, o più probabilmente non seppi mai, quanto tempo trascorremmo strette l'una all'altra, ma è sufficiente che chiuda gli occhi per percepire nuovamente la consistenza dei suoi capelli biondi tra le mie mani e il suo buon profumo. Dopo un tempo che mi parve infinito, Renée si sollevò da terra e scomparve dalla stanza, per ritornare qualche istante dopo con una scopa tra le mani e ripulire il disastro di schegge e burro d'arachide del pavimento, un'espressione serena sul viso. Mia madre si voltò nella mia direzione, sorridendomi con gli occhi accesi di buon umore e mi strinse una mano tra le sue: “Andiamo a fare la spesa e a comprare i cereali che ti piacciono tanto”.

Soltanto qualche anno più tardi scoprì che da quel giorno Renée prese a partecipare settimanalmente ad alcuni incontri con un noto psicanalista del posto. A volte i suoi occhi si incupivano ancora, il suo respiro accelerava e i suoi movimenti diventavano d'improvviso caotici e disordinati, come fosse un animale in trappola. L'incontro con Phil fu provvidenziale, con lui in casa il frigo era sempre pieno e a mia madre bastava aggrapparsi alle sue ampie spalle per smettere di tremare. Mi ero presa cura di lei per così tanto tempo, stringendo con Renée un legame che andava ben oltre quello filiale. Mia madre era mia amica. Non tanto perché non sapesse essere autoritaria o saggia, all'occorrenza, ma per la sua voglia di essere per sempre giovane. Ironico che fossi stata io, il suo opposto, ad incontrare i Cullen.

 

Non un solo giorno, tra quelli trascorsi a bruciare fissando ininterrottamente la finestra della mia piccola stanza a Forks nell'attesa di vederlo al di là del vetro, maledissi la mia scelta di lasciare l'Arizona e trasferirmi nella piovosa penisola Olimpica, in modo tale da permettere a mia madre di seguire Phil, il suo unico rimedio alla paura che l'attanagliava e al bisogno di attenzioni che la ossessionava. Non un solo giorno, neanche quando respirare divenne difficile come smettere di farlo o quando il ricordo del passato, delle promesse fatte e non mantenute, della speranza per il futuro, si trasformò in un tormento insostenibile. Non un solo giorno, nonostante il dolore di mio padre non accennasse a diventare rassegnazione senza che potessi in alcun modo reagire per ripagarlo e la paura di mia madre fosse tornata a sconvolgerle l'espressione, senza che esistesse per essa alcuna cura. Non un solo giorno, fino ad oggi.

Guardavo mia madre piegata su se stessa, tra le braccia di un Charlie sconvolto e mi sembrava di essere tornata bambina, mentre le sue dita stringevano rabbiosamente le ciocche bionde, ancora come se qualcosa la tormentasse dal profondo della sua mente, un luogo che nessuno avrebbe potuto raggiungere, un oceano di dolore da cui non avrei potuto trarla in salvo. Erano state le sue urla agghiaccianti ad attrarre la mia attenzione, mentre, come ogni giorno negli ultimi mesi, trascorrevo le ore pomeridiane a leggere libri su libri scolastici. Ma fu la sua espressione a risvegliarmi definitivamente dallo stato catatonico in cui versavo da quando i Cullen avevano lasciato Forks, una casa vuota e una ragazza sola. Ero stata risucchiata dalla mia spirale di dolore così a lungo, da non accorgermi che il mondo di mia madre cadeva a pezzi sotto i miei occhi. Ignorai il mio corpo che tremava, malfermo sulle gambe e la raggiunsi a grandi falcate, sostituendo le braccia di mio padre e affondando il volto nei suoi capelli. Con delicatezza le strinsi entrambe le mani, accarezzando prima uno, poi l'altro dorso con la punta dei pollici. Solo allora sollevai lo sguardo, incrociando quello sconvolto di mio padre, ma fui immediatamente richiamata dalle urla di Renée. Feci appello a tutta la mia forza, per quanto non mangiassi e non dormissi davvero da settimane, forzando le sue braccia ad allentare la presa sui suoi capelli e costringendola a sfiorare il mio sguardo con i suoi occhi vuoti.

 

“Mamma... respira. Parlami... mamma. Che cosa è successo?”, le chiesi annaspando, mentre adagiava quasi tutto il peso del suo corpo sulle mie braccia.

 

Le sue urla cessarono d'improvviso e le sue labbra si schiusero appena a pronunciare il nome dell'uomo che da due anni era il suo unico appiglio alla realtà: “Phil”

 

“Dov'è Phil?”, le chiesi, scandendo ogni parola, temendo che, nello stato confusionale in cui versava, non riuscisse a capirmi.

 

“E' andato via”, disse.

 

Il mio corpo, all'udir quelle parole, divenne di pietra. Per un istante di troppo, che, in circostanze meno fortuite avrebbe potuto esserle fatale. Reneé scivolò via dalle mie braccia, divincolandosi selvaggiamente, mettendo un piede in fallo. La vidi precipitare al suolo e mi fiondai su di lei, tentando di evitare che sbattesse la testa, ma senza riuscirci. Fu quando vidi il sangue di mia madre tra le mie dita, l'odore di ruggine e sale, che mi ritornò alla mente la notte del mio diciottesimo compleanno. Capì allora di essere rimasta per mesi nella casa nel bosco, nell'attesa di comprendere quale fosse stato l'istante esatto, fra un suo sorriso e un altro, in cui il mondo aveva iniziato a sgretolarsi. La vista di quel sangue fu come un fulmine a ciel sereno, come se ogni albero che circondava la casa nel bosco stesse improvvisamente cadendo, costringendomi a lasciare la villa, sepolta da un mare di foglie verdi.

 

“Charlie”, urlai, ma mio padre si era già precipitato ad afferrare il telefono per comporre il numero dell'ospedale di Forks, per poi correre al mio fianco, mentre tastavo convulsamente il polso di mia madre, verificando che vi fosse battito, anche se irregolare.

 

….......

 

Guardavo mia madre al di là del vetro, senza poter distogliere lo sguardo. Sembrava così piccola, in quel letto così grande.

Paradossale che fosse lei a giacere in un letto d'ospedale, lei che amava la vita, mentre io, che per mesi( dal momento in cui avevo incrociato gli occhi di Edward Cullen) avevo desiderato la morte, ora per rinascere ora per smettere di soffrire, fossi lì ad osservarla combattere per restare viva.

Charlie, a pochi passi da me, discuteva con il dottor. Harris delle condizioni di Renée.

 

“Bella”, mi chiamò con delicatezza il meico, primario di chirurgia da quando il facoltoso dottor. Cullen aveva dovuto lasciare la città. “Renée si rimetterà in fretta, il colpo non è stato violento, ma l'attacco l'ha spossata. Avrà bisogno di essere seguita per superare il trauma... e credo che, indispensabile alla sua guarigione, sia la tua”.

 

Annuì. “Me ne rendo conto, dottor. Harris”, dissi. Evidentemente le mie parole lo lasciarono interdetto, perché per qualche istante non seppe come proseguire. “Ottimo”aggiunse, mentre si apriva in un sorriso comprensivo. “Perché non vai a prendere qualcosa da bere al bar giù di sotto, sei qui da ore e tua madre non si risveglierà prima di domani mattina, per via dei farmaci che le abbiamo somministrato”.

Distolsi lo sguardo dai suoi occhi chiari, per posarlo nuovamente sul corpo addormentato di mia madre, faticando immensamente a lasciarlo andare.

“Penso che lo farò, solo un... secondo”.

Il dottor. Harris annuì, prima di voltarsi e sparire lungo il corridoio della corsia.

“Non la perderò mai più di vista”, sospirò Charlie, accostandosi al mio fianco. Il volto cupo, gli occhi tristi e il peso del mondo sulle spalle, d'improvviso sembrò molto più vecchio di quanto fosse in realtà. Mi ricordò Billy Black: aveva in viso l'espressione di un uomo improvvisamente consapevole di aver perso qualcosa di importante.

Mi strinsi al suo braccio, adagiando il capo sulla sua spalla: “Lei è il sole”. Charlie, seppur stupito dalla mia inattesa vicinanza fisica, mi accarezzò dolcemente i capelli. “Tu sei il nostro sole. Sei responsabile di entrambi... anche se Renée potrebbe mostrare di averne più bisogno. Perché senza di te né io né tua madre siamo... niente. Capisci quello che ti sto dicendo, Bella?”, mi chiese dolcemente, pregandomi con lo sguardo.

Annuì, tuttavia l'emozione che provai nel parlare così apertamente a mio padre non riuscì a superare la barriera, il fiume non straripò oltre gli argini e io non piansi, non arrossì, non ebbi alcuna reazione fisica.

Però avevo capito.

“Ti porto un caffè”, mi limitai a dire.

Nonostante la mia naturale avversione per gli ospedali, i medici, le medicine e il sangue, non potei evitarmi di guardare a quell'ambiente asettico, così bianco e ordinato con curiosità oltre che scetticismo. Qualche camice mi sfilò davanti e percepì un odore particolare, simile alla vaniglia, alla plastica e alla menta insieme. Il silenzio che regnava in ospedale e che spesso mi era parso inquietante, era in vero estremamente rassicurante. Tuttavia durò poco, il tempo di assaporarne l'intensità, che un nugolo di medici accorse al suono di un bip prolungato, a pochi metri di distanza da me. Mi avvicinai con cautela, mentre i camici, che si confondevano l'uno con l'altro, si scambiavano parole affrettate. Intravidi soltanto una bambina e il suo pigiama giallo, il vuoto a circondarle il viso sottile e gli occhi spalancati, mentre il respiro le usciva a stento dalle labbra. Ero arrivata, senza accorgermene, nel reparto di pediatria infantile. E l'odore di vaniglia, plastica e menta fu sostituito da qualcosa di di diverso, che non seppi riconoscere. Le voci, seppur concitate, erano al contempo coordinate fra loro, come una sorta di melodia. Non c'era paura né incertezza nel volto di quella donna in bianco, mentre si curvava sulla bambina quasi incosciente, soltanto concentrazione, metodicità e forza. Cosa spingesse qualcuno a mettere l'altrui vita nelle proprie mani, a sopportare il dolore, la morte, il sangue, la pressione era sempre stato un mistero per me. Eppure quella donna si muoveva in tutto ciò come fosse nel proprio elemento, come un pesce nell'acqua o una farfalla in cielo. E il sollievo e la soddisfazione che le si dipinsero sul volto quando la bimba riprese a respirare regolarmente fu la risposta alla mia domanda inespressa. Qualunque cose fosse accaduta quel giorno a quella donna, non avrebbe in alcun modo potuto oscurare quell'attimo. Perché in quell'attimo, fra un respiro e l'altro della bambina con il pigiama giallo, lei era stata e aveva fatto.

E per quell'attimo io la invidiai, perché avrei voluto possedere la sua stessa forza e sicurezza. Avrei voluto che qualcosa colmasse il vuoto che mi divorava.

 

Qualcuno diceva che, chiusa una porta, si apre un portone. Avevo scelto di morire, di porre fine ai miei giorni in modo tale da renderli infiniti. Avevo deciso di appartenere

a un mondo in cui la scelta dell'indirizzo universitario era soltanto un vezzo, un'apparenza, un modo per ingannare il tempo. Avevo scelto di amare. D'improvviso, però, come una bolla di sapone troppo grande o come un sogno troppo bello, ogni mia scelta era esplosa, sfumata ed io ero stata catapultata nel mondo reale, ancora diciottenne, a dover decidere cosa fare della mia vita. E quel giorno, di fronte all'idea della morte definitiva e immutabile, in quanto nessun vampiro avrebbe potuto modificarne il corso, capì a cosa avrei destinato i miei giorni.

Capì che avrei sposato la medicina, per regalare la vita a coloro che non avevano scelto di morire. Eppure morivano.

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Capitolo 2
*** 1) Un giorno qualsiasi ***


Buongiorno! Innanzitutto vorrei ringrazie tutti coloro che hanno letto la storia e l'hanno inserita tra i preferiti, i ricordati e i seguiti. Vorrei ringraziare Sfiorarsi per aver recensito il prologo. Detto questo... ho postato il primo capitolo, tanto per introdurvi definitivamente alla storia. Una cosa è certa... non sarà affatto una giornata qualunque! Vi sarei immensamente grata se mi faceste sapere cosa ne pensate : ) Critiche incluse!

  1. Un giorno qualsiasi

Cercavo qualcuno, oltre il manto di nebbia che pesava sui miei occhi umani e inefficaci. Cercavo un volto che sapevo essere bellissimo, eppure non riuscivo a ricordarne i lineamenti. Il tempo passava, la nebbia si infittiva e i miei ricordi con essa. Mi affrettai tra gli alberi, inciampando sul terriccio ma ignorando i graffi alle mani e alle ginocchia, tentando di scacciare le lacrime che contribuivano ad offuscarmi la vista. Nessuno. Non c'era nessuno.

Chi stavo cercando?

Il vuoto all'altezza del petto si intensificò e mi mancò il respiro, come se nell'aria non vi fosse ossigeno a sufficienza. Non riuscivo a ricordare come fossi giunta in quella foresta sperduta, ma sapevo di aver bisogno di quel volto bellissimo, di quella voce, di quelle braccia. Sapevo che la sua pelle era bianca come l'alabastro e i suoi occhi... Avessi potuto ricordare il colore dei suoi occhi, il suo nome... o le sue parole. Avessi saputo chi cercavo in quel bosco, forse avrei smesso di tremare per via del dolore che mi gelava la pelle, come fosse inverno e io fossi nuda e immersa nella neve.

D'improvviso mi accorsi di essere realmente adagiata su un manto di neve, il corpo in posizione fetale si adattava al gelo, accogliendolo seppur con riserbo. Fin quando un calore anormale non iniziò a sciogliere la neve intorno al mio corpo. E tentavo di afferrarla ma inutilmente, perché si riduceva rapidamente in acqua scivolandomi fra le dita. Un suono fastidioso e prolungato si sommò al caldo soffocante, a tormentare ulteriormente il mio corpo, senza dare alcun segno di voler smettere. E man mano che il tormento aumentava cresceva il mio desiderio ossessivo di ricordare quel viso...

Mi svegliai così, sconvolta, il viso imperlato di sudore, il respiro ansante e le lenzuola sgualcite intorno ai miei polpacci; stringevo spasmodicamente il copriletto, come tentassi di afferrare la neve che mi scivolava tra le dita... Ricaddi sfinita sul letto sfatto, un braccio a coprirmi il volto e l'altro a cercare la sveglia, che per tutto il tempo non aveva smesso di suonare. Lo stesso sogno... per la seconda volta in meno di due settimane. Negli ultimi 14 mesi la mia vita era stata oggetto di così tanti cambiamenti, diploma liceale, college, lavoro al “Turn off light”.

Non davo tregua al mio corpo e la mia mente non mancava di punirmi per questo...

Mi alzai controvoglia, tirandomi su a fatica e raggiunsi il piccolo bagno poco distante dal mio letto a una piazza( molto poco distante, circa un metro), pronta a svolgere con calma piatta la mia routine.

Dopo essermi vestita, mi affrettavo ad agguantare il telefono e chiamare Renée. In seguito al suo malore né io né Charlie avevamo saputo come comportarci. Avrei dovuto concludere l'anno scolastico in Florida? Avremmo dovuto affidare Renée alle cure dei miei nonni materni, gli stessi che l'avevano allontanata, appena diciottenne, perché incinta di me? Fortunatamente, Renée sollevò entrambi dall'onere di decidere della sua vita, chiedendo a Charlie di rimanere a Forks, in quella stessa casa da cui era fuggita, solo fin quando non avessi lasciato la città. La breve convivenza dei miei genitori, tuttavia, non si era ancora conclusa e sia io sia Charlie speravamo divenisse una soluzione definitiva.

Non ero stata immediatamente entusiasta della scelta di mia madre. Temevo che Forks la soffocasse, come era accaduto diciannove anni prima. Temevo che decidesse di fuggire durante la notte, spezzando il cuore a Charlie, come era accaduto diciannove anni prima. L'indole altruista di mio padre gli impedì di prendere in seria considerazione questa eventualità e semplicemente l'accolse, come se non aspettasse altro, come se fosse rimasto congelato nel tempo, anche lui immerso in un mento di neve, in attesa che varcasse nuovamente quella soglia con me in braccio.

Dopo aver parlato a lungo con mia madre, componevo il numero della centrale di Forks e in poco meno di trenta secondi il capo Swan rispondeva con un tono buffamente professionale, che mal celava l'impazienza di sentire la mia voce.

Quindi, borsa in spalla, mi accingevo ad aprire la porta, chiusa da tre diverse serrature e un chiavistello.

Quel giorno mi soffermai ad osservare il mio appartamento minuscolo e fatiscente( l'unico che fosse contemporaneamente economico e a pochi passi da Harvard) e il suo arredamento minimale: un letto, un tavolo/scrivania, un piano cottura e un piccolo freezer. L'unico conforto in quella gabbia pericolante era l'ampia finestra che occupava buona parte della parete a destra del letto, per cui avevo comprato, un settimana dopo il mio arrivo, una sottile tenda gialla, rattristata dalla mancanza di luce e di colore. Avevo scelto il giallo per ricordare a me stessa perché mi trovassi lì. Il loculo... il mio appartamento era sito al terzo piano di un vecchio palazzo annerito dalle intemperie.

Ormai sulla soglia, il pianto di un bambino mi costrinse a sollevare lo sguardo sulla porta dell'appartamento di fronte, che fin dal primo giorno aveva destato la mia attenzione: per via dell'aspetto malandato sembrava che qualcuno l'avesse colpita ripetutamente e con violenza. Il bimbo, sommerso da un fiume di lacrime, stringeva le braccia intorno al collo di una ragazza bionda e minuta, che tentava disperatamente di calmarlo. Data l'incredibile somiglianza fra i due dedussi che fosse sua madre. La ragazza mi lanciò uno sguardo truce mentre mi passava a fianco e scendeva rapidamente le scale. Il sorriso mi morì sulle labbra, ma la cosa ancora più di triste fu pensare che quello era il gesto più cortese e “normale” che uno qualsiasi degli altri inquilini mi avesse rivolto.

Indubbiamente avevo scelto di vivere in un luogo raccapricciante...

E naturalmente era anche l'unica scelta che avessi avuto. A causa dei mesi trascorsi nel... nulla, avevo spedito le domande di ammissione al college con estremo ritardo. Non nutrivo alcuna speranza nella possibilità di riuscire a entrare ad Harvad, ne tanto meno di riceve una borsa di studio, senza della quale non avrei mai potuto frequentare un'università così prestigiosa. Eppure, ero riuscita sia nell'uno sia nell'altro, ma gli alloggi erano stati già assegnati alle altre matricole; l'unica soluzione rimastami fu trovare un appartamento in affitto e un lavoro che mi permettesse di pagarlo. Ovviamente, Charlie non era a conoscenza della mia attuale situazione o locazione. Le cure di mia madre erano già piuttosto dispendiose e Charlie aveva deciso di farsene carico, rincuorato dalla mia borsa di studio. Imbattermi nel “turn off light”, il locale notturno aperto nei week-end appositamente per gli studenti dell'università, che a quanto pare cercava una cameriera, fu provvidenziale.

Nel frattempo raggiunsi la caffetteria in cui ero solita fare colazione “Da Wanda” . Il più delle volte mi limitavo a prendere un caffè. Oggi era uno dei quei giorni.

Ero ansiosa di conoscere l'esito del test di istologia.

Il campus era affollato, gli studenti si affrettavano per raggiungere le rispettive lezioni, alcuni si soffermavano a parlottare tra di loro. Nonostante avessi varcato quelle porte centinaia di volte negli ultimi mesi, ogni giorno mi sembrava di rifarlo per la prima volta tanta era l'emozione e l'incredulità. Mi affrettai lungo il corridoio, diretta al dipartimento di medicina e chirurgia, fin quando non mi imbattei in una cerchia di studenti che si spintonavano gli uni con gli altri. Attesi pazientemente che la folla si diradasse, osservando l'alternarsi di espressioni tristi ed entusiaste. Nella sfilza di nomi elencati, cercai il mio. Rimasi ad osservare quelle poche linee con scetticismo, come se faticassi ad associare il mio nome a quel risultato.

“Bella”, esclamò una voce alle mie spalle. Mi sentì afferrare un braccio e strattonare con irruenza.

“Devi spiegarmi come riesci ad ottenere voti così alti; Louise, ti rendi conto?”.

Mi voltai in direzione di quella voce squillante, incontrando due occhi enormi e sorridenti in un viso rubicondo. Annabel Jonson. Non ricordavo i nomi della maggior parte delle persone che frequentavano i miei stessi corsi, ma avevo memorizzato il suo. Quella ragazza, le sue movenze e la sua voce risvegliavano in me ricordi non ancora sopiti, che speravo di cancellare al più presto dalla mente. Perciò la detestavo, perché lei, con la sua sola esistenza, li riportava a galla. In un'altra vita saremmo state amiche, io e Annabel. In un'altra vita, ma non in questa. Qualcuno che, contro ogni legge fisica e naturale, ancora esisteva, aveva in precedenza occupato il posto che le spettava. Non lasciai trapelare alcuna emozione quando le rivolsi un sorriso cordiale e appena accennato.

Louise, la ragazza che affiancava Annabel, tutt'altro che gentile, mi riservò uno sguardo di sufficienza: “Se smettessi di partecipare alle feste della confraternita e studiassi un terzo di quanto fa Isabella, avresti i suoi stessi voti”.

Le rivolsi uno sguardo tagliente, ma prima che potessi risponderle a tono Annabel la zittì: “Non sapevo che studiare fosse diventato un crimine; penso che chiunque con un minimo di raziocinio si iscriva alla facoltà di medicina della Harvard Univesrity passi la maggior parte del suo tempo a studiare, tranne forse i figli di papà che hanno la laurea assicurata e le tasse pagate. E poi, qualcuno dovrà pure servire i cocktail al turn off light, altrimenti dovresti guidare fino a Somerville per sbronzarti il venerdì sera”.

Luoise boccheggiò, senza replicare.

Feci loro un cenno di saluto con il capo e mi diressi a lezione. Sfortunatamente, Annabel non desistette.

“Bella. Ecco... volevo chiederti, se non sei di turno stasera, se ti va di uscire a bere qualcosa... sai.. tra amiche”, le guance di Annabel si tinsero di un rosso luminoso, quasi fiabesco e per la prima volta da quando la conoscevo, abbozzai un sorriso sincero. “Sono di turno”, le risposi. Il viso di Annabel si scurì, ombra del mio sguardo.

Risvegliarsi da un bel sogno è difficile e io avevo dormito per giorni interi, forse anni. Non accettavo che la favola non avesse avuto un lieto fine. La mia vita, normale e quasi banale, era stata stravolta: vampiri, lupi mannari, immortalità, famiglia e... amore. Un eufemismo, un termine assurdamente riduttivo, usato troppo spesso e troppo superficialmente per descrivere ciò che mi legava al membro più “giovane” della famiglia Cullen. Non ero mai stata innamorata prima di conoscerlo, ma sapevo che nessuno aveva mai amato quanto io amavo lui. Avevo lasciato che diventasse il mio mondo, gradualmente, consegnando me stessa alle sue mani, che avevano giocato con me come un bimbo con la sabbia. E ancora oggi ero in perenne attesa, di cosa non avrei saputo dirlo. La parte razionale della mia mente stava andando avanti. Tentavo di crescere e diventare la donna che avrei voluto essere, ma un legame del genere non si cancella. E, nonostante frequentassi il college da mesi, non avevo permesso a nessuno di entrare nella mia vita sconvolta, di occupare il loro posto, il suo, di cambiare la statica situazione in cui versavo. Aspettavo. E probabilmente avrei aspettato fin quando non fossi diventata polvere. Ma crescere significava innanzitutto andare avanti. E io, Isabella Marie Swan non ero certo immortale(Isabella Cullen, l'eroina della mia favola, lo era), perciò non potevo permettermi di essere sciocca, immatura, puerile ancora a lungo, perché nessuno mi avrebbe restituito il tempo che avrei perso nel mentre. Allora, aggiunsi: “Però... ecco, magari la prossima volta, quando non sono di turno, volentieri”.

Il viso di Annabel si illuminò e i suoi occhi, se possibile, divennero ancor più grandi e appariscenti.

Nessuna delle due parlò più, fin quando non fummo di fronte alla porta dell'aula in cui si sarebbe tenuta la lezione. Nonostante fossimo arrivate con qualche minuto di ritardo, non vidi alcun viso al di là della porta a vetri dell'aula, soltanto un cartello bianco il quale avvisava gli studenti che la lezione era stata rimandata al giorno successivo.

“Si diceva che il professor kato avesse chiesto un congedo straordinario, ma pensavo si trattasse di voci, pettegolezzi da corridoio”, Annabel sbuffò, contrariata.

“A quanto pare no”.

“Lo adoravo”, mi confidò timidamente. “Lo ammiravo moltissimo... le sue ricerche, il suo lavoro... uno dei migliori cardiochirurghi del paese”.

Annuì, dandole atto delle sue parole. “Sono certa che assumeranno qualcuno di altrettanto competente”.

“Grazie”, le dissi d'un tratto, mentre camminavamo in silenzio per i corridoi, “per poco fa”, aggiunsi, arrestandomi a pochi metri di distanza dalla porta del rettore dell'istituto.

“E' stato un piacere, Bella. Luoise non è così... acida, come potrebbe sembrare, ma le serve molto tempo prima di capire se fidarsi o meno di una persona e fino a quel momento, tende ad attaccare”.

“Annabel!”. La ragazza, sentendo pronunciare il proprio nome, si voltò, arrossendo ancor prima di accertarsi sull'identità del possessore di quella voce entusiasta.

“Mattia”. Annabel pronunciò il suo nome con dolcezza, accarezzando ogni lettera. Mattia la raggiunse, cingendole con delicatezza le spalle e lasciandole un bacio fra i capelli.

“Mattia, Bella... Bella, Mattia”. Annabel ci presentò l'un l'altro e Mattia mi sorrise cordialmente.

“Italiana?”, mi chiese il ragazzo, porgendomi la mano. “No... mia nonna lo era, io ho soltanto ereditato il suo nome”.

Una sensazione orribile mi pervase le membra, simile al sospiro della morte sul collo, nonostante fossi, a tutti gli effetti, viva. Non invidiavo quei due ragazzi innamorati e sereni, perché ciò che avevo avuto andava ben oltre. Detestavo me stessa, perché nonostante mi sforzassi non riuscivo ad andare avanti. Percepivo le voci in sottofondo di Annabel e Mattia, il suono di una porta aprirsi, senza che nulla di tutto ciò mi arrivasse. Ero sola, ero persa ed ero debole, sciocca, patetica...

“Grazie... ancora, Annabel e... Mattia è stato un piacere conoscerti, ma adesso devo proprio andare. Ci vediamo in giro”, mi affrettai a dire, interrompendo il flusso delle loro parole. Annabel mi rivolse uno sguardo angosciato, ma non mi preoccupai di cosa potesse pensare, né vedere. Feci loro un ultimo cenno con il capo e mi allontanai di gran carriera. Non esisteva un luogo abbastanza lontano in cui potessi fuggire da me stessa. Fermai la mia corsa sfrenata soltanto quando fui lontana da occhi indiscreti. Ero sola... non conoscevo nessuno cui potessi chiedere aiuto, perché mai avrei potuto raccontare la verità. Ma in fondo, lasciando da parte sangue e vampiri, qual'era la verità? Lui mi aveva lasciata e io non riuscivo a dimenticarlo, a riguadagnare fiducia in me stessa. Quella stessa fiducia, che, in fin dei conti, non era mai esistita e che stavo tentando di costruire. L'ammissione ad Harvard era stato soltanto il primo passo... A volte, soprattutto i primi mesi dopo la sua scomparsa, cercavo tra le righe delle sue parole frasi non dette, messaggi che avrei dovuto cogliere, risposte che spiegassero il suo comportamento improvviso. Troppe promesse da mantenere, troppi sogni e posti da vedere, fin troppo amore perché non mi fossi accorta del suo cambiamento. In quale istante aveva capito di non amarmi? In quale momento, fra un bacio e l'altro, aveva capito che io non ero abbastanza per lui, per il suo mondo di fiaba e sangue? Perché la sua famiglia, la mia, non aveva trovato un minuto, fra gli infinitesimi che ancora le sarebbe toccato vivere, per dirmi addio. Alice... Il fatto che non riuscissi a smettere di cercare fra le righe, non rendeva più semplice il tentativo di dimenticarli e mi aggrappavo a speranze e illusioni. Le speranze di una stupida, ma senza delle quali, con molta probabilità, non avrei trovato la forza di alzarmi ogni mattina e combattere.

Scagliai la mia borsa colma di libri contro la patere, lanciandomi su di essa come se volessi sfondare il muro, per poi accasciarmi miseramente sul pavimento freddo e bagnato, come nel sogno che mi tormentava.

 

Il sole tramontò in fretta. Mi apprestai a raggiungere il locale, poco distante dal mio appartamento, incurante del freddo che attendeva ogni sera in agguanto finché gli ultima raggi di sole non sparivano al di là dell'orizzonte. Riconobbi immediatamente l'ormai familiare insegna al neon. Il “turn off light” era un buon locale, frequentato quasi esclusivamente da universitari che, da ubriachi, risultavano eccessivamente rumorosi ma poco molesti. Il proprietario era un uomo sui cinquanta che, a dire il vero, non avevo mai incontrato. Era un imprenditore di origini spagnole e si occupava di numerose altre attività, perciò aveva lasciato la gestione del “turn off light” al figlio, Enrique, un ragazzo di ventotto anni, estremamente cordiale e professionale. Era stato lui ad assumermi, cogliendomi alla sprovvista. Anche il resto dei camerieri e il barman erano gentili e alla mano. Mi cambiai velocemente, indossando una camicia bianca, un paio di pantaloni neri estremamente scomodi per quanto erano aderenti e un metà grembiule color giallo evidenziatore, con un capellino a barchetta dello stesso colore. Raggiunsi la sala, salutando con un sorriso Andrew, il barman, Rafael, fratello di Enrique e cameriere e Maia, cameriera e barista.

“Ciao”, la salutai raggiungendola dietro il bancone. “Ciao”, rispose, “tutto ok? Hai un'aria sconvolta”.

“Davvero?”.

In risposta lei alzò un paio di volte le sopracciglia. Pensavo di aver risolto il dramma di quella mattina nel pomeriggio, studiando la composizione delle pareti dei vasi sanguigni.

“Berta?”, le domandai, ricordando il volto di una dolce ragazza dalla pelle olivastra e gli occhi verdi. “Lavora. Troppo, in realtà, ma non penso che riuscirebbe a vivere senza lavorare”. Berta era la ragazza di Maia, anch'essa sorella di Enrique e Rafael. Era stata Berta a intercedere con il fratello per far ottenere questo posto a Maia. Fosse stato per il padre di Berta, Maia non avrebbe mai avuto il lavoro; a quanto pare, Enrique, affermando la propria autorità di co-proprietario, l'aveva assunta ugualmente. Non che il padre avesse qualcosa in contrario alle preferenze sessuali della figlia, come verrebbe da pensare in un primo momento, ma non concepiva che la figlia, laureata con il massimo dei voti in economia alla Harvard University, frequentasse una “artista senza arte ne parte” come si definiva ironicamente Maia. Non avrei saputo dire quale dei due pregiudizi fosse più comune o insensato.

La serata trascorse tranquillamente, anche nel caos del locale pieno zeppo di gente e nonostante fosse appena martedì sera.

“Cosa vi porto, ragazzi?”, chiesi, avvicinandomi a un tavolo di quattro persone.

“Una sangria e due martini e magari anche qualche nocciolina... ah, e un caffè forte”.

“Arrivano”, risposi con un sorriso, osservando l'espressione sconvolta di uno dei ragazzi del tavolo, che sì, aveva urgentemente bisogno di un caffè.

D'un tratto mi sentì osservata. Alzai lo sguardo e un brivido mi corse lungo la pelle, accarezzandomi la nuca e le braccia. Una sensazione spiacevole lo accompagnò. Mi era parso di vedere tra la folla una mano preoccupantemente... bianca, come la neve.

Mi voltai scuotendo la testa, mentre il gruppo seduto al tavolo mi fissava come se fossi io, non il loro compagno, ad avere bisogno di un caffè forte e probabilmente avevano ragione. Gli regalai un ulteriore sorriso di scuse e mi allontanai, andando a sbattere contro qualcosa di duro e morbido allo stesso tempo.

“Scusa, Bella”, sussurrò uno voce bassa e roca, solleticandomi il lobo dell'orecchio. Enrique si era avvicinato per sovrastare il suono della musica. Dopo qualche secondo si allontanò, allacciando i suoi occhi neri ai miei, non altrettanto scuri.

Dopo mesi, il mio volto assurdamente bianco, quasi trasparente, si tinse di rosso. Non arrossì in maniera violenta, come accadeva in passato; il colore si adagiò sulle mie guance gradualmente.

Quella reazione inaspettata mi stupì. Io non arrossivo. Non più. Forse era stato il suo sguardo profondo e... sensuale che mi accarezzava il volto come lo facesse con le dita o la sua bocca che si schiuse in un sorriso leggero o forse le sue mani forti che mi sorreggevano, legandomi al suo corpo caldo e accogliente. In ogni caso, mi sentì in imbarazzo e allo stesso tempo al sicuro, come non ero da tanto tempo, da una notte di molti mesi fa.

“Colpa mia”, mi affrettai ad aggiungere. E con una leggera pacca sul braccio che ancora mi sorreggeva dalla schiena, mi allontanai. Quando mi accostai al bancone del bar, Maia mi sorrise maliziosamente, sciabolando le sopracciglia: “Finalmente ho capito perché sei l'unica, che pur non avendo a che fare con la famiglia Delgado, lavora qui”. Le lancia uno sguardo maligno: “Intendi continuare così a lungo”.

“Uhm... probabile, sicuramente per tutta la sera”, la sua risata contagiosa quella volta non riuscì a contagiarmi.

Alzai gli occhi al cielo, invocando una qualsiasi divinità. Ma forse la musica era così alta che neanche in cielo riuscivano a sentirmi.

 

“A domani”, dissi, mentre riponevo grembiule e divisa nell'armadietto della piccola stanza in fondo alla sala che Enriq aveva pensato di adibire a spogliatoio per i dipendenti.

“A domani”, rispose Maia. “Sei sicura di non volere un passaggio, è tardi e fa freddo”.

“Sicura”, le risposi per la decima volta. “Il mio appartamento è a due passi”.

Chiusi l'armadietto, feci un ultimo cenno in direzione di Maia e lasciai lo spogliatoio, a passo svelto onde evitare di incrociare erroneamente Enrique, ancora imbarazzata per l'accaduto di qualche ora prima. Lasciare il locale per la strada buia e ghiacciata fu shoccante, a causa del cambio repentino di temperatura. A tenermi compagnia nient'altro che il suono dei tacchi dei miei stivaletti di pelle, un regalo di mia madre. Nonostante il mio equilibrio fosse notevolmente migliorato negli ultimi tempi(forse grazie alle decollete che indossavo al turn off light, forse per necessità legate ai tempi e che mi spingevano ad andare sempre di fretta, possibilmente senza traumi cranici), non intendevo sfidare me stessa oltre i cinque centimetri d'altezza. Nel frattempo, osservavo le nuvolette di fumo che si formavano intorno alle mie labbra a ogni singolo respiro, tentando di ignorare la sensazione di occhi che mi osservavano nel buio. Piuttosto, ripercorsi gli avvenimenti di quella sera e in particolare, l'imbarazzante scontro con Enrique. Nonostante l'unico volto con il quale avrei potuto paragonare quello del ragazzo spagnolo fosse dotato di una bellezza ineguagliabile, avrei potuto dire in tutta onestà che Enriq Delgado era un bel ragazzo, ma era stata la forma delle sue spalle larghe, della sua schiena ampia e l'impatto con il suo torace duro come la roccia a risvegliare in me ricordi di notti passate in un luogo molto simile alle sue braccia.

Forse, avrei dovuto soffermarmi a “è un bel ragazzo”... per considerarmi recuperabile o sana di mente. Forse avrei dovuto guardare oltre...

La vista della palazzina che ospitava il mio appartamento fu estremamente gradita. Salì rapidamente le tre rampe di scale che portavano al mio piano e aprì ogni serratura della porta, richiudendomela alle spalle e tirando un sospiro di sollievo.

Quando la mia mente registrò l'immagine che colmava il mio sguardo, il mazzo di chiavi che stringevo in mano cadde sul pavimento e il suono riecheggiò in ogni angolo della casa.

Mi mossi lentamente e sfiorai il tessuto lacerato della tenda gialla penzoloni. Temevo di voltarmi e guardare nuovamente il resto dell'appartamento, lo scempio de mio letto distrutto e delle lenzuola graffiate, del tavolo rovesciato, dei cassetti aperti e indagati da mani estranee, della mia biancheria sul pavimento, quasi che qualcuno si fosse divertito a invadere la mia privacy, ignorando la busta bianca in cui conservavo i soldi e che nascondevo accuratamente. Come un fulmine a ciel sereno, compresi che nessun essere umano avrebbe avuto la forza necessaria per sradicare la mia cucina dal muro e rivoltarla come fosse un cubo di rubik anziché acciaio. Ancora china sulla busta di soldi intatta e sul mio intimo fatto a brandelli, percepì il suono leggero di un sospiro a pieni polmoni. Mi voltai di scatto e contemporaneamente mi sollevai da terra, addossandomi al letto sfigurato.

Una bocca rossa e sensuale, che pareva disegnata per quanto era perfetta, sollevata agli angoli, mi invitava a fuggire o lasciarmi cadere tra le braccia di chiunque ne fosse il possessore. Un' illusione, un inganno...

 

Tutto di me, tutto ti attrae: la mia faccia, la mia voce, il mio odore perfino. Se solo te lo chiedessi ti getteresti sui miei denti e mi imploreresti di succhiarti via la vita...

 

Quando lui mi disse quella parole, una sera, io gli credetti.

 

Perciò, se vedi un vampiro, corri, Bella, corri senza voltarti indietro. Cerca un luogo affollato...

Ma tu sei un vampiro! E' un modo per dirmi che dovrei stare lontana da te?

 

Io sono un caso a parte, perché ti amo. Ma se vedi zanne e occhi rossi... corri!

 

Non permisi al vampiro che mi fissava famelico di sorprendermi. Scattai verso la porta, ringraziando la mia buona stella di non aver chiuso a chiave né allacciato il chiavistello e corsi, senza voltarmi. Percepivo, più che sentire realmente, i suoi passi cadenzati alle mie spalle, quasi annoiati, consapevole che, volendo, avrebbe potuto raggiungermi in un batter d'occhio. E mentre correvo giù per le scale disperatamente, pregando che il mio equilibrio non mi tradisse proprio in quel momento, mi chiesi perché non lo facesse. Forse, come James anche lui era un segugio e amava la caccia, pregustava di saggiare lentamente la preda che aveva adocchiato e giocava con essa. Mi sbagliavo, perché sentì improvvisamente il suo respiro sulla mia nuca: “Ciao... Bella”.

Un colpo e poi, quasi fossi uno spettatore esterno della scena, vidi me stessa ruzzolare giù per l'ultima rampa di scale, mentre tentavo disperatamente di proteggere il mio volto. Atterrai sul pianerottolo, il respiro mozzato e una musica eccessivamente alta a ronzarmi nelle orecchie. Proveniva dall'appartamento di fronte a me; avrei potuto bussare, chiedere aiuto, ma rinunciai immediatamente all'idea: saremmo morti entrambi, io e l'uomo che vi abitava, sempre se avesse udito. Nonostante l'inutilità di ogni tentativo, il mio primitivo istinto di sopravvivenza mi spinse a sollevare lo sguardo, benché la vista fosse offuscata da una colata di liquido scuro, purpureo: sangue. Sollevai una manica nel tentativo di tamponare la ferita e strisciai all'indietro, aguzzando lo sguardo per vedere il viso del mio assalitore, ma non c'era altro che bianco e rosso.

Il suo sospiro, tuttavia, mi giunse chiaro.

“Scusa, non avrei dovuto. Adesso... resisterti sarà ancora più difficile. Capisci? L'odore del tuo sangue è delizioso, te lo hanno mai detto?”, mi chiese una voce di ragazzo.

“Si”, sputai tra i denti, tentando di guadagnare tempo mentre indietreggiavo ulteriormente. “Più di una volta”

“E non solo, anche l'odore del tuo corpo è straordinariamente delizioso. Penso che terrò il paio di mutandine azzurre che ho trovato casualmente nel tuo cassetto. Mi auguro non ti dispiaccia”, la voce bassa, lasciva, quasi amorevole.

“Se intendi uccidermi e io sono un morto che cammina, è un po' da necrofili, non credi?”, continuai, mentre la sua mano fredda come il ghiaccio strisciava sul mio collo, sollevandomi dal pavimento senza alcuno sforzo e attaccandomi alla porta dell'appartamento da cui proveniva la musica.

“Mi risulta che sia tu a fartela con i vampiri, perciò, se c'è un necrofilo qui, quello non sono certo io!”. La sua risata mi lacerò un timpano. “Sei divertente, quasi mi dispiace per te. Magari è meglio che sia io a farti fuori. Se lei ti trova non sarà altrettanto delicata. Però, sprecare il tuo sangue è.. un crimine... capisci in che posizione mi hai messo?”.

“Dimmi – proseguì - come preferisci che lo faccia... come preferisci che ti uccida? Vuoi che ti strangoli, che ti spezzi il collo, che ti faccia tagliare la lingua, che ti rompa l'altro braccio e poi le game?”. Quella frase mi fece comprendere, al ché prima non me ne ero accorta, che il braccio sinistro era piegato in una posizione innaturale: era rotto.

“Opterò per spezzarti il collo, è il più rapido e indolore. E poi dicono che non sono un tipo gentile... ”. Mi lasciò il collo, permettendomi di posare i piedi a terra e le sue mani andarono a stringere la mia testa, una da un lato e una dall'altro. L'unico luogo in cui mi rifugiai, al confine con la morte, fu il reparto di pediatria infantile dell'ospedale di Forks, in quella stanza che ospitava la bimba con il pigiama giallo, morta poche settimane dopo.

“Ti raggiungo”, pensai. “Non sono riuscita a salvare nessuno, neppure me stessa, ma almeno non sarai sola sotto terra, in quel grande e desolato cimitero sperduto fra gli alberi”.

Poi, udì un suono, di qualcosa che viene lacerato, strappato dal resto del corpo. In un ultimo istante di lucidità prima di svenire, capì che la mia testa doleva ancora per il violento colpo di pochi minuti prima e di conseguenza doveva essere attaccata al resto del corpo. Non cantai immediatamente vittoria, perché altre mani, fredde come le prime, tornarono a sfiorarmi il collo. Sollevai le palpebre, gli occhi ancora offuscati dal sangue e vidi un viso familiare. Probabilmente sognavo.

 

La mi guancia sfiorò qualcosa di morbido e caldo, che mi spinse a raggomitolarmi su me stessa. Sentivo la testa pesante, come se la stessi trasportando in una mano e pensasse più di venti chili. Strinsi gli occhi, ma questo non fece che enfatizzare il dolore. Allora sollevai una mano, decisa a constatare l'entità dei danni dove la pelle pulsava e mi sfuggì un gemito.

“Attenta, devo ancora fasciarlo”, sussurrò una voce che riconobbi immediatamente, sfiorandomi il braccio.

Spalancai gli occhi, che si adattarono in fretta al buio.

Carlisle Cullen mi fissava, uno sguardo indecifrabile che racchiudeva in sé una serie di emozioni contrastanti. Il suo volto pallido e i suoi occhi dorati costituivano l'unica luce all'interno di quello che capì essere l'abitacolo di un auto e il mio morbido giaciglio un sedile di pelle. Ne riconobbi il profumo e fu quel dettaglio a convincermi che non stavo semplicemente sognando. Non so cosa Carlisle lesse nel mio sguardo, ma lo costrinse a distogliere il suo e riportarlo sulla strada. Lo fissavo, incredula.

Fu lui a parlare nuovamente.

“Sei stata aggredita... hai un braccio rotto che dovrò fasciare appena arrivati a casa Hai evitato il trauma cranico ma comunque hai una ferita profonda appena sopra il sopracciglio destro e...”

“Cosa fai qui?”, non riuscì a trattenere a lungo le parole, ignorando quelle di Carlisle che si rifugiava dietro la questione medica per non dover affrontare argomenti più spinosi.

Carlisle deglutì, in evidente difficoltà. “Io... ti ho vista questa mattina, ad Harvard, dopo aver concluso il mio colloquio con il rettore. Quando ho aperto la pota eri lì, ma sei scomparsa prima che potessi.... Ti ho cercata in ogni angolo dell'università”.

 

Come hai fatto a trovarmi?

Ho seguito il tuo odore.

 

“Quando ti ho trovata, ho... deciso di seguirti fino al locale. Ho aspettato che finissi il turno: speravo di parlarti. Poi ti ho seguita ancora, fino a casa. Temevo di spaventarti, se mi fossi presentato improvvisamente davanti a te e ho indugiato. Se non lo avessi fatto, avrei evitato che ti facessero del male...So che non era mio diritto seguirti o osservarti, sono stato inopportuno, ma...”.

“Non lo hai evitato”, sussurrai e avrei voluto distogliere lo sguardo e puntarlo altrove, ma temevo che scomparisse.

Carlisle puntò i suoi occhi saggi e dorati nei miei e in essi lessi dolore, sconforto e incertezza.

Man mano che il ricordo di quanto successo quella sera tornava a galla, il mio corpo umano e limitato si opponeva. Tremai a lungo, in quell'abitacolo buio.

“E sì, sei stato inopportuno e no, non avresti dovuto farlo”, lo attaccai, il tono della mia voce si fece tagliente; sbagliava se credeva che gli sarei stata grata per avermi salvato la vita. Ma, se avevo imparato a conoscere Carlisle, non voleva la mia gratitudine, forse il mio perdono, ma certamente quello non sarebbe arrivato. La mia mente confusa registrò in ritardo le sue parole.

“Casa? Quale casa?”.

Carlisle deglutì nuovamente. “Io ed Esme abbiamo comprato una casa, un po' distante dalla città e sai perché. Lì ho tutto l'occorrente per il tuo braccio”.

Il panico mi assalì. “Cosa, no! Carlisle fammi scendere, non ho intenzione..”. Mi impegnai a fare respiri profondi, ma il cuore e i polmoni sembrava non volessero collaborare. “Posso farlo da sola, o raggiungere l'ospedale”.

“Bella, siamo arrivati, mancano pochi metri e so che tu odi gli ospedali, perciò ho pensato di portarti a casa”.

“Smetti di chiamarla casa... non è casa mia. E frequento la facoltà di medicina Carlisle, non di economia: non ho più paura degli ospedali”.

Carlisle, quasi dimentico della strada e dalla mia rabbia, mi rivolse un sorriso entusiasta. “Davvero?”, chiese.

“Carlisle”, lo implorai, pronta a fiondarmi fuori dall'auto in corsa se non avesse accostato.

“Siamo soltanto io ed Esme, Bella. Non c'è nessun altro in casa. Alice, Rosalie, Emmet e Jasper sono fuori da due giorni, a caccia. E Ed... Siamo soltanto noi, io ed Esme”, ribadì. Carlisle sollevò una mano, accostandola al mio volto, il suo tocco gelido mi colse alla sprovvista, ma, memore di altre mani, violente sul mio corpo, mi ritrassi.

Avrei dovuto seguirlo, o sarebbe stato più saggio lasciarmi scivolare fuori dall'auto in corsa, come avevo pensato poco prima, con un braccio rotto, una gamba dolorante, quasi sicuramente ferita?

“Chi era?”, chiesi, dopo qualche istante di silenzio, optando di restare in auto, perché nonostante tutto mi sentivo al sicuro e il mio corpo poteva smettere di tremare. Lanciai uno sguardo al mio braccio, legato al busto da una fascia improvvisata.

“Non so dirtelo, il suo odore non era familiare. Ho recuperato qualche vestito e una busta bianca sparsi sul pavimento, sono nella borsa sul sedile posteriore. Pensavo che potresti passare la notte da noi, Esme ne sarebbe felice”.

Mi imposi di non pensare al problema alloggio, almeno per quella sera.

“Siamo arrivati”, annunciò Carlisle e il mio cuore prese a battere all'impazzata. Scendemmo dall'auto e l'unico rumore nella notte fu il suono delle portiere. La casa che si intravedeva in lontananza era enorme, lussuosa e straordinariamente bella, com'era ovvio che vi fosse il tocco di Esme.

“Oddio”, la voce di Carlisle attirò la mia attenzione e mi voltai nella sua direzione, incuriosita dal suo tono di voce. I suoi occhi dorati erano ansiosi e sul suo volto si dipinse un'espressione angosciata, che non gli apparteneva. Temendo la comparsa di qualche altro vampiro pronto a uccidermi mi guardai intorno, ma ciò che vidi fu... peggio e posso giurare che avrei preferito di gran lunga la morte. In fondo, fu come se qualcuno mi stesse spezzando il collo o soffocando.

La famiglia Cullen, Carlisle escluso, mi fissava dal portico.

I loro sguardi, al pari di quelli del padre, erano shoccati. Emmet e Jasper si spalleggiavano, il primo con le braccia conserte sul petto fasciato da un canottiera bianca macchiata qua e la dal sangue della caccia, un'espressione seria che poco si addiceva al ragazzo che avevo conosciuto. Il secondo, molto più composto, aveva le braccia distese lungo i fianchi, quasi molli e la bocca semiaperta, come fosse sul punto di lanciare un urlo, forse memore del nostro ultimo, disastroso incontro. Rosalie era gelida e bellissima, ma sembrava spaventata, neanche mi fossero spuntate d'improvviso due corna e una coda. Esme, poco dietro di lei, sembrava avesse difficoltà a respirare. Un mano le copriva la bocca, in un gesto teatrale di stupore, l'altra stringeva la maglietta in prossimità del petto. Alice... lei era un buco nero. Apriva un tale squarcio nel mio cuore e se prima avevo pensato che respirare fosse difficile, davanti a lei si rivelò quasi impossibile. Era assente, dannatamente preoccupata, ma non come gli altri- Lei stava vedendo, seppur in in ritardo, ciò che stava avvenendo in quel preciso istante. Le sue braccia minute erano sollevate a circondare il collo... dell'ultimo membro della famiglia, sul quale non osai posare gli occhi, ma lentamente le scivolarono lungo i fianchi e il sorriso le morì sulle labbra, trasformandosi in una smorfia di dolore molto simile a quella del padre.

Tuttavia non riuscì ad ignorarlo a lungo, i miei occhi cercarono i suoi attratti come il ferro dalla calamita. Il suo volto era... di pietra, non avrei potuto utilizzare un termine che descrivesse altrimenti la sua espressione. Gli occhi... erano neri come il carbone. E prima che potessi soffermarmi eccessivamente sui tendini contratti del suo collo, sulle sue spalle rigide o sui pugni chiusi che lentamente si scioglievano, lasciandolo inerme, un altro dettaglio, insignificante in confronto al resto, attrasse la mia attenzione: una mano, delicata e bianca come la porcellana all'estremità di un braccio che stringeva quello di Edward al pari di un serpente intorno a un ramo. Quella mano piccola e sottile arpionava le pieghe della sua giacca con avidità, possessione e... consapevolezza. Ma non fu questo il dettaglio che attrasse la mia attenzione, bensì l'anello ovale e color oro che le sfiorava la pelle e che sembrava essere stato forgiato intorno al suo dito.

 

Cos'è?

Era l'anello di fidanzamento di mia madre, lo conservo da anni.

E non hai mai trovato la persona giusto cui donarlo?

Fino ad ora no. Questo, disse indicando il cofanetto di velluto blu e ciò che conteneva al suo interno, è tuo dal primo istante in cui ti ho vista. Te lo darei ora, ma rischio di spaventarti.

Rischi... che mio padre ti uccida, dissi, la bocca secca e il respiro corto, tentando di ironizzare, ma fu il suo sorriso a sdrammatizzare definitivamente la situazione.

 

Questo è tuo... questo è tuo... questo è tuo...

 

E mentre la consapevolezza che aver provato a leggere fra le righe parole non dette era stato effettivamente il tentativo di una sciocca, di un'illusa, mi sfiorava la mente e le membra e i tremori tornavano a scuotermi, feci vagare lo sguardo sul braccio che gli circondava il collo. In cerca, osservai la mano penzoloni che sfiorava la sua spalla e la trovai. All'anulare sinistro, splendeva una piccola, deliziosa, orribile fede d'oro lucido. La donna sfiorava i contorni della fede con il pollice, accarezzandola, quasi volesse beffarsi di me o, piuttosto, ricordare l'istante in cui lui gliel'aveva donata, allacciandola al suo dito.

E per ultimo, lasciai che i miei occhi scorressero sul volto della donna. La sua bellezza mi travolse come l'onda di un oceano e io affondai, in acque oscure e torbide, mentre il suo sorriso affiorava in superficie.

Soltanto perifericamente notai Jasper, l'impassibile soldato vampiro, chino quasi a sfiorare con la fronte quella della moglie di diverse spanne più bassa di lui, piegato dal mio dolore.

 

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Capitolo 3
*** 2) Una prigioniera libera ***


Buonasera a tutti! In realtà non avrei dovuto postare oggi, ma sono un po' giù quindi mi andava di farmi sentire.. Bene, ringrazio ancora tutti quelli che hanno lascito una recensione, o che hanno aggiunto la storia nelle seguite, preferite e ricordate. Ora, vi anticipo che il prossimo cap sarà un pov Edward e spiegherà un po' di cose. Bene, spero che il cap vi piaccia, fatevi sentire!
2)Una prigioniera libera

La mia mente elabora una situazione o una notizia spiacevole lentamente, in modo tale che la caduta non risulti eccessivamente dannosa. Così fu quando, ad appena undici anni, mia madre ebbe il suo primo attacco di panico, quando persi Gloria, la mia tartaruga, quando giunsi a Forks, dopo la mia decisione di abbandonare l'Arizona, quando scoprì che Edward Cullen e la sua famiglia erano vampiri...

Ma quella volta, la drammaticità della situazione si abbatté contro di me brutalmente e fu come se un leone(biondo e formoso) mi avesse strappato la pelle del viso a morsi, come se qualcuno mi stesse annegando ripetutamente senza che riuscissi a morire in maniera definitiva.

La realtà dei fatti mi era chiara, tuttavia non riuscivo ad inquadrarla. Come se avessi di fronte da me tutti i pezzi di un puzzle, ma non potessi incastrarli. C'era qualcosa di sbagliato in quanto accaduto quel giorno di fine Marzo.

“E lei chi è?”.

Allo stesso modo il suono di quelle parole vuote e il sorriso entusiasta della donna sconosciuta che le aveva pronunciate mi giunsero, ma non riuscì a comprenderle. Un braccio forte e freddo mi cinse le spalle come fosse un gesto casuale ma nell'istante esatto in cui le gambe mi cedettero e non fosse stato per Carlisle sarei ruzzolata a terra. Man mano che il buco nero al centro del mio petto si allargava e qualcosa di viscido mi artigliava dall'interno, sbranando pezzo a pezzo ogni parte del mio corpo, mi sentivo svuotata. Come se ogni secondo che passava, qualcuno mi esportasse un organo fino a lasciare di me nient'altro che ossa e pelle.

Quando Gloria morì, la gettai nel Water, perché ogni scarico porta al mare( o almeno, questo è quanto mi aveva insegnato Nemo). Piansi per giorni, dopodiché, accettata la sua morte, mi rassegnai a vivere il resto della mia vita senza di lei.

Anche quel giorno, pian piano, iniziai ad accettare la situazione e a comprenderla, almeno così credevo. Mi rassegnai(e avrei dovuto farlo molto tempo a dietro), allora fu come se mani guantate tirassero fuori dalla mia gabbia toracica anche l'ultimo organo rimasto, il mio cuore malridotto, senza però sostituirlo con un altro funzionante.

Edward Cullen era sposato.

 

Dio, quanto sei bella- lo diceva sempre,mentre mi osservava studiare, mangiare o semplicemente respirare.

Vado a caccia con Emmet e Jasper.

Inutile che ti chieda di venire anche io...

Tornerò domani mattina, il tempo passerà in fretta -e scompariva dalla finestra della mia stanza, lasciandomi con una carezza sul viso.

E a notte fonda, il suo corpo si stringeva al mio.

Saresti dovuto tornare domani mattina...

Lo so, ma il tempo non passava.

 

Ricordi su ricordi mi invasero la mente. Pagine di un libro sfogliate dal vento che mi sfilavano davanti agli occhi, come accade a chi è sul punto di morire.

Combattei contro l'impulso di afferrarmi la testa tra le mani e stringere, fin quando il dolore non fosse scomparso o non l'avessi staccata dal collo. Ecco, a conoscere il nome del vampiro che aveva tentato di uccidermi, lo avrei rintracciato per chiedergli di concludere il lavoro che aveva lasciato a metà.

“Credo di aver capito, tu devi essere Bella”, la sua voce(bella come il suo volto e niente affatto civettuola) pronunciò il mio nome con gentilezza, ma il suo sguardo non poté evitare di assottigliarsi.

“Ho saputo di te, fin da quel giorno in Alaska. Ricordi, Edward?”. Sentirle pronunciare il suo nome, fu come una stilettata nella schiena.

Alzai lo sguardo, che avevo lasciato vagasse senza meta fino ad allora e osservai che le espressioni dei Cullen erano identiche a poco fa, se non peggiori. E prima ancora che potessi incrociare nuovamente il suo sguardo, i miei occhi furono catturati dall'immagine di una figura che avanzava. La donna, i ricci lunghi e biondi le ondeggiavano intorno al volto perfetto, avanzava verso di me, sensuale e sorridente come chi ha appena vinto alla lotteria.

“Nessuno sembra intenzionato a darti il benvenuto, perciò lo farò io. Oh, ma sei ferita- disse, annusando l'aria. Carlisle dovresti portarla dentro. Se rimarrai qui da noi ci vedremo spesso e avremo modo di conoscerci, penso che io ed Edward rimarremo qui per un po' adesso che siamo sposati, non sai che fatica trascinarlo in Alaska. A proposito mi chiamo Tanya, Tanya Cullen del clan Denali, avrai sicuramente sentito parlare di noi”, concluse, porgendomi la bella mano bianca, l'anello di fidanzamento brillava al suo anulare.

Fissai Tanya dritto negli occhi(il suo nome impresso a fuoco nella mia mente) e ricordai la donna in bianco che aveva soccorso la bambina in pediatria, quel lontano giorno a Forks, la sua sicurezza.

Allora raddrizzai le spalle e il braccio di Carlisle scivolò sulla mia schiena, i suoi occhi e quelli degli altri fissi su di me, e sollevai la mano, andando a stringere la sua con tutta la forza rimastami in corpo.

“Isabella Swan, piacere e congratulazioni - aggiunsi”.

Avrei voluto urlare quelle parole, ma riuscì soltanto a sussurarle, perché un nodo inestricabile mi stringeva la gola, impedendo a l'aria di passare. Tuttavia, ebbi la soddisfazione di vederle sgranare gli occhi dorati, mentre dal mio volto bianco come la morte non traspariva alcuna emozione. Speravo.

“Scusaci, Tanya”, disse Carlisle, mentre le lasciavo andare la mano e il suo braccio tornava a cingermi le spalle(come se volesse, con il suo corpo, proteggermi da tutto e tutti e io mi lasciai cadere sulla sua spalla), facendosi largo tra la folla dei suoi familiari, ancora basiti, per trascinarmi in casa, dove finalmente persi i sensi. Prima di chiudere gli occhi giurai a me stesa che neanche Edward Cullen o sua.. moglie, sarebbero riusciti là dove James e il vampiro sanguinario di quel pomeriggio avevano miseramente fallito: annientarmi.

 

Mi svegliai, quella mattina, incredibilmente riposata, come non accadeva da mesi. Il mio viso accarezzato da una caldo raggio di sole; mi rannicchiai sotto le coperte, immergendo il volto nella seta e nelle piume del cuscino, lasciandomi avvolgere da essi come fossero immense ali bianche d'angelo. Avrei dormito ancora a lungo, ma ricordavo di essere stata svegliata da un suono violento, un urlo forse e qualcosa di pesante che si scontrava contro qualcosa di altrettanto pesante, ma pensavo di aver sognato. E rimasi lì, a bearmi di quella sensazione di pace, fin quando non udì nuovamente quel suono così discordante con il mio stato di assoluto relax. Mi stiracchiai e poi, d'improvviso, ricordai e fu come se qualcuno mi avesse gettato addosso un secchio d'acqua gelida. Mi alzai di scatto, tentando di portare il braccio al volto, notando solo allora che era stato fasciato. Carlisle... Anche la ferite alla gamba e al sopracciglio erano state richiuse con un paio di punti di sutura. Mi guardai intorno, rimpiangendo soltanto per un istante il letto ancora caldo. La stanza non era eccessivamente grande né troppo piccola, era accogliente: soltanto il letto occupava la maggior parte dello spazio. Su una sedia poco distante da me, qualcuno aveva adagiato la borsa con i miei vestiti, i libri e i soldi che Carlisle aveva provvidenzialmente raccolto dal mio appartamento distrutto. Andai in cerca dello smartphone poco costoso che Charlie mi aveva regalato per il diploma liceale e guardai l'ora: le otto del mattino. Bene, ero ancora in tempo per andare a lezione. Mi vestì in fretta con i primi jeans e la prima maglia che trovai, infilai le scarpe e scomparvi nel bagno attiguo alla mia camera, tentando di aprire e chiudere ogni porta con il minimo rumore possibile, ma il silenzio che calò d'improvviso nella casa mi fece intuire che il mio sforzo non era valso a granché: sapevano che ero sveglia, ma nessuno mi raggiunse. Afferrai con forza il mio borsone e la sedia per poco con ruzzolò sul pavimento ricoperto dalla consueta moquette. Tirai un profondo sospiro, e sollevai il cappuccio della felpa affinché nascondesse il mio volto, conscia che avrei dovuto fuggire il più lontano possibile, perché rimanere ulteriormente in quella casa corrispondeva a un suicidio. Dio, fai che non siano al piano di sotto, fa che lui non ci sia. Fai che lei non mi si avvicini mai più. Per un istante, presi in seria considerazione l'opzione di calarmi giù dalla finestra, ma probabilmente avrei ottenuto soltanto una gamba rotta e una permanenza più lunga nelle mani del dottor Cullen. L'unico rumore in casa era il suono dei miei passi sul parquet.

Nonostante le miei preghiere i Cullen era lì, nel soggiorno. Non mi soffermai a lungo sui loro volti, adocchiai la porta e mi fiondai su di essa.

Ma arrivò una mano a trattenermi. Una rabbia violenta mi assalì e nella foga di voltarmi il cappuccio della felpa mi ricadde sulle spalle, scoprendo il mio volto funereo. Il viso di Jasper torreggiava su di me e nonostante fosse più alto di qualche spanna, sotto il mio sguardo si fece d'improvviso molto piccolo.

“Lasciami...”.

Maledissi me stessa perché non potevo infierire su quel ragazzo dagli occhi tristi, che sembrava implorarmi di perdonarlo o semplicemente di non soffrire più. Mi aveva sfiorata come volesse sorreggermi piuttosto che trattenermi.

“Lasciami andare via e... non seguitemi. State lontani da me... tutti”.

Lasciò che la mano gli ricadesse sul fianco e io mi allontanai, sbattendo rumorosamente la porta d'entrata.

Camminai a lungo. Quando avevo lasciato la casa non mi ero affatto posta il problema di come sarei arrivata ad Hardard.

Oh, al diavolo, mi dissi. Sollevai un pollice in alto e fortunatamente non dovetti attendere molto, prima che un furgoncino(uno di quelli in cui ti aspetti di salire per non scendere mai più) si accostasse a un metro da me. Charlie mi aveva categoricamente vietato di fare l'autostop, ma non avevo altra scelta ed ero sicura che avrebbe approvato il fatto che avessi deciso di allontanarmi dai Cullen. Ma... se un vampiro non era riuscito a uccidermi, dubitavo ci sarebbe riuscito il ragazzo alto e smilzo, con un berretto verde militare e un po' pallido che guidava il furgone.

Le lezioni trascorsero lentamente, quasi il tempo avesse deciso di prendersi una pausa per lasciarmi modo di riflettere su quanto era successo, perché non potevo evitarlo ulteriormente. Non avevo una casa. Chiamare Charlie o mia madre era fuori discussione. Ritornare al mio appartamento lo era altrettanto. Ero consapevole che, se un vampiro avesse voluto uccidermi avrebbe potuto trovarmi in qualsiasi luogo avessi deciso di rifugiarmi, ma ritornare a casa sarebbe stato da idioti e altrettanto chiedere ospitalità a qualcuno, forse Annabel(avrebbe accettato?) o Maia. Ma questo avrebbe significato mettere la loro vita in pericolo e non potevo sopportarlo. Trovare un appartamento, già ammobiliato di letto e cucina in un giorno era pressoché impossibile. Dove avrei dormito quella notte?

D'altro canto era ridicolo che continuassi a sbattere la testa su qualcosa di cui mi importava poco o niente. Avrei dormito su una panchina o sotto un ponte, come un troll. I miei occhi non riuscivano a cancellare l'immagine di loro due insieme. Dei loro corpi legati, delle braccia della bionda e bellissima Tanya intorno al suo collo, di quell'anello al suo dito. Oddio, mi mancava il fiato. Perché maledetto, maledetto vampiro non scompariva dalla mia testa. Come aveva potuto in meno di quattordici mesi di lontananza sposare un'altra donna? Forse... forse già prima... No, per quanto ora lo odiassi, io conoscevo Edward... non lo avrebbe fatto. Eppure, aver avuto una relazione con lei spiegava quel suo repentino cambiamento. Oddio...

Lasciai l'aula, creando un po' di trambusto tra i banchi e gli studenti attenti. Mi appoggiai al muro appena fuori la porta, stringendo forte i capelli tra le dita, come aveva fatto mia madre entrambe le volte che il panico l'aveva assalita sotto i miei occhi. Non piansi, mi limitai a singhiozzare. Mi mancava il respiro e mi sentivo in trappola, in una mente che si rivoltava contro di me. Avevo paura ed ero sola. Ero come mia madre... anche io. Dio, fai respiri profondi, mi ripetevo. Ma non riuscivo a smettere di singhiozzare, senza poter piangere, come un vampiro. Quel pensiero non fece altro che enfatizzare la crisi, perché ero consapevole che quella era una vera e propria crisi di panico. Io ho il controllo di me. Io ho il controllo di me, mi ripetevo. Io non sono Reneé. Io sono più forte di lei. Mi strinsi le braccia al petto, come volessi circondarmi per interno, abbracciarmi, consolarmi o forse, soltanto, tenere uniti i pezzi di me stessa.

Lentamente, la crisi scemò, tornai a respirare e le pareti di vetro in cui mi sentivo rinchiusa scomparvero e fui di nuovo ad Harvard, giusto in tempo perché gli studenti, appena finita la lezione, non mi trovassero semi-morta in corridoio.

 

Trascorsi l'intero pomeriggio nella caffetteria “Da Wanda”, sorseggiando una cioccolata calda e sgranocchiando qualche biscotto, rileggendo qualche appunto. Avevo evitato Annabel e le sue domande per tutto il giorno, ma non avevo potuto sfuggire dagli sguardi indiscreti degli studenti. In realtà, non ricordavo se ero stata io ad ignorarli fino ad allora o se loro si fossero accorti di me soltanto quel giorno.

“Posso portarti qualcos'altro, cara?”. Alzai lo sguardo dal libro di anatomia, puntandolo sul viso gentile e delicato della donna che mi aveva rivolto la parola.

Dissentì .

“Sicura? Ho sfornato un'altra teglia di biscotti alle mandorle”.

“La ringrazio, ma sono a posto così. Se... se disturbo posso andare via, ma vorrei rimanere qui ancora un po'”. Temevo di averle occupato il tavolo troppo a lungo, anche se la sala non era eccessivamente affollata e inoltre non potevo permettermi di spendere altri soldi in dolciumi e leccornie varie. Il mio budget giornaliero era estremamente limitato.

“Nessun problema – disse, lanciando un'occhiata accigliata alla mia ferita sul volto e al braccio ingessato- se hai bisogno del bagno è in fondo a sinistra. A proposito, io sono Wanda, proprietaria e pasticcera. La ragazza al banco si chiama Anne e il bel giovanotto che serve ai tavoli è mio figlio, Christopher. Sei hai bisogno di qualcosa, chiedi pure a loro”. Detto ciò, si allontanò, lasciandomi al mio libro di anatomia.

Il resto del pomeriggio trascorse in fretta. Avevo passato l'ultima ora a chiedermi se fosse o no il caso di andare a lavoro. Avrei potuto essere utile con un braccio solo? Alla fine, salutai Wanda e il resto dei dipendenti della caffetteria e mi diressi, borsa in spalla, al “Turn of light”.

 

Quando Maia, Raphael ed Andrew mi videro, sgranarono contemporaneamente gli occhi e Raphael quasi si strozzo' con il pezzo di pizza che stava mangiando, appoggiato al bancone. Divertente.

“Che ti è successo?”, chiese Maia.

“Sono caduta dalle scale”, risposi, confessando soltanto in parte la verità.

“E cosa fai qui?”.

“Lavoro?”, risposi con tono interrogativo e incerto.

“Posso aiutare lo stesso, anche con un braccio. Andrew riesce a preparare dieci cocktail con una mano sola, perché io non dovrei poter servire ai tavoli”, le feci notare con un sorriso appena accennato.

“Sì, ma io sono io, tesoro”, rispose Andrew e i suoi bicipiti si contrassero sotto il tessuto della maglietta, “e poi, una mia mano fa per due delle tue”. Alzai gli occhi al cielo, ignorandoli e andando ad indossare la mia divisa. Quando uscì dallo spogliatoio, mi soffermai più del dovuto ad osservare il ragazzo al di là della porta a vetri poco distante. Enrique sembrava estremamente concentrato, il viso chino su qualche foglio sparso sulla scrivania, mentre conteggiava qualcosa con l'aiuto della sua fida calcolatrice arancione, che avevo notato per la prima volta il giorno del colloquio. Forse sentendosi osservato sollevò lo sguardo sulla mia figura e io arrossì leggermente. Il suo volto si scurì e abbandonò la scrivania frettolosamente. In una manciata di secondi fu di fronte a me.

“Chi è stato?”, mi chiese, mentre con un dito sfiorava la cicatrice poco sopra il mio sopracciglio destro.

La sua domanda mi colse impreparata. Il fatto che avesse attribuito la responsabilità delle mie ferite a qualcuno, piuttosto che a un incidente la diceva lunga sulla sua perspicacia. Mentì.

“E' stato soltanto un incidente. Sono caduta dalle scale”.

La mia versione sembrò non convincerlo del tutto, ma pose subito un'altra domanda.

“E cosa fai qui?”.

“Perché me lo chiedete tutti. Lavoro”.

“Con un braccio fasciato”.

“Posso farcela”, rabadì piccata.

“Lo so che puoi”, mi rispose con un accenno di sorriso, “tu hai l'aspetto di chi potrebbe fare qualsiasi cosa, se solo si impuntasse”. Sorrisi, senza distogliere lo sguardo.

 

Quella sera, mi convinsi che Enrique aveva ragione. Riflettei a lungo, destreggiandomi con un braccio a servire ai tavoli(nonostante la maggior parte del mio lavoro lo svolse Raphael). Con ciò non mi riferivo soltanto alla mia performance al locale, ma alla mia reazione alle parole di Tanya e alle attenzioni dei Cullen. Li avevo rifiutati e non avevo dato la possibilità a Tanya Denali... ora in Cullen di umiliarmi. Ero stata... coraggiosa, oserei definirmi. E nel confrontarmi con quella donna mi ero sentita così viva. Di nuovo, o forse per la prima volta, me stessa. Allontanate le tante paure che mi caratterizzavano: equilibrio precario(eredità dell'infanzia), timore di non essere abbastanza(dovuto all'orribile sensazione di inutilità di fronte al dolore di mia madre, che avevo scacciato quel giorno a casa di Charlie, soccorrendola), timore di mostrarmi per quel che ero(che avevo abbandonato a Forks per merito, dovetti ammettere a malincuore, dei Cullen, grazie ai quali avevo compreso l'importanza di essere finché ciò è possibile, perché nascondere se stessi è una pena maggiore del dolore eventualmente provato nel mostrarsi). Perciò, se ogni paura e reticenza si era dissolta dal mio corpo come acqua che evapora, cosa era rimasto? Io, mi risposi. Ero rimasta io, per quel che ero.

Il mio legame con Edward era strettamente connesso alle mie paure. Edward aveva saputo enfatizzarle, portarle al loro culmine e al contempo cancellarle. E con lui io ero stata me stessa, dall'inizio alla fine. Una me più giovane. Allora capì l'importanza del tempo che passa e perché i Cullen lo agognassero a tal punto. Io ero cresciuta, in quei mesi, e non soltanto fisicamente( in centimetri d'altezza e nelle mie curve di donna). Loro non sarebbero cresciuti mai più. Avevano molte possibilità e molte altre non le avevano. Ma lo stesso discorso valeva per gli esseri umani, con la differenza che le nostre pene, prima o poi, venivano lenite dalla morte: naturale processo fisiologico. A loro la morte era negata, a meno che non decidessero di gettarsi nel fuoco, sperando che i pezzi del loro corpo non si ricomponessero spontaneamente, rendendo nullo il tentativo. Ricordai gli occhi di Jasper, lo sguardo di Esme e provai pena e nostalgia, molta.

 

Quando lasciai il locale pioveva. E io camminai sotto la pioggia, incerta su cosa fare. Forse avrei dovuto cercare una camera d'albergo o di motel. Le gocce di pioggia mi accarezzavano il volto, le labbra e mi sentì incredibilmente libera, indipendente e orrendamente sola. I fari di un'auto mi abbagliarono per qualche istante, illuminando la strada e l'intensità della pioggia che batteva frenetica sull'asfalto. Quando riaprì gli occhi, dovetti sbattere le palpebre più volte, prima di mettere a fuoco la figura che, nel buio, mi osservava.

Esme.

“Vi avevo chiesto...”, iniziai.

“So... cosa hai chiesto, Bella. Ma una madre non può abbandonare la propria figlia”.

Sorrisi ironicamente. “Lo hai fatto, Esme. Vorrei ricordarti che siete scomparsi, un giorno, senza dire niente. Come se mi non conosceste, come se non mi amaste e di me vi importasse poco o niente”.

“Allora credevamo che fosse la scelta migliore. E la situazione era nettamente differente, perché avevi tuo padre, tua madre, una vita intera davanti a te. Ora sei in pericolo. E questo non posso accettarlo”.

“Più facile per chi?”, urlai, senza riuscire a sovrastare il rumore della pioggia e del vento.

“Per te e per... noi- ammise Esme”.

In meno di un secondo fu di fronte a me e la sua mano fredda ma in accordo con la temperatura della mia pelle in quel momento mi accarezzò una guancia e i capelli fradici.

“Se ti avessimo visto non avremmo avuto la forza di lasciarti”.

“E dovrei crederti? Quando neanche per Edward è stato difficile lasciarmi andare?”. Ricordavo il suo sguardo angosciato, le sue palpebre che si alzavano e si abbassavano ripetutamente come accadeva quando era nervoso. Un tic che aveva preso da me. Ma lo avevo addotto alla situazione in generale, al senso di colpa magari, ma non al dolore o alla difficoltà di lasciarmi. Ovvio, altrimenti non mi avrebbe lasciato.

“Credimi, neanche per Edward è stato semplice”. E nel dirlo i suoi occhi brillarono. Una luce che non riconobbi, ma che non presagiva nulla di positivo.

“Vieni con me, Bella”, mi chiese.

“Troverò un posto in cui stare”, replicai.

“Piove e non puoi tornare in quella casa. Inoltre, c'è un vampiro o probabilmente più di uno che ti cerca con l'intenzione di ucciderti e dovunque andassi non saresti al sicuro. Con noi lo saresti. Tu sei ancora la nostra famiglia. Almeno fin quando non capiamo di cosa si tratta, chi ti cerca, perché. Quando sarai nuovamente al sicuro andrai via. Nel frattempo avrai un luogo tranquillo in cui studiare. Voglio solo questo. Permettimi di darti almeno questo”.

Abbassai lo sguardo, sospirando rumorosamente. Cosa avrei dovuto fare? Potevo sopportare di vivere con loro, con lui? Se lo avessi visto insieme a lei ogni giorno avrei finito con l'impazzire.

“Nessuno ti disturberà. Non ti parleremo neanche. Avrai tutto ciò di cui hai bisogno a disposizione. Ed Edward e... Tanya non ci sono quasi mai. Ho costruito loro una casa nelle vicinanze e vivono lì. Non sapevamo che sarebbero tornati così presto... altrimenti Carlisle non ti avrebbe mai portato da noi. Alice li ha visti e sono tornati dalla caccia per riabbracciare Edward. E' stato... un caso, ma non si ripeterà mai più”.

“Alice non mi starà mai lontana”, sospirai, quasi sconfitta dalle sue parole.

“Lo farà se è quello che vuoi. Le importa soltanto che tu sia al sicuro. Non credere che ciò che hai imparato su ciascuno di noi sia una menzogna. Ricorda tutto, perché quella è l'unica verità”.

“Sono cresciuta”, le dissi.

“Lo so – mi sorrise- lo vedo. Perciò non permettere a nessuno di metterti i piedi in testa”. Forse fu una mia impressione, ma con quelle parole, mi parve volesse lanciarmi un messaggio.

“D'accordo”, accettai, “verrò con te”.

Esme si aprì in un sorriso enorme, congiungendo le mani.

“Grazie tesoro”. So che avrebbe voluto abbracciarmi, ma non lo fece.

 

Saliti in auto, Esme mi indicò un paio di asciugamani sul sedile posteriore. “Alice”, si limitò a dire.

Li afferrai, iniziando a frizionarmi i capelli e gli abiti. “Lei lo sapeva?”, gli chiesi.

“No, le tue decisioni non erano chiare, ma lo sperava”.

 

Mentre l'auto lambiva l'asfalto bagnato, i miei occhi vagavano oltre il finestrino e gli alberi, oltre le colline. Con le dita ghiacciate mi torturavo le labbra, provando a indovinare come la decisione di trasferirmi momentaneamente dai Cullen avrebbe influito sulla mia vita: in meglio o in peggio? Date le mie condizioni finanziarie e non, lasciarmi convincere da Esme era stata la scelta più saggia; nonostante ne fossi consapevole avvertivo una stretta allo stomaco e alla gola. Avevo messo davanti a tutto e tutti la mia protezione, la mia sopravvivenza, la mia vita. Perché i miei sacrifici, il mio lavoro, il mio futuro avevano un valore. Mi chiesi se Charlie sarebbe stato fiero di me. Ma a quale prezzo avrei pagato tutto ciò? Quando la grande casa comparve illuminata dai fanali dell'auto mi parve di vivere un déjà vu, ma questa volta nessuno attendeva il nostro arrivo davanti al portico.

Il mio cuore batteva furioso mentre Esma apriva la porta e mi dava il benvenuto in casa Cullen. Non mi stupì di fronte alla bellezza dell'edificio, alla cura per i dettagli, dopotutto, per quanto mi riguardava, casa Cullen sarebbe stata per sempre la villa nel bosco ai confini di Forks. Inoltre, in quella casa splendida avrei trascorso il periodo più duro della mia giovane vita. Ero conscia che, l'unico modo per non rimanere “danneggiata” dalla mia convivenza con i Cullen era ignorare la loro presenza e sarebbe stato difficile, perché l'odore che aleggiava nell'aria mi ricordava spaventosamente quello di casa. Quando entrammo in salotto i Cullen erano evidentemente in attesa, benché mantenessero un basso profilo, fingendo di essere in procinto di fare qualsiasi altra cosa. Li ignorai.

“Di sopra troverai tutto ciò di cui hai bisogno, scegli una stanza qualsiasi”, sussurrò Esme, quasi a voler mantenere riservata quella conversazione, ma così, naturalmente, non poteva essere.

“Grazie”, risposi, anch'io sussurrando. Con la coda dell'occhio notai Alice sussultare, ma finsi di ignorarla. Se non fossi fuggita al più presto le sarei corsa incontro e l'avrei stretta a me, pregandola di non sparire mai più dalla mia vita. E lei lo vide, so che lo vide. Perché d'improvviso si voltò, stringendo il braccio del marito, quasi ad implorarlo di trattenerla. Mi diressi su per le scale, fingendo di non badare ai loro sguardi, a testa dritta. Il rumore di una porta chiusa con violenza mi spinse a distogliere lo sguardo dal punto lontano e inesistente sul quale era puntato. Edward comparve sulla soglia della porta del salotto, l'espressione sconvolta e i capelli completamente zuppi d'acqua, come la sottile camicia azzurra che indossava e i jeans chiari, che gocciolavano sul parquet immacolato. Sembrava avesse corso. Era solo. E io potei ammirarne la bellezza come non avevo fatto il giorno prima. Le sue braccia, di cui la camicia bagnata metteva in evidenza i muscoli e bicipiti contratti, che erano state il mio futuro, le spalle larghe e scolpite cui adoravo aggrapparmi che erano state la mia roccia, il suo viso d'angelo tormentato che era stato il mio regalo e i suoi occhi ancora neri come il buco di una serratura dietro i quali si nascondeva un stanza piena di luce e colore che erano stati la mia casa. Ogni parte del suo corpo suscitava in me desiderio e una rabbia cieca, una gelosia scottante, una nostalgia amara. Prima ancora che potessi rendermene conto, si precipitò di fronte a me, qualche gradino più in basso, così che potessimo essere alla stessa altezza. Era più alto di me, anche se io ero cresciuta. Lui era comunque più alto di me. Mi afferrò un polso con estrema delicatezza e al contempo vigore, come fosse deciso a non lasciarmi andare. Il suo tocco fu come il ghiaccio, mi scottai ma non lasciò tracce evidenti. Non so cosa avrebbe detto, cosa avrebbe fatto, se Tanya non fosse comparsa sulla soglia, altrettanto zuppa d'acqua e con un'espressione indecifrabile ma indubbiamente furiosa. Anche lei aveva corso e stringeva i pugni, fissando ora il marito ora la sua mano sul mio polso come volesse staccarla a morsi. La sua vista scatenò dentro di me una tempesta peggiore di quella che imperversava fuori dalle mura. E tentai di contenermi, di voltare loro le spalle e pensare a quella tenda gialla. Strattonai la sua presa, affinché capisse di dovermi lasciare, ma non lo fece, anzi intensificò la stretta, senza badare la moglie di uno sguardo. Allorché puntai nuovamente i miei occhi nei suoi e sobbalzò impercettibilmente, sopraffatto dalla violenza del mio sguardo, dal disgusto che emergeva dalla mia espressione.

Fece per aprire la bocca e dire qualcosa ma io fui più rapida. Mi accorsi di ciò che avevo fatto soltanto quando lo vidi portarsi una mano alla guancia dove la mia saliva lo aveva raggiunto, mescolandosi alla pioggia. E allora fui libera, ma mi sentì prigioniera con lui della disperazione che colmò il suo sguardo chino. Si accasciò contro il muro alle sue spalle, la mano che prima stringeva il mio polso ancora sulla sua guancia. Nessuno osò muoversi. Io mi afferrai con entrambe le mani alla ringhiera della scala, iniziando a risalire a ritroso, perché non riuscivo a distogliere lo sguardo da lui, che sembrava così dannatamente piccolo. E vidi tutte le sue ferite. Vidi ciò che lo divorava. Ma non era più mio dovere curarle. Il mio posto non era più al suo fianco, perciò fuggì lasciando a chi lo aveva conquistato il diritto di amarlo.

 

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Capitolo 4
*** 3) Figlio, fratello, marito ***


Buonasera! Per prima cosa, vorrei ringraziare ancora tutte le persone che hanno lasciato una recesione e le tante che hanno aggiunto la storia tra le seguite, le ricordate e le preferite e naturalmente un grazie anche a chi ha solo letto e apprezzato. Ora... come avevo già anticipato questo sarà un POV Edward che spiegherà parecchie cose, introdurrà un personaggio di mia invenzione e... sono parecchio fiera di come è venuto. Perciò vi lascio al cap e fatevi sentire, mi raccomando. Mi date soddisfazione!! : ) P.S ascoltate la canzone, mi piace tantissimo!!

3) Figlio, fratello, marito

Oh, you can't hear me cry

see my dreams all die

from where you're standing

on your own

It's so quite here

and i feel so cold

this house no longer

feels like home.

So cold- Ben Cocks

 

Avevo dimenticato la maggior parte delle sensazioni umane: la sete, la fame, la stanchezza, il caldo... il freddo. Eppure, per un lungo istante quella sera riaffiorarono tutte. Ebbi sete del suo sangue e fame del suo corpo. Sentì la stanchezza sotto il peso del suo sguardo, il calore diffondersi in ogni singolo anfratto del mio corpo gelido sfiorando la sua pelle morbida come velluto, il freddo avvolgermi le membra osservando la punta delle mia dita su cui le tracce della sua saliva si confondevano con la pioggia. Il freddo, così estraneo e al contempo così vicino a me: la sensazione che il proprio corpo sia esageratamente esposto, mentre tenta disperatamente di proteggere se stesso e percepisci ogni parte di te contrarsi. Sì, indubbiamente ciò che provavo era l'umano, comune freddo che si annoverava alla serie spiacevole di conseguenze nelle quali ero incorso dal giorno in cui, stupidamente, avevo abbandonato ciò che di più caro avevo: lei.

Avrei potuto addurre infinite cause che giustificassero la scelta di lasciarla e fuggire: darle la possibilità di vivere una vita umana, proteggerla dal mio mondo fatto di sangue e sete, eccetera eccetera eccetera... Ma la verità è che ero stato un codardo, un bambino cresciuto troppo in fretta e mai cresciuto realmente. Dall'alto dei miei centodieci anni non avevo avuto fiducia in lei, nelle sue scelte, nel suo amore per me. Temevo che i suoi sentimenti, la sicurezza con la quale affermava di voler rinunciare a tutto per me fossero dettati dall'impeto del momento, dalla giovane età. Ero certo e forse, nella mia mente perversa, l'avevo persino messa alla prova abbandonandola miseramente come un cane sull'autostrada, che se fossi scomparso dai suoi occhi mi avrebbe dimenticato e nel giro di poco tempo avrebbe smesso di amarmi, ricordandomi come l'odioso vampiro che ero. Quando mi accorsi di aver sbagliato, era ormai troppo tardi. Avevo pagato caro il mio errore. In realtà, continuavo a scontarne le conseguenze. Anche quando pensavo di poter convivere con il demone della solitudine, della colpa, della nostalgia e con ogni altra ombra del mio passato prossimo e remoto, l'universo complottava per riportarmi al mio posto e io tornavo a scontare le mie pene. Com'era accaduto meno di un giorno fa, quando contro ogni aspettativa, mi ero ritrovato il suo volto davanti agli occhi, dimenticando tutto e tutti, persino mia moglie.

E adesso ero lì, su quelle scale, solo come non lo ero mai stato. Tuttavia, man mano che il tempo passava e nessuno, me compreso, muoveva un muscolo, mi rendevo conto di quanto fossi stato ridicolo nel credere di poter andare avanti e convivere con i miei errori, per recuperare un'esistenza che, a tutti gli effetti, era inutile: la mia. Perché, sempre nella mia mente perversa, si faceva largo l'idea che il suo odio, il suo disprezzo, fossero meglio del nulla, della sua assenza. E questo doveva farmi capire a grandi linee quanto radicata fosse la mia dipendenza, la mia ossessione, il mio bisogno, inevitabilmente memore di cosa significasse sopravvivere senza di lei...

 

….............

Edward”... “Edward”... “Edward l'hanno ritrovata, la stanno portando a casa”. Ero in parte cosciente della voce che chiamava il mio nome. La voce di mia madre, non certo quella biologica morta anni or sono. Era la voce di Esme, che stringeva un braccio intorno alle mie spalle, tentando di confortare un dolore inconsolabile. E mi guardava con dolcezza, gentilezza, senza giudicare le mie scelte, come qualsiasi buona madre, spasimando alla ricerca di un modo per aiutarmi.

Sollevai lo sguardo e poco dietro di lei, incrociai gli occhi spaventosamente neri e vacui di Alice. Mia sorella sollevò il proprio minuscolo corpicino dalla poltrona del nostro salotto, sul viso un'espressione indecifrabile che si tradusse in rabbia e dolore quando incrociò il mio sguardo.

Cosa ti aspetti che dica?”, mi chiese, con un tono di voce talmente freddo e distante che mi fece tremare nel profondo.

Mi di...”.

Non.. osare chiedere scusa a me”, urlò Alice e la sua voce raggiunse vertici che non aveva mai sfiorato prima. Alice non urlava, perché non c'era nulla che potesse sorprenderla o coglierla nervosa e impreparata.

Tu potrai forse mentire a chiunque altro, incluso te stesso, ma non puoi credere di mentire a me. Io- continuò ad urlare, picchiettandosi la tempia con l'indice- conosco la tua mente, i tuoi pensieri e le tue scelte meglio di te. Io so e tu sei un vigliacco, un bambino, un ingrato arrogante. Ti dico, e non ho alcun bisogno di avere visioni al riguardo, che hai appena distrutto la tua esistenza e la sua. Pagherai per il tuo errore, ma io non sarò lì ad asciugarti le lacrime”. Alice mi voltò le spalle e si allontanò a grandi falcate ma sempre con estrema eleganza. D'un tratto si fermò e le sue spalle tremarono come foglie al vento.

Allora vai- sussurrò, come se non avesse più fiato in corpo per urlare- vai e per l'amor di Dio non tornare mai più. Vai a crogiolarti nel dolore, nella solitudine, nella disperazione(nel dire ciò immagini della sua vita da umana le passarono per la mente: ricordi di elettroshock nella notte, del buio, del terrore di una bimba abbandonata a se stessa), lontano dalla tua famiglia e dall'unica possibilità di essere felice che hai sprecato miseramente”. Aveva visto la mia scelta di partire.

Allora non riuscivo a capire che stesse descrivendo la sua vita prima di vedere il volto di Jasper e i nostri nella propria mente devastata. Una vita che per nulla al mondo avrebbe voluto che io o Bella dovessimo affrontare. Ma allora non lo capivo.

Vai”, urlò ancora.

Mi sollevai come se fossi un automa, scrollandomi il braccio di Esme dalle spalle e raggiunsi la porta. Non osai neanche guardarla, né lei né il resto della mia famiglia. Mi richiusi la porta alle spalle e corsi. E qualcosa in me cambiò. Perché man mano che correvo il peso delle parole di mia sorella si intensificava e io odia lei, me stesso, Carlisle per aver dato ascolto ai deliri di mia madre e avermi trasformato e l'odio bruciò fino a consumarmi, tra le urla e i singhiozzo senza lacrime. Di me non rimase altro che un bel guscio vuoto, ma estremamente pericoloso. Lasciai che fossero i rumori della città a guidarmi e quando fui di fronte all'aeroporto non mi soffermai a chiedermi il perché.

Seduto sulla scomoda seggiola della sala d'attesa per l'imbarco, osservavo il cartello che segnalava le partenze imminenti, il biglietto in tasca, domandandomi un po' annoiato se avessi fatto la scelta giusta. Senza accorgermi di chi si alzava o si sedeva al mio fianco, ma sempre a una seggiola di distanza. Benedetto istinto umano...

Prima ancora che potessi concludere quel pensiero, qualcuno prese posto al mio fianco, quasi volesse intenzionalmente smentirmi. Lanciai all'individuo un'occhiata inespressiva e mi sarei stupito di riconoscere il suo volto se fossi stato ancora capace di provare qualcosa. Era come se, d'improvviso, ogni emozione fosse stata spenta, come si stacca una spina a un malato terminale per evitare che soffra ulteriormente. Lo osservai a lungo. Era un ragazzo giovane sui venticinque, ventisei anni, capelli biondi, tanto che il sole pareva essersi annidato fra di essi, abbastanza lunghi da sfiorargli le spalle appena reclinava un poco la testa e tirati indietro sul capo. Indossava una tuta grigia e una maglietta a maniche corte blu. La sua pelle era bianca come la neve, di un pallore lucido e innaturale, ma i suoi occhi erano... azzurri, talmente chiari da confondersi con la sclera. E il suo cuore... beh non batteva

Il ragazzo si passò una mano nella zazzera di capelli biondi, tirandoli indietro e spalancò le braccia in un gesto di stizza.

Che c'è? Non hai mai visto un vampiro che aspetta di prendere un aereo?”, chiese, voltandosi a guardarlo con le sopracciglia aggrottate e uno sguardo colmo di arroganza.

Mi limitai a scuotere le spalle con noncuranza e presi a rigirarmi il biglietto di sola andata per Rio de Janeiro tra le dita. Quasi mi pareva di sentire le sue dita accarezzarmi i palmi e i dorsi delle mani. Lei amava le mie mani. Mani da “pianista” le aveva chiamate. Sospirai.

Anche tu vai a Rio?”, mi chiese il ragazzo.

Allora distolsi lo sguardo dal biglietto e tornai a posarlo su di lui. A dire il vero lo adagiai sul suo volto, con una lentezza che a ricordarla mi sembra esasperante. Ma era l'unico modo in cui riuscivo a muovere il mio corpo, sul punto di trasformarsi in una statua di granito nell'aeroporto di Seattle.

Come ti chiami?”, mi chiese ancora il ragazzo.

Valutai se rispondere o meno alla sua domanda, ma in fondo cosa mi rimaneva da perdere. Avevo soltanto quello, il mio nome di battesimo e decisi di donarlo al giovane( perché era evidentemente più “giovane” di me).

Edward”.

Edward e...?”

Edward e... basta”.

Ok- rispose il ragazzo- io sono Ian. Ian è basta. Piacere”.

Sorrisi e mi scoprì a pensare che sì, era davvero un piacere, ma durò molto poco.

Una voce metallica annunciò il mio volo e mi sollevai a fatica, come avessi davvero centodieci anni, a differenza di Ian che si sollevò dalla seggiola come se avesse molle al posto delle gambe. Era alto quanto me, ma più smilzo e ad entrambi i capelli permettevano di guadagnare qualche centimetro in più.

Rio?”, chiesi.

Ian annuì con un sorriso a trentadue denti. “Quante probabilità ci sono che due vampiri si incontrino nella sala d'attesa di un aeroporto, per prendere lo stesso volo”.

Sussurrai un: “Molto poche”.

Ci sono solo due motivi che spingono un uomo solo ad andare in Sud America, prima del carnevale: si nasconde perché ha fatto qualcosa di molto grave o una donna gli ha spezzato il cuore e spera così di curarsi le ferite”.

Incredibile quanto vicino fosse andato alla verità in entrambi i casi, senza comunque afferrarla per intero. Ma non gli avrei dato la soddisfazione di ammettere nulla.

E la tua di motivazione qual è?”.

Ian gli sorrise ancora con arroganza: “Io... la prima”.

Non gli chiesi da cosa fuggisse, né cosa avesse fatto. Superammo i controlli, consegnammo i biglietti e in poco tempo fummo sull'aereo. Due vampiri. Due ragazzi. Entrambi nascondevamo dei segreti, ma nessuno dei due costituiva una minaccia per l'altro.

 

Allora, dove andiamo?”. Chiese Ian, quando fummo scesi dall'aereo. Nessuno dei due aveva bagagli con se, così non dovemmo attendere a lungo all'aeroporto di Rio.

Gli rivolsi uno sguardo scettico.

Cosa ti ha fatto pensare che noi saremmo andati insieme da qualche parte?”.

Ian lo guardò senza battere ciglio per un minuto buono.

Ok ripeto. Quante probabilità ci sono che due vampiri si incontrino nella sala d'attesa di un aeroporto? Io non credo nel destino, ma nelle coincidenze sì. E poi, mi annoio”, concluse il suo soliloquio con quelle parole, come se da sole potessero giustificare la loro accoppiata.

Io cerco la solitudine”, mormorai, ma mentivo. Io mi ero indotto la solitudine.

Credo che tu stia mentendo”, disse il ragazzo, dopo averlo pensato con la medesima intensità.

Ho degli amici da queste parti, loro sapranno come tirarti su il morale. Fidati”, disse Ian, indicando se stesso come se dovessi fidarmi di lui soltanto guardandolo in viso. E inaspettatamente funzionò.

Perché insisti che venga con te? Vai dai tuoi amici. Non sono una buona compagnia”, dissi duramente, lanciandogli un'occhiata che, teoricamente, avrebbe dovuto indurlo ad arretrare. Ma Ian non mosse un muscolo e si limitò a sollevare un sopracciglio.

Dio – dissi- non penso che tu sia fuggito da qualsiasi posto vieni. Penso invece che ti abbiamo mandato via a calci, sei così insopportabile”.

Ian proruppe in una risata fragorosa, fingendo di raccogliere dagli occhi lacrime che non avrebbe mai più potuto versare.

Ecco perché insisto, so che dietro questo vampiro così... a modo e imbronciato c'è un vampiro divertente con cui passare il tempo”.

Sei un curioso misto fra i miei fratelli Emmet e Jasper”, notai.

Allora non sei Edward e basta”, Ian sorrise. Pensandoci bene, da quando lo conoscevo non aveva mai smesso di farlo. Ma si trattava di sorrisi ironici, arroganti dietro i quali non si nascondeva una reale felicità. I suoi sorrisi erano come lastre di ghiaccio, trasparenti e appuntiti.

Ian mi lasciò una pacca sulla spalla e insieme ci inoltrammo nelle strade buie ma popolate di Rio.

Hai degli occhi strani”, disse a un tratto. “Un vampiro con gli occhi gialli è una novità per me”.

I tuoi occhi sono azzurri e ti sorprendi dei miei?”.

Così ci sono nato e rinato. All'inizio pensavo fosse normale, poi ho visto gli altri, gli occhi rossi, e mi sono ricreduto, ma non chiedermi il motivo perché non ne ho idea”.

E i tuoi, hanno una storia?”. Ian fece un cenno del capo in direzione dei suoi occhi “gialli”.

E' quello che accade quando ti nutri di sangue animale: gli occhi perdono la pigmentazione purpurea”.

Quindi ti nutri di sangue animale?”, Ian sgranò gli occhi, “è la prima volta che sento una storia del genere. E ci riesci?”.

Man mano che il tempo passa diventa sempre più facile controllare gli istinti”, dissi, mentre sfrecciavamo fra gli alberi, immersi nel fitto della foresta Amazzonica.

E che sapore ha?”, Ian arricciò il naso.

Mi stai chiedendo se il sapore è buono come quello degli umani? No, affatto. Ma non dover uccidere esseri umani per averlo lo rende migliore”.

E dimmi, è il sangue animale che ti rende così...”, tentò di trovare le parole adatte indicando con una mano la sua intera figura, fasciata in jeans scuri e un'elegante giacca di sartoria.

A modo, perfettino, impeccabile...?”, provai ad aiutarlo.

Una checca?”, chiese Ian e parve illuminarsi.

Cosa?”, chiesi indignato, digrignando i denti.

Mi hanno dato del “figo da paura”, per citare Jessica Stanley, del “dio del sesso”, ma checca mai”. “Come ti permetti ragazzino?”.

La risata di Ian risuonò fra le fronte degli alberi per un minuto buono.

Cosa ti dice che sono più giovane di te?”, mi chiese a un certo punto, prima che i miei pensieri si orientassero su una strada tutt'altro che piacevole.

Il tuo modo di fare”, risposi semplicemente. “Quanti anni hai?”.

Cinquantatré”, rispose immediatamente Ian. “Anche se, effettivamente, tu saresti il più giovane. Quanti anni avevi quando sei stato trasformato, diciotto?”.

Diciassette”, lo corressi. “Da che cosa lo avresti dedotto? Non sembri tanto più vecchio di me”.

Devi ancora imparare, amico mio – iniziò, aggrappandosi con una mano a un alto ramo e dondolandosi come un ridicolo scimpanzé biondo – a nascondere una delusione d'amore. Anche un bambino si accorgerebbe che hai il cuore a pezzi. Sembri... defunto e per davvero questa volta”. Sorrise e si lasciò scivolare a terra, rimettendosi a correre. “Doveva essere proprio bella, la tua vampira, per averti ridotto in questo stato”, mi sbeffeggiò.

O, sì. Era davvero bellissima”, sospirai.

 

Eccoci arrivati”. Ian si piazzò teatralmente nel bel pezzo di una radura terrosa circondata da alti alberi, con le braccia spalancate.

Che cosa c'è qui, esattamente?”, chiesi.

I miei amici”, rispose lui come se fosse ovvio.

Prima che potessi ribattere, iniziai a percepire pensieri in avvicinamento. Erano quasi del tutto illogici, frenetici come quelli di un vampiro durante la caccia. E dedussi che si trattava realmente di vampiri a caccia.

Ian- lo chiamai allarmato- è meglio farsi da parte. Stanno cacciando. Se ci trovano qui, ci attaccano. Noi siamo soltanto in due e loro circa una decina”. Lo tirai per un braccio ma Ian continuava a sorridere arrogantemente.

Come fai a sapere che stanno cacciando e quanti sono?”.

Sospirai: “Leggo nel pensiero. E adesso andiamo via”.

Anche nel mio?”, chiese allarmato.

Certo, ho conosciuto soltanto una persona immune a me... Hai sentito quello che ti ho detto?”.

Sì, ma pensavo al fatto della lettura del pensiero. Comunque non devi preoccuparti, i miei amici hanno un incredibile autocontrollo e non mi farebbero del male. Ah e neanche a te”.

Deglutì. Probabilmente in un'altra circostanza avrei pensato e ripensato se darmela a gambe e trascinarlo con me o aspettare come chiedeva. Ma quel giorno, in effetti, non mi importava di morire o sopravvivere. Perciò mi limitai ad alzare le spalle e aspettare, fin quando non li vidi sbucare dal fitto degli alberi...

 

Non mi avevi detto che i tuoi amici sono amiche, né tanto meno che si trattava delle amazzoni”, sussurrai, sperando che le donne acquattate come gatti sui rami di fronte a noi non mi udissero, in vano.

Cosa c'è, tesoro, non hai mai visto così tante donne nella tua vita?”, mi canzonò una di loro, atterrando con la leggiadria di un felino a pochi metri da noi.

Zafrina”, urlò Ian, lanciandosi sul corpo semi nudo dell'amazzone e stringendola tra le braccia energicamente.

Oh, il mio ragazzo”, disse lei, con una voce profonda quanto i suoi occhi vermigli, lasciandogli un bacio incredibilmente casto e affettuoso sulle labbra.

Zafrina, ti presento Edward e basta. Edward, lei è Zafrina”.

Ma io lo conosco, mormorò Zafrina, avvicinandosi a me con sensuale lentezza, senza produrre il minimo rumore, questi occhi li riconoscerei dappertutto. Sono così simili ai suoi...”. “Tu fai parte della famiglia di Carlisle Cullen, vero?”.

Conosci mio... padre?”, le chiesi, tentando di ignorare i suoi occhi rossi intenti a scavare nei miei come fossero alla ricerca di un qualcosa. Distolsi lo sguardo, proprio quando pareva che avesse trovato ciò che cercava.

Io e Carlsile siamo vecchi amici. Perciò, inevitabilmente anche noi due lo siamo”.

Zafrina mi prese sottobraccio e urlò rivolta al resto delle amazzoni: “Guardate chi abbiamo qui, ragazze. Non è adorabilmente sexy?”.

Sgranai gli occhi, mentre le donne si calavano una dopo l'altra dagli alberi, avvicinandosi con cautela e il medesimo passo cadenzato e sensuale di quella che pareva essere, a tutti gli effetti, il capo tribù.

Ian mi sfiorò un braccio con il gomito: “Gli sei piaciuto”.

Lo disse come se ciò avesse dovuto rassicurarmi, ma in verità, mentre le amazzoni avanzavano, capì che non c'erano rassicurazioni che potessero proteggermi dai loro occhi selvaggi e dai loro corpi frementi.

 

I giorni in compagnia di Ian e delle amazzoni trascorsero lentamente, sebbene ognuno fosse diverso dagli altri. Ciò che inevitabilmente li accomunava era il mio dolore. Non esisteva un termine meno teatrale o generico per descrivere ciò che mi divorava e che mi accompagnava, come un'ombra perenne fra gli alberi. Lei era stata il mio eroe. Con lei al fianco avevo smesso di temere me stesso, la mia assurda vita infinita. Grazie a lei avevo imparato ad amare. Amare realmente. Perché i suoi occhi, mentre mi mostravo a lei, mi giuravano che non le importava cosa fossi ma chi. Che era disposta a rischiare, pur di scrivere la prima pagina della nostra storia e pur che a essa ne seguissero infinite. E io avevo cancellato tutto, sottovalutandolo. Probabilmente consapevole della sua enormità. Perché io? Cosa faceva di me il protagonista della storia? Meritavo davvero ciò a cui lei si sarebbe sottoposta per me? Se avessi capito prima la portata dei suoi sentimenti, da bravo egoista, non avrei avuto la forza di lasciarla. Mi era bastato ripensare a ogni, singolo gesto e parola per comprenderlo. Se solo lo avessi fatto prima... Ma niente si costruisce con i se e con i ma, con essi si distrugge. In più, non potevo fare a meno di sentire la mancanza della mia famiglia, della quale non mi sentivo più di far parte. Era una sensazione molto simile a quella che provai durante il mio periodo di ribellione a Carlisle. Non ero certo che fossero pronti a riaccogliermi come il figliol prodigo, questa volta. Di certo non Alice. Le avevo tolto l'unica amica che avesse mai avuto. L'unica persona che l'avesse accettata per ciò che è: una strana vampira veggente, anche se aveva la possibilità di non farlo, di scegliere di voltarle le spalle. Jasper le era destinato e viceversa, altrettanto i Cullen. Ma Bella, lei no. Non faceva parte del nostro mondo, era una sorta di fuori programma.

Sei qui”.

Una voce familiare alle mie spalle mi risvegliò dal mio sogno ad occhi aperti.

Zafrina si accucciò al mio fianco, posando il capo sul mio petto nudo. Se Alice avesse visto il modo in cui andavo in giro, mi avrebbe bruciato vivo. Avevo abbandonato i miei abiti di alta sartoria in cambio di una tuta nera e sporca di fango. Solo quella e nient'altro. Immerso nella natura a mo' delle amazzoni.

Penso che tu abbia dimenticato cosa vuol dire essere un vampiro, dar sfogo alla forza senza paura di ferire nessuno, nutrirsi senza tristi sensi di colpa. Cominciamo con il liberarci da questi vestiti.

Non avrei mai dimenticato le parole di Zafrina. Avevo passato così tanto tempo a tentare di non essere un vampiro che, mi rendevo conto solo adesso, non avevo mai avuto il tempo di esserlo. Fin dalla mia nascita mi ero mescolato con gli umani, tentando di trattenere la mia vecchia vita. E del mio periodo di ribellione ricordavo poco o niente, soltanto sangue e volti malvagi. Per la prima volta da allora ero libero. Di correre e lottare, di uccidere senza dovermi preoccupare della protezione della fauna locale(per quanto le amazzoni e Ian mi spingessero alla dieta tradizionale, non riuscivo ad uccidere esseri umani, tanto meno dopo aver conosciuto lei), potevo uscire alla luce del sole, senza temere di essere visto e additato come un mostro e potevo rilassare la mente, perché le amazzoni avevano un modo particolare di pensare tutt'altro che invasivo. Ero libero di fare tutto ciò che volevo, tranne la cosa che realmente desideravo: tornare da lei. Erano passati mesi, ripresentarmi alla sua porta sarebbe stato assurdo, cattivo e io non potevo causarle ulteriori sofferenze.

Non sapevo dove ti fossi andato a cacciare, dopo il combattimento con Ian. Ti ho cercato dappertutto”. Le amazzoni lottavano in continuazione e io ed Ian ci accodavamo, per passare il tempo. Il ragazzo era in gamba, benché non avesse poteri particolari. Era come combattere con Emmet e Jasper, ma più divertente, perché ancora non conoscevo le sue mosse a menadito.

Zafrina sputacchiò, con un'espressione di disgusto sul volto. “Blee, ancora ho il sapore di quel ghepardo sulla lingua”. Avevo tentato di far assaggiare alle amazzoni il sangue animale, ma era stato come far mangiare a un amante delle bistecche al sangue un'insalata. Un insuccesso su tutta la linea.

Come va con i problemi di cuore?”, mi chiese Zafrina, accarezzandomi il torace e tracciando una circonferenza nel punto in cui, teoricamente, avrebbe dovuto trovarsi il cuore. Ma, dato che non batteva più, chi poteva dire che non si fosse sbriciolato. I raggi x non oltrepassano la pelle dei vampiri.

Le afferrai la mano con delicatezza, riponendola sul suo fianco e Zafrina sbuffò. Era stato palese fin dal primo istante che era attratta da me, ma non avrei mai potuto ricambiare i suoi sentimenti.

Come al solito”..

O forse peggio?”, aggiunse lei.

Non voglio parlarne con te”, le dissi.

Per favore Edward, non preoccuparti di ferire i sentimenti di un'amazzone. Ricorda: siamo noi che giochiamo con gli uomini e mai viceversa. Certo, mi piacerebbe portarti a letto( anche se non avendo un letto ci toccherebbe farlo su un albero), ma so anche che non succederà mai. Mi limito soltanto a pensarlo qualche volta, per vedere la tua reazione, per il resto sono soltanto preoccupata per te. Sei libero Edward, ma il tuo cuore è ancora imprigionato. E' questo l'effetto dell'amore e per questo le amazzoni non si innamorano mai. Perché la nostra libertà è tutto ciò che vogliamo e che possiamo amare”.

Ti ho insegnato a controllarti, a spogliarti, a urlare, ma non posso insegnarti a non amare. Tanto meno lei, chiunque sia. Perché non ritorni?”.

Non potrei farle una cosa del genere. Se ancora non mi odia, mi odierebbe se tornassi”.

Innamorarsi di un'umana... soltanto tu potevi fare una cosa del genere”, disse, scuotendo il capo e i lunghi capelli ricci e scuri.

E io pensavo di averti insegnato che l'amore non si fa, Zafrina. L'amore viene e basta”.

E poi passa?”, si informò lei.

Dipende”, dissi.

Il tuo pensi che passerà”.

No”.

Hai risposto immediatamente e in maniera categorica. Perché hai creduto che il suo “no” non fosse sincero. La sottovaluti o credi che un essere umano non possa amare quanto un vampiro soltanto perché la percezione delle emozioni che abbiamo noi è superiore alla loro? Dio, mi fa strano pensare al cibo come a qualcosa da amare”.

La seconda. Io conosco gli esseri umani, le loro menti. Ho frequentato tanti licei in numerose nazioni e ho visto nascere storie d'amore e morire con altrettanta facilità. Alla loro età”. “Alla vostra, mi corresse lei”. “Alla loro età è così facile cambiare idea”.

Allora non credevi che il vostro amore fosse qualcosa di speciale Non da parte sua”.
“La verità è che ero così preoccupato di tutto, il mio autocontrollo, la mia sete, il mio stesso comportamento, la sua protezione da non notare il suo amore. Ero totalmente concentrato sul mio e su me”.

Sei cresciuto Edward e a dirla tutta, sarebbe una pazza se non ti accettasse”.

Fidati, sono io che ci perdo, non lei”.

Se il sentimento è reciproco, ci perdete entrambi. E in ogni caso, meglio per me se resti qui, ho più tempo per cercare di portarti “a letto”.

Risi sommessamente.

 

La vera tragedia, si verificò diversi mesi più tardi. Io e Ian, seguiti da un paio di Amazzoni stavamo cacciando nella foresta. Ian aveva promesso che, se avessi vinto lo scontro, avrebbe provato nuovamente il sangue animale e le amazzoni avevano in corso una sfida tra loro: chi resisteva di più con una dieta vegetariana.

Nessuno aveva tenuto in considerazione l'eventualità che un gruppo di esploratori si aggirasse nei paraggi del fiume..

Quando percepì i loro pensieri era troppo tardi, le amazzoni ne avevano fiutato l'odore. Istintivamente le avevo rincorse, tentando di fermarle, con Ian alle calcagna, il cui autocontrollo era impressionante. “Edward fermati”. Lui mi aveva avvertito. Ma di fronte al gruppo di umani, qualcosa dentro di me si risvegliò al pari delle amazzoni che avevano dato inizio a una strage. Non erano cattive, erano soltanto vampiri. Ricordo che, quando la vidi, pensai che i suo genitori dovevano essere dei pazzi per aver portato con se una bambina. Poteva avere si e no otto anni, era bella e profumava più di chiunque altro. Da lontano, io e la piccola ci osservammo per un istante, poi le fui addosso e affondai i denti nella sua pelle morbida, color ambra. Due braccia forti come l'acciaio mi tirarono in dietro. “Edward no, non farlo. Fermati. Edward fermati, sono io fratello. Fermati”.

Io e Ian eravamo realmente fratelli. Fratelli di sangue. Secondo le amazzoni due vampiri che giurano con il sangue sono vincolati per l'eternità. Io ed Ian avevamo giurato, in una sera afosa, con una stretta di mano su cui Zafrina aveva inciso un simbolo particolare, mescolando il nostro sangue mentre le ferite si rimarginavano l'una sull'altra.

Soltanto le sue parole, il suono della sua voce mi ridestarono dal limbo in cui ero caduto e vidi ciò che avevo fatto.

La bambina non era morta, ma si contorceva dal dolore, sotto l'effetto del mio veleno.

Ian mi lasciò andare e si avvicinò al suo corpo.

Non guardare”, mi disse. E sebbene avessi chiuso occhi, udì ugualmente il suono del suo collo che si spezzava e il cessare dei suoi lamenti.

Non capivo come fossi arrivato lì, dove io ed Ian avevamo incontrato le amazzoni per la prima volta e che in seguito avevo scoperto trattarsi del centro esatto della foresta amazzonica. Riuscivo soltanto a ricordare l'immagine del mio volto nei pensieri di mio fratello e poi di Zafrina: un'espressione vacua, distante, le guance e le labbra macchiate di sangue fresco. Neanche nel mio momento peggiore avevo mai fatto del male a un'innocente, qualcuno che, a tutti gli effetti, aveva vissuto troppo poco anche solo per concepire il “male”, figurarsi compierlo. Avevo resistito persino all'odore della mia cantante, ma qui avevo annullato ogni freno inibitore, o forse, semplicemente, era la sua assenza a rendermi mostruoso. Non riuscì a pensare a lungo al suo viso. Adesso ero certo di non poter tornare... Le parole di Alice, in quel frangente così tragico, mi ritornarono alla mente...Distruggerai la tua esistenza, aveva detto e aveva avuto ragione, come sempre.

Fratello”, Ian mi scuoteva, tentando di attrarre la mia attenzione. “Zafrina è in stato di shock, continua a borbottare qualcosa ma non capisco”.

Zafrina ci corse in contro, afferrandomi il viso e richiudendolo fra le sue mani grandi e scure.

Che cosa è successo Ian?”.

Ha morso una bambina umana. Ma non l'ha dissanguata, sono riuscito a farlo rinsavire prima”.

Zafrina lo guardò accigliata.

E la bambina?”.

L'ho... finita prima che il veleno la trasformasse”.

Zafrina mi fissò, ma io non riuscivo a vederla. La sua pelle ambrata ricordava così tanto quella della graziosa bambina morta a causa mia.

Edward, so che riesci a sentirmi. Non è niente, Edward. Lo capisci? Nessuno ti giudicherà, ma per l'amor di Dio perdona te stesso. Devi perdonarti, Edward. Sarebbe morta ugualmente, anche se non per mano tua. Era soltanto al momento sbagliato al posto sbagliato. Tu sei più di questo, capisci? Più di questa.. morte. Carlisle lo capirà. La tua famiglia lo capirà. Lei lo capirà”.

Per un istante, riuscì a mettere a fuoco il suo volto e la sentì dire qualcosa ad Ian.

Continua a ripetere Bella, Bella, Bella...”.

Bella è... la ragazza umana, vero?”, chiese Ian. E ricordai di non avergli mai confidato il suo nome, come se fossi geloso di lei.

Suppongo di sì”, rispose Zafrina. Anche lei era all'oscuro del suo nome.

Edward sei un vampiro... questo”. Ma a dire il vero, non udì il resto delle sue parole. Quella frase fu... rivelatrice. Sono un vampiro. Io sono un vampiro. E' questo quello che fanno i vampiri: uccidono gli esseri umani, si nascondono, fuggono, giocano, si spogliano. Quello era stato il fatidico battesimo del fuoco di cui parlava Zafrina. Ma lei scherzava, nel dirlo. Lei non mi avrebbe mai spunto a uccidere. Beh non era stato necessario.

Devo andare”, sussurrai all'improvviso. E nella radura calò il silenzio.

Zafrina si riprese e chiese: “Dove?”.

Lontano”, risposi. Mi scostai dal suo tocco e le voltai le spalle.

Edward”, Ian mi chiamò, quasi implorandomi.

Mi voltai e il viso ormai familiare di mio fratello, la sua preoccupazione fu quasi rassicurante, mi ricordava chi ero stato.

Penso non ci vedremo più”, gli comunicai.

Se pensi che ti lasci andare, ti sbagli di grosso”. Mi minacciò, avanzando con cautela.

Devi. Perché te lo sto chiedendo. Devo... Ho bisogno di stare da solo. E questa volta non mento. Sono un vampiro, Ian, questo è normale. Uccidere, intendo”. Sia Ian sia Zafrina mi fissarono senza trovare parole da dirmi. Non pensavano che avrei reagito così velocemente.

Sì, mi confermò Zafrina, è normale per i vampiri convenzionali. Ma tu sei diverso Edward”.

E perché mai, Zafrina? Perché non posso essere un vampiro tradizionale come dici tu? Perché negarmi il sangue. Perché trattare gli esseri umani come creature mie pari, da invidiare. Come se io non fossi migliore di loro in tutto: più forte, più veloce, più intelligente. Perché dovrei amare uno di loro come se non fosse cibo? E' così che li hai chiamati, no, Zafrina? Perché negarmi ogni piacere...”, conclusi, avvicinandomi al suo corpo alto, snello e scattante. Le accarezzai una guancia con la punta delle dita, poi il callo e il braccio sinistro. Zafrina si scostò, afferrandomi la mano con irruenza, ma sotto quella maschera di freddezza, in realtà tremava. Sorrisi ironicamente, come avevo imparato da Ian. Le lasciai un bacio sul dorso della mano.

Fratello...”, Ian sollevò il braccio, come volesse sfiorarmi la spalla, ma ci ripensò.

Addio”, dissi.

Il suono di quella parola risuonò a lungo fra le fronde degli alberi, mentre correvo e correvo per allontanarmi da loro.

Mi ritrovai di nuovo in aeroporto, solo questa volta, in attesa di un aereo che mi portasse di nuovo negli Stati Uniti, in realtà, non avevo un'idea chiara di dove volessi andare.

Uccisi ancora, prima che l'aereo atterrasse. Era un uomo sui quaranta anni. Il suo cadavere dissanguato rimase nella stiva dell'aereo. Quando la voce dell'hostess annunciò ai passeggeri di allacciare le cinture perché l'aereo stava per atterrare, mi ripulì le labbra sporche di sangue con un fazzoletto di carta e mi sedetti al mio posto. Soltanto quando l'aereo atterrò, udì l'urlo di una donna, l'hostess e intuì che avevano rinvenuto il cadavere. Corsi a lungo, prima di capire dove mi stessi dirigendo. Quando la prima neve mi lambì il corpo, seppi di essere in Alaska. Avevo giurato di voler stare da solo, ma anche questa volta mentivo. Forse ero incapace di atteggiarmi ad eremita. Come sempre, la prima ad accogliermi di fronte a casa Denali fu Tanya. Lei sapeva sempre quando io stavo per arrivare.

Edward”, disse, sul bel viso un'espressione di sorpresa tale che mi fece sorridere. Conoscevo ogni angolo della sua mente, per quanto cercassi di concedere a ciascuno la propria privacy, non potevo limitare il mio dono drasticamente.

Mi avvicinai a lei con lentezza misurata e le sfiorai il volto bianco come la neve che cadeva intorno a noi in fiocchi piccoli e costanti. Tanya strabuzzò gli occhi, ma la sua pelle reagì al tocco delle mie dita come mi aspettavo che facesse. Mi chinai su di lei, senza che la vampira opponesse alcuna resistenza, e le sfiorai le labbra con le mie. Tanya trattenne il respiro e poi ricambiò il mio bacio, intrecciando le mani tra i miei capelli. La nevicata si trasformò gradualmente in una vera e propria tempesta di neve, che accompagnò l'intensità crescente del nostro bacio. Denti che mordono, mani che stringono, forza bruta. Questo fu il nostro bacio, o almeno per me. Tanya fu la prima a interrompersi e mi fissò con gli occhi lucidi, le mani ancora ancorate alle mie guance, come se non potesse credere ai propri occhi. E allora seppi di avere su di lei molto più potere di quanto avevo mai creduto possibile. Mentre le accarezzavo le labbra ancora umide, mi chiesi fino a che punto sarebbe stata disposta a spingersi per me. Le afferrai la mano che mi accarezzava la guancia, stringendola la tre le mie: “Vieni con me”, le dissi. E fu sufficiente perché mi seguisse.

Alcune donne sarebbero disposte a fare qualsiasi cosa per te”.

E tu? Faresti qualsiasi cosa per me?”.

Se fossi certa che sei tu a chiedermelo, farei qualsiasi cosa senza esitare. Perché mi fido dell'uomo che amo e del suo giudizio”.

E se non fossi io? Te ne accorgeresti?”

Certo. E ti riporterei da me”.

 

Allontanai quei pensieri molesti. No, lei non mi avrebbe seguito nella foresta.

Forse perché in questo momento non sei più l'uomo che ama? Mi chiese una voce nella mia mente.

E con questo?

La voce tacque, non sapendo cosa rispondere.

Dove andiamo?”, chiese Tanya, sfiorando la mia mano, intrecciata alle sue dita, con un bacio.

A caccia”.

 

Edward siamo vicini alla città. Non è saggio cacciare da queste parti”.

Lo è, se intendi cacciare esseri umani”.

Tanya sfilò la mana dalla mia, allontanandosi con un balzo.

Cosa dici?”.

Ho recentemente assaggiato il sangue umano, di nuovo dopo tanto tempo e credo non ritornò mai più a una dieta vegetariana. Ridicolo”.

Tanya si avvicinò a me con cautela, quasi come se avesse notato soltanto ora le piccole pagliuzze color porpora nei miei occhi dorati.

Le afferrai nuovamente la mano, lasciandole un bacio a pochi millimetri dalle labbra e un mezzo sorriso, che la fecero capitolare. “Sarà un sollievo lasciarsi andare”, le dissi.

Trovare una paio di prede fu piuttosto semplice.

Il maschio è tuo”, le dissi, lasciandole una scia di baci sul collo candido.

Ucciderli altrettanto.

Tanya rimase china a fianco dei loro cadaveri. Le scostai i capelli dal volto, ignorando che alcune punte bionde erano intrise di sangue.

Perché”, mi chiese. “Io e le mie sorelle non siamo come i Cullen, come te e Carlisle. Se uccidiamo qualcuno ricominciamo, voi portate la morte altrui come fosse la vostra. Perché, Edward?”.

Lasciai che si accucciasse tra le mia braccia, immergendo il volto nei suoi capelli e riconoscendone l'odore familiare.

Non sono più un Cullen. Sono soltanto un vampiro. Sono Edward e basta”.

A me sta bene qualsiasi cosa, purché sia tu”, disse, accarezzandomi il viso come se il mio aspetto bastasse a giustificare qualsiasi cosa.

Lo so”, le dissi e pensai: “per questo sono venuto da te”.

Prima che chiunque dei due potesse aggiungere qualsiasi cosa, ci ritrovammo stesi nella neve. Le carezze di Tanya si facevano più profonde, le sue mani meno timide e i suoi baci più vogliosi. Le sue unghie lucide strapparono la t-shirt che indossavo, riducendola in brandelli. E i suoi occhi, man mano sempre più lucidi e distanti, non riuscivano a lasciare la mia immagine e le sue dite tracciavano il contorno del mio petto, seguendo le vene dei miei bicipiti contratti. E i suoi pensieri erano confusi ma sognanti. La imitai con estrema calma, sfilandole la maglia senza romperla e mi ritrovai a osservare e accarezzare con le dita la sua pelle nuda. Non riuscì a tollerare a lungo l'immagine del suo viso contratto dal piacere e dei suoi occhi chiusi e delle sue palpebre tremolanti. Perciò sgusciai alle sue spalle, accarezzandole le braccia, la pelle della schiena e tracciando una fila di baci lungo la sua spina dorsale. Tanya reclinò la testa all'indietro, appoggiandola alla mia spalla, mentre le sfioravo il collo con le labbra e le sterno con il pollice. E lei si aggrappava alla neve come tentando di sostenersi, ma in vano perché quella le scivolava tra le dita.

Sposami”.

Tanya spalancò gli occhi e il suo respiro, prima agitato, si arrestò.

Puoi... puoi ripetere?”.

Sposami”, ripetei, “adesso”, aggiunsi. Tanya voltò il capo e incrociò i miei occhi, come a cercare in essi la beffa.

Non ho un anello di fidanzamento con me, ma te lo darò”.

 

Ci sposammo quel pomeriggio stesso, nel giardino innevato della casa di uno spaventato ma paziente giudice di pace, soli. Avevo chiesto a Tanya che nessun altro fosse presente e lei aveva accettato, naturalmente. Forse, in cuor mio sapevo che ci avrebbero fermati.

Ti amo”, sussurrò Tanya sulle mie labbra, prima di baciarmi appassionatamente quando l'uomo ci dichiarò marito e moglie per l'autorità conferitagli dallo stano dell'Alaska.

Lo so”, le dissi, ricambiando il bacio.

Affittammo una camera d'albergo, per non dover ritornare a casa Denali.

Non è certo il posto in cui una ragazza spera di passare la prima notte di nozze”, mi fece notare Tanya, “ma andrà bene”, proseguì, voltandosi nella mia direzione con uno sguardo luminoso.

Tu riusciresti a rendere bellissimo qualsiasi posto orrido”, le sussurrai all'orecchio, mentre la spingevo verso il letto, di cui, di lì a poco, sarebbe rimasto molto poco.

A dire il vero, non ricordo quasi nulla di quella notte. Ricordo di averla accarezzata, ricordo il suo volto contratto dal piacere, ricordo la sua voce e il suo corpo straordinariamente bello per cui qualsiasi altro uomo avrebbe ucciso. Ricordo di averla presa con ardore, con rabbia perché la mia mente era invasa dalle immagini di un volto che mi tormentava, su uno sfondo verde e un po' grigio. Il volto di una ragazza dalla pelle candida, morbida e calda come la panna e le guance rosa. Mi tormentava il ricordo di occhi grandi e profondi, scuri e caldi, accoglienti come casa, di labbra rosse e asimmetriche, delicate. Mi tormentava immaginare il suo corpo minuto, in cui affondare le dita e il suono del suo piacere, che certamente avrebbe tentato di soffocare, trattenendo le labbra fra i denti fino a farle sanguinare. Mi tormentava il ricordo della sua risata. Se solo avesse saputo quanto era bella quando rideva. E mi vergognai profondamente di me stesso, perché mentre mia moglie godeva tra le mie braccia io pensavo a un'altra donna.

Bella. Isabella.

Non mi ero accorto di aver soffiato il suo nome fra le labbra.

Tanya gemette per l'ultima volta e io mi lasciai scivolare al suo fianco. Chiuse gli occhi, serrò i denti e ignorò le mie parole, lasciandosi cadere sul mio petto.

 

Mio Dio, che cosa avevo fatto.

 

Mi scostai, mettendomi a sedere e stringendomi i capelli fra le dita, come se volessi staccarmi la testa dal collo.

Il mio primo pensiero corse ad Alice. Alice, avevo bisogno di lei. Avevo distrutto la mia esistenza e con me quella di Tanya, che ero certo, avrei trascinato sul fondo con me.

Mi dispiace”, le dissi.

Edward...”.

Andiamo. Andiamo e basta. Ti prego”.

Tanya, dopo avermi osservato per un minuto buono, annuì.

 

Quando fummo giunto a Tahiti, dopo aver avvisato la famiglia Denali di quanto successo(non dimenticherò mai lo sguardo addolorato di Eleazar, che aveva capito tutto quanto nascondevo fra le righe), non fu difficile rintracciare la mia famiglia.

Nessuno venne ad accoglierci. Nessuno. E io sentì un profondo groppo in gola. La mia famiglia era riunita in salotto, ma non sembrarono sorpresi di vedere né me né Tanya. Esme si precipitò da noi, senza che Carlisle riuscisse a trattenerla ulteriormente. Mi strinse una spalla e abbracciò Tanya, allontanandola delicatamente e senza dare nell'occhio da me. Emmet stringeva la moglie, entrambi con gli occhi bassi, come se non riuscissero a guardarmi. Carlisle era intento a dare il benvenuto a Tanya, evitando accortamente il mio sguardo. Come d'altronde Jasper, al fianco di Alice. Mia sorella maggiore non aveva abbandonato la mia figura neanche per un istante, dal momento in cui avevo messo piede in salotto. Le restituì lo sguardo.

Alice si alzò con grazia e delicatezza, parandosi di fronte a me. Il primo calcio mi colpì la guancia e fu rapido, come non lo avesse neanche pensato.

Neanche in quel caso l'avrei evitato. Il secondo mi colpì all'addome e mi spinse fuori dal soggiorno, poi dall'attico e in fine dalla porta, mentre Carlisle posava con gentilezza una mano sulla spalla di Tanya, pronta a scagliarsi contro mia sorella.

In meno di sessanta secondi mi ritrovai completamente steso a terra, con il volto fra le polveri del terriccio. Senza che avessi la forza né la volontà di reagire, di alzarmi. Alice si appollaiò con leggerezza di fronte a me, gli occhi fissi sul mio volto, le mani immerse nel terriccio che tiravano e tiravano, probabilmente immaginando che si trattasse della mia testa.

Che cosa diavolo hai combinato?”, pensò.

Ho rovinato tutto... avrei dovuto rispondere, ma la sua era una domanda retorica. Lei sapeva e mi aveva avvisato.

Alzai lo sguardo da terra e vidi prima le sue ginocchia flesse, poi il suo viso e i suoi occhi, dorati e ardenti come braci.

Alice puntò lo sguardo sulle mie iridi, in cui all'oro si mescolava il porpora. La implorai. Inutilmente.

Ti avevo detto che non sarei stata qui ad asciugarti le lacrime. Hai sbagliato. E ogni sbaglio comporta delle conseguenze, adesso dovrai scontare le tue. Non c'è nulla che io possa fare a riguardo. La cosa peggiore è che sul fondo insieme a te rischi di trascinare anche Tanya. Non puoi farlo, Edward”, per un istante il tono dei suoi pensieri sembrò addolcirsi, poi tornò ad essere duro e distaccato.

Alzati e cerca di rimediare”.

Dopodiché fletté le ginocchia e con la sua caratteristica grazia fu di nuovo in piedi. Mi lanciò un ultimo sguardo e si allontanò pensando: “Portala via da qui. Ameno per un po'. Avete bisogno di stare da soli. Lei è completamente dipendente da te Edward, perciò devi assumerti la responsabilità della sua salute, ma alcuni di noi non sono disposti a tollerare la vostra presenza insieme, non ancora”.

Con “alcuni di noi”naturalmente intendeva se stessa e Rosalie, che non riusciva a comprendere come una donna potesse essere così cieca da non riconoscere che l'uomo che ha di fronte non è l'uomo che avrebbe voluto(non riusciva ancora a perdonare se stessa per non aver capito chi fosse in realtà l'uomo che avrebbe dovuto sposare, prima che la uccidesse). Pensava che Tanya lo sapesse(come d'altro canto lei sapeva chi fosse Royce King) ma lo avesse ignorato pur di prendermi con se(come lei aveva ignorato lui).

Tanya mi raggiunse immediatamente e si strinse a me. Non mi ero reso conto di essermi alzato da terra.

Cosa facciamo?”, mi chiese, afferrandomi saldamente per un braccio.

Tanya era intelligente, sagace e aveva capito, però non intendeva lasciarmi andare: i suoi pensieri erano piuttosto chiari e altrettanto i suoi occhi, lucidi di determinazione.

Non perse tempo ad esternarlo. “Sia chiaro, Edward, che non ho alcuna intenzione di lasciarti. Abbiamo il tempo dalla nostra parte. L'eternità. Se non mi avessi amata, non saresti venuto da me. Vieni sempre da me, quando hai un problema. Lo hai notato? Io sì...e comunque mi devi ancora un anello di fidanzamento... ”.

La osservai con occhio clinico e nei suoi occhi dorati vidi galleggiare pagliuzze rosse. Rosse come il sangue che io le avevo chiesto di prendere.

Hai la responsabilità della sua salute... hai la responsabilità di lei.

 

Io e Tanya vivemmo per qualche tempo a Pirae. I primi giorni furono terribili. Non riuscivo ad accettare la realtà che le parole di Alice avevano reso così veritiera. Avrei voluto poter tornare indietro, salvare la vita della bambina dalla pelle color ambra della foresta amazzonica, dell'uomo che avevo brutalmente dissanguato sull'aereo, dei due umani in Alaska e di Tanya. Avrei voluto non essere mai arrivato fino a casa Denali. Lei meritava un uomo che la amasse realmente, che potesse donargli se stesso, non un mezzo vampiro malandato, che l'aveva indotta a uccidere e che l'aveva amata quando non sapeva neanche chi fosse. Cosa avrei potuto darle?

Mi ero autodistrutto in ogni modo possibile e lei c'era andata di mezzo. Ma come potevo accettare questa realtà? Un realtà in cui lei non era contemplata.

Lasciai che il tempo mi scorresse intorno. Quando accettai le parole di Alice e capì che avrei dovuto “alzarmi”, andare avanti e convivere con ciò che avevo fatto erano già trascorsi diversi giorni da quando avevo lasciato casa Cullen.

 

Tu non puoi ignorami. Io sono tua moglie”, mi aveva urlato contro Tanya e i mi ero riscosso dall'infinità di pensieri nei quali mi ero perso.

Ti ho chiesto un po' di tempo”, sussurrai.

E io te l'ho dato. Ma sono giorni che non parli e non ti nutri. Tu... starai male”. Il tono della sua voce si addolcì d'improvviso e mi spinse a sollevare lo sguardo sul suo volto contratto dalla preoccupazione.

Forse... non dovremmo andare avanti, Tanya. Noi...”.

No”, Tanya si aggrappò al mio braccio. Quando vide nei miei occhi il nulla, si allontanò, stringendosi i ricci. “No, non puoi. Non puoi”. Tanya si strinse la braccia intorno al petto. Sul suo volto un'espressione tale di disperazione che mi costrinse a raggiungerla. Mi alzai, andandole incontro e stringendola tra le braccia. Io non trovai in esse alcun conforto, ma lei sì.

Cosa vuoi che faccia per te?”.

Prendimi... Come.... come la prima volta”.

Le sfiorai una guancia con la punta delle dita ed esaudì il suo desiderio.

Non fu affatto come la prima volta, perché ero cosciente, consapevole e provai un dolore atroce, indescrivibile. Fu l'ultima volta. Capì di dover giungere a un compromesso. Mi ripromisi di essere un marito eccezionale, come Carlisle lo era stato per Esme. In fondo, Tanya era sempre stata per me una sorella, perciò volerle bene non sarebbe stato difficile. Ma niente di più niente di meno. Non potevo fingere di amare.

Quando ebbi fatto pace con me stesso, decisi di raggiungerli ad Harvard. E loro erano lì. Emse, Carlisle, Emmet, Jasper, Rosalie ed Alice... Lei fu la prima a gettarmi le braccia al collo e mi strinse talmente forte che l'acciaio del mio corpo scricchiolò sotto la sua presa. Lei era sempre stata lì, pronta ad asciugarmi le lacrime, a patto che io capissi la mia situazione e mi rialzassi da solo, con le mie gambe.

Mi sei mancato come il cuore”, mi desse, con il volto affondato nella mia spalla.

 

 

E poi, il mondo crollò e si risollevò insieme.

Rivederla era stato come tornare a casa e partire, come vivere e morire.

Avevo compreso i miei errori, ma solo il suo volto mi diede un'idea chiara dell'enormità delle conseguenze che essi avevano comportato.

 

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Capitolo 5
*** 4) Tra il fango e il cielo ***


Allora... Buonasera a tutti! Come sempre ringrazio chi ha lasciato una recensione e chi ha inserito la storia nelle varie categorie, siete veramente tanti : ) Vi adoro! In questo cap succederanno un pochino di cose, ma non dico niente... voglio le vostre reazioni nei commenti. Per quanto riguarda l'aggiornamente per ora intendo postare ogni mercoledì... salvo imprevisti. I primi capitoli sono già scritti, gli altri sono in fase e visto che io impiego molto tempo per scrivere un capitolo... non so come saranno i tempi di aggiornamento in futuro... Per il resto ci sentiamo nelle recensioni. Grazie ancora per l'interesse che mostrate verso la storia : )


4) Tra fango e cielo

Andare a casa Cullen era sempre come oltrepassare un portale per un'altra dimensione, fatta di magia e irrazionalità. Benché i Cullen brillassero nella folla di studenti della Forks High School come raggi di sole nella nebbia, i loro movimenti, le loro espressioni, il modo di respirare persino si adattavano alla situazione, agevolandoli nel mescolarsi alla calca di umani. Ma nella loro casa nel bosco i Cullen potevano essere se stessi e benché alcuni comportamenti umani li accompagnassero anche allora, la differenza era palese. All'inizio pensavo che l'atmosfera ricca di mistero e irrealtà fosse dovuta in parte all'ambientazione: il bosco, il clima. Ora, ero certa che fosse interamente dovuta alla loro presenza. Ecco, da un lato vivere a casa Cullen era come dimorare fissamente in una fiaba: nella casa di marzapane della strega di Hansel e Gretel o nella casetta dei tre orsi. Tutto ciò che mi circondava era assurdo, così diverso dalla mia quotidianità insieme a Charlie o Renée, le uniche due persone con le quali avessi mai realmente convissuto: nessuno mangiava o beveva o andava in bagno, nessuno dormiva o sporcava. Nessuno a parte me. In passato non mi ero soffermata a pensare alla loro vita di tutti i giorni, credendo che, qualora mi fossi trovata in una circostanza simile, sarei appartenuta alla loro specie e nulla di tutto ciò mi sarebbe apparso strano. Dall'altro lato, e questo non lo avrei mai ammesso ad alta voce, vivere circondata dai Cullen era come tornare casa o esserci finalmente arrivata. Mi sentivo al sicuro, come se qualcuno fosse costantemente pronto a pararmi le spalle, come se non dovessi preoccuparmi più di alcunché, né dei soldi né di mia madre o di me stessa, né del mio futuro. Tutto ciò senza che nessuno di loro mi avesse ancora rivolto la parola, come io avevo chiesto; soltanto Esme alle volte mi parlava.

Tornavo a casa per studiare e dormire, pranzavo “da Wanda” e cenavo al “Turn off light” benché Esme si fosse offerta di prepararmi i pasti. Nessuno mi chiedeva dove andassi, cosa facessi, d'altronde, sarebbe stato inutile perché qualcuno mi sorvegliava costantemente e dubitavo che Alice distogliesse a lungo lo sguardo dal mio futuro. Esme mi aggiornava ogni tanto sulle indagini di Emmet e Jasper per quanto riguardava il mio assalitore, ma avevo iniziato a credere che lo facesse soltanto per parlarmi, visto che, effettivamente, non c'era mai nulla di nuovo in vista.

Avevo scoperto che studiare in camera mi deconcentrava, preferivo di gran lunga la stanza della musica, dove i Cullen conservavano il pianoforte a coda di Edward e Rosalie e qualche chitarra elettrica firmata. Era l'unico luogo in tutta la casa in cui potevamo esistere soltanto io e la bambina con il pigiama giallo. L'unico luogo in cui il mio futuro, come lo avevo pensato fino ad allora, esisteva ancora. E io potevo studiare, con una tranquillità che a lungo non mi ero potuta permettere. La maggior parte dei miei compagni e compagne di corso avrebbero ucciso per essere al mio posto: abitavo nella stessa casa del professore più stimato e ammirato della facoltà di medicina di Harvard e sapevo che avrei dovuto approfittare della presenza di Carlisle e assorbire il più possibile, tuttavia l'orgoglio mi impediva di rivolgermi a lui, ma soprattutto temevo di lasciarmi coinvolgere nuovamente dalla loro famiglia. Stavo ancora tentando di dimenticarli, di odiarli, senza successo, non potevo permettermi di amarli come avrei voluto. La verità, crudele e difficile da digerire, era che non avevo ceduto a me stessa e a loro perché Edward non c'era. In realtà, lo avevo visto soltanto un paio di volte nelle ultime due settimane, dopo quella sera, ed era stato spiacevole. Ma altrettanto spiacevole era saperlo lontano, con lei, in una casa tutta loro, marito e moglie. A volte, la notte gli incubi mi facevano perdere il sonno e nessuno di questi riguardava il vampiro che aveva tentato di uccidermi, ma quello che c'era riuscito: Edward. Perché immaginarlo insieme a lei era come trafiggermi il cuore con una lama lunga e affilata, che una volta infilzata la carne non riusciva a uscire. Ancor più doloroso era la vista del suo viso, non perché fosse irraggiungibilmente bello, ma per via del dolore, della profonda solitudine che gli segnava i tratti. Entrambe le volte in cui mi era capitato di vederlo a casa Cullen, una mattina mentre andavo in università e una sera al rientro dal lavoro, litigava, quando con Rosalie, quando con Jasper. Pensarlo come un'entità separata dai Cullen era già difficile di per sé, ma saperlo in conflitto con la sua famiglia che lo amava incondizionatamente era doloroso. Nessuno urlava o lanciava piatti, ma l'atmosfera era tesa, soffocante, gli sguardi fra loro gelidi, le parole taglienti. Per quanto fosse sempre accompagnato dalla moglie, che gli ronzava intorno con sguardo vigile(sguardo che, per l'appunto, non si era mai più premurata di posare su di me dopo quella prima volta) non potevo impedirmi di pensare che, in realtà, fosse solo. Non solo come capita di sentirsi dopo una lite. Era solo come lo è chi non riesce a comunicare, chi vorrebbe urlare ma non riesce a proferire alcun suono. Solo come avevo sempre immaginato dovesse sentirsi mio nonno prima di morire, negli anni trascorsi a soffrire di Alzheimer e afasia. Molto più solo di quando lo trovai in quella sala mensa. Riconoscevo il dolore, il vuoto nei suoi occhi (che guardavano senza vedere nulla), per tollerare anche solo l'idea che potesse soffrire una pena simile. Era ciò che io avevo provato a causa sua ed ero certa che, se non avessi incrociato la sua strada, non avrei mai sofferto un dolore simile nella mia vita, ma non avrei neanche mai amato tanto. Io non tolleravo l'idea che lui soffrisse. Non tolleravo l'idea che potesse essere niente meno che felice. E non lo era, affatto e io non capivo. Potevo essere io la causa di tutta quella discordia? Eppure, non mi era sembrato che né Rosalie né Jasper né tanto meno lui avessero nulla da ridire sulla mia presenza. Forse era Tanya a non volermi fra loro ed Edward, naturalmente, da buon marito quale immaginavo fosse, prendeva le sue difese come aveva fatto con me, il giorno dell'incidente...

 

Mi hai sempre detto che Rosalie si è infuriata perché avevi deciso di salvarmi, ma non mi hai mai detto come hanno reagito gli altri?

Jasper...lui pensava che potessi ancora rimediare...

Voleva uccidermi?

Non gli avrei permesso di avvicinarsi a te, a costo di fargli del male. E questa cosa all'epoca mi spaventò. Non avevo mai preso neanche in considerazione l'idea di fare del male a uno dei miei fratelli. Penso che Jasper sia stato il primo a capire cosa mi stava accadendo per via della sua capacità di leggere le emozioni. Infatti ha desistito, di fronte alla mia resistenza, al mio sguardo e all'enormità devastante di ciò che stavo provando...

Tu non potresti mai fare loro del male... i Cullen, voi siete una cosa sola.

Non sfidarmi. Non penso tu sappia fin dove potrei spingermi, cosa protei fare per te.

 

Mi forzai ad allontanare quei ricordi e afferrai i libri, spostando la mia attenzione sullo studio. Scesi in fretta le scale e mi ritrovai in salotto, nel bel mezzo di una lite furiosa.

“Sono stanca di fingere che vada tutto bene”, urlava Rosalie, i lineamenti del viso distorti dalla rabbia, “Tutto questo è demenziale. Tu sei... ridicola”.

Tanya, a poco meno di un metro di distanza da Rosalie, le ringhiò contro, e i ricci biondi le oscillarono intorno al volto.

“Rosalie, dovresti tenere per te le tue considerazioni... Perché non capisci?”, le chiese Edward, rivolgendole uno sguardo indecifrabile.

Rosalie sbuffò, ma non abbandonò la difensiva e rimase rigida.

“Io capisco tutto Edward, ma questo- e così dicendo indicò il fratello in tutta la sua altezza di un metro e ottanta- non lo capisco”.

Edward indietreggiò, lasciando il braccio di Tanya e cercando sostegno nel bracciolo del divano, arrancando come volesse sedersi. Contemporaneamente, Emmet fece un passo avanti e calò il silenzio, per un breve istante.

Tanya rabbrividì di furia e tornò a rivolgersi a Rosalie: “Tu non sai niente di me, di noi. Tu non credi che tuo fratello possa essere felice con una donna, forse perché avresti voluto essere al mio posto”, urlò.

Rosalie non si scompose, sollevò un sopracciglio e disse, con misurata lentezza: “Mio fratello era felice”.

A quel punto, come se mi avessero visto soltanto in quell'istante, otto paia di occhi dorati mi fissarono. Le labbra di Tanya si sollevarono mostrando i canini appuntiti. Avrei dovuto temerla, tremare di fronte al suo viso rabbioso e minaccioso, ma l'unica cosa che pensai di dirle fu: “Ma sei seria?”. Non avrebbe potuto farmi più male di quanto non avesse già fatto. Ci fissammo a lungo negli occhi senza che né l'una né l'altra battesse ciglio. D'un tratto un manto di capelli dorati si frappose fra me e lei, coprendomela alla vista. Non so cosa Rosalie le disse, fu troppo rapida nel farlo, sta di fatto che Tanya abbandonò la posizione d'attacco. Al ché mi strinsi i libri al petto e oltrepassai la stanza, voltando le spalle a Tanya e al resto dei Cullen. Il pomeriggio trascorse in fretta, nonostante avessi continuato a rigirarmi le stesse due pagine tra le dita per ore, distratta dalla conversazione che proseguiva nella stanza accanto. Se mi fossi decisa a chiudere completamente la porta non avrei udito una sola parola, viste le spesse pareti della stanza, ma si era aperta e il mio nome aveva catturato la mia attenzione, perciò avevo deciso di fingere di non essermene accorta. E da quel momento in poi il mio nome era stato ripetuto tante volte.

“Bella non dovrebbe... Bella dovrebbe... Bella deve” e così via. Quando ne ebbi abbastanza abbandonai la matita sul libro aperto, mi sollevai di scatto dalla sedia e mi lasciai la stanza della musica alle spalle. I Cullen erano ancora lì, dove li avevo lasciati, ma con un'espressione più preoccupata in volto.

“Gradirei-esordì, abbandonandomi a braccia incrociate contro la parete- essere informata”, conclusi, dopo un'accurata scelta delle parole. Il silenzio di sottofondo con cui ero entrata in scena si prolungò, mentre i vampiri mi fissavano come fossi io la cosa più strana in quella stanza. Alice avanzò di un passo e mi lanciò uno sguardo cauto, timoroso ma brillante: “Crediamo che il vampiro che ti ha aggredita nel tuo appartamento fosse agli ordini di qualcuno. Qualcuno che ti conosce molto bene e che ti tiene d'occhio da parecchio tempo...”.

“Chi?”, le chiesi. Alice avanzò ancora.

“Non ne siamo certi e io non riesco a vedere. Chiunque sia si nasconde dietro il tuo aggressore e se io non lo conosco non posso prevedere neanche le sue mosse. Ma credo che le possibilità siano soltanto due...”.

“Lourant”, dissi. “O Victoria”, aggiunse Alice.

“Non ha molto senso, Alice”, mi affrettai ad aggiungere, fingendo di non aver notato il suo sussulto quando ne pronunciai il nome e senza accorgermi che mi ero avvicinata a lei, in cerca di un porto sicuro. “Se avesse voluto uccidermi, avrebbe potuto farlo tempo fa, prima che vi rincontrassi”.

“Probabilmente non immaginava che potesse succedere”, precisò Alice.

Mi strinsi il labbro inferiore fra i denti. “Ma in ogni caso perché rischiare? Se è vendetta che cerca per James perché non attaccare subito, appena siete andati via? E poi perché me? Non sono stata io ad uccidere James”.

“Ma è stato Edward”, mi corresse lei, “occhio per occhio”.

“Compagna per compagno”, conclusi. “Questo spiega perché ha esitato dopo la vostra partenza, dal momento che lui mi aveva lasciato non c'era più motivo perché mi uccidesse. Non avrebbe sortito l'effetto desiderato. Ma allora perché ricomparire adesso, se davvero mi spia allora sa che l'incontro è stato casuale e non voluto”.

Alice scosse il capo: “Penso che abbia in mente un piano ben preciso, Bella. In tutto questo tempo non è rimasta ferma, ha trovato un capro espiatorio, qualcuno a cui non tiene particolarmente visto che gli affida i compiti più rischiosi”.

“Ma perché prendersi la briga di aizzarti contro un qualsiasi vampiro? Avrebbe potuto farlo lei, noi non... non c'eravamo”.

Mi arresi, lasciando scivolare le braccia lungo i fianchi.

“Non ha senso... Ricordami perché abbiamo scartato l'ipotesi che sia Lourant e non Victoria a cercarmi?”, le chiesi.

“Non lo abbiamo fatto”, mi rispose, abbozzando un sorriso, “ma neanche questo avrebbe molto senso, ti ricordo che ci ha aiutati contro James e Victoria. Perciò dubito che d'improvviso abbia pensato di cercarti e ucciderti”.

“In fondo non è questo che fanno i vampiri per passare il tempo, cercano di uccidermi?”.

“Non tutti”, mi corresse lei, offesa.

“La maggior parte”, alzai gli occhi al cielo.

“In ogni caso, continueremo a sorvegliarti, fin quando non mi sarà tutto più chiaro”, sospirò Alice.

“Non potete sorvegliarmi per sempre, questo era un provvedimento temporaneo. Se continuate a tenermi d'occhio non si farà mai più vivo, forse dovremmo dargli modo di uscire allo scoperto”, proposi.

“Bella”, mi riprese.

“Alice”.

“Forse non ha tutti i torti”, intervenne Emmet, spalleggiandomi. Rosalie gli diede un gomitata e dalla mia destra si levò un ruggito sottile e perforante. Quel suono, che conoscevo bene quanto la voce di colui che l'aveva prodotto, fu un richiamo irresistibile, che toccò corde profonde nel mio corpo. Emmet arretrò, sollevò le mani in segno di difesa. Edward si voltò nella mia direzione, deglutendo a fatica.

“Un vampiro che desidera vendetta non è razionale, è spietato. Se si tratta di Victoria mi odia e non esiterebbe un attimo”.

Corrugai le sopracciglia, fronteggiandolo: “Non è di me che dovresti preoccuparti, Edward. E' più probabile che Victoria tenti di far del male a Tanya, dovresti proteggerla”.

Edward chiuse gli occhi stringendo contemporaneamente le palpebre e la spalla di Tanya. Fu quando li riaprì e posò nuovamente il suo sguardo nel mio che in essi individuai una piccola ma significativa differenza. Mi avvicinai istintivamente a lui, ignorando lo sguardo tagliente di Tanya. La prima volta che lo avevo guardato negli occhi erano scuri, perciò solo ora notai le piccole, quasi invisibili pagliuzze rosse. Faticai a collegare ciò che vedevo al suo reale significato, sbattei le palpebre, quasi a volermi schiarire la vista, poi afferrai la sua mandibola e lo costrinsi a chinare il volto alla mia altezza. Dopo l'iniziale sensazione di calore che mi pervase il braccio al tocco della sua pelle, concentrai l'attenzione sui suoi occhi, per leggervi una spiegazione, una ragione plausibile: aveva salvato una ragazza in pericolo, aveva sventato una rapina o un omicidio. Ma ciò che lessi fu soltanto una profonda vergogna, imbarazzo, altro dolore e solitudine.

“Hai bevuto sangue umano?”, la mia voleva essere un'affermazione ma mi uscì come una domanda. Speravo ancora che mi smentisse.

Ma non lo fece.

“Perché?”, chiesi. Non chi o quando.

Edward scosse lentamente il capo, come a voler sottolineare che non vi era alcuna ragione precisa, alcun attenuate.

“Perché è un vampiro, Bella”, esordì Tanya. “E ai vampiri succede. Non penso sia tuo diritto giudicarlo. E' normale che tu ci disprezzi o ci tema”.

E mi sorpresi a non provare né l'uno né l'altra. Avrei dovuto, io ero un medico o comunque lo sarei diventata ed ero un essere umano. Ma ciò che provavo per Edward era soltanto un immensa sofferenza e tanta pena, perché temevo che non riuscisse a convivere con questo, e rabbia, perché aveva permesso al mostro che lo divorava di vincere.

“Mi dispiace”, fu l'unica cosa che dissi, “non hai mantenuto la promessa, ancora”.

 

Hai paura di perdere il controllo di te stesso?

Continuamente, soprattutto quando sono vicino a te e in tanti di quei sensi...

Allora, visto che non puoi venir meno a una promessa fatta a me, giura che non permetterai mai al vampiro di sopraffarti. Giura che rimarrai sempre te stesso.

Lo giuro...

 

Quella sera al “Turn off light” non toccai cibo. Sentivo una tale sensazione di sconfitta e un profondo vuoto nel petto, diverso da qualsiasi altra sensazione avessi mai provato. Avevo già perso Edward, ma quella sera era stato mille volte peggio, perciò mi chiedevo come potessi essere ancora viva. Al tempo del suo abbandono, ero certa che fosse al sicuro, seppur lontano da me, e circondato dall'amore della sua famiglia, consapevole di poter amare a sua volta, oggi, sentivo di aver perso Edward perché lui stava perdendo se stesso. Un abbandono definitivo. E mi sentivo impotente, d'altronde, non avevo un ruolo nella sua vita, non avevo alcun diritto su di lui. Per lo più mi chiedevo se la rabbia che gli avevo rovesciato addosso si fosse dissolta o se ancora covassi del rancore nei suoi confronti.

“Bella? Ehi...”, mi riscossi dalle mie elucubrazioni e fu come riemergere da acque oscure e profonde. Trovai ad attendermi due occhi ridenti.

“Dovresti mangiare qualcosa, prima che arrivino i clienti”.

Enrique mi osservava, mentre torturavo con le dita le estremità bruciacchiate della mia pizza margherita.

“Non ho molta fame”, confessai.

“Posso”, chiese lui, indicando la sedia di fronte alla mia. “Certo”, annuì. In fondo, il locale era suo.

“Ti aiuto”, mi propose. Sorrisi, mentre Enrique divideva un trancio di pizza in due parti uguali, portando il proprio alle labbra e intimandomi con lo sguardo di fare altrettanto. Lo assecondai, scoprendomi più affamata di quanto pensassi. Mangiammo in silenzio per qualche secondo, poi Enrique parlò: “Allora, cosa ti è successo in questi giorni?”, mi chiese.

“Cosa intendi? Ti riferisci al fatto che arrivo sempre in anticipo e che...”.

“Non solo. Mi riferisco al fatto che un giorno sei arrivata con un braccio fasciato e parecchi graffi e da allora vieni a lavoro con una macchina molto costosa e un'espressione più serena in viso. Mi dirai che non sono affari miei, ma so che la tua famiglia è lontana e so anche quanto ti pago, non abbastanza per poter comprare una mercedes, perciò... insomma volevo soltanto sapere se stai bene e se hai bisogno di aiuto”. Erinque arrossì abbastanza da colorare la pelle già ambrata delle sue guance.

Sorrisi timidamente e lo rassicurai. “Sto bene, grazie. Sono stati giorni un po'... strani. Dopo il mio incidente ho incontrato casualmente alcuni vecchi amici che mi hanno proposto di trasferirmi da loro, perciò ho lasciato il mio appartamento. La macchina è la loro; è soltanto un prestito”.

“Ma non ti preparano i pasti?”, mi chiese.

“Certo - mi infervorai - se glielo permettessi. Io non voglio essergli di peso e non mi va di dipendere da loro più del dovuto”.

“Allora non sono amici così cari”.

“Lo sono. Per questo non voglio dipendere da loro”.

Dopo un istante di silenzio, che Enrique trascorse osservandomi, si aprì in un sorriso radioso come si fosse d'un tratto illuminato. “Posso passare a prenderti, se ti va. E riaccompagnarti. Così non dovrai chiedergli l'auto in prestito”.

“Sul serio?”, chiesi. “Perché lo faresti?”.

“Perché posso e perché voglio darti una mano”.

I suoi occhi erano così sinceri, era impossibile dubitare della veridicità delle sue parole.

“Penso che accetterò. Grazie, Enrique. Per tutto”. In fondo, mi aveva raccolto come si fa con i gatti randagi.

“Allora passo a prenderti alle otto”, si affrettò a dire, mentre i primi clienti, un gruppo di ragazzi, entravano ridendo rumorosamente nel locale e spintonandosi.

“Certo”.

Parcheggiai l'auto nel vialetto, tirando un lungo sospiro e slacciando la cintura.

“Lui non è qui, lui non è qui”. Avevo ripetuto questa litania per tutto il tempo del viaggio di ritorno, come se farlo bastasse a tenere Edward lontano da me. Non sarei riuscita a tollerarne la presenza per svariati motivi, tutti sbagliati. In primo luogo, non avrei sopportato di vederlo, perché quel vampiro non era neanche la metà dell'uomo che amavo, soltanto un suo pallido riflesso. In secondo luogo, non sopportavo me stessa accanto a lui, le reazioni del mio corpo, la nostalgia, la gelosia, perché sarei stata un'ipocrita se non avessi ammesso, almeno con me stessa, che ero verde giada ogni volta che incrociavo gli occhi dorati di Tanya. Era una gelosia che rasentava il dolore fisico, a cui si sommava la vera pena, quella per Edward. Perché un vampiro non può ammalarsi, o almeno così pensavo prima di rivederlo. In realtà, ero quasi certa che lui non fosse in casa, mentre facevo scattare la serratura della porta d'ingresso. Entrai il più silenziosamente possibile, più per abitudine che per reale necessità, infatti, nonostante fossero le due di notte, nessuno dormiva.

Come avevo previsto Edward non c'era, perciò mi sentì invadere dall'ansia che accompagnava la sua assenza, il fatto che non potessi averlo sott'occhio. La maggior parte dei Cullen era in salotto, io mi diressi in cucina a bere qualcosa.

“Ciao”, mi voltai di scatto e quasi la bottiglietta d'acqua mi scivolò dalle mani, ma una sagoma si fiondò su di essa, agguantandola e posandola sullo stipite della cucina immacolata. Alice mi fissava, con i suoi occhi grandi e dorati, in viso un'espressione incerta. Alice... Lei non aveva mai smesso di essere la mia Alice. La sorella che non avevo mai avuto e che spesso, nella mia vita, avevo desiderato: perché ci fosse qualcuno con cui ironizzare delle situazioni peggiori, dei momenti più difficili. Perché ci fosse qualcuno in grado di capirmi con un solo sguardo, cui bastasse un cenno per suscitare un sorriso al ricordo di qualcosa avvenuta in passato, che mi conoscesse meglio di me stessa, che mi dicesse “sei forte e sei bella”. Lei era stata tutto questo, senza essere sangue del mio sangue, senza appartenere alla mia stessa specie e questo aveva reso il nostro legame ancor più unico, perché se io avevo bisogno di lei, lei ne aveva avuto di me. Aveva bisogno di qualcuno che la facesse sentire normale e speciale non perché era in grado di prevedere il futuro, di qualcuno che la accettasse e l'amasse al di fuori della famiglia e dell'uomo che lei aveva cercato e avevo scelto. Aveva bisogno che qualcuno scegliesse lei. In realtà non credevo nella storia delle anime gemelle, era soltanto una bella favola di cui non mi sarei mai stancata di leggere nei miei libri. Ero fermamente convinta, ed Alice era una prova tangibile di ciò, che destino e predestinazione non esistono, che la vita cambia in base alle scelte dell'individuo e a quelle altrui che, inevitabilmente, influiscono su di noi. Perciò non avevo mai dato al “destino” il merito del mio legame con Alice né tanto meno con Edward. Semplicemente, capitava che alcune persone incrociassero la tua strada perché ciò che sei e le scelte che hai fatto ti hanno portato su quel sentiero. Niente più niente meno. Ma la potenza di alcuni legami è tale che, una mente meno razionale della mia, avrebbe sicuramente dato il merito al destino.

Non so cosa successe in quel preciso istante, che genere di meccanismo scattò all'interno della mia mente, sta di fatto che la figura di Alice divenne pian piano sempre più sfocata e mi sentì invadere da una desolazione incredibilmente potente, il dolore per mia madre, la paura per il vampiro e per lo stato di Edward, la nostalgia si riversarono fuori dai miei dotti lacrimali, come se la vista di mia sorella fosse stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Mi fiondai tra le sue braccia nell'istante esatto in cui lei le spalancava, accogliendomi fra di esse come se non avesse atteso altro dal primo istante. Mi aggrappai alla sua camicetta bianca e semitrasparente, come faticassi a reggermi in piedi.

“Oh, tesoro”, sussurrò tra i miei capelli, stringendomi ancora più forte a se, il respiro spezzato.

“Dove sei stata?”, rantolai, senza accennare a lasciare la presa.

“Aspettavo”, sussurrò, tanto silenziosamente che credetti di aver capito male.

Una parte di me era cosciente della debolezza che stavo dimostrando, di quanto mi stessi esponendo, ma la verità è che non riuscivo a vedere in lei un pericolo di fronte al quale esitare. Alice Cullen era una parte di me.

“Mi dispiace tanto”, disse, stringendomi e affondando il volto nella mia spalla.

“Se avessi saputo, se avessi visto avrei agito diversamente... se avessi”. Ma non terminò la frase, perché “se” non avrebbe cambiato niente. Dopo qualche minuto, quando sembrai esaurire le lacrime, ci lasciammo scivolare contro lo stipite della cucina e poi sul pavimento lucido: io con la testa poggiata sulla sua spalla, lei con la testa sulla mia. Io con le gambe strette al petto, lei lunghe distese di fronte a se, una mia mano era ancora ancorata sulla sua camicia.

“Cosa è successo?”, mi chiese. Non capivo esattamente a cosa si riferisse, ma presi a raccontare dall'inizio, anch'io sussurrando, seppure farlo era inutile perché chiunque fosse in casa avrebbe ascoltato la nostra conversazione.

“Mia madre... è stata male. Una crisi di panico piuttosto violenta, che mi ha costretto a... tornare coi piedi per terra”.

Alice mi lanciò un'occhiata preoccupata.

“Ora sta bene, vive con mio padre. Che ironia... i miei tornano a vivere sotto lo stesso tetto e io devo andare via. Ma in fondo, il sogno di una famiglia perfetta non mi ha mai sfiorato”.

“Phil...”

“Phil l'ha lasciata. Reneé mi è stata vicina nel mio momento un po'... difficile, ma, in effetti, non è mai stata in grado di caricarsi sulle spalle il dolore altrui, riesce a malapena a gestire il proprio. Phil è stato il colpo di grazia”.

“Capisco”, disse e sapevo che era così.

“Tu sapevi... mi avevi vista?”.

“Intendi ad Harvard? No, affatto. In realtà non controllo il tuo futuro da molto tempo, a volte capitava che ti vedessi, ma erano visioni sporadiche. Edward mi aveva chiesto di non farlo... e credimi, non gli avrei dato retta, per niente. Però l'ho fatto e potrei addossargli la colpa, ma la verità è che sono stata codarda. Avevo paura di ciò che avrei visto, perché sapevo di non poter tornare indietro da te in ogni caso. Non ho avuto la forza di stare a guardare mentre soffrivi”.

“Quindi hai nascosto la polvere sotto il tappeto”, aggiunsi. Lei annuì.

“Non avrei dovuto dargli retta”, continuò.

“E cosa avresti potuto fare, Alice? Se io non avevo diritto di trattenerlo accanto a me, neanche tu lo avevi. Certo il modo in cui mi ha... lasciata è stato meschino e voi non siete stati da meno”.

“No, non lo siamo stati. Ma il vostro e il nostro rapporto non sono paragonabili a quelli di qualsiasi altro essere umano. Pensavamo fosse meglio per te, Bella, per noi e per Edward. E' stato un errore di valutazione che ci è costato caro. Abbiamo quasi rischiato di perderti... e di perdere Edward”, ma quell'ultimo commento lo ignorai.

Parlammo a lungo, di me, di lei, di cosa mi avesse spinto a scegliere medicina, del giorno del diploma, dell'ultimo anno di liceo e del primo anno di college, del mio lavoro, di Tahiti, del corso che aveva deciso di frequentare quest'anno, di Jasper, dei modelli che aveva disegnato per una famosa rivista di moda che finsi di conoscere, facendole sfuggire una risata.

“Sarà che il tuo equilibrio è decisamente migliorato e che sei diventata molto bella – disse, dandomi una gomitata- ma tu e la moda vivete ancora su due galassie differenti”.

“E non hai dimenticato di dirmi qualcosa?”, cantilenò.

Sbattei le palpebre più volte, fingendo di non capire a cosa si riferisse. Mi lanciò un'occhiataccia.

“Occhi neri, capelli scuri, bei pettorali e tanto tanto gentile”.

“Ci hai visti”, dissi, arrossendo.

“Se intendi dire che ho visto come ti guarda, sì cara, l'ho visto. E so anche che domani verrà a prenderti, con una scusa piuttosto banale tra l'altro”, alzò gli occhi al cielo, ma aveva un sorriso così ampio che mi contagiò.

“Tu ti fai troppi film”, le dissi.

“Io non mi faccio i film – disse, indignata- io vedo il futuro”.

“Non avevi detto che non sbirci più nel mio”.

“Adesso sì. E' d'obbligo, sai, per il vampiro. A proposito, sei consapevole che non ti lascerò andare da nessuna parte finché non lo avremo fermato. E non chiamare in causa Emmet, anche lui si taglierebbe un braccio piuttosto che darti in pasto a un vampiro. I ragazzi stanno cercando, ma è difficile trovare sue traccie”.

“I... ragazzi?”, chiesi, balbettando.

“Anche Edward”, sussurrò, avvicinandosi ancor di più a me. “Vuoi che io...”.

“No Alice-la bloccai- non voglio”. In realtà avrei voluto sapere ogni cosa di lui, ma non avevo la forza fisica né mentale per sostenere una conversazione simile e poi avevo paura di scoprire come in un anno si fosse innamorato di un'altra donna e l'avesse sposata.

“Ok”, disse, “forse è il caso che tu vada a dormire, domani hai lezione”.

Mi alzai a fatica, trascinando i piedi su per le scale.

“Ah, Bella”, mi voltai, “non... non ignorarmi più, preferisco che mi insulti o mi picchi, ma non ignorarmi”.

Sorrisi obliquamente. “Non penso mi convenga, picchiarti dico, sarei io a farmi male”. I suoi occhi si incupirono. “Perciò penso che ti insulterò pesantemente”, mi affrettai ad aggiungere, lieta dell'accenno di sorriso sulle sue labbra.

 

 

“Sarà qui tra otto minuti e cinquantasei secondi”, mi avvertì Alice, piombando di fronte a me. Abbassai il libro sulle ginocchia e la matita, alzando lo sguardo dall'immagine che raffigurava una serie di epatociti e adagiandolo sul suo viso radioso, Alice era china su di me e mi fissava come se, per qualche ragione, dovessi comprendere e condividere la sua allegria. Quel pomeriggio, incoraggiata dalla quieta che regnava nella stanza, avevo deciso di studiare in soggiorno, accomodandomi a piedi nudi sul grande divano di pelle nera che troneggiava nel salotto. La casa era semivuota, a parte Emmet e Jasper che giocavano a scacchi ed Alice che disegnava qualche schizzo. A rompere il silenzio era stata proprio la sua voce.

Alice mi lanciò uno sguardo esasperato, facendomi un cenno con il capo come a dire “allora, ci sei?”.

“Alice, ti ho già detto che mi dà soltanto un passaggio, nient'altro”.

Alice batté le palpebre più volte, portandosi una mano al petto: “Ma io non l'ho certo messo in dubbio. Ti ho soltanto ricordato che tra sette minuti lui sarà qui e tu stai ancora studiando, in pantaloncini, anziché prepararti”.

“Impiego in media cinque minuti a farlo. E poi, non sei tu che dici sempre: “Bisogna far aspettare gli uomini, altrimenti penseranno che tu stavi aspettando loro”.

“Agli appuntamenti. Ma come tu tiene a sottolineare, questo non è un appuntamento,

quindi la mia regola non si applica”.

Conscia che mi aveva incastrato con le mie stesse parole, mi alzai di malavoglia dal divano, con il libro sotto braccio e mi diressi verso le scale, ignorando il sorriso di Jasper e lo sguardo incerto di Emmet.

“Chi ti darà un passaggio?”, chiese.

“Metti la maglietta che ho posato sul tuo letto”, aggiunse Alice.

Alzai gli occhi al cielo. “Hai già iniziato a comprarmi vestiti”.

“No, lo giuro. Era mia. Io l'ho indossata soltanto una volta. Ho visto che ti sarebbe stata bene”.

Quel suo gesto mi ricordava i giorni vissuti a Forks, quando ci scambiavamo i vestiti. Uno scambio a senso unico a dire il vero, perché Alice non avrebbe mai indossato niente di ciò che mettevo io di solito, jeans e maglie a buon mercato. Lei sapeva quanto odiassi vederla spendere soldi per me, perciò mi dava vestiti che fingeva di aver comprato per sé e di aver già indossato. Annuì.

“Qualcuno mi risponde? Chi ti dà un passaggio Bella?”, chiese ancora Emmet, con un cipiglio scuro sul volto. Alice gli fece una linguaccia, a mo di bimba. “Cose da donne. Non puoi capire”.

“Io le donne le capisco”, ribatté Emmet, “e capisco anche gli uomini. Nessuno di noi fa nulla per nulla. Prima un passaggio, poi un bacio, poi una palpatina e poi...”.

“Abbiamo capito”, intervenne Alice. “Ma non succederà, non stasera almeno”.

“Non stasera”, dissi, lanciandole un'occhiata fulminante e alzando un sopracciglio.

“Ancora non mi avete detto chi...”.

“Tre minuti, Bella”.

Mi affrettai su per le scale, ignorando i borbottii di Emmet e la risata infantile di Alice. Indossai alla svelta un paio di jeans chiari e la maglia “prestatami” da Alice, afferrai la borsa e due minuti dopo stavo già scendendo le scale. Alice mi afferrò per il gomito, impedendomi di cadere sull'ultimo gradino. Mi accompagnò all'ingresso. “Dovrebbe indossare più spesso quel colore, gli dona”, mi comunicò, con lo sguardo perso nel futuro prossimo. Alzai ancora gli occhi al cielo, dandole una gomitata.

“Vuoi smetterla, non mi interessa”.

Mentre pronunciavo quelle fatidiche parole successero più cose contemporaneamente: Alice si irrigidì, la porta d'ingresso si aprì rivelando le figure di Edward e Tanya. Lei era ancorata al suo braccio, come sempre, ma a stupirmi non fu questo, bensì il suono familiare della risata di Edward, il suo sorriso, i suoi occhi sereni. A immobilizzarmi sul posto, invece, bastò un istante. Vidi la scena a rallentatore, come la guardassi con occhi non umani. Fin dal primo istante in cui avevo capito di essere totalmente e incondizionatamente innamorata di Edward, o forse ancor prima, avevo saputo che il nostro legame era diverso da quello di chiunque altro. Il senso di appartenenza era tale che più di una volta avevo pensato di essermi ricongiunta ad una parte mancante di me stessa. Che nessuno dei due avesse alcuna esperienza in questo campo e in fatto di baci, contatti intimi non mi era sembrato affatto strano o anormale. Ero certa, come non lo ero mai stata di nient'altro, che Edward sarebbe stato il primo e l'ultimo, perché con lui avevo iniziato a vivere e solo con lui avrei smesso di farlo. Perciò, l'idea che le nostre strade si dividessero una volta essersi incrociate, che lui potesse appartenere a un'altra donna o io a un altro uomo non mi aveva mai sfiorata. Lui era mio a un livello così profondo che nulla riusciva a sradicare questa consapevolezza dal mio cuore, né la vista del mio nello al dito di un'altra, né le parole “moglie” e “marito”. Nulla, tranne questo. Le labbra di Tanya si adagiarono morbidamente su quelle di Edward, adattandosi ad esse per forma e consistenza. Fu un bacio rapido, incredibilmente casto, accompagnato da uno sguardo d'intesa micidiale. Poco dopo, i due si accorsero della nostra presenza e se l'espressione di Tanya rimase inalterata, quella di Edward mutò radicalmente. Quante ferite avrei retto prima di crollare? Alice mi trascinò lontano da loro prima che potessi darmi una risposta. Nel frattempo, una Chevrolet nera e lucida aveva parcheggiato sul vialetto e mentre io mi richiudevo la porta alle spalle con tutta la forza rimastami in corpo, Enrique scendeva dall'auto per venirmi incontro, un sorriso accennato sulle labbra che non rifletteva l'allegria nei suoi occhi. Il suo sguardo si incupì e i suoi occhi si spensero, non appena notò le lacrime che copiose mi rigavano il volto. Affrettò il passo e gli bastò una falcata per raggiungermi accanto allo sportello del passeggero. In un gesto estremamente protettivo, racchiuse la mia guancia sinistra nella sua mano destra, grande e calda, tentando di asciugarmi le lacrime con il pollice. Alle mie spalle la porta d'ingresso si aprì. Nella mia scomoda posizione, rivolta per metà busto verso l'auto e per metà verso la grande villa, potei incrociare lo sguardo di Edward. Non avrei saputo dire se a immobilizzarlo fossero state le mie lacrime, per cui non mi sarei mai maledetta abbastanza, o Enrique, il quale, seppur non conosceva le vicende, aveva compreso che l'origine del mio dolore era proprio quel ragazzo paonazzo e si era proteso ancor di più verso di me, voltandosi interamente nella mia direzione e adagiando la mano che non era occupata ad accarezzarmi il viso sulla mia spalla destra, senza tuttavia distogliere lo sguardo da Edward. Il vampiro gli restituì un'occhiata gelida e minacciosa che avrebbe dovuto spaventarlo. Ma che non ci riuscì.

“Portami via”, lo implorai. Enrique chinò gli occhi sul mio volto per non più di tre secondi, prima di spalancare la portiera, spingermi all'interno dell'auto e mettersi alla guida. Con una sola, impossibile manovra uscì dal vialetto, le gomme stridettero sul terriccio, sollevando un polverone.

 

Quando Enrique accostò di fronte al locale, spense il motore della Chevrolet e nell'abitacolo calò il silenzio. Si voltò nella mia direzione. Sotto il peso del suo sguardo gentile mi sentì ancora più piccola e mi rannicchia su me stessa, tra il sedile e la portiera.

“Come stai?”.

Per buona parte del viaggio mi ero chiesta quale domanda avrebbe scelto per iniziare la conversazione, ma un semplice “come stai” non mi era passato per la mente, di conseguenza, non sapevo cosa rispondere. Bene. Male. A pezzi. A metà.

Optai per cambiare argomento. “Grazie”, dissi. “Per avermi... portata via”.

Enrique scosse il capo, come a voler sottolineare che il suo gesto non era stato importante.

“Io non ti riporto in quella casa, se non mi dici cosa è successo Bella. Qualcuno... qualcuno ti ha fatto del male?”.

“No”. Almeno non fisicamente. Enrique attese che continuassi, dopo un po' mi chiese: “Chi era?”. Nella sua voce un filo di incertezza e qualcos'altro che non riconobbi.

“Era...”. Esisteva una parola per definirlo: un amico, un ex ragazzo, un ex fidanzato, l'amore della mia vita?

“Era... Edward”.

“Edward ed io stavamo insieme quando vivevo ancora a Forks. All'incirca una settimana dopo il mio diciottesimo compleanno la sua famiglia si è trasferita e lui li ha seguiti, lasciandomi, anche se penso che sia stata la sua famiglia a seguire lui e non il contrario. Aveva deciso che non era più il caso di stare insieme, che eravamo troppo differenti... Sono stata molto male. Qualche settimana fa, dopo il mio incidente, li ho rincontrati. Carlisle è un medico, è stato lui a fasciarmi il braccio. Mi ha portato a casa loro, pensava che lui non ci fosse e invece era lì... insieme a sua... moglie”.

“Che gran figlio di.”.

“No, ti prego. Io... questa è soltanto la superficie di una storia molto più complicata di così”.

“Ti prego Bella, qualsiasi cosa sia successo, qualsiasi giustificazione... se questo è il riassunto della situazione, superficiale o meno, lui non merita una sola delle lacrime che hai versato stasera”.

Enrique mi osservò per qualche istante, dopodiché sospirò.

“Questo non cambia niente. Lo ami ancora, è evidente. E non c'è nulla che io possa dire che ti impedirà di soffrire. Ma una cosa posso farla... senti Bella, lo so che non siamo parenti e ci conosciamo relativamente poco, ma vieni a vivere da me, almeno finché non trovi un altro appartamento. Lo spazio c'è e io terrò le mani a posto, mi limiterò a prepararti la colazione, se vorrai..”.

“Non posso..”, lo interruppi prima che proseguisse.

“Perché? Rimanere in quella casa significa soffrire. Io ti sto offrendo una possibilità di andar via”.

“Non posso”, ripetei. “Non sono masochista, ma non posso, credimi”, lo pregai, stringendo le sue mani tra le mie. Ma, mentre pronunciavo quelle parole, ero consapevole di mentire. Il vampiro che mi minacciava c'entrava poco o niente con la mia decisione di rimanere. Non riuscivo a lasciarli. Tutti i miei tentativi erano andati perduti.

Enrique scosse il capo, ma non infierì. “Promettimi che, se dovesse diventare insostenibile, accetterai la mia proposta”.

Non avrei in nessun caso rischiato di esporre Enrique al pericolo che mi perseguitava, anche se fossi stata abbastanza forte da allontanarmi dai Cullen ed ero cosciente di doverlo fare al più presto. “Devo prima risolvere... una questione. Quando lo avrò fatto ti pregherò di trascinarmi via da quella casa, anche con la forza”. Fu questa la mia promessa.

…..................................................

 

“Perciò, Raphael ti ha buttato giù?”, chiesi, non riuscendo a trattenere una risata.

“Sì, da piccolo era insopportabile”, concordò Enrique.

Per qualche istante restammo in silenzio e io posai la guancia sul sedile morbido, soffermandomi sulla figura del ragazzo che mi sedeva accanto, i jeans neri e il maglione blu mettevano in risalto la sua carnagione, i muscoli scolpiti delle gambe e del torace. Enrique mi sorprese a fissarlo e io arrossì violentemente, distogliendo lo sguardo, ignorando il sorriso che gli si dipinse in volto. Stare in compagnia di Enrique era così semplice e rilassante, piacevole in un modo che non avevo mai provato prima. “Certo – sghignazzò una vocina nella mia testa – ma ti basta? Con Edward niente era semplice o tranquillo e a te piaceva la tensione nei muscoli, l'adrenalina, il cuore che batte all'impazzata, il fuoco sulla pelle, la sensazione di interezza”.

Enrique era un ragazzo speciale. Speciale nel limiti dell'umano. Ma, se la voce nella mia testa aveva ragione, la differenza sostanziale tra ciò che provavo con lui e con Edward poteva essere dovuta semplicemente al fatto che l'uno fosse umano e l'altro un vampiro?

Di fronte a villa Cullen, Enrique spense il motore e scese dall'auto. Esitai, attendendo che si materializzasse al mio fianco per aprirmi la portiera. Ma Enrique non era quel genere di ragazzo. A dire il vero, non avrei saputo dire se nel ventunesimo secolo esistesse ancora quel genere di ragazzo. Mi affrettai a raggiungerlo, con le guance in fiamme, e insieme ci avvicinammo alla porta di casa. Le chiavi tintinnavano tra le mie mani, mentre le rigiravo nervosamente.

“Allora ci vediamo domani. Passo a prenderti”.

“Certo”.

Calò il silenzio. Non uno di quei silenzi imbarazzanti del tipo “non so cos'altro dire”. Un silenzio di pausa, che anticipava una nuova conversazione. “Penso che arrivati a questo punto sia il caso di essere onesti”, esordì Enrique. Lo guardai, senza capire cosa intendesse. “La prima volta che ti ho vista mi hai...attratto. E' difficile ammetterlo, ma quando ti ho assunta l'ho fatto per me stesso. Speravo di avere più tempo con te, di avere un'occasione per frequentarti. Se ti avessi lasciata andare via con molta probabilità non ti avrei più rivista. Ecco, anche se sei inciampata nei tuoi piedi e quindi quasi sicuramente non saresti stata in grado di portare un vassoio senza farlo cadere, non mi è importato”.

Trattenni il respiro, intimorita dalla direzione in cui ci avrebbero condotto le sue parole.

Enrique mi accarezzò uno guancia con la punta delle dite tremanti.

“Più il tempo passava, più l'attrazione cresceva e a quella che era stata una semplice sensazione si aggiunsero presto delle consapevolezze, la tua intelligenza, la tua dolcezza e onestà, la tua testardaggine e forza di volontà. Ti osservavo sempre, la sera prima di un esame, ripetere un argomento mentre passavi da un'ordinazione all'altra, borbottare di sangue, cellule, BPCO, broncopneumopatia cronica ostruttiva... lo hai ripetuto così tante volte che l'ho imparato persino io”. Risi, mentre Enrique scuoteva il capo. “Mi spiace”.

“Il tuo viso s'illumina quando parli di ciò che studi, sei fortunata a sapere ciò che vuoi”.

“Oh, ma io non lo so. Non del tutto almeno. Una volta lo sapevo con certezza; era tutto così chiaro, quasi inevitabile. Poi quel futuro è sfumato e io ho scoperto un altro lato di me stessa”.

“Tu sei nato economista o...”.

“No, per niente. In realtà, il mio “hobby” è la mia vera passione”.

“Spegnere incendi”, conclusi per lui.

“Lo sapevi?”, mi chiese.

“Quando non ripeto e non servo ai tavoli osservo, sai. Ho visto la targhetta sulla tua scrivania, il giorno del colloquio”.

“Memoria eidetica?”.

“Forse...”, risposi sorridendo.

Enrique rafforzò la presa sulla mia guancia. Il calore delle sue mani era rassicurante, piacevole. Man mano che il suo viso si avvicinava al mio, capivo ciò che sarebbe successo. Nonostante mi sentissi fuori luogo, mi imposi di non muovere un muscolo. Non avrei dovuto permettere al ricordo di altri baci, di altre mani di controllarmi. Se Edward era andato avanti, io avrei fatto altrettanto. E poi, le sue labbra morbide e calde si posarono sulle mie, dapprima con delicatezza e una certa esitazione, forse temendo che lo avrei respinto. Si allontanò quanto bastava per leggere il mio sguardo e il mio consenso, poi mi afferrò il viso con entrambe le mani e mi baciò. Un bacio vero. Le sue labbra cercarono le mie con insistenza e desiderio, che si palesava nel sottile tremolio delle sue mani che si ancoravano alla mia pelle. Man mano che i secondi passavano, il bacio si faceva più profondo e pretenzioso. Automaticamente, sollevai le braccia in cerca della pelle del suo collo, per risalire alla chioma folta e scura e affondarvi le dita. Poi, gradualmente come era iniziato, il bacio finì. Enrique si separò da me con il respiro ansante, senza sciogliere il legame fra le nostre epidermidi; si adagiò sulla mia guancia e vi depose un bacio. Poi si allontanò, la mascella contratta e gli occhi lucidi.

“A domani”, sussurrò, sfiorandomi il labbro inferiore con il pollice, prima di voltarmi le spalle e salire in auto. Attesi che lasciasse il vialetto e imboccasse il sentiero, prima di entrare in casa. Le luci erano accese, come sempre, ma non si udiva altro suono che il ronzio delle lampadine. Alice, Jasper ed Emmet dovevano aver raggiunto gli altri sulle montagne. Di solito qualcuno restava sempre in casa, per sorvegliami o proteggermi, a seconda dei punti di vista. Ad ogni passo, si faceva largo nella mia mente un'idea spiacevole. Nonostante ciò, mi sorpresi nello scorgere la pallida figura di Edward, immobile come una statua di granito di fronte alla grande vetrata, le spalle rigide non si sollevavano, segno che non stava respirando, le mani affondavano nelle tasche dei jeans chiari. L'espressione sul suo viso era dura a tal punto che sembrava scolpita nel marmo.

Avrei potuto pronunciare mille parole e porgli altrettante domane, oppure, avrei potuto voltargli le spalle e andare via, perché non riuscivo a osservarlo senza provare una rabbia feroce che mi scuoteva le membra. Non feci né l'uno né l'altro.

“Dov'è Tanya?”, gli chiesi.

Edward si voltò nella mia direzione con calcolata lentezza. I suoi occhi... i suoi occhi erano fuoco e cenere. Mi tolsero il fiato. Avrei dovuto temerlo, sarebbe stato saggio e umano. Invece, paradossalmente, lo desiderai, pochi istanti dopo aver baciato un altro uomo.

“A caccia”. La sua voce era stranamente bassa e gutturale, come se la trattenesse forzatamente all'interno della laringe. Edward mosse un paio di passi nella mia direzione e laddove avrei dovuto arretrare, mi avvicinai, come fossi materia e lui un buco nero. Mi afferrò il polso, scivolando sulle mie dita e accostando la mia mano alla sua guancia, in un punto ben preciso. Arrossì violentemente.

“Brucia”, disse.

Bruciava, dove la mia saliva aveva sporcato la sua pelle diafana. Bruciava la mia pelle, a contatto con la sua, più fredda di quanto ricordassi e ancor di più il mio orgoglio, perché erano passati mesi eppure io continuavo a soccombere sotto il tocco delle sue mani, nonostante una parte di me fosse profondamente risentita.

“Perché sei qui?”, gli chiesi, sfilando la mano dalla sua stretta.

“Non avevo sete”, rispose.

Era chiaro che mentiva. I suoi occhi erano a neri come l'onice e lucidi come il ghiaccio sull'asfalto.

“Da quanti giorni non ti nutri?”.

Edward inclinò la testa di lato, corrugando le sopracciglia.

“Giorni...”, sorrise ironicamente.

“Settimane?”, chiesi, sgranando gli occhi.

“Un paio”, sorrise ancora, scuotendo la chioma ramata. Un sorriso innocente e letale.

Un paio di settimane, il tempo esatto della mia permanenza a casa Cullen.

“Perché”, chiesi, ignorando il nodo che mi serrava la gola.

“Perché..”, rimuginò, “perché non vorrei essere ciò che sono. Perché ogni giorno faccio del male alle persone che amo e non so più se questo sia dovuto alla mia natura di vampiro o di essere umano. Perché sono stanco di sbagliare, di soffrire le pene dell'inferno. Stanco di vivere e di pensare che dovrò vivere ancora e ancora e ancora... con nessun'altra scusa se non che altrimenti causerei dolore ai miei cari”.

Osservai a lungo il suo volto, il dolore nei suoi occhi, il freddo nel suo cuore.

“Non dovresti vivere perché altri vogliono che tu viva. Dovresti vivere perché tu vuoi farlo”.

“E se io non volessi?”, mi chiese, quasi a sfidarmi di elencare qualche valido motivo perché dovesse desiderarlo.

“Dovresti”, ribattei. “Perché sei capitato. Fra tanti casi possibili sei capitato nei casi favorevoli, tanto per usare una metafora. Io non so se tutto questo sia una benedizione, una maledizione o se abbia un senso. A volte l'uno, a volte l'altro a seconda della giornata. Ma tu più di tutti dovresti cercare di apprezzarne i lati positivi. Perché anch'io ho visto la morte, in più di un caso e ho visto la vita, aveva occhi azzurri e un pigiama giallo. E ogni cellula del corpo si ribella all'idea della morte, della scomparsa, della fine. Vivere è istintivo, primordiale. E' tu, a differenza degli esseri umani, hai tutto il tempo di questo mondo, letteralmente, per cercare di essere... felice, per rimediare agli errori, per imparare”. “Dio, gli esseri umani e i vampiri sono come gli obesi e i morti di fame, chi si lamenta perché vive troppo a lungo, chi perché non vive abbastanza”.

“Come hai fatto a crescere così tanto in pochi mesi?”, mi chiese, gli occhi brillavano.

“Anche tu sei cresciuto”, ammisi, “qualche mese fa non mi avresti mai... confidato timori così intimi senza temere di spaventarmi e poi saresti rimasto a crogiolarti nel tuo dolore per... forse per sempre”.

“I vampiri non crescono, Bella”, mi fece notare.

“Anche alcuni esseri umani non crescono mai, prendi mia madre. Perciò sì, penso che in ogni specie dipenda dalla persona”. Sorridemmo contemporaneamente. Era ancora semplice così parlare con lui.

“Come stai?”, mi chiese dopo qualche istante di silenzio.

Feci spallucce. “Respiro”, dissi.

“Mi piacerebbe poter dire lo stesso”, mormorò, a voce così bassa che non fui certa di aver capito bene le sue parole. Né riuscì a interpretarne il senso.

“Cos'è?”, mi chiese.

Non capì.

“Cos'è lui per te?”. Il suo sguardo attento vagliava ogni cambiamento sul mio volto, soffermandosi a lungo sulle labbra, ancora gonfie.

“Non credo che sia il caso di...”.

“Rispondi”, ringhiò, stringendo le mani a pugno tanto che le nocche divennero ancor più pallide, “per favore”.

“L'ho baciato”, mi limitai a ribattere risentita. Non aveva alcun diritto di pretendere qualcosa, non più.

Edward serrò la mascella, indurendo i lineamenti del viso.

“Lo so”. Aveva visto.

Tentai di trattenere la naturale reazione del mio corpo che mi spingeva ad arrossire o sbiancare, con il buon risultato di rimanere impassibile.

“Lui è... gentile, intelligente...”.

“Non ti ho chiesto com'è, Bella. Ti ho chiesto cos'è per te”, puntualizzò, avanzando silenziosamente nella mia direzione, come se lui fosse il predatore e io la preda.

“Perché esiti?”, mi chiese, quando ormai era di fronte a me, il suo profumo si abbatté sul mio viso come un tocco deciso. L'unico rumore nella stanza il suono del mio respiro accelerato. Edward sollevò un braccio, il risvolto della manica mi permise di godere della vista dei suoi tendini contratti. Adagiò delicatamente i polpastrelli sulla mia tempia, percorrendo la lunghezza del mio viso. Quando le sue dite sfiorarono il punto fra la curva della mascella e il mento chiusi istintivamente gli occhi, ormai sragionavo.

Mi allontanai da lui, mettendo fra noi più di un metro di distanza. Tentai di fingere che fosse un movimento casuale, ma non mi riuscì, perché lo sentì sorridere alle mie spalle.

“E Tanya?”, chiesi, cogliendo l'occasione al volo, “quando hai capito di essere innamorato di lei? Dimmi... è anche per lei che sei andato via? Sei andato da lei?”.

Edward sgranò gli occhi. “Cosa? Tu pensi...”.

“Ti prego, Bella. Non crederlo neanche per un istante. Tu... tu mi conosci meglio di chiunque altro, non avrei mai fatto una cosa...”.

“Lo so”, mi affrettai ad aggiungere, “volevo soltanto esserne certa. Di solito capisco quando menti”.

“E' successo poco meno di un mese fa. Non tutta la mia famiglia lo ha ancora... accettato”.

“Un mese?”, chiesi. “Così in fretta. Amarla deve essere facile”. Edward sorrise obliquamente, ma non aggiunse altro. D'improvviso si avvicinò a me, colmando la distanza che ci separava con una sola falcata. Tuttavia non mi sfiorò. “Che intenzioni hai? Con lui intendo, con il ragazzo?”.

Sollevai le sopracciglia.

“Il ragazzo ha un nome”, precisai,

“Non è importante”, chiarì Edward, accostandosi maggiormente al mio corpo, affondando le dita nel solco della mia vita.

“Perché ti importa?”, balbettai.

“Non hai risposto alla mia domanda”.

“E tu non rispondi alla mia”.

“Bacia bene?”.

“Edward”, quasi urlai e in risposta ottenni il sorriso sghembo dei miei ricordi. Ogni traccia di malinconia era scomparsa dai suoi occhi.

“Comunque sì, bacia bene. Ma considerando il mio unico metro di paragone, forse...”.

“Che cosa vorresti dire con questo, di grazia?”, mi chiesi, rafforzando la presa sulla mia pelle.

“Personali considerazioni”, borbottai.

“....”.

Nell'istante in cui Edward si apprestava ad aggiungere qualcosa, fu interrotto dal suono di passi in avvicinamento. Non trascorse un secondo che i Cullen al completo si materializzarono in salotto, con Tanya al seguito.

I suoi occhi grandi si posarono sulle nostre figure e man mano che registrava la vicinanza fra i nostri corpi, la presa salda di Edward sulla mia vita, forse persino le mia labbra ancora gonfie per il bacio di Enrique, i suoi lineamenti si indurivano e il suo sguardo si incupiva, lanciando lampi d'ira nella nostra direzione. Non mi sentì di darle torto, fossi stata al suo posto mi sarei staccata la testa. Mi allontanai da Edward, facendo leva sul suo braccio ancorato alla mia vita, che sembrava fatto d'acciaio anziché di carne e ossa. Edward lasciò la presa e il braccio gli scivolò nuovamente lungo il fianco. Tanya avanzò con incedere elegante e ferino, come stesse ancora cacciando. Edward si frappose fra di noi, così da celarmene la vista; le strinse il mento fra indice e pollice e le lasciò un lungo bacio sulla fronte. Voltai loro le spalle, lungo l'esofago il sapore acido sei succhi gastrici, segno che avrei rimesso di lì a poco.

La voce di Tanya spezzò il silenzio, mentre in un sussurro intimo diceva: “Andiamo a casa”.

Scomparvi per le scale. Mi richiusi la porta della stanza alle spalle, sorreggendomi da essa, in attesa che il battito cardiaco rallentasse. Mi trascinai di fronte al grande specchio a muro, incuriosita dall'aspetto che doveva avere il mio viso.

La mia immagine riflessa mi sorprese. La pelle era sì pallida ma luminosa, le guance rosa, le labbra dischiuse, gli occhi accesi. In realtà, mi sarei aspettata di peggio. Sarei stata un'ipocrita se avessi addotto il bacio di Enrique quale causa del mio aspetto radioso. Non era stato niente in confronto all'emozione suscitatami dalla vicinanza di Edward, dal suo tocco, dal suo sguardo. Si era comportato in maniera così strana e ambigua, prima rabbioso, malinconico, poi ilare e curioso. Incomprensibile. Lo sguardo mi cadde là dove mi aveva stretta a sé. Trattenni il fiato, rigirandomi il tessuto tra le mani per verificare che non si fosse trattato di un'allucinazione. La maglia era lacerata, quasi ridotta a brandelli... Il mio viso raggiunse un'assurda colorazione bordò.

“Ti avevo detto che la maglia ti sarebbe piaciuta”.

Sobbalzai, sollevando lo sguardo dalla scempio del tessuto per fissarlo su Alice, che silenziosamente sorrideva poggiata allo stipite della porta. Mi lasciai cadere supina sul letto, coprendomi il viso con il cuscino, rantolando qualcosa di poco chiaro. Brancolavo fra una rabbia cieca e disperata e un sentimento esplosivo che mi infiammava la pelle: un desiderio insano e irrazionale. Temevo mi avrebbero spezzato. Primo Levi diceva: “Una proprietà dell'uomo è essere sospeso fra il fango e il cielo, fra il nulla e l'infinito”. Fra il fango e il cielo, fra il nulla e l'infinito soltanto un brandello di stoffa.

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Capitolo 6
*** 5) Cenere ***


Buonasera! Chiedo scusa per il ritarno dell'aggiornamento, appena dico "posto ogni mercoledì", ecco l'imprevisto e non riesco a postare. In ogni caso, ringrazio come sempre tutte le persone che hanno lasciato una recensione, il vostro sostegno mi commuove, chi ha aggiunto la storia tra le seguite, le preferite e le ricordate e a chi mi ha aggiunto tra gli autori preferiti, un grazie speciale. E grazie naturalmente ha chi ha solo letto. Questo capitolo mi ha fatto dannare, lo rileggevo e non mi piaceva, adesso sono moderatamente soddisfatta : ) Vedremo un po' di cose, che ho dovuto scrivere per raccontare cose succede a villa Cullen... tra il trio Edwrad, Tanya, Bella(è anche Enrique, sì). Vi annuncio che i prossimi capitoli saranno molto... densi di avvenimenti e sono al momento i miei preferiti. Capisco anche che alcuni atteggiamenti di certi personaggi non sono chiari... ma si chiarirà tutto, fidatevi. Non mi dilungo ulteriormente, sarei felice se mi lasciaste i vostri pareri : ) Buona lettura!

5) Cenere

Era il tramonto.

La luce del sole, basso e in parte celato dalle chiome degli alberi che circondavano la villa, filtrava fra i rami, le foglie e il vetro, rischiarando il soggiorno dei Cullen, senza che neppure un raggio sfiorasse la loro pelle rivelandone l'innaturale luminosità. Normalmente, nessuno dei Cullen si preoccupava di nascondere la propria natura in mia presenza, eccetto quel pomeriggio.

Enrique, rigido nel posto al mio fianco, agitava tra le mani il bicchiere d'acqua che Esme gli aveva gentilmente offerto. Per qualche secondo, l'unico rumore nella stanza era stato il tintinnare del ghiaccio nel bicchiere.

“Allora, Enrique, di cosa ti occupi?”.

Era stato Carlisle a colmare il silenzio e sbloccare l'assurda e imbarazzante situazione venutasi a creare.

Enrique, che riacquistò un colorito salutare, si profuse in una risposta dettagliata.

Malauguratamente, quel giorno, decisi che avrei iniziato a correre, esasperata oltre ogni limite di sopportazione. Mi ero infilata una tuta, una vecchia canotta e, ipod in mano, avevo lasciato che fossero le gambe a condurmi il più lontano possibile dalla villa e da lui. Correndo, avevo perso il senso del tempo. Mancavano appena venti minuti a che Enrique passasse a prendermi, quando mi precipitai sotto la doccia. Ancora nuda e con i capelli gocciolanti, udì il suono del campanello. Avevo badato, fin quasi alla paranoia, che una situazione simile non si verificasse: Enrique e i Cullen nella stessa stanza, per lo più in presenza di Edward.

Enrique non aveva una buona opinione dei vampiri che mi ospitavano, era stato chiaro, proponendomi persino di convivere, purché lasciassi la villa, ancor prima che... ci frequentassimo. Un loro eventuale incontro sarebbe risultato disastroso e imbarazzante e ora stavo avendone la conferma. Benché nessuno dei Cullen fosse apertamente ostile, l'atmosfera era tutt'altro che accogliente o gioviale. Alice, di fronte a me, indossava un'espressione neutra. Jasper, alle sue spalle, non riusciva a distendere le sopracciglia corrugate. Emmet si imponeva con la propria mole alla nostra destra, di fianco alla poltrona su cui giaceva un'elegante e glaciale Rosalie.

Enrique aveva lanciato più di un'occhiata ad Emmet, quasi ad accertarsi che la distanza che ci separava rimanesse immutata e mio fratello sogghignava nel suo modo tipico. Se muoveva un muscolo, Enrique serrava la presa intorno al mio polso, pronto a tirarmi via nel caso in cui il gigante fosse esploso. Gli unici ad aver mantenuto una parvenza di umanità erano Esme e Carlisle. Esme sorrideva con affetto, tentando di mettere Enrique a suo agio, seppur con scarsi risultati.

Ciò che contribuiva a rendere la situazione ancor più imbarazzante e paradossale era la presenza di Edward e Tanya(ormai un pacchetto, prendi due paghi uno).

Edward si reggeva alla parete, le braccia incrociate sulla maglia beige che indossava e che evidenziava perfettamente le linee del suo addome. Era teso, la mascella rigida, sembrava stesse contraendo tutto il corpo e serrando i denti. Gli occhi, neri come il petrolio e cerchiati da occhiaie leggere, celavano qualcosa di oscuro e pericoloso. Non aveva distolto lo sguardo da Enrique per un solo istante e continuava a fissarlo accigliato. Tanya, tutt'altro che rigida, appariva disinteressata a qualsiasi altra forma di vita che non fosse il marito.

Osservai il profilo morbido di Enrique, stringendo vigorosamente le dita della mia mano fra le sue, che non avevano osato sfiorarmi neanche un lembo di pelle che non fosse il polso. Si sciolse, nonostante continuasse a tremare. Sfidavo chiunque a stare in una stanza insieme a otto vampiri, di cui sei più o meno ostili, senza battere ciglio. Rivolsi ad Alice uno sguardo supplice, pregandola di venirmi in contro. Allora la vampira si aprì in un sorriso radioso e amichevole o così sarebbe apparso a chi non riconosceva le infinite sfumature delle sue espressioni.

Enrique sembrò sorpreso dal repentino cambio d'umore di Alice.

“Bella mi ha raccontato che hai una sorella. Berta, giusto?”.

Enrique sorrise inconsapevolmente: gli angoli delle sue labbra si tesero leggermente all'insù e i suoi occhi scuri scintillarono d'orgoglio.

“Sì. È un'economista. Gestisce la contabilità di una casa di moda nei pressi di New York”.

Alice si finse sorpresa, benché già conoscesse la risposta prima ancora di porre la domanda, ma nei suoi occhi lessi comunque approvazione.

“Non sarà certo la N.P.M, la casa di moda emergente?”, chiese trasognata.

“Come hai fatto a indovinare?”, chiese Enrique a sua volta, sussultando.

“Chiamalo sesto senso femminile”, ribatté Alice, strizzando rapidamente l'occhio nella mia direzione.

Le sorrisi di rimando. “Alice ama la moda e tutto ciò che la riguarda. Andrebbe d'accordo con Berta”. Lo pensavo realmente.

Enrique mi rivolse uno sguardo carico d'affetto e un sorriso complice.

“Certo”, si difese Alice.

“Riesce a stare in uno stesso negozio per due ore e mezzo di fila”, sussurrai ad Enrique.

“Ehi, sorella, sarei qui”, mi fece notare Alice, sventolandomi una mano davanti agli occhi, alleggerendo la tensione.

Enrique, udendo l'appellativo rivoltomi da Alice, si rabbuiò. Avrei dato qualsiasi cosa per sapere cosa pensava, ma il suo viso si schiarì quasi subito.

“Allora, Enrique, avrai notato, a forza di cose, che la nostra Bella è un po' imbranata. O quantomeno lo era”, si corresse per via della mia espressione truce.

Lanciai ad Enrique un'occhiata di sottecchi e una velata minaccia di morte.

“E' in gamba. E penso che molti dei miei clienti vengano per lei”, le confidò. Arrossì leggermente, pizzicandomi il labbro inferiore fra i denti.

“Però sì, un po' me ne sono accorto”.

Lo fulminai.

“Solo all'inizio”, si scusò, “perché ti fissavo”.

A tutti sfuggì un sorriso, persino a Rosalie.

Jasper appoggiò con nonchalance il gomito sulla spalla di Edward.

“Era così imbranata che si tagliava persino con la carta”, aggiunse Jasper con un sorriso allegro sulle labbra, “te lo ricordi, Edward?”, chiese, rivolgendosi al fratello, che si era allungato in avanti e adesso poggiava nuovamente alla parete, lo sguardo fisso di fronte a sé. Avevo l'impressione che... non si fosse ritratto spontaneamente, che fosse stato l'impatto con il braccio di Jasper a farlo arretrare. Probabilmente ero soltanto paranoica. Ma l'occhiata fredda e insistente fra Edward ed Enrique non era frutto della mia immaginazione. Il ragazzo sosteneva con coraggio lo sguardo minaccioso del vampiro, ma la sua pelle a contatto con la mia vibrava. Le parole di Jasper, pronunciate con il sorriso, avevano riaperto una ferita non ancora rimarginata. Ricordare quell'episodio, tutto ciò che aveva comportato e che lo aveva seguito, era doloroso. Edward fu il primo a distogliere lo sguardo, lo rivolse al fratello, poi a me e in infine chinò il capo. Tanya lo affiancò, ancorandosi al braccio ora libero di Edward che fissò lo sguardo su di lei, nel suo viso lesse qualcosa che lo sconvolse e che mi appariva chiara come la stesse urlando: una disperazione profonda, una paura intimamente radicata.

“No, non lo ricordo”, rispose, occhi negli occhi con lei, il tono così basso che non avrei potuto udirlo se in casa non avesse regnato il silenzio.

Mi sentì male, molto male.

“Perché”, esitai, ripresi fiato e finsi un sorriso, “non saliamo di sopra, devo prendere le mie cose”. Non aggiunsi che avevo bisogno di stendermi.

Enrique annuì.

“E' stato un piacere conoscervi”, disse ad Esme, Carlisle ed Alice e rivolgendo l'ennesimo sguardo incerto ad Emmet.

“Scusateci”, aggiunsi.

 

Per l'ennesima volta mi ritrovai a fuggire su per le scale come si riemerge dal fondo del mare: in cerca di ossigeno. Condussi Enrique nella mia stanza e mi richiusi lentamente la porta alle spalle, ignorando il dolore. Quando mi voltai nella sua direzione, notai che mi stava osservando, un' espressione angosciata in viso, la stessa che indossava la sera in cui mi pregò di convivere, purché mi allontanassi dai Cullen.

Questa volta, però, non piangevo.

“E' stato... strano, imbarazzante”, constatai, lasciandomi scivolare sul letto.

“Io che cerco di ballare sono imbarazzante, questo è stato traumatico”, ribatté Enrique, accasciandosi supino al mio fianco, spalancando le braccia che occupavano quasi l'intera lunghezza del letto. “Esagerato”, dissi, colpendolo al petto.

“Sono serio. A parte Esme, Carlisle ed Alice... quello scuro, Emilio...”.

“Emmet”, lo corressi arrossendo, consapevole che il suddetto poteva facilmente ascoltare.

“Emmet, sì, è inquietante. E la sua ragazza sembra scolpita nel ghiaccio, come i putti che stillano punch”.

Risi fino alle lacrime, mentre una strana immagine di Rosalie prendeva corpo nella mia mente.

“Ti ucciderebbe se lo sapesse... ma è solo apparenza. I Cullen sono generosi e uniti. Farebbero qualsiasi cosa gli uni per gli altri e per chiunque si guadagni il loro affetto”.

“Infatti non intendevo dire che sono pericolosi per te, ma per me”, mi fece notare, con il sorriso sulle labbra. Ricambiai.

“Hai davvero cambiato idea? Pensi ancora che possano farmi del male?”.

“Sinceramente?”.

Annuì.

“Sì, lo penso ancora”, disse, sfiorandomi una guancia con le nocche, “perché gli sei affezionata. Perciò basta un gesto, una parola a farti star male. Quando ero molto piccolo avevo una fiducia incondizionata nei riguardi di mio padre. Lui era così affettuoso con me, con Berta, qualsiasi cosa gli chiedessi, lui conosceva la risposta. Crescendo, ho imparato che molto di ciò che diceva erano bugie. Mentiva con la stessa disinvoltura con cui chiunque altro avrebbe detto la verità. Qualsiasi fosse l'argomento, ciò che provava, ciò che faceva, i perché erano sempre bugie. E' quasi una forma patologica. Il fatto che continuasse a dimostrarsi affettuoso non rendeva più semplice mandarlo al diavolo. Quando ha aggredito Berta, dopo aver scoperto che stava insieme a Maia, ho avuto l'occasione di urlargli contro tutto ciò che avrei voluto dire in quegli anni, ma che il suo stesso modo di fare mi aveva bloccato in gola”.

“Ora sono libero, quasi che lasciarmi alle spalle l'affetto che provavo per lui avesse spezzato le catene”.

“E come ti senti, adesso che non lo ami più come prima?”.

“Oltre che libero? Vuoto. Perché amare qualcuno e poi perderlo, nel senso che smetti di amarlo, crea un immenso spazio vacante nel petto”.

“Perciò pensi che, nonostante tutto, abbia fatto bene a riavvicinarli?”.

“Sì, penso di sì. Però, una cosa te la devo dire. Lui... non lo sopporto”.

Sussultai, capendo immediatamente a chi si riferiva.

“Non mi piace il modo in cui ti guarda. Né il modo in cui guarda me. Quando sono arrivato mi ha....”, adagiai un dito sulle sue labbra, affinché smettesse di parlare, spaventata dall'idea che Edward o Tanya stessero ascoltando la nostra conversazione. Anche se una parte di me avrebbe voluto che concludesse la frase.

“A proposito, perché sei arrivato così presto? Di solito sei puntuale”.

Enrique arrossì di colpo, sfiorandosi la punta dei capelli.

“L'ho fatto di proposito”, ammise.

“Perché?”.

“In realtà, speravo che succedesse quello che è successo. Volevo... dovevo conoscerli. Accertarmi che fossero delle brave persone. Perché spesso il tuo sguardo si rabbuia, ti intristisci. Non che prima non accadesse, ma adesso succede più di frequente. Temevo che non mi dicessi la verità. Che ti imbarazzasse accettare la mia proposta, magari. Scusami”.

“Sei perdonato”, dissi, lasciandogli un bacio sulla guancia, “ma la prossima volta che fai una cosa del genere”, proseguì, sussurrando minacciosamente sulla sua pelle, “lascerò che ti sbranino”.

D'un tratto, le labbra morbide e umide di Enrique si adagiarono sulla pelle tesa del mio mento, mi sfiorarono il collo, dove i battiti accelerati del mio cuore sorpreso ticchettavano nella carotide. Le sue mani si ancorarono una alla mia vita, una alla base della schiena, e fu sufficiente una leggera pressione, considerando la totale assenza di resistenza da parte mia, perché entrambi ci ritrovassimo sdraiati sul letto. Il suo corpo caldo premeva contro il mio. D'istinto aprì le gambe, lasciando che si incastrasse perfettamente con la mia figura. Le sue mani grandi si insinuarono sotto la mia maglietta, sfiorandomi l'addome e le sue dita si ancorarono ai miei fianchi. Nel frattempo, le sue labbra, totalmente abbandonate contro le mie, premevano con una forza violenta ma delicata.

Intanto, vivevo un'esperienza extracorporea. Il mio corpo era lì, steso sul quel letto a una piazza e mezzo, consapevole di una serie di fattori come la morbidezza della pelle di Enrique, il suo calore, il suo desiderio, ma la mia mente era altrove: in una piccola stanza illuminata da una luce soffusa e distante. Accovacciata a gambe incrociate sulla moquette, di fronte a me, nella mia stessa posizione, Edward mi fissava con le sopracciglia aggrottate.

“Perché sei qui?”, mi chiese.

“E tu?”, replicai.

“Mi hai creato tu, io sono ancora al piano di sotto”, mi fece notare, negli occhi uno sguardo innocente e un po' incerto.

“E' vero, domanda stupida”.

Edward si limitò a sollevare le spalle.

“Allora?”.

“Non hai mai l'impressione che sia tutto dannatamente sbagliato? Non senti questo peso sul cuore?”, gli chiesi di getto.

“Cosa vuoi che ti risponda?”.

“Vorrei che mi dicessi che ti senti esattamente come me. Vorrei che mi dicessi che le cose cambieranno, che rimedierai. Vorrei che tutto tornasse a quel maledetto 13 settembre”.

“Però sai che non è possibile”, infierì.

“Lo so. Perché... perché hai detto che non ricordi quella sera. Perché? Non posso credere che tu goda nel vedermi star male”.

“Sai che non ho dimenticato. Ti ho già detto una volta che ricordo tutto quello che ti riguarda”. Mi fece notare con semplicità.

“Sono successe molte cose da allora”.

“Tutte sbagliate, lo hai detto tu”.

“Perché mi hai lasciata?”.

“Lo sai perché”.

“Non posso crederlo. Non puoi essere cambiato così, all'improvviso. Io leggevo i tuoi occhi e tutto ciò che provavi. Eri sincero quando dicevi di amarmi”.

“Allora, se ne sei certa, perché hai lasciato che andassi via?”.

“Perché... ho sempre pensato che tu meritassi di meglio. Io non sapevo cosa volevo, non sapevo chi ero, non sapevo cosa avrei potuto darti...”.

“Ora lo sai?”

“Sì, ora lo so, o almeno più di prima”.

“So quanto posso valere. Quanto posso essere forte. So cosa voglio, chi voglio essere”.

“Mi vuoi ancora?”.

“Dubito che potrei mai smettere di volerti. Tu sei l'unica cosa di cui sono stata certa fin dal primo istante. L'unica realtà su cui non ho mai avuto dubbi, la mia unica certezza. Quando sei andato via, ho dovuto costruirne altre. Ma tu sei rimasto”.

“Allora perché sei in quel letto con lui?”.

Edward si avvicinò di scatto a me, un movimento fulmineo, tale che non lo vidi neanche arrivarmi a dosso. Disteso sul mio corpo, fra le mie gambe, sulla moquette di quella stanza buia, mi sfiorava il viso come se fossi io la fonte di luce della sua vita.

“Tu lo sai, ma non vuoi vederlo”.

“Cosa?”, gli chiesi, con il cuore in gola e la pelle che bruciava dove le sue dita la stavano sfiorando.

“Senti?”, mi chiese.

Inizialmente non capì a cosa si riferisse, poi nella stanza risuonò una melodia nota.

“Sei tu? Questa è la tua musica. Ricordo quella canzone e cosa mi dicesti...”

 

La suono quando sono sconvolto dal dolore, devastato dalla solitudine, imbarazzato da me stesso, furioso, assetato. La suono quando vorrei uccidere e ogni muscolo del mio corpo brucia e io non desidero altro che diventare cenere”.

 

Pronunciammo all'unisono.

 

“E' quello che vorrei ora. Ora che lui ti sta toccando”, sussurrò al mio orecchio, lasciandomi un bacio alla base del mento.

Spalancai gli occhi. Enrique era ancora adagiato sul mio corpo, la stanza era illuminata dal sole al crepuscolo. Niente stanza buia, nessuna moquette, ma la melodia continuava a diffondere fra le mura, segno che non era stata frutto della mia immaginazione. Edward era sempre stato eccezionale, qualsiasi cosa facesse: imparare una lingua straniera, giocare a baseball.

Imbrogli”, gli dicevo, “sei un vampiro; è normale che tu sappia fare tutto”.

Forse hai ragione”, aveva ammesso alla fine, un giorno d'estate. “Ma c'è qualcosa in cui ero il migliore persino nella mia vita da umano”.

Cioè?”.

Suonare il piano. E' stata mia madre a insegnarmi. La sua musica era come uno specchio, rifletteva ogni sua emozione. Alcuni pezzi erano ricorrenti e avevo imparato a riconosce le emozioni legati ad essi: gioia, felicità, impazienza, rabbia...”.

Tu le somigli tanto. Non hai idea di come il tuo cuore traspaia dalla tua musica...”.

 

La suono quando sono sconvolto dal dolore, devastato dalla solitudine, imbarazzato da me stesso, furioso, assetato. La suono quando vorrei uccidere e ogni muscolo del mio corpo brucia e io non desidero altro che diventare cenere”.

 

Una strano disagio mi assalì, per via delle mani sconosciute di Enrique, di quella musica che si insinuava fra i nostri corpi, nell'intimità di una situazione che, se già prima mi era parsa sbagliata, ora mi risultava folle. Di nuovo, a farsi strada nella mia mente la sensazione che fosse tutto un enorme sbaglio, che niente era andato come doveva andare. Per non parlare dell'assurda confusione nella mia testa, dovuta per lo più al comportamento ambiguo di Edward. I ricordi di qualche strano episodio avvenuto in quelle settimane mi sfilarono davanti agli occhi, mentre le mani di Enrique si stringevano intorno all'orlo della mia maglietta e io, biasimandomi, immaginavo quelle dita che sfioravano i tasti d'avorio sfiorare me...

 

Scusa”, sussurrai. Mi ero rifugiata nella stanza della musica, i libri sotto braccio, immaginando di trovarla vuota come sempre. Ma Edward era lì, curvato sulla tastiera del suo pianoforte lucido, il brano alla sua nota conclusiva. Conoscevo ogni suo pezzo, alcuni avevo imparato persino a riprodurli, ad altri avevo assegnato un titolo. Edward, per sua stessa ammissione, non era mai stato bravo a intitolare i suoi pezzi; la maggior parte non aveva un nome, tranne, per ovvie ragioni, quelli dedicati ai membri della sua famiglia e a me.

Rebirth”.

Edward reclinò leggermente il capo nella mia direzione, senza smettere di suonare il brano appena iniziato, regalandomi un sorriso tirato. “La ricordi”.

Certo... sono stata io a darle un nome”. “Scusami, non volevo disturbarti. Pensavo non ci fosse nessuno. Io vado su...”.

Resta. Fammi un po' di compagnia”.

I suoi occhi chiari mi invitarono. Un invito a cui non seppi resistere. Mi accomodai al suo fianco, sulla panca di pelle. Restammo in silenzio per qualche minuto. Avrei voluto congelare il tempo a quell'istante. Perché non stavo bene, ma quanto meno ero serena e sembrava che persino Edward lo fosse, che il mondo avesse ripreso a ruotare in senso antiorario..

Cosa c'è”, gli chiesi d'improvviso.

Mi rivolse uno sguardo interrogativo.

Cosa c'è di sbagliato?”, continuai.

In realtà, mi aspettavo che Edward mi rispondesse un “nulla”, oppure che mi guardasse come se fossi pazza. Invece si strinse nelle spalle e mi fissò intensamente.

E' da parecchio tempo che ho l'impressione di sbagliare in continuazione, qualsiasi cosa faccia”, mi sorrise, “perciò non so risponderti”.

Quando hai capito di voler fare il medico?”, mi chiese, lanciando uno sguardo ai libri che tenevo in grembo, “l'ultima volta che ti ho vista tolleravi a stento il sangue e gli ospedali”.

Gli raccontai l'episodio. In effetti, era la prima volta che confidavo a qualcuno quanto avevo visto quel giorno in ospedale e come fossi capitolata.

Ho l'impressione di non aver fatto abbastanza. Per mio madre, per mio padre. E ora temo di non fare abbastanza per me”.

Edward scosse il capo. “Ti sbagli, Bella. Tu fai sempre il possibile, fino allo stremo delle forze. Non penso che sia questo ciò che provi. Piuttosto, credi di non essere abbastanza. Credi che tutto il resto sia più grande di te”.

Parli ancora di me?”.

Parlo di entrambi. In fondo, noi ci somigliamo, ma tu sei migliore di me. Perché, al momento di affrontare una situazione, riesci a tirar fuori una forza assurda. A volte, ho l'impressione che dentro di te divampi un fuoco inestinguibile. E tu non hai paura di consumarti, se questo può servire alle persone che ami, a riaccendere un fuoco che si è già spento. Non c'è altro che avresti potuto fare per tua madre. Piuttosto, qualcuno avrebbe dovuto proteggere te”.

A volte non riesco a non pensare che, se non fosse stato per me, lei e Phil starebbero insieme. E poi, subito dopo, ricordo a me stessa quanto poco lo sopportassi e mi convinco che, non fosse stato ora, prima o poi l'avrebbe lasciata ugualmente, perché non aveva il fegato di aiutare mia madre, né lo spirito per starle dietro, né meritava l'amore che lei è in grado di dare con uno solo dei suoi rari sguardi felici”.

Edward mi afferrò i polsi, adagiando le mie mani sulla tastiera. Il contatto fra le nostre pelli...

La musica è terapeutica. Ricordi ancora quello che ti ho insegnato?”.

Annuì, chiedendomi perché continuasse a toccarmi e perché mi parlasse in quel modo. Tutto, in quella stanza, l'atmosfera, il piano, il suo modo di fare ricordavano i giorni trascorsi a Forks, quando eravamo l'uno per l'altro e per nessun altro. Edward stava sconfinando. Non era più suo diritto accarezzarmi, chiedermi di me, come se non mi avesse spezzato il cuore in tanti, piccoli cocci, che da sola avevo raccolto e riattaccato, tentando di costruire qualcosa che non sarebbe mai stato perfetto o sano.

Le mie dita si mossero sui tasti, scansando le sue mani, con l'intento di colpire lui e guarire me. In fondo, era stato lui a dire che la musica è curativa. Le parole del testo mi riempirono gli occhi e, nel momento in cui Edward si irrigidì, compresi che aveva riconosciuto la canzone e ne aveva intuito il senso.

 

I've learned to live half alive.

Bella”, mi chiamò, sussurrando il mio nome, la voce incrinata.

 

Who you think you are,

running around leaving scars,

Collecting your jar of hearts,

and tearing love apart.

 

Bella”, mi chiamò ancora, anzi mi implorò.

 

It took so long just to feel all right,
remember how to put
back the light in my eyes
I wish I had missed
the first time that we kissed,
'cause you broke all your promises
And now you're back...

So don't come back for me,
don't come back at all

L'ultima nota stridette, risuonando nel silenzio tombale che regnava nella stanza. Mi sollevai di scatto, ma la panca non si mosse di un millimetro, vincolata dal peso di Edward. Afferrai i miei libri e mi allontanai in fretta, agganciando la maniglia come se fosse acqua ghiacciata e io stessi bruciando. Mi voltai. Edward era curvo sul pianoforte, le braccia erano distese lungo i fianchi, le mani aperte e inermi. Sembrava stesse reggendo tutto il peso dei suoi anni, senza riuscirci.

 

.......................

 

 

Sbuffai. Se fossi rimasta in quella stanza un secondo di più avrei fatto qualcosa di stupido. Probabilmente le avrei lanciato in testa il libro di anatomia, il più pesante fra quelli che avevo portato con me. Il pomeriggio era diventato il mio personale momento da masochista. Avrei potuto studiare in camera o nella stanza con il piano, ma io, naturalmente, preferivo dannarmi l'anima in quello stupido soggiorno. Conoscevo perfettamente le ragioni che mi animavano, oltre alla nota tendenza a farmi del male. Non sopportavo l'idea che lui fosse a pochi passi da me e che io non potessi vederlo, ascoltare la sua voce. Soprattutto, non tolleravo perderli di vista, perché ciò che avrei potuto vedere non sarebbe mai stato peggio di ciò che la mia mente arrivava a immaginare. Ogni giorno, perciò, alle tre o giù di li, mi impossessavo del divano, sparpagliandovi fogli, libri e blocchi di appunti. Quindici minuti più tardi, Edward e Tanya facevano la loro comparsa e lasciavano la casa soltanto diverse ore dopo, il momento più difficile della giornata. Il mio atteggiamento masochistico si era trasformato in una sorta di routine. E per quanto fosse doloroso, non avevo la forza di smettere.

Quella sera, Edward e Jasper giocavano a Mulino ormai da un pezzo. Nessuno dei due aveva ancora vinto una partita. Jasper, più che nel gioco, si impegnava nel tentare di dribblare il potere mentale di Edward, che non avrebbe mai mollato l'osso, dovesse farsi l'alba. Sullo “sfintere uretrale esterno”, la voce della bionda mi aveva agghiacciato. Si era avvicinata con eleganza ad Edward, cingendogli il collo e adagiando il mento sulla sua spalla, mentre lui si accingeva a muovere un pezzo.

“Siete due cocciuti. Nessuno vincerà mai la partita. Siete pari da un'ora e mezza”.

Edward corrugò le sopracciglia e strinse le labbra.

 

Ti piace essere il primo? Ti importa?

Se posso esserlo, sì. Non mi arrendo mai quando so di avere una possibilità.

 

Il suono che mi uscì dalle labbra fu tanto invasivo, rispetto al delicato silenzio che avvolgeva la stanza, che Edward sollevò il capo, il braccio a mezz'aria.

“Ti serve aiuto?”, mi chiese, uno strano sguardo negli occhi.

“Con l'uretra? No, non credo”, ribattei.

Edward sorrise. “Vorrei ricordarti che, mentre io mi laureavo per la terza volta, tu nascevi”, disse, con un tono di voce basso e profondo, abbandonando la pedina nel posto che aveva scelto per lei. Jasper ringhiò.

“Mi hai chiuso”, si lamentò.

“Ti ricordo che non hai mai concluso la specializzazione”.

“Causa forze maggiori”, rispose, alzando gli occhi al cielo.

“Non sei così bravo come pensi. Io so che non sei perfetto né invincibile”, puntualizzai.

Edward sorrise ancora. “Non sei mai riuscito a battermi a mulino”.

Il sorriso di Edward si spense, strinse gli occhi e mi indicò il posto di fronte a lui con un cenno della mano.

“Non puoi leggermi nel pensiero, rinuncia”.

“Facciamo così”, propose, “se vinci tu ammetterò che sei più brava di me e farò qualcosa che mi chiederai, senza protestare”.

“Se vinci tu?”, chiesi.

“Se vinco io... Se vinco io tu rimarrai qui”, gli rivolsi uno sguardo interrogativo, “fino alla fine della specializzazione”.

Strabuzzai gli occhi. “Cosa... perché? Ho promesso che sarei rimasta fin quando non aveste risolto la questione del vampiro. Non un secondo di più”. Ma, già mentre concludevo la frase, il mio tono di voce suonava incerto. Se non sopportavo che a dividerci ci fossero pochi metri, come potevo tollerare i chilometri?

“Lasciati aiutare. Rivolgiti a me, a Carlisle, permettici di ospitarti fin quanto non avrai trovato un lavoro, senza inutili proteste. Questa è casa tua”, concluse.

“No, non credo”, ribattei, con più tristezza di quanto avrei voluto.

“Allora, sei diventata una mammoletta?”.

Corrugai le sopracciglia, posai il libro e mi avvicinai ad Edward, posizionandomi di fronte a lui. Il gioco giaceva dimenticato sul tavolo del soggiorno, l'unico ostacolo che ci separava.

Edward raccolse tutte le pedine scure, spingendole verso di me. Ricordava che preferivo queste alle bianchi.

“Perché mi hai chiesto di restare?”, gli chiesi, posizionando il primo pezzo.

“Perché la mia famiglia temeva che, facendolo, ti avrebbe allontanato”, disse molto candidamente.

“E tu no?”, gli chiesi, senza guardarlo in volto, ma soffermandomi sulle sue splendide mani in movimento.

Edward rise, un suono triste e meraviglioso. “Dubito che potrei peggiorare ulteriormente la situazione con te. E' già critica così com'è. Sai come si dice: non può essere più buio che a mezzanotte”.

“Io dico di sì. E comunque, non mi rifiuto di chiedere aiuto a te o a Carlisle per fanatismo, lo faccio...”.

“Perché preferisci farcela con le tue forze. Perché sei cocciuta, orgogliosa e devi sempre arrivare alla fine. E devi arrivarci da sola”, concluse per me, spostando una sua pedina a fianco della mia.

“Perché non mi avete mai detto del patto e che i Quileutes sono licantropi?”.

Edward rimase sbalordito per un istante, poi batté le ciglia e rispose: “Mutaforma, non licantropi. Non l'ho mai fatto perché pensavamo fossero estinti”.

“Come lo hai saputo?.

“Jacob Black. A volte passavamo il pomeriggio insieme, poi è scomparso. Sono andata a casa sua, temevo che quel Sam Uley gli avesse fatto del male: lui era preoccupato. Pual si è arrabbiato e si è trasformato, Jacob lo ha seguito. Si sono scontrati nel giardino davanti casa di Jacob. Poi lui mi ha raccontato del patto”.

“Ti avevo avvertita di stare attenta ai lupi. Avrebbero potuto farti del male”.

“Avesse parlato qualcun altro”, risposi, rimuginando sulla prossima mossa da fare.

“Per me era diverso”, borbottò Edward.

“Dove sono le mie cose?”, chiesi, la bocca improvvisamente asciutta.

Edward si irrigidì e compresi che aveva capito a cosa mi riferivo. Non rispose.

“Dove sono, Edward? Le foto, i CD, i vestiti...”.

“Li ho io, tranne i vestiti. Quelli li ho ridati ad Alice”.

“Credevi che bastasse togliermi tutte queste cose per cancellare i miei ricordi?”, gli chiesi, con un groppo in gola.

“Pensavo di... semplificare il trapasso”, rispose, un po' incerto sul termine da adottare. Dalla sua espressione compresi che non era particolarmente orgoglioso della sua scelta.

“Trapasso?”, chiesi scetticamente, mentre un angolo della mi mente registrava il silenzio che regnava nella stanza e la totale assenza di filtri fra me ed Edward.

Edward strinse le sopracciglia, fissando lo sguardo sulle mie mani anziché sul mio volto. Posizionai la pedina.

“Perché Jacob Black? Pensavo lo avessi avvicinato soltanto per estorcergli qualche informazione sui freddi, non che ti stesse simpatico”, chiese Edward, lanciandomi uno sguardo ridente di sottecchi. La sua espressione, il suo mezzo sorriso, l'intensità dei suoi occhi mi fecero mancare il respiro per un millesimo di secondo, mi mossi perché nessuno notasse l'improvviso calore sulle mie guance. Ma, dato che il suo sorriso si allargò, dedussi che doveva aver percepito la mia esitazione.

“E' più simpatico di alcuni e meno di altri”, risposi enigmaticamente, muovendo la pedina alla mia sinistra, avendo intuito la sua strategia. Edward tamburellò le dita un paio di volte sul tavolo, segno che era in difficoltà.

“Perché sali sempre sugli alberi quando ti allontani per la caccia? Non lo facevi mai, preferivi correre che arrampicarti”, dissi, abbassando automaticamente il tono di voce per non sovrastare il silenzio.

Edward alzò di scattò il mento nella mia direzione. “Capita, quando trascorri un po' di tempo con le Amazzoni”.

“Sei stato in Amazzonia?”, chiesi, e questa volta fu il mio turno di strabuzzare gli occhi. “Perché le amazzoni”, chiesi, immaginando splendide donne dalla pelle ambrata e mezze nude. Mi mossi a disagio sulla sedia.

“Sono più simpatiche di alcune e meno di altre”. Lo fulminai.

Eliminai una delle sue pedine, riponendola rumorosamente fra le altre.

“Non ti ho mai vista inciampare”.

Alzai le spalle. “Secondo alcuni se cadi e ti rialzai, sei più forte di quanto eri prima di cadere. Io lo sono e a quanto pare ho guadagnato anche un certo equilibrio”.

“Vedo”, rispose Edward, una strana luce negli occhi.

“Perché eri sullo strapiombo?”, mi chiese.

Impiegai qualche istante per capire a cosa si riferisse e per realizzare che, probabilmente, Alice aveva visto la mia decisione di lanciarmi dalla scoglio.

Mossi la mia pedina.

“Rispondi alla domanda”, disse Edward in tono perentorio, congiungendo le mani sotto il mento.

“Svago, divertimento. Dovresti provare ogni tanto”.

Edward si irrigidì e serrò la mascella. “Giusto. A te piace il pericolo mortale. Se non rischi la vita non è una giornata normale”.

“Mi sa che hai ragione”, risposi con fare pensieroso.

“Quanto tempo sei stato in Amazzonia?”, chiesi, tanto per cambiare argomento.

“Un anno e tre mesi”, rispose.

Feci un rapido calcolo mentale. Sapevo che aveva sposato Tanya soltanto un mese fa, ma, se era rimasto in Amazzonia per tutto quel tempo, come era riuscito a frequentarla, a innamorarsi di lei?

Istintivamente, lanciai uno sguardo alla vampira bionda che ci fissava senza neanche sbattere le palpebre, le braccia incrociate. Le dita si aggrappavano al tessuto leggero della sua maglia bordò. Forse era lei fin dall'inizio e io ero stata soltanto la miccia che aveva innescato l'esplosione. Edward si proibiva di amare, ne ero sempre stata certa. Non potevo credere che, in cento e più anni di vita, nelle migliaia di luoghi che aveva visitato, non avesse incontrato la donna adatta a lui, un fantasma che aveva popolato i miei incubi più intimi. Sarebbe stato romanzesco: una piccola e finita umana incontra il meraviglioso vampiro nella sconosciuta cittadina in cui decide di esiliarsi.

“Sei felice?”, gli chiedo, a voce talmente bassa che, in un primo momento, penso non mi abbia sentito. Ma, quando alzo lo sguardo, la sua espressione dilaniata mi ferisce e risponde alla mia domanda.

Dio, avrei voluto urlare, perché sei ridotto in questo stato?

Quanti esseri umani aveva ucciso, per cadere in un baratro così oscuro e profondo?

“E tu, sei felice?”, mi chiese, chinando lo sguardo sul gioco. Edward fece l'unica mossa possibile, eliminando una delle mie pedine, così che a entrambi ne rimasero tre. Impasse. A meno che uno dei due non avesse commesso un errore, consegnando all'altro la vittoria...

Spostai la mia pedina in fondo, Edward allineò la sua alle altre due. Tris.

“Hai vinto”, constatai.

“Perché mi hai lasciato vincere?”, sospirò.

“Perché odi quando uno scontro finisce in parità. Perché nessuno vince e nessuno perde. Così tu non puoi sapere chi è stato il migliore, chi ha fatto peggio. Perché preferisci perdere. Perché non ti piacciono le situazioni di imapasse, in quanto comportano dei compromessi. Perché così, magari, sarai un po' più felice, visto che, a quanto pare, non lo sei affatto”, conclusi.

 

…....

 

I’m gonna swing from the chandelier, from the chandelier
I’m gonna live like tomorrow doesn’t exist
Like it doesn’t exist
I’m gonna fly like a bird through the night, feel my tears as they dry
I’m gonna swing from the chandelier, from the chandelier

 

Canticchiavo sottovoce, mentre mi accostavo al bancone, elencando ad Andrew le ordinazioni del mio tavolo. Una donna bionda, bassa e minuta, gli occhi eccessivamente marcanti dall'eyeliner, cantava Chandelier di Sia, tentando di imitarne la voce e incitando i clienti a fare lo stesso. Qualcuno, un po' ubriaco, le si avvicinava chiedendole una canzone. Era brava, ma io ormai odiavo le bionde.

Maia mi pizzicò un fianco. “C'è uno che ti fissa e ti giuro che, se fossi etero...”.

Risi. “Attenta che lo dico a Berta”.

“E io lo dico a Enrique”, ribatté, “penso che avrebbe motivo d'esser geloso. Non che gli altri due siano da meno...”, ridacchiò, continuando a osservare qualcuno alle mie spalle.

“Non dovresti fissare le persone”.

“Tanto lui non guarda me, guarda te”.

Incuriosita, mi voltai nella direzione indicatami dai suoi occhi. Maia non si lasciava andare a simili commenti facilmente.

Quasi mi prese un colpo.

Edward mi fissava, abbandonato sullo schienale, un braccio lungo il tavolo, la pelle scoperta dal risvolto della maglia che indossava, picchiettava i polpastrelli sulla superficie di vetro. L'altro braccio era adagiato sulla sua coscia. Non badai granché ad Emmet e Jasper, il suo sguardo catturava interamente la mia attenzione.

“Lo conosci?”, mi chiese Maia.

“Sì, e anche bene”.

La lasciai al bancone e mi avvicinai cautamente a loro: intorno ai vampiri il vuoto.

“Che succede?”, chiesi, ignorando il tremore alle gambe dovuto alla sua vicinanza. Era straordinario come il suo profumo riuscisse a darmi alla testa, nonostante l'odore pregnante di alcol.

Fu Emmet a rispondere. “Ero di guardia. Circa dieci minuti fa Alice mi ha chiamato. Ha visto qualcosa di strano e mi ha avvertito di stare in campana. E poi sono arrivati loro, come se avessi bisogno di aiuto. Come se qualcuno potesse... che so... battermi. Basto e avanzo a tenerti al sicuro”, disse, lanciando un'occhiataccia ad Edward che non lo badò.

“Se dovesse avvicinarsi lo prenderemo”, mi rassicurò.

“Pensate che finirà stasera?”, gli chiesi.

“Potrebbe, ma ti ricordo che hai perso una scommessa, quindi non puoi andar via”.

“Lo sai che me ne andrò, Edward. Devo solo trovare...”. La forza, avrei voluto dire.

“Un appartamento”.

Edward scosse il capo. “Perché sei così testarda”.

“Perché sei così idiota”, mi uscì.

Edward sorrise. “Non mi hai mai fatto tanti complimenti come in questi ultimi giorni”.

“Forse perché sei antipatico. Più del solito. Ironico, inopportuno...”.

“Forse potrei chiedere ad Enrique di ospitarmi, così non dovrò aspettare da voi fin quando non trovo un altro appartamento”.

Edward smisi di sorridere e si sollevò di scatto, ora mi fronteggiava, anzi mi sovrastava visti i quindici centimetri che ci separavano.

“Non mi piace”, ringhiò.

“Si era capito, Edward. In ogni caso non è affar tuo”.

“E' troppo vecchio”.

Mi scappò una sonora risata.

“Tu avevi centodieci anni quando ci siamo conosciuti e hai il coraggio di dirmi che lui è troppo vecchio? E poi io so badare a me stessa, penso di averlo ampiamente dimostrato”.

“Lo so”, disse, addolcendo l'espressione e il tono della voce.

“Un tempo non lo credevi”.

“Sì che lo credevo. Sei sempre stata forte. Ciò non toglie che avessi paura per te e che proteggerti fosse uno fra i miei primi pensieri. Istintivo tanto quanto lo è nutrirmi”.

“Non sono sempre forte... ho i miei limiti, alcune cose... non sono certa di riuscire a sopportarle”.

“So anche questo, Bella”, chiarì, percorrendo la lunghezza della mia guancia dalla tempia al mento con il dorso della mano. Mi scostai dal suo tocco e mossi qualche passo indietro: sentivo il bisogno di allontanarmi da lui. Un braccio mi circondò la vita. Enrique mi rivolse un'occhiata interrogativa. Scossi il capo, come a dire che stavo bene. Poi, fissò Edward in cagnesco. Il viso del vampiro si scurì ulteriormente.

Emmet esordì con la sua allegria. “Allora Bella, i nostri drink?”.

 

…...

 

Quando ebbi rivissuto anche l'ultimo ricordo degli avvenimenti di quei giorni, la consapevolezza che le mani che mi sfioravano non erano le stesse che suonavano la straziante melodia, mi turbò. Le mani di Enrique erano piacevoli, ma non elettriche; il suo corpo mi attraeva, ma non mi rendeva impaziente e frenetica; la sua voce era conosciuta, ma non sembrava provenire da una zona intima e profonda di me stessa. Non l'avrei riconosciuta fra mille altre, anche fossero trascorsi anni. Mi sollevai di scatto, infilandomi la maglia che, chissà quando, Enrique mi aveva sfilato. Mi sedetti sul bordo del letto. Allora la musica smise di vibrare nell'aria.

“Scusa”, sussurrò, sfiorandomi una spalla, “Sono stato affrettato”.

Scossi il capo. “Non penso sia il caso di continuare a… vederci”.

Sarebbe stato inutile continuare a “frequentarci”, negargli i contatti che avrebbe voluto e che mai sarei riuscita a concedergli. Avrei dovuto finirla lì, avrei dovuto.

“Non sprechiamo quest'occasione. Dammi una possibilità, Bella. Non ti chiedo altro”.

“Saresti tu a dovermi dare un'occasione, in realtà, ma non sono certa che sia ciò che voglio in questo momento”.

“Noi non siamo niente di ufficiale”, mi fece notare, sorridendo. “Continuiamo a non esserlo, almeno finché non ti farò cambiare idea su di me”.

“Sei sicuro di riuscirci?”.

“No. Ma se vinco, vinco te. Se perdo, avrò comunque guadagnato qualcosa...”.

“Cosa? Un cuore infranto?”.

“La certezza che non puoi appartenermi... e allora, forse, andrò avanti”.

“Comincia a rettificare. Io non appartengo a nessuno, solo a me stessa. Ma posso decidere di donare a qualcuno il mio cuore”.

Gli occhi di Enrique brillarono.

“Sarò io...”, sussurrò.

“Che gran regalo...”, replicai, con un certo scetticismo.

 

Quella sera non riuscì a pensare che ad Edward, benché mi fossi ripromessa di impegnarmi, di andare avanti e prendere in seria considerazione una vita di cui lui non avrebbe fatto parte. Scegliendo di non interrompere la “non ufficiale frequentazione” con Enrique davo una possibilità a me stessa. Altrimenti, sarei rimasta legata ad Edward e ad un futuro ormai irrealizzabile. Era egoistico? Molto. Ma Enrique sembrava disposto a rischiare, per me. In un certo senso, mi dava ciò di cui avevo bisogno.

Nonostante i miei buoni propositi, i miei pensieri continuarono a vertere su di lui, su Edward e su quanto, del suo modo di stare con Tanya, non mi quadrava. Lo avevo notato in quei giorni, perché i miei occhi, mentre leggevo e scrivevo, erano in parte sempre puntati su di lui. Era dolce, premuroso, protettivo e apprensivo. Era tutto ciò che avrebbe dovuto essere. Eppure, sembrava che recitasse una parte. Non un sorriso , né una carezza da parte sua. Parlavano raramente. Quante volte mi ero morsa il labbro per non commentare qualcosa che lo riguardava, come avrei fatto quando stavamo insieme. E, nonostante Tanya parlasse di lui venerandolo, molte cose le sfuggivano. Particolari che lo riguardavano e che io avevo appreso tra i banchi di scuola, nei gironi seguenti all'incidente del furgoncino, quando ancora Edward non mi rivolgeva la parola e trascorrevo le ore ad osservarlo.

Non sapeva che Edwardsi sfiorava la base del collo con l'indice se qualcosa lo irritava Non sapeva che, quando parlava di Rosalie, il tono della sua voce si abbassava, come stesse menzionando un cristallo fragilissimo.

Non sapeva che, quando era agitato, si passava ripetutamente le mani tra i capelli e quando era imbarazzato le sue pupille si dilatavano.

…………………………..

 

La mattina seguente mi svegliai pensando al mio esame. Di solito, nessuno dei vampiri mi sorvegliava, mentre ero in università; pensavano che chiunque mi stesse cercando, non mi avrebbe attaccato in pieno giorno, in un luogo pubblico. Si limitavano ad accompagnarmi, Alice o Emmet, gli unici a frequentare dei corsi, e a riaccompagnarmi. Mangiai qualcosa in fretta, ignorando gli sguardi inquisitori di Alice, in casa come in macchina.

“Oggi non verrò a lezione, sai, il sole. Dovresti finire verso le undici, perciò passo a prenderti a quell'ora”, mi disse.

“Pensi che abbia sbagliato? Pensi che dovrei andare a letto con lui?”.

“Non devi farlo perché pensi di doverlo fare, perché pensi che sia l'unico modo per lasciarti E... il passato alle spalle. No, penso che, se i motivi sono questi, non dovresti farlo”.

“Bella”.

“Lui… Lui… stava impazzendo. Ha fatto star male Jasper... è stato orribile. Non che abbia dato mostra di qualcosa, figurati, deve proteg...”.

“Chi... impazziva?”, chiesi, conoscendo la risposta.

“Sai chi. Edward”.

Mi assalì la rabbia.

“Perché dovrebbe? Con quale diritto. Dio... Non capisco nulla. Ci sono così tante cose che non hanno senso”.

“Non spetta a me parlartene. Ora vai, o arriverai in ritardo”.

Scesi dall'auto, furiosa.

L'esame fu automatico, quasi non mi richiese di pensare. Lo terminai in fretta e, dopo aver trascorso quindici minuti a ruotare la penna tra indice e pollice, decisi di consegnare e uscire. Erano appena le dieci.

Il mio telefono squillò: Enrique.

Decisi di rispondere. Almeno questo glielo devo, visto che non ero molto brava a rispettare i miei propositi.

“Ehi”, esordì.

“Ciao”.

“Sei arrabbiata?”, mi chiese.

“Non con te. Con Alice... e...”.

“Penso di aver capito”.

“Ho immaginato che avresti finito in anticipo e... volevo sentirti, assicurarmi che stessi bene e che è tutto... a posto”.

“Tranquillo, io sto bene. E' tutto come prima. Non ho...”.

Le parole mi morirono sulle labbra, il cellulare mi scivolò dalle mani, sbatté violentemente sull'asfalto e si spense.

Il vampiro.

Qui.

In pieno giorno, mentre decine di studenti gli sfilavano accanto. Gli occhi, neri come il carbone, l'unica differenza rispetto al volto che ricordavo e che riconobbi, nonostante avesse il cappuccio alzato. Indossava un paio di jeans puliti, scuri e anonimi e una felpa blu notte. Iniziò lentamente ad avvicinarsi, e man mano che la distanza fra di noi si assottigliava mi mancava il fiato, al pensiero delle sue dita intorno al mio collo. Avrei dovuto urlare o correre, entrare nell'istituto e confondermi con gli altri studenti. Avrei dovuto afferrare il telefono e comporre il numero di Alice. Ma non riuscì a muovere un passo. Era stato imprudente, eppure qualcosa mi faceva pensare che, in realtà, fosse soltanto molto furbo. Sapeva che le mie guardie del corpo non sarebbero state lì, non a quell'ora, non di giorno. Mi fu di fronte e io reagì automaticamente: mi voltai, pronta a scattare, ma mi afferrò e mi strinse tra le braccia in quello che, visto dall'esterno, sarebbe potuto apparire come un abbraccio molto affettuoso. Mi costrinse a soffocare il volto nella sua felpa che sapeva di bruciato e affondò il naso fra i miei capelli, sussurrandomi all'orecchio: “Non muoverei un muscolo, fossi in te. E non fiaterei. Se urlerai, ti trascinerò ugualmente via di peso, non m'importa che qualcuno possa vedermi, sono immortale e veloce. Se qualcuno dovesse avvicinarsi, lo ucciderò, neanche questo costituisce un problema per quanto mi riguarda. Abbiamo un po' di vantaggio sui tuoi amici, perciò, se adesso vieni con me, da brava, nessun umano si farà male. Annuisci se hai capito”.

Annuì. Mentre la mia mente vagliava tutte le possibili alternative. Come ne uscivo? Mi maledissi, perché ero debole e umana, mentre i miei nemici erano forti e immortali. Mi allontanò di peso, mentre io fissavo il mio telefono, morto e riverso a suolo, come sarei stata io di lì a poco. Fino ad allora, la mia peggiore preoccupazione era stata Tanya Denali in Cullen, ma di fronte alla mia vita che minacciava di spegnersi, mi parse una sciocchezza. Avrei passato un pomeriggio di shopping con lei se fossi riuscita a sopravvivere. Quando fummo sufficientemente lontani da occhi indiscreti, il vampiro mi lasciò andare. “Scusa”, disse, guardandomi negli occhi per un minuto buono, poi sollevò il braccio, mi colpì alla nuca e io caddi.

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Capitolo 7
*** 6) 812 Medford street(parte prima) ***


Buonasera a tutti! Sono in ritardo, lo so... ma solo di un giorno : ) Comunque, capitolo breve rispetto agli altri, o almeno penso, ma vorrei sottolineare che è soltanto la parte prima!! Importante... io non credo che una donna debba avere necessariamente bisogno di un salvatore, un eroe. Credo nell'intelligenza e nelle capacità.... ed è questo che voglio trasmettere attraverso i miei personaggi... forse non lo vedrete in questo cap ma sicuramente nel prossimo. Però volevo puntualizzarlo. LE DONNE NON HANNO BISOGNO DI ESSERE SALVATE, SAPPIAMO CAVARCELA BENISSIMO DA SOLE, quindi non aspettatevi(almeno non subito ; ) Edward sul cavallo bianco e con l'armatura lucente). Come sempre ringrazio chi ha lasciato una recensione, siete sempre molto carine e mi piace che la storia vi coinvolga. Ringrazio chi ha solo letto e chi ha inserito la storio nelle seguite, ricordate e preferite. Vi lascio al cap... per il prossimo vi avverto... ci vorrà il defibrillatore!

6) 812 Medford Street(parte prima)

A risvegliarmi fu un odore dolciastro e invitante.

Dischiusi le palpebre e le mie ciglia accarezzarono qualcosa di morbido e spesso, contro cui era sepolto il mio viso: il cappuccio di una felpa. Una felpa blu.

Allora ricordai quanto accaduto ad Harvard e compresi dove mi trovavo. Le mie braccia erano ancorate attorno al collo dello sconosciuto. Con una mano mi stringeva l'incavo del ginocchio, con l'altra l'avambraccio affinché non perdessi la presa sulla sua schiena, vista la velocità della sua corsa. Mi divincolai, strattonandolo. Ogni mio gesto risultava talmente debole se confrontato alla sua forza che il tentativo apparse ridicolo anche a me. Se fossi caduta a quella velocità mi sarei rotta l'osso del collo, ma se non fossi riuscita a fuggire sarebbe stato lui, o chi per lui, a uccidermi. Forse, una volta fermi avrei avuto un'occasione per allontanarmi, finché fossimo stati in moto non avevo alcuna chance di sfuggirgli.

“Mi hai colpito”, ringhiai fra i denti, ora che il dolore alla nuca iniziava a infastidirmi.

Non rispose e, d'altronde, non potevo aspettarmi che lo facesse. Anziché affluirmi alle guance per la stupidità della mia affermazione, il sangue sembrò abbandonare definitivamente la pelle del mio viso. Ero sbiancata.

Le sue spalle erano immobili, non respirava, i suoi lineamenti contratti; il suo intero corpo era rigido. Capì all'istante: il mio sangue. Da quanto tempo mi stava trasportando? Troppo? Avrebbe perso il controllo prima ancora di consegnarmi? Una piccola parte di me attendeva di scoprire chi fosse il suo emissario. Poi mi accorsi del rivolo di sangue che gocciolava dalla mia fronte e mi affrettai a ripulirlo con l'orlo della manica, che nascosi accuratamente sul mio petto. Dovevo aver sbattuto la testa cadendo e l'idiota non aveva pensato di afferrarmi prima, se non altro per evitare che iniziassi a sanguinare. O forse sperava di liberarsi di me.

Trascorremmo diversi minuti in silenzio, lui correva, io tamponavo la ferita.

“Stiamo per arrivare”, mi comunicò.

“Dove”, sussurrai.

“Solo una cosa - proseguì - sta dietro di me”, disse.

“Chi ti manda? Cosa vuoi da me?”.

“Cosa ti fa credere di potermi parlare?”, mi chiese con estrema calma.

“Forse il fatto che sei una persona molto cordiale”, risposi, ironica.

Si arrestò di colpo. In un istante mi ritrovai appesa per il collo ad un albero, le schegge della corteccia mi ferivano, le sue dita arpionarono il mio collo. Mi mancò l'aria, ancora. L'idea di non poter respirare, mi spingeva ad inspirare ed inspirare.

“Lasciami”, rantolai.

“Primo”, iniziò lui, “io non sono una persona”.

“Secondo, non credere che non possa farti del male, molto male, in qualsiasi momento. Potrei spezzarti una gamba, potrei strapparti i capelli o le dita, uno a uno”.

“Perché non mi uccidi e la fai finita?”, rantolai.

Il vampiro alzò gli occhi al cielo.

“Chiudi la bocca”, ringhiò, lasciandomi andare. Caddi in ginocchio e mi rannicchiai sul tronco, sfiorandomi la gola con le mani.

Il vampiro mi afferrò per il braccio e mi rimise sulle spalle. Non parlai più.

 

Riuscivo a vedere poco o niente di ciò che mi circondava, per lo più chiome d'albero sfocate, ma a un certo punto ebbi l'impressione che stessimo girando in tondo. Capì immediatamente il perché, avevamo adottato una strategia simile quando dovetti fuggire da James: voleva confondere le proprie tracce olfattive. Sapeva che i Cullen, non appena avessero notato la mia assenza, gli sarebbero stati alle calcagna. Smisi di contare i minuti, sempre più ansiosa, pensando a un modo per mettermi in contatto con Alice. Ma affinché lei mi vedesse, avrei dovuto prendere una decisione... più facile a dirsi che a farsi nella circostanze in cui versavo.

Poi, la sua corsa rallentò, gli alberi iniziarono a diradarsi e la foresta lasciò il posto alla città. Mi aggrappai a lui con più forza, quando spiccò un salto e iniziò a muoversi da un tetto all'altro. Il sole era ancora alto, come nelle prime ore del pomeriggio. Deglutì, la bocca secca per la tensione. Chiunque fosse il mio nemico, era sempre più vicino.

Non riuscì a intravedere alcun cartello stradale che potesse far luce sulla città in cui mi aveva trascinata. D'un tratto balzò dal tetto e riprese a correre, la zona completamente deserta. Quando, dieci minuti più tardi, si fermò definitivamente, allentò la presa su di me, lasciando che cadessi malamente dalla sua schiena. Ruzzolai a terra, sbattendo con il sedere al suolo. Dopo il primo istante di sconcerto e alleviato il dolore, alzai lo sguardo di fronte a me e mi sentì piccola, insignificante.

 

I loro sguardi, gli sguardi color rubino dei vampiri che mi fissavano, prosciugavano la vita dal mio corpo. Di fronte ai miei occhi, un casolare abbandonato. Lo spiazzale, qua e là coperto da radi ciuffetti d'erba, era occupato da un gruppo di vampiri non omogeneo. Al centro, due ragazzi poco più che ventenni si fronteggiavano. Avevano interrotto la loro danza di pugni e calci dopo il nostro arrivo. I loro occhi spiritati e le loro narici dilatate non promettevano niente di buono. A qualche metro di distanza, due vampire apparentemente giovani avevano disegnato in viso il medesimo sguardo. Abbandonato il combattimento in cui erano impegnate, mi fissavano. Tutt'intorno altri dieci-undici vampiri, ma a differenza dei primi indossavano abiti nuovi e puliti, non ridotti a brandelli. Sembravano annoiati, qualcuno coordinava gli scontri, qualcun altro assisteva e un gruppetto parlottava fra sé, ma ora tutto era fermo e regnava il silenzio. La vampira in fondo allo spiazzo sollevò le labbra ringhiando fra i denti e annusando l'aria come un animale a caccia. I due giovani vampiri al centro dello spiazzo la imitarono, muovendo i primi passi verso di me. Eppure, io non riuscivo a distogliere lo sguardo da lei. Non erano gli indumenti luridi, né i capelli in disordine a renderla meno donna, ma la brutalità nei suoi occhi, l'assoluta mancanza di umanità. Sarei dovuta diventare come lei? Era quello il futuro che avevo scelto per me? Era questo che Esme, Rosalie ed Alice avevano vissuto prima di diventare le Cullen che io conoscevo?

Quando la vidi fiondarsi su di me, ero così presa nei miei pensieri, da non sollevare neanche un braccio di fronte al viso per pararmi il colpo. La vidi serrare la mascella a un paio di centimetri di distanza dal mio sguardo allucinato, i denti superiori si abbatterono su quelli inferiori provocando lo stesso frastuono dell'acciaio che colpisce l'acciaio, il veleno le colò in un rivolo sulla labbra e il mento. Il cristallino dei suoi occhi era venato dall'intreccio di capillari rossi, anche se di un colore più chiaro della sua iride. Era bellissima, priva di imperfezioni. Era un mostro.

Capì di essere ancora viva grazie allo sconosciuto vampiro che le aveva stretto i polsi fra le mani, inchiodandola al suolo. Qualcuno, un uomo, la allontanò da noi, benché continuasse a divincolarsi. Poi iniziò ad urlare, un suono stridulo e agghiacciante, come di unghie che grattano la superficie di uno specchio. La vampira prese a stringersi i capelli fra le dita.

Era disperata, perché voleva il mio sangue, ma non poteva averlo.

“Portala via di qui”, disse l'uomo, rivolto al mio rapitore. Lui annuì.

Mi afferrò bruscamente, trascinandomi all'interno del casolare, lo sguardo assetato dei vampiri mi seguì anche all'interno. Le gambe reggevano a malapena il mio peso, tanto erano instabili e tremanti.

“Non fai più domande?”, mi chiese, un ghigno sul viso. Lo ignorai.

“Dove mi stai... dove mi porti?”, chiesi.

“Mi pareva strano...”. “Per ora rimarrai qui dentro, non tentare di scappare. Ammesso che riusciresti a farlo, hai visto cosa ti aspetta là fuori. Credimi, sei molto più al sicuro qui dentro. Hai un profumo troppo buono per... gironzolare in presenza di neonati”.

Evitai di chiedergli a chi si stesse riferendo con il termine “neonati”. Mi annusò i capelli, facendomi rabbrividire, poi mi spinse all'interno di una stanza e chiuse la porta a chiave, come se fosse necessario. La stanza era piuttosto buia, c'era soltanto una piccola finestra da cui trapelava un filo di luce, il necessario per riuscire a scendere la scala senza inciampare. Il cigolio dei gradini non era l'unico rumore, insieme a un gocciolio costante. Percepivo dei respiri, alcuni anche piuttosto pesanti. Tremai, a lungo, pregando che non si trattasse di altri vampiri e che non avesse deciso di darmi loro in pasto. Ma, alla luce di ciò che vidi una volta sceso l'ultimo gradino, lo avrei preferito. Nell'aria aleggiava un inteso odore di pipì stagnante, come se qualcuno avesse urinato sul pavimento e di sudore. Mi sentì afferrare per la caviglia e sobbalzai.

“Hai acqua, hai acqua con te?”. Mi ritrassi. “No... no”, sussurrai.

Ma lei, occhi enormi e un viso pallido, continuava a serrarmi la caviglia come se non avesse realmente ascoltato la mia risposta. Sciolsi la presa delle sue dita, allontanandomi lentamente dalla donna. Il seminterrato era abitato. Non riuscivo a capire con esattezza quante persone ospitasse, era troppo buio. Una mano mi afferrò il polso. Chinai lo sguardo e intravidi nella penombra un viso giovane(come, d'altronde, lo erano tutti quelli che avevo avuto modo di incrociare, nessuno che avesse più di trent'anni). “Siediti”, sussurrò.

Mi lasciai cadere sfinita accanto a lei, attendendo che continuasse a parlare, ma non lo fece. Il suo viso era circondato da un caschetto, ma non avrei saputo dire se i suoi capelli fossero biondi o castani. “Chi sei?”, le chiesi.

“Arianna”, rispose, con la bocca impastata e compresi perché non aveva continuato a parlare: non riusciva a farlo, era assetata.

“Bella. Da quanto tempo siete qui sotto?”, sussurrai.

Indicò prima se stessa, poi sollevò due dita.

“Due settimane?”.

“Alcuni sono qui da più tempo...”, sospirò.

“Perché...”, chiesi, più a me stessa che a lei.

Arianna sollevò le spalle, e quel piccolo gesto le costò un grande sforzo.

“Da quanto tempo non bevi?”, le chiesi, abbassando ancora il tono di voce.

Arianna sollevò una mano, mostrandomi le cinque dita. “Non mangio da quando sono qui”.

Deglutì, senza riuscire a trattenere un fremito, non di paura ma d'orrore e di rabbia. Mi strinsi le gambe al petto, chinando la testa sulle ginocchia e serrando le palpebre, illudendomi che bastasse questo a cancellare ciò che mi circondava. Passarono minuti, lunghi, interminabili, che trascorsi a tremare. Il mio corpo non rispondeva ai comandi, per quanto mi sforzassi di mantenere il controllo, riuscivo a pensare soltanto alla paura, al dolore, al volto di Arianna, così debole che a stento respirava, ai suoi occhi spenti e bassi, agli uomini e alle donne abbandonati nel loro sudiciume, lasciati morire di fame e di sete, chiusi in gabbia come animali, ma trattati peggio delle bestie. Sarebbe finita così? Avevo combattuto inutilmente il mio dolore, l'apatia, la debolezza di mia madre, per morire accecata dal terrore e dalla rabbia? Avevo dei desideri, dei progetti per la mia vita e non avrei permesso a nessuno di strapparmela dalle dita.

Io ero una combattente.

Sollevai il mento dalle ginocchia, decisa a guardarmi intorno. Il sole stava calando, perciò la stanza, già buia, era completamente oscurata. Arianna al mio fianco dormiva, sentivo il suo respiro lungo e profondo accarezzarmi i capelli. Dall'esterno non arrivava alcun suono. Feci mente locale. C'era qualcosa che, fin dal primo istante in cui avevo messo piede nella stanza, aveva attratto la mia attenzione. Qualcosa che poteva essermi molto utile.

Clank...Clank...Clank...

Acqua...

Acqua che gocciolava insistentemente.

Acqua. Mi sollevai, le gambe intorpidite, attenta a non svegliare Arianna e a non inciampare addosso a qualcuno. Gattonai, inseguendo il suono. Qualcuno mugolò al mio passaggio, ma non gli badai. Palpeggiai il muro al mio fianco, per rimettermi in piedi, certa che la fonte del rumore fosse davanti a me. Percepì qualcosa di freddo e duro sotto le dita, una tubatura e lo sbocco di quello che, una volta, doveva essere un rubinetto. E poi la trovai, la perdita; sentì l'acqua sui polpastrelli. Ritornai sui miei passi, scuotendo Arianna per le spalle. Lei si svegliò di soprassalto, il respiro ansante. “Hai qualcosa di pesante, qualsiasi cosa”. Non potevo vederla, ma ero certa che mi stesse fissando in preda allo shock, tuttavia, rispose: “La tazza”. E mi porse una sorta di pentolino, di quelli in cui metti a riscaldare il latte. Lo afferrai e tornai alla tubatura. Tolsi il maglioncino che indossavo, avvolgendolo intorno all'oggetto, per attutire il rumore che avrebbe provocato, sperando che loro non potessero sentirmi. Il primo colpo vibrò in ogni parte del mio corpo, fin nelle ossa. Qualcuno rantolò, qualcun altro lanciò un urlo acuto e perforante. Continuai a sbattere e sbattere ripetutamente, fin quando non sentì l'apertura dilatarsi ulteriormente e l'acqua, seppur poca, fluire tra le mie dita. Sciacquai il pentolino e lo riempì, dopodiché mi accovacciai accanto ad Arianna.

“Bevi”, la incitai e lei non se lo lasciò ripetere due volte.

“Gli altri... gli altri”, rantolò, dopo aver trangugiato tutta l'acqua. Annuì, anche se non poteva vedermi e mi accucciai al centro della stanza. “Acqua”, chiedeva qualcuno e riconobbi la voce della donna che mi aveva afferrato la caviglia.

“Fatevi avanti, uno alla volta”, sussurrai.

Dieci. Undici.. Tredici... Quindici.

Le persone rinchiuse nel seminterrato erano in tutto quindici. Otto donne. Sette uomini.

Avvolsi la tubatura con un manica del maglione, per evitare che fuoriuscisse acqua e attraesse qualcuno di loro. Poi mi lasciai cadere accanto ad Arianna, che sembrava aver ripreso un po' di vita. “Grazie”, sussurrò, la voce meno rauca. Mi limitai ad annuire, anche se forse non poteva vedermi.

“Non è che adesso tirerai fuori anche un bel panino imbottito?”, mi chiese, il sorriso nelle sue parole.

“No, non credo. Mi dispiace”, risposi, sorridendo anch'io e poggiando la testa al muro, stanca. “Come sei finita qui?”, mi chiese Arianna, rivelandosi molto loquace. Forse, semplicemente, mi ero guadagnata la sua fiducia.

“Ero in università, mi è... sbucato davanti, mi ha dato un colpo e mi sono risvegliata qui”, raccontai sinteticamente, evitando di pronunciare la parola vampiro o il fatto che già lo avessi incontrato.

“E tu?”, le chiesi.

Arianna sospirò. “Stavo lavorando. Sono impiegata in un negozio di scarpe a Savanna. Quella sera, una mia vecchia conoscenza è entrata nel negozio; pensavo fosse una casualità... Mi ha chiesto di andare a bere un caffè, mi ha fatta allontanare dalla città e poi è arrivato lui. La stava minacciando, lei pensava sul serio che l'avrebbe lasciata andare se avesse avuto me, in realtà ci ha prese entrambe”. Mi guardai intorno, automaticamente, come se potessi riconoscere il volto della vecchia conoscenza di Arianna fra gli altri.

“Non c'è più”.

“Cosa?”, chiesi.

“L'hanno portata via qualche giorno fa?”.

“Portata via... in che senso?”.

“Ci rinchiudono qua dentro per una, due settimane, penso che decidano in base alla stazza e alla resistenza fisica. John, per esempio, è qui da tre settimane, senza cibo, prima di oggi non beveva da una settima”.

“E poi?”.

“E poi... nessuno di noi lo sa. Forse ci uccidono o ci torturano... si sentono urla strazianti per giorni”.

Il sangue mi gelò nelle vene. Edward, a suo tempo, mi aveva parlato della trasformazione, quando premevo affinché mi rendesse immortale, timorosa del tempo che passava. La trasformazione in vampiro era estremamente dolorosa, e lunga, all'incirca tre giorni. Il soggetto urlava e si dimenava, come se avesse il diavolo in corpo. Solo Carlisle era stato in silenzio. Ma perché... perché affamare tutte queste persone prima di trasformarle? E se dietro a quanto stava accadendo c'erano Victoria o Laurant, cosa poteva spingerli a creare dei vampiri e io cosa c'entravo in tutto questo? In che modo avrei potuto aiutare queste persone? Se anche fossi riuscita a “mettermi in contatto” con Alice, avrei potuto trascinare la famiglia Cullen in questa situazione, considerata l'inferiorità numerica?

Poi, ripensai alle parole di Arianna. “Savanna? Vuoi dire che ci troviamo a Savanna?”.

“No, non credo. Abbiamo viaggiato a lungo, in macchina, prima di arrivare qui”.

“Tu sai chi sono?”. Arianna scosse il capo. “Penso che la domanda che dobbiamo porci è... cosa sono? So che può suonarti strano, ma questi... questi non sono esseri umani. Alle volte si sentono degli strani rumori, tonfi che fanno tremare il soffitto, ruggiti di animali, gemiti. Di giorno è... inquietante. Di notte.. penso che escano”.

“E nessuno ha mai tentato di fuggire?”, chiesi sconvolta.

“Guardaci, Bella. Siamo stanchi e terrorizzati, nessuno di noi muore dalla voglia di imbattersi in uno di quei cosi”.

In un certo senso, la capivo. Ma per me le cose erano diverse, nel bene o nel male, io conoscevo i vampiri, i loro punti deboli, il sangue e il fuoco, la loro forza e in parte, conoscevo anche il loro obiettivo. La notte arrivò in fretta, lo capì dal calo di temperatura e dal frastuono che si scatenò all'esterno delle mura. Arianna si strinse le ginocchia al petto; tremava come una foglia. Presi a dondolarmi avanti e indietro, nel tentativo di scaldarmi e chiusi gli occhi, provando a immaginare che quei ruggiti e quei tonfi fossero soltanto i giubilei festosi di Emmet, Jasper ed Edward di ritorno dalla caccia. Edward. Edward. Mi ripetevo il suo nome nella mente, per quanto fosse sciocco e irrazionale, inopportuno. Riuscivo soltanto a ripetere il suo nome e a cercare il suo volto, mentre il buio mi oscurava i pensieri e le speranze, tentavo di ricordare il suo odore pulito mentre la puzza mi torturava le narici e faticavo a respirare. Mi appisolai. Fu Arianna a svegliarmi e le voci inquiete degli altri. “Respira”, diceva qualcuno, “respira”. E qualcun altro: “Zitto, zitto, ti sentiranno”.

Un suono strozzato e brutale risuonava nella stanza buia, gattonai in direzione di quel rumore.

“Cosa sta succendo?”, chiesi.

“Se non la smette, ci uccideranno tutti”, sbraitò un uomo al mio fianco.

“Sta soffocando, ha bisogno di aiuto”, mugugnò una ragazza, piangendo.

Mi mossi, ma in realtà il mio corpo scattò di volontà propria. Raggiunsi l'uomo e percepì immediatamente odore di sangue. Era buio, maledettamente buio. Mi maledissi. Avrei voluto essere un vampiro, non come i mostri che ci avevano imprigionato. Avrei voluto essere Carlisle. Avrei voluto avere le sue conoscenze, la sua vista, le sue competenza. Purtroppo, non le avevo, perciò avrei dovuto arrangiarmi.

“Che cosa è successo?”, chiesi ai corpi che mi affiancavano.

“Ha farfugliato per tutta la notte e poi a un certo punto ha iniziato a... soffocare”.

Deglutì e mi avvicinai all'uomo, tastandogli le labbra e trovandole umide di... sangue, confermando i miei timori. L'uomo si era morso la lingua, probabilmente in maniera volontaria, ma non potevo... non potevo lasciarlo morire.

“Respira”, ringhiai, posizionandomi alle sue spalle e operando la manovra di Heimlich. L'uomo iniziò a sputare sangue. Quando smise di rantolare lo costrinsi a chinare il capo, affinché il sangue non andasse ad ostruirgli le vie respiratori. “Qualcuno ha dei fazzoletti, tovaglioli, stoffa... puliti?”, chiesi. Nessuna risposta.

“Rispondete?”, urlai, tentando di tenerlo fermo.

Arianna mi raggiunse. “Tieni, prendi questi... ho solo questi ma sono puliti”.

“Bagnali”, le ordinai, sperando che l'acqua fredda potesse attenuare l'emorragia.

“Non arrenderti, respira”, lo pregai, mentre riprendeva a gemere.

Arianna mi porse i fazzoletti bagnati. Mi aiutò a tenerlo fermo, mentre lo costringevo ad aprire la bocca bagnandogli la ferita.

Non sarebbe bastato, non poteva bastare e loro avrebbero sentito l'odore. Gli applicai le garze improvvisate. Respirava a stento.

“Vi porterò via di qui, ma respira”, lo pregai ancora. L'uomo lasciò andare il capo sulla mia spalla, stringendomi le braccia così forte da farmi sperare che potesse sopravvivere. Ma lui non voleva questo. Lui voleva morire.

“John”, singhiozzò Arianna.

“John”, che non mangiava da tre settimane.

Poi la porta si aprì e i suoi gemiti si trasformarono in urla represse, il sangue gli gorgogliò nella bocca, mi macchiò la maglia, le mani e riprese a soffocare. La porta aperta introdusse la luce necessaria perché potessi vederlo in viso. Era giovane, John e aveva lunghi capelli biondi che teneva legati in un codino sulla schiena ampia. Non mi voltai, perché sapevo chi avrei visto. Fu lui ad afferrarmi per il braccio costringendomi ad alzarmi, benché le mie mani fossero ancorate al corpo di John. “Lascialo stare, lascialo stare”, ringhiai fra i denti, ma non mi badò di uno sguardo. Mi scansò, sollevando John da terra e fissando il sangue che gli gocciolava giù dal mento. “Cammina”, disse e impiegai un minuto buono per capire che si rivolgeva a me. Mossi qualche passo all'indietro, poi il vampiro mi spinse su per le scale, trascinandosi dietro il corpo quasi esanime di John. Continuai a camminare, fin quando non sentì più il corpo di John strisciare sul pavimento.

Mi voltai. Il vampiro stava esaminando il viso di John, un'espressione disgustata sul viso.

“Avrei detto che saresti durato di più”, deglutì.

“Perché... perché fate questo? Cosa volete da loro, sono semplici esseri umani”. Il vampiro si voltò nella mia direzione, lasciando che la testa di Jonh ciondolasse a pochi centimetri dalla sua spalla.

“Dovresti farti una doccia, rischi di attirare qualche attenzione indesiderata”, disse, poi le su mani si strinsero intorno al volto di John, le ruotò di 180 gradi e il suo corpo si accasciò sul pavimento. Urlai... urlai a squarciagola, ma il suono non sembrava provenire dal mio corpo.

Il vampiro mi trascinò di forza lontano da quella stanza, senza che tentassi di opporre resistenza, fin troppo scioccata da ciò che avevo visto. I suoi occhi... si erano rivoltati all'indietro e poi la scintilla di vita in essi si era... spenta, come se qualcuno avesse premuto un interruttore.

“Non mi toccare”, ringhiai, scansandomi dal suo corpo, non appena ebbi recuperato il controllo del mio. Lo guardai in cagnesco.

“Non era... necessario”, sussurrai. Il vampiro mi sorpassò, accasciandosi sul divano, le gambe stese su un tavolino di mogano. Estrasse dalla tasca un accendino e prese a giocarci, fissando la fiammella. “Sì... che lo era. Pensavo avessi un po' più di umanità... io gli ho accorciato le pene e nel modo più rapido e indolore”.

“Oh, grazie allora”, sputai con ironia.

“Prego”, rispose.

“Perché io sono qui e non sono su quel pavimento?”.

“Ordini dall'alto. Mangia”, disse, indicando un vassoio pieno di cibo sul tavolino, che non avevo notato fino a quel momento.

“Prego?”, chiesi.

“Mangia”, ribadì.

“Tu... mi... hai portato qui per mangiare?”, chiesi.

“In realtà, avrei dovuto farlo qualche ora fa, ma diciamo che mi è passato di mente. Non ricordavo che gli esseri umani avessero bisogno di mangiare più volte al giorno”.

“No”.

“Non ti ho chiesto se hai fame, Isabella. Ti ho detto di mangiare”. Mi fu di fronte in un attimo, e mi spinse a terra, di fronte al vassoio con il cibo, poi tornò a sedersi.

“Chi sei?”, chiesi, dopo qualche minuto di silenzio in cui spiluccai nel piatto, tentando di non pensare al sangue e al corpo di John nella stanza accanto. Ma ero lì lì per vomitare anche l'anima.

“Pensavo che non fossi in grado di iniziare una frase senza “perché”. Mi sorprendi”.

Mi sbeffeggiò lui. “E comunque, chi io sia non ti riguarda”.

“Mi hai rapita, il minimo che tu possa fare è dirmi come ti chiami”.

“E cosa cambierebbe?”.

“Almeno smetterei di pensare a te come al “vampiro”. Perché io conosco dei vampiri, e non sono affatto come te. Non mi va di associarvi”.

Il vampiro mi fissò per qualche secondo, lo notai con la coda dell'occhio. Sperai di non aver esagerato, ma ero certa che non mi avrebbe uccisa, non prima di ricevere un'ordine preciso dal suo supervisore.

“Michael O'Connor”, rispose. Un nome moderno.

“Ok, Michael, chi ti ha chiesto di rapirmi, Victoria?”. Al suono del suo nome le sue labbra ebbero un guizzo, il ché mi fece intuire che avevo colto nel segno, con molta probabilità.

“Perché hai tentato di salvarlo? Sapevi che non aveva possibilità di sopravvivere”, mi chiese, mentre afferrava la mela sul mio vassoio e se la rigirava fra le mani, annusandola.

“John? Aveva un nome, sai? Perché ti importa?”.

“Non si risponde a una domanda con un'altra domanda”.

“Se è per questo, di solito non si conversa con i vampiri”.

“Touché”.

“L'ho salvato perché era giusto che io tentassi, perché a qualcuno doveva importare di lui, del fatto che stesse morendo”.

“Perché?”, mi chiese.

“Perché nessuno dovrebbe vivere né morire da solo”.

“Quando sono morto io, ero da solo”, sussurrò, riadagiando la mela su vassoio.

Deglutì.

“Tu non sei morto”, gli dissi.

Sorrise di sbieco. “Sì, sono morto, ma per tua sfortuna ancora cammino e respiro”.

“Finché puoi fare tutte queste cose, allora non sei morto. Ti pare?”.

“Tu davvero credi che un vampiro si possa considerare un essere vivente? Eppure, studi medicina”.

“Forse non nel senso strettamente biologico, ma sì”.

Calò il silenzio.

“Cos'è un neonato?”, chiesi.

“Tu non hai la più pallida idea di quello in cui ti sei cacciata”, mi fece notare.

“Se mi dicessi chi è a volermi morta, forse...”.

“Non intendo questo... parlo della tua convivenza con i vampiri e della tua ignoranza a riguardo. E' contro natura. Come se... un cerbiatto andasse in giro allegramente con un leone. Tu sei il cibo... e i vampiri non sono esattamente come i Cullen. I Cullen sono una rara, bizzarra anomalia. I vampiri non possono sapere in anticipo se splenderà o meno il sole e perciò non escono alla luce del giorno, ma vivono di notte. Nessun vampiro riuscra vivere a stretto contatto con gli esseri umani, senza cedere alla tentazione di dissanguarli. I vampiri, di solito, non hanno alcun rimorso nell'uccidere un essere umano, così come alla maggior parte della gente non importa di mangiare un petto di pollo. I vampiri, quelli veri, sono creature mostruose e il tuo corpo percepisce la loro pericolosità prima che tu lo faccia in maniera razionale. E in fondo, i Cullen sono esattamente come qualsiasi altro vampiro, dietro la loro facciata da bravi cittadini americani. I vampiri, checché se ne dica, non crescono, non smettono di punto in bianco di essere incrollabili, assetati, vogliosi di sangue fino alla follia, brutalmente forti, come un neonato. Imparano soltanto a fingere di essere cresciuti”.

Il tempo di sbattere le palpebre e me lo ritrovai di fronte, accovacciato sulle gambe, mi scrutava come fossi un fenomeno misterioso e incomprensibile.

Incontrollabili. Assetati. Vogliosi di sangue fino alla follia. Riconoscevo, in questa descrizione, la vampira che mi aveva attaccato nel cortile, il rivolo di saliva che le colava dalle labbra esangui.

“Non capisco se sei incredibilmente sciocca o soltanto molto, molto innamorata”.

Le sue parole mi colpirono come un pugno a livello della trachea, togliendomi il respiro.

Era chiaro che conoscesse i Cullen, le loro doti e le loro attitudini, e sapeva di me ed Edward. Mi ero sempre chiesta come riuscissi ad ignorare l'istinto di autoconservazione che rendeva gli altri esseri umani restii nei confronti dei Cullen, nonostante li ammirassero per la loro apparente perfezione. Ero sempre stata grata a questa mia “peculiarità”, pensando che, senza di essa, non avrei trovato la forza di avvicinarmi ad Edward. Non avevo mai preso in considerazione l'idea che fossero stati i miei sentimenti per Edward, fin dal primo istante, a farmi dimenticare la paura e la diffidenza e a farmi mettere da parte la naturale ritrosia. Volevo una prova concreta del mio amore? Eccola: per Edward, avevo soppresso persino il mio istinto di autoconservazione.

Ma, tolto questo, avevo avuto modo di conoscere i Cullen e di apprezzarli.

“L'amore può avermi spinta ad avvicinarmi ai Cullen... ma è solo conoscendoli che ho imparato ad apprezzarli, dal momento che la mia mente era priva di pregiudizi. Solo i vigliacchi usano la propria natura come giustificazione delle loro azioni riprovevoli o della loro condizione”.

Michael strinse i denti. “Hai finito”, disse, afferrandomi per il gomito e costringendomi ad alzarmi, lanciando l'accendino accanto al vassoio con il cibo. Michael mi lasciò andare quando fummo nuovamente di fronte alla porta del seminterrato. “Capisco perché Victoria volesse ucciderti e perché non veda l'ora di liberarsi di te già domani. La strada da Washington ad Harrisville non è lunga, perciò preparati”.

Mi spinse malamente all'interno della stanza. Rimasi per qualche minuto sul pianerottolo, al buio. La mia intuizione era stata corretta: Victoria era la mia aguzzina. Domani sarebbe stata qui, e mi avrebbe uccisa. Io mi trovavo ad Harrisville, che distava all'incirca 60 chilometri da Harvard. Michael mi aveva fornito tutte queste informazioni, suggerendomi di prepararmi... a morire. Io intendevo prepararmi alla fuga.

 

Quando mi lasciai scivolare accanto ad Arianna, mi meravigliai nel constatare quanto fosse duro e freddo il pavimento. Ero lì da più di un giorno, ormai, e lo notavo soltanto ora. Il ché si spiegava facilmente, considerando che avevo vissuto le ultime ore in uno stato di parziale oblio di me stessa. “Ti ho sentita urlare”, mi scosse Arianna, agitata. “John?”, mi chiese. Mi limitai a scuotere il capo. Lei posò il capo sulla mia spalla. Anche ad Arianna importava di John.

“Devo andare via”, le dissi, tutto d'un fiato, in un tono di voce così basso che temevo non fosse riuscita a sentire le mie parole.

Arianna sussultò.

“Come?”, chiese, la sua voce animata da un sentimento simile al mio: speranza.

“Non lo so, ma devo, stasera. Arianna... io non posso garantirti nulla e non posso salvare tutte le persone rinchiuse in questa stanza, ma se riusciamo ad arrivare... se riusciamo ad allontanarci a sufficienza sarai al sicuro, fidati. Vieni con me, almeno tu. Vieni con me”. Arianna mi fissò, mentre i primi raggi di luce(era l'alba) illuminavano a giorno la stanza. La luce, che stava letteralmente scacciando le tenebre, mi infondeva coraggio. Le strinsi le mani fra le mie, supplicandola con lo sguardo.

Arianna annuì.

“Dimmi cosa devo fare”.

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Capitolo 8
*** 7) Medford street(parte seconda) ***


Buonasera! Siamo al capitolo... dei capitoli... per ora, almeno. Ok, muoio dalla voglia di conoscere i vostri pareri, ma voglio ringraziare tutti voi, chi legge, chi commenta, che mi inserisce tra le storie seguite, preferite e ricordate, chi mi scrive messaggi privati e soprattutto vorrei ringraziare una persona che mi ha scritto un messaggio privato. Le sue parole mi hanno fatto sentire non speciale, di più. Ma un GRAZIE va a tutti. Non dico altro, parlerete voi ; ) vi lascio al cap. Chissà se rimarrete deluse o soddisfatte dellla conclusione?!! Le cose si complicano...

7) 812 Medford Street(parte seconda)

Edward

 

Correvo da ore, nel vano tentativo di sfuggire all'angoscia, sempre un passo avanti a me. Ricordavo bene il senso di sconfitta, di impotenza, la paura di precipitare, il nodo alla gola, il peso che mi opprimeva il torace all'idea che non sarei stato in grado di salvarla, non abbastanza veloce né abbastanza forte. Benché le circostanze fossero cambiate radicalmente da allora, continuavo a sentirmi mancar l'aria. La sua assenza rendeva evidente quanto fosse “sbagliata” la mia vita, sottolineava quale fosse, realmente, il mio posto nel mondo: al suo fianco. Fianco che avevo abbandonato per stoltaggine e che desideravo mi fosse restituito.

 

Qualche ora prima...

 

“Cosa vedi?”.

Alice scosse il capo, qualche ciocca dei suoi capelli corvini le sfiorò le guance terree.

“In realtà non vedo niente, Edward. E' solo... un brutto presentimento”.

Volsi lo sguardo alla grande vetrata del salotto, da cui filtravano tiepidi raggio di sole. Sole. Un pericolo per me, una protezione per lei.

“Sai quanto le sono affezionata. Penso sia soltanto una questione di empatia”.

Annuì.

“Quanto pesi di tirarla avanti?”, mi chiese. La ignorai.

“Edward?”.

“Sei stata tu a dirmi che devo prendermi le mie responsabilità. E' quello che sto cercando di fare”.

“Non lo fai bene”, mi fece notare.

“Grazie”.

“Arriva”, mi disse. Infatti, qualche istante dopo, mia... moglie entrò in casa, seguita da Esme e Rosalie. Erano andate a caccia, quella notte.

“Odore di esseri umani”, puntualizzò Tanya, annusando l'aria. Possedeva sensi incredibili, al pari di quelli di James.

Arricciò le labbra, al pensiero di lei. Il suo corpo statuario, come uno specchio d'acqua, rifletteva l'odio sepolto nel suo cuore.

Odio verso di lei. Un sentimento che temevo potesse esplodere da un momento all'altro. Tremavo all'idea che le facesse del male; sarebbe stato saggio da parte mia tenerla lontano. Se fossi stato in grado, io per primo, di stare lontano da lei. Perciò mi limitavo a vagliare ogni suoi pensiero, a controllare ogni suo gesto e, ogni qual volta avvertivo il pericolo, mi frapponevo... nel vero senso della parola, tra lei e Tanya.

Avrei riconosciuto ovunque il profumo di Bella. Perciò fui immediatamente certo che quell'odore di erba e pioggia non le appartenesse. Contrassi la mascella e strinsi i pugni. Alice si alzò, avvicinandosi alla porta con la fronte contratta, mentre lui, Enrique, batteva i pugni contro di essa.

“Ciao”, esordì Alice.

“E qui?”, chiese Enrique. Nella sua mente si susseguirono una serie di pensieri, voci, supposizioni che mi fecero temere il peggio. Fui accanto ad Alice in un istante, e non mi curai di mantenere una parvenza umana. Fortunatamente non mi degnò di uno sguardo; aveva gli occhi spiritati e tremava.

“Chi?”, chiesi, temendo di conoscere la risposta. Lui mi fissò per un lungo istante prima di rispondere, in maniera palesemente ostile.

“Bella”. Allora, al suono del suo nome, i suoi pensieri si schiarirono e ripercorsi con lui quanto accaduto quella mattina. Il mondo iniziò a cadere in quel momento.

“Alice”, la chiamai, mentre Enrique le raccontava quanto era successo. Non attesi che concludesse il racconto.

Mi mossi verso la porta. L'umano mi afferrò per un polso e fui tentato di sbriciolargli ogni osso del corpo. Con quelle mani aveva toccato lei. Lei che era mia.

“Se sai dove possa essere vengo anch'io”. Il mio sguardo lo trafisse. Leggevo l'incertezza nella sua mente e la paura, tuttavia non desistette. Odiavo questo suo sconsiderato “coraggio”, perché combatteva per lei. Lei che era mia.

Il ragazzo mi lasciò andare, ma proseguì: “Non hai alcun diritto su di lei”.

“E tu credi di averne?”, gli domandai, avvicinandomi a lui e incupendo lo sguardo. “Credi di avere...”, sorrisi ironicamente, incapace di concludere la frase.

“Mi fai perdere tempo”, sussurrai vicino alla sua faccia.

“Forse dovresti stare un po' più con tua moglie e un po' di meno con la mai ragazza”.

“Forse dovresti tenere le mani a posto e la bocca chiusa”.

“Ti infastidisce che io l'abbia toccata o che possa farlo?”.

“Edward”, la piccola mano di Alice si strinse intorno alla mia spalla, opponendo una resistenza degna di un carro armato contro il mio braccio pronto a sollevarsi e strappargli il cuore via dal petto, come avevo imparato dalle amazzoni, senza sporcare.

Abbiamo questioni più urgenti, pensò, vai. Io intanto chiamo Emmett, Jasper e Carlisle e gli dico di raggiungerti.

Fui fuori casa, poi nel bosco, poi per strada. Nessuno mi seguiva, neanche Tanya. Il nostro confronto doveva averla ferita, sconvolta, ma, in tutta sincerità, non avevo il tempo di preoccuparmene

 

Inseguì il profumo di lei, il cellulare che avevo trovato sul pavimento stretto in mano.

Era stato bravo.

Ero fermo da più di mezz'ora di fronte a un albero, pregno dell'odore di Bella. Mi lasciai scivolare lungo la corteccia, mentre Emmett e Jasper continuavano a setacciare la zona. Se avessi permesso alla mia mente di immaginare il peggio, avrebbe vinto in partenza. Concentrai la mia furia contro il viso pallido del ragazzo che aveva combattuto con Carlisle, ma non riuscivo a non pensare a lei, ai ricci rossi che le incorniciavano i tratti selvaggi, agli occhi ferini. Lei... c'era lei dietro quanto stava accadendo, ne ero certo. Ma questo non mi aiutava nella ricerca.

Trascorremmo ore nel bosco. Quando Tanya ci raggiunse era l'alba. Si strinse al mio petto. La sensazione che fosse tutto sbagliato si amplificò. Sbagliato per me, sbagliato per lei. La donna che io avevo conosciuto era forte, indipendente, non avrei mai creduto che potesse nascondere una tale fragilità. Forse ero stato io a romperla e adesso faticavo a riattaccare i cocci. D'altronde, io per primo avevo bisogno di essere “riattaccato”.

Mi abbracciava come fossi la sua àncora di salvezza, mentre io spasimavo a cercare lei, un'altra donna. Possibile che non le importasse o non lo capisse? La strinsi per le spalle, indagando i suoi occhi. Erano lucidi, distanti.

“Tanya...”, sussurrai. Lei mi afferrò le mani, stringendomi le braccia al collo.

“Va bene”, mi disse.

Non andava bene affatto. L'avevo rotta.

 

Alice mi cinse le spalle, gli occhi vitrei.

“Siamo qui da ore”, le dissi.

“Non perdere la lucidità, Edward”, mi pregò.

“Sto per scoppiare, capisci? E lei non c'è. Potrebbe essere... morta, a quest'ora. Non so dove cercare. Non so come trovarla. Alice...”.

“Rose sta tappezzando la città. Esme e Carlise si sono diretti ad est. La troveremo, Edward”.

“Ora, Alice. Dobbiamo trovarla ora. Più tempo passa...”.

“Lo so, non ho bisogno che tu me lo ricordi”.

“Scusa, sto cercando di pensare cosa farei se fossi un vampiro che ha con sé un'umana. Dove la porterei. Ma non sono certo che la logica possa aiutarmi in questo caso; l'ha rapita in pieno giorno: non gli importa di essere visto. Quindi, o è molto stupido e ignorante in fatto di leggi, oppure... rapire Bella è più importante”.

“Come può essere più importante dei Volturi?”, mi chiese Alice.

“Forse chi lo manda gli ha promesso qualcosa di cui ha bisogno”, proposi.

“Victoria? Sa essere molto convincente, ma dubito che ci sia qualcosa che un vampiro possa volere così tanto da sfidare le nostre leggi. Soprattutto qualcosa che lei possa dargli”.

“Ti sei chiesta perché l'ha portata via? Perché non l'ha... uccisa e basta. L'ultima volta stava per farlo”.

“Forse vuole... vuole essere Victoria a ucciderla. Campagna per compagno”.

“Non ha senso, ci ha spiati in queste settimane, sa che noi non... stiamo insieme. Avrebbe dovuto prendersela con Tanya, al massimo, o con me. Se la sua intenzione era quella di ferirmi. No, io penso che sia cambiato qualcosa dall'ultima volta. Penso che voglia qualcosa da lei. Tu cosa vedi?”.

“Buio. Qualche minuto fa ho visto qualcosa, una porta e un mezzo numero civico, 81... Penso che stia prendendo una decisione, anche se, vista la sua situazione, decidere qualcosa è un po' difficile. Però sa che è l'unico modo per mettersi in contatto con me. Lei non è sparita, Edward. Non era un buio da morte... lei c'è ancora”.

“Finché c'è lei ci sono io”.

“Lo so”, mi strinse forte a sé.

 

“Dove sei”. Serrai le palpebre, inspirando profondamente dalle narici, in cerca.

La mia posizione attuale mi garantiva una vista completa sul bosco e sulla strada al di là di esso, ma non abbastanza lontano.

“Avete trovato qualcosa?”, chiesi ad Emmett, nel momento in cui percepì la sua presenza la mio fianco.

Emmett scosse il capo. I suoi muscoli guizzavano, in tensione. Era preoccupato, lo percepivo. Data la sua forza, Emmett era consapevole più di chiunque altro di quanto potesse essere dannatamente pericoloso un vampiro, di quanto potesse far male. Spesso temeva persino se stesso e quella forza che tanto vantava, in realtà, lo terrorizzava. Tremavo solo al ricordo dell'unica volta in cui aveva perso il controllo di sé.

“Non ci ha lasciato neanche un indizio?”.

“Bella?”, chiesi.

Emmett annuì.

“Era sicuramente svenuta, ho trovato del sangue vicino al luogo del rapimento. Penso abbia sbattuto la testa”.

“Sanguinava...”, sussurrai.

Emmett mi guardò, inclinando il capo.

“Tu sei sensibile più di chiunque altro al suo sangue, se non lo trovi tu, non lo trova nessuno”, mi disse.

“A quest'ora si sarà seccato...”.

Balzai giù dall'albero. Annusando la corteccia, tra l'odore del muschio e della linfa, il suo. Chiusi gli occhi, acuendo il senso dell'olfatto. Avevo imparato a conoscere, a temere e ad adorare l'odore del suo sangue e della sua pelle. Il suo sangue, la mia dannazione, ora avrebbe potuto aiutarmi a salvarla. Riportai alla mente l'arsura della gola, le notti trascorse con il viso affondato nel suo collo per tentare di assuefarmi, di immunizzarmi. Scavai con le mani nel fogliame, era già buio ma per i miei occhi non faceva alcuna differenza. Poi la trovai: un'insignificante goccia di sangue. E poi un'altra. Fin quando non ebbi chiaro il loro percorso, il momento in cui aveva smesso di girare in circolo e aveva imboccato una direzione. Quando capì di stare correndo in quella direzione, il mio corpo aveva già percorso un paio di chilometri, lasciandosi quella vita sbagliata alle spalle.

 

Bella

 

Avevo ideato un piano di fuga potenzialmente suicida. In termini di probabilità, circa il settanta per cento, moriremo entrambe di una morte violenta e dolorosa. Il restante trenta per cento consiste nella possibilità che ne usciremo illese. Prospettive non molto rosee.

Non che avessi un'alternativa.

“Quanto manca?”, mi chiese Arianna.

“Poco”, le risposi.

“Sei sicura di sapere quello che fai?”, mi chiese.

“A grandi linee sì”.

“Pensi che basterà?”.

“Deve bastare. Devo tornare a casa”, risposi, stringendo le labbra.

“Chi ti ha insegnato a farlo?”. Sorrisi.

“Si chiama Billy Black, è un amico di mio padre. E' stato lui a insegnarmelo, quando ero bambina. Senza un motivo particolare, suo figlio era ancora troppo piccolo per queste cose e le sue figlie erano diverse da me. Spero di ricordare come si fa?”.

“E se non funzionasse? Se non fosse lì, cosa farai?”.

“Non ho un piano B, Arianna. Tu fai la tua parte, in un modo o nell'altro devo raggiungerla... presa la decisione lei mi vedrà”.

“Cosa?” mi chiese, e capì di aver farfugliato le ultime parole.

“Niente. Solo, mi raccomando, devi essere veloce, non ho molto tempo”.

Lei annuì.

 

“E' ora”, le dissi. Mi alzai, osservando il suo viso in penombra per quella che sarebbe potuta essere l'ultima volta Nel seminterrato regnava il silenzio, a tratti interrotto dai tonfi provenienti dal giardino. Si stavano allenando, i neonati, ormai era chiaro.

Nell'avvicinarmi all'unica scala che conduceva al piano superiore, qualche sguardo mi seguì; mi accostai alla porta e parlai, certa che mi avrebbe sentita se fosse stato nei dintorni dell'edificio.

“Michael... Michael, devo parlarti. Ho una proposta da farti”.

Attesi, contando i rapidi battiti del mio cuore.

Alice mi vedi? Pensai.

Se ancora non aveva visualizzato le mie intenzioni future, lo avrebbe fatto a breve.

Sorella, mi vedi?

Mezzo minuto e la porta si aprì.

Michael mi fissava dall'uscio, un sopracciglio sollevato sul bel viso.

Percepì le sue mani intorno al mio collo. Era inevitabile, ogni qualvolta l'avessi visto mi sarei sentita soffocare.

“Hai fame o cosa? Non siamo mica un albergo”.

“Ho una proposta da farti”.

Michael, il viso contratto nello sforzo di trattenere l'ironia, mi indicò di precederlo.

Lo feci.

“Allora, esponi i termini della tua proposta”, ignorai le sue parole di scherno, continuando a camminare in direzione della mia meta: la sala in cui avevo pranzato quella mattina. Michael mi seguiva e percepivo la sua curiosità e anche la sua diffidenza. Benché io fossi soltanto una piccola umana e lui un vampiro forte e veloce che non avrebbe avuto motivo di temermi, qualcosa nel mio atteggiamento lo insospettiva. Dovevo essere più cauta, sfoderare doti di attrice che non possedevo ma che avevo affinato negli ultimi tempi, calmare il battito del cuore e il respiro.

Quando percepì una mano sfiorarmi la spalla sussultai. Una mano fantasma, irreale. Mi era capitato, nel tempo trascorso a crogiolarmi nel dolore dopo la fuga di Edward da Forks, di immaginare di averlo di fronte, di parlargli come se fosse accanto a me e potesse rispondermi, consigliarmi, confortarmi, darmi spiegazioni. Ma mai la sua immagine mi era apparsa così reale.

“Capisco”, sussurrò Michael.

“Cosa?”, chiesi, ignorando la figura di Edward al mio fianco.

“Perciò è lui che vuoi più di qualsiasi altra cosa al mondo? Anche in questo momento?”, mi chiese.

Sentì il sangue gelarmi nelle vene.

“Co... cosa dici?”, balbettai.

“Parlo di lui”, disse, indicando Edward.

“Tu.. tu lo vedi?, chiesi, in preda alla follia.

“Certo... sono io che l'ho creato”.

Non capì.

“Ho una... dote o un dono, come lo definiscono i Cullen. Posso “vedere” i desideri altrui, istante per istante. Posso decidere di estrarli dalla mente e concretizzarli in immagini. Conoscere i desideri di qualcuno è un po' come leggere nel pensiero, non credi? Forse è un tantino più intimo. Conosco i desideri inconfessabili tanto quanto quelli semplici: il sesso, il sangue, il cibo, i soldi, un uomo, una donna, un lavoro, la morte di qualcuno. Ti sorprenderesti di scoprire cosa le persone arrivano a desiderare. Se conosci il desiderio, conosci anche le intenzioni, cosa la persona sarebbe disposta a fare o a cedere. E' assurdo come, nella maggior parte dei casi, abbiamo già tra le mani ciò che desideriamo e non riusciamo a capirlo”.

Non dissi nulla.

“Tu vuoi lui”, continuò, “non l'immortalità. Anche in questo istante, con la morte davanti, tu vuoi lui”.

Edward intrecciò la mano alla mia, ma non percepì la consistenza della sua pelle.

“E' un'illusione”, mi spiegò, “ci sto ancora lavorando”.

Mi allontanai da Edstward... cioè dall'illusione di lui.

“Non puoi fuggire dai tuoi desideri, loro ti seguono”.

Infatti, Edward mi seguì.

Un'idea mi balenò in mente, chiarendo in parte il mistero di quella situazione.

“E' per questo motivo che ti ha scelto! Tu puoi farle vedere lui... James. E' giusto? Perché James è il suo unico desiderio, il suo unico pensiero”.

Michael indugiò per qualche istante.

“Sì e no, sei sveglia, ma non puoi dedurre tutta la verità”.

Mi avvicinai maggiormente al mio obiettivo.

“Eravamo qui per una proposta, se non mi sbaglio?”.

Annuì, riservando un rapido sguardo ad Edward: per quanto illusoria, la sua presenza mi confortava.

“Aiutami a fuggire e io parlerò ai Cullen di te. Gli dirò che mi hai aiutato, potrebbero persino accoglierti fra di loro; la tua vita sarebbe molto più semplice, non dovresti preoccuparti di niente, potresti uscire alla luce del sole e non dovresti... non dovresti neanche sentire la sete di sangue dei tuoi compagni... Perché è questo che vedi quando stai loro accanto, soprattutto quando sei vicino ad un neonato: sete di sangue”.

Michael, dopo l'iniziale sconcerto, sembrò realmente riflettere sulle mie parole.

“Una vita semplice”, disse. “Non mi suona affatto familiare”.

Per un attimo, un istante, vidi qualcosa in lui, un briciolo di umanità che mi fece credere di poterlo davvero salvare. I Cullen lo avrebbero aiutato e protetto, come avevano fatto con Jasper.

Poi ogni traccia di umanità scomparve dai suoi occhi.

“Non mi interessa”, mi disse, avvicinandosi a me, pronto a riportarmi in cella. Fu allora che vidi la chiave per la mia salvezza e quella di Arianna e, se fossero stati abbastanza svelti, degli altri umani nel seminterrato: l'accendino.

In realtà, a questo punto, il piano non era ben delineato. Sapevo solo di dover trovare l'accendino e speravo, in qualche modo, di avere il tempo necessario per modificarlo.

Fu Alice a concedermelo.

La vidi materializzarsi al mio fianco, in tutta la sua forza e delicatezza. “Ciao”, mimò con le labbra, sembrava così reale che a stento riuscivo a classificarla come un'illusione. Si spostò alla mia sinistra. Ora lei ed Edward mi spalleggiavano.

Chiaramente desideravo Alice, pregavo che riuscisse a vedermi, che mi raggiungesse almeno con la mente.

Michael corrugò le sopracciglia, chiedendosi, probabilmente, il perché della presenza di Alice.

La sua esitazione mi permise di afferrare l'accendino, ma nient'altro.

Cosa pensi di fare, esattamente?”, mi chiese, inarcando le sopracciglia.

Non lo so.

La risposta sarebbe dovuta essere quella, ma non poteva. Non potevo arrendermi alla mia umanità, alla sua superiorità, alla morte. Le ero sopravvissuta così tante volte.

Cosa fare?

Capisci quanto sia straordinario il tuo dono? Leggere nel pensiero altrui ti rende... invincibile.

Ha anche i suoi lati negativi, sai!

Tipo?

I primi tempi, quando ancora non sapevo come gestire la lettura del pensiero, mi era impossibile sostare a lungo in posti affollati. Credevo di impazzire. Non riuscivo a chiudere la mia mente ai pensieri di coloro che mi circondavano. Avevo persino dimenticato cosa fosse il silenzio.

Era doloroso?

Molto doloroso, ma soprattutto era fastidioso, mi deconcentrava. I miei pensieri , fra gli altri, perdevano di consistenza.

 

Mi deconcentravano... ha i suoi lati negativi... mi deconcentravano.

Intendo scappare”, risposi.

Allora permisi al mio cuore di rivelare tutti i desideri che gli avevo chiesto di custodire, alcuni dei quali mi sfilarono davanti in rapida successione.

Il miei desideri di bambina: una famiglia unita, una madre sana, serena che si prendesse cura di me, un fratello più grande che mi proteggesse dai bulli. I desideri futili: un cane enorme, diventare, da un giorno all'altro, una bravissima ballerina, essere la protagonista dei miei libri preferiti, un gioco costoso, dei pattini a rotelle. I desideri da adulta: Edward, una vita al suo fianco, diventare una Cullen, essere forte, coraggiosa, indipendente, capace, eterna, un camice bianco e il potere di salvare la giovane vita di quella bambina bellissima con il pigiama giallo. Fu allora che li vidi, i miei desideri più grandi, insieme: Edward, perfetto e immortale, sorrideva amorevolmente alla bambina tra le sue braccia, lei, uguale e diversa, il suo pigiama giallo ma un colorito più roseo, i morbidi boccoli ramati che le molleggiavano intorno al viso. Una me diversa, più pallida, più bella e più forte, un camice indosso, andava loro incontro. La potenza di quel desiderio mi squarciò il petto e devastò la sua mente, dandomi modo di procedere con il mio piano improbabile.

Tolsi in fretta il tappo di metallo, ferendomi i polpastrelli per la furia nel compiere l'operazione e mi ritrovai di fronte una sottile levetta bianca, la ruotai prima a destra, poi a sinistra. Intendevo intensificare la fiamma, in maniera tale da menomare il vampiro, almeno negli arti inferiori. Questo mi avrebbe concesso il tempo sufficiente per aprire la porta della stanza, portare via Arianna e intimare agli altri di fuggire. Se avessi avuto dell'alcool non sarebbe stato affatto necessario, ma non avevo il tempo di cercarlo, ammesso che ne avessero in casa. Date le proporzioni dell'accendino, più grande di quelli normali usa e getta, la fiamma che brillò davanti al mio viso si rivelò essere piuttosto alta. Era l'ideale. Machael ringhiò, percependo l'odore del fuoco e del pericolo. Tuttavia era ancora chino, intrappolato nella miriade di desideri prodotti dalla mia mente. Davanti al suo corpo che si contorceva sul pavimento, capì che non sarebbe stato sufficiente: non avrebbe bruciato abbastanza in fretta. Allora afferrai un paio di grossi ciocchi di legno dal camino e intrecciandoli a livello delle sue caviglie, appiccai il fuoco. Il legno iniziò a bruciare e il fuoco si diffuse presto sul tessuto dei suoi pantaloni e su, lungo la vita. Il vampiro ringhiò, afferrandomi il polso. Urlai per il dolore e per il terrore: si stava rialzando, mentre bruciava. Decisi allora di tentare il tutto per tutto, dovendo liberarmi dalla sua stretta. Mossi la manovella più e più volte e notai che la fiamma si avvicinava al bordo. E questo, ammesso che si volesse impedire un ritorno di fiamma e quindi un esplosione, andava evitato. Io non lo evitai. Lanciai l'accendino contro il suo viso, quando lo sentì caldo tra le mie dita e questo esplose, lacerandogli la guancia destra. Un nonnulla per un vampiro, ma abbastanza da distrarlo e indurlo ad allentare la presa. Corsi via, mentre prendeva a urlare, dopo aver afferrato la chiave che portava in tasca, scottandomi le dita. Le mani mi tremavano mentre tentavo di aprire la porta, quando finalmente ci riuscì corsi alle scale.

“Scappate, ora”, urlai.

“Arianna?”.

“Arianna?”.

La sua figura minuta comparve dalle scale, una donna la seguiva.

Arianna portava tra le braccia il mio maglione, quello nero con cui avevo stretto il tubo dell'acqua per impedire che colasse e facesse rumore. Il maglione era imbevuto di sangue: il suo.

“Stai bene?”, le chiesi.

In risposta mi mostrò la ferita alla mano.

Le avevo chiesto di raccogliere sangue, tanto, ma che non gli impedisse di muoversi.

Annuì, agghiacciata dalle urla poco distanti da noi. La donna alle nostre spalle ci superò.

“Aspetta”, urlai, ma era tardi. Un vampiro, uno degli anziani che ricordavo aver incrociato il primo giorno la strinse per il collo.

Spinsi Arianna fuori dalla porta. Dovevamo soltanto uscire da quella casa, soltanto uscire.

Mi vedi Alice, mi vedi?”.

Pregai di aver stabilito un collegamento, nell'istante esatto in cui avevo deciso di portare a termine il mio piano e di dar fuoco al vampiro. Non riuscivo ancora a credere di aver dato fuoco a un vampiro.

Non riuscimmo mai a oltrepassare l'uscio, almeno non insieme.

Il vampiro afferrò Arianna, che lasciò cadere in terra il maglione sporco del suo sangue. Il vampiro enorme sfregò il naso sulla sua ferita.

Era bella, Arianna, e più giovane di quanto avessi immaginato là sotto, al buio, e stava per morire. E io non avrei potuto far nulla. Afferrai il maglione e il vetro che aveva usato per procurarsi la ferita, senza smettere di fissarla. Non riuscì a reggere a lungo il suo sguardo. La consapevolezza della morte imminente nei suoi occhi.

Le voltai le spalle e oltrepassai l'uscio.

Una gran quantità di vampiri mi aspettava, fuori dalla casa. Mi fissavano. Mi fissavano tutti. Ma i miei obiettivi erano soltanto loro, i neonati. Allontanai l'immagine di Arianna dalla mia mente, che gemeva a qualche metro da me e al centro di quell'orrido spiazzo spettrale, strinsi il frammento di vetro tra le dita, aprendo un ferita lunga e profonda nella parte interna del mio braccio.

Lei, la neonata, mi fissava, il viso leggermente inclinato. Non guardava me, ma il sangue. Nell'istante in cui prese a gocciolare dal mio braccio e iniziò a bagnare il terreno, si scatenò l'inferno.

Lei fu la prima a correre verso di me, seguita immediatamente dagli altri due. Macinavano i metri che ci separavano e non sembravano intenzionati ad ingaggiare alcuna lotta o a litigare, come, invece, avevo sperato accadesse. Sentì un tonfo alla mia sinistra. L'enorme vampiro, che ricordava Emmett ma non aveva nulla a che fare con mio fratello, aveva gettato il corpo prosciugato di Arianna al mio fianco come fosse spazzatura. Mi inginocchiai accanto a lei, gli occhi vuoti.

Scusa, pensai, non sono riuscita a salvare nessuna delle due. La strinsi forte al petto, in attesa della morte.

Ma la morte non arrivò.

A un certo punto della loro corsa, i vampiri si erano interrotti, quando anche gli altri si erano lanciati all'inseguimento. Alzai lo sguardo dal corpo di Arianna. Lei stava spintonando uno degli altri neonati, ringhiando ferocemente. Sembrava fosse impazzita, si scagliava come una furia contro chiunque le si avvicinasse. Il vampiro che aveva gettato il corpo di Arianna al mio fianco raggiunse gli altri, per tenerla a bada. La sua reazione aveva scatenato gli altri neonati, creando le condizione in cui avevo fatto affidamento per la fuga: il caos.

Chiusi gli occhi azzurri di Arianna, scusandomi ancora una volta e mi alzai, afferrandomi il braccio martoriato, in cerca della strada. Quando intravidi il sentiero, prima di imboccarlo, mi voltai un'ultima volta verso di lei. E mi sfiorò una consapevolezza allucinante. Lei era lucida, lucidissima. Continuava a picchiare, calciare e bloccare il passaggio, ma non tanto verso di me, quanto verso il corpo di Arianna. Era lei, la sua amica, la vecchia conoscenza a causa della quale era stata fatta prigioniera e che, superando la sete di sangue, mi stava permettendo di fuggire.

Corsi, abbastanza a lungo da sentire un lancinante dolore a livello della milza. Mi lasciai alle spalle il rumore della battaglia, ma non ero affatto al sicuro. Non potevo sapere se qualcuno di loro mi stava seguendo, non avevo sensi abbastanza sviluppati, ma avvertivo una presenza alle mie spalle.

Corsi più rapidamente, mentre le gambe iniziavano a cedermi. La strada era deserta; mi trovavo in un quartiere disabitato. Il percorso che mi era sembrato così breve ancorata alle spalle di Machael ora era decisamente più lungo. Alice. La pregai, la pregai con tutte le forze che avevo in corpo. Inciampai, ma mi impedì di ruzzolare a terra e continuai a correre, le lacrime agli occhi.

Ho paura. Edward, Alice, ho paura. Non ho la forza di continuare a correre.

Inciampai ancora e questa volta caddi. Il viso a pochi passi da un paio di scarpe da tennis. Quando alzai gli occhi, sapevo già chi avrei visto.

Michael mi fissava, lo sguardo adirato, la guancia era guarita, ma zoppicava.

Mi afferrò per il polso, stringendo in prossimità della ferita. Urlai. Mi sollevò da terra e mi scagliò a diversi metri di distanza, atterrai sull'asfalto, chiedendomi quante torture avrei potuto sopportare, prima di morire. E chiedendomi se fossi disposta a morire, dopo essere riuscita a fuggire da un covo di vampiri assetati e dopo aver perso Arianna e chissà quanti altri. Mi chiesi se avevo scelta.

“Ho io una proposta per te, Isabella”, disse, “torna con me, da brava. Non opporre resistenza e io ti permetterò di vederlo ancora, il tuo Edward. Ti permetterò di vederlo per sempre, lo prometto. Anche ammesso che riuscissi a tornare da loro, non avresti mai ciò che desideri. Lui è sposato, ama un'altra donna, non sarà più tuo, ne tanto meno potrete avere dei bambini. Quella bambina”.

Smisi di respirare, resa cieca dalle lacrime.

“Puoi avere... l'illusione”, disse e li vidi, di fronte a me, così vicini che avrei potuto toccarli. Lo feci, ma si sgretolarono tra le mie mani come fossero fatti di fumo. Un'illusione. Nient'altro che un'illusione.

“A me non basta l'illusione, io voglio che i miei desideri si realizzino concretamente. Voglio combattere ”.

“Belle parole”.

Michael si voltò, incrociando lo sguardo del vampiro enorme che aveva dissanguato Arianna. “Gli altri stanno arrivando. Riportiamola indietro”.

“No”, urlai, allontanandomi da Michael.

“No, io voglio vivere. Voglio vivere, no”, urlai, agitandomi forsennatamente.

“Hai ucciso... hai ucciso la mia amica. Era soltanto una bambina”, urlai ancora rivolta al vampiro enorme.

Mi alzai da terra, stringendo il braccio ferito al petto.

Il vampiro ghignò e quella, oh, quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Un vaso che non sapevo neanche si stesse riempiendo, fin quando non è esploso in mille mezzi, frantumando il mio cuore e il mio corpo, per poi ricomporsi entrambi, più forti di prima.

Avvertì un calore sconcertante pervadermi il corpo. Un calore nato dalle profondità di me stessa e che scorreva, scorreva in ogni muscolo, tendine, osso, articolazione, come fosse vivo. Quel calore sembrava riassumere ogni altra fiamma avessi mai visto o percepito nella mia vita: il calore delle braccia di mia madre e di mio padre, il fuoco del camino di nonna Swan, il calore del sole della mia amata Poenix, del primo bacio, il calore che percepivo sulla pelle quando le dita gelide di Edward mi accarezzavano, persino il calore delle stelle lontane, che avevo soltanto potuto immagine e mai verificare. Il calore si tradusse in fuoco, una fiamma alta, possente e dolorosa che esplose dalla mia pelle e avvolse il mostro, riducendolo in un ammasso di carne contorna prima e in cenere poi. Spossata, lasciai che le sue urla mi penetrassero sottopelle

Vidi Michael indietreggiare, lo sguardo sbarrato. Iniziai a tremare, mentre il vampiro si avvicinava a velocità inumana a ciò che rimaneva del corpo dell'amico.

Inciampai, caddi all'indietro sull'asfalto.

Fu allora che due braccia forti e familiari si avvolsero intorno al mio corpo come una barriera di carne, ossa e pelle. Una chioma ramata e un viso bello come il sole colmarono il mio campo visivo.

Edward.

Il mio vampiro, mio, mi accarezzò il viso, riempiendo il suo palmo della mia guancia, mentre l'altro braccio mi sorreggeva alla base della schiena.

Le sue mani mi apparivano così reali rispetto all'illusione creata da Michael.

“Bella”, disse, la preoccupazione ad angosciargli lo sguardo.

L'illusione di Edward non mostrava emozioni, era inconsistente come il vapore, trasparente come l'acqua.

“Sei davvero tu?”, gli chiesi.

“Sono io. Sono davvero io, sono qui”, mi rispose, un nodo in gola.

Gli sfiorai il contorno del viso.

“Sì, sei tu”.

Avrei voluto piangere o urlare, ma non avevo la forza di fare né l'uno né l'altro.

Edward mi strinse al suo petto, affondai il volto nell'incavo della sua spalla pensando che tutto il dolore era valso quell'istante. D'un tratto si voltò, improvvisamente allarmato. Riservò un'occhiata furiosa a Michael, indeciso sul da farsi.

“Arrivano”, sussurrai, appoggiandomi nell'incavo del suo gomito.

Edward annuì e decise che non era il caso di rischiare la vita, perciò mi strinse tra le braccia, sollevandomi senza alcuna difficoltà da terra e lasciandomi un bacio in fronte. Lo sentì esitare, soltanto un istante, probabilmente odiava dover lasciare che Micahel fuggisse, ma eravamo decisamente in inferiorità numerica. Perciò spiccò un balzo e iniziò a correre.

Nonostante la stanchezza, il dolore al braccio, alle gambe e all'altezza del petto, percepivo ancora l'adrenalina scorrermi in corpo. Edward era veloce, più di Emmett e Jasper, ma a quanto pare i nostri nemici ci stavano alle calcagna.

“Sono vicini e sono in troppi, non riuscirò a seminarli”.

Lo sentì imprecare, il ché era piuttosto strano per Edward.

“Dobbiamo fermarci. Devo medicarti il braccio. Reggiti”.

Come se non lo stessi già facendo.

Eravamo nel bel mezzo del centro abitato. Rischiavamo che qualcuno ci vedesse.

“Cosa fai?”, chiesi.

“Non si spingeranno fin qui”.

Lo vidi avvicinarsi a un'abitazione.

“Potrebbe essere abitata”.

“Al momento non lo è”, disse.

“Potrebbero tornare”.

“Non abbiamo altra scelta”.

Mi strinse ancor di più a sé e saltò, forzando un finestra del piano superiore. Riuscì soltanto a leggere il numero civico accanto alla porta: 812.

“Spero che non sentano l'odore”, sussurrò, chiudendo la finestra.

Nella stanza calò il silenzio e io ne approfittai per guardarmi intorno, sentendomi in imbarazzo. La stanza era semivuota, a parte un letto e qualche pacco. Probabilmente i proprietari stavano traslocando. Avvistai una porta nella camera da letto che doveva condurre a un bagno. Un paio di mani mi sfiorarono la pelle del braccio e io sussultai, spaventata, per poi voltarmi e ricordare che si trattava di Edward.

“Sono qui”, disse. Ricominciai a tremare, ma Edward scosse il capo. “Sono in zona, sento i loro pensieri”.

“Pensi che ci troveranno?”.

“Temo che riconoscano il mio odore”.

“Facciamo in modo che non possano farlo”, dissi e mi fiondai sui pacchi.

“Cosa cerchi?”, mi chiese Edward, raggiungendomi.

“Profumo”.

Edward annuì.

“Fai un giro...”. Sparì prima che potessi concludere la frase.

Rovistando tra gli effetti personali mi imbattei in qualche vestito, un cofanetto di trucco, una boccetta di profumo e acetone.

Edward tornò in quello stesso istante.

“Adolescenti”, disse, indicando le boccette nelle sue mani. “E ho preso questo”. Si trattava di alcool e qualche detersivo, candeggina. Sicuramente più efficace dell'acetone.

“Dammi”. Edward mi passò il tutto. Aprì la finestra e gettai un paio di boccette di profumo, dell'alcool e svuotai mezzo bidone di candeggina.

Edward annusò l'aria.

“Può bastare”, mi disse, chiudendo nuovamente la finestra e mettendosi in ascolto.

“Qualche metro”, disse. “Dovremo stare al buio, finché non andranno via”.

“Non sarà un problema”, risposi, sorridendo amaramente al ricordo dei due giorni di prigionia.

Mi accasciai accanto al letto. Edward sparì e dopo qualche secondo era di nuovo al mio fianco, con l'occorrente per medicarmi il braccio.

“Ci vuole qualche punto, ma non ho il materiale, per ora posso soltanto fasciarla e ripulirla”, disse a bassa voce. Nella stanza non si udiva alcun suono, tranne quello del mio respiro e delle mani di Edward.

Ripulì la ferita con una salvietta umida, afferrò qualche benda dalla cassetta del pronto soccorso, avvolgendoci il mio braccio. Le sue dita sfioravano la mia pelle e io tremavo, in maniera impercettibile per chiunque ma non per lui. Finse di non notarlo e continuò a stringere le fascette intorno al mio braccio, in viso un'espressione concentrata, la stessa di quando componeva.

A un certo punto si fermò, il lavoro concluso e mi mimò di stare in silenzio. Indicò la finestra e compresi.

Erano qui, a meno di tre metri da noi. Il mio cuore iniziò a battere forsennatamente, gli intimai di rallentare ma non funzionò. Edward mi lanciò uno sguardo pieno d'angoscia e poi prese ad accarezzarmi i capelli, accompagnando dolcemente la mia testa sulla sua spalla. Lui conosceva ogni mio punto debole, sapeva che l'unico modo per farmi addormentare dopo un brutto sogno o una brutta giornata era accarezzandomi i capelli: un vezzo che avevo fin da bambina. Il mio cuore iniziò a rallentare i battiti, il respiro decelerò e attesi.

I secondi passavano, ma il pericolo non mi preoccupava, non in quell'istante, non fra le sue braccia, non con le sue mani fra i miei capelli e il suo profumo nelle narici.

“Sono lontani”, sussurrò, con il viso sepolto nella mia chioma color ebano.

“Dovremmo tornare”, disse.

“Dovremmo”, concordai, ma nessuno dei due accennò a muoversi.

“Come sapevi dove trovarmi?”, gli chiesi.

“Ho seguito le tracce di sangue, fin quando non ho individuato il tuo odore in città. Ma, una volta arrivato non sapevo dove avrei potuto trovarti, le tracce si confondevano ancora. C'era odore di vampiro, più vampiri, dappertutto. E' stata Alice ad avvisarmi, quando ha visto la tua decisione e le sue conseguenze”.

“Sei solo”, gli feci notare.

“Ho iniziato a correre non appena ho trovato la tua traccia, gli altri non sono riusciti a starmi dietro, ma a questo punto Alice li avrà avvertiti che stiamo bene. Ti abbiamo cercato tutti. Lei stava per impazzire. E anche io”.

Mi irrigidì.

“Perché mi hai chiesto se fossi vero, non appena mi hai visto?”, mi chiese.

Mi colorai di imbarazzo e lui lo notò, nonostante fosse buio a parte il lampione che disegnava una debole luce gialla sulla strada e su di noi.

“Forse un giorno te lo dirò”, lo canzonai.

Edward mi lanciò un'occhiata curiosa e indispettita.

Sorrisi.

“Mi dispiace”, sussurrò.

“Per cosa?”, chiesi.

“Per tutto”, rispose, “per non essere stato più veloce, per non essere arrivato prima”.

“Pensavo avresti detto qualcosa tipo: mi dispiace Bella per averti messa in pericolo, ancora, a causa della mia natura mostruosa. Mi spiace Bella, ma ti avevo avvertita che il mio mondo non fa per te, di starmi lontano”, dissi, imitando malamente la sua voce.

Edward rise.

“Qualche tempo fa avrei detto questo, immagino. Ma adesso le cose sono diverse”.

“Perché? Perché ormai non ti senti più responsabile per me?”, chiesi, un nodo in gola.

“Perché se non fosse stato per la mia natura non avrei mai potuto incontrarti, perciò ogni tanto evito di maledirmi, perché ti ho messo in pericolo, è vero, ma ti ho conosciuta; ho deciso che dovevi essere mia, ti ho voluta e tu mi hai donato il tuo amore. Se lui non ti avesse ferita, probabilmente, non avresti mai seguito Carlisle e io non avrei potuto rincontrarti”.

Mi alzai, allontanandomi dal suo corpo e dalle sue parole. Tastai il muro in cerca dell'interruttore e quando lo trovai, accesi la luce. Non riuscì a voltarmi, perché se avessi incrociato il suo sguardo sarei annegata.

“Ho bisogno di una doccia”, dissi, sbrigativa.

Mi affrettai, cercando negli scatoloni un telo e qualche vestito pulito, i miei erano sporchi di sangue, il mio e quello di Arianna. Afferrai una T-shirt azzurra un po' scolorita e un paio di jeans. Mi chiusi la porta del bagno alle spalle, appoggiandomi ad essa e riprendendo fiato. Mi rifiutavo di pensare a quanto era successo, a quanto vicina fossi stata alla morte, e alle sue parole. Incomprensibili. Impossibili. Che certamente avevano un significato diverso da quello che gli avrei dato se mi fossi permessa di farlo.

Mi sento male, pensai.

Aprì l'acqua della doccia, scoprendo che lo shampoo e il bagnoschiuma non erano stati incartati nei pacchi ma erano stati da poco utilizzati. Mi abbandonai nel profumo di frutta e di pulito, tentando di dimenticare il sangue che, per quanto strofinassi, continuava a macchiarmi la pelle, metaforicamente parlando. Battei un pugno contro le mattonelle della doccia.

Dio, Edward, sei un idiota. Come puoi dire certe cose, che significato dovrei dare a tutto questo? Alla tua paura di perdermi, al tuo comportamento nei confronti di tua moglie, alla mancanza di luce nei tuoi occhi quando la guardi, alla rabbia per Enrique, alla tua presenza, costante, in casa Cullen, quasi non riuscissi a starmi lontano? Quali conclusioni dovrei trarre? Dovrei dedurre che...?

Dio.

Strofinai i capelli, li asciugai, li spazzolai, infilai jeans e T-shirt. Uscì dal bagno.

“Tu sei...”, urlai contro Edward, seduto sul bordo del letto, lo sguardo chino a terra e le mani dietro la nuca.

Mi fissò.

“Tu sei... un idiota. Tu sei incomprensibile e lunatico. Cosa significano quelle parole? Perché non guardi mai tua moglie, Tanya? Perché non fai altro che osservarmi e sorridere? Perché io conosco i tuoi gusti, i tuoi modi di fare e tua moglie, che sembra penderti dalle labbra, non sa quale sia il tuo autore preferito né che ti passi le mani fra i capelli solo quando sei nervoso o imbarazzato? Perché hai suonato quella canzone, quando Enrique... Perché lo odi? Ti ricordo che mi hai... non lasciata... abbandonata, umiliata, tradita. Hai sposato un'altra donna, lei hai dato l'anello che avevi promesso a me. Sei venuto meno ad ogni promessa, ad ogni parola, ad ogni bacio”.

Edward si alzò di scatto dal letto e mi fronteggiò, gli occhi lucidi come oro solidificato.

“Perché non capisci”, sussurrò.

“Cosa? Cosa dovrei capire?”.

“Che ho sbagliato. Ho sbagliato tutto”.

“Cosa vuoi da me Edward?”, gli chiesi, .

“Io non voglio niente da te...”, mi rispose. L'intensità nella sua voce solleticò ogni nervo del mio corpo. Con lo stesso vigore mi strinse il viso fra le mani.

“Io non voglio niente da te”, ripeté, “io voglio te”.

Allora si avventò sulle mie labbra.

Il sapore e la consistenza delle sue fu immediatamente familiare. Il contatto alleviò l'arsura della sete, la fame, la stanchezza, la paura, il freddo, il dolore. Mi aggrappai ai suoi capelli morbidi, mentre le sue braccia mi attiravano contro il suo corpo, più vicino. Ancora più vicino. Con una frenesia che non si era mai concesso. Le sue dita scivolarono dietro la mia nuca, si immersero fra i miei capelli, accostando maggiormente il mio viso al suo, senza tuttavia che le sue labbra riuscissero a saziarsi delle mie.

“Mia, mia”, prese a mormorare contro la pelle del mio collo, costringendomi a reclinare il capo all'indietro e d'un tratto mi ritrovai a poggiare la testa sul copriletto che avvolgeva il materasso. Le sue dita sfiorarono la pelle della mia schiena, disegnando il percorso tracciato dalla spina dorsale fra le mie scapole. Le sue mani mi avvolgevano il torace e nel momento in cui sfiorò con i pollici il solco della vita, mi ritrovai a inarcare la schiena. L'intensità dei suoi baci si attenuò, mi sfiorò il mento con le labbra, poi la punta del naso, che prese a carezzare dolcemente con la propria.

L'urgenza sembrava attenuata, ma i suoi occhi, oh, i suoi occhi e il suo viso contratto mi dicevano tutt'altro.

Il ragazzo che mi aveva abbandonato nel bosco rare volte mi aveva rivolto sguardi così espliciti, temeva se stesso, i propri impulsi e il proprio corpo. Ora, il ragazzo che mi sovrastava, non ero certa che, qualora gli avessi chiesto di fermarsi, lo avrebbe fatto. In ogni caso, non avevo alcuna intenzione di chiederglielo. E poiché le parole mi sembravano oltre modo superflue, mi limitai a sfiorargli la nuca, ad accarezzargli il collo, a percorrere le linee ben definite del suo torace e infine, a sollevargli gli orli della maglia che indossava. Edward mi rivolse uno sguardo che avrebbe potuto dar fuoco alla casa, al mondo, per quel che mi riguardava, e sollevò le braccia, lasciando che gli sfilassi la maglia.

Mi aggrappai con i polpastrelli e con le unghie alle sue spalle ampie e forti. Per un lungo momento cercai le risposte nei suoi occhi e lui il pentimento nei miei, non trovammo né l'uno né l'altro, allora le sue dita mi accarezzarono la pelle a livello della linea di confine con i jeans e imitò i miei gesti, sfilandomi la T-shirt e rivelando il mio seno nudo. I suoi occhi indugiarono sulla mia pelle, scaldandola: andavo a fuoco. Edward, accortosi del mio pudico imbarazzo, si chinò a depositare un bacio a livello dello sterno, per poi risalire lungo la linea del collo e il mento.

Cercai freneticamente le sue labbra, aggrappandomi al suo collo e le sue mani grandi mi spinsero a raddrizzare il busto, così mi ritrovai a cavalcioni sulle sue gambe, stretta contro il suo petto. Nei minuti successivi, lasciai che mi stendesse sul letto, che mi spogliasse dei jeans, che mi osservasse con incredulità, ammirazione, desiderio, che si facesse largo fra le mie gambe. Lasciai che mi amasse per tutta la notte, fino al mattino. Mi sorpresi della semplicità con cui mi abbandonai alle sue braccia, ignorando il suo corpo gelido che pian piano si scaldava a contatto con il mio. Ignorando l'imbarazzo, perché i suoi occhi avrebbero visto ogni singolo difetto della mia pelle, consapevole che il desiderio che leggevo in essi avrebbe compensato. Il nodo in gola e il peso sul cuore che mi opprimevano da mesi si sciolsero e io potei finalmente respirare. E vivere. Le sue carezze, i suoi baci, la sua lingua, il suo profumo mi avvolsero, anche nel sonno. E se per mesi avevo tentato di eliminare ogni traccia di lui, quella notte vanificò ogni sforzo ed Edward penetrò in me profondamente. Penetrò nelle mie vene come veleno.

 

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Capitolo 9
*** 8) Il calore dell'adulterio ***


Buonasera! Come ho scritto in una recensione, questo è un capitolo "prologo", dà avvio a una nuova "era" della storia. Ho notato che tutti, almeno nelle recensioni, avete provato moltaaa pena per Tanya soprattutto e per Enrique, ma potreste cambiare idea, almeno su uno dei due.... nei prossimi cap. In questo capitolo ho utilizzato due pov... Vorrei ringraziare come sempre chi lascia un commento o chi legge e basta. Fatevi sentire, perché mi riempite di gioiai : ) Per rivedere Enrique dovrete aspettare ancora un paio di capitoli... chissà se indovinate a chi mi sono ispirata per il suo asptto... non è difficile...

8) Il calore dell'adulterio

Edward

Quella mattina, il suo corpo caldo e morbido rannicchiato contro il mio fianco e la pioggia che batteva leggera sul vetro, realizzai di essere un adultero. Dimentico del tempo, le accarezzavo il volto con la punta delle dita, quasi temessi di turbare il suo sonno o la notte, incoraggiandola a lasciare il passo all'alba. Sapevo ciò che avrei dovuto provare, vergogna e rimorso, ma, col suo respiro sulla pelle e il suo profumo nelle narici, con il ricordo della notte appena trascorsa a ossessionarmi la mente e il desiderio di lei, non ancora quietato, a torturarmi il corpo, non riuscivo a sentire che sollievo. Il perenne nodo in gola, dovuto alla sensazione che tutto andasse nel verso sbagliato, stanotte si era sciolto e io avevo ripreso a respirare, dopo mesi. Un po' com'era accaduto quella prima volta, nell'aula di biologia.

Stare con lei era stato così semplice, era sembrato così giusto, nonostante il timore che potesse essere infastidita dal freddo della mia pelle o che potessi nuocerle, in qualche modo. Le lasciai un bacio in frante, stringendola contro il mio petto, geloso persino dell'aria che le sfiorava la pelle e le baciava le labbra. Come avrei potuto fingere che quella notte non fosse mai esistita? Come avrei sopportato di guardarla ogni giorno senza poterla toccare, senza fare parte della sua vita? Mi mancava parlarle, ridere senza doverci punzecchiare.

Mi ero chiesto per ore, non appena il sonno l'ebbe portata lontano da me, cosa significasse quella notte. Mi amava ancora? Mi aveva perdonato? Le sue parole, prima che la interrompessi, sembravano cariche di rabbia nei miei confronti. Se le avessi spiegato le miei ragioni, puerili, piene di bugie, che avevo capito essere scuse per la mia paura, se avessi ammesso le mie colpe, sarebbe bastato? E Tanya? Avevo tradito la sua fiducia, la mia parola, le avrei spezzato il cuore, ma ciò che temevo più di ogni altra cosa erano le conseguenze sulla sua mente instabile. La sua dipendenza nei miei confronti mi spaventava a morte. Mi alzai a malincuore, perdendo qualche istante ad osservarla, così piccola in quel letto così grande. Mi infilai i jeans, raccogliendo il resto degli indumenti sparsi per la stanza. Piegai i suoi jeans e la T-shirt, riponendoli accanto a lei. Mi accostai alla finestra, in ascolto, assicurandomi di non percepire pensieri o intenzioni moleste nei paraggi.

Diluviava. Strinsi i pugni. Se ripensavo alle sue ferite, ai suoi occhi agghiacciati dal terrore, al suo corpo spossato dalla fatica, mi sentivo lacerato da una rabbia cieca. Non tolleravo, e d'altronde non lo avevo mai accettato, che lei soffrisse, qualsiasi fosse la causa e la ragione. Le abitudini sono dure a morire, pensai sorridendo. Mi avvicinai al letto, chinandomi al suo capezzale, sfiorandole le labbra e la vidi, la piccola fede d'oro giallo, simbolo del mio impegno, del mio legame con Tanya. Le avevo chiesto di sceglierle, le fedi, sapevo che lo avrebbe apprezzato. Certamente mi stava aspettando, preoccupata, gelosa, inconsapevole che avevo trascorso la notte più bella della mia vita... con un'altra donna. Poco importava che fosse lei, l'unica donna che avrei mai potuto amare, l'unica che avrei mai potuto desiderare.

“Bella”, la chiamai, accarezzandole i capelli, ma ritraendo subito le mani per non essere tentato dalla dolcezza del suo corpo e per non doverla sfiorare con il freddo del metallo che indossavo.

“Bella”, la chiamai ancora. Lei sollevò lentamente le palpebre, le lunghe ciglia a carezzarle le guance e il viso contratto, un po' arrabbiato, come se l'avessi appena strappata da un bel sogno. Le accarezzai la tempia, in prossimità di una piccola cicatrice rossastra. Non doveva essere questa, la sua prima volta. Non in una casa sconosciuta, in un letto altrui, dopo essere scampata alla morte, con la fretta di fuggire, con un uomo già sposato... Ma non potevo negare di essere stato rincuorato... di più soddisfatto... elettrizzato dall'idea che lei era ancora mia. Come se le avrei mai permesso di appartenere a qualcun altro...

Mi vergognai di quei pensieri e ringraziai che fossero solo miei.

Mia. Un tantino riduttivo per descrivere il senso di totale appartenenza che provavo nei suoi confronti, come fosse una parte del mio corpo, un'estensione della mia pelle, un pezzo del mio cuore: quello che ancora batteva.

Si alzò di scatto, rannicchiando le ginocchia al petto e trascinando con sé il lenzuolo che avevo recuperato da un pacco, per coprirla in modo tale che non prendesse freddo. I suoi occhi mi fissarono, scavando nelle miei iridi e nella mia testa, come potesse leggermi nel pensiero. Fossi stato umano sarei arrossito.

“Dobbiamo tornare”, le dissi.

Non accennava a muoversi. Aspettava che io parlassi, che dicessi ciò che avrei voluto dire, ciò che le avrei detto in altre circostanze, senza la fede a pesarmi sul dito.

Dopo qualche istante i suoi occhi si raffreddarono, annuì impercettibilmente, afferrò i vestiti e scese dal letto. Mi scostai per darle modo di passare. Si allontanò di qualche passo, poi esitò e tornò indietro. La vidi portare le mani all'orlo della mia t-shirt che le avevo fatto indossare quella notte e sfilarla.

Mi mancò il respiro, il palato arido di veleno, sgranai gli occhi per imprimere ogni particolare del suo corpo nudo e stabilire se fosse cambiato qualcosa in lei, da quella notte.

“Grazie”, mi disse, porgendomi la maglia che afferrai con più forza del necessario.

Poi si allontanò, nuda; i miei occhi la seguirono e la indagarono fin quando non scomparve in bagno.

Era solo più bella.

E io solo un idiota.

Indossai la maglia, che profumava intensamente di lei. Raccattai le nostre cose e scesi in garage, dove fortunatamente si trovava una vecchia Toyota. Dopo essere riuscito a metterla in moto la parcheggiai nel vialetto e tornai in camera.

Lei era lì, seduta sul letto a gambe accavallate, un po' curva, con le mani immerse fra i capelli, si portava nervosamente la stessa ciocca dietro l'orecchio che continuava a ricaderle sul viso. Mi avvicinai, senza riflettere, accovacciandomi di fronte a lei così che fossimo alla stessa altezza, agganciandole la ciocca e accostandomi alla sua guancia, per saggiare l'odore della sua pelle.

“Sai di me”, le dissi.

Bella appoggiò la fronte alla mia, ad occhi chiusi, strofinando la sua pelle contro la mia pelle e circondandomi il collo con le braccia. Fece scorrere le dita sulle mie spalle, poi sugli avambracci e infine le mani, le stesse con cui l'avevo accarezzata. Nel momento in cui incontrò l'ostacolo della fede aprì gli occhi, contrasse il volto e si rigirò la mia mano sinistra fra le sue.

“Perché?”, mi chiese e questa volta mi fissò dritto negli occhi.

“Se te lo dicessi, mi odieresti. E in ogni caso, non cambierebbe niente”, le risposi debolmente.

“Tu mi hai...”, iniziò.

“Presa”, conclusi per lei.

Arrossì, ma ribatté: “Sì, presa. E' questo è tutto ciò che riesci a dirmi? Cosa significa che non cambierebbe niente? Cosa dovrebbe cambiare? Lascia decidere a me se ti odierei”.

“Cosa...”, iniziai.

“Smettila”, urlò e si allontanò di scatto da me, come se le avessi dato una scossa.

“Smettila di sembrare così... affranto? Tu sei... sposato, Edward. Capisci? Sposato. E dovresti essere innamorato, felice, libero da ogni angoscia e paura. Questo significa amare. E come se non bastasse questo a fare sembrare tutto... ridicolo, hai fatto l'amore con me. Hai tradito tua moglie con me. La stessa ragazza che hai lasciato perché non era quella giusta. Cosa pensavi, Edward?”.

Parlai senza riflettere.

“Se io ti dicessi che erano tutte bugie, quelle nel bosco. Se ti dicessi che non ho smesso neanche per un istante di amarti, di volerti. Se ti dicessi che l'ho fatto per proteggerti da me e tutto ciò che comporta stare con me, ma che ho capito essere soltanto bugie. Perché avevo paura di un'infinità di cose. Se ti dicessi che ho sposato un donna quando non capivo neanche dove mi trovassi o chi fossi, in preda alla disperazione e che non posso lasciarla. Se ti dicessi che vederti con lui mi fa impazzire e che questi ultimi giorni sono stati un inferno. Se ti dicessi che ti ho presa perché ti volevo, non cambierebbe niente”.

Mi accostai a lei, senza sfiorarla neanche per errore, sapevo che non lo avrei sopportato. “Se ti dicessi che ti voglio, anche adesso, non cambierebbe niente”.

“Quello che dici non ha il minimo senso”, sussurrò e sembrò espirare tutta l'aria che aveva in corpo.

“Se ho... afferrato, vorresti farmi credere di avermi lasciato, anche se mi amavi, di aver sposato un'altra donna, di esserci stato a letto per errore. Vuoi farmi credere di avermi distrutta e che io ho sofferto per settimane, mesi interminabili perché tu avevi... paura? Tu sai cosa si prova a vedere l'uomo che ami, che adori, che avevi creduto ti sarebbe stato accanto per l'eternità sparire all'improvviso e poi rivederlo, quando sapevi che non sarebbe mai successo perché se un vampiro non vuole farsi trovare puoi stare sicura che non lo troverai, e vederlo accanto a un'altra donna, sposato. Sposato! Questo è da paura. E solo per errore... e adesso ti permetti di venirmi a dire che sai di aver sbagliato, che vuoi me ma che non puoi cambiare la situazione”.

“Bene, ma lascia che ti dica una cosa, Edward. Anche ammesso che tu voglia cambiarle, le cose, io non sarei disponibile”.

Detto questo, si allontanò di gran carriera.

 

Il viaggio in auto fu silenzioso e spossante. Lei non mi rivolse la parola. Evitava il mio sguardo come si evita la peste.

“Siamo quasi arrivati”, le comunicai.

“Sai cosa odio più di ogni altra cosa di questa storia, a parte l'ovvio?”, mi chiese.

Mi limitai a fissarla.

“Odio che tu abbia deciso per me. Odio che tu non abbia mai preso in seria considerazione il mio amore, il mio desiderio di starti accanto a dispetto di tutto. Odio che tu mi abbia sottovalutato a tal punto”.

Sospirai, preferendo guardare la strada, piuttosto che i suoi occhi delusi. “Io ero pronto a tutto per te, avrei fatto qualsiasi cosa. Avrei sacrificato qualsiasi cosa, anche me stesso. Ma non riuscivo a credere che per te fosse lo stesso. Io so quanto puoi amare, lo vedevo, nei miei confronti e della mia famiglia. Lo vedevo quando accarezzavi i capelli di Alice, come se lei fosse la bambina e non tu. Lo vedevo nella tua calma di fronte all'atteggiamento di Rosalie o al distacco di Jasper e nel tuo sguardo paziente alle battute rozze di Emmett. Lo vedevo ma non riuscivo ad accettarlo. Io non ho sottovalutato te, andando via. Ho sottovalutato me stesso. Perché non pensavo che tu potessi amarmi. Per quanto mi riguardava, ciò che io provavo era più che giustificato nei tuoi confronti ma non viceversa. ”.

Lei mi osservò a lungo, senza parlare.

“Io amavo anche questo di te”, aggiunse, dopo diversi minuti di silenzio, “la tua fragilità. L'ho notata fin dal primo istante che ti ho visto, dietro l'apparente perfezione del tuo viso e il tuo sguardo cupo. Sembravi assente, non badavi a ciò che ti accadeva intorno, ma io ho sempre creduto che non fosse vero. Nei tuoi occhi, e lo si notava soltanto ammesso che si riuscisse a fissarli abbastanza a lungo, c'era una tale vitalità, una luce che illuminava tutto ciò su cui posavi lo sguardo. Sono stati la tristezza e la solitudine ad attrarmi a te, prima ancora che il tuo aspetto o la tua intelligenza. Amavo i tuoi dubbi, le tue incertezze, la tua forza, la tua arroganza. Amavo tutto. Per qualche mese mi sono illusa di poter essere la “cura” a tutti i tuoi... mali e che tu fossi la mia. Ma evidentemente il mio amore non è bastato a cancellarli. Adesso ho deciso di mettere me stessa al primo posto e tentare di guarirmi da sola. Perciò non posso accettare che tu abbia deciso per me. Non posso giustificarlo”.

“Anche se ti amo, come nessuno ha mai amato qualcun altro”, aggiunse.

Il silenzio ci accompagnò fino in prossimità della villa. Le sue parole impresse a fuoco nella mia mente.

“Ti amo”, le dissi d'un tratto, quando ebbi spento il motore.

Sussultò, chiuse gli occhi e non parlò.

“Ti amo”, ripetei, “Ti amo e non dovrei. Ti amo quanto un padre ama una figlia, un fratello ama una sorella e un marito ama una moglie. Ti amo così tanto che non ho i mezzi per quantificarlo. Così tanto che a volte temo di impazzire, di non poterlo contenere. E più il tempo passa e più ti amo, come se fosse possibile mi innamoro di te ogni giorno di nuovo...”.

“Ma questo non cambia niente”, aggiunse per me.

Non risposi.

Scese dall'auto, sbattendo con forza la portiera. La seguì dopo qualche istante.

Sulla soglia, Esme ci attendeva a braccia aperte. Bella si lasciò stringere, soffocare dall'affetto di mia madre, che mi lanciò uno strano sguardo. Tutto sommato, sembrava sollevata. Subito alle sue spalle, Carlisle ci attendeva ansioso. Mi diede una rapida pacca sulla spalla.

“Devo medicarti”, borbottò fra sé Carlisle. Bella scosse il capo.

“Può aspettare, devo parlare con Alice”, si affrettò a dire Bella.

“Bella, non penso sia una buona idea”, cercò di dissuaderla Carlisle, riservandomi uno sguardo ansioso. Ma lei si era già allontanata, per poi bloccarsi prima di entrare in salotto. La stanza era sottosopra, il divano capovolto, i mobili distrutti, la parete in parte forata, come se qualcuno l'avesse colpita ripetutamente con pugni tanto forti da nuocere al cemento.

Tanya se ne stava in un angolo, rannicchiata, con le ginocchia strette al petto e oscillava avanti e indietro, lo sguardo nero e vitreo. Continuava a picchiare con il pugno chiuso della mano sinistra contro la parete, ma così debolmente da non riuscire a scalfirla, questa volta.

“Ed... Edwa...Ed”, ripeteva.

Poi sollevò gli occhi, puntandoli sul mio volto e i suoi tratti si distesero, sorrise persino, lasciando scivolare il braccio sul pavimento.

“Ed”, sussurrò. Il sollievo nella sua voce mi impietrì, ma soltanto per pochi istanti, fin quando non imposi al mio corpo immobilizzato di muoversi verso di lei. La afferrai saldamente, sollevandola tra le mie braccia.

“Pensavo che non saresti tornato, pensavo che saresti andato via...”.

Con lei, pensò.

“Sono qui”, le dissi, la voce incrinata, lasciandole un bacio fra i capelli. Ignorai i pensieri dei miei familiari, i loro sguardi. Ignorai lei, contro ogni istinto del mio corpo, e presi a salire le scale che conducevano al piano superiore. Mia moglie tra le braccia, che adagiò il capo sul mio petto, inspirando a fondo il mio odore.

“Sai di lei”, disse.

 

Bella

Sono un angelo con un fucile, un fucile, un fucile

Sei un santo o un peccatore?
Se l'amore è uno scontro, io morirò
Col cuore su un grilletto?

Si dice che prima di iniziare una guerra
Dovresti sempre sapere per cosa combatti
Combatterò finché la guerra non sarà vinta
Non mi importa se il cielo non mi riaccoglierà
Voglio vivere, non solo sopravvivere
Stanotte

A volte per vincere devi peccare
Angel with a shotgun

 

 

Lasciai che Carlisle mi medicasse il braccio, applicando svariati punti di sutura. Osservavo le sue mani esperte operare sulla mia pelle, senza riuscire a vederle realmente.

Dal momento in cui avevo aperto gli occhi, quella mattina, incerta se avessi sognato o meno, Edward non aveva fatto altro che ripetere: “Non cambierebbe nulla, in ogni caso”.

Fino a qualche istante fa, prima di assistere indirettamente alla furia di Tanya nello scempio del salotto o di osservare lo stato di panico e isteria in cui versava, avrei detto che mentiva, mosso dai sensi di colpa. Ma in quell'istante, mentre Tanya si aggrappava alle sue spalle forti, affondando il volto nel solco del suo petto, gran parte dei tasselli del puzzle si unirono, disegnando un'immagine precisa. Le sue parole, su quanto non potessero cambiare le cose, pur volendo, trovavano una collocazione. Lasciare Tanya avrebbe significato distruggerla e per quanto potessi odiarla, perché aveva preso ciò che era mio, non avrei augurato a nessuno di vivere la mia stessa esperienza, di patire il mio stesso dolore. In più, capivo che Edward non avrebbe mai perdonato se stesso se le fosse capitato qualcosa a causa sua. Perché si sentiva responsabile per lei, lo leggevo nel suo sguardo apprensivo, lo capivo dal destino a cui si stava condannando: trascorrere l'eternità con una donna che non amava.

Amava me.

Parole alle quali, in quel momento, non riuscivo ad assegnare il giusto peso. Parole che non riuscivo ad accettare. In realtà, ero posteggiata in una sorta di limbo, in attesa di metabolizzare la notte appena trascorsa e tutto ciò che ne era conseguito. In dubbio persino su cosa avrei dovuto provare: sollievo, perché lui mi amava e continuava a stare con Tanya soltanto perché obbligato, oppure un'infinita tristezza per la stessa ragione? Se avevo costruito degli argini molto alti per impedire alla diga dei miei pensieri di straripare, non potevo vietare al mio corpo di ricordare le sensazioni provate quella notte. Un piacere così intenso che non pensavo potesse esistere, né tanto meno che si potesse provarlo sulla propria pelle, un sollievo tale, come se avessi ripreso a bere e a mangiare dopo settimane trascorse senza, come se avessi smesso di trascinarmi il peso del mondo sulle spalle. Finalmente tutto andava per il verso giusto. In più le sue parole, le poche che mi aveva rivolto quella notte che non fossero gemiti o profondi ringhi gutturali, sarebbero bastate a far impazzire qualsiasi donna, altrettanto le sue mani, straordinariamente tenaci e delicate. Un piccolo focolaio si accese nel mio petto al pensiero che non ero stata io, la prima donna che aveva amato in quel modo.

“Ecco fatto”, disse Carlisle, riponendo i suoi strumenti nella valigetta di cuoio. “Abbiamo finito”.

“Grazie”, dissi, riabbassandomi la manica della maglia.

“Una volta non riuscivi mai a guardare, mentre ti medicavo”, sospirò Carlisle, senza voltarsi a guardarmi e continuando a rovistare nella sua valigetta.

“Le cose sono cambiate da allora”.

Carlisle sorrise e questa volta mi rivolse uno sguardo che avevo imparato a riconoscere negli occhi di mio padre: orgoglio.

“Sai sono stati giorni orribili, ho temuto, lo abbiamo temuto tutti, di non poterti riabbracciare. Sei stata molto brava”, mi disse, accarezzandomi i capelli. A quel gesto il fiume straripò oltre gli argini e iniziai a piangere e singhiozzare istericamente, abbandonandomi tra le braccia di Carlisle che mi strinse forte a sé.

“Sei al sicuro. Adesso sei al sicuro”.

“Non l'ho salvata, Carlisle. E' morta al mio posto... avrei dovuto... ma non potevo, capisci? Non avevo altra scelta, non c'era modo di uscire. Tutte quelle persone, non sono stata in grado di aiutarli. Troppo debole... debole. Non avevo la forza di aiutarli. Non ho mai la forza. Temevo... temevo che sarei morta in quel sudiciume”.

“Sei al sicuro – ripeté. E capita... di non avere la forza.”, mi disse.

“Tu l'avresti avuta. Voi saresti riusciti a salvarli”, mormorai, dopo aver versato ogni lacrima del mio corpo.

“Nel mio lavoro, nel nostro lavoro, tutto ciò che stai sentendo è all'ordine del giorno. A volte non basta avere sensi sviluppati, né una conoscenza centenaria per salvare una persona. E sono sempre bambini, piccoli, belli e innocenti. Non posso impedire a un cancro di andare in metastasi, né a un organo di cedere durante un trapianto, eppure continuo a fare il mio lavoro. Continuo ad andare avanti. A volte non si può fare davvero altro”.

“Andare avanti”, mormorai, smettendo di stringere tra le dita la sua camicia, zuppa delle mie lacrime e asciugandomi il volto con la manica.

“Andare avanti anche se tutto va a rotoli. E questa la scelta giusta?”.

“Sì. E' questa la scelta giusta. Ciò che importa è che tu non perda te stessa. Devi aver chiaro chi sei o chi vuoi essere, ad ogni scelta che compi”.

“Io voglio essere forte, Carlisle”.

“Lo sei già, ma non lo vedi. Nessun altro essere umano avrebbe fatto ciò che hai fatto tu. Hai dimostrato coraggio, astuzia”.

“Per gran parte della mia vita ho creduto che chiunque altro avrebbe fatto meglio di me, fosse stato al mio posto. E' sempre così. L'ho creduto con mia madre, quando ero troppo piccola, impotente e pensavo che un'altra bambina avrebbe saputo aiutarla. L'ho creduto con Charlie, quando ogni estate ero costretta a lasciarlo per tornare da Reneé e pensavo che chiunque altro avrebbe trovato un modo per non renderlo triste. E l'ho creduto con Edward, quando mi ha lasciato e ho pensato che un'altra donna avrebbe saputo renderlo felice. Sarei ingiusta se l'ho incolpassi di tutto. Non era l'unico ad aver paura. Io non ho avuto il minimo dubbio sulle sue parole, mentre le pronunciava. Nonostante i miei occhi mi dicessero il contrario, gli ho permesso di andare via. La colpa è anche mia Carlisle. Non voglio più essere debole”.

“Lo conosci meglio di chiunque altro. Persino meglio di me”, disse, dopo un minuto buono di silenzio.

A questo non obiettai.

“E' in meno di un anno, mentre io ho tentato per un secolo di capirlo e ancora oggi alcune sue scelte non riesco a condividerle. Non a tutti è concesso di avere ciò che voi avete, l'essere l'uno per l'altra. Hai lasciato che i tuoi preconcetti ti offuscassero la capacità di giudizio. Tu sapevi quanto ti amava, quanto tutti noi ti amassimo e il fatto di non sentirti mai abbastanza, qualsiasi sia il ruolo che ricopri, ti ha rovinato. Perché non hai lottato. Capisci che per essere un buon medico non basta avere delle conoscenze? Quando una vita dipende dalle tue scelte, dal tuo operato, devi essere sicura di saper fare ciò che fai. Non puoi permetterti di non considerarti adatta. Non puoi pensare che un qualsiasi altro medico avrebbe fatto meglio di te. Perché tu sei lì, in quella sala operatoria. Tu hai il bisturi in mano, non un altro”.

“Non posso esitare”, dissi.

“No, non puoi. Non devi, non ne hai motivo. Capisco che tutto ciò che hai dovuto affrontare ti abbia condizionata, ma se avessi combattuto per il ruolo che ti spettava, al fianco di Edward, ora non saremmo a questo punto, probabilmente” mi fece notare.

“Anche se dissuadere Edward da un suo proposito, non è certo facile”.

“Mi ha rovinato...”.

“Tempo”, mi disse

“Grazie, Carlisle. Adiamo da Alice”.

…....................................

 

Quando ritornammo in salotto, i Cullen stavano parlottando fra di loro.

“Tanya?”, stava chiedendo Esme.

“Di sopra”, rispose Edward, che mi dava le spalle. Sembrava angosciato. Carlisle mi strinse leggermente il braccio, a livello della ferita, dandomi sollievo con il suo tocco gelido.

Alice mi strinse una mano fra le sue, trascinandomi sul divanetto a due posti al suo fianco. Emmett si accovacciò di fronte a me.

“Sembri tutta intera, sorella. Alice ci ha raccontato che hai fatto faville, letteralmente”. Gli diedi una pacca sulla guancia.

“Mi saresti servito in questi giorni”, gli dissi.

Il viso di Emmett si scurì, solo per un istante, per ritornare allegro subito dopo. “Mi rifarò”, promise.

“Te la senti di raccontarci cosa è successo?”, mi chiese Alice.

“Non pensavo avrebbe rischiato tanto”, sussurrai, mentre Edward, e lo percepì più che udirlo realmente, occupava il posto di fronte a me, seppur a debita distanza.

“Non gli importava di essere visto, affatto. Ha corso per ore, la maggior parte del tempo l'ho trascorso priva di sensi, per via della botta in testa. Poi siamo arrivati al casolare. Erano dieci, undici o forse di più. La maggior parte di loro era controllata, posata, a eccezione di quattro. Sembravano indemoniati, assetati all'inverosimile. Neonati. O almeno così li ha chiamati. Mi ha allontanata e mi ha condotta in una stanza, un seminterrato”.

Tremai non abbastanza impercettibilmente perché i vampiri non lo notassero. Alice allacciò la sua mano alla mia con ancor più forza. Strinsi i denti, metaforicamente.

“Eravamo in sedici. Tutti molto giovani, sotto i trent'anni. Li affamavano e li assetavano per settimane. Anche se non capisco la ragione. Ma so per certo che li trasformavano. Ogni tanto, qualcuno scompariva... Durante il giorno si sentivano strani rumori, si allenavano nello spiazzale di fronte all'edificio. La stanza era immersa nel buio ma ne sono certa. Durante la notte la maggior parte di loro usciva. Un uomo, John, era lì da molto tempo, ha tentato di uccidersi mordendosi la lingua. Ho provato a salvarlo, per quanto mi fosse possibile, ma non ho potuto far niente. Michael ci ha trascinati al piano superiore e l'ha... E' stato a quel punto che mi ha parlato di lei, Victoria. Però, sono state le sue parole a colpirmi. Ha detto che capiva perché Victoria avesse voluto uccidermi e perché non vedeva l'ora di liberarsi di me, l'indomani. Ha parlato al passato, capite? Come se adesso le sue intenzioni fossero cambiate. In realtà, Michael avrebbe potuto uccidermi in qualsiasi momento, ma non l'ha mai fatto. Lui voleva che io vivessi e non perché fosse Victoria a uccidermi. Ne sono certa. Altrimenti avrebbe potuto affamarmi, come ha fatto con gli altri, anziché offrirmi la colazione. Io non ero una prigioniera, ero un ospite”.

“Cosa poteva volere Victoria da te, se non ucciderti per vendetta?”, mi chiese Alice.

“Non lo so”.

“Hai parlato di... neonati?”. Mi voltai in direzione di Jasper, che aveva mosso qualche passo nella mia direzione, il volto contratto.

“Sei certa che si trattasse di neonati, Bella?”, mi chiese.

Annuì.

“Come hai fatto a...”. Jasper si fermò prima di concludere la frase.

“Sopravvivere? Scappare?”.

“Mi ha aiutata, uno di loro. Una neonata”.

“E' impossibile. I neonati sono feroci, incontrollabili, selvaggi, assetati di sangue. Lo so, li ho addestrati e combattuti per anni”, ringhiò Jasper. Ricongiunsi i pezzi mancanti del puzzle. Esward mi aveva raccontato che Jasper era stato un soldato, in entrambi i mondi in cui aveva vissuto.

“Lo era, Jasper. Ma è stata abbastanza lucida da decidere di aiutarmi. Non sarei qui, altrimenti”.

Jasper non replicò.

“Allora sono felice di essermi sbagliato, in questo caso”, mi rispose, un po' impacciato.

Sorrisi. Sorrisi veramente, dopo giorni.

“Che differenza fa se si tratta di neonati o di normali vampiri?”, gli chiesi.

“I neonati non sono soltanto indomabili, sono anche molto forti. Nel nostro primo anno di vita lo siamo tutti. Più forti persino di Emmett”.

Il sottoscritto sbuffò. “Vorrei vedere”, borbottò.

“Victoria sta trasformando esseri umani in nuovi vampiri, ciò vuol dire che ha bisogno di forza e per una qualche ragione a noi sconosciuta vuole Bella”, concluse.

“Penso che li selezionassero”.

“Cosa?”, mi chiese Alice.

“Gli umani. Credo che li affamassero e li assetassero per testare la loro resistenza. Quando Michael ha ucciso John, ricordo di avergli sentito dire che pensava avrebbe resistito di più. Ma non avevo collegato prima”.

“Ha bisogno di forza, ma anche di talento”, constatò Jasper.

“Pensate che potrebbe voler attaccare...”.

“Noi?”, concluse per me.

“Ma ti vuole viva”.

“Ma vuole Edward morto. E aveva già pianificato che mi avrebbe rapita. Vuole voi. Lei vuole voi”.

I miei occhi lo reclamarono, per quanto tentassi di impedirlo. Edward mi stava osservando a sua volta, i gomiti sulle ginocchia e il mento adagiato sulle nocche.

“Che vengano”, esordì Emmett, battendo il pugno chiuso contro il palmo della sua mano sinistra.

Lo fissai inquieta.

“Siete in inferiorità numerica”.

“Siamo migliori di loro, in forza e strategia”.

“Sono molto forti Emmett, alcuni di loro sono dotati, come voi”.

“Chi?”, mi chiese Jasper.

“Michael... lui è in grado di percepire i desideri altrui e renderli concreti. Sebbene si tratti di un'illusione è molto reale e confonde facilmente”.

“Avrei voluto cedere, nel bosco”, sussurrai, ricordando quell'istante in cui avevo realmente creduto che i miei desideri si stessero concretizzando, per poi ritrovarmi in mano nient'altro che fumo.

Il ricordo di quel momento ne risvegliò un altro, di pari intensità.

Alzai lo sguardo su Edward.

“Ho ucciso... Io credo di aver ucciso un vampiro”, balbettai.

Edward mi rivolse uno sguardo esitante, come se faticasse a trovare un senso in ciò che stava ricordando. Con quanto era accaduto quella notte, avevamo entrambi dimenticato quel particolare sconcertante. Arrossì lievemente, ma a Edward non sfuggì, lo capì dal suo sguardo fattosi d'improvviso intenso.

“In che senso?”, chiese Emmett.

Edward rispose per me.

“Lo ha... incenerito”. Sei paia di occhi dorati si fissarono sul mi volto.

“E come?”.

“Io non... io non lo so. Ho sentito il fuoco sotto la pelle, nella ossa e poi è esploso dal mio corpo”.

“Mai sentito nulla del genere”, commentò Emmett.

“Carlisle”, chiese Edward.

Carlisle scosse il capo, in evidente difficoltà.

“Potrebbe essere un dono”, propose, “come leggere il pensiero o controllare l'umore, o meglio ancora vedere il futuro. Alice aveva visioni già da umana”.

“Un dono”, mormorai.

“Devi insegnarmi come usarlo”, dissi, alzandomi di scatto e fronteggiando Jasper.

“Io non...”.

“Tu sei un soldato. Chi meglio di te potrebbe addestrarmi?”.

“Addestrarti?”, ringhiò Edward. “Ed esattamente in quale battaglia pensi di dover combattere?”.

“Qualunque battaglia mi capiterà”.

“E' pericoloso, qui non parliamo di leggere nel pensiero. Vuoi letteralmente giocare con il fuoco”.

“E' un rischio che sono disposta a correre e poi immagina se riuscissi a controllarlo. Saprei proteggere me stessa da chiunque, vampiri inclusi”.

Edward esitò. Quella prospettiva, la mia protezione, lo avrebbe fatto capitolare.

Mi rivolsi nuovamente a Jasper. “Jazz... aiutami, da sola non saprei cosa fare. Inoltre sono stufa di essere sempre così impreparata e inetta. Capisco che contro dei vampiri potrei fare poco o niente, ma voglio essere... voglio essere più forte”.

“Bella, io posso addestrarti... posso renderti fisicamente più forte, ma non posso aiutarti a sviluppare il tuo dono. Non ho avuto bisogno di imparare a gestire il controllo dell'umore, per me era così naturale, spontaneo, non saprei davvero cosa fare per te. Persino Edward sarebbe impotente, perché controllare una capacità a livello mentale è differente dal farlo a livello fisico. E se tu hai incenerito un vampiro senza alzare un dito di certo non si tratta di un'illusione”.

“Devo imparare. Devo imparare come utilizzarlo, Jasper”, lo pregai.

“Io non...”.

“Io posso esserti d'aiuto”.

Volsi lo sguardo in direzione di quella voce nota, più di quanto avrei desiderato che lo fosse.

Tanya scendeva con eleganza, noncuranza, quasi come se non vedesse la devastazione di cui era stata responsabile. Il mio intero corpo si irrigidì. Una nuova e più feroce ostilità si era radicata in me. Sragionavo.

Sentì caldo, molto caldo.

Tanya mi rivolse uno sguardo diverso da qualsiasi altra occhiata mi avesse regalato in quelle settimane. Uno sguardo che conoscevo bene, instabile, inquieto e fragile: lo sguardo di mia madre. Che tante volte le avevo visto da bambina. Tremai.

“Ho aiutato mia sorella Kate a sviluppare il suo dono. Produce una corrente elettrica su tutta la pelle. Ti consiglio di non toccarla, quando non vuole essere toccata. In più, qualche decennio fa, Eleazar ha scoperto che ero in grado di produrre... gas. Un gas nocivo con una composizione chimica simile all'antrace e al polonio... dalla pelle. Il gas danneggia soprattutto gli umani ma ha effetti anche sui vampiri, la pelle che entra in contatto con la sostanza viene degradata così profondamente che neppure il veleno riesce a porvi rimedio. Sto ancora mettendolo appunto...”.

“Diciamo che un qualsiasi essere umano riuscirebbe a fare il giro della casa due volte prima che il tuo gas inizi a diffondersi...”, ribatté acidamente Rosalie.

“Ma so come fare”, continuò Tanya, ignorando Rosalie. “Naturalmente i risultati dipendono dalla pratica, dall'impegno e dalle capacità individuali. Potrei aiutarti, se lo desideri”.

Tanya si stava offrendo di aiutarmi? Mi chiesi quale potesse essere il suo scopo. Non certo la benevolenza nei miei confronti, supponevo che l'ostilità fosse reciproca. Ma allora? Lo cercai, nonostante non dovessi farlo. Non con lei lì. Ma lo cercai lo stesso.

Cosa devo fare? Gli chiesi con lo sguardo, in modo tale che soltanto lui capisse.

Sono qui, comunque. Mi rispose.

“Voglio che tu lo faccia. Aiutami”, sospirai.

Un voce contrariata urlò nella mia testa: l'orgoglio, che si opponeva strenuamente a che io le concedessi di fare qualcosa per me. Di avere a che fare con me. Chiederle aiuto accese in me un altro focolaio, provai la stessa sensazione del vampiro nel bosco. Mi sentì amorfa, inconsistente. Come se il suo sorriso estatico mi avesse ridotto in cenere.

 

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Capitolo 10
*** 9) Guerriero ***


Buonaera a tutti!!! Allora, c'è una notizia bella e una brutta.... la brutta notizia è che era l'ultimo cap già scritto quindi adesso gli aggiornamenti probabilmente ne risentiranno, la bella notizia è che è arrivata l'estate(insommaria...) quindi in teoria dovrei avere più tempo da dedicare alla storia.... Bando alle ciance, come sempre vi ringrazio per i commenti e l'apprezzamento che mostrate verso la storia. Il cap è un po' lungo ma diciamo pure che succedono un pochino di cose e nel prossimo ancora di più. Quindi vi lascio alla lettura, invitandovi come sempre a dirmi cosa ne pensate... : ) 

9) Guerriero

Sentirsi come un fiore
Incapace di appassire.

Sono libera

Libera
Come una nuvola nel vento
Che si dondola
Unica, unica
Come la luce della luna quando illumina.

Anna Tatangelo - Libera

 

“Visualizza, Isabella. Visualizza. Pensi di riuscire a visualizzare o chiedo troppo, considerando l'inferiorità delle tue facoltà mentali?”.

Urlò.

Urlava sempre.

Urlava insulti.

Anche io urlai... nella mia testa.

Sollevai le palpebre, che avevo serrato per tentare di racimolare la concentrazione necessaria a “visualizzare”, riservandole un'occhiata di fuoco.

Fuoco. Caldo. Tanto caldo.

Qualche gocciolina d'acqua scivolò dalla mia tempia, dalla fronte imperlata di sudore. Da quando avevo iniziato gli allenamenti con Tanya, un paio di giorni, il mio corpo agonizzava per via del caldo soffocante che percepivo, nonostante le temperature esterne fossero nella media. Quando non mi allenavo, trascorrevo il tempo a stretto contatto con Emmett ed Alice, in cerca della frescura emanata dalla loro pelle fredda come il ghiaccio.

Durante gli allenamenti lei mi imponeva di soffrirlo, il caldo, fin quando non fosse stato tale da costringermi a spingere fuori il fuoco che, a detta sua, strisciava sottopelle. Tanya sosteneva che aver utilizzato il mio dono per la prima volta avesse innescato qualcosa nel mio corpo. Non potevo darle torto.

Mi sentivo diversa.

Inizialmente avevo addotto queste sensazioni all'aver fatto... l'amore con Edward. Si diceva che cambiasse le donne. Ma non era solo quello ad aver scatenato in me un tale ardore e una tale sensazione di potenza sopita. Come se il mio corpo fosse una bomba ad orologeria pronta a esplodere, non soltanto dal desiderio che mi tormentava. Ero arrivata al punto di non poter stare nella stessa stanza in cui c'era lui, per non rischiare di incrociare il suo sguardo o peggio, fissare la mia attenzione sulle linee del suo corpo, su ogni guizzo dei suoi muscoli.

Tanya sorrise, in quel suo suo modo che esprimeva superbia e consapevolezza.

“Ho visualizzato”, le dissi. “Visualizzo da due giorni, ma non è cambiato niente. Evidentemente visualizzare non mi aiuta”.

“E' questo il modo”, ribatté lei. Mi morsi il labbro inferiore tra i denti, tentando di trattenere le urla nella mia testa.

Mi trovavo al centro esatto del vialetto di casa Cullen, intorno a me alberi, di fronte a me l'imponente edificio e i Cullen, a raccolta sul portico con l'eccezione di Emmett e Rosalie. Le loro espressioni non erano poi tanto differenti da quella che dovevo aver dipinta in viso: una maschera di irritazione, rabbia e sconcerto, dovuta al fatto che le permettevo di insultarmi, umiliarmi, senza oppormi o replicare, ma io avevo ben chiara la ragione del mio comportamento, di cui, tuttavia, non andavo fiera.

Era lui, la ragione. Lui che era diventato la ragione di ogni cosa.

Lui, che se ne stava sulla porta, accanto a Jasper che spesso gli rivolgeva occhiate ammonitrici. Lui che tollerava ancor meno di me il comportamento di sua moglie. Lui, così bello che mi era impossibile fissarlo a lungo, senza che il desiderio si trasformasse in dolore. Lui che aveva infranto ogni promessa di fedeltà fatta a sua moglie, pur di avermi. Lui... che mi aveva resa una puttana. Una delle più felici, ma pur sempre una puttana. E averlo sottocchio, accanto a lei, scatenava in me una tempesta di sensi di colpa, non per il gesto in sé, che non sarei stata in grado di rinnegare, ma per le modalità. Edward non era mio. Non avevo alcun diritto di prenderlo.

Indagata dallo sguardo velenoso di Tanya mi sentivo un verme. Per quanto stare con Edward mi era parso, e mi sembrava ancora, così giusto, io continuavo a sentirmi una puttana. E probabilmente lo ero. Mi asciugai i palmi della mani sui pantaloni blu della tuta che indossavo, insieme a una sottile canottiera nera.

“Il fattore scatenante potrebbe essere stata la paura, la necessità di difenderti visto il pericolo...”, rifletté Tanya. “Forse dovrei ricreare le stesse condizioni”, borbottò.

Prima che potessi realizzare il senso della sue parole, mi ritrovai il suo viso a pochi centimetri di distanza. Poi, la vidi sollevare il braccio a mezz'aria e colpirmi il busto. La sua forza devastante mi scagliò a diversi metri di distanza da lei. Per quanto potessero sembrare fragili e umane le sue braccia di donna, fu come se mi schiantassi contro il parabrezza di un'auto. Rantolai, stesa prona sull'erba, tentando di rialzarmi senza riuscirci, a causa di un dolore lancinante all'altezza del petto che mi rendeva difficile respirare. Feci leva sugli avambracci e raddrizzai il busto. All'inizio pensai che la densa foschia color paglierino fosse dovuta alla mia vista un po' appannata, poi compresi di cosa si trattasse. Gas. Un gas mortale che avanzava strisciando lentamente e l'erba e le delicate margheritine che entravano in contatto con esso seccavano, assumendo una colorazione nerastra. Morivano.

Mi assalì il panico. Sapevo che non mi avrebbe fatto del male, che sperava di far scattare il meccanismo e di accendere la miccia. Ma i suoi occhi... di un colore più scuro del gas, trasmettevano tutt'altro messaggio. I suoi occhi mi dicevano che non si sarebbe fermata, che avrebbe lasciato che il gas mi avvolgesse e mi uccidesse, come accadeva all'erba e ai fiori. Fu allora che visualizzai la miccia, il fuoco, il calore che strisciava sottopelle e sapevo... che sarebbe stato sufficiente spingere, affinché uscisse. La mia pelle agiva un po' come un muro, fra il fuoco e l'esterno. Un muro che io stavo costruendo. Perché, per quanto dovessi reagire, una parte di me non lo voleva. Quella parte di me che si sentiva alle stregue di una troia. Quella parte di me che vedeva in lei mia madre, la sua fragilità.

Qualche mese dopo il crollo emotivo di Reneé, scoprimmo il motivo per cui Phil l'aveva lasciata, oltre alla sua incapacità di farsi carico del dolore di mia madre: un'altra donna.

Ero diventata l'altra donna.

E mentre il gas avanzava, io e Tanya ci osservammo a lungo, lei dritta e glaciale, all'apparenza serena, e io a terra, a reggermi sulle braccia. In attesa di essere punita.

Tuttavia, la punizione non arrivò.

Alice si frappose fra me e il gas, fra me e Tanya. Dalle sue labbra proruppe un ruggito basso e gutturale. Non mosse un muscolo. Non si piegò all'attacco né in difesa, né tanto meno smise di apparire elegante e posata, bellissima... e spaventosa.

La rigidità del suo corpo, la curva delle sue mani e l'intensa brutalità irradiata dalla sua epidermide fattasi d'un tratto più pallida mi fecero accapponare la pelle.

“Alzati”, soffiò fra i denti.

Alzarmi.

Alzarmi sembrava impossibile. Il peso della mia intera esistenza d'improvviso prese a gravarmi sulle spalle e mi sentì stanca, ingombrante. Avrei voluto che bastasse scegliere di combattere, per trovare la forza di ingaggiare una battaglia. Un momento prima imploravo chiunque di rendermi più forte e trasformarmi in una macchina da guerra, il momento dopo strisciavo.

Arrendevole, debole, insignificante.

Parole che non mi appartenevano.

Combattere fa di un uomo un guerriero, pensai.

Alcune battaglie le avevo perse, molte delle quali contro me stessa, ma la guerra intendevo vincerla.

Feci leva sul palmo della mano, mi aggrappai con le dita ai ciuffetti d'erba e mi tirai su, incurante del dolore. Mi accostai con arroganza alla nuvola di gas prodotta dalla sua pelle. “Ricominciamo”, le dissi.

Avvertivo la presenza elettrica di Alice alle mie spalle. Tanya mi rivolse un altro lungo sguardo, poi il gas iniziò a retrocedere.

“Ricominciamo”, ripetei.

“Visualizza, ancora”.

Rilassai ogni muscolo prima in tensione. Nel frattempo, Alice ritornava al suo posto in veranda, ora vuota.

…..................................

Ravvivai i capelli ormai asciutti con le dita. Il movimento mi causò una fitta lancinante all'addome.

“Avrei dovuto strapparle i capelli”, sospirò Alice.

“Non è niente”, mi affrettai ad aggiungere.

“Dov'è?”, le chiesi, non riuscendo più a celare l'inquietudine.

Alice mi rivolse uno sguardo colmo di comprensione. “E' con Jasper, Bella. E' al sicuro”.

Lasciai che le sue parole mi rassicurassero.

“Non tollera che qualcuno ti ferisca”.

“Cosa dovrei pensare? Cosa dovrei fare, Alice?”, le chiesi.

Mi accarezzò dolcemente i capelli.

“Aspettare, suppongo”.

“Cosa dovrei aspettare?”.

“Che qualcosa cambi”.

“Sento... un gran vuoto. Temo che... aver...”.

“Aver fatto l'amore con lui”, sussurrò.

“Sì, temo che abbia soltanto peggiorato le cose. Se prima pensare di non poterlo avere accanto era doloroso, adesso è insopportabile”, soffiai, senza più voce.

“Lo so, tesoro”.

 

“Ricordi cosa ti ho chiesto l'altra sera?”, mi chiese Alice. Tentai di riportare alla mente la nostra ultima conversazione.

“Abbiamo parlato di ciò che era successo quella notte... fra me.... fra me ed Edward. Mi hai chiesto cosa avessi provato?”.

Alice annuì. “Che altro?”.

“Mi hai chiesto... come fosse amarlo. Cosa provassi ad amare Edward”.

“Tu mi hai risposto: “Reneé mi ha insegnato che amare vuol dire sentirsi fragili, insicuri. Non è quello che provo. Amare Edward mi fa sentire più forte”. Questo mi sembra un motivo più che valido per… combattere”.

“Sembra facile… ma come posso… se non ho un nemico da combattere. E non dirmi che si tratta di Tanya; ho visto con i miei occhi cosa significa strappare la sicurezza a qualcuno che… ne ha bisogno più di altri”.

“Non è lei che devi combattere. E' Edward il tuo nemico. Qualunque siano le sue motivazioni, deve capire che merita di averti. Deve capire ciò che vuole e quanto è disposto a pagarlo”.

“Non la ferirebbe mai a tal punto”, le feci notare.

“Non importa. Bella… deve scegliere. E la scelta non è fra te e lei, altrimenti non staremmo neanche discutendo. Deve decidere se pur di averti è disposto a fare qualsiasi cosa. Sia anche ferire Tanya”.

“Parlami di loro…”, le chiesi, in preda alla disperazione.

“Edward e Tanya sono sempre stati molto legati l'uno all'altra. Penso che abbia visto qualcosa in lei, al di là della sua freddezza e superbia. Il bisogno di amare e di essere amata, fin quasi a diventare un'ossessione. L'instabilità che dimostra è una prova del fatto che avesse ragione. Molti anni fa le sorelle Denali hanno perso la loro creatrice, ciò che Carlisle è per tutti noi. Da allora sono ferite e impaurite. Sasha… nessuno di noi l'ha mai conosciuta, neanche Carlisle. Sappiamo soltanto che è stata uccisa dai Volturi per aver infranto la legge...”.

“I Volturi? Ricordo che Edward me ne ha parlato. Sono una sorta di… famiglia reale, capi del governo”.

“Precisamente. Sono molto legati alla legge, l'unica che, in effetti, siamo costretti a rispettare: non rivelare l'esistenza della nostra specie. Sasha deve averla violata, così è stata giustiziata. Sasha trovò le sorelle Denali una notte d'inverno, era il 24 Maggio del 1571, le truppe russe stavano invadendo la Livonia, quando i tartari bruciarono Mosca. Le sorelle appartenevano a una casata nobile, di grandi generali, il cui nome è andato perduto negli annali della storia. Erano riuscite a fuggire, abbandonando la loro casa, i loro familiari rimasti indietro, nel fuoco. Non sono andate molto lontano. Un gruppo di crimeani le ha rapite, riconoscendo lo stemma della loro famiglia e pensando di poter ottenere informazioni. Sono state torturate con… acido… una sostanza simile a quella che Tanya emette dalla sua pelle sotto forma di gas. Sasha era a caccia… in realtà, pare non avesse alcuna intenzione di trasformarle: intendeva nutrirsene. In fondo, erano tutte in fin di vita. Tutte, tranne lei. E' stata Tanya a implorare la loro creatrice affinché le trasformasse, anziché nutrirsene. Lei ha accettato, forse ha avuto pietà di quella ragazza orrendamente sfigurata...”.

Deglutì bile.

“Dopo la morte di Sasha le sorelle Denali hanno iniziato a seguire una dieta vegetariana. E' stato in quel periodo che Carlisle le ha conosciute. Non conosco con esattezza le dinamiche del primo incontro fra Edward e Tanya, so per certo che è accaduto poco dopo il suo ritorno... dal periodo di “ribellione a Carlisle”, come ama definirlo. Tanya e le sue sorelle amavano... gli uomini, nel vero senso del termine e non necessariamente vampiri. Il loro autocontrollo è straordinario, forse persino migliore di quello di Carlisle, difficilmente i loro incontri si concludevano nel sangue. Non dopo che le sorelle avevano deciso di... cambiare alimentazione. Tanya ha immediatamente puntato Edward, d'altronde mio fratello è straordinariamente bello, persino dal punto di visto di un immortale. I pensieri di Tanya sono stati immediatamente chiari, o almeno questo è quanto sono riuscita ad estorcere a Edward in questi anni. E anche dopo, quando ha saputo del dono di Edward non ha tentato di... celare il suo interesse. Quando questo si è palesato in fatti concreti Edward l'ha... gentilmente rifiutata, ma, a detta di Carlisle, hanno continuato a trascorrere del tempo insieme. Deve essere stato allora che hanno legato. Bella... Edward ha sempre considerato Tanya come una sorella, al pari mio e di Rosalie. Una sorella molto... estroversa. Ma pur sempre una sorella”.

“Perciò soffrirebbe le pene dell'inferno pur di non farle del male...”, conclusi.

“Ma tu sei più importante, questo lo devi ricordare Bella. Quando sarai di fronte a lui... quando sarai di fronte a lei. Ricorda che hai un potere grandissimo su Edward. Ricorda che tu sei più importante. Non resisterà a lungo, deve soltanto liberarsi dei sensi di colpa, il che, parlando di Edward, è un'impresa pressoché impossibile...”.

“Sensi di colpa?”, domandai.

“Il sangue umano... Edward ha convinto Tanya a bere sangue umano. E lei lo ha seguito, per via di ciò che prova, senza esitare. L'ho visto... Crede di non averla mai capita e che avrebbe dovuto. Crede di aver approfittato della sua fragilità. Crede di averla... rotta, come se fosse stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Va detto in sua difesa che non era se stesso quando è arrivato in Alaska, aver ucciso quella bambina e la tua assenza insieme è stato troppo per lui”.

“Non cambia i fatti”, dissi, dopo qualche istante di silenzio, “è' scappato, di nuovo. Sceglie lei. Così sceglie lei ogni giorno”.

“Lui sa che tu sei forte. Mentre Tanya è molto instabile. Al suo desiderio di proteggerla, dopo il tuo ritorno, si è unito il desiderio di proteggere te. Se lei sospettasse... potrebbe farti del male. Edward non vuole esporti a un rischio del genere. Un vampiro, una donna in cerca di vendetta è una forza inarrestabile, dovresti averlo capito”. Victoria.

“Pensi che voglia proteggermi… da lei?”.

“Tutto ciò che Edward fa… ogni suoi più recondito gesto è fine alla tua protezione. Dovresti averlo capito. L'istinto di proteggere te è più forte di qualsiasi altro impulso”.

“Più forte del desiderio di proteggere Tanya?”.

“Non è qui, Bella. Se fosse rimasto le avrebbe fatto del male, molto male. Questo risponde alla tua domanda?”, mi chiese.

“Sì”, annuì, “sì, risponde”, borbottai tra me e me.

 

Lo squillo di un telefono mi distrasse dalle mie considerazioni. Trasalì e fissai lo schermo.

Enrique.

Lascia che suonasse, attenta alla vibrazione prodotta sul legno del comodino.

Quando il suono cessò e lo schermo si oscurò, sospirai pensando a quanto fossi codarda e ingiusta.

Alice afferrò lo smartphone, osservandolo come se potesse uscirne Enrique da un momento all'altro. Quella sera, dopo aver parlato a lungo della mia orribile prigionia e di ciò che l'aveva seguita, Alice mi consegnò il telefono che pensavo fosse andato distrutto, dieci chiamate senza risposta. Enrique. Alice mi raccontò che, nonostante gli avesse assicurato che ero sana e salva, aveva insistito per vedermi.

Fortunatamente, sono riuscita a dissuaderlo, dicendogli che si trattava di una questione familiare delicata, che non appena le acque si fossero calmate lo avresti chiamato, ma di non venire perché non ti avrebbe trovato. Non potevo certo dirgli che eri prigioniera di.... e che non sapevo se ti avremmo salvata in tempo...”, a quel punto si era fermata per riprendere fiato, scossa da singhiozzi profondi, incapace, tuttavia, di versare una sola lacrima.

Nonostante le parole di Alice, Enrique aveva continuato a chiamare, ogni giorno, più volte al giorno. Sembrava volesse sfidarmi a mentirgli, nonostante la sua insistenza e l'evidenza dei suoi sentimenti per me. Sembrava volesse sfidarmi a calpestare il suo cuore che mi offriva su un piatto d'argento e che chiunque altro avrebbe accettato senza remore. A parte me.

“Non è intenzionato a spingersi fin qui”, mi informò Alice. “Meglio, non voglio immaginare la reazione di Edward”, sussurrò. “Però dovresti chiamarlo, merita una spiegazione...”

“Merita che io sia sincera, ma non riesco ad affrontarlo. Odio doverlo ferire e non...”.

“Non sei sicura di voler chiudere con lui?”.

Scossi il capo. “Stare con lui era un modo per darmi una seconda occasione nel mondo degli esseri umani. Ma io non sono umana... non del tutto, non mi sono mai sentita come le altre persone e questa cosa... questa cosa che sono in grado di fare me ne ha dato prova. Però, se qualche mese fa non avrei sentito la mancanza di niente, a parte i miei genitori e qualche amico, ora temo che diventando come voi rinuncerò a qualcosa che desidero con tutta me stessa”.

“Vuoi diventare un medico”, annuì.

“E' quasi inconciliabile con il vampirismo, non credi?”.

“Carlisle...”.

“Lui è un caso a parte, nulla mi garantisce che abbia il suo stesso autocontrollo. Potrebbero passare decenni prima che riesca ad avvicinarmi a un ospedale, figurarsi a una sala operatoria. E' un'esperienza umana che vorrei provare...”

“Nessuno di noi ti imporrà la trasformazione, Bella”.

“Ma io non voglio perdervi. Non voglio... perdere Edward. E invecchiare mi spaventa ancora, per non parlare dell'orda di vampiri che, per quanto ne sappiamo, potrebbe presentarsi da un momento all'altro e catturarmi nuovamente, forse uccidermi. Se decido di rinunciare a diventare una di voi dovrò andar via e permettere ad Edward di.... innamorarsi di sua moglie. Non lo condannerei a stare al fianco di un'umana destinata a invecchiare e morire”.

“Spetta a te decidere della tua vita. Scegli con il cuore, ma... pensa bene, perché dalla morte non si ritorna, in entrambi i casi”.

…..........................................

 

“Divarica leggermente le gambe. Posiziona due dita sopra la cocca e uno sotto. Afferra l'impugnatura. Fletti il braccio destro ... non distogliere lo guardo Tendi l'arco... stringi le scapole. No, non sbilanciarti, continua a fissare l'obiettivo”.

Arrossì, sia per l'imbarazzo sia per lo sforzo,

“Bene così, accosta la mano al mento, in modo che l'arco sia allineato con il tuo volto. Lascia... ”.

E lo lasciai.

“Ehi”, protestò Emmett, piegatosi ad arco per schivare la freccia che, teoricamente, avrebbe dovuto colpire l'albero di fronte a me, teoricamente... ma per chissà quale legge fisica aveva mancato l'obiettivo, percorrendo l'intera lunghezza del cortile e andando in contro al nerboruto vampiro, appena comparso.

“Capisco che la questione delle mie armi anti-vampiro abbia risvegliato la tua Katniss Everdeen interiore, ma non sono io il nemico”, mi sbeffeggiò.

“Ah, ah... altro che Katniss... non capisco come ho potuto mancare un obiettivo così facile: era di fronte a me, immobile da chissà quanti decenni. Bisogna essere proprio incapaci. Contro un vampiro non avrei alcuna chance”.

Jasper tentò di trattenere il sorriso, ma lo lessi nei suoi occhi e nell'ilarità che mi pervase, sebbene un momento prima fossi sull'orlo delle lacrime.

“E' una questione di prospettiva, devi tener conto, per così dire, delle variabili che possono influenzare il percorso della freccia e prevenirle: il vento, ad esempio. La freccia modifica la propria traiettoria, non viaggia perfettamente in linea retta”.

Lo fissai a bocca spalancata.

“Mettiamola così: mi faccio ammazzare, che è meglio”.

“Non dire stupidaggini”, mi rimproverò Emmet. “Non hai trovato l'arma giusta. Le armi sono... come i vestiti, alcuni calzano meglio di altri e valorizzano la fisicità”.

Lo fissai, scettica.

“Da quando sei un intenditore, Emmett?”, gli chiesi.

“Rose”, mi disse, facendo spallucce.

“Comunque sia, troveremo l'arma adatta a te. Questa, per esempio, penso possa piacerti”.

“Piacermi... ad essere sincera, non me ne piace nessuna, Emmet. Preferirei non doverle usare”.

“E' questo il tuo problema. Tu hai paura di usare un'arma, ma questa – disse, e indicò la pistola nelle sue mani – ti proteggerà. E' tua alleata, non tua nemica”.

Emmet mi spinse l'arma fra le mani, saldandole intorno ad essa. “E' tua amica”, ripeté.

L'arma era straordinariamente leggera ed elegante, color argento lucido.

“E' leggera”, sussurrai.

“E' la migliore che abbia costruito fin ora, hai notato il tocco di colore?”.

“Non erano i lupi mannari a non sopportare l'argento?”, gli chiesi, con il sorriso sulle labbra.

“Sottigliezze”.

“Grazie, Emmett”. Lui mi sorrise, accarezzandomi i capelli. “Voglio che tu sia al sicuro, anche quando non ci sono”.

Quel pomeriggio avevo scoperto che Emmett era laureato in ingegneria meccanica ed era un grande appassionato di armi, al punto che si dilettava a costruirle. Ma le sue, all'apparenza simili alle altre, non erano affatto armi usuali, da utilizzare contro gli esseri umani. Si trattava di armi anti-vampiro, come amava definirle. Emmet mi aveva confessato di averne pensate e costruite alcune per me, in quei giorni, motivando così la sua assenza.

“Carlilse non ha mai nascosto la sua ritrosia nei confronti della mia passione per le armi, soprattutto perché metto in circolazione oggetti che potrebbero ucciderci, ma questo dimostra che i Volturi hanno pienamente ragione nel dire che dobbiamo rimanere nell'ombra. Alla fine, non siamo invincibili...”, concluse, perso in chissà quali pensieri.

Quando il suo viso si schiarì, mi disse: “Non starò a spiegarti la meccanica, ma ogni proiettile è una piccola bomba. Esplode nell'istante esatto del contatto, menomando la zona interessata”.

“Come posso riuscire a colpire un vampiro, siete incredibilmente veloci...”.

“Devi sfruttare l'effetto sorpresa”, intervenne Jasper, “anche ammesso che ti vedano, nessuno ti prenderà sul serio, penseranno che sia un'innocua arma umana”.

“Prova”, mi incitò Emmett, “ma attenta al rinculo”.

Puntai il mio precedente obiettivo, stringendo l'arma con più forza del dovuto. Emmett mi strinse le spalle, in modo da attutire il rinculo.

Quando il colpo andò a segno e il proiettile si conficcò nel centro esatto del tronco d'albero, riducendolo in brandelli, mi mancò il respiro.

“E' assurdo”, sussurrai.

“Questo vestito ti calza a pennello”.

 

…...............................

 

I principali ormoni tropici....

Ignorai la vibrazione.

Prodotti dall'adenoipofisi sono l'adrenocorticotropo...

Continuai ad ignorare la vibrazione.

o corticotropina e la tireotropina...

Al terzo squillo, scagliai l'oggetto infernale, il mio telefono, contro la spalliera del divano, occupato per intero dai miei libri.

Emmett lo afferrò, leggendo il mittente delle ultime chiamate perse.

“Il ragazzo non demorde”, tuonò, “vuoi che risponda e gli dica di non richiamarti? Penso che riuscirei convincerlo...”, mi disse, sciabolando le sopracciglia scure.

“Emmett”, protestai, gesticolando affinché mi restituisse l'oggetto infernale.

“Vediamo... Enrique, Enrique”.

“Emmett, non osare. Restituiscimelo o giuro che non ti parlo più”.

“Non sei credibile”, ridacchiò.

“Emmett”, protestai ancora, tentando di afferrare il telefono dalle sue mani, un'impresa impossibile.

“Sono seria”.

L'aggeggio malefico vibrò ancora.

“Vediamo che cosa vuole, dici?”.

Strabuzzai gli occhi. “Sei pazzo”.

Quando i suoi occhi grandi e lucidi si posarono sullo schermo, mutò espressione.

“E' Charlie”, mi comunicò Alice, nello stesso istante in cui Emmett mi restituiva l'affare.

Il tono della sua voce mi intimorì. Lo sguardo angosciato di Edward mi pietrificò.

“Pronto”, risposi, lasciando la stanza e la sua atmosfera fattasi d'improvviso tesa.

“Pronto, Bella”, poter ascoltare il suono della voce di Charlie fu un sollievo.

“Sono io, papà. Va tutto... bene?”, gli chiesi, temendo la risposta.

“Certo. E' tutto come al solito. Tu che mi dici Bells”, la tristezza nella sua voce, che inizialmente mi era sfuggita, diceva il contrario.

“Non parrebbe”.

“E'... Renee”.

“E' successo qualcosa alla mamma?”, chiesi, appoggiandomi al muro del piano inferiore, dove, in qualsiasi altra abitazione, nessuno avrebbe potuto ascoltare la conversazione.

“Niente di grave... è stata un po' male, sai di che parlo, no...”.

“Qualcosa l'ha... fatta incupire... Papà”.

“Niente che un buon sonno non abbia risolto”.

“Sono stata io, non è vero? E' stata colpa mia. Perché non ho chiamato”, sospirai, riferendomi ai tre giorni di prigionia.

“Non è colpa tua, Bells. Io non ho chiamato per questo. Ho chiamato per te, per sapere come stai. Per sapere come va il college...”.

“Bene. Va tutto bene. Dille... di non preoccuparsi, che la chiamerò ogni giorno. Dille che sono qui, ok? Posso parlare con lei?”.

“Sta riposando... era stanca”.

Stanca per via della crisi: le parole che Charlie stava omettendo, ma gli diedi l'illusione di aver creduto alla sua menzogna.

“Allora la chiamerò domattina”.

“Va bene. Bells, non stare in pena. Sono qui con lei”.

“Lo so. Sono io a non essere lì”.

“Non devi. Non puoi passare la vita a prenderti cura di me e di tua madre, sarebbe dovuto essere il contrario”.

“Adesso devo andare papà. A domani”.

“A domani”, rispose, seppur con una certa esitazione.

Chiusa la comunicazione, mi lasciai scivolare lungo la parete e mi strinsi le ginocchia al petto. Le lacrime mi imperlarono il viso e i singhiozzi, per quanto tentassi di soffocarli, mi scossero a un livello così profondo che, per un istante, temetti che il dolore mi avrebbe sopraffatto.

Il peso di tutto ciò che avevo affrontato era tale che, se anche l'avessi voluto, non avrei avuto la forza né la volontà di rialzarmi... se lui non mi avesse teso una mano. Metaforicamente parlando.

Lasciai che la sua melodia mi cullasse e tamponasse le ferite che ancora sanguinavano. Edward, al piano superiore, suonava la mia ninna nanna, l'unico modo che avesse per comunicare con me. L'unico modo che conoscesse per aiutarmi senza toccarmi né parlarmi. L'unico che Tanya non avrebbe potuto comprendere.

Lessi nella sua musica l'urgenza, il bisogno di starmi accanto. Lo immaginai, con il capo chino sui tasti, le ciocche ramate a sfiorargli la fronte, lo sguardo perso, le braccia, lasciate scoperte dal risvolto della camicia azzurra, in tensione, le dita lunghe che nello sfiorare i tasti del pianoforte sembravano asciugare le mie lacrime. Quando la melodia terminò, Edward riprese a suonare, dall'inizio fin quando ogni muscolo del mio corpo smise di contrarsi e i singhiozzi che mi perforavano il petto si quietarono. Allora restammo soltanto io e il silenzio.

 

…............................................

 

Quella notte mi agitai parecchio, come non accadeva da mesi, dai giorni passati nel mio vecchio appartamento che Michael aveva raso al suolo. Durante il sonno venivo sopraffatta dal ricordo di quei tre giorni d'inferno, dall'idea di essere diventata ciò che non avrei voluto essere: una persona che fa del male alle altre persone. Avevo abbandonato Arianna, fatto l'amore con Edward, ferito Enrique, Tanya... mia madre, seppur involontariamente. Ero una calamita per mostri e disgrazie. Ero... una disgrazia, per chiunque tentasse di amarmi o di starmi accanto.

A farmi compagnia nel buio della mia mente, il ricordo di mani ghiacciate intorno al collo e di occhi assetati.

Mi svegliai di soprassalto, al tocco leggero di una mano sulla guancia.

Inizialmente, complice le lacrime, pensai di essermi sbagliata perché, al chiarore della luna, la sua pelle si confondeva con i raggi.

“Edward”, mormorai, temendo che, il suono della mia voce potesse far dissolvere la sua immagine, restituirla alla luna.

Edward, che sedeva al capezzale del mio letto a una piazza e mezzo, mi restituì uno sguardo limpido.

“Cosa fai qui?”, gli chiesi, consapevole della precarietà della situazione e delle presenza dei Cullen a pochi metri di distanza.

“Tanya”, soffiai.

“Pensa che sia andato a caccia”, rispose e il suono della sua voce, un sussurro nella quiete della notte, mi ricordò di notti passate.

“Non era mia intenzione venire”, mi confidò, “ero a caccia. Lo ero. Avevo sete, un vuoto all'altezza dello stomaco. Ma il sangue... il sangue non bastava. Poi ho capito che non sarebbe mai bastato a saziare la fame, perché non era fame di sangue”.

Mi mancò il respiro per via dell'intensità del suo sguardo e della dolcezza delle sue carezze.

“Non avrei potuto aspettare domani. Non dopo quella telefonata, non dopo....”.

“Edward”, lo chiamai.

“Non posso continuare così, capisci? Voglio esserci. Voglio essere al tuo fianco quando hai bisogno di me, voglio poterti proteggere senza dover rendere conto delle mie azioni, voglio poterti sorridere senza temere di essere visto. Voglio guardarti dormire e non sentirmi un ladro, come se rubassi il tuo tempo al tempo. Voglio averti e non sentirmi un traditore”.

Lasciò scivolare il braccio lungo il copriletto e chinò il capo in segno di resa.

“Dovrei odiarti per quello che hai detto”, sussurrai.

Mi accostai alla sua figura nivea e lo strinsi al petto, accarezzandogli i capelli e la fronte, lasciando che mi scaldasse il cuore.

“Non sopporto di essere diventata questa persona”, confessai.

Edward si irrigidì tra le mie braccia, ma non accennò a muoversi.

“Non sopporto di ferire gli altri. Enrique, mia madre, Tanya persino e... tu, Edward. Non sopporto di vederti star male. Sono un disastro”.

Edward si scostò dal mio abbraccio, sfiorandomi le labbra con il pollice.

“Non sei un disastro... tu sei la persona migliore che abbia mai conosciuto e ho vissuto qualche anno, non credi?”, mi chiese.

Sorrisi.

“Sei di parte”.

“No, non sono di parte. Nessuno avrebbe sopportato quello che hai dovuto affrontare. E non parlo soltanto di quei tre giorni. Mi riferisco al modo in cui ti sei presa cura di Renee, dell'amore e della dedizione, della sopportazione, al modo in cui hai tentato di salvare quelle persone, là sotto...”.

“Ho abbandonato Arianna”.

“Non l'hai abbandonata, non avresti potuto fare nulla lo sai meglio di chiunque altro e hai scelto di combattere per la tua vita fino allo stremo delle forze, non è sbagliato. E' naturale”. Sospirò, imbronciandosi.

“Tanya... continuo a farle del male, a mentirle. Ma non riesco... fa male, Bella, fa male da morire. Senza di te fa troppo male”.

“Ed”, lo implorai, accostandomi al suo viso. Chinai il capo, adagiando la fronte alla sua guancia e le labbra a poca distanza dalla pelle del suo collo. Illudendomi che non saremmo stati dei traditori, se non l'avessi baciato. Edward immerse il viso nei miei capelli.

“Posso rimanere”.

“Non puoi”.

Edward non ribatté.

Nessuno dei due promise all'altro amore eterno, quella notte. D'altronde, le parole sarebbero state superflue. Edward mi lasciò non appena il sonno mi ebbe portata via.

 

…..........................................

Mi detersi il sudore dalle tempie e dal collo. Avevo trascorso l'ultima mezz'ora a dare calci e pugni a un sacco che Emm aveva piazzato sul retro, nel tentativo disperato di smuoverlo. Non che mettere su muscoli mi avrebbe protetta dai miei nemici, semplicemente mi illudevo di avere il controllo della mia vita, del mio corpo e di non essere inerme.

Un respiro gelido mi solleticò il collo e le goccioline d'acqua vibrarono sulla mia pelle.

Sorrisi, certa che si trattasse di Edward.

Tuttavia, nel voltarmi, non riconobbi l'odore del suo corpo. Odore di sole e casa.

Una mano bianca si chiuse intorno al mio collo, l'artiglio dell'uccello del malaugurio, mi sollevò da terra e mi sbatté violentemente contro il muro.

Il dolore fu niente se confrontato allo stupore.

Tanya mi osservava, ogni briciolo di umanità scomparsa dai suoi occhi scuri ma lucidi.

Rantolai, solo un suono senza parole. Inchiodata al muro, non soltanto dalle sue mani ma dal suo sguardo carico d'odio e disperazione. Il suo aspetto da... folle mi intimorì.

“Ieri notte è' stato da te, vero?”, mi chiese in quello che sembrava un ruggito sussurrato.

“Rispondi?”, mi chiese, premendo tanto che temetti mi avrebbe spezzato il collo.

Edward. Pensai. Lo sapeva. Aveva capito.

Scossi il capo, per quanto possibile, dato che negare verbalmente era fuori discussione. Non riuscivo a respirare, figurarsi a parlare.

“Menti. Stai mentendo”, borbottò, scuotendo il capo con gli occhi bassi che saettavano da una parte all'altra.

“Lui ha sempre il tuo odore addosso... lui... sempre”, borbottò ancora, poi alzò di scatto il mento e con la mano che non mi serrava il collo, mi sfiorò il viso.

“Cos'hai più di me? Sei più bella? Forse sei... calda...?”.

Mi dimenai, perché non mi toccasse.

“Era così disperato quando è arrivato in Alaska... disperato per te. Come la prima volta, quando è dovuto fuggire dal tuo odore. Tu lo hai distrutto, ferito... Eppure continua a preferire te a me, te... a me”.

Lo hai distrutto, lo hai ferito...

Quelle parole mi rimbombarono nella testa e per qualche istante mi impedirono di cogliere il senso reale delle sue parole.

“Tu sapevi”, rantolai, fulminandola con lo sguardo, “tu sapevi che lui non era in sé quando è arrivato in Alaska. Lo sapevi... e... non hai cercato di... fermarlo”. L'odio che provai nei suoi confronti avrebbe potuto divorarmi.

Tanya strabuzzò gli occhi e prese a scuotere la testa. “No, non è vero. Lui si è rivolto a me. Viene sempre da me... io sono la sua casa. Non importa come si senta... lui”.

“Tu sei pazza”, urlai, ma mi uscì soltanto un suono stridulo. Le lacrime presero ad offuscarmi la vista. Piangevo perché ero arrabbiata.

“Lui ti ha sposato... hai lasciato che ti sposasse sebbene non fosse se stesso. E tu lo sapevi, ne hai approfittato. Tu sapevi che non ti amava. Sai che non ti ama”.

“Allora chi ama... te? Ama te?”, urlò.

Non credevo di poter provare una tale rabbia, vidi rosso, letteralmente.

“Io non ti permetterò di rovinargli la vita. Nessuno, nessuno deve farlo soffrire”.

“Io non lo faccio soffrire”, si difese, lo sguardo d'un tratto innocente, “sono la sua famiglia”.

“No... no... no”.

“Tu sei... d'intralcio. Vorresti essere al mio posto, non è vero? Stai cercando di allontanarli da me, tutti. Loro sono i miei fratelli ed Edward... è mio marito, il mio compagno”.

“Non m'importa quale sia il tuo problema, devi stare lontana da me e devi lasciare andare Edwrad. Devi lasciarlo libero”, le dissi fra le lacrime.

“Se ti uccido adesso, non potrai separarci, non potrai portarmelo via. E' la mia casa, è la mia famiglia”.

Avrebbe dovuto impietosirmi e in un'altra circostanza sarebbe successo, ma non quel giorno. Non al pensiero del dolore di Edward, di cui lei aveva approfittato, non mentre le sue dita stringevano e stringevano fino a farmi mancare il respiro. Lei avrebbe rovinato la sua vita. Alla luce di tutto ciò non mi importava quale fosse il suo problema, perché era evidente che ne avesse uno. In quel momento volevo soltanto che soffrisse. Molto.

Tastai il mio corpo, senza smettere per un istante di fissarla, mentre lentamente mi strangolava. Fin quando non la trovai, ancorata alla cinta, la pistola che Emmet aveva costruito per me: l'arma anti-vampiro, caricata con proiettili della potenza di piccole granate e la puntai alla sua tempia.

Tanya smise di stringere la presa sul mio collo e io smisi di piangere.

“Lasciami o quant'è vero Dio che ti ammazzo”.

“Se spari a questa distanza, ti ferirai”, mi disse, deglutendo veleno.

Le sorrisi di sbieco.

“Non m'importa. Non m'importa. Edward non merita questo, io non te le permetto. Lasciami. Lasciami o ti ammazzo”.

La sua presa si affievolì fin quando il suo artiglio pallido non si dischiude, liberandomi. Mi allontanai di scatto da lei, continuando a puntarle addosso l'arma, tentata di premere il grilletto.

E forse l'avrei fatto, se non fosse arrivata Rosalie.

“Cosa sta succedendo?”, chiese, con la sua voce leggera e suadente. Quando si accorse dell'espressione dipinta sul mio viso, delle lacrime e dei graffi e delle impronte delle dita di Tanya sul collo, strabuzzò gli occhi.

“Bella”, mi chiamò. “Te ne pentiresti”, mi disse, avendo immediatamente compreso la situazione. Osservai le mie mani che tremavano come se ogni terminazione nervosa del mio corpo fosse impazzita e mi chiesi se avesse ragione.

“Lei non è... Bella guardala. Guardala”.

E la guardai. La guardai realmente, mettendo da parte tutto l'astio che provavo nei suoi confronti.

Sembrava disorientata, mi guardava stralunata, come se... come se avesse dimenticato tutto quanto era successo pochi minuti prima. Come il giorno in cui si era offerta di aiutarmi con il mio dono, sul suo viso era dipinta la medesima espressione. Un foglio bianco su cui ancora tutto è da scrivere.

Allentai la presa sull'arma.

“Cosa... fai”, la sentì sussurrare. La figura luminosa di Rosalie si frappose fra me e lei. Con cautela mi tolse l'arma di mano, osservando con sguardo cupo i segni sul mio collo. Lasciai che la prendesse.

“Andiamo”, mi disse, circondandomi le spalle e trascinandomi in casa, con una delicatezza che non mi sarei mai aspettata.

Prima che entrassimo, Tanya riprese a urlare.

“E' stato da te. E' stato da te stanotte, vero?”. Rose si richiuse la porta alle spalle prima che potessi voltarmi e notare, nuovamente, il cambiamento nel suo viso.

 

….............................

 

“Sempre a medicarmi”, borbottai per rompere il silenzio.

Rose, inaspettatamente, sorrise.

Senza che nessuna delle due parlasse, aveva preso a disinfettarmi le ferite, custodendomi nella sua splendida stanza, un sogno di eleganza e antiquariato.

“Sono i miei”, mi disse.

“I mobili, intendo. Alcuni li ho portati via dalla mia casa: la cassettiera, lo specchio...”.

“Ti manca la tua epoca?”, le chiesi.

“Non è la mi epoca a mancarmi, è la mia vita”, mi confidò, “quella che avrei potuto avere se le cose fossero andate così come le avevo programmate”.

“Non sempre le cose vanno come le programmiamo”, sussurrai, abbozzando un sorriso.

Rosalie si fermò, lanciandomi un lungo sguardo, prima di riprendere a medicarmi le ferite.

“All'inizio non lo capivo, il tuo rapporto con mio fratello. Ho pesato che fossi un'approfittatrice, che volessi l'immortalità, i soldi o qualsiasi altra cosa potessi ottenere stando con lui. Naturalmente, bastava guardarvi per capire che c'era molto altro. Ma io, generalmente, non amo ammettere di avere torto, è un mio difetto; perciò ho continuato a mostrarmi scortese nei tuoi confronti. In realtà, ero certa che saresti diventata mia sorella. La scelta di Edward ha spiazzato tutti, persino me. Ancora di più ci ha sorpresi la sua reazione. Edward non sapeva cosa stava facendo quando ti ha lasciata. Non lo difendo, dico solo come stanno le cose. Lui non aveva la più pallida idea di cosa significasse vivere senza la persona che ami e non per un giorno, ma per sempre. Pensava che, avendo vissuto da solo così a lungo, sarebbe stata soltanto questione di riabituarsi; ma si sbagliava. Averti conosciuta e amata lo aveva cambiato, ritornare alla vita di prima sarebbe stato impossibile. Ha perso il controllo di sé e quello che vedi oggi ne è una diretta conseguenza”.

“Si sente responsabile per lei, vero? Sì. Si sente in colpa”. Rosalie annuì.

“Lo conosci, difficilmente si lascia il dolore altrui alle spalle, soprattutto se in qualche modo ha contribuito”.

“Bella io non ti ho fermata non perché provo pena per Tanya, lei è stata ciò che è stata in passato, mai una santa, posso garantirtelo.nTi ho fermata perché se le avessi fatto del male, anche nella stessa misura in cui lei lo ha fatto a te, tu non saresti mai più riuscita a guardare Edward in faccia né te stessa allo specchio. Sei migliore di lei, questo lo so io e lo sa Edward. E con molta probabilità lo sa anche lei”.

“Migliore? Sai che sono stata a letto con lui? Ha tradito sua moglie e io ho acconsentito. Non sono migliore, Rose, sono una... ”.

“Certo che lo so, conosco mio fratello meglio di Alice, di Jasper e di Emmet. Ho visto il cambiamento sul suo viso e sul tuo”.

“E' così palese?”, le chiesi arrossendo.

“No. Io sono una buona osservatrice”, mi rassicurò.

“Credimi, Bella, lei non si sarebbe fatta tutti questi problemi, fosse stata al suo posto. Non l'ha fatto. Per quanto possa essere... instabile, continuo a pensare che abbia approfittato dello stato in cui versava mio fratello per ottenere ciò che ha sempre voluto da lui. Consapevole o meno... non mi importa Bella. Fa del male a mio fratello e questo non posso tollerarlo”. Il lampo d'ira nei suoi occhi mi fece sentire molto vicina a lei. Non avevo mai sospettato un simile legame fra Edward e Rose, consideravo la splendida vampira come fosse a sé stante.

“L'ho odiata così tanto, ho desiderato farle del male Rose”.

“Lo so”, mi disse, “io l'ho desiderato dal primo istante in cui Ed l'ha portata a casa. Non capisco come mio fratello possa non vedere...”.

“Pensi che finga?”, le chiesi.

“Non ho un'opinione molto alta di lei, ma non fino a questo punto. Non credo che finga e sono anche certa che a modo suo ami Edward, ma non basta”.

“Non le farebbe mai del male, ma io non posso permettere che lei ne faccia a lui. Non lo sopporto e io... io non posso vivere senza di lui, Rose”.

“Te lo riprenderai? La smetterai di piangerti addosso, di recriminarti i tuoi errori, ti sentirti debole e misera?”.

“Come lo hai capito?”.

“Te l'ho detto, sono una buona osservatrice”.

“Lo rivoglio. Rivoglio Edward. Gli ho già permesso di fuggire una volta, non lo farà ancora”.

“Però, Bella devi essere certa che Edward è ciò che vuoi sopra ogni altra cosa. Devi essere certa che per lui sei pronta a rinunciare a tutto o comunque a buona parte della tua vita attuale. Io non avrei fatto questa scelta, neanche per Emmet. Tu?”.

Osservai il suo bellissimo viso, sconcertata dalla sua rivelazione, della consapevolezza che tutto ciò che desiderava era proteggere Edward e ancor di più da me stessa. Un tempo, non avrei avuto alcuna difficoltà nel rispondere alla sua domanda. Quella sera, invece, non seppi cosa replicare.

 

….........................

 

Mi sfiorai il collo, dove Rosalie aveva magistralmente coperto le ferite inflittami da Tanya con abbondante fondotinta, per nascondere i segni al resto del Cullen, Alice esclusa, e in particolare ad Edward che sembrava ignaro di tutto. Evidentemente, Tanya non aveva pensato a quanto era accaduto quel pomeriggio e io non avevo alcuna intenzione di farne parola, perché, per quanto odiassi ammetterlo, avevo ancora bisogno di lei. Era l'unica che avrebbe potuto aiutarmi a sviluppare quel dono che a malapena riuscivo a concepire.

Avevo la mente altrove. Pensavo ad Edward e alla mia vita(come se le due cose fossero separate...), alle scelte che avrei dovuto compiere. Lottare per lui o lasciarlo a Tanya? Ma infondo, era davvero questo il mio dubbio? No, affatto.

Non avevo alcuna intenzione di lasciare Edward a Tanya, la mia decisione l'avevo presa il giorno prima, parlando con Rose. Ma avrei dovuto farlo, o cercare di dissuaderlo dalla sua folle idea di restarle accanto e andar via, se non avessi deciso di diventare immortale e indistruttibile.

Ero pronta a perdere la ragazza umana che avevo da poco scoperto di essere? Ero pronta a perdere, perché niente mi assicurava che non sarebbe successo, la possibilità di diventare medico?

Alla risposta giunsi quel pomeriggio.

 

“Spingi, Isabella. Non ho tutto il giorno”.

Sbuffai per la fatica. Mi appoggiai alle ginocchia e mi accorsi che i palmi delle mani scottavano.

“Basta, sei un'incapace...”.

“Tanya”, urlò Edward, accostandosi al mio fianco, “basta così”, ringhiò fra i denti.

Tanya arretrò, giusto di un passo, un'espressione ferita in viso, ma si riprese immediatamente arricciando le labbra.

“Andiamo a casa, non ho intenzione di continuare a perdere tempo con lei”.

Ma Edward non si mosse. Mi rivolse uno sguardo accigliato, tormentato.

L'atmosfera si era fatta d'un tratto tesa in giardino, i Cullen si irrigidirono e Rose incrociò le braccia sotto il seno puntando Tanya con i suoi grandi occhi dorati.

Sfiorai il gomito di Edward, affinché andasse via con lei, non intendevo creare scompiglio. Ma era tardi.

Il mio gesto la irritò, prese a tremare, vibrava con la stessa frequenza di un diapason. Il suo sguardo, contrariamente alle mie aspettative, non puntava me ma Edward e tutta la sua fragilità sembrò trasformarsi in rabbia e rancore, furia omicida.

Capì allora cosa Alice intendesse sostenendo che Edward temeva che Tanya potesse farmi del male, la sua instabilità unita alla sua forza disumana costituivano un mix micidiale. Tramai. Avevo paura... paura di lei. Paura che potesse fargli del male, che l'odio insito nel suo sguardo potesse concretizzarsi in fatti. Paura che Edward non avrebbe mosso un muscolo, pur di non farle del male.

Allora spinsi. Spinsi quel muro di fuoco che mi solleticava la pelle e le terminazioni nervose, facendo leva sulla mia rabbia, sulla gelosia, sul dolore, su tutto ciò che aveva acceso in me un piccolo focolaio in quelle settimane trascorse a casa Cullen. La reazione di Tanya aveva suscitato in me un tale istinto di protezione... Il fuoco mi accarezzò la pelle, come una fiamma leggera sul palmo della mano, creando una barriera molto alta tra noi due e lei, tra noi due e il mondo, strisciando contro di lei con la velocità di un'auto in corsa, lasciando dietro di sé una scia infuocata. Tanya si lasciò cadere sul prato, arretrando attonita di fronte alla potenza e magnificenza di ciò che avevo creato.

Un sorriso mi sfuggì dalle labbra.

In quell'istante, nel momento esatto in cui il mio corpo espulse il fuoco e il calore che lo divorava, mi sentì bene, come se avessi riacquistato la vista o la parola dopo anni trascorsi senza vedere né sentire e mi sentì libera, come una nuvola nel vento. Tutto mi apparve chiaro, metaforicamente e non. Capì allora che quel dono, qualunque cosa fosse, era una parte di me. Capì che, a modo mio, ero unica e che la sensazione di essere diversa, di non appartenere allo stesso mondo in cui tutti gli altri vivevano, non era poi tanto illusoria.

Ero diversa. Io non ero mai stata veramente umana e mai lo sarei stata.

Ero qualcos'altro o comunque ero destinata a diventarlo.

Una volta compreso quale fosse il mio mondo e quale il mio posto nel mondo, non mi bastava che riconquistarli.

Fu quello il mio ultimo pensiero, prima che perdessi i sensi.

 

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Capitolo 11
*** 10) Luce del giorno ***


Buonasera! Scusate per il ritardo, ma da ora gli aggiornamenti non saranno esattamente puntuali. Quindi mi scuso con tutti per eventuali ritardi. Non voglio dilungarmi perché il cap è già molto lungo e per questo chiedo ancora scusa. Detto questo, non so neanche che dire, però attenti un po' a tutto, in particolare alla parte finale, sono aperte le scommesse. Secondo voi che cosa significa e che cosa succedera? Il prossimo sarà un cap decisamente di svolta... Ah ultima cosa non abbiatene con Edward, please!! : ) Grazie a tutte per le recensioni, 7 capite, sono troppo felice : )

10) Luce del giorno

Respirai a fondo l'aria umida della sera e volsi lo sguardo al cielo, alla luna morente. Nel distoglierlo, tutto ciò che mi circondava assunse contorni sfocati e la nebbia sembrò rivestire i miei occhi, di fronte ai quali apparvero infiniti granelli luminosi, come un pulviscolo fatto di sole. Ero ancora debole... e poco lucida, per via del calore eccessivo...

Mi ero ripromessa che, qualsiasi ostacolo avessi incontrato, avrei varcato quella soglia. Tornai ad osservare la porta d'ingresso del locale, il “Turn off light”, cercando il coraggio di entrare e di affrontare Enrique, lo splendido ragazzo che mi aveva accolto, protetto, rispettato, la cui fiducia avevo tradito nel più miserevole dei modi. Mi appoggiai al muro di fianco alla porta, in attesa che il mondo smettesse di girare e che la nebbia nei miei occhi si diradasse.

Poi entrai.

L'odore di alcol, plastica e sudore mi ridestò definitivamente, ricordandomi quella vita da umana che mi stava stretta, quasi avessi indossato per anni una pelle non mia. Nell'avvicinarmi al bancone, osservai uno ad uno i volti di quei ragazzi e ragazze che presto avrebbero concluso gli studi, sposato la persona che amavano, avuto dei bambini e una carriera, ma che, certamente, erano incapaci di causare un incendio senza battere ciglio. Carlisle l'aveva definita pirocinesi, prima che gli spiegassi la strana sensazione che provavo, quasi che il fuoco esplodesse dalla mie pelle e non dalla mia mente. In fondo, il mio “dono” non era nulla di strano se paragonato alla lettura del pensiero o alla chiaroveggenza. Ero diversa e me ne compiacevo, ma d'altro canto uscire dagli schemi mi terrorizzava.

Maia mi riservò uno sguardo corrucciato, mentre poggiava il vassoio sul bancone.

“Allora sei ancora viva”, mi canzonò.

“A quanto pare”, le risposi.

“Dove sei stata, Bella?”, mi chiese, il tono della sua voce si indurì.

“Ho avuto... da fare”.

“Così tanto da non rispondere neanche a una telefonata”.

“Cosa ti ha detto?”, le chiesi.

“Nulla, figurati... è stato Rafael. Ha notato che ti chiamava in continuazione e che non gli hai mai risposto, così mi ha chiesto se sapevo dove fossi”.

“Sono stata....”.

“Senti, Bella, a me non importa... Però, non sparire così, fallo per quelli che ci tengono. E comunque... sei cambiata, dall'ultima volta che ti ho vista”, così dicendo se ne andò.

Deglutì a vuoto e mi spinsi a fatica sul retro del locale, dove sapevo che avrei trovato Enrique.

Lo intravidi al di là del vetro, era lì, chino su un mucchio di fogli come l'avevo immaginato in quei giorni. Percepì la rigidezza del suo corpo e mi ferì l'espressione contratta del suo viso. Quasi si fosse sentito osservato, sollevò lo sguardo e nell'incrociare i miei occhi lo vidi chiaramente sussultare. Ci fissammo a lungo, attraverso il vetro sporco, prima che trovassi il coraggio di entrare. Enrique non accennava a muoversi, ancora immerso nella sua sedia e tra i suoi fogli.

“Ciao”, dissi.

Naturalmente non rispose. Lasciai che riordinasse le idee e mentre il tempo passava io contemplavo il suo viso gentile e bello.

“Cosa... cosa è successo?”, mi chiese infine.

Mi preparai a recitare la bugia che avevo memorizzato nei giorni passati.

“Mia madre ha avuto un malore, così ho lasciato il college e sono corsa da lei; ho preso il primo aereo per Farks. Ti avevo detto che non era stata molto bene nei mesi scorsi. E' stato Carlsile ad avvertirmi; era in università, mio padre non riusciva a rintracciarmi perciò ha chiamato lui sapendo che ora vivo con loro. Ho riattaccato in modo brusco, scusa... sono stata scortese. Non ho avvertito neanche il resto dei Cullen, infatti Edward è venuto a cercarmi e Carlisle gli ha spiegato la situazione”, conclusi.

Attesi in silenzio una sua reazione.

“Perché ho come l'impressione che tu mi stia mentendo?”.

Le sue parole mi paralizzarono, non pensavo che avrebbe detto nulla di simile, non così sfacciatamente.

“Io non sto... non è vero. E' quello che è successo, perché dovrei mentirti?”.

“Non lo so, ma ti ho chiamato così tante volte... non ha mai trovato un istante di tempo per richiamarmi e darmi una spiegazione. Hai idea di quanto io mi sia preoccupato? Ho pensato di tutto, ma non avevo né il modo né il diritto per fare alcunché. Perché io non so neanche cosa siamo... e.... so solo che voglio te. Ti voglio nella mia vita e questi giorni non hanno fatto altro che darmene prova. Ma so anche che non succederò, vero?”

“Sei cambiata in questi giorni”, constatò, sfiorandomi una guancia. Lo allontanai prima che potesse entrare in contatto con la mia pelle surriscaldata e potesse trovarla strana.

“Ho capito alcune cose”, gli dissi.

“Cose che mi riguardano?”.

“Anche”.

“Cosa che hanno a che fare con Edward? Con il fatto che ti è corso dietro come una furia, senza badare a non ferire i sentimenti di sua moglie?”.

“Enriq... tu sei una delle persone migliori che abbia mai conosciuto, sono sincera. In me c'è qualcosa che non va... capisci? Quindi io ti consiglierei di starmi lontano, di lasciarmi perdere”.

“Non sarò io ad allontanarmi da te. Se vuoi che ti lasci stare, devi essere tu ad allontanarti”.

“Ho vissuto delle cose...”, cercai di spiegargli.

“Cose che non hanno a che fare con tua madre, vero? Dove sei stata in questi giorni?”.

“Enrique devi credere a quello che ti dico perché non posso aggiungere altro”, sospirai, già stanca.

“Ti rendi conto di quanto suoni... strano, tutto questo? Mi chiedi di fidarmi. Fidarmi di cosa? Non ti ho forse dimostrato che puoi dirmi qualsiasi cosa?”.

“Certo... tu ha fatto più di quanto dovevi, ma io non sono utilizzabile”.

“Sei ancora innamorata di lui”, constatò e l'espressione ferita sul suo viso fu una pugnalata al petto. Indietreggiò.

“No”, dissi e mi uscì un suono assai stridulo, mi puntellai la tempia con l'indice, “non capisci. Io non ho mai smesso di amarlo, mai. Nonostante tutto. Non so spiegarlo; ha fatto degli errori, mi ha ferito più di chiunque altro ma lui è... una parte di me. Non riesco ad allontanarlo, quando mi sta accanto riesco a toccare vertici di felicità tali che... non pensavo esistessero. Gli basta così poco per capirmi e confortarmi. Gli basta uno sguardo o un sorriso...”, conclusi con il fiato corto.

“Non so classificare questo sentimento perché fatico a capirlo, ma non è normale. Sento che se lui dovesse smettere di esistere io mi spegnerei, perché la sua esistenza mi è così chiara... e indispensabile da non poter tollerare il contrario. Tutto questo... tutto questo mi sta distruggendo. L'amore che provo per lui mi sta distruggendo”, mi appoggiai alla parete, incurvando le spalle. Temevo di incrociare il suo sguardo, di leggervi l'odio che sapevo di meritare.

“Avrei dovuto lasciar perdere fin dall'inizio. Ho capito che non saresti stata mia quel giorno a casa vostra. E' stato lui... Edward ad aprire. Mi ha chiesto che intenzioni avessi con te. Gli ho risposto che non era affar suo. Lui ha sorriso in quel modo... in quel momento sembrava persino più vecchio di me. Mi ha chiesto di non farti del male, di proteggerti, perché non avrei mai più incontrato una persona come te. Mi ha detto che ero stato fortunato. Io...”, si interruppe e alzi gli occhi per osservarlo.

“Io non so neanche come riesca a parlarti... perché fatico persino a guardarti e a controllare la rabbia, il risentimento e il dolore... Non dovrei provare queste cose, è presto per essere così coinvolto, ma non posso farci nulla. L'ho odiato fin dal primo istante in cui l'ho visto, sapevo che ti avrebbe allontanata da me e che ti avrebbe fatto del male, ma ho continuato a sperare”.

“Non riesco neanche a scusarmi per quello che ti ho... fatto, per quello che è succo con Edward in questi...”, sussurrai, stupita da me stessa.

“Non voglio sapere cosa è successo fra di voi. Non lo sopporterei. Solo una cosa: non permettergli di ferirti, perhé tu sei il sole, la luce del giorno, se pensi che lui sia ciò che vuoi allora fai qualcosa. Non è mai troppo tardi”.

“Come riesci a dirmi questo, se io fossi stata al tuo posto non avrei neanche sopportato di sentirmi dire...”.

“Questo mi rincuora. Vuol dire che forse non è amore. No?”.

Gli sorrisi: “Forse no”.

“E' il caso che io vada e... non penso che potrò tornare al Turn”.

Enrique sembrò voler aggiungere qualcosa, ma alla fine non disse niente.

“Non so se riesco a lasciarti andare, Bella”, mi confidò, corrugando il viso. Istintivamente mi spinsi ad abbracciarlo e lui mi rinchiuse nel rifugio caldo delle sue braccia.

“Sei stato davvero più di quanto meritassi; chiunque altro al tuo posto mi avrebbe cacciata urlando”.

“Sarà che sono masochista, ma non riesco a... volerti male”.

“Grazie”, gli dissi.

Buttai un occhio alla scrivania e intravidi un'elegante carta in filigrana che riconobbi immediatamente.

“La serata di tuo padre”, sussurrai, scostandomi da lui come una furia e sgranando gli occhi.

Qualche giorno prima che Michael mi rapisse, Enrique mi aveva consegnato un invito per una serata di beneficenza che si sarebbe tenuta ad Harvard, organizzata da alcuni imprenditori locali tra cui suo padre e la moglie del rettore.

Enrique si grattò il mento: “Non è importante”.

“Sì che lo è... se vuoi io posso...”.

“Non so se sia il caso”, mi disse.

“Vorrei sdebitarmi con te, se non ti... crea... ecco problemi”. Sapevo che over incontrare suo padre lo agitava.

Enrique mi osservò per qualche istante, poi mi sorrise.

“D'accordo. Ho già detto che sono masochista?”, e mi strinse ancora a sé sorridendo come un bimbo, ma la tristezza nei suoi occhi non mi sfuggì.

…..........................................

 

“Ma smettila”, ridacchiai, colpendo Jasper ad una spalla come a volerlo spostare, senza però riuscire a smuoverlo di un millimetro. Jazz sorrise. Intorno a noi, il frastuono di corpi d'acciaio che colpiscono corpi d'acciaio. I Cullen si erano uniti a me, invogliati forse dalla bella giornata e dalla quiete, per un po' di allenamento che, a detta di Jasper, non guastava mai. Emmet e Rose, Carlisle e Tanya, Edward ed Esme ci danzavano intorno, a velocità tale che faticavo a seguirne gli spostamenti.

“Sono serio, mi hai spuntato i capelli. Tra un po' resterò pelato”.

Risi all'idea. Intanto Alice digrignava i denti, divorata dalla preoccupazione per suo marito.

“Non gli farò del male”, la rassicurai.

“Con tutto il rispetto, Bella, ma non sei ancora del tutto padrona del tuo dono, forse Emmet potrebbe prendere il posto di Jazz, per un po'”.

Rose la freddò con lo sguardo e si aggrappò al braccio di Emmet, il quale, allettato dall'idea di uno scontro diretto con il fuoco, aveva d'improvviso smesso di combattere contro sua moglie e già avanzava nella mia direzione.

Emm sollevò le mani in segno di resa e io alzai gli occhi al cielo, esasperata.

“Non ho intenzione di uccidervi”, borbottai, incrociando le braccia sul petto.

“Combatti contro di me”, intervenne Edward, sfiorando la mano di Esme alla quale rivolse un leggero inchino, in un antico gesto di riverenza.

La sua voce fece fremere la mia pelle, come se mi avesse accarezzato, e questo sebbene fosse a metri di distanza da me. Entrambi fingemmo di ignorare il silenzio piombato in quella piccola radura al limitare del bosco e poi le attenzioni dei vampiri intorno a noi che, sebbene non lo dessero a vedere ma continuassero nei reciproci scontri, ci osservavano. Quel momento era solo nostro. Edward tirò su a livello delle cosce i pantaloni cinque tasche color verde militare, chinandosi sulle ginocchia con un sorriso sbarazzino dipinto in volto. Sorrisi a mia volta, animata dalla scintilla nei suoi occhi. Era uno scenario, quello, che avevo immaginato a lungo, assistendo alle sue lotte con i fratelli, dicendogli che, quando mi avesse resa immortale, lo avrei sfidato e battuto.

Mi soffermai ad ammirarne lo splendore. In teoria, avrei dovuto temere la potenza irradiata dal suo corpo pronto all'attacco e il suo labbro superiore inarcato a mostrare i denti e al contempo incurvato in un sorriso oscuro. Invece lo desiderai.

Raddrizzai le spalle e sollevai il braccio destro, incurvando le dita della mia mano già bollente. Jasper sosteneva che dovessi indirizzare la fiamma nel palmo affinché potessi avere un controllo maggiore, decidendo dove indirizzare il fuoco e così evitare l'effetto “granata”, come l'aveva ribattezzato Emmet.

Lo stesso effetto che, qualche giorno prima, aveva rischiato di annientare Tanya e ridurla in un mucchietto di cenere. Tanya... che, nella violenza de suoi attacchi a Carlisle, non smetteva di apparire splendida ed elegante, i ricci biondi mossi dal vento leggero, bella da togliere il fiato. I suoi occhi grandi sembravano distanti, benché non perdesse di vista Edward un solo istante, e, nelle occasione in cui avevo potuto incrociarne lo sguardo, mi era sembrato che fossero immersi in una profonda tristezza, nonostante il sorriso che le aleggiava sulle labbra.

L'avrei uccisa con una facilità preoccupate, se non avessi perso i sensi, svenendo fra le braccia già tese di Edward alle mie spalle.

Il timore che potesse in qualche modo ferirlo era stato tale da farmi perdere la ragione. Non avrei avuto la forza di fermarmi, non avrei neanche saputo come fare, se lo sforzo e la rabbia non mi avessero annientato. Ricordavo, però, lo shock sul suo viso, le sue mani aggrappate ai ciuffetti d'erba e il sollievo che provai nel percepire la vicinanza di Edward e la frescura emanata dal suo corpo.

Esme”, urlò Edward.

Non vidi la giovane vampira dai tratti gentili, ma intuì che si fosse avvicinata a Tanya per prestarle soccorso. Quella consapevolezza mi permise di chiudere gli occhi definitivamente e abbandonarmi al sonno, mentre Edward mi adagiava su qualcosa di morbido...

Al mio risveglio era ancora lì, al mio capezzale, insieme a Carlisle e un'agitata Rosalie.

Non so cos'altro fare, Carlisle. Le ho fatto una doccia con acqua gelida, ma la temperatura non accenna ad abbassarsi”. La sentì sfiorarmi la fronte e le guance con la mano.

Si sta svegliando”, sussurrò Edward.

Sollevai le palpebre e inizialmente la luce mi infastidì, poi vidi i volti dei tre vampiri nella stanza osservarmi in pena. Mi tirai su, stiracchiandomi le braccia intorpidite.

Bella, va tutto... bene?”, mi chiese Edward, sfiorandomi il polso.

Il battito è regolare”, constatò.

Sto bene”, dissi, sentendo la bocca secca e impastata. Edward mi porse un bicchiere d'acqua che trangugiai in pochi istanti.

State tutti bene? Gli altri? Cosa... cosa è successo?”, chiesi.

Stanno tentando di spegnere... l'incendio”, borbottò Rosalie.

Bella”, mi chiamò Edward, “sei certa di stare bene”.

Sì, mi sento... bene in realtà. Perché”.

Hai la febbre e una temperatura corporea di trentatré gradi circa”.

Lo fissai tentando di cogliere lo scherzo.

E' impossibile”.

Sei bagnata e non te ne sei neanche accorta”, mi fece notare Rose.

Osservai lo goccioline d'acqua sulle mie braccia che lentamente evaporavano, i capelli fradici e il mio corpo umido coperto da una sottile t-shirt bianca. Sfiorai la pelle del mio collo, le guance, la fronte, le braccia senza percepire alcunché. Edward mi strinse una mano fra le sue e allora intuì l'abnorme differenza fra le nostre temperature. “Senti?”, mi chiese.

Annuì.

Ma io... io mi sento bene. Mi sento davvero bene”. Mi alzai, piantandomi davanti a lui. “Ho come l'impressione che potrei... fare qualsiasi cosa, Ed”. Fissai i palmi delle mie mani. Li fissai intensamente e un piccola fiammella si levò dal centro esatto dei palmi. Serrai le mani a pugno e la fiamma scomparve, come se il mio corpo, che sembrava nutrirsi di fuoco, l'avesse risucchiato. Risi come una bimba.

E' assurdo. Posso farlo a mio piacimento”, sussurrai, lasciando che una sottile fiammella che partiva dal palmo sinistro si propagasse lungo il braccio, le spalle, il collo e poi lungo il braccio destro e infine si spegnesse nel palmo. Risi ancora.

Non ti fa male?”, mi chiese Rosalie ad occhi sgranati, “non brucia?”.

La fissai di rimando: “No”, risposi, stupendomi della mia stessa risposta. Era tutto così naturale che non mi ero nemmeno posta il problema.

Potrebbe essere normale per te, Bella. Non ho mai incontrato un potere simile, fino ad ora, quindi non posso darti risposte certe. Ma ti terrò sotto osservazione in questi giorni; per ora il tuo corpo non sembra risentire dell'elevata temperatura corporea, persino il tuo battito cardiaco è regolare”.

Annuì a Carslile, continuando a fissare il palmo delle mie mani.

Cosa...”, alzai lo sguardo nell'istante in cui Edward adagiava i polpastrelli su un punto preciso del mio collo. Arrossì, ma sbiancai immediatamente.

Cosa hai fatto qui?”.

Allora realizzai. Rose aveva detto di avermi fatto una doccia, non doveva aver pensato a coprire i segni lasciati da Tanya con il fondotinta. Mi sottrassi al suo tocco, scostando rapidamente le sue mani.

Un incidente. Lo sai che sono imbranata”.

Sono impronte di una mano, Bella”, ringhiò.

E' stato lui, il ragazzo? E' stato lui?”. Non risposi, interdetta.

Edward annuì e lasciò la stanza a grandi falcate. Sgranai gli occhi e mi apprestai alle sue spalle.

Edward”, lo chiamai.

Non è stato Enrique, non lo vedo da giorni”, urlai.

Allora chi. Chi?”, urlò di rimando stringendo i pugni e serrando la mascella.

Non riuscì a pronunciare il suo nome, ma quando Edward serrò le palpebre e strinse i denti, intuì che aveva capito.

Girò i tacchi e prese a scendere le scale, dopo un istante di esitazione lo seguì.

Edward”, lo chiamai, ma sembrava assente.

Edward”, lo implorai.

Edward non si fermò, fin quando non l'ebbe vista: sola, rannicchiata in un angolo del divano, intenta letteralmente a leccarsi le ferite e in attesa che il veleno le rimarginasse. Alzò lo sguardo su Edward, che se ne stava immobile a fissarla, senza prendersi neanche la briga di respirare.

Nella casa piombò il silenzio.

Avrei potuto accusarla, urlarle contro, allontanare Edward da lei. Avrei voluto, ma qualcosa mi spinse a non farlo. Perché il mio desiderio di proteggere lui, da tutto e da tutti, persino da se stesso e dalle azioni che non si sarebbe perdonato, era più forte di qualsiasi altro istinto.

Le ho chiesto di simulare un vero attacco, di comportarsi come se fosse un nemico e di non aver remore nell'utilizzare la sua forza e la velocità... Volevo vedere cosa sarei stata in grado di fare. Sono stata io a chiederglielo. Sono stata io”.

Tanya mi fissò, con i suoi occhi grandi e vuoti. Mi chiesi quanto tempo Edward avrebbe impiegato a scorgere la bugia nei pensieri di sua moglie o se lei non fosse più brava di quel che immaginavo a mentire.

Edward la osservò per un lungo minuto e lei gli restituì un'occhiata intensa. Mi sentì di troppo, in quella muta ed intima conversazione, ma tentai di non darlo a vedere non volendomi allontanare dal fianco di Edward. Il mio posto nel mondo.

Attesi.

Lo vidi lanciare uno sguardo alla porta, come se, per l'ennesima volta, volesse fuggire. Ma non lo fece.

Va di sopra, Carlisle deve visitarti”.

Per una volta obbedì senza replicare. Mi lasciai scivolare contro la parete della mia stanza, incurante degli altri vampiri. Rose si lasciò cadere al mio fianco, stringendosi le ginocchia al petto, senza dire alcunché. Entrambe fissammo la sottile tenda gialla alla mia finestra, che svolazzava sospinta dal vento caldo, per minuti, forse ore, anche quando Carlsile si chiuse la porta alle spalle e restammo sole. Non seppi mai cose successe al piano di sotto né lo chiesi a Rose.

 

Sta di fatto che, dal quel giorno, Tanya prese a vivere ai margini. Lontana da Edward. E se la parte più buona di me provava pena per lei, non potevo che gioirne. L'uomo che amavo sembrava essere mio... Ma non lo era e non lo sarebbe stato fin quando non fosse giunto a un compromesso con gli errori compiuti in passato e i suoi desideri. Fin quando non avesse trovato una soluzione a quello strano triangolo che si era venuto a creare. O forse era un quadrato, data la duplice personalità di Tanya: una lei fragile, bisognosa d'attenzione e una lei rancorosa e brutale.

 

“Sii più rapida”. Sobbalzai, udendo la sua voce alle mie spalle. La sua mano si strinse intorno alla mia chiudendola a pugno e spegnendo la fiamma sul nascere. Sospirai per via del suo tocco.

Edward mi liberò dalla sua stretta e si distanziò rapidamente, una strana luce in fondo agli occhi.

“Non puoi contare unicamente sull'effetto sorpresa, non deve passare tempo tra il pensiero dell'azione e l'azione stessa”.

“Penavo fossi contrario a che io mi allenassi”, ribattei, sperando di distrarlo. Presi a girargli intorno, con estrema lentezza. Edward mi osservava guardingo, senza badare, come me, al rumore di ringhi e ruggiti, ai corpi che venivano scagliati da una parte all'altra della radura.

Edward sorrise, avendo forse intuito il mio tentativo di distrarlo e scosse il capo, così che le sue morbide ciocche ramate gli sfiorarono la fronte. Avrei voluto piangere, per l'assurda potenza del desiderio che mi pervase le viscere.

Decisa a trasformare il desiderio inappagabile in forza, scagliai a palmo aperto il mio fuoco contro di lui, nella potenza in cui l'avevo immaginato, tale da non poterlo ferire, anche nel caso in cui l'avessi preso. Speranza vana.

Edward mi si parò di fronte, facendomi sobbalzare per lo spavento. Lo fulminai e lui rise ancora con una tale allegria nella voce che, se non fossi stata tanto frustrata, mi avrebbe incantato.

“Non ridere”. Ma non accennava a smettere.

Così mi chinai, adagiando i palmi sul terreno, liberando in esso il fuoco che si irradiò per tutti i metri che ci separavano. Quando Edward si fu ripreso, mi osservò senza capire cosa stessi facendo. E in fine realizzò, balzando indietro nell'istante esatto in cui un muro di fiamme si sollevava dalla terra ai suoi piedi. Riavutosi dallo shock, mi restituì uno sguardo nero come il petrolio e un altro micidiale sorriso cattivo. Prima che potesse avvicinarmisi, mi circondai di una spirale di fuoco, come stessi immergendo un bastoncino nello zucchero filato. Edward cercò un varco, senza trovarlo. E probabilmente non sarebbe riuscito a superare il muro, se il tonfo del corpo di Emmet contro il terreno non mi avesse distratta. Edward ne approfittò, serrandomi le braccia nella sua presa ferrea, dietro la mia schiena.

“Presa”, mi disse, “qualsiasi distrazione può esserti fatale. Se fossi stato il nemico e avessi voluto farti del male, ora saresti già morta”, accostando le labbra al mio orecchio.

“Non imparerà niente, in questo modo”.

La voce di Tanya, stridula per quanto si sforzava di trattenerla in gola, mi restituì alla realtà, afferrandomi dal luogo di perdizione in cui mi stavo confinando.

“Sul campo, in battaglia, c'è poco da ridere. E non puoi contare su niente e su nessuno al di fuori di te stessa, perché se osi affidarti ad altri e questi cadono, cadi anche tu”, mi disse.

Riconobbi sul suo viso il cambiamento, parlavo con la parte di lei rancorosa e brutale.

Mi allontanai da Edward.

“Combatti con me”, mi propose.

“Così potrai mostrarle ancora una volta come si comporta un vero nemico in battaglia?”, chiese Edward, il tono della sua voce così freddo e minaccioso da farmi rabbrividire. Ricordai la bugia che avevo inventato per spiegargli i segni sul collo.

Tanya non lo badò di uno sguardo, era me che voleva. In quel momento, nei suoi occhi lessi l'urgenza di farmi del male.

“Quando vuoi”.

“No”, si oppose Edward che mi osservò a occhi sgranati. Non capiva e temeva per me, il suo incubo peggiore sembrava stesse per realizzarsi: Tanya mi avrebbe fatto del male. Il mio intento era dimostrargli il contrario. Dimostrargli che non avrebbe dovuto temere per me, perché ero in grado, soprattutto alla luce del mio dono, di badare a me stessa.

“Fatti da parte”, gli chiesi.

“No”, insistette, frapponendosi fra me e lei, senza voltare le spalle né all'una né all'altra.

“Spostati, Edward. Non scegliere per me”, gli chiesi, ben sapendo di colpire nel punto giusto.

Edward sussultò, mi riservò un rapido sguardo, dopodiché si fece da parte. E io mi ritrovai a fronteggiare Tanya... arrabbiata, gelosa, ma mai quanto avrei potuto esserlo io.

“Devo supporre che non sarai gentile”, la schernì.

“Supponi bene”, replicò, poi scomparve dalla mia vista.

Sapevo, forse avendola osservata a lungo, che mi sarebbe comparsa alle spalle, perciò alzai un violento muro di fuoco dietro di me. Tanya imprecò, digrignando i denti e balzando all'indietro. Spiccò un salto, oltrepassando la barriera, mi fu sopra, il viso a pochi millimetri dal mio, il braccio teso mi colpì, ma prima ancora di avvertire il dolore dovuto all'urto, le riservai un fiamma lunga ma leggera che la ferì in viso e cacciò un urlo. Volai per qualche metro, temendo già il momento in cui avrei colpito il terreno e, nel fischio del vento, mi parve di udire il ruggito di Ed, ma nessuno mi soccorse. E nessuno avrebbe dovuto farlo. Non so, di preciso, come avvenne. Forse fu l'istinto a muovermi, sta di fatto che piantai il braccio di fronte al viso, in un ultimo tentativo di parare il colpo e produssi un manto di fuoco che mi accolse tra le sue braccia come fosse un tappeto elastico. Sorrisi, benché la situazione fosse a tutti gli effetti assurda. Galleggiavo nel fuoco come fosse una nuvola e la mia pelle non percepiva il minimo fastidio. La mia razionalità mi urlava che non poteva essere reale, il mio corpo non poteva sopportare una temperatura costante di quarantatré gradi, né il contatto prolungato con il fuoco senza alcuna conseguenza, neanche una piccola scottatura. E se fosse stata un'illusione, come d'altronde lo era il potere di Jasper che, in realtà, non era in grado di controllare la produzione di endorfine o adrenalina, come inizialmente pensavo? E il potere di Jazz aveva delle conseguenza reali sugli altri, regolandone l'umore, così come il mio dono mi aveva permesso di ferire Tanya per la seconda volta quel giorno.

Immersi le mani nel fuoco, come fosse davvero una soffice nuvola e mi accorsi di poterlo afferrare. Sollevai di poco il braccio, trasportando con me la fiamma, lo allungai e il fuoco assunse una strana forma longilinea e allungata, come se seguisse i miei movimenti. Feci per incurvare la schiena e sollevarmi, ma la fiamma alle mie spalle mi anticipò, compiendo il mio stesso movimento e mettendomi dritta. Sorrisi e mi sollevai. Rendendomi però conto di trovarmi a un paio di metri da terra, mi lasciai scivolare al suolo, ancora un avvolta come se stessi camminando su una nuvola. Atterrai sulle ginocchia con un piccolo salto e mi accovacciai a terra. Il fuoco alle mie spalle come un'ombra. Con un rapido sguardo intravidi i Cullen, i loro volto scioccati e in particolare Rose ed Edward. Lei lo stringeva dal gomito, quasi volesse trattenerlo, ma adesso la mano le scivolava lentamente lungo il fianco ed Edward mi osservava con una strana luce nello sguardo. Tanya, invece, sembrava sul punto di prendere fuoco spontaneamente, per autocombustione. Le rivolsi un mezzo sorriso, con più soddisfazione di quanto avrei immaginato, decisa a testare le mie potenzialità fino in fondo. Così, quando Tanya si scagliò come una furia contro di me, le sferrai un calcio, sebbene fosse ancora a diversi metri di me. Come avevo previsto, la fiamma che mi circondava seguì il movimento della mia gamba, allungandosi contro di lei e colpendola all'addome. Tanya, che era stata colta di sorpresa, non riuscì a scansare in tempo il calcio e si lasciò colpire. Questa volta fui io a scagliarla a diversi metri di distanza. La sentì urlare. Il fuoco... il fuoco era micidiale per i vampiri. Tutto in me, tutto, mi urlava di smettere. Perché, in fondo, non era mia intenzione farle del male, intendevo soltanto dimostrare ad Edward che non avevo bisogno che temesse per me. Un'altra parte di me, quella a cui aveva stretto la mano quel primo giorno presentandosi come la signora Cullen, con l'anello che era mio al suo dito, non aveva invece alcuna intenzione di smettere. Così lacerata, rimasi immobile, in attesa. Fu lei, ancora una volta, ad attaccare e io mi difesi. Questa volta non fu altrettanto facile colpirla, sempre a distanza, i calci non andavano a segno perché era veloce. In ogni caso, ringraziai Charlie per le lezioni di autodifesa impartitami da piccola.

“Io posso continuare per giorni, tu ti stancherai presto”, mi fece notare, fermandosi, in tutta la sua bellezza di fronte a me, mani sui fianchi.

“Non farmi arrabbiare”, le chiesi.

Tanya rise, io mi “spensi”, perché sembravo davvero una torcia umana, e la fronteggiai.

“Non finirà”, le dissi.

“Ti ho detto che prima o poi ti stancherai”, replicò.

“Non mi arrenderò”, le comunicai.

“Oh, neanche io”, mi fece notare.

Nessuna delle tue parlava più della battaglia.

Tanya sparì e mi comparve alle spalle, puntandomi la mano a palmo aperto sulla schiena, a livello del petto, le sarebbe bastato poco per strapparmi il cuore dalla gabbia toracica, ma io le puntai due dita a livello della carotide (se avesse avuto battito cardiaco avrei potuto auscultarlo), il fuoco sui polpastrelli chiedeva di uscire. Mi sarebbe bastato poco per farle esplodere la testa.

“Allontanati, ho giuro che ti accendo come un cazzo di fiammifero”, la minacciai.

Tanya si chinò accostandosi al mio orecchio e mi disse, senza che nessun altro potesse udire le sue prole: “Qualcosa in comune l'abbiamo, lo amiamo entrambe”.

Deglutì a vuoto.

“No, ti sbagli. Non sarai mai in grado di amarlo come e quanto lo amo io. Edward è mio”.

Allora entrambe ci allontanammo dal tiro dell'altra, lei con la forza del suo corpo, compiendo un balzo e sollevando un leggero polverone, io sulla mia nuvola di fuoco, dritta e convinta, le idee molte chiare.

 

….................................

 

“E cosa le hai detto?”.

“Le ho detto che va bene, che potevamo vederci uno di questi giorni”, mi rispose Enrique, accarezzandomi i capelli. Era una giornata piuttosto calda. Quando Enrique mi aveva chiamato, quella mattina, chiedendomi di raggiungerlo, temevo che scegliere di farlo sarebbe stato da egoisti, da pazzi. Temevo fosse un errore. Ma, forse spinta dalla stessa forza che aveva indotto lui a chiamarmi, mi ero precipitata a casa sua.

 

Perché mi hai chiamata?”.

Perché sento che... non dove essere così tra noi. Rivoglio la mia amica, quella con cui guardavo i cartoni animati(anche se ho, bhe trentanni), quella che mi ha fatto mangiare un intero barattolo di gelato e poi vomitare l'anima, quella che mi capiva con uno sguardo. Voglio la mia amica, perché non mi va di rivedere mio padre, ma devo farlo. E solo l'idea mi...”.

A quel punto l'avevo stretto forte fra le braccia, dimentica di ogni remora o imbarazzo.

Eravamo insieme da ore; era ormai pomeriggio inoltrato.

Distesa sul suo minuscolo divano a guardare la televisione, con il capo sul suo grembo, facevo zapping.

“Malattie imbarazzanti”, urlai.

“No, ti prego. Sai che odio questi programmi”, si lamentò.

Lo sapevo, gli facevano schifo.

“Senti, ho bisogno di guardarli. Vorrei ricordarti che devo laurearmi in medicina”, replicai.

“Mia la televisione, mia la decisione”, mi fece notare.

“E dai”, lo pregai e ai miei occhi grandi e lucidi non seppe resistere.

“E' davvero l'unica donna nella vostra squadra?”, gli chiesi.

Enriq mi aveva raccontato di una certa Ava, una ragazza di poco più di vent'anni che da qualche giorno si era unita al distretto di vigili del fuoco volontari della zona. Era stata lei, minuta, bionda e con le lentiggini a chiedergli di uscire.

“E' molto coraggiosa”, gli feci notare.

“In realtà, prende molto sul serio il suo lavoro, ma facciamo tutti fatica a immaginarla in mezzo a un incendio”. Arrossì, ripensando agli incendi che io avevo causato.

“Ci credo”, risposi.

“Sei caldissima, sicura di stare bene?”, mi chiese.

“Sì e che... te l'ho detto, non sopporto il caldo”.

Restammo per qualche istante in silenzio.

“Ho qualcosa da darti”, mi disse dopo un po'.

“Cosa?”, chiesi.

Enrique mi spinse a sollevarmi, si alzò e io rimasi in attesa, mentre lui scompariva nell'altra stanza.

Fu di ritorno qualche minuto dopo, in mano una busta di quelle che sai già conterranno qualcosa di costoso.

“E' per te”, mi disse.

“Qualsiasi cosa contenga riprendila e restituiscila. Non posso accettare”, mi affrettai a dire, alzandomi come a volermi allontanare da quel regalo.

“E' troppo... e non è il caso, Enrique, non posso accettarlo”.

“Bella...”.

“No, ho detto di no. Tu non puoi farmi anche un regalo. E' assurdo, non puoi...”.

“Bella, è stata mia sorella a farmelo avere. Io non ho speso niente. Me lo ha inviato non appena le ho detto che mi avresti accompagnata alla serata di beneficenza”.

“Avrei messo qualcosa, così...”, borbottai imbarazzata.

“Lo so”, sorrise, “prendilo, sarebbe un peccato se dovesse rimanere nell'armadio”.

“Non ti merito”.

“Probabilmente hai ragione”, mi disse.

Sorrisi, ma in realtà qualcosa mi bloccava la gola: la consapevolezza che non avrei potuto mai dargli ciò che meritava.

 

….............................

 

Guidai senza riuscire a smettere di pensare all'indomani sera, a quel bellissimo abito, alla gentilezza di Enrique e alla sua comprensione, ad Edward, a Tanya, a me stessa e a quello strano e straordinario dono senza del quale non potevo immaginarmi, sebbene faticassi ancora a concepire come mio. Il fuoco era per me come la penna per uno scrittore: un'estensione del mio braccio. Accostai davanti a casa Cullen, spensi il motore e afferrai le chiavi che tintinnarono nelle mie mani. Era ormai sera, quasi notte, nei dintorni regnava il silenzio, a parte il frinire delle cicale.

Tanya era rannicchiata sul dondolo in veranda, il capo adagiato sullo schienale, lo sguardo rivolto a un non so ché di imprecisato.

“E' bellissimo”, mi disse, prima che sparissi rapidamente oltre la porta d'ingresso.

Mi fermai e seguì la direzione del suo sguardo.

“Tu non puoi vederlo, i tuoi occhi umani sono ciechi. E' lì”, e mi indicò un terrazzino, una porta finestra illuminata da una luce gialla e artificiale, un'ombra sul vetro. Capì allora a chi si stesse riferendo, ma non seppi come replicare. Il fatto che mi stesse parlando mi lasciava stranita.

“Non mi parla. Da quando ha saputo che ti ho fatto del male ha smesso persino di guardarmi. Ma non lo fa di proposito; è solo che non riesce”, mi spiegò.

“Perché mi parli?”, le chiesi, non potendomi più trattenere. Mossa da un istinto primordiale, nascosi la mano destra dietro la schiena, in attesa del suo prossimo cambiamento d'umore.

“L'ho provato per una sola notte cosa si prova ad essere ricambiata da lui”, continuò come se non mi avesse sentita, il senso dello sue parole mi ferì a tal punto che per riuscire a stare in piedi dovetti appoggiarmi alla porta. Sembrava d'un tratto consapevole che Edward non la ricambiava; mi stupì.

“Tu lo provi ogni giorno, in fondo non mi sono presa granché del tuo tempo, quindi non dovresti odiami”, concluse.

Continuai a fissarla senza capire.

“Cosa ti è successo? Perché sei... così?”, le chiesi, ancora una volta senza potermi trattenere, “non ho mai visto un vampiro tanto...”.

“Come mi definiresti, Isabella? Pazza, instabile, poco lucida, schizofrenica”.

Sgranai gli occhi, non avendo parole da aggiungere.

“Sì”, risposi.

“Qualcuno ti ha raccontato di me, la mia storia?”, mi chiese, senza distogliere lo sguardo da quell'ombra.

Annuì.

“Saprai allora che sono stata io, in preda al terrore, a chiedere a mia madre di rendere immortali me e le mie sorelle. La paura, la vista del mio bel viso sfigurato, quel viso che era sempre stata la mia unica certezza... Eravamo lì, tra gli alberi, accanto a me un abbeveratoio per i cavalli dove ci immergevano stringendoci per i capelli al fine di farci parlare, mi sono specchiata nell'acqua sporca e ho visto il mio volto, è stato orribile. Non avevo collegato il dolore alle conseguenze... Kate e Irina erano prive di sensi, ricordo che non avevano potuto utilizzare l'acido con loro per farle parlare perché pensavano che fossero già morte. E forse sarebbe stato meglio che rimanessero tali, alla luce di quello che saremmo diventate in seguito. Ma io mi sono arrogata il diritto di scegliere per loro, non che me l'abbiano mai fatto pesare... Ho scelto di farle diventate così... mostri, assassine in preda alla brama di sangue, impossibilitate a morire dalla loro stessa natura, intrappolate in un'eterna giovinezza, sterili ma bellissime”.

“Hai salvato loro la vita”, le feci notare, le lacrime agli occhi.

“Una vita che non avrebbero voluto vivere, lontane da una famiglia che era bruciata nel fuoco, lontane da un'epoca in cui erano state regine per costringerle a vivere nel buio. Io non ho pensato alla loro vita, ho pensato alla mia. Ho pensato soltanto a me stessa, a quanto io volessi vivere e tornare indietro a prima che scoppiasse l'incendio”.

Allora mi fu chiaro che Tanya si sentiva colpevole e che questa sensazione la divorava.

“All'inizio ho accettato qualsiasi cosa le rendesse felici, cibarci di sangue umano, andare a letto con uomini umani e non. Ho accettato qualsiasi cosa. Eravamo fuori controllo e lo siamo state per molto tempo, ma Sasha non lo accettava. Dopo la sua morte, abbiamo deciso di cambiare, senza riuscirci immediatamente. Allora ho fatto di tutto per tenerle lontane da qualsiasi tentazione. Sasha aveva iniziato a sperimentare una sorta di dieta a base di sangue animale da un po' di tempo, inizialmente non capivamo il perché... dopo la sua morte ho provato a seguire le sue orme, spingendo le mie sorelle sulla stessa strada. Ma anni di “cattive abitudini”, di sregolatezza e sangue umano non hanno reso il passaggio più semplice. Pian pano, però, tornavamo ad essere umane e uccidere gli uomini che amavamo non era più piacevole come un tempo. E' stata questa la spinta decisiva. Eppure io continuavo a sentirmi colpevole: della condizione di animalità in cui avevamo versato per decenni e di quel bruciore alla gola costante, del dolore che Kate e Irina provavano ogni qual volta non riuscivano a controllare la sete e finivano con l'uccidere gli umani che amavano perché lacerate, da una parte gli istinti e l'incapacità di perseguire la scelta fatta, dall'altra il desiderio di cambiare”.

“Ho voluto poche cose nella mia vita. Voglio lui. Voglio essere felice”, mi confidò.

Chinai lo sguardo.

“Cosa avete voi, io non lo capisco... Me lo porterai via?”, per la prima volta da quando aveva iniziato a parlare mi osservò.

“Io non posso portartelo via, io temo semplicemente che tu non l'abbia mai avuto, Tanya. Tutti, più o meno consapevolmente, cerchiamo la felicità. In fin dei conto non ti biasimo per averlo fatto, anche a suo discapito. Ma tu non puoi... non puoi capire. Lui non è soltanto bellissimo. E' solo così che sai descriverlo?”.

Tanya si morse il labbro, guardandomi con la testa inclinata di lato.

“Lui è ridicolo, fa delle cose assurde pur di farmi ridire e che non ti aspetteresti mai vedendolo così... composto ma è intenso. Lui è testardo come un mulo e pensa di esser bravo in tutto, ma ha un animo umile. E' testardo come un mulo ma è la persona più intelligente che abbia mai incontrato. Lui si crede pericoloso e forse lo è, ma farebbe qualsiasi cosa pur di proteggere le persone che ama, pur di non ferirle. Ha senso della fatica perché fra le poche cose che ricorda della sua vita da umano c'è suo nonno, un gran lavoratore che gli ha insegnato il rispetto per il denaro e il lavoro. Non posso spiegare... qualcosa di così improbabile. Quando vedi una persona e capisci che deve fare parte della tua vita, quando la sua vista, pur senza conoscerla, colma ogni vuoto e tristezza. Edward è tutto questo e tanto altro. Vuoi soltanto un'ombra, Tanya?”, le chiesi ed entrambe riprendemmo a fissare quella portafinestra.

Dopo qualche minuto di silenzio, Tanya annuì.

“Sì”, mi disse.

“Un'ombra?”, le chiesi ancora, non capendo come potesse scegliere di spezzarlo pur di sentirsi intera. Perché era questo che Tanya voleva, sentirsi completa, felice. Una parte di me la odiava, l'altra la comprendeva e non la biasimava.

“Sì, ne ho bisogno, Bella. Ne ho bisogno”.

Entrai in casa senza aggiungere altro, incurante delle orecchie che avevano ascoltando la nostra conversazione. Non c'era nulla che potessi fare per lei, la sua scelta l'aveva fatta, la mia l'avevo esposta. Ora spettava ad Edward decidere se appoggiare la follia di quella ragazza sola, triste, infelice il cui egoismo era stato fomentato dalle difficoltà della vita o se amare me e vivere.

 

…..............................

 

Osservai in preda allo shock la figura riflessa nello specchio. La mia figura. Il mio volto sembrava scolpito nell'alabastro, non fosse stato per il salutare color roseo che mi imporporava le guance, i capelli corvini dai riflessi rossicci elegantemente raccolti sulla nuca, lo sguardo magnetico e le labbra rosse e lucide tanto da sembrare disegnate costituivano il giusto coronamento allo splendido abito che indossavo. Uno di quegli abiti che vedi in vetrina e pensi sia troppo costoso per le tue tasche, uno di quegli abiti che vedi indosso ad attrici di fama internazionale e pensi che non potrà mai starti altrettanto bene. Un vestito lungo, di un rosso brillante, un breve strascico, due sottili spalline, una profonda scollatura a v sulla schiena, qua e là dettagli in pizzo. Avrei voluto poter dire che era stata tutta opera mia, ma naturalmente le continue telefonate di Alice e Rose che, per misteriose ragione, arrivavano sempre al momento giusto, quando non sapevo come acconciare i capelli( per poi ritrovarmi tutto l'occorrente nella borsa che avevo preparato) o che trucchi usare (per poi ritrovarli sempre nella suddetta borsa), mi erano state di grande aiuto. Mi trovavo a casa di Enrique, nella sua stanza, e avevo trascorso le ultime due ore nel tentativo di ottenere questo risultato senza l'intervento diretto di Alice o Rose. Non avevo parlato ai Cullen della serata, perché non si sentissero in dovere di sorvegliarmi( bastava e avanzava il mio dono, per non parlare dell'arma di Emm che portavo alla caviglia, immaginando che all'ingresso avrebbe preso borsa e soprabito) ma naturalmente Alice era venuta a saperlo e di conseguenza lo aveva saputo anche Rosalie. Tuttavia, avevano rispettato il mio desiderio di non farlo sapere agli altri e nessuna delle due aveva insistito per aiutarmi.

Presi un profondo respiro, una strana sensazione mi bloccava dal muovere anche solo un passo: un formicolio all'altezza dello stomaco.

Mi diedi della stupida per le mie infinite paranoie e, sollevando l'abito per non rischiare di inciampare, raggiunsi Enrique che mi attendeva nell'altra stanza. Se ne stava con le mani in tasca, intendo a fissare qualcosa dalla finestra, quando sollevò lo sguardo e mi vide, per poco gli occhi non si staccarono dalle orbite rotolando sul pavimento, come in uno di quei cartoni animati che avevamo visto la mattina.

 

….......................

 

“Come ti senti?”, gli chiesi, quando mi ebbe comunicato che eravamo in prossimità del college, quindi della serata.

“Avrei preferito rimanere in casa, ma ci sarà anche Berta, quindi...”.

“Pensi che avrà portato Maia?”, gli chiesi con il sorriso sulle labbra.

“Conoscendola probabilmente sì, siamo in un luogo pubblicò quindi mio padre non potrà dire o fare nulla di sconveniente”. Enrique sembrava contento all'idea.

Risi.

“E sempre per lo stesso motivo mio padre ti apparirà molto gentile e alla mano, ma non lasciarti ingannare, è la maschera che indossa per le serate come questa”.

Annuì.

“Più o meno chi sarà presente alla serata. Il rettore, sua moglie...”.

“Alcuni donatori con le loro famiglie, anziane vedove e timorate di Dio, famiglie di studenti facoltosi, membri dell'associazione...”.

“Ok, ho capito, mi sono fatta un'idea. Gente ricca”.

“Anche io sono ricco”, mi fece notare sorridendomi.

“Ma non sei snob”.

“Si comincia dalle posate esterne, comunque”, mi disse e gli diedi una pacca sul braccio.

“Sul, il trucco è ostentare sicurezza”.

“Siamo messi bene”, borbottai sarcasticamente.

 

“Non farmi cadere o ti uccido”, lo minacciai. Enrique rise, “grazie”.

“Per cosa?”, mi chiese.

“Per avermi permesso di esserti amica”. Enrique mi sorrise, aiutandomi a uscire dall'auto.

Harvard era irriconoscibile, il campus era illuminato da centinaia di luci, il sentiero che conduceva all'ingresso(ingresso che avevo varcato decine di volte durante l'ultimo anno) era delimitato da due lunghe file di candele. L'edificio, che mi appariva ogni giorno maestoso, era stato reso accogliente.

Percorremmo il sentiero in religioso silenzio, ciascuno immerso nei propri pensieri. Al mio passaggio, l'aria sollevata dallo strascico del mio abito spense un paio di candele. Le osservai. Le fissai intensamente, sussultando quando la fiamma divampò nuovamente. Mi riscossi e in prossimità delle porte, spalancate per concedere l'ingresso ma rigorosamente sorvegliate da un paio di guardie in divisa, strinsi l'orlo della giacca di Enriq con tutta la forza che avevo in corpo e infine varcammo la soglia.

I lunghi e antichi lampadari ancorati alle travi del soffitto diffondevano una luce calda e soffusa, in fondo alla sala era stato allestito un piccolo palco su cui si sarebbero esibiti artisti di ogni genere al fine di ottenere il maggior numero di fondi da destinare alla ricerca. Ai lati erano stati posti dei lunghi tavoli con piramidi di bicchieri di cristallo e le più svariate leccornie. Sebbene avessi una gran fame, il cibo divenne immediatamente l'ultimo dei miei pensieri.

Avrei dovuto immaginarlo. Avrei dovuto supporlo. Se solo avessi riflettuto su quell'ipotesi avrei concluso che Carlisle, fra gli insegnanti più ammirati di Harvard, aveva donato una parte della sua immensa fortuna alla causa e che di conseguenza, insieme alla sua famiglia, avrebbe preso parte alla serata. Se solo avessi riflettuto, forse, alla sua vista non avrei perso il respiro e la voce, fallendo qualsiasi tentativo di “ostentare sicurezza”. Edward fu il primo a vedermi, e, data la sua espressione, dedussi che Alice e Rose avevano mantenuto il segreto. Forse avrei dovuto arrabbiarmi per il loro doppio gioco... Edward, che inizialmente dava le spalle alla porta d'ingresso, se ne stava annoiato ad ascoltare la conversazione di Carlisle con qualcheduno dei facoltosi membri dell'associazione, quando si voltò, forse fu un caso, forse fu il mio odore, sta di fatto che incrociammo gli sguardi. La sua espressione mutò da sorpresa ad affascinata rapidamente. E io mi sentì bella. Ma era così sempre, poco contava che indossassi uno splendido abito o una vecchia tuta, quando lui mi guardava io mi sentivo bella. Edward sorrise, non il sorriso sghembo che amavo, ma un sorriso sereno, un sorriso felice che rese giustizia ai suoi diciassette anni, quasi diciotto. Ricambiarlo fu naturale, Edward chinò il capo, mimando un inchino al mio aspetto, io arrossì e sollevai leggermente l'orlo dell'abito come a rispondere al suo gesto ma mettendo in bella mostra le scarpe alte prestatemi da Alice e ruotando la caviglia per enfatizzare il concetto. Edward sollevò le sopracciglia. Io scrollai le spalle. In ordine di tempo, fu Tanya la seconda a notare la mia presenza, lei che seguiva ogni suoi movimento come fosse la sua ombra e poi Emmet, Jasper, Esme e Carlisle. Alice e Rose, invece, sembrava mi stessero aspettando. Alice sorrideva come joker, oltre i trentadue denti, Rose al suo fianco tentava di nascondere l'ilarità e il sorriso che le tagliava il viso.

Pazze. Cosa pensavano di ottenere?

“La mia famiglia”, sussurrai, osservando i vampiri che sembravano aspettarmi a braccia aperte.

Poi Tanya, i ricci raccolti morbidamente e un abito dorato a fasciarla, lasciò il suo braccio; come la scena a rallentatore di un film, la sua mano le scivolò delicatamente lungo il fianco, girò i tacchi dando le spalle alla sala e si allontanò con eleganza tra la folla. Edward serrò le palpebre, chinando il capo e indurendo il volto ma gli bastarono pochi secondo, dopodiché aprì gli occhi e li fissò sul mio viso. Ed contrasse la mascella e disse qualcosa, qualcosa che non potei sentire data la distanza che ci separava, tuttavia Esme gli sfiorò una guancia con fare materno, poi anche lui diede le spalle alla sala scomparendo in mezzo alla gente.

Ignorai la fitta al petto.

“Bella”, mi chiamò Enrique, “non pensavo sarebbero stati qui, scusami”, mi pregò, adagiando la fronte sulla mia tempia.

Scossi il capo, trattenendo le lacrime in fondo agli occhi e il fuoco nella pelle.

“Bella”. Il suono di una voce familiare ci ridestò dal limbo in cui eravamo, entrambi in attesa che il mio dolore passasse.

“Maia”, risposi, con in viso un sorriso poco convincente.

Maia e Berta si avvicinarono a noi, la prima con un abito color giallo canarino e la seconda indaco.

“Bella, è un piacere rivederti. L'abito ti sta d'incanto”, mi disse Berta, stringendomi con forza a sé.

Ricambiai la sua stretta con calore.

“Grazie, è meraviglioso. Sei stata gentilissima”.

Berta si rivolse ad Enrique, nel frattempo Maia mi diede una gomitata per attirare la mia attenzione.

“Sei una... bomba”.

“Grazie”, le dissi, sorridendo un po' incerta.

“Scherzi, potresti incendiare la sala intera... e hai tolto il sorrisino a qualcuna di quelle spocchiose”.

“Volendo anche tutto il college”, sussurrai.

“Cosa?”, mi chiese.

“No, niente. Pensavo. Allora come va tra di voi, avete già incontrato...”.

“Lo abbiamo intravisto, ha ricevuto una telefonata, sembrava importante, ha finto di non vederci ed è letteralmente scappato”, mi rispose, alzando gli occhi al cielo con fare incredulo.

“Allora hai fatto bene a venire”, le dissi.

Maia storse le labbra, un po' scettica.

“Spero non se la prenda con lei, non potrei sopportarlo”, mi confidò, facendo un cenno con il capo in direzione di Berta. “Ma sembra piuttosto sicura che non succederà”.

“Allora fidati del suo giudizio”.

“Più facile a dirsi che a farsi, sai quando sei sempre in pena per un'altra persona, quando temi che faccia degli sbagli... io non vorrei che Berta continuasse ad avere rapporti con suo padre, non mi piace quella persona... so che è estremo, ma io ho un rapporto bellissimo con mio padre e se sono arrivata a questa conclusione è perché penso sia meglio per lei. Ma si ostina a non volerlo escludere dalla sua vita, e non perché abbia bisogno di lui, ma perché non vuole ferirlo e teme che possa ripiegare su Rafael”.

“Rafael?”, le chiesi, confusa.

“Sì, lui è minorenne, quindi è sotto la sua tutela legale. Sotto le sue angherie”, mi disse, mimando delle virgolette immaginarie.

“Forse capisco la situazione più di quanto credi”, sussurrai e non riuscì a non guardarmi alle spalle. E lui non c'era. Non riuscì neppure a ricambiare l'occhiata di Alice, che mi fissava come se volesse dirmi qualcosa.

“Scusatemi, ho bisogno di... andare alla toilette”, dissi, sfiorando il gomito di Enrique e lanciando un sorriso a Berta. “E' stato un piacere rivederti”.

“Anche per me, Bella”, mi rispose, scrutandomi con i suoi occhi verdi come a voler leggere i miei segreti.

Mi allontanai di gran carriera, attenta a non inciampare nell'orlo dell'abito.

La notte era piuttosto buia, pur dovendo essere un cielo estivo, quella sera una coltre di nubi copriva la luna. Per un attimo, ebbi l'impressione di essere ancora a Forks, quando tutto, paradossalmente, era più semplice. Camminai, inspirando a intervalli regolari, per la prima volta dopo giorni trascorsi con un temperatura corporea che oscillava tra i quarantatré e i quarantacinque gradi, sentì caldo. Il percorso di luce e candele mi condusse a quello stesso corridoio in cui Michael mi aveva trovata e rapita e nonostante mi sentissi più forte di allora( sembrano passati anni ma in realtà era questione di pochi giorni) mi colse il panico e la paura, dovuta al ricordo di quei momenti di terrore. Così mi rifugiai rapidamente all'interno dell'edificio, che aveva lasciato imboccando una strada laterale. Non mi accorsi di stare correndo fin quando non dovetti fermarmi, avendo udito una voce dall'accento familiare ma non noto.

“Sai che non devi chiamarmi a questo numero. Sono sempre io a chiamare”, diceva l'uomo.

Il suo interlocutore dovette dirgli qualcosa di poco piacevole, perché l'uomo al telefono rispose con un tono di voce decisamente più mesto, quasi impaurito. Non sapevo perché, accostata a quel muro, stessi origliando la conversazione, ma il mio istinto mi suggerì di non muovermi.

“Sì, sì scusami. Ne ho parecchi, questa volta penso che c'è ne sarà uno in più”.

“Come?”, chiesi, strabiliato e irato allo stesso tempo.

“Quanti? E dove dovrei trovarli in così poco tempo, il carico non basta per...?”.

“Ho capito. Ho capito, mi rendo conto, vedrò che cosa posso fare entro il tempo stabilito”.

“Quando pensate di agire esattamente, per quella faccenda?”.

“E cosa dovrei fare?”.

“Non lo so, forse. Devo trovare l'occasione, anche se già questa sera stessa... sì vedrò di avvicinarla”.

A sentire quelle parole, per qualche ragione, un brivido(qualcuno avrebbe detto il respiro della morte) mi carezzò il collo e la schiena. Decisi, allora, che fosse il momento di levare le tende. Ma nella fretta di voltarmi, l'abito si impigliò nella fondina con cui avevo ancorato al pistola alla caviglia, nel tentativo di evitarmi una brutta caduta mi ressi al muro, andando a sbattere contro la finestra semichiusa.

“Chi c'è?”, chiese allora l'uomo, dal marcato accento spagnolo.

Mi ricomposi in fretta e finsi noncuranza, girando l'angolo.

L'uomo, gli occhi neri come il petrolio e la pelle olivastra, sgranò gli occhi non appena mi vide e boccheggiò.

“Salve. Stavo dando un ultimo sguardo al college, sa, prima di partire per le vacanza estive. Non era mia intenzione disturbarla”, mi scusai.

I suoi occhi scuri si illuminarono. Mi spaventò.

“Certo che capisco. Non si preoccupi, signorina, nessun disturbo. Credo di averla vista in compagnia di mio figlio, o sbaglio? E' un piacere fare la sua conoscenza, Tulio Delgado, il padre di Enrique”.

 

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Capitolo 12
*** 11) Buon pellegrino... ***


Buonasera!! Come state? Io meglio, sapete quando prendete delle decisioni(decisioni, decisioni...: ) ) e capite in che direzione andare, allora tirate un bel sospiro di sollievo... Ma basta parlare di me, parliamo del cap... E' più breve del solito, ma se non mi fossi interrotta qui avrei sforato le trenta pagine, quindi qualcuno mi ringrazierà e qualcun altro se ne dispiacerà, ma vedrò di fare presto con il prossimo... Ringrazio come sempre chi ha lasciato una recensione, chi mi ha inserito tra preferiti, ricordati e seguiti e chi legge e basta... Badate alle canzoni, le scelgo sempre con cura. Citazione(in realtà sono due), scena per cui mi sono molto ispirata a qualcosa e l'altra è un po' più difficile... Alny!!... Ci vediamo sotto : )

11) Buon pellegrino...

When I look into your eyes
It’s like watching the night sky
Or a beautiful sunrise....

I had to learn what I’ve got, and what I’m not
And who I am
I won’t give up on us
And who I am
I won’t give up on us

Even if the skies get rough
I’m giving you all my love

 

 

Quando ti guardo negli occhi
E’ come guardare un cielo di notte
O un un bellissimo sole che sorge...

Ho dovuto imparare che cos’ho e cosa non sono
E chi sono
Non rinuncerò a noi
Anche se il cielo dovesse essere tempestoso
Ti darò tutto il mio amore

Jason Mraz_ I won't give up
 

 

 

Edward

 

Ghiaccio e terra. Odore di ghiaccio e terra, che imprimeva un'impercettibile sapore dolciastro e fruttato sul palato. Fu l'odore di ghiaccio e terra che inseguì quella notte, insieme a una serie poco rassicurante di pensieri confusi. Uno solo, fra questi, non abbandonava mai la mente di Tanya, a qualsiasi ora del giorno o della notte: io. Che mi amasse, a modo suo, era fuor di ogni dubbio; temevo, tuttavia, che mi avesse scambiato per la felicità che cercava da tempo. Però mi amava. E io, quella notte, ero intenzionato a ferirla. Per questa ragione camminavo a passo umano per raggiungerla su quella stradina isolata ma ugualmente illuminata da luci e candele in cui si era rifugiata, in mia attesa.

In cuor mio, sapevo che questo giorno non avrebbe tardato ad arrivare; quanto avrei potuto resistere in quella condizione, legato a una donna ma perdutamente innamorato di un'altra? Perché, al di là delle implicazioni di quella storia, l'instabilità di Tanya, la sua fragilità e il suo spasmodico bisogno di me, il mio timore che potesse, in qualche modo, farsi del male o farne a Bella, la mia totale assenza mentale nel giorno delle mie nozze, cos'era quella se non la tipica storia di un uomo, che, una volta sposato, capisce di aver fatto l'errore più grande della sua vita? Quante notti, negli ultimi tempi, avevo trascorso a dannarmi l'anima nei boschi a caccia di innocenti creature, nel tentativo di saziare un appetito che non era di sangue, non potendo stringere o amare la donna che desideravo? Io, un ragazzo dei primi del Novecento, che aveva creduto nel matrimonio quale legame definitivo e indistruttibile con un'altra persona, ero lì lì per sciogliere il mio vincolo. Non avrei mai creduto di trovarmi in un situazione del genere. Situazione per la quale mi sarei maledetto in eterno - il tempo lo avevo - in qualsiasi modo si fosse conclusa.

Quando giunsi alle sue spalle, così silenziosamente che nessun essere umano avrebbe potuto udirmi, fissai lo sguardo sulla schiena di mia moglie. Il fuoco tenue delle candele ai suoi piedi le illuminava il viso, conferendole una bellezza quasi poetica, ma che in realtà non mi ispirava alcun tipo di poesia né scritta né composta. Il ricordo, invece, di un altro viso illuminato dalla luce del fuoco mi tolse il respiro. Allora deglutì veleno e, racimolato il coraggio, parlai: “Tanya”.

“Non dirlo. Non dire niente, Edward”, mi pregò.

“Non posso. Non più, capisci. E avrei dovuto farlo tempo fa, il giorno stesso in cui ci siamo sposati”.

Tanya mugugnò, portandosi una mano ai capelli biondi e stringendoli forte, come se le dolesse la parte sinistra della testa.

“Ti chiedo scusa, ma non voglio il tuo perdono, non mi azzarderei neanche a chiederlo, voglio solo che tu sia felice...”.

“E' con te che sono felice, Edward”.

“No, non è vero. Tu non puoi essere felice con me, perché io non sono in grado di guarire tutte le tue ferite, ma è normale che chi la felicità non l'ha mai sperimentata non sappia dove cercarla. Io per primo ho bisogno di essere guarito e la mia medicina è una soltanto”.

“Lei”, sussurrò Tanya.

“Lei”, sussurrai di rimando, temendo, però, di coinvolgerla nella nostra conversazione.

“Quel giorno in Alaska non ero me stesso. Avevo già perso tutto e alla fine avevo perduto anche la mia identità. Avevo lasciato andare la mia unica ancora, l'unica ragione per cui valesse la pena di vivere su questa terra da uomo e poi ho perso il controllo... ho un compiuto un atto spregevole. Quindi non ero più un uomo. Non ero più neanche un vampiro così come lo ero stato fino ad allora: un Cullen. Non ero più niente. Non so perché le gambe mi abbiano portato in Alaska, so solo che ho finito col farti del male quando eri e sei una delle persone che amo e che avrei voluto proteggere”.

“Mi ami”, mi chiese, la voce le tremava.

“Ti amo come una sorella, come e quanto amo Alice e Rosalie. Non è l'amore che cerchi, ne certo quello che guarirà tutte le tue pene e ti renderà felice”.

Per un attimo, un solo istante, pensai che non avrebbe perso il controllo. Pensai che avesse capito, che fosse abbastanza lucida. Pensai che l'avevo ferita, ma che si sarebbe rimessa in piedi. Poi, tutti i miei peggiori timori si concretizzarono. Lo lessi nella sua mente il cambiamento che avvenne in lei. Il suo sguardo si indurì, il suo viso si incupì e i suoi pensieri furono di odio... verso Bella. Istintivamente mi frapposi fra Tanya e la porta d'ingresso. La odiava perché lei era la causa di ogni male, perché, se lei non fosse ritornata, io non l'avrei lasciata. O almeno così pensava.

“Ti sbagli”, le dissi, muovendo un paio di passi nella sua direzione. Ma Tanya urlò, con tutto il fiato che aveva in gola e non fosse stato per la musica che diffondeva nei locali all'interno, chiunque l'avrebbe udita.

In quel momento di isteria, per quanto il termine poco si accostava ai vampiri, solitamente, lessi nella sua mente sprazzi di conversazioni, tra cui l'ultima, quella avvenuta tra le due la sera prima e che non avevo potuto fare a meno di ascoltare.

La mia intenzione non era stata di origliare, ma l'idea di Tanya e Bella così vicine l'una all'altra mi inquietava. Le parole di Bella, la forza del suo amore per me, mi sommerse, a tal punto che ero scoppiato in un pianto a dirotto. Un pianto senza lacrime, di cui lei non avrebbe mai saputo. Un pianto di disperazione, simile a quello di un bambino che non potrà mai avere ciò che vuole ma diverso, perché era il pianto di un uomo in trappola, votato alla sofferenza, per cui mi ero accasciato contro il muro, lasciandomi scivolare a terra. Soltanto la mia famiglia e Tanya erano stati testimoni di quel pianto, la prima non avrebbe avuto modo di consolarmi, la seconda lo aveva ignorato. D'altronde, le sue parole erano state chiare, lei aveva bisogno di me e non avrebbe rinunciato, qualunque fosse il prezzo che avrei dovuto pagare.

Lo avevo accettato, sarebbe stata una giusta punizione per le mie azioni, ma quello che lessi nei suoi pensieri cambiò radicalmente ogni mia prospettiva. La rabbia che avevo trattenuto fino ad allora esplose. Furono le sue lacrime, versate per me, a riscuotermi. Le sue lacrime mi facevano pensare che non meritassi di patire in eterno. Fino ad allora avevo pensato che toccasse a me proteggerla, non prendendo in considerazione l'idea che potesse essere un desiderio reciproco. Bella desiderava proteggermi tanto quanto lo volevo io nei suoi confronti. Proteggermi da lei, dalle mie scelte e da me stesso.

Tu sapevi, tu sapevi che lui non era in sé quando è arrivato in Alaska. Lo sapevi... e... non hai cercato di... fermarlo”, la voce di Bella nei suoi ricordi, le sue lacrime di rabbia...

E poi un ricordo ancor più straziante, per cui iniziai, letteralmente, a vedere rosso.

Le dita di Tanya strette intorno al suo collo che la inchiodavano al muro, impedendole di respirare e la vista del suo viso rigato di lacrime, contratto nella sofferenza, mi mandarono in bestia. La confusione nei pensieri di Tanya si tramutò rapidamente in terrore alla mia vista. Ero consapevole della condizione in cui versavo, dovevo apparirgli spaventoso.

Però, la parte più razionale di me, capiva la ragione per cui Bella aveva preferito mentire su quanto successo: quella rabbia che a stento controllavo... avrei voluto che patisse lo stesso dolore, la stessa paura. Ma, se l'avessi fatto, avrei conservato il ricordo dei suoi occhi lucidi in eterno mentre le staccavo la testa dal collo.

“Vai via”.

“Ed...”, mormorò.

“Vai via”, urlai. “Vai... prima che ti faccia del male. Non avvicinarti a lei, non osare pensarla, sfiorarla o parlarle mai più. La prossima volta non risponderò delle mie azioni”.

Le voltai le spalle, la delusione dipinta sul mio volto, serrando ogni muscolo del mio corpo per non rischiare di saltarle al collo. E attesi, fin quando una folata di vento non mi suggerì che era fuggita, mossa dall'istinto di sopravvivenza. Attesi ancora, fin quando non fui più in grado di leggere i suoi pensieri, segno che era già molto lontana.

Ancora rigido, mi sfilai lentamente la fede, osservandola per qualche istante come fosse il simbolo di tutti quei mesi di follia e dolore, la strinsi nel mio pugno fin quando il metallo non si ridusse a una sottile polverina d'oro, poi la lasciai scivolare, finché ogni residuo non si fu allontanato con il vento, augurandomi che, da quel momento in poi, sarebbe stata solo discesa. Non sapevo ancora quanto mi stessi sbagliando...

 

Bella

 

 

Pride can stand a thousand trials

The strong will never fall
But watching stars without you
My soul cry
Heaving hard is full of pain
Oooh, oooh, the aching
'Cause I'm kissing you,
I'm kissing you,
Touch me deep, pure and true
Give to me forever
'Cause I'm kissing you, oooh
I'm kissing you, oooh
Where are you now
Where are you now
'Cause I'm kissing you
I'm kissing you...

Kissing you – Des'ree

 

Un terribile presagio mi accompagnò nei secondi in cui la mia mano strinse quella del signor Tulio Delgado. Forse il mio disagio era da imputarsi al suo sorriso esagerato o ai suoi occhi scuri, molto simili a quelli del figlio ma nei quali non riuscì a leggere la stessa sincerità e gentilezza. Forse, semplicemente, era dovuto a tutto quel che mi era stato raccontato di lui, sta di fatto che mi ritrassi immediatamente.

“Il piacere è mio, signor Delgado. Isabella Swan”, risposi, tentando di scacciare tutte le paranoie.

“Chiamami solo Tulio, cara. Allora”, mi disse, porgendomi il braccio che strinsi, seppur a malincuore, “perché non mi racconti come hai conosciuto mio figlio, mentre ritorniamo alla festa. Sicuramente si saranno accorti nella nostra assenza e in particolare della tua, difficilmente una simile bellezza passa inosservata”. Arrossì.

“Lavoro nel suo locale, mi ha assunta qualche mese fa. Come vede non è una storia granché interessante”.

“Certo che lo è, Isabella. Ho notato che i miei figli hanno una... predilezione per lo staff”, mi rispose, senza che il sorriso lo abbandonasse. Mi irrigidì.

“Forse è perché hanno imparato a star lontani dai membri dell'alta società, imprenditori, per esempio; li trovo, alle volte, un po' orbi e pieni di sé”, risposi, temendo però di aver esagerato.

Tulio rise di gusto.

“Capisco perché mio figlio apprezza la tua compagnia”.

E io capisco perché non apprezza la tua, avrei voluto rispondere, ma mi trattenni.

“E dimmi, quale facoltà segui, mia cara?”.

Architettura...

“La facoltà di medicina, signore”.

“Chiamami Tulio. Medicina... Molto impegnativo e molto nobile da parte tua”.

“Nessuna nobiltà, soltanto noia”.

Tulio rise ancora e quel suono mi agghiacciò. La festa sembrava lontana, ma già potevo udire delle voci e una dolce melodia.

“Hai avuto modo di conoscere alcuni dei nostri benefattori, Isabella?”, mi chiese, dopo qualche istante di silenzio.

“No, ancora nessuno”.

“Sicura? Eppure uno dei tuoi insegnanti, un certo Carlisle Cullen se non sbaglio, ha donato un'ingente somma di denaro alla causa”.

Deglutì bile, per qualche ragione sentirgli pronunciare il nome di Carlisle mi diede i brividi.

“I Cullen sono... persone generose”.

“Sì, persone...”, borbottò, “generose”.

“Immagino avrai conosciuto anche Rafael e Berta?”, mi chiese, il sorriso di nuovo a tagliargli il volto. Se non avessi conosciuto le opinioni dei suoi figli, lo avrei scambiato per un padre amorevole.

“Ho avuto il piacere di conoscerli e li trovo persone splendide”.

“Immagino non penserai la stessa cosa di me”, la sua brutale sincerità, per un attimo, mi spiazzò.

“Non è mio uso giudicare qualcuno prima di conoscerlo”, risposi, modellando il mio tono e le mie parole alle sue.

“Sei una ragazza intelligente, Isabella. Anche i miei figli lo sono e ti avranno raccontato cose poco piacevoli sul mio conto, questo è certo, in particolare Enrique. Ma, a volte, i figli non comprendono le azioni dei genitori fin quando non lo diventano a loro volta”.

“Mio padre è lo sceriffo di in un minuscolo paesino perennemente nascosto da una coltre di nubi, è una persona umile, un buon uomo. Non sempre ha condiviso le mie scelte, ma non mi ha mai giudicata né mi ha impedito di compierle, scegliendo per me la strada che avrei dovuto percorrere. Penso sia una questione di fiducia reciproca”.

“E' evidente che io e tuo padre proveniamo da culture differenti. Esistono gli strati sociali, Isabella. In alcuni luoghi semplicemente non sono accettabili determinate scelte. Bisogna sempre compiere quelle più vantaggiose, da dove provengo io, e la sincerità spesso non rientra tra queste”.

“Vantaggiose a quale fine?”, gli chiesi.

“Alla sopravvivenza in quello strato sociale”.

“E nulla ha importanza, né la morale né l'amore?”, gli chiesi ancora, sgranando gli occhi. “Neanche se il prezzo è mentire continuamente?”.

“Esatto. Ma io non sono un mostro, signorina Swan. Alla fine, tutto quello che faccio, lo faccio per i miei figli”.

“E se i suoi figli non volessero questo? Forse, nel tentativo di dargli ciò che pensa sia indispensabile per loro, gli ha soltanto fatto mancare ciò di cui hanno realmente bisogno. Non le è mai sorto questo dubbio, Tulio?”.

“No”, mi rispose semplicemente, mentre rientravamo nella sala al pian terreno.

“Allora mi permetta di dubitare della sue parole”.

Tulio mi guardò senza capire a cosa mi riferissi.

“Lei non agisce per i suoi figli, ma per se stesso. Agisce mosso unicamente dal più cieco degli egoismi e non capirà mai i suoi errori, fin quando non si ritroverà solo. Smetta di fare loro del male...”, quasi ringhiai, una tale rabbia nel petto, e mi allontanai dal suo tocco.

“Bella”, la voce di Enrique alle mie spalle fu un salvagente in mezzo all'oceano. Se fossi rimasta ancora in presenza di quell'uomo non avrei risposto delle mie azioni: già bruciavo.

“Andiamo”, Enrique mi tirò a sé, allontanandomi da suo padre che non lo degnò di uno sguardo perché continuava a fissare me. Gli lanciai un'ultima occhiata di fuoco prima di lasciarmi trascinare lontano da lui.

“A presto, Isabella”.

 

“Sapevo che non avresti resistito più di dieci minuti in sua compagnia”, mi prese in giro Enrique, osservando il mio viso arrossato.

“Penso ne siano passati almeno venti”, lo corressi.

“Grazie”, mi disse.

“Per cosa?”, gli chiesi.

“Per quello che hai detto. Ho sentito sai, ma non penso che ti darà ascolto”.

“Cosa hai sentito”.

“La parte in cui gli davi dell'emerito egoista e gli chiedevi di non farci del male. Non eri tenuta”.

“Ringrazia che non gli abbia dato fuoco”.

“Un po' estremo”, rise ancora.

Insomma...

Enrique posò lo sguardo su qualcosa alle mie spalle.

“Penso sia venuto il mio turno di darti una mano”.

“Cosa intendi?”.

“Voltati”.

Lo feci.

E per la seconda volta, quella sera, persi il respiro e la voce.

Edward mi osservava, nel suo angolo di oscurità, le braccia lungo i fianchi e in viso un'espressione serena che tanto contrastava con il turbine di emozioni che stava stravolgendo il mio cuore. Non registrai altri dettagli al di fuori del suo viso, delle sue mani. Quella mano, che si protendeva verso di me: un dolce invito. Fremetti, schiacciata e resa immobile dall'intensità di ciò che stavo provando.

“Vai”, mi incitò Enrique. Dopo avrei ricordato con dolore la tristezza nella sua voce, ma in quel momento non esisteva niente che non fosse lui.

Le mani di Enrique, che fino ad allora mi accarezzavano le braccia, scomparvero e io mi avvicinai a lui lentamente, quasi temessi che le tenebre potessero portarlo via da me o che decidesse, di sua spontanea volontà, di voltarmi ancora una volta le spalle.

Giunta a metà strada, Edward si mosse verso di me, fermandosi in uno di quei coni di luce proiettato sulla pista che pian piano si colmava di persone che danzavano al suono di una dolce e triste melodia.

Edward, ormai di fronte a me, mi strinse una mano fra le sue e dimenticai qualsiasi altro tocco avessi ricevuto nella mia vita. Mi sfiorò le nocche con le labbra, una carezza così delicata che stentai a riconoscerlo come l'uomo che, diverse notti prima, mi aveva presa in quella casa semi abbandonata.

“Se io profano con la mia mano indegna questo santuario è un peccato gentile. Le mie labbra come due pellegrini chiedono la grazia di riparare la rude offesa con un dolce bacio”, citò.

“Buon pellegrino, non disprezzare la tua mano che ha dimostrato solo devozione... Perché i Santi hanno mani che i pellegrini toccano con le mani... è questo il bacio dei santi”. Nient'altro... come nient'altro che a un ballo può portare questo crudele desiderio...

“I Santi non hanno labbra come le hanno i pellegrini?”, replicò, cingendomi la vita, così che prendemmo a danzare.

Edward non distolse per tutto il tempo lo sguardo dal mio.

Oh le hanno, ma non gli è consentito utilizzarle...

“Sì pellegrino, ma servono solo per pregare”, sussurrai.

“Allora, mia Santa”, rispose, immergendo il viso nell'incavo del mio collo e ispirando a fondo il profumo della mia pelle e del mio sangue, “concedi che le labbra preghino come le mani o la fede diventa disperazione”, nel pronunciare quelle ultime parole il suo respiro freddo mi solleticò la pelle del collo, che Edward sfiorò con le sue morbide labbra.

Mi allontanai da lui di scatto, temendo, paradossalmente, di rimanere scottata, ma Edward non me lo permise e mi fece esibire in una pazza giravolta per poi riprendermi tra le sue braccia.

“Cosa fai?”, gli chiesi.

In risposta Edward mi sorrise.

“Ballo con te”. Alzai gli occhi al cielo.

“Non pensavo... sareste stati qui. Alice e Rosalie me la pagheranno”, dissi, sperando che potessero sentirmi.

Edward rise e io arrossì furiosamente. “Sei caldissima”, mi disse, le sue mani accarezzarono con gentilezza la pelle scoperta della mia schiena.

“Mi dispiace, Bella”, mi disse, dopo pochi minuti di silenzio che trascorsi a osservare il suo viso così vicino al mio e ad ascoltare le parole di Des'ree.

“Per tutto quello che ho fatto. Non ti ho mai chiesto scusa per averti abbandonata e per essere scomparso, per le parole che ti ho detto(la lista è un po' lunga), per aver sposato un'altra, per aver ucciso delle persone. Una bambina, Bella. Una bambina...”.

“Non dovrei poterti guardare dopo tutto questo. Non dovrei perdonarti per aver ucciso delle persone innocenti, dovrei provare repulsione. Non dovrei amarti”.

Edward chinò il capo, sospirando.

“Ma non ci riesco. E' contro... è contro la mia stessa natura stare qui alla luce di quel che hai fatto. Dovrei essere spaventata; ma io so che tu non sei così. So che combatti ogni giorno la tua natura. So che sei fuggito lontano miglia e miglia pur di non uccidere me, quel giorno, una perfetta sconosciuta. E non riesco a pensare alle tue mani su di me come a quelle di un assassino, perché altrimenti non mi spiego come sia possibile che io desideri che tu non le tolga mai”, dissi, abbassando lo sguardo, sentendomi indagata dai suoi occhi. D'un tratto smettemmo di muoverci e, sulle ultime note di quella splendida melodia, Ed mi portò via con sé.

“Dove mi stai portando?”, gli chiesi, quando ci fummo lasciati la musica e le luci alle spalle.

“Ti porto via”, mi rispose semplicemente.

Fin qui c'ero arrivata...

Avrei dovuto pensare ad Enrique, a Tanya, a tutti quegli occhi che ci avevano inseguito invidiosi, ma non lo feci.

“Non correre”, lo implorai, senza riuscire però a smettere di ridere.

“Pensavo che ora fossi più incline agli sport”, mi canzonò.

“Magari senza questi stupidi trampoli... Aspetta”, mi chinai per slacciare il sottile laccetto che legava i tacchi alla mia caviglia. Li abbandonai in un angolo.

“Alice ti ucciderà”, sussurrò Edward sui miei capelli, sollevandomi il mento e accostando le sue labbra alle mie, mi lasciai carezzare l'incavo della guancia dalla punta del suo naso e dal suo respiro gelido, ma non gli permisi di baciarmi: mi sottrassi. Lo trascinai stringendo la sua mano fra le mie e camminando all'indietro per diversi passi prima di voltarmi, non riuscendo a distogliere lo sguardo dai suoi occhi chiari come l'ambra.

“Per di qua”, gli dissi, quando fummo in prossimità della scala che conduceva al piano superiore. La superai, trascinando con me l'abito e salendo i primi gradini in granito.

“Avanti, Ed, non perderti”, lo schernì, sbucando dal muro visto che non si decideva ad arrivare.

“Vorrei ricordarti che studiavo qui prima ancora che tu nascessi”, mi disse, ancora in fondo alle scale, quando io ero a poco dalla cima. Mi voltai per sorridergli, ma lui era già scomparso, per ricomparire di fronte a me. Edward mi spinse con le spalle alle parete, una mano mi artigliava il fianco, con l'altra mi scostò qualche ciocca di capelli dal viso sfuggita alla pettinatura nella corsa. Mi morsi il labbro inferiore per trattenere l'urlo di stupore. Edward accostò ancora una volta il suo viso al mio, lasciando una scia di baci dalla tempia all'angolo della bocca e lì mi ritrassi ancora. Edward mi lasciò andare, nonostante i suoi occhi stessero gradualmente assumendo una tonalità scura...

Gli sfuggì e mi rifugiai in un'aula dall'aria accogliente e familiare: la biblioteca.

La biblioteca di Harvard avrebbe dovuto dichiararsi patrimonio dell'Unesco per l'immensa quantità e l'inestimabile valore dei libri con custodiva.

“Negli anni quaranta conobbi un ragazzo in questa biblioteca”, la voce di Edward mi risvegliò dal mio sonno a occhi aperti, mi ero girata e rigirata su me stessa per ammirare quello spettacolo di coste colorate e consunte.

“Mi pare si chiamasse Jeremiah. E' stato uno dei pochi umani che ha avuto il coraggio di avvicinarsi a me. Forse perché non aveva molti amici, né una gran bella famiglia e si sentiva solo, come me. Siamo diventati amici o almeno così mi considerava lui: un suo amico. Si innamorò di una ragazza che riteneva al di là delle sue possibilità e per quanto fosse bella, la sua mente era colma di pensieri... brutti”.

Rimasi ad ascoltarlo incantata, mentre si avvicinava a me con passo felino.

“Cercai di sconsigliarlo, ma non mi diede ascolto. Era un tipo cocciuto. Così le si è avvicinato”.

“E' cosa è successo?”, gli chiesi, quando ormai mi era di fronte.

“Quel piccolo mostro in erba, egoista, vanitosa, è diventata una delle persone migliori che abbia avuto il piacere di conoscere. Lui l'ha cambiata con il suo amore, la sua dedizione e la pazienza e la forza di perdonarle ogni sbaglio”.

“Non eri molto bravo a dare consigli sentimentali”, sussurrai, giusto per poter distogliere lo sguardo dal suo, fattosi d'improvviso intenso, ma Edward non me lo permise e mi sollevò il mento con l'indice. Il suo corpo così vicino al mio... se mi fossi permessa di toccarlo, di baciarlo, non sarei più riuscita a smettere e saremmo incorsi nuovamente nello stesso errore.

“E' sposato... è sposato... è sposato, mi ripetevo.

“No, ma è normale. Nonostante leggessi nel pensiero, non avevo mai amato a mia volta”, sorrise, “tu sei stata per me quello che Jeremia è stato per quella ragazza: la salvezza. Mi rendi migliore di quel che sono. Mi fai desiderare di essere migliore, per meritare la fortuna che ho avuto nell'incontrarti e senza di te perdo la testa, come se l'oscurità mi risucchiasse: niente ha più senso e sbaglio. Farmi del male era l'unico modo che avevo per non impazzire all'idea del dolore che ti ho causato. Penso che, nella mia mente, fosse scattato un meccanismo di autodistruzione”. Colta da un'improvvisa tristezza, gli accarezzai il volto. Io sapevo cosa significasse stare senza di lui e quali conseguenza comportasse per me: il totale annebbiamento, un masochistico nichilismo, svegliarsi nel mezzo delle notte come se mi mancasse l'aria per aggrapparmi alle lenzuola calde, troppo calde, la disperazione. Ma, da quella mattina in macchina, in cui Edward mi aveva confessato di amarmi ancora, non avevo mai considerato cosa avesse provato lui, in mia assenza. Forse il fatto che perdesse la ragione era da imputare alla sua particolare natura o semplicemente al suo carattere: Edward non si permetteva mai di uscire da ranghi, perché temeva se stesso e si imponeva regole ferree; io ero stata l'unico limite che avesse valicato, l'unica regola che avesse infranto, il frutto proibito che non avrebbe mai dovuto raccogliere dall'albero. E, nell'uscire dai ranghi, nel violare le regole che si era imposto, aveva trovato un modo per farsi del male, punendosi per avermi lasciata.

Edward mi baciò il palmo della mano con cui gli stavo ancora carezzando il viso. La sua pelle sotto i miei polpastrelli sembrava seta; così le miei dita proseguirono il loro percorso sul suo collo e infine sulla nuca, attratte dalle sue ciocco morbide e familiari.

Edward mi baciò prima che potessi sottrarmi. A quel punto non avevo la forza né la volontà per tirarmi indietro. Ed mi strinse per i fianchi, mi sollevò e mi depose su uno dei banchi in legno della biblioteca, così che fossimo più o meno alla stessa altezza. Gli strinsi con forza i capelli e, se non fossero stati come fili di acciaio, probabilmente ne avrei strappati un paio. Mentre io riprendevo fiato, le sue labbra vezzeggiarono le pelle del mio collo. Le sue mani, cariche di promesse, scesero sulle mie spalle, portando con sé le spalline dell'abito. Le mie cercarono di allentare il nodo della sua cravatta, con scarsi risultati visto il modo in cui tremavano, così Edward la strappò, tirandola via come se avesse sciolto i lacci per le scarpe. Allora, impaziente, gli feci scivolare la giacca dalle spalle ed Edward dovette, per un secondo, scostare le mani dal mio corpo per lasciarla cadere a terra. Con urgenza, tornò a stringermi i fianchi, poi tirò giù la zip nascosta tra le pieghe dell'abito e iniziò a far scorrere l'abito sulla mia pelle. Sapevo che avrei dovuto fermarmi, che mancava poco all'irreparabile.

E' sposato... è sposato... mi ripetevo e pensavo a Tanya. In teoria, le sue parole non avrebbero dovuto costituire un freno, per me, ma uno stimolo a continuare, a renderlo mio e sottrarlo dalle sue grinfie. Ma i suoi occhi colmi di disperazione mi perseguitavano...

“Edward”, sussurrai poco convinta, senza che lui, però, smettesse di baciarmi ancora e ancora.

“Ed”, dissi, con più enfasi, scostandomi dal suo bacio. Edward allentò la presa per osservarmi. Una strana espressione dipinta in viso.

“Non possiamo... Non posso. Non così, non mentre sei ancora... sposato con lei. Io non voglio essere... questo, per te”.

Edward mi carezzò una guancia con la sua mano sinistra, ma io gliela afferrai, stringendola tra le mie e allontanandola dal mio viso.

“No, Ed... no”.

Nello sfiorare le sue dita, percepì qualcosa di diverso, qualcosa cui, fino ad allora, non avevo fatto caso. Sollevai la sua mano a livello dei miei occhi, per accertare che i miei sospetti fossero fondati. Edward non portava la fede.

“Questo cosa significa?”, gli chiesi, dopo aver realizzato.

Edward mi sorrise dolcemente.

“Significa che d'ora in poi andrà tutto bene... che ho intenzione di rimediare ai miei errori e che non permetterò a niente e a nessuno di separarci, neanche alla morte”.

Non mi accorsi di stare scuotendo la testa, incredula, fin quando Edward non strinse il mio viso fra le sue mani.

“Credimi. Credimi, devi credermi”.

“Cosa... no, non è vero”, non mi permisi di considerare seriamente le sue parole, altrimenti, se non si fossero realizzate, avrei potuto morirne.

“L'ho lasciata, Bella. Ho lasciato Tanya. E' andata via”.

Lo guardai, in cerca della menzogna nei suoi occhi.

Non trovandola, mi avventai sulle sue labbra. Edward mi strinse a sé sollevandomi e con delicatezza mi depose sul parquet, sfilando contemporaneamente l'abito. Risi, ignorando quanto fosse freddo e duro il pavimento, ed Edward sorrise sulla mia guancia.

“Mi trasformeresti?”, gli chiesi.

“Lo vorresti”, mi rispose, quando ebbi slacciato anche l'ultimo bottone della sua camicia.

“Sì”, risposi, senza esitare, “e non significa che io stia rinunciando a qualcosa. Non mi arrenderò fin quando non avrò portato a termine tutti i miei obiettivi, per quanto improbabili possano sembrare”.

“So che lo farai, tu non ti arrendi mai davanti a niente e quando decidi qualcosa è quello... e basta”.

“Una volta non lo pensavi”, gli dissi, la memoria dei momenti più cupi della mia vita mi tolse le forze.

“Ne sono sempre stato convinto, solo pensavo che questa testardaggine ti impedisse di cambiare idea e di vedere le altre opzioni, magari più giuste”.

“Pensi ancora di non essere “l'opzione” più giusta per me?”, gli chiesi.

“No. Adesso credo che non esista opzione migliore di me, per te e non soltanto perché detesto l'idea di vedere qualcun altro al tuo fianco che non sia io, ma perché nessuno potrebbe amarti quanto ti amo io; è fisicamente impossibile. Nessuno sarebbe disposto a fare qualsiasi cosa, fosse anche morire, per te come lo sarei io”.

Non fu necessario aggiungere parole, dire “ti amo”; lasciai che fosse il mio corpo a parlare per me.

 

Mi abbandonai sul suo petto, lasciandovi una scia di baci. Edward si allungò per afferrare la sua giacca e me la depose sulle spalle. Mi strinsi a lui.

Lo sentì ridire.

“Perché ridi?”, gli chiesi.

“Pensavo... agli anni quaranta. All'epoca trascorrevo ore tra queste mura, non avrei mai immaginato nulla del genere”, mi rispose, accarezzandomi il fianco. Rabbrividì.

“Neanche io lo avrei immaginato in tutti i mesi che ho trascorso qui. Forse, soltanto in qualche bel sogno”.

“Mi sognavi spesso?”, mi chiese, un delizioso ghigno sulle labbra.

“Troppo spesso, come accadeva a Forks. Sogni molto poco casti”.

“Davvero?”.

“I baci non mi bastavano, eri sempre così restio...”, risposi, una finta espressione esasperata.

“Allora dovrò rimediare”, sussurrò, portandosi sopra di me.

Risi.

“Dovremmo andare. Qualcuno potrebbe trovarci e verrei espulsa con effetto immediato o forse arrestata”.

Edward si toccò una tempia.

“Lo sentirei e poi Alice mi avvertirebbe”.

“Lo sa?”, gli chiesi, un po' intimorita all'idea del terzo grado che avrei subito l'indomani.

“Lei sa sempre tutto”, mi rispose. E poi non parlammo più per diverso tempo, dimentichi della festa.

Troppo poco sangue, lo so... ma... solo una cosa... adesso cominciano i tempi bui, pensavate di tirare un sospiro di sollievo? : )

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Capitolo 13
*** 12) Requiescat in pace... ***


Buonasera!! Chiedo infinitamente scusa per il mostruoso ritardo, ma a mia discolpa dico che questo capitolo è stato molto difficile da scrivere e da pensare.  In più, oggi, quando avrei dovuto postare internet è andato a fan**** e sto approffittando ora della connessione nella speranza che non mi abbandoni. Quindi non ho dimenticato la storia per andare a mare... sappiatelo. Detto questo e dopo aver ringraziato tutti voi per aver letto e recensito lo scorso capitolo e soprattutto ringrazio chi leggerà questo e lascerà una recensione, anticipatamente. Perché è davvero moltooo lungo, ma così forse mi farò perdonare ; ) Il titolo... vi dico soltanto che è una sorta di spoiler. Ho messo l'anima e il cuore in questo cap e spero possa piacermi quanto a me è piaciuto scriverlo, nonostante a volte mi abbia fatto disperare. Ringrazio anche Vanessa che mi ha lasciato un messaggio per sapere se fossi ancora viva. Ecco qua il cap!!


12) Requiescat in pace
 

“I valori pressori sono nella norma, 115/75. Direi che sei in ottima salute”, Carlisle mi sorrise con affetto.

“In ottima salute se non tieni conto della mia attuale temperatura corporea... quarantacinque, quarantasei gradi? E'... assurdo”.

Rimosse il manicotto dal mio braccio intorpidito, lasciandomi una leggera carezza sulla tempia, accertandosi così che la temperatura non si fosse abbassata nuovamente. Mi sorpresi a pensare alle sue mani... le mani di un genio... dotate di una delicatezza straordinaria ma obbligata.

Tormentai con movimenti frenetici delle dita il piccolo cuscinetto che stringevo tra le braccia, adagiato sulle mie gambe incrociate e mi rannicchiai all'estremo angolo del divano, in attesa del responso.

“Non so spiegarlo”, ammise Carlisle, sedendo nella poltroncina di fronte a me. Incrociò le mani sotto il mento e sospirò.

“Non c'è un solo valore nel tuo corpo, inclusi quelli dell'emocromo, che non sia perfettamente nella norma. A parte la glicemia un po' bassa, ma è anche vero che non tocchi cibo da ieri a mezzogiorno, quindi è comprensibile”.

“Capisco”, sussurrai.

“No, invece no. Io non capisco”, sbottò Carlisle, “non c'è una motivazione valida per quello che è accaduto. Non c'è niente di...”.

“Umano?”, chiesi.

Carlisle annuì.

“Non c'è niente di umano in quello che sta accadendo al tuo corpo. Perdere la vista da un momento all'altro, per più di tre ore e mezzo, senza uno straccio di spiegazione è...”.

“Assurdo”, conclusi.

“Dovrei poterti aiutare”, mormorò Carlisle.

“Nessuno saprebbe fare meglio di te. E' evidente che ciò che mi è accaduto non ha una spiegazione razionale. Molto cose non l'hanno”.

Le mie parole ostentavano una sicurezza che non mi apparteneva. In realtà avevo paura. Paura di non sapere cosa mi stesse accadendo e di conseguenza paura di non poterlo evitare o prevenire o curare.

Tremai al ricordo della notte appena trascorsa.

 

Edward sollevò la zip del mio abito e le spalline, lasciandomi una lunga e gelida scia di baci sulle spalle e il collo.

Mi voltai di scatto, afferrando la sua cravatta e tentando di annodarla.

Che fai?”.

Faccio il nodo”.

Da quando sai farlo?”.

Tento. Fosse per te non ci saremmo mai rivestiti, quindi poche chiacchiere. Insegnami”, gli chiesi poi, riservandogli uno sguardo malizioso.

Magari dopo”, sussurrò Ed. Mi strinse il viso fra le mani, baciandomi con passione e irruenza. Mi scostai, ridendo della sua espressione contrariata.

Dopo. Dobbiamo tornare alla festa o Enrique non mi perdonerà mai per averlo abbandonato a suo padre”.

D'accordo”, acconsentì, “incrocia, fa passare la parte più spessa sotto e poi di nuovo sopra...ok, adesso di nuovo sotto... dall'altra parte...”.

No, non penso... aspetta”, biascicai.

Edward alzò gli occhi al cielo, dopodiché strappò via la cravatta e mi riprese fra le braccia.

Problema risolto”, disse, prima di piombare nuovamente sulle mie labbra.

Ed”, risi, allontanandomi di qualche passo.

Fu allora, china sulle ginocchia con i pugni stretti intorno al tessuto dell'abito e sul viso un grande sorriso, che tutto si fece buio. Letteralmente. Come se, d'improvviso, avessero spento ogni luce nel giro di chilometri. Nei pochi secondi occorsi ad Edward per capire dall'espressione mio viso che qualcosa non andava, pensai di tutto: una catastrofe, un perfido scherzo, la morte.

Bella”, la voce di Edward, unica luce nell'oscurità, costituì un flebile conforto. “Bella, cos'hai? Cosa hai visto?”, mi chiese, ironia della sorte. Dovevo apparirgli sotto shock, quindi pensava che avessi visto qualcosa di traumatizzante. Edward mi accarezzò una guancia che mi accorsi essere bagnata di lacrime e io mi aggrappai alla sua mano come se rischiasse di sparire, risucchiato dal buio. Capì, allora, che il cambiamento si era verificato soltanto nel mio corpo o se non altro nella mia mente. Al di là dei miei occhi il mondo ero come lo avevo lasciato.

Non vedo. Non vedo niente. Edward... Non. Riesco. A. Vederti.”, scandì.

In quell'istante di follia, credetti realmente che non avrei mai più rivisto il suo viso meraviglioso e allora pregai chiunque nell'universo dettasse le regole di concedermi un ultimo sguardo sul mondo, perché potessi vedere lui. Edward mi strinse a sé, nel vano tentativo di rassicurarmi.

Non riesco a vederti. Non riesco... Non riesco”.

Edward”, la voce di Alice irruppe nel silenzio irreale calato nella biblioteca e rotto soltanto dal mio respiro ansioso.

Carlisle”, chiamò Ed.

Bella, Bella, riesci a vedermi?”, mi chiese Carlisle, stringendomi il volto tra le mani stranamente calde. Scossi il capo.

Cosa vedi, Bella?”, mi chiese ancora, tentando di celare l'agitazione insita nella sua voce.

Buio”, risposi semplicemente.

Nessun tipo di luce?”, scossi ancora il capo.

La temperatura si è normalizzata”, borbottò fra sé e sé.

Portiamola a casa, Edward. Devo visitarla”. Non udì la sua risposta, si limitò a sollevarmi tra le braccia e stringermi al petto.

Andrà tutto bene”, mi rassicurò, ma sembrava crederci poco.

 

Per le due ore successive, Carlisle eseguì ogni genere di accertamento: analisi del sangue, delle urine, tac, senza riscontrare alcun valore negativo.

Quando, serrate le palpebre per due minuti buoni, mi lasciai scivolare contro la spalla di Edward e riaprì gli occhi, riconobbi la familiare quanto insperata tenda gialla della mia stanza e pensai di stare sognando.

Sta albeggiando” sussurrai, allora Carlisle sollevò il capo che aveva chinato in preda alla disperazione ed Edward sussultò, perché, in effetti, era l'alba.

 

“Posso soltanto dedurre che la momentanea perdita della vista fosse dovuta all'abbassamento della temperatura corporea, è davvero l'unico cambiamento avvenuto nel tuo corpo. Anche se, in teoria, non sarebbe dovuto accadere nulla”.

“E a cosa pensi sia dovuto, invece, il calo di temperatura?”.

Carlisle scosse il capo.

Distolsi lo sguardo dai suoi occhi amareggiati, rivolgendolo alla vetrata che apriva sul balconcino, chiedendomi perché, da bambina, non avessi perseguito l'obiettivo di imparare a leggere il labiale. Se l'avessi fatto, adesso avrei saputo cosa stesse ringhiando Edward al suo cellulare. Non che gesticolasse o urlasse, lasciando intendere la sua rabbia, ma anche se non avessi visto il riflesso del suo viso sul vetro, o l'espressione accigliata di Emmet che a braccia conserte e poggiato al muretto lo fronteggiava, l'avrei intuita ugualmente, conoscendo il suo interlocutore.

Irina.

O, quantomeno, era questo il nome che aveva sussurrato uscendo dalla stanza con Emm al seguito, mentre Carlsile procedeva con l'ennesimo controllo.

Affrontare il clan di Denali era soltanto la prima, temevo, delle conseguenze della nostra scelta. Incontrai lo sguardo cupo di Emmet, il quale disse qualcosa al fratello che si voltò nella mia direzione, cellulare alla mano. Non appena mi vide, Edward rilassò il volto, disse ancora qualcosa senza distogliere lo sguardo dai miei occhi, dopodiché chiuse la comunicazione e rientrò. A passo umano mi raggiunse e io affondai il viso nella sua camicia, grata a chiunque nell'universo dettasse le regole per avermi concesso un ultimo sguardo sul mondo, il mio mondo...

 

…....................................................

 

“Gli unici a non esprimersi sono stati Carmen ed Eleazar”, concluse Edward, scostando un ramo più basso e ornato di fiori bianchi e foglie perché potessimo passare.

Avevo pregato Edward di allontanarci da tutto e tutti, ma, testardo come suo solito e temendo che potesse verificarsi nuovamente un episodio come quello della sera precedente, aveva inizialmente rifiutato, per poi giungere a un compromesso: una passeggiata nel bosco nei dintorni della casa, così che sarebbero bastati pochi secondi per raggiungere Carlisle.

Ero quasi certa che fosse ancora mattina.

Se da un lato, non potevo smettere di fissare il suo viso, quasi dimentica di sbattere le palpebre, dall'altro lato ero concentrata a cogliere ogni dettaglio di ciò che mi circondava e di tutto ciò cui non avevo mai badato: il colore sgargiante dei fiori, il verde delle foglie, le rughe degli alberi. Nulla mi assicurava che, la prossima volta che avessi perso la vista, non sarebbe stato per sempre...

“Irina è stata piuttosto dura, non ha voluto sentire ragioni; mi ha addossato ogni colpa, ma penso che fosse molto coinvolta a livello personale...”.

“E' sua sorella”, gli feci notare.

“Non intendo questo; ricordi che ti ho raccontato di Laurent e del fatto che si fosse stabilito a Denali?”.

Annuì.

“Lui e Irina hanno avuto un breve flirt. Penso che lei se ne fosse innamorata, perciò quando Laurent è andato via gli ha spezzato il cuore”.

Mi chiesi come si potesse amare un essere come Laurent che, a conti fatti, aveva deciso di provare la dieta vegetariana per semplice curiosità, non per rispetto della vita e che uccideva senza remore. Poi, però, pensai che infondo anche l'uomo che mi stava accanto aveva ucciso, eppure io lo amavo infinitamente. Non che Edward avesse nulla da spartire con Laurent perché ogni morto gli pesava sulla coscienza; se fosse stato umano il pensiero di ciò che aveva fatto gli avrebbe tolto il sonno e il senno.

“Se Tanya non è tornata da loro, come...?”.

“La chiamavano regolarmente, ha lasciato qui il cellulare e tutte le sue cose... dovevo quantomeno rispondere e informarli”.

“Non le è importato il modo in cui si è comportata?”, gli chiesi.

“Non sono sceso nel dettaglio, ma alla fine penso che Kate abbia capito, in realtà lo ha sempre saputo. Tutti loro sapevano che non ero in me, che doveva essermi accaduto qualcosa, ma non hanno avuto cuore di distruggere la felicità della sorella che finalmente otteneva ciò che aveva a lungo desiderato. Soltanto Irina non se ne fa una ragione. E sono preoccupati...”.

“Anche tu lo sei”, gli dissi.

“E' un'affermazione?”.

Annuì.

“Non dovrei, però sì, un po' lo sono. In ogni caso non mi pento della mia scelta, era quella giusta. Se tutto andrà bene, Tanya troverà altrove la felicità che cerca e ricorderà tutto questo come un brutto periodo”.

Gli strinsi la mano con tutta la forza che avevo in corpo e per qualche minuto nessuno dei due parlò più, mentre camminavamo nel fitto del bosco, il sole che filtrava ci accarezzava la pelle, rendendo la sua luminosa.

“Se dovesse accadere ancora e io non recuperassi la vista...”.

“No”.

“Se dovesse”.

“No”.

“Edward... è una possibilità. Se dovesse accadere devi trasformarmi, il veleno...”.

“Non posso rischiare di trasformarti se non conosco le conseguenze che la trasformazione potrebbe avere sul tuo corpo, che non reagisce più normalmente”.

“Sono pur sempre un essere umano, come vuoi che reagisca il mio corpo... Penso sia tutto una conseguenza di questo strano potere... abbiamo già stabilito che si tratta di un dono che, come quello di Alice, si manifesta semplicemente ancor prima della trasformazione”.

Edward non accennò a rispondere.

“Parlami”, gli chiesi.

“Non ne sei più convinto?”.

“Non lo sono mai stato, a dire il vero. Prima che succedesse quel che è successo ho parlato con Eleazar. Lui è in grado di percepire le potenzialità altrui e ha visto doni di ogni genere, ma non ha mai sentito parlato di un potere come il tuo”.

“Cosa stai cercando di dirmi, Ed. Che non sono umana?”.

Edward scosse il capo. “Certo che lo sei”.

Mi accarezzò una guancia, “Sei morbida”, mi sfiorò le labbra, “respiri per vivere”, dopodiché adagiò il palmo sul mio petto, “il tuo cuore batte e pompa sangue. Quindi sì, sei umana. E non credere che io non voglia trasformarti... non ripetiamo gli stessi errori del passato”.

“Lo so. Capisco quel che dici, ma Edward se non dovessi più riuscire a vederti... non potrei vivere. Dovrei tentare. Ed è un insulto alle migliaia di persone che non possono farlo, io vorrei... ma non posso trasformarli tutti in vampiri. Quelle persone che vorrebbero soltanto vedere una giornata di sole e non possono farlo, ma il mio sole sei tu. Sei tutto quello che ho bisogno di vedere per essere felice e fanculo il cielo”.

Edward mi tirò a sé e mi strinsi così forte che sentì male dove le sue mani mi toccavano, ma non mi importava.

“Tenteremo. Lo farò, promesso. Non ti libererai di me così facilmente”.

Lo sperai. Lo sperai davvero...

 

…............................................

 

Edward mi sorrise, carezzandomi i capelli in tutta la loro lunghezza.

“Mi spieghi perché non vuoi entrare?”, mi chiese dolcemente.

“Chi ti ha detto che non voglio entrare?”, replicai.

Era quasi mezzogiorno e noi, dopo la passeggiata nel bosco, avevamo occupato i gradini del portico(avevo immediatamente scartato l'ipotesi dondolo); Ed mi teneva tra le braccia.

“Forse il fatto che continui a guardare dentro casa e non ti decidi ad entrare. Ti sei irrigidita quando sono rincasati gli altri, tremavi quando ci sono passati accanto”.

Affondai il viso nel suo collo.

“E' difficile”.

“Cosa?”.

“Tornare a... prima. Sono stata un intero anno senza di te e ho trascorso gli ultimi tre mesi senza poterti guardare, né parlare né toccare, sentendomi decisamente di troppo. Abbiamo causato un bel po' di guai e...”.

“E temi che ti giudichino o te ne vogliano a male”.

Annuì. “Perciò è difficile tornare... a prima ed entrare”.

“Tu sai, vero, che loro sono tutti tuoi fan sfegatati? Persino Rosalie”.

Dall'abitazione giunse uno stridente rumore metallico ed entrambi ridemmo.

“Non hai nulla da rimproverarti, dovrebbero odiare me ma non lo faranno, perché siamo una famiglia. Essere una famiglia, essere fratelli, significa questo, stare accanto gli uni agli altri anche quando si fanno degli errori. Se non fosse stato per Alice, io non sarei riuscito a sopravvivere all'indomani del mio matrimonio, alla consapevolezza di ciò che avevo fatto. Mi ha preso a calci, letteralmente, ma non mi ha mai abbandonato. E loro sono la tua famiglia, i tuoi fratelli, tanto quanto lo sono per me. Per quanto riguarda noi due, non dobbiamo ricominciare. Sarebbe impossibile. Dobbiamo andare avanti; perché non siamo più quel che eravamo a Forks”.

“Uno stupido centenario che scopriva l'amore, intimorito da ciò che provava e da se stesso e una piccola fragile umana, costretti a incontri clandestini nella sua stanza e nel suo letto a una piazza e mezzo?”, gli chiesi sorridendo e senza riprender fiato tra una parola e l'altra.

“Ragazzi”, replicò.

“Siamo cresciuti”, concordai.

“Io non ho più paura, so quello che posso e non posso fare: posso toccarti”, aggiunse, sfiorandomi un fianco, “non posso lasciarti”.

“E io so chi sono, quanto posso valere...”, dissi, un po' rossa in viso.

“Io l'ho sempre saputo”.

“Entriamo?”, gli chiesi.

“Entriamo”.

Mi sollevò senza difficoltà dalle sue gambe. Prima che potessimo varcare la soglia d'ingresso, il mio telefono prese a vibrare.

Lessi rapidamente il messaggio.

 

 

Baker Ave, 102

Parlerò a mio padre di Rafael... ho intenzione di chiedere l'affidamento di mio fratello. Ho bisogno di te. Per favore...

 

 

“Qualche problema?”, mi chiese Ed.

“No... solo... Devo andare, per Enrique. E' importante”.

“Vuoi che venga con te?”.

Scossi il capo.

“Non è necessario. Ha bisogno soltanto di qualcuno che gli stia accanto”.

Edward mi lasciò un bacio in fronte e, nell'istante esatto in cui le sue labbra sfiorarono la mia pelle, ebbi un orribile presentimento. Forse, temevo di allontanarmi da lui e così sprecare istanti preziosi in cui avrei potuto godere della vista del suo viso. Forse, ero preoccupata per Enrique e Rafael e Berta. Forse, semplicemente, l'idea di rivedere il signor Tulio non mi allettava affatto. In ogni caso, salì in auto, sulla Volvo grigio metallizzata di Edward che speravo me l'avrebbe fatto sentire più vicino, impostai l'indirizzo sul navigatore satellitare e guidai fino a casa Delgado.

 

Quando raggiunsi il 102 di Baker Ave vidi esattamente ciò che mi aspettavo, una grande, lussuosa villa... incredibilmente bella. Trovai il cancello aperto e mi lasciai scivolare all'interno. Percorsi il lungo e largo sentiero che conduceva all'ingresso, ammirando estasiata l'edificio e il giardino colmo di roseti. In ogni più piccolo particolare era evidente il tocco di una donna. Una donna gentile. Enrique mi aveva parlato a lungo di sua madre, di come avesse progettato la casa e il giardino e di quanto amasse i fiori. Le uniche belle parole che gli avessi sentito pronunciare nei confronti di suo padre riguardavano la dedizione e la mestizia con cui aveva fatto sì che i domestici si prendessero cura di quel giardino e di quei roseti, ancora splendidi e rigogliosi. Nei pressi dell'imponente portico, sorretto da quattro alte colonne bianche, il profumo di rosa impregnava l'aria.

Ricordo il viso di mia madre, ma ogni volta che ripenso a lei mi viene in mente il suo profumo: odore di rosa selvatica. Non saprò mai se fosse dovuto a una lozione o allo stare sempre tra i fiori che tanto amava...

Il fatto che l'odioso signor Tulio Delgado si fosse circondato dell'odore di sua moglie lo fece apparire ai miei occhi meno... odioso.

Mi accostai alla porta incurvando le spalle e prima ancora che potessi annunciare la mia presenza questa si socchiuse, rivelando il volto segnato dal tempo di un'anziana donna.

Con il braccio ancora teso a mezz'aria, fissai i suoi occhietti infossati, nascosti da due spessi fondi di bottiglia.

“Salve”, le dissi.

La donna mi si avvinò, accostando l'orecchio sinistro al mio viso.

“Salve”, ribadì. “Penso mi stiano aspettando. I...”.

Non mi permise di concludere la frase, spalancò la porta e mi fece cenno di entrare. Sebbene fossi intimorita dalla situazione e dalle dimensioni della casa, preferì non indugiare oltre e fare aspettare la donna, data la sua espressione severa e contrariata.

Ad attendermi un atrio immenso, costellato di specchi dalle cornici antiche e due rampe di scale curve che conducevano entrambe al piano superiore.

La donna gracchiò di seguirla e io mi apprestai alle sue spalle. Nonostante apparisse fragile e poco stabile sulle gambe, camminava rapidamente e senza indugi, doveva conoscere a menadito ogni angolo della villa. Mi guidò lungo il corridoio e solo allora percepì lo strano silenzio che regnava in casa. Momentaneamente celato dallo stupore, quell'orribile presentimento tornò a tormentarmi.

“Di qua”, mi disse e indicò una porta in legno e vetro semi aperta.

Le sorrisi, quasi certa che se l'avessi ringraziata a parole non avrebbe udito.

Bussai e non ricevendo alcuna risposta mi lasciai scivolare all'interno della stanza, seppur poco convinta; fu allora che il presentimento divenne una certezza.

“Hola, Isabella”.

 

Tulio mi sorrise con sufficienza dalla poltrona color grigio perla in cui era sprofondato e, dopo aver deposto il sigaro che stringeva tra le dita, mi indicò il posto al suo fianco.

“Siedi”.

“Rafael scenderà tra poco, mentre Enrique arriverà a momenti. Immaginavo ti avesse coinvolta nella nostra... riunione di famiglia. Ti confesso”, disse, boccheggiando spirali di fumo, “che non riesco a immaginare per quale motivo ci abbia convocati e neanche oso farlo. Suppongo, invece, che tu ne sia al corrente ma che non mi illuminerai sulle ragioni di mio figlio. Quindi, il minimo che tu possa fare dato che ti trovi in casa mia è accettare la mia gentile ospitalità e sedere”.

Onestamente, mi intimorì a tal punto che per qualche istante persi la mia sfacciataggine; decisi di non contraddirlo e presi posto, ma di fronte a lui non accanto.

Tulio proruppe in una grossa, grassa risata, tossicchiando per via del fumo che gli ostruiva le vie respiratorie. Portai le mani in grembo e distolsi lo sguardo dal suo viso, individuando nel sigaro una valida alternativa, dopo aver percorso per ben due volte il diametro della stanza.

“Vuole favorire, signorina Swan?”, mi chiese con una punta di ironia nella voce.

“Il fumo uccide”, risposi, non potendo trattenere, a mia volta, una pungente ironia.

Tulio rise ancora.

“Già, studia medicina e chirurgia alla prestigiosa università di Harvard. I medici tendono a considerarsi superiori rispetto ai comuni esseri umani, Isabella, sol perché noi non abbiamo idea di cosa sia uno pneumotorace né come si operi un'embolia...”.

Rise ancora, questa volta senza ironia.

“Quando per primi non sanno come fare. Ti guardano dall'alto in basso con i loro bei camici e i loro pomposi cartellini, Dr...”.

“E' così che è morta sua moglie”.

“Ti dicono non è grave, le restituiremo sua moglie. L'intervento andrà bene...”.

“Non è possibile avere la certezza matematica...”, iniziai.

“E' il caso, signorina Swan, che ha fatto sì che mia moglie morisse in una sala operatoria circondata da medici che, come lei, avevano studiato nelle migliori università del Paese? O è inettitudine? O forse il Karma? Crede nel Karma?”.

“Penso sia soltanto l'ennesima invenzione dell'uomo tormentato dalla coscienza, che può rivelarsi utile quanto dannoso”, risposi.

“Immaginavo avresti risposto qualcosa di simile”, mi sorrise dandomi ora del tu. Mi chiesi se soffrisse di schizofrenia.

“Siate così freddi e vanitosi. Anche lei esporrà il suo bel diploma incorniciato, tra qualche anno, con su scritto a lettere cubitali la sua provenienza...”.

“Non tutti i medici sono uguali, così come le persone. Il nostro obiettivo è salvare vite umane, se ciò accade noi vinciamo altrimenti perdiamo”.

“Io... ho perso”, mi interruppe, premendo il sigaro nel portasigarette, “ho perso mia moglie”.

“Ma ti do ragione, Isabella, se il Karma esistesse mia moglie sarebbe viva... e io sarei morto”.

Le sue parole mi agghiacciarono.

“Sarebbe bello se si potesse non morire, non trovi?”, mi chiese, alzandosi a fatica dalla poltrona e avvicinandosi all'unica finestra della stanza. Scostò la tenda per dare un'occhiata all'esterno, voltandomi le spalle.

“Sarebbe bello, indubbiamente, ma in quel caso io dovrei cambiare facoltà”.

Mi aspettavo che ridesse; non lo fece.

“Naturalmente, lei non crede nella mitologia o nella magia?”.

Mi irrigidì.

“Considero la mitologia molto istruttiva ma preferisco lasciare la magia ai libri fantasy”, risposi, un nodo in gola.

“E' non è pura fantasia la convinzione di salvare vite per il semplice piacere di farlo?”.

“Ho visto ancora poco o niente di ciò che significa essere un medico, ma so che nessuno salva una vita per il semplice piacere di farlo. Lo fa per l'adrenalina e per mettere alla prova se stesso. O perché è stanco della morte e ama l'idea di poterla sconfiggere”.

“In poche parole credete di essere Dio...”.

“No... altrimenti avremmo la certezza della vittoria”, sussurrai, ripensando a quel letto vuoto nel reparto di pediatria infantile.

“Non faresti mai del male a un altro essere umano”, constatò, con un tono di voce tale... sembrava sollevato.

Non risposi.

Tulio si avvicinò a me di qualche passo.

Mi alzai di scattò, il mio corpo rigido e bollente, e non riuscì a fingere che la sua vicinanza non mi inquietasse.

“Dovremmo chiamare Rafael...”, dissi, dopo aver messo qualche centimetro in più di distanza tra di noi.

“Certo”, mi rispose, “e nel frattempo chiederò a Ines di preparare del tè”.

 

Quando ebbe lasciato la stanza, mi accertai che non fosse nei dintorni e mi fiondai sulla rubrica del mio telefono. Nonostante le dita fossero sudate e scivolose, riuscì a individuare il numero che cercavo e inoltrare la telefonata. Attesi, pregando che Enrique rispondesse, fin quando non udì lo scatto della segreteria, a quel punto misi giù. Percorsi la lunghezza della stanza, in agitazione, chiedendomi perché non arrivasse. Composi un altro numero e quando al terzo squillo Rafael mi rispose, tirai un sospiro di sollievo.

“Rafael”.

“Ehi, Bella”, esordì.

“Cos...cosa stai facendo? Scendi”, sussurrai con enfasi.

“Scendere?”, mi chiese, “scendere da dove?”.

 

“Bella, Bella mi senti? Ci sei ancora?”.

La sua voce mi giunse ovattata per qualche minuto, mentre davo alle sue parole il giusto senso.

“Dove sei?”, gli chiesi.

“Al Turn, sono qui da stamattina..”, non sentì cos'altro disse; avendo udito dei passi in corridoio riattaccai e riposi il telefono nella tasta posteriore dei jeans.

Tulio rientrò sorridendo, alle sue spalle Ines, la quale portava con sé un vassoio d'argento.

“Scenderà tra poco”, disse l'uomo.

Non badai alle sue parole o alla donna impegnata a versare il tè fumante, perché fissavo la porta alla sue spalle, quasi certa che mi servisse una via di fuga.

 

Nessuno dei due parlò per diversi minuti. Tulio versò due abbondanti cucchiai di zucchero nella sua tazza di tè e mentre l'accostava alle labbra, mi chiese: “Non beve, signorina Swan?”.

“Aspetto che si freddi”, risposi, distogliendo lo sguardo dalla mia bevanda per puntarlo nei suoi occhi scuri.

“Non ama il calore?”.

Scossi il capo e Tulio si accese in un sorriso a trentadue denti.

“La capisco, d'altronde è estate. Avrei dovuto farle portare un tè freddo, semmai. Ma è mia abitudine bere una bevanda calda nel pomeriggio”.

“Non si preoccupi, aspetterò che si freddi. Nel frattempo, mentre aspettiamo che Rafael scenda, gradirei andare alla toilette”.

“Ma certo, in fondo al corridoio gira a destra, ultima porta a sinistra”.

Sospirai, grata che non si fosse opposto al fatto che lasciassi la stanza. Forse, dopotutto, l'idea di non essere un'ospite ma un prigioniero era dettata dalla mia paranoia, la stessa che mi portava a pensare che il tè fosse stato drogato. ..

 

Anziché imboccare la direzione indicatami, svoltai a sinistra. Immaginavo che una casa così grande non potesse avere un solo bagno, ma, per qualche ragione, Tulio mi aveva spinto verso l'ala destra dell'edificio. Aprì qualche porta a caso, trovando stanze da letto, bagni o stanze vuote. Quando aprì la penultima porta in fondo al corridoio, seppi immediatamente di essere nell'ufficio del signor Delgado; a farmelo pensare fu la collezione di sigari appesi alle pareti, la grande sedia in pelle che troneggiava dietro a un'immensa scrivania in mogano, lo scaffale pieno zeppo di libri di diritto e di economia e di scartoffie. Mi intrufolai all'interno, chiudendomi la porta alle spalle.

Vagliai con lo sguardo il contenuto della libreria, dopodiché mi avvicinai alla scrivania, rovistando tra i fogli, i cassetti e le agende, in cerca di un qualcosa di non ben precisato. Sapevo con certezza che Tulio mi aveva mentito: Rafael non era in casa. Ma per quale motivo avrebbe dovuto farlo? Per sua stessa ammissione, non conosceva la ragione di questo incontro. Ed Enrique? Perché non si decideva ad arrivare? Nel frugare, un foglio attrasse la mia attenzione. Si trattava di una lista. Una lista di nomi.

 

Name(group A)

Age

Abigael Smith

18

Ann Williams

22

André Dubois

18

Brandon Allen

35

Bryan Christopher Hall

46

Diego Torres

25

Francine Leroy

20

Gloria Lembert

58

Grace Roberts

43

Gwendoline Cooper

18

Leticia Ward

60

Marisol Hernandez

27

Matthew O'Driscoll

24

Miles Elliot Bennet

33

Max Scoffild

22

Marshal Grey

25

Miranda Watson

28

Nakamaro Yoshida

23

Nydia Bell

40

Rudy De Wit

37

 

 

Nel retro del foglio una tabella simile con su scritti altrettanti nomi: Malik 12, Feng 10, Akira 9...

In fondo alla pagina i numeri 32/40.

A primo impatto, il rapporto 32/40 non mi disse nulla e, nonostante il brivido che mi correva lungo la schiena, rilessi la lista. E intuì la relazione. Trentadue individui sotto i quarant'anni, di cui venti minorenni, bambini...

Una conversazione origliata, una telefonata, mi tornò alla mente...

Ne ho parecchi, questa volta penso c'è ne sarà uno in più”.

Come?”.

Quanti? E dove dovrei trovarli in così poco tempo, il carico non basta per...?”.

 

“Pensavo di essere stato chiaro nel dare indicazioni. Evidentemente mi sbagliavo”.

Udire la sua voce alle mie spalle non mi spaventò come avrebbe dovuto, mi voltai lentamente, quasi stessi lottando contro le ossa del mio collo.

“Chi diavolo sei tu?”, gli chiesi.

 

Mentre osservavo l'espressione del suo viso mutare e un cipiglio di preoccupazione scavargli una profonda ruga fra le sopracciglia scure, realizzai ciò che già in parte sapevo, chiedendomi come avessi potuto essere così cieca: ero stata ingannata. Enrique non avrebbe permesso che rimanessi sola con suo padre, ammesso che avesse chiesto il mio aiuto si sarebbe fatto trovare in casa. In secondo luogo, dopo aver sopportato per anni, non avrebbe chiesto di punto in bianco la custodia del fratello che, tra pochi mesi, sarebbe divenuto maggiorenne. Restava da capire il come e il perché.

“Cosa...”, abbozzai. “Cosa vuoi da me?”.

“Non capisco, Isabella, cosa ti fa pensare che io voglia qualcosa da te. Ti ricordo, che sei in casa mia di tua iniziativa”.

Le sue parole sollevarono una questione che, fino ad allora, avevo sorvolato: il messaggio. In un modo o nell'altro, Enrique mi aveva scritto, attirandomi al 102 di Baker Ave e, siccome, mi sarei gettata nel fuoco piuttosto che credere che mi avesse ingannato, restava una sola spiegazione plausibile.

“Lui dov'è, cosa gli hai fatto?”, rantolai, divorata dalla preoccupazione.

“In fondo al corridoio, ultima porta a destra”.

Scattai e fui fuori dalla porta prima ancora che potesse concludere la frase e non gli diedi la possibilità di sbarrarmi la strada con la sua mole.

La sua risata mi inseguì. I suoi passi alle mie spalle come rintocchi d'orologio scandivano il tempo.

Mi fiondai all'interno della stanza, accostandomi ai divanetti color verde militare, certa di trovarvi Enrique.

Al suo posto il vuoto.

Caddi in ginocchio, stravolta dalla consapevolezza di essere stata giocata, ancora. Lo scatto della serratura mi portò a voltarmi, nonostante lo shock. Tulio, dopo essersi richiuso la porta alle spalle, si abbandonò contro di essa.

Ero in trappola. Non riuscivo ad imparare la lezione, continuando a fiondarmi dovunque mi venisse indicato con la speranza di trovarvi le persone che amavo e salvarle. Come era accaduto con James, per via della mia ingenuità mi ritrovavo rinchiusa in una stanza. L'unica differenza fra ora e allora consisteva nel mio nemico e nel grado della sua mostruosità. Tuttavia, mentre riflettevo su che genere di mostro avessi di fronte, ricordai con improvvisa lucidità che esisteva un'altra differenza, fra ora e allora: io.

Mi sollevai a fatica, sebbene tremassi come una foglia e il mio corpo stesse letteralmente bruciando, riservandogli uno sguardo di sfida.

I suoi occhi si sgranarono, lo vidi deglutire più e più volte e la sua fronte alta si imperlò di sudore. Non avrei mai creduto di poter fare del male a un altro essere umano, ma se non mi avesse detto cos'era accaduto a Enrique e per quale ragione mi trovassi lì, non avrei esitato.

Spinsi e spinsi. Normale amministrazione, se non fosse stato per il fatto che, nonostante spingessi e il mio corpo urlasse di espellere il fuoco che lo divorava, non una sola fiamma si levò dalla mia pelle. E mentre l'espressione di Tulio mutava e tornava ad essere divertita, il gelo mi strinse il cuore. Un sensazione orribile mi scosse nel profondo; avendomi tolto la possibilità di utilizzare quel mio strano dono era come se mi avessero privato della facoltà di respirare, camminare, piangere...

Non avevo fatto caso a quanto mi fosse diventato indispensabile quel dono.

“Lo chiamano vinculum”.

“E' latino”, mi spiegò, “ha diversi significati, ma suppongo che in questo caso stia per catena o impedimento”.

Indicò ciascuna delle pareti che ci circondavano con un ghigno sul viso.

“E' un materiale particolare con cui ho fatto rivestire questa stanza, ma, a differenza dei pannelli antimuffa, ha lo scopo di isolare te”.

Lo ascoltavo in uno stato simile allo shock post traumatico: coglievo le informazioni che recepivo ma non riuscivo a elaborarle.

“Con questo voglio dire che, per quanto ti sforzerai, mi querida, non riuscirai a fare quello che vorresti fare, di conseguenza sei al momento una comunissima ragazza umana e io un uomo grande e grosso. Perciò sta buona”.

“Come hai... come sei riuscito a...”.

“Davvero, questa è la prima domanda a cui vuoi che risponda? Come sono riuscito ad attrarti qui?”. Tulio fece spallucce e indicò lo schermo del PC sul tavolino all'angolo.

“Le magie di Internet... oggi è relativamente semplice inviare un messaggio fingendosi un dato mittente. Nessuno dei miei figli sa che tu sei qui”.

“La mia famiglia... loro lo sanno”, azzardai, tentando di impedire alla mia voce di tremare. “Se non mi vedranno tornare...”.

“Io non credo che i tuoi vampiri avranno occasione di badare alla tua... assenza”.

Non fu tanto il tono della sua voce a farmi intuire che i Cullen erano in pericolo, quanto la sua espressione.

“Se hai torto un solo capello...”, urlai, scagliandomi contro di lui a pungni serrati, ma rimbalzai sul suo petto, scontrandomi con la sua pancia rotonda, e le sue mani mi afferrarono i polsi come cinghie, scaraventandomi a terra. Sbattei contro il muro e la spalla, che aveva assorbito la maggior parte dell'impatto, prese a far male.

“Mi dispiace, querida, ma è probabile che a quest'ora”, disse, rivolgendo lo sguardo all'orologio a muro, “la maggior parte di loro sia già morta. Ho saputo che la nostra amica comune è piuttosto spietata con i suoi nemici. Soprattutto quano in gioco c'è la sua sopravvivenza...”.

“Victoria”, rantolai con le lacrime agli occhi.

“Perché sono qui?”.

“Non ci sei ancora arrivata? Sei qui perché tu ci servi viva”.

In qualche misura lo avevo sospettato, subito dopo il rapimento, ma averne la conferma era tutt'altra cosa.

“Invece i Cullen ci sono d'intralcio, si è quindi rivelato necessario... eliminarli. Temo, tuttavia, alla luce di ciò che ti aspetta, che avresti preferito essere al loro posto”.

Non riuscì a intimorirmi, perché in quel momento non ero in grado di pensare alle implicazioni delle sue parole. La mia famiglia... Riuscivo a pensare soltanto ai loro volti, alle loro voci, a braccia, teste staccate dal resto del corpo. A pire di fuoco.

Edward. Edward. Edward... Continuavo a ripetere il suo nome come se farlo potesse tenerlo in vita. Fui colta dalla disperazione e temetti che sarei impazzita. Impazzita sul serio. Versai in quello stato per minuti o forse ore.

Tentavo di afferrare il tempo e impedirgli di scorrere come se potessi concederne loro dell'altro. Ma il tempo è inafferrabile, imprendibile. Scorre ingrato, incorruttibile, alleato di nessuno, nemico di alcuni, compagno di tutti. Non si sarebbe fermato soltanto per impedire la morte dell'uomo che amavo o per concedermi di pensare, non si sarebbe riavvolto come il nastro di una vecchia cassetta per impedirmi di commettere gli errori che mi avevano portato a quel punto. Nonostante mi fosse chiaro, la rassegnazione non arrivava.

Mi ripresi dalle mie assurde elucubrazioni sul tempo soltanto quando udì nuovamente la sua voce. Avevo persino dimenticato che si trovava nella stanza insieme a me e al mio dolore che adombrava qualsiasi altra cosa.

“Pensavo avresti quantomeno urlato. O tentato di gettarti dalla finestra. D'altronde non posso darti torto, siamo al quarto piano: sarebbe un suicidio”.

“Chi sono?”, gli chiesi e non riconobbi la mia voce per quanto suonava priva di inflessioni.

“Le persone della lista”.

“Perché dovrei rispondere?”.

“Sono prigioniera e a quanto ho capito mi attende un futuro peggiore della morte a causa tua, il minimo che tu possa fare è rispondere alle mie domande”, risposi, parafrasando le sue parole.

“Cibo”.

Alzai di scatto la testa, puntando il mio sguardo sul suo viso inespressivo.

“Come?”, chiesi.

“Cibo”.

Mi ci volle qualche istante per capire. Tulio conosceva Victoria e i vampiri. Eppure, per legge, agli esseri umani era dato di sapere della loro esistenza soltanto nell'istante in cui affondavano i denti nella nostra giugulare. Le sue parole furono illuminanti nel comprendere la relazione che legava Tulio ai non morti.

“Mio Dio... Tu vendi esseri umani come cibo ai vampiri”, constatai, ora con più enfasi.

“Vendere non è il termine esatto. Se li “vendessi”, riceverei un compenso monetario, ma non è così”, rispose, senza neppure tentare di smentirmi.

“Diciamo che sto saldando un debito”.

“Un de... un debito”, sussurrai, quasi mi mancasse l'aria.

“Mi hanno contattato subito dopo la morte di mia moglie. All'epoca ero candidato alle elezioni per il governatorato, quindi la sua scomparsa fu immediatamente su tutti i giornali. Mi hanno chiesto un equo scambio, come se potessi rifiutare... Esseri umani in cambio della vita di ciascun medico presente in sala operatoria quel giorno. Accettai. I loro corpi non furono mai rinvenuti, gli unici ad essere stati ritrovati erano così malmessi che neppure i loro familiari sono stati in grado di riconoscerli e neanche un'impronta o una goccia di sangue... a collegarli a me”.

A farmi infuriare non fu la sua totale mancanza di etica, il suo distacco, la sua mostruosità, ma l'idea di tutti quelli uomini e quelle donne e quei bambini trattati alla stregua di cibo in scatola.

Il carico, li chiamava.

Mi portai una mano alla bocca, per tentare di trattenere se non le lacrime, quantomeno i singhiozzi. Nonostante la vista offuscata il pianto, quei nomi continuavano a scorrermi davanti agli occhi come se stessi ancora leggendo.

Clary 13, Connie 8, Kobbi 7, Tau 4... Nomi per la maggior parte stranieri e avrei giurato che gli unici americani fossero bambini in affidamento a qualche orfanotrofio.

“Fermali. Fermali”, sussurrai, la voce che a tratti si spezzava.

“Fermarli? Mi è impossibile, il carico è già partito per la città”.

“Come puoi fare tanto schifo? Chiamali, bloccali. Ho giuro che...”.

Querida, dove stanno andando non prendono i cellulari... E poi cosa vorresti fare, esattamente? Urlare? L'unica persona in casa, a parte noi, è la buona vecchia Ines, ma come avrai potuto notare sente ancor meno di quanto veda, il ché è tutto dire”.

“Fermali ho giuro che mi ammazzo”, urlai e, facendo leva su riserve di forza che non pensavo di avere, mi fiondai alla finestra.

“Gli servo viva. Perciò se io muoio sotto la tua custodia, loro ti uccideranno. Non farai del male a nessun altro”, borbottai le ultime parole aggrappandomi al muretto esterno. Mi illudevo che stessi cercando la morte per altruismo, ma in realtà, l'idea di vivere anche solo un altro giorno senza Edward costituiva un motivo più che valido. Inoltre, non avrei mai consegnato il mio dono in mano ad ignoti mostri. D'altronde, cos'altro avrebbero potuto volere da me, se non quello?

Mi sentì strattonare, un suo braccio si avvolse attorno alle mia spalle e mi tirò a sé. Mi divincolai, scalciando e urlando come una furia. Morsi la mano che mi serrava la mascella fin quando non percepì il sapore ferroso del sangue sulla lingua. Tulio mi lasciò andare, lanciando un urlo di dolore. Mi fiondai nuovamente alla finestra e guardai in basso. L'idea della morte si fece, d'improvviso, meno allettante. Capì che quel giorno avrebbe potuto concludersi con il mio corpo sull'asfalto oppure, se avessi deciso di sperare, sarei uscita da quella stanza, avrei raggiunto casa Cullen e tentato di salvare la mia famiglia. Perché dovevano essere vivi. Dovevano esserlo.

Pregare non mi avrebbe aiutata, ma fortunatamente, ricordai, avevo altre risorse che non fossero la provvidenza divina. Jasper aveva sprecato ore e ore per insegnarmi a combattere ed Emmet aveva costruito un intero armamentario per me. Sebbene non avessi un'arma, il mio corpo caldo era pronto a scattare. Allora mi voltai, nell'istante in cui Tulio, senza più il suo solito ghigno sul volto, si accostava a me. A lui avrei pensato più tardi.

Ruotai il mio busto, sollevando una gamba a mezz'aria che seguì lo stesso movimento della parte superiore del mio corpo e lo colpì al viso. Tulio arretrò, reggendosi la mandibola che prese a sanguinare con le mani. Non attesi che si riprendesse.

Corsi alla porta, ma prima ancora che potessi sfiorare la maniglia mi accorsi che mancava la chiave. Dovevo uscire da quella porta. Dovevo soltanto uscire da quella porta.

“Cercavi questa?”, mi chiese Tulio, sventolando una chiave d'ottone nella mano insanguinata.

Nell'osservare quell'oggetto assottigliai gli occhi e assunsi la posizione consigliatami da Jasper, pugni alzati di fronte al volto e gambe divaricate. Mi parve di percepire le sue mani gelide intorno ai miei pugni, quasi che la sua ombra, allacciata al mio corpo, mi guidasse. La sua chioma leonina mi sfiorò il collo e le sue labbra si accostarono al mio orecchio, sussurrandomi parole di incoraggiamento.

“Cosa pensi di fare?”, rise Tulio.

Alla gola”, mi suggerì la voce della mia coscienza, straordinariamente simile a quella di Jasper.

Lo colpì, mozzandogli il respiro, una mano bianca come l'alabastro ad accompagnare la mia. Tuttavia non perse la presa sulla chiave.

Tentò di afferrarmi alla cieca, ma io gli sfuggì, sferrandogli una gomitata sulla mandibola già lesa. Uno schiaffo in pieno viso mi costrinse ad arretrare confusa.

Impediscili di muoversi, solo così riuscirai a fuggire”, mi suggerì ancora la voce di Jasper e agli ordini del maggiore si obbedisce senza replicare.

Mi avventai sul suo braccio, trovandovi un appiglio per accostarmi alle sue spalle, a quel punto lo colpì a livello del ginocchio sinistro con un rapido calcio. Per un istante mi parve di vedere, insieme alla mia gamba, il riflesso di un'altra.

Perché lo fai, Jasper? Non sei tenuto. Potrei farti del male”

Non riesco a perdonarmi... quella sera, l'aver ceduto e aver innescato tutto questo. Non riesco a non pensare che, se non fosse stato per la mia debolezza, non stareste soffrendo tanto”.

Jazz...”.

No, ascolta. Non è solo questo, io... non mi ero reso conto di quanto tenessi a te, prima di rischiare di ucciderti. L'idea che tu possa... morire, ora o tra cinquant'anni, mi disturba. Fin da quando ero umano ho lasciato e sono stato lasciato: i miei genitori biologici mi hanno abbandonato, l'uomo che mi ha cresciuto è morto, ho lasciato l'esercito confedero e l'esercito di Maria, ho voltato le spalle ai miei soldati, ho perso gli unici amici che avessi. I miei punti fermi sono Alice e i Cullen, la mia famiglia. E tu sei entrata a farne parte dal momento in cui Edward ha posato gli occhi su di te. Mi hai chiesto perché lo faccio... io non voglio che tu debba rischiare ancora di morire, la prossima volta che qualcuno, chiunque, cercherà di portarti via la vita voglio che tu lotti con le unghie e con i denti e che ti salvi. Non riesco a pensare di perdere nessuno di voi... io... nella mia vita da immortale ho addestrato soltanto neonati e unicamente nel loro primo anno di vita, quando diventavano deboli io li uccidevo. Gli stessi ragazzi che addestravo per mesi. E tu sei debole, ma non voglio arrendermi, non voglio abbandonarti”.

Jazz...”

Non sono bravo con le parole, io...”.

Ho capito, Jazz. Ho capito. Ti prometto che non permetterò a nessuno di farmi del male. Ho intenzione di lottare per la mia vita”.

Urlai con tutto il fiato che avevo in gola, riservandogli un'ultima gomitata sulla nuca e un calcio nell'addome. Quando, finalmente, finì faccia a terra, lasciò scivolare la chiave che mi affrettai a recuperare. Prima di dargli le spalle e uscire da quella maledetta stanza mi accostai al suo viso, sussurrando: “Esattamente è questo che intendevo fare”.

Nonostante il tremolio alle mani, riuscì ad inserire la chiave nella serratura, spalancare la porta e varcare la soglia. Nell'istante esatto in cui abbandonai i confini della mia prigione, ancora con il sorriso sulle labbra, il mio corpo esplose.

Il fuoco divampò dalle mie mani, da ogni poro della mia pelle con una forza tale da scaraventarmi in fondo al corridoio, dopo cinque-sei metri di volo. Tentai di appallottolarmi e colpì il muro in pieno con la spalla, il fianco e la gamba destra. Mi risollevai a fatica, osservando senza realmente capire, fin quando non ricordai le parole di Tulio.

Lo chiamano vinculum... catena, impedimento... isola te”.

Qualsiasi cosa fosse questo vinculum mi aveva impedito per più di un'ora, nonostante mi sforzassi, di utilizzare il mio dono, costringendo il fuoco nel mio corpo e non appena me ne ero allontanata si era liberato in tutta la sua devastante potenza.

Le fiamme avvolsero tutto ciò che di combustibile trovarono sul loro cammino.

“Oddio”, rantolai.

La casa andava a fuoco.

Voltai le spalle al disastro, pronta a fuggire, ma dei colpi di tosse attrassero la mia attenzione. Provenivano dalla stanza rivestita col vinculum, la stanza in cui si trovava Tulio. Avrei dovuto ignorarlo, se non altro per le morti che aveva causato, ma se non l'avessi aiutato non avrei più potuto guardare me stessa allo specchio.

Corsi nuovamente alla soglia della stanza, guardandomi bene dalle fiamme che strisciando avanzavano verso di me. Per qualche assurda ragione, non riuscivo a temerle, d'altronde ero stata io stessa a partorirle. Ma, sebbene, con probabilità, il fuoco non costituiva un problema per me(durante gli allenamenti il contatto con esso non si era rivelato mai fatale) non avrei potuto dire altrettanto per Tulio. Inoltre, se fossi entrata nella stanza non avrei potuto utilizzare in alcun modo il mio dono, ne tanto meno tentare di utilizzarlo, altrimenti avrei ottenuto lo stesso effetto di poco prima. Sarei stata vulnerabile, di nuovo. Diedi uno sguardo all'interno, il corpo di Tulio era riverso sul pavimento e tossicchiava a causa del fumo. Fumo che, notai con sorpresa, non mi dava alcun fastidio. Inspirai a fondo e mi fiondai all'interno, inginocchiandomi accanto a lui.

“Alzati. Devi alzarti, adesso”, lo spronai gelidamente. Tulio tossì ancora, gli occhi lucidi per via del fumo.

“Appoggiati a me. Appoggiati”, ripetei, ancorando il suo braccio intorno alle mie spalle, ma sollevare il suo corpo da terra richiedeva una forza che non avevo.

“Su”, urlai, facendo leva sul bracciolo del divano. Tulio si appoggiò a me e quasi il suo peso mi schiacciò. In un modo o nell'altro riuscì a sollevarlo da terra.

A quel punto il fuoco era penetrato nella stanza.

“Metti qualcosa davanti alla bocca e al naso”, gli ordinai, cercando di capire come saremmo usciti da lì. La strada era sbarrata, avrei potuto tentare di attraversare il fuoco ma anche ammesso che io potessi riuscirci, Tulio non aveva alcuna possibilità di uscirne vivo.

D'un tratto, mi sentì strattonare e andai a sbattere contro il fianco del divano.

“Mi dispiace”, borbottò Tulio, allontanandosi da me e dalla porta.

“Cosa fai?Dobbiamo uscire di qui”, rantolai, reggendomi le costole doloranti.

“Non io”, disse, allontanandosi ancora di più da me e dalla porta.

Mi guardai alle spalle, il fuoco aveva avvolto il tavolino all'angolo.

“Se anche ne uscissi vivo, loro mi troverebbero e mi ucciderebbero in modo lento e doloroso, a meno che tu non accetti di consegnarti alle loro mani... Non ci tengo”.

Lo vidi scavalcare il parapetto della finestra, reggendosi al muretto esterno come poco prima avevo fatto anche io.

Perdòname, mi vida”, lo sentì sussurrare, prima che si lasciasse cadere.

“No”, urlai, allungando il braccio come potessi trattenerlo.

L'immagine del suo corpo disteso innaturalmente tra i roseti e le spine, il terreno tinto del suo sangue brillante, in altre circostanze avrebbe potuto fermarmi. Un uomo si era appena ucciso sotto i miei occhi e c'era il cinquanta per cento di possibilità che la mia famiglia fosse stata annientata da un esercito di neonati, ma io avevo una promessa da mantenere: lottare per la mia vita. Chiusi gli occhi per un solo istante e mi allontanai da quel parapetto, un dito alla volta, in fine mi guardai alle spalle.

Il fuoco era ovunque.

Ancora una volta avevo soltanto il cinquanta per cento di possibilità di riuscire ad attraversare il muro di fuoco e uscirne illesa, ma se avessi badato alle percentuali o alle eventuali conseguenze qualora non fosse andata come speravo non avrei mosso un passo. Così mi lasciai scivolare tra le fiamme, mentre Jazz intrecciava le dita della sua mano alla mia, sorridendomi con affetto.

 

Colta da un'inaspettata euforia corsi giù, scendendo i gradini della rampa due per volta e quando fui a pian terreno mi fiondai in giardino, lasciandomi scivolare accanto al corpo di Tulio. Corpo senza vita, constatai dopo averne auscultato il battito cardiaco. Il sangue che lo circondava sembrava essere stato pianto dalle rose ai suoi piedi.

Un sussulto alle mie spalle mi spinse a voltarmi. Ines, le mani ruvide incrociate sul petto, osservava il cadavere di Tulio a occhi sgranati. Deglutì il nodo di bile che mi bloccava la gola.

“Chiami un'ambulanza e i vigili del fuoco”, le urlai, sperando che mi sentisse.

La donna mi si avvicinò, allontanando le mie mani dal cadavere per poi stringerle tra le sue.

“Va via. Se rimani ti troveranno”, mi pregò, gli occhi lucidi dietro gli occhiali spessi, “penso io a lui e a informare i signorini”.

Enrique... pensai, con il cuore in gola.

“Vai”, ripeté, spingendomi con le sue poche forze. Mi alzai, la ringraziai con un cenno del capo, pregandola di fare attenzione, dopodiché corsi alla macchina. Mi presi un solo istante per recuperare la lucidità necessaria a mettermi alla guida e senza neanche allacciare la cintura di sicurezza misi in moto, decisa a infrangere ogni limite di velocità, confortata dall'odore di Edward che impregnava l'abitacolo.

 

Quando arrivai a casa Cullen spensi il motore e mi precipitai all'esterno, senza neanche richiudere lo sportello dell'auto. Il battito frenetico del mio cuore accompagnò i pochi secondi che impiegai ad aprire la porta, entrare in casa e capire che era deserta. Neanche un rumore che mi facesse intendere lo svolgersi di una battaglia, eppure conoscevo il suono prodotto dai corpi di vampiri che si scontrano, simile a tuoni durante un temporale.

Non erano qui.

Poi diedi uno sguardo al di là della vetrata. Il bosco poteva essere il luogo adatto ad uno scontro, considerando le innumerevoli radure erbose che lo costituivano.

Raggiunsi il garage, dove Emmet mi aveva rivelato di conservare le armi.

Nella parete dietro la Jeep c'è un pannello, è lì che le tengo. Per accedervi devi premere il piccolo tasto verde dietro il frigo... e non chiedere perché abbiamo un frigo bar.

Il pannello si aprì con lentezza esasperante, rivelando la “modesta” collezione di Emmet: archi, balestre, fucili, pistole, coltelli persino.

Coltelli?

Ho fatto solidificare il nostro veleno per ottenere la lama, poi l'ho rivestita con un sottilissimo strato d'acciaio...

Afferrai la mia fida arma, la ancorai insieme a qualche coltello alla cintura dei jeans e corsi verso il bosco.

 

Corsi a perdifiato.

Corsi nonostante ogni parte del mio corpo esausto mi pregasse di fermarmi.

Corsi nonostante orribili immagini mi offuscassero la vista: volti di nemici senza tratti, sangue, cadaveri, pire di fuoco, rosse chiome.

Corsi nonostante rumori assordanti mi costrinsero a tapparmi le orecchie con i palmi delle mani, indicandomi la direzione da seguire come briciole di pane su un sentiero. Corsi.

Fin quando non giunsi sul campo di battaglia e mi trovai di fronte lo spettacolo della mia famiglia alle corde, della piccola Alice stretta tra le braccia di un ragazzino di appena sedici anni di cui, tuttavia, non riusciva a liberarsi.

Fu il ragazzo a notarmi prima di chiunque altro, probabilmente per via del mio odore trasportato dal vento. Quando i suoi occhi vermigli si adagiarono con desiderio sul mio viso come fari non mi intimorirono. La sua presa su Alice si affievolì e mentre il sangue delle mie ferite lo attraeva al punto da fargli perdere la ragione, puntai la mia arma, trattenni il respiro e sparai. Il ragazzo era già scattato nella mia direzione ma perfettamente il linea retta, lungo la traiettoria del proiettile che si conficcò nello spazio fra le sue sopracciglia quando era ormai a pochi metri da me. Il proiettile, incastrato nella sua carne di pietra, esplose come una piccola mina riducendo la sua testa in brandelli. A quel punto tutti gli occhi nella radura, rossi e dorati, si posarono sulla mia figura. Constatai che nessuno dei Cullen era rimasto ferito, ma lessi il sollievo nei loro occhi alla vista del mio viso. Lo stesso sollievo che provai nel rivedere ciascuno di loro.

Lo cercai prima ancora di ricordare di respirare; nel momento in cui i suoi occhi cupi cercarono i miei. L'emozione che provai nel rivedere il suo volto e ogni parte del suo corpo attaccata al resto fu tale da scalzare qualsiasi altra forma di sollievo. Vagliò con lo sguardo ogni tratto del mio corpo, analizzando i cambiamenti, le ferite, persino la cenere posata sui miei vestiti, contraendo la mascella.

Tuttavia, in un battito di ciglia che non mi concessi, la situazione degenerò drasticamente. Edward emise un ringhio animale, gutturale, che fece tremare la terra sotto i miei piedi, scagliandosi contro Victoria e Michael che insieme si stavano dirigendo nella mia direzione, come qualsiasi altro neonato nella radura.

Mi vidi attaccata da una miriade di vampiri bianchi e rossi, ma nessuno di loro riuscì ad avvicinarsi a meno di un metro da me, perché la mia famiglia, con altrettanta furia e nonostante l'evidente inferiorità numerica, gli si avventò contro.

Sapevo che li avrei persi.

La mia attenzione, nel caos generale, fu attratta dall'urlo di Edward(evento raro, perché Edward non urlava, mai), subito seguito dal mio. Sebbene ci separassero molti metri, vidi chiaramente l'espressione contratta del suo viso sofferente. Victoria aveva ruotato il suo braccio in una posizione innaturale, mentre Michael fermo immobile di fronte a loro osservava la scena.

Poi ricordai. Michael non si stava limitando ad osservare: aveva reso cieco Edward con una delle sue illusioni. Per un istante, solo un istante mi chiesi cosa vedesse. Cosa Edward desiderasse più di qualsiasi altra cosa al mondo, poi agì.

Corsi. Corsi ancora. Corsi verso di lui.

 

Forse fu il caso, forse il suo sguardo sul mio volto pungeva più di quello di qualsiasi altro vampiro nella radura. Sta di fatto che mi voltai sentendomi osservata e alla mia destra, al limitare del bosco, la vidi, Tanya.

Arrestammo contemporaneamente le nostre corse. Mi bastò seguire la direzione del suo sguardo per capire che il nostro obiettivo era il medesimo: Edward. Vidi la lucidità illuminarle lo sguardo, segno che aveva compiuto una scelta, nel bene o nel male. Sarebbe stata un'alleata, in quella battaglia, o una nemica?

Supposi lo avrei scoperto presto, considerando che aveva ripreso la sua corsa.

Edward era vulnerabile, reso cieco da Micahel e immobile da Victoria e il resto della famiglia era impegnata a proteggere se stessa. Non sarei arrivata in tempo.

Stupire, stupide gambe umane troppo lente.

Prima che le lacrime, trattenute sul fondo dei miei occhi, riuscissero a liberarsi degli argini e sgorgare, ebbi una risposta alla mia domanda.

Tanya piombò sulle spalle di Victoria, stringendo le sue braccia in una morsa stritolatrice, con l'intento di strapparle di netto dal suo busto piegato ad arco. Nel frattempo, Michael, vedendomi sopraggiungere, se la diede a gambe, forse memore di quel che era accaduto al suo amico.

Tanya mi rivolse un sorriso, un ghigno, mentre attendeva che io concludessi l'opera.

Victoria urlava e si divincolava quando arrivai da lei in scivolata. Piantai i palmi delle mie mani sul suo cuore o dove, in teoria, avrebbe dovuto trovarsi, lasciai che il fuoco scorresse in ogni muscolo del mio corpo fino a fuoriuscire dalla pelle bollente. E di Victoria non rimase che un pira di fuoco urlante.

Tanya mi tirò a sé e, quando mi voltai in direzione della battaglia ancora in corso, adagiò il gomito sulla mia spalla destra.

“Pronta?”, mi chiese, riferendosi alla lotta senza esclusioni di colpi che avremmo ingaggiato per salvare la nostra famiglia. I suoi ricci biondi mi solleticarono la pelle nuda del collo.

Le rivolsi un ghigno simile a quello da lei riservatomi poco prima, porgendole una delle lame che tenevo ancorate alla cintura. I suoi occhi dorati non erano mai stati più belli.

“Pronta”, risposi, osservando i tre che avanzavano nella nostra direzione.

 

Tanya scattò in avanti, con una rotazione fulminea delle gambe atterrò il neonato alla mia sinistra e per effetto domino, la neonata al suo fianco.

Piantai i palmi delle mie mani sui lori petti e il fuoco avvolse entrambi.

Il neonato che fronteggiava Tanya ruggendo a denti stretti, alla vista dei suoi amici ridotti in cenere, arretrò. Riconobbi la più selvaggia paura adombrargli lo sguardo. Paura della morte. Paura di me.

Un'emozione che rese il suo viso familiare.

“Bella”, Tanya ringhiò il mio nome, incitandomi a procedere.

Il vampiro oscillò lo sguardo tra me e lei.

Allora lo riconobbi.

I suoi tratti riemerso dalla mia mente come un ricordo imperfetto dei tre giorni di prigionia, complice il buio del seminterrato in cui eravamo stati rinchiusi. Ma sebbene il suo viso fosse colmo di buchi neri nella mia memoria, la luce nei suoi occhi, il terrore dipinto in essi, non poteva che appartenergli. Ricordai mani tremanti che afferravano un pentolino di metallo e una voce impastata e altrettanto incerta che mi ringraziava.

Lo avevo conosciuto da umano, in condizioni che non avrei augurato a nessuno. Probabilmente non mi riconobbe, per via della sete che offuscava ogni altro pensiero razionale.

“Vai via”, gli dissi. Il ragazzo non mosse un passo.

“Va via”, urlai, “e non farti rivedere. Va via”. Non attese che glielo ripetessi una quarta volta, abbandonò il campo, senza mai guardarsi alle spalle.

 

Capì che i nostri nemici erano gli stessi esseri umani che avevo disperatamente tentato di salvare senza riuscirci. Deglutì.

Tuttavia, se avessi esitato, avrei perso la mia famiglia e questo, sul piatto della bilancia, pesava più di qualsiasi altra cosa.

Perciò, per l'ennesima volta quel giorno ripresi a correre.

“Tanya”, urlai.

La bionda vampira si scansò, in modo tale che potessi ridurre il suo avversario in fiamme semplicemente puntandolo alla schiena con lo sguardo.

“Ok?”, mi chiese, quando fummo schiena contro schiena.

“Ok”, risposi.

“Prendete la strega. La strega”, urlò qualcuno di loro e un'orda di neonati si fece avanti circondandoci. Riconobbi tra di essi alcuni dei vampiri più anziani, indicando a Tanya quali avrebbero potuto costituire un problema.

“Penso si riferiscano a te”, la canzonai.

“Non credo”, mi rispose con altrettanta ironia.

“Siamo sole”, constatai, osservando come il resto della nostra famiglia fosse stata a sua volta circondata. Alternavano sguardi ansiosi tra noi e i loro avversasi.

“Direi di sì”, concordò.

Guardai la massa informe di creature della notte che avanzava ringhiando e ghignando verso di noi, stupendomi di non essere ancora crollata dalla stanchezza e dell'adrenalina che, invece, mi scorreva a fiotti nelle vene. Prima ancora che potessi concludere quel pensiero il mio campo visivo fu sostituito da una grande macchia scura.

No. Non ora.

Scossi la testa, come se potessi scacciare l'oscurità e aggiustare ciò che nel mio corpo si era rotto.

“Volete noi?”, chiese loro Tanya, urlando per sovrastare il frastuono dei ruggiti.

“Allora venite a prenderci”, conclusi.

L'orda di neonati attese che concludessi la frase, dopodiché si scagliò contro di noi.

“Adesso fai quello che sai fare meglio”, mi suggerì Tanya e, benché non potessi vedere il suo viso, intuì dal tono roco della sua voce che era terrorizzata.

Serrai le palpebre e inspirai. Odore di terra bruciata, miele, cenere, vento.

Odore di distruzione.

Odore di fuoco.

Lasciai che mi avvolgesse da capo a piedi, poi spalancai gli occhi.

Spirali di fuoco mi circondavano. I vampiri, poco avvezzi a quest'ultimo, arretravano storcendo il naso.

Estesi il muro a Tanya, così che l'odore di cenere e distruzione si mescolasse a quello di ghiaccio e terra.

“Non. Muovere. Un. Muscolo”, le dissi, mentre univa nuovamente le nostre schiene a temperature opposte.

La sentì trattenere il fiato, mentre spingevo con tutta la forza rimastami in corpo.

Tanya mi afferrò una mano, incrociando le sue dita lunghe e gelide alle mie bollenti.

“Bella, devi ascoltarmi. Ho bisogno che tu sappia qualcosa...”.

 

Ascoltai senza emettere alcun suono, incapace persino di sbattere le palpebre, dimentica del pericolo.

“Lo farai... per me?”, mi chiese, la voce rotta da lacrime che non avrebbe potuto versare.

Annuì. Senza sapere perché lo stessi facendo.

“Prometti”, mi incitò.

“Lo prometto, Tanya”.

“Bene. Adesso concentrati, Bella. Ce la fai. Puoi farcela. Visualizza, Bella, visualizza”.

E io visualizzai.

Visualizzai quelle spire di fuoco estendersi ben oltre i nostri corpi, avvolgere i nostri nemici. Visualizzai la mia famiglia in salvo. Visualizzai Edward.

Mentre i neonati avanzavano e la stretta di Tanya si faceva più forte, quasi dolorosa, cacciai un urlo che riecheggiò a lungo fra le fronde degli alberi e le fiamme trasformarono in cenere tutto ciò che ci circondava.

Intorno a noi urla, fiamme, morte.

Avevamo vinto.

Era finita.

Cercai Edward. Sorrideva, gli occhi lucidi d'orgoglio, mentre si reggeva la spalla, quasi stesse tenendola unita al resto del corpo...

Poi l'espressione del suo bel viso mutò, trasformandosi in una maschera di orrore.

Non vidi quello che accade in seguito.

Mi sentì strattonare e mi ritrovai nella posizione che prima era appartenuta a Tanya. Eravamo ancora schiena contro schiena, i suoi ricci biondi e morbidi contro i miei color ebano.

Poi, d'un tratto, nonostante continuassi a percepire la consistenza della sua schiena contro la mia, non avvertì più il peso dei suoi ricci.

Mi voltai, dovendo constatare la veridicità della mia impressione. Pronta a tutto, o almeno così credevo, fin quando non mi ritrovai davanti al suo collo seghettato e a nient'altro. Fin quando il suo corpo senza vita non si accasciò alle mie spalle nella terra bruciata. Due occhi vermigli mi sorridevano. Tra le mani del neonato il viso sereno di Tanya, gli occhi chiusi.

Prima che potessi reagire in qualsiasi modo, urlando o attaccando, Emmet e Jasper lo strinsero per le braccia, dividendo il suo corpo in due perfette metà. La testa di Tanya rotolò ai miei piedi.

Le braccia di Edward si strinsero intorno al mio corpo, come se sapesse che sarei caduta in pezzi di lì a poco.

 

Quando il campo fu ripulito e ogni fiamma spenta, rimasi l'unico fuoco nella radura. Edward aveva riposto il corpo di Tanya in un angolo, l'unico che le fiamme non avessero reso arido e in cui, ancora, qualche margherita adornava la terra.

Lasciai il fianco di Alice, avvicinandomi a lui a lei e lasciandomi cadere in ginocchio al suo fianco. Edward le ripose la mano sinistra in grembo, io la destra, non prima di aver constatato che era ustionata. La mano con cui aveva stretto la mia mentre mi pregava di fare qualcosa per lei...

Edward accarezzò l'anello regalatogli da sua madre. Anello che aveva promesso a me e poi donato a Tanya. Mi guardò e io annuì.

Quell'anello non mi apparteneva. Sarebbe stato suo, per sempre.

Per sempre.

L'immortalità non è sinonimo di eternità.

L'unico momento della vita a durare per sempre è la morte.

 

Mi dispiace.

Mi dispiace.

Grazie per avermi salvato la vita.

Manterrò la promessa.

 

Edward mi sfiorò il volto e il mio campo visivo venne nuovamente sostituito da una grande macchia scura. Questa volta dovetti scuotere il capo ben più di un paio di volte prima di riuscire a riacquistare la vista.

E per la prima volta dalla sera precedente, desiderai non averlo fatto.

Il volto di Edward era una maschera di cera. Sembrava lontano, nonostante le sue dite fossero ancora sulla mia guancia.

“Edward”, lo chiamai, lo scossi, ma non ottenni risposta.

Mi voltai e ogni altro membro della mia famiglia aveva dipinta in viso la medesima espressione.

“Alice”.

“Jazz”.

“Carlisle”.

“Rosalie”.

Li chiamai uno ad uno. Nessuna risposta. Statue di cera, ma con grandi sorrisi sulle labbra.

Poi due braccia mi strinsero in una morsa stritolatrice e io urlai, ma nessuno, nessuno di loro mosse un muscolo.

“Scusami. Prometto che finirà presto”.

Riconobbi la voce che sussurrò quelle parole sul mio collo.

Michael.

Fulmineo mi strinse i polsi con dei lacci. Tentai di divincolarmi, spinsi il fuoco fuori dal mio corpo, ma ancora una volta la mia pelle costituì una barriera invalicabile.

Vinculum?”, gli chiesi.

“Sì... non opporre resistenza. Sarebbe inutile, ora come ora sei...”.

“Una comunissima ragazza umana”, sussurrai.

Michael, anziché ancorarmi alla sua schiena, mi strinse tra le braccia.

“Mi dispiace. Mi dispiace”, ripeté.

Anche io poco prima mi ero scusata, ma a volte le scuse non bastano.

 

“Mi porterai da loro?”, gli chiesi, combattendo la devastante stanchezza e le macchie di oscurità.

“Sì”, mi rispose: suonava rammaricato.

“Dove?”.

“Non hai ancora imparato a tenere la bocca chiusa?”, disse ma sorrideva.

“Dove?”, ripetei.

“Nella città”, mi rispose.

La città. Anche Tulio aveva parlato di una “città”.

“Chi sono?”, gli chiesi.

“Vampiri”, mi rispose.

“Oh andiamo, questo lo avevo intuito. Si tratta dei Volturi?”.

Michael rise.

“Che c'è?”.

“Non si tratta dei Volturi, affatto. Non domandarmi altro”.

“Perché lo fai? Questo puoi dirmelo”. Sapevo che se avessi continuato a chiedergli dovi mi stesse portando e da chi non avrei ottenuto alcuna risposta.

“Victoria è morta, pensavo che... fosse per lei...”.

“Non penso tu conosca fino in fondo il mondo a cui vuoi appartenere. Il mondo dei vampiri. Credi sul serio che nessuno di noi infranga la legge? Credi di essere l'unico essere umano a conoscenza della nostra esistenza? I vampiri, quelli non troppo furbi, amano sfidare l'autorità. La Thailandia, il Messico, la Cina, l'Australia, la Russia sono soltanto alcuni dei Paesi in cui dilaga l'anarchia; vampiri annoiati dall'eternità utilizzano gli esseri umani per il sesso o come vere e proprie sacche di sangue ambulanti(il ché, devo ammettere, richiede un certo autocontrollo). La maggior parte muore nell'arco di una settimana. A meno che questi non abbiano poteri particolari, come produrre una straordinaria quanto fasulla sensazione di benessere e felicità o concretizzare i desideri più profondi... Io sono stato uno di questi, tra i più fortunati”, rise delle sue stesse parole, “sono sopravvissuto per un anno intero”.

“Ero una sorta di droga per loro, si facevano del mio dono come ci si fa di morfina. Non mi avrebbero lasciato andare. Se non fosse stato per Victoria sarei morto in quel letamaio. Lei bazzicava quei posti; l'ho vista più di tre volte prima che mi... salvasse e mi trasformasse. Avevamo un compromesso: la libertà in cambio del mio dono, del suo James... Non ero certo così stupido da pensare che mi avrebbe aiutato senza chiedere nulla in cambio. Più il tempo passava più il suo desiderio di vendetta cresceva, vedevo il tuo viso... lei, avrebbe voluto farti... Era uno spettacolo orribile a cui assistere. Mi ha imposto di pedinarti e alla prima occasione portarti da lei. Era fin troppo paranoica per uscire allo scoperto, nonostante i Cullen non sembrassero essere nei paraggi. Quando ti ho attaccata... ricordi come è andata. Fortunatamente non ho potuto ucciderti, perché quando quella sera ritornai da Victoria era in compagnia...

Qualcun altro ti stava cercando, qualcuno a cui servivi viva... In realtà, non avevano alcuna intenzione di assoldarci, ma Victoria ha raccontato loro dei Cullen, dicendogli che ti avrebbero protetta, ma che aveva un piano per liberarsene”.

“L'esercito di neonati”, conclusi per lui.

Michael annuì.

“Se ci avessero lasciato andare avremmo pensato al lavoro sporco e, una volta distrutti i Cullen, ti avremmo consegnato nelle loro mani, senza bisogno che rischiassero in prima persona”.

“Rischio non è un termine che associo a dei vampiri”.

“Forse non ai vampiri che conosci”, mi rispose cripticamente.

“La tua storia non risponde alla mia domanda, non spiega perché, nonostante Victoria sia morta e tu non sia più in debito con lei, continui a perseguire la sua causa. Sono certa che se mi lasciassi andare e fuggissi, loro non ti troverebbero...”.

Michael sorrise, accarezzandomi i capelli arruffati come fossi una bambina sciocca.

“Non è il mio debito nei confronti di Victoria a spingermi ad agire. Durante il mio anno di prigionia conobbi una ragazza, Marisol. Le promisi che se fossi riuscito a fuggire avrei trovato il modo di portarla con me. Quando Victoria mi propose quel compromesso sapevo che era la mia unica possibilità di andar via, sono stato egoista e l'ho lasciata lì. Mi ripetevo che per loro era importante visto il suo dono, che non l'avrebbero uccisa, ma servì a poco. Tutto questo, naturalmente, soltanto quando riacquistai la lucidità, nei primi mesi della mia nuova vita tutto ciò a cui riuscivo a pensare era il sangue. Loro mi hanno chiesto di tenere d'occhio Victoria, affinché non ti uccidesse, era chiaro il suo odio nei tuoi confronti; in cambio mi avrebbero dato qualcosa che desideravo. Ho chiesto lei. Ho chiesto che la salvassero. E l'hanno fatto. Qualche giorno fa, prima dello scontro, sono fuggito perché non intendevo partecipare. Li ho cercati affinché mi portassero da Marisol. Ma mi hanno giocato. La tua vita in cambio della sua. E' questo il motivo. Perciò mi dispiace, non avrei voluto ma devo...”.

Sospirai, chiusi gli occhi, lasciandomi cullare dal rapido sollevarsi e abbassarsi delle sue spalle dovuto alla corsa, consapevole che, qualsiasi cosa avessi detto, non lo avrebbe dissuaso.

“Parlami di Marisol”, gli chiesi.

Nonostante non potessi vederlo, e non perché avessi ancora gli occhi chiusi ma per via della grande macchia scura che aveva definitivamente adombrato il mio campo visivo, seppi che stava sorridendo.

“Ha lunghi capelli scuri, la sua pelle ha il colore della schiuma di caffè, i suoi occhi sono verdi, quasi grigi ed è la persona migliore che io abbia mai conosciuto”.

Portai due dita al polso per auscultare il mio battito cardiaco(a fatica, considerando i lacci che mi stringevano i polsi), meravigliandomi di quanto fosse lento e debole. Sollevai il capo dalla sua spalla.

“Per questo sono certo che mi perdonerà per averla abbandonata”.

Avrei voluto poterlo vedere, per verificare se l'incertezza nella sua voce fosse soltanto una mia illusione.

Decisi di giocare il tutto per tutto.

“Sei certo che perdonerà anche il male che hai fatto? A me, a John, a tutte le persone rinchiuse al buio in quel seminterrato... in quel letamaio”.

“Lo farà...”.

“E se non lo facesse...”, insistetti, a mio rischio e pericolo.

“Smettila”, urlò, scaraventandomi contro qualcosa di duro, probabilmente un tronco d'albero. Il colpo mi tolse il respiro e se non fossi stata asciugata di tutte le lacrime, se non fossi stata così stanca, allora avrei pianto.

“Sta zitta”, urlò.

“Non ti accetterà. Se lei è buona non può tollerare il mostro che sei diventato, così simile a quelli che l'hanno rinchiusa e seviziata...”.

Se avessi potuto vederlo, se avessi potuto vedere la rabbia dipinta sul suo viso, la potenza irradiata dai suoi muscoli contratti, il dolore nei suoi occhi vermigli, non avrei trovato il coraggio di parlare in modo così schietto. Perché sapevo che mi avrebbe uccisa e a questo miravo. Non gli avrei permesso di consegnarmi ai miei aguzzini e con me il mio dono. Ero fin troppo consapevole della sua potenza distruttiva.

La morte che cercavo non tardò ad arrivare.

Le sue mani si avvolsero intorno al mio collo.

“Zitta”, ripeteva, “sta zitta”.

Poi, il palmo della sua mano si abbatté contro la mia guancia

Fu allora che il mio cuore smise da battere.

 

…....................................

 

“Scusami. Mi dispiace”.

“Non mi perdonerà. Scusami”.

“Io... non volevo. Non sono così, non mi perdonerà”.

“Mi dispiace”.

Il giorno in cui mia madre ebbe il suo primo attacco di panico, mi ero da poco avvicinata alla lettura dei classici, portavo sempre con me un'edizione tascabile di Romeo e Giulietta. Ricordo che quel giorno di febbraio lessi per la prima volta l'espressione “morte apparente”.

Da bambini si hanno certezze incrollabili: studiare, giocare, avere rispetto degli adulti, degli insegnanti, babbo natale, la morte persino.

Quindi, l'idea che quest'ultima potesse essere reversibile, che esistesse un modo per arrestare il cuore, tutum tutum, il respiro, che si potesse smettere di pensare, di vedere, di parlare, come nel sonno, e poi risvegliarsi(scherzavo, sono viva) mi era parso alquanto improbabile. E, mentre leggevo di Giulietta e della sua tragedia, non potevo smettere di pensare a cosa avesse provato quella notte e al suo risveglio, prima di scorgere il volto dell'amato morto. Se fosse stato certa di risvegliarsi.

Una volta cresciuta avevo conosciuto un genere di “morte apparente”, il vampirismo, di cui non avevo mai dubitato, probabilmente per via dell'evidente differenza che intercorreva tra Edward è il resto del genere umano.

Paradossalmente, la “morte apparente” salva le vite, come sarebbe accaduto a Giulietta e come era stato per i Cullen.

Privata del respiro, il cuore fermo, gli occhi ciechi, mi scoprì a sperare che la “morte apparente” mi salvasse.

“Scusami. Mi dispiace. Mio Dio”, Michael, in preda alla disperazione, continuava a ripetere la sua sequela di scuse.

Avevo intuito che la temperatura della mia pelle si fosse abbassata perché non percepivo alcuna differenza tra le nostre epidermidi. E benché potessi avvertire il tocco delle sue mani, non riuscivo a muovere un muscolo, come fossi una bambola di plastica inanimata ma cosciente.

Credeva fossi morta e forse lo ero... Ma se tutto fosse andato come speravo mi avrebbe abbandonata da qualche parte, dovunque ci trovassimo e quando, e se, mi fossi ripresa, sarei ritornata dalla mia famiglia. A quel punto, anche i miei aguzzini avrebbero creduto che fossi morta e avrebbero smesso di cercarmi.

Incrociai le dita, nella mia immaginazione naturalmente.

“Scusami”, ripeté.

Mi sollevò tra le braccia e riprese a correre. E se mi avesse gettata in mare?

Mi depositò su un terreno asciutto e si allontanò. Udì strani rumori e combattei contro le mie stesse palpebre, affinché si aprissero e potessi dare uno sguardo. Fu inutile.

Sembrava stesse... grattando il terreno.

Quando mi risollevò nuovamente tra le braccia e mi sciolse i lacci che mi serravano i polsi, pensai che sarei esplosa come era accaduto a casa Delgado, ma non avvenne. Inizialmente, non badai alla strana consistenza delle sue mani.

Mi abbandonò dolcemente sul terreno, che mi risultò leggermente più umido e molto più morbido. Mi accorsi di poter muovere le dita, così tastai con cautela ciò che mi circondava.

Terra.

Quando una cascata di terriccio mi sfiorò la pelle del viso e del collo, allora compresi: mi stava seppellendo.

Inizia ad urlare. Urlai a squarciagola... nella mia testa.

Le mie labbra non si socchiusero, le mie corde vocali non vibrarono.

E continuarono a non farlo, anche quando la terra iniziò a pesare sul mio corpo come un macigno, umidiccia. Anche quando qualcosa di viscido strisciò tra le mie gambe, insinuandosi tra le pieghe dei miei abiti.

Se avessi ripreso a respirare, sarei morta nell'arco di trenta secondi. Ma se non avessi richiamato la sua attenzione...

Oddio.

Poi le sue mani cessarono di aggiungere terra alla mia tomba, smisi di urlare e capì di essere rimasta sola.

Attesi un tempo che mi parve eterno, nella mia condizione di morte apparente, finché i miei muscoli non iniziarono nuovamente a rispondere ai miei comandi.

Riacquistai sensibilità nelle braccia prima che nella gambe, ma le trovai bloccate. Tentai con tutta la forza di smuoverle e man mano che riacquistavo il controllo e la sensibilità iniziavo ad avvertire il dolore e la pesantezza della mia condizione.

Ignorai qualsiasi cosa non fosse la terra sotto le mie dita e scavai, ma non impiegai più di qualche secondo prima di capire che tentare di ritornare in superficie sarebbe stato pressoché impossibile.

Mi dibattei, cercai il fuoco nel mio corpo, ma sembrava non esserne rimasta traccia.

Ero in trappola. Ero morta.

Lo capì non appena il mio cuore riprese a battere e il respirò tornò necessario. Serrai le labbra. Non avrei resistito a lungo, complice la terra che penetrava nelle vie respiratorie dal naso. Piansi, perché il pianto, le lacrime, erano l'unica rimastami.

Continuai a dibattermi: se anche avessi dovuto morire lo avrei fatto lottando.

A un certo punto trattenere il respiro divenne impossibile, quindi mi preparai a respirare... e a morire.

Pensai a quanto avevo lasciato in sospeso: la promessa fatta a Tanya, la mia vita con Edward, i miei studi e non ultimo, scoprire chi o cosa mi stesse cercando e il perché.

 

Quel giorno, riuscì finalmente a capire Giulietta, cosa avesse provato e pensato nei secondi intercorsi tra il suo risveglio e la vista del corpo senza vita di Romeo.

Meraviglia: perché a dispetto di quel che aveva creduto era ancora viva.

Sollievo: perché la morte apparente era stata tale, apparente.

Gratitudine: perché poteva respirare e perché ad attenderla l'aspettava una vita lunga e felice.

Meraviglia, sollievo e gratitudine fu ciò che provai quando mani sconosciute tolsero ogni grammo di terra che era stato precedentemente versato sul mio corpo.

Braccia mi sollevarono con estrema delicatezza dal mio giaciglio di morte e le stesse mani che avevano scavato alla mia ricerca tolsero gli ultimi residui di terra dal mio volto, dai miei occhi che spalancai tossendo, senza tuttavia riuscire a vedere.

Avevo recuperato la sensibilità agli arti ma non la vista.

“Respira”, mi incitò, “respira”.

E io respirai, ma non morì.

Mi accorsi di stare ancora piangendo quando le sue mani asciugarono le lacrime dalle miei guance sporche.

“Andrà tutto bene. Sei salva. Andrà tutto bene”, sussurrò, dondolando le braccia come stesse cullando un neonato.

Gli credetti.

Mi lasciai scivolare contro la sua spalla, rantolando come se persino respirare mi costasse fatica.

Non avrei dovuto perdere conoscenza: perché mi affidavo ad uno sconosciuto che avrebbe potuto fare di me qualsiasi cosa, perché Edward mi stava cercando e se non mi avesse trovato sarebbe impazzito, perché...

Non ricordavo gli altri validi motivi per cui non avrei dovuto perdere conoscenza.

Mi lasciai cullare, non tanto dalle sue braccia quanto dal battito del mio cuore e dalla certezza che dopo avermi salvato sarebbe stato controproducente uccidermi, e persi i sensi.

 

…......................................

 

Quando mi fui risvegliata, complice il bel sogno, faticai a ricordare cosa fosse accaduto. Qualcuno stava sfregando un panno bagnato contro la pelle del mio viso, del collo, della clavicola e giù lungo il braccio. Afferrai il polso cui apparteneva quella mano dal tocco leggero.

“Sei sveglia”, constatò.

La voce narra di una persona, racconta una storia.

La sua voce era tutt'altro che rassicurante, ma toccò corde profonde nel mio cuore, vi impresse un marchio che bruciava come il ghiaccio secco. Non riuscì a temerlo, nonostante fosse a tutti gli effetti uno sconosciuto e nonostante la mia mancanza che mi rendeva vulnerabile. Desiderai fortemente poterlo guardare in viso. Gli permisi di continuare ciò che stava facendo, di ripulire lo sporco dal mio corpo metaforicamente e non. Oppormi a quel punto sarebbe stato sciocco.

Mi raggomitolai sul lenzuolo fresco in cui mi aveva avvolta, ma che non riusciva ad ammorbidire il terreno duro che premeva sul mio fianco dolorante.

“Dove siamo?”, gli chiesi, stupendomi di quanto fosse roca la mia voce.

“Siamo in una grotta ai piedi della montagna. Il mio rifugio...”.

“Quanto tempo ho dormito?”.

“Il resto del pomeriggio e per tutta la notte. E' quasi l'alba”.

Mi sollevai di scatto, ma per via del dolore muscolare diffuso e del capogiro che mi colse dovetti appoggiarmi alla parete alle mie spalle.

“Non fare movimenti bruschi, sei sopravvissuta ad un'esperienza piuttosto spossante”, mi disse e la sottile ironia che trapelava dalla sua voce, anziché irritarmi come avrebbe dovuto, accelerò i battiti del mio cuore vivo.

Nonostante avessi eliminato il termine “impossibile” del mio vocabolario, continuavo a stupirmi dell'assenza di logica in ciò che mi accadeva.

Il mio cuore si era fermato, per la miseria. Aveva smesso di pompare sangue e ossigeno ai tessuti, il ché, da solo, sarebbe bastato a uccidere chiunque. Ma non me.

Strinsi la maglia a livello del petto, godendo di ogni respiro.

“Non sono i miei vestiti”, constatai irrigidendomi.

“Ho dovuto medicare un bel po' di ferite e ho preferito metterti qualcosa di mio. Non penso tu voglia sapere cosa c'era nei vestiti che indossavi...”.

Rabbrividì al ricordo di qualcosa di viscido che strisciava sulla mia pelle.

“No, infatti”.

“Non mi urli contro che ho osato spogliarti e poi io ti dico che sei un'ingrata perché ti ho salvato la vita... eccetera eccetera”, blaterò.

“No... non penso di essere stata un gran bello spettacolo in queste condizioni”, sorrisi, cercando una posizione più comoda contro la parete dura.

“No, infatti”, ripeté le mie stesse parole, “lo spettacolo non è stato bello, oserei definirlo... catartico”, sospirò.

Avvampai.

“Sei pazzo”, sussurrai sorridendo.

Per pochi secondi, al suono della sua risata, dimenticai quell'orribile giornata. Dimenticai la mia “morte apparente” che aveva rischiato di divenire reale. Dimenticai la mia famiglia che in preda all'angoscia mi stava cercando. Dimenticai Edward...

“Devo andare”, rantolai, provando nuovamente ad alzarmi.

Le sue mani mi trattennero senza troppo sforzo.

“Non sei in grado di muoverti. Ammesso che riuscissi ad alzarti non faresti più di un passo”.

“Lasciami”, ringhiai, “Devo andare. Mi sta cercando”.

Spalancai le palpebre, chiuse fino ad allora, convinta di riuscire a vederlo. Ad attendermi il buio, ma qualcosa mi diceva che fossi di fronte al suo viso.

Lo sentì trattenere il respiro e colsi l'occasione per sfuggirgli.

Mi sollevai a fatica, lasciandomi guidare dalle mie dita che correvano sulla nuda roccia. Azzardai un paio di passi, prima di crollare. Le ginocchia si piegarono, quasi non sopportassero il peso del mio corpo, ma due braccia ormai familiari mi afferrarono prima che potessi ruzzolare a terra. Mi adagiò nuovamente sul lenzuolo fresco e non trovai la forza di opporre resistenza.

“Devo andare. Devo andare via”, rantolai. “Devi lasciarmi andare”, protestai.

“Due”, mi disse, senza degnarmi di una risposta.

“Due cosa?”, gli chiesi.

“Hai fatto due passi anziché uno. Giusto per smentirmi, vero?”, mi chiese, la sua voce tagliata dalla solito ironia.

Scossi il capo e un nuovo capogiro mi costrinse a poggiare la testa sul tessuto che sapeva di pulito.

“Devo tornare da lui”, mormorai.

 

“Dormi?”, mi chiese dopo un po'.

In realtà avevo richiuso gli occhi, nella speranza che il continuo martellare alle tempie cessasse, ma non avevo ripreso sonno.

Non potevo addormentarmi, dovevo tornare da Edward.

“No”, risposi.

“Chi è Edawrd?”, mi chiese di punto in bianco.

Aggrottai le sopracciglia voltandomi in direzione della sua voce; che mi avesse letto nel pensiero?

“Come sai...?”.

“Mentre dormivi hai ripetuto il suo nome almeno un centinaio di volte”.

Arrossì.

“Cosa te ne importa?”, gli chiesi bruscamente.

“Non molto, in realtà. Ma conoscevo un ragazzo di nome Edward...”.

“E' da lui che devo tornare”, sussurrai, senza sapere perché glielo stessi confidando.

“Non voglio rischiare di muoverti per il momento, ma ti porterò da lui, promesso”.

Le sue dita cercarono la mia mano, strinse il mignolo intorno al mio.

“Promesso”, ripetei.

 

“Non riesci a vedermi, non è vero?”, mi chiesi, quando furono trascorsi pochi altri minuti.

“No”, risposi e aprì gli occhi che avevo chiuso fingendo di essere io l'artefice del buio che mi circondava e che potessi controllarlo, non subirlo.

“Da quanto tempo non...?”.

“Da ieri”, risposi e calò il silenzio.

Mugugnò qualcosa ma non riuscì a comprenderlo.

“Dimmi cosa sei e io ti dirò cosa mi è successo”.

“Cosa sono...”, iniziò, “è una domanda un po' complessa. Difficile dare una risposta. Cosa siamo? Semplici casualità? Il frutto di una mente superiore e un po' perversa?”.

“Hai capito cosa intendo”.

“Cosa pensi che io sia?”, mi chiese.

Mi sollevai, appoggiandomi sulle ginocchia e avvicinai le mie mani al suo corpo. Incontrai la pelle del suo collo, era fredda.

“Che fai?”, mi chiese irrigidendosi.

“Tento di rispondere alla tua domanda”.

“Sei freddo”, constatai.

Sfiorai i contorni del suo viso, il mento tondo, la mascella leggermente squadrata ma un po' morbida, seguì le curve delle sue labbra a cuore. Sollevai un angolo della sua bocca, toccai con cautela i canini, trovandoli più appuntiti del normale. Risalì lungo la fossetta che divideva la sua bocca dalla punta del suo naso, dritto ma con una leggera gobba all'apice. Tracciai il contorno dei suoi occhi e delle sopracciglia non troppo folte. Mi sorpresi a pensare che lo sconosciuto era bello.

Se avessi potuto vedere i suoi occhi ne avrei avuto la certezza, ma mi sentì di confermarlo: “Sei un vampiro. D'altronde, nessun essere umano avrebbe potuto sentirmi muovere sottoterra se non uno di voi”.

Quando scostai le mani dal suo volto riprese a respirare. Forse, la mia vicinanza lo infastidiva per via del sangue.

Non smentì e non confermò le mie parole. Afferrò le mie mani e le racchiuse nelle sue. Pur non vedendolo, intuì che si fosse avvicinato, per via del suo respiro che solleticava la pelle del mio viso.

“Come ti chiami?”, gli chiesi, occupando la mia posizione iniziale. Mi lasciò andare.

“Anche questa è una domanda complessa?”, chiesi, poiché non accennava a voler rispondere.

“Kristopher. Mi chiamo Kristopher”.

“Ok. Grazie, Kristopher, per avermi salvato la vita e per... i vestiti e il resto”.

“E' stato un piacere”, mi rispose.

“Ti ho detto il mio nome, adesso tocca a te parlare”.

Mi strinsi le ginocchia al petto, vi adagiai il mento, tentando di fare mente locale e capire cosa potessi dirgli e cosa, invece, dovessi omettere.

“Riassuntivamente, diciamo che vampiri molto cattivi mi cercano, ma preferiscono rimanere nell'ombra, perciò hanno incaricato altri di portare a termine il lavoro. Il vampiro che mi ha sepolta è uno di questi. L'ho provocato nella speranza che mi liberasse, ha perso il controllo e mi ha picchiata violentemente. Pensava fossi morta...”, conclusi.

“Un vampiro non commetterebbe mai un simile errore. Sarebbe bastato il battito del tuo cuore... se intendi mentirmi, risparmiatelo”.

“Cosa? E' la verità, è ciò che è successo?”.

“E' perché diavolo non ti saresti opposta mentre ti seppelliva sotto un metro di terra?”, replicò.

“Perché non potevo... Le mie braccia, le mie mani... nessun muscolo del mio corpo riusciva a muoversi o anche solo a contrarsi. Ho perso il respiro e il mio cuore ha cessato di battere. E' stato come se fossi morta realmente ma ero cosciente. Ho ripreso a respirare pochi secondi prima che arrivassi. Soltanto la vista non sembra... intenzionata a ritornare”.

“E' la prima volta che si verifica un episodio del genere?”.

Mi aspettavo che rimasse sorpreso o scioccato. Sembrava soltanto curioso.

“Sì... a parte la cecità. Mi è già accaduto di perdere la vista”.

Nessuno dei due parlò più per diversi altri minuti.

 

“Tu... hai visto dove può essere andato, il vampiro che mi ha...?”.

“Ho percepito il suo odore, ma non ho seguito la sua scia. Può aver imboccato qualsiasi sentiero per quel che ne so”.

“Perché ti cercano? Come sai dei vampiri?”.

“Alla prima domanda non so risponde, alla seconda non posso rispondere”, risposi.

“Hai detto che questo è il tuo rifugio. Di solito, chi si nasconde lo fa per fuggire da qualcosa. Tu da cosa scappi?”, continuai.

“Dai pochi risposte e fai molte domande”.

Arrossì violentemente.

“Ma io ho detto che non posso rispondere, non che non voglio farlo”.

“Vorresti farmi credere che ti fidi di me?”.

“Non del tutto, ma d'altronde non so neanche che faccia tu abbia. E poi, io ti ho raccontato un po' della mia storia”.

“Ognuno ha dei nemici. Tu fuggi dai tuoi, io fuggo dai miei”, mi rispose.

“Ho deciso di smettere di fuggire. Ho intenzione di affrontarli, i miei nemici. Scoprirò chi mi cerca, perché e agirò di conseguenza. Non ho intenzione di continuare a guardarmi le spalle, in attesa che facciano del male a me o alle persone che amo. Attualmente costituisco un pericolo per loro e finché non sarò venuta a capo di questa situazione, non sarò libera di vivere la mia vita. Non intendo vestire a lungo i panni della vittima, voglio costituire una minaccia”.

“A volte, la scelta più saggia per proteggere chi si ama è non combattere, fuggire”, replicò.

“Forse. O forse è soltanto una comoda scusa. Perché lottare per la propria vita e per la propria libertà non è mai la scelta più facile. E in ogni caso, ho capito che la fuga non è mai una soluzione definitiva. Prima o poi anche il rifugio più sicuro diventa pericoloso”.

Pensavo che vivendo in una casa con ben otto vampiri sarei stata al sicuro...

“Decidere di sfidare nemici alla propria portata è coraggioso, ma ingaggiare uno scontro con nemici al di là delle proprie possibilità è stupido”.

“Non mi importa che sia stupido o coraggioso. Hanno tentato di fare del male alle uniche persone che non avrebbero mai dovuto toccare. Sono stata attaccata, rinchiusa, sepolta viva e quasi uccisa... per... chissà quale gioco di potere, di cui non intendo essere una pedina. Perciò non fuggirò, Kristopher. E poi, ho una promessa da mantenere, che non potrò certo rispettare se rimango nascosta”.

Non aggiunse altro.

“Hai promesso... che mi avresti aiutata a tornare dalla mia famiglia. Lo farai?”.

“Non ora”.

“Io devo andare ora”, scandì ogni parola.

“Hai tre costole rotte, un polso slogato e una lunga ferita sull'addome che ho dovuto ricucire con dieci punti di sutura”.

“Come?...”. Tastai ripetutamente nel punto da lui indicatomi e percepì un leggero avvallamento, una serie di punti di sutura disegnava una linea frastagliata dall'ombelico alla base del seno.

“Probabilmente è la morfina o i tuoi muscoli non hanno ripreso del tutto sensibilità. Ma tra poco l'effetto svanirà, dovresti già sentire i punti tirare e bruciare”.

Non appena ebbe concluso la frase un dolore lancinante deformò l'espressione del mio viso.

“Se ti sposto, se corro o anche solo cammino si riaprirà”.

“A casa sapranno aiutarmi. Ma devi riportarmi dalla mia famiglia. Sono io stessa a chiedertelo e sono cosciente delle conseguenze, del dolore. Non mi importa”.

“Sei testarda come un mulo. Poi non dire che non ti avevo avvisata”.

Annuì.

“Reggiti. Farà male”.

Kristopher mi sollevò con estrema delicatezza da terra. Il mio cuore batté rapidamente quando la sua mano mi circondò il fianco. Gli strinsi le braccia intorno al collo. Rantolai ma strinsi i denti. Lo sentì muovere qualche passo e fissarmi, per verificare la mia reazione. Ignorai il dolore e non emisi alcun suono, osservando il nero prodotto dai miei stessi occhi.

Sopirò e riprese a camminare.

Testarda”, mormorò e riuscì persino a strapparmi un sorriso.

 

Capì che eravamo all'esterno e non più nella grotta ai piedi della montagna in cui Kristopher si rifugiava per via del sole chi mi scaldò la pelle del viso, alleviando solo in parte il dolore. Respirare mi risultava difficile, per via delle costole rotte. Sperai non ci fossero frammenti ossei o avrei rischiato di perforare un polmone.

“Sei innamorata di lui, di Edward?”, mi chiese a brucia pelo.

“Lo amo più della mia vita stessa”, risposi senza esitazione.

“Capisco”.

“Dove vado?”, mi chiese.

Sussurrai l'indirizzo di villa Cullen.

 

Fu l'amore per Edward a impedirmi di urlare quando i punti iniziarono a cedere e la ferita a sanguinare, quando il dolore alle costole mi mozzò il respiro.

Kristopher si fermò.

“Non. Fermarti”, rantolai.

“Sei pazza, stai sanguinando. Morirai prima di arrivare da lui”, urlò.

“Allora morirò. Ma se io fossi al suo posto starei impazzendo e conoscendolo sono certa che farà qualche stupidaggine. Mi auguro soltanto che gli altri glielo impediscano fin quando non sarò arrivata. Perciò. Non. Fermarti”.

Kristopher riprese a camminare. Strinsi la presa intorno al suo collo e sulla sua maglia. Perché stringere sembrava potesse aiutarmi.

“Parlami. Dimmi qualcosa”.

“Cosa? Che il corpo umano contiene all'incirca 5-6 litri di sangue e a te ne rimangono quattro e mezzo?”.

“Dove hai imparato a suturare?”, gli chiesi.

“Grey's Antomy”, rispose.

“Cosa? Tu mi avresti... ricucito senza avere alcuna esperienza se non qualche puntata di un telefilm?”, gracchiai. Avrei voluto urlare ma da qualche ora a quella parte mi riusciva soltanto di sussurrare.

“L'ho guardato fino all'undicesima stagione”, mi apostrofò e avrei giurato che stesse aggrottando le sopracciglia. Pensai che non conoscevo il colore dei suoi capelli.

“Raccontami qualcosa di bello”, lo pregai, le lacrime agli occhi, il labbro inferiore stretto tra i denti.

“Ok. Ti racconto... la storia di un ragazzo molto affascinante, Scott”.

“Scott non è un nome affascinante”, rantolai.

“Giudichi il monaco dall'abito?”, mi chiese, per poi riprendere con il suo racconto.

“Scott amava l'inverno, il freddo penetrante. E amava la sua città, la sua casa, perché lì non era mai estate o primavera o autunno. In realtà, non era mai neppure inverno. Non c'era neve né grandine né pioggia. Soltanto freddo. Un giorno, Scott scoprì che alcune persone cattive non amavano la sua città quanto l'amava lui. Loro avrebbero voluto la primavera, l'estate, l'autunno, la neve, la pioggia. Cercò di dissuaderle, senza riuscirci però fu costretto a lasciare la sua città e fuggire”.

“Non sembra una bella storia”, mormorai, le mie parole a tratti spezzate dal mancato respiro.

“Anche Scott lo pensava. In fondo, aveva lasciato dietro di sé tutto ciò a cui teneva. Un giorno, l'ennesimo troppo caldo e afoso, Scott incontrò una ragazza, affascinante quasi quanto lo era lui”.

“Il suo nome?”, gli chiesi, mordendomi la mano pur di non urlare.

“Brina. Lei si chiamava Brina. Per la prima volta, Scott provò un calore che non lo infastidì. Lei sembrava fatta di fuoco e fiamme e sebbene Scott, che amava il gelo e la neve, temesse di scottarsi, non poté che restarle vicino. Grazie a Brina, Scott scoprì il bello della primavera, dell'estate e dell'autunno insieme e non sentì mai più nostalgia della sua casa”.

Il racconto fu interrotto dal suono agghiacciante di un urlo: il mio. Kristopher si fermò ancora e mi adagiò sulle sue ginocchia, senza smettere di stringermi tra le braccia.

“Ehi. Andrà bene. Andrà tutto bene”, le stesse parole sussurrate dopo avermi disseppellito. Questa volta, però, faticai a credergli.

“Ascoltami”, tentò di attrarre la mia attenzione con qualche colpo sulle guance.

“Resta con me. Ritorna al rifugio con me. Ti guarirò e ti nasconderò. Se torni indietro, loro verranno a cercarti e ti faranno ancora del male. Resta con me... resta con me”. Continuò a ripeterlo come fosse una litania, accarezzandomi il viso. Ma tutto ciò che sentivo era dolore. Quando urlai per la seconda volta, urlai il suo nome.

“Edward”.

“Edward. Edward”, non riuscivo a dire altro, come se il suo nome fosse l'unico suono degno di essere pronunciato in punto di morte. Perché, per l'ennesima volta in poco più di un giorno, rischiavo di morire.

“Ed. Mi sta cercando, il mio Edward mi sta cercando. Portami da lui... da lui”.

“Brina”, lo sentì sussurrare.

Ci risollevammo da terra.

“Ok. Come ti chiami?”.

Non risposi. Non capivo cosa importasse, oramai.

“Come ti chiami”, ripeté.

“Isabella, Bella”, rantolai.

“Bella”, ripeté.

“Ora io ti riporterò dal tuo Edward. Ma devo correre... Capisci quello che sto dicendo?”.

“Se continuo a camminare non arriveremo mai e tu soffrirai inutilmente. Ma se corro non impiegheremo più di cinque, forse sette minuti. Annuisci se hai capito”.

Annuì, mentre Kristopher premeva una mano contro la mia ferita per impedire l'eccessiva fuoriuscita di sangue

“Se io corro, tutti i punti della sutura si sfileranno, l'emorragia peggiorerà e tu sentirai molto, molto dolore. E' questo il prezzo per ritornare dal tuo Edward e tu vuoi farlo. Quindi stringi i denti e respira. Mi hai capito, devi respirare, sempre. Non smettere di respirare. Conta con me”.

“Uno, due, tre”.

Contai e, nonostante tutto il mio corpo andasse a fuoco e fosse dilaniato da dolori lancinanti, a ogni numero feci corrispondere un respiro.

 

“Quattro, cinque, sei, sette, otto”.

“Bene. Bene così, non smettere di contare, Brina”.

“Nove”.

“Dieci”.

Kristopher corse. Corse come, poche ore fa, anch'io avevo fatto.

Corse, nonostante rantolassi e urlassi. Corse, mentre il dolore diventava follia.

 

…...............................................

 

“Trecento, Trecentouno, trecentodue”.

 

…...............................................

 

 

“Cinquecentoquattro, cinquecentocinque...”. Una parte dell'oscurità davanti ai miei occhi fu sostituita da puntini luminosi, così aprì le palpebre e intuì che la vista, piano piano, ritornava.

Era l'alba.

 

…...............................................

 

A cinquecentocinquanta, Kristopher mi comunicò che mancava ancora un minuto. I rami e le foglie riacquistarono colori e contorni, seppur poco nitidi per via della velocità a cui correva.

Smisi di contare. Troppo faticoso.

Quando Kristopher arrestò la sua corsa capì che eravamo giunti a destinazione.

Mi issò maggiormente, avvicinando il mio viso al suo.

“Brina”, mi chiamò.

Poi la sua attenzione fu attratta da rumori che non fui in grado di udire. Non riuscì neppure a voltarmi, per osservare la mia famiglia che immaginavo si fosse precipitata all'esterno dell'abitazione avendo udito Kristopher sopraggiungere a folle velocità dal bosco. Non avevo dubbi che si trovassero in casa. Jasper avrebbe voluto studiare una strategia, prima di attaccare chiunque.

Forzai le palpebre a sollevarsi, come stessi lottando contro la gravità e lo vidi.

Il suo viso.

Quando gli occhi si furono abituati alla luce, impressi a fuoco nella mia memoria i suo tratti, i suoi capelli corti, le sue labbra rosa, i suoi occhi che avevo sperato mi rivelassero la sua natura e che, in effetti, rendevano lampante la sua bontà d'animo: azzurri, quasi bianchi, con pennellate di colore, il verde e il porpora.

“Edward”, balbettò.

“Ian”, a rispondere una voce che avrei riconosciuto tra mille.

Kristopher chinò lo sguardo incredulo sul mio viso e mi guardò come mi vedesse per la prima volta. Gli sentì pronunciare il mio nome con dolorosa consapevolezza.

Poi, persi i sensi.

 

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Capitolo 14
*** 13) Isa ***


Buonasera!! Vi chiedo infinitamente scusa per il ritardo, ma ho avuto una marea di impegni che non vi sto a raccontare e ho avuto poco tempo da dedicare alla scrittura. Per quanto riguarda lo scorso capitolo, vorrei soltanto chiarire quello che è accaduto con Michael.... lui riesce a concretizzare i desideri altrui e quanto sfodera tutto il suo potere riesce a incantare, accecare persino. Per il resto, perdonerete la mia cattiveria, il mio sadismo ecc... ma abbiate fiducia, la nostra Bella è forte. Per quanto riguarda qusto cap vi chiedo soltanto una cosa amate Ian quanto lo amo io... lo adoro, vi giuro. E il banner qua sotto(ditemi se vi piace... è la prima volta che ne faccio io) vi dà un'idea di come ho immaginato il suo volto... per chi ha visto prison break può capir eil mio amore incondizionato per questo personaggio. Scusate gli errori ma vado di fretta... spero che vi piaccia e niente fatevi sentire... vorrei davvero ch emi diceste i vostri pareri. So che è estate è vi scocciate, ma fatelo per me... Grazie in anticipo e come smepre grazie a chi ha recensito lo scorso capitolo. Vi adoro!!



13) Isa

 

Fu l'odore della pioggia a risvegliarmi: odore di asfalto e terra bagnata.

La pioggia battente, la più tipica dei temporali estivi, avrebbe potuto cullarmi in un sonno profondo quanto il precedente, non fosse stato per il tuono che, puntualmente, mi riscuoteva dal mio dormiveglia. La mia camera giaceva nell'oscurità; mi permisi uno sguardo all'esterno dalla finestra socchiusa, il cielo era plumbeo, di un grigio carico e pesante.

Il mio primo pensiero fu che in Irlanda, ogni mattino, i gabbiani garrivano stridulamente sullo sfondo di un cielo molto simile, promettente pioggia...

Mi rannicchiai su me stessa, accolta dal tepore delle coperte.

Sembrava inverno.

Quel pensiero mi riportò alla mente una strana conversazione, avuta fra dolori atroci e lancinanti, in una sorta di annebbiamento perenne.

Scott amava l'inverno, il freddo penetrante. E amava la sua città, la sua casa, perché lì non era mai estate o primavera o autunno. In realtà, non era mai neppure inverno. Non c'era neve né grandine né pioggia. Soltanto freddo”.

Ero pienamente consapevole di ogni singolo dettaglio, di ogni lacrima, di ogni pugno o calcio dato e ricevuto, di ogni granello di terra che mi ostruiva le vie respiratorie, dell'immobilità del mio corpo all'interno del quale mi ero sentita prigioniera...

Eppure, mi aspettavo che la mia mente rimuovesse le immagini e le sensazioni se non altro per i pochi minuti seguiti al mio risveglio. Invece ero lucida. Dolorosamente lucida. Tastai il mio fianco e percorsi la lunghezza del mio busto con i polpastrelli tremolanti, in cerca di una ferita che non c'era. Il ricordo dei punti che saltavano, del sangue grondante, invece, era ancora lì.

Mi sollevai a fatica, più stanca che dolorante, mi trascinai di fronte allo specchio, sollevando la sottile maglia del pigiama per verificare ciò che avevo potuto constatare al tatto. Il mio addome non era segnato, non era rimasta neppure l'ombra della ferita che mi aveva fatto penare tanto, la mia pelle era morbida e liscia, né delle costole rotte, degli ematomi... Ancora una volta ciò che mi accadeva non aveva alcun senso logico. Afferrai qualcosa dall'armadio, un paio di pantaloni neri e una leggera maglia bordò. Sarebbero dovute trascorrere settimane prima che riuscissi a riprendermi, se fossi stata un comune essere umano. Quel pensiero mi spinse a domandarmi per quanto tempo avessi dormito. Cos'era accaduto nel frattempo? Perché ero sola?

Era piuttosto strato che Edward non si fosse fatto trovare al mio capezzale e perché, avendo percepito che ero sveglia, nessuno era ancora salito a darmi un'occhiata?

Lo squillo del telefono mi portò ad accantonare quei pensieri.

La voce di Ed, (Ed Sheeran) che cantava Tenerife sea, accompagnò i pochi istanti che impiegai a racimolare il coraggio necessario per affrontare Enrique.

“Pronto”, risposi, accostandomi alla finestra socchiusa e scostando la tenda per poter osservare il cadere pesante della pioggia, la luce dei fulmini che anticipava il frastuono. Da bambina, avevo il terrore dei tuoni. A Phoenix pioveva raramente. E ancor più raramente si verificavano temporali degni di tuoni e fulmini. Soltanto a Forks, in quelle estati piovose trascorse con mio padre, avevo visto veri e propri temporali. Avevo imparato presto che a quella rapida luce nel cielo, seguiva il brutto frastuono, così, a ogni temporale, mi sedevo alla finestra in attesa della luce per potermi tappare le orecchie o nascondere tra le braccia di Charlie. Pensavo che la luce fosse buona, perché avvertiva tutti i bambini che, come me, avevano paura, dell'imminente rumore e nonostante crescendo avessi appreso la differenza tra tuono e fulmine, scoprendo che quest'ultimo arrivava prima perché la velocità della luce è superiore a quella del suono, non aveva perso la sua magia.

“Bella”, la voce di Enrique mi giunse sottile, stanca e inquieta.

“Ciao”, lo salutai.

Ero impietrita dal terrore. Se avesse scoperto che ero stata in casa loro... magari qualche telecamera mi avrebbe smascherato. Non ero stata in grado di salvare suo padre, in più avevo causato l'incendio alla villa, come sarei riuscita a spiegarlo...

“Mio padre... mio padre è morto. Si è suicidato gettandosi da una finestra dell'ultimo piano e in casa è scoppiato un incendio, a quanto pare doloso. Ines, la nostra domestica, dice di non aver visto niente e tutte le telecamere sono andate distrutte”.

Avrei giurato che in quel momento si fosse appoggiato da qualche parte, magari all'angolo di un muro, e che avesse chiuso gli occhi, sfregando indice e pollice alla base del naso.

Deglutì, il volto illuminato da una luce abbagliante.

“Mi dispiace”, non fu difficile pronunciare quelle parole, perché erano vere. Di molte cose mi rammaricavo.

“Sono una persona orribile”, mi disse.

“Decisamente orribile non è un aggettivo che userei per descriverti”.

Il silenzio intorno a me iniziò a pesarmi.

“Io sono... sollevato. Capisci? Sollevato perché lui è morto, perché non dovrò rivederlo... perché è finita. Sollevato che quella casa sia andata distrutta. E' bruciato tutto, o quasi, il giardino è rimasto intatto. E' riuscito a distruggere qualsiasi cosa, persino se stesso, ma non mia madre”.

Pensai ai roseti.

“Questo non ti rende orribile. Ti rende umano”.

Umano... un termine che mi era a lungo pesato quando l'unica cosa che desideravo era diventare come Edward per potergli stare accanto, ma adesso che non avevo più una razza di appartenenza, perché era ovvio che non fossi umana, desiderai potermi definire ancora tale.

“Ascoltami, Enrique. Io... non credo ci rivedremo”, sebbene io stessa non comprendessi l'origine della ma frase, ebbi la certezza della sua veridicità nel momento in cui pronunciai quelle parole, “ho delle... questioni da risolvere”.

“Tu lo sai che ti amo”, proruppe, per un attimo sembrò essersi rianimato poi la spossatezza lo travolse ancora.

“Ho bisogno che tu faccia qualcosa per me. Vivi la tua vita. Io voglio che tu capisca chi vuoi essere, cosa vuoi fare di te stesso e lo faccia. Voglio che ti lasci alle spalle il tuo nome, tuo padre, il dolore. Perché non sei orribile, sei migliore di me. E devi uscire con quella ragazza e con molte altre, fin quando non troverai la donna per te. Voglio che tu abbia dei bambini, se li desideri. Vivi, ok? Un giorno ci rivedremo”.

“Bella”, mi richiamò, “cosa...?”.

“Io starò bene”, lo rassicurai, “ma devo sistemare la mia vita, capire chi sono, devo affrontare i miei demoni”, nel senso più letterale del termine, “ma non smetterò di studiare, né di amare, né di vivere. Questa è la mia promessa: starò bene. E la manterrò come tu manterrai la tua”.

“Promesso”, mi disse.

“Promesso”, ribadì.

Poi, chiusi la comunicazione.

Scrutai il mio viso riflesso nel vetro; non una lacrima, forse le avevo piante tutte.

Se prima, allo specchio, avevo concentrato l'attenzione sul mio corpo sano, ora mi focalizzai sul mio volto e sui miei occhi. Ero cresciuta, non perché avessi letto qualche segno del tempo che passava. Non ero invecchiata. I tratti del mio viso mi apparivano più decisi e i miei occhi erano screziati di sfumature rossastre, quasi fossero un mosaico, incastonati nei riquadri color nocciola, dei rubini. Per non parlare del fatto che sembrassero più affilati.

Cosa diavolo sono?

 

Un urlo attrasse la mia attenzione, distogliendola dai miei strani occhi, ora sgranati dallo stupore. Mi lasciai alle spalle la pioggia e quella bambina che aveva paura dei tuoni, quell'umana che avrebbe potuto innamorarsi di un ragazzo straordinario come Enrique, decisa a raggiungere la mia famiglia.

Mentre le urla continuavano a riempire malamente la casa, capì perché nessuno, neppure Edward, fosse in stanza con me e perché non avessero badato al fatto che mi fossi risvegliata. Riconoscere le voci che si urlavano contro mi scioccò più di qualsiasi altra cosa fosse successa in quelle ore.

Quando scesi anche l'ultimo gradino, tuttavia, il mio sguardo non fu attratto dalle litiganti, Alice e Rosalie, che avevano d'improvviso smesso di urlare, ma da due occhi davvero belli, freddi come il ghiaccio. Se ne stava posato al tavolo del salotto, sostenendosi con le braccia e, come se il mio sguardo fosse stato una potente calamita, lo trovai a fissarmi a sua volta.

Kristopher. Ian. O qualunque fosse il suo nome. Perché l'ultimo ricordo che avevo, prima di perdere i sensi, era quello del suo viso e di una voce familiare che lo chiamava. Per la prima volta da che lo avevo incontrato potei osservarlo nel complesso e qualcosa, qualcosa di profondo in me, lo riconobbe come familiare. Nel vero senso di appartenente alla mia famiglia. Soltanto dopo pochi secondi da che ci stavamo studiando, collegai che era un vampiro eppure i suoi occhi erano azzurri, verdi, bianchi e a tratti anche rossi. Il mio sguardo si incupì. E alla mia precedente domanda, se ne aggiunse un'altra: “Cosa diavolo sei, tu?”.

Ero quasi certa di averla posta ad alta voce, ma evidentemente mi sbagliavo, perché Edward mi si pose davanti e rivederlo fu per me come assistere a un dolce miracolo. Avevo sconfitto la morte, il dolore, pur di tornare da lui. Mi fiondai tra le sue braccia, saltando l'ostacolo dell'ultimo gradino. Mi lasciai avvolgere dal suo corpo e lo strinsi. Lo strinsi forte fin quando non sentì male alle braccia, lasciando che mi sollevasse per potermi afferrare meglio.

“Vita”, lo sentì sussurrare, prima che mi schioccasse un sonoro bacio sul collo. Sorrisi tra i suoi capelli. Edward mi accarezzò il volto, lo vidi indugiare sui miei occhi, senza balzare o annaspare come poco prima avevo fatto io. I miei occhi, per lui, rimanevano i miei occhi.

“Mi guardi come se avessi visto un fantasma”, lo canzonai, senza che smettesse di adorarmi con le mani.

“Devi darmi atto che non avevi una gran bella cera stamattina”, Ed mi sfiorò il fianco, dove, in teoria, avrebbe dovuto trovarsi la mia ferita.

“E' scomparsa, Edward”.

“Lo so, Carlisle stava per richiuderla e poi... non si è rivelato necessario. In realtà... non mi dispiace affatto”, confessò, posando la fronte contro la mia e lasciandovi un bacio.

“Mi dispiace...”.

“Non c'era niente che potessi fare, non in quelle circostanze. Michael è piuttosto bravo a nascondere le proprie tracce”.

“E come se non bastasse la pioggia ha lavato via il suo odore”, intervenne Jasper.

“Sei stata avventata, avresti dovuto aspettare... Ian mi ha detto ciò che hai fatto per tornare a casa”, sussurrò Edward con tono di rimprovero, ma lessi riconoscenza nel suo viso. “Non potevo non tornare, non potevo. Tornerò sempre da te, tornerò sempre a casa”, sussurrai a mia volta, fronte contro fronte.

Poi, dirottai nuovamente la mia attenzione su di lui, sul vampiro dagli occhi blu.

“Ian?”, gli chiesi, sollevando le sopracciglia.

Kris... Ian sorrise e tutta la sua ironia e sfacciataggine trapelò così come l'avevo immaginata. Non mi urtava come avrebbe dovuto, tuttavia mi faceva desiderare di rispondere nello stesso identico modo.

“Ian Kristopher, è un piacere”, si presentò, chinando leggermente il capo e ruotando l'indice dalla fronte in giù, come stesse togliendosi un immaginario cappello.

“Forse dovrei chiamarti Scott, mi è parso di capire che lo si considera un nome affascinante”, risposi, perché odiavo che mi avesse mentito.

“Mi stai dicendo che sono affascinante”.

Lo guardai in cagnesco.

“Mi stai dicendo che non sono affascinante”.

Prima che potessi pronunciare o anche solo pensare una risposta, mi sentì afferrare e strattonare da gelide mani.

Rosalie mi osservava, un cipiglio sul bel viso di porcellana, uno sguardo folle negli occhi neri come il carbone.

“Dov'è andato. Devi dirmi dove è andato, Bella. Devi...”, Edward al mio fianco ringhiò sommessamente.

“Rose”, disse.

Lei lo ignorò.

“Rosalie”, sussurrai, senza capire cosa stesse accadendo, ignorai il dolore dovuto alla presa ferrea delle sue mani, “di chi parli?”.

“Michael. Devi dirmi dov'è, dove posso trovarlo”.

Pur continuando a non capire, risposi sinceramente. “Non ne ho idea, quando è scomparso mi credeva morta. Io ero... sepolta sotto un metro di terra Rose, non so dove sia andato nel frattempo”, dissi, un velo di rabbia a imporporarmi la voce.

“Cosa ti prende?”, tentai di sottrarmi alla sua presa.

Mi lasciò andare, osservandomi per alcuni istanti, poi agì in maniera del tutto inaspettata. Così inaspettata che neppure Edward o Alice riuscirono a leggere e prevedere le sue azioni. Rosalie mi afferrò, tirandomi a sé. In un primo momento, pensai mi stesse abbracciando. Poi capì. Mi stava minacciando, intendeva portarmi via.

“E te che cerca, se verrai con me prima o poi ti scoverà. Ma tranquilla, non lascerò che ti faccia del male, ho soltanto bisogno che me lo mostri...”.

“Rose”, ringhiò Edward, avanzando di qualche passo vero di noi. Rosalie gli restituì un ruggito altrettanto minaccioso. Per la prima volta da ché li avevo conosciuti, ebbi paura di un membro della famiglia Cullen.

Nessuno si mosse, tutti, in particolar modo Esme e Carlisle, erano rimasti interdetti dalle azioni della loro seconda figlia.

Il mio sguardo corse ad Emmet. Il più nerboruto dei fratelli Cullen sembrava così fragile, così piccolo. Sedeva sul divano, il capo chino, gli avambracci posati sulle cosce, le mani intrecciate l'una all'altra, più bianco del solito e non pronunciava una parola. Non aveva posato gli occhi su Rosalie neppure dopo quella sua ultima uscita.

Avrei potuto liberarmi facilmente dalla sua stretta, ma se avessi dato sfogo al calore del mio corpo l'avrei uccisa. Solo allora Emmet, avvertendo forse il mio sguardo indagarlo, alzò gli occhi e mi pregò. Mi pregò di non farle del male, perché Rosalie era la sua anima e il suo cuore. Eppure, ebbi l'impressione che fosse rimasto, d'improvviso, privato... della sua anima e del suo cuore.

Fu allora che Kristopher si mosse, tanto rapidamente da renderlo invisibile ai miei occhi. Strappò le braccia di Rose dal mio collo e dalle mie spalle, scaraventandola contro la portafinestra che si frantumò in mille schegge di vetro producendo un rumore stridulo simile a quello dei tuoni stessi, ma che non fu anticipato da alcuna luce benevola. Kristopher mi si parò di fronte, emettendo un suono basso, rabbioso, minaccioso, per qualche ragione mi ricordò la gradine quando si abbatte sui tetti delle case. Percepì, più che vedere, il suo scatto in avanti. Ero certa volesse raggiungere Rosalie e supposi inoltre che, se l'avesse fatto, di lei non sarebbero rimaste che briciole.

Afferrai il suo braccio prima che potesse muoversi. Ian si voltò, i suoi occhi erano così azzurri da sembrare bianchi. La preoccupazione in essi scemò, quasi che il mio tocco e la mia vicinanza lo avessero in qualche modo rassicurato. Mi limitai a scuotere il capo, affinché capisse che non doveva farle del male. Edward si parò a sua volta di fronte a Ian e si rivolse a Rosalie, a terra sul balconcino, zuppa di pioggia, circondata da frammenti di vetro che portavano la sua impronta.

“Lili”, le disse, “ricordi cosa mi dicesti... a Rochester? Mi dicesti che preferivi essere morta piuttosto che vivere la vita che ti eri scelta da umana, perché era un'illusione, una menzogna. L'amore di Royce, la tua bellezza... solo apparenze. E questo che vuoi ora?”.

Rose lo fissò, o almeno così mi parve, dato che i suoi occhi si confondevano con l'oscurità della sera. Se non avessi saputo che era impossibile, avrei detto che a scorrerle lungo le guance non fossero gocce di pioggia ma lacrime.

“Sì”, sussurrò.

Poi sparì.

Quella fu l'ultima volta che vidi Rosalie Lilian Hale.

 

Il silenzio calato nella stanza fu interrotto soltanto dal gocciolare della pioggia. Il temporale volgeva al termine, in tempo perché il sole si mostrasse prima di tramontare. Avrei voluto urlare loro di inseguirla e riportarla a casa, perché una piccola parte di me aveva capito cosa fosse successo. Tuttavia, come d'altronde era accaduto al resto dei Cullen, ero incapace di contrarre persino un muscolo. Soltanto i miei occhi si mossero, in cerca del viso di Emmet.

Rosalie l'aveva rubata, la luce nei suoi occhi... l'aveva portata via con sé.

Emmet aveva lasciato che andasse via, senza tentare di opporsi.

Mi chiesi, se fossi stata al suo posto, come avrei agito.

Avrei inseguito Edward, riportandolo a una vita che non desiderava?

Oppure gli avrei permesso di inseguire un'illusione che, tuttavia, lo rendeva felice?

Emmet aveva scelto la seconda opzione.

E io mi sentì divorare dai sensi di colpa. Se non fosse stato per me, Michael non sarebbe mai entrato nelle loro vite ed Emmet non avrebbe mai sofferto tanto.

Quello stesso dolore lacerante che avevo provato per mesi; sapevo che faticava a respirare, che il vuoto stava scavando una profonda voragine nel suo petto e che il senso di inadeguatezza lo avrebbe distrutto. Forse, soltanto il viso contratto di Jasper, ad accurata distanza dal fratello, avrebbe dato agli altri una misura della sofferenza. Io non ne avevo bisogno.

Lo avevo provato sulla mia pelle e ancora non mi capacito di come fossi riuscita a tenere uniti tutti i pezzi di me stessa, nonostante mi sentissi costantemente sul punto di sbriciolarmi.

Fu perché ero memore di quel dolore, dal quale avrei a ogni costo voluto proteggere mio fratello, che trovai la forza per parlare.

“Riportatela... riportatela a casa”, chiesi, implorando Edward con lo sguardo di darmi ascolto.

“Devi... riportarla a casa, dovete farle cambiare idea”.

Edward mi restituì un'occhiata carica di preoccupazione e tristezza. Un'infinita tristezza.

“Edward”, lo implorai ancora, con un soffio di voce.

“No”, fu Emmet a palare. A sussurrare. E per molto tempo non sarebbe stato in grado di fare altro.

“Ha scelto”.

“Scelto?”, gli chiesi, “è stata... abbagliata da qualcosa che non esiste. Emmet...”.

“Ha scelto”, ripeté.

“Sono tre”, dissi.

Emmet alzò lo sguardo sul mio viso. Fu come guardarmi allo specchio.

“Sono tre le fasi che attraverserai e che ti condurranno sul fondo. Rifiuto. Non lo accetterai, non lo capirai e continuerai a sperare di vederla apparire un giorno perché sai che saresti disposto a perdonarla. Rabbia. La odierai, ma con ancora più intensità odierai te stesso per esserti permesso di detestarla. E ti odierai per non averla fermata. Ti odierai perché non sei stato abbastanza per lei, non tanto da trattenerla. Odierai chiunque ti circonda, anche le persone che amavi. Non sopporterai i suoni, le immagini, le parole. Non sopporterai i ricordi, allora dovrai privartene e ti sentirai terribilmente vuoto. Comprensione. Accetterai le sue ragioni, ti getterai addosso tutto il fango, pur di non sporcare il ricordo di lei. Ma comprensione non è rassegnazione. Perché non riuscirai mai più a trovare pace, non riuscirai a vedere i colori e se dovessi un giorno ricominciare a sopportare i suoni, anche le più belle melodie per te saranno rumori. E questo che dovrai affrontare se adesso non alzi il culo e le vai dietro Emmet. Sta sbagliando e quando lo capirà potrebbe essere tardi”.

Mi mancò il respiro. E mi sentì svuotata.

“Sai cosa ha visto, Bells?”, mi chiese.

“Io lo so”, continuò con il sorriso sulle labbra.

“Ha visto una famiglia, dei bambini Una femmina. Lei l'avrebbe voluta, per insegnarle a pettinarsi, a camminare. Ha visto una casa, con un grande giardino sul retro. Ha visto gli anni passare, se stessa invecchiare. Ha sentito il sapore del cibo, il dolore di una ferita, il calore di un neonato stretto al petto. Tutto ciò che io non posso darle e non potrei mai privarla anche solo dell'illusione della sua vita perfetta. Prenderò ciò che verrà. Mi auguro soltanto che nella cornice della sua esistenza impeccabile compaia anch'io, magari come il padre dei suoi figli”.

Detto ciò, Emmet si alzò, mi sfiorò il viso inondato di lacrime e sparì nel bosco per diverse ore.

 

Non appena si fu allontanato, Esme si strinse al braccio di Carlisle, singhiozzando. Il suono di una madre che perde un figlio... o forse due, straziante.

“E' stata una sua scelta. Dobbiamo avere fiducia nei nostri figli; se lo vorrà, tornerà a casa”, le parole di Carlisle ruppero il silenzio.

Alise e Jasper si aggrapparono l'un l'altro. Io mi scostai dalla barriera costituita dalle ampie spalle di Ian e cercai Edward. Mi osservava, una mano stretta a pugno davanti alla bocca, gli occhi sgranati stranamente lucidi, riflesso di un dolore intollerabile.

Arrossì.

Avevo appena descritto nei minimi dettagli tutto ciò che avevo dovuto sopportare in sua assenza e sapevo che ogni parola gli sarebbe rimasta impressa, marchiata a fuoco nei suoi ricordi indelebili.

Tuttavia non riuscì a pentirmene, se non fossi stata sincera fino in fondo, quella rabbia e quel dolore sarebbero pesate per l'eternità sulle mie spalle, magari degenerando, allontanandomi da lui.

Mi affrettai a raggiungerlo, adagiando il suo capo nell'incavo del mio collo. Avrei voluto essere più alta, più grande, per poterlo inglobare interamente nel mio corpo e proteggerlo da ogni dolore. Mi sollevai sulle punte, allontanando la mano che stringeva tra i denti e lasciando che la ancorasse intorno ai miei fianchi. Strinse. Sentì male, ma non gli permisi di allontanarsi fin quando non lo percepì più calmo contro il mio corpo.

Ignara di chi ci osservava e soffriva.

 

 

“Insisto che tu rimanga con noi”, Esme strinse le mani di Ian tra le sue, riservandogli il suo sguardo incomparabilmente dolce. Irresistibile.

Per un istante, sembrò perdere la sua sfacciataggine.

“Mi piacerebbe accettare, sul serio. Però, ho delle cose da fare a casa, dar da mangiare al gatto, raccogliere i panni...”, disse, sottraendosi alla presa di Esme.

Per un istante, appunto.

“Pensavo che l'umidità delle grotte non fosse adatta per asciugare i panni”, gli dissi sorridendo con cattiveria.

“Mi riferivo all'appartamento in centro”, replicò.

Lo ignorai e mi rivolsi ad Esme.

“Ha bisogno di un posto in cui stare”.

“Non è vero”, disse, riservandomi uno sguardo carico di sottintesi. Io sapevo che si stava nascondendo, ma all'idea di lasciarlo andar via, a celarsi nell'ombra, senza sapere cosa sarebbe stato di lui, provavo una strana sensazione... sapevo che, ed era l'istinto a dirmelo, lasciarlo andare sarebbe stato uno sbaglio. E ne avevo già commessi fin troppo.

“Resta”, gli chiesi, “hai fatto tanto per me, consentimi di fare qualcosa per te. Resta qui”.

Ian mi rivolse uno sguardo piuttosto intenso, per un istante mi sentì in imbarazzo, data la presenza di Edward al mio fianco.

“Ok, penso che potrò anche raccoglierli più tardi... i panni”.

“E il gatto?”, gli chiesi.

“Odio i gatti”, mi rispose.

A quel punto mi aprì in un grande sorriso, specchio di quello di Esme.

“Benvenuto in famiglia”, gli desse lei.

Ian sorrise, chinando leggermente il capo.

Edward ed Ian si strinsero la mano, non con fare serioso ma allegro. Sia negli occhi di Kristopher, sia negli occhi di Edward si accese una luce di positività.

“Mi sei mancato fratello”, gli sorrise Edward, sembrava appena un po' più sereno.

“Pensavo non ti avrei mai più rivisto, ma ci speravo”, gli rispose.

Allora collegai.

“Tu lo hai chiamato Ian... voi vi conoscete”.

Edward mi rivolse uno sguardo carico d'orgoglio.

“E' mio fratello minore, mio fratello di sangue”.

…...................................

 

“Non ho ancora capito perché credi di essere tu, il fratello maggiore”.

Ian ed Edward battibeccavano, il primo di fronte a me, il secondo al mio fianco.

“Lo sei parlando in termini vampireschi. Ma in realtà, io ho ventuno anni e tu diciassette”.

“Zafrina la pensava come me”, rispose Edward.

“Zafrina avrebbe detto qualsiasi cosa pur di entrare nelle tue grazie”, replicò Ian.

Alice rise, persino Jazz sorrise. Il dolore momentaneamente accantonato.

“Chi?”, chiesi, contraendo il volto.

Edward sgranò gli occhi ed ebbi l'impressione che si fosse fatto, d'improvviso, più pallido.

Ian sorrise di filato. “Una delle Amazzoni, credo fosse innamorata di Edward”.

“Le Amazzoni non si innamorano”, replicò tempestivamente il diretto interessato.

“E' questo te lo ha detto in una delle vostre notti trascorse a chiacchierare sugli alberi o mentre sguazzavate nudi nel fiume”.

“Non abbiamo mai sguazzato nudi nel fiume”.

“O, sì, lo avete fatto”.

“E' stata lei ad infilarsi in acqua mentre io...”.

Il mio sguardo gelido gli tolse le parole di bocca.

“Bella...”, tentò.

Ma lo fermai con un cenno della mano.

“Non avevi un gatto a cui dar da mangiare... o altro da fare?”, gli chiese Edward.

Ian scosse il capo. “Odio i gatti”, rabadì.

E tutti ridemmo.

Sapevo che avevano costruito quel simparietto per tentare di allontanare l'angoscia, la preoccupazione, la nostalgia. E fin quando saremmo stati insieme, forse, avrebbe sortito l'effetto desiderato. Ma sapevo che sarebbe stata sufficiente un po' di solitudine perché riaffiorassero.

Strinsi con più forza la mano di Edward e lui, senza bisogno che parlassi, mi lasciò un bacio sulla tempia. Bastò a calmarmi.

“Come si diventa fratelli di sangue?”, chiesi.

“Giurando con il sangue”, mi rispose Edward.

“Ma voi non... possedete sangue”.

“In realtà, soltanto un muscolo del nostro corpo è ancora irrorato di sangue: il cuore. Ti parlo di pochi millilitri, ma sono rimasugli della nostra vita da umani. Decidere di donarne una parte a un'altra persona, secondo le amazzoni, crea un forte legame di fratellanza fra due individui. Si incide il petto...”.

“Ho capito”, gli dissi, posandogli una mano sul cuore. “Non mi va di sentire tutti i dettagli della storia”.

Edward sorrise, sfioradomi una guancia con le dita. “Sicura di stare bene?”.

“Sicura”.

“Dopo tutto quello che hai passato e non mi riferisco soltanto all'attacco dei neonati e alle sue conseguenze. So quello che è successo a casa Delgado. Alice lo ha visto... mentre combattevamo. Non potevo... raggiungerti”.

“Non sono riuscita a salvarlo”.

“Non potevi, era già condannato. Anche ammesso che ti avesse consegnata, subito che lo avrebbero lasciato vivere. Ti ha fatto del male”, mi disse, accarezzandomi il fianco e la nuca, “non osare sentirti in colpa per quello che è successo”.

“E' stata un'esperienza piuttosto istruttiva, in realtà”, sussurrai, scostandomi dal suo tocco e accostandomi alla portafinestra che non era stata distrutta.

“Ho imparato che non sono disposta a sacrificare la mia vita facilmente”, mi voltai per osservarlo.

“Sai cosa significa questo? Non starò più qui ad aspettare che vengano a cercarmi. Non mi nasconderò, Edward. Voglio vivere la mia vita e non potrò farlo se non scopro chi mi cerca, cosa vogliono da me, cosa sono. Hnno toccato l'unica cosa che non avrebbero mai dovuto toccare: te. E per questo la pagheranno cara. E pagheranno per il male fatto a Tanya, a Rosalie, ad Emmet, a tutti gli esseri umani che hanno ucciso, ad Arianna e John, ad Enrique e a suo padre, persino. E a me”.

Strinsi i pugni e percepì il fuoco scorrermi nelle vene a un'assurda velocità.

“E' una promessa”.

 

Qualcuno bussò alla mia porta, mi infilai la t-shirt. “Avanti”.

Edward fece capolino dall'uscio, gli sorrisi.

Si appoggiò alla porta e mi rivolse uno sguardo che parlava. Raramente gli occhi parlano, i suoi, invece, non erano mai zitti.

“Tu mi hai insegnato che cosa sia la paura”.

“Prima di conoscerti non sapevo di averne, da umano ero stato un ragazzo avventato, pronto alla guerra. Da neonato ero disposto a infrangere le regole di Carlisle, perché sottovalutavo la coscienza e il suo peso. In quanto vampiro ero totalmente incurante del pericolo, della mia vita stessa. Pensavo di essere incrollabile, incorruttibile, non ingannabile per via della lettura del pensiero. Tu hai stravolto ogni mia convinzione. Con te ogni muro è crollato. Ho capito che in realtà ero terrorizzato, da me stesso e dalla prospettiva di una vita lunga ma insignificante. Tu l'hai intuito, mi hai strappato la maschera di impassibilità, freddezza e arroganza che mi ero costruito. Mi hai mostrato me stesso e con il tuo amore mi ha fatto sentire fiero di ciò che ero realmente. Mi hai insegnato la paura, ma mi hai anche insegnato a combatterla. Sei ciò che amo di più al mondo, il mio pensiero costante, il mio desiderio più grande. E non ho alcun dubbio sul fatto che non sono in grado di vivere senza di te, né di sopravvivere, come ho fatto in passato. Ti devo molto più di quanto tu stessa possa immaginare”.

“Cosa hai visto? Cosa ti ha mostrato Michael?”, gli chiesi quando mi fu accanto.

“Ho visto noi”.

Tirai un sospiro di sollievo.

“Ci ho visti umani”.

Tentai di ingoiare il nodo che mi serrava la gola.

“E' questo il tuo desiderio: una vita da umano?”.

Scosse la testa.

“Penso che la vita da umani possa offrire molto di più, il cambiamento...”.

“Non è l'eternità con me, che desideri?”, gli chiesi, ma la mia era una domanda retorica.

“Io vorrei soltanto averti incontrata tra i banchi di scuola, averti salutata quel primo giorno, averti chiesto di uscire... e avrei voluto seguirti al college, chiederti di sposarmi, renderti madre. Senza che dovessimo affrontare tutto quetso: vampiri, morti, sete di sangue”.

“Una vita normale”, concluse.

Una vita normale. Pensai. Ma io... io non ero normale. E non volevo una vita normale.

“Non sarai mai davvero felice, neanche se staremo insieme per sempre, perché non è questo il tuo desiderio più grande”, gli dissi.

D'un tratto, ebbi l'impressione che avessimo fatto dei passi indietro. Qualcosa, nel nostro ritrovato equilibrio, si ruppe...

Edward non replicò alle mie parole.

“Non c'è niente che mi renda felice come stare con te”, mi rispose.

“Ma la rimpiangerai per sempre, la tua umanità”.

“Questo non significa nulla... non significa...”.

“Sì, Edward, significa. Perché l'eternità con te è ciò che io desidero più di qualsiasi altra cosa. E' quello che io ho visto. Non riesco a pensare alla trasformazione come a una rinuncia, perché ciò che guadagnerei nel cambiare vale molto più di quel che perderei...”.

“Se fossi stato al tuo posto, neanche io non avrei esitato a trasformarmi. Ma non posso cambiare ciò che sento nel profondo, Bella. Era giusto che lo sapessi. Io non ho scelto di perdere la mia umanità e non l'ho mai davvero vissuta”, replicò.

“Ma io non sono... umana”, urlai.

“E' evidente che io non sia umana, Edward. Basti pensare al fatto che il mio cuore si è fermato e poi ha ripreso a battere. Basti pensare che avevo una ferita lunga dodici centimetri sull'addome che adesso è scomparsa”.

“Io non sono umana, né voglio esserlo”.

Detto ciò, lasciai la stanza.

 

Impedirmi di tornare sui miei passi, impedirmi di tornare da lui fu piuttosto difficile. Lo capivo, ma ciò non toglieva che mi avesse ferita. Mi addolorava l'idea che non avrei mai potuto dargli ciò che desiderava, non fino in fondo. E soprattutto, mi addolorava il pensiero che non volessimo le stesse cose. Perché, per tutta la mia vita, mi ero sempre sentita a disagio, fuori luogo, quasi indossassi una pelle non mia. Ora iniziavo a capire il perché. Io ero diversa e questo non mi dispiaceva affatto. La normalità non mi allettava.

Capivo la situazione di Emmett più di quanto lui stesso immaginasse.

Correre era l'unico modo che avessi per sfogare la frustrazione, a parte appiccare un incendio. In più, il vento fra i capelli, l'acido lattico nei muscoli, il cuore che batteva all'impazzata mi facevano sentire viva, padrona del mio corpo.

“Non avrei mai detto che fossi un tipo sportivo, Brina”, quella voce l'avrei riconosciuta ovunque, forse per via dell'accento particolare o del tono perennemente sarcastico. Come se volesse farsi beffe del mondo intero.

“Scott”, risposi continuando a correre. Senza badare al ragazzo che si muoveva di ramo in ramo. Quando mi comparve di fronte, appeso chissà come a un albero, i suoi occhi azzurri, verdi, rossi e bianchi mi risucchiarono e non riuscì a fermarmi in tempo. Andai a sbattere contro il suo corpo, contro il suo torace ampio e fresco. Nella fretta di afferrarmi, Kristopher lasciò la presa di entrambe le mani sul ramo dal quale si stava sorreggendo. Così ci ritrovammo a terra, il suo corpo interamente riverso contro il mio, le sue mani intorno alla mia schiena.

Labbra contro labbra.

Prima che potessi razionalmente capire cosa stava accadendo, percepì il suo sapore, la sua consistenza, il suo profumo, la forza delle sue mani. E per un istante, mi soffermai a pensare quanto sembrassimo combaciare, incastrarci, come i due pezzi di un puzzle costituito unicamente da noi.

Poi, quando ebbi realizzato spalancai gli occhi e incrociai il suo sguardo. Ci osservammo a lungo, senza che nessuno dei due muovesse un muscolo. Tuttavia, la gravità della situazione mi era chiara. Così, spinsi con tutta la forza che avevo in corpo contro di lui, fin quando non capì di doversi allontanare e di dover separare le proprie labbra dalle mie. Per qualche secondo, o minuto, restammo a fissarci, il suo respiro stranamente pesante e affannato, il mio... sembrava assente.

Ciò che trasformò quell'evento casuale in una situazione irreale fu il gesto di Ian, il quale si fiondò nuovamente sulle mie labbra. Le sue mani si insinuarono tra i miei capelli con intenzione. Quel bacio non fu affatto un incidente com'era stato il primo. Kristopher mi sfiorò il labbro inferiore con il pollice, quasi invitandomi a dischiudere la bocca. A ferirmi, fu invece il desiderio che mi sconvolse le membra, che mise in subbuglio il mio basso ventre e la sensazione di conforto che mi invase, come se ogni fiamma nel mio corpo si fosse spenta d'improvviso. Mi sentì bene, nella mia pelle. Mi sentì normale, ma non nel senso negativo del termine. Fu come se avessi trovato il perfetto equilibrio tra ciò che ero e il mondo.

E questo mi spaventò.

Presi a mugugnare; quando Ian si accorse del mio dissenso si allontanò di colpo, facendosi a metri di distanza. Lo sguardo sbarrato, allucinato, colpevole.

A un certo punto iniziò a mormorare qualcosa. Soltanto quando mi fui sollevata da terra riuscì a capire.

“E' mio fratello... è mio fratello”.

Al ché mi infuriai e quello stesso fuoco che avevo percepito spegnersi, tornò a divampare prepotente nel mio corpo.

“Come hai... osato baciarmi”, urlai.

Ian non rispose.

“Come hai potuto? Sei...”, continuai, ringhiando insulti fra i denti.

Kristopher si sollevò da terra e in un battito di ciglia mi fu di fronte.

“Mi desto per questo. Perché ho appena tradito la fiducia di mio fratello, ma non riesco a... pentirmene. Non ci riesco”.

Mosse qualche passo nella mia direzione.

“Stai. Lontano. Da. Me”, scandì.

Ma, poiché non sembrava propenso a darmi retta, lasciai che il fuoco scorresse nelle vene e nei muscoli delle mie braccia fin quando non divenne una fiamma concreta che mi avvolse le membra.

Ian sussultò e l'espressione del suo viso divenne indecifrabile, ma non sembrava spaventato. Piuttosto... meravigliato. Mi osservò da capo a piedi, fissò il fuoco che mi circondava le braccia come una sorta di miracolo.

Lo vidi deglutire a vuoto.

Poi riprese ad avanzare.

“Sta lontano”, gli intimai, perché se si fosse avvicinato non avrei risposto delle mie azioni.

Ma non mi diede ascolto e io non trovai la forza per fermarlo.

Quasi urlai dall'orrore quando le sue mani si strinsero intorno alle mie di fuoco. Rimasi invece priva di parole quando il fuoco non lo danneggiò, né lo toccò.

“Come... come è possibile”, mormorai.

Alzai lo sguardo dalle nostre mani incrociate sul suo viso. I suoi occhi ora erano azzurri come il mare, incredibilmente sereni.

“Perché noi siamo uguali. Tu sei il pezzo mancante di me, Isa”.

 

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Capitolo 15
*** 14) The dark city ***


 

Buonasera!!! Ho un po' di cose da dire prima di lasciarvi al capitolo. Questo è il capitolo, quello della verità o comunque una buona fetta della verità, molto verrà chiarito e spero non vi perdiate nei meandri di questa "verità o storia", mi perdonerete per i nomi impronunciabili, forse : ) Mi scuso enormemente per il ritardo, solito... tuttavia, questo capitolo di è scritto da solo, sono stati gli impegni a tenermi lontana dalla storia, non la mancanza di ispirazione. Ma son agitata... scrivere il cap mi è piaciuto, spero piaccia anche a voi leggerlo. Altra cosa, tra poco ricomincia la scuola quidni gi aggiornamenti ptrebbero rallentare ulteriormente... il mio obiettivo era finire in estate ma non è stato possibile, quindi chiedo scusa anticipatamente. Come sempre ringrazio tutti voi che avete lasciato una rencione e chi ha soltanto letto. Vorrei che mi lasciaste i vostri pareri, perché sono davvero agitata... Ci vediamo sotto...

 

14) The dark city

 

Cause you are the piece of me I wish I didn't need

If our love is tragedy, why are you my remedy?
If our love's insanity, why are you my clarity?

Why are you my clarity?

Clarity, Zedd

 

“Isa”, ribadii.

“Bella”, replicai.

“Isa”.

“Bella”.

“Bella”.

“Isa... Ahh”, ringhiai, perché ero caduta in pieno nel suo tranello, “smettila. E stammi lontano”.

Ian si scostò da me di qualche passo e tra noi calò il silenzio.

Un silenzio carico d'imbarazzo, per quanto mi riguardava.

Dovettero trascorrere diversi secondi prima che comprendessi il senso della sua frase. Quella frase.

Sei il pezzo mancante di me, aveva detto.

Pazzo.

Cosa significava, esattamente? Come aveva potuto baciarmi intenzionalmente. Mi sentivo sporca, vile. Una traditrice. Benché il bacio l'avessi soltanto ricevuto e non ricambiato, ripugnavo quella parte di me stessa che avrebbe voluto farlo.

Edward.

Edward era il mio pensiero fisso da qualche minuto oramai. Soltanto poche ore prima avevamo passeggiato in quello stesso bosco parlando di noi e del nostro futuro. Ora lo attraversavo in compagnia di uno strano ragazzo dagli occhi colorati. La sensazione di conforto provata al suo contatto era scomparsa nell'istante in cui anche quello era venuto meno, lasciandomi un profondo vuoto all'altezza del petto e dello stomaco.

Edward.

“A cosa pensi?”, gli chiesi, dato che il silenzio si protraeva da troppo tempo.

Ian mi rivolse uno sguardo indecifrabile, ogni traccia di ironia era scomparsa dal suo volto pulito.

“A noi”.

La dolcezza con la quale pronunciò quelle parole mi lasciò senza fiato.

“Noi? Non esiste un noi, Kristopher”, ma sembrò non badarmi, mentre scansava un ramo d'albero all'altezza dei suoi occhi.

“A quello che siamo. A quanto tutto questo sia... assurdo e improbabile. A mio fratello. A come io abbia miseramente tradito la sua fiducia e questo prima ancora di sapere chi fossi per me... Guidato dal mio... istinto animale. L'ultima cosa che voglio è ferire Edward. Tuttavia, se penso di andarmene, il ché potrebbe accadere perché non ho intenzione di scontrarmi con mio fratello e dubito che una volta letti i miei pensieri mi vorrà ancora nella sua famiglia, ciò che mi ferisce realmente è l'idea di non rivederti”.

A quel punto mi rivolse nuovamente il suo sguardo colorato.

“Smetti di dire queste cose”, lo ammonì, abbassando gli occhi lucidi di imbarazzo e dispiacere.

“Non puoi mentire a te stessa né tanto meno a me, Isa. Dal momento che proviamo gli stessi identici sentimenti, con la differenza che io ho accettato i miei”.

“Come pretendi di sapere cosa provo?”, gli chiesi, irritata dalla sua sicurezza ma ancora più dal fatto che, in parte, ci avesse azzeccato.

“Perché è necessariamente così, Isa. E' come la legge di Archimede o la gravità... non esiste alcun dubbio su quanto ti sto dicendo”.

“Hai detto... hai detto che io...”.

“Sei il pezzo mancante di me”, continuò.

“Esatto”, annuì.

“E' vero. Non si tratta soltanto di una frase romantica detta a caso. Tu sei letteralmente il pezzo mancante di me, così come io lo sono per te”.

“Non provi neanche l'ombra di un senso di colpa?”, gli chiesi furiosa.

Io sì.

Avrei voluto aggiungere.

“Non mi sento in colpa per il bacio, Isa. A un bacio si può rimediare. Un bacio si può perdonare. Un bacio lo avrebbe ferito, ma alla fine tutto si sarebbe risolto. Io sarei sparito e voi avreste continuato con le vostre vite e i vostri progetti. Non mi sento in colpa per quel bacio”, ripeté, “mi sento in colpa per ciò che ci lega. Perché è questo. E' questo, Isa, che lo ferirà. Lui ci ama entrambi e noi lo distruggeremo. Per te sarà una condanna, un vincolo inscindibile il nostro. Come una calamita verrai attirata verso di me, nel bisogno di combaciare con la tua metà mancante. Io sto ancora tentando di capire se per me sia una maledizione, l'averti conosciuta, o la cosa più bella che mi sia mai accaduta. E giuro su Dio che ho paura di scoprirlo”.

Avevo di fronte almeno dieci alternative tra cui scegliere, optai per la strada più semplice: il rifiuto.

“Stai dicendo un mare di sciocchezze. Forse è meglio che tu te ne vada... quando Edward lo saprà potrebbe non reagire bene”.

“Non posso, Isa”.

“Smetti di chiamarmi Isa”, urlai, “il mio nome è Bella. E non c'è nulla che tu possa dire che mi faccia credere di essere in grado di ferire Edward. Tu mi hai baciato e io non ho risposto al tuo bacio. Quindi taci”.

Mi ignorò.

“So che tutti ti chiamano Bella, nelle poche ore in cui sei stata priva di sensi il tuo nome è stato ripetuto centinaia di volte. Purtroppo a me non piace, perciò ho deciso che ti chiamerò Isa”.

“Fa come ti pare”, gli risposi acida.

 

“Tu sai che non ho intenzione di nascondergli quello che è accaduto”, gli dissi, dopo qualche minuto di silenzio.

“Lo so. Vorrei soltanto poterti... raccontare la storia. Tutta la storia”.

“Tu sai davvero cosa sono? Cosa mi sta succedendo?”.

Kristopher annuì.

Avrei avuto le risposte che cercavo da settimane. Ma ero davvero pronta ad ascoltarle?

“Non tutto quello che sentirai ti piacerà, ma dalla verità non posso e non voglio proteggerti”, mi disse.

 

Quando giungemmo finalmente nei pressi di casa, la vergogna e la paura mi ossessionavano. L'immagine che mi accolse non l'avrei mai più dimenticata. Edward sedeva sui gradini del portico, le braccia distese lungo le cosce, lo sguardo scuro rivolto nella nostra direzione. Alice e Jasper posavano alle colonne ai suoi lati, come angeli custodi. L'occhiata cauta di Jazz e quella indecifrabile di Alice mi schiacciarono come fossero enormi macigni.

In teoria, non avrei dovuto sentirmi colpevole. Perché io lo avevo respinto. Lo avevo fatto. Ma quei maledetti pensieri, quelle inenarrabili sensazioni... potevano considerarsi un tradimento?

Probabile.

Ma, man man che mi avvicinavo a lui, ad Edward, mi chiedevo come avessi potuto pensare e provare determinate emozioni. Perché io e io soltanto sapevo quanto immensamente lo amassi. Quella forza d'attrazione di cui Krsitopher aveva parlato e che io avevo percepito per la prima volta nell'istante in cui mi aveva baciata, scomparve.

Sapevo che non erano necessarie parole per spiegare ciò che era accaduto, Alice doveva aver visto ogni cosa.

Quando mi fermai davanti a lui, attesi che sollevasse lo sguardo sul mio viso e nei suoi occhi tristi lessi una richiesta di rassicurazioni e certezze. E io gli risposi con la verità. Mi lasciai scivolare nello spazio fra le sue gambe, gli afferrai il volto tra le mani e gli regalai un bacio in fronte.

“Ti amo incondizionatamente”.

Separarmi dall'amore per Edward sarebbe stato come strapparmi un arto.

Edward si alzò con eleganza e agilità, mi strinse le mani tra le sue e vi depose un bacio.

“Lo so”, mi rassicurò.

Poi spostò lo sguardo alle mie spalle e anche i suoi occhi, come quelli della sorella, divennero illeggibili e ancora più scuri. Era ormai sera e se non fossi stata così vicina a lui, non li avrei distinti dal cielo notturno.

Anche io rivolsi a Ian un'occhiata ansiosa, tra i due stava avendo luogo una conversazione silenziosa.

D'improvviso, Edward mi sospinse dolcemente verso la porta d'ingresso. Soltanto quando presi posto accanto ad Esme, Ian entrò in casa; né lui né Edward sedettero. Esme mi carezzò una spalla, come Carisle sembrava ignara di ciò che era accaduto, ma la tensione fra i due fratelli era palpabile. I miei occhi saettavano dall'uno all'altro, ancora intenti ad ingaggiare una muta conversazione.

“Parla”, proruppe Edward conciso, la sua voce una lastra di ghiaccio.

Kristopher mi rivolse la sua completa attenzione, ma nei suoi occhi lessi una profonda tristezza.

“Il mondo non è esattamente come appare, Isa”, Edward ringhiò, “probabilmente avrai già sentito questa frase”, sorrise senza buonumore indicando i Cullen, “tuttavia posso assicurarti che esistono molti più strati di quel che immagini, che tutti voi immaginate. Tolto uno”, mimò con le mani, “ecco comparirne un altro, come la pasta sfoglia”.

“E gli esseri umani, nella loro inconsapevole e costante ricerca di risposte, si trovano letteralmente nel mezzo. Da dove provengo io non esiste la luce né quella del sole né quella della luna, né tanto meno la luce artificiale. Non esistono la corrente elettrica e l'acqua potabile, la tecnologia e il gas, gli animali e l'erba. Non esistono le stagioni, la terra è arida e fredda. Se non fosse per l'assenza di neve o pioggia direi che ogni giorno è inverno. Io, la mia famiglia e ogni altro individuo della mia specie proveniamo da un luogo inospitale per qualsiasi forma di vita a parte la nostra, un luogo chiamato la città nera e situata... nel sottosuolo. Poco al di sotto della crosta ma abbastanza lontana dal “nucleo” terrestre, al confine con quello che i vostri esperti chiamano manto. Mi riferisco a noi, gli Abitanti(I Moru), come la mia specie perché come avrete potuto notare sono diverso da qualsiasi altro vampiro abbiate mai conosciuto. Ma lo sono... un vampiro intendo. Tutti i Moru lo sono. Tuttavia a contraddistinguerci non è soltanto il colore degli occhi, bensì altre... particolarità. Esiste una ragione che, alla luce di quanto vi dirò in seguito potrebbe forse non apparire la più vincolante, per cui noi Moru viviamo nel sottosuolo... non tolleriamo la luce del sole. Diverse migliaia di anni fa ai nostri antenati questa soluzione deve essere apparsa la più ragionevole, in quanto non esisteva un modo per sfuggire al sole, dovunque ci si nascondesse. D'altronde, noi non abbiamo bisogno di cibo o acqua e vediamo chiaramente anche al buio. In secondo luogo, siamo in grado di procreare, creare una vita che abbia il nostro sangue e i nostri geni. Cresciamo fino all'età di ventitré anni, lasso di tempo che costituisce il nostro periodo fertile, per così dire e trascorso il quale smettiamo di invecchiare e cambiare, le nostre necessità mutano: il respiro cessa di essere indispensabile e la sete di sangue si fa insopportabile. Almeno per il primo anno, il ventiquattresimo anno, un po' come accade ai vostri neonati. L'unico sangue che ci è concesso di bere è quello umano; non digeriamo il sangue animale. Non che lo abbiano sperimentato per carità o un qualche genere di senso di colpa, semplicemente per comodità. La nostra condizione... l'impossibilità di uscire alla luce del sole e la nostra ubicazione rendono piuttosto complessa la caccia. Soltanto alcuni dei nostri sono addestrati a recuperare esseri umani settimanalmente per i... pasti, oppure si ricorre a umani come Tulio Delgado”, fece un cenno nella mia direzione.

“Il tutto avviene nella più assoluta segretezza perché nessuno... e sottolineo nessuno, umano o vampiro di sopra che sia, deve sapere della nostra esistenza. Per una questione di sicurezza e quieto vivere. Soltanto loro sono a conoscenza della città e dei suoi abitanti... noi li chiamiamo Mokin-rui, ma suppongo che voi li conosciate come i Volturi”.

Ian attese che le sue parole attecchissero, poi riprese.

“Queste nostre... peculiarità, l'impossibilità di uscire alla luce del sole in particolare, ci hanno resi dipendenti... dai Volturi. Se loro avessero voluto rivelare la nostra esistenza... distruggerci, oggi noi non esisteremmo. Tra i regnanti di sotto e i Mokin-rui esiste un accordo: la libertà in cambio di un certo numero di ventitreenni all'anno. Come vi ho già spiegato è l'anno in cui siamo più... selvaggi e assetati, macchine da guerra. Ancora più forti dei vostri neonati”.

“E' cosa fanno di questi Moru?”, fu Jasper a porre la fatidica domanda.

“Li utilizzano per le loro guerriglie, suppongo, molti vengono uccisi alla fine... altri vengono addestrati e rimangono nella guardia, ma si tratta di un numero molto esiguo. D'altronde, la segretezza conviene anche ai Volturi, se altri venissero a conoscenza di noi e di questi giovani Moru li vorrebbero per sé e sarebbe la fine. I Volturi perderebbero il loro vantaggio, il loro asso nella manica e la loro credibilità per aver mantenuto così a lungo un simile segreto”.

“E' orribile”, sussurrò Esme.

“Sì, lo è. Per questa ragione da diversi anni ormai, centinaia di anni, i nostri regnanti cercano un modo per spodestare i Volturi e impossessarsi del mondo di sopra”. Anticipando la domanda di Carlisle, Kristopher disse: “Con le moderne tecnologie, riuscire a vivere in superficie non è più impossibile”.

“Tuttavia, non è soltanto la luce a rendere estremamente difficile questo compito. Nonostante in forza e il velocità noi Moru siamo migliori, voi possedete doti straordinarie, capaci di vanificare ogni nostro sforzo. Abbiamo perso molti amici, padri, madri, fratelli e sorelle nel tentativo di capirlo, rischiando anche il nostro accordo con i Mokin-rui. A nulla è valso, eravamo e siamo ancora segregati nel ventre della Terra. Ed è qui che entriamo in gioco noi, Isa. All'incirca cinque-sei secoli fa, i nostri regnanti hanno scoperto l'esistenza di esseri particolari, che noi chiamiamo Elfennol, nella lingua corrente potremmo tradurlo con il termine “elementali”.

Migliaia di anni fa esisteva un uomo, chiamato Gwyliwr, che in breve significa guardiano, l'uomo più potente mai esistito. Alcuni hanno persino sostenuto che si trattasse di Gesù Cristo. So soltanto che Gwyliwr aveva il dono di controllare i quattro elementi, dei quali era costituito: il fuoco, l'aria, l'acqua e la terra.

La storia narra che si fosse innamorato di un altro uomo. Un uomo all'apparenza mediocre, non possedeva la sua stessa forza, il suo stesso fascino, la sua stessa saggezza. Ma era buono. L'uomo più buono che avesse mai conosciuto nei secoli e secoli in cui aveva sorvegliato. Si chiamava Daioni ed aveva sposato una donna incredibilmente bella, Gwenwyn. Daioni capì presto di ricambiare i suoi sentimenti, d'altronde era impossibile che non lo facesse. Gwyliwr era straordinario; la sua avvenenza, il suo buon cuore, la sua onestà, la sua forza e il suo coraggio, la sua enorme pazienza e fiducia erano straordinarie. E come tale, accettare l'amore di Daioni non gli era concesso. Non avrebbe mai potuto far questo a Gwen, nonostante lo desiderasse con tutto l'ardore del fuoco che gli scorreva nelle vene. Così, pensando che Gwyliwr non lo ricambiasse, Daioni impazzì, perse letteralmente il lume della ragione, e si uccise. Gwenwyn, che era follemente innamorata del marito, fino all'ultimo istante aveva creduto che sarebbe ritornato da lei. Ma la gelosia, la rabbia per via del tradimento e dei costanti maltrattamenti ai quali era sottoposta a causa degli altri membri del villaggio che si facevano beffe di lei - lei che era stata lasciata sola, lei, a cui il marito aveva preferito un altro uomo - e l'invidia, perché Gwyliwr avrebbe dovuto innamorarsi di lei... lei che era bellissima, furono la causa di tutto ciò che accadde in seguito”.

“Gwen era una apothecari, per utilizzare un termine shakespeariano potremmo definirla una speziale. Produceva medicine che ricavava dalle erbe e veleni... conosceva ogni pianta, ogni fiore e i loro relativi effetti. Impiegò giorni, settimane, per produrre la boccetta di veleno che avrebbe ucciso l'essere più puro mai esistito...

Gli diede un nome lungo e complesso... rhwymedigaeth... poi tradotto nel latino vinculum”.

Sussultai. Ian mi rivolse un'occhiata comprensiva.

“Gwenwyn si presentò alla sua porta, sostenendo di voler sotterrare l'ascia di guerra. Gwyliwr, distrutto dalla morte dell'uomo che amava, non riuscì a leggerle dentro l'odio che la divorava. Gli disse che aveva una medicina per lui, per guarire il suo cuore che sanguinava. Ancora una volta gli credette. Lui era incapace di pensare alla cattiveria, non avrebbe mai compreso la mente subdola della donna.

Bevette e perse ogni capacità. Perse il fuoco, l'acqua, l'aria, la terra. Perse se stesso. Allora Gwenwyn lo pugnalò alla schiena, due volte, con una precisione tale da procurarli ferite parallele”.

Ian, dopo un istante di silenzio, si voltò e sollevò la t-shirt mostrandomi la schiena e lì le vidi, le cicatrici di Gwyliwr: due ferite lunghe all'incirca quattro centimetri ciascuna, l'una accanto all'altra, perfettamente parallele.

“Come... come puoi avere... quelle ferite. Quelle stesse ferite?”.

“Perché io sono un suo diretto discendente. E anche tu lo sei. Insieme siamo due delle quattro parti dell'anima di Gwyliwr”.

Trattenni il respiro.

“Tu, Isa, sei il suo fuoco... io la sua acqua. E siamo complementari”.

“Quando Gwenwyn lo pugnalò alle spalle, Gwyliwr morì... perché il suo corpo era divenuto mortale. Ma la sua anima non lo era... si frantumò in quattro parti, ognuna delle quali si reincarnò in un uomo o una donna appena nati. E' così che nacquero gli Elfennol, gli elementali. Ogni qual volta i loro corpi venivano distrutti dalla morte, quel quarto di anima che apparteneva a Gwyliwr si reincarnava ancora, fino ad arrivare a noi. E oltre... Il nostro compito è lo stesso di quello di Gwyliwr, noi Elfennol dobbiamo sorvegliare”.

“Cosa sorvegliava Gwyliwr?”, chiesi.

“Il mondo... la natura, accertandosi che l'equilibrio in essa esistente non venisse frantumato. Se noi non esistessimo cadrebbe tutto in rovina: trombe d'aria, maremoti, terremoti e incendi... a livello “geofisico”; a livello umano l'odio, la superficialità, la rabbia, il menefreghismo dilagherebbero. Se uno di noi quattro morisse senza che l'anima di Gwyliwr si reincarnasse sarebbe la fine per gli uomini”.

Kristopher estrasse dalla tasca dei jeans un foglietto ripiegato in più parti, consunto. Sembrava avesse trascorso ore e ore a rileggerne il contenuto.

“Questo mi è stato dato da... un amico. Con questo mi ha spiegato ogni cosa, tutto ciò che avrei dovuto sapere sulla mia natura. Se non fosse stato per le sue parole non avrei mai avuto il coraggio di espormi alla luce del sole”.

“Hai infatti detto che voi Moru non tollerate la luce del sole”, ribatté Carlisle.

“Mai io non sono soltanto un Moru, solo un elementale e di conseguenza niente che abbia a che fare con la natura può nuocermi”.

Questo spiegava perché, nonostante avesse toccato le mie mani infuocate, non si fosse ferito.

“Poter fuggire dalla città mi salvò la vita, ma non è l'unico debito che ho nei suoi confronti. Se su questo foglio”, lo sventolò tra le mani con orgoglio, “non mi avesse parlato dell'Hentai, sarei morto ugualmente. Ed è quello che accadrà a te se non evolverai”.

“Cosa significa?”, gli chiesi.

“Hentai significa metamorfosi e ogni elementale deve subirne una”.

“Cosa intendi per metamorfosi?”, fu Alice a porre la domanda.

“Intendo... quell'avvenimento che avviene all'interno del nostro corpo e che ci rende veri e propri elementali, impedendo al quarto di anima che non è la nostra di sopraffarci. Se la mutazione non dovesse avvenire... noi, scompariremmo nel nostro elemento. Tu, Isa, diverresti fuoco o luce e di te non rimarrebbe nulla di ciò che sei stata fin'ora. Il mio amico nella sua lettera accenna alla mutazione, ma purtroppo non ha potuto descrivermela nel dettaglio. I vecchi testi ne parlano ma sono conservati nella città, alla quale io non ho avuto più accesso una volta fuggito. Quindi ho dovuto... improvvisare”.

“Cosa dice?”, gli chiesi.

“Della mutazione? Soltanto tre parole... mortale, immergi, immobile ”.

“Quindi tu saresti mortale?”, gli domandò Carlisle.

“No, sono un elementle ma pur sempre un vampiro. L'essere un elfennol non intacca la natura originaria dell'individuo, sia esso un umano, un vampiro di sopra, un Moru o altro. Per questo motivo non capivo il senso delle sue parole. Ho provato persino a restare immobile per due settimane consecutive”, rise, “senza ottenere alcun risultato. Poi... ho ripensato al tempo trascorso insieme. Mi sono chiesto perché avesse perso tempo a raccontarmi la storia di Gwyliwr piuttosto che parlarmi nel dettaglio della mutazione. Allora ho immaginato che la storia dovesse essere la chiave. Ho pensato a quella parola... mortale e a come Gwyliwr fosse divenuto mortale”.

“Le ferite...”, sussurrai.

“Esatto, mi sono pugnalato nel punto esatto in cui Gwenwin lo ha fatto al nostro antenato e ho perso ogni capacità, sono diventato mortale e vulnerabile. Ma sapevo che non sarebbe bastato”.

“Immergi”, pensai.

“Ed è quello che ho fatto, mi sono immerso nell'acqua gelida, nel ghiaccio e sono rimato immobile per giorni. Il freddo pungente mi trapassava la pelle come fosse fatto di migliaia di spilli, pian piano perdevo il controllo di me stesso, dei miei arti. Sono trascorsi quattro giorni prima che... morissi. Un normale essere umano avrebbe impiegato soltanto poche ore, ma io, per quanto fossi vulnerabile e mortale non ero un vero e proprio essere umano ma un elementale. Quindi ho resistito. Quando mi risvegliai, sul fondo, ero di nuovo immortale e nel pieno possesso delle mie facoltà. E' questa la mutazione... diventare ciò di cui si è costituiti, sopportare il peso di se stessi, del proprio elemento fino a nuova vita. In realtà, non c'è un modo di sapere se una volta morti, l'individuo riaprirà gli occhi come elfennol o rimarrà semplicemente morto, dipende dalla persona. Ma se uno qualsiasi di noi dovesse fallire e morire... ti ho già spiegato le conseguenze... Solitamente, l'anima di Gwyliwr sceglie bene il proprio corpo con la sua corrispondente natura...”.

“Dopotutto, una volta avvenuta la mutazione non è più possibile modificare ulteriormente la propria natura. Io sono tornato ad essere ciò che ero, un Moru... tu tornerai ad essere umana. Io sono immortale, tu sei mortale... ma entrambi siamo elfennol”.

“Cosa... cosa succederebbe se cambiassi la mia natura... prima della mutazione?”, gli chiesi, la voce rotta dal pianto. I miei occhi si fissarono sulla figura immobile di Edward che mi restituì uno sguardo indecifrabile. Ma aveva capito. Se non avessi potuto cambiare me stessa, un giorno sarei morta.

Ian deglutì a vuoto, poi rispose: “La mutazione sarebbe incredibilmente complessa. Come ti ho detto, l'anima sceglie bene il proprio corpo e la sua natura, a seconda dell'elemento che la costituisce. E lo so perché il mio amico... lui ha specificato che se fossi stato totalmente umano, anziché un Moru, non avrei mai avuto la forza fisica di portare a termine la mia mutazione, di resistere quei quattro giorni”.

“Potrei non superare la mutazione e morire...”.

“E insieme a me distruggerei l'equilibrio esistente in natura, di conseguenza gli uomini”.

Kristopher annuì e calò il silenzio.

Mi era chiaro perché, dato il mio dono, fosse indispensabile la natura umana. Se fossi stata una vampira o una Moru, e avessi dovuto restare per giorni avvolta nel fuoco, non avrei portato a termine la mutazione, sarei morta prima. Il fuoco, d'altronde, era l'unica “arma” in grado di distruggere un vampiro o un Moru, che a dirittura non sopportavano la luce del giorno.

Mi sentì condannata. Condannata dalla mia natura.

“Ti sbagli... tu... non può essere vero. Non posso essere un elementale. Non ho le ferite di Gwyliwr sulla schiena”, lo accusai.

“Perché sei umana. La tua mutazione non richiede che tu divenga mortale, lo sei già. Quelle ferite sono soltanto... la chiave per la mortalità. Una porta che tu hai già aperto. Inoltre, ho letto... quando pensavo che gli Elfennol fossero soltanto leggende e nei vecchi testi che sono riuscito a trovare in superficie, che siamo complementari anche in questo. Mortale e immortale. Non c'è niente in te, che non combaci con qualcosa dentro di me”, mormorò dolcemente.

Detto ciò, Kristopher serrò le palpebre, con fare rassegnato, e la mascella e allora si scatenò l'inferno. Non appena ebbe pronunciato l'ultima sillaba, Edward gli fu addosso, lo afferrò per il collo della t-shirt e lo trascinò con sé all'esterno dell'abitazione. Dopo un'iniziale smarrimento e compreso ciò che stava accadendo, mi precipitai al loro seguito.

Edward scaraventò Kristopher, il quale non oppose alcuna resistenza, a diversi metri di distanza dall'ingresso.

“Alzati”, ordinò Edward, appariva così calmo e posato e letale che persino io lo temetti... e allo stesso tempo lo desiderai, come sempre accadeva.

Ian non gli obbedì.

Rimase a terra, a capo chino.

“Alzati”, ribadii – urlò - Edward, ogni traccia di buonsenso sembrava averlo abbandonato.

“Pensi che ti avrei mai ferito intenzionalmente”, gli chiese Kristopher, sollevando lo sguardo sul suo bellissimo viso deformato dalla rabbia.

Edward non gli diede ascolto, si fiondò su di lui, lo sollevò da terra e gli sferrò un poderoso calcio nell'addome.

“Se osi toccarla...”, gli ringhiò sul volto, poi il suo sguardo si ammorbidì e così i suoi tratti, lasciando trapelare tutto il dolore del suo - il nostro - tradimento... . “Come hai potuto farmi questo... eppure tu c'eri, hai visto cosa ho...”.

Perse le parole e forse, per un istante, perse anche se stesso.

“Non avrei mai potuto immaginare che... non è stato intenzionale. Va oltre ogni logica e razionalità. Non può essere controllato, Ed, è inevitabile”.

Edward, nuovamente in preda a una rabbia cieca, gli sferrò una gomitata in volto.

“E' scritto, Edward. E' scritto, come qualsiasi altra cosa ci riguardi...”, le sue parole furono interrotte da un'altra ginocchiata e poi un'altra ancora.

“Esiste... una profezia”, pugno, “nella città”, calcio.

“Fuoco per acqua, aria per terra, nulla esiste senza il suo opposto. Noi siamo destinati”, pugno, “era scritto che io la trovassi. Ogni parte opposta dell'anima di Gwyliwr viene destinata ad anime gemelle”, calcio, “così che possano trovare l'amore cui il loro possessore ha dovuto rinunciare”, urlò infine, riverso a terra.

Edward lo sovrastava, oscuro e feroce.

Incapace di gestire la situazione, di discernere la verità dalla menzogna, l'amore vero dall'amore predestinato, mi limitai ad assistere in silenzio alla loro reciproca distruzione. Perché, sebbene Ian non stesse muovendo un muscolo, le sue parole ferivano Edward in egual misura.

“Io sono ciò che non sapeva le mancasse, ma che pure cercava. Io sono il suo... io sono il suo... io sono suo”.

D'un tratto, Edward smise di ringhiare e la grande villa divenne silenziosa. Sbarrò lo sguardo e allentò la presa, dopodiché si sollevò dal corpo ferito di Kristopher.

“Ti sbagli”.

“Sono io... tutto questo sono io. Qualche mese fa mi sarei fatto da parte, l'avrei lasciata alle tue mani, ma... ora non permetto a nessuno di mettere in dubbio noi. A nessuno. Le insegnerai a controllarsi e la aiutare a mutare... poi sparirai”.

“Fratello”.

“Non hai più il... diritto”, urlò Edward, “di chiamarmi in questo modo. L'hai perso... quando hai scelto di baciarla”.

“Io non ho scelto” ringhiò Ian, sollevandosi.

Vidi il ghiaccio nei suoi occhi, vidi il pericolo. Sapevo che se avesse deciso di annientare Edward non avrebbe avuto difficoltà a farlo.

Percepivo un potere sconfinato scorrergli nelle vene.

Lo stesso che scorreva nella mie.

“Non mi sarà possibile starle lontano... e presto capirai che il sentimento è reciproco”.

“Non mi importa cosa tu abbia letto, cosa credi di sapere...”, ringhiò Edward in un sussurro a pochi centimetri dal suo viso.

Ian mosse un passo in avanti, l'assurda e improbabile tonalità dei suoi occhi mi allarmò.

La pelle irta delle sue mani e delle braccia si ricoprì di un velo trasparente e spesso... ghiaccio. E qualcosa nei meandri del mio subconscio mi suggeriva che non si trattasse di un ghiaccio qualsiasi... aveva l'aria d'essere indistruttibile e duro più dell'acciaio stesso.

“Basta”, urlai e mi frapposi tra loro.

Voltai le spalle ad Edward, decisa a fronteggiare Kristopher.

Sostenni il suo sguardo bianco e furioso, lasciai che il fuoco dentro di me si tramutasse in fiamme sulla mia pelle accaldata.

“Allontanati”, ringhiai fra i denti.

Kristopher non mi diede ascolto, lasciò che il ghiaccio gli avvolgesse le spalle, il collo e una parte del viso, rendendolo ancor più letale di quanto non apparisse già: sembrava assente.

Tuttavia, forte di ciò che ero e di colui che proteggevo, non gli permisi di intimorirmi.

Lo imitai.

“Allontanati”, ribadii.

Al suono della mia voce, la sua espressione si ammorbidì, i suoi occhi chiari si scurirono e mi videro... Ian si osservò le braccia e le mani, si sfiorò la guancia e arretrò, nel tentativo di fuggire da se stesso e da ciò che avrebbe potuto fare.

Tentativo vano. Perché non si può sfuggire alla propria natura, la si può combattere.

E combatterla era ciò che avrei fatto, impedendole di ostacolarmi.

Qualsiasi fosse stata la condizione che la vita mi imponeva, io l'avrei aggirata, combattuta, vinta.

Fin quando le forze me l'avessero permesso.

“Non so se quel che dici è vero, al momento so poco o niente, a dire la verità. E' così da sempre. Fin da bambina mi sono sentita costretta in un un corpo e una vita non mia, senza conoscerne la ragione. Adesso so il perché. Ma quello che sono non può cambiare quello che voglio. E io voglio Edward”.

“E io non lo metto in dubbio. Non ho mai detto che tu non sia innamorata di mio frat... di Edward”.

“Sostieni che mi innamorerò di te”.

Ian sorrise.

“No. Io sostengo che tu non riuscirai a vivere, neanche a respirare, senza di me. Sostengo che i tuoi occhi mi cercheranno ovunque quando non ci sarò e che una piccola parte della tua mente sarà sempre e costantemente riservata a me. Sostengo che dimenticherai ogni altro sentimento tu abbia mai provato prima per chiunque. Sostengo tutto questo perché sei il pezzo mancante di me, il pezzo di cui non avrei voluto avere bisogno e perché è quello che io provo, il ché è una conferma più che sufficiente di ciò che ho letto, non credi?”.

Non risposi, né permisi ai suoi occhi di indagarmi oltre, strinsi con forza la mano di Edward e gli voltai le spalle.

 

….............................

 

Il vento fra i capelli, il profumo di sole e miele a solleticarmi le narici, le sue mani a sostenermi le gambe, mi lasciavo cullare dal lento dondolio delle sue spalle dovuto alla corsa frenetica. Sapeva dove volessi andare prima ancora che glielo accennassi.

L'unico luogo in cui avremmo potuto rifugiarci da noi stessi, da ciò che il futuro ci riservava. L'unico in cui il pericolo fosse stato sconfitto e noi avessimo vinto. Lo stesso luogo in cui, per mesi, lo avevo sognato al mio fianco e l'unico che mi avrebbe ricordato perché le previsioni di Ian fossero insensate.

Perché non avrei mai potuto innamorarmi di lui.

Il mio vecchio appartamento. Il mio minuscolo appartamento fatiscente. Semidistrutto. Nel quale avevo sofferto il dolore più atroce, la solitudine, la fame persino, quelle sere in cui il badget era già stato speso e il frigo era vuoto. Sere passate a studiare per non pensare, accanto alla finestra dalla quale eravamo appena entrati. La mia tenda gialla, fatta a brandelli, in bilico tra il cadere a pezzi definitivamente e non, reggeva. Come me. Ne sfiorai i lembi. Poi accarezzai con fare assente il materasso, l'unica parte del letto ancora intatta. Edward mi osservava, in silenzio. Allora, in quel luogo, l'unico, capì cosa avrei dovuto fare. Mi fu tutto così chiaro, come avessi finalmente compreso un difficile concetto di anatomia o biochimica. Sollevai lo sguardo su Edward e mi avvicinai a lui lentamente, come volessi assicurarmi che la sua presenza era reale e non l'ennesimo sogno. Senza distogliere lo sguardo dai suoi occhi feriti, sfilai dall'asola il primo bottone della camicia.

“Fai l'amore con me”, glielo chiesi, glielo ordinai.

Sta di fatto che Edward non se lo fece ripetere una seconda volta. Mi spinse dolcemente sul materasso a una piazza e mezzo, mi tolse gli abiti e mi accarezzò, mi adorò, mi amò per tutta la notte, come sempre. Perché una volta non bastava... mai.

Quando infine, stanca, ansimante, mai realmente paga per via del tempo che scorreva implacabile, chinai il capo sulla sua spalle, a cavalcioni sulle sue gambe, il suo corpo fresco e perfetto contro il mio, nel mio... glielo chiesi, glielo ordinai.

“Mordimi”, sussurrai contro la pelle fremente del suo collo.

Il suo silenzio mi spinse a sollevare lo sguardo e puntarlo sul suo viso stupefatto, combattuto.

Edward mi strinse il viso nelle mani grandi, accarezzandomi le guance con movimenti frenetici e tormentati delle sue lunghe dita.

“Capisci quello che mi chiedi? Capisci a cosa andrai incontro? E non mi riferisco soltanto al dolore della trasformazione. Non conosciamo le conseguenze che la trasformazione avrà su di te, data la tua natura e il tuo dono. E la mutazione sarà...”.

“Molto più dolorosa e difficile. Lo so, amore mio. Ma se anche io sopravvivessi alla mutazione, morirò ugualmente. E io non posso, non voglio morire. Perché tutto questo non può avere una fine, non può avere una scadenza. Io riuscirò ad ingannare il tempo e riuscirò a sconfiggere la mia natura. E lo farò...”.

“Se vuoi farlo perché credi che ciò che sostiene Ian possa verificarsi...”.

“No. Voglio farlo perché ti amo. Voglio farlo per te. Se anche Ian dovesse avere ragione e il nostro legame dovesse essere in qualche modo scritto nelle stelle, io sono pronta a sfidarle, le stelle, il destino o chi per lui. Iniziando da qui”, conclusi, indicando un punto esatto del mio collo, tra la carotide e la succlavia.

Edward mi fissò a lungo, prima di decidere se agire o meno.

L'ultima cosa che ricordo di quella notte unica, in quell'unico luogo, sono le sue mani sulla mia schiena che dolcemente mi accostano al suo torace ampio, il mio seno caldo che sfiora la sua pelle, le sue labbra tentatrici sul mio collo, i suoi denti perfetti che, come coltelli dalla lama affilata, affondano nella mia carne con amore. Poi, ci fu soltanto il dolore.

 

Io non sono nessuno, però ci tenevo a lanciare un messaggio... sono fermamente convinta che non bisogna farsi fermare dalle condizioni, dalle circostante in cui ci si imbatte, nella vita. A volte, tendiamo persino a rifugiarci dietro questo "circostanze". In concetto è stato già espresso nel brano, volevo soltanto ribadirlo. Grazie per l'attenzione e per la lettura : ) A presto

 

 

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Capitolo 16
*** 15) Ribelle ***


Buonasera!! Vorrei iniziare chiedendovi scusa per il ritardo enorme di questo post ma ho avuto molto da fare... potrebbe sembrare una scusa banale ma è la verità : ( però ho scritto, lentamente ma ho scritto... se qualcuno vorrà ancora leggere io sono qui... secondo ringrazio infinitamente hakuna89 per aver segnalato la mia storia per le scelte e ringrazio tutti coloro che hanno  letto e lasciato una recensione... siete preziosissimi. Spero che il capitolo valga l'attesa. Buona lettura : )



Ecco dove eravamo rimasti:

“Capisci quello che mi chiedi? Capisci a cosa andrai incontro? E non mi riferisco soltanto al dolore della trasformazione. Non conosciamo le conseguenze che la trasformazione avrà su di te, data la tua natura e il tuo dono. E la mutazione sarà...”.

“Molto più dolorosa e difficile. Lo so, amore mio. Ma se anche io sopravvivessi alla mutazione, morirò ugualmente. E io non posso, non voglio morire. Perché tutto questo non può avere una fine, non può avere una scadenza. Io riuscirò ad ingannare il tempo e riuscirò a sconfiggere la mia natura. E lo farò...”.

“Se vuoi farlo perché credi che ciò che sostiene Ian possa verificarsi...”.

“No. Voglio farlo perché ti amo. Voglio farlo per te. Se anche Ian dovesse avere ragione e il nostro legame dovesse essere in qualche modo scritto nelle stelle, io sono pronta a sfidarle, le stelle, il destino o chi per lui. Iniziando da qui”, conclusi, indicando un punto esatto del mio collo, tra la carotide e la succlavia.

Edward mi fissò a lungo, prima di decidere se agire o meno.

L'ultima cosa che ricordo di quella notte unica, in quell'unico luogo, sono le sue mani sulla mia schiena che dolcemente mi accostano al suo torace ampio, il mio seno caldo che sfiora la sua pelle, le sue labbra tentatrici sul mio collo, i suoi denti perfetti che, come coltelli dalla lama affilata, affondano nella mia carne con amore. Poi, ci fu soltanto il dolore.

 

15) Ribelle

 

Non dirò: “Non piangete”,

perché non tutte le lacrime sono un male.

J.R.R. Tolkien

Edward

Amare è soffrire.

Mia madre, Elizabeth Maryann Masen, sosteneva che la gioia più viva e la gloria più grande le avrei provate in guerra.

Naturalmente Elizabeth, avversa a ogni forma di violenza, non alludeva alla guerra che si combatte in divisa e in armi, ma all'amore.

E in amore, diceva, come in guerra, soffrirai, ma di una pena così dolce da preferirla alla sua assenza.

Amare è soffrire.

Nel 1975 Woody Allen nel suo “Amore e Guerra” diceva:

Amare è soffrire. Se non si vuol soffrire, non si deve amare. Però allora si soffre di non amare. Pertanto amare è soffrire, non amare è soffrire. Essere felice è amare: allora essere felice è soffrire. Ma soffrire ci rende infelici. Pertanto per essere infelici si deve amare. O amare e soffrire. O soffrire per troppa felicità. Io spero che tu prenda appunti...”.

Amare è soffrire.

Eppure, io non li capivo. Nella mia visione limitata, in cui ogni cosa era nera o bianca e stop, amare non poteva equivalere a soffrire; sarebbe stato un controsenso, un paradosso.

Amare avrebbe dovuto illuminare, migliorare, salvare una vita, sottrarla alle tenebre e al dolore, non sommarne altro. Mi sfuggiva, tuttavia, che l'uno(l'amore) non dovesse necessariamente togliere l'altro(il soffrire).

Amare è soffrire.

Lo compresi soltanto qualche anno fa, quando incontrai Isabella, Bella. Quando ogni cosa assunse delle sfumature.

Capì che amare è soffrire perché soltanto la persona che ami ha il potere di annientarti, perché, essendo legato ad essa a doppio filo, la sua sofferenza e il suo dolore sono i tuoi e la sua vita diventa indispensabile a tal punto che saperla in un qualsiasi pericolo ti fa arrabbiare, sragionare.

 

E io sragionavo.

 

“Non puoi dire sul serio. E' follia”, ringhiai.

Se non avessi scorto l'incertezza nei suoi occhi, l'impassibilità del suo viso mi avrebbe ingannato e avrei desistito.

“Non ti chiedo di venir meno alla tua parola, soltanto... aspetta. Porta a termine la mutazione, in questo modo non corri alcun rischio e...”.

“Non posso. Sai bene che ho soltanto il 20% di possibilità di completare la mutazione. Ciò vuol dire che esiste l'80% di probabilità che io muoia. E non posso... morire senza aver prima...”.

“Se aspetterai altri dieci giorni avrai soltanto l'1% di possibilità, Bella. Lo capisci?”, urlai.

“Tanya ti ha salvato la vita e ha salvato la mia. Il minimo che possa fare per lei è mantenere la promessa, trovarlo...”.

“Mi chiedi di lasciarti morire, di... stare a guardare mentre... getti la tua vita come fosse spazzatura. La tua vita è tutto ciò senza cui io non potrei vivere”.

Si mosse rapidamente e con naturalezza, come lo facesse da anni anziché poche ore, e mi strinse le mani fra le sue, piccole e forti.

“Devi avere fiducia in me. Pensi che metterei a rischio l'intero genere umano se non fossi certa di poterlo fare, di poter sopravvivere?”.

“Se ne sei certa, allora il viaggio può aspettare. Muta e poi...”.

“Sapere di aver mantenuto fede alla mia parola sarà un ulteriore incentivo... sapere di averlo con me sarà un incentivo”.

“Hai deciso, quindi?”.

Annuì.

Il fuoco nei suoi occhi mi avrebbe indotto a credere in qualsiasi cosa, persino nella follia che aveva ideato.

Per questo motivo... le voltai le spalle.

 

3 giorni e 15 ore prima.....

 

Mia madre, Elizabeth Maryann Masen, mi era stata accanto nei momenti peggiori della mia vita, siano stati essi precedenti o successivi alla sua morte.

Elizabeth mi era stata accanto negli ultimi mesi del 1917, quando, assetato di gloria, mi ero convinto di voler entrare in guerra; mi era stata accanto durante la mia malattia, fin quando la spagnola stessa non se l'era portata via. Mi era stata accanto mentre il veleno di Carlisle bruciava ogni muscolo, ogni arteria del mio corpo.

Anche ora mi era accanto. Letteralmente. O quasi.

In realtà, sedeva al lato opposto del letto in cui giaceva mia moglie. Mia moglie... nonostante non lo fosse ufficialmente mi ostinavo a considerarla tale, forse perché ufficiosamente lo era stata dal primo istante in cui avevo adagiato lo sguardo sul suo viso, in quell'aula.

Elizabeth, il suo fantasma o la sua illusione come dir si voglia, le accarezzava dolcemente i capelli, indugiando sulla sua fronte madida di sudore.

Ricordavo quel gesto... lo aveva ripetuto così tante volte durante la mia malattia, la nostra...

“Come stai?”, mi chiese.

“Sto bruciando”, le risposi come fosse ovvio.

Elizabeth contrasse la mascella, i suoi occhi verdi guizzarono al suono del suo ennesimo urlo. Il decimo, per l'esattezza. Benché si dimenasse, agitandosi come le stessero lavando la pelle con acido, urlava poco.

Pur nella sua condizione, doveva essere consapevole del luogo in cui ci trovavamo: una palazzina abitata da quaranta persone, la maggior parte delle quali, essendo abituata a strani rumori, non avrebbe fatto domande. Tuttavia, se avesse urlato ininterrottamente per tre giorni consecutivi, dubitavo che tutti e quaranta sarebbero rimasti indifferenti.

E io non potevo spostarla, non avrei ottenuto altro che intensificare la sua sofferenza.

Le strinsi la mano senza esercitare un'eccessiva pressione.

“Parlami”, mi chiese mia madre.

“Casa dovrei dirti?”, le risposi.

“Quello che provi”.

“Tu non dovresti neanche essere qui. Sei morta”.

“Anche tu”, mi rispose, senza tuttavia alcuna traccia di cattiveria nella voce: la sua era una semplice constatazione.

“Se non fossi stato... così, lei sarebbe potuta rimanere umana, mutare... tutto sarebbe stato più semplice”.

“Se non fossi stato così, non vi sareste mai neanche incontrati, saresti già morto da un pezzo, tesoro. Non essere infantile, ti è stata data l'opportunità di un'esistenza eterna con l'amore della tua vita, quando in tanti non riescono neppure a incontrarlo... l'amore vero”. Pronunciò quell'espressione, amore vero, con solennità.

“Tu rientri in questa categoria, madre”, anche la mia era una semplice constatazione.

“Edward era un uomo con tante qualità in campo professionale, sociale, politico... ma non era né un buon marito né un buon padre.

“Era un bastardo”.

“Edward”, mi riprese Elizabeth.

“Non credo di averti insegnato un simile linguaggio e neanche Esme l'ha fatto”.

Se avessi potuto, sarei arrossito per l'imbarazzo.

“Comunque è vero, lo era”, mi appoggiò.

Forse, da ragazzo, ad allettarmi del fuggire in guerra non era tanto la gloria quanto il fuggire stesso...

“Lei lo sa?”, mi chiese.

“E' l'unica a saperlo. Se Carlisle ne fosse stato a conoscenza non avrebbe taciuto”.

“Saresti stato un padre migliore”, mi consolò.

“Se avessi potuto esserlo. Forse è questa la ragione”.

Elizabeth attese in silenzio che continuassi a parlare.

“La ragione per cui avrei voluto una vita da umano, per dimostrare di poter essere un uomo migliore di mio padre”.

“Sarebbe stato un obiettivo semplice da raggiungere, non ti pare?”, rise con leggerezza ma senza buonumore, “difficile, invece, è riuscire ad eguagliare Carlisle in questa vita”.

Colpito e affondato.

“Temo di non essere in grado di fare del mio meglio con questa natura. Sono stanco di dover combattere contro me stesso ogni giorno”.

“Tutti combattiamo contro noi stessi, contro i nostri demoni. Il mio demone era tuo padre, il tuo demone sei tu. A volte ho l'impressione che qualcuno si prenda gioco di noi. Viviamo e ogni nostro senso è teso alla nostra sopravvivenza, eppure vivere è così difficile, bisogna ritenersi fortunati se i momenti di dolore sono in proporzione ai momenti di gioia. E' come essere arruolati in una guerra che non si è scelto di combattere, senza tuttavia poter abbandonare le armi. E continuiamo a combattere nella speranza che un giorno qualcuno ci dica per cosa stiamo combattendo, perché abbiamo iniziato a combattere e quando smetteremo di farlo”.

“Sono stanco del dolore che mi opprime il petto al pensiero di tutte le volte che sono caduto, che ho fallito, come è accaduto in passato”.

“Quando lei non c'era”, continuò per me.

“Quando lei non c'era”, ripetei, “non posso continuare senza di lei. Se dovesse... se dovessi perderla, perderei anche me stesso, lo so. Lei è... il mio perché. La risposta a tutte le domande che hai appena posto.”.

“Hai paura che lui te la possa portare via”, constatò.

Con Elizabeth ammettere le mie paure era straordinariamente semplice.

“Se fosse stato qualcun altro, chiunque, non mi sarei sentito minacciato, ma io lo conosco. Conosco entrambi e sono meravigliosi e... e non è così improbabile che siano anime gemelle. Tu non hai visto... sembrano un quadro quando sono l'una accanto all'altro tanto sono perfetti insieme. Li amo entrambi. Se Ian avesse ragione e lei lo scegliesse, sarebbe la fine per me. Ma se Ian avesse ragione e lei scegliesse me, sarebbe la fine per lui. Cosa posso fare, madre?”.

“Questo: amala, come hai sempre fatto. La scelta spetta a lei e al momento sembra ricada su di te”, mi disse, indicando con un gesto del capo il suo viso contratto e sofferente.

“Non credo di riuscire a sopportarlo”, le dissi, “il suo dolore”.

“Oh, bambino mio”, Elizabeth, ora al mio fianco, mi spinse il capo sul suo grembo.

Erano reali le lacrime che mi bagnavano il viso?

“Il suo dolore mi svuota. Mi sento così leggero, quasi inconsistente e poi d'improvviso così pesante, come se portassi sulle spalle una tonnellata di peso e non avessi altro che forze umane per sorreggerlo. Ma non è il peso del suo dolore, perché se potessi liberarla, lo sosterrei per l'eternità. E' il peso della mia impotenza, della mia carne. Mi sento privato di ogni senso, non c'è altro per me oltre il suo odore, oltre il suono delle sue urla, oltre la consistenza della sua pelle, oltre il buio. Perché senza di lei ogni luce si spegne. E io ho paura del buio”.

Era al buio che mio padre beveva litri e litri di alcol. Era al buio che io mi esercitavo al piano, quando lui non avrebbe potuto vedermi. Era al buio che mi vide suonare e mi colpì per la prima volta con tanta forza da regalarmi un livido permanente sul collo che soltanto la trasformazione cancellò.

“Sei così buono, amore mio. Ho sempre pensato che il mondo non fosse un luogo adatto a un bambino con un cuore così gentile; tu capivi sempre cosa pensassero gli altri, sapevi che Edward infondo ci amava ma che l'alcol lo rendeva irrazionale e hai combattuto, non ricevendo altro che lividi e brutte parole. A dieci anni sapevi che Tess era stata rapita da quell'uomo, ma nessuno ha voluto crederti. Nessuno, a parte me. Per questo, ti chiedo: lei ti ama?”.

“Non leggo nel suo pensiero”.

“Invece lo fai. Tu la leggi. Cosa leggi Edward?”.

La osservai a lungo dimenarsi e trattenere le urla in gola, la osservai bruciare e morire, per me.

“Mi ama”, risposi.

Elizabeth sorrise. “Allora fidati di lei e accetta il suo gesto d'amore. Accetta il mio”, il suo gesto... mia madre, che aveva preferito prendersi cura di me anziché tentare di sopravvivere alla spagnola. Ancora oggi mi chiedevo con quale forza. Se ripensavo alla mia condizione durante la malattia... faticavo persino a respirare figurarsi stare per ore al capezzale di qualcun altro.

“Soffrivi, eppure sei rimasta al mio fianco”.

“E' quello che fa lei, perché ti ama. Il tuo amore, te, in cambio di qualche giorno di sofferenza”, sussurrò al mio orecchio, “perché tu sei importante, perché ne vali la pena. Accettalo. Accetta il suo amore. Se lei può farlo, allora anche tu puoi”.

Accettare il suo amore...

Soffrire per lei, con lei.

Sì, potevo.

“Bravo, bambino mio”.

 

…....................

 

“Quanto manca ancora?”, mi chiese Elizabeth.

“Quatto ore”, le risposi.

Le sfiorai le braccia, i palmi delle mani e la fronte con un panno bagnato, nell'illusione che potesse alleviare le sue pene. Sapevo che il dolore si era ormai ritratto dagli arti inferiori, concentrandosi nelle regioni che mi ostinavo a bagnare ancora e ancora.

Dovevo fare qualcosa.

“E' inutile”, mi fece notare.

“Lo so”, sbottai, “ma non...”.

“Limitati a starle accanto, parlale. Ritengo che il suono della tua voce sia l'unico conforto di cui necessita”.

“Sono qua”, sussurrai, accarezzandole la pelle non più bollente del viso.

Mi lasciai scivolare al suo fianco, adagiando il suo capo sul mio petto nudo.

“Manca poco, amore mio, ma adesso farà male”.

A momenti, il veleno avrebbe invaso il cuore.

La avvolsi tra le mie braccia, osservando i cambiamenti avvenuti in lei.

Il suo viso aveva assunto un aspetto etereo per via del colorito diafano e della totale assenza di imperfezioni. Tra i suoi capelli, più lunghi e morbidi, luminose ciocche color rame. Le carezzai il fianco e nulla, ai miei occhi, sembrava cambiato: era ugualmente morbida e tiepida. La stessa ragazza addormentata che, sussurrando il mio nome nella notte, implorandomi di restare, mi aveva rubato il cuore.

Cuore che avrebbe per sempre custodito fra le sue mani, le stesse che, giunta ora all'apice del dolore, si aggrappavano al mio petto in cerca di un appiglio che la salvasse dal mare di dolore in cui era affondata e in cui rischiava di affogare.

Rischiava, senza che, tuttavia, potesse realmente accadere.

Perché dal veleno non era dato sfuggire.

Il dolore era tale che, per la maggior parte del tempo trascorso sotto il suo effetto, si agognava la morte. Come un parassita invadeva ogni angolo del corpo che lo ospitava, senza ucciderlo

Il veleno, pur non essendo mortale, era causa di indicibili sofferenze, come l'amore.

Nell'istante in cui il battito del suo cuore accelerò, intuì che il denso liquido grigiastro aveva risalito la vena cava inferiore e invaso il ventricolo.

Le sue urla confermarono la mia intuizione.

Il suo volto si contrasse nel dolore. E si dimenò. Si dimenò.

Le sue dita afferrarono la mia pelle nuda, lacerandola.

Le mie braccia sembravano incapaci di contenerla nei suoi movimenti furiosi di ribellione e nel suo atroce dolore.

Piangeva(singhiozzava incapace di versare lacrime) e urlava, aggrappandosi alle mie spalle, alla mia schiena, a ogni lembo di pelle che le sue mani riuscissero a raggiungere. Le spinsi il capo contro il mio petto, tentando di rendere silenziose le sue urla, come il cuscino in cui si seppellisce il volto quando si piange e si desidera che nessun altro ascolti.

Erano reali le lacrime che mi bagnavano il viso?

“Ricordi la prima volta che mi chiedesti di renderti uguale a me? Quanto io mi sia... opposto?”.

“Mi odio sin da quando ero umano, Bella, eppure per decenni ho pensato che questo sentimento nei miei confronti fosse dovuto alla natura donatami da Carlisle, all'essere un vampiro. Ricordavo la vita da umano come il mio periodo felice, non lo era, affatto. Ero infelice, misero; per qualche ragione sapevo più di quel che sapevano gli altri. Sapevo che mio padre mi amava, sapevo che era la bottiglia a tenerlo lontano da me. E questo mi impediva di odiarlo, di allontanarlo definitivamente, tuttavia, per quanto tentassi di farlo smettere di bere, ogni sforzo era inutile. Probabilmente è stato nel momento in cui mio padre mi ha colpito per la prima volta che ho iniziato a odiarmi. Non ero stato in grado di aiutarlo, tutto ciò che sapevo in più non mi era servito a nulla. Per questa ragione avevo deciso di fuggire... in guerra, speravo di non ritornare. Mia madre sapeva che non avrai mai fatto ritorno dal fronte. Lei vedeva in me qualcosa che io non riuscivo a percepire: il coraggio, la gentilezza, la sensibilità, l'intelligenza.

Lei era certa che la mia vita avesse un valore, per questo motivo chiese a Carlisle di darmi una seconda possibilità. Non ho mai visto la sua richiesta sotto questa luce, non fino ad oggi. Pensavo fosse soltanto il gesto disperato di una madre amorevole, non un dono, una possibilità di riscatto. Sono sempre stato pronto a puntare il dito contro me stesso, a odiarmi a ogni sbaglio. Senza capire che nella vita si sbaglia... anche se alcuni errori si pagano più di altri. Ho tentato di fare del mio meglio con questa natura, nella speranza che il risentimento sparisse; avrei voluto che il veleno lo cancellasse come aveva fatto con la spagnola. Senza capire che tutto aveva avuto inizio molto tempo prima. Io non odiavo il vampiro, odiavo il ragazzo, ma riversavo le conseguenze sul primo, senza vedere il lato positivo, senza vedere la bellezza di Carlisle o Esme o Alice. E mi opponevo.

Con ciò non voglio dire che essere un vampiro sia una passeggiata, né una condizione morale, non dopo aver ucciso quella bambina che altra colpa non aveva se non trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Dopo quello che ho fatto l'odio verso me stesso è duplicato; a quello per il ragazzo si è aggiunto anche quello per il vampiro. E ho perso me stesso in una spirale autodistruttiva”.

I battiti del suo cuore decelerarono, le sue mani smisero di stringere e martoriare la mia carne, i suoi movimenti si fecero meno frenetici.

“Adesso che ti guardo, così bella, così forte, così uguale a me, non riesco a odiare questa mia natura, così come ho smesso di odiare il ragazzo che sono stato nell'istante in cui ti ho sentito pronunciare il mio nome nella notte e ho capito che mi amavi. E se tu, angelo mio, mi ami, chi sono io per oppormi? Per contraddirti? Per sminuirti? Io so che non commetterai i miei stessi sbagli, che la trasformazione non cambierà la tua natura più profonda. Perché non importa cosa tu sia, umana, vampiro, Elfennol, tu sei una donna. Una donna straordinaria”.

Fu allora che il suo cuore smise di battere e Isabella divenne un vampiro.

Nel silenzio, la sua voce melodiosa mi riscosse dal torpore in cui giacevo da anni e cancellò da me ogni traccia di odio e dolore.

“Se non rischiassi di ucciderti, ti picchierei per tutte le idiozie che hai detto”.

Risi... di cuore e non smisi fin quando non percepì la forma del suo sorriso sul mio petto. Vi depositò un bacio. L'immediato contatto delle sue labbra con la mia pelle riaccese il desiderio di lei mai realmente sopito.

Mi sorprese, e forse non avrebbe dovuto, quando mi spinse supino e si mise a cavalcioni sul mio petto. Mi osservò. Mi osservò a lungo e con curiosità quasi clinica, poi sentenziò: “Tutto quel dolore... è valso la pena guadagnare questi strani occhi per potere ammirare tutto... questo, te”.

Sorrisi.

“Proporrei di iniziare come abbiamo concluso”.

I suoi occhi color rubino, così diversi da come erano in origine, brillavano della stessa luce maliziosa, dello stesso fuoco di sempre.

“Come posso odiare la mia natura se tu sei come me, angelo?”, le chiesi, sfiorandole i contorni del viso con timore reverenziale.

“Io ti insegnerò ad amarti”, mormorò a pochi millimetri di distanza dal mio volto e senza distogliere lo sguardo dal mio. “Ti insegnò a vederti come io ti vedo. Ti insegnerò come tu hai fatto con me, dovesse volerci l'eternità”.

 

Kristopher

 

Are you, are you
Coming to the tree
Where the dead man called out
For his love to flee.

Where I told you to run,
So we'd both be free.
Wear a necklace of hope,
Side by side with me.
Strange things did happen here
No stranger would it be
If we met at midnight
In the hanging tree.

The Hanging Tree, Jennifer Lawrence

 

 

Piangevo.

Piangevo sempre.

Non riuscirai a prendermi, sei troppo lento, Kris”.

Aspettami, Ir”.

Sei ancora piccolo, non puoi competere con me”.

Allora mi lasciavo cadere in terra, nella polvere e piangevo; fin quando Irmàn, accortosi della mia assenza, non tornava indietro.

Ehi, piccolo. Non piangere, non dovresti”

Ma io non riesco... non riesco mai a correre veloce come te”.

Vedrai che tra qualche anno, quando le tue gambe si saranno allungate, correrai ancor più velocemente di me. Ma non devi piangere. Se piangi rimarrai per sempre piccolo, i grandi non piangono”.

Io ho sei anni, sono grande”.

 

A undici anni mantenni la mia promessa: smisi di piangere.

Non perché fossi grande o non avessi più lacrime da versare, semplicemente non avevo né la forza né la volontà di versarle.

E da allora non l'ebbi più.

Irmàn era mio fratello maggiore, il primo di quattro dei quali io ero l'ultimo. Due fratelli e una sorella.

Irmàn mi aveva insegnato tutto ciò che sapevo, dal combattimento corpo a corpo, ai segreti delle donne. Quelli che lui credeva di conoscere.

Era il migliore nel suo campo e io aspiravo a diventare come lui, un valido membro della guardia cittadina.

La guardia si occupava di sorvegliare la città da eventuali attentati o intrusioni e della protezione dei nostri governanti, in più gestivano i ventitreenni nel loro anno peggiore(l'anno di Trais), decidendo chi andava “consegnato” ai Volturi come stabilito dal patto e chi invece rimaneva. Si entrava nella guardia soltanto compiuti i ventiquattro anni, se si sopravviveva senza macchie e se si scampava allo “smistamento”(la consegna ai Volturi), come lo chiamavano.

In rare occasioni, giovani promettenti entravano nella guardia al compimento dei ventuno anni.

Era stato il caso di mio fratello, che aveva trascorso la vita a inseguire il suo sogno di entrare a farne parte. Per due anni aveva svolto il suo compito egregiamente, allenandosi fino allo stremo delle forze per riuscire a controllare se stesso e non cedere durante l'anno di Trais. Sebbene entrare nella guardia prima dei ventiquattro anni fosse un privilegio, comportava anche delle conseguenze: Irmàn avrebbe dovuto compiere il proprio lavoro anche durante Trais, senza alcuna attenuante o giustificazione, dimostrandosi degno del ruolo che aveva ricevuto. Perciò se avesse sbagliato, se avesse perso il controllo, non avrebbe mai più potuto fare ciò che amava. Questo era il prezzo e nel momento in cui Ir aveva accettato, aveva firmato la propria condanna.

Al compimento dei ventitré anni fu allontanato, come accadeva a tutti. Quel giorno, mi ripeté quello che mi diceva ogni volta che io piangevo: non piangere.

Irmàn non riuscì in quello per cui aveva lavorato tanto a lungo; mentre era di ronda, una mattina, al confine con la superficie, percepì odore di sangue.

Allora scavò.

Scavò.

Lui era il più forte, il più veloce, nessuno riuscì a fermarlo in tempo.

Irmàn non arrivò mai alla sua preda, la luce del sole lo polverizzò prima e di mio fratello non rimasero che le ceneri.

Non potemmo neanche piangere il suo cadavere.

Di fatto, io non piansi mai più. Lui non avrebbe voluto.

Nel frattempo delle mie divagazioni, avevo rullato la mia ultima cartina.

Dovrò comprarne altre e del tabacco, pensai.

L'accesi e mi lasciai cullare dallo sfarfallio delle ali del passerotto che si era adagiato sulla mia(non esattamente) finestra.

Serrai le palpebre, per non dover assistere allo spettacolo del cielo terso e della natura fiorente.

Tre giorni. Tre giorni senza vederla e ogni cosa che mi circondasse mi appariva insignificante, superflua, perché l'unica di cui avessi realmente bisogno non c'era.

Tre giorni d'inferno. Perché io sapevo, dal momento in cui mi aveva voltato le spalle, che l'avrebbe convinto a trasformarla.

Avevo letto la determinazione nei suoi occhi, il rifiuto e la testardaggine a proseguire sul sentiero che aveva tracciato, prima che io arrivassi e le mostrassi un'altra strada.

Tentai di ignorare il pensiero costante di lei, del suo viso, del suo sguardo, della sua voce...

“Fumi? Nella mia stanza, tra l'altro”.

Non accennai a sollevare le palpebre, perché, fin quando avessi tenuto gli occhi chiusi, non sarei stato costretto ad affrontare tutto ciò che mi attendeva, come stessi semplicemente dormendo.

“Hai anche la sfacciataggine di ignorarmi?”, proseguì, “nella mia stanza, sottolineo”.

Soltanto quando mi sfilò la sigaretta dalle labbra aprì gli occhi e lo osservai accigliato.

Lui, di rimando, osservava l'oggetto tra le sue mani con fare pensieroso.

“Non dovresti fumare”.

“Potrebbe uccidermi?”, gli chiesi ironicamente.

Edward sorrise e per un istante mi illusi che tutto andasse per il meglio, che fossimo ancora noi, in Amazzonia, che non amassi la donna per la quale aveva sofferto le peggiori pene immaginabili.

“E già”, sospirò, sdraiandosi al mio fianco, sul suo letto.

Mi restituì la sigaretta, ormai a metà.

“E' perché mi vuoi morto?”, gli chiesi ammiccando.

Edward sorrise ancora.

“Una parte di me vorrebbe che tu sparissi”.

Deglutì a vuoto, prendendo un'altra boccata di fumo.

“Ma se distruggessi l'equilibrio della natura ecc ecc mi sentirei in colpa, credo”.

“Quindi è solo per questo motivo che non mi hai ancora fatto fuori. Io l'avrei fatto, fossi stato al tuo posto”.

“No, non è vero. Per la stessa ragione per cui io non riesco a ucciderti”, replicò.

“Lei è di sotto”, gli chiesi, ma suonò come un'affermazione.

“Sì”.

“Ed è un vampiro”.

“Sì”, sussurrò.

“Le starò lontano, sin quando lei vorrà così. Sarò un fratello, un amico. Sarò per lei quello che sono per te”.

“Anche quando farà male?”, mi chiese.

“Anche quando farà fare. Anche quando non desidererò altro che lei. Le starò lontano”.

“Pensi che riuscirà... a mutare?”.

“In termini di percentuale, normalmente, ciascuno di noi elementali ha il 50% di probabilità di sopravvivere alla mutazione. Ciò vuol dire che lei non ha più del 20% di possibilità. Avresti dovuto fermarla”, ringhiai.

“E' stata la scelta giusta”, mi rispose.

“Come puoi pensarlo?”.

“Non potremmo mai sopravviverci. Il nostro non è quel genere di rapporto che ti lascia possibilità di scelta. Noi non vogliamo stare insieme, noi ne abbiamo bisogno. Non perché da soli siamo difettosi, funzioniamo ugualmente, ma tra tutte le motivazione che ci spingono a funzionare, l'esistenza l'uno dell'altro è la più vincolante ed è anche l'unica senza cui smetteremmo di farlo”.

Ingoiai il magone, consapevole di ciò che avrei distrutto.

“Sei sempre stato così poetico, fratello?”.

“In effetti sì”, mi rispose.

“Ne sei così certo...”, sussurrò, dopo qualche istante di silenzio: a volte dimenticavo che poteva leggermi nel pensiero.

Capì immediatamente a cosa si stesse riferendo.

“Non riesco a credere che tutta questa sicurezza derivi da qualche lettura”.

“E infatti non è così; io l'ho visto, in un certo qual senso. Mi fido ciecamente della sua capacità di giudizio”, riflettei, “anche se inizialmente lo credevo pazzo - risi. Mi ha salvato la vita”.

“L'uomo del biglietto?”, mi chiese.

“Esatto”.

“Perché sei qui, Edward?”.

“Perché è la mia stanza?”.

“Sul serio”.

“Sul serio? Perché sei mio fratello, perché è stupido che io sia in collera con te per qualcosa su cui non hai controllo. Ciò non vuol dire che ti permetterò di portarmela via”.

“E' chiaro”, dissi.

“Non hai avuto dubbi che io stessi mentendo. Non credo sia soltanto perché puoi leggermi nella mente”.

“Ho sempre saputo che lei era... qualcosa di più, ma non avrei saputo come definirla”, mi rispose.

“Quanti giorni abbiamo... prima che debba mutare, esiste un limite temporale?”.

“Tutto quello che ha vissuto, Edward, la perdita dei sensi, la morte apparente, sono i sintomi, ti avvertono che è il momento. Solitamente, dalla comparsa dei sintomi, prima che la situazione si aggravi irrimediabilmente, può passare un mese, un mese e mezzo. Ma, dato il suo cambiamento, non credo abbia più di dieci giorni”.

“E se non dovesse mutare?”, mi chiese.

“Non l'ho provato sulla mia pelle, ma da quel che ho letto, i sintomi diverranno permanenti”.

“Diamole un paio di giorni di tempo, perché si riprenda e...”.

“Non c'è tempo, Ed. Più passano i giorni più lei si indebolisce. I sintomi non scompariranno nonostante ora sia un vampiro. Potrebbero peggiorare”.

“Allora deve mutare, adesso”.

Annuì.

“Penso che possiamo considerare aperta la partita”, mi disse con nonchalance, ma intravidi un ghigno sul suo volto.

“Penso anch'io”, risposi, dopo un istante di shock. “Giocheremo una partita in cui non siamo altro che pedine nelle sue mani?”, risi.

“Non solo pedine, anche giocatori”.

“Ti ho promesso che le sarei stato lontano”, gli feci notare, “sono un po' in svantaggio, ti pare?”.

“E questo il bello”, risi ancor più rumorosamente.

Mentre mi accostavo alla scalinata, la sua mano artigliò il mio avambraccio.

“Non ti perdonerò. Non ti perdonerò se accadrà ancora, se la toccherai. Non ti perdonerò”.

“Lo so”.

Ma sapevo anche che, se lei me l'avesse chiesto, se l'avesse voluto, io no avrei esitato.

Era la mia priorità, da tre giorni a quella parte. Isabella Marie Swan era la mia priorità.

“Cullen”.

“Cosa?”, gli chiesi.

“Isabella Marie Cullen. E' mia moglie, da tre ore ormai”.

Edward mi osservò con aria gelida, poi scomparve al piano di sotto.

 

Per un istante, tutte le mie certezze vacillarono. Lei divenne lontana, irraggiungibile e il dolore che provai a quel pensiero fu una prova più che sufficiente di ciò che avevo appreso da Ddaear(daihar).

Quando ebbi sceso anche l'ultimo gradino, i miei occhi la cercarono, sebbene contro la mia volontà. E lei dovette fare lo stesso perché i nostri sguardi si incrociarono, come era accaduto subito dopo il suo risveglio. Il fuoco nel suo cuore sciolse il ghiaccio nel mio.

La dolcezza dell'espressione dipinta su suo viso mi accolse, come fossi rientrato a casa dopo un lungo viaggio. Mi ricordò l'odore di mia madre, l'unica che riuscisse a comprendere il freddo che avvertivo, dopotutto, lei sapeva. Mi ricordò mio fratello mentre, un passo avanti a me, mi chiedeva di non piangere, assicurandomi che un giorno sarei stato come lui. Mi ricordò tutto ciò che avevo, prima di non avere niente. E seppi di aver trovato una casa che non avrei mai abbandonato, dalla quale non sarei mai fuggito, che avrebbe sostituito quella in cui non avrei mai più potuto fare ritorno.

La moglie di mio fratello.

La bellissima moglie di mio fratello.

Non avevo aggettivi in grado di descriverla, avrei dovuto coniarne di nuovi.

Se da umana il fuoco che era divampava di rado, tanto che, per quanto avessi provato a capire cosa in lei mi attraesse, in quella grotta che era stata il nostro rifugio, non ero riuscito a farlo. Ora, in queste nuove vesti, era lampante; la sua vera natura traspariva dai suoi occhi, dal suo volto, dal suo portamento.

Era fuoco.

In ogni gesto.

In ogni sguardo.

Era vita.

La mia.

 

…........................................

 

“Hai sete?”, le chiesi, lasciandomi cadere sull'erba umida di rugiada, il volto scaldato dagli innocui raggi del sole.

Isa, le braccia distese lungo i fianchi, pensierosa se ne stava all'ombra, ad osservarmi.

“Abbastanza”, mi rispose e il grattare della sua gola riarsa riecheggiò nella mia mente.

“Anch'io, ma devi restare concentrata”, le indicai il posto di fronte a me, invitandola a sedere.

Isa, dopo avermi osservato per qualche altro istante, entrò nel cono di luce e la sua pelle, come fosse anch'essa rivestita da un velo di rugiada, brillò. Fissò lo sguardo sulle proprie braccia, meravigliata, sgomenta, entusiasta. Una serie di emozioni, anche contrastanti, le attraversò il viso. Poi, si lasciò cadere sull'erba di fronte a me, imitando la mia posa.

“Di cosa ti nutri?”, mi chiese all'improvviso.

“Lo sai”, le risposi, contraendo la mascella.

“Di esseri umani”, mormorò.

“Purtroppo, noi Moru non abbiamo altre alternative, a ognuno qualcosa, non ti pare?”.

“Potresti sempre...”.

“Rubare sacche si sangue? Credi che non lo abbia provato da quando sono in superficie? Ma la nostra è una maledizione, Isa, qualsiasi sangue che non provenga da una vena è dannoso o fa schifo. Le sacche di sangue rientrano nella seconda categoria. Ma ci provo, quando la sete diventa insopportabile; lo bevo”.

“Edward mi ha raccontato di averti visto cacciare”.

Crede di avermi visto cacciare. Ma perché parliamo di me, sei tu la star oggi. E' una bella giornata, il sole splende e non mi uccide...”.

“Una bella giornata?”, rise e il suono della sua risata si impresse nella mia memoria, “sono una neonata, ho sete e sto cercando di imparare come darmi fuoco senza uccidermi. E' una pessima giornata. Per non parlare di questi stupidi uccelli, se non smettono di cinguettare giuro che me li mangio”.

Risi così rumorosamente da spaventare parecchi stormi e nidi, il ché aumentano i “fastidiosi” cinguettii

“No, ti prego”, mi implorò Isa, coprendosi le orecchie con i palmi delle mani.

“Ehi, guardami”, ma, visto che non si accennava ad alzare lo sguardo, le presi le mani fra le mie, sollevando l'intreccio in mezzo a noi.

Dalle mie spalle giunse un terrificante ringhio di avvertimento. Isa sciolse la presa, sorridendo in direzione di Edward.

“Ho un marito geloso”, constatò ridacchiando.

“Piuttosto stupido e infantile”.

Altro ringhio.

“Ma dai, fingi di prendere il sole(e mi dispiace comunicarti che non otterrai una bella abbronzatura neanche dovessi restarci per l'eternità, al sole) soltanto per controllare che non la sfiori”.

Edward si sollevò sui gomiti, gli occhi socchiusi per via della luce del sole e mi osservò senza emettere suoni.

“Che c'è, è la verità”.

Isa sorrise e percepì, quasi me lo stesso urlando, il suo desiderio di correre da lui, come se anche quei pochi metri di distanza le pesassero. Alle volte, capirla così bene era fastidioso.

“Ignora qualsiasi fonte di distrazione”.

Isa distolse lo sguardo da lui e lo riportò sul mio viso. Mi mancò il respiro.

“Ma io sento... tutto”.

Allora sollevai le mani, riportandole nella posizione di prima, distese tra di noi.

Isa, dopo avermi rivolto uno sguardo interrogativo, sollevò le mani alla mia stessa altezza, sulle mie senza tuttavia toccarle.

“Cosa vedi”, le chiesi.

“Te”.

“Cos'altro?”.

“Edward. La polvere, la luce, le goccioline di pioggia sulle cortecce degli alberi, il riflesso del mio viso nella rugiada”.

“Chiudi gli occhi”, obbedì.

“Cosa vedi?”.

“Niente?”, mi chiese con in certezza.

“Ora dimmi... cosa senti?”.

“Il cinguettio degli uccelli, lo sbattere rapido delle loro ali, la macchina da cucire di Alice, lo sfregare delle pagine di un libro, le auto sulla statale, il fiume, il tuo respiro”.

“Concentrati su un solo suono, qualcosa che ti rilassi ed escludi tutti gli altri”, dopo pochi istanti riaprì gli occhi.

“Sei concentrata?”.

“Al cento per cento”.

“Riuscire a diventare un tutt'uno con il tuo elemento non sarà difficile. Il difficile sarà sopportarlo. E data la tua nuova natura restare sotto l'effetto del fuoco per il tempo necessario sarà molto doloroso, più del normale e se non dovessi avere le forze per la battaglia finale, quella con te stessa, tutto quel dolore non sarà valso a nulla”.

“Per quanto tempo dovrò... bruciare?”.

“Io sono rimasto nel ghiaccio per quattro giorni”.

Nessuno dei due aggiunse altro.

“E se... tu hai detto di essere tornato umano grazie alle tue ferite. Anche io dovrei averle, forse compariranno e potrò tornare umana e...”.

“Non succederà. Io sono nato così. Per un elfennol non esiste abominio peggiore del modificare la propria natura. Noi siamo la natura, non possiamo rinnegarla. Ti confido che speravo saresti rinata con queste”, gli dissi indicando la mia schiena, “ma se non è accaduto non compariranno e tu dovrai affrontare la mutazione con la natura che ti sei scelta. E' una punizione”.

La vidi deglutire a vuoto.

“Hai detto di essere nato così, con queste strane ferite alla schiena, eppure non eri a conoscenza della tua natura di elfennol”.

“Mia madre, l'unica che l'avesse sospettato fin dalla mia nascita, mi aveva categoricamente proibito di parlarne, di menzionare le ferite. Temeva che, se fossero venuti a conoscenza della mia natura, mi avrebbero dato la caccia. Allora non lo capivo. Non capivo perché non potessi confidare a nessuno le mie particolarità, quello che mi accadeva, né perché mia madre fosse così severa, quasi glaciale”, mi lasciai sfuggire una risata, “ma essendo all'oscuro delle vicende, della mia natura e delle sue ragioni e soprattutto a causa della mia venerazione nei confronti dei nostri governanti, della guarda cittadina, mi rifiutavo di credere che potessero farmi del male. Li avevo idealizzati, tuttavia le diedi ascolto e tenni per me tutto ciò che non avrei dovuto rivelare. Sono nato il tredici settembre millenovecentoottantasette”, sussultò, “e per gran parte della mia vita non ho desiderato altro che essere come mio fratello maggiore, indomito, coraggioso, forte, veloce... Questo mio desiderio si rifletté nella volontà di entrare a far parte della guardia cittadina, fin quando Irmàn non morì. Lo odiai moltissimo, perché nonostante fosse così arrogante e sicuro di sé non aveva saputo resistere al sangue quando avrebbe dovuto farlo. E odiai loro, il nostro governo, per averlo lasciato morire. Le leggi nella città erano crudeli, solo allora me ne resi conto: quando quelle stesse leggi uccisero mio fratello, che aveva servito con onore e devozione la sua terra”.

“La mia famiglia apparteneva a un ceto medio-alto, per utilizzare un termine tipicamente umano. Non era il denaro a renderci nobili, ma gli anni di servizio prestati nella guardia e come Heliwr, ossia cacciatori, coloro che recuperano le prede e il sangue. Avevo vissuto per anni in una bolla dorata, per via della mia condizione sociale, ma quando mio fratello morì decisi di fare un giro nei “bassifondi”; la gente moriva di sete, non c'era legge da quelle parti né controllo. Intere famiglie erano state distrutte perché era lì, in quei luoghi, che venivano scelti per lo più i vampiri da consegnare ai Volturi. Rari erano i casi in cui un figlio del governo o del nostro stesso rango veniva scelto. Se laggiù conobbi la follia, la rabbia e il dolore, conobbi anche la compassione, l'intelligenza, l'esperienza. Gli Isel(quelli dei bassifondi) erano dotati di grande senso dell'umorismo e consapevolezza e resistenza perché a loro il sangue non arrivava settimanalmente ma mensilmente, forse. E soprattutto amavano la loro terra, non agognavano la superficie, il sole, come noi altri. Conoscevano tutti i sotterfugi del nostro governo e la verità sulle loro menzogne. Furono loro a parlarmi per la prima volta degli elfennol. Avevo letto molto di queste strane creature, ma li avevo sempre classificati come una leggenda. Quando mi dissero che gli elfennol erano reali non gli credetti. Barn, che sarebbe diventato il mio migliore amico, mi chiese di fidarmi di loro, di dargli la possibilità di vedere ciò che mi stavano dicendo. Mi diedero appuntamento ad una delle sedi periferiche del governo e fino agli ultimi istanti pensai di non andare, pensai che fossero dei pazzi assetati, dei cialtroni. Infine mi recai sul luogo e quel giorno la mia vita cambiò. Lì lo vidi per la prima volta, Ddaear, un mio simile, l'element della terra. Lo torturavano con una tale crudeltà per riuscire a piegarlo al loro volere... Come ti ho detto, cercavano un'arma da scagliare contro i Volturi, che li rendesse sufficientemente forti da sfidarli e occupare il mondo di sopra. Ma tentare di piegare un element è come voler controllare l'elemento che egli domina”, sorrisi al pensiero.

“Gli altri non si erano mai spinti più in là del solito punto d'osservazione, ma io non resistetti, qualcosa in lui mi chiamava. Assistere a quei maltrattamenti così da vicino è stato orribile, a oggi uno dei ricordi peggiori che io abbia e il non poter fare nulla per aiutarlo mi... devastava.

Mi rivelarono che i nostri governanti davano la caccia agli elfennol da sempre per spodestare i Volturi. Non condividevo il modo di fare del nostro governo certo, ma non capivo perché loro non desiderassero salire in superficie o veder cadere i Mokin-rui, che usavano alla stregue di oggetti i loro figli e fratelli. Ero arrabbiato.

Poi capì. Loro, quelli che il mondo di sotto conosce come i Droadol, i Ribelli, desideravano il cambiamento, ma nella loro terra, non altrove. Volevano la pace, non la guerra con i Volturi e soprattutto desideravano preservare la vita umana. Gli umani... non avevo mai pensato a loro come effettive creature senzienti, li vedevo sempre e solo come cadaveri o cibo. L'obiettivo dei Draodol era liberare Ddaear, poi spodestare i governanti, sostituendoli con altri eletti a maggioranza dal popolo. Barn aveva idee straordinarie, intendeva candidarsi. Lui credeva che i Volturi non costituissero la minaccia che ci facevano credere di essere. Pensava che anche ammesso che si fosse venuto a sapere della nostra esistenza questo non avrebbe distrutto la nostra pace come un'eventuale guerra contro i Mokin-rui e i vampiri di sopra. Perché i Volturi, data la loro autorità, avrebbero fatto credere a tutti voi chissà quali stranezze nei nostri confronti, vi avrebbero dato un nemico comune, vi avrebbero scagliato contro di noi e sarebbe stata la fine. Barn credeva in un approccio pacifico con i vampiri di sopra, lui intendeva semplicemente parlarvi, raccontarvi la verità su di noi e sui Volturi(che si servono dei nostri giovani per le loro battaglie e per tramare alle vostre spalle), prima che i Volturi stessi lo facessero.

Ma se i nostri governanti si fossero impossessati del potere degli elfennol niente avrebbe più potuto fermarli dal muovergli guerra. Il primo passo era quindi liberare Ddaear”.

“E ci siete riusciti?”, mi chiese.

“... No. Ddaear è ancora là sotto”.

“Da quel giorno, andai sempre a fargli visita. Dal punto in cui mi trovavo la mia voce non gli giungeva, ma potevo osservarlo. Tentavano di affamarlo, e lui, di nascosto, mangiava la terra che produceva”.

“Pensavo che Ddaear fosse un vampiro, un Moru”, aggiunse Ed.

“E lo è. Noi siamo in grado di nutrirci dell'elemento che produciamo”.

“Mi stai dicendo che anziché di sangue potrei nutrirmi di fuoco?”, mi chiese Isa.

“Sono necessari anni e anni di esperienza e in pochi ci riescono, ma sì”.

“Un giorno accadde qualcosa. Si avvicinava la fine dell'anno e quindi l'inizio di Trais per molti giovani Moru, alcuni dei quali sarebbero stati consegnati ai Volturi, c'era fermento nell'aria, ansia e paura. I governanti erano furiosi... perciò quel giorno lo torturano con sadismo per tentare di piegarlo al loro volere; lui mi dava le spalle, lo denudarono... e io le vidi, quelle ferite, le stesse che mi segnavano fin dal grembo materno. Fuggì sconvolto. Non poteva certo essere una casualità. Pian piano ricollegai tutti i pezzi, le mie particolarità, l'atteggiamento di mia madre e la sua paura. Ne fui spaventato, non uscì di casa per giorni, lessi e rilessi quelle che fino ad allora avevo considerato delle banali leggende, non impiegai molto a capire quale element fossi, lo sentivo nella pelle. Allora andai da Barn; gli raccontai ciò che avevo scoperto, gli mostrai le ferite, gli chiesi spiegazioni. Come avevo potuto non capirlo fino ad allora? Barn mi rispose che è necessaria una forte emozione per innescare il primo episodio e io non avevo fatto altro che contenermi, perché i grandi non piangono, persino alla morte di mio fratello.

Barn sosteneva che dovessi nascondermi o fuggire in periferia, io mi rifiutai di farlo, gli dissi che avrei liberato Ddaear. Sapevo che non avrei dovuto farmi catturare, altrimenti saremmo stati due nelle loro mani, ma non mi importava. Ideammo un piano d'attacco. Un gruppo avrebbe creato un diversivo, gli altri sarebbero entrati; io ero fra questi.

Ma le cose non andarono come avevamo pianificato; Barn è stato ucciso, gli tranciarono la testa di netto sotto il mio sguardo. L'ultima cosa che mi disse, che la sua testa mi disse, prima di essere arso vivo è stato: “Piangi”.

Io piansi e mi arrabbiai come mai prima nella mia vita. Esplosi, letteralmente, come l'onda di un mare in tempesta, scagliando punte di ghiaccio che trafiggevano e uccidevano. Ne uscì stremato ma loro erano in troppi, si avventarono su di me senza che potessi reagire, d'altronde non avevo idea di come fare di nuovo ciò che avevo fatto. Mi richiusero nella cella accanto a quella di Ddaear, le pareti e le sbarre erano rivestite di vinculum, toccarle significava perdere i nostri doni. Parlammo a lungo...

 

Chi sei?”, mi chiese, non appena si furono allontanati da noi.

Mi lasciai scivolare contro la parete, esausto fisicamente ed emotivamente.

Kristopher”, risposi.

Perché sei qui?”.

Perché ho tentato di liberarti e perché sono come te”.

La mano”.

Cosa?”.

La mano, dammi una mano”. Mi trascinai lungo la parete, stendendo il braccio oltre le sbarre.

La sua mano toccò la mia e lo udì sospirare.

Sei il secondo che conosco ad essere uguale a me. Sei l'element del ghiaccio, Kristopher”.

Annuì, prima di ricordare che in realtà non poteva vedermi.

Io sono l'element della terra”, mi disse, creando nel palmo della mia mano un pugnetto di terra.

Sono così stanco”, mormorai.

E' il viculum. Il materiale che riveste le sbarre, ti opprime, ti impedisce di utilizzare i tuoi doni”.

Ma tu l'hai fatto”.

Non ho detto che funzioni con tutti. Io ormai sono immune”.

Allora perché non scappi?”.

Perché non voglio”.

Io ti ho osservato, loro ti torturano, ti affamano...”.

Spiegami”, lo pregai.

Finché rimarrò qui saprò sempre quali sono le loro mosse”.

E perché ti interessa saperlo?”.

Perché così posso avvertirla e lei può continuare a fuggire”.

Chi?”.

La mia anima.... gemella”.

Come si chiama lei?”.

Non ne ho idea”.

Non conosci il nome della tua donna?”.

Lei non è la mia donna. Ma l'ho aspettata così a lungo, finalmente qualche anno fa è nata”.

Sebbene non lo vedessi percepì il sorriso sulle sue labbra.

Quindi tu accetti di farti torturare per proteggere una donna che affermi essere la tua anima gemella ma che in realtà non hai mai visto né conosciuto?”.

Esattamente”.

E come riesci ad informarla, a proteggerla”.

I sogni. Attraverso i suoi sogni”.

Sei fuori di testa”.

Quando proverai ciò che provo io capirai le miei scelte. Ma adesso bisogna pensare a come tirarti fuori di qui”.

 

Avevo letto, tra l'altro, di questo strano rapporto tra gli elfennol, del concetto di anima gemella. Lui era tutto ciò che i libri non riportavano, lui si lasciava torturare per un sentimento di cui avvertiva soltanto un debole sentore. Credo che fosse molto, molto antico. Ma non ho avuto il tempo di appurarlo. Ddaear fece vibrare la terra, tutti o comunque la maggior parte si recarono all'esterno, così lui ne approfittò per aprire la sua cella, uscire e aprire la mia.

Non appena fui lontano dal vinculum ripresi le forze, lo pregai di seguirmi, ma fu inutile. Ddaear mi disse di allontanarmi il più possibile e al primo sbocco uscire in superficie. Mi opposi, gli dissi che il sole mi avrebbe polverizzato, ma Ddaear mi chiese di fidarmi e non so, forse furono i suoi occhi, il suo viso o il suo tocco incredibilmente familiare, sta di fatto che mi convinse. Potete immaginare il mio stupore nel trovarmi alla luce del sole, vivo e integro. Prima che fuggissi mi consegnò il biglietto con le indicazione.

Tutto quello che so sulla mia natura lo imparai nei due anni trascorsi in superficie, quindi ancora molte cose mi sfuggono, ma il mio rimpianto più grande sarà per sempre quello di non essere stato in grado di salvare Barn. Se solo avessi saputo come usare ciò che la mia natura mi offriva prima di entrare là dentro, forse....”

“Quanti anni hai in realtà”, mi chiese Edward.

“Ventiquattro o per l'esattezza ventitré e sei mesi”.

“Sei nel bel mezzo dell'anno di Trais”.

Annuì.

“Noi elfennol abbiamo un maggiore controllo dei nostri istinti”.

Istintivamente cercai i suoi occhi, quelli di lei, e mi bastò uno sguardo per capire che qualcosa si stava incrinando, che un'idea prendeva forma nella sua mente.

“Cosa pensi?”, chiedemmo contemporaneamente io ed Edward.

Isa si sollevò, si ripulì i jeans dall'erba e dal terriccio inesistenti dopodiché ci osservò entrambi, rivolgendo infine lo sguardo al marito al mio fianco.

“Io non voglio avere rimpianti, Edward”.

Per un istante e contro la mia stessa volontà il cuore prese a battermi all'impazzata e siccome il fatto stesso che il mio cuore battesse era di per sé un'eccezione...

Ma mi ripresi immediatamente.

“Ho fatto una promessa a Tanya e ho intenzione di mantenerla... prima di mutare”.

 

…..........................

 

Bella

 

Quando lo vidi voltarmi le spalle, ebbi uno strano flash, il ricordo di un momento molto simile... Ma qualcosa da allora era cambiato: io. Ora ero certa del mio ruolo nella sua vita. Io era Isabella Cullen, sua moglie, lui non poteva voltarmi le spalle.

E infatti non lo fece, Edward non mosse neanche un passo, si voltò nuovamente nella mia direzione e mi osservò. Nei suoi occhi lessi tutto ciò che a parole faticava a dirmi: mi pregava di scegliere la strada più semplice, mi pregava di vivere. Io, in cambio, gli assicuravo che non mi sarei lasciata sconfiggere da niente e nessuno.

Mi avvicinai a lui, immergendo le dita fra i suoi capelli morbidi come la seta. Edward si appoggiò alle mie mani, inspirando l'odore dei miei polsi.

“Ho bisogno che tu creda che io possa farcela. Non è più forte di me, Edward, tutto il resto. Io sono più forte, io sono fuoco”.

“E luce”, mormorò.

Gli sorrisi.

Mio marito.

A guardarlo, bello come l'alba e il tramonto insieme, mi chiesi perché fosse spettato a me. Non ero così stupida da pensare di averlo meritato, ma di una cosa ero certa, per lui, per la favola che era mia vita favolosa avrei lottato con le unghie e con denti.

“Allora partiamo”.

Annuì.

“L' Irlanda”, proseguì Kristopher.

Annuì ancora.

“Sette giorni, hai solo sette giorni”, sussurrò Edward.

A questo limite non mi opposi.

“Conosci il suo nome?”, mi chiese Kris.

“Yuriy. Il bambino di Tanya si chiama Yuriy”.

P.s sono in dubbio se postare una nuova storia molto molto diversa da questa... voi cosa ne pensate?

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Capitolo 17
*** Aspettando... ***


Buonasera. innanzitutto scusate non avrei voluto darvi false speranze ma questo non è il capitolo, è soltanto una sorta di avviso corredato da uno spoiler del prossimo cap che sto scrivendo. So che l'attesa è lunga e non posso permettermi tempi di aggiornamento più brevi. Quindi per quetso vi chiedo scusa, ma postare così tardi è l'unico modo per continuare la storia e non interromperla. Ringrazio anticipatamente chi ha recensito lo scorso cap, risponderò alle recensioni quanda sarà pronto un capitolo. Vi ringrazio per il tempo che dedicate alla mia storia, per il fatto che siate ancora qui ad aspettare i miei aggiornamenti. Siete angeli... detto questo vi lascio una piccola anticipazione e spero davvero con tutto il cuore che continuerete a seguirmi ugualmente. Spero di non aver deluso nessuno, se non altro per i contenutii. Grazie mille per l'attenzione, un bacio grande e scusate ancora...

Lo osservai, mentre anche lui si sfilava il cappatto, rivelando le sue spalle, le scapole, le braccia forti. E in preda agli istinti mi ritrovai a desiderarlo ancora, avrei voluto avere giorni e giorni e passarli a fare l'amore con Edward....

Mio marito si chinò a baciarmi. Lo agognavo da ore ormai e mentre le sue mani mi accarezzavano i fianchi e le sue labbra vezzeggiavano la pelle candida del mio collo, io aspettavo... aspettavo l'estasi, l'euforia, il fuoco, ma non arrivarono.

Sentivo soltanto... non sentivo niente. Niente.

Quasi non fossero le mani di mio marito ad accarezzarmi, quasi fossero le mani di un estraneo. E più passavano i secondi più il suo tocco si faceva sgradito.

Dimenticavo... ho pensato il capitolo diveramente, doveva arrivare a un certo punto, ma se volete che posti lo farò adesso. A voi la scelta!

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Capitolo 18
*** 16) Un luogo per la tua anima -parte prima ***


Buonasera!! Sì, sono viva se è quello che vi state chiedendo. Ok, non ho davvero modo di scusarmi per l'enorme ritardo, ma non ho potuto fare altrimenti!! Tra la scuola, il mio 18 anni, la patente stavo davvero sclerando... comunque vorrei anticipare che il capitolo non doveva concludersi qui, ma se avessi continuato probabilmente avreste dovuto aspettare altri due mesi e ne sarebbe uscito qualcosa tipo quaranta pagine, quindi ho pensato fosse meglio fermarmi qui. So che è passato molto tempo ma spero che abbiate ancora voglia di leggere e di commentare sorpattutto, fatevi sentire :) Please non uccidetemi per quanto leggerete... Ps scusate gli errori di battitura, ho corretto...

 

16) Un luogo per la tua anima

 

Bella... Ho bisogno che tu sappia qualcosa...”.

 

Ricordo di aver trattenuto il respiro, quando ancora respirare mi era indispensabile, non appena Tanya ebbe pronunciato quelle parole affrettate .

 

All'incirca quattro anni prima che mia madre mi trasformasse ero rimasta incinta di un bambino, Yuriy, che dovetti abbandonare sulla soglia di una casa, perché se non l'avessi fatto mio padre l'avrebbe ucciso. Vegliavo su di lui preoccupandomi che non gli mancasse niente. Ma allontanarmi da mio figlio fu come privarmi di una parte di me. Mi mancava, molto. Tuttavia ero cosciente di aver compiuto la scelta giusta per il mio bambino. Dopo la trasformazione tutte le emozioni sono amplificate, così iniziai a star male per lui, la distanza divenne insopportabile. Compì il gesto in assoluto più brutto della mia esistenza: lo portai via alla sua famiglia e lo trasformai. Assistere alla sua... a quella tortura fu orribile, me ne pentì all'istante, ma ormai era tardi. Sasha ci trovò, mentre il mio bambino era ancora in agonia, mi disse che l'avrebbe portato in un posto sicuro e che avrebbe badato lei a Yuriy, io non avrei mai, mai dovuto rivederlo. Col senno di poi capisco il perché: creare bambini immortali era vietato dalla nostra legge. Mia madre mi protesse. Quando i Volturi ci trovarono, all'epoca vivevamo in Irlanda, lei si fece uccidere pur di non rivelare il mio segreto. In seguito, prima che ci trasferissimo, scoprì che Yuriy era stato affidato a una tribù locale molto particolare, ma ho sempre continuato a prendermi cura di mio figlio, nonostante mi trovassi all'altro capo del mondo. Se dovessi... se dovesse accadermi qualcosa, devi promettermi che ti prenderai cura di lui”.

 

Ed io promisi.

 

Afferrai la mia borsa da viaggio color verde militare, la stessa nella quale avevo saputo raccogliere una vita intera e con la quale avevo varcato i cancelli della Harvard University. Quei giorni sembravano talmente lontani...

Mentre riponevo l'ultima maglia, mi chiesi distrattamente se la fiducia che avevo lasciato trapelare a beneficio di Edward e del resto dei Cullen mi appartenesse realmente; mi chiesi se avrei trovato nel fuoco che mi scorreva nella vene la forza necessaria a sopravvivere.

 

Lo scontrarsi di stoffa contro pelle, il profumo di frutta di stagione e vento e chanel attrasse la mia attenzione.

Incredibile come ogni singolo essere vivente e non avesse un proprio odore.

“Ti invidio”, le dissi.

Alice rise; non di quelle risate che ti scaldano il cuore, ma rise.

“Come mai?”, mi chiese, sedendo sul mio letto a velocità tale che faticai a vederla nonostante i miei nuovi occhi. Dondolava le gambe magre come una bimba, vagliando con occhio critico gli indumenti che stavo scegliendo.

“Vorrei riuscire a vedere più in là”, le risposi.

“E' da un po' che non vedo più il là del mio naso”, sospirò.

Le carezzai i corti capelli corvini.

“Dalla battaglia le mie visioni di te si sono fatte poco chiare fino a sparire, il futuro di Edward è così incerto che scrutarlo mi procura un gran mal di testa, altrettanto Emmet. Rose... Rosalie è talmente fuori di sé da non riuscire neppure a pensare, figurarsi prendere una qualsiasi decisione. E Carlisle è molto... silenzioso, cupo, qualcosa lo tormenta profondamente. E io sono impotente, Bell, la mia famiglia si sgretola. Tutto va a rotoli e io non ho saputo prevederlo, capisci?”.

Alice si strinse le ginocchia al petto, poggiandovi la guancia pallida.

“A volte il futuro è semplicemente imprevedibile, Alice”.

“E' un po' difficile da accettare”, borbottò.

“Forse per te, ma per noi comuni esseri non mortali è normale amministrazione”.

“Sembri tranquilla”, disse, osservandomi con i suoi grandi occhi scuri, “ma non mi inganni, Bell. Non sarò in grado di vedere il tuo futuro, ma capisco ancora quando qualcosa non va”.

Acuì l'udito, accertandomi che nelle vicinanze non ci fossero vampiri in ascolto.

“Sto rischiando il tutto per tutto”.

“Sei sicura della tua scelta? Puoi ancora cambiare idea”.

“No, ne sono sicura. So di avere la forza e di poter mantenere la promessa in tempo per la mutazione, ma ho ugualmente paura. E penso a tutto quello che potrebbe andare storto e al dopo, se invece tutto dovesse andare per il verso giusto, mi ritroverei a dover accudire un bambino, che fra parentesi è una violazione delle nostre leggi, in più sono un vampiro da poche ore e ho sete e ho momentaneamente accantonato tutto quello per cui ho lavorato negli ultimi mesi; qualche settimana fa Edward era impossibile oggi è mio marito e penso a mio padre e mia madre e penso a Isabella Swan che è morta nell'unico modo in cui avrebbe voluto morire, ma comunque è morta e penso a Ian...”.

“Ehi, ehi, calma”, mi scosse, stringendo le mie mani, “troppi cambiamenti, lo capisco ma tieni a mente che tutto è amplificato dalla trasformazione, quindi cerca di focalizzare. La maggior parte delle cose che hai elencato sono passate e di certo non costituiscono un problema. Qual è il vero problema, Isa?”.

“Isa, mi prendi in giro?”, le ringhiai.

Alice rise, ancora di quella risata che non ti scalda il cuore. Ma rise.

“Cosa vuoi che ti dica, che il mio problema è Ian”.

“Preferisco Kristopher, è molto più affascinante”.

“Cosa cerchi di fare?”, le chiesi.

“Cerco di capire, in quanto non mi è dato vederlo, se ti innamorerai di lui. A meno che tu non lo sia già?”.

“Pensi sul serio che mi innamorerò di lui”.

“Edward è mio fratello, non vorrei che dovesse soffrire, ma tu sei mia sorella... se Kristopher ha ragione, lui potrebbe essere la tua felicità”.

“Edward è la mia felicità”, replicai.

“Cosa dici... Alice, non dovresti neanche pensare...”.

Tu devi pensarci, ok? Seriamente intendo, non lasciare che sia la tua testardaggine a parlare al posto del tuo cuore”.

“Credi che io stia con Edward soltanto perché sono testarda? Pensi che io non lo ami?”.

“Non ho detto questo. Soltanto... quello che ti spinge verso Kristopher potrebbe essere più forte di quello che provi per Edward, più forte di te...”.

“Ho smesso di credere che esista qualcosa più forte di me”, replicai e per qualche istante si udì soltanto il rumore della zip della mia borsa.

“Non hai neanche preso in considerazione l'eventualità di non opporti e che Kristopher, non Edward, sia la cosa migliore per te?”.

La osservai senza trovare parole da aggiungere, e continuai a fissare il punto in cui lei era stata seduta, anche quando fu uscita dalla stanza, senza trovare parole.

Io sentivo che non poteva esistere sentimento più grande di quello che mi legava ad Edward, ma per la prima volta dopo anni ne dubitai, fu soltanto una frazione di secondo durante la quale il ricordo di quel che avevo provato quando i miei occhi erano ciechi e non avevo altro oltre il suo odore e la sua voce a indicarmi chi fosse lo strano ragazzo che mi aveva tratto in salvo mi apparve in tutta la sua maestosa pericolosità.

 

La sua voce era tutt'altro che rassicurante, ma toccò corde profonde nel mio cuore, vi impresse un marchio che bruciava come il ghiaccio secco. Non riuscì a temerlo, nonostante fosse a tutti gli effetti uno sconosciuto e nonostante la mia mancanza che mi rendeva vulnerabile. Desiderai fortemente poterlo guardare in viso. Gli permisi di continuare ciò che stava facendo, di ripulire lo sporco dal mio corpo metaforicamente e non.

 

Per pochi secondi, al suono della sua risata, dimenticai quell'orribile giornata. Dimenticai la mia “morte apparente” che aveva rischiato di divenire reale. Dimenticai la mia famiglia che in preda all'angoscia mi stava cercando. Dimenticai Edward...

 

…..........................

 

“Siate prudenti”, mi chiese Esme, dopo avermi liberata dal suo abbraccio.

“Certo”.

Carlisle mi lasciò una carezza tra i capelli. “Se dovessi sentire che diventa troppo...”.

“Non permetterò che mi accada niente”, lo rassicurai.

Lanciai un rapido sguardo ad Alice e Jasper, intenti ad osservarsi senza muovere un muscolo né sbattere le palpebre, quasi a imprimersi la reciproca immagine nelle retine così che a ogni bruttura potessero sostituire l'immagine del viso amato.

Istintivamente mi voltai in direzione di Edward, trovandolo a osservarmi. Ci amammo senza amarci davvero, e lì, a metà strada, per la prima volta seppi che quel viaggio avrebbe cambiato qualcosa ed ebbi un orribile, orribile presentimento. Simile a quello che mi divorava nei giorni precedenti al suo abbandono. E fui tentata di afferralo e fuggire insieme il più lontano possibile, invece, prima che me ne accorgersi eravamo fuori dalla porta d'ingresso, io, Edward, Alice ed Ian.

 

“Sicura di poterlo sopportare?”, mi chiese Edward.

Sopportare cosa? L'odore del sangue delle decine di umani che voleranno con noi? Il desiderio assillante, mai taciuto, dilaniante che ho di te? Il suo viso e i suoi occhi cangianti e colorati che seppure guardano altrove sento sempre addosso?

In risposta gli lasciai una carezza sul viso.

 

Il mio ultimo volo in aereo risaliva a quasi due anni prima. Era assurdo come il mio punto di partenza, quell'aeroporto a Finix, sembrasse così lontano. Chissà come sarebbe stata la mia vita se non avessi deciso di partire? Certamente non avrei sofferto quel che stavo soffrendo in quell'istante, con la gola che ardeva bramando sangue, ma, in ultima analisi, osservando la fede d'oro giallo al mio anulare e le dita di mio marito che stringevano le mie, non sentivo il bisogno di scoprirlo.

Deglutì veleno e il fuoco mi raschiò la gola. L'uomo al mio fianco si irrigidì, forse percepiva l'aura di morte emanata dal mio corpo.

Mancano soltanto tre ore, mi ripetevo, tentando di convincermi a non uccidere nessuno e farmi bastare il gryzzle e i due leoni di montagna che avevo dissanguato la sera precedente.

Più facile a dirsi che a farsi.

Tentai di distrarmi, ascoltando ciò che mi circondava, intrufolandomi nelle vite altrui.

Spero che mi diano questo lavoro, altrimenti cosa dirò a mia moglie”.

E se non mi amasse più”.

Ho l'impressione di aver dimenticato qualcosa, sapevo che avrei dovuto ricontrollare il bagaglio prima di imbarcarlo...”.

Ecco, la solita sfiga. E' in ritardo di tre giorni e proprio oggi doveva arrivarmi, come se non mi bastasse questo mal di testa. Spero di avere qualche assorbente in borsa...”.

Quando si dice al momento giusto e nel posto giusto. Percepì l'odore del suo sangue prima ancora di sentire la conclusione di quella frase borbottata a mezza voce.

In un millesimo di secondo fui in piedi, con un meta e un obiettivo.

“Signorina, signorina si sieda, è stato chiesto di allacciare le cinture di sicurezza, il pilota ha annunciato che ci saranno delle turbolenze”.

“Signorina”.

Ma la voce steward non era che un mero sottofondo a quella che sussurrava morte nella mia mente.

Mi scansai al tocco di Edward prima ancora di percepirlo effettivamente sulla mia pelle, non capivo come ci fossi riuscita, sta di fatto che non poté afferrarmi. Continuai a puntarla, mentre rovistava, a un tratto qualcosa, forse l'umano istinto di sopravvivenza, la avvertì della morte che incombeva e sollevò lo sguardo sul mio viso. Sapevo, dentro di me me sapevo che esisevano numerose e valide ragioni per cui avrei dovuto risparmiarla, ma a guidarmi non era la mia razionalità, bensì la mia bestialità.

Vidi il terrore nei suoi occhi azzurri prima che a questi se ne sovrapponessero altri, altrettanto chiari.

Kristopher mi strinse per i polsi, quietando con il suo ghiaccio il fuoco che era pronto a divampare dalla mia pelle. Non lo avevo sentito arrivare.

“Tu le salvi le persone, non le ammazzi”, sussurrò, ma con una tale intensità che pensai me lo stesso urlando.

Ci fu un istante in cui vidi quel futuro che aveva descritto, fatto di noi. Era così facile smarrisi in quegli occhi cangianti e colorati. Capì che aveva intuito le mie mosse prima ancora che io stessa le pensassi, anticipandomi. Capì che nessun'altro in quell'aereo avrebbe potuto fermarmi né Edward né Alice se avessi voluto uccidere, perché nessuno era in grado di arrestare una tale forza della natura. Solo lui avrebbe potuto. Allora, in un istante di lucidità, lo implorai di farlo: “Fermami”.

Il mio corpo lo contrastava, tentando si sfuggirgli, la mia mente lo implorava. Chiedeva aiuto perché il mio corpo non rispondeva ai suoi comandi. Percepì il ghiaccio intorno alla mia pelle. Come l'acqua che spegne un incendio tentava di spegnere me.

Ringhiai fra i denti.

“Non te lo lascerà fare, Isa. Puoi batterla, la sete puoi combatterla”.

“Il. Mio. Corpo. Non risponde.”, risposi.

“Tu sei più forte di così, trova la forza dentro di te”, le sue dita tracciarono un percorso sulle vene bluastre della pelle del mio polso. “Trova la forza in ciò che ti scorre nelle vene, nella tua natura più profonda... e non mi riferisco al tuo essere un elementale”.

“Cosa vuoi essere, Isa, un mostro o un medico?”, mi chiese, dopodiché lasciò libero il passaggio.

Davanti a me, la ragazza ancora mi osservava; non doveva essere trascorso più di un minuto.

La scelta era la mia.

Per tutto il tempo in cui restammo sole, io e lei su quell'aereo, vagliai migliaia di possibili modi di ucciderla e un unico pensiero, quello decisivo, mi diede la risposta postami da Ian. Cos'ero? Un mostro o un medico? Pensai alla bambina col pigiama giallo, sepolta sotto metri di terra nel piccolo cimitero di Forks. Allora, semplicemente, girai i tacchi e tornai al mio posto.

Edward mi scrutò con apprensione, mi baciò il dorso della mano poi il palmo.

Gli sorrisi, rassicurandolo, ma in cuor mio piangevo al ricordo di quella predizione, quella di Ian. Capì cos'era a inquietarmi di quel viaggio: temevo di innamorarmi di lui e sapevo che sarebbe stato molto semplice.

 

….............................

 

I vampiri sono le uniche creature a sopravvivere a un viaggio di diverse ore in aereo senza neppure un abito sgualcito. Apparivamo perfetti, perché eravamo congelati. Mi sarebbe mancate la stanchezza?

No.

Doveva far freddo, gli umani si stringevano nelle loro giacche e felpe pasanti; tirava vento.

Ad aspettarci, appena fuori dall'aeroporto, una macchina a noleggio con in vetri rigorosamente oscurati. Era notte, ma l'indomani l'avremmo usata per spostarci e benché l'Irlanda fosse nota per il suo cielo plumbeo non potevamo rischiare.

Edward lasciò che fosse Alice a guidare. L'avrei trorvato strano, se non lo avessi conosciuto così bene. Era stato molto in pensiero per me, non tollerava una qualsiasi separazione, seppur breve.

Trovavo sempre nel viso di mio marito un appiglio, un porto sicuro, quella sera non riuscì a guardarlo a lungo.

Al Lansdown Hotel erano state prenotate tre stanze a nome Cullen.

Una camera matrimoniale, due singole.

“Domattina inizieremo le ricerche”, li informò Edward. Alice ed Ian annuirono.

Non necessitavamo di riposo e sebbene a guidarci fosse l'urgenza, avevamo deciso di prenderci quella notte per riorganizzare le idee. E ideare un piano.

“Buonanotte”.

“Buonanotte”, rispose Alice che mi riservò un rapido sguardo indagatore, poi girò i tacchi e scomparve nella propria stanza. Ero certa che Jasper le mancasse molto, ma avevamo pensato che qualcuno di noi dovesse rimanere accanto ad Emmet e chi meglio di Jasper, con il suo dono...

“Buonanotte”. Kristopher sussurrò in maniera quasi inudibile. Appariva timoroso, ma il termine giusto per descriverlo mi sembrò sconfitto, senza fiato. Quasi faticava a voltarci le spalle, a perderci di vista, quasi sembrava implorarmi con i suoi occhi colorati di una supplica che non riuscivo a comprendere. Infine chinò lo sguardo e scomparve.

Sarebbe stata una notte lunga e faticosa.

Mi tolsi il soprabito, abbandonandolo sulla sedia all'entrata. Non lasciai che mi chiedesse nulla sulla mia salute o il mio umore.

“Tanya ha parlato di una tribù molto particolare, ma non ha specificato niente circa il luogo in cui avrei potuto trovare il bambino”.

“L'Irlanda non è grande, ma in ogni caso setacciarla richiederebbe più di una settimana e noi non l'abbiamo”, constatò.

Lo osservai, mentre anche lui si sfilava il cappotto, rivelando le sue spalle, le scapole, le braccia forti. E in preda agli istinti mi ritrovai a desiderarlo ancora, avrei voluto avere giorni e giorni e passarli a fare l'amore con Edward.

“Niente distrazioni”, mi ammonì da sola.

“Penso si riferisse a una tribù celtica. Ma qui in Irlanda è come cercare un ago in un pagliaio”.

“Ho fatto qualche ricerca la notte scorsa”, mi disse, “mentre eri a caccia. Ho trovato una lista di tribù: Vennicni, Iberni, Darini, Coriodni...”.

Mi avvicinai, mentre estraeva il pc e apriva una pagina di google.

“Quella che ha colpito maggiormente la mia attenzione è stata questa”, mi indicò la schermata.

“I Cauci”, lessi, “una tribù nata nel secondo secolo dopo Cristo, adoratori di Maponos, divinità celtica protettrice della giovinezza, credevano nella vita eterna e che questa fosse un dono di Maponos a chi compiva buone azioni. Secondo la leggenda, Maponos avrebbe preso in moglie Arnemizia, dea della morte e da questa unione sarebbero nati i mezzo-sangue, custodi della vita e portatori di morte, i vampiri, e in quanto figli di divinità li adoravano come fossero tali. Una tribù nomade che riuscì a colonizzare il Paese interno, a nord e a sud”.

Di seguito una mappa contrassegnata dalle regioni in cui la tribù si era insediata. Praticamente l'Irlanda intera.

“Come faremo a sapere dove andare? Non possiamo certo tirare a sorte”. Iniziavo a credere che sarei morta prima di trovarlo... iniziavo a perdere la speranza.

Edward mi sfiorò le spalle, rassicurandomi: “Troveremo un modo”.

Gli credetti, naturalmente.

Mio marito si chinò a baciarmi. Lo agognavo da ore ormai e mentre le sue mani mi accarezzavano i fianchi e le sue labbra vezzeggiavano la pelle candida del mio collo, io aspettavo... aspettavo l'estasi, l'euforia, il fuoco, ma non arrivarono.

Sentivo soltanto... non sentivo niente. Niente.

Quasi non fossero le mani di mio marito ad accarezzarmi, quasi fossero le mani di un estraneo. E più passavano i secondi più il suo tocco si faceva sgradito.

Mi scostai da lui con rabbia, nervosismo. Incredula da ciò che stava accadendo all'interno del mio corpo. Io lo desideravo come l'aria, quanto il sangue. Io sapevo di desiderarlo, ma il mio corpo la pensava diversamente. Andai nel panico. Perché mi mancava, il desiderio di mio marito mi mancava.

Mio Dio.

“Bella”, mi chiamò, anche lui incredulo. Senza capire cosa stesse accadendo.

“Scusami, io... ho sete, troppa... non riesco. Ho bisogno di cacciare”, borbottai sbrigativamente.

“Certo, ti accompagno”.

“No”, urlai, ringhiai, inconsciamente, “non è necessario. Resta pure in camera a pensare a cosa fare, io rimarrò nei dintorni”.

“Bella, non puoi allontanarti da sola, lo sai. Potrebbe accaderti qualsiasi cosa. Ian deve accompagnarti...”.

Ian... l'unico che sapeva cosa fare e quando fosse il momento di mutare. Lui doveva starmi accanto, era questo lo scopo della sua presenza.

“No, no Edward. Torno tra poco”, dopodiché sparì fiondandomi giù dalla finestra e corsi in quella notte buia e nuvolosa, alla ricerca di quella parte di me che temevo di aver perso per sempre.

Quando tornai in camera lui non c'era, rientrò soltanto alle prime luci dell'alba, le ciocche ramate umide di rugiada. Avrei voluto desiderarlo. Sapevo di desiderarlo. Ma in realtà non lo desideravo.

Avevo pensato molte, quella notte, sola com'ero. Ed ero giunta ad una conclusione: Ian era stato sincero. Mi sarei innamorata di lui, il mio corpo si stava già innamorando. Tuttavia ero lucida abbastanza da rendermene conto, il ché significava che avrei potuto risolvere la situazione prima che fosse irreparabile. Non appena avessimo trovato il bambino e non appena avessi concluso la mutazione, avrei chiesto ad Edward di andare via insieme. Dovevo soltanto stare lontana da lui per una settimana, evitare di rimanere da soli e soprattutto evitare quegli strani “collegamenti”.

Se pure non lo desideravo, Edward restava l'uomo che amavo, il mio compagno, il mio migliore amico, mio marito. Mi fiondai tra le sue braccia. Edward mi strinse quasi avesse timore di toccarmi, con una tale leggerezza che stentai a sentirlo sulla pelle nonostante i miei super sensi. Gliene fui grata.

Quella mattina eravamo entrambi consapevoli che qualcosa si era rotto.

Pochi minuti più tardi Alice bussò alla nostra porta, seguita da Kristopher. Mi impegnai a non incrociare il suo sguardo, con la stessa forza con cui si tenta di allontanare due calamite di carica opposta.

Edward illustrò loro la situazione, poi disse: “Dovremo dividerci, due di noi andranno a Nord, gli altri a Sud”.

A quel punto calò il silenzio. E percepì nuovamente quella strana sensazione, che si andava intensificando.

Edward mi lanciò uno sguardo eloquente, quasi si aspettasse che carpissi un messaggio.

E poi capì e deglutì, nel momento stesso in cui pronunciò le seguenti parole: “Io ed Alice andremo a Nord, Bella ed Ian a Sud”.

Certo, lui doveva venire con me. Se mi fosse succeso qualcosa, se fosse giunto il momento della mutazione lui lo avrebbe capito e mi avrebbe aiutata. Non potevamo separarci.

Non dovevamo.

Ma io non potevo assolutamente stare da sola con lui o sarebbe stata la fine per il mio matrimonio appena iniziato, per il mio amore... lo sentivo, non avrei avuto la forza di combattere se ad ostacolarmi era il mio stesso corpo.

“No”, mi opposi, afferrando Edward per il braccio.

Lui deglutì, chinò lo sguardo onde evitare di incrociare il mio.

“Edward”, lo chiamai, lo implorai di non farmi stare con lui, di non lasciarmi a lui.

Mio marito sollevò il mento e nei suoi occhi lessi un dolore talmente acuto che mi tolse il respiro e le parole e le lamentele e la forza.

Edward mi carezzò il capo con estrema delicatezza come fossi fatta di cristallo anziché diamante.

Lui sapeva.

Sapeva.

Nei suoi occhi d'ambra lessi tutto ciò che non aveva la forza di dire.

La scelta è tra il nostro amore e la tua vita. Sceglierò sempre la tua vita. Hai bisogno di lui”.

Col senno del poi, forse avrei dovuto impedirlo, forse avrei dovuto chiedergli di tornare a casa. Forse avrei dovuto mutare così da essere libera e indipendente.

Sta di fatto che non dissi nulla, lasciai che le cose andassero come stavano andando.

Ero convinta di avere la forza di far sopravvivere il mio amore per Edward?

O forse volevo che le cose andassero come stavano andando?

Due ore più tardi, zaino in spalla e cartina in mano eravamo al centro esatto di Dublino di fronte allo Spire, che ricordava un po' un ago e il cielo plumbeo il suo ricamo.

Alice mi strinse forte fra le sue braccia , mi carezzò una guancia e io adagiai il viso sul suo palmo.

“A presto, sorellina”, mi disse.

“Tu sarai sempre mia sorella, questo lo sai vero?”, mi chiese.

Annuì.

“Andrà tutto bene”, la rassicurai.

Lei mi sorrise.

La vidi accostarsi ad Ian, ma io non avevo occhi che per lui, mio marito.

Edward mi si avvicinò, con la sua solita eleganza, ma appariva pesante.

Fui io ad accarezzargli il viso e le ciocche ramate e le labbra e gli occhi. Edward serrò le palpebre, in attesa. Lo vidi contrarre i muscoli delle braccia e stringere i pugni, quasi a trattenersi dall'afferrarmi. Mi lasciai andare sul suo petto, portando le sue braccia a cingermi la vita. Ci abbracciammo a lungo, all'ombra di quel monumento, tra le migliaia di persone che affrettate ci sfilavano accanto senza prestarci alcuna attenzione. Nessuno dei due disse niente.

“Andrà tutto bene”, gli dissi, ripetendo le stesse parole con cui avevo tentato di rassicurare Alice.

Edward sorrise, allo stesso modo della sorella.

“Andrà tutto bene”, lo pregai di credermi, “ricordi, io sono pronta a sfidarle le stelle, il destino o chi per lui, lo penso ancora”, sussurrai.

Edward afferrò le mie mani, chinò il capo su di esse e vi depose un bacio con tutta la disperazione che aveva in corpo. Una disperazione che mi immobilizzò. Quindi lo vidi stringere la mano di Ian e sparire tra la folla.

Rimasi a guardare fin quando persino i miei occhi non smisero di vederlo.

“Manterrò la promessa che ho fatto a mio fratello, non ti toccherò Isa, non vi farò del male. Sono qui per aiutarti, nient'altro”.

Distolsi lo sguardo e mi permisi di guardarlo, nonostante lo avessi evitato per tutta la mattina.

Era sincero. Lo leggevo chiaramente dal suo viso.

Annuì.

Ian si voltò, imboccando la direzione opposta a quella in cui si erano diretti Edward ed Alice. Ma io non riuscivo a muovere un muscolo. Ero terrorizzata. Dove mi avrebbe portato quel viaggio? E con quali conseguenze? Sollevai il mento a osservare la punta di quell'ago enorme al centro di quella città varia e sconosciuta.

Pioveva.

 

…..............................

 

Dublino era straordinariamente affollata, mi ricordava Phoenix. Quel pensiero mi riportò alla mente l'ultima conversazione avuta con i miei genitori, il giorno prima di partire. Li avevo avvisati che sarei partita con un'amica del college per qualche giorno, che li avrei chiamati io quando fossi tornata a casa. Charlie mi aveva rassicurato, dicendomi che Renée sembrava stare meglio e questa volta era sincero.

Una preoccupazione in meno.

Non appena fummo lontani dal centro abitato, iniziammo a correre. Le nostre gambe erano certamente più rapide dei mezzi pubblici. La nostra prima meta era un paesino di nome Clare Cestle, poi Kilkenny, Galway e in fine la costa ovest, nei pressi delle famose e a detta di google meravigliose scogliere di cliff of moher. E avevamo poco meno di cinque giorni. Per lo più non avevamo idea di cosa cercare. Traccie di tribù esistite secoli fa? Popolazioni nascoste in qualche foresta agli occhi della gente? Nonostante fossi un vampiro/elfennol faticavo a credere che esistessero ancora in un luogo così affollato e tecnologicamente avanzato come l'Irlanda.

“A cosa pensi?”, mi chiese. Correvamo in silenzio da venti minuti oramai, Clarecastle doveva essere vicino.

“Penso che tutto questo sia assurdo, speriamo davvero di trovare una antica tribù celtica in Irlanda?”.

“Sei forse l'ultima persona al mondo a poter essere scettica su qualcosa”, rise.

Non potei trattenermi dal sorridere.

“Non credo in ciò che non posso vedere o toccare o percepire in qualsiasi altro modo”.

“Questo lo avevo intuito”, sussurrò. “Ci siamo”.

Mi guardai intorno, rallentando la mia corsa. Di fronte a noi si ergeva una schiera di villette identiche, circondate dal verde. Non il verde a cui ero abituata: il verde di Phoenix né tanto meno quello di Forks. Ma un verde cartolina, talmente bello da sembrare finto. Una strada pulita si biforcava in svariate direzione che conducevano a quartieri diversi. Sembrava tutto così tranquillo, pochi dettagli facevano pensare all'epoca in cui ci trovavamo. Avrebbe potuto benissimo essere un quartiere anni trenta, non fosse stato per l'Alfa Romeo Giulietta parcheggiata nel vialetto accanto. Respirai ciò che mi circondava.

Quando riaprì gli occhi, Ian mi dava le spalle, si trovava a pochi metri di distanza da me e osservava qualcosa.

“Guarda”, mi disse, facendo cenno affinché mi avvicinassi. Mi accostai a lui, ma sempre a debita di stanza, se anche lo notò non ne fece parola.

“Il Cauci”, lessi. “Quel locale ha il nome della tribù che cerchiamo”, constatai. Ian annuì. “Potrebbero sapere qualcosa”, borbottò.

“Andiamo”, lo esortai e corsi in direzione del caffè.

“Aspetta”, Ian mi bloccò prima che potessi entrare nel locale, afferrandomi il braccio. Il suo tocco... mi sconvolse, letteralmente. Stimolò ogni recettore tattile della mia pelle, accese e lenì il fuoco contemporaneamente. Mi ritrassi.

Lo vidi scuotere il capo. Evidentemente non ero stata l'unica a percepirlo.

“Te la senti di entrare? E' affollato di umani, sangue fresco”, sussurrò in fine.

A quel punto fui costretta a valutare le sue parole o per meglio dire la mia sete. Sebbene avessi cacciato solo poche ore prima, la mia gola era già riarsa.

“Facciamo così... Fa a meno di respirare, ma ricorda di sollevare le spalle”.

“Non posso parlare se non posso respirare”, gli feci presente.

“Non è necessario che parli”, mi sorrise, di quel sorriso obliquo alla “so tutto io”. “Reggimi il gioco”.

Detto ciò, non mi lasciò il tempo di ribattere, aprì la porta ed entrò.

Lo seguì a ruota, concentrandomi sul movimento costante delle mie spalle piuttosto che sul battere dei cuori e sulla tentazione di annusare.

Ian mi indicò di precederlo verso il bancone, dietro il quale una donna sulla quarantina, occhi verdi, pelle chiara e corti capelli color carota, versava del liquido ambrato in un paio di bicchieri.

Alzò lo sguardo quando entrammo nel suo campo visivo periferico.

Ci sorrise con circospezione. Era diffidente perché eravamo estranei rispetto alla sua abituale cerchia di clienti.

“Fa gli occhi da cerbiatto”, mormorò così rapidamente che stentai ad udirlo.

“Salve, potrebbe portarci due caffé?”, la donna annuì, ancora sospettosa.

Lo colpì a un braccio, come a chiedergli spiegazioni. Mi liquidò con un gesto della mano.

La donna tornò con due caffé fumanti, l'odore della caffeina mi nauseò.

“Cosa c'é cara non ti piace?”.

Stavo per risponderle, con una qualsiasi frase di circostanza, ma lui mi precedette sul tempo. “Non può sentirla, è sordomuta”.

Cosa? Se non fossi stata un vampiro con rapidi tempi di reazione, la mia espressione ci avrebbe smascherati.

“Oh”, gli occhi della donna si addolcirono immediatamente e la sua pelle assunse una sfumatura simile a quella dei suoi capelli.

“Mi dispiace”, disse, accarezzandomi il dorso di una mano. Imposi al sopracciglio che era slittato in alto di tornare al suo posto.

Tutto questo perché non dovessi respirare? Mmh... supposi che in realtà il mio disagio lo divertiva. Le sorrisi, sbattendo le ciglia.

“E' così fin dalla nascita”, le disse, sospirando.

“E voi siete...”.

“O no, signora, siamo soltanto amici”, poi, con fare cospiratorio le disse, “io lo vorrei ma lei... è già impegnata”.

Deglutì. La signora annuì, ridacchiando per via del segreto che le era stato confidato. Con tutta la forza che avevo in corpo gli pestai un piede, intanto osservavo con fare annoiato il mio caffè che si raffreddava.

“Ahi...”.

“Hai detto qualcosa?”, gli chiese la donna, che già pendeva dalle sue labbra. Lui le riservò quel suo sorriso un po' birichino, un po' saggio e lei si sciolse.

“Ci siamo conosciuti alla facoltà di storia del Trinity, e siamo qui per una ricerca su alcune antiche tribù celtiche. In realtà, è stato il nome del locale ad attrarre la nostra attenzione. I Cauci”.

“E' il nome scelto da mio padre, era un appassionato di storia locale, da piccola mi tartassava con le leggende di questa tribù. Storie di eterna giovinezza, vampiri...”.

Mi sentì percorrere da una scarica elettrica lungo la spina dorsale a sentirle pronunciare quel termine.

“Capisco, corrisponde alla descrizione della tribù del nostro insegnante di storia. E mi potrebbe raccontare qualcuna di queste leggende? Ci interesserebbe sapere in quali zone di Clarecastle si fossero insediati”.

“Mmh... non credo di ricordare molto”, farfugliò.

A quel punto Ian si voltò nella mia direzione: “Mi scusi allora, l'avviso che non può aiutarci”. A quel punto prese a muovere le mani, nel classico modo di fare di chi itulizza il linguaggio dei segni. Annuì, fingendo un'espressione di delusione che speravo potesse smuoverla.

Funzionò.

“Oh no, ti prego... non farlo. Aspetta. Forse ricordo qualcosa. Se non sbaglio mio padre parlava sempre di un posto al di là del fiume Fergus, a pochi metri dal castello, dove pare sorgesse la statua di una divinità... un certo Mapo...”.

“Maponos”, le suggerì con entusiasmo.

La donna annuì. Mi accorsi di aver parlato all'incirca dieci secondi prima che lo facesse lei.

“Ma... che?”.

Ops.

“Signora... è stato un piacere. La ringraziamo per le informazioni. Arrivederci”.

Ian mi tirò a sé.

“Disgraziati”.

Nel tempo che impiegò a formulare l'insulto noi eravamo già spariti. Ci lasciammo scivolare contro il tetto del locale, la donna che ancora urlava insulti. Kritopher non smetteva di sghignazzare. Lo colpì, ma senza controllare la mia forza.

“Mi hai dislocato una spalla”, si lamentò come una donnetta.

“Bene. Ti sembra il modo di comportarti, non si scherza su queste cose”.

“Come se non ti fossi divertita. Hai visto la sua faccia quando le ho detto...”, non riuscì a concludere la frase, troppo impegnato a ridere e a rimettere in asse la spalla.

“Non farlo mai più”.

“Comandi”.

“Ti rompo anche l'altra, giuro”.

“D'accordo, se non ti piacciono i miei metodi vuol dire che andrò avanti da solo”.

Lo guardai male. Malissimo.

“E comunque non faccio lo sguardo da cerbiatto”, brontolai lasciandomi cadere al suolo.

Fu al mio fianco non appena ebbi toccato terra.

“Sì invece, Edward non te l'ha mai detto?”.

Sentirgli pronunciare il suo nome mi turbò, più di quanto avrebbe dovuto. E quegli istanti mi sembrarono sbagliati. Quelle parole mi sembrarono sbagliate e i sorrisi.

Trascorremmo i pochi minuti che ci occorsero per raggiungere la sponda del fiume in silenzio, quasi fosse crollato un muro fra di noi. Un muro che io avevo eretto e che dovevo ricordare di non abbattere mai, per il bene delle mia famiglia, che io ed Edward costituivamo.

“Saltando abbrevieremo il percorso”, mi disse d'un tratto.

Annuì.

“Isa”, mi bloccò, prima che potessi balzare al di là del fiume. Mi scostai dal suo tocco prima ancora di percepirlo, come fosse fuoco, o ghiaccio, nel mio caso.

Lo vidi sospirare e contrarre il viso.

“Mi dispiace di averti turbata, a volte le mie uscite sono infelici. Ma ti giuro, Isa, preferirei uccidere me stesso piuttosto che fare del male a mio fratello. Ho sbagliato in passato, ma non farò più niente che possa ferirlo”.

“Finché non sarò io a chiedertelo. Sono un vampiro, sai, io... sento”.

“Se tu... io non potrei...”, sembrava faticasse a trovare le parole.

“Sarebbe come chiedere a un drogato di buttare via la sua droga preferita”.

Risi.

“Cosa c'é?”.

“Perché continuate a paragonarmi a un sacchetto di hashis o di eroina? Se non sapessi che non siete realmente fratelli direi il contrario”.

Mi guardò come fossi pazza e forse lo ero.

Scossi il capo.

“Ascolta”, lo pregai, “non ho più intenzione di riaprire questo argomento, ma ti pregherei di... stare lontano da me. Io amo Edward...”.

“Non occorre che tu me lo ripeta, Isabella. Ho dato la mia parola”.

Mentre percorrevo in volo il diametro del fiume, mi chiesi se non fossi stata troppo dura. “E' necessario”, mi ripetevo. Per il bene di entrambi. Avremmo mantenuto un rapporto civile, niente di più niente di meno.

Tuttavia, mentre atterravo dall'altro lato del fiume, mi sentì una codarda e mi sentì tremendamente sporca. Come se, attraversando il fiume, avessi varcato un confine e mi fossi catapultata dalla parte sbagliata.

 

“Dovrebbe essere da queste parti. Riesco chiaramente a vedere il castello”, mi avvisò.

Ma non gli badai. Ero... incantata dalla bellezza di quella terra che tutto sembrava fuorché selvaggia. Mi dava l'impressione che fosse stata progettata nei minimi dettagli da un architetto di grande esperienza, ogni filo d'erba, ogni pietra, ogni avvallamento era in armonia con tutto il resto.

“Dovremmo chiedere a qualcuno”.

“Guarda”, gli indicai una ragazzo poco più grande di noi, indossava una sorta di divisa da boy-scout. “Penso sia una guida, potrebbe sapere qualcosa”.

Ian annuì e ci avvicinammo a passo umano.

“Salve”, esordì, grata che l'aria fresca allontanasse il suo odore da me. Doveva essere buono il suo sangue, riflettei in un angolo della mia mente.

Il ragazzo mi accolse con un sorriso caloroso, ma fin troppo sbilenco, poi capì che non era rivolto a me. Seguì la direzione dei suoi occhi e li vidi posarsi su Ian che, mani in tasca, era poco più dietro di me.

Mi si accese una luce. E capì che mi sarei vendicata, prima ancora di realizzare come.

“Lo scusi, il mio amico è un po' timido quando si tratta di bei ragazzi”.

A quel punto i suoi occhi, già luminosi, presero a brillare come lucciole. Mi era simpatico. Forse perché i suoi capelli tendenti all'arancio mi ricordavano Ed Sheeran o, più probabilmente, perché mi avrebbe aiutato a far arrabbiare Ian.

Qualcuno alle mie spalle ringhiò.

“Ma non deve... in cosa posso aiutarvi?”.

“Vuoi spiegare tu?”, chiesi ad Ian, arretrando di qualche passo così che il boy-scaout avesse una visuale a trecentosessanta gradi.

Il vampiro mi lanciò un'occhiata assassina. Stentai a trattenermi dal ridere.

“Cercavamo una statua”, borbottò, volendo evitare lo sguardo indagatore del boy-scout, con un adorabile broncio dipinto in viso.

“Che genere di statua? Nel palazzo sono presenti numerose statue risalenti agli ultimi decenni del 1500. Sei un appassionato di storia locale?”, gli chiese, in un tentativo di tono suadente.

Fece per parlare, ma io lo stroncai sul nascere.

“Non solo di storia locale, è anche un amante del Jameson e...”.

“In ogni caso”, mi interruppe, “mi riferisco a una statua di una divinità della tribù celtica dei Cauci, Maponos”.

“Il dio dei vampiri”, annuì. “Seguitemi”, mormorò con fare cospiratorio. Lasciai che prendesse posto tra di noi.

Ian mi lanciò un'altra occhiata assassina. Feci spallucce.

“Quello che i libri di storia non riportano sui Cauci è anche la loro caratteristica più interessante”, disse, rivolgendosi ad Ian in un chiaro tentativo di fare colpo su di lui facendo leva sulla sua “passione per la storia locale”.

Sorrisi di sottecchi.

“Quale sarebbe”, chiese Ian, adottando un tono più freddo e distaccato.

Mi dispiace deluderti, ma con questo tuo modo di fare così poco amichevole, da ragazzo cattivo e impenetrabile, rischi di ottenere l'effetto contrario”, mormorai, così che solo lui potesse sentirmi.

“Nella tribù dei Cauci le donne erano in numero maggiore rispetto agli uomini, è pare che la maggior parte di loro fossero Wiccan, o per meglio dire streghe”.

E a te piacciono i ragazzi cattivi?”.

“Streghe?”, chiesi.

“Esattamente, sacrificavano ogni giorno animali e sangue alla divinità, per non parlare di quale fosse il loro scopo principale...”.

Preferisco un uomo che sappia regalarmi un fiore”.

“E quale sarebbe stato il loro scopo?”, chiesi.

Mmm”.

“Guadagnare l'eterna giovinezza, cos'altro”.

Non capivo perché le sue parole mi mettessero tanto in soggezione.

“Sai raccontarci qualcosa di più?”, gli domandò Ian.

Il ragazzo si aprì in un enorme sorriso.

“Secondo la leggenda”, continuò, dirottando la sua attenzione su di lui, “una parte della tribù venerava i vampiri, in quanto figli di Maponos, altri li cacciavano, sperando di trovare in essi la ricetta per la giovinezza eterna”.

“E si sono mai scontrati?”.

“No. Nella tribù dei Cauci la fratellanza e l'unità erano senza dubbio i valori più importanti, per quanto ci è dato di sapere queste due fazioni non sono mai arrivate allo scontro”.

Se quel che aveva detto corrispondeva a verità e Yuriy fosse stato affidato da Sasha alla tribù dei Cauci poteva essere morto. E se l'avessero torturato o sacrificato? Se si fossero dimostrati ostili nei nostri confronti, due vampiri?

“Ma è solo leggenda”, aggiunse in fretta.

 

 

“Eccoci arrivati”.

Guardai davanti a me e per un istante mi sentì confusa.

“Dov'è la statua?”, gli chiesi.

La parte più selvaggia di me scattò sulla difensiva, contemporaneamente Ian si portò al mio fianco.

“E' andata distrutta durante la guerra d'indipendenza, nel '21”, tutte le mie speranze crollarono. Mi ero illusa... che fossimo nel posto giusto, che la fortuna iniziasse a girare. Che sciocca.

“La statua era alta all'incirca due metri e mezzo, costruita interamente in legno...”.

E se qualsiasi altra strada noi avessimo seguito ci avesse condotti a un vicolo cieco?

“Grazie ma da qui in poi facciamo noi”. Ian interruppe il suo ciarlare bruscamente, il boy-scout si ritirò visibilmente offeso.

E se davvero la tribù fosse stata costituita da streghe, ci avrebbero permesso di trovarle?

Sollevai lo sguardo quando le mani di Ian afferrarono le mie.

Incrociai il suo sguardo colorato, lasciai che la sua voce suadente toccasse corde profonde, lasciai che i suoi occhi intelligenti mi rassicurassero.

Kristopher sollevò il palmo della mia mano sinistra e vi tracciò dei segni, una stella all'apparenza, che poi capì essere un fiore quando le sue dita, con una serie di giravolte, ne materializzarono uno di ghiaccio su di esso.

“E' bellissimo”, sussurrai, senza parole né fiato.

Kristopher fece per accarezzarmi una guancia, le mie mani ora giunte a coppa intorno alla sua meravigliosa creazione.

Non so cosa lesse nei miei occhi, forse il desiderio forse il terrore, sta di fatto che si formò prima che la sua pelle entrasse in contatto con la mia.

“E' la strada giusta, lo sento. Abbi fiducia”.

“Come puoi... sapere sempre ciò che provo?”, gli chiesi, osservando il mio riflesso nel fiore di ghiaccio tra le mie mani.

“E' come se fossi... trasparente per me, io ti sento sulla mia pelle”.

Sollevai di scatto lo sguardo.

“La prima volta che ti ho incontrato, non sarei dovuto essere lì, ma c'era qualcosa nell'aria quel giorno, mi mancava il respiro, mi sentivo soffocare... Poi, non so come spiegare cosa mi abbia spinto ad avvicinarmi alla tua... lapide, sta di fatto che ero lì quando il tuo cuore ha ripreso a battere. Allora ho scavato e scavato e soltanto quando ti ho avuta tra le mie braccia ho ripreso a respirare. Sei la creatura più preziosa che abbia avuto l'onore di incontrare, Isa. Non permetterò che ti accada qualcosa. Tu sei... il mio fiore di cristallo”.

 

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Capitolo 19
*** Aspettando... ***


Buongiorno!! Innanzitutto spero che abbiate trascorso delle piacevoli vacanze finora, io ho preso il foglio rosa : ) !! Questo non è il capitolo completo chiaramente è solo un brevissimo spoiler, il mio regalo diciamo dato che la stesura del capitolo completo mi sta richiedendo moltooo tempo. Spero vi faccia piacere e spero anche di ricevere i vostri commenti, non vorrei perdervi adesso che ci avviciniamo alla fine della storia. Sono passati otto mesi da quando ho postato il prologo e vi assicuro che gran parte di quello che ho scritto none ra contemplato, ma sono soddisfatta del sisultato. Spero lo siate anche voi, quindi commentate numerose : ) Spero possiate trascorrere un buon inizio anno, a presto!! 


16) Un luogo per la tua anima – parte seconda


“Sbaglio o Alice ha appena imprecato?”.

“Non sbagli”, rise e la sua risata mi contagiò. Era così bella.

Sospirai, rigirandomi tra le dita una foglia secca sporca di fango. Mi incuriosiva come fossi in grado di osservarne ogni minimo dettaglio e ogni minuscola forma di vita che la abitava. Era sera, sarebbe stata una notte di plenilunio, il bosco pullulava di esseri viventi, naturalmente io non ero fra questi.

“Come va... lì da voi?”, mi chiese Edward dopo qualche istante di silenzio.

Immaginai che fosse la sua pelle quella ruvida superficie di foglia che stavo accarezzando poi ricordai cos'era accaduto l'ultima volta e dovetti aggrapparmi alla corteccia di un albero per non lasciarmi scivolare a terra.

“Bene”, dissi, con il tono più convincente che avessi. Sapevo cosa gli interessava sapere, benché nessuno dei due avesse il coraggio di affrontare l'argomento... speravo di averlo rassicurato.

Sono ancora tua.

“Bene”.

“Bene”, ripeté, come se si fosse tolto un grosso peso dallo stomaco.

Annuì.

“E da voi?”.

“Anche qui tutto bene, ma neanche noi abbiamo trovato una pista plausibile”.

“Domattina, non appena gli umani si saranno svegliati, setacceremo la città”, gli comunicai.

“Kilkenny?”.

“Sì”, annuì ancora, come se potesse vedermi.

Riuscivo bene a immaginarlo.

Quando era costretto ad affrontare conversazioni spinose non sedeva mai, preferiva rimanere in piedi, rigido nella sua postura fin troppo perfetta per sembrare umana, in modo tale da mantenere un assoluto e totale controllo sul suo corpo.

Mi chiesi cosa indossasse.

La stessa t-shirt grigia del giorno prima?

“Alice continua ad imprecare”, mi anticipò, “dice che le dobbiamo millecinquecento dollari di scarpe”.

“Dille che avrebbe potuto indossare un paio di sneakers qualunque e di non lamentarsi”.

“Credo ti abbia sentita”, mormorò, in sottofondo di un possente ruggito.

Risi ancora.

“Credo che andrò a fare un bagno, adesso”, sussurrai.

Lo sentì deglutire. E me lo immaginai stringere il suo galaxy tra le dita con tanta forza da rischiare di romperlo.

“Sì, certo, vai. Ma sta attenta”.

Annuì ancora.

“A domani”.

“A domani”.

Parlare con Edward non era mai stato così difficile.

Lo amavo. Allora perché non riuscivo ad amarlo?

Avevo riagganciato con una scusa in quanto protrarre la conversazione poteva rivelarsi rischioso, ma l'idea di un bagno non era poi così malvagia. Il fiume distava solo pochi metri dal luogo in cui ero nascosta, perché passare un'intera notte in sua compagnia, dopo le parole di oggi, mi avrebbe richiesto una concentrazione che non avevo.

Percepivo lo sciabordio dell'acqua, il guizzare dei pesci, persino il “rumore” delle foglie che cadendo si adagiavano sulla superficie dell'acqua. Così assorta da quella miriade di suoni non avevo fatto caso a lui.

Quando lo vidi ebbi un sussulto, poi smisi di respirare.

Era di spalle, completamente nudo, osservava le increspature dell'acqua come se in esse potesse rinvenire la risposta a tutte le sue domande. Nei suoi occhi, in quell'istante di perdizione, l'azzurro predominava sugli altri colori e il suo viso, per metà inclinato nella mia direzione, era sensuale, duro ma non arcigno. Una durezza che le ombre gli conferivano, dipingendolo in un modo tale da farlo sembrare pericoloso... Altrettanto magistrale lavoro di scultura e pittura era stato operato sul resto del suo corpo, sulle sue spalle, sulla schiena e ancora più giù, più giù, più giù...

D'un tratto, facendomi nuovamente sussultare, lo vidi distendere le braccia e lanciarsi in acqua. Avrei voluto distogliere lo sguardo, quando riemerse, quando si bagnò il viso e i capelli corti, quando volse lo sguardo alla luna, ma in realtà la mia unica vera tentazione era quella di rubargli gli abiti, che aveva appeso a un ramo poco distante, così che fosse costretto a rimanere in acqua per tutta la notte.

Lo vidi afferrare l'acqua, letteralmente, come fosse gelatina e crearne tante piccole goccioline che lasciò esplodere su di lui e che lo abbracciarono come neve. Lo vidi fare dell'acqua ghiaccio, del ghiaccio neve, della neve aria.

Sospirai, perché ero totalmente fuori controllo.

“Mi spii”, la sua voce alle mie spalle mi spaventò a morte. E avrei riso se la battuta non fosse stata fin troppo scontata.

“Mio Dio”, mi voltai di scatto, un riflesso incondizionato. Non pensai, prima ancora di decidere di voltarmi ero già di fronte a lui.

I suoi occhi azzurri mi sconvolsero, ma ad annichilirmi fu la vista del suo corpo completamente nudo.

“Mio Dio”, ripetei, tornando a voltargli le spalle.

“Anche Kristopher va bene”, sghignazzò.

“Sei nudo”, costatai.

“Di solito è così che mi lavo”. “Torno a ripetere”, sussurrò, accostandosi al mio orecchio, “mi spiavi?”.

“No”, mentì, male, per via del suo corpo che percepivo fin troppo vicino alla mia schiena.

“Eppure è così che lo definirei, nascosta tra gli alberi, ad osservare...”.

Feci per allontanarmi, ma mi afferrò i polsi prima che potessi muovere anche solo un passo. Mi spinse violentemente contro un albero, faccia al muro e lo sentì aderire al mio corpo, alla mia schiena, ogni mia curva venne riempita da lui. Si accostò al mio collo, ispirando l'odore della mia pelle, ma senza sfiorare con le mani neanche un lembo del mio corpo che non fossero i polsi.

Mio Dio.

Poi si allontanò da me di scatto, percepì il vuoto alle mie spalle e dopo giorni anche il freddo d'Irlanda.

“Vai”, mi pregò, nonostante il suo fosse un mormorio sul mio respiro accelerato.

“Vai”, mi chiese e io, in un attimo di lucidità, obbedì.

 

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