Creatures

di Sofyflora98
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Afghanistan o Iraq? ***
Capitolo 2: *** La donna in rosa ***
Capitolo 3: *** Come te ***
Capitolo 4: *** Veleno ***
Capitolo 5: *** Il bambino pallido ***
Capitolo 6: *** La casa vuota ***
Capitolo 7: *** Il disegno dei tre ***
Capitolo 8: *** Denti ***
Capitolo 9: *** Il Ragno ***
Capitolo 10: *** Creatura ***
Capitolo 11: *** 15 febbraio 2005 ***
Capitolo 12: *** Il Gatto e la Libellula ***
Capitolo 13: *** Tepore ***
Capitolo 14: *** Fiducia ***
Capitolo 15: *** La Donna ***
Capitolo 16: *** Lui sapeva ***
Capitolo 17: *** Mentre sognava non era lucido ***
Capitolo 18: *** Mutamento nei ranghi ***
Capitolo 19: *** Silenzio ***
Capitolo 20: *** Nessuno guardava con attenzione ***
Capitolo 21: *** Cosa ti turba? ***
Capitolo 22: *** Silenzio ***
Capitolo 23: *** Stupore ***



Capitolo 1
*** Afghanistan o Iraq? ***


“Solo nell'ultima settimana, gli attacchi delle Creature nei confronti degli esseri umani sono raddoppiati rispetto alla media dell'ultimo anno. I corpi senza vita di Clara Metthews e Adam Collins sono stati rinvenuti alle otto di questa mattina, a Trafalgar Square. Ancora una volta, nessuno dei due riportava ferite o altri segni di lotta. I corpi erano perfettamente integri, come se si fossero addormentati”
 
John ascoltava pigramente il notiziario serale, sorseggiando l'ultima tazza di tè prima di potersi finalmente coricare. Quel giorno la quantità di persone che erano urgentemente venute a chiedergli se la loro tosse non fosse un sintomo di polmonite, o altre idiozie simili, era stata esorbitante. Sembrava che un comune mal di gola invernale potesse portare a chissà quale malanno mortale. In realtà c'era poco da stupirsi. Negli ultimi anni la gente era sempre più terrorizzata, e a buona ragione.
Tutto era iniziato con un cadavere. Un uomo sui cinquanta, vedovo, che faceva una vita abbastanza tranquilla, senza avvenimenti degni di nota, escludendo la prematura scomparsa della moglie. Un bel giorno, di punto in bianco, era morto. L'avevano trovato i vicini, riverso sui gradini di fronte alla porta di casa. Quando avevano cercato di identificare la causa del decesso, i dottori erano rimasti allibiti. Non c'era una causa. Niente che potesse spiegare come mai un uomo di mezza età perfettamente in salute fosse all'improvviso crollato a terra. Nessun infarto, nessuna malattia, niente. Come se tutto il suo organismo si fosse fermato dolcemente, e basta.
A quel punto, non potendo accettare un avvenimento simile, al St. Bartholomew Hospital erano partiti studi su studi. Neppure la polizia se ne era stata con le mani in mano, cercando disperatamente l'esistenza di qualche droga che potesse creare un effetto simile, interrogando i criminali arrestati alla ricerca di una spiegazione del come o del perché fosse morto. Ma non trovarono un movente. E nemmeno ciò che lo aveva ucciso.
Dopo questa prima vittima, ce ne furono altre. Maschi e femmine, giovani e vecchi, di qualunque etnia, ceto sociale, religione e opinione politica. In pratica erano persone casuali, senza nulla che le collegasse. Il numero aumentò, fino a che non raggiunse una quota abbastanza stabile di due morti alla settimana. Tutti perfettamente sani e integri.
Fino a che non colsero sul fatto quello che presunsero fosse l'assassino. Un giovane dall'aspetto normale. Lo misero sotto torchio per fargli confessare che metodo usasse per uccidere, e perché lo facesse.
Quello che fu presto chiarito era che non si trattava di un essere umano. Non del tutto perlomeno. Mangiava e respirava e dormiva. Solo che a volte assorbiva la vita dagli altri. Gli bastava il tocco delle mani, afferrare la testa o gli arti di qualcuno per farlo addormentare. Come nutrimento, supposero. Non disse nient'altro, perché non appena ne ebbe l'occasione, quello si tolse la vita.
Si resero conto immediatamente che non era il solo ad avere capacità simili. Ce n'erano molti altri. Furono battezzati “Creature”, dato che la loro natura era e rimase ignota. Era impossibile riconoscerli, per cui erano nemici terribilmente letali ed insidiosi. E dopo quella prima cattura, nessun altro di loro si lasciò prendere.
Fu creata una sezione speciale della polizia dedita alla ricerca delle Creature. Persino l'esercito pattugliava le vie. Londra era diventata una città pervasa dalla paura, e in molti la abbandonarono. Non fu efficacie, perché le Creature fecero altrettanto, iniziando a colpire ovunque, fino a diffondersi in tutta l'isola della Gran Bretagna.
Era ormai passati quattro anni da quando il primo uomo era stato assassinato dalle Creature.
Come conseguenza a tutta quella tensione, anche i più piccoli accenni di raffreddore facevano perdere la testa, specialmente alle mamme con bimbi piccoli e alle signore più anziane. E quindi il lavoro di John si era triplicato, costringendolo spesso a dover mandare fuori forzatamente la gente senza appuntamento dalla sala d'attesa, quando l'ambulatorio chiudeva. Lui di certo non poteva lamentarsi della carenza di lavoro.
John, però, sembrava immune al nervosismo diffuso della popolazione. Dopo essere tornato dall'Afghanistan con quella ferita alla spalla e quel dolore psicosomatico alla gamba, si era reso conto che sempre meno erano le cose che riuscivano a scuoterlo. La guerra l'aveva temprato più di quanto volesse ammettere. E inoltre, Baker Street era una delle poche vie dove non c'era stata nemmeno un'aggressione da quegli esseri misteriosi.
Per cui, quella notte, lui fu una delle rare persone che si addormentarono senza troppe preoccupazioni. Fatta eccezione per quella maledetta gamba. E per sua sorella Harriet.
 
 
Era da quasi tre ore che la sua attesa si perpetuava. Era sicuro che quell'individuo sarebbe passato di lì, ma il problema era quando. Non amava aspettare, non amava abbassarsi a tanto per quell'aberrazione. Ma era necessario, visto che era al momento l'unico modo per collegarsi con l'altra fazione. E ovviamente, l'altro leader non si disturbava ad andare di persona, al contrario di lui. Pertanto, doveva trovare altri metodi di comunicazione. E nessuno meglio di quell'individuo poteva sapere che avesse in testa il suo oppositore.
Lo chiamava aberrazione, ma in realtà la singolarità della persona che stava per incrociare lo stuzzicava parecchio. Era fuori dal comune persino tra quelli come loro, quelli che gli umani chiamavano “Creature”, senza sapere cosa fossero in realtà e da dove provenissero.
Un lieve fruscio, appena percettibile, lo mise in allerta. Annusò l'aria, restando sempre in attesa di altri rumori. Era fievole e coperto dal puzzo dello smog, ma non poteva confondersi sul profumo che aveva percepito. Ognuno di loro aveva un aroma particolare, e da quello erano in grado di riconoscersi quasi sempre. Questo era dolce ed inebriante, ma non eccessivamente zuccheroso come quello di molte loro donne. Estremamente piacevole, addirittura seducente. Si lasciò sfuggire un basso gorgoglio di gradimento. La sua aberrazione preferita era arrivata.
I suoi passi erano veloci e leggeri, stava camminando di fretta, ma senza correre. Tipico di lui.
Solo quando gli fu molto vicino, si lasciò scivolare dal ramo d'albero su cui era stato seduto tutto il tempo. Gli atterrò di fronte con grazia. La Creatura dal buon odore fu colta di sorpresa, ma non completamente. Si mise in posizione difensiva dopo qualche secondo. Sapeva che avrebbe potuto imbattersi in lui, uno di quei giorni.
- Ma guarda chi passa di qua! Dove corre la piccola Alice, a cercare il Bianconiglio? - rise amabilmente il capo fazione.
- Lasciami passare! - ringhiò l'interlocutore, teso come una corda di violino. Aveva sempre quel modo di reagire aggressivo, ma poteva vedere il suo nervosismo dietro l'atteggiamento violento. E finché era lui ad avere paura, tra i due, tutto andava alla grande.
- Oh, tesoro! Mi parli sempre in modo così sgarbato! - non poté che essere divertito dalla smorfia di disgusto che l'altro gli rivolse nell'essere chiamato “tesoro”. - Vorrei davvero che tra noi ci fosse un rapporto più amichevole, ma il fatto è che sembrano esserci stati dei piccoli fraintendimenti tra me e il vostro capo fazione -
- Io non posso influenzare le sue azioni, e comunque non mi interessano le vostre questioni etiche. Preferirei esserne lasciato fuori -
L'uomo rise ancora più forte. Esserne lasciato fuori? Ormai era tardi per quello. Avrebbe dovuto rimanerci fuori molto tempo prima di venire coinvolto in una delle due fazioni. A quel punto anche il giovane deliziosamente profumato di fronte a lui era coinvolto nello scontro; ci era dentro fino al collo.
- Non puoi evitarlo, honey! Se volevi che ti lasciassimo in pace, avresti dovuto evitare di dare una mano al vostro capo. Vedi, questo fa di te uno di loro a tutti gli effetti -
Quello lo scrutò come se volesse fargli una radiografia. Ormai aveva capito cosa voleva. Cercava una via di fuga, ma non ne trovava nemmeno una. E iniziava a spaventarsi sul serio, finalmente. Il modo in cui stringeva gli occhi quando era impaurito, oh, se era uno spettacolo!
- Che cosa vuoi da me? - mormorò infine.
Glielo disse con lo sguardo. Sapeva che l'avrebbe intuito facilmente. 
Gli diede appena il tempo di capire le sue intenzioni, prima di colpirlo. Non con mani, piedi, testate o armi. Loro non lottavano in quel modo. Lo colpì con l'Estensione. Una guizzante coda con la punta affilata, coriacea e sottile. Bastò una sola frustata per ferire l'altra Creatura. Un grido strozzato gli uscì dalle labbra, e cadde sulle ginocchia, premendosi le mani sul profondo taglio che gli faceva sanguinare il fianco. Sgranò quei due begli occhi chiari, ingigantiti dal dolore.
Un sibilo preannunciò la seconda lacerazione, alla spalla stavolta. Dopo quello, si susseguirono tantissimi colpetti fulminei, che lasciarono innumerevoli e continue ferite più leggere, ma non tanto da essere insignificanti. Sulle braccia e sui polpacci, qualcuno più leggero sul viso, facendo attenzione a non deturparlo. Urletti soffocati e gemiti, ansiti sofferenti venivano emessi in risposta, e quei suoni erano ciò che più di ogni altra cosa beavano le sue orecchie.
Solo quando decise di essersi divertito abbastanza con la preda, decise di assestargli un altro paio di lesioni più profonde sulla gamba e alla schiena.
Non era neanche lontanamente sufficiente ad ucciderlo, ma non era questo il suo scopo. Doveva far capire a quell'arrogante del rivale qual era il suo limite di sopportazione. E far del male a quella Creatura dal dolce aroma era una lezione che avrebbe fatto breccia anche in quell’apparente cuore di ghiaccio.
Girò sui tacchi, e se ne andò per la sua strada, lasciandolo accasciato su se stesso, tremante e singhiozzante.
 
 
Chiedere di essere sostituito per quel giorno era stata una necessità. Se non si fosse preso almeno una giornata libera, l'avrebbero fatto impazzire. Per cui fu con insolita tranquillità e calma che John poté fare colazione e bersi il suo tè, prendendosi i suoi tempi, senza nessuna fretta di correre in ambulatorio. 
Mentre scendeva le scale con l'aiuto del suo bastone, fu intercettato dalla signora Hudson.
- Ancora qui, John? - si sorprese l'anziana donna.
- Mi sono fatto sostituire. Non avrei potuto reggere senza un attimo di tregua! - rispose lui, sorridendole.
- Beh, penso che lei starebbe molto meglio se si trovasse una ragazza, piuttosto che un sostituto -
Il medico alzò gli occhi al cielo. Quella donna avrebbe dovuto aprire un'agenzia matrimoniale, sarebbe stata molto efficiente. Sembrava che non aspettasse altro che vederlo sistemato con qualcuno. Era stata raggiante ogni volta che lui aveva tentato relazioni, ma l’uomo non aveva mai concluso nulla. Sembrava che la sua sfortuna in campo femminile fosse superiore solo alla smania della signora di trovare compagni e compagne ad ogni persona single che incontrasse.
Come meta della passeggiata mattutina che si era prefissato per il tanto atteso giorno libero, optò per il St. James's Park, un posto incantevole e molto tipicamente inglese. A quell'ora e in quel periodo della settimana doveva essere praticamente vuoto, il che era ancora meglio. Fino al giorno dopo non aveva intenzione di avere eccessivi contatti umani. Forse avrebbe fatto eccezione per il suo amico Greg, un agente di polizia molto socievole e con cui era facile dare il via ad una chiacchierata.
Quando raggiunse il parco, fu lieto di notare che era davvero deserto. Aveva fatto bene a scegliere proprio un giorno in mezzo alla settimana per darsi una pausa.
La signora Hudson aveva ragione a dire che sarebbe stato bene se avesse avuto una compagna. Da quando era tornato dalla guerra, non solo non era mai riuscito a tenere una ragazza per più di tre mesi, ma anche con le amicizie non è che si ammazzasse. A parte Greg Lestrade, Mike Stamford e un paio di persone che lavoravano al Bart's, non aveva molti conoscenti con cui poter parlare del più e del meno. Spesso si sentiva soffocare in quel vecchio appartamento a Baker Street. Era vuoto, sempre vuoto. Non pretendeva certo di riuscire a farsi una famiglia normale, per lui era praticamente impossibile, ma almeno sapere che c'era qualcun altro tra quelle mura l'avrebbe di certo confortato. Qualunque persona, anche un semplice coinquilino. Sarebbe stato perfetto.
E poi, inutile negarlo, la vita normale e pacifica non gli si confaceva. Finiva troppo spesso per tediarsi, e ricominciare a pensare all'Afghanistan, a volte quasi con nostalgia. Non  della guerra in sé, naturalmente, ma dell'azione. Dell'adrenalina, di quel correre e scattare per salvarsi il collo. In quei momenti si era sentito davvero vivo e pulsante, cosa che non accadeva quando passava ore a far calmare vecchiette isteriche con la paranoia dei malanni invernali.
Dentro di sé, sperava che accadesse qualcosa a movimentare quella routine.  Non avrebbe detto di no nemmeno all'incontro con una Creatura, se l'alternativa era la monotonia. Anzi, probabilmente gli sarebbe interessato davvero, anche come dottore, vedere uno di quegli esseri, e cercare di capire come facessero ad uccidere senza lasciare segni.
A spezzare il filo dei suoi pensieri fu un rantolo.
Il soldato sopito in lui drizzò le orecchie. D'istinto fece saettare lo sguardo verso un punto indefinito più avanti. Sul ciglio della stradina in terra battuta, a circa cento metri di distanza, c'era una figura scura accasciata al suolo. Una figura umana, riconobbe.
Affrettò il passo verso quella sagoma.
- Ehi, che è successo? - disse ad alta voce mentre si avvicinava.
La persona alzò debolmente la testa. John gli fu accanto in un attimo, e s'inginocchio di fronte al giovane uomo. Non rispose alla sua domanda, ma invece gemette un'altra volta quando il dottore gli mise una mano sulla spalla nel tentativo di aiutarlo a girarsi.
- Ah, scusami! - si accorse solo sentendo quel suono della lesione aperta che aveva proprio dove l'aveva toccato. I vestiti lì erano lacerati, così come sul fianco e in decine di altri punti. Sotto ognuno di quegli strappi stava un taglio più o meno profondo.
- Aiutami... - la voce del ferito era debole, quasi supplicante.
Lo sguardo che gli rivolse mentre gli chiedeva di aiutarlo, l'ex soldato non l'avrebbe cancellato facilmente, se ne rese conto. Era uno sguardo di ghiaccio caldo. Sì, non avrebbe saputo descriverlo diversamente. Il colore di quegli occhi era il più incredibile che avesse mai visto. Di un azzurro chiarissimo, lievemente virante verso il verde acqua. Era una tinta gelida. Ma c'era anche calore. Gli sembrava di vedere migliaia e migliaia di emozioni attraversare quelle iridi stupefacenti ogni istante, ed un'espressività tale era senza dubbio calda.
- Ti porto al pronto soccorso, d'accordo? Dimmi dove ti fa male, ti aiuto ad alzarti – mormorò, ancora incantato da quelle due gemme, prodigi della genetica. L'uomo d'improvviso gli strinse forte il braccio, facendogli quasi male. Spaventato da quel gesto irruento, John si ritrasse.
- No... - ansimò lo sconosciuto – Niente pronto soccorso... ti prego... -
“Gli è successo qualcosa, e non vuole che gli vengano fatte troppe domande” intuì. In ogni caso, era suo dovere di medico soccorrere un ferito, per cui gli disse che no, non l'avrebbe portato al pronto soccorso, ma che comunque intendeva aiutarlo. Con un po' di esperienza risalente al campo di battaglia e alcune indicazioni smozzicate e intramezzate da lamenti di dolore, riuscì a far passare un braccio dietro la schiena di quel giovane uomo, portandosi il suo sulle spalle.
Riuscì, Dio solo sapeva come, a prendere un taxi e tornare a Baker Street portando con sé l'estraneo languente, anche se non senza fatica. Non era pesante, ma doveva prestare continuamente attenzione a non toccare le escoriazioni.
Si maledisse mentalmente. Sarebbe stato molto più semplice e sicuro mandare al diavolo le sue suppliche e portarlo al pronto soccorso o all'ospedale, soprattutto se pensava che non aveva la più pallida idea di chi fosse, e poteva benissimo essere un delinquente. La parte troppo tenera di lui, però, gli aveva subdolamente suggerito di intenerirsi ai leggeri singhiozzi che provenivano dalla bocca di quella creatura indifesa (sì, così lo definiva quella parte troppo tenera!), e aggiungeva anche che una persona con degli occhi così belli non poteva di certo essere malintenzionata.
Suonò il campanello, operazione che si rivelò estremamente complicata, sperando che la signora Hudson fosse ancora in casa, e che potesse aiutarlo ad aprire le porte. La proprietaria del palazzo fece spuntare prontamente la testa dalla porta, e sgranò gli occhi.
- John! Non la credevo così audace da portarsi un ragazzo a casa... -
- Infatti non lo sono. L'ho trovato ferito e semi svenuto al St. James's Park. Tra l'altro, non sono gay. Potrebbe aiutarmi a portarlo di sopra? Non vuole che lo porti al pronto soccorso, e la mia professione m'impone di soccorrerlo -
Con sommo fastidio, vide un'ombra di delusione nell'espressione della padrona di casa.
- Signora Hudson? - a parlare era stato l'uomo, quasi completamente appoggiato a Watson. Alzò il capo. L'anziana signora spalancò la bocca dalla sorpresa.
- Sherlock! Per l'amor del ciel, che hai combinato stavolta? Presto, John, lo porti dentro! - e si affrettò a spalancare la porta verniciata di nero del 221B, aiutandoli anche a salire le scale.
Insieme fecero adagiare il signor “occhi di ghiaccio” su una delle due poltrone. Ora che era appoggiato con la schiena dritta, vide finalmente bene il suo volto. E dovette ammettere che era davvero un bell'uomo, seppur molto diverso dai canoni di bellezza comuni. Era pallidissimo, bianco come il latte, con morbidi ricci neri che gli ricadevano sulla fronte, creando un forte contrasto di colori. Anche le sue labbra erano chiare, tendenti più al rosa che al rosso, ed avevano una forma molto singolare. E zigomi alti, pronunciati.
Andò a cercare disinfettante, bende e cerotti, che di solito teneva in bagno. Mentre rovistava nell'armadietto, rise di se stesso. Poco prima desiderava che qualcosa venisse a movimentare la sua routine, ed ora aveva portato in casa uno sconosciuto ferito, attraente e dall’aria misteriosa, che la donna  da cui affittava l'appartamento sembrava conoscere.
Ritornò in salotto con il materiale che gli serviva, e li trovò intenti a parlottare tra loro.
- Ma caro, come hai fatto a ridurti in questo stato? Non ti ho mai visto così messo male da quella volta in cui avevi deciso di inseguire di persona quel terribile macellaio assassino... - stava dicendo la signora Hudson.
- Lei si preoccupa eccessivamente. Faccio il mio lavoro, ed è un lavoro pericoloso – ribatté lui, probabilmente con meno energia di quella che avrebbe voluto metterci, e anche con fatica. Lei sbuffò, ma si illuminò di nuovo quando lo vide avvicinarsi con le medicazioni.
- Ah, John, lei è un vero miracolo! Se non ci fosse stato lei, questo sbruffoncello sarebbe ancora lì fuori a perdere sangue! - lo “sbruffoncello” storse il naso, emettendo un verso irritato.
- Voi due... vi conoscete? - domandò Watson. Fece sfilare cappotto, giacca e camicia all'uomo, e prese ad esaminare le lesioni. Quella sulla spalla e sul fianco erano abbastanza brutte, ma le altre non erano niente di preoccupante.
- Ah, ma certo! - trillò la padrona di casa – Sherlock ed io ci siamo conosciuti anni fa. Mi ha aiutata quando mio marito era stato condannato a morte per omicidio! Oh, caro ragazzo! - e si sporse per dargli un bacio sulla fronte. Sherlock si ritrasse, per poi scattare nuovamente avanti con un grido strozzato. John si acciglio, e notò una terza ferita più profonda sulla schiena.
- Avete fatto revocare la condanna? - gli chiese, mentre iniziava a pulirla con un batuffolo impregnato di disinfettante. Lo vide serrare gli occhi al contatto con la carne viva, e stringere i denti.
- Affatto, la confermai – trovò comunque la forza di dire, non senza un certo compiacimento che lo portò a fare un sorrisetto bizzarro.
- Lui è un detective privato – spiegò la signora – Ah, quasi dimenticavo di presentarvi come si deve. Questo bel giovanotto è Sherlock Holmes, un mio conoscente e amico -
Questi non sembrò apprezzare molto la parola amico, ma sembrò passarci sopra, perché quasi tutta la sua attenzione era rivolta al dottore, ora intento a togliere le briciole di terra e polvere dal taglio sul fianco. Sentiva che lo stava fissando, anche se era chino sulla pelle lacerata. Lo scrutava come se fosse un campione da analizzare.
- E il gentilissimo signore che ti ha pescato è il dottor John Watson – proseguì la signora Hudson – Da un po’ di tempo abita qui. Sa , John, che Sherlock ha vissuto in questo appartamento per un certo periodo, in passato? –
Questi borbottò un “Ah, davvero?”, mentre iniziava a mettere fasciature e cerotti. Non era mai stato molto incline ad ascoltare le infinite e frenetiche chiacchiere della sua padrona di casa, ma stava cominciando a provare una certa curiosità nei confronti di quell’individuo con quel nome così bizzarro. Parte di questo interesse nacque mentre osservava il suo corpo: c’erano un paio di cicatrici; non molto grandi né marcate, ma c’erano. Non era la prima volta che si ficcava nei guai. La donna gli aveva detto che era un investigatore, ma non era normalissimo nemmeno in quel mestiere essere percossi in quel modo. Investigare non obbligava ad inseguire i criminali mettendosi a rischio, a meno che non si lavorasse per la polizia.
- Posso chiedervi come mai un detective privato si è fatto prendere a coltellate, se questo è quel che vi è successo, signor Holmes? –
Uno scintillio furbo gli accese gli occhi – Io non sono un detective privato. Sono un consulente investigatore –
John aggrottò le sopracciglia – E che significa? –
- Che quando la polizia brancola nel buio, ovvero sempre, consulta me – e di nuovo ci fu quel mezzo sorriso di autocompiacimento. E quello sguardo indagatore.
- La polizia non consulta i dilettanti, signor Holmes –
Fu a quel punto che Sherlock Holmes fece una risata bassa, anche se dopo contrasse il viso in una smorfia di dolore. Lui e la signora Hudson si scambiarono un’occhiata d’intesa. John si sentì a disagio. Qualcosa era passato per la testa a quei due, e non era sicuro che fosse qualcosa di buono, avendo già imparato a riconoscere le intenzioni celate nelle espressioni della proprietaria dell’appartamento, ed essendosi fatto già qualche mezza idea su che tipo di individuo fosse l’investigatore.
Senza smettere di sorridere in quella maniera maliziosa, Sherlock Holmes girò lentamente il busto nella sua direzione.
- Afghanistan o Iraq? -
 
 
 
 
 
 
*****
 
Note:
 
In realtà non so bene che dire. Beh, questa è la prima storia che pubblico per il fandom di Sherlock. È già da quasi due anni che conosco questa serie, e l’ho amata alla follia immediatamente, ma mi ci è voluto un bel po’ prima che iniziassi ad avere l’ispirazione. Spero davvero che non sia un’altra delle tante nefandezze folli che spesso il mio cervello rigurgita. Tra l’altro, non è la prima fanfiction a rating rosso che scrivo, ma è comunque solo la seconda, e mi reputo più che inesperta. Quando si arriverà alle scene… a rating rosso, sarei grata di qualunque tipo di consiglio per il miglioramento delle descrizioni.
Come si è capito, è una specie di versione alternativa, che prevede anche una certa dose di fantastico.
Beh, non mi resta altro da dire, per ora.
Se qualcuno lasciasse una recensioncina piccina piccina ne sarei davvero felice!
 
Sofyflora98
 
 
 

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Capitolo 2
*** La donna in rosa ***


Fu con sollievo che John uscì dal 221B, quella sera. Tutta quella situazione si era rivelata diventare estremamente imbarazzante: quel tipo strambo trovato mezzo morto al St. James's Park, aveva tranquillamente fatto un riassunto della sua situazione psicologica e familiare, arrivando ad affermare pure che suo fratello avesse lasciato la moglie e fosse un alcolista. E queste ultime due cose le aveva capite dal suo cellulare. Certo non aveva potuto intuire che Harry fosse in realtà sua sorella.
Dopo quella stupefacente dimostrazione, John era rimasto a bocca aperta, e non era riuscito a trattenersi dall'impulso di esclamare cose come “Incredibile!” e “Fantastico!”, cosa che parve lusingare il giovane detective, il quale gli aveva fatto notare quanto raramente gli venissero fatti i complimenti. Ma questo era stato solo l'inizio del suo improvviso coinvolgimento con quell'individuo: la signora Hudson aveva quasi innocentemente proposto che Sherlock Holmes restasse lì per qualche notte, solo il necessario perché potesse rimettersi in salute. Entrambi avevano espresso il loro stupore, anche se in modi molto diversi. John aveva cercato di farle notare quanto la cosa avrebbe potuto venir fraintesa se qualcuno dei suoi conoscenti fosse venuto a saperlo. Holmes, invece, aveva ribattuto con stizza che non aveva bisogno di nulla del genere, che sapeva cavarsela da solo. Su questo Watson aveva forti dubbi, dato che se non fosse stato per lui sarebbe rimasto sulla stradina di terra battuta ad agonizzare ancora per un bel pezzo, ma non ritenne necessario contraddirlo.
Ciononostante, dopo diverse ulteriori insistenze della padrona di casa, e qualche breve scambio di battute tra i due, lei aveva finito per avere la meglio, e Sherlock Holmes era rimasto al 221B di Baker Street, dove la signora avrebbe potuto assicurarsi che non si trascurasse troppo. Perché, sosteneva, l'investigatore tendeva a maltrattare il proprio corpo, ed essendo indebitata con lui non poteva permettergli una cosa del genere.
Insomma, quando l'ex medico militare uscì a prendere una boccata d'aria, si sentì come se gli avessero tolto un tappo che gli ostruiva i polmoni. La situazione era stata tesa per tutto il tempo. Quando aveva cenato, l'altro era rimasto a fissarlo costantemente, come del resto aveva fatto tutta la giornata. Non era riuscito a togliersi di dosso l'idea che lo stesse giudicando, analizzando. E, accidenti, lui non era un dannato campione da laboratorio!
S'incamminò verso il pub dove aveva programmato di incontrare Greg per una sana chiacchierata tra amici. Più o meno. Non erano proprio amici, ma nemmeno semplici conoscenti. Qualunque fossero, era sempre una piacevole compagnia.
Lo trovò esattamente dove credeva di trovarlo, già accostato al bancone ad attenderlo. Lo salutò con la mano già prima che fosse a portata d'orecchio. - Ehilà, John! -
Il medico si appoggiò stancamente al bancone. - Buonasera anche a te, Greg – disse, con un mezzo sorriso. Ordinarono due birre, e si sedettero sugli alti sgabelli proprio lì davanti.
Il poliziotto gli fece un resoconto di tutti i casi irrisolti degli ultimi tempi, dall'ultima volta che erano riusciti a vedersi. Non faceva che lamentarsi di come da qualche anno, con quelle Creature in circolazione, anche i criminali sembravano più entusiasti di prima, oltre che più subdoli. John annuì ripetutamente, ma con la testa era rimasto a Baker Street, e si domandava se quello strano consulente investigatore fosse ancora dov'era quando gli aveva detto che sarebbe uscito; magari a fissare intensamente una macchia sul pavimento ora che l'ex soldato non era più lì a catalizzare quegli sguardi perpetui.
- E pensare che sarebbe tutto risolto in un lampo se quell'idiota rispondesse alle mie chiamate! - esclamò all'improvviso Lestrade, battendo un pugno sul legno appiccicaticcio, che probabilmente non veniva pulito da diversi giorni.
John si riscosse, temendo di essersi perso un po' troppi pezzi del discorso ed essere rimasto indietro. - Di che idiota stai parlando? - gli chiese, alzando gli occhi.
Greg sbuffò – Un uomo che ho conosciuto tempo fa in circostanze assurde. Una specie di genio, ti sa leggere come se fossi un libro aperto, e lo chiamiamo sempre quando non sappiamo come raccapezzarci. Un tipo strano. Una via di mezzo tra autismo e sindrome di Asperger, non so se mi spiego. Un detective privato che lavora anche per la polizia. Consulente investigatore, dice lui – a quelle ultime parole, John quasi si strozzò con la birra.
- Consulente investigatore, hai detto? - boccheggiò, nel tentativo di riprendere aria.
Greg annuì. - Ma non lo vedo da mesi, e anche se gli scrivo e lo chiamo, non da segni di vita – borbottò.
- Alto e pallido, con ricci neri e occhi azzurri? -
L'ispettore alzò le sopracciglia, sorpreso. - Sì, certo. Sherlock Holmes, si chiama. Ma come fai a...? -
- Mi sono... imbattuto in lui stamattina al St. James's Park. È normale trovarlo per terra, con innumerevoli ferite da taglio e semi svenuto? -
- In verità sì, abbastanza! Non sarebbe la prima volta, né la più clamorosa ed urgente! – Gregory scoppiò a ridere – E tu che hai fatto, quando l'hai visto? -
- Beh, l'ho soccorso naturalmente! Tu l'avresti lasciato lì? -
- No. Io avrei ignorato le sue suppliche di non chiamare il pronto soccorso. Ma tu d'altronde non lo conosci ancora bene. E non chiedermi come faccio a sapere che ha supplicato di non chiamare niente e nessuno, perché fa così praticamente sempre. Non vuole che si sappia come ha fatto a ridursi in certe maniere, ed onestamente, è meglio non chiederglielo -
Il dottore lo ascoltava, ora. Non immaginava che potesse essere un conoscente di Lestrade (che poi gli aveva raccomandato di far sapere a Sherlock che era richiesto il suo cervello a Scotland Yard), ma in effetti aveva detto di lavorare con la polizia, ed era più che logico che si conoscessero.
Il tragitto verso casa lo fece come in trance. Ormai non si trattava più solo di curiosità verso uno sconosciuto. Era affascinato da Sherlock Holmes, c'era in lui un qualcosa di magnetico che aveva catalizzato tutta la sue attenzione. In maniera assolutamente etero, ovviamente. Ciononostante, si prefisse l'obiettivo di scoprire il più possibile su di lui.
Quando rientrò nell’appartamento, era accesa solo una lampada nel soggiorno. La luce era soffusa, e gran parte della stanza restava comunque in ombra.
Trovò Sherlock Holmes esattamente dove l’aveva lasciato, sul divano. Per gran parte della giornata era stato disteso sulla pancia, seguendo ogni suo movimento con interesse. Ora, invece, era sdraiato sulla schiena ed era almeno in apparenza addormentato. Fu il turno di John, quindi, di studiare quello strano essere che gli era piombato davanti così all’improvviso.
Il suo volto, ora rilassato, aveva un nonsoché di innocente, quasi infantile; ancora incontaminato dal dolore e dalla costante apprensione della gente. In effetti Greg gli aveva accennato il fatto che fosse una specie di asociale (dire che fosse autistico o che avesse la sindrome di Asperger gli sembrava esagerato, per quel che aveva potuto vedere finora). Era possibile che non si fosse scontrato con certi tipi di emozioni.
Che stava andando ad immaginarsi, tra l’altro? Lui non sapeva nulla di Sherlock Holmes, e basta. Magari aveva semplicemente un volto efebico, e finita lì. Si stupì di se stesso. Non era da lui mettersi a fare elucubrazioni sulle vite degli altri. I pettegolezzi erano prerogativa della signora Hudson e il suo gruppetto di vecchie amiche zitelle e con molto tempo da perdere, non certo del quinto fuciliere Northmberland in congedo John Watson.
Si sedette pesantemente sulla poltrona più piccola, che stranamente lo aveva sempre messo più a suo agio dell’altra, ed accese il computer portatile, appoggiandoselo sulle gambe.
Non riuscì a trattenersi dal digitare “Sherlock Holmes” sulla barra di ricerca.
 
 
Si risvegliò con un lieve bruciore agli occhi. Guardare lo schermo luminoso del laptop, in una stanza semibuia, e per di più in tarda serata non era il massimo, in effetti. Se ci teneva alla vista, avrebbe fatto meglio a rifarlo il meno possibile.
Tra l’altro, non aveva nemmeno dormito molto bene: i suoi sogni l’avevano riportato in Afghanistan, ancora una volta. Si era svegliato di soprassalto alle tre del mattino, quando aveva sentito un lieve fruscio. Si era accorto di essere ancora sulla poltrona, e che Sherlock Holmes non era più sul divano. Probabilmente era in bagno, si era detto, prima di dirigersi verso la camera di sopra. Aveva pensato che fare la scale non sarebbe stato semplice per l’altro, con tutte quelle ferite aperte a tirargli la pelle ad ogni movimento, per cui si era trascinato su per i gradini, ancora intontito dai ricordi degli spari.
Quando era finalmente riuscito a sopirsi di nuovo, gli si erano materializzati davanti degli strani esseri con denti aguzzi, ali membranose e occhi come gemme incastonate su visi marmorei, che lo braccavano con tutta l’intenzione di divorarlo.
Caracollò fuori dalla camera da letto, con il pensiero fisso di una bella tazza di tè. Non aveva idea di come avrebbe fatto a rimanere sveglio, quel giorno. Il pensiero di tutti quei pazienti da visitare, parte dei quali tendenti ad amplificare qualsiasi minimo malessere avessero, gli fece venire un gran voglia di tornare tra le coperte.
- Dottor Watson – la voce del detective lo fece trasalire. Si era quasi scordato di lui, dopo quel sogno bizzarro.
Era seduto elegantemente sulla poltrona da lui inutilizzata, già perfettamente vestito, sebbene si trattasse degli stessi abiti lacerati del giorno prima. E già completamente sveglio e attento, specialmente.
- Signor Holmes, buongiorno. Come vanno quelle brutte abrasioni? – mormorò con voce assonnata.
- Molto meglio, grazie -
- Vuole... fare colazione? - chiese dopo un istante di esitazione. Holmes ci mise un po' a rispondere. Aveva ancora la brutta sensazione di essere soggetto d'esame di quell'individuo.
- Solo una tazza di tè, va bene -
Armeggiare con bollitore, tostapane e stoviglie varie, lo aiutava a schiarire la mente di prima mattina. Preparare la colazione gli impediva di tornare a rimuginare sugli incubi ricorrenti, e gli dava quel senso di casalingo che quando era in guerra tanto gli era mancato. Ecco, quella era una delle piccole cose che gli piacevano della vita normale. Il problema era il resto.
Versò l'acqua nella teiera, aggiungendo due bustine di tè. Annotò mentalmente di cercarne una marca più forte, per cui fosse sufficiente una sola bustina magari. Non gli avrebbe fatto per niente male.
Mentre metteva il pane tostato su un piatto, Sherlock Holmes era scivolato in cucina. John si accorse di lui solo quando si girò per versare il tè nelle due tazze che aveva posato sul tavolo. Per poco non gli venne un colpo: era stato incredibilmente silenzioso.
- Ehm... si sieda, il tè è pronto -  borbottò a disagio. Stette ad osservarlo mettere due zollette nel liquido ambrato, e mescolare con un movimento sciolto. Quando si rese conto di essere rimasto lì come un baccalà, si riscosse, e sedette anche lui, prendendo a imburrare il pane con molta più meticolosità del necessario.
- Per quale ragione avete portato uno sconosciuto in casa, piuttosto che chiamare semplicemente il pronto soccorso, Dottor Watson? - gli chiese Sherlock a bruciapelo. John si bloccò con il coltello a mezz'aria.
- Istinto del medico? Non ne ho idea, in verità... -
Il giovane uomo non parve sorprendersi della risposta.
- Ieri sera ho incontrato l'ispettore Lestrade, e a quante pare lui vi conosce –
- Sì, è esatto. Ho lavorato con lui per diversi casi. Sembra che la polizia, al giorno d'oggi, sia davvero incompetente -
- Le chiede di contattarlo. Ha cercato di chiamarvi, ma senza risultato – l'espressione sarcastica del detective, però, riuscì a strappargli una mezza risata.
- Ho avuto da fare – finì di bere il suo tè in un'ultima sorsata  – Vi ringrazio per il vostro aiuto, dottor Watson, ma non vorrei arrecarvi altro disturbo con la mia presenza. Inoltre fintanto che sarò qui, voi sarete a rischio. È meglio che me ne vada al più presto – detto questo, si alzò di scatto, ma solo per bloccarsi a metà movimento con una smorfia di dolore.
Un uomo orgoglioso, pensò l'ex soldato. - Restate pure ancora un po'. Non potete andarvene in giro conciato in quel modo, e la signora Hudson inoltre si preoccuperebbe. Sembra esservi affezionata -
Sherlock Holmes sbuffò a quelle ultime parole, ma tornò a sedersi.
- Voi vi annoiate – mormorò. John alzò lo sguardo su di lui, e vide un sorrisetto affiorargli sulle labbra.
- Scusate? -
- Vi annoiate. Non credo che il vostro zoppicare sia dovuto al trauma della guerra. Piuttosto, vi manca l'adrenalina -
John rimase a bocca aperta.
- Devo... devo andare al lavoro –
Uscì dalla cucina con la certezza di avere quei due occhi color ghiaccio puntati sulla nuca.
Quando lo vide sparire dietro la porta, Sherlock si spostò sulla poltrona in pelle del soggiorno, a meditare. Fece congiungere le punte delle dita, e chiuse gli occhi, reclinando la testa all’indietro. Pochi minuti dopo venne interrotto dalla signora Hudson, che entrava chiamandolo ad alta voce.
Vederlo lì seduto la fece sorridere in maniera complice. – Allora? –
- Avevate ragione, signora Hudson. Mi verrà dietro -
 
 
- Cosa significa che non sapete di cosa sto parlando? - sbottò infuriato all'altro capo fazione. Avrebbe dovuto aver già reagito alla sua provocazione da un bel pezzo, ma invece non era accaduto, per cui era andato di persona a cercarlo. Quando gli aveva domandato se aveva accolto il suo regalino, l'altro l'aveva fissato sconcertato. Non aveva idea di cosa stesse parlando. E lui sapeva sempre tutto. Com'era possibile?
- Davvero, non so a quale regalino vi riferiate. Se si tratta dell'ultima vittima, non è una grande novità. Lo fate sempre -
Digrignò i denti dalla frustrazione, facendo guizzare la coda. - Ditemi, come se la passa junior? - sibilò, ostentando un'espressione di canzonatura.
Finalmente ottenne la sua piena attenzione. Il capo della fazione opposta alzò lo sguardo di scatto, e lo guardò come se volesse scuoiarlo vivo. - Che intendete dire? - gli chiese con voce serafica. Dopotutto, non perdeva mai la sua compostezza.
- Mhm... credo proprio che l'altra notte abbiamo avuto una piccola conversazione -
Confusione, un fremito di ansia, e poi odio allo stato puro trasudarono dall'altro come una valanga in piena, solo all'accenno. A quella visione rise di gusto.
- Che cosa gli avete fatto? -
- Non l'ho mutilato, stai tranquillo! Il suo bel visino è integro – si sporse sulla scrivania dell'altro – Ma non vi conviene continuare ad intralciarmi. Voi continuate pure con quei vostri stupidi principi morali, ma provate ancora a mettere i bastoni sulle ruote alla mia fazione, e ti assicurò che non mi limiterò a qualche taglio -
- Sei un folle! -
- E te ne accorgi ora? -
Gli diede le spalle, e se ne andò senza aggiungere altro.
Il messaggio era giunto alla fine, ma non riusciva a spiegarsi come facesse l'altro a non sapere cosa fosse successo. Forse era riuscito a rintanarsi in uno dei suoi nascondigli, ed ora era lì a leccarsi le ferite. Oppure era stato trovato prima da una delle sue conoscenze, per quanto poche fossero.
Cercò nella rubrica del cellulare il numero del suo braccio destro. Non ci mise molto a rispondere, come sempre.
- Capo? – disse la voce del suo aiutante, attraverso l’apparecchio.
- Vedi di trovare la nostra piccola e adorabile aberrazione, alla svelta –
Nell’ufficio, intanto, anche l’altro capo fazione stava alzando il telefono.
- Si è verificato un incidente. Cercate mio fratello, e che venga trovato entro stasera -
 
 
Passare la giornata in ambulatorio ad ascoltare il continuo blaterare di vecchiette paranoiche fu noioso e tedioso come non mai. I suoi pensieri continuavano a rifugiarsi in Baker Street, e ronzare attorno al misterioso detective. E alle due cicatrici che aveva visto sulla sua schiena mentre gli disinfettava quel brutto squarcio alla spalla. Non aveva mai visto due cicatrici come quelle. Non erano incave rispetto alla cute, ma nemmeno sporgenti. Si trattava di due segni ancora più chiari della già pallidissima pelle, e nient’altro. La cosa davvero strana, però, era che fossero due cicatrici gemelle. Si trovavano sulle scapole, ed erano perfettamente identiche, con una simmetria a specchio.
Anche i suoi occhi erano strani: non era riuscito a capire di che colore fossero, sembrava che mutassero ad ogni minimo cambio di luce, in una serie di gradazione tra il verde, l’azzurro e il grigio. Aveva già una mezza idea che fossero più azzurri, e che quindi doveva essere la vera tinta.
- La sua tosse non è un sintomo di polmonite, signora. Ha solamente il raffreddore. Si vesta più pesante e si metta della pomata sul naso per l’arrossamento, ma di più non posso fare. Buona giornata, e arrivederci –
L’ultima paziente prima della pausa pranzo sgombrò borbottando infastidita. Aveva poco da lamentarsi. Non poteva certo pretendere che lui le prescrivesse degli antibiotici per la polmonite, quando probabilmente era solo uscita di casa con la gola scoperta.
Si alzò in piedi e stirò le braccia. Una volta tanto non gli sarebbe dispiaciuto che la gente andasse in ambulatorio avendo davvero qualcosa da curare. Almeno avrebbe saputo cosa farci.
- Dottor Watson? – John si voltò sorridendo verso Sarah Sawyer, che si era affacciata dalla porta. – C’è un signore che chiede di lei. Lo faccio entrare? –
- Di chi si tratta? –
- Non ne ho idea. Dice che è importante. Non credo si tratti di un paziente –
- Va bene, lo faccia entrare –
Sarah si fece da parte, per lasciare spazio ad un uomo di mezza età, vestito di tutto punto e con un’aria di superiorità, quasi di divertimento. Nonostante fuori non piovesse quello portava con sé un ombrello nero. Al suo seguito c’era una giovane donna piuttosto attraente, tutta intenta a digitare sul suo cellulare.
L’uomo si fermò di fronte a lui, e lo squadrò da capo a piedi. – Oh, capisco! – disse infine.
John aggrottò le sopracciglia. – Mi scusi, lei chi è? –
Quello alzò lo sguardo fino ad incrociare il suo. – La vera domanda è chi è lei, dottor Watson –
- Prego? – qualcosa nel modo di guardarsi attorno di quello sconosciuto gli ricordò l’investigatore dagli occhi azzurri (aveva deciso per quel colore) che aveva trovato la mattina precedente.
- Ex medico militare, con zoppia psicosomatica. Decisamente annoiato dalla sua vita attuale, non riesce a mantenere una relazione per più di qualche mese. Ma ci sfugge il collegamento. Qual è la sua relazione con Sherlock Holmes? –
Ecco, avrebbe dovuto immaginarlo. Era a causa di quell’individuo.
- Nessuna. Ci siamo conosciuti ieri –
L’altro sembrò divertito dalla sua risposta. –Ah sì? Eppure lei ha problemi di fiducia. Come mai ha deciso di fidarsi a prima vista proprio di Sherlock Holmes? Ammetterà che è strano –
Ottima domanda. Se lo chiedeva anche lui. Certo si era fidato della signora Hudson quando aveva scoperto che erano conoscenti, ma quello era successo dopo la sua decisione di trascinarlo in casa senza saper nulla sul suo conto.
- Lei si annoia, come ho detto. E ha visto qualcosa in Sherlock che suscita il suo interesse. Penso che potrebbe funzionare –
John indurì lo sguardo. – Chi è lei? – ripeté molto più freddamente di prima.
- Qualcuno che si preoccupa per Sherlock costantemente, anche se lui mi definirebbe il suo acerrimo nemico, temo – criminale, quasi di sicuro; capo di qualche associazione criminale che dava la caccia al detective per qualche ragione. E probabilmente anche gli stessi che l’avevano ridotto in quello stato.
- Se volesse riferirmi i suoi movimenti, dottor Watson, verrebbe ricompensato lautamente – ecco, infatti. Criminali.
- Mi dispiace, ma non sono interessato. Ora la prego di lasciare l’ambulatorio – ribatté, e sentì il soldato tornare ad uscire dall’angolino buio dove lo aveva recluso negli ultimi anni.
Ma l’estraneo non sembrò minimamente impressionato. – Ma certamente. Ci vediamo, dottor Watson. Saluti Sherlock da parte mia –
Quando se ne fu andato, John ricadde sulla poltroncina girevole, stupefatto. Si chiese se per caso non si era cacciato in un guaio ben peggiore di quanto pensasse. E così, se nella prima parte della giornata lavorativa aveva avuto il pensiero fisso dell'ospite a Baker Street, nel pomeriggio si ritrovò a visitare i pazienti con in testa l'uomo con l'ombrello.
Pensava che avrebbe potuto chiedere spiegazioni una volta tornato a casa, sempre che Sherlock Holmes non se ne fosse andato senza dire una parola durante la sua assenza, e pensava anche che sarebbe anche riuscito ad affondare nella poltrona dopo aver cenato, con una tazza di tè in mano e un episodio di Doctor Who davanti agli occhi. Si sbagliava.
Quando rientrò, non solo scoprì che Sherlock Holmes era in piedi ed arzillo come non avrebbe dovuto essere possibile con delle ferite come quelle che aveva, ma trovò anche Lestrade, intento a discutere animatamente con l'investigatore.
- Io e Anderson non lavoriamo bene assieme, lo sai! - stava sbottando il più giovane dei tre, incrociando le braccia al petto magro. Lestrade alzò gli occhi al cielo, e quando si accorse di John gli fece un cenno di saluto, prima di tornare a rivolgersi al detective.
- Non deve essere per forza il tuo assistente, Sherlock – disse, esasperato.
- Ma io ho bisogno di un assistente! -
- Allora, vuoi venire o no? -
- Non con la macchina della polizia – sentenziò infine Sherlock, voltando stizzosamente il viso dall'altra parte.
Greg sospirò, e sorrise con stanchezza al medico. Lui ricambiò, e gli rivolse anche uno sguardo interrogativo.
- Che sta succedendo, qui? -
Fu Lestrade a rispondergli, dato che l'altro era occupato a scrutare qualcosa dalla finestra. - Avevo bisogno di Sherlock per quei suicidi identici che sono successi uno dopo l'altro poco tempo fa. Grazie al cielo mi avevi detto che era da te, altrimenti proprio non so come avrei fatto a mettermi in contatto con lui. Ce n'è stato un quarto... -
- … e stavolta qualcosa è diverso. La vittima ha lasciato un messaggio prima di morire – completò Sherlock, tornando a voltarsi. - Vai pure avanti, Lestrade. Io ti raggiungo tra un po' -
L'ispettore di polizia stavolta annuì, lasciandoli soli. Appena fu fuori portata d'orecchio, il detective esultò. - Oh, grandioso! Tre suicidi identici ed ora un messaggio, sembra Natale! - esclamò, e quasi si mise a saltare dalla contentezza. - Erano secoli che non trovavo un caso così interessante! -
Poi si voltò di scatto verso John, che per istinto si ritrasse di un passo.
- Lei era un medico militare -
- Sì – rispose. Ecco di nuovo quello sguardo penetrante intento a giudicarlo e analizzarlo. Dopo aver sentito la conversazione tra i due, non gli fu difficile capire cosa stesse per chiedergli. E non sapeva se aveva intenzione di rifiutare.
- Uno bravo? -
- Molto bravo -
- Avrà visto molte morti violente. Magari anche qualche malattia -
- Sì, certo. Ne ho viste anche troppe -
Un bizzarro sorrisetto fatto con solo metà della bocca incurvò le labbra rosee dell'investigatore. - Vuole vederne altre? -
- Oh, Dio, sì! - sospirò John.
E in men che non si dica, si ritrovò trascinato in un taxi, che stando alle parole di Holmes, li stava portando alla scena del delitto. Quando raggiunsero il posto, John scoprì che si trattava di un palazzo abbandonato, già circondato e sigillato dai nastri gialli della polizia.
Una giovane donna dalla pelle color caffellatte li notò immediatamente, e si diresse verso di loro. Dal modo in cui guardò il detective, non sembrò molto bendisposta nei suoi confronti.
- Ma tu guarda se il freak non si fa rivedere dopo essere stato introvabile per quattro mesi! - esclamò, e quella che prima era stata un'impressione di antipatia tra i due, ora era una certezza chiara e limpida.
- Sally, è sempre un piacere venire a farvi visita – rispose sarcasticamente Sherlock Holmes. - Dottor Watson, ti presento il sergente Sally Donovan -
Lei parve piuttosto stupita, e gli strinse la mano con lentezza. - E questo chi sarebbe? Un altro spostato come te, o un tuo fan? -
- Il dottor John Watson, è con me – tagliò corto Holmes. Alzò il nastro della polizia e ci passò sotto, facendo segno anche a lui di fare lo stesso.
Non fece in tempo ad accostarsi all'entrata del palazzo, che già un altro uomo li intercettò, e sembrava ancora meno tollerante della donna appena incontrata. Si fece avanti con lo sguardo carico di disapprovazione.
- Questa è una scena del crimine, non voglio contaminazioni – intimò subito al loro avvicinarsi.
- Anderson, tua moglie è via da molto? Deve esserlo, a sentire il tuo deodorante! - Anderson sembrò ancora più perplesso di John, a quell'affermazione.
- Perché, che ha il mio deodorante? -
Watson dovette davvero trattenersi dallo scoppiare a ridere davanti a tutti, quando Sherlock fece notare come il deodorante di Anderson e della donna, Sally Donovan, fossero identici. E gli scappò anche un'occhiata di sbieco quando fece alcune tutt'altro che innocenti insinuazioni dopo aver dato un'occhiata alle ginocchia di lei. E di certo non era per lucidare il pavimento che lei si era recata da Anderson recentemente.
Dopo averli messi a tacere entrambi, il detective entrò nel palazzo, e John lo seguì, alla velocità che gli permetteva la sua maledetta gamba.
Lì Lestrade li stava già aspettando, con indosso una tuta di plastica blu per non contaminare il luogo del delitto. Ne fece indossare una anche a John, ma non fu in grado di fare lo stesso con Sherlock. Non sembrò affatto sorpreso di vederli insieme. Disse al detective che aveva due minuti, non di più.
Nella stanza dove si era verificato il “suicidio”, c'era una donna vestita di un colore rosa acceso da capo a piedi, sdraiata sulla pancia. Vicino alla sua mano si trovava una scritta incisa direttamente sul legno del pavimento, che diceva “Rache”.
Sherlock si chinò immediatamente sul cadavere. - Dottor Watson, si avvicini, per favore – gli disse.
Volle sapere da lui soltanto da quanto più o meno era morta la vittima, prima di iniziare ad esaminarla lui stesso. Non gli ci volle molto, e da lui vennero a sapere che veniva da Cardiff, che probabilmente lavorava nello spettacolo, e che regolarmente tradiva il marito. A stento John riuscì a star dietro alle sue spiegazioni quando illustrò da cosa aveva carpito tutte quelle informazioni, tale era la velocità con cui parlava, ma ciononostante rimase a bocca aperta. Quello non era semplicemente un bravo detective, era un vero e proprio genio.
- Fantastico! - esclamò.
- L'ha detto ad alta voce – gli fece notare il più giovane.
- Oh, mi scusi -
- No, no... va bene -
C'era una cosa, però, che riuscì a dedurre anche il dottore. Alle sue parole, Sherlock era arrossito; non vistosamente, ma indubbiamente. Aveva già saputo che non gli venivano fatti complimenti molto spesso, ma da quell'espressione capì che non erano solo occasioni rare, ma che si potevano letteralmente contare sulle dita. Sembrava anche più imbarazzato di quando lui era partito a dirgli “Incredibile!” a ruota libera dopo essersi sentito dedurre la propria vita.
“Forse la gente reagisce come me solo la prima volta che lo vede?”
All'improvviso, però, Sherlock si bloccò. Tornò ad esaminare il corpo della donna in rosa, e stavolta le alzò il viso, accostando il naso alle sue labbra.
- Lestrade, con cosa si erano avvelenati i tre precedenti? - domandò, ora preso da una bizzarra frenesia. Gli tremava tutto il corpo, ma non di paura: piuttosto, di euforia.
- Quelli della scientifica dicono che si tratta di una sostanza tossica di origine animale, probabilmente di una rana o qualcosa del genere. Non lo sanno ancora con precisione. È importante? -
Sherlock Holmes si alzò in piedi, con aria trionfante.
- Non si tratta di suicidi, ma di omicidi. E molto probabilmente l'assassino è una Creatura, o qualcuno che vive a stretto contatto con una di esse. Ho bisogno di analizzare in laboratorio i residui della sostanza prima di esserne sicuro, ma dubito di sbagliarmi. E c'è anche una valigia rosa da trovare, una valigia di piccole dimensioni! -
Corse fuori, quasi saltellando, al settimo cielo.
Stavolta John fu sicuro che la sua espressione sbalordita era identica a quella di Greg, o almeno molto simile.
- Come fa a sapere che si tratta di una Creatura? - gli chiese.
Greg alzò le spalle. - Non ne ho la più pallida idea. Però lui sa un sacco di cose sulle Creature. Sapevi che è stato Sherlock a permettere alla polizia di catturare la Creatura che poi è stata interrogata, prima che si togliesse la vita? -
John scosse il capo – No, non ne avevo idea. Il suo nome non appariva sul giornale -
- Ovvio, non possiamo far sapere in giro che mezza Scotland Yard lo usa per risolvere i suoi casi. Non so nemmeno cosa gli abbia permesso di sapere dove trovare quell'essere in quel preciso momento – Lestrade sospirò, passandosi le mani sul viso. Tornò a guardarlo, ma stavolta con un'ombra di allusività. - Piuttosto, John, che intendi fare con lui? -
Il medico aggrottò la fronte. - In che senso, scusa? -
- So che tempo fa si lamentava perché non trovava un coinquilino che riuscisse a sopportarlo. Dubito che abbia trovato una sistemazione, la maggior parte del tempo vaga un po' qua e un po' là. E tu sembri piacergli -
- Cosa te lo fa pensare? Non mi ha badato minimamente, dopo aver visto il cadavere -
- Ma non ti ha mai insultato, ne ti ha intimato di stare zitto, quindi gli piaci. Con lui funziona così. Se non ti insulta apertamente vuol dire che non gli stai antipatico, quindi hai buone probabilità di entrare nella sua categoria delle persone non fastidiose. Poi sei il primo che lui porta con sé ad una scena del crimine dopo averlo conosciuto da così poco tempo. E la signora Hudson farà di tutto per riportarlo a Baker Street: viveva dove abiti tu ora quando l'ho conosciuto, e lei stravede per Sherlock. Anche tu dicevi che l'appartamento ti sembrava vuoto, no? -
- Greg, lo conosco appena! E temo che tu stia fraintendendo la situazione! - esclamò John, colto di sorpresa.
Ma Greg si limitò a ridere, mentre lo accompagnava fuori dall'edificio. - Non sto fraintendendo niente. Dico solo che sarebbe la tua occasione di non essere più lì solo come un cane, e la sua di restare fermo in un posto, con qualcuno a tenerlo d'occhio senza doverlo spiare. Ma ovviamente non sono affari miei! - concluse, alzando le mani ai lati della faccia. Si diresse verso i suoi colleghi, per informarli sulle scoperte del detective.
John ripensò all'incontro di qualche ora prima nell'ambulatorio, quando quello strano signore con l'ombrello aveva indagato sul suo coinvolgimento con Sherlock Holmes. “Potrebbe funzionare” aveva detto. E aveva anche subdolamente chiesto come mai lui, che da un po' aveva difficoltà a fidarsi delle persone appena conosciute, non avesse esitato a farlo con un estraneo appena trovato in giro. E la signora Hudson, pure lei, gli aveva così insistentemente chiesto di ospitarlo per un po'. Per non parlare di quel modo in cui Holmes e lei aveva confabulato tra di loro, osservandolo in quella maniera strana. E ora ci si metteva anche Greg! Sembrava quasi che stessero complottando tra loro per tenerli assieme, ora che si erano incontrati!
- Dottor Watson? - lo chiamò la voce del detective. Sherlock Holmes, diversamente da come aveva creduto quando l’aveva visto correre via in fretta e furia, era ancora lì ad aspettarlo. Lo raggiunse, con insolita facilità di movimento.
- Allora, intendono lasciarvi esaminare i campioni di veleno, signor Holmes? - si sorprese a sorridergli amichevolmente, rilassato e disteso.
Lui annuì. - Non ne erano entusiasti, comunque. E, per favore, mi chiami Sherlock -
- D'accordo. Anche per me John va benissimo -
Sherlock si mordicchiò il labbro. - Volevo ringraziarla per avermi ospitato la scorsa notte -
- Si figuri, vedo che si è ripreso molto in fretta -
Voleva chiedergli di più su come faceva a sapere che c'era una Creatura di mezzo, ma il suo cellulare scelse proprio quel momento per squillare. John si scusò, e guardò chi era a chiamarlo. Vide scritto, sullo schermo, il nome di Mike Stamford. Si portò il telefono all'orecchio, sperando che Mike non finisse per parlare e parlare ininterrottamente per ore.
- John! - lo salutò entusiasta la voce dall'altra parte.
- Buonasera, Mike. È successo qualcosa? - le iridi color ghiaccio di Sherlock guizzarono attente, anche se il medico non ne capì la ragione.
- Ricordi quando hai detto che non ti sarebbe dispiaciuto avere un coinquilino con cui dividere l'appartamento? Beh, mi è venuta in mente una persona che ho conosciuto al Bart’s!-
- Oh, bene. E chi sarebbe? - aveva abbastanza fretta di finire la conversazione, a dir la verità. Il sorrisetto divertito del detective gli fece venire il dubbio che quel modo di parlare ad alto volume di Stamford lo facesse sentire anche da fuori.
- A volte viene a fare esperimenti nei laboratori. È una specie di detective. Si chiama Sherlock Holmes. Credo che potreste andare d’accordo –
Anche avendo allontanato il cellulare dal padiglione auricolare, la voce di Mike si sentiva forte e chiara. Sherlock doveva aver sentito tutta la conversazione. Ed ora sorrideva, ma forse era più un ghigno. John chiuse la conversazione e ripose l’apparecchio in tasca.
- Ha sentito tutto, vero? –
- Sì –
- Lei sta cercando un coinquilino, quindi? –
- Già –
- Immagino sia superfluo domandarle se ha mai pensato di tornare a Baker Street –
- Io suono il violino quando penso. A volte non parlo per giorni. Faccio esperimenti per i miei casi, ed ho orari irregolari a causa del mio lavoro –
- Non è un problema. Vogliamo discutere dell’affitto? –
 
 
 
Il dolore era terribile, ma sapeva che ce ne erano stati di messi peggio di lui.
Gli sembrava quasi di avere la schiena spezzata e trafitta allo stesso tempo, per non parlare degli occhi. Non vedeva nulla all’infuori di un bianco accecante interrotto solo ogni tanto da degli sfarfallii rossi, e bruciavano da morire. Forse sarebbe morto di lì a poco.
Ma no, nessuno moriva più lì, già da diverso tempo. Casomai perdevano la testa a causa della sofferenza fisica, ma non morivano. Ecco, doveva solo continuare a pensare, a tenere lontano il dolore, e una volta che il suo corpo si fosse sistemato non avrebbe avuto problemi. Per esempio, lui come sarebbe stato una volta terminato il processo? Aveva visto un ragazzo con una coda da rettile, e otto cose nere sulla schiena. Poi altri avevano lingue biforcute, occhi strani, artigli alle mani, zanne acuminate. Non c’era nessuno ad avere ali, però, forse temevano che potessero scappare, se avessero avuto le ali. Ecco perché nessuno aveva ali.
Continuare a pensare, continuare a pensare a qualsiasi cosa che non fossero quelle fitte lancinanti vicino alle spalle, e quelle migliaia di aghi negli occhi. Prima o poi sarebbero venuti a salvarlo. Magari li avrebbero salvati tutti, o forse no, sarebbero rimasti lì per sempre. Continuare a pensare.
Ah.
Ora vedeva qualcosa. Il bianco c’era ancora, ma non assoluto e accecante come prima. Niente più chiazze rosse. Ecco, intravedeva le figure degli altri, quelle code e quelle zanne, e quelle mani palmate.
- Stupefacente… - diceva qualcuno osservandolo, qualcuno di quelli senza coda e senza zanne. Cosa, cos’era stupefacente? Che cosa vedevano che lui non vedeva? Doveva saperlo. Odiava non sapere cosa gli stava accadendo. Cosa gli stava accadendo? COSA GLI STAVA ACCEDENDO?
Vide attraverso di loro. Inspirò di colpo. Sentì uno scricchiolio, come di carta che viene lisciata dopo essere stata appallottolata.
Oh.
Oh, dio.
 

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Capitolo 3
*** Come te ***


- Professore, c'è una rivolta ai piani inferiori! - gridava terrorizzata una delle ricercatrici. Un uomo di mezza età, chino su dei vetrini al microscopio, alzò di scatto la testa. La donna era scarmigliata, i vestiti laceri in più punti, e aveva dei graffi sul viso e sulle braccia.
- Una rivolta? Questo è impossibile! Le misure di sicurezza... - stava per replicare, ma le parole gli morirono in gola, quando la porta blindata che chiudeva la scalinata per i laboratori sotterranei fu scardinata come se fosse stata di carta. I soggetti sperimentali si riversarono nel laboratorio del piano terra come una valanga, soffiando, ringhiando e urlando inferociti.
La donna fu la prima ad essere investita. Un giovane ragazzo dagli occhi neri come il carbone le spezzò la schiena, dandole una frustata con la coda flessuosa e coperta di scaglie coriacee e taglienti che gli spuntava dalla base della spina dorsale. Lei morì sul colpo.
Il dottore fece in tempo a nascondersi dietro un armadio, per non essere trucidato come il resto dei suoi colleghi. Era il finimondo, il caos più totale. Arti strappati dai loro corpi, artigliate che recidevano vene e tendini, morsi velenosi e profondi venivano distribuiti a chiunque si parasse sul cammino dei fuggitivi. Nei volti di quegli esseri dai corpi misti, vi si leggevano rabbia, furore, odio, disperazione. Facevano a pezzi gli scienziati, neanche fossero stati delle bambole, lottando come bestie ferite.
Quando terminarono la carneficina, si precipitarono verso l'uscita protendendo le mani in avanti. Non vedevano la luce del sole da mesi, alcuni anche da anni. Da quando erano ancora umani.
Il dottore tirò un sospiro di sollievo quando rimase solo. Si asciugò il sudore freddo dalla fronte, tentando di regolarizzare la respirazione. Aveva davvero temuto di fare la stessa fine degli altri, mentre osservava i suoi colleghi venire massacrati, dal suo nascondiglio. Per fortuna quegli esseri mostruosi desideravano più la fuga che la vendetta, in quel momento, e non avevano badato a controllare che qualcuno fosse loro sfuggito. Probabilmente era l'unico sopravvissuto, comunque.
Si alzò lentamente, guardandosi attorno con circospezione. Nessuno era rimasto lì. Poteva considerarsi momentaneamente al sicuro. Avrebbe dovuto togliersi da lì, andarsene al più presto, senza farsi notare, e senza farsi seguire se uno di quei cosi fosse stato ancora in circolazione. Doveva fermare i brividi alle gambe, e uscire dall'altra porta, per non trovarsi sulla loro strada.
Per poco non gli venne un colpo quando sentì uno scalpiccio venire dalla porta scardinata. Si girò, temendo già il peggio. Invece non accadde nulla.
Ce n'erano altri due, però. Stavano ancora uscendo dal laboratorio blindato. Erano rimasti notevolmente più indietro del resto della massa. Magari erano quelli più deboli, si disse lo scienziato, o più paurosi. Magari lo avrebbero lasciato in pace, e sarebbero scappati di corsa non appena l'avessero visto.
Si fecero avanti cautamente. Il primo, il più vecchio, aveva sporto il capo oltre la porta. - Via libera, è tutto calmo – sussurrò a quelli più basso dietro di lui. Trascinandolo per la mano, fece capolino un ragazzino, spaventato a morte, che tremava dalla paura, e si aggrappava al braccio del primo come se ne andasse della sua vita.
Quando vide i corpi mutilati, però, il più vecchio dei due afferrò il ragazzino e gli coprì gli occhi con le mani.
- Non guardare. Va tutto bene, e presto saremo fuori. Non guardare. Ti fa male la schiena? -
- Sì! Brucia da morire! Anche gli occhi mi bruciano da morire! - singhiozzò angosciato. Era molto sottile ed esile per la sua età. Il maggiore, quindi, lo prese in braccio, e lo lasciò schiacciare il viso contro la sua spalla. Gli accarezzava i capelli, cercando di tranquillizzarlo.
Vide il dottore ovviamente, ma non lo aggredì. Si limitò a schivarlo, rivolgendogli uno sguardo carico di disgusto e rancore, ma non si arrischiò ad attaccarlo, perché altrimenti avrebbe lasciato al più giovane la vista libera.
Già, il ragazzino. Quello era l'ultimo soggetto, ricordò il dottore. Lo riconobbe non dal viso, ma da quei due tagli obliqui sulle scapole.
Se ne andarono, lasciandolo lì, solo, in mezzo ai cadaveri.
Ed ora che erano a piede libero, che cosa avrebbero fatto, quelle Creature?
 
 
 
 
- Queste sono tutte cose tue, Sherlock? - domandò John. L'appartamento era abbastanza a soqquadro. Il detective doveva aver già trasportato i suoi effetti al 221B, evidentemente. Ma non aveva molto il senso dell'ordine. No, per nulla.
- Sherlock, mi rispondi? - chiese ancora, a voce più alta. Il giovane uomo era sdraiato sul divano, gli occhi chiusi e le dita delle mani congiunte. Li spalancò di colpo quando l'altro gli scosse la spalla.
- Cosa...? Oh! Sì, è tutta roba mia -
- Beh, dovremmo sistemarla un po'... quel teschio è vero? - si accorse solo ora del cranio umano appoggiato sulla cornice del camino.
- Ah, sì, un mio amico -
John si augurò che intendesse che il teschio fungeva da surrogato di amico, e non che fosse il teschio di un suo amico.
- Cosa stavi facendo? Sembrava stessi dormendo – chiese invece.
- Pensavo. Quella donna aveva sicuramente un cellulare ed una valigia. Probabilmente li ha entrambi l’assassino. O almeno li aveva. Devo cercarli. A cinque minuti d’auto dal luogo del delitto, circa – si alzò in piedi – Ci vado ora. Vuoi venire con me? In due faremo prima –
- E questa confusione? –
- Oh, noioso! – sbuffò il detective. John soffocò una risata. Un bambino, Sherlock Holmes si comportava come un bambino. Aveva iniziato a conoscere parte di quelle stranezze di cui gli aveva parlato Lestrade.
La sera prima non ci avevano messo molto a discutere dell’affitto. Avevano semplicemente deciso quando Sherlock avrebbe potuto portare la sua roba nell’appartamento, e stabilito chi avrebbe dovuto dormire nella camera da letto di sopra. John si era offerto di andarci lui, pensando che sarebbe stato un gesto carino lasciare che Sherlock tornasse nella stanza dove dormiva quando ci aveva abitato tempo addietro.
Accettò di seguirlo nella caccia alla valigia rosa di buon grado.
Scoprì, mentre l’altro lo faceva correre da una via all’altra, che conosceva Londra come le sue tasche, e ci si orientava di certo meglio di quanto John si orientasse nell’appartamento di Baker Street. E scoprì anche che niente sembrava esaltarlo come dare la caccia ad un serial killer. Nulla riusciva a distoglierlo dall’indagine, finché non risolveva il caso.
La trovarono, la valigia trolley della donna in rosa, come John aveva preso a chiamarla nonostante sapessero che il suo vero nome fosse Jennifer Wilson. Era, come aveva predetto Sherlock, a circa cinque minuti di auto da dove avevano trovato il cadavere, vicino a dei bidoni della spazzatura che a giudicare dalla quantità di sacchi di plastica accumulati vicino ad essi, non venivano svuotati da un bel pezzo.
Non si pentì affatto di averlo seguito; da moltissimo tempo non si divertiva così, anche se forse non era molto moralmente corretto dire di divertirsi in un'indagine per pluriomicidio. Ma era un fatto, e negarlo sarebbe stato da stupidi. Era troppo, davvero troppo tempo che era quasi completamente isolato e solo. Greg aveva ragione: quella convivenza con Sherlock Holmes non gli avrebbe fatto che bene.
Rientrarono nell'appartamento, quindi, portandosi dietro una valigia rosa shocking e qualche filamento dei sacchi nei della spazzatura, nonché l'odore di questi ultimi. Era talmente assurdo che John scoppiò a ridere sul pianerottolo, appoggiandosi alla parete per non scivolare giù. - Ridicolo! Questa è la cosa più ridicola che abbia mai fatto! -
- Ed hai invaso l'Afghanistan! - rispose Sherlock, contagiato dalla sua ilarità.
- Non ero solo. E non avevo con me una valigia rosa -
A questo, entrambi risero più forte.
Trasportarono il trolley su per le scale, nel salottino, tra le due poltrone.
Sherlock lo aprì, per verificarne il contenuto. Vestiti, biancheria intima ed una borsettina con spazzolino, dentifricio e altre cose da bagno. Più frugava tra gli oggetti della donna in rosa, e più sembrava soddisfatto. Chissà poi per quale ragione. John aveva vagamente intuito qual era il suo metodo di indagine, in che modo riusciva a capire tutte quelle cose. Ma metterlo in pratica era impossibile. Per quanto uno potesse sapere come doveva cercare, notare tutti i dettagli era tutta un'altra faccenda. Era sempre più convinto che la persona di fronte a lui avesse delle capacità straordinarie.
- Manca il cellulare – annunciò il detective.
- Ehm... bene? Oppure no? Okay, non ho idea di che importanza possa avere -
- Se non ce l'ha in valigia, significa che lo aveva in tasca. Ma sul cadavere il cellulare non c'era, quindi deve averlo l'assassino -
- Non potrebbe semplicemente averlo lasciato in albergo? -
- Non ci è mai arrivata all'albergo, e comunque aveva molti amanti, non lascerebbe il telefono in giro così. Per fortuna... - allungò la mano a sollevare un cartiglio attaccato alla cerniera della valigia – qui è scritto il suo numero -
- Non vorrai mica provare a contattare l'assassino, vero? -
- Per verificare che la mia ipotesi sia corretta, sì. Prendi il cellulare e scrivi esattamente quello che ti dico -
John rimase senza parole. Sarà stato un genio della deduzione, ma era anche un perfetto idiota. Che voleva fare, attirare a sé un maniaco omicida? Era completamente pazzo.
Ciononostante, gli obbedì, e iniziò a digitare il numero che gli veniva dettato. - Stai scrivendo? -
- Sì -
- Hai finito? -
- Aspetta un attimo! - sbottò.
Dopodiché si apprestò a scrivere il messaggio. Forse aveva capito il ragionamento dell'investigatore: se avessero ottenuto una risposta, allora l'assassino aveva il cellulare. Altrimenti era stato buttato via assieme alla valigia, e se anche qualcuno l'avesse raccolto, non si sarebbe interessato ad un messaggio come quello, perché avrebbe avuto significato solo per l'omicida.
- A proposito, c'era una cosa che dovevo dirti. È venuto un uomo in ambulatorio. Un tuo nemico. Acerrimo nemico, a sentir lui -
Sherlock sollevò le sopracciglia. - Davvero? Con un ombrello ed una donna che lo segue? -
- Certo, come fai a saperlo? -
- Non mi lascia mai in pace, ma non è un problema; non ora almeno – si sdraiò sul divano.  John rimase in attesa di ulteriori spiegazioni, ma queste non vennero mai. Il detective aveva chiuso gli occhi. Sembrava quasi che dormisse, ma probabilmente stava pensando.
- Sherlock? - disse nel tentativo di attirare la sua attenzione, ma fallì miseramente. L'altro non parve essersi nemmeno accorto della sua voce. E non poteva essere così indisponente da ignorarlo così, o almeno è quello che John sperò.
Comunque fosse, il dottore prese la decisione di uscire di casa, e magari prendere un fish and chips: non aveva ancora avuto modo di fare la spesa, e Sherlock gli aveva detto di non aver alcuna intenzione di cenare, per cui per una volta non si fece tanti scrupoli, nonostante non fosse esattamente sano per il suo stomaco. Come mai Sherlock non volesse cenare era un mistero. Ed era un mistero ancora più grande come facesse a non aver fame.
Non che fosse affar suo. Solo, era strano.
 
 
Quando sentì la porta chiudersi alle spalle del suo nuovo coinquilino, Sherlock si alzò di scatto. Sbirciò fuori dalla finestra per assicurarsi che non tornasse indietro, e quando fu fuori dalla sua vista, uscì anche lui.
Chiamò un taxi, e disse al conducente un indirizzo nell'East End, il lato della città ad Est del Tamigi , dove si trovavano da secoli i quartieri più degradati di Londra.
Come al solito, si fece portare ad un paio di vie di distanza dalla sua vera meta, che raggiunse a piedi. Nessuno sapeva che in quel posto c'era vita, nessuno tranne alcuni individui particolari.
Una volta era stata un negozio probabilmente, ma doveva essere chiuso da decenni. I pochi mobili che erano rimasti avranno avuto ottant'anni o giù di lì. Ma sebbene sembrasse completamente vuoto se visto dall'esterno, c'era molto movimento in quel posto.
Era una delle aree neutrali, dove le due fazioni potevano comunicare senza dover irrompere nei territori dell'altra. Nessuno realmente rispettava la questione dei territori, e tutti andavano ovunque, ma chi veniva scoperto a cacciare nei possedimenti degli altri, poteva venire punito molto duramente. Lì però no: la caccia era off limits, e lo erano anche gli scontri. Lì si comunicava, ci si teneva aggiornati con gli avvenimenti. E alcuni di loro, per quanto pochi, si scambiavano informazioni pacificamente senza venire accusati di tradimento della fazione.
Le fazioni erano nate poco dopo la “Fuga”, come loro amavano chiamarla. Due fazioni, con due leader diversi e due linee etiche diverse e rivali.
E poi c'era lui, che si ostinava a non voler appartenere a nessuna fazione, ma che purtroppo veniva sempre considerato membro della fazione “di sopra”.
In quel vecchio negozio sgangherato e polveroso, c'era un uomo accovacciato in un angolo, in attesa di visite.
Quando Sherlock aprì la porta scricchiolante, quello gli fece un cenno di saluto. Non era la prima volta che si incontravano lì, e non sarebbe stata nemmeno l'ultima.
- Buonasera, Sherlock – disse con voce roca – vedo che sei ancora tutto intero -
- Mi pareva fosse proibito per norme di sicurezza chiamarsi per nome proprio. Se qualcuno venisse a scoprire le identità degli altri, potrebbe approfittarne per un attacco. Non è quello che è successo a Victor Trevor? Per poco non ci ha rimesso la vita, solo perché era stato chiamato per nome qui -
L'uomo rise a voce alta. - Ma qui ora non c'è nessun altro! Sei paranoico, paranoico! Ma se ci tieni tanto, allora dico buonasera, W.W. -
- Così va meglio, per quanto io non ami le abbreviazioni. Buonasera anche a te, Empty Stare –
Gli occhi bianchi dalle pupille perlacee dell'interlocutore, rifletterono quel poco di luce che fluiva dall'esterno, mentre si alzava in piedi per stringergli la mano. Erano proprio quegli occhi quasi trasparenti il motivo per cui l'uomo veniva chiamato in quel modo. Era impossibile capire cosa stesse guardando, perché quelle iridi erano a malapena distinguibili dal bianco dell'occhio, e le pupille parevano costantemente perse nel vuoto. Per cui era stato battezzato “Empty Stare”, sguardo vuoto. Ma era solo in apparenza vuoto: in realtà poteva vedere molto più di ogni altro, con quegli occhi color perla.
- Mi chiedevo che fine avessi fatto – gli stava dicendo. - Mi era giunta voce che il capo della mia fazione ti avesse fatto a pezzi qualche giorno fa, ma era una menzogna, da quel che vedo -
- Mi ha solo pestato un po'. Ho trovato un nuovo coinquilino. Credo che stavolta sia uno a posto -
Empty Stare abbozzò un sorriso. - Fa sempre piacere sentirlo. A differenza dei miei compagni della fazione di sotto, non provo nessun odio nei vostri confronti. Ho solo alcune idee differenti su come dovremmo sviluppare il nostro stile di vita. Se sei qui, però, non è per chiacchierare con un mezzo rettile come me. Si tratta di quei finti suicidi? -
Sherlock non si chiese nemmeno come facesse l'altro a saperlo. Empty Stare era una di quelle persone che tendono le orecchie ed ascoltano i sussurri, che aguzzano la vista per guardare le mosche, e che in qualche modo finiscono per essere sempre un passo avanti rispetto agli altri.
- So già chi è l'assassino – sbuffò il più giovane – Ma non so come fare ad incastrarlo. Il rospo non è uno facile da incriminare: non si sa chi sia, e anche se la sua caccia è più che palese, nessuno può farci niente! -
- Già, il rospo... - il più vecchio – Mud Toad, è così che viene chiamato se non sbaglio... sì, qualche volta mi sono imbattuto anche in lui, proprio qui. È proprio un rospo a tutti gli effetti. Da poco nell'occhio, è flaccido e rugoso, e poco raffinato. Ma è meno innocuo di quanto non appaia. E si sa mimetizzare -
- Devo coglierlo sul fatto, oppure farlo uscire allo scoperto. Non lascerà mai tracce che possano far ricondurre i crimini a lui, vero? -
Empty Stare scosse la testa. - No, proprio no. Non lo farà. In fondo non è tutta opera sua -
- No, certo che no... - Sherlock sospirò. Stanare le Creature non era come stanare un comune criminale. Le Creature avevano un sistema di incriminazione e sanzione per conto loro, che a volte poteva differire da quello umano. E c'erano conseguenze alla punizione di uno di loro, anche se il condannato era nel torto.
- Ha a che fare il vostro capo fazione? - si rassegnò a domandare, sapendo già la risposta. Empty Stare annuì.
- Non farlo arrabbiare, Sherlock. Lui è un pesce troppo grosso anche per te. La prossima volta non si limiterà a picchiarti. Abbiamo bisogno di uno come te -
- Non gli importa un fico secco del rospo. Posso prenderlo senza che si rivolti contro di me -
L'altro fece un risata bassa di rassegnazione. - Non c'è modo di fermarti. Va bene, basta che resti vivo. Potresti attirare l'attenzione del rospo, e vedere se l'orgoglio non lo porterà a sfidarti apertamente. Poi saprai cavartela -
Sherlock annuì. Fece per voltarsi ed andarsene, ma l'uomo lo prese per la spalla.
- C'è qualcos'altro? - Empty Stare non rispose, ma mise una mano all'altezza della sua scapola. Sherlock sussultò, ma non si mosse.
- Quanto tempo? - gli chiese glaciale il più vecchio.
- Non saprei... qualche mese? -
Empty Stare imprecò tra i denti. - Sei un completo idiota – tirò fuori dalla tasca una scatoletta trasparente, che conteneva delle boccettine di vetro piene di un liquido viola. Gliela mise in mano.
- Mi raccomando, Sherlock. Ho detto che ti voglio vivo -
- D'accordo -
E stavolta se ne andò sul serio, stringendo nel pugno il contenitore.
Tornò a Baker Street, e dalle luci rimaste accese intuì che John era già tornato. Avrebbe dovuto trovare una buona scusa, ora. O magari anche no: un uomo adulto può andare dove gli pare senza dover dire i suoi piano agli altri. Ma lui è un medico. Si preoccupa per gli altri. Vorrà sapere cosa ho fatto.
Difatti, quando rientrò, lo trovò seduto sulla poltrona, lo sguardo vigile, come fosse in attesa.
- Dove sei stato? - ecco, infatti.
- Indagini. Niente di pericoloso -
Ma la risposta non sembrò soddisfare l'ex soldato. John si alzò in piedi con lentezza, e si diresse verso di lui, con sguardo severo. Improvvisamente Sherlock si sentì intimidire da quell'espressione dura. A parte qualche criminale da lui arrestato, nessuno aveva mai avuto il coraggio di guardarlo in quel modo. In genere erano gli altri ad essere spaventati da lui, e dalle sue stranezze. Invece quel John Watson, ora, gli stava andando incontro, ed era lui ad indietreggiare di un passo.
- Non ti ho mai visto mangiare. Davanti a me hai bevuto solo una tazza di tè, da quando ci siamo conosciuti – gli disse, e mentre pronunciava quelle parole sembrava volerlo fulminare.
- Difatti. Non mangio quasi mai durante un'indagine. La digestione rallenta il mio cervello. Problemi? - rispose comunque.
John si fece ancora più torvo. - Ora inizio a capire cosa intendeva Lestrade, quando mi ha detto com'eri. Immagino di dovermi aspettare svariate altre assurdità, ma questa è la più grande stronzata che abbia mai sentito. Cosa sei, masochista o idiota? -
Sherlock rimase senza parole. Aveva avuto altri coinquilini, e tutti quanto avevano disapprovato innumerevoli aspetti del suo modo di comportarsi, ma nessuno aveva prestato tanta attenzione proprio a quella sua caratteristica.
- Nessuna delle due, dottor Watson – e calcò volutamente sulle ultime due parole – Non sento alcuno stimolo alla fame mentre indago. E tu sei il primo che sento preoccuparsi di questo -
- Allora i suoi precedenti coinquilini erano degli imbecilli! - sbuffò John.
- Indubbiamente vero –
Stettero a guardarsi in cagnesco, ma non durarono molto. Scoppiarono a ridere, per la seconda volta nella giornata.
- Sul serio tu non mangi per giorni? -
- Certamente. E non sono ancora morto -
L'idea del detective semi svenuto dalla fame, una volta risolto un caso e ritrovato lo stimolo allo stomaco, aveva un che di ridicolo. John sapeva che vivere in due in un appartamento comportava finire per preoccuparsi del proprio coinquilino, ma non aveva idea che avrebbe dovuto fargli da balia. Okay che lo stile di vita dell'altro non erano affari suoi, ma come avrebbe potuto conviverci e lasciare che si comportasse in quel modo?
Dovrò occuparmi di questa sua abitudine. Sarà la condizione per restare a vivere a Baker Street.
- Posso sapere dove eri andato, comunque? - gli chiese. Non ci riusciva a restare arrabbiato, quando gli sembrava di prendersela con un bambino. Sì, proprio questo era Sherlock Holmes: un bambino.
Sherlock scrollò le spalle. - A parlare con un mio informatore. Gli ho chiesto se sapeva qualcosa riguardo i finti suicidi -
- E...? -
- Il consiglio che mi ha dato ha confermato che l'idea di scrivere un messaggio all'assassino era piuttosto azzeccata. Se è il tipo di persona che penso io, non vedrà l'ora di confrontarsi con me -
John si accigliò. - Perché, che tipo di persona credete che sia? -
- Scaltro, intelligente, ma dall'aspetto insignificante. Uccide per uno scopo ben preciso e in modo poco vistoso, se paragonato ad altri omicidi, ma in fondo lui vuole che la sua furbizia gli venga riconosciuta. È la debolezza dei geni... -
- Come te, insomma. A parte l'apparenza insignificante – fu con una certa soddisfazione vedere lo stupore ed una leggera indignazione dipingersi sul volto dell'investigatore.
- Che cosa si fa, quindi? - continuò. Era sinceramente curioso di vedere se Sherlock sarebbe riuscito a prendere l'assassino così poco tempo dopo l'inizio della sua indagine.
- Ora si aspetta. Buonanotte, dottor Watson -
 
 
 
Gli aveva detto buonanotte, ma quella che lo aspettava non lo sarebbe stata affatto. E lo capì quando guardò il cellulare, e vide tutti i messaggi che gli aveva spedito suo fratello Mycroft. Ovvio che sapeva del suo ritorno a Baker Street. Se era andato all'ambulatorio dove lavorava John Watson, doveva essergli bastato uno sguardo per capire che avrebbero finito per diventare coinquilini, almeno per un po'.
Sherlock aveva già fatto diversi tentativi di convivenza con altre persone, ma erano falliti tutti miseramente. La prima cosa di lui a farli impazzire era il suo carattere, seguito dalle ore passate nel suo Palazzo Mentale, durante le quali no si accorgeva di niente o nessuno, e i suoi infiniti silenzi non erano graditi dalle persone comuni. Chi superava questo, doveva avere a che fare con i suoi esperimenti. Ben poche persone avrebbero potuto sopportare i pezzi di cadavere sparsi per la casa.
E per finire, anche loro davano fastidio a lui. O erano incommensurabilmente stupidi, oppure irritanti di natura. I pochi che erano sopravvissuti a tutte queste cose, se ne erano andati o erano stati abbandonati per svariati altri motivi.
Quell'uomo, invece, sembrava avere buone possibilità. Per prima cosa, per quanto non fosse tra le persone più intelligenti che conoscesse, non aveva un carattere che gli dava sui nervi. Poi sembrava più che disposto non solo a non provare ad impedirgli di ficcarsi nei guai, ma addirittura ad andare con lui.
E poi c'era quell'ultimo requisito, il più difficile da trovare. Perché c'erano persone che sapevano evitare di rallentare il suo cervello con le loro opinioni idiote, c'erano persone in grado di sopportarlo, e anche persone che amavano l'azione. Ma ben pochi sarebbero stati così aperti e pronti ad adattarsi a cose irreali. Quando si rendeva conto che non avrebbero potuto accettare la realtà, aveva trovato delle scuse per allontanarsi anche dai quei pochi accettabili che aveva trovato. Che comunque non erano un granché, ma paragonati agli altri...
Invece questa volta aveva l'impressione che John Watson avrebbe potuto capire. Se non l'avesse fatto, avrebbe dovuto andarsene di nuovo. Sempre sperando che non lo scoprisse per conto suo, e andasse a raccontare tutto alla polizia, o chissà chi altro.
“Ho visto il tuo nuovo animale da compagnia, Sherlock. Ti piace così tanto esporti a certi rischi? M.H.”
Quello era l'ultimo SMS di Mycroft, che seguiva una lunga serie di raccomandazioni e rimproveri. Si decise a rispondergli, ma solo perché forse si sarebbe deciso a smettere di tormentarlo, anche se era solo una tenue possibilità.
“John Watson sembra promettere bene. Se ho fatto correttamente le mie osservazioni su di lui, potremmo addirittura dirgli di noi. Sai che abbiamo bisogno di persone del genere. S.H.”
Suo fratello gli scrisse ancora dopo nemmeno un minuto.
“No, Sherlock. Noi non ne abbiamo bisogno. Sei tu a non voler accettare la realtà delle cose. Noi non facciamo più parte della loro società. M.H.”
Sempre la solita storia. Lo sapeva, che diamine, lo sapeva! Aveva iniziato a digitare una rispostaccia a tono, quando vide un altro messaggio aggiungersi al precedente.
“Non farti coinvolgere. Soffriresti soltanto. M.H.”
Non gli rispose.
Uscì dalla stanza, per controllare che il suo nuovo coinquilino fosse già andato a dormire. Le luci erano spente, e John Watson non era più in soggiorno, né in cucina Doveva essere andato nella sua camera, quindi. Bene.
Si chiuse la porta a chiave alle spalle. Si sedette sul bordo del letto, si sfilò la giaccia, e prese a sbottonarsi la camicia. Lasciò che gli scivolasse dalle spalle, la posò sul materasso. Finì di spogliarsi lentamente, silenziosamente, e lasciò tutti gli abiti sul letto. Un brivido gli fece accapponare la pelle, ma lui non batté ciglio.
Frugò nelle tasche del cappotto alla ricerca della scatoletta di plastica datagli da Empty Stare. La tirò fuori, la aprì, e prese una delle piccole boccettine di vetro, prima di rimetterla dov'era.
Sollevò quell'oggettino all'altezza degli occhi, e lo osservò intensamente. Era necessario, si disse, non poteva farne a meno, anche se sarebbe stato doloroso.
La stappò, e mandò giù il liquido violaceo che conteneva d'un fiato. Contò mentalmente fino a dieci, aspettando che iniziasse a fare il suo effetto.
La prima fitta era leggera, appena una lieve pressione dall'interno verso l'esterno.
La seconda già iniziava a bruciare. La terza gli fece tremare la schiena. La quarta lo costrinse a stringere i pugni.
La quinta gli tolse il fiato.
Cadde sulle ginocchia, piegato in due dal dolore. Quelle che fino a poco tempo prima erano solo due cicatrici bianche sulle sue scapole, ora erano arrossate e doloranti, e già sentiva il familiare scricchiolio della pelle che si lacera.
Ormai aveva le unghie conficcate sui palmi, e le labbra, morse con forza per trattenere le urla, erano calde e bagnate di sangue.
Si chinò, si appoggiò con le braccia al pavimento, mentre le sue membra venivano scosse da un altro spasmo. Ecco, ora anche gli occhi bruciavano terribilmente, e le lacrime scorrevano copiose sui suoi zigomi.
Si lasciò sfuggire solo un singhiozzo sommesso, quando le due cicatrici si aprirono completamente, e ne fuoriuscirono quelle due cose. Rumore di carta stropicciata e poi lisciata. Una vibrazione alle spalle, che si calmò solo dopo qualche minuto.
Finalmente il dolore scemò, e riuscì a raddrizzarsi. Ancora respirando affannosamente, si portò le mani, ora ferite dalle sue unghie, ad asciugare le lacrime. Il sale di queste gli faceva anche bruciare le labbra, gonfie e doloranti a causa dei morsi.
Si alzò lentamente in piedi, e fece sgranchire le due sottili ali che aveva liberato. Erano ali simili a quelle degli insetti, perlacee e attraversate da innumerevoli venature. Meno fragili di quanto apparissero, ma comunque molto delicate. Semitrasparenti e leggere come fogli di carta.
E anche se non li poteva vedere, sapeva che pure i suoi occhi apparivano diversi. Cangianti, quasi privi di pupilla, quasi splendenti nel buio. Sempre tra l'azzurro e il verde, ma di un colore molto più intenso e innaturale.
Quello era ciò che gli era rimasto, dalla loro fuga, tanti anni prima. Tutti loro avevano quelle Estensioni, come avevano deciso di chiamarle. Alcuni le avevano quasi uguali tra loro, altri invece sfoggiavano forme insolite. Ed altri uniche.
Le code erano molto comuni, così come gli artigli e i denti affilati. Più rari erano gli occhi “cangianti”, le orecchie ipersensibili e il veleno. Suo fratello aveva fatto una classificazione lunga e dettagliata di tutte quelle caratteristiche, facendo un elenco anche di chi aveva le une o le altre.
La maggior parte di loro ingeriva regolarmente quel fluido viola. Scatenava le Estensioni, riaprendo le fessure d’uscita. In quel modo, potevano utilizzarle ogni qualvolta desideravano senza che la loro uscita fosse dolorosa. Lui era uno della minoranza che si comportava diversamente. Lui non beveva quasi mai il fluido, e per questo le due cicatrici facevano sempre in tempo a richiudersi del tutto. Era un po’ come farsi i buchi alle orecchie: gli altri tenevano il primo orecchino costantemente, e disinfettavano la carne viva perché si richiudesse la pelle all’interno, lasciando l’apertura stabile. Lui invece, continuava a toglierlo e rimetterlo, ed ogni volta la ferita di chiudeva e riapriva.
L’unica ragione per cui di tanto in tanto beveva il fluido, era  per mantenere quelle Estensioni in vita. Era la fonte di nutrimento delle Estensioni, che non potevano assorbire l’energia dal cibo che mangiavano, per qualche strana ragione. Erano come parti di un altro corpo. Ed in effetti lo erano, anche se ora se le trovavano attaccate addosso. Avevano sperimentato molti modi di mantenerle sane, nel corso degli, anni, e quello per il momento era il più efficacie. O meglio, il più efficacie che non andasse contro i loro valori etici e morali.
Quelli dell’altra fazione non la pensavano allo stesso modo…
Si sedette a gambe incrociate a terra. Allungò le braccia all’indietro, e afferratane una, iniziò a lisciarla e stirarla, a rimetterla a posto per così dire. Ripeté l’operazione con le altre. Se solo fossero state ali membranose, come quelle dei pipistrelli, sarebbe stato molto più semplice. Invece l’insetto da cui prendevano la forma… perché doveva averle divise in così tante parti?
Quando ebbe terminato, le richiuse, e tornarono a sparire sotto la sua pelle. Era improprio dire che le richiudeva. Avevano osservato il modo bizzarro in cui le Estensioni sparivano senza lasciare traccia, a parte le classiche cicatrici bianche, ed erano arrivati alla conclusione che si atrofizzavano e rimpicciolivano in pochi secondi, per poi tornare alla loro forma originale quasi altrettanto rapidamente. A meno che come lui non fossero tenute nascoste per lunghi periodi.
Si gettò sul letto, prendendosi la testa fra le mani. Dio, perché?
Una vita nascosta, ecco cos’era la loro, ecco cos’era la sua. Non era possibile condurre un’esistenza normale. E anche se non avessero avuto bisogno di nascondersi fisicamente agli altri, non erano più psicologicamente in grado di essere… in mezzo alle persone. E questo ancora prima che gli umani completi si accorgessero della loro esistenza.
Le Creature. Creature, così li avevano chiamati. E neppure loro si erano mai dati un nome. Ora che erano stati classificati addirittura con un termine differente, anche se gli umani non avevano idea di cosa loro fossero, il distacco si era fatto ancora più netto.
Se però John Watson fosse stato diverso dagli altri, se lui avesse capito cos’erano le Creature, cos’erano davvero… se fosse stato disposto ad ascoltare, magari, a tempo debito…
Non farti coinvolgere, Sherlock. Soffriresti soltanto.
Le sue iridi tornarono gradualmente del loro colore originale.
Si addormentò con quelle parole che gli rimbombavano nella testa.
Rivide il giorno della fuga, in sogno, e la Creatura dagli occhi neri che l’aveva guidata. Rivide il giorno in cui aveva usato quegli occhi cangianti per la prima, volta, e in cui aveva dischiuso quelle ali che non volavano, sottili, deboli e insignificanti la prima volta.
 
 
Come te, insomma. A parte l'apparenza insignificante
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
******
 
Note:
Non ho granché da dire, in realtà. Volevo solo avvertire che non posso garantire la regolarità degli aggiornamenti, per svariate ragioni. Ho molti impegni, ma farò del mio meglio per scrivere più che potrò. Quindi è possibile che ci siano aggiornamenti mediamente abbastanza rapidi, oppure più lenti. Dipende dal periodo dell’anno e dall’umore di alcuni professori.
Grazie a chiunque legga questa storia!
 
Sofyflora98

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Capitolo 4
*** Veleno ***


Erano solo le sette del mattino, ma Sherlock era già (o ancora, forse, dato che lui non sapeva se avesse effettivamente fatto una pausa per dormire) assorto nelle indagini, e stava scambiando messaggi con l'ispettore Lestrade, seduto al tavolo della cucina. Dovevano esserci stati degli sviluppi importanti fatti dalla polizia, a giudicare dalla quantità di SMS che continuavano ad arrivare ed essere inviati.
Era totalmente immerso in quella conversazione, tanto che nemmeno sembrava essersene accorto quando John era sceso dalla sua camera e lo aveva salutato. Sembrava però confuso, o forse era infastidito; John non sapeva ancora come classificare con certezza le espressioni del suo viso.
All'inizio, non vedendosi ricambiare il saluto, si era leggermente irritato, pensando che il nuovo coinquilino fosse estremamente scortese. Poi, però, l'ex militare gli aveva chiesto se avesse fatto colazione, memore della conversazione riguardo le sue pessime abitudini alimentari avuta la sera prima, e ancora una volta Sherlock non aveva dato segni di vita. Concluse che non si era davvero reso conto dell'arrivo di John, e in effetti gli aveva accennato ad una tendenza ad isolarsi completamente.
Abituati, John. Non eri stato tu a chiedere una vita meno noiosa? Beh, attento a quel che desideri!
Stava imburrandosi una fetta di pane tostato, quando un ringhio scocciato proruppe dalle labbra rosee del detective. E aveva pensato rosee perché in effetti era oggettivamente il loro colore. Con questo non intendeva certo dire che la loro forma così insolita tendeva a calamitare inspiegabilmente il suo sguardo. Figurarsi!
- Ci sono novità, Sherlock? - gli chiese, sperando di ottenere una qualche risposta. Che non arrivò. Invece che dirgli cosa gli avesse causato quella reazione, l'investigatore aveva preso a borbottare tra sé, e a digitare sempre più velocemente sul cellulare.
Quando Lestrade gli rispose, Sherlock aggrottò le sopracciglia, e sbatté l'aggeggio sul tavolo, facendolo vibrare, e John temette davvero per l'integrità delle tazze. - Fai piano! - esclamò, e stavolta l'altro parve accorgersi della sua presenza.
- John! Sei già sceso? -
- Già da mezz'ora, se è per questo – sbuffò il medico.
- Oh. Non me ne ero accorto. L'ispettore Lestrade ha indagato per mio conto sul messaggio che la donna con la valigia rosa aveva lasciato sul pavimento, il nome Rachel lasciato a metà. A quanto pare si tratta di una figlia nata morta che ha avuto anni fa – il suo tono sembrava decisamente seccato dalla scoperta.
- Ed è per questo che hai ringhiato in quel modo? – doveva essere frustrante scoprire che l’unica persona che avrebbe potuto saperne qualcosa fosse in realtà una bimba mai vissuta, ma gli sembrava una reazione esagerata.
- Non ha alcun senso! – esclamò Sherlock. – Perché avrebbe dovuto scrivere il suo nome sul pavimento? –
Ah. Quindi era questo il problema. – Non c’è nulla di strano, invece. È assolutamente normale – ribatté John, incredulo. Sherlock sbuffò ancora più forte. - È esattamente quello che mi ha detto Lestrade, anche se meno gentilmente –
- Perché, trovi tanto strano che abbia pensato a sua figlia in punto di morte? –
- Non ha semplicemente pensato a lei. Ha inciso il suo nome con le unghie, e dev’essere stato anche doloroso. Dev’esserci qualcosa, c’è senz’altro qualcosa… -
E quelle furono le ultime parole che gli cavò per un bel pezzo, perché era rapidamente tornato ad chiudersi nella propria testa.
Decise di lasciarlo perdere finché non fosse tornato trattabile, ed aprì il giornale, sperando di trovarci qualche buona notizia. Ovviamente quella era una speranza vana, ma d’altronde la speranza era l’ultima a morire. Tanto per rallegrare quella giornata già iniziata allegramente, lesse l’articolo di prima pagina.
La notte prima avevano trovato altri due di quei morti senza traccia di causa, interpretati automaticamente come vittime delle Creature. Si trattava di un uomo ed una donna, trovati in strade vicine l’una all’altra. Come al solito non c’erano testimoni né tracce di lotta. Le Creature trovavano sempre un modo per sorprendere la vittima alle spalle, senza farsi vedere e senza allarmarla.
Richiuse il quotidiano. Ne aveva abbastanza di tutte quelle vittime delle Creature. Quel continuo leggere di uccisioni da parte di strani esseri lo turbava. Primo, perché non avevano realmente idea di perché uccidessero. Secondo, perché da come raccontavano gli avvenimenti, sembrava quasi che ci fosse una specie di organizzazione segreta, di complotto, contro il paese. Inoltre provava una curiosità immensa nei confronti delle Creature.
 
L’ispettore Lestrade si presentò nell’appartamento qualche ora più tardi, accompagnato da qualche altro agente che però se ne stette in disparte, come se fossero abituati a quel genere di occorrenza. A quanto parve non era molto felice dell'indagine proseguita a sua insaputa, e specialmente del ritrovamento della valigia non segnalato.
C'erano stati borbottii, discussioni, diverse intimazioni a tacere, ed altrettante a non prendersi arbitrariamente oggetti che potevano rappresentare degli indizi.
Una volta che sbolliti entrambi, Lestrade se ne era andato, anche se non poteva essere più contrariato di così.
Nemmeno il coinquilino sembrava troppo di buon umore, e stette quasi tutta la giornata a sbirciare dalla finestra, controllare nervosamente i messaggi del cellulare, e mormorare tra sé e sé. Ogni tanto ricominciava a frugare nella valigia (che era riuscito a tenere, nonostante i tentativi di Lestrade di portarla via), in cerca di chissà che cosa.
Solo verso sera sembrò illuminarsi.
- Rachel! - esclamò, e finalmente sembrava aver trovato qualcosa. John si girò verso di lui, in attesa in qualche spiegazione.
- Hai capito qualcosa? -
- Ma certo! Rachel, no? - e sembrava davvero che si aspettasse che lui avesse capito. Quando il medico gli fece notare che invece non era così, Sherlock alzò gli occhi al cielo. La mossa non sfuggì certo al dottore, che trovò piuttosto sgarbato quel segno di impazienza.
- Quel telefono ha sicuramente un  GPS per essere rintracciato. Rachel è la password, ovviamente. Il telefono non è stato perso, ma l'ha lasciato di sua volontà addosso all'assassino! Era furba, oh, se lo era! -
Detto questo, afferrò il laptop, cercò la suddetta pagina dove poter rintracciare il cellulare, e digitò l'indirizzo e-mail scritto sul cartiglio attaccato alla valigia, ed il nome della figlia della donna in rosa. Esattamente come aveva detto, riuscì ad effettuare l'accesso, e si aprì una mappa della zona. Il computer iniziò ad elaborare la ricerca del dispositivo, mentre Sherlock incrociava le braccia con un'espressione trionfante.
John non poté non sentirsi ancora una volta colmo di ammirazione per intuizioni del detective. I suoi ragionamenti non facevano una piega, una volta spiegati. Il punto era proprio riuscire a collegare tutti quei dettagli per dare un senso agli avvenimenti.
Vide però la soddisfazione del più giovane dissolversi, quando apparve il segnale della posizione del telefono. Sherlock spalancò gli occhi e allungò il viso verso lo schermo, le sopracciglia aggrottate. - Non è possibile... - mormorò.
John a sua volta si avvicinò, e con stupore si accorse che, stando a quel che era segnato sulla mappa, il cellulare di Jennifer Wilson doveva trovarsi proprio lì, al 221B di Baker Street.
- Magari non hai cercato bene nella valigia... - azzardò John, sbirciando il viso stupefatto di Sherlock Holmes.
Ma durò poco, perché fu proprio in quel momento che il cellulare di Sherlock decise di squillare. Lui lo afferrò,  e coprì lo schermo con la schiena, girandosi in modo che John non potesse vedere. Quando risollevò il capo, si era fatto serio, ed aveva anche già eliminato l’SMS.
- Esco – disse semplicemente, alzandosi per prendere cappotto e sciarpa.
- Adesso? Ma bisogna cercare quel telefono... - inutile dire che al dottore non fu prestata la minima attenzione, e l'investigatore si defilò senza dargli nemmeno il tempo di finire la frase.
Si risedette pesantemente sulla sua poltrona, sbuffando.
Diceva di volere un assistente, Sherlock Holmes, ma poi spariva all'improvviso e senza dir nulla. Non c'era da stupirsi che si fosse cacciato nei guai, si disse, ricordando quando l'aveva trovato semi svenuto al St. James's Park. Svolgere un lavoro così rischioso senza nessuno a badare a lui, o a guardargli le spalle era da pazzi. Una volta o l'altra si sarebbe trovato di fronte ad un serial killer con i riflessi più svelti, o meglio armato, e avrebbero dovuto indagare sulla sua morte, invece che il contrario.
A meno che... gli sussurrò una subdola vocina all'orecchio … tu non gli vada dietro. Potrebbe essere interessante, no? Non vorrai lasciare che quel giovane si faccia uccidere, vero?!
Ma, sebbene non riuscì a metterla completamente a tacere, fece in modo di isolarla in un angolino, per renderla ignorabile. O almeno, ignorabile per un po' di tempo. Quella, infatti, continuava a borbottare e picchiettare il suo cranio, nel tentativo di uscire e fargli muovere quelle dannate gambe sulla scia dell'investigatore.
 
“Venga giù, signor Holmes. M.T.” recitava il messaggio che gli era stato spedito.
La sigla alla fine non lasciava dubbi su chi fosse il mittente. Si trattava, ovviamente dell’assassino. Quelle due lettere confermavano le sue convinzioni sulla sua identità. Mud Toad, il rospo, proprio come pensava. Era strano, però, che di tutti proprio lui iniziasse ad uccidere esseri umani in quel modo. Si sapeva di alcune sue insolite capacità, ma non le aveva mai utilizzate. Se ne stava in disparte, come la maggior parte di loro, in fondo, a cercare di vivere una vita il più normalmente possibile. Non aveva nemmeno il problema di Estensioni molto vistose o problematiche a rendergli complicato l’adattamento. A differenza di lui.
Già, proprio a differenza di lui. Uno dei suoi maggiori problemi era proprio quello delle Estensioni. Avendo scelto di fare il detective e vivere in mezzo agli esseri umani, doveva sempre prestare la massima attenzione alle Estensioni che aveva sulla schiena. Una ghiandola di veleno in bocca, o degli artigli affilati sono più facili da nascondere di due enormi ali d’insetto. Normalmente non fuoriuscivano autonomamente e senza qualche sintomo ad avvertirlo, ma potevano esserci delle crisi nelle quali perdeva il controllo. E il rischio aumentava drasticamente quando assumeva il fluido viola.
In qualche modo, però, se l’era sempre cavata, e nessuno era mai venuto a sapere della sua natura. Sotto quel punto di vista, John Watson si stava rivelando un coinquilino ideale: non ficcava eccessivamente il naso nei suoi affari, cosa che invece i più tendevano a fare. Non aveva ancora nemmeno preteso che si comportasse come la gente comune, mangiando agli orari prestabiliti e dormendo quando loro lo facevano. Certo, c’erano state alcune occhiate di disapprovazione, e qualche rimprovero quando si era accorto di quanto poco mangiasse, ma nulla di troppo invadente.
John Watson gli piaceva più di quasi tutte le persone con cui aveva dovuto avere a che fare.
Per un attimo, all’arrivo del messaggio dell’assassino, aveva pensato di invitarlo a venire con lui. Ma poi c’era stato quell’attimo di esitazione, quel timore che potesse cambiare idea sul voler condividere l’appartamento con lui, che l’aveva spinto ad andare senza dirgli nulla.
Quando uscì dalla porta del 221B, vide un uomo sul ciglio del marciapiede. Chiunque avrebbe pensato che si trattasse semplicemente di un passante qualunque. Il suo aspetto era assolutamente ordinario. Si trattava di un uomo sui sessant’anni, grassoccio e flaccido, il colore degli occhi sbiadito dall’età, e i capelli quasi del tutto candidi.
A tradirlo, a renderlo riconoscibile, era il suo odore. Tutte le Creature avevano un odore particolarmente intenso che si aggiungeva a quello degli umani puri, differente per ognuno di loro, che rendeva immediato il riconoscimento. Quasi nessuno a parte loro era in grado di percepirlo, però. Quel vecchio emanava un odore di stantio, lievemente acido, e con una nota che ricordava l’acqua stagnante. Abbastanza spiacevole da sentire.
Anche l’uomo doveva aver sentito il suo, di odore, perché si voltò verso di lui quasi immediatamente. – Ah, il signor Sherlock Holmes! Siete esattamente come vi descrivono! –
- Il rospo, presumo. Come avete fatto ad avere il mio numero? Io ho scritto all'assassino con un altro cellulare -
L'uomo fece una risata pacata. - E' nel vostro sito. Nessuno se non Sherlock Holmes poteva aver avuto l'idea e l'incoscienza di scrivere ad un assassino solo per vedere se aveva il telefono rosa di una morta -
Sherlock adocchiò il taxi nero parcheggiato sul ciglio della strada. Il posto del guidatore era vuoto, e la portiera aperta. Nessuno meglio di un tassista avrebbe potuto rapire qualcuno e portarlo in un luogo deserto e fuori mano senza che questo opponesse resistenza mentre saliva sull'auto. Conosceva ogni angolo della città, e poteva pescare persone a caso, persone che sapeva sarebbero entrate nel mezzo di loro spontanea volontà. Che fossero casuali era ovvio: trovandosi nella fortuita circostanza di essere il fratello minore di un capo fazione, poteva facilmente sapere se le vittime avessero a che fare con le Creature. In quel caso non c'era alcun legame, e le probabilità gli dicevano che si trattava di pura sfortuna se erano loro ad aver perso la vita, piuttosto che il passante poco più avanti.
- Volete sapere perché li ho uccisi, vero? - chiese Mud Toad, con un sorriso subdolo. - Se mi seguirete nel taxi, io ve lo dirò. E poi voi vi suiciderete -
Sherlock non esitò ad andargli dietro. La curiosità era troppa. Era il suo unico punto debole, oltre la tendenza a desiderare ammirazione per le sue capacità deduttive, e non riusciva a resisterci nemmeno quando la sua vita veniva messa a rischio. Anzi, maggiore era il pericolo e più si sentiva attratto dal caso.
Durante il tragitto nel veicolo nero, proseguì la sua osservazione del conducente, e riuscì a dare un’occhiata anche a degli oggetti che erano stati collocati sul cruscotto. C’erano moltissime boccette di fluido viola, una quantità spropositata. Ne vedeva quattro cofanetti di plastica trasparente, ognuno dei quali conteneva una ventina di quelle minuscole bottigliette di vetro. Una scorta del genere sarebbe stata sufficiente per diversi anni, considerato che la frequenza di assunzione era di una fiala al mese. A che gli servivano così tante dosi di fluido? Forse le sue Estensioni avevano dei problemi di controllo, e doveva berlo più frequentemente.
Il rospo, capì, viveva solo. Aveva delle tracce di dopobarba vicino all’orecchio, e non si lavava da circa tre giorni. Nessuno che avesse dei conviventi o che frequentasse spesso altre persone sarebbe stato così disattento e poco curato: qualcuno glielo avrebbe fatto notare, e non sarebbe stato affatto piacevole stargli accanto.
Per sapere di più avrebbe avuto bisogno di studiargli il viso, ma in quel momento non poteva vedere che la sua testa, le sue spalle e le sue mani. Mani dalla pelle secca e screpolata, ma non callose o deturpate, quindi non aveva mai fatto un lavoro manuale troppo duro. Aveva le spalle affaticate dal continuo guidare, e leggermente spioventi, ma il collo e la schiena erano abbastanza dritti per la sua età, considerato che era seduto al volante la maggior parte della giornata, per cui non leggeva spesso chino sui tavoli, e non stava molto tempo al computer.
No, informazioni inutili. Doveva trovare qualcos’altro.
Mentre formulava quel pensiero, il taxi si fermò.
Erano giunti di fronte ad una scuola. La scelta del luogo era piuttosto diversa da quella dei quattro suicidi, dato che in questo caso non si trattava di un posto abbandonato, ma a quell’ora l’edificio era comunque vuoto, dato che sia gli insegnanti che i bidelli se ne erano andati da un pezzo.
- Viene con me, signor Holmes? – il tassista gli stava tenendo aperto lo sportello, in un lampante segno di sfida. Sherlock non batté ciglio, ed uscì dal veicolo senza esitazione. Seguì l’uomo dentro alla scuola, e fu condotto in un’aula piuttosto ampia e fornita di un tavolo molto lungo. Probabilmente si trattava di una sala riunioni, o qualcosa di simile. Aveva un vago ricordo dell’esistenza di una stanza del genere, risalente a quando era uno studente, ma essendo di scarsa importanza lo aveva relegato in un angolo del suo Palazzo Mentale. L’unica ragione per cui non l’aveva rimosso era che l’eventualità di un omicidio all’interno delle mura scolastiche avrebbe potuto richiedergli la conoscenza delle varie tipologie di aule. Ma si trattava comunque di informazioni approssimative, che occupavano poco spazio.
Mud Toad prese posto da un lato del tavolo, e gli fece segno di sedersi di fronte a lui, dall’altra parte. La superficie del tavolo era di un bianco grigiastro. Compensato ricoperto da una lamina di plastica semi ruvida, tipico degli edifici pubblici. Le sedie erano in plastica e alluminio, un po’ più ruvide del tavolo, e un po’ troppo basse per esso. Mentre la trascinava sotto le proprie gambe, i piedini consumati strisciarono sul pavimento, con uno stridio metallico.
- Di solito le persone non vi seguono fino al luogo del delitto spontaneamente però. Li minacciate con una pistola, perché lo facciano? – l’assassino annuì, estraendone una, infatti, dall’interno della giacca spessa, e posandola sulla superficie del tavolo, vicino a sé.
- E ora? Cosa fate solitamente a questo punto, quando siete solo con le vittime? –
Il rospo sorrise furbescamente, e tirò fuori anche due ampolline colme di un liquido incolore. Sherlock gli rivolse uno sguardo interrogativo. – D’accordo, queste ampolle contengono il veleno di anfibio con cui uccidete quelle persone, e non vi chiedo nemmeno da dove proviene dato che voi siete il Rospo, ma come li costringete ad ingerirlo? –
Il tassista rise di cuore. – Solo una delle due è veleno. L’altra è del tutto innocua. La vittima deve scegliere quale delle due bere –
- E se non scelgono, voi li minacciate di nuovo con la pistola, dunque –
- Ma non è tutto: io berrò quella che la vittima ha scartato –
- Questo, però, non spiega il perché. Perché voi avete fatto bere il veleno a quelle persone? – domandò il detective, sempre più certo che l’uomo di fronte a lui non fosse il vero artefice di quella serie di morti. Magari aveva ideato da sé il modo in cui farli morire, ma doveva esserci una ragione specifica dietro a tutto quello. Nonostante l’essere una Creatura, il rospo non aveva alcuna ragione per uccidere persone qualunque in quella precisa maniera. Non era un pazzo, era anzi perfettamente stabile. Doveva venirgli qualcosa dalle sue azioni, solo che non sapeva cosa.
- Questa è la parte più interessante, signor Holmes. Ma non sarò certo io a dirvi tutto –
 
Quella sarà stata la millesima volta che ripercorreva il salotto avanti e indietro, si disse mentalmente John. Avrebbe finito per consumare il pavimento, ma non riusciva a farne a mano, da quando il detective era sparito  senza dare spiegazioni. Era stato tentato dal telefonargli per sapere cosa stesse facendo, ma poi gli veniva in mente che se fosse stato sulle tracce dell’assassino, magari appostato a spiarlo, lo squillare del cellulare avrebbe potuto farlo scoprire, o quanto meno l’avrebbe distratto. Ovvio che era assai improbabile che avesse lasciato il telefono con il volume alto durante un’indagine, ma non sapeva più cosa aspettarsi da quell’investigatore del tutto fuori dalle righe.
Nel tentativo di non pensare a Sherlock Holmes, aveva anche cercato il telefono di Jennifer Wilson, dato che il GPS lo aveva segnalato proprio lì, ma senza successo. Due erano le cose: o quell’apparecchio dava un segnale sbagliato, oppure l'assassino era lì, mentre controllavano la mappa al computer.
Si disse che doveva darsi una calmata: Cristo, conosceva quello Sherlock Holmes da pochi giorni, e già si preoccupava così per lui? Evidentemente era stato solo per troppo tempo, non c’era altra spiegazione plausibile ad un comportamento  del genere.
Si girò un’altra volta verso il portatile. Lo schermo era in standby, completamente nero, ma magari Sherlock aveva lasciato la pagina con la mappa. Un’altra occhiatina, giusto per assicurarsi che il cellulare della donna in rosa fosse ancora segnalato lì al 221B di Baker Street.
Rassegnatosi all’ansia, smise di girare in tondo, e mosse il mouse, facendo riaccendere lo schermo. Come previsto, era ancora nel sito in cui Holmes lo aveva lasciato. John tamburellò nervosamente sulla scrivania, mentre quello caricava i dati per indicargli la posizione del telefonino. Rimase di sasso quando vide che non era più lì, bensì in tutt’altra parte di Londra. Gli tornò in mente il modo in cui il detective era schizzato via senza dir nulla.
L’assassino ha davvero il cellulare.
- Dio, quell’incosciente! – esclamò a se stesso, correndo a prendere il giubbotto. E già che c’era, anche la pistola che gli era rimasta dall’esercito.
 
Sherlock si sporse in avanti, verso il suo interlocutore. – Perché non volete dirmelo? È forse un segreto che non riguarda solo voi, per caso? Chi altro è coinvolto? – mormorò a bassa voce.
L’altro scosse la testa. – Questo non fa parte del gioco, signor Holmes. Ora siamo solo voi ed io, lasci stare gli altri. Ora dovete scegliere – e fece un cenno col capo nella direzione delle boccette.
Sherlock, invece, non prestò loro alcuna attenzione. Osservò invece il rigonfiamento corrispondente alla tasca interna della giacca del rospo. La dimensione era  più o meno quella dei contenitori del fluido viola che aveva visto nella macchina, quindi doveva averli portati con sé. – Non mi interessano le bottigliette di veleno – rispose infatti. – Prima voglio togliermi un’altra curiosità. Le dispiace? –
Quando indicò lo protuberanza della tasca, l’uomo s’irrigidì. – Voi avete superato la mezza età, e siete una Creatura. Partendo da questi due presupposti certi, è naturale pensare che voi siate stato uno dei primi, quindi è accaduto molto tempo fa. Ho notato che avete una quantità eccessiva di fluido viola. Una scorta del genere vi durerebbe anni, in condizioni normali, ma voi ne avete così tanto solo a portata di mano, quindi ne fate uso frequente. Non avrebbe senso per le Creature normali: una boccetta basta per un mese, e anche oltre a volte. Quindi siete una Creatura piuttosto anziana, per la media, che beve moltissimo fluido viola. Dovete avere qualche problema con il controllo o con il funzionamento delle vostre Estensioni, magari perché essendo voi uno dei primi, non avete un bilanciamento perfetto, o forse con l’età hanno iniziato a deteriorarsi. Ma uccidere le persone non vi aiuta in modo diretto, quindi dev’esserci qualcos’altro. Ora siete più ben disposto a raccontarmi cosa sta succedendo? –
Il rospo dapprima aggrottò le sopracciglia, poi sospirò. – Mi avevano detto che eravate così. Superate le mie aspettative, signor Holmes –
Estrasse i contenitori di plastica dalla tasca del giubbotto, e li posò sul tavolo. Sherlock contò di nuovo le boccette di fluido viola. In totale ce n’erano ottanta, sufficienti per più di sei anni. Nessuno si teneva una scorta del genere, con il rischio di perdere la preziosa sostanza.
- Non vi sbagliate. Io sono stato tra i primi ad esistere, e soprattutto tra i primi a sopravvivere. Per questa ragione io non sono perfetto. La mia Estensione è una sola, e si tratta di una ghiandola che produce veleno, come sapete. Veleno con la stessa composizione chimica di quello degli anfibi. Ma questo non vi è nuovo: il vostro capo fazione ci ha schedati tutti, come d’altronde ha fatto il nostro – si lasciò cadere sullo schienale della sedia, stancamente.
Fu in quel momento, proprio in quel momento, che aveva abbandonato l’atteggiamento sicuro e tranquillo, mostrando tutti i propri anni, assieme a tutto ciò che aveva dovuto patire. Sherlock non batté ciglio a quella manifestazione.
- Le ghiandole si stanno alterando, e pian piano sto morendo del mio stesso veleno. Perché non accada, devo assumere una quantità enorme di fluido viola, ma se si venisse a sapere che ho problemi con il controllo delle tossine, diventerei io stesso una preda per gli altri –
Il fluido veniva distribuito dai capi fazione, a cui veniva consegnato dagli addetti alla sua produzione. la distribuzione era condizionata dalle necessità. Verificavano quanto ne occorreva ad ogni individuo, e così davano le scorte ad ognuno. Era facile scoprire, però, quanto ne veniva dato ad ogni altro, perché nessuno badava molto a cose come la privacy, nella società delle Creature. Questo Sherlock lo sapeva bene.
- Quindi… voi uccidete in cambio di tutto quel fluido viola dato di nascosto? – azzardò, anche se c’erano gran poche altre possibilità, a quel punto. Era la soluzione più ovvia. Oh, l’altro capo fazione avrebbe fatto questo genere di cose con la stessa facilità con cui Watson avrebbe bevuto il suo tè mattutino.
Ricevette un segno di assenso da parte dell’altro uomo. – Ma perché? Come mai ucciderli così? Le vittime normali sono una cosa, ma le Creature non uccidono in questo modo: non ne viene niente… Oh! – Sherlock sgranò gli occhi.
Un’idea gli era venuta, ma era semplicemente assurda. Nemmeno il ragno avrebbe potuto mettere in pratica una cosa del genere. Non era semplicemente malvagio, ma addirittura perverso. Represse un moto di disgusto quando il pensiero che Lui avesse potuto provarci lo attraversò.
- Questo è un esperimento. Non vi servono le loro morti, ma i loro cadaveri freschi… - mormorò sconvolto.
Si alzò in piedi di scatto, allontanandosi lentamente dal rospo. Questi tornò a guardarlo con interesse e curiosità, ed anche un pizzico di malizia.  Sherlock percorse il bordo del tavolo, e percepì un altro odore oltre a quello di Mud Toad, a cui prima non aveva fatto caso, preso com’era dal risolvere il caso. Era un odore che conosceva bene, molto meglio di quanto desiderasse. Di per sé sarebbe stato anche un buon odore, se non fosse stato per la persona a cui lo associava.
- Volete vedere se riuscite ad usare anche i morti, invece che i vivi. In questo modo gli umani non riuscirebbero più a distinguere i vostri omicidi da quelli comuni… E se fosse così, allora… -
Sentiva che il ragno era vicino, ma non sembrava volersi avvicinare a loro due. Era nascosto, da qualche parte, lì nei dintorni. Ad osservare, ed aspettare.
Mentre lui si guardava attorno alla ricerca della sua sagoma bassa e scura, il rospo scattò in piedi con un movimento fulmineo, stupefacente per un uomo della sua età e della sua stazza, e lo agguantò per il collo. Lo spinse sul pavimento, continuando a tenere le dita tozze attorno alla sua gola, non abbastanza da soffocarlo, ma sufficientemente da rendergli difficile la respirazione. Sherlock annaspò, tentando invano di allentare quella morsa ferrea che lo immobilizzava, ma il rospo era molto più forte di lui, a quanto pareva. Molto più di quanto non si aspettasse. E più pesante.
- Non avrete creduto davvero che vi avrei lasciato andarvene a dire tutto al vostro capo fazione, spero! Questo rimarrà un segreto, signor Holmes –
Sherlock provò a dire qualcosa, ma era senza fiato, e non riuscì ad emettere più di un rantolo.
Il rospo mosse la bocca in modo strano, e la accostò al suo viso. Dischiuse le labbra, e il detective poté vedere le gocce di veleno che iniziavano a secernersi dalle ghiandole che aveva in gola. Lottò con tutte le sue forze per sottrarsi al rospo, ma di nuovo fu del tutto inutile. L’uomo lasciò che il rivoletto tossico colasse sulle labbra del più giovane, e lo tenne fermò perché finisse dritto nella sua bocca, e giù in gola. Sherlock pensò confusamente che le Creature potevano produrre molto più veleno degli altri animali, prima di sentire i primi effetti della sostanza. Era anche più rapido ad agire.
Si stava già maledicendo per essere andato lì solo, per non aver portato con sé anche il dottor Watson, quando uno sparo fece irrigidire il corpo del rospo. Gli ricadde addosso a peso morto, e quasi gli bloccò i polmoni con il suo peso.
Qualcuno era entrato di corsa nella stanza, ed ora stava spingendo via quella massa  pesante da lui. Riempì i polmoni più che poté, quando finalmente fu libero. Gli faceva male la gola.
Dietro il velo di lacrime che gli offuscava la vista, vide vagamente John Watson, con una pistola in mano, che si chinava su di lui con aria preoccupata, urlandogli qualcosa che somigliava molto a “Idiota”, “Incosciente!” e “Cosa ti ha fatto?”. Dio solo sapeva quanto si trovasse d’accordo con Watson, in quel momento.
- Le… fiale viola… sul tavolo – ansimò con voce debole. Fece un gesto verso il mobile, a fatica.
John si precipitò a prenderle, e gli mise il contenitore di plastica in mano, aiutandolo ad aprirlo. Sherlock afferrò febbrilmente una delle bottigliette, e ne bevve il contenuto d’un fiato. Ripeté l’operazione più e più volte, fino a mandare giù dieci di quelle fiale di fluido viola.
Lanciò uno sguardo sofferente, quasi di scusa, a Watson, prima di stringergli il polso tra le dita pallide. Avrebbe preferito davvero non farlo. Non restava che sperare che il coinquilino non se ne accorgesse.
A quel contatto, John si sentì attraversare da una scossa elettrica, ed improvvisamente gli tremarono le ginocchia, in preda ad un’inspiegabile stanchezza. Si appoggiò al tavolo di compensato, in preda ad un giramento di testa. Quando tornò ad essere stabile, Holmes sembrava essersi ripreso da qualunque cosa avesse fatto l’uomo che ora giaceva a terra morto.
- Mi hai seguito – osservò il detective, massaggiandosi il collo, dove presto si sarebbero di certo formati dei lividi.
John annuì. – Il computer. Ho visto che il segnale del cellulare si era spostato, e siccome eri sparito ho pensato che fossi con l’assassino. Non mi sono sbagliato. Avresti dovuto dirmelo. Ti stava uccidendo –
L’altro fece una smorfia. – Forse. Esiste una minima possibilità che io avessi potuto farcela da solo –
- Bugiardo. Cosa stava facendo, e cos’è questo liquido viola che mi hai detto di darti? – non ne era sicuro, ma gli parve di leggere sincera preoccupazione negli occhi dell’ex soldato. Non era abituato all’idea che qualcuno potesse essere in ansia per lui.
- Stava cercando di avvelenarmi –
- Stava cercando? – rispose ironicamente John, scoccando un’occhiata alle fialette vuote sul pavimento.
- Ci era riuscito – ammise il detective – Quel liquido viola è… l’antidoto. Più o meno. Ora preferirei parlare il meno possibile: non mi ha ucciso, ma mi brucia la gola terribilmente. Chiama Scotland Yard, e togliti la polvere da sparo dalle dita –
 
C’era un che di ridicolo in tutta la situazione, quando arrivò la polizia. L’ispettore Lestrade non sembrò poi così stupito di vederli lì entrambi, ma fu chiaro che non se l’era bevuta quando gli avevano detto che non sapevano chi avesse sparato all’assassino perché era stato incredibilmente svelto. Di certo non poteva sospettare minimamente la sua effettiva identità. L’ispettore, infatti, aveva cercato di tirare loro fuori una versione più dettagliata, ma John gli aveva fatto notare che il detective aveva rischiato la morte per avvelenamento, e poteva rimandare al giorno dopo le minuziosità. Gli aveva consegnato un serial killer, e per il giorno era più che sufficiente, gli disse.
Greg probabilmente ci era rimasto secco nel vederlo prendere le difese di Sherlock Holmes, e gli avrebbe sicuramente chiesto cosa lo rendeva così protettivo conoscendolo da così poco, ma in quel frangente era l’ultima delle sue preoccupazioni. A turbarlo di più era il misterioso silenzio in cui Sherlock si era calato da quando erano usciti all’arrivo della polizia. Qualcosa pareva turbarlo, ma John non era stato in grado di fargli sputare il rospo.
Mentre si stavano allontanando, tra l’altro, si erano imbattuti nell’uomo con l’ombrello che aveva fatto visita al dottore nell’ambulatorio, e che scoprì essere il fratello maggiore del suo coinquilino, e non un pericoloso criminale come aveva invece creduto. Non che le insinuazioni del minore sulle occupazioni di Mycroft (così si chiamava, e John si chiese cosa avessero avuto i loro genitori per la testa quando erano andati dall’anagrafe) lo avessero tanto tranquillizzato, però.
C’era stato un piccolo battibecco tra i due fratelli, ma dopo quello, il detective era tornato nel suo mutismo pensieroso.
Watson lo sospinse in un taxi con un lieve colpetto alla schiena, e disse l’indirizzo all’autista. Il viaggio verso l’appartamento fu silenzioso, e John si sentì parecchio a disagio in compagnia di un tale taciturno. Holmes spesso taceva per ore intere, ma era differente. Solitamente era solo isolato nel suo Palazzo mentale, come lo chiamava, ma questa volta aveva un’espressione corrucciata, e non poté non fare caso ad un lieve tremito della sua mano e dei suoi occhi.
Bellissimi occhi.
Definizione del tutto oggettiva e priva di qualunque significato personale, naturalmente.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*****
 
Note:
Mi dispiace tantissimo per il lungo tempo che ci ho messo, ma sono… giunte complicazioni riguardo le ore che ho a disposizione per scrivere. E temo che per ancora un pezzo queste complicazioni continueranno ad esserci, anche se spero di risolverle entro Natale (beh, perlomeno sono più veloce della BBC).
So che fino a questo punto la storia corrisponde quasi del tutto al primo episodio, ma da qui in poi cambierà rotta. Avevo bisogno del principio simile, in un certo senso. D’altronde, in una città come Londra, come si farebbe senza tassisti?
Prometto che farò del mio meglio per metterci meno tempo possibile!
Kisses!
 
Sofyflora98
 

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Capitolo 5
*** Il bambino pallido ***


C'erano molte cose che John si domandava sull'incidente con il tassista assassino, e che Sherlock non aveva voluto raccontargli. Ma la cosa che lo faceva arrovellare di più, era come diavolo avesse fatto a sopravvivere dopo aver ingerito del veleno di anfibio, che in certi caso può essere estremamente letale. Invece l'altro era sopravvissuto quasi indenne, ed aveva tenuto per sé la natura di quel liquido viola che pareva averlo salvato. A dirla tutta aveva tenuto il liquido viola nel senso letterale, perché aveva portato via dalla scena del delitto i contenitori, senza farne parola a l'ispettore di polizia.
Comunque ora era lì, a Baker Street, due settimane più tardi, a tenerlo per le spalle mentre vomitava i residui della sostanza. Ecco una delle poche reazioni che gli aveva causato: erano quasi quindici giorni che il suo stomaco continuava a rigettare fuori quel poco che aveva dentro, a discapito del fatto che non ci veniva messo dentro quasi nulla. Difatti, aveva imparato in quegli ultimi giorni il medico, anche quando mangiava si trattava sempre di piccole quantità di cibo. Avrebbe dovuto fare uno studio approfondito sul metabolismo di Sherlock Holmes, e su come sembrava bastargli lo stretto indispensabile per essere attivo.
Studi a parte, il misterioso e non bene identificato veleno che aveva ingerito aveva comunque avuto degli effetti su di lui. Per una settimana, infatti, era stato ridotto ad uno straccio. Non che gli mancasse l’energia fisica, si trattava di qualcosa più simile a nausea e dolori allo stomaco, sommati ad un malessere generale. Il detective era molto scocciato dalla cosa, mentre invece John gli ripeteva che doveva essere felice di essere vivo, e lo rimproverava per quel comportamento avventato. Dopo i primi sette giorni, simili ad un’odissea per la sopportazione di John, gli effetti avevano cominciato a scemare, e un po’ alla volta si stava rimettendo abbastanza bene anche se non era ancora del tutto in sesto.
Per la maggior parte della giornata se ne stava rannicchiato sul divano, a lamentarsi per la noia e per il bruciore alla gola e alla pancia. Poi, ogni tanto, correva un bagno a vomitare. In quei momenti, il suo corpo sembrava farsi tremante e instabile, così John accorreva spontaneamente in suo aiuto, temendo che nella confusione scivolasse e sbattesse la testa sulla tazza del gabinetto. Era stupefacente come riuscisse ad essere aggraziato ed elegante un momento, per poi diventare goffo e scoordinato, come un bambino.
Proprio in quel momento lo stava reggendo per le braccia, mentre quello ansimava ed annaspava, cercando di riprendere fiato. Faceva quasi tenerezza, con i riccioli disordinatamente sparsi sulla fronte, gli occhi lucidi e le guance arrossate. Già, quasi. Quasi, perché non appena riusciva a respirare regolarmente e parlare, diventava più irritante e lamentoso di qualunque persona John avesse mai incontrato.
Si faceva sempre più prepotente, in John, l’idea che avrebbe finito per fargli da babysitter.  Ma non come un timore, no. Piuttosto come un dato di fatto, che non gli faceva né caldo né freddo. Anzi, l’idea di Sherlock Holmes, come concetto, gli risultava più che positiva, nonostante il caratteraccio. Non avrebbe saputo definire meglio quella sensazione. Sherlock avrebbe potuto irritarlo, magari, ma c’era qualcosa in lui che portava John a gradire la sua persona, la sua presenza nell’appartamento, la sua voce mentre parlava a quella velocità pazzesca. Questa impressione, però, lo disturbava: era sempre stato restio a fidarsi presto delle persone e ad accettarle accanto, per cui la facilità con cui Sherlock Holmes si era imposto nella sua routine in così poco tempo lo scombussolava. Non aveva mai tentato, però, di opporsi a questo. Semplicemente non ci riusciva. Anzi, era ancora più difficile e fastidioso come pensiero. C'erano molte cose che erano cambiate di punto in bianco da quando l'aveva conosciuto, ed una di queste cose era il non annoiarsi più. Non si ritrovava più da solo a leggere il giornale o guardare la tv la sera, ed anche se spesso era più muto di una tomba, la stessa presenza dell'altro nella stanza serviva a dissolvere la monotonia. Quando era in ambulatorio a visitare vecchiette paranoiche e mamme ansiose, il suo pensiero correva a Baker Street, portandolo a chiedersi se il suo coinquilino si stesse rimettendo dal malessere.
- John, aiutami – la voce di Sherlock lo riscosse, e si affrettò ad assisterlo mentre quello tentava di raddrizzarsi e camminare verso il divano, che ormai aveva trasformato nella sua tana. Il detective si rannicchiò come un animale ferito, con un broncio completamente fuori luogo nel viso di un adulto. Il dottore si lasciò sfuggire una risatina. L'altro lo guardò storto, e si girò verso lo schienale, dandogli le spalle.
- Non me lo vuoi proprio dire come hai fatto a capire che l’assassino era una Creatura? –
Sherlock non gli rispose, calatosi nel silenzio. John sospirò, e trascinò la sua poltrona davanti al divano, per sedersi vicino a lui senza fargli spostare le gambe. Appoggiò i gomiti sulle ginocchia, e la testa sulle mani. – Da cosa si capiva che era una Creatura? Seriamente, Sherlock. Greg mi ha detto che sai molte cose su di loro, ma tu non vuoi dirci cosa sono, o da cosa si riconoscono. Vorrei davvero sapere con chi sto condividendo l’appartamento, e in questo modo non mi aiuti. È come se volessi nasconderci qualcosa –
Sherlock si strinse ancora di più su se stesso. – Non ancora, John. Te lo dirò. Ma non ancora –
- È un problema di fiducia? –
- In parte sì. Ma è più che giustificato – fece per tornare ad ignorarlo, ma il dottore gli afferrò la spalla. Sherlock si girò di scatto, gli occhi spalancati. John sobbalzò a quella reazione, e lo lasciò andare. Lo aveva colto alla sprovvista. Non si aspettava di vedere quell’espressione turbata e, sì, anche un po’ spaventata. Se già sospettava che Holmes potesse essere coinvolto con le misteriose Creature che da qualche anno infestavano l’Inghilterra, ora i dubbi in proposito erano assai pochi.
- Ecco, vedi? Qualcosa ti spaventa. Non provare a negarlo, è inutile. Vorrei solo sapere di che si tratta –
Sherlock grugnì, e si alzò dal divano, diretto verso la sua camera. Ma di nuovo, il dottore lo fermò, stavolta per il polso. Il detective voltò la testa verso di lui. – Lasciami stare! Tu non sai di che si tratta. Se lo sapessi, mi daresti ragione sul non volertelo dire! – la vide di nuovo, quell’espressione. C’erano spavento, rabbia e indignazione. Ma non solo. John riusciva a intravedere qualcosa altro. Vide quel timore, quasi invisibile ma presente. E anche la tristezza si celava dietro a quegli occhi color ghiaccio. L’aveva vista quasi subito, anche se era ben celata, e anche se nessun altro sembrava averci fatto caso.
- Lascia che ti aiuti. Per favore –
- Io non ho bisogno di… Ah! – l’investigatore strabuzzò gli occhi, e le sue membra si contrassero. Allarmato, John fece per afferrargli le spalle e ricondurlo verso il bagno, ma stavolta l’altro lo tenne a distanza.
- Non… non serve – ansimò, portandosi le mani alla schiena.
- Sherlock, cosa…? – fece per domandare John, ma Sherlock riuscì a scivolare dalla portata delle sue mani, e corse verso la sua camera. Sentì chiaramente il rumore della chiave che girava nella toppa, mentre cercava di raggiungerlo. Dall’interno giunsero una serie di tonfi, dei fruscii molto simili ad abiti che vengono sfilati, e poi un rumore curioso, che somigliava a quello della carta che viene stropicciata. Dopodiché fu il silenzio per qualche minuto, qualche interminabile minuto, durante il quale John quasi trattenne il fiato, come se temesse che facendo rumore potesse accadere qualcosa di irreparabile. Stette fermo, vicino alla porta, in attesa di qualche segno di vita dall’altra parte. Si rilassò solo quando finalmente udì un sospiro profondo, soffocato dal legno.
- Sherlock? - disse di nuovo.
Il detective ci mise un po' a rispondere. - Sto bene. Lasciami solo. Per favore – John restò a fissare la superficie di legno che li separava, stupito. La sua voce era cambiata. Sarebbe stato impossibile non fare caso al lieve singulto che Sherlock aveva emesso alla fine della frase. Se non stava piangendo, allora era sul punto di farlo. Quasi non si accorse di aver appoggiato il viso alla porta, sperando di sentire ancora qualcosa, magari un segno che gli permettesse di capire cosa stesse accadendo al suo coinquilino. Nemmeno si rese conto di aver schiacciato il palmo della mano contro il legno, e di aver sentito una leggera fitta al petto.
 
Sherlock lo poteva percepire. Sapeva che era ancora lì, oltre la porta. Sapeva che moriva di curiosità e di ansia. In quel momento, in quel preciso momento, tutti i suoi sensi erano amplificati. Un effetto collaterale, avrebbe detto. O un potere in più, a seconda dei punti di vista e della situazione.
Avrebbe preferito se John si fosse allontanato. Si sentiva a disagio a causa della sua preoccupazione: era qualcosa di inaspettato, che l'aveva colto alla sprovvista. C'erano state  persone che avevano mostrato preoccupazione nei suoi confronti, ma erano molto poche, e lo facevano solo dopo averlo conosciuto per diverso tempo. E limitatamente. Non sapeva se fosse John Watson ad avere l'attitudine ad avere cura delle persone a causa del suo lavoro, o se invece fosse lui un caso speciale. Vedeva più probabile la prima delle due ipotesi, l'altra non aveva alcun senso. Perché mai avrebbe dovuto lui catturare la sua attenzione più di chiunque altro?
Oh, Dio, Sherlock! Che importanza ha adesso John Watson? Pensa a risolvere il vero problema, piuttosto!
Sfiorò in punta di dita la membrana opalescente dell’ala sinistra. Il liquido viola aiutava a far funzionare il loro metabolismo e a rinvigorire le loro Estensioni, ma nelle prime ore dopo l’assunzione faceva calare il controllo su di esse, e quindi tendevano ad uscire allo scoperto in modo involontario. Per fortuna erano riusciti a progettarne la ricetta così che non si trattasse di una reazione improvvisa, e avessero quindi il tempo di togliersi dagli occhi degli umani.
Per espellere le tossine che il rospo gli aveva messo in corpo aveva dovuto berne molto più del normale, per cui l’effetto durava più a lungo ed era più violento. La pelle non gli era ancora ricresciuta dall’ultima volta che le aveva estratte, per cui quelle ali d’insetto non avevano trovato molta resistenza, ma era stato comunque doloroso. Chi le faceva uscire spesso, aveva i muscoli e la pelle abituati a quel processo e non sentiva più nulla, ma Sherlock faceva del suo meglio per manifestare le sue Estensioni anomale il meno possibile.
Aveva dovuto ricorrere ad ogni goccia di energia che gli era rimasta per non emettere alcun suono, aveva addirittura stretto il lenzuolo tra i denti con tutte le sue forze perché Watson non potesse sentire alcun rumore. Era già sufficientemente all’erta di suo.
Sentì i passi leggeri del dottore allontanarsi, dopo un po’. Quanto tempo era rimasto lì ad aspettare qualche segno vita da parte sua? Diede un’occhiata alla sveglia sul comodino. Quindici minuti. Così tanto? Nemmeno se ne era accorto, di essere accovacciato sul pavimento della sua camera da tutto quel tempo.
Ecco un’altra azione di John Watson che andava fuori dalla norma. Perché aspettare così tanto davanti alla sua porta? Avrebbe dovuto stufarsi dopo un paio di minuti. E questo senza contare la possibilità che non si fermasse lì affatto.
Ma che importanza aveva? Di nuovo aveva lasciato la mente divagare. Non doveva più farlo.
Il cellulare vibrò.
Sto arrivando lì. MH
 Mycroft, di nuovo. Nelle ultime due settimane non l’aveva lasciato in pace un istante. Non aveva fatto che scrivergli ininterrottamente. Piuttosto irritante.
Non erano passati cinque minuti, che già il campanello suonava. I passi di John erano affrettati e rumorosi, mentre andava ad aprire. Il suo stupore per la visita inaspettata del Governo Inglese fu fortemente udibile anche attraverso le pareti. Meno chiara fu la risposta di Mycroft, anche se conoscendolo, Sherlock non fece fatica ad immaginare cosa avrebbe potuto dire a Watson per giustificare la sua presenza  Baker Street senza perdere il suo fare ironico e altezzoso.
Un ritmico tamburellare alla sua porta annunciò che suo fratello era entrato in casa. Sherlock lo ignorò, e anzi voltò la testa dall’altra parte, senza smettere di lisciare e far sgranchire le ali, una alla volta, e con cura.
- Sherlock, so che sei lì. Non fare l’idiota e apri questa porta – borbottò la voce contrariata di Mycroft, soffocata dal legno che li divideva.
- Ho da fare. Non disturbarmi – ribatté Sherlock seccamente.
- Ho fatto uscire Watson. È via libera – il minore fermò i movimenti delle mani, e con circospezione socchiuse la porta. Diede un’occhiata rapida attorno, e vedendo che effettivamente c’era solo il fratello, aprì del tutto e lo lasciò entrare. Come al solito, gli occhi dell’altro furono catturati dalle ali iridescenti.
- Cosa devo fare con te? – sospirò scoraggiato il maggiore degli Holmes, riservandogli un’occhiata di rimprovero. Appoggiò l’ombrello al muro, e si sedette sul bordo del letto, squadrandolo da capo a piedi con occhio critico. Sherlock gli si avvicinò, permettendogli di osservarlo meglio. Mycroft scosse il capo, guardandolo.
 - Sei troppo magro. E ci stai mettendo troppo ad espellere le tossine. Non va bene, fratellino. Ti sei indebolito, finirai per essere una preda facile –
- Non ho bisogno della tua predica, Mycroft –
- No, certo che no… - Mycroft frugò nella tasca della giacca, alla ricerca di qualcosa che sembrava non voler spuntare fuori. Quando alla fine riuscì ad avere la meglio sul misterioso oggetto, mise quest’ultimo tra le mani di Sherlock. Si trattava di una fiala contenente una sostanza viscosa color viola scuro. Sherlock gli rivolse uno sguardo interrogativo.
- Versione concentrata – spiegò il maggiore – Avrà un effetto più veloce, ma l’impatto sul fisico è molto più intensa. Sarai a pezzi per un giorno, e forse ti salirà la febbre. In compenso dovrebbe accelerare sufficientemente il tuo metabolismo perché venga espulsa ogni traccia rimasta del veleno del rospo –
Il minore se la rigirò tra le dita. Era fredda. – Grazie – mormorò con voce atona. Il fratello non rispose, né diede segno di averlo sentito.
- Come mai John Watson? – chiese dopo un po’.
Sherlock alzò le spalle. – Non lo so, Mycroft. Non lo so –
- Questa volta sei davvero in un pasticcio. Posso salvarti dai sicari della fazione di sotto, ma non da quello che ti fai da solo. Questo è un problema tuo. Ma non possiamo correre il rischio di perdere te, lo sai – Mycroft voltò il capo verso di lui, come se si aspettasse di sentirgli rispondere che no, non si sarebbe lasciato coinvolgere, e che sì, aveva tutto sotto controllo. Ma non fu così. Lo sguardo di Sherlock era perduto nel vuoto, confuso, addirittura turbato. Non aveva sotto controllo un bel niente.
- Dio, Sherlock! Quante volte ti avrò ripetuto di non…? –
- Un’infinità. Ora vattene, per favore –
Mycroft si alzò di scattò, e agguantò l’ombrello. – Bevi subito quel fluido. Ho detto al tuo nuovo problema che è meglio se resta fuori per qualche ora. Non dovrebbe tornare prima che finisca la parte più critica dell’effetto –
Il signor “governo inglese” tolse il disturbo senza aggiungere altro. I suoi passi erano attutiti dalla moquette, e Sherlock quasi riusciva a percepire la polvere residua che veniva sollevata ad ogni passo. Gli venne istintivamente da tossire. Aspettò di sentire l’uscio dell’appartamento venire chiuso prima di tornare a rilassarsi. Odiava l’impressione di essere sempre spiato che gli dava suo fratello, anche se quasi di sicuro era più che una semplice impressione. Non si sarebbe stupito di trovarsi due o tre telecamere in casa.
Senza perdere altro tempo, dunque, stappò la fiala e si lasciò scivolare il suo contenuto in gola.
L’effetto fu immediato. Sentì un gran freddo.
 
 
La stanza che avevano scelto era piccola, buia e vecchia. Puzzava di muffa ogni cosa, e la polvere si era accumulata per così tanto tempo che ad ogni respiro gli riempiva i polmoni, facendolo tossire. Batté il piede sul pavimento di legno con fare impaziente, rivolto verso l’uomo che era chino a terra, intento a disegnare qualcosa.
- Hai finito? – gli chiese, sbirciando i segni di gesso bianco che aveva lasciato sul parquet scuro. Il suo compare sbuffò e continuò ad ignorarlo, cosa che il Ragno non gradì affatto, ma che fu costretto a sopportare.
Fece roteare gli occhi neri verso il terzo uomo presente nella stanza. Era un signore anziano, robusto ma non grasso, con la schiena lievemente incurvata di chi passa ore ed ore chino sui libri da tutta la vita. Era un professore ed un dottore. Ed era umano al cento per cento. La sua presenza lì era una novità. Da poco erano riusciti a tornare in contatto con lui, dopo essersi quasi scordati della sua esistenza per anni. Lui però non aveva certo dimenticato della loro esistenza.
- Siete assolutamente sicuro di ciò che volete fare? – domandò ansioso il vecchio. – Quella Creatura è unica nel suo genere, sarebbe un vero peccato se dovesse morire. Non sarà facile trovare un altro bambino adatto a quei parametri –
Il Ragno sospirò, alzando gli occhi al soffitto coperto di ragnatele. – Non deve morire, professore. Non ancora, perlomeno. La smetta di seccarmi con tutte queste fissazioni. Avrà tutto il materiale che le serve, una volta che mi sarò liberato della fazione di sopra, non deve preoccuparsi. E per fare questo, devo togliermelo dai piedi, per quanto dispiaccia anche a me –
- Dicevo solo che non è necessario ucciderlo. Voi siete un uomo potente, non credo che sia necessario… - si affrettò ad aggiungere il professore. In tutti gli anni che aveva speso a compiere le sue ricerche e i suoi esperimenti, aveva trovato solo un individuo con un corpo che fosse conforme a certi requisiti, e buttarlo via con così tanta facilità gli faceva venire la pelle d’oca. Decenni di lavoro buttati all’aria grazie allo schioccar di dita del Ragno. Anche lui era frutto del suo impegno, tra l’altro.
- Non ho forse detto che non è ancora deciso se lo ucciderò o no? – ribatté il capo della fazione di sotto. Tornò a concentrarsi sul suo braccio destro, che ora sembrava aver terminato il suo operato. Aveva tracciato un cerchio, con una figura antropomorfa al centro. Altre sagome simili ad umani con parti del corpo mostruose gli giravano attorno, fatti con gessetti di altri colori.
- Tra quanto tempo glielo faremo trovare? – domandò l’uomo che aveva disegnato.
Il Ragno ci pensò un po’ su. – Quando si accorgeranno che c’è una persona scomparsa – disse alla fine. Fece scrocchiare il collo, e saltellò verso la porta cigolante, in cerca di aria che non sapesse di vecchio e che fosse respirabile.
Entro un'ora al massimo avrebbero dovuto trovarsi nello studio che aveva fatto allestire per il professore. Le ultime scoperte che aveva fatto sul metabolismo delle Creature andavano provate immediatamente, così da riuscire a metterle a frutto il prima possibile.
A lui, in realtà, non piacevano i laboratori dei ricercatori, in special modo se era quel professore in particolare a lavorarci. Faceva freddo, nei laboratori. Faceva sempre freddo.
 
 
Mycroft aveva ragione. L'effetto di quel fluido concentrato era immensamente più intenso di quello normale. Aveva dovuto letteralmente mordersi le labbra a sangue per non urlare, mentre il suo corpo si “aggiustava”. Era stato preda di fitte lancinanti alla schiena e allo stomaco per più di un'ora, e alla fine aveva vomitato anche l'anima. Il suo fisico già provato non aveva retto il colpo, ed si era ritrovato febbricitante e privo di forze. Era a malapena riuscito a trascinarsi sul divano, prima di crollare definitivamente.
Un brivido di freddo più forte gli fece accapponare la pelle, quando gli scivolò un pezzo di gamba fuori dalla coperta con cui si era avvolto. Sapere che ora aveva espulso ogni traccia che restava delle tossine del rospo era una magra consolazione, se paragonata a come si sentiva. Dopo gli spasmi di dolore e lo sforzo compiuto dallo stomaco, sembrava che ogni cellula delle sue membra si fosse sciolta, che i suoi muscoli fossero diventati gelatina.
Senza nemmeno rendersene conto, era caduto in uno stato di dormiveglia, che gli stava scombussolando le percezioni. Lo stacco tra i sogni assurdi della febbre e la realtà era confuso, sfuocato, e il passaggio dagli uni all'altra gli dava le vertigini, facendolo stare ancora peggio.
C'erano delle Creature, forse. Non avrebbe saputo dire se fosse il sogno, in quel momento. Un uomo non molto alto, con  zampe di ragno che sbucavano direttamente dalla sua schiena, incombeva su di lui. Scricchiolavano sinistramente ad ogni movimento.
Voleva urlargli contro, dirgli di andarsene, fare qualsiasi cosa che gli facesse sparire quel sorriso perfido dalle labbra, ma non emise che un rantolo vagamente somigliante ad un ringhio, prima che anche la gola iniziasse a protestare per lo sforzo appena compiuto.
Alla fine si arrese, sapendo che anche volendo non sarebbe riuscito a restare cosciente per molto. L’appartamento scomparve del tutto dalla sua vista, sostituito da un ambiente dalle pareti di un bianco accecante, tanto assoluto e candido da fargli bruciare gli occhi. In condizioni regolari avrebbe intuito che non poteva essere reale: i muri non potevano brillare ovviamente. Ma lo stato di confusione in cui si trovava la sua mente non gli fece notare quel piccolo particolare.
Non era solo, in quella stanza. Altre persone erano sedute, sdraiate o accosciate sulle piastrelle. Si trattava perlopiù di bambini, ma c’era anche qualche adulto. 
Un ragazzino dagli occhi neri lo guardava con fare annoiato e scontroso. Otto zampe di ragno facevano capolino oltre le sue spalle. Aveva anche una coda lucida e nera, dalla punta affilata. Guizzava con movimenti scattanti, ogni volta accompagnata da un sibilo e uno schiocco che ricordava il suono di una frustata.
E poi ce ne era un altro che attirava la sua attenzione. Magro e gracile, di un pallore quasi spettrale. Era così sottile che dava l’impressione che un piccolo urto sarebbe stato sufficiente a spezzarlo. Era un fanciullo dallo sguardo malinconico e spaventato. Due enormi occhi di un azzurro sfolgorante brillavano come pietre preziose in quel viso d’alabastro, incorniciato da arruffati riccioli scuri.
Ma c’era una cosa che si vedeva prima dei suoi occhi, prima della sua bellezza serafica. Si trattava di due squarci all’altezza delle scapole, ancora aperti e sanguinanti.
Sherlock indietreggiò barcollando, tentando di mettere più distanza possibile tra sé e quell’inquietante bambino, ma inutilmente. Scivolò sul pavimento freddo della stanza bianca, e decine e decine di iridi scintillanti ora lo fissavano. Non gli importava degli altri, non gli importava di nessuno di loro. Ma quel bambino pallido era diverso.
Le Creature mano a mano sparirono, come se non ci fossero mai state, ma non lui.
Il bimbo non lo guardava, sembrava non accorgersi della sua presenza. Il suo viso delicato era rigato di lacrime, e una serie di singhiozzi dapprima lievi e poi sempre più angosciati fuoriuscirono dalle labbra carnose. Urlava il suo dolore senza freni, chiamando la mamma, il padre, e poi il fratello. Inutile dire che nulla accadde, che nessuno accorse alle sue richieste d’aiuto.
Sherlock si coprì le orecchie. Non voleva sentirlo, quelle grida gli stava spaccando la testa. Non si trattava del rumore, del suono di quella voce in sé. Ciò che lo faceva impazzire era ritrovarsi davanti a quella scena, già vissuta mille e mille volte prima che imparasse ad isolare i ricordi, e sapere esattamente come sarebbe andata a finire.
Nessuno sarebbe andato a salvare quel bambino. Non era mai stato salvato. Nemmeno quando il ragazzo dagli occhi neri aveva fatto a pezzi i suoi carnefici, permettendo loro di fuggire, nemmeno quando una Creatura molto somigliante al fratello del bambino aveva preso quest’ultimo tra le braccia per portarlo lontano dall’abisso. Neanche i due che avevano portato la Creature alla luce del sole si erano salvati. Nessuna delle persone entrate in quella stanza bianca. Una moltitudine di fanciulli e giovani ci erano entrati, ma ad uscire c’erano stati soltanto mostri con le loro facce, ribollenti di rancore e angoscia.
Non erano neppure morti, però. Erano ancora lì, tra quelle mura accecanti, ad invocare aiuto senza risultato. Ci sarebbero restati per sempre.
Per questo Sherlock non ne sopportava la vista. Vedere il bambino pallido piangere e singhiozzare, sapendo che la sua disperazione sarebbe rimasta inascoltata, superava le sue capacità di sopportazione.
Da lì ad essere lui stesso a piangere, il passo fu breve.
Le lacrime erano gelide sulla sua pelle cocente dalla febbre. Si raggomitolò su sé stesso, le membra scosse da brevi singulti, le braccia strette attorno le spalle. Salvatelo. Salvatemi.
- Sherlock?! – esclamò una voce allarmata. Veniva da lontano, ed era attutita, ma era sicuramente la voce di un uomo. Una remota e miracolosamente ancora attiva parte del suo cervello gli suggerì che era una voce conosciuta; un altro sperduto angolino invece gli propose di aggiungere gli aggettivi “calda e piacevole” vicino alla parola “voce”.
- Diamine, quel tuo fratello spocchioso mi aveva detto che... - la stanza candida si fece più scura, e le pareti non gli parvero più immacolate e spoglie come prima. Era quasi buio, all'improvviso, anche se qualche baluginio candido si sommava alle lacrime e gli offuscava la vista. Sbatté più volte le palpebre.
Qualcuno stava premendo il dorso della mano sulla sua fronte, mentre con l'altra gli spostava i riccioli dal viso.
- … ma non pensavo che  dicesse sul serio! -
Capelli biondo cenere. Era Watson.
Era già tornato? Dovevano essere passate ore, da quando Mycroft l'aveva fatto uscire di casa. Sherlock cercò di capire per quanto tempo era rimasto in quello stato, ma non ne era in grado.
Le dita di John indugiarono un istante prima di staccarsi dalla pelle bollente del consulente investigativo. La visita del maggiore degli Holmes non era stata chiaramente di cortesia, e anche se era stato invitato a starsene fuori più che poteva, non aveva fatto che angustiarsi. Sapeva che essere così in ansia per qualcuno che conosceva da poco più che due settimane non era un buon segno. Per non parlare dell’aver ucciso un uomo dopo appena due giorni dal suo incontro con Sherlock. Ma quella era una cosa diversa si disse. Non potevo lasciare che uccidesse Sherlock.
- Non so con cosa accidenti ti avesse avvelenato quel tassista, ma non ricordo veleni che lascino effetti del genere – borbottò, una volta appurato che Sherlock bruciava di febbre.
Un flebile singhiozzo scivolò dalle labbra perfettamente rosa del detective. Lo sguardo di John saettò al suo volto, con un riflesso immediato. Aveva gli occhi lucidi e appannati, e non sembrava essere del tutto cosciente. Stava piangendo, silenziosamente. Un sogno, forse? Che genere di sogno avrebbe potuto mai far piangere quell’uomo così freddo e razionale?
- John? – mormorò con fatica l’investigatore.
- Sì, sono qui. Va tutto bene – si ritrovò a dire il dottore, inginocchiandosi vicino al divano.
Con un movimento repentino Sherlock gli afferrò il polso, stringendoselo al petto. John sgranò gli occhi dalla sorpresa, e provò a ritrarlo gentilmente, ma l’altro non volle lasciarlo andare. Quel gesto sconcertò John parecchio, ma sentì anche una punta di tenerezza, che si affrettò a giustificare in vari modi, uno meno sensato dell’altro.
- Non… - ansimò Sherlock, con voce supplicante – Per favore –
John si arrese, e appoggiò la schiena al divano, sedendosi meglio sul pavimento. Lasciò la mano stretta tra quelle del più giovane. E non ci trovò nulla di strano.
Solo quando l’altro si fu calmato, e allentò la presa, si permise di alzarsi e andare a inumidire un panno. Lo portò in una bacinella fino al soggiorno, assieme ad un bicchiere d’acqua.
Sarebbe stata una notte molto lunga.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
******
 
Note:
Non la smetterò mai di ripetere quanto mi dispiace per i tempi lunghi tra un capitolo e l’altro, pare. Quindi ancora una volta, mi dispiace da morire! Purtroppo non posso fare nulla in riguardo, per cui accettate le mie lacrime di dispiacere per questo.
Come al solito, farò del mio meglio per non essere eccessivamente lenta, ma non assicuro nulla.
 
Sofyflora98
 
P.S.
Ho visto che ben venti persone seguono questa storia, ma non mi dicono cosa ne pensano. Penso che lasciare una recensione, anche di critica, sia un gesto molto carino da parte di un lettore, perché permette agli scrittori di capire cosa va bene e cosa no, e quindi di migliorare. E comunque è sempre piacevole sapere cosa i lettori pensano DAVVERO e non semplicemente constatare se leggono oppure no.
Grazie per aver letto, comunque.
 

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Capitolo 6
*** La casa vuota ***


John avrebbe voluto avere molti più chiarimenti riguardo al caso del tassista. Aveva provato più volte a chiedere a Sherlock come avesse fatto a capire che si trattava di una Creatura, e soprattutto cosa lo distingueva da un essere umano, dato che lui non aveva notato niente di fuori dalla norma nell’uomo di mezza età a cui aveva sparato. Sherlock era restio a parlargliene. Si rinchiudeva in un guscio ogni volta che John tirava fuori l’argomento, borbottando che era meglio per lui se ne fosse rimasto all’oscuro.
C’era una cosa, però, che John desiderava sapere ancora di più. Riguardava la notte in cui aveva trovato Sherlock rannicchiato sul divano delirante per la febbre. Quando il detective aveva tirato a sé la mano del soldato, lui non si era mosso. Aveva finito per addormentarsi seduto sul pavimento, con la testa appoggiata al sedile del divano. Il giorno dopo il suo collo aveva protestato aspramente, ma non si era pentito di averlo fatto. Aveva sentito che non sarebbe stato buono allontanarsi dal coinquilino. Non era riuscito a togliersi dalla mente le lacrime che gli rigavano il viso quando gli aveva stretto repentinamente il polso. Le mani gli stavano tremando, e la sua presa era ferrea e disperata, il viso sofferente e sconvolto. E allora un pensiero aveva preso a turbarlo: cosa gli era accaduto?
Perché aveva visto molti pianti, e di ogni tipo, molti dei quali proprio sui volti dei soldati che erano stati con lui in Afghanistan, e sapeva bene cosa significava quell’espressione. Non era semplice tristezza, non era un comune incubo. La febbre doveva avergli fatti rivivere qualcosa, qualche avvenimento, un episodio molto significativo e importante per lui, che doveva averlo segnato. Probabilmente la stessa cosa che lo aveva spinto a diventare freddo e solitario.
Ma dopo diverso tempo, ancora non aveva ricevuto una risposta.
Col passare delle settimane, si era creata una sorta di stramba routine, per i due. Sherlock era sempre il primo ad alzarsi, sempre ammesso che fosse andato a dormire, ma mai si degnava di preparare la colazione, o di fare qualunque lavoro che fosse anche solo lontanamente casalingo. Di fare la spesa neanche se ne parlava, la polvere era come se non esistesse per lui. La signora Hudson era un vero e proprio miracolo per Watson. Non sapeva come avrebbe fatto quel pazzo a sopravvivere senza loro due. Persino farlo mangiare era un'impresa che non sempre riusciva.
E poi c'erano i casi. Di solito era Greg a chiedere l'aiuto di Sherlock, altrimenti si trattava di investigazioni per clienti privati, di cui la maggior parte già conoscevano il detective, anche se nessuno di loro poteva ammettere di essere suo amico. John seguiva sempre Sherlock, nei casi. Succedeva, lo faceva e basta. Sherlock non glielo aveva chiesto apertamente, ma dopo quello della donna in rosa, il medico aveva preso ad accompagnarlo e a fargli da assistente. E anche se, come già detto, l'investigatore non gli aveva domandato di farlo, era impossibile non fare caso allo sguardo che gli lanciava ogni volta che si presentava un nuovo mistero da risolvere, e lo scintillio furbo che animava quelle bellissime iridi quando John regolarmente si alzava dalla poltrona o dalla sedia per infilare la giacca ed andare con lui sulla scena del crimine.
Ogni tanto gli saltava alla mente il fatto che non era per niente normale. Chi si sarebbe gettato di sua iniziativa ad inseguire dei serial killer per le vie di Londra, assieme ad un investigatore un po’ folle e del tutto sconsiderato? E ogni volta finiva per rispondersi sempre allo stesso modo: lui; un ex soldato che si annoiava a morte ed era tremendamente attratto dal pericolo.
Un altro piccolo fatto, poi lo spingeva ad apprezzare ogni giorno di più Sherlock Holmes e i suoi esperimenti (perché sì, faceva anche esperimenti in casa, alcuni davvero disgustosi): ad un certo punto si era semplicemente accorto di non avere il bastone con sé, e di avere comunque camminato e corso tutto il giorno senza provare alcun dolore alla gamba. Inutile chiedersi cosa avesse fatto sparire il problema psicosomatico che si trascinava dietro da anni.
Col tempo, i clienti erano aumentati. John aveva iniziato a scrivere un blog, in cui raccontava delle loro avventure, dei misteri che risolvevano e dei criminali che facevano arrestare. Fu subito chiaro che molta più gente di quanto non avesse osato sperare aveva iniziato a leggerlo, per cui sempre più persone venivano a richiedere la consulenza di Sherlock Holmes. Si rivelò piuttosto imbarazzante quando scoprì che l’intera Scotland Yard leggeva il blog, grazie a Lestrade: i commenti acidi di Anderson e le rispostacce sarcastiche di Sherlock erano ormai un’abitudine ben più radicata che dover andare a prendere il latte per entrambi.
Quel nuovo modo di vivere gli piaceva, e gli piaceva Sherlock Holmes. Nonostante i suoi comportamenti assurdi, nonostante il carattere più che difficile, nonostante tutto quanto. Stava bene a vivere con lui. Stava bene ad averlo intorno. Tutto qui, nessuna malizia, nessun secondo fine.
Fu in questo modo che diventarono Holmes e Watson, il super detective e il suo assistente, che mai andavano sulla scena di un crimine l’uno senza l’altro. Come personaggi di un film, pensava spesso John.
Fatta eccezione per qualche episodio in cui Sherlock si rinchiudeva in camera o in bagno, per restarci delle ore senza dargli una spiegazione, non gli sembrava che ci fossero problemi. Anzi, non ce n’erano proprio. Andava tutto bene. La loro vita si era stabilizzata, e si erano adattati a vivere l’uno con l’altro.
Questo fino al mattino in cui, qualche mese dopo il loro incontro, arrivò la lettera.
 
Erano le otto del mattino, in uno dei rari giorni in cui si ritrovavano svegli alla stessa ora, a causa di un caso che aveva fatto crollare anche il consulente investigativo. Si erano alzati da poco, e John era nel atto del mettere l’acqua nel bollitore, quando un forte tonfo distolse la sua attenzione dal fornello. Sperando di non trovarsi ancora una volta davanti a qualche esperimento rivoltante, cercò Sherlock, che ovviamente neanche aveva pensato ad aiutarlo a preparare la colazione. Lo trovò vicino all’ingresso, e gli dava le spalle. Sulla moquette un mucchio non ben distinto di “robaccia caduta a terra”.
- Sherlock, cosa stai facendo? – lo apostrofò, scavalcando il piccolo mucchio.
Si bloccò quando vide lo sguardo del più giovane. Aveva gli occhi sbarrati, spalancati, e gli tremava il labbro inferiore. Aveva in mano delle buste, che John riconobbe come una bolletta e un paio di altri documenti, oltre che il quotidiano, e sopra ad esse ce n’era una in carta nera con indirizzo e destinatario scritti in bianco. Non c’era il nome del mittente.
Lasciò cadere tutte le altre, e tornò a passo svelto in salotto, affondando nella sua poltrona pesantemente, senza mai smettere di fissare quella misteriosa lettera.
John sbuffò, raccolse le buste a terra e lo raggiunse. Sherlock aveva gli occhi sbarrati, fissi su quel involucro di carta nera, ma non sembrava intenzionato ad aprirlo. – Vuoi leggerla, o restare a fissarla tutto il giorno? – disse seccamente.
Sherlock sembrò svegliarsi all’improvviso, sbattendo rapidamente le palpebre, prima di mormorare un “sì” basso e fievole, e aprire la lettera. Ne estrasse una fotografia a colori, e un bigliettino sempre nero. Lesse prima quest’ultimo. Vi erano scritti un’orario e il nome di un canale televisivo.
- John, che ore sono? –
- Le otto e dieci, Sherlock. Ora, se puoi spiegarmi… -
Il detective scattò in piedi e afferrò il telecomando. Accese il televisore sul canale scritto nel biglietto, accucciandosi davanti all’apparecchio vigile come un felino. Stavano dando il telegiornale del mattino. John lo fissò a bocca aperta, ben sapendo che per quanto molti dei suoi comportamenti fossero bizzarri, non l’aveva mai visto agitarsi così per una lettera, anche se in effetti lui non sapeva cosa essa significasse o chi l’aveva spedita.
I giornalisti stavano commentando il recente drastico calo delle morti inspiegabili attribuite alle Creature, in quel momento. Nulla degno di nota, a giudicare dalle occhiate impazienti del detective, ma che per John erano molto rilevanti.
Era la verità: i cadaveri trovati senza ferite e tracce di veleno stavano diminuendo. Ovviamente ne spuntavano fuori ancora, ma non come negli ultimi quattro anni. In compenso parevano aumentati gli omicidi violenti.
Sherlock si fece più attento alla notizia successiva. Riguardava la scomparsa di un vecchio ricercatore universitario, che aveva continuato a sviluppare i suoi studi, anche dopo la pensione, in un istituto lì nella capitale. Era sparito nel nulla, e i suoi assistenti non sapevano spiegarsi come fosse successo. Cercavano di scoprire se se ne fosse andato spontaneamente o se gli fosse accaduto qualcosa, ma non c’erano indizi che potessero aiutare la polizia. Nella sua casa non c’erano tracce di lotta, e niente sembrava mancare. Come le vittime delle Creature morivano e basta, l’uomo si era dileguato semplicemente.
Il nome dell’uomo era Jack Stapleton, e a sentire i giornalisti aveva lavorato a Londra solo negli ultimi vent’anni, mentre per la maggior parte della sua vita aveva diretto un suo laboratorio di ricerche a Baskerville, nel Dartmoor.
John aveva ascoltato la notizia con il tipico stato d’animo di moderato interesse di chi ascolta il notiziario ogni giorno, ma con la coda dell’occhio vide che al sentire il nome di quell’uomo, Sherlock era sbiancato.
Spense il televisore senza degnarlo di un altro sguardo, e afferrò la fotografia che era nella busta assieme al bigliettino. Quella raffigurata sembrava una stanza di una vecchia casa disabitata, a giudicare dalla poca mobilia rovinata che si vedeva nell’immagine e dalla carta da parati ammuffita e di vecchio gusto.
Gli occhi di ghiaccio del consulente investigativo parvero farsi ancora più taglienti e nervosi. L’unica altra volta che John gli aveva visto un’espressione simile, era stata la notte dopo la “cattura” del tassista, quando Sherlock non aveva aperto più bocca per ore intere, rimanendo a fissare il vuoto con gli occhi sbarrati. Iniziò a preoccuparsi seriamente. Un conto era vedere l’ansia delle persone che finivano coinvolte nei loro casi, tutt’altro era invece vederla in Sherlock Holmes.
- Sherlock…? – tentò John, avvicinandoglisi cautamente, per paura di innescare qualche sua improvvisa reazione.
Sherlock si voltò verso di lui di scatto, e scattò in piedi. – Esco – disse sbrigativamente, andando in cerca dei vestiti e del cappotto.
- Dove vai? – gli domandò il più vecchio, indicandogli dove l’aveva lasciato la sera prima, quando erano rientrati barcollanti dopo ore di indagini senza pause. – Aspetta: se vai a cercare la stanza in quella foto, non pensare nemmeno di  andarci da solo! Questa faccenda mi puzza di criminalità… mi stai ascoltando?! –
Fu costretto a vestirsi in fretta e furia per riuscire a non farsi lasciare indietro. Mentre scendevano le scale, provò a domandargli se nella foto c’era qualche indizio che lo aiutasse a capire di che luogo si trattasse, ma Sherlock sembrava sapere già esattamente dove fosse. Non gli rispose nemmeno, in realtà, ma fermò un taxi e disse l’indirizzo dove recarsi senza un istante di esitazione.
Furono condotti in una strada nell’East End, e il viaggio non fu proprio breve. Sherlock pagò il conducente senza dire una parola, e di nuovo John dovette affrettare il passo. Era come in trance, non sembrava rendersi realmente conto di essere schizzato via la mattina presto, per andare in una stradina sporca e malmessa, e di avere qualcuno che tentava di stargli dietro.
Dopo una breve osservazione del luogo, si diresse a passo deciso verso una schiera di case, che dalla sicurezza con cui superò per approssimarsi all’uscio di una delle ultime doveva conoscere molto bene. Quella che aveva attirato la sua attenzione aveva una porta in legno verniciato di blu scuro, scrostato dal tempo e dalle intemperie. Da più vicino, John poté notare che c’erano dei graffi attorno alla serratura, e dei tagli profondi sulla sua superficie, come se l’avessero colpita con una piccola accetta, senza però romperla sul serio. Solo intaccandola.
Sherlock la spinse, trovandola già aperta. La spalancò, ed entrò nell’ambiente scuro e stretto. Dopo un breve corridoio, si entrava nel soggiorno, che a sua volta era abbastanza piccolo. John riconobbe in esso la stanza raffigurata nella foto. L’aria era difficile da respirare a causa della polvere accumulata in chissà quanto tempo, che impregnava la mobilia e che pareva essersi fusa con lo scarso ossigeno che filtrava.
Gran parte degli oggetti e dei mobili erano rovesciato o rotti. C’era una poltrona la cui fodera era stata squarciata da qualcosa. Un profondo strappo ne dilaniava lo schienale, e l’imbottitura fuoriusciva in parte. Il tavolino di fronte ad essa era stato violentemente privato di una gamba, che giaceva pochi metri più in là, anch’essa in pessime condizioni, come se un grosso felino ci si fosse affilato le unghie. Quasi pestò i frantumi di quello che doveva essere stato un servizio da tè bianco.
John si sentì inquieto, a quella vista. Era un luogo tetro, che doveva essere stato abitato da diverse persone, a giudicare dalla quantità di sedie, materassi e cuscini che erano stati ammucchiati in altre due stanze anguste. Ci avevano vissuto molte più persone di quelle che era stata costruita per ospitare. E dovevano aver avuto degli animali, a giudicare da quegli immensi graffi, degli animali molto grossi. Oppure avevano avuto l'abitudine di prendere a coltellate la mobilia.
- Che posto è, Sherlock? -
- Qui ci viveva qualcuno che ora non ci vive più –
John alzò gli occhi al cielo. - Fin qui c'ero arrivato anch'io, grazie. Ma tu sai chi ci viveva? Perché se hai riconosciuto il luogo solo da una foto, allora devi conoscerlo bene -
Sherlock esitò prima di rispondere. - È  così, lo conosco. Non ci venivo da moltissimo tempo, ma una volta ero qui molto spesso. Se qualcuno mi ha mandato una foto di questa casa, deve trattarsi di una delle persone che la frequentavano all'epoca. Nessuno vive qui da più di quindici anni. Aiutami a vedere se c’è qualcosa di insolito, dei messaggi scritti o degli oggetti bizzarri -
Le parole “più di quindici anni” continuarono a guizzare tra un pensiero a l'altro del dottore. Se era passato così tanto tempo, allora quando Sherlock aveva frequentato quella casa doveva essere stato un ragazzino. John si era domandato spesso, tra le varie altre cose, come fosse stata l'infanzia di Sherlock, perché se era cresciuto in quel modo non doveva essere stata per nulla ordinaria. Da quando l'aveva visto in preda alle allucinazione della febbre, l'ipotesi di un trauma infantile si era fatta molto probabile.
Scavalcò una bambola a cui era stata mozzata la testa, rischiando di inciampare su un oggetto talmente martoriato che non seppe riconoscere cosa fosse.
Un mobiletto scuro attirò la sua attenzione. Una serie di coltellini arrugginiti era conficcata sulla sua superficie, a formare una linea in ordine di dimensioni. Aprì un cassetto socchiuso, con una certa difficoltà dato che era così sporco da essere quasi appiccicoso, e tendente ad incastrarsi. Ne tirò fuori un pacco di fogli ingialliti e ritagli di giornale. C’erano liste di nomi, con dei cerchi vuoti o anneriti a fianco, alcuni cancellati con una riga orizzontale. Altri sembravano dei documenti d’ufficio, delle tabelle sempre fitte di nomi, e dei termini come “Artigli”, o “Coda”, e delle crocette associavano ogni nome ad una o più di queste categorie. John non capì a cosa si riferissero, ma notò che alcuni termini come ad esempio “Occhi” e “Orecchie” avevano molte meno crocette, mentre “Ali” e “Zampe di ragno” non ne avevano proprio, in nessuna delle tabelle.
Continuò a sfogliare quelle carte. I ritagli più vecchi riguardavano un incidente avvenuto in un laboratorio sperimentale di biochimica, a Baskerville. Ripensò al telegiornale, al ricercatore di cui era stata annunciata la scomparsa. Avevano detto che aveva diretto un laboratorio in quel posto, anni prima.
Pareva che ci fosse stata una fuga di gas, o qualcosa del genere, e quasi tutte le persone che stavano lavorando nei laboratori in quel momento erano state trovate morte. Una vera e propria tragedia. Continuando a leggere vide che c’era stato un unico sopravvissuto: il professor Jack Stapleton, per l’appunto. Forse chi ci ha mandato quella lettera anonima voleva farci notare questo professore pensò John.
Il resto degli articoli riguardavano perlopiù strane morti, individui che avevano perso la vita senza un’apparente ragione. Esattamente come la vittime delle Creature. Leggendo di che giornali si trattava, però, vide che erano tutti quotidiani di paese, quindi notizie che non avevano suscitato grande scalpore e non avevano dato nell’occhio. Ma perché un abitante di Londra dovesse comprare giornali di villaggio proprio non riuscì a spiegarselo.
Un tonfo ed un’imprecazione del detective gli fecero alzare lo sguardo. – Trovato qualcosa? – gli chiese, alzando la voce perché lo sentisse da una delle altre stanze.
- Non ancora – rispose Sherlock. Ci stava mettendo molto più del solito, si disse John. Raramente gli servivano più di cinque minuti per vedere se c’era qualche indizio.
Stava tentando di rimettere quelle carte a posto e raggiungere l’amico, quando un paio di fotografie scivolarono a terra. Si chinò a raccoglierle, ed ebbe un sussulto. La prima rappresentava un gruppo di cinque persone. Quattro ragazzini, raggruppati attorno ad uno più grande. Proprio a fianco di quest’ultimo, c’era un fanciullo più magro e gracile degli altri, sebbene fossero tutti parecchio sottili. Pallido, quasi privo di colore, con due enormi occhi di un colore indefinibile tra l’azzurro e il verde ed una folta massa di riccioli scuri. Doveva essere molto vecchia, ma ciononostante era impossibile non riconoscere il consulente investigativo in quel bambino di bellezza inquietante.
Avevo un’espressione vuota, lo sguardo fisso. E non solo lui: nessuna delle persone ritratte aveva uno straccio di sorriso. Erano fin troppo seri per essere così giovani. Addirittura, quello con gli occhi neri aveva una punta malvagità in essi, una sorta di cattiveria celata. E il più grande, così severo, sembrava un adulto maturo piuttosto che un giovane. John dopo una seconda occhiata lo riconobbe come Mycroft.
- John, vieni qui! - lo chiamò Sherlock. D'istinto John afferrò tutti i fogli e li infilò nella giacca.
Il detective era in una delle due camere da letto. A differenza delle altre stanze, era stata riordinata di recente. Tutti i materassi erano stati accatastati l'uno sull'altro, ad un lato, per liberare il pavimento. La polvere sui mobili era stata spostata, non era spessa come nel resto della casa. Anzi, si vedevano pure delle ditate che l'avevano rimossa. Il pavimento era stato pulito in gran parte, e il parquet era lucido.
Proprio quel pavimento aveva catalizzato l'attenzione del consulente investigativo. Lì, dove era pulito, qualcuno aveva fatto un disegno con dei gessetti colorati. Anche quello doveva essere recente, a giudicare dalla vivacità dei colori e dalla nitidezza del tratto.
Erano figure antropomorfe, appena abbozzate, in modo molto semplice. Erano più o meno disposte in circolo. Al centro stava una figura bianca a cui erano state disegnate un paio di ali da libellula e due occhi azzurri. Con il colore viola, ad un'altra erano state aggiunte delle linee spezzate dalla schiena, che John proprio non capiva a cosa dovessero somigliare, ed una linea ondulata che gli parve una specie di coda. Queste due figure avevano le teste voltate a guardarsi, e addirittura la seconda aveva le braccia rivolte in un segno di aggressività. La prima invece sembrava pararsi tra questa e un'altra al lato opposto del cerchio, avente anch'essa disegnati gli occhi di blu. Le altre sagome erano più difficili da interpretare. Una non aveva nulla di fuori dalla norma, una semplice stilizzazione di un umano, ma attraversata da delle linee rosse. Le altre due erano un po' confuse, ma avevano comunque segni scarlatti a spezzarle.
Inquietante, trovò John. In particolare il disegno viola con le linee spezzate, gli metteva i brividi.
- Hai idea di cosa sia? - domandò all'investigatore. Sperava quasi di sentirsi dire un no, ed un'incitazione a risolvere il mistero, ma Sherlock annuì, ed aveva le sopracciglia aggrottate le palpebre spalancate.
- Una minaccia. Da un individuo altamente pericoloso che ho avuto la sfortuna di contrariare. Ce ne andiamo -
 
Fu mentre erano sul taxi che li stava riportando a Baker Street, che John disse a Sherlock di ciò che aveva trovato nel cassetto del soggiorno, in quella abitazione abbandonata.
- Sherlock – lo chiamò a circa metà del tragitto, decidendo che, anche se temeva di ottenere altri rifiuti di risposta, era il caso di metterlo al corrente della sua scoperta. Sempre che di scoperta si potesse parlare, visto che non ci aveva capito quasi nulla. L'altro, che era rimasto stranamente vigile da quando erano usciti da quell'edificio, si voltò subito.
- Ah, ecco... ho trovato delle cose in quella casa. Le ho portate con me, prima mi sembravi troppo preoccupato per ascoltare. Con questo non voglio dire che tu... ah, non importa. Sono dei documenti bizzarri ed un paio di foto – li estrasse dal giubbotto, e glieli porse. Sherlock li sfogliò rapidamente, e da come li osservava John intuì che ci capiva qualcosa eccome, a differenza sua. Degnò agli articoli di giornale poco più di uno sguardo, ma invece si soffermò di più sulle due fotografie. Sfiorò con il pollice l'immagine del fanciullo pallido che John aveva identificato come lui stesso, ma bloccò il gesto quando stava per avvicinarsi a quella del bambino dagli occhi neri.
- Immagino tu abbia capito che questi siamo io e mio fratello – mormorò, indicando il ragazzo più grande.
- Sì, ecco... sì. Difficile non riconoscervi. Avevate già i lineamenti definiti -
- Fin troppo riconoscibili, purtroppo – guardò la seconda foto, che John non aveva fatto in tempo ad osservare prima. Era un collage di fototessere. Tra le varie, John notò una considerevolmente più giovane signora Hudson. Sotto ad ogni persona era disegnato un simbolo. Un pallino pieno o vuoto, come nei documenti con le tabelle. Quello della donna era vuoto, un semplice cerchietto nero.
- Immagino siano qualcosa di estremamente importante e significativo di cui tu vuoi tenermi all'oscuro, vero? E non mi dirai assolutamente nulla di preciso riguardo ciò che abbiamo visto oggi -
Sherlock stette in silenzio. Lo vide soppesare le sue parole, come indeciso sul da farsi.
- Non dirai niente neanche alla polizia? -
- No, la polizia non può far nulla – rispose Sherlock, tornando a sfogliare i documenti.
John alzò gli occhi al cielo. - Ma hai detto che era una minaccia! Potrebbero almeno cercare di trovare il mittente prima che ti succeda qualcosa! - esclamò esasperato. Non era certo la prima volta che Sherlock preferiva agire per conto proprio piuttosto che chiamare perlomeno Lestrade. Una volta ci era mancato un soffio che la sua avventatezza non lo portasse a farsi uccidere.
- Scotland Yard non può fare nulla ad uno come lui. È insospettabile come cittadino, trovare prove a suo sfavore è impossibile. Credimi, lo conosco da tanto tempo. È molto, molto pericoloso ed insidioso -
Quindi non si trattava di un criminale da quattro soldi, ma di un pezzo grosso. L'idea che un individuo del genere ce l'avesse con Sherlock non era poi così strana. Un investigatore abile come lui non poteva non avere dei nemici tra i malviventi. Questo era logico. Quello che continuava a restare un mistero era... beh, quasi tutto il resto. Se Sherlock lo conosceva da molto tempo, allora forse si riferiva all'epoca in cui erano state scattate quelle fotografie. E magari era tra le persone ritratte, anche. Pure questo sembrava avere un senso.
John fece mentalmente un riassunto delle informazioni accumulate. Un pericoloso criminale, che Sherlock conosceva da molto tempo, aveva inviato un invito a recarsi in quella vecchia casa, che Sherlock diceva di aver frequentato sempre diversi anni prima. In quella casa avevano trovato un disegno che il detective aveva interpretato come una minaccia, una serie di documenti incomprensibili, articoli di giornale che parlavano di un incidente in un laboratorio di ricerca, e due foto in cui apparivano lo stesso Sherlock, suo fratello, ed altre persone più o meno della stessa età del più giovane. John non poté evitare di ripensare al bambino dagli occhi neri che era al fianco di Mycroft non occupato da Sherlock.
- John, siamo arrivati –
 
Erano rientrati nell'appartamento silenziosamente. Sherlock si era seduto sul divano, probabilmente pronto a rinchiudersi nel suo Palazzo Mentale e fare ordine e pulizia tra le informazioni nuove che aveva appena assimilato. John, dopo aver preparato un pranzo che Sherlock non aveva toccato, aprì il laptop per procedere con la scrittura del suo blog. Doveva ancora finire il racconto del loro ultimo caso, che aveva implicato un serial killer, una scatola di cipolline agrodolci (a sentir Sherlock, erano state fondamentali per scoprire il colpevole) e diverse forchette usate come armi improprie. Era ancora indeciso su che titolo dare a quell'avventura.
Ad un certo punto, il più giovane si era alzato, ed aveva iniziato a digitare furiosamente una lunga serie di messaggini con il cellulare. A giudicare dalla rapidità con cui riceveva le risposte, doveva trattarsi di suo fratello. Dopo quindici minuti passati in quel modo, gli aveva telefonato direttamente, e si era chiuso in camera propria, forse per non fargli sentire la loro conversazione. Cosa rara, dato che solitamente Sherlock sbraitava senza alcuna preoccupazione qualsiasi cosa gli passasse per la testa.
Restò lì dentro per molte ore, e nessun suono giunse dalla stanza. John decise che era meglio lasciarlo in pace. In quei mesi aveva capito che c'erano dei momenti in cui il detective aveva la necessità di isolarsi, specie quando accadeva qualcosa che lo scuoteva. In quei momenti non era il caso di disturbarlo: poteva andarne della sua incolumità. Comunque, per assicurarsi che non si facesse del male mentre lui non poteva vederlo, non appena restava solo in casa perquisiva l'armadio di Sherlock, e qualsiasi angolo dell'appartamento dove si potesse nascondere qualcosa. Era stato Mycroft a consigliarglielo, accennando a qualche brutta faccenda degli anni precedenti che si sarebbe potuta evitare se qualcuno avesse badato al suo fratello minore. Cosa intendesse era stato abbastanza chiaro.
Sherlock uscì dalla sua stanza solo la sera, mentre John era seduto sul divano, una coperta di pile avvolta attorno alle gambe, intento a guardare la televisione. John lo vide con la coda dell'occhio, ed accennò ad un sorriso. Non gli chiese neanche se avesse intenzione di mangiare: conosceva già la risposta, sebbene non gli piacesse affatto.
La figura sottile del suo coinquilino si appressò al sofà un passetto alla volta. Alla fine, quando fu con le gambe contro il bracciolo, si sedette sull'angolo, stringendosi le ginocchia tra le braccia. Voltò il capo verso John, e rimase immobile a fissarlo.
- Finalmente sei uscito dalla tana –
Dal detective non giunse nessuna risposta. Era lì, fermo. E lo guardava intensamente, come se si stesse arrovellando per prendere una decisione importante.
- Sherlock, stai bene? - chiese John allarmato, quando vide quanto rigide fossero le sue membra e quanto stesse stringendo le mani attorno alle gambe. Sherlock, a quella domanda, sembrò risvegliarsi di colpo, e sbatté ripetutamente le ciglia, come se lo stesse mettendo a fuoco.
- Sì, sto bene... - mormorò.
John alzò gli occhi al cielo. - Vieni qui, vuoi? - indicò il sedile del divano, vicino a lui. Sherlock esitò dapprima, ma alla fine cedette e gli si sedette accanto. John aprì del tutto la coperta, e la gettò anche addosso al coinquilino. Provò di nuovo quella sensazione. Era una sensazione che aveva avvertito già diverse volte, che in realtà sentiva quasi tutti i giorni. Una specie di istinto a proteggere quell'uomo, in realtà così fragile dentro, dal mondo esterno. A volte gli sembrava che tutto ciò che si trovava al di fuori del loro appartamento in Baker Street fosse lì solo per fargli del male. Gli sembrava di essere il solo a vedere quali reazioni scatenavano le parole fredde che venivano rivolte a Holmes. Questo faceva di ogni altro individuo un potenziale pericolo. Ed ecco che giungeva l'impulso a fare da scudo tra gli altri e lui, chiunque gli altri fossero. Nessuno doveva toccarlo.
- John – l'interpellato non lo fece aspettare per avere la sua attenzione. - Io vorrei dirtele, quelle cose che mi chiedi sempre -
John sollevò le sopracciglia. Sherlock aveva chiuso gli occhi, la testa abbandonata sullo schienale.
- So che muori dalla voglia di sapere come faccio a conoscere tutte quelle informazioni sulle Creature, che cosa le differenzia dagli esseri umani, eccetera. E anche chi mi ha dedicato quel messaggio minaccioso, e cosa mi lega a lui e a quella casa nell'East End. Ma non è semplice. L'ultima volta che l'ho raccontato a qualcuno, quella persona non ha reagito bene -
John si schiarì la gola, improvvisamente colto da un senso di disagio. - Sherlock, davvero, se dirmi queste cose ti creerebbe problemi, preferisco restarne all'oscuro. Tutti hanno dei segreti -
Sentì il peso del coinquilino farsi più vicino. Ora le loro spalle si toccavano. Sherlock aveva il viso rivolto verso di lui.
- No, se continueremo ad essere coinquilini, devi saperlo. Aspetta solo un altro po'. Poco soltanto, per favore. E dovrai promettermi anche una cosa. Dovrai promettermi di restare calmo fino a che non ti sarà spiegato tutto. Devo avvertirti adesso. L'ultima volta è andata davvero male, John... -
La sua voce era diventata un sussurro. John sperava che l’improvviso contatto che Sherlock aveva creato tra le loro braccia fosse del tutto privo di significato. Ciononostante, gli sembrava di sentirselo sempre più addosso. E non la piantava di guardarlo con quegli occhi…
Quando la lieve brezza del suo respiro gli sfiorò la guancia, per un istante gli girò la testa.
- D’accordo, Sherlock. Come vuoi tu – riuscì biascicare nel tentativo di restare cosciente e attento.
Sentì Sherlock rilassarsi. Gli parve persino di percepire un leggero sospiro di sollievo, ma di questo non era sicuro.
Non riusciva a capacitarsi di quella piccola tempesta di emozioni contrastanti causata dal suo coinquilino. Okay, non era la prima volta che gli accadeva una cosa del genere, ma questo non attenuava la confusione in cui era finito in ognuna di queste. C’era qualcosa in Sherlock.
Si ripeté, per quella che forse era la millesima volta, di non essere assolutamente gay. Ma questo non cambiava il fatto che quella persona lo sconvolgeva.
Dio, John! Non fare l’idiota, sei solo affezionato a lui! Ed è naturale, vivete insieme da mesi! Questo è solo… affetto.
Con queste parole riuscì quasi (per l’appunto, quasi) a convincersi. Azzardò un’altra occhiata al proprio fianco. Sherlock era ancora appoggiato a lui, ma aveva la testa chinata verso il pavimento. Pallido, pallidissimo, gli occhi lucidi e persi, i riccioli scuri che gli ricadevano morbidamente sulla fronte, le labbra semi dischiuse, e diamine quanto avrebbe voluto affondare le dita tra quelle soffici volute corvine sulla sua testa!
Sei messo veramente male! si disse
- Dovresti dormire –
- Non sei la mia bambinaia, John –
- Hai paura? – quelle parole fecero irrigidire immediatamente il corpo del consulente investigativo.
Non gli rispose, ma lo sguardo che gli rivolse fu più che sufficiente a far capire comunque ciò che c’era da capire sul suo stato d’animo. Non aveva paura, era atterrito e colmo d’ansia, ma non voleva lasciarsi comandare da questo. E gli stava chiedendo di restare con lui, aiutarlo a non lasciarsi andare. Questo vide John nel suo sguardo, questo ed anche un’infinità di altre emozioni che non seppe distinguere.
Dapprima esitante, fece scivolare discretamente un braccio attorno alle sue spalle, cercando di rassicurarlo. In fondo, se non l’avesse fatto lui chi altro avrebbe potuto farlo? Sperò che il messaggio giungesse al detective, che capisse le sue intenzioni. E lui lo capì, lo capì bene.
- Grazie – sussurrò infatti.
Alla fine ci riuscì, a dormire.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Note: Immagino ci sia già qualcuno pronto a fucilarmi per la lentezza con cui ho scritto questo capitolo. Se  è così, pregherei chiunque abbia già imbracciato le armi di lasciarmi prima finire la storia, ma a quel punto avrebbe tutto il diritto di condannarmi a morte. Il periodo verso la fine dell’anno, però, è sempre uno dei più zeppi di impegni di ogni sorta. Spero che almeno questo faccia ammorbidire la sentenza dei giudici!
Un profondo ringraziamento a chi legge, segue o recensisce!
Kisses
Sofyflora98

 

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Capitolo 7
*** Il disegno dei tre ***


Era bambino. Ancora bambino, in età da quinta elementare. Stava giocando con i suoi compagni, non sapeva bene a cosa. Era inverno, attorno a loro, la neve era caduta di fresco e abbondantemente. Faceva freddo, ma non tanto da non potersene isolare con un bel cappotto di lana, una sciarpa ed un paio di guanti.
Non sapeva esattamente cosa si stessero dicendo lui e i suoi amici, ma era sicuro del fatto che si trattasse di qualcosa di molto divertente, a giudicare dalle risate sue e degli altri.
Fu quando stava per inseguire e trascinare per terra un compagno per fare la lotta, che vide con la coda dell’occhio un’ombra. Incuriosito, si voltò verso quella sagoma scura, e ci si avvicinò ad ampi passi. Era un ragazzino più giovane. Un fanciullo completamente avvolto in un lungo cappotto nero, con una coltre di riccioli bruni ad incorniciargli il viso, che aveva lo stesso colore della neve tutt’attorno. Posò su di lui lo sguardo più infelice e malinconico che John avesse mai visto, senza dir nulla.
John rimase incantato da quella visione. Non era semplicemente bello. Era ultraterreno, delicato e inquietante, pareva talmente fragile che sarebbe bastato un piccolo urto a spezzarlo, ma in quegli occhi tristi, quei meravigliosi occhi simili a stelle strappate al cielo stesso, c’era anche una forza latente che avrebbe potuto scatenarsi al minimo impulso.
Mosse le labbra senza emettere alcun suono, boccheggiando. Si piegò in due, il viso contratto, le palpebre serrate, i denti che tagliavano le labbra dalla forza con cui le mordevano. John si sporse avanti, intenzionato ad aiutarlo, a cercare di capire cosa gli dolesse. Non gli ci volle molto a vederlo.
Era appena riuscito a prendergli le spalle esili, quando video che i suoi vestiti, sulla schiena, erano impregnati di sangue. Preso dal panico, saltò indietro, e rimase come paralizzato a vedere come il rossore si espandeva.
Il bambino si sfilò l’indumento, e a John ora furono esposti senza alcun filtro due grandi tagli all’altezza delle scapole, profondi e sanguinanti.
- Aiuto – ora la voce uscì. Un mormorio, nulla di più.
Quando il fanciullo si raddrizzò nuovamente, a John mancò il fiato. I suoi occhi erano cambiati. Erano ancora azzurri, ma non erano umani. Somigliavano a…
 
Si svegliò con il battito a mille.
Era stato un sogno, solo un sogno, realizzò con sospiro.
John mise lentamente a fuoco la stanza. Aveva il collo indolenzito, e sentiva un peso sul lato sinistro del corpo. Gli ci volle qualche secondo in più per rendersi conto di trovarsi sul divano del salotto. Si chiese cosa diavolo ci facesse lì, perché non fosse nel suo letto. Poi ricordò il giorno precedente, il disegno sul pavimento, le fotografie. E Sherlock, che gli diceva della sua intenzione a raccontargli quelle parti della sua vita che aveva tanto gelosamente celato, Sherlock che gli era così vicino, che quasi gli si accoccolava addosso. Sherlock che, ad un certo punto, lui aveva praticamente abbracciato, e a cui aveva consentito di addormentarsi sulla sua spalla.
Sulla sua cosa?!
John si stropicciò gli occhi con la mano destra, perché la sinistra era bloccata da quel peso che sentiva. Voltò il capo in quella direzione, e constatò che effettivamente il detective gli stava dormendo addosso. Provò a ricordare quando esattamente era successo. Beh, era stato la sera prima. Ricordava di avergli avvolto le spalle con un braccio, e poi... e poi? Ah, già! Di essere rimasto lì, con tutta l'intenzione di aspettare che si tranquillizzasse abbastanza da tornarsene in camera propria, conscio che Sherlock in certe occasioni andava trattato con le pinze, come fosse un bambino particolarmente sensibile. E forse effettivamente lo era, ma non era quello il punto.
Il punto era ricordare perché non fosse tornato in camera sua. E soprattutto, perché nemmeno John lo avesse fatto.
Poi tornò a galla l'immagine di Sherlock che cominciava a respirare regolarmente e piano, di lui che realizzava con sollievo che si era addormentato, e che finiva per farlo lui stesso, non avendo alcuna voglia di muoversi da lì, né intenzione di svegliarlo proprio una delle rare occasioni in cui chiudeva gli occhi.
Con un gemito soffocato, pensò a cosa sarebbe successo se la signora Hudson avesse visto quello spettacolo. A chiunque non fosse stato a conoscenza degli avvenimenti precedenti, quello sarebbe apparso senz'ombra di dubbio l'abbraccio di una coppia. E già normalmente tantissime persone li credevano per l'appunto una coppia. Certo si rendeva conto che di regola non era nella norma dormire in quel modo, nemmeno tra amici. Okay che le ragazze lo facevano, ma lui non era una ragazza, e.... e che mucchio di sciocchezze! Da quando passava così tanto tempo a rimuginare su inutilità simili? Doveva smetterla immediatamente.
Provò con cautela a sfilare il braccio, cercando di non svegliare il suo coinquilino. L'operazione si rivelò estremamente difficile, nonché fallimentare. Non perché non fosse riuscito a liberare l'arto, ma perché il suddetto coinquilino si svegliò eccome. In quanto a grazia, non era esattamente da prendere come esempio.
- Quale delicatezza, John – mormorò Sherlock strizzando le palpebre. Nemmeno di prima mattina perdeva la sua lingua tagliente e il suo sarcasmo. Il dottore sbuffò.
- Quella di dormire sul divano è stata una pessima idea -  sentenziò l'ex soldato – Ora avrò il collo indolenzito per tutto il giorno. La prossima volta che dovrai dirmi qualcosa a certe ore, vieni a riferirmela direttamente in camera mia! -
Sherlock sollevò un sopracciglio, ora già quasi completamente sveglio. Sembrava divertito dalle sue parole.
Oh.
Solo a quel punto John si rese conto di come quella frase potesse essere fraintesa come un invito ad andare in camera sua. Si maledisse mentalmente.
Aprì la bocca, già sul punto di balbettare spiegazioni e scuse. - Io non intendevo certo... assolutamente non... -
S'interruppe quando Sherlock si alzò in piedi con un movimento fluido e sinuoso.
- Ci conti, dottor Watson – gli disse, dandogli un colpetto sulla spalla mentre gli passava accanto. Aveva un sorrisetto per nulla rassicurante. John trattene il fiato, e non lo lasciò andare fino a che l'altro non si fu allontanato sufficientemente, ovvero non si fu trovato in un'altra stanza. Solo allora espirò di nuovo.
Se non si fosse trattato di Sherlock Holmes, l'asessuale detective sociopatico sposato con il suo lavoro, quella risposta sarebbe stata inequivocabilmente un flirt. Il punto era che si trattava proprio di Sherlock Holmes, e di conseguenza non aveva la più pallida idea di perché gli avesse fatto quella frecciatina.
Esperimento? Improbabile, no. Sherlock non faceva esperimenti di quel genere. Decise che lo stava soltanto prendendo in giro per essersi lasciato sfuggire quella frase sfortunata nel momento sbagliato. Ecco, ridere degli errori stupidi altrui era molto più da Sherlock.
Perlomeno, non sembrava più turbato come il giorno precedente.
Sentì suonare il campanello. Dopo aver realizzato di essere ancora vestito dal giorno prima, scese le scale, per andare a vedere chi fosse.
Quando aprì la porta, però non c’era nessuno.
Invece c’erano tre corpi abbandonati davanti all’uscio.
 
Il pomeriggio precedente aveva avuto una lunga conversazione con suo fratello. Conversazione per modo di dire, dato che si era trattato solo di uno scambio di messaggi all'inizio, e di raccomandazioni a senso unico quando si era deciso a telefonargli. Sherlock non aveva mai avuto un rapporto pacifico il maggiore, ma nonostante la rivalità di certo non lo detestava come voleva lasciar intendere. Ovviamente Mycroft ne era consapevole, ma quasi sempre stava al gioco, prendendo parte a quella sfida tra cervelli.
Sherlock sapeva di essere l'unico punto debole del fratello, e che per questa ragione Mycroft non intendeva perderlo d'occhio un istante, anche se qualche volta era riuscito ad eludere la sua sorveglianza. Era più che normale un'attenzione simile, dopo quello che era loro accaduto in passato, ma quel dettaglio non era sfuggito al loro più pericoloso nemico. Un individuo folle e contorto, nato dalla stessa tragedia da cui erano nati i fratelli Holmes attuali.
L'incidente dei laboratori di Baskerville aveva portato molti più effetti collaterali nel paese di quanto si fosse creduto. Era a causa di quell'incidente che tutto era successo. Un piccolo errore da parte di un ambizioso professore, una piccola distrazione, che aveva portato centinaia di persone alla morte.
Quando, una manciata di anni dopo la Fuga, avevano preso a separarsi e definirsi le due fazioni, individui che per molto tempo erano state a strettissimo contatto avevano finito per imboccare strade differenti. Così era stato nel loro caso: colui che sarebbe stato successivamente noto come il Ragno, faceva parte della fazione di sotto, e ne aveva preso gradualmente il controllo e il comando. Gli Holmes, invece, era i più illustri membri di quella di sopra.
Proprio l'essere così conosciuti, perlomeno di nome, costituiva il loro svantaggio. Il Ragno sapeva quali erano le loro debolezze, e non avrebbe perso occasione di sfruttarle per far prevalere una fazione sull'altra. L'aveva già provato a fare più volte. L'essere stato aggredito, poco prima del suo incontro con John Watson, era stato solo l'ultimo dei suoi tentativi di mettere sotto pressione il capo della fazione di sopra. Era una minaccia rivolta a Mycroft, con la quale faceva intuire che non si sarebbe fatto problemi ad uccidere Sherlock se questi non si fosse fatto da parte.
Naturalmente, Mycroft non era il solo a dover prestare attenzione ai propri punti deboli. Sia lui che Sherlock facevano del proprio meglio per non legarsi alle persone, e a tenerlo segreto nel caso accadesse. La propensione di entrambi all'isolamento e la tendenza all'autismo del minore avevano facilitato loro in questo, ma non poteva certo impedire a Mycroft di preoccuparsi ogni volta che qualcuno si approssimava a Sherlock con l'intenzione di avere un qualsiasi tipo di rapporto con lui, fosse anche solo un tentativo di amicizia. Chiunque gli si avvicinasse veniva da lui osservato, studiato ed esaminato, al fine di verificarne l'attitudine, usando sue parole. In breve, voleva essere sicuro che nel caso qualcosa fosse accaduto, avrebbe saputo prendersi cura di suo fratello. E, ancora più importante, doveva accertarsi che non gli avrebbe fatto del male se per caso l'avessero giudicato sufficientemente degno della loro fiducia da essere messo a parte del loro segreto più grande: quello di essere Creature.
Quando Sherlock e John si erano casualmente incontrati, per quasi dodici ore Mycroft non lo aveva saputo, e quando ne era venuto a conoscenza era andato immediatamente in allarme. Ma Sherlock e John erano sembrati talmente compatibili, al maggiore degli Holmes, che aveva stranamente accettato la sua convivenza con il medico militare.
Avevano discusso più volte della questione, e la loro ultima conversazione era stata la più accesa. L'argomento principale era se dire o meno a John della loro natura, e se sì, anche quando e come farlo. Mycroft voleva che lo facessero al più presto. Da qualche settimana sembrava preso da una strana smania nel fare tutto, una fretta nervosa la cui causa non era che da attribuire alle recenti azioni del Ragno.
Non era un caso se gli attacchi delle Creature sembravano diminuiti agli occhi degli umani. In realtà non erano affatto diminuiti, solo che avevano modificato le modalità, rendendo le vittime indistinguibili da tutte quelle non coinvolte con loro.
Era iniziato con il Rospo, il tassista del veleno. Gli omicidi da lui compiuti non erano che esperimenti, per verificare se fosse loro possibile utilizzare gli umani morti da poco, invece che ancora vivi e vegeti. Avevano scoperto che era possibile raggiungere i loro scopi anche in quel modo, per cui la fazione di sotto aveva dato precise direttive ai suoi membri, di uccidere gli umani con armi o veleni comuni, in modo da occultare le loro azioni.
 Sherlock era costretto a rifiutare ogni caso che gli veniva offerto, quando le vittime erano state uccise dalle Creature della fazione di sotto. Ovviamente loro erano in grado di capire se una Creatura era coinvolta nell'omicidio, ma agli umani mancavano gli strumenti per farlo. L'olfatto, principalmente. Le Creature avevano degli odori molto particolari, che potevano mutare a seconda del loro stato d'animo e della salute. Un cadavere con un certo odore veniva da lui immediatamente riconosciuto se toccato da una Creatura, e avrebbe potuto anche dire se questa Creatura era malata, mentalmente instabile o altro se si fosse trattato di una Creatura che conosceva.
Anche con queste possibilità, l'occultamento degli attacchi complicava non poco le cose alla fazione di sopra, soprattutto dopo palesi segni di sfida e minacce da parte del Ragno.
E tutto tornava a Mycroft, e alla sua preoccupazione per Sherlock, che a suo parere si metteva troppo in pericolo e non badava a se stesso.
Sperava che Watson sarebbe stato abbastanza aperto da accettare la verità su di loro, e continuare a restare accanto a Sherlock. Questo glielo aveva detto esplicitamente, senza mezzi termini, per cui il minore dedusse che doveva essere davvero in pena per lui. Era rimasto molto sorpreso e sconcertato da questa dimostrazione d'affetto: l'ultima che aveva ricevuto risaliva ad anni prima.
Il maggiore gli aveva detto, al telefono, di trovare una maniera per spiegare a Watson la situazione senza scioccarlo, di fargli capire in quale situazione difficile si trovassero, e specialmente ficcargli in testa il fatto che solo una parte delle Creature era ostile e pericolosa. Un alleato in più avrebbe fatto loro comodo, soprattutto un ex soldato con nervi d'acciaio ed un ottima mira.
Sherlock era titubante, però. A differenza di ciò che gli veniva continuamente raccomandato dal fratello, aveva finito per farsi coinvolgere molto più di quanto avrebbe creduto possibile, o perlomeno possibile per lui. Si era attaccato a John Watson, non riusciva a capire come fosse successo, ma quelli erano i fatti. Desiderava che restasse con lui, che lo accompagnasse nelle indagini, che continuasse a scrivere quello sciocco blog sulle loro avventure, che preparasse pranzo e cena per due nonostante sapesse che di rado Sherlock si sarebbe unito a lui  tavola. E che gli facesse forza come la sera prima, sul divano. Voleva dormirgli sulla spalla ancora e ancora, aveva persino avuto l'idea di fingersi triste solo perché John tornasse a consolarlo, cosa ridicola e insensata ovviamente.
Gli piaceva quando John lo guardava con quegli occhi blu così caldi e affettuosi, privi della freddezza del fratello e dell'ostilità delle altre Creature. Oh, adorava quello sguardo colmo di ammirazione ma privo di timore! E poi John restava ad ascoltarlo come incantato quando cominciava a snocciolare le sue deduzioni, ed esclamava “Straordinario”, “Fantastico”, “Incredibile”. A quel punto Sherlock sentiva l'impulso di stringerlo forte per non lasciarlo mai più.
E ancora, c'erano quelle occhiate attente e dolci che gli rivolgeva al mattino e alla sera, e a volte anche quando accettava di mangiare qualcosa. Lì avrebbe potuto benissimo scoppiare in lacrime, se non avesse imparato a contenere le emozioni.
Tutto questo lo terrorizzava. Aveva già avuto qualche inizio di amicizia, ed una volta era stato colto da una leggera infatuazione, ma questa valanga, questa tempesta di sensazioni che lo investiva rischiava di farlo capitolare da un momento all'altro.
Avrebbe voluto dirglielo, dirgli come lo faceva sentire. Aveva bisogno che John capisse quanto benefica fosse la sua presenza. Non aveva la più pallida idea di come fare, però. Non sapeva nemmeno esattamente cosa doveva fargli capire. Non sapeva molto dei sentimenti, non riusciva a riconoscere ciò che lui provava. Sapeva che era bello, ma anche doloroso. Si sentiva come se John non fosse mai abbastanza vicino, mai abbastanza attento a lui. Ogni giorno che passava questo peggiorava.
Non voleva dirgli di essere una Creatura, proprio per questo. Non sarebbe riuscito a sopportare un suo sguardo disgustato o spaventato. Non avrebbe retto alle parole che avrebbe potuto rivolgergli. Se se ne fosse andato, se l'avesse abbandonato, era certo che sarebbe crollato. Ripensare a com'era andata l'ultima volta che aveva rivelato il segreto ad una persona, peggiorava solo le cose. Non credeva che John sarebbe mai arrivato a tanto, ma non poteva esserne sicuro.
Mycroft però era irremovibile: non avrebbe potuto tenerlo all'oscuro per sempre, se continuava a voler vivere con lui. John l'avrebbe potuto scoprire in moltissimi altri modi, magari peggiori, e farsi un'idea del tutto sbagliata. Il Ragno stesso avrebbe potuto fare in modo di raccontarglielo storpiando i fatti reali, e distruggendo Sherlock agli occhi dell'umano.
Solo un altro po', si diceva, un'altra settimana e glielo avrebbe detto. Ancora qualche giorno. Magari un mesetto. Il tempo di diventare ancora più vicini, di avere ancora più della sua fiducia, e poi gli avrebbe parlato.
Nel frattempo, non aveva ancora detto nulla.
 
- Sherlock! - urlò John, arretrando di scatto.
Aveva provato a strizzare gli occhi, darsi un pizzicotto per assicurarsi di essere già del tutto sveglio, ma quei tre cadaveri continuavano a restare lì sul marciapiede, esattamente davanti al numero civico duecentoventuno.
Si posò una mano al cuore, cercando di regolarizzare il respiro.
- Sherlock, dannazione, vieni qui! - esclamò di nuovo.
La via era vuota, era ancora troppo presto perché qualcuno potesse essersene accorto uscendo di casa.
Finalmente il suo coinquilino si degnò di raggiungerlo. Sherlock scese tranquillamente le scale, senza degnarsi del suo tono di voce allarmato. John si annotò mentalmente di prendersi tutto il tempo che voleva la prossima volta che l'altro avrebbe avuto bisogno di lui.
- Non mi sembra il caso di urlare così la mattina, John – brontolò il detective mentre si approssimava all'uscio. Fu a quel punto che si accorse dello spettacolo che lo aspettava proprio lì di fronte.
All'inizio sembrava più stupore che altro, l'emozione che gli aveva fatto ingigantire gli occhi e spalancare la bocca. Mentre era come paralizzato ad osservare la macabra immagine che era stata allestita durante la notte, John poteva quasi sentire il suo cervello lavorare ininterrottamente per processare l'avvenimento. Gli ci volle quasi un minuto intero a riprendersi, e solo per essere a sua volta interrogato dal dottore, che da come lo guardava pareva del tutto convinto che lui conoscesse la ragione della sorpresa che si era trovato di prima mattina.
- John, torna dentro. Chiama la polizia, per favore – mormorò con un filo di voce. La sua espressione fu ciò che fece affrettare il passo all’ex soldato. Non sembrava scioccato, arrabbiato o spaventato. era come sperduto, o abbandonato. Lo sguardo sembrava passargli attraverso, come se non lo vedesse più, e quando gli chiese se stava male, Sherlock all’inizio non lo sentì, accorgendosene solo dopo che la domanda gli era stata posta più volte.
Scotland Yard non ci mise molto a presentarsi. Era la prima volta, dopo moltissimo tempo, che avveniva qualcosa del genere a Baker Street. A sentire Lestrade, da quando Sherlock ci aveva abitato la prima volta, prima che ci si trasferisse John dopo il suo ritorno dall’Afghanistan, in quella via ed alcune di quelle circostanti non c’erano più stato incidenti e non erano stati compiuti crimini superiori a qualche furtarello. Una strana coincidenza, aveva commentato l’ispettore, ma John ebbe l’impressione che non fosse affatto un caso.
Un’altra strana coincidenza, pensò invece, era che quei tre cadaveri fosse proprio davanti al loro appartamento, e proprio il giorno dopo aver ricevuto quella misteriosa minaccia da parte del misterioso criminale a cui aveva accennato Sherlock. Probabilmente non era una coincidenza nemmeno quella.
- Voi siete sicuri di non aver sentito nulla durante la notte? - domandò per la decima volta Greg. Entrambi scossero la testa.
- Ci siamo dovuti occupare di una questione personale che si è rivelata a dir poco stancante – spiegò Sherlock, riacquistato l'autocontrollo di sempre. - John in particolare ha dormito come un sasso -
John gli rivolse un'occhiataccia. Fino a poco prima sembrava in trance, ed ora cominciava a fare le sue frecciatine mentre la polizia prelevava i tre cadaveri dal marciapiede sotto la loro casa. La voglia di strozzarlo, ogni tanto, non poteva essere messa del tutto a tacere.
Lestrade aggrottò le sopracciglia. - Interrogheremo tutto il vicinato per sentire se hanno qualcosa da dirci. Ma voi due, nel frattempo, tenetevi fuori dai guai. Intesi? -
Ricevuta la quasi sicuramente falsa conferma dai due, sembrò più tranquillo, anche se sia lui che John sapevano che Sherlock difficilmente non avrebbe almeno provato a svolgere delle indagini in prima persona. Il soldato sapeva però che probabilmente il colpevole era un criminale di livello superiore a quelli a cui erano abituati, e soprattutto che l'amico aveva già avuto a che fare con lui, quindi poteva sperare che non si sarebbe lanciato nel pericolo a capofitto come suo solito.
Solo quando tutte le procedure furono eseguite, i due coinquilini rimasero nuovamente soli al 221B.
- Vuole che io mi tolga dai piedi – disse ad un certo punto Sherlock con voce piatta, mentre John sbocconcellava una fetta di pane tostato e imburrato. Quest'ultimo sollevo gli occhi ad incontrare quelli del detective, in una muta richiesta di ulteriori delucidazioni. Sherlock sospirò. - Si tratta dell'individuo di cui ti avevo parlato – spiegò. - Quel messaggio disegnato che abbiamo trovato ieri, e questi tre corpi sono un promemoria. Lui vuole che io smetta di investigare su criminali legati a lui -
John annuì. - Pensi che prima o poi potrai dirmi almeno il suo nome? - chiese, deglutendo un boccone.
Sherlock esitò, prima di rispondergli. - Moriarty. James Moriarty. Ci conosciamo da anni -
- Era in quelle foto, vero? -
Il consulente investigativo confermò le sue parole.
- Il bambino con occhi e capelli neri – stavolta non era una domanda. Sherlock, comunque, fece segno di sì.
Qualcuno bussò alla porta, proprio quando il dottore stava per porre un altro quesito all'investigatore. Pochi minuti dopo, Mycroft Holmes fece la sua comparsa nel salotto, ombrello alla mano e cappotto al braccio.
Mai che il signor “governo inglese” non fosse presente ai grandi avvenimenti, si ritrovò a pensare infastidito Watson. Non era passata neanche un'ora da quando Scotland Yard aveva tolto il disturbo che lui faceva capolino in casa loro, già pronto a riempire il fratello minore di raccomandazioni, e a ribadire quanto lui fosse l'intelligente della famiglia Holmes. Sapeva che la rivalità tra i fratelli non lo riguardava, ma John non poteva fare a meno di sentirsi irritato ogni volta che accadeva.
- Fratellino. Vedo che la tua mattina è iniziata in modo molto... eccitante – esordì il più vecchio.
Sherlock sollevò un sopracciglio, e raddrizzò la schiena. Fece leva sugli avambracci per alzarsi dalla poltrona e fronteggiare il fratello maggiore. - Buongiorno anche a te Mycroft. A quanto pare è così, negli ultimi tempi le sorprese non fanno che piombarmi addosso -
Mycroft assottigliò lo sguardo, mentre volgeva questo verso Watson. – Quanto gli hai detto? – chiese al fratello.
Sherlock alzò le spalle. – Un po’ – disse con tono vago.
Il maggiore alzò gli occhi al cielo, questa volta. – Ti avevo detto, Sherlock, di… -
- Sì, me l’hai detto! – sbuffò lui. – Ma non l’ho ancora fatto –
Chinò leggermente la testa, guardando il fratello dal basso verso l’alto. I due si scambiarono una lunga occhiata, che fece venire a John il dubbio che potessero comunicare telepaticamente. Quando i loro occhi si staccarono, Mycroft lasciò andare un sospiro che sembrava in parte rassegnato e in parte di rimprovero.
Poi fece una cosa che lasciò John senza parole. spinse Sherlock fino a farlo tornare a sedere sulla poltrona, si abbassò posando un ginocchio a terra di fronte a lui, ed allungò una mano ad afferrare le dita affusolate e pallide del fratello. Le avvicinò al viso, scrutandole attentamente, come in cerca di qualcosa a loro ignoto. Sherlock sgranò gli occhi, stupefatto.
- Sto benissimo! Lasciami stare! – esclamò, e cercò di ritrarre la mano, ma senza successo.
Dopo qualche altro secondo di osservazione, Mycroft aggrottò le sopracciglia e si alzò di nuovo, stavolta per chinarsi ed esaminare Sherlock in volto. Questi affondò nella poltrona, nel tentativo di allontanarsi dall’altro. Mycroft gli bloccò la testa con le mani, con un cipiglio severo.
Stettero diversi minuti in quel modo, diversi minuti che lasciarono John sconcertato. Gli sembrava di star assistendo ad uno di quei film di fantascienza dove gli alieni si parlavano solo guardandosi negli occhi. Anche se forse questi erano meno inquietanti dei fratelli Holmes. Sherlock sembrava voler cavare i bulbi oculari al più vecchio, mentre Mycroft era completamente impassibile.
E infine avvenne l’incredibile: Sherlock abbassò lo sguardo. Lui, che non dava l’ultima parola a nessuno e che sosteneva di vivere circondato da idioti, aveva abbassato lo sguardo, in segno di resa.
- Avrei dovuto immaginarlo – borbottò Mycroft a denti stretti, tornando in posizione eretta. – Forse è in parte colpa mia, ma sei maledettamente irresponsabile. Ti avrò detto non so nemmeno quante volte di non lasciarti coinvolgere! – se all’inizio del discorso l’uomo era discretamente calmo, quando finì sembrava una via di mezzo tra l’arrabbiato e il preoccupato.
Sherlock incassò senza ribattere, cosa ancora più strana delle sue azioni precedenti. Affondò le dita nei braccioli della poltrona, e aggrottò la sopracciglia. – Lo so, Mycroft – mormorò dopo un po’, sempre tenendo gli occhi bassi.
A quelle parole, l’espressione dell’altro si distese. Sospirò, e portò le mani a massaggiarsi le palpebre.
- Sono spiacente per questo deplorevole spettacolo, dottor Watson, ma mio fratello a volte non mi lascia scelta – disse stavolta rivolto a John. Quest’ultimo accennò ad un sorrisetto poco convinto. – Immagino lei abbia già intuito da un pezzo che io e Sherlock viviamo in certe circostanze che definirei, ah… singolari – attese una sua risposta, che venne nella forma di segno d’assenso fatto col capo. A quel punto riprese. – Avviene di rado che qualcuno all’infuori di un ristretto gruppo di persone ne venga messo a conoscenza, ma l’attuale situazione rende quanto mai importante che lei ne sia messo a parte. Avevo più volte detto al mio fratellino di farlo, ma a quanto pare non ha ancora trovato le parole adatte… -
- Non sei tu a vivere con lui, quindi non puoi giudicarmi per questo, Mycroft – sibilò Sherlock, sollevando la testa dopo averla tenuta china per diversi minuti. Mycroft ridacchiò. – Non è per questo che ti giudico, Sherlock. È per l’altra cosa, ovviamente. Quella che ti impedisce raccontargli la storia con tale ostinazione. Non vogliamo un altro incidente, vero? –
Sherlock scosse la testa. – Però questa volta… -
- Una settimana, fratellino. Se non gli dici ciò che devi entro una settimana, lo farò io. E puoi star certo che non sarò reticente nei dettagli –
Con un ultimo saluto, Mycroft afferrò l’ombrello che aveva appoggiato ad una sedia, e si diresse verso l’uscio. Chiuse la porta delicatamente, e Sherlock seppe per certo che era stato attento a raddrizzare il battente sul portone, a differenza di ciò che faceva lui ogni volta.
E la visita fu classificata da John come la più breve e misteriosa che il maggiore degli Holmes avesse mai fatto loro.
- John –
L’interpellato rispose con un teso e ansioso “Sì, Sherlock?”.
- Vado in camera per un po’. Palazzo mentale. Non entrare, per favore –
 
Sherlock aveva bisogno, doveva assolutamente scappare dallo sguardo del coinquilino. Non riusciva a reggere di vederlo così attento ad ogni sua mosse, come se temesse che potesse infrangersi da un attimo al successivo.
Non era l’unico a guardarlo così: anche Mycroft spesso faceva lo stesso, ma lui era diverso. Mycroft lo considerava la sua massima priorità da quando avevano perso i genitori, tanti anni prima. Mycroft gli aveva salvato la vita quando erano nella “stanza bianca”, durante la Fuga, e molte altre volte ancora. Lo vedeva sempre come il suo piccolo e debole fratellino minore, e niente avrebbe potuto cambiare questa condizione, per cui ci era abituato.
La signora Hudson, invece, era stata madre, e si era presa molto cura di coloro che erano fuggiti dalla “stanza bianca”, per cui il suo istinto di protezione nei suoi confronti era normale. Lei era la loro seconda mamma, in un certo senso.
Ma gli estranei non conoscevano quei lati di Sherlock Holmes che invece venivano visti da Mycroft e dalla signora Hudson. Per loro era un genio disadattato notevolmente attraente e altrettanto stronzo, e lo trattavano o con freddezza o reverenza. Gli individui che avevano visto oltre la sua maschera di ghiaccio erano infinitamente pochi, e alcuni di questi avevano fatto una brutta fine o gli si erano allontanati in gran fretta, terrorizzati da ciò che avevano scoperto.
La preoccupazione di John era qualcosa di nuovo e differente. Anche senza sapere la loro storia, Sherlock ne era certo, l’ex soldato era riuscito a percepire che qualcosa non andava, che non era forte come voleva dare a credere. Aveva quella sorta di empatia che gli aveva permesso di avvicinarsi a lui con naturalezza, ed era abbastanza abituato agli orrori della guerra e alla solitudine da riuscire a capire rapidamente i suoi stati d’animo.
Allo stesso tempo però, nonostante avesse senz’ombra di dubbio intuito almeno in parte che tipo di trauma fosse quello che lui e Mycroft avevano vissuto, non lo guardava con la pietà o con lo spavento degli altri rari individui ave si erano approssimati altrettanto a lui. Capiva di cosa aveva bisogno quando stava male, ma non lo faceva sentire un povero sventurato.
E allora dov’era il problema, se la situazione era questa?
Il problema era che Mycroft aveva ragione: sin era lasciato coinvolgere così tanto che il Ragno non poteva non sapere quanto Watson fosse inequivocabilmente il più grande dei suoi punti deboli. I tre cadaveri rinvenuti poche ore prima ne erano la prova: erano tre simboli, tre segni che il Ragno sapeva lui avrebbe riconosciuto. Una donna anziana e due uomini erano i morti. Simboleggiavano le tre persone che gli erano più vicine, e illustravano cosa sarebbe loro accaduto se non si fosse piegato a lui.
Sherlock si rigirò sul fianco, gettatosi sul letto, e trascinò il lenzuolo fino ad avvolgercisi completamente, dalla testa ai piedi. L’aria era calda e respirare era faticoso, sotto il tessuto bianco, ma non gli importava. Finché era chiuso in camera sua, nascosto in quel bozzolo di stoffa, poteva quasi convincersi che non sarebbero riusciti a raggiungerlo, né il Ragno con la sua tela, né Watson e il suo sorriso caldo e rassicurante. Quasi.
Nel frattempo aspettava, attendeva che il ragno facesse la sua mossa successiva. Lui non faceva mai minacce a vuoto, se lanciava segnali poi di sicuro pretendeva un contatto più diretto per mettere in chiaro la situazione di chi minacciava, e per dettare istruzioni su cosa doveva o non doveva fare. Moriarty avrebbe mandato altri messaggi, fino a condurre Sherlock nuovamente alla sua presenza. Così, lui lo aspettava.
Il cellulare di Sherlock vibrò.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
**********
 
Note: Non so quanto mi ci vorrà per pubblicare il prossimo capitolo. Forse molto, forse no. Ma sono sicura che entro un mese, o poco più, la pubblicazione dovrebbe diventare se non più rapida, almeno più regolare.
So che su questo capitolo ho scritto cinque pagine di word e mezza per far succedere poco o niente, ma in questa storia tendo ad essere prolissa. Una volta non era così. Sarà la vecchiaia che si fa sentire con cinquant’anni di anticipo?
Un bacio ed un inchino a chi sta leggendo queste righe.
 
Sofyflora98

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Capitolo 8
*** Denti ***


Sherlock allungò pigramente la mano per afferrare il cellulare che stava vibrando. Lestrade lo stava chiamando. Magari aveva scoperto qualcosa riguardo ai tre cadaveri trovati non molto prima davanti all'uscio dell'appartamento, per quanto dubitasse che la polizia fosse così rapida a svolgere le indagini. A malapena lui avrebbe potuto fare una cosa del genere.
Si portò l'oggetto all'orecchio, curioso di sapere cosa ci fosse già di così importante da comunicargli.
- Lestrade? - disse piano.
- Scusa se ti disturbo già, ma c'è una novità – la voce del poliziotto era agitata e perplessa allo stesso tempo. Sherlock sollevò un sopracciglio, nonostante nessuno fosse lì per vedere il suo cambio di espressione.
- Si tratta di qualcosa di importante? Altrimenti non mi avresti chiamato solo un paio d'ore dopo essere già stato a Baker Street per un caso di triplice omicidio – mentre parlava, il detective si sfilò dal bozzolo di lenzuola in cui si era avviluppato. Si sedette sul materasso del letto, le membra intorpidite dalla posizione che avevano tenuto.
- Non lo so, Sherlock. Potrebbe esserlo, potrebbe non significare nulla. Ci è arrivata una busta indirizzata a te, ed un biglietto attaccato ad essa diceva di non aprirla se non in tua presenza. Abbiamo bisogno che tu venga in centrale, il prima possibile -
- D'accordo. Arrivo subito – Sherlock chiuse la chiamata. Posò di nuovo il cellulare su comodino e si infilò le dita tra i capelli, sospirando profondamente. Eccolo, doveva essere quello il segno che stava attendendo. Coinvolgere anche la polizia solo per metterlo in difficoltà sembrava un comportamento molto coerente con il carattere del Ragno. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di avere un pubblico ad assistere alle sue malefatte. Teatrale e melodrammatico erano le due parole che meglio avrebbero potuto descriverlo, dopo crudele e manipolatore.
Si alzò dal letto. Accogliere la sua sfida piuttosto che cedere alle sue minacce sarebbe stato indubbiamente molto pericoloso, ma non aveva alcuna intenzione di chinare la testa di fronte a lui. Perché in fondo il Ragno aveva ragione: nonostante ci avesse a lungo provato, non sarebbe mai stato realmente neutrale nel rapporto tra fazioni. Fintanto che Mycroft avesse continuato a discutere con lui le decisioni da prendere nella direzione della fazione di cui era il capo, Sherlock avrebbe continuato ad essere un membro della fazione di sopra. Membro passivo, magari, ma pur sempre tale.
Uscì dalla sua camera, e tornò in soggiorno, dove trovò John intento ad aggiornare il suo blog. Come temeva, il coinquilino l'aveva visto arrivare con la coda dell'occhio, e appena un secondo dopo aveva già voltato il capo verso di lui, attento e vigile, quello sguardo caldo e gentile che lo investiva e lo avvolgeva completamente.
- Lestrade mi ha chiamato – mormorò, a disagio. - Devo raggiungerlo in centrale. Vuoi... vuoi venire o preferisci restare in casa dopo quello che è successo stamattina? -
John gli sorrise, un sorriso così sincero e limpido che lo fece quasi vacillare. - Ma certo che vengo con te, Sherlock. Ormai ti seguo praticamente ovunque quando c'è un caso di mezzo, no? Ed in Afghanistan ho visto di peggio che tre morti su una strada. Non sarà certo questo ad impressionarmi -
Sherlock abbassò gli occhi. - Potrebbe essere pericoloso. Intendo più del solito - si dondolò da un piede all'altro.
- D'accordo. Allora starò più attento a te del solito – rispose semplicemente l'altro. Il più giovane tornò ad incontrare il suo sguardo. Non era una battuta, la sua. L'aveva detto tranquillamente, senza nessuna sfumatura ironica nella voce. Cosa aveva mai fatto, lui, per avere un uomo così spontaneamente premuroso come coinquilino, amico e compagno d'avventura?
- Io volevo... - Sherlock esitò, indeciso su cosa dire. - Stavo dicendo che non sei obbligato a seguirmi -
John si accigliò. - Perché, ti sono d'intralcio, improvvisamente? - Sherlock sussultò, e scosse la testa con decisione. No, mai. John non era mai d'intralcio, assolutamente mai. John era fantastico. Per questo non poteva rischiare che gli accadesse qualcosa. Se si fosse trattato di criminali comuni, sapeva che se la sarebbero cavata senza troppi problemi. Ma con il Ragno che aveva puntato gli occhi su di loro non poteva mettere a rischio l'unica persona realmente importante che aveva.
- Non voglio che tu muoia – cercò di mantenere l'espressione più composta e ferma che riuscì, ma qualcosa doveva essere comunque trapelato, da come John reagì. Il viso del dottore si distese di nuovo, e si alzò in piedi per avvicinarglisi. Lo abbracciò, e Sherlock era rigido come un palo mentre le braccia forti di Watson gli cingevano le spalle. Era un abbraccio da amico, niente di straordinario, ma fu più che sufficiente a farlo tremare. Quanto tempo era passato dall'ultima volta che qualcuno lo stringeva così, con naturalezza, come se lui fosse in qualche modo importante?
- Dovresti farlo più spesso – gli sussurrò John.
- Fare cosa? -
- Mostrare le tue emozioni. Lasciar vedere il tuo lato umano. Magari anche gli altri capirebbero che non sei lo stronzo che vuoi far credere -
- Sentimentale – sbuffò Sherlock. - E io non sono uno stronzo. Sono gli altri ad essere degli idioti -
- Certo che no, Sherlock. Non è colpa tua – il più vecchio lo lasciò andare, e si stiracchiò. - Comunque, anche se come vedo ti stai preoccupando, verrò con te a vedere cos'ha Lestrade da mostrarci, e non provare a dirmi una sola altra volta di restare qui a non far nulla –
Sherlock non rispose, ma accennò ad un sorriso che voleva essere d’assenso.


Per la seconda volta nella stessa giornata, salutarono l’ispettore Lestrade, che ora aveva l’aria veramente stanca e sciupata. Ciononostante non aveva perso la sua bonarietà, cosa che non poteva invece dirsi del sergente Donovan, che mantenne, invece, la sua solita freddezza nei confronti di Holmes.
Sulla scrivania dell’ufficio di Lestrade, era posata una busta fatta con carta da pacchi piegata ed incollata, assolutamente anonima. Con un pennarello nero era scritto il destinatario: Mr. Sherlock Holmes, Baker Street. Non c’era però, nessun francobollo e nessun timbro postale, quindi doveva essere stata recapitata direttamente alla stazione di polizia.
- È questa? – domando il detective. Lestrade annui, e gliela porse delicatamente. – Fai attenzione: abbiamo controllato, e non sembra che ci sia una bomba dentro, ma non si è mai troppo sicuri. Dopotutto, sembra che tu abbia un nemico piuttosto violento –
Sherlock lo prese in mano con cautela, e con un tagliacarte preso dalla scrivania del poliziotto,  aprì la busta senza strappare dov’era incollata. Come nella lettera che aveva ricevuto direttamente a Baker Street poco tempo prima, c'erano una fotografia ed un biglietto. L'immagine raffigurava anche questa volta l'interno di una stanza, solo che in questo caso si trattava di un ambiente vuoto, con la carta da parati scollata e la muffa che si faceva strada sul soffitto.
Il cambio di espressione di Sherlock fu quasi impercettibile, ma non sfuggì allo sguardo attento di John, che si accorse immediatamente di come si era leggermente paralizzato. Non disse nulla, comunque.
Nel piccolo rettangolo di cartoncino, c'erano una data ed una parola.

 
19 Febbraio 2005
Ricordi?

- Lestrade, lascia perdere questa storia. È solo la presa in giro di una persona con un pessimo senso dell'umorismo ed un carattere ancora peggiore. Non c'è nessun caso da risolvere, né nulla di cui tu debba preoccuparti – decretò il detective, e ripose sia la foto che il biglietto nella loro busta. - Se non ti dispiace, me la porto via. Non è un problema, vero? -
Lestrade sembrò dover ricorrere a tutto il suo autocontrollo per non prendere Sherlock a pugni, ma riuscì a limitarsi ad uno sguardo tutt'altro che favorevole alle sue parole. - Sherlock, niente di ciò che ti riguarda è solo una presa in giro. Se c'è il rischio che tu muoia, significa che sei stato fortunato, per cui smettila di fare l'idiota e dicci cosa significa quel messaggio -
Il detective lo ignorò completamente, e gli voltò le spalle, uscendo a passo veloce dal suo ufficio. Il poliziotto provò ad andargli dietro, fermato da John, che gli mise una mano sul braccio. - Proverò io a farlo ragionare, Greg -
Lestrade sospirò e si arrese. - D'accordo, ma stagli vicino e tienilo d'occhio. E soprattutto, chiamaci se si ficca nei guai. Sai meglio di me che sarebbe in grado di farsi ammazzare piuttosto che farsi aiutare da qualcuno -
- Stai tranquillo. Non gli succederà niente – lo rassicurò il dottore.
John uscì dalla centrale, e fu sorpreso nel vedere che Sherlock lo aveva aspettato fuori, invece che proseguire in gran fretta.
- Hai intenzione di seguire questa traccia senza l’aiuto di Scotland Yard, vero? –
Sherlock annuì. – Se avesse voluto, avrebbe potuto mandare quella busta a Baker Street, come quella precedente. Si tratta sempre dello stesso individuo. Ha tirato in ballo la polizia per farmi intendere che se li coinvolgessi farebbe saper loro alcune informazioni che preferiamo tenere riservate –
- Intendi tu e tuo fratello, immagino. Si tratta della famosa cosa che dovresti dirmi entro una settimana? –
La risposta fu di nuovo affermativa. – Sherlock, hai detto che è pericoloso! Solo per una volta potresti lasciare che… -. Holmes lo interruppe con uno sguardo. Glaciale e allarmato, quasi spaventato.
- No! – gli disse. – Non deve saperlo nessun altro! Non possiamo permettere che quell’uomo dica quelle cose alla polizia! Tu… non puoi capire, non ancora. Se lo sapessero, sarei finito! –. Quell’improvviso attacco di panico fece sobbalzare Watson, colto alla sprovvista.
- D’accordo, d’accordo. Mi sto solo preoccupando per te -. Sherlock girò la testa di scatto, gli occhi sgranati e colmi di incredulità. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma dopo qualche secondo la richiuse senza aver pronunciato una parola. Alla fine distolse di nuovo lo sguardo, a disagio.
- Non dovresti. Non ne hai ragione – borbottò con aria confusa prima di tornare a volgersi nella sua direzione.
- Tu hai detto che non vuoi che io muoia, prima. Beh, lo stesso vale per me, e farò del mio meglio per evitare che accada –
- Certo. D’accordo – mormorò il detective. Si chiese se non fosse sbagliato sentirsi rincuorato nel sentire quelle parole come se avesse temuto che il loro rapporto fosse stato dettato solo dalla necessità sia riguardo alla condivisione dell’appartamento che la collaborazione nelle indagini. Certo Watson non era mai stato reticente nel dare a vedere, con il passare del tempo, che lo considerava sempre più un amico e sempre meno un conoscente o collega, ma non era estraneo ad errori di giudizio di quel genere. Il Ragno sembrava avere una gran voglia di ricordarglielo, quel giorno. Di riportare a galla quel terribile diciannove febbraio.
- Sai anche questa volta di che posto si tratta, vero? Quello nella foto, intendo – Sherlock si riscosse. John aveva posato una delle sue mani forti e tiepide sulla sua spalla.
- Sì, lo so. In realtà, si tratta di Baker Street. Il 221C di Baker Street –
Sherlock spiegò al coinquilino, durante il viaggio di ritorno, che soltanto il 221 A e B erano abitati, negli ultimi anni, ma che quando viveva lui lì, prima che se ne andasse e ci andasse a vivere John, anche il C era in affitto. Purtroppo c’era stata una falla e non era più agibile, oltre ad essere estremamente piccolo di suo, ed essendo parzialmente sotto il livello del suolo, l’umidità era altissima e la muffa cresceva di continuo, per cui la signora Hudson ci aveva rinunciato. Accennò anche ad un incidente avvenuto lì dentro, che aveva fatto prendere alla donna la decisione di chiudere quella porta molto prima di quanto pensasse.
Una volta arrivati, gli mostrò dove fosse la porta d’ingresso del terzo piccolo appartamento.
Andò a chiamare la signora Hudson per farsi dare le chiavi. La donna venne ella stessa, con il mazzo tintinnante stretto tra le dita ossute, ad aprire l’uscio, camminando rumorosamente e investendolo di una specie di cronaca della storia dell’abitazione e dei suoi cari inquilini.
- … E credo che non avresti dovuto andartene, Sherlock caro. Posso capire che tu abbia avuto bisogno di allontanarti per un po’, ma dopo avresti dovuto tornare a vivere qui. Non sai quanto malandato e magro eri quando John ti ha trovato mezzo morto al Saint James’s Park! Ah, ma se fossi rimasto con me, ci avrei pensato io a te! – borbottò contrariata la signora.
- Magro lo è ancora – commentò John, guardandola armeggiare con la serratura.
- Signora Hudson, sapete benissimo perché non sono potuto rimanere qui dopo quell’incidente. Poi, è davvero necessario che si metta a rivangare queste cose? A John non interessano i pettegolezzi – esclamò Sherlock, esasperato.
- Non sono pettegolezzi, è la tua vita, caro. Ma se non vuoi che io dica a John perché te la sei svignata e perché io ho smesso di mettere in affitto il 221 C, allora sarà affar tuo farglielo sapere quando più ti piacerà! –
La donna riuscì finalmente a far girare la chiave: la serratura si era arrugginita e rovinata dopo il lungo tempo durante il quale era stata trascurata e inutilizzata. Mise le chiavi in mano a Sherlock. – Vi lascio ai vostri affari –
I due uomini entrarono nella stanza.
Proprio come nella foto, era quasi priva di mobilia, e l’aria era satura di polvere ed odore di muffa e stantio. La carta da parati era scolorita, strappata o scollata per buona parte. La luce filtrava da un’unica finestra, illuminando i granelli di polvere che aleggiavano nell’ambiente.
Proprio nel mezzo della stanza, posata sul pavimento, c'era una seconda busta, identica a quella che era stata consegnata alla polizia. Sherlock si chinò a raccoglierla, osservando che dal peso e dal modo in cui era rigonfia, non dovevano esserci solo due pezzi di cartoncino al suo interno, stavolta. La aprì facendo attenzione a non strapparla, e fece scivolare il suo contenuto sul palmo della mano che non era impegnata a tenere l'involucro.
Si ritrovò a reggere un telefono cellulare abbastanza nuovo ed sacchettino di stoffa, che rivelò contenere un mucchietto di denti.
John si accostò al compagno, scrutando questi ultimi. Il mittente non si era curato di pulirli come si deve, ed erano incrostanti di sangue secco alla radice, quando non c'erano addirittura dei piccoli brandelli di sottilissima pelle ancora attaccati.
Il dottore corrugò la fronte a quella vista. Non che quella vista lo impressionasse realmente, ma lo inquietò pensare a chi potrebbe mai pensare di spedire dei denti, che gli sembravano decisamente umani, come monito o enigma da risolvere. Non era il semplice avvertimento di un criminale che si sente minacciato, c'era qualcosa di perverso in quello. Qualcosa di crudele e malato di fondo.
- Significa qualcosa o si suppone tu debba decifrare il messaggio? - domandò cautamente al detective, scrutando le sue reazioni. Fu quasi sollevato nel vederlo perplesso e disorientato quanto lui. Sperava che riuscissero a sbrogliare quella faccenda il prima possibile, ma trovava molto più sgradevole che Sherlock sapesse già il significato di ciò che trovava ma ne fosse così turbato da non volerlo condividere, come era accaduto nella casa a schiera disabitata dove avevano trovato la minaccia disegnata sul pavimento.
- Non ne sono sicuro – rispose Sherlock alla domanda. - Forse è qualcosa che si aspetta che io risolva. Dovrei analizzare questi denti per esserne sicuro. Se è chi penso che sia, e lo è quasi di sicuro, allora so per certo che ama questo genere di gioco tra cervelli -
- Al Barts per analizzarli, quindi? -
- Direi proprio di sì, John -
Il medico si chiese, a quel punto, se fosse per farlo muovere più rapidamente di nuovo fuori dall'appartamento e fermare un taxi che Sherlock gli aveva afferrato la mano.
Fu lui a sciogliere quella stretta, ad un certo punto, pochi minuti dopo che erano saliti sul veicolo. Sherlock sembrava essersi dimenticato di avere la mano avvolta attorno a quella dell'altro in un modo terribilmente simile a quello di due fidanzatini, e John si sentì abbastanza in imbarazzo quando il conducente scoccò loro un'occhiata strana dallo specchietto. Quando il dottore si accorse che Sherlock, perso nel suo palazzo mentale, stava iniziando ad intrecciare le dita con le sue, si schiarì la voce, e diede un leggero strattone per fargli capire di lasciarlo andare. Sherlock sembrò risvegliarsi di colpo, e si affrettò ad allentare la presa.
Rimase girato verso il finestrino per il resto del viaggio.
John, in verità, non era del tutto sicuro che Sherlock avesse il permesso, uno vero e proprio, di utilizzare gli strumenti scientifici dell'ospedale St Bartholomew's. Era molto probabile che fosse non del tutto in regola, come d'altronde la sua collaborazione con la polizia, e che Molly Hooper fosse un fattore se non determinante perlomeno rilevante nel suo libero girovagare nella struttura e nell'obitorio facendo uso di quasi tutti gli strumenti di laboratorio che c'erano.
Nemmeno questa volta trovarono proteste riguardo la loro presenza, quando fecero il loro ingresso nell'ospedale.
Ora che era tornato nel suo campo, fuori da fantasmi del passato e vecchie conoscenze per tornare alla scienza, Holmes sembrava essere meno cupo rispetto a come John lo aveva visto dopo il ritrovamento dei cadaveri e della busta a Scotland Yard.
Aveva gettato il cappotto e la sciarpa su una sedia, e si era affrettato a sistemare tutta l'attrezzatura che gli serviva sul tavolo di lavoro. Si circondò di provette, reagenti chimici, microscopi di diversi tipi e una sfilza di altre cose di cui una buona parte nemmeno John conosceva, non essendo inerenti agli studi medici.
Tirò fuori i denti dal sacchetto, ed iniziò a fare i suoi esperimenti, mentre John si sedette poco distante ad osservare e aspettare.

Tick tock.
Uno sguardo annoiato fu tutto quello che l'orologio ricevette dal bambino pallido che era accovacciato sulla poltrona consumata e sformata, il mento incastrato tra le ginocchia.
Erano le quattro del pomeriggio.
Tick tock.
Seduto al tavolo di legno qualche metro più in là, stava un giovane, chinò su un plico di fogli su cui erano state stampate delle tabelle, che stava compilando già da qualche ora, con estrema pazienza. Il piccolo sapeva che era una specie di registro delle persone come loro, o almeno di quelle che conoscevano, ma non aveva un'idea precisa di cosa fosse scritto su di loro in quei documenti. Non aveva mai prestato particolare attenzione a quel tipo di lavori che invece suo fratello curava tanto.
Tick tock.
In quella stanza non erano soli.
C'era una donna, intenta ad accarezzare i soffici riccioli neri del fanciullo guardando con apprensione le due grandi fasciature che aveva attorno alle spalle e sulla schiena. Poi un altro ragazzino, dai lineamenti affilati, poco più alto del fanciullo dalla pelle bianca, che era sdraiato come un gatto in cima allo schienale della poltrona dove stava quest’ultimo, un braccio che penzolava giù. Scrutava le altre persone lì presenti con uno sguardo tagliente e un po' malizioso.
Un altro bambino, invece, era seduto sul pavimento, e sbuffava rumorosamente, facendo saettare gli occhi neri come la pece prima da un lato, e poi dall'altro, estremamente irritato.
Tick tock.
- Mi annoio – esclamò questo con fare teatrale, roteando vistosamente gli occhi. – Come diavolo fate a starvene così per tutto il giorno? Senza uscire, senza parlare, senza uccidere qualche animaletto per passare il tempo… è un’agonia! –
Mycroft interruppe solo per un istante il suo scribacchiare, gli gettò un’occhiata severa con la coda dell’occhio e tornò al suo lavoro. Sherlock sospirò, e affondò ancora di più il viso tra le gambe. Il ragazzino poco sopra di lui accennò ad una risatina, ma non disse nulla, allungando invece le dita a sfiorare i boccoli scuri di Sherlock.
- Ma, caro… – provò a spiegare la donna. – Lo sai che è rischioso uscire a quest’ora. Non hai il pieno controllo delle tue Estensioni, potrebbero spuntare da un momento all’altro. Hai idea di che ti farebbe se ti vedessero con quelle zampe di ragno sulla schiena e quella coda? –
Il bambino emise un lungo gemito di frustrazione, aprì le braccia come fossero ali e si lasciò cadere di schiena sul pavimento in un gesto estremamente melodrammatico. – Io morirò di noia, se non faccio qualcosa! –
- Zitto, James – disse Mycroft con voce atona, rileggendo il foglio appena compilato. – Quello che sto cercando di fare è un lavoro serio. Se devi strepitare in quel modo, vai in un’altra stanza, per favore –
Jim lo ignorò, ed emise un altro finto verso sofferente. Raddrizzò di nuovo il busto, volgendo il viso  verso il più giovane degli Holmes. Un ghigno gli storse la bocca. – Sherlock! – esclamò. L’interpellato alzò a malapena lo sguardo, mostrando due enormi occhi di un color acquamarina intenso e brillante, appena iridescente.
- Non ti annoi anche tu, Sherlock? – domandò con fare insinuante Jim, avvicinandoglisi camminando sulle ginocchia. Sherlock corrugò la fronte, dischiudendo a malapena le labbra carnose. Annuì appena, con un movimento leggero e lento, quasi impercettibile. – Non vorresti uscire anche tu? Lo so che ti divertiresti di più a seguire la gente per strada e usare quel trucchetto per capire cosa fanno –
- Jim, lascialo stare – mormorò la signora Hudson, a disagio. – Sai che Sherlock non sta bene da quando siamo qui –
Jim rise. – Perché, prima della fuga invece stava bene? Oh, dimenticavo che lui non riesce ad accettare di avere queste cose! – con un rumore di carta strappata, otto lunghe zampe di aracnide si fecero strada attraverso la pelle di James, fino ad uscire completamente e piegarsi e ridistendersi rapidamente.
A quella vista, Sherlock s’irrigidì, improvvisamente all’erta. Nonostante questo, non fu abbastanza veloce a spostarsi quando Jim gli balzò addosso. Il bambino dagli occhi neri lo afferrò per le spalle, ridendo forte. Sherlock, al contrario, lanciò un urlo acuto, e sembrò perdere la testa, scalciando convulsamente e sbilanciandosi per cadere pesantemente sul pavimento con un tonfo, seguito dall’altro ragazzino, ancora aggrappato a lui.
Da lì, però, non riuscì più a divincolarsi, schiacciato dal peso di Jim, che sorrideva trionfante. Quel sorriso però svanì, sostituito da una smorfia di disappunto, quando vide che Sherlock era sull’orlo delle lacrime, tremante come una foglia. Dallo shock, aveva perso il controllo delle Estensioni, e due ali scintillanti e sottili si erano spalancate, lacerandogli la pelle. I suoi vestiti già si stavano tingendo di rosso cremisi.
- Lasciami – singhiozzò il fanciullo con un filo di voce, e continuò a ripeterlo come una litania, rivolgendogli una delle espressioni più terrorizzate e disperate che Jim avesse mai visto fuori dalla stanza bianca. Entrambe le sue Estensioni erano visibili ora. Quegli occhi di quel colore così simile a quello del corpo di certe libellule che si vedevano negli stagni. Aveva l’impressione di averne viste anche in prima persona, oltre che nei libri, anche se non ricordava, ormai, quando fosse successo. Ricordava molto poco di ciò che era prima della stanza bianca, e si trattava perlopiù di una ripetizione monotona di giornate sempre uguali a loro stesse. Anche i giorni nella stanza bianca erano tutti uguali tra loro, ma in modo diverso.
- Sei patetico – sbuffò, scostandosi dal corpo più minuto di Sherlock, che non appena riuscì a muoversi, si precipitò nuovamente sulla poltrona, raggomitolandosi come un animale ferito, subito accolto dalle braccia del terzo bambino, che scoprì una schiera di aguzzi denti felini contro Jim. Strinse più forte il bambino pallido, strofinando il naso contro la sua tempia e sussurrandogli qualcosa all'orecchio. Sherlock si rintanò nel suo abbraccio, come fosse uno scudo, un rifugio.
Jim sbuffò, accorgendosi poi di avere gli occhi di Mycroft puntati addosso. Erano severi e gelidi, prematuramente stanchi, nonostante fosse giovane, ed estremamente eloquenti. Era arrabbiato, ora, anche se si vedeva solo in quei due pozzi di ghiaccio.
- James – disse il maggiore degli Holmes. - Se intendi continuare a disturbarci, vai in un'altra stanza e sfogati con il muro. Se resti qui, fai silenzio -
Jim ammutolì, e si sedette di nuovo sul pavimento, addossando la schiena alla parete.
- Bene. Victor, puoi per favore accompagnare Sherlock nell'altra camera e aiutarlo a tamponare le ferite? -
Victor, il ragazzino dalle zanne da gatto, annui e tirò gentilmente il braccio del bambino dai riccioli neri. Sherlock scivolò giù dal sedile della poltrona, lasciandosi guidare fuori dal piccolo salotto.


- Sherlock? -
Il detective sussultò, e vide John vicino a lui, che gli scuoteva piano la spalla.
- Sì, John? - gli domandò, non capendo perché sembrasse così inquieto. - Cosa c'è? -
Il dottore gli rivolse un'occhiata strana. - Eri fermo, con le pinzette sospese a mezz'aria da dieci minuti. Lo so che quando sei nel tuo Palazzo Mentale ti isoli completamente, ma non mi sembrava che fosse come al solito -
Sherlock lo fissò per qualche secondo con la bocca semi aperta. Era stati fermo per così tanto tempo? Non se ne era reso conto. Gli sembrava si aver lasciato divagare la mente solo un istante, in realtà. - Uh... io...- borbottò confuso, aggrottando le sopracciglia e voltando appena la testa verso gli strumenti che aveva ancora in mano.
- Okay, magari sono solo troppo apprensivo. Se ti ho disturbato, mi dispiace – disse Watson, dopo un sospiro profondo.
- No, mi ero solo... - Sherlock esitò. Si era solo cosa? Non ne era sicuro, era stato estremamente veloce nella sua percezione, come ogni volta che si immergeva nella propria mente. - Mi ero solo lasciato distrarre da un ricordo. Grazie -
John annuì, visibilmente imbarazzato, ed accennò ad un colpo di tosse. - Figurati. Hai scoperto qualcosa? -
L'investigatore annuì, ed indicò i denti, che aveva finito di analizzare. Erano stati scavati, ed alcuni erano danneggiati dalle sostanze chimiche. Ciononostante, Sherlock li aveva allineati nelle giuste posizioni.
- Sono tutti di una singola persona, e sono proprio tutti, due arcate dentali complete. Chiunque sia stato, ha preso ogni dente dalla bocca da cui provengono. Però non è accaduto da poco. Questi denti sono vecchi, hanno almeno una quindicina d'anni –
C’era qualcosa riguardo a dei denti. Si era lasciato distrarre dal ricordo dei denti felini di uno dei suoi simili, ma doveva essere successo mentre cercava quell’altra cosa. Non riusciva a ricollegarli a qualcosa di specifico, ma c’era stato un incidente che aveva coinvolto dei denti. Sgranò gli occhi, quando trovò l’informazione, e si lasciò sfuggire un lieve “Oh!” dalle labbra.
Calò gli occhi su John, chiedendosi come avesse fatto a non ricordare immediatamente quel fatto. C’era stato un incidente, ma non era un incidente casuale. Era stata una delle sue prime piccole indagini, non andata a buon fine. Il colpevole l’aveva scoperto in breve tempo, e il problema era proprio questo. Il colpevole era uno dei suoi conviventi dell’epoca, un ragazzo dagli occhi neri.
- Carl Powers – disse Sherlock, con aria trionfante. Il dottore gli rivolse uno sguardo perplesso. – Questi denti sono di Carl Powers! –






- Non piangere, Sherlock. Lo sai che si diverte così. Non merita le tue lacrime – bisbigliò Victor al suo orecchio, stringendolo forte, mentre il ragazzino più minuto piangeva copiosamente, il viso premuto contro la spalla del Gatto.
- Come può sentirsi bene con quelle cose che gli escono dalla schiena? – esclamò questi, sollevando il viso arrossato e rigato di lacrime, in parte già seccate sulla sua pelle diafana. – Quello che noi facciamo... è una cosa mostruosa! Siamo dei mostri! –. Affondò di più il volto contro il petto dell’altro, senza riuscire a trattenere i singhiozzi.
Victor si mordicchiò il labbro, indeciso su come comportarsi, e alla fine portò una mano ad accarezzare i morbidi ricci dell’amico. – Lui è un mostro – affermò. – Ma non è colpa sua, lo sai. Ha perso la testa dopo quello che gli hanno fatto. È un miracolo che non sia successo anche a noi -.
Lo prese per le spalle esili, sollevandolo per poterlo guardare direttamente negli occhi. – Lui è senza dubbio un mostro. Ma tu non lo sei, Sherlock. Devi credermi –
Sherlock sbuffò, asciugandosi il naso con la manica. – Lo dici solo per calmarmi. Lo so che mio fratello ti ha detto di prenderti cura di me – replicò.
Victor rise. – Me l’ha chiesto, è vero. Ma lo avrei fatto comunque -. Abbracciò di nuovo il bambino pallido, stavolta immergendo del tutto le dita tra quei soffici boccoli scuri. – Sapevo che non mi avresti creduto, Sherlock, anche se ho detto la verità sul fatto che non sei un mostro. Ma prima poi sono sicuro che qualcuno riuscirà a convincerti di questo. Qualcuno che sia un umano puro, magari. Che non abbia delle Estensioni, e a cui crederai perché di sicuro non te lo direbbe solo perché ha avuto la tua stessa esperienza –
Sherlock non rispose. Non sarebbe mai accaduto, di questo era certo lui. Quale umano avrebbe potuto dire che quelli come loro non erano mostri? Lo avrebbero pensato tutti, se avessero saputo della loro esistenza. E avrebbero avuto ragione.













*******
Note:
Mi dispiace da morire! Ci ho messo un secolo ad aggiornare, lo so, ma dovevo scrivere anche il capitolo conclusivo di un’altra fanfiction. Ora però sto scrivendo solo ed esclusivamente questa, quindi non credo ci saranno più certi ritardi colossali. O almeno spero.
Un abbraccio caloroso a tutte le persone che stanno leggendo queste righe!
Kisses<3
Sofyflora98

P.S.
Tanto per abbondare di dettagli, il Gatto, Victor Trevor, lo immagino con l'aspetto di Tom Hiddleston. Nelle scene d'infanzia di questo capitolo, provate ad immaginarvelo bambino (non so se si trovino foto di lui da piccolo, io personalmente non ho mai pensato a cercare prima di questi esatti istanti, in cui sto scrivendo queste note, quindi fate uno sforzo con la vostra fantasia).
Grazie ancora!

 

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Capitolo 9
*** Il Ragno ***


Sherlock da qualche minuto stava scrivendo freneticamente al computer, in cerca di vecchi articoli di cronaca, mentre spiegava al coinquilino cosa gli era venuto in mente.
- Carl Powers – disse – è un ragazzo che è stato trovato morto anni fa in un impianto sportivo. Vicino ad una piscina per l’esattezza –.
Gli mostrò trionfante la scansione di una prima pagina di giornale, riguardante per l’appunto il decesso di quel giovane. John si chinò a leggere. A quanto pareva, il ragazzo era morto per avvelenamento, e la sostanza tossica gli era entrata in corpo per via cutanea. Non era però mai stato scoperto il colpevole di quell’assassinio di cui nessuno era riuscito a capire la ragione. Veniva aggiunto che tutti i denti erano stati brutalmente strappati dalla sua bocca, e che non si era riusciti a trovarne nemmeno uno, in giro. Il colpevole doveva averli presi con sé, il che aveva fatto pensare a qualche maniaco collezionista di pezzi delle sue vittime.
- Qui dice che il caso è irrisolto – disse John. – E tu all’epoca eri troppo giovane per poter fare da consulente come ora. In che modo ti riguarda, quindi? –
Sherlock esitò. Era da tanto tempo che non ripensava a quell'episodio, ormai passato in secondo piano rispetto alle altre atrocità che il Ragno aveva commesso. All'epoca non aveva intuito subito che si era trattato dell'operato di quell'individuo, per cui la sua piccola indagine sul caso era stata solo uno svago, che poi aveva sconvolto la loro vita, se non addirittura quella dell'intera città.
- Conoscevo quel ragazzo di vista. Frequentavamo lo stesso istituto superiore, anche se con indirizzi differenti – mormorò, sollevò una mano, che andò ad insinuarsi tra le ciocche ribelli dei suoi ricci scuri. John ascoltava con pacata tranquillità, come la maggior parte delle volte. - La sua morte era stata senza dubbio un assassinio,  ma nessuno era riuscito a scoprire il  colpevole. Non avevano pensato che tra i suoi compagni di scuola potesse esserci un individuo così violento e che provasse un tale rancore nei suoi confronti. Ovviamente si sbagliavano. Carl Powers non era il più simpatico dei ragazzi, e aveva deciso di prendersela con la persona sbagliata -
Lui aveva trovato molto bizzarro che i suoi denti mancassero. L'aveva subito fatto notare ai poliziotti che stavano indagando sul caso quel particolare, ma loro non ci avevano dato molta importanza. In effetti non significava niente, di per sé. Non c'era una ragione specifica per cui l'assassino aveva compiuto quel gesto. L'aveva però aiutato a scoprire chi fosse, e a quel punto aveva anche capito che non poteva dir nulla alla polizia.
- Dalle informazioni che avevo raccolto dagli altri studenti, avevo scoperto che aveva maltrattato o preso in giro molte persone, ma niente di così grave da scatenare un odio del genere in una persona normale. C'era però un individuo particolarmente... instabile, tra quelli della sua classe -
Era riuscito a delineare il carattere dell'assassino, e la conclusione a cui era giunto, all'epoca, gli aveva fatto gelare il sangue nelle vene.
Aveva sperato che fosse solo una coincidenza, e che la sua fosse solo una teoria tra le varie possibilità che aveva ipotizzato. Era quasi riuscito a convincersene, fino a che per sicurezza non aveva perquisito la casa dove loro vivevano, mentre era solo nell'edificio. E aveva trovato un mucchietto di denti dentro una scatoletta vuota di chewing gum.
- Quella persona era in effetti l'assassino, ma non c'erano prove contro di lui, e la polizia mi avrebbe riso dietro se avessi detto loro la verità, nel migliore dei casi. Non ho potuto dir loro nulla, ed è sempre rimasto impunito -
Dopo aver trovato quella scatoletta di denti insanguinati, Sherlock, colto dal panico, l'aveva rimessa dove l'aveva trovata. Per quasi una settimana si era chiesto se dirlo o no a suo fratello, consapevole che quello avrebbe sconvolto tutto. E aveva avuto ragione a crederlo, perché infatti tutto era stato stravolto, quando finalmente si era deciso a raccontare ciò che aveva scoperto a Mycroft.
Il maggiore degli Holmes, la sera stessa, aveva voluto parlare con tutti loro. Aveva esposto la situazione, e aveva chiesto spiegazioni a quello che in futuro sarebbe stato il Ragno. Era consapevole che difficilmente Sherlock poteva essersi sbagliato, e che i fatti erano limpidi come l'acqua, ma non poteva agire sconsideratamente. Il ragazzo dagli occhi neri, comunque, non aveva negato le sue azioni, addirittura confermò il tutto senza battere ciglio, divertito all'idea di aver ucciso un coetaneo.
C'erano state urla, confusione e molti graffi per tutti loro. Alla fine tutte e quattro le Creature che convivevano in quel piccolo appartamento avevano perso il controllo delle loro Estensioni, e ci furono artigli e denti affilati contro zampe coriacee e una coda a frusta, due paia di occhi iridescenti ed ali vibranti.
- Credo proprio che sia stato lui a farci avere quelle minacce disegnate, ad aver messo quei cadaveri davanti al nostro appartamento e i denti al suo interno -
Il Ragno, alla fine, se ne era andato dalla casa la sera stessa. Loro l'avevano abbandonata poco dopo. Fu quell'avvenimento a dare inizio alla spaccatura che si era creata tra le Creature, a far nascere le due fazioni. Coloro che avevano abbandonato ogni remora sull'etica e sulla morale, considerando addirittura accettabile l'omicidio degli umani puri, erano diventati la fazione di sotto, a seguito del Ragno. Gli altri, dopo essere stati raccolti ed organizzati da Mycroft Holmes, era diventati la fazione di sopra, formata da coloro che intendevano convivere con gli umani senza dare nell'occhio e senza far loro del male, come avrebbero fatto se non fossero mai diventati Creature.
- Ora, se lui continua a mandare messaggi, significa che vuole avere un contatto con noi, che ha qualcosa da dirci. Ignorarlo potrebbe farlo arrabbiare... -
- Sherlock – lo interruppe il dottore. Il detective calò lo sguardo sulla mano che John gli aveva posato sul braccio. - So che cosa vuoi fare. Hai intenzione di incontrarlo, e non provare a dire di no – aggiunse quando l'altro fece per ribattere. - Non devi assolutamente farlo. Per nessuna ragione, chiaro? -
Sherlock lo fissò con sorpresa e un lieve disappunto. - Quello che stai dicendo non... -
- Zitto - lo interruppe di nuovo. - Se come dici questo criminale non è come gli altri, potrebbe ucciderti a vista senza che tu possa far nulla. Ti ho già detto che non voglio che tu muoia, quindi non andare ad esporti eccessivamente senza sapere ancora quali sono le sue intenzioni -
Oh, ma Sherlock sapeva quali erano le sue intenzioni. Non che potesse dirlo a John, non ancora, perlomeno. Il detective si ritrovò combattuto tra il portare avanti le indagini e lo scontro con il Ragno oppure dare retta all'istinto protettivo del suo compagno. Coinquilino. Collega. Quello che era, insomma.
Passò un paio di minuti buoni a scrutare il viso dell'altro, indeciso sul da farsi. Per tutto il tempo, John sostenne il suo sguardo senza battere ciglio, un cipiglio severo ad indurirgli lievemente i lineamenti.
Sherlock sospirò, infine. - D'accordo, non lo farò – disse.
Il viso di John si addolcì in un'espressione sollevata. Sembrava davvero così preoccupato per la sua incolumità, pensò l'investigatore, che era quasi un peccato avergli mentito.
 
 
“ A mezzanotte, alla piscina dove hai ucciso Carl Powers. SH”
Jim sorrise tra sé e sé, rigirandosi il cellulare tra le dita. Aveva fatto bene a dare a Sherlock quel cellulare, assieme ai denti, con il suo numero inserito. Sapeva che il suo ragazzo preferito, la sua Creatura irregolare, non avrebbe esitato un istante a cogliere la sua sfida. Era stato piuttosto bravo nello scrivere quei messaggi in codice così da spingerlo a volerlo incontrare di nuovo.
La principale tra le sue priorità, fino a qualche mese prima, era di fare in modo che Sherlock riuscisse a impedire a Mycroft Holmes di mettergli i bastone fra le ruote. L'entrata nel gioco di quell'umano puro, John Watson, era stato, però, un interessante sviluppo. Gli avrebbe permesso di giocare di nuovo con il Winged Watcher, la Creatura alata unica nel suo genere che aveva creato tanti problemi alla sua fazione qualche anno prima, per poi decidere di staccarsi dallo scontro dei due gruppi, anche se in effetti si era tolto solo dagli scontri diretti. C'era stato un incidente che aveva influito molto su questa sua decisione, in verità, e Jim quasi si dispiaceva di non vederlo più dare sfogo alla tempesta che aveva dentro.
Però John Watson aveva cambiato le cose. Facendo leva su di lui e su i pochi individui a cui Sherlock aveva permesso di avvicinarglisi, dopo il fatidico incidente, sarebbe riuscito a tirarlo in gioco nuovamente, e poterlo combattere sul serio. Distruggerlo definitivamente, vederlo bruciare in tutta la sua vacillante bellezza. O, meglio ancora, piegarlo al suo volere, sottometterlo a lui ed averlo nella sua fazione. Non sapeva con certezza se desiderava maggiormente la sua morte o lui stesso.
Winged Watcher era il nome che gli era stato dato; l'Osservatore Alato. O perlomeno, questo era il nome ufficiale scritto  negli stupidi registri del maggiore degli Holmes. Veniva più spesso chiamato semplicemente WW, oppure Libellula.
Una volta avevano vissuto assieme, negli anni successivi alla fuga dalla stanza bianca. All'epoca, quando le fazioni ancora non esistevano e le Creature erano perlopiù disperse o organizzate in piccoli gruppi di tre o quattro persone, non erano a conoscenza delle particolarità degli altri esseri come loro, e non sapevano quanto peculiari fossero le loro Estensioni. Le zampe di ragno di Jim ero rarissime tra quelli come loro, e in nessuno erano sviluppate, forti e integrate con il corpo originario come in lui. Era diventato una specie di celebrità tra le Creature, per questo. Ma Sherlock, lui era unico. Nessun aveva le ali. Non perché non avessero provato a metterle a nessun altro, ma perché i corpi delle altre cavie non erano riusciti ad adattarsi ad esse, e si erano distrutti in poche ore. Sherlock era l'unico sopravvissuto della categoria degli alati, per questo così tante persone avevano sempre voluto avvicinarglisi, averlo per sé.
C'era qualcosa in lui che affascinava le persone, specialmente quelle come loro. Forse era la fragilità, sia emotiva che delle ali, contrapposta al suo carattere intraprendente e determinato. O magari lo sguardo magnetico e indagatore che faceva gelare sul posto, ancor di più quando lo faceva con gli occhi iridescenti. E non era tutto, per Jim. Lui lo conosceva piuttosto bene, e aveva avuto modo di studiare lati di lui che non avevano fatto altro che rendere sempre più bruciante il suo interesse. Solo lui sapeva che il modo in cui Sherlock reagiva a traumi e ferite non somigliava per nulla a quello ordinario, che poteva essere addirittura l'esatto contrario di ciò che si potrebbe prevedere. Poteva reggere a pressioni e dolori che avrebbero fatto capitolare il più coraggioso dei soldati, e invece cadere sotto colpi minuscoli.
Sospirò deliziato al pensiero che avrebbe rivisto il suo adorato avversario di lì a poco.
Tornò a guardare il cellulare, e rispose al messaggio ricevuto.
“Non vedo l'ora, sexy”
 
 
Mentre John era tornato a Baker Street già da un paio d'ore, Sherlock era rimasto nel laboratorio fino a sera. Aveva detto all'amico di non aspettarlo alzato, e che probabilmente avrebbe svolto qualche piccola indagine non troppo rischiosa riguardo i tre cadaveri trovati di fronte al loro appartamento, tanto per farsi un'idea più chiara su cosa fosse accaduto. Benché riluttante, John gli aveva detto che andava bene, e, cause fame e stanchezza, aveva fatto ritorno al 221B per l'ora di cena.
Il detective si sentiva un po' in colpa per la menzogna che gli aveva raccontato e per averlo lasciato andare a casa tranquillo quando in realtà lui aveva intenzione di fare proprio ciò che l'altro gli aveva raccomandato di non fare, ovvero di incontrare l'assassino di Carl Powers, che Sherlock conosceva come Ragno.
Aveva passato il tempo che rimaneva prima dell'appuntamento a meditare, a pensare su come comportarsi una volta di fronte a Jim. Al loro ultimo incontro era stato colto alla sprovvista, e il Ragno l'aveva ferito ripetutamente, lasciandolo tremare per terra, dove John l'aveva poi trovato la mattina successiva.
Quando mancò un'ora alla mezzanotte, si rimise il cappotto, ed uscì, diretto al luogo dell'assassinio del ragazzo.
Passò il viaggio in silenzio religioso, gli unici rumori da lui prodotti erano quelli del suo respiro e del frusciare dei vestiti.
Come aveva previsto, la struttura era vuota. Nessun era più lì a quell'ora, nemmeno gli addetti alle pulizie. Si chiese se anche all'epoca, il Ragno non si fosse servito di quei momenti morti per uccidere lo sventurato ragazzo che aveva suscitato le sue ire.
Quando entrò nella sala dove era stata costruita la piscina, trovò l'ambiente illuminato. Il suo avversario doveva essere già arrivato, ed aver preparato il luogo come per lui più consono e conveniente.
- Benvenuto – l’esclamazione improvvisa, amplificata dall’eco nell’ambiente ampio, fece sobbalzare l’investigatore. Si girò di scatto, incredulo. Si era aspettato un’entrata teatrale da parte di Jim Moriarty, ma non di sentire quella voce, lì, in quel momento.
Era uscito da uno degli spogliatoi, mentre lui si guardava dietro le spalle.
- John… - boccheggiò.
Sherlock dovette trattenersi, trattenersi sul serio dall’emettere un gemito di sorpresa e paura, e dal corrergli vicino per vedere se gli fosse stato fatto qualcosa. Sembrava avesse un’auricolare nell’orecchio, e gli erano state messe addosso diverse quantità di esplosivo.
- Questo non te l’aspettavi, ammettilo – disse ancora il dottore.
Sherlock si diede dell’idiota. Dopo le minacce che avevano ricevuto così recentemente, non avrebbe dovuto separarsi da lui, non subito dopo aver detto al Ragno di incontrarsi. Era ovvio che avrebbe giocato qualche brutto tiro, talmente ovvio che non ci aveva neanche pensato.
Moriarty si fece avanti dall’altro lato della piscina, a debita distanza da entrambi. – Ciao, Sherlock. Te la stai passando bene, ultimamente? Credo proprio di sì, dato che ti sei trovato un nuovo compagno d’avventure –
Al loro ultimo incontro, nel Saint James’s Park, non aveva potuto vederlo bene per la scarsità di luce, ed era passato diverso tempo da quando si era visti prima di quell’occasione. Ciononostante, Jim era proprio come lo ricordava: pallido, con un sorriso storto sempre in volto, il ghigno di chi architetta le sofferenze altrui come svago, e quegli occhi neri come la pece, dallo sguardo un po’ morto, un po’ freddo ed un po’ giocoso.
Se ne stava sul bordo della piscina, le mani dietro la schiena, camminando lungo la striscia di mattonelle di colore diverso che delimitavano il confine tra il pavimento e l’acqua.
- Jim. Vedo che continui ad avere un’ossessione per lo spiare le vite degli altri – disse piano Sherlock. Portò una mano alla tasca interna della giacca, dove teneva la pistola. Sfortunatamente, le sue Estensioni non servivano praticamente a nulla negli scontri fisici, e non intendeva comunque sfoderarle di fronte a John.
Moriarty gli sorrise strafottente, avvicinandosi cautamente al dottore. – Già, e spero tu mi possa perdonare per questo. Ma davvero non so resistere, quando vedo i giocattoli altrui lasciati soli soletti, in balia delle intemperie –
Sherlock fece qualche passo avanti con circospezione, guardando rapidamente ai vari lati della stanza per vedere se altri membri della fazione di sotto erano lì presenti, a fare da guardie del corpo al Ragno. Non ne vide, ma era possibilissimo che fossero semplicemente nascosti, per cui decise di non fare mosse azzardate a meno che non venisse attaccato direttamente.
- D’accordo, seguivi le nostre mosse. E sei stato tu a indirizzarmi nella casa vuota, per vedere quei disegni sul pavimento, e ad aver messo tre cadaveri davanti al mio appartamento. Perché? – disse, cercando di mantenere un tono di voce fermo.
Moriarty roteò gli occhi verso l’alto, sbuffando vistosamente. – Perché mi è stato chiesto se per favore posso non ucciderti, tesoro mio! -. Scoppiò in una breve risata priva di gioia. – Non so se l’avrei fatto, anche se non mi fosse stata posta questa richiesta, ma un mio, ah… nuovo sottoposto, ha un gran bisogno di te vivo –
Sherlock aggrottò le sopracciglia. – Un nuovo…? Oh! -. Certo, si disse. Il professore scomparso del laboratorio di Baskerville, doveva trattarsi di lui. Non gli veniva in mente nessun altro che avrebbe potuto aver interesse a tenerlo in vita, tra i possibili collaboratori di Moriarty. – Il professor Stapleton – disse infatti ad alta voce. – Immagino che si sia trasferito nell’area di vostra giurisdizione, dopo essere sparito dalla circolazione –
Moriarty fischio con ammirazione. – Sei sempre così acuto ed intelligente, caro Sherlock! Non sai cosa darei per averti nella mia fazione, ma tu hai la testa così dura! –
- Credo che non saperlo sia solo un vantaggio, Moriarty. Come mai hai preso John Watson? – il suo sguardò guizzò un momento verso il compagno, che, reggeva stoicamente la tensione, senza aver mosso un muscolo. Persino la sua espressione pareva ferma.
Un vero soldato si ritrovò a pensare il detective.
- Perché sembra che tu non voglia prestare attenzione ai messaggi che ti ho fatto avere! – esclamò Moriarty, apparentemente esasperato. – Sono entrato in quel vecchio appartamento polveroso dove vivevamo una volta per far fare quel disegno sul pavimento, ma tu niente. Ho fatto uccidere tre persone, e ti ho riportato alla memoria l’omicidio di quello stupido arrogantello di Carl Powers, e tu niente. Cosa devo fare per farti capire che devi smetterla di indagare sugli assassinii che noi compiamo, di portare a tuo fratello le informazioni su di noi che riesci ad ottenere grazie ai tuoi contatti nella mia fazione? Sei d’intralcio Sherlock, per cui ho pensato che rendere un po’ più esplicita la minaccia di uccidere quest’umano che sembra piacerti così tanto ti avrebbe fatto bene! –
L’attenzione del criminale fu catturata dall’espressione di confusione che si era improvvisamente dipinta sul volto di Watson. – Che significa “quest’umano”? – chiese il dottore, corrugando le sopracciglia.
Sherlock serrò gli occhi, trattenendo il respiro.
Moriarty dapprima sembrò incredulo, e poi scoppiò a ridere. – Non dirmi che non gli hai detto ancora nulla! Ma vivete insieme da mesi, ormai, non posso credere che tu sia riuscito a tenergli nascoste tutte le volte in cui hai preso il fluido per rinvigorire le Estensioni, o in cui le hai estratte per sgranchirle -. Vide lo sguardo sempre più perplesso del dottore, e quello agghiacciato del detective, ed emise un altro risolino.
- Ma allora è proprio all’oscuro di tutto! Cavoli, non sarai ancora sotto shock per l’incidente di qualche anno fa, spero! Mi sento quasi in colpa per avertelo citato su uno degli ultimi messaggi che ti ho lasciato, se è così! – disse, nonostante il suo sorriso perfido lo facesse sembrare tutto fuorché dispiaciuto.
Il viso di Sherlock, ora, mostrava un'ostilità palpabile. Lo sguardo che stava rivolgendo al Ragno era talmente freddo e ricolmo di ribrezzo che John quasi temette di vedere l'omicida morire lì sul posto da un momento all'altro senza che nessuno si muovesse. Non capiva cosa significassero quelle allusioni a delle fazioni, o il definire lui “quell'umano”, ma Moriarty doveva chiaramente aver fatto parola di argomento che per il detective doveva essere molto delicato, per avergli causato una tale reazione.
Moriarty, a quella vista, fece un broncio infantile, sbuffando rumorosamente. - Questo mi ferisce, Sherlock. Se è questa la tua risposta, non vedo proprio perché non dovrei ucciderti, sai? In fondo, non devi essere per forza vivo, per essere d'aiuto al mio nuovo collaboratore! -
- Sarà meglio che il tuo subordinato... pardon, collaboratore, stia ben lontano da me. Ci sarà molta gente tutt'altro che felice, se lui riuscirà a creare altri come noi. Se scoprisse qual è la mia “peculiarità”, sarebbe il caos, e lo sai bene. Quell'uomo non ha idea di cosa sta facendo -
Il criminale alzò gli occhi al cielo. - Certo che sarà il caos, è proprio questo il punto! - esclamò teatralmente. Tornò ad abbassare lo sguardo su Sherlock. - Questa è la disgrazia che ci è capitata, e non possiamo certo vivere da reclusi o stare ad autocommiserarci, se non addirittura... - e scoccò un sorrisetto perfido verso il detective – darci ad un profondo odio verso noi stessi. Poi, dopo aver visto quello che possono arrivare a fare gli umani, non vedo come voi possiate vivere con loro senza provare il desiderio di ucciderli -. sospirò profondamente, come se il pensiero lo facesse dispiacere.
- Non è terribilmente noioso? Avere la capacità di rovesciare il mondo, e tenerla nascosta, rinchiusa? Lasciati andare e basta, Sherlock! -. S'interruppe di nuovo, come in attesa di una risposta, che però non venne mai.
- Bah! - sbuffò di nuovo. - Se solo tu fossi stato nella mia fazione, non sai quanto ti saresti potuto divertire. Invece, sei con quei bell'imbusti tutti regole e forma. Non importa. Per oggi è sufficiente che tu la pianti di intralciare le mie azioni -
Sherlock fece lentamente scivolare gli occhi da Moriarty a John, una seconda volta. Non aveva idea di cosa potesse pensare, dopo tutto ciò che il Ragno aveva detto, ma sperava davvero che Jim “Jim? Lo chiami ancora Jim?” non aggiungesse altro, o per lui sarebbe diventato ancora più difficile spiegargli la situazione in cui aveva finito per essere coinvolto “Lui? Sei tu ad esserti fatto coinvolgere, Sherlock!”. Comunque, si rese conto, se fossero riusciti ad uscire di lì vivi, gli avrebbe dovuto raccontare ogni cosa comunque “E noi sappiamo perché non l'hai già fatto, vero, Sherlock?”.
- “Quelli come voi”? -
Sherlock serrò gli occhi, improvvisamente colpito da un attacco di nausea. Per favore, John, stai zitto!
Era ovvio che Moriarty non aspettava altro.
Quasi a non voler deludere la previsione dell’investigatore, il Ragno girò la testa verso l’ex soldato, e sembrava quasi che lo stesse ringraziando per aver posto quella domanda. Ma non poteva, pensò orripilato Sherlock, non poteva davvero considerare di dirlo a qualcuno così!
No, si corresse, lui era completamente pazzo. Poteva farlo eccome, anzi ne traeva divertimento. Per lui era piacevole vedere le espressioni terrorizzate degli umani, quando capitava loro di vederli nella loro vera forma. Non avrebbe esitato due volte a…
Un familiare rumore di carta lacerata spezzò il filo dei suoi pensieri. Alzò a malapena lo sguardo, consapevole del fatto che non sarebbe riuscito ad impedirglielo, se anche ci avesse provato.
Otto lunghe, coriacee zampe di ragno nere avevano fatto capolino da dietro le spalle di Moriarty, attraverso le fessure che aveva appositamente fatto sui propri vestiti per non strapparli, e che aveva sempre fatto da che Sherlock ricordava.
E poi c’era la coda, quella coda lucida e acuminata, che guizzava  a piccoli scatti, di cui aveva saggiato su pelle l’affilatura più di una volta.
Sentì John trattenere violentemente il respiro. Si aspettava già delle urla spaventate, o qualcosa del genere. A volte, la gente aveva provato ad aggredirli, dallo sgomento e dal panico. Invece non sentì null’altro che quel respiro.
Osò guardare verso di lui. Aveva gli occhi sgranati e le membra irrigidite, ma sembrava non aver perso il controllo di sé.
Notevole. Notevole? Che importanza aveva?!
- Quelli come noi, John Watson – disse tranquillamente Moriarty, facendo sgranchire le zampe. – Non costringermi a dirti cosa significa questo, perché credo che tu sia abbastanza sveglio da capirlo da solo. Ora, Sherlock – tornò di nuovo a rivolgersi al detective, che non aveva mosso un muscolo da quando aveva estratto le Estensioni, temendo che potesse attaccarlo da un momento all’altro.
- Ora, Sherlock, ti consiglio di promettere e giurare di smetterla di essere una tale spina nel fianco. Come alternativa, il tuo amico muore, qui ed ora. Tua è la scelta –
Il consulente investigativo aprì la bocca, senza dir nulla per qualche istante. – Non puoi seriamente aspettarti una cosa del genere! – esclamò, incredulo. – Se tu lo facessi, sarebbe un’aperta dichiarazione di guerra alla fazione di sopra. Mycroft non vede l’ora di poterti dare la caccia apertamente, e lo sai bene –
Moriarty alzò le spalle, e fece un ulteriore passo verso di lui. – Non m’interessa, né di tuo fratello né del piccolo esercito che mi manderebbe contro. Tra non troppo tempo potremo sopraffarvi, ne abbiamo gli strumenti. Abbiamo già quasi eliminato il problema delle uccisioni, ora è quasi impossibile per gli umani farle ricondurre a noi –
Gli era a poco più di tre metri di distanza, ora.
- Allora, cosa mi rispondi? –
Un altro rumore spezzò nuovamente il silenzio, poco dopo che il Ragno ebbe pronunciato quelle parole. Si trattava di uno sparo, proveniente da un punto imprecisato dall’altro lato della piscina.
Tutti e tre fecero saettare lo sguardo istantaneamente in quella direzione. Da uno degli spogliatoi, dove la luce era spenta, s’intravedeva la sagoma di un uomo, che però non si fece avanti.
Il proiettile aveva sfiorato il braccio di Moriarty, che ora teneva la mano stretta su una piccola ferita qualche centimetro sotto la spalla, sibilando di rabbia. Scoccò un’occhiata ricolma d’odio e disgusto verso la figura nascosta, prima di allontanarsi lentamente da Sherlock.
- Sei fortunato ad avere un randagio a farti da guardia del corpo – commentò malevolmente. – Per questa sera ve ne potete andare, ma sappi che la prossima volta che ci parleremo, mi assicurerò che nessun estraneo possa intervenire a salvare la sua principessa in difficoltà –
Camminando all’indietro, giunse all’uscita, dove si fermò ancora un attimo. – Ci vediamo, Sherlock Holmes – disse prima di andarsene, nuovamente disinvolto.
Prima di sciogliere la tensione delle membra, Sherlock attese di vederlo sparire del tutto, e anche allora diede un’occhiata attorno per assicurarsi che non spuntasse di nuovo all’improvviso.
A quel punto ruotò il capo verso la figura che era rimasta nell’ombra dello spogliatoio laterale. L’uomo sembrò salutarlo. Sherlock mormorò un “grazie” a fior di labbra, ricevendo un cenno del capo in risposta.
Tornò a rivolgere la sua attenzione a John. Gli fu vicino in un lampo, e con un violento strattone gli strappò di dosso gli esplosivi.
- Stai bene? – gli domandò, il fiato corto per l’ansia, mentre lanciava lontano l’oggetto che gli aveva procurato tanta ansia.
- Sì, direi di sì. Dio… -
Sherlock non gli lasciò il tempo di calmarsi, e gli afferrò repentinamente la mano, trascinandolo fuori dall’impianto sportivo. – Sherlock, cosa…? –
Il detective ignorò quel tentativo di ricevere spiegazioni, fermandosi di colpo solo quando furono sul ciglio della strada, dove fece saettare lo sguardo in cerca di un taxi. Il dottore si liberò dalla presa con uno strattone. – Okay, fermo! Non puoi aspettarti che venga via così dopo che un uomo con parti del corpo… animali, ha provato a farci saltare in aria! –
Sherlock spalancò la bocca, ancora una volta senza sapere bene cosa dire. Aveva sperato di riuscire a tornare a Baker Street, almeno, prima di dover dispensare spiegazioni. Quella era la parte difficile, e non aveva ancora trovato le parole, naturalmente.
- Cosa diavolo era quell’uomo? Dimmi almeno questo prima di tornare a casa! –
Prese un respiro, prima di dirlo. Non sapeva se avrebbe sopportato una reazione come quella a cui aveva assistito anni prima.
- È una Creatura. È questo che sono quegli esseri –
 
 
 
 
 
 
 
 
 
******
 
Note:
Credo di aver oltrepassato ogni limite. Avevo detto che ora avrei aggiornato più frequentemente, e poi ci metto un’eternità a scrivere il capitolo. Non se nemmeno cosa dire, perché non ho idea di cosa mi ci abbia fatto impiegare più di un mese. Forse non mi venivano le parole per descrivere. Non ricordo bene neanch’io. In ogni caso mi dispiace.
Kisses
Sofyflora98

 

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Capitolo 10
*** Creatura ***


Quando Moriarty aveva estratto quelle parti animali dal corpo, John  aveva intuito che stava assistendo alla manifestazione di una Creatura nella sua vera forma. Aveva fatto sì che Sherlock glielo dicesse esplicitamente più per confermare ciò che già gli era chiaro.
Tutti gli strani comportamenti, le conoscenze insolitamente profonde che il detective aveva quando le Creature erano l'argomento di conversazione, avevano portato l'ex soldato a pensare che fosse in qualche modo coinvolto con quegli esseri ancora quasi del tutto sconosciuti alla popolazione. Si era anche immaginato che potessero esserci delle Creature tra i suoi nemici, che magari lui avesse svolto indagini sul loro conto scatenando la loro ira.
Le parole pronunciate dall'assassino dagli occhi neri, però, avevano posto un dubbio nella sua mente. “Quelli come noi” aveva detto, poco prima di farsi uscire quella agghiaccianti zampe coriacee dalla schiena. Ora con questo poteva intendere due cose, a parere di Watson. La prima era che con “come noi” intendesse due persone dotate di un'intelligenza fuori dalla norma. La seconda, quella che temeva potesse essere la verità, era che Sherlock, come lui, fosse una Creatura.
Basandosi sui vari accenni, sulle mezze frasi che aveva proferito, sembrava che il criminale volesse far intendere proprio questo. E questo era un problema non indifferente. Una strana piega presa dai fatti che, se si fosse rivelata reale, avrebbe avuto delle conseguenze che John non era in grado di immaginare.
Come avrebbe reagito, se per caso quello che Moriarty voleva far supporre si fosse rivelato fondato? Non ne aveva la minima idea.
A questo pensava John, mentre erano seduti nel taxi che li stava riportando a Baker Street. Per fortuna i taxi lavoravano anche di notte.
Sbirciò di lato, verso il coinquilino, che da quando erano salito aveva accuratamente evitato di guardarlo, scegliendo invece di volgere gli occhi fuori dal finestrino.
Per non lambiccarsi troppo su ciò che quasi sicuramente sarebbe venuto a sapere entro poco, si chiese chi fosse l'uomo che li aveva tolti da quella situazione sparando a Moriarty, ma che non si era fatto vedere. Dallo sguardo che Sherlock aveva rivolto verso la direzione dove si trovava quel misterioso individuo, sembrava che il detective sapesse di chi si trattasse.
- Siamo arrivati, John -
Scesero dal veicolo, e dopo averlo pagato, rientrarono nel loro appartamento.
Sherlock camminava davanti a lui, con insolita lentezza, quasi esitazione. Salirono le scale, e quando furono nel soggiorno, Sherlock gli fece cenno di sedersi. Gli tremavano le mani, notò il dottore.
Si adagiò piano sulla sua poltrona, aspettandosi che Sherlock occupasse la propria. Si sbagliava: il detective rimase in piedi, di fronte a lui. Era nervoso, molto nervoso. Quasi spaventato. Stava respirando profondamente, come un ragazzino che cercava di calmarsi prima di confessare qualcosa ai genitori.
Ad un certo punto sembrò ridestarsi, farsi coraggio d’improvviso, e strinse i pugni per fermare il tremore ininterrotto delle mani.
- Credo che sarebbe più semplice se tu cominciassi facendomi delle domande specifiche – disse, una volta recuperato almeno in apparenza un certo controllo di sé.
John annuì, cercando di sembrare il più tranquillo possibile. Erano poche le cose, per quel che sapeva, in grado di scuotere in quel modo l’amico, e non voleva metterlo più in difficoltà di quanto già non fosse. – Cosa sono le Creature, con esattezza? –
Sherlock fremette appena: doveva essersi aspettato che cominciasse con quel quesito.
- Sono esperimenti di laboratorio -. John aggrottò le sopracciglia, e stava già aprendo la bocca per dire non sapeva nemmeno lui cosa, quando l’altro alzò una mano per fermarlo prima che iniziasse.
- Diversi anni fa, c’era un gruppo di ricercatori che facevano esperimenti sulla genetica. Erano diretti da un professore, Jack Stapleton, che nei suoi studi aveva ottenuto notevoli risultati su quel campo. Avevano un laboratorio a Baskerville -. Fece una breve pausa, prima di ricominciare.
– Per farla breve, ad un certo punto hanno iniziato a fare test e sperimentazioni irregolari, che miravano all’attaccare agli animali parti del corpo di altri, e di riuscire a farle integrare con il loro organismo. Dopo i primi piccoli successi, hanno pensato di eseguire queste prove anche sugli esseri umani. Si trattava per la maggior parte di malviventi, senzatetto e bambini. Avevano persino degli accordi con organizzazioni criminali per ottenere cavie in quantità. La maggior parte erano molto giovani –
John represse un brivido.
Se quello che diceva era vero, era più che orribile. Era mostruoso.
- All’inizio c’era voluto del tempo per far funzionare gli stessi principi anche sugli umani, ma alla fine ci sono riusciti. Le prime persone sono vissute poco tempo, dopo l’impianto dei pezzi estranei, ma anche questo è stato risolto. Hanno imparato a modificare le cosiddette Estensioni perché fosse più compatibili con i corpi, e anche se non lo sono mai diventate completamente, si sono fuse del tutto agli organismi delle cavie, e queste hanno smesso di morire –
- Una volta assimilate nelle proprie membra, però, hanno imparato a muoverle ed usarle come qualsiasi altro arto. Alla fine, alcuni sono riusciti a liberarsi dalle prigioni in cui erano tenuti, ed hanno aperto le gabbie anche agli altri. Buona parte di loro aveva perso la testa dal dolore e dal trauma di quello che era loro accaduto, ed hanno scaricato la loro rabbia, una volta liberi. Hanno massacrato tutti i ricercatori, e sono usciti allo scoperto. Questi che sono fuggiti, sono le Creature –
Si fermò, in attesa che John continuasse a chiedergli ciò che voleva sapere. Sbirciò l’espressione del dottore, e la scoprì turbata. Più che naturale. Aveva visto reazioni molto più forti da chi aveva sentito il racconto su come erano nate le Creature e su cosa fossero realmente.
L’idea che dei ragazzini fossero stati usati come cavie e trasformati in mostri, avrebbe potuto far perdere la testa a chiunque. Di sicuro, se non fosse stato parte di quelle cavie, si disse il detective, non avrebbe mai sviluppato quell’attitudine al distacco che gli permetteva, dopo anni da quegli avvenimenti, di restare lucido ed equilibrato. Se gli fosse stata narrata quella storia come estraneo, sarebbe stato orripilato anche lui. Ma, sapeva fin troppo bene, dopo aver subito dei traumi, o ci si spezza o si diventa insensibili.
- Come mai uccidono le persone? –
Ah, eccola, la domanda problematica.
- Le loro Estensioni, pur essendo ormai parte del loro corpo, hanno bisogno di molta energia, e spesso le cellule non riescono ad assorbire quella che viene dal cibo. A questo scopo, nel laboratorio avevano sviluppato una sostanza che permette alle cellule delle Estensioni di assimilare i nutrienti. In un certo senso inganna il corpo. Contemporaneamente quel fluido stesso dà energia alle Estensioni, dato che ne necessitano di più che il resto del corpo. Inoltre serve anche a stabilizzare alcune piccole disfunzioni, o a stimolare il sistema di riparazione dei tessuti. Però, dopo la fuga, per del tempo sono stati nel caos, e le scorte di quella sostanza che avevano rubato dal laboratorio erano terminate. Le Creature avevano ad un certo punto, però, scoperto che possono assorbire nutrienti ed energia direttamente dai corpi degli esseri umani, anche se questo può causare la loro morte. Non è ancora molto chiaro come funzioni, sembra si tratti di alcune reazioni chimiche che avvengono con il contatto, possibili dopo qualche piccola mutazione genetica forzata. Il loro intero corpo è dovuto cambiare, per sopravvivere dopo l’impianto –
- Quando di questa possibilità si è diffusa la conoscenza, c’è stata una spaccatura tra le Creature, che nel frattempo avevano cominciato a raggrupparsi e riadattarsi alla vita il più normale possibile. Una parte di loro ha deciso di ricreare il fluido che assumevano precedentemente e di svilupparlo, l’altra metà invece ha preferito abbandonare qualsiasi precedente principio morale, uccidere gli umani per il proprio sostentamento e dare vita ad una vera e propria rete criminale. All’inizio si trattava di uccisioni occasionali e sporadiche, ma quattro anni fa hanno iniziato a farlo in modo intensivo, come tu ben saprai –
- Però ora non si sente più molto di uccisioni da parte di Creature. Come mai? – chiese ancora Watson.
- Perché hanno da poco scoperto che possono fare la stessa operazione anche con umani morti da poco. Ora, prima li uccidono in modi normali, e pochi secondi dopo si accingono a trasferire l’energia chimica dai cadaveri a propri corpi –
John fece una smorfia schifata.
- Non so con precisione come hanno fatto a dividersi con quella rapidità, perché in effetti sono stati estremamente veloci a schierarsi, una volta che è stata posta la questione, ma al momento ci sono due fazioni ben definite, sempre sul punto di farsi guerra l’una con l’altra, ed entrambe hanno un capo. Moriarty è uno dei due –
Silenzio, di nuovo.
Sherlock scoprì che preferiva parlare, anche se quello che stava raccontando era qualcosa che si era trovato a raccontare a qualcuno di ignaro pochissime volte in vita sua, e soprattutto anche se stava per arrivare al punto cruciale della situazione.
Così, però, non sapeva cosa potesse star pensando l’altro uomo, e si sentiva quasi bruciare dall’ansia, sotto al suo sguardo grave e turbato.
- Come sei coinvolto in tutto questo? – fu la domanda seguente. – Nessuno sa niente delle Creature, dopo quattro anni di tentativi, e tu ne parli come se avessi visto tutto questo accadere con i tuoi occhi. Ho il sospetto che sia così, effettivamente, ma vorrei sentirlo dire da te, e vorrei sapere con precisione che ruolo hai in questa faccenda, Sherlock. Questi esseri, o almeno parte di essi da quel che mi hai appena detto, sono pericolosi, e ho bisogno di sapere chi vuole ucciderti e perché –
- Certo – disse Sherlock, abbassando lo sguardo.
John rimase in attesa, studiando il disagio e l'indecisione che si alternavano sul viso dell'altro.
- John... - riprese alla fine il più giovane. - Il giorno in cui ci siamo incontrati, tu avevi medicato le mie ferite. Credo che tu abbia notato le due... cicatrici che ho sulla schiena, all'altezza delle scapole -
Il dottore annuì. - Sì, le avevo notate. Mi sono sempre chiesto come te le fossi procurate, visto che erano molto grandi e quasi perfettamente speculari -
- Non me le sono procurate. Non è stato un incidente, né è successo mentre lavoravo su un caso. Me le hanno procurate, piuttosto -. Sherlock esitò solo un istante, prima di sfilare la giacca ed iniziare a sbottonare la camicia. Le mani avevano ricominciato a tremargli, anche se non quanto prima. Riuscì comunque a far scivolare ogni bottone fuori dalla sua asola abbastanza velocemente, e quando ebbe terminato, la tolse piano, depositandola sulla poltrona lì accanto.
Bianco. La vista di John fu investita da una distesa di pelle candida, e per un attimo restò lì a sbattere le palpebre ripetutamente, perché, nonostante a lui gli uomini non interessassero (ovviamente) e nonostante quella non sarebbe stata comunque la situazione giusta per formulare certi pensieri, Sherlock era una vera e propria visione. Non aveva un corpo efebico o infantile, ma possedeva una certa grazia che era davvero rara in un uomo. E le proporzioni erano niente meno che perfette.
Dio, ma qual è il tuo problema, John?
Sherlock gli voltò le spalle, ponendogli davanti, oltre che una sinuosa e bellissima schiena che pareva marmo e latte allo stesso tempo, quei due segni che avevano attirato la sua attenzione sin dal principio. John, ora che aveva non solo l'occasione, ma anche il consenso se non addirittura la richiesta da parte di Sherlock di osservarle attentamente, si prese il suo tempo per studiarne forma e posizione.
Erano quasi identiche tra loro, e speculari, come aveva già notato. Si trattava di cicatrici sporgenti e regolari, con la punta inferiore rivolta verso l'interno, che sembravano tagliare il lato, sempre inferiore, delle scapole perpendicolarmente ad esso. Improvvisamente ebbe il desiderio di toccarle, di percorrerne la lunghezza con la punta delle dita, e sentire come fossero al tatto. Dovette conficcarsi le unghie nei palmi per non farlo.
In effetti c'era qualcosa a cui somigliavano, pensò. La posizione era quella che avrebbero avuto le attaccature di un paio d'ali.
Vide, ad un certo punto, che il corpo del detective sembrava vibrare ancora più forte rispetto a prima.
Sherlock aveva chiuso gli occhi. D’un tratto il coraggio gli era venuto meno, e sentiva che il suo controllo era molto instabile. Dopo l’ultima volta che si era trovato in una situazione simile, però, gli era capitato più di una volta di essere sul punto di esplodere. Quello non lo scorderai mai, vero?
Si accorse che erano diversi minuti che dava le spalle a John, e l’uomo non aveva ancora detto nulla. Gli venne il terribile dubbio che l’altro non avesse intuito cosa potesse essere sul punto di dirgli, mentre gli narrava della nascita delle Creature.
Ma no, John non era così stupido da non potersi accorgere che quel racconto non era che una preparazione alla rivelazione del segreto vero e proprio. No? Ti aspetti sempre che gli altri pensino come te, Sherlock, ma non è così, e non ha niente a che vedere con la stupidità. Avevi pensato la stessa cosa, il 19 febbraio 2005, ricordi?
Sì, ricordava. Ricordava bene quanto era nervoso mentre diceva quelle parole, e di come era apparso stupito l’individuo a cui l’aveva confessato, all’inizio. Ricordava anche come i suoi occhi sgranati si erano fatti duri e gelidi, dopo i primi attimi di confusione. E più do ogni altra cosa, ricordava ciò che era accaduto dopo.
Improvvisamente si pentì di non aver aspettato il giorno seguente, almeno. Mycroft non avrebbe approvato, se fosse stato per lui avrebbe dovuto vuotare il sacco già da un po’. Oh, ma come avrebbe potuto farlo senza esserne obbligato? Non voleva rischiare di perdere John, era probabilmente la persona più… più… non sapeva nemmeno lui cos’era, ma era troppo importante.
Di sicuro ora starà pensando che sei un mostro, e sarà o terrorizzato all’idea di vederti trasformare in una creatura grottesca, o sul punto di provare ad ucciderti. No, John non era così. Lui non era come quell’altra persona, pensò disperatamente mentre il silenzio si prolungava; e quasi percepiva lo sguardo del dottore trafiggergli la schiena, colmo di disgusto e di accusa per avergli mentito.
Ora le sue membra stavano letteralmente scuotendosi, in preda ai brividi. Si accorse di avere le mani strette a pugno così forte da sentire, ormai, le dita informicolate.
Scappa, prima che ti ferisca. E non credere che non lo farà, perché lo fanno tutti. Fuggi via ora, prima di vedere come ti guarda, ora che sa cosa sei.
- Sherlock –
Fu come attraversato da una potente scossa, quando le dita fredde di John gli toccarono la spalla. Gli andò dritta alla testa, più veloce del suo pensiero, e si lasciò scivolare un ansito, mentre quel poco di fermezza che gli era rimasta collassava brutalmente.
- No! – ringhiò con voce rotta, quasi un singhiozzo a sentirsi, stringendo con forza il polso del dottore, che immediatamente lasciò la sua spalla. Un’ondata di calore gli inondò il braccio, una sensazione benefica che gli era fin troppo familiare. Lo lasciò andare con un altro gemito, maledicendosi per quel crollo totale di tutte le difese.
Mentre lo sguardo di John si faceva appannato, il viso colmo di stupore e confusione, si voltò di scatto e corse fuori.
Scusami, scusami, scusami! pensò disperatamente mentre usciva nell’aria pungente della Londra notturna.
 
 
 
Aveva un gran mal di testa. Sentiva un dolore pulsante alle tempie, ed uno più netto dietro al nuca. A dir la verità, si sentiva un po’ acciaccato dappertutto.
C’era qualcosa di duro sotto la sua testa. Dopo qualche istante, si rese conto che era il pavimento.
John si stropicciò gli occhi, intorpidito come se avesse dormito per ore dopo aver fatto un notevole sforzo fisico. Aveva gli arti molli, riuscì con difficoltà infatti ad alzare il busto e sedersi. Si massaggiò la testa, e scoprì che gli faceva male anche il collo.
Era per terra, si accorse. Come ci era finito?
Ricordava che stava parlando con Sherlock, che lui gli aveva raccontato delle Creature, e che poi si era svestito per mostrargli quelle due strane cicatrici. E poi… e poi lo aveva visto tremare come una foglia, e si era alzato per cercare di tranquillizzarlo, e dirgli che andava bene, che non doveva aver paura di come lui avrebbe reagito. Sì, quando le aveva riconosciute come attaccature d’ali, che Sherlock fosse una Creatura era diventato chiaro e indiscutibile. Tutte quelle cose che sapeva, non poteva averle imparate in altro modo.
Gli aveva afferrato la spalla, questo lo ricordava. E Sherlock quasi immediatamente gli aveva staccato la mano dalla sua pelle con forza. Era da quel momento che c’era il buco. Aveva il vago ricordo di aver avuto la vista appannata, tutto d’un tratto.
Vide un filo di luce entrare da dietro la tenda della finestra. Si alzò in piedi per andare ad aprirla, e la stanza fu inondata di bianco. Era mattino, scoprì con stupore. Dovevano essere passate diverse ore da quando erano tornati dalla piscina dove avevano incontrato Moriarty. Possibile che si fosse addormentato in quel momento, quando Sherlock gli aveva allontanato la mano? Assurdo, avrebbe detto, ma pareva che fosse andata proprio così. Questo spiegava anche come mai fosse sdraiato sul pavimento.
Si chiese dove fosse Sherlock. Controllò nelle altre stanze, ma non c’era traccia di lui nell’appartamento. Doveva essersene andato quella notte. Magari subito dopo quella conversazione.
Già, Sherlock. Il suo coinquilino, con cui aveva vissuto assieme per mesi, era una Creatura. Uno di quegli esseri che da più di quattro anni venivano comunemente associati a delle belve assassine, e che solo una volta la polizia era riuscita a catturare, senza però riuscire a vedere cosa fosse veramente ciò che avevano davanti.
Non che non avesse mai ipotizzato, più per gioco che per seria speculazione, che alcune persone attorno a lui fossero delle Creature, dato che si sapeva che erano indistinguibili da ogni altro essere umano (o almeno così si credeva), e con Sherlock lo aveva fatto più che con ogni altro, ma non si era mai riuscito a figurare cosa avrebbe provato se si fosse rivelata essere la realtà.
Di certo non avrebbe mai pensato che la scoperta lo avrebbe lasciato così poco turbato. Anzi, non era nemmeno turbamento. Sentiva un’emozione strana, certo, ma non provava né paura, né inquietudine, né tantomeno ribrezzo. Osservazione stupida, si disse dopo quell’ultima parola. Era ovvio che non lo provava. Non avrebbe mai potuto provare ribrezzo per Sherlock. E nemmeno per le altre Creature, in verità.
Non erano mostri come la gente credeva, e questo gli fece stringere lo stomaco in una morsa ferrea. Cavie di laboratorio, ragazzini che in buona parte avevano perso la testa dopo aver sopportato chissà quali atrocità. E la gente non lo sapeva, non aveva idea di cosa fosse accaduto a quelle persone, si rese conto con orrore. Anzi, per loro erano mostri, animali che mettevano a rischio le loro vite. Nient’altro che questo.
Dio, Sherlock! pensò. Come hai fatto a sopportarlo?
Doveva trovarlo, decise. Doveva scoprire dove si trovava, e convincerlo a tornare a casa. Sicuramente era fuggito in preda al panico, magari pensando che lui avrebbe potuto fargli del male dopo aver scoperto cos’era.
Non aveva, però, la più pallida idea di come procedere.
Avrebbe fatto qualsiasi cosa per non dover andare a rivolgersi a Mycroft, in quel momento, ma non vedeva alternative.
E realizzò, mentre usciva dall’appartamento, che quasi sicuramente era una Creatura anche lui.
 
 
 
Aveva corso per le vie di Londra senza meta per quasi un’ora, dopo essere fuggito da Baker Street. Ad un certo punto aveva cominciato a piovere, pesanti gocce d’acqua gelida che in pochi minuti lo avevano reso completamente zuppo, facendolo tremare per il freddo, stavolta. Stilettate di ghiaccio sembravano penetrargli le ossa, e la camicia non sarebbe stata sufficiente a ripararlo nemmeno se non ci fossero state precipitazioni.
Aveva raggiunto uno dei suoi rifugi, ad un certo punto, in cui si era rintanato diverse volte quando aveva sentito la necessità di allontanarsi da Mycroft o dagli altri i generale, in alcuni momenti particolarmente difficili.
Si trattava di un piccolo edificio abbandonato, o più precisamente mai terminato per mancanza di fondi. Nessuno aveva più badato a quella costruzione, e Sherlock, o per meglio dire la Creatura Sherlock, l’avevo praticamente fatto suo. Le atre Creature non ci si avvicinavano, percependo che quell’area era il territorio di un altro individuo. Segnare le aree era una delle capacità che avevano acquisito dopo l’impianto. Il loro odore era cambiato in modo quasi impercettibile, e come certi animali potevano lasciarlo in giro, sebbene a loro bastasse toccare le cose con le mani. Dal tipo di odore, persino, erano in grado di individuare che tipo di Creatura era stata in un certo luogo, e se fosse il caso o meno di infastidirla. Sherlock aveva reso l’atmosfera di quel luogo sufficientemente ostile da far passare a chiunque la voglia di intromettersi.
Erano state costruite solo fondamenta, pareti e tetto, lasciati scabri e abbozzati. Lo scheletro di una casa, nulla di più, ma era più che sufficiente per farne il proprio nascondiglio. Non era dalle Creature che doveva nascondersi, in effetti, e soltanto un’altra Creatura avrebbe potuto accorgersi facilmente della sua presenza lì. No, le Creature era sufficiente tenerle lontane. Era dagli umani puri che si proteggeva.
Quando fu dentro, sempre che si potesse parlare di dentro quando non c’erano né porte né finestre da poter chiudere per definire un “fuori”, si sedette contro il muro, in un angolo, le ginocchia raccolte strettamente al petto.
E cosa intendi fare così? Piangere ed autocommiserarti fino a che tuo fratello non ti trovi e ti riporti a casa in lacrime, come l’ultima volta?
Sherlock si rispose di no, ma sapeva che sarebbe finita così di nuovo, a meno che non fosse accaduto un miracolo e fosse riuscito a lasciare il suo nascondiglio. Magari anche a tornare a vedere cosa aveva causato, a Baker Street.
Credeva di aver ormai acquisito il pieno controllo, e in effetti in condizioni normali era così, ma evidentemente il turbamento e la tensione psicologica avevano fatto reagire il suo istinto da Creatura in modo autonomo. Se non avesse distolto la mano dalla pelle di John, avrebbe rischiato di ucciderlo. Era stanco, era provato, e l’aveva fatto senza quasi rendersene conto quando aveva sentito il contatto. Sapeva che era successo solo perché in quel momento era teso al massimo dal nervosismo e dalla paura di essere di nuovo aggredito. Come l’altra volta.
Se per caso John non lo aveva odiato quando gli aveva fatto capire cos’era, di sicuro lo avrebbe fatto ora che lo aveva quasi ucciso.
Aveva distrutto ogni cosa. Aveva davvero pensato che sarebbe stato possibile tenere John Watson al suo fianco, che lui avrebbe capito. Ma, come sempre, aveva mandato all’aria quella minima possibilità che aveva avuto di metterlo a parte del loro segreto, di farlo entrare nel ristretto numero di umani che collaboravano con loro.
Invece niente. Ogni cosa che lui toccava, finiva per sgretolarsi, o per essere trascinata via dal vento e da mani estranee.
Ma questa volta avrebbe dovuto essere diverso! Persino nella sua mente, quelle parole suonavano come un pianto lamentoso. Patetico, si sarebbe detto in qualsiasi altro momento. Ma non era sicuro che sarebbe riuscito a tentare di nuovo di trovare un equilibrio normale, questa volta. John era importante, non sapeva come ma lo era. Più di Mycroft, di sicuro. Più degli altri. Più di tutti.
Quando vedeva il suo sguardo sinceramente preoccupato per lui, il suo sorriso dolce e pacato, era sicuro che avrebbe potuto averlo vicino sempre, e che non l’avrebbe mai deluso, ferito, o annoiato. Era come se la presenza positiva di John bilanciasse le sue tendenze autodistruttive.
Gli veniva in mente una sola persona che si avvicinasse a lui quanto importanza e capacità nel tenerlo a galla.
Era la persona che li aveva salvati da Moriarty, quella notte.
Affondò il viso tra le ginocchia.
Per qualche minuto riuscì a trattenersi, nonostante questo gli facesse bruciare la gola e gli occhi.
Poi gli sfuggì il primo singhiozzò.
Un altro.
E dopo quello, scoppiò in un pianto disperato.
John.
 
 
- Non mi aspettavo di vederla arrivare qui, oggi, dottor Watson – e sembrava sinceramente sorpreso, il maggiore degli Holmes, quando si vide John arrivare a passo di marcia. Era stato annunciato, ovviamente, quando si era presentato al Diogenes Club, ma non era stato avvertito dello stato d’animo con cui veniva a parlare con lui. Sembrava un po’ arrabbiato, un po’ cupo ed un po’ stravolto.
Mycroft sollevò un sopracciglio. Sherlock doveva, finalmente, essersi deciso a parlargli. Questo non spiegava, comunque, come mai fosse lì da lui.
Ah, già. Qualcosa era andato male, ovviamente. e dal colorito particolarmente pallido che aveva, dedusse che quel qualcosa poteva in parte essere una piccola perdita di controllo da parte del suo fratellino minore. Sciocco ragazzino sentimentale.
- Lo so – tagliò corto il dottore. – Spero non le dispiaccia se andrò dritto al punto della questione, Mycroft, ma è un po’ urgente, al momento –
Mycroft sospirò. – La prego, faccia come preferisce  -
- Sherlock mi ha detto cosa siete –
Ecco, appunto. – Questo era chiaro, ma lei non sarebbe qui se non fosse successo qualcos’altro –
- Sherlock è scomparso. Credo sia scappato, non so bene per quale ragione. Però ad un certo punto, credo di essermi addormentato in piedi, o qualcosa del genere, dopo che lui mi ha raccontato la storia su come vi hanno creato –
Ah. Questo era problematico, in effetti. Sperava che Sherlock avesse superato, ormai, l’ultimo incidente. Aveva sottovalutato i danni subiti, a quanto pareva. Non era ancora guarito, né dal primo trauma né dal secondo. Avrebbe dovuto fare più attenzione.
- Capisco. Vuole una spiegazione, quindi? –
- Direi proprio di sì –
- Si sieda, allora. Credo sia il caso di rendere chiare diverse cose, e non si tratta proprio di una storia breve –
John si sedette sulla sedia di fronte alla scrivania dell’altro uomo. – Bene. Sarebbe davvero il momento –
 
 
 
Faceva freddo. Lo faceva anche prima, in realtà, ma il tempo prolungato che aveva passato con addosso vestiti leggeri e bagnati aveva acuito la sensazione. Ora gli sembrava che gli stesse mordendo il cervello. Inoltre, nelle ore precedenti aveva corso e camminato, ma stando lì, fermo, in un angolo, non aveva più neppure quel poco di calore che gli aveva portato il movimento.
Non gli importava. Importava solo che suo fratello non lo trovasse. Non aveva nessuna voglia di sentire gli ammonimenti di Mycroft, i suoi rimproveri per la sua debolezza, e nemmeno la sua compassione, probabilmente la più fastidiosa di tutte. Non aveva bisogno di essere compreso da lui.
- Sherlock? – il detective sussultò, sollevando la testa con un movimento fulmineo.
C’era un uomo poco più in là, che si sporgeva dal buco rettangolare che avrebbe dovuto essere una porta. Alto e magro, con lineamenti affilati, ricci di un biondo scuro e penetranti occhi blu.
- Victor! – esclamò Sherlock, sorpreso. Non si aspettava di venire trovato così presto, e di certo non da lui. Meglio così, no? È l’unica persona da cui ti lasceresti avvicinare, in ogni caso.
Victor aveva il fiatone, come se avesse corso, e le sopracciglia corrucciate. Quando lui gli rispose, però, sembrò rasserenarsi.
In pochi passi svelti gli fu vicino, e si inginocchiò sul pavimento per essere alla sua stessa altezza. Il Gatto, così lo chiamavano, gli prese il mento per scrutargli il viso, e con un sospiro lo strinse forte per qualche secondo. – Quando ti ho visto scappare via da quell’appartamento di Baker Street, ho capito che qualcosa doveva essere andato storto. Ti ho perso di vista quando ho dovuto nascondermi per non farmi notare da alcuni della fazione di sotto che passavano di lì… -
Tornò a guardarlo in viso, stavolta con quel qualcosa, quel qualcosa che Sherlock non avrebbe saputo definire, ad accendergli gli occhi, a renderli intensi e caldi, mentre scrutava ogni centimetro della sua faccia per vedere se avesse ferite e se avesse pianto. Più la prima, probabilmente. Le seconda era talmente evidente che anche un cieco l’avrebbe capito.
- Cosa è successo, Sherl? – gli disse piano, portando le mani sulle sua spalle.
- Ho perso il controllo… - rispose lui con un filo di voce. – Victor, per favore… -
- Certo, certo – non esitò un istante, l’altro, a dirgli così. – Vieni con me, d’accordo? Vedrai che andrà tutto bene. Questa volta andrà tutto bene –
Ovvio che lo diceva solo per consolarlo. Victor lo faceva sempre, anche se in qualche modo ne era sempre davvero convinto. E così, alla fine, convinceva un po’ anche lui.
Sherlock si lasciò aiutare ad alzarsi in piedi, e seguì Victor fuori da quell’edificio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
******
Note:
Beh, rispetto all’ultima volta sono stata leggermente più veloce.
Questa volta non ho granché da dire, a parte ribadire e ricordare che Victor Trevor, in questa storia, va immaginato come se fosse interpretato da Tom Hiddleston. Questa scelta non necessita alcuna spiegazione, perché non solo sembra essere stato adottato dal fandom come “faccia di Victor”, ma anche dubito che ci sarebbe mai qualcosa da ridire sull’immaginare un personaggio basandosi su di lui (è veramente un gran figo, oltre che molto bravo!).
Kisses
Sofyflora98

 

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Capitolo 11
*** 15 febbraio 2005 ***


- Lei deve capire che la nostra non è un’esistenza facile: dobbiamo nascondere la nostra vera natura agli occhi degli esseri umani, e questo è per alcuni più difficile che per altri. Dobbiamo anche tenere in buone condizioni le Estensioni, perché un danno ad esse ormai è come un danno ad una qualsiasi altra parte del nostro corpo, e dobbiamo farlo senza recare offesa agli altri esseri umani, cosa su cui non tutti sono d’accordo.
- Noi, però, siamo nati umani, dottor Watson, e questa condizione per molti non è facile da sostenere. Eravamo cresciuti per i primi anni della nostra vita come persone normali, ed eravamo in fondo persone normali in tutto e per tutto. Abituarsi a questa nuova realtà, accettare la nostra nuova natura, non è stato da tutti. Inoltre, durante la nostra fuga dai laboratori di Baskerville, la maggior parte di noi si è aperta la strada uccidendo. Può immaginare benissimo da sé i sensi di colpa e l’odio verso se stessi che ne sono venuti. Qualcuno, nei primi tempi, si è tolto la vita per l’orrore di ciò che gli era accaduto o di ciò che aveva fatto per fuggire da quel luogo. Quelli che non l’hanno fatto hanno cercato di trovare un equilibrio. Non tutti ci sono riusciti, e chi ci è riuscito l’ha trovato in modi contrastanti tra loro. –
Mycroft fece una pausa, e tamburellò per qualche secondo sulla scrivania con fare pensieroso.
John, seduto dall’altra parte del mobile di legno, lo fissava in attesa che riprendesse a parlare.
- Ovviamente mi riferisco alle due fazioni, dottor Watson. – riprese Holmes. – Dopo quella che chiamiamo la “Fuga”, ci siamo dispersi, ma mano a mano piccoli nuclei si sono radunati per cercare di sostenersi a vicenda. Io e mio fratello vivevamo con altre due Creature in una casa a schiera, assieme ad una signora che per circostanza fortuita era venuta a sapere degli esperimenti sugli umani prima ancora che ci liberassimo, e che era riuscita a riconoscerci, essendo già una volta sgattaiolata nei laboratori senza farsi notare per vedere il tutto con i suoi occhi. E sì, dottore, la sicurezza non era poi così efficacie in quel posto. O almeno non lo era per chi voleva entrare.
- Quella donna ci ha aiutati molto, all’epoca, e tutt’ora lo fa con Sherlock. Come avrà già immaginato, si tratta della signora Hudson. Gli altri due individui con cui convivevamo erano ragazzini circa della stessa età di mio fratello. Jim Moriarty è il primo, che ormai avete già avuto modo di vedere. L’altro si chiama Victor Trevor, ma è piuttosto schivo al giorno d’oggi, e non credo che abbiate mai avuto l’occasione di incontrarlo, nonostante lui e Sherlock fossero molto legati fino a qualche tempo fa.
- Siamo riusciti a mantenere uno stile di vita abbastanza tranquillo per qualche anno. Poi, per farla breve, gli istinti violenti di Jim Moriarty hanno avuto la meglio sulla sua già di per sé scarsa capacità di autocontrollo, ed ha finito per assassinare un ragazzo. Le ragioni di quell’omicidio erano piuttosto puerili, ma lui non era uscito bene dall’incidente di Baskerville, e sembrava provare una sorta di malsana gioia nel fare del male. Sherlock ha scoperto il suo crimine, per sbaglio temo, e il giorno dopo Jim è sparito. Nel giro di qualche mese hanno iniziato a formarsi le due fazioni. Una attorno a Moriarty, che ha preso a sviluppare una rete criminale che si è estesa sempre di più, e l’altra attorno a me e a mio fratello. Poi Sherlock ha deciso che non gli importava dello scontro tra queste due, e ha cominciato a fare il consulente investigativo. Ovviamente non era vero: ha sempre finito per essere coinvolto nello scontro, e a dover prendere la nostra parte. In genere, però, se ne è stato per i fatti suoi. Poi le cose sono cambiate, però. –
John si appoggiò con gli avambracci al legno della scrivania, protendendosi leggermente avanti. – Come era coinvolta, di preciso, la signora Hudson? –
- Penso che fosse più che altro una curiosa, all’inizio. Avrà sentito qualche storia su gente scomparsa o su strani esperimenti, e si è intrufolata per vedere se fosse vero. Poi è diventata praticamente una di noi, ed è stata la prima umana pura a prendere parte alle fazioni. Non che ce ne siano molti altri, ad essere sinceri. Si tratta di rarissimi casi. –
Il dottore annuì. – Avevate una famiglia, prima che…? –
- Sì. – fu la risposta asciutta di Mycroft. – Ma non credo che Sherlock ricordi molto di quegli anni: era molto giovane, e Baskerville ha prevaricato sulla maggior parte dei suoi ricordi d’infanzia. Mentre io ero già un ragazzo maturo, quando è successo, lui era un bambino. I suoi ricordi della vita da umano sono talmente scarsi e remoti da poter dire che è una Creatura praticamente da sempre. –
- Ha detto che dopo le cose sono cambiate. In che modo? – lo sguardo di Watson era tremendamente serio.
Mycroft stava iniziando a pensare che raccontargli la verità non era stata solo una necessità. Sherlock sembrava non essersi sbagliato sul suo conto: poteva davvero essere adatto a stare vicino a suo fratello. Con quel suo carattere forte ed inflessibile, ma allo stesso tempo caloroso e premuroso, avrebbe potuto bilanciare perfettamente le tendenze autodistruttive di Sherlock.
- Lei non è il primo ad aver vissuto con Sherlock, e a cui è stata raccontata questa storia. Però, l’altra volta, non è andata bene come con lei, diciamo. È successo cinque anni fa, circa. –
 
 
 
Sherlock non ci poteva credere. Sapeva che non sarebbe stato facile accettare la sua vera natura, di questo era sempre stato consapevole, sin da quando era fuggito con Mycroft da Baskerville. Però aveva creduto, aveva sperato, che questa persona avrebbe capito, sarebbe stata in grado di ascoltare prima di reagire impulsivamente.
Aveva sbagliato.
Aveva dato un giudizio errato, nonostante i mesi che aveva già passato ad osservare il coinquilino da vicino. Si era fatto l’idea che fosse una persona pacifica e flessibile. E si era sbagliato clamorosamente.
Faceva male, un male così forte e lancinante che non riusciva a capacitarsi di come facesse ad essere ancora cosciente. Molto diverso da quello che aveva provato durante gli esperimenti di Baskerville. Si sentiva spezzato. Nel senso letterale.
E faceva male anche dentro. Ferito, tradito. Non riusciva a pensare a nient’altro.
Provò a muovere debolmente un braccio, mentre l’altro gli rivolgeva un ultimo sguardo agghiacciato prima di scappare a gambe levate, lasciandolo lì.
Oh, ora bruciavano anche gli occhi. Aveva la vista appannata da un velo di lacrime, ed era quasi sicuro che qualcuno gli avesse conficcato una lama in gola, da quanto gli doleva.
Il primo singhiozzo flebile che gli fuggì dalle labbra acuì ancora di più quel bruciore, e fu come una stilettata.
Avrebbe voluto inseguirlo, farlo a pezzi e urlargli quanto fosse lui ad essere un mostro. Trovare un angolino dove pianificare qualche vendetta. Trovare Victor per potergli piangere sulla spalla. Persino Mycroft sarebbe andato bene, in quel momento.
Ma non fece nulla di tutto questo. Non ne era fisicamente in grado, non riusciva nemmeno a muoversi.
Non riusciva nemmeno più a pensare, tanto era totalizzante e intenso il dolore.
Era a malapena cosciente quando, non sapeva bene quanto tempo dopo, la voce di Mycroft ruppe il silenzio dell’appartamento vuoto tranne che per lui. anche se non aveva capito cosa avesse detto, il tono concitato e spaventato addirittura, gli fece intendere che non si era aspettato questo nemmeno lui.
Il fratello era chino su di lui, intento a telefonare a qualcuno, quando infine perse conoscenza.
 
 
 
Victor, dopo averlo raccolto in quell’edificio abbandonato che era il suo rifugio, lo aveva condotto in un piccolo appartamento per una persona in una zona decisamente più fuori mano rispetto a Baker Street. Non era uno dei quartieri malfamati o degradati, ma un’area più anonima, piuttosto, dove era improbabile farsi notare o imbattersi in gente strana.
Avevano fatto un tragitto singolare, evitando tutte le strade dove avrebbero potuto essere visti da membri dell’altra fazione. Sherlock sapeva che da qualche anno, dopo uno sfortunato incidente che lo aveva messo seriamente a rischio di morire, Victor viveva quasi nascosto, spostandosi spesso e tenendo la sua residenza segreta anche a Mycroft. Sherlock sapeva che l’essere portato da Victor Trevor nella sua abitazione era un segno di fiducia totale ed incondizionata. Non sapeva come lo facesse sentire la cosa, se ne fosse lusingato, felice o inquietato: nessuno si era mai fidato in quel modo di lui.
Victor lo fece entrare dall’uscio per primo, indicandogli subito dov’era il bagno, così che potesse fare una doccia e togliersi il freddo dalle ossa. A volte era un po’ imbarazzante rendersi conto di quanto effettivamente Victor lo conoscesse e sapesse capire riguardo ai suoi stati d’animo o le sue emozioni.
Al contrario, Sherlock riusciva a dedurre poco o nulla riguardo l’amico. Solo qualcosa riguardo a dove era stato, più o meno, o piccoli dettagli di questo genere, ma non era in grado di analizzarlo come faceva con gli altri. Forse perché Victor era un po’ come lui, aveva sempre pensato.
Mentre era sotto al getto d’acqua calda, sfiorò la propria spalla, dove aveva sentito le dita tiepide di John la sera prima, prima che perdesse la testa e scappasse. Si diede dell’idiota impulsivo. Ora che ripensava a quanto delicatamente gli avevano sfiorato la pelle, si disse che era ovvio che non avesse avuto cattive intenzioni. Da quando era accaduto quell’incidente cinque anni prima, però, scatti di quel genere erano tutto tranne che insoliti in lui. La prima cosa che il suo istinto gli suggeriva era quella di difendersi da un’aggressione, da un attacco.
John non meritava una diffidenza del genere, pensò sconsolato, ma lui non era in grado di essere diverso da così. Non più. Erano successe troppe cose, perché potesse imparare a trattarlo come meritava. Dio, non voleva nemmeno ripensare a cosa aveva combinato quella notte!
Quando lavò via l’ultimo brivido gelato che gli increspava la pelle, uscì dalla doccia e si asciugò con un asciugamano.
Victor gli aveva prestato dei vestiti puliti, e Sherlock davvero non sapeva come mai Trevor avesse abiti della sua taglia con sé, ma non importava al momento.
Uscì dal bagno, iniziando finalmente ad osservare bene il luogo.
Era esattamente come si aspettava che fosse un posto abitato da Victor: semplice ma piacevole, ordinato e pulito, a differenza del 221B, e con messi in bella mostra oggetti che avevano per Victor un valore affettivo, vecchie fotografie e libri. Non libri di chimica e criminologia, ovviamente. Per la maggior parte erano romanzi, libri sugli animali e sulle piante, e qualche volume che parlava di mitologia.
Gli sfuggì un sorriso, quando vide che nonostante vivesse solo, Victor avesse un letto a due piazze. – Ti agiti ancora nel sonno, come quando eri bambino? – gli domandò quando lo sentì avvicinarglisi.
Victor ridacchiò. – Eccome, non sai quanto. Se dormissi in un letto singolo, finirei per cadere a terra due o tre volte in una notte. E in estate si sta meglio se si può allargare le braccia , invece che doverle tenere strette per non farle andare fuori dal bordo. –
Il Gatto si sedette sul materasso, dando un colpetto vicino a sé per invitare Sherlock ad imitarlo. Il detective non si fece pregare, accomodandosi immediatamente a fianco all’amico.
Amico, già. Un termine che aveva associato a qualcuno così raramente che avrebbe potuto contare i casi sulle dita di una mano.
- Allora, vuoi raccontarmi per bene cos’è successo? Ho sentito un po’ di storie su cosa stai combinando negli ultimi mesi, ma è solo a grandi linee. Sempre che tu voglia parlarne ora, ovviamente. –
Sherlock annuì, e si avvicinò di ancora qualche millimetro all’altro uomo.
- Ho trovato un nuovo coinquilino, qualche mese fa. Mi sono lasciato coinvolgere, e Moriarty ne ha approfittato per usarlo come leva contro di me. Mi ha lasciato delle minacce in cui, per farla breve, mi faceva capire che se non avessi smesso di intralciare la sua fazione indagando sugli omicidi compiuti da loro, o passando le informazioni che riuscivo ad avere a Mycroft, lo avrebbe ucciso. Mio fratello mi ha detto più volte che avrei dovuto dirgli di noi prima che lo scoprisse in altro modo, ma io non ci sono riuscito fino a quando Moriarty non gli ha mostrato le sue Estensioni. Quando gli ho raccontato la verità, ieri notte, ormai aveva già capito cos’ero. –
Victor gli avvolse le spalle con un braccio, e Sherlock lasciò che l’altro lo tirasse a sé fino a fargli appoggiare la testa sulla sua spalla. Non era normale per lui lasciare che qualcuno gli si avvicinasse così, che lo coccolasse, ma con Victor era sempre stato diverso che con gli altri. Victor poteva, quando nemmeno suo fratello aveva il permesso di toccarlo in quel modo.
- Come ha reagito? –
- Non lo so, in effetti. Non è scattato però. – ripensò al lieve tocco delle dita di John sulla pelle della sua spalla. – Dio, credo che possa anche averla presa bene, Victor! – esclamò, la voce all’improvviso spezzata. – Ma sono io, sono io che ho avuto un attacco di panico quando mi stava per toccare la spalla, e ho perso il controllo! –
Affondò il viso sul petto di Victor, che immediatamente gli circondò il busto con le braccia, lasciandosi andare all’indietro fino a trovarsi sdraiato sul materasso. Pian piano, portò una mano più in alto fino ad intrecciarne le dita con i riccioli scuri di Sherlock.
- Ti ha toccato la pelle direttamente? –. Il detective annuì, il naso schiacciato sulla camicia dell’amico. – Per “perso il controllo” intendi che hai accidentalmente creato la reazione chimica per assorbire l’energia dalle sue cellule, vero? –
Sherlock ripeté il movimento, e qualche goccia tiepida iniziava ad inumidire il tessuto su cui aveva premuto il volto.
- Si è trattato solo di pochi istanti, non dovrei avergli fatto niente a parte averlo indebolito, però… -
Victor sapeva qual era quel però. Sherlock aveva sempre avuto una paura viscerale di fare del male a qualcuno per via della sua natura di Creatura, e farlo perché perdeva il controllo delle proprie abilità peculiari era ancora più frustrante per lui.
- Di tutte le persone, lui è l’ultimo a cui avrei voluto creare problemi, Victor. – disse infine.
C’era una nota nella sua voce, una nota molto particolare che Victor ricordava di aver sentito pochissime volte. Ma sapeva, però, cosa significava. Solo pochi, pochissimi, potevano vantarsi di essere l’oggetto di un discorso in cui Sherlock lasciava scivolare quella nota dolce e malinconica tra le sue parole. Era quasi un privilegio, agli occhi del Gatto.
- Parlami di lui, ti va? – mormorò, girando il capo verso la Libellula.
- Si chiama John Watson. Era un medico militare, è tornato in Inghilterra dopo essere stato ferito in guerra, ed ora fa il medico generico. Ci siamo incontrati più o meno per caso. Mi ha trovato al Saint James’s Park una mattina. La sera precedente Moriarty mi aveva aggredito, e lui mi ha praticamente trascinato nel suo appartamento per curarmi le ferite. Quando siamo arrivato, ho scoperto che il suo appartamento in effetti era il 221B di Baker Street. –
Victor annuì. Aveva sentito a grandi linee questa storia da qualche Creatura della fazione di sotto che bazzicava in giro, di quelle che se ne stavano per i fatti loro e che spesso fornivano informazioni a lui o agli Holmes. Si chiese se fosse stato davvero un caso, perché la coincidenza era davvero sfacciata. Probabilmente c’entrava la signora Hudson, si rispose. Non sarebbe stata la prima volta che faceva in modo di far incontrare le persone che reputava compatibili.
- Alla fine, con il tempestivo intervento della signora Hudson, abbiamo finito per condividere l’appartamento. – proseguì Sherlock. – Mi ha seguito durante un caso, il giorno dopo avermi incontrato. E ha sparato al Rospo per salvarmi la vita. Non avrei mai nemmeno pensato che l’avrebbe fatto. –
L’emozione nella sua voce era palpabile. Victor pensò che se avesse allungato una mano in aria mentre Sherlock parlava l’avrebbe sentita sulla punta delle dita, come una vibrazione, o come del vapore molto denso.
- Mi ha seguito, Victor. Ti rendi conto? Mi ha seguito, senza esitare, quando mi aveva incontrato solo il giorno precedente in circostanze che normalmente avrebbero dovuto tenerlo lontano! Chiunque, dopo avermi aiutato, avrebbe cercato di starmi alla larga. Mi aveva trovato in condizioni pietose, avrei potuto essere un criminale rimasto ferito in uno scontro, o qualcosa del genere. Lui invece non l’ha fatto! –
Sì, si rendeva perfettamente conto. Si rendeva perfettamente conto del fatto che questo Watson stava diventando quello che lui stesso era stato anni addietro, se non anche più di quello che lui era stato, per Sherlock.
- E abbiamo vissuto assieme per mesi, ormai, senza che scappasse per i pezzi di cadavere in frigorifero come hanno fatto altri, o che si stufasse per via del mio carattere! Victor… – Sherlock si girò di scatto, guardando l’amico negli occhi, trepidante. – Victor, John non è come gli altri. Tu non puoi immaginare… lui ha qualcosa. È come se… non lo so, davvero. Mi parla come se fossi normale, capisci? Non come uno psicopatico insopportabile disadattato. –
E ancora una volta Victor capiva eccome. Forse capiva anche meglio di Sherlock cosa ci fosse di tanto speciale in John Watson, almeno ai suoi occhi.  Capiva anche cosa provocava questo in Sherlock. Ma come al solito, era Sherlock a non capirlo.
- Non credo che lo riuscirei a sopportare se dovesse andarsene, Victor. Non questa volta, sarebbe persino peggio dell’incidente di cinque anni fa. Se mai lui dovesse fare qualcosa di simile… - il turbamento adombrò nuovamente gli occhi acquamarina del detective.
- Non lo farà. – disse subito Victor. Quel poco su di lui che aveva sentito dalla bocca di Sherlock gli era più che sufficiente per capire questo. No, John Watson non era una persona ordinaria, e di sicuro non avrebbe abbandonato Sherlock.
E se mai l’avesse fatto, avrebbe dovuto pagarne il prezzo con lui.
Sherlock lo amava, questo era lampante. Victor era perfettamente in grado di capire i sentimenti dell’amico nei confronti delle persone, e non ricordava di aver mai percepito un’intensità simile nelle sue emozioni verso qualcuno, per questo sapeva anche che Sherlock aveva perfettamente ragione nel dire che non sarebbe riuscito a sopportare di perdere quell’uomo.
Non moriva dalla voglia di ripetere ciò che, assieme a Mycroft, aveva “fatto accadere accidentalmente” all’individuo coinvolto nell’incidente che aveva spezzato Sherlock cinque anni prima, ma non avrebbe esitato a farlo di nuovo se chicchessia avesse osato solo sfiorarlo con troppa forza.
- Sai che puoi rimanere quanto vuoi, vero? – gli mormorò all’orecchio.
- Ti ringrazio, Victor. –
E Victor seppe che era sincero e indifeso mentre gli diceva quelle parole, e si sentì un peso sul petto nel sapere quanto incredibilmente candida fosse l’amicizia che Sherlock provava nei suoi confronti. Nel sapere che non si trattava di ciò che lui, invece, sentiva.
John Watson era un uomo fortunato.
 
 
 
Mycroft, qualche minuto prima, aveva interrotto il suo racconto per far portare due tazze di tè, dicendogli che era meglio fare una breve pausa prima di continuare. John non ne era sicuro, ma gli era sembrato che quello che doveva dirgli, riguardo a ciò che era successo a Sherlock cinque anni prima, lo turbasse profondamente.
Attese che finissero di bere l’infuso bollente, prima di ricominciare a parlare, e anche a quel punto spese un minuto buono a studiare John, un po’ corrucciato. Il dottore non aveva mai visto tante emozioni leggibili nel viso del maggiore degli Holmes, solitamente del tutto imperturbabile, e la curiosità su cosa fosse accaduto cinque anni prima non faceva che incrementare ogni istante che passava. Non sapeva cosa avrebbe potuto turbare in quel modo Mycroft Holmes, e sperò che non fosse così difficile da sconvolgere quanto credeva.
- Anni fa mio fratello aveva avuto un altro coinquilino, dottor Watson. – riprese infine Mycroft. – Chi sia non è importante, era semplicemente uno dei pochi individui in grado di sopportarlo e di conviverci. Lo avevamo ritenuto una brava persona, a cui avremmo potuto rivelare il nostro segreto. Purtroppo ci eravamo sbagliati: per quanto normalmente avesse un carattere docile e pacato, non era stato in grado di ascoltare prima di scattare. E abbiamo scoperto che oltre quella facciata si nascondeva una persone violenta ed estremamente aggressiva.
- Quando Sherlock ha iniziato a raccontargli la stessa storia che ha raccontato a voi, quell’uomo aveva intuito subito dove voleva andare a parare. Sherlock non mi ha mai raccontato nel dettaglio cos’era successo, ma so per certo che era molto meno attento e pronto a difendersi di quanto lo deve essere stato con voi. Era più… ingenuo, oserei dire. Più fiducioso nei confronti degli umani. –
John riusciva quasi a vederselo davanti. Uno Sherlock più giovane, pallido ed esile, con quei due grandi occhi di zaffiro sgranati e curiosi, l’espressione enigmatica ma con un pizzico di innocenza e disinvoltura che raramente aveva mostrato da quando l’aveva conosciuto.
- Insomma, cos’è successo? – chiese, quando vide che l’altro uomo esitava a continuare.
Mycroft aggrottò le sopracciglia. – Avevo avuto il presentimento che qualcosa doveva essere andato nel modo sbagliato, quando non mi ha telefonato per confermarmi di aver detto la verità a quell’individuo. Ovviamente, avrebbe potuto essere semplicemente perché ne stavano parlando, ma comunque mi sono recato a Baker Street. E per fortuna l’ho fatto.
- Quando sono entrato l’ho trovato riverso a terra, in un lago di sangue, ferito alla testa e alla schiena, con due vertebre incrinate. A quanto pare, l’umano era andato nel panico e l’aveva aggredito. Sherlock all’epoca era molto più fragile di adesso. Era il 15 febbraio 2005. –
Quello che John provò nel sentire quelle parole, fu come una breve e piccola vertigine. Sbatte le palpebre più volte, le labbra dischiuse. Non sapeva che dire.
- Lei immagino possa capire bene il trauma subito da mio fratello. Da quel giorno è cambiato, naturalmente. È diventato molto più diffidente e freddo con le persone. Agli incubi su quella che lui chiama “la stanza bianca”, nei laboratori di Baskerville, si sono sommati anche quelli riguardanti quest’episodio. –
Ora si spiegava la sua reazione, quando gli aveva toccato la spalla. Doveva aver avuto un attacco di panico, aver creduto che stesse per fargli del male anche lui.
Solo sentendosela in testa, quell’idea gli pareva inconcepibile: come avrebbe potuto mai, lui, fargli del male? Lui che era sempre in ansia, al lavoro, chiedendosi se avesse mangiato qualcosa in tutta la giornata; lui che perdeva un battito ogni volta che l’altro rischiava di essere ucciso durante un’indagine. Era impensabile, per lui.
Ma evidentemente non lo era per Sherlock. Doveva essere terrorizzato, pensò, e a quel punto si sentì male.
- Lei non immagina nemmeno quanto bene ha fatto la vostra presenza a mio fratello, dottor Watson. – John sollevò la testa. – Da quando vi siete conosciuti, se posso dirlo, mi è sembrato quasi rifiorito. Sapete, negli ultimi anni sembrava aver perso ogni motivazione. Era cupo, schivo ed aggressivo più del suo normale. Mi porterebbe grande disappunto se voi decideste che non volete aver più a che fare con lui. –
- Non accadrà di certo! – esclamò il dottore immediatamente. – Se Sherlock ha bisogno che qualcuno gli stia vicino, può contare sulla mia presenza. –
Mycroft annuì, soddisfatto e, parve a John, anche sollevato. – Ve ne sono grato, dottor Watson. Anche perché sarebbe spiacevole dovervi comunicare cosa è… accaduto all’uomo che l’ha ferito. –
Assottigliò gli occhi, a quel punto, senza guardare nulla in particolare, immerso in qualche valutazione. John attese di sentire cos’altro avesse da dire, prima che si decidesse a cercare Sherlock come avrebbe cominciato a fare lui non appena fosse uscito dal Diogenes.
- So che sta pensando che dovrei darmi una mossa ad iniziare a cercare mio fratello, dottore. – disse a quel punto il maggiore degli Holmes. John si chiese se la telepatia fosse una dote comune all’intera famiglia, dato che sembrava essere condivisa dai due fratelli. – A dir la verità, ci sono pochi posti in cui si rifugerebbe in una situazione del genere, e se intende celarsi per molto probabilmente sarà entrato in contatto con uno dei suoi conoscenti. Può per favore descrivermi per bene cos’è successo ieri notte? Potrebbe aiutare a capire dove potrebbe trovarsi. –
John lo fece, gli raccontò dell’incontro con Moriarty, e del misterioso individuo che li aveva salvati, nascosto dalla sua vista. Gli disse poi del ritorno a casa, di come aveva intuito quale potesse essere la verità su di loro ma avesse preferito ascoltare l’intero discorso di Sherlock. E poi del momento in cui aveva provato a tranquillizzarlo, vedendolo tremare come una foglia, e di come il detective, invece, era fuggito come un lampo.
Mycroft, una volta che John ebbe terminato, annuì pensieroso. – La persona che vi ha tolto dai guai era quasi di sicuro Victor Trevor, che come le ho detto abitava assieme a noi poco dopo la fuga da Baskerville. Probabilmente Sherlock ora sarà con lui. –
- E lei sa dove quest’uomo potrebbe essere, Mycroft? –
- No, in effetti. – disse questi, cogliendo John completamente impreparato, abituato com’era al suo essere sempre a conoscenza di tutto. – Qualche anno fa c’è stato un piccolo incidente, e Victor se l’è cavata per un soffio. Da quel giorno è quasi impossibile da rintracciare, a meno che non lo voglia lui. Se è assieme a Sherlock, è stato lui stesso ad andare a cercarlo per portarlo con sé. Non ci resta che aspettare che uno dei due si faccia vivo, a questo punto. –. Evidentemente l’espressione contrariata di John doveva essere stata più che palese, perché aggiunse: - Stia tranquillo, dottor Watson. Credo che avremo loro notizie presto. Nel frattempo cercherò comunque di trovare mio fratello. Ma le consiglio di riposarsi: prevedo tempi duri per noi tutti. Tutti e quattro, intendo. –
 
 
 
- Non mi avevi assicurato che il Gatto non si sarebbe più fatto vivo, che non ci avrebbe più intralciato? – sbraitò Jim, quasi colpendo sul viso l’uomo che era intendo a disinfettargli il profondo striscio sul fianco della mano.
Quello sembrò trattenersi dall’alzare gli occhi al cielo, quando l’altro emise uno squittio a causa del bruciore del liquido verdino sulla carne viva.
- Sì, l’avevo detto, capo. Non si espone mai, infatti, a scontri espliciti, e non ci ha più creato problemi da quando la sua identità e il suo ruolo nella fazione di sopra sono stati resi di dominio pubblico tra i membri della nostra fazione. Però credo che correrebbe il rischio di farsi trovare, se si trattasse della sicurezza della Libellula. Sapete che sono sempre stati molto legati, capo. -
- Terribilmente! – si lamentò di nuovo Moriarty. – Erano quasi rivoltanti, da piccini. Sempre aggrovigliati su una singola poltrona come due polipi. Il Gatto proteggeva il piccolo Sherlock come fosse la sua principessa in difficoltà, stupido illuso sentimentale! –
Sebastian Moran annuì, consapevole del fatto che quando il capo della fazione di sotto era in quello stato d’animo di lamentela infantile, era ancor meno il caso di contraddirlo che in una situazione normale. – Avete già in mente come procedere? –
Moriarty sembrò perdersi per un attimo nei suoi pensieri. – Ho in mente molte idee, Sebastian, ma nessuna che possa essere messa in pratica entro poco tempo. –
- Se posso permettermi, capo, la nostra fazione ha fatto già enormi progressi quando grazie allo scienziato siamo riusciti a estrarre l’energia che ci serve dai corpi delle persone morte da poco. Non credete che sarebbe meglio attendere che la tensione con l’altra fazione si allenti prima di attaccare uno dei due Holmes? -. Sherlock non aveva recato loro danni da molto tempo, da cinque anni per l’esattezza. Non capiva perché tutta quella smania di toglierlo di mezzo, quindi. E specialmente non capiva perché escogitare pianificazioni così sofisticate, quando avrebbero già potuto ucciderlo un milione di volte. Probabilmente il capo voleva screditarlo, o trasformare la sua uccisione in un vero e proprio ultimo atto da opera teatrale.
- Attendere, Sebastian? E perché mai? Farò la mia mossa il prima possibile, piuttosto: credo proprio che ora il piccolo Sherl sia esposto e vulnerabile, e non vorrei farlo sentire solo in un momento così delicato! – scoppiò in una risata pacata priva di gioia. – Mi basta solo aspettare un po’, quel che basta perché… -
Fu interrotto dal suonare del suo cellulare.
Sebastian evitò commenti sulla scelta della canzone, cercando piuttosto di concentrarsi sull’espressione esaltata che fece ingigantire gli occhi del suo capo quando lesse chi era il mittente della chiamata.
- Stavo giusto chiedendomi quando mi avresti chiamato per darmi tue notizie. – disse Moriarty, uno scintillio sinistro ad illuminargli lo sguardo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
****
Note:
Non ho nulla da dire, questa volta. Come sempre ringrazio le tutte le persone che leggono questa storia, che l’hanno inserita tra le seguite e che l’hanno recensita. Mi fanno davvero sentire che questa non è una perdita di tempo prezioso.
Kisses
Sofyflora98

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Capitolo 12
*** Il Gatto e la Libellula ***


Aspettare. Questo gli aveva detto di fare Mycroft. E questo avrebbe fatto, per il momento, dato che comunque non aveva idea di come procedere, per cercare di scoprire dove fossero Sherlock e quel Victor Trevor di cui il maggiore degli Holmes gli aveva parlato.
John era tornato a Baker Street da ore, ormai. Era rimasto seduto sul divano praticamente da quando era arrivato all'appartamento. Non sapeva nemmeno a cosa aveva pensato per tutto quel tempo, lì immobile. A Sherlock, probabilmente. Continuava a non aver intenzione di alzarsi.
Era sempre stato consapevole di quale fosse la differenza tra ciò che Sherlock sapeva di lui e ciò che lui sapeva di Sherlock, ed era sempre stato consapevole del fatto che si trattasse di un divario enorme. Lui non era mai venuto a conoscenza i molti aneddoti sulla sua vita, fatta eccezione per qualche piccola cosa raccontatagli dalla signora Hudson, ma solo ora si rendeva conto di aver vissuto con un quasi sconosciuto.
Ciò che lui aveva saputo prima di quel giorno ammontava praticamente a nulla. Zero assoluto. E non si trattava solo del coinquilino, ma dell'intera città, del mondo in cui viveva. Una guerra tra esseri sovrannaturali era in corso, mentre le vicine di casa si raccoglievano per cucire centrotavola all'uncinetto.
Un'intera nuova specie viveva nel paese, svolgeva le proprie attività e si era addirittura spezzata in due per uno scontro feroce, senza che gli umani se ne accorgessero per anni. Ora che ci pensava, secondo quello che gli aveva detto Mycroft, le Creature dovevano esistere già da qualcosa come una ventina d'anni, e probabilmente gli esperimenti si protraevano già da un pezzo quando le cavie erano fuggite dai laboratori. La loro presenza invece era stata percepita solo da quattro anni e qualche mese.
E sorgeva  a quel punto un nuovo problema: anche supponendo che riuscissero a distinguere le Creature dagli esseri umani a colpo d’occhio, come capire quali erano ostili e quali no? Perché non potevano certo andare ad arrestare o a sparare alla prima Creatura che vedevano fare la spesa in giro, ora che era stata chiarita la questione della divisione di fazioni.
Ad un certo punto, John si accorse di essersi alzato per accostarsi alla finestra e guardare fuori.
Chiunque avrebbe potuto essere una Creatura, tra le persone lì fuori, pensò. Avrebbe potuto aver parlato e magari fatto amicizia con molte di loro, senza nemmeno essersene reso conto. Anzi, era molto probabile.
Ricordò un sogno in cui aveva visto ali, artigli e zanne affilate. Cacciatori mimetizzati tra le loro prede, che si fingevano parte di loro. Alcuni con l’intento di sopprimere i propri istinti animali, ed altri in attesa di balzare sul primo individuo che si ritrovava solo in un luogo fuori mano. Non molto diverso da come molti uomini erano già per conto loro, in effetti. Solo con la capacità fisica di distruggere gli altri, ed una necessità biologica, rendevano le Creature più pericolose.
Le fazioni erano come due branchi animali. In guerra tra loro, guidate da dei capi che avevano ottenuto quel ruolo con la loro forza o scaltrezza, decise a prevalere sull’altra per cancellarla o inglobarla, e con un territorio conteso.
E poi c’era Sherlock. Solitario, fragile e diffidente Sherlock. Non riusciva a togliersi l’impressione che lui non facesse realmente parte di tutto questo, che ne fosse come trascinato contro la sua volontà. Due volte vittima, prima di Baskerville e poi del sistema formatosi successivamente a quei tragici avvenimenti.
Sentiva un bisogno impellente, bruciante, di proteggerlo. Non da Moriarty, non si trattava di proteggerlo da qualcosa di preciso, ma dal mondo piuttosto. Sentì una scarica d’ansia nervosa opprimergli lo stomaco, come se in ogni istante che Sherlock passava lontano dalla sua vista, ci fosse il rischio che il mondo lo spingesse troppo e lo mandasse in frantumi.
Sherlock era come il cristallo. Durissimo, quasi impossibile da graffiare o scalfire, e freddo. Ma un solo colpo ben assestato nel punto giusto, avrebbe sgretolato completamente la sua struttura. Quindi sì, a suo modo era fragile. Non per questo, però, debole. No, non era affatto debole o indifeso. Erano gli altri ad essere assurdamente spietati.
Da quando avesse iniziato a pensare in termini come “noi”, inteso lui e Sherlock, e “gli altri” era un mistero ancora più intricato che quello su come riconoscere le Creature.
E fanculo a tutte le sue affermazioni sul non essere gay, perché discorsi del genere erano inutili e stupidi. Non aveva a che fare con l’essere o non essere gay. Si era deciso ad ammetterlo, sì, e quando formulò la frase nella propria mente, dopo settimane di tentennamenti, un peso gli si levò dal petto.
 Lui amava Sherlock. Fine della storia.
 
 
 
Quasi tutto il giorno Sherlock l’aveva passato nel suo Palazzo Mentale, seduto a gambe incrociate sulla moquette. Victor non l’aveva disturbato: era abituato a questo, e sapeva quando non era il caso di disturbarlo. Il detective, infatti, nemmeno si accorse dell’uomo che andava avanti e indietro, e dei rumori prodotti dai suoi movimenti e dai suoi gesti.
Sembrò risvegliarsi di scatto, con un profondo respiro simile a quello di un uomo che esce dall’apnea, solo verso sera, mentre Victor leggeva un volume sui miti scandinavi seduto accanto al tavolo della cucina. Non appena udì il cambiamento del respiro dell’amico, sollevò gli occhi dalle pagine.
- Ben tornato. – gli disse, con un sorriso, che Sherlock contraccambiò.
- Quanto tempo sono rimasto nel Palazzo Mentale? – domandò, alzandosi con cautela. Tutte quelle ore passate sul pavimento gli avevano indolenzito il fondo schiena.
- Beh, parecchio, anche se non ti sei avvicinato al tuo record. Sono già le nove di sera. Ho pensato però che avresti preferito essere lasciato in pace mentre meditavi. –
- Grazie, Victor. –
- Hai fame? Non hai ancora mangiato, da questa mattina. –
Sherlock scosse il capo, e spostò una sedia vicino a quella del Gatto. Allungò il collo sul libro che aveva posato in grembo. – Di cosa si tratta? –
Trevor rise piano, scuotendo la testa. – Solo favole inventate da popolazioni antiche, Sherlock. A te non sono mai interessate questo genere di cose. –
Ciononostante lasciò che la Libellula prendesse il libro dalle sue mani, iniziando a sfogliarlo. Sembrava più affascinato dalle figure che dalle leggende narrate. Era vero che quel tipo di storie non l’avevano mai attratto molto, ma essere seduto ad un tavolo a sfogliare un libro illustrato, in quel momento lo fece sentire come se fosse ancora nell’abitazione in cui aveva vissuto assieme a suo fratello, a Victor e a Jim nei primi anni dopo la fuga da Baskerville. Erano stati anni colmati dalla paura di essere scoperti, durante i quali ancora soffrivano molto per la loro nuova condizione, ma erano stati tutti assieme. In un certo modo, sentiva che era stato più felice in quel primo periodo che negli anni a venire.
- L’uomo in quest’illustrazione ti somiglia incredibilmente, Victor. – mormorò mentre guardava la raffigurazione di uno dei personaggi.
- Oh, lo pensi anche tu, quindi? –
Sherlock rimise il volume sulle gambe di Victor, che invece lo chiuse e lo posò sulla superficie del tavolo.  - Cos'hai fatto in questi ultimi anni, Victor? - la voce di Sherlock era poco più di un sussurro.
- Nulla. Mi sono nascosto dalla fazione di sotto, perlopiù. Da quando mi hanno identificato come un pericolo diretto non mi danno pace. Ci è voluto un po', ma alla fine sono riuscito a far perdere loro le mie tracce, anche se dubito che riuscirei a celarmi ai loro occhi ancora a lungo se Jim si mettesse a cercarmi in prima persona. -
- No, immagino di no. -
Il Gatto gli avvolse le spalle con un braccio, portandoselo più vicino. - È un secolo che non vedo tuo fratello. Lui come sta? -
Il detective alzò le spalle. - Come al solito. La sua dieta non funziona, è scocciato da ogni altro essere vivente e dirige il governo britannico all'insaputa del governo stesso. –. Alzò una mano, e la portò sulla spalla di Victor, vicino a dove si collegava al collo. Quest’ultimo s’irrigidì un istante dalla sorpresa, ma si rilassò quasi subito, e coprì le dita di Sherlock con le proprie.
- Da quando sei sparito, noi… - Sherlock sembrava indeciso su come continuare.
- Voi avete sentito la mia mancanza? – scherzò Victor.
- Sì. –
Il Gatto sentì un fiotto di calore pervadergli il petto. – Davvero? –
- Davvero. -. E Victor sapeva che era la verità, e che non era un’esagerazione, perché Sherlock a lui non aveva mai mentito né gli aveva nascosto alcunché.
- Com’è che con gli altri praticamente non riesci a comunicare, e con me diventi così sdolcinato, eh? –. Voleva suonare scherzoso, ma si accorse che sembrava più che stesse facendo le fusa.
- Perché tu non sei un’idiota, e perché parli una lingua comprensibile. –. Probabilmente anche l’investigatore voleva sembrare ironico, ma anche lui finì per fare cilecca, e la sua voce uscì come un sospiro malinconico. – Perché ti conosco da una vita, credo. – disse infine.
Victor trascinò ancora di più Sherlock verso di sé, fino a che non fu praticamente appoggiato sul suo petto, e infilò prontamente le dita affusolate tra quei soffici riccioli bruni. La Libellula non oppose alcuna resistenza, sciogliendosi quasi letteralmente addosso all’altro, e fu il suo turno di fare le fusa, mentre il Gatto attorcigliava i suoi capelli e gli massaggiava lo scalpo affettuosamente.
Si chinò a posargli un bacio lieve sulla fronte, e il detective si sollevò per inseguire quel contatto. Victor non sapeva se poteva sperare che quel movimento significasse che le cose tra loro erano rimaste com’erano prima che lui fosse stato costretto a nascondersi. Fece un tentativo, strofinando la punta del naso sulla vicinissima guancia di Sherlock, che sembrava davvero proteso verso di lui.
Sherlock lo baciò. Era un bacio leggero, a stampo, ma più che sufficiente come messaggio. Victor aggrottò le sopracciglia. – Sei sicuro? – osò domandare. Sherlock, come risposta lo baciò di nuovo.
Mentre stava per ritrarsi, Victor allungò il collo, prendendogli il viso tra le mani, e approfondendo il bacio. Sherlock afferrò saldamente le sue spalle, e il Gatto gli circondò la vita per trascinarlo via dalla sedia per portarlo invece a sedersi cavalcioni sul suo grembo.
Ora aveva le braccia di Sherlock strette attorno al collo, come una minaccia nel caso avesse provato ad allontanarlo, e si affrettò a spostare le proprie così da riuscire ad accarezzargli la schiena da sopra la camicia. Ricordava quella sensazione, il tepore dolce del corpo della Libellula, quella sorta di morbidezza che sentiva, come se l’altro gli si stesse sciogliendo addosso. Gli era mancata da morire, e non poteva negare di aver pensato e sperato di sentirla di nuovo da quando aveva portato l’amico nella propria casa, ore prima. Nonostante sapesse che lui era l’unico ad essere innamorato dell’altro. Nonostante sapesse che anche se avevano avuto quel tipo di relazione da quando erano giovani, aveva perduto ormai quella minuscola possibilità di avere anche il suo cuore.
Fece scivolare giù le mani e gli strinse le natiche sode, accompagnando il movimento ondulatorio dei suoi fianchi. Si staccò dal bacio per riprendere fiato, boccheggiando.
- Aspetta… - ansimò. – Di là, non qui. –
A malincuore lo scostò dal proprio corpo, solo per trascinarlo verso la camera da letto. Era un sacco di tempo che non succedeva, non aveva intenzione di iniziare e finire lì, su una sedia.
Lo spinse sul materasso, e appoggiò le mani ai lati della sua testa, fermandosi un attimo ad ammirare quel bel viso arrossato, circondato da riccioli scarmigliati e ribelli. Meraviglioso. Quasi gli strappò la camicia di dosso, dalla foga con cui cercava di far scivolare via i bottoni dalle loro asole, ed ottenne per questo una risata divertita. Sherlock fece molta meno fatica, invece, a sfilare la sua. Era sempre stato più abile nel mantenere una discreta manualità in ogni situazione.
Quando si ritrovò di fronte a quel mare di pelle color latte, dovette fare un enorme sforzo per non avventarsi su di essa e marchiarla: Sherlock non era suo, anche se gli sarebbe piaciuto. Oh, quanto lo desiderava!
Comunque non oppose alcuna resistenza all’istinto di accarezzarla a tratti con delicatezza e a tratti più voluttuosamente, a palmo aperto, sia sul petto che sulla schiena, mentre l’altro gli solleticava la nuca e la base del collo con quelle dita affusolate che avrebbe volentieri preso a morsi, solo per sentire com’erano.
- Aiutami a… via, via tutto! – disse di nuovo, con il fiato reso corto dalla velocità dei battiti cardiaci. Sherlock intuì al volo cosa intendesse con quella frase appena abbozzata, e iniziò a sbottonarsi i pantaloni, sollevando il bacino perché anche Victor potesse aiutare a sfilarli via. Il Gatto lo imitò solo qualche secondo più tardi, gettando sia i suoi che i propri sul pavimento, assieme alle camicie. Ben presto anche l’intimo fece la stessa fine.
Victor appoggiò le mani sulle ginocchia dell’altro, invitandolo gentilmente a divaricare le gambe. Sherlock lo fece senza alcuna esitazione, e protese le braccia verso di lui.
Il Gatto si chinò in avanti, appoggiando tutto il corpo contro quello della Libellula, che strinse le braccia attorno alla sua schiena. Lo baciò con vigore, spingendo la lingua nella sua bocca dal sapore così dolce. Si sollevò leggermente per potergli tenere la testa fra le mani mentre gli mordeva le labbra rosee.
- Sherlock… - boccheggiò, ad un soffio dal suo volto. Questi gli accarezzò la fronte con il dorso della mano. Victor non era mai riuscito a capire se Sherlock sapesse o meno di ciò che provava nei suoi confronti. A volte sembrava comportarsi come se ne fosse consapevole, come se quasi volesse consolarlo per il fatto di non essere ricambiato come avrebbe voluto. Altre, al contrario, pareva completamente ignaro e ingenuo in proposito.
Portò le mani sotto alle cosce di Sherlock, che portò attorno ai fianchi, dove l’uomo le strinse con forza, trascinando Victor ancora di più contro di sé. Quest’ultimo fece scivolare una mano tra i loro corpi fino a che non raggiunse i loro membri. Sherlock emise un sottile pigolio quando lui li prese entrambi in una mano, iniziando a massaggiare con il pollice.
Incoraggiato da quei deliziosi suoni, Victor aumentò la velocità e l’intensità del movimento, il respiro sempre più affannoso e le gambe dolenti, i gemiti di Sherlock che si facevano man mano più forti e spezzati, tanto che ad un certo punto si ritrovò ad avere le sue unghie conficcate nei glutei.
Sherlock fu il primo a raggiungere l’apice, con un soffice grido che non si prese la briga di trattenere. Victor soffocò il proprio sulla pelle del suo petto, le mani strette attorno alle sue braccia tanto da fargli sbiancare le nocche.
Si spostò dalla posizione in cui si trovava dopo neanche un minuto, sollevando la coperta ormai non più ben sistemata così che potessero scivolarci sotto.
Gli sarebbe piaciuto, a quel punto, stringere Sherlock tra le braccia fino a che non si fosse addormentato sulla sua spalla, il respiro che gli solleticava il collo. Probabilmente, però, non glielo avrebbe permesso, e anche se lo avesse fatto, Victor non intendeva illudersi. L’affetto era certamente reciproco, ed erano diventati così intimi quando avevano poco più di diciassette anni, ma nonostante Sherlock gli volesse bene, non lo amava, e non l’avrebbe mai fatto. Ne era stato consapevole sin dalla prima volta, e aveva fatto del proprio meglio per non prendersi in giro.
Il detective si era già addormentato, o perlomeno lo fingeva, con il viso rivolto nella sua direzione. Nessun altro segno, però, di volersi avvicinare più di così. Victor, invece, gli rivolse la schiena, fissando lo sguardo verso il muro.
Se ti sei innamorato della persona sbagliata, non puoi dare la colpa a Sherlock si disse. È solo un problema tuo.
 
Per quasi tutta la notte non aveva dormito. Non aveva fatto altro che pensare e rimuginare su come procedere. Era chiaro che Sherlock difficilmente sarebbe tornato a parlare con John Watson di sua spontanea volontà, o almeno non l’avrebbe fatto di lì a breve. Victor però credeva che fosse il caso che si vedessero il prima possibile, e dubitava che Mycroft sapesse come trovarlo, quindi non restava che lui per far smuovere la situazione, e alla svelta: non aveva nulla in contrario a tenere Sherlock con sé, ovviamente, ma in quel modo questi avrebbe finito per isolarsi nuovamente, e non avrebbe giovato per nulla alla stabilità del detective.
Ricordava com’era quando era completamente rinchiuso nel suo guscio, quando erano ragazzini. Fatta eccezione per lui, era come se il resto del mondo fosse invisibile ai suoi occhi, o tanto incomprensibile e lontano da non suscitare in Sherlock alcun interesse. Non si poteva dire che le altre Creature fossero così socievoli, ma quella sua indifferenza e quel terrore cieco che provava per il mondo esterno inquietava sia lui che Mycroft.
Poi c’era stato l’incidente del 221C, dove il suo coinquilino lo aveva quasi ucciso, in preda al panico. Erano riusciti a far sciogliere almeno un po’ quell’indecifrabile libellula negli anni che avevano trascorso tutti assieme, e in un batter d’occhio era tornato al punto di partenza. Anzi, era diventato ancora più solitario e cupo di quanto non fosse mai stato. Diffidente e freddo, come una statua di ghiaccio.
Quel John Watson, però, aveva fatto miracoli in quegli ultimi mesi, e non poteva permettere che Sherlock ricadesse in quell’abisso un’altra volta senza provare a fare alcunché.
Quando giunse il mattino, aveva deciso che quel giorno stesso si sarebbe recato a Baker Street, all’insaputa di Sherlock, per parlare con quel dottor Watson. Poi avrebbe fatto in modo di farli incontrare, sempre all’oscuro del detective. Se gli avesse proposto di tornare nel suo appartamento a chiarire con il coinquilino ciò che era accaduto, sapeva che Sherlock avrebbe rifiutato di vederlo. Avrebbe scelto di rinchiudersi nel suo bozzolo, fuggire da ciò che lo spaventava, piuttosto che affrontare un’altra persona. Anche se era consapevole che tale persona non aveva alcuna cattiva intenzione nei suoi confronti.
Si stropicciò gli occhi, soffocando uno sbadiglio. Fece leva sugli avambracci per sollevare il busto, e quando fu seduto voltò il capo alla propria destra per guardare l’uomo accanto a lui. Sherlock era disteso sulla schiena, con la testa girata verso l’esterno del letto. Aveva una mano appoggiata languidamente sul petto, ed una gamba leggermente piegata, la coperta sollevata dal ginocchio che lasciava vedere una sinuosa coscia diafana. La luce pallida del sole mattutino sembrava fatta apposta per risaltare il contrasto tra quella pelle di porcellana e i capelli scuri.
Gli si avvicinò, chinandosi su di lui. – Sherlock? – sussurrò, sfiorandogli un orecchio.
Questi emise un breve mugolio per fargli capire che era sveglio. – Scusa, non avrei voluto svegliarti. Io questa mattina devo uscire, e non sono sicuro di quanto resterò fuori. Una questione delicata. Volevo solo avvertirti. Resta pure qui a dormire finché ti pare. –
Conoscendo la sua tendenza a stare giorni senza chiudere gli occhi un minuto, non si sarebbe mai sognato di buttarlo giù dal letto una delle rare volte in cui riposava così pacificamente.
Sherlock mormorò un “sì” assonnato, e diede all’altro l’impressione che non si sarebbe mosso di lì per un bel pezzo. Meglio così, si disse. Se mai Sherlock avesse pensato di cercarlo, non aveva dubbio che gli ci sarebbe voluto fin troppo poco tempo per capire dov’era andato.
Dopo aver fatto una colazione veloce ed essersi vestito il più rapidamente possibile, sgattaiolò silenziosamente fuori dall’abitazione. Meno ridestava i sensi dell’amico, meglio era, in quel caso.
Uscito dalla porta, si guardò attorno per controllare che non ci fosse nessuna Creatura della fazione di sotto a gironzolare in giro. Per questo i suoi sensi felini acuiti gli facevano molto comodo. Verificato il via libera, si diresse verso la strada principale per prendere un taxi.
Aveva un problema con le Creature della fazione opposta da qualche anno, poco dopo l’incidente accaduto a Sherlock, e poco prima che gli umani puri venissero a conoscenza della loro esistenza.
Nonostante molte delle Creature conoscessero i volti e le caratteristiche animali delle altre, lì a Londra, di rado sapevano anche nomi e cognomi dei nemici. Per non essere facilmente rintracciati, cercavano di custodire le loro identità il più gelosamente possibile. Era più facile rintracciare qualcuno sapendone il nome, che conoscendone solo i lineamenti.
C’erano alcune eccezioni i cui nomi erano di pubblico dominio, ma che erano quasi intoccabili perché ricoprivano un ruolo importante nell’organizzazione delle fazioni, come gli Holmes e Moriarty. Pochissimi osavano alzare dito contro loro personalmente, o almeno non lo avrebbero fatto fintantoché non fosse crollato quel sistema.
Victor, per sua sfortuna, non rientrava tra questi, e sebbene Moriarty non si era mai dimostrato particolarmente interessato a lui nonostante conoscesse perfettamente la sua identità, altri membri della sua fazione erano riusciti a scoprire che il Gatto aveva per nome Victor Trevor, e questo gli aveva procurato parecchi guai.
Aveva dovuto non solo iniziare a spostarsi spesso di casa in casa e lasciare il lavoro, ma anche farsi procurare dei nuovi documenti con un nome falso, perché il suo non fosse reperibile in alcuna sorta di documento che avrebbe potuto renderlo rintracciabile. Questo, però, l’aveva reso quasi impossibile da trovare anche per gli Holmes.
Mentre il taxi si fermava ad un semaforo, gli parve che uno dei passanti si fosse fermato a fissarlo attraverso il finestrino. Non poté reprimere un senso di inquietudine. Da quando si nascondeva, aveva sempre l’impressione di essere osservato. Forse era la costante tensione, forse lo stress, o magari era davvero così, ma comunque era estenuante.
Sperava solo che se davvero qualcuno lo stesse osservando, non avesse visto anche che Sherlock era entrato nella sua casa il giorno prima. A lui potevano fare quello che volevano, avrebbe tenuto testa a tutti loro, ma Sherlock non andava toccato. Era importante, era prezioso e troppo fragile per finire nelle mani di quella gente. Avrebbe ucciso, si sarebbe fatto uccidere per proteggerlo. Non lo considerava certo debole, ovviamente: sebbene non avesse le capacità di combattimento date a molte Creature dalle loro Estensioni, possedeva comunque le sue spine. Aveva a che fare con l’emotività, la sua fragilità.
E poi, era più l’idea che qualcun altro volesse fargli del male, ciò che gli faceva torcere lo stomaco. Sarà stato perché Victor aveva ancora in mente il ragazzino esile e pallido che era quando si erano visti la prima volta nei laboratori, ma il pensiero che delle persone sul serio desiderassero spezzarlo per poter sradicare la fazione che impediva loro di trucidare gli umani per farne nutrimento… credeva che esistesse un limite a ciò che una persona sarebbe potuta arrivare a fare per raggiungere il proprio scopo.
Il veicolò si fermò davanti all’appartamento di Baker Street.
Dopo averlo pagato, Victor rimase a contemplare la facciata dell’edificio. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che era stato lì? Anni, credeva. Probabilmente l’ultima sua visita era stata per aiutare Mycroft a portare via Sherlock, dopo che il fratello maggiore l’aveva trovato in un lago di sangue nel 221C. Si erano visti qualche altra volta prima che lui scomparisse, ma mai in quella casa. Sherlock aveva smesso di vivere lì subito dopo essersi rimesso in piedi. E c’era voluto del tempo, davvero molto tempo sia per la guarigione che per la riabilitazione muscolare. Era un miracolo che il suo corpo si fosse ristabilito completamente, senza lasciargli difficoltà di movimento. Probabilmente l’essere una Creatura aveva influito in questo: guarivano molto più rapidamente delle persone normali. Un umano comune probabilmente sarebbe rimasto paralizzato, dopo una molteplice frattura alla spina dorsale.
Mentre si avvicinava alla soglia, c’era una sorta di contemplazione nei suoi occhi verso quell’edificio, quasi di reverenza. Era il luogo dove per molti anni aveva vissuto Sherlock, e dove tutt’ora viveva. Era impregnato del suo odore di sicuro, della sua essenza. Caotico e polveroso, con tocchi retrò mescolati agli strumenti scientifici. Se non avesse saputo che abitava lì anche un’altra persona, John Watson, avrebbe potuto scommettere che sarebbe stato anche buio per le tende tirate e dall’aria viziata e pesante. Ma sperava che la coesistenza con qualcun altro avesse limitato certi eccessi che sembravano puntare all’autodistruzione.
Si chiese se John Watson fosse in grado di farlo mangiare se non adeguatamente, almeno sufficientemente da non farlo stramazzare a terra durante un caso, o qualcosa del genere. Sorrise tra sé, pensando a quante volte l’aveva accompagnato nei suoi casi, in passato, e a come non era mai e poi mai riuscito a farlo ragionare quando si trattava del cibo e delle altre sue cattive abitudini.
Suonò il campanello.
Passò relativamente poco tempo da quando aveva pigiato il bottone a quando la porta si spalancò di scatto, aprendogli la vista ad un uomo abbastanza basso, dai capelli corti biondo cenere e gli occhi blu scuro. Ah. Eccolo qui, il soldato.
Non era certo bravo come Sherlock, ma certe cosette riusciva a dedurle pure lui. Vide perfettamente cosa aveva fatto capire al coinquilino che quest’uomo era stato un militare. E non aveva bisogno di chiederlo per poter dire che di sicuro era stato Sherlock a capirlo prima che gli venisse detto.
Vide un lampo di delusione spegnergli un istante il volto, quando Watson lo vide. – Buongiorno, signore. Uhm… come posso aiutarla? – gli domandò, incerto.
Victor chinò il capo. – Buongiorno a lei, dottor Watson. È un piacere conoscerla di persona. –
Dovette trattenere una piccola risata, quando si accorse che l’uomo lo stava scrutando come fosse un campione da laboratorio. Doveva aver preso quest’abitudine da Sherlock.
- Posso chiederle chi è lei, signore? – si sentì dire. Eccolo, sempre all’erta. Non sarebbe stato così semplice coglierlo impreparato, se qualche Creatura della fazione di sotto avesse provato a ingannarlo. Perlomeno era preparato ad aspettarsi i problemi in arrivo. Fortuna che Victor non rappresentava un problema!
- Mi perdoni, dottor Watson. Il mio nome è Victor Trevor. –
Vide un lampo di riconoscimento farlo irrigidire un poco. – Riguarda Sherlock, quindi? – e mentre diceva questo, Watson sembrava preoccupato.
Victor annuì, cercando di sembrare il più tranquillo e rilassato possibile. Gli fu lampante come quest’individuo avesse a cuore il suo compagno (o amico, o amante, o qualsiasi cosa erano stati da non ricordava nemmeno lui quanti anni). Decise che poteva fidarsi di lui immediatamente.
- Posso entrare? Vorrei parlare con lei, e la strada non è il posto adatto. –
Ora visibilmente più bendisposto nei suoi confronti, Watson gli disse di sì, e si scostò per farlo passare.
Dentro, già dall’ingresso, tutto era identico a come lo ricordava. E sebbene gli umani non fossero in  grado di percepirlo, lui sentiva chiaramente il particolare odore dolce e sensuale che veniva emanato dalla Libellula. Anche l’aria nella piccola casa dove abitavano da ragazzini ne era stata resa satura, e quel profumo lo aveva perseguitato e ossessionato da quando era stato in grado di sentirlo.
Anche nell’appartamento vero e proprio, al piani superiore, nulla era cambiato.
Non avrebbe mai finito di stupirsi di come le apparenze ingannassero la vista.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Note:
Tanto per la cronaca, nel caso qualcuno non lo sapesse, i miti scandinavi sono quelli che narrano delle divinità norrene, come Odino, Thor, le valchirie, eccetera. Posso supporre che sia chiaro a cosa si riferiva Sherlock, quando ha detto che una delle illustrazioni somigliava a Victor, a questo punto, partendo dal presupposto che per me Trevor è Tom Hiddleston? XD
Kisses<3
 
Sofyflora98
 

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Capitolo 13
*** Tepore ***


John aveva fatto entrare Trevor nell’appartamento, e l’aveva invitato ad accomodarsi. Victor aveva preso posto su una delle due poltrone, mentre Watson gli aveva detto che sarebbe andato nel frattempo a preparare il tè. La cosa aveva fatto sorridere sommessamente Victor: quel dottor Watson era così tipicamente inglese!
Mentre era lì solo nel salotto, ne approfittò per guardarsi attorno. Sostanzialmente l’ambiente non era cambiato molto, ma percepiva i tocchi di quel nuovo coinquilino di Sherlock, anche dove erano poco visibili. Piccole cose, perlopiù, come un mobile dove lo strato di polvere era più sottile, una serie di strumenti da laboratori confinati a ricoprire la superficie di solo un mobile invece che l’intera stanza, una tenda tirata a far passare la luce del sole. O il rumore del servizio da tè che veniva tirato fuori dalla credenza, servizio di cui dubitava una vita lì antecedente all’arrivo di Watson. Il suo amico d’infanzia aveva sempre preferito le tazze mug, più comode e facili da tenere in una mano quando l’altra era occupata da una fiala di acido solforico o una fiamma ossidrica.
Quando, infine, John Watson tornò con il vassoio che portava teiera, tazze, zucchero e lattiera, Victor gli concesse un sorriso di gratitudine, e chinò lievemente il capo in segno di ringraziamento. L’uomo posò il tutto sul tavolino che stava tra le poltrone, e prese posto sulla propria, anche se non prima di versare l’infuso in entrambe le tazze.
- Dunque… - iniziò incerto, squadrando Victor da capo a piedi con fare inquisitorio. Problemi di fiducia individuò Trevor probabilmente causati dall’esperienza militare.
- Mi scuso davvero per essere arrivato senza avvisare, dottor Watson, ma non ho potuto fare altrimenti. La necessità di venire a parlare con lei è giunta abbastanza all’ultimo minuto, e a quel punto non avrei potuto arrischiarmi a telefonare per annunciarmi anche se avessi conosciuto il numero. –
- Immagino di sì, signor Trevor. Uhm… lei se non sbaglio era un amico d’infanzia di Sherlock? – se quelli che Victor vedeva non erano una punta di gelosia e un pizzico di possessività, il Gatto si sarebbe fatto mozzare la coda e le vibrisse senza indugiare.
- Una cosa del genere, sì. – e fece ancora un sorriso gentile. – In effetti è proprio Sherlock la ragione per cui sono qui. –
Il dottore annuì. – Lo sospettavo. Mycroft mi aveva detto che probabilmente lei sarebbe rimasto coinvolto, in questi giorni. Se avessimo potuto l’avremmo contatta noi, ma pare che siate irraggiungibile. –
- Esattamente. Mi duole, ma è una necessità. Non posso permettermi di essere rintracciabile già da anni. Sa… problemi con l’altra fazione. -
Seguì un silenzio che durò qualche minuto. Victor non sapeva bene come continuare, in tutta sincerità. Non voleva sembrare invadente ed irruento nel chiedere a quell’uomo di venire lui stesso a casa sua a parlare con Sherlock e convincerlo a tornare a Baker Street il prima possibile, ma non poteva neanche dar l’idea che non fosse una cosa importante ed urgente. Inoltre sarebbe stato preferibile non farlo preoccupare più del dovuto, perché non trasmettesse a Sherlock la sua ansia mentre gli parlava, ma nemmeno far apparire il problema troppo blando. E, soprattutto, non aveva idea di che parole usare per spiegargli quale fosse il problema con Sherlock e cosa doveva assolutamente fargli capire. Aveva l’impressione che qualsiasi frase avrebbe detto sarebbe parso invadente ed eccessivamente a conoscenza degli affari loro, per essere un uomo che Watson aveva appena incontrato e che Sherlock non aveva visto per anni.
Alla fine fu John a rompere il silenzio. – Lei sa dov’è, vero? Sa dove si è nascosto. –
Victor annuì. – Ieri mattina l’ho trovato fradicio e tremante in un edificio abbandonato che aveva già altre volte usato come rifugio. Non mi era sembrato in condizioni da riprendersi in fretta da solo come suo solito, per cui sono riuscito a convincerlo a venire a casa con me. Beh, non che sia stato difficile convincerlo, in realtà. Credo che si fidi di me quasi ad occhi chiusi. Quasi, però. –
- Era stato lei a toglierci dai guai alla piscina, quando ci siamo confrontati con Moriarty? –.
Trevor fece di nuovo un cenno d’assenso. – Non intendevo apparire come… insomma, vi tenevo d’occhio da un po’, ma le assicuro che ero semplicemente preoccupato. Gli ultimi movimenti della fazione di sotto m’impensierivano, e quando ho saputo degli ultimi incidenti in cui vi siete imbattuti, ho pensato che fosse il caso di tenere la situazione sott’occhio, in senso letterale. –
- La ringrazio, probabilmente abbiamo la vita salva grazie a lei. –
- Si figuri. Sono abituato a controllare che Sherlock resti vivo da anni, e i suoi amici vanno protetti in egual modo, a mio parere. Ne ha troppo pochi per rischiare di perderli in quel modo… -
Era già da qualche tempo che John aveva una strana impressione riguardo coloro che conoscevano Sherlock da molto tempo. Avevano tutti, dalla signora Hudson a Mycroft, uno strano atteggiamento nel trattare con il detective, o meglio nel trattare con chi gli si avvicinava. Pareva che lo vedessero come una qualche sorta di prezioso estremamente fragile. Indubbiamente anche lui riconosceva una certa fragilità nell’amico, ma il modo in cui lo controllavano, e addirittura si rivolgevano direttamente a John per dirgli come comportarsi con l’investigatore, era ossessivo, e avrebbe aggiunto anche un poco morboso.
Era quasi certo che anche Victor Trevor era venuto per discutere sulla condotta da tenere non appena avesse rivisto il più giovane degli Holmes.
- Andrò dritto al punto, dottor Watson. Dubito fortemente di essere in grado di convincere Sherlock a tornare qui. Anzi, non credo che riuscirò a farlo smuovere da dov’è per un bel pezzo. Quello che è accaduto l’ha spaventato molto. Era da tempo che non gli capitava di perdere il controllo, e detesta l’idea di far del male a qualcuno a causa della sua natura di Creatura. –
Già, quella cosa che aveva fatto per sbaglio quando John gli aveva toccato la spalla. Sapeva che aveva accidentalmente lasciato che il suo organismo assorbisse l’energia prodotta da quello di Watson, solo con il contatto cutaneo, e che era stato fortunato che Sherlock avesse i riflessi sufficientemente pronti da farlo staccare subito.
- Quella cosa che ha fatto… -  mormorò John. – … si è trattato solo di un incidente. Era sotto stress, e credo di aver contribuito a spaventarlo. –
Victor abbassò lo sguardo. – Certo che sì, dottor Watson. Il problema però non riguarda questo singolo avvenimento. Quando siamo fuggiti da Baskerville, non avevamo il controllo delle nostre capacità, ci sentivamo deboli, furiosi e affamati. Cosa pensa sia successo ai primi umani in cui ci siamo imbattuti? –
John si paralizzò. – Oh. Quindi…? –
- Già, proprio così. – confermò Trevor. – Li abbiamo prosciugati. Non del tutto intenzionalmente, e di sicuro non razionalmente. Eravamo terrorizzati e privi di freni, come ho già detto. Anche se avessimo saputo cosa stavamo facendo, dubito che saremmo stati in grado di fermarci. Questo però, non toglie che sia stata un’esperienza terrificante, per dei ragazzini, rendersi conto di aver ucciso degli esseri umani e di averne tratto fisicamente beneficio. –
- E suppongo che Sherlock lo ricordi molto bene, giusto? –
- Anche troppo. Mycroft lo teneva vicino per proteggerlo, e lui era quello con il maggiore controllo. Tuttavia lui stesso finì per afferrare un uomo ed assorbirne l’energia dalle cellule, anche se forse è riuscito a fermarsi prima di ucciderlo. Comunque sarà stato ucciso da qualcun altro, ma non importa questo. Sherlock ricorda chiaramente di aver bevuto quegli umani, ed ora la cosa lo angoscia. Provi ad immaginare cosa significhi aver rischiato di uccidere uno dei propri pochissimi amici, sapendo di aver già assassinato altre persone in quel modo. –
John si fermò un attimo, e poi buttò giù il suo tè in due sorsi. – Ecco perché è andato nel panico. – disse, quando ebbe vuotato la tazza. Victor annuì di nuovo. – E siccome già una volta è stato aggredito da un umano che ha scoperto la sua vera natura, ora dev’essersi convinto che io sia spaventato da lui e che lo detesti. – continuò il dottore.
- Per questo dovrebbe venire lei stesso a cercare di tirarlo fuori da casa mia. Lei non sa com’era anni fa, dopo che quell’uomo l’ha quasi ucciso. In quel periodo, ho davvero temuto per lui e per la sua sanità. Sembrava che potesse perdere la testa da un momento all’altro, non può immaginare la nostra inquietudine. –
L’espressione di Trevor pareva pacata, l’immagine di un uomo dal sangue freddo, ma le mani lo tradivano. Le stringeva un grembo con forza, le nocche sbiancate dalla tensione, e tremavano appena. Fu solo dopo aver notato quel particolare che John si accorse di come anche il suo viso ogni qualche secondo vacillava appena come se stesse cercando di mantenere l’apparenza di una tranquillità forzata.
E i suoi occhi, anche. Erano chiari, di un acquamarina che somigliava a quello degli occhi di Sherlock, anche se neanche lontanamente brillante e intenso come per il detective. Erano nervosi, attenti. Attendeva una sua risposta, e temeva che lui volesse negargli ciò che gli stava chiedendo. Ed erano limpidi. Doveva essere profondamente angustiato a causa di Sherlock, e quella scintilla nelle iridi lo dimostrava. Era l’accenno di una piccola disperazione sul punto di esplodere nel caso di un fallimento, che non aveva mai visto in Mycroft.
Ma esattamente, quanto tiene a Sherlock quest’uomo? si ritrovò a pensare Watson, stupefatto. Ora che aveva visto tutti questi particolari, anche l’emozione che l’altro doveva provare non gli pareva più così trattenuta. Era leggibile in ogni singolo millimetro della sua persona, bruciante.
- La prego, dottor Watson! – esclamò Trevor a quel punto, lasciando che l’apparenza di sangue freddo si dissolvesse quando lo vide esitare. – Per favore, temo che nessuno a parte lei sarebbe in grado di convincerlo a… di fargli capire che non deve mai e poi mai tornare ad isolarsi in una maniera del genere. –
I suoi occhi erano così sinceri, attraversati da un sottile filo di dolore sordo, che John pensò che sarebbe stato un mostro a non accogliere subito la sua richiesta.
- Posso chiederle una cosa, signor Trevor? – questi parve leggermente interdetto dall’improvviso cambio di argomento senza aver ricevuto ancora una risposta, ma annuì comunque. Fu principalmente l’espressione dolce e tiepida che accompagnava la voce di Watson a impedire che fosse innervosito da quel quesito improvviso. Avrebbe preferito sentire subito se fosse stato disposto oppure no ad aiutarlo, ma sentiva una sorta di bontà di natura in quell’uomo. Sherlock aveva trovato una persona stupenda, si disse.
- Certo che sì, dottor Watson. – disse infatti, dopo aver già acconsentito con il movimento del capo.
- Lei da quanto tempo, esattamente conosce Sherlock? È pura curiosità, mi creda. –
Victor chiuse gli occhi per qualche secondo. – Da quando ci hanno portati a Baskerville. Ci siamo incontrati lì. Credo che avessimo avuto circa sette o otto anni, all’epoca. Abbiamo vissuto assieme fino a che non siamo diventati entrambi adulti, ma fino al giorno in cui sono stato costretto a sparire, abbiamo comunque continuato a incontrarci molto spesso. Ci vedevamo quasi tutti i giorni. –
Watson sembrò ancora una volta studiarlo, prima di continuare. Ma non con la diffidenza di quando l’aveva visto davanti alla porta, né come se lo stesse giudicando. Più come se volesse capirlo, gli sembrò. Comprendere cosa avesse in testa, ma senza il dubbio che stesse tentando di ingannarlo.
- Lei è innamorato di Sherlock da tanto tempo, signor Trevor, vero? –
Victor spalancò gli occhi dallo stupore. Si erano incontrato da a malapena mezz’ora, e l’aveva già capito? Sherlock non l’aveva intuito nemmeno dopo tutti quegli anni!
- Scusi, non volevo sembrare invadente. Ma se si chiede come lo so, sappia che da come diventa quando parla di Sherlock la cosa è piuttosto palese. –
Trevor accennò ad un sorriso malinconico. – Nessun problema, dottor Watson. A parte quello che sarebbe direttamente interessato, credo che lo sappiano tutte le persone che ci conoscono entrambi. Comunque lo amo da quando eravamo adolescenti. Non ho mai amato nessun altro e non ho mai provato attrazione per nessun altro. –
Ed ora Victor teneva uno sguardo fermo, quasi di sfida, come se si aspettasse di sentirsi dire che c’era qualcosa che non andava in lui se davvero era come diceva, perché le persone normali non alimentano un amore non corrisposto per tutto quel tempo, e di sicuro non sono attratte da una singola persona in tutta la loro vita. John, invece, annuì semplicemente, come se se lo fosse aspettato, quasi. Anzi, c’era una punta di ammirazione nel modo in cui sosteneva lo sguardo del Gatto.
- Verrò a parlargli, certo. – disse a quel punto. E il sollievo, a quelle parole, scivolò morbidamente in Victor, tanto che tutta la sua postura sembrò sciogliersi e rilassarsi a vista d’occhio.
- Grazie, dottor Watson. Non so davvero come potrei ricambiare… - sospirò, un altro sorriso dolce a distendergli i lineamenti.
- Non deve far nulla: sarei venuto in qualsiasi situazione, Sherlock è mio amico. –
Negli ultimi minuti aveva iniziato a formarsi una sorta di comprensione tra i due uomini, di intendimento dovuto al legami che entrambi avevano con una stessa persona. A John piacque quell’individuo, e trovava toccante il modo in cui si era preso cura di Holmes per così tanto tempo, senza pretese. Victor, a sua volta, si ritrovò a pensare di nuovo che Sherlock era stato davvero fortunato ad incontrare una persona come John Watson.
- E lei, dottor Watson? Lei da quant’è che è innamorato di lui? –
John assunse una finta espressione di colpevolezza. – È davvero così evidente? –
- Oh, sì! Molto, dottor Watson. Per cui credo che lei riuscirà a calmarlo, a fargli capire una buona volta che non è lui da incolpare per tutti gli incidenti causato dalla sua natura di Creatura. Ascolterebbe lei molto più che me. –
- Cosa glielo fa credere? Lei lo conosce da moltissimo tempo in più rispetto a me. –
Victor alzò le spalle, anche se aveva il tipico sguardo di chi sa qualcosa in più e che non ha alcuna intenzione di riferirla. Uno sguardo un po’ furbo e falsamente disinvolto. – Oh, solo una mia impressione. Di solito, però, si rivelano corrette. –
- Quand’è il momento migliore per… vedere Sherlock? –
Victor sembrò pensarci su. – Appena lei può, suppongo. Quando sono uscito era ancora addormentato, credo. O insonnolito. Comunque era a letto, e credo che una volta tanto ci sia rimasto per un po’. Non volevo che sapesse che stavo venendo a parlare con lei, avrebbe fatto di tutto per impedirmelo. Sa com’è testardo. Anzi, credo che sarebbe una buona cosa se vedesse prima lei che me, oggi. –
- Va bene se mi preparo, e poi andiamo subito? – chiese Watson, che iniziava a sentire una certa urgenza nel rivedere il detective.
- Sarebbe perfetto. – acconsentì Trevor, annuendo con decisione.
Watson non attese un istante per correre a prendere giacca e scarpe.
Questa volta pensò Victor ti sei davvero trovato una persona meravigliosa, Sherlock. Ma quante volte l’aveva pnesato, negli ultimi venti minuti?
 
 
 
Quando si fu destato completamente, Sherlock si accorse che doveva essere già tarda mattinata. Si strofinò gli occhi, stupito di essere rimasto a letto così a lungo. Inoltre, era da un po’ di tempo che dormiva anche meno del solito.
Allungò un braccio verso l’altro lato del letto, e sentì le lenzuola fredde. Victor doveva essersi alzato da un bel pezzo. Gli venne in mente la vaga immagine, in effetti, dell’amico che, già vestito, lo avvertiva che stava uscendo. Non gli aveva detto per andare dove o a fare cosa.
Si alzò lentamente, le membra ancora intorpidite, e piacevolmente sciolte e rilassate. Aveva ormai preso l’abitudine a sentire ogni nervo teso, ogni muscolo contratto costantemente. Quel cambiamento gli sussurrò all’orecchio, con una vocina leziosa e insinuante, che non era sempre stato così. Lui la ignorò come riflesso automatico.
Sentiva un sottile strato di sudore sulla pelle, quasi di sicuro risalente alla sera precedente, ed alcune tracce residue dell’amplesso con Victor. Doccia, decise, come prima cosa. Lasciando tutti i vestiti ancora sparpagliati attorno al letto, si diresse verso il bagno, e dopo qualche minuto l’acqua calda gli accarezzava le spalle.
Così, si disse, avrebbe anche potuto viverci. Era sempre stato bene con Victor, come quasi con nessun altro. Era una delle rare persone che non erano completamente stupide. Victor era intelligente, certo. In modo diverso da lui e Mycroft. Victor capiva altre cose, era un osservatore in altri campi, ma in tali non gli sfuggiva nulla. Sapeva come far sentire bene le persone, tutte le persone.
Oh, ma anche John ti fa stare bene, no? Certo, certo che John lo faceva stare bene. Altrimenti come avrebbe potuto condividere l’appartamento con lui? Certo, tra le persone che non erano solo irritanti, ce ne erano molte che comunque sopportava a fatica, ma non era il caso di Watson. E allora perché sei qui invece che a Baker Street? Perché aveva fatto un casino. Perché con che faccia poteva andare lì a pretendere di continuare a vivere come se nulla fosse, dopo aver indubbiamente dimostrato di essere un mostro? Non poteva permettersi di fargli del male. E non aveva nessuna certezza che non sarebbe accaduto un’altra volta.
Bugiardo. Hai paura. Temi di essere rigettato, non di fargli del male, perché sai che quello non accadrà mai più. Hai paura che sia lui a farti male. Ovvio che sì! Come si poteva biasimarlo per questo? Oh, chi conosce Watson potrebbe farlo benissimo. Tu sai che non è quel genere di persona. Lo sai. Eppure non provi nemmeno a tornare da lui. E non lo farai mai, vero?
Era vero. John non era come quell’altro individuo. John era buono di natura. Troppo, perché uno come lui potesse averlo meritato.
Il problema non era John. Il problema era lui.
Girò il rubinetto per fermare il getto d’acqua, ed uscì dalla doccia facendo attenzione a non gocciolare su tutto il pavimento. Mise i piedi su un tappeto di spugna che Victor teneva davanti alla doccia proprio per quella ragione, e lo trascino con le piante fino a raggiungere un asciugamano con cui avvolgersi. Si asciugò con calma, e poi si legò l’asciugamano attorno ai fianchi, prendendone un altro per strofinarsi i capelli bagnati. 
Tornò nella camera da letto. Con le dita si ravvivò i riccioli, ora solo umidi, per dare ad essi un minimo di compostezza prima che si asciugassero prendendo forme bizzarre.
Quello, pensò, era il momento buono per fare “manutenzione”. Era da diverso tempo che aveva tralasciato la cosa, preso dagli ultimi avvenimenti, e non sapeva quando avrebbe avuto di nuovo l’occasione di stare solo ed occuparsi del problema in tutta tranquillità. Sentiva già un lieve pizzicare dietro le spalle, all’altezza delle scapole.
Frugò tra i vestiti che indossava quando era stato trovato da Victor, in cerca della fialetta contenente il denso fluido viola. Ne aveva sempre almeno una con se, come precauzione.
Si sedette al centro del letto, respirando profondamente, mentre si massaggiava le spalle richiamando all’ordine i muscoli che comandavano le Estensioni. Quando non venivano usate di frequente capitava di avere più difficoltà a muoverle, come con i muscoli di una persona che ha passato mesi in un letto d’ospedale.
Pian piano, le punte delle ali iniziarono ad intaccare la cute. Non sempre riusciva a compiere quel processo lentamente, spesso laceravano le cicatrici in un colpo secco, e aveva fatto molta fatica a non gridare dal dolore per non essere sentito da John, a Baker Street.
Solo quando le ebbe estratte completamente, si accorse di aver trattenuto il respiro. Lasciò uscire l’aria dai polmoni, senza neanche rendersi conto che stava involontariamente trattenendo ogni suono che cercava di uscire dalla gola, come se fosse stato ancora a Baker Street, e non da solo in casa di Victor, un’altra Creatura come lui da cui non avrebbe avuto comunque il problema di nascondere nulla.
Benne il fluido viola tutto d’un fiato.
Prese delicatamente tra le mani l’ala di sinistra, iniziando a massaggiarne l’attaccatura, farla chiudere e distendere, lisciandone la superficie scintillante. In realtà, non erano proprio ali d’insetto. La loro fisionomia non corrispondeva a quella di nessun animale preciso. Piuttosto somigliavano a quelle di un insetto per via delle membrane iridescenti, ma gli ricordavano, nel modo in cui si piegavano, a quelle dei draghi nei libri che Victor gli leggeva ad alta voce quand’erano bambini. Una via di mezzo tra queste due cose era ciò che gli pareva più plausibile. Come avessero fatto a diventare così quando gliele avevano impiantate, era un mistero. Probabilmente erano esse stesse il risultato di qualche disgustoso esperimento genetico del laboratorio. Le parti animali degli altri erano semplicemente le versioni ingrandite o ridotte di attributi realmente esistenti.
Se avesse potuto, le avrebbe tagliate via. Erano, ormai, una parte integrante del suo corpo, e se lo avesse fatto ci sarebbero state conseguenze, come se si fosse tagliato via un arto. Inoltre, Mycroft e Victor sarebbero stati furiosi se si fosse mutilato volontariamente. Non poteva fare altro che viverci assieme.
Una volta, questo pensiero l’aveva fatto rodere di rabbia e frustrazione. Ora la sua era solo rassegnazione. E sconfitta. Aveva oltrepassato il lato violento delle sue emozioni verso quelle due cose già da anni.
Sentì la porta scattare ed aprirsi.
S’irrigidì un brevissimo istante, ricordandosi quasi immediatamente che doveva essere Victor che rientrava. Magari gli avrebbe chiesto dov’era andato. Avrebbe anche potuto chiedergli di aiutarlo a distendere le ali all’indietro, stava avendo qualche difficoltà in quel particolare movimento.
Il modo in cui venne richiuso l’uscio, però, lo rimise all’erta. Troppo silenziosamente, con troppa cautela. E anche i passi non erano quelli lunghi e rapidi di Trevor. Erano più pesanti, e più lenti. Dagli intervalli tra uno e l’altro, intuì un’insicurezza nel muoversi in quell’ambiente. Ma non erano furtivi.
- Victor? – chiese comunque ad alta voce, per sicurezza.
A quel punto i passi si fecero più sicuri, verso la direzione della stanza.
Oh. Si rese conto di conoscerli. Sgranò gli occhi, esterrefatto. Ecco cos’era andato a fare Victor. Non poteva crederci, però. Pensava che non avrebbe mai…
Un lieve bussare, anche quello troppo familiare, lo fece sussultare. – Sherlock. – non una domanda. Un richiamo. Un’indicazione che sapeva chi era all’interno. – Posso entrare? –
Non fece in tempo a rispondere, che la porta si aprì di qualche centimetro, lasciando spazio ad una parte della testa di John perché potesse sbirciare. Anche lui spalancò gli occhi prima di entrare completamente.
Quando fu dentro, per un po’ non fecero che guardarsi reciprocamente. L’aria sembrava vibrare e a Sherlock ora girava davvero la testa.
Cercava qualsiasi segno di ostilità, di paura nello sguardo del coinquilino. Non trovò nulla di tutto questo, solo un velo di stanchezza e puro stupore. John stava osservando le sue ali. E poi, alzò lo sguardo per osservare il suo volto.
- John. – voleva sembrare disinvolto, come se la sua presenza lì non fosse stata inaspettata come invece fu in realtà. Non intendeva fargli sentire l’esitazione nella sua voce, quel lieve timore. Invece, John lo percepì. Come sempre.
- Ci hai fatti restare in ansia, diamine! – esclamò Watson, ma non sembrava arrabbiato. Piuttosto, Sherlock avrebbe detto sollevato. – Persino Mycroft ha cercato di trovarti, e se non fosse venuto Victor Trevor a cercarmi a Baker Street, staremmo ancora brancolando nel buio! –
Provò ad avvicinarglisi, ma il detective si ritrasse, indietreggiando sul materasso. John si fermò, mettendo le mani aperte davanti a sé in segno di resa.
- Victor ti ha mandato qui, quindi… ecco dov’era andato. – le ultime parole sembrarono più sussurrate a se stesso.
- Sì, è stato lui. Mi ha detto di entrare da solo. E sarò sincero, mi ha praticamente supplicato di riportarti a casa con me. Credo che su questo sia lui che Mycroft sono stati piuttosto chiari, quando ho parlato con loro. –
Sherlock aggrottò le sopracciglia. – Non posso. – disse seccamente, portandosi le ginocchia sotto al mento. Ogni movenza, ogni gesto che faceva, John lo riconobbe come di difesa. Chiuso su se stesso, l’espressione guardinga, le mani tese e i muscoli contratti.
- Perché? Per quello che è successo l’altra notte? Per quell’incidente? –
Sherlock emise un breve ringhio, che parve tutto tranne che umano. A John si rizzarono i peli sulla nuca, ma restò stoicamente immobile.
- Me lo chiedi? Sul serio, John? Non dovresti nemmeno essere qui, dannazione! Avrei potuto ucciderti, avrei potuto farlo centinaia di volte da quando condividiamo l’appartamento, e tu non saresti stato in grado di impedirlo. –
Aggressività. Solo una facciata. Era spaventato dal ricordo, lo sapevano entrambi, ma fecero finta di nulla.
- No, invece. Mycroft mi ha spiegato bene tutta la faccenda. Se hai perso il controllo è stato solo a causa dello stress. Avevamo appena rischiato di essere uccisi da Moriarty. È stato Trevor a salvarci, a quanto pare. –
- Già, è stato lui. – il più giovane dei due sembrò rilassarsi un poco. – Sono pericoloso, John. Hai visto cosa possono fare le Creature, dovresti allontanarmi più che puoi. –
Di nuovo John avanzò verso di lui. Si protese in avanti e appoggiò le mani sul materasso. Sherlock provò ancora ad allontanarsi da lui, ma fu fermato dal limite del letto. – Per questa ragione? Se hai intenzione di cominciare con una di quelle storie da melodrammi da romanzo, del tipo “stammi lontano perché sono un mostro”, temo che dovrò riportarti a Baker Street di peso. Hai paura che io ora ti detesti per avermi nascosto di essere una Creatura? Di avermi spaventato? O magari credi che odi le Creature a prescindere a causa delle credenze comuni sui vostri confronti? – si protese di più in avanti, fronteggiando senza pietà lo sguardo di Sherlock. Ora questo vacillava, John lo vedeva. Quegli occhi color acquamarina per un istante si erano abbassati, se intimoriti o colpevoli lui non sapeva. Ma le sue parole avevano fatto breccia. – Non m’importa nulla di tutto questo, lo capisci? Nulla. Ogni tanto ti spuntano queste ali? D’accordo. Posso rischiare di vederti perdere il controllo, anche se ne dubito? Non c’è problema, posso gestire la cosa. Ma posso, invece, lasciare che un mio amico si nasconda e soffra in solitudine per qualcosa che non è assolutamente una sua colpa? Questo non posso farlo, Sherlock. Quindi non chiedermi di andarmene e lasciarti fuggire via. –
Il respiro del detective era irregolare, spezzato, un lievissimo rantolo uscì dalla sua gola, quasi impercettibile. John si sentì quasi in colpa, e si chiese se non fosse stato troppo irruento, quando vide quegli occhi, quegli occhi così belli, inumidirsi.
- Non voglio farti del male, John. – mormorò la Creatura con voce tremante. – Io non… non posso… -
- Sherlock, guardami. – il detective alzò lo sguardo.
John portò una mano alla spalla dell’altro uomo. Questi sembrò all’inizio volersi sottrarre a quel contatto, ma all'ultimo momento decise di non muoversi. Il dottore iniziò a disegnare piccoli cerchi sulla pelle candida con il pollice, addolcendo lo sguardo. – Io non credo che tu potresti mai farmi del male, Sherlock. –
Non fosse stato attivamente partecipe a quella scena, fosse stato solo uno spettatore esterno, John avrebbe sicuramente trovato affascinante il fenomeno che si trovava di fronte. Ma non si riferiva alle ali, no. Era Sherlock, come persona la cosa affascinante. Quello che era accucciato su quel letto, con gli occhi sgranati e arrossati dallo sforzo di non lasciar scivolare le lacrime che li lambivano, i capelli umidi e spettinati e le membra tremanti, come poteva essere lo stesso Sherlock che insultava gli agenti di polizia, inseguiva i criminali più efferati senza preoccuparsi di chiamare aiuto e produceva veleni come hobby? Lo stesso che non aveva un briciolo di emozione nemmeno di fronte alle famiglie affrante delle vittime o a queste ultime stesse quando riuscivano a salvarle?
Sempre così freddo, così imperturbabile e forte, era quello Sherlock. E poi c'era questo Sherlock. Forse quello reale, l'inevitabile esternazione di tutto ciò che tratteneva e reprimeva. Senza difesa né offensiva, un essere fragile. Un essere che aveva dei sentimenti, al contrario di ciò che voleva far credere.
Questo lo aveva sempre saputo. Dopo poco tempo che si conosceva Sherlock, diventava chiaro che il suo era un meccanismo di difesa basato sull'isolamento. Ma non era preparato davvero per vedere quello Sherlock con i suoi occhi. Questo nonostante avesse immaginato, durante il tragitto per andare lì, di trovarsi davanti una situazione simile. Dubitava che avrebbe mai potuto esserlo.
- Non puoi esserne certo. - mormorò Sherlock. La sua voce, però, non era sicura come avrebbe voluto.
- Sì, invece. Perché l'altra notte ci sei andato vicino, ma hai saputo fermarti. Credo che tu sia perfettamente in grado di controllare questo genere di problema, sempre che si voglia definirlo un problema. Per me, personalmente, non esiste il problema. -
Quando gli sembrò che stesse per ribattere qualcosa, prese la sua spalla con tutta la mano, stringendo con delicatezza ma con fermezza. Voleva rassicurarlo, doveva rassicurarlo. Fargli capire che nemmeno per un istante doveva pensare che John l'avrebbe rifiutato, allontanato. Fargli sentire che era importante, che era amato, era una cosa che John non faceva solo per lui, ma anche per se stesso. Era lui stesso ad aver bisogno di che Sherlock lo sapesse.
Sentendo che stavolta non incontrava nessuna resistenza, prese piano anche l’altra spalla. Sherlock aveva abbassato lo sguardo sulle proprie ginocchia, lasciandolo a fronteggiare una massa di ricci che impedivano di vedergli il volto. John lo tirò a sé, con delicatezza, lasciandogli la possibilità di sottrarsi se avesse voluto. Sherlock non lo fece, permise che l’altro lo avvolgesse con le sue braccia, lasciò che la sua testa si posasse contro il petto di John.
Era strano, si disse il detective, essere più in basso di lui. Mentre Sherlock era seduto sul materasso, ora Watson ci era inginocchiato sopra, e superava il più giovane in altezza.
Gli pizzicavano gli occhi. Lo facevano anche prima, ma ora era diverso. Incredulo, sentì le guance bagnate e tiepide. Doveva averle sentite anche John, perché subito iniziò a bisbigliare con voce calda. – Sshh, va tutto bene, d’accordo? Tutto a posto. Poi torniamo a casa, sì? Torniamo a casa. Quindi non scappare più. Me lo prometti, Sherlock? –
Quest’ultimo annuì, senza aprir bocca per paura che se lo avesse fatto avrebbe iniziato a singhiozzare, oppure  a dire qualcosa di sdolcinato e completamente fuori luogo.
John era tiepido. Le sue dita ora sfioravano piano la sua testa, con estrema leggerezza, neanche avesse temuto che potesse andare in pezzi. Era esagerato, come al solito. Però gli piaceva che lo fosse.
Ti sei lasciato coinvolgere, Sherlock?
L’altra mano di John, ora, aveva sfiorato una delle sue ali. Con timidezza, esitante. Forse temeva che quell’azione avrebbe fatto fuggire Sherlock. Probabilmente, si disse, in qualsiasi altra situazione sarebbe fuggito. Ma non sentì quell’impulso, quel giorno.
- Sono bellissime. – mormorò il dottore con voce colma di ammirazione. – Davvero meravigliose. –
E nessuno, questo, l’aveva mai detto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 14
*** Fiducia ***


Victor non era entrato nella casa da quando John era passato attraverso la porta, e non l'aveva fatto fino a che non l'aveva visto uscire portando Sherlock con sé. Si era trattato di quasi un'ora, ma per lui non era stato un problema.
John era infine riuscito a convincere il detective a tornare a Baker Street, ma aveva dovuto attendere che ripiegasse le ali sotto la pelle, e vederle rimpicciolirsi in quel modo era stata la cosa che più lo aveva sconvolto, in verità. Per pochi secondi gli era sembrato che anche gli occhi fossero diversi: cangianti di un colore tra il verde e l'azzurro così intenso che non l'aveva mai visto se non in qualche film con i toni polarizzati. Bellissimi, tanto per cambiare. Si chiese di sfuggita se ci fosse qualcosa in Sherlock che non fosse semplicemente sublime da guardare.
Dopo che questi ebbe finito di ricomporsi e di vestirsi, John gli mise in mano la propria giacca e gli intimò di indossarla, aggiungendo che se non l'avesse fatto l'avrebbe riportato a Baker Street portandoselo in spalla come un sacco di patate. Questo fece sorridere appena il detective, che fece come gli era stato detto. John ne fu sollevato, perché quando era scappato nel bel mezzo della notte non aveva che una camicia a ripararlo dal freddo, e inoltre non era sicuro che sarebbe stato fisicamente in grado di fare come aveva minacciato, se Sherlock si fosse rifiutato, e sarebbe stato imbarazzante. Non che si reputasse debole, anzi, ma se si fosse messo Sherlock in spalla, avrebbe finito per fargli toccare il pavimento con la testa. Beh, magari non proprio, ma comunque la statura non era in suo favore.
Quando erano entrambi usciti dall'appartamento di Victor Trevor, l'uomo li aveva salutato cordialmente, come se nulla di spiacevole fosse accaduto, ed aveva rivolto un'espressione particolarmente dolce all'amico d'infanzia. In quel momento, John si sentì male per lui: una vita intera ad amare una persona che sapeva non l'avrebbe mai ricambiato. Non che tu abbia tutte queste possibilità, invece, no?
Fece passare Sherlock prima di lui, ed ebbe modo di incrociare lo sguardo di Trevor. Vide il suo sorriso farsi più tenue, come sconfitto, e i suoi occhi venire attraversati da un filo di dolore trattenuto. Ma nessuna accusa nei suoi confronti, no. Pura rassegnazione, e accettazione. A John sarebbe piaciuto essere una buona e corretta come lui. Ma invece no, nonostante sapesse che Sherlock non solo non ricambiava, ma nemmeno era consapevole dei sentimenti di Victor nei suoi confronti, non poteva fare a meno di provare una lieve fitta di gelosia. E anche nonostante lui non avesse alcun diritto di essere geloso, dato che Sherlock non gli apparteneva.
In silenzio, si incamminarono fino a raggiungere una delle strade principali, per rendere un taxi che li portasse a Baker Street. L'abitazione di Victor era troppo distante perché potessero tornare a casa a piedi. Casa.
Durante l'intero tragitto non dissero una parola. Non ce n'era bisogno, d'altronde. Ciò che c'era da dire era già stato detto tra le mura della casa di Trevor, e quello che rimaneva da dire, comunque, non poteva essere frivolamente detto in un taxi. John sapeva che c'era ancora molto da dire, da chiarire. Domande da porre e risposte da dare. Ma non aveva idea nemmeno lui di cosa voler chiedere e cosa dover mettere in chiaro. Nella sua mente c'era il caos. Come se gli interrogativi non fossero domande specifiche da dire una alla volta ma una caotica amalgama di urgenze, curiosità e lacune di informazioni indistinguibili l'una dall'altra nel momento in cui apriva bocca.
Salirono le scale del loro appartamento senza parlare, fino a che non si ritrovarono dentro. Era circa mezzogiorno, ma John chiuse le pesanti tende, accendendo piuttosto solo qualche lampada. Non sapeva perché l'avesse fatto, con precisione, ma gli parve che non appena la luce chiara del pallido sole appena coperto da una nuvola grigio topo fu stata chiusa fuori, Sherlock si fosse rilassato un poco. E questo andava bene. Se doveva chiudere le tende per tranquillizzarlo, andava bene. Anche se avesse dovuto vivere al buio. Fino a un anno prima non avrebbe mai pensato ad una cosa del genere. Ora gli sembrava più che naturale.
Sospinse dolcemente Sherlock sul divano, vedendolo obbedire docilmente, e andò in cucina a fare ciò che ogni inglese sapeva era la soluzione ad ogni problema: preparare il tè.
Quando tornò in soggiornò, scoprì che l'amico non si era mosso di un millimetro da quando l'aveva lasciato lì dieci minuti prima.
Gli mise una tazza tra le mani, e si sedette a fianco a lui.
Sherlock non sembrò accorgersi subito del suo ritorno. Aveva lo sguardo fisso sulle proprie ginocchia, come sperduto. John dovette dargli un colpetto sul braccio perché si accorgesse della tazza di tè bollente che aveva tra le mani esangui. Lui sussultò, e per poco non rovesciò la bevanda sulle proprie gambe e sul pavimento.
Il detective la portò subito alle labbra, a quel punto, sprofondando di più tra i cuscini del divano. Watson lo imitò, anche se meno febbrilmente e senza scoccare occhiate fugaci all'altro, cosa che invece Sherlock stava facendo.
John aspettò che avesse finito di bere, e come aveva fatto neanche un'ora prima sul letto di Victor Trevor, fece scivolare piano un braccio dietro la schiena della Creatura, stringendo delicatamente la spalla. Fu un attimo, un istante soltanto, prima che Sherlock si abbandonasse contro di lui. E John era leggermente imbarazzato, certo, ma avvertì anche un'ondata di calore invadergli il petto a quella dimostrazione di fiducia.
Non sapeva bene come, ma si ritrovò ad avere la testa di Sherlock in grembo, quest'ultimo raggomitolato come un bambino. Forse lo era, ancora un bambino. Forse, dopo Baskerville, non era mai realmente cresciuto. Nessuno di loro lo era. Era spesso ciò che accadeva, quando dei ragazzini subivano forti traumi. Sotto certi aspetti maturavano immediatamente, mentre altre parti di loro si bloccavano. Cristallizzate per tutta l’intera vita, a meno che non riuscissero a “guarire” quelle parti di loro che erano state dilaniate.
Probabilmente pensò  non ricorderà nemmeno quel periodo come lo ha effettivamente vissuto. Il cervello di un bambino deforma sempre i ricordi più terribili per mantenere la sua integrità. E anche quello di un adulto.
Anche per quel Jim Moriarty doveva essere stato lo stesso. Ciò che era successo l'aveva distrutto e deviato in modo irreversibile, facendolo diventare il mostro di cui gli avevano detto Sherlock e Mycroft. Provò un lampo di dispiacere anche nei suoi confronti. Dio solo sapeva quanto dovevano aver sofferto quei fanciulli, anni prima.
Il respiro di Sherlock si era fatto lento e regolare. John portò una mano ad accarezzare i suoi capelli, soffici  e sottili come fili di seta.
Si rilassò contro lo schienale del divano. Avrebbe potuto vivere, in un momento come quello. Passare tutti gli anni della sua vita ad intrecciare quelle ciocche morbide e ribelli attorno alle dita, il dolce tepore di Sherlock sul proprio corpo. Improvvisamente provò il desiderio di bacargli la testa. E il viso, quegli zigomi così marcati, e poi le labbra piene rosee.
Desiderio che non vide realizzato quel giorno. Magari, col tempo, avrebbe trovato il coraggio di dirgli la verità sui suoi sentimenti. Ma non quando Sherlock aveva bisogno di tranquillizzarsi, ristabilizzarsi.
No, avrebbe atteso quanto fosse stato necessario.
 
 
 
E aveva atteso, John. Senza dire una parola, aveva assistito allo stupefacente ritorno del detective al suo normale modo di essere.
Per tre settimane era riuscito a tenerlo lontano dalle scene del delitto, facendogli domande su domande, in ogni momento in cui si trovava  a casa invece che all'ambulatorio, riguardo la società in miniatura che le Creature avevano creato. E anche sul funzionamento delle Estensioni, naturalmente. Ora che era riuscito a convincere abbastanza Sherlock di essere assolutamente bendisposto nei loro confronti, poteva esternare la sua curiosità. Per esempio, trovava assolutamente affascinante il modo in cui molte delle Estensioni delle Creature mutassero le loro dimensioni per celarsi completamente all'interno del loro corpo senza però danneggiare gli altri organi.
Aveva chiesto al coinquilino di mostrargli di nuovo l'apertura delle ali, e sebbene all'inizio fosse titubante e sospettoso, questo si era lasciato convincere, sempre più rilassato man mano che vedeva gli occhi di John luccicare dallo stupore e dall'ansia di studiare tutto ciò che poteva essere studiato.
Più di una volta John si era chiesto se non fosse il caso di evitare di mostrarsi così esuberante ogni qualvolta l'altro si spogliasse per spiegare le ali iridescenti, dopo essersi accorto del rossore che gli imporporava gli zigomi mentre lui lo fissava a bocca aperta. Si rese conto, divertito, che al suo posto probabilmente sarebbe morto di vergogna all'idea di voler essere continuamente osservato. Comunque, non avendo ancora ricevuto una risposta negativa alla sua richiesta, proseguì nei suoi “studi”. Che più che studi erano sessioni di ammirazione, ma questo non lo avrebbe mai detto a Sherlock.
Non era carino, non era forse nemmeno molto rispettoso, ma non poteva farne a meno da quando le aveva viste la prima volta. E in qualche occasione aveva avuto modo di scorgere anche i suoi occhi cambiare, diventare cangianti, le pupille solo due quasi invisibili puntini neri. A metà tra occhi umani e occhi d'insetto.
L'immagine complessiva era uno splendore. Una pallida figura dagli arti lunghi e sinuosi, lo sguardo vagamente smarrito e magnetico, le guance arrossite, iridi che quasi brillavano al buio e due eleganti ali un po' membranose e un po' come carta velina attraversate da venature perlacee. Non poteva appartenere a questo mondo, si diceva. Eppure era lì, sotto i suoi occhi increduli, in tutta la sua aliena bellezza.
E sapeva che di sicuro Sherlock era più forte di lui, più pericoloso e letale, ma gli era impossibile, ormai, togliersi dalla testa la convinzione che Sherlock andasse protetto, e che toccasse a lui farlo. Si sentiva quasi in dovere di difendere quell'essere raro e prezioso. E, quando iniziava a pensare a questo, gli sembrava che il mondo intero fosse una fossa di serpenti, un campo minato, che non ci fosse nulla di sicuro e privo di pericoli. Nemmeno la vecchietta che vedeva portare a spasso il cane dalla finestra del soggiorno.
Man mano che io giorni passavano, si rendeva conto di essere sotto esame. Una sera, poco dopo aver cenato, vide di sfuggita Sherlock che lo studiava, come lui stesso faceva con Sherlock. Non con sguardo diffidente o guardingo, ma curioso e perplesso. Come un animale che, dopo aver superato il timore di un umano appena incontrato, inizia ad annusarlo timidamente, per tastare il terreno prima di lasciarsi toccare con tranquillità.
Poi, dopo un altro po' di tempo, il detective, di punto in bianco, gli chiese di aiutarlo a fare “manutenzione” delle Estensioni. John, stupito e incuriosito, accettò immediatamente. Poté così vedere con i suoi occhi l'utilizzo di quel fluido viola di cui gli avevano già spiegato la funzione.
Sherlock lo bevve prima di estrarre le ali, e dopo qualche secondo distorse il volto in una smorfia. Vedendo l'espressione preoccupata di John, gli disse che era normale, che l'aggiustamento delle Estensioni era sempre almeno un po' doloroso. Diversamente dalla normale estrazione delle Estensioni, le ali sbucavano fuori violentemente, squarciando la pelle molto più del solito.
In quei momenti, all'inizio si limitò a stare seduto vicino alla Creatura, ma un po' alla volta prese a mormorare parole di conforto, fino a che non divenne abitudine per lui stringergli le dita pallide e affusolate tra le proprie mentre questi stringeva i denti per non gridare di dolore quando gli spasmi lo attraversavano e la sua carne veniva lacerata. Questa ripetizione spiegava perché le cicatrici non fossero mai sparite, e nemmeno diventate sottili e chiare. La loro forma non mutava mai, per qualche strana ragione la pelle veniva sempre tagliata nella stessa identica maniera, ma la ferita, sebbene rimarginasse più velocemente che in un umano comune, continuava ad essere riaperta.
Era a quel punto che il suo intervento era richiesto. Dava una mano a Sherlock a distenderle, lisciarle e piegare piano le due articolazioni, all'attaccatura e alla piegatura. Erano lisce, al tatto, e leggere. Tiepide e asciutte, ma non secche. Quell'operazione, pensò tra sé e sé la prima volta, gli dava l'impressione di accarezzarle, più che sgranchirle. Questo non lo disse a Sherlock, anche se gli sarebbe piaciuto poterle accarezzare sul serio, solo per vedere il volto della Creatura distendersi e rilassarsi.
Gli piaceva, tutto questo. Beh, non tutto. Ogni smorfia di dolore che vedeva sul volto di Sherlock era una stilettata, ma si rendeva conto che il fatto che Sherlock gli permettesse non solo di vedere, ma anche di partecipare ad una parte così segreta e intima della vita delle Creature, significava fiducia. Molta più di quanta ne avesse mai ricevuta da chiunque prima d'allora.
Era vero che, essendo un medico, ogni persona che doveva farsi curare si fidava ciecamente delle sue parole, ma non era la stessa cosa. I pazienti si fidavano senza dubitare del dottore, di quella figura che sapevano per certo avrebbe sistemato i loro mali senza ferirli. Non di John, l'uomo che viveva in un piccolo appartamento con un detective autistico, e che per anni aveva camminato con una stampella facendo regolarmente incubi sulla guerra in Afghanistan. Si fidavano di lui come uomo di medicina, non come persona in carne ed ossa.
Sherlock, invece, era di lui che aveva mostrato di fidarsi. Di lui, specificamente, e non di qualsiasi altra persona che si fosse trovata nella sua situazione. Di John H. Watson, non di qualsiasi altro medico che avrebbe potuto lavorare in un particolare ambulatorio. E questa consapevolezza lo faceva sentir bene, in un certo qual modo lo faceva anche sentire importante. Utile in quanto se stesso, non in quanto abile in una certa disciplina.
Se solo avesse saputo come far capire a Sherlock come questo lo facesse sentire, lo avrebbe fatto. Se fosse riuscito a comunicargli qualcosa di relativo alle sue emozioni, di renderlo consapevole di quanto vivere con Sherlock gli avesse fatto bene.
Ma non  ne era in grado. E questo era proprio perché era Sherlock, e non qualcun altro. Era estremamente complicato con lui. Tutto era complicato. Parlare, ascoltare, agire. Sherlock di per sé era complicato.
Ma era anche meraviglioso.
 
 
Avevano ricominciato con i casi. Dopo un mesetto scarso, avevano fatto a sapere a Lestrade che poteva tornare a supplicare il detective di sbrogliare i suoi problemi con le indagini in tutta tranquillità. John non aveva fatto in tempo a dirgli questo, che il poliziotto aveva tirato un profondo sospiro di sollievo dall'altra parte del telefono, e aveva subito scaricato loro l'ultimo omicidio avvenuto, che a sentire Lestrade aveva sconcertato parecchio tutti gli ispettori di Scotland Yard.
Si erano presentati sulla scena del crimine come avevano sempre fatto, Holmes con una nonchalance invidiabile, e come al solito Sherlock aveva voluto guardare lui stesso il luogo del delitto nonostante fossa già stato analizzato dalla polizia. John sperò che nessuno si rendesse conto di quanto fossero in realtà cambiati in quegli ultimi trenta giorni. Ovviamente le sue speranze andarono infrante.
Tanto per cominciare, Greg gli chiese come mai fosse stato lui a chiamarlo per dirgli che qualsiasi problema avessero avuto era stato risolto, e per di più con il cellulare di Sherlock. Non avrebbe trovato nulla di strano se fosse stato l'investigatore a usare il telefono del coinquilino, ma era di Watson che stavano parlando.
Quest'ultimo era riuscito ad inventarsi qualcosa che non ricordava bene, ma che più o meno diceva che Sherlock gli aveva messo in mano il cellulare dicendogli di chiamare Lestrade, mentre lui era impegnato in qualche esperimento da cui non intendeva staccarsi un minuto.
Sapeva di non essere stato molto credibile, ma non poteva certo fargli sapere che negli ultimi tempi era diventata un abitudine che non aveva alcuna spiegazione logica e razionale. La gente parlava già anche troppo. O meglio, parlava anche troppo di qualcosa che purtroppo non era, e lì stava il problema.
- Si può sapere cos'è successo in quest'ultimo mese, John? - gli aveva chiesto ad un certo punto Lestrade, sapendo che non avrebbe ottenuto niente se avesse posto la stessa domanda a Holmes.
E il bello era che nemmeno John sapeva bene cos'era successo. O meglio, conosceva i fatti, ma a quanto pareva non erano sufficienti a capire sul serio cosa fosse accaduto. Ma qualcosa di radicale era cambiato, anche se non riusciva a cogliere pienamente la portata di questa mutazione.
- Niente di particolare, Greg. - gli aveva risposto Watson. - Un piccolo problema, nulla di grave in realtà, ma che ha rubato molto tempo. Ora però è tutto risolto. -
Lestrade aveva sbuffato, a quel punto. - E immagino nessuno di voi abbia intenzione di dirmi di che problema si trattava, vero? Sempre che sia stato davvero un problema, e non invece qualcosa di più... personale. -
Intuendo cosa suggeriva l'ispettore, Watson si bloccò un istante. - No, assolutamente no. Era solo un incidente con... un paio di vecchie conoscenze di Sherlock. -
- Anche se si fosse trattato di qualcosa accaduto tra voi due, sappi che non ci sarebbe davvero nessun problema. - si affrettò a dire il poliziotto.
A quel punto John simulò una risata. - Niente di tutto questo, davvero. Ti lasci influenzare troppo da ciò che si dice in giro. -
Lestrade non sembrava del tutto convinto, ma in ogni caso lasciò perdere l'argomento e lo lasciò tornare ad assistere Sherlock nelle indagini, lasciandogli il dubbio su cosa davvero pensassero tutti loro sul motivo della loro assenza dalle scene del crimine.
Lestrade, però, nemmeno poteva immaginare quanto John desiderasse che quello che si diceva su loro due fosse fondato, reale, e non solo una chiacchiera. Ne era stato vagamente consapevole per diverso tempo, e lo aveva pienamente accettato poco dopo essere venuto a conoscenza della vera natura di Sherlock, ma solo dopo aver incontrato Victor Trevor e aver parlato con lui si era reso conto della portata dei suoi sentimenti.
Non improvvisamente, certo, ma quella era stata la scintilla. Ora era una specie di incendio dentro di lui. Qualsiasi cotta o infatuazione che aveva avuto prima, anche nei confronti di un paio di persone con cui aveva avuto relazioni serie per del tempo, ora impallidivano in confronto alla tempesta che lo travolgeva. C’era l’impulso a proteggerlo, come già detto, e la dolce e intensa commozione che sentiva nel vedersi dare fiducia. Ma il desiderio che ora aveva per l’essere sublime che aveva ininterrottamente sotto lo sguardo era bruciante. Da quando aveva accettato di esserne innamorato, quella sensazione si era scavata il suo posto un centimetro alla volta, cominciando con l’essere un forte interesse che calamitava il suo sguardo verso ogni lembo di pelle che rimaneva privo di copertura, fino a divenire un costante scoppiettio di braci pronte a tornare ad essere un fuoco ogni qualvolta ne avessero l’occasione. Questo non semplificava le cose, specialmente quando erano nei paraggi di loro conoscenti.
Oh, e di pelle ne vedeva molta, quando lo aiutava a stirarsi le ali. Liscia e candida come la neve. Anche morbida, probabilmente. Se solo avesse potuto toccarla…  
Il suo autocontrollo era stato messo a dura prova una sera, mentre faceva zapping tra i canali, e come sempre finiva per guardare qualche serie televisiva della BBC (beh, non era colpa sua se quelle americane erano quasi tutte spazzatura!). Senza una parola, Sherlock gli si era accovacciato accanto. Non era una novità che si sedesse vicino a lui sul divano, ma non così. Non a soli due centimetri da lui, completamente rivolto nella sua direzione, che se stesse pensando di appoggiarglisi contro. E anche questo era già successo un paio di volte, ma… Ma quelle volte, per cominciare, Watson non era ancora pienamente consapevole dell’attrazione verso il detective, e quest’ultimo non lo fissava con enormi occhi sgranati e meravigliati. E non aveva la camicia sbottonata per metà.
- Dimmi pure, Sherlock. – gli aveva detto a quel punto, visto che Holmes non aveva fatto nulla da quando si era seduto.
- Dirti cosa? – aveva domandato l’altro, colto di sorpresa.
- Ah, non lo so. Mi fissavi, e ho pensato che dovessi dirmi qualcosa. Errore mio. –
Forse era stata la sua immaginazione, forse un gioco di luce, ma mentre tornava a guardare lo schermo, gli sembrò di vedere un leggero rossore imporporare le gote del più giovane, che a quel punto si era voltato come lui verso il televisore. E che non aveva smesso di lanciare brevi occhiate nervose verso di lui fino a quando non si era ritirato nella sua camera.
Solo una volta che fu lontano da Sherlock, si permise di pensare al candore diafano del suo collo elegante, e al pezzetto di clavicola che si scorgeva dalla camicia non chiusa a dovere. Non riusciva a capacitarsi di come ogni parte di lui fosse così aggraziata, proporzionata e sinuosa. Sembrava un attentato alla sua salute mentale, che diamine.
E la parte migliore di tutto questo, era che siccome era di Sherlock che si trattava, non poteva semplicemente metterlo a conoscenza di ciò che provava come avrebbe potuto fare con una persona normale. Non sapeva nemmeno quanto comprendesse dei sentimenti, e in che modo li provasse lui stesso verso le altre persone. Aveva un terrore cieco di fare o dire qualcosa che avrebbe compromesso la loro amicizia, o che l’avrebbe spaventato, o chissà cos’altro. Senza contare il fatto che poco dopo il loro primo incontro, Sherlock aveva messo in chiaro il suo disinteresse per le relazioni romantiche.
Certo, all’epoca sussurrava al suo orecchio una vocina maliziosa Ma adesso sarà lo stesso?
Per il proprio bene, John era riuscito ad ignorarla fino ad ora.
 
 
 
- Hai già in mente come agire, suppongo. – Jim fece un piccolo sorriso a quelle parole, osservando il suo interlocutore con soddisfazione. La persona seduta di fronte a lui tamburellava lentamente sulla superficie del tavolo, producendo una serie di piccoli ticchettii secchi.
Solitamente non incontrava di persona le persone con cui lavorava, ma per questa Creatura speciale aveva fatto un’eccezione. Si trattava di uno dei rari casi che possedevano capacità uniche tra quelli come loro, ed intendeva lavorarsela per bene, così da poter contare sulla sua cooperazione anche in futuro.
- Certamente. Ho speso le ultime settimane a perfezionare il piano d’attacco. Perché non è una vendetta né niente di simile, tesoro, ma una vera e propria guerra agli Holmes. Solo più mirata e discreta del normale. – il suo sorriso si allargò quando vide scintillare gli occhi azzurri della Creatura.
- E, indovina? Tu avrai una parte fondamentale in questo, proprio nella parte iniziale del progetto. –
Video la curiosità prendere posto al divertimento nell’espressione della Creatura. – Nella parte iniziale? – disse con voce vellutata. – Immagino già che tipo di… azione stai per chiedermi di intraprendere. Utilizzando la prima delle mie cosiddette Estensioni, quindi? –
Moriarty annuì piano, gli occhi neri che scrutavano diabolici la Vipera. Sentiva che c’era una sorta di intesa tra loro due, un desiderio di portare il caos attorno a loro, anche se usavano tendenzialmente metodi molto differenti. La Vipera per anni non aveva  preso una parte precisa nelle fazioni, ma Jim sapeva che era per natura appartenente alla sua. Un’alleanza con uno dei casi rari era sempre di grande beneficio e vantaggio, e le Estensioni della Vipera erano non solo uniche, ma anche molto particolari negli effetti.
- E conoscendoti, so che immagini correttamente. – concluse il Ragno con soddisfazione. – Posso contare su di te, vero? Non mi piace quando devo punire le persone della mia fazione! –
Il sorriso della Vipera era tutto tranne che rassicurante, e a Moriarty piacque. – Ovviamente sì. Si può sempre contare su di me quando mi si ricompensa adeguatamente. –
- Allora vedo che ci intendiamo a meraviglia, tesoro. –
La Creatura iniziò a sfogliare il fascicolo che Moriarty aveva posto sul tavolo all’inizio della loro conversazione. – Sarà interessante incontrare la Libellula. Dicono che sia estremamente sfuggente. In pochi hanno visto le sue Estensioni. e ancora in meno le hanno viste tutte contemporaneamente. Dicono che sia uno spettacolo impressionante, quasi quanto le tue, Ragno. – il suo sorriso s’ammorbidì un poco quando vide la foto sulla scheda informativa che era nelle sue mani. Moriarty conosceva quell’espressione. Significava che avrebbe messo tutto il proprio impegno nel portare a termine il suo lavoro.
- Non sarà troppo difficile, se le tue informazioni sono accurate. – concluse la Vipera, richiudendo il fascicolo di colpo.
- Lo sono. – confermò Jim. - In buona parte derivano da esperienza personale. –
- Benissimo, allora. Comincerò immediatamente. Qual è il segnale di inizio? –
- Un uccisione. Una Creatura con le Estensioni strappate via. Ho già in mente chi assassinare e come. –
La Vipera annuì, e prese il fascicolo con sé, alzandosi. – Vai già via? – alla domanda del Ragno rispose con un canno affermativo. – Ho altro lavoro da svolgere, oggi. –
- Oh, è vero. –
- Fammi sapere se ci sono altre novità che dovrei conoscere. –
- Certo che sì. Ti chiamerò. –
Sentita la risposta del Ragno, la Vipera lasciò la stanza, e Moriarty restò ad ascoltare il rumore dei suoi passi che si allontanavano.
La Vipera era tra le persone più affidabili, quando c’era da portare a termine un compito delicato. Il suo prezzo non era basso, e i metodi molto particolari, ma ne valeva la pena. Era tra gli individui più pericolosi che Moriarty conosceva, escludendo se stesso.
Certo, affidabile nel fare le cose, ma non nel mantenere le alleanze. Non poteva fidarsi ciecamente, c’era sempre un margine di rischio di venire tradito per una ragione o l’altra. L’importante era sempre tenere d’occhio la situazione per essere sicuro di essere “l’offerente migliore”, e fermare qualsiasi possibile tentativo della Vipera di rivoltarglisi contro. La sua posizione, anche se voleva fargli credere di essere completamente fedele alla fazione di sotto, era ancora troppo ambigua.
- Sebastian? – disse a bassa voce. L’uomo uscì dal suo nascondiglio. Moriarty gli aveva ordinato di assistere alla conversazione senza essere visto, per sicurezza. – Fai sorvegliare la Vipera, immediatamente, e con discrezione estrema. Arriverà la fine del mondo, prima che ci si possa fidare completamente di quel serpente. –
Moran annuì brevemente, e lasciò solo il superiore.
Jim sorrise tra sé, reclinando la testa indietro.
Il suo gioco stava per iniziare.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*****
 
Note:
Okay, uccidetemi, sto per fare un grande torto ad un personaggio che mi piace molto. Sul serio, mi sento una schifosa bastarda a fare una cosa del genere. Ma che ci posso fare? La storia mi è venuta così, non è che ho deciso razionalmente!
Cooooomunque…. Basta, non so che altro dire.
Grazie a tutte le trentotto persone che seguono questa storia, è davvero il mio record! E ovviamente, a quelle anime sante che recensiscono, condividendo opinioni e sentimenti, e dandomi la lieve speranza che se quello che scrivo è una castronata, mi sia possibile venirlo a sapere prima di fare cinquanta capitoli (figurativamente: non ho mai scritto una storia che superi i ventisei capitoli, e anche leggendo se sono più di trenta mi sembra quasi sempre un’esagerazione).
Un bacio a tutti!
Kisses
 
Sofyflora98

 

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Capitolo 15
*** La Donna ***


Se John  fino a quel momento era stato convinto che il non avere idea di come comunicare i suoi sentimenti a Sherlock fosse la cosa più difficile e complicata, si era sbagliato. Si era sbagliato di grosso, e se ne accorse solo quando si trovò di fronte ad uno scenario che aveva visto solo nei film, e dal quale non poteva fuggire. Questo scenario prendeva il nome di incubi ricorrenti, e li coinvolgeva entrambi.
Non erano gli incubi, in sé, il problema grosso. Era abituato a sognare dell’Afghanistan, da quando era tornato dalla guerra, anche se doveva dire che poco dopo l’inizio della sua convivenza con Holmes erano diminuiti parecchio. Il problema si presentò quando una sera Sherlock, contro ogni aspettativa, si era addormentato sul divano, accanto a lui. Non era la prima volta, il detective aveva fatto abitudine del mettersi vicino a Watson piuttosto che restare a trafficare con ampolle e provette fino a notte fonda negli ultimi tempi, ma John sapeva per certo che dormiva molto più di quanto non lo facesse qualche settimana prima, e non osava immaginare come avrebbe reagito la signora Hudson se avesse saputo che dopo anni e anni che lo conosceva, il suo “caro Sherlock” dormiva quasi quanto una persona normale.
John, dapprima, gli aveva soltanto rivolto un’occhiata intenerita, proseguendo la lettura del libro che aveva in mano. Solitamente leggeva sulla sua poltrona, ma ultimamente aveva preso a sedere quasi sempre sul divano, così che l’altro, se avesse voluto, avrebbe potuto mettersi lì a fianco, come in effetti faceva ogni volta.
Un sospiro più secco e rumoroso lo fece sobbalzare. I suoi occhi corsero subito al detective addormentato, trovandolo con il viso contratto e indurito dalle sopracciglia corrucciate. Esitò un istante, riconoscendo l’espressione che molte volte aveva visto sugli altri soldati, quando ancora era in Afghanistan. Quella di chi è scivolato di nuovo tra i mostri racchiusi nella sua testa.
Certo, si disse, si doveva trattare di Baskerville. Lui sapeva che Sherlock doveva avere incubi, non poteva essere altrimenti, ma non l’aveva mai colto nel mezzo di una crisi. Lo fece star male.
Provò a scuoterlo gentilmente, stringendogli una spalla tra le dita, e questi si riscosse con un sussulto. Aveva lo sguardo appannato e confuso, ancora a metà strada tra il laboratorio di Baskerville e il salotto del 221B. Quando lo mise a fuoco, John video il sollievo inondare il viso di Sherlock, ed era troppo intenso perché il povero dottore riuscisse a respirare come si deve. La morsa che gli opprimeva il petto era troppo stretta perché non venisse travolto da non sapeva nemmeno lui quali emozioni, accavallate l’una all’altra.
- Grazie. – aveva sussurrato appena la Creatura, prima di farglisi ancora più appresso, la testa che scivolava sul braccio di John e le mani affusolate che prendevano delicatamente ma con fermezza il sempre il suddetto braccio. – Posso? – Una sola parola era stata sufficiente. John aveva capito esattamente cosa. Poteva stargli vicino? Poteva farlo anche le prossime volte? Poteva lasciargli vedere il suo lato vulnerabile senza dover temere nulla?
Sì, diamine. Poteva, poteva tutto. Qualsiasi cosa, poteva.
Il dottore, portò anch’esso una mano sul braccio del detective, non aggrappandovici come invece faceva quest’ultimo, ma rassicurandolo. Era una risposta affermativa, e allo stesso tempo una domanda anch’essa: posso consolarti? Mi lasceresti vedere quali sono i tuoi mostri?
E il modo in cui Sherlock si rilassò sotto quel tocco, quasi abbandonandosi contro di lui, era la sua risposta: sì.
Quel giorno dormirono vicini. Beh, non proprio vicini vicini. Abbastanza vicini. Ai due lati dello stesso letto, di sicuro. Accadde in modo automatico, come se nulla fosse. Uno girato da una parte a guardare la porta, e uno dall’altra. E così anche i giorni successivi. Si trattava di un modo intimo, ma non romantico, come di reciproco sostegno tra compagni. Se capitava che John tornava a sognare della trincea, Sherlock lo svegliava. Se John sentiva Sherlock respirare con troppa foga, o tremare ed emettere leggeri singhiozzi, faceva altrettanto. Si proteggevano a vicenda.
La parte problematica sul serio sorgeva proprio a questo punto, distinguendosi in particolare in due difficoltà principali. La prima era ovvia e lampante: lui sapeva che si stavano solo proteggendo a vicenda, che la loro era una necessità. Alcuni angoli del suo cervello, però, decidevano volontariamente di fregarsene, rendendogli piuttosto difficoltoso addormentarsi, nonostante fosse rivolto verso un muro. La parola “frustrante” era molto riduttiva. Un paio di volte era restato ore con gli occhi sbarrati, cercando di far tacere quei due neuroni ribelli che suggerivano idee momentaneamente sconvenienti alla sua testa resa vulnerabile dalla stanchezza, dopo un’intera giornata o di lavoro o di indagini e corse per la città.
Inoltre, era nella stanza di Sherlock che si trovavano. Sotto le sue coperte e lenzuola, completamente impregnate del suo odore. Buonissimo. Un altro attentato alla già precedentemente citata mente vulnerabile e masochista del dottore.
Il secondo problema era forse meno assillante, ma in realtà più serio. Ogni volta che lo svegliava dagli incubi ricorrenti (ed ora sapeva come aveva fatto a non accorgersene: a differenza di lui non si metteva ad urlare mente riviveva l’esperienza), era spettatore dell’angoscia dipinta sul suo volto spigoloso. E gli faceva male.
Aveva ormai differenziato due diversi Sherlock. Il primo, quello indifferente e posato, sarcastico e freddo, che esisteva solo fuori da Baker Street o in presenza d’altri. Era la persona costruita, il personaggio che si era creato per sopravvivere al mondo esterno. Poi c’era il suo, per così dire, Sherlock. Quello dallo sguardo un po’ sperduto ed un po’ malinconico, che parlava a monosillabi, a differenza dell’altro, ma che si faceva comunque intendere alla perfezione, da lui perlomeno. Era quello ferito, che non era stato in grado di guarire e crescere, che sembrava molte volte sul punto di scoppiare in lacrime, anche se non era ancora accaduto da quando l’aveva “recuperato” da quell’ isolato antro che era l’abitazione di Victor Trevor.
Lo irritava enormemente che i più non fossero a conoscenza di ciò. Ovvio che la storia delle Creature doveva rimanere un segreto, ma gli dava fastidio che fossero in così pochi a non vedere Sherlock come uno stronzo senza cuore e dal pessimo carattere. Gli veniva voglia di scuoterli violentemente, di urlare loro in faccia la verità. Era snervante.
 
 
Una di quelle mattine, quelle che seguivano una notte in cui più di una volta era stato necessario l’intervento di uno dei due per svegliare l’altro, John fu fatto destare bruscamente.
Poco ci mancò che cadesse sul pavimento di colpo, quando il detective aveva iniziato a chiamarlo ad alta voce, spostandosi velocemente da una stanza all’altra.
- Gesù, Sherlock, non puoi agitarti senza farmi venire un attacco cardiaco? – l’investigatore lo scrutò severamente, bloccandosi di colpo. Era perfettamente vestito, e teneva il cellulare tra le mani, il pollice ancora sullo schermo a spegnere la chiamata.
- Beh, finalmente! – lo rimproverò, ignorando completamente le sue parole. – Dobbiamo andare. Un omicidio per noi, Lestrade dice che è davvero singolare. – e restò a guardarlo mentre, lentamente, metteva in moto il cervello, sbadigliando. – Forza, su! – lo esortò, uscendo dalla camera.
Ecco, quella era una di quelle volte in cui, invece, si ritrovava a dover confermare la definizione “stronzo senza cuore”.
Suo malgrado, dovette non solo alzarsi immediatamente, ma anche fare colazione, lavarsi e vestirsi in tutta fretta, sotto lo sguardo impaziente del detective, che ogni circa cinque minuti tamburellava con le dita sul mobile più vicino, sbuffando piano.
- Se avevi tanta fretta, perché non mi hai lasciato un messaggio e sei andato da solo? – borbottò il dottore, mentre veniva trascinato fuori dalla porta. Non voleva nemmeno pensare a quanto assurda sarebbe apparsa quella scena ai passanti. No, proprio non voleva.
- Preferisco avere sempre il mio dottore a portata di mano. Non mi trovo bene con quelli che non conosco. – fu la risposta sbrigativa di Holmes. E quella, si disse John dando un’occhiata alla vicina, nocivamente amica della signora Hudson, era la ciliegina sulla torta.
La scena del crimine si trovava sull’argine di un fiume. La polizia aveva già chiuso la zona, anche se era già di per sé un posto abbastanza isolato. Quando arrivarono, Lestrade andò subito loro incontro, iniziando a spiegare cosa avevano trovato.
Il cadavere era quello di un uomo tra i trenta e i quarant’anni, vestito con abiti sportivi. Era riverso sulla terra molle, la faccia contro il suolo, ed evidenti segni di lotta addosso. La giacca era lacerata in più punti, strappata da tagli irregolari che non erano stati fatti con un coltello. Avrebbero detto che erano stati causati dallo strattonare della stoffa, se non fosse stato per i tagli nella carne che c’erano in corrispondenza ad ognuno di essi. Anche questi, non sembravano affatto fatti con una lama. Piuttosto da degli artigli singoli. La causa della morte sembrava essere dissanguamento: la sua gola era tagliata.
La cosa bizzarra, che aveva fatto corrugare le sopracciglia all’ispettore, erano degli strani segni sulle dita. All’attaccatura delle unghie c’erano delle fessure sanguinanti e slabbrate, come se queste gli fossero state strappate via. Solo che, le suddette unghie, c’erano. Non riuscivano a capacitarsi di come fosse stato possibile, però, provocare delle ferite del genere in un altro modo. Ed una cosa simile era sulle sue gengive. Buchi sanguinanti come di denti strappati, e nessun dente mancante. Bizzarro oltremodo, davvero.
Sherlock però, si era appena incupito, senza mostrare alcun segno di stupore o incredulità. Si chinò sul corpo e iniziò ad osservarlo un pezzo alla volta, raccogliendo materiale per formulare ipotesi e capire che persona fosse.
Ci mise qualche minuto in più, John, a intuire cosa fossero quelle ferite. Quando Sherlock sollevò le labbra dell’uomo, vide che proprio attorno alle lacerazioni c’erano altri segni, dove la pelle era schiarita e leggermente sporgente, come delle cicatrici. Lo stesso valeva per le sue mani.
Estensioni pensò, stupefatto. Quest’uomo era una Creatura, e qualcuno gliele ha strappate via.
Scambiò un’occhiata d’intesa con il detective, prima di tornare a guardare il taglio sul collo che aveva provocato la morte dell’uomo. Non era molto profondo, giusto quello che bastava per recidere le vene, però era lungo, copriva metà della circonferenza. Per aver avuto il tempo di provocare una ferita così accurata, quest’uomo doveva essere stato tenuto fermo da qualcosa o qualcuno.
Gli vennero in mente le numerose zampe di ragno di Moriarty. Ma no, quelle, avrebbero lasciato dei segni sulla pelle! Doveva trattarsi di qualcun altro, o al massimo di lui, ma con un complice.
Forse ad occhi estranei era invisibile, ma per Watson il conflitto nel volto del consulente investigativo era palese. Se avesse rivelato agli ispettori che la vittima era una Creatura, gli avrebbero chiesto per la millesima volta come faceva a saperlo, dato che nessuno era a conoscenza dell’esistenza delle Estensioni. Se avesse detto che le ferite erano solo un segno lasciato dal killer avrebbe dovuto trovare una scusa per non seguire questo caso e non prendere il colpevole: si sarebbe comunque scoperto, se l’avessero catturato, della sua vera natura dopo poco, ed era nell’interesse di entrambe le fazioni mantenere il più segreto possibile ciò che li riguardava.
- Quest’uomo è una Creatura. – disse alla fine, con un leggero sospiro. questo fece distogliere l’attenzione dei poliziotti dal cadavere, ora presi a rivolgersi sguardi interrogativi e sbigottiti.
- Posso chiedere da cosa l’hai capito? – osò dire Lestrade. Sherlock non gli rispose, ma il suo viso si era indurito.
- Qui ho finito di guardare. Se non vi dispiace, vorrei andarmene. Elaborerò i dati nel mio palazzo mentale in separata sede. –
Se aveva lasciato l’ispettore sbigottito prima, nulla era come ora. Mai era successo che Sherlock non facesse sfoggio delle sue capacità deduttive di fronte a tutti, e John sapeva che questo doveva aver fatto loro intuire che c’era qualcosa sotto, specialmente Greg che lo conosceva più degli altri.
- John? – lo chiamò Holmes, che già si stava allontanando dalla scena del crimine.
- Hai trovato qualcosa? – gli chiese quando furono lontani da orecchie indiscrete.
Sherlock annuì. – Oltre alla natura di Creatura dell’uomo, è chiaro che anche l’assassino sia una Creatura. Purtroppo non conosco la vittima, che non aveva i documenti con sé, per cui intanto si deve scoprirne l’identità. Conosco qualcuno che potrebbe aiutarmi in questo. –
Si fermò, voltandosi verso Watson. – Devo chiederti se vuoi venire, però. La persona in questione è una Creatura. Appartiene alla fazione di sotto. Non è ostile, però… -
John sorrise rassicurante e gli diede un colpetto affettuoso sulla spalla. – Certo che verrò, Sherlock. –
Questo sembrò rilassare il detective, che si lasciò sfuggire un tenue sorriso di gratitudine.
 
 
Il luogo dove John era stato condotto era un quartiere dell’East End, una zona particolarmente degradata per l’esattezza, sebbene l’intera area ad est del Tamigi un tempo fosse fatiscente e gremita. Questo quartiere, però, era insolitamente vuoto e desolato.
C’era una grigiore, John non avrebbe saputo come altresì definirlo, diffuso nella strada. Era grigio l’asfalto, come l’intonaco delle case, il cielo e l’odore dell’aria fumosa. L’ossigeno che respirava sapeva di smog e sostanze chimiche e polvere. Persino Sherlock sembrava grigio, in quella opprimente scenario.
Un’occhiata più attenta gli rivelò che il posto non era solo vuoto, ma disabitato. Non un’auto era in vista, le cassette delle lettere erano tutte vuote, non c’erano bici, né luci accese o fumi dai camini. Tutte le finestre e le porte erano sbarrate, un strato di polvere e sporcizia era accumulato sui piccoli davanzali. Ma non doveva esserlo da molto: sebbene povere quella case avevano i segni di ristrutturazioni e modernizzazioni. Qualcosa doveva aver spinto gli abitanti dell’area ad andarsene, non molto tempo prima. Un brivido gli attraversò la schiena.
Sherlock s’incamminò lungo il bordo della carreggiata, facendogli segno di seguirlo, e s’infilò in un viottolo più angusto e puzzolente. Non di urina o vomito, come i vicoli del centro città. Sapeva di muffa e putrefazione. Trattenne un conato di vomito.
- Terra di nessuno. – gli spiegò Sherlock prima che lui potesse chiedergli che posto fosse mai quello. – Fuori dall’influenza delle fazioni, la usiamo per organizzare incontri non ostili: qui è severamente proibita qualunque azione violenta offensiva nei confronti di una Creatura della fazione opposta o di un umano puro. Abbiamo fatto in modo che se ne andassero tutti gli abitanti, per sicurezza. Chi tra noi non vuole essere coinvolto può vivere qui, ma come vedi non è il più ospitale tra i luoghi. –
Lo condusse in fondo al vicolo, che si chiudeva con un edificio costruito in mezzo agli altri due, alto e sottile se paragonato al resto delle costruzioni, e piuttosto malmesso. Al piano terra di quell’edificio, come unica entrata, proprio davanti a loro, si trovava un vecchio negozio che pareva anche più abbandonato del resto del quartiere.
Il vetro sulla porta era incrinato, i cardini leggermente arrugginiti scricchiolarono quando Sherlock la spinse con delicatezza.
Entrarono in quello che parve a John un incrocio tra un negozio d’antiquariato ed una libreria vintage. L’aria adesso era polverosa sul serio, non solo per suggestione. I granelli che gli entravano in gola gli rendevano difficile respirare, e l’odore di stantio era quasi insopportabile. Sherlock, tuttavia, non batté ciglio.
Attese che anche il dottore lo seguisse prima di lasciare che l’uscio si richiudesse con un leggero tonfo. Il vetro, contro ogni aspettativa di Watson, rimase intatto.
- Buongiorno, Sherlock. – mormorò una voce roca e profonda.
John sussultò, a differenza del detective, che sollevò appena un sopracciglio.
- Buongiorno a te, Empty Stare. –
Doveva essere stato accovacciato ai piedi di uno dei mobili massicci che coprivano loro la vista di parte del pavimento, perché fu da dietro uno di questi che scivolò fuori un uomo. Un uomo anziano, alto e magro, ma per nulla gobbo o dall’aspetto fragile, nonostante l’età. Aveva un aspetto quasi regale, malgrado le rughe che gli increspavano il volto e gli abiti logori. I capelli erano completamente candidi, quasi pareggiati dagli occhi. Quelli, non appena li notò, furono ciò che inquietò John. Erano trasparenti, le pupille a malapena visibili, tanto chiare erano, le iridi quasi inesistenti. Sembravano quasi due grosse perle incastonate in orbite vuote.
Si sarebbe pensato che fosse cieco, ma pareva che non lo fosse, dalla precisione con cui quelle due pupille grigioline erano puntate su di loro.
Nonostante quell’aspetto che l’avrebbe reso perfetto come fantasma di un film horror, l’espressione era piuttosto pacata e, avrebbe osato dire, anche cordiale.
- Cosa porta qui la Libellula, se posso chiedere? È molto tempo che nessuno viene più a trovarmi. – il suo sguardo ora si concentrò sull’uomo più basso. – Lei è John Watson, immagino. Mi sbaglio? Non si parla che di voi, ormai. Il nuovo compagno di avventure del giovane Holmes. –
- Immagino anch’io. – disse Sherlock a bassa voce, alzando gli occhi al cielo. – Non hanno nulla di più interessante di cui parlare, da qualche anno. –
- Fa sempre notizia il coinvolgimento di un umano. – il vecchio fece un cenno amichevole a John, che si si ritrovò a rispondere con un sorriso tirato, indeciso.
- Ovviamente non sei venuto per le chiacchiere. – riprese l’uomo. – Per quanto mi dispiaccia che vogliate sempre qualcosa, e mai solo  salutarmi, potresti dirmi di che si tratta? –. Si reclinò indietro, appoggiandosi con le mani ad una vecchia scrivania.
- Una Creatura è stata assassinata, le Estensioni strappate via. Scotland Yard l’ha trovata sulla riva di un fiume, e mi ha chiamato per cavarci qualcosa. Naturalmente dev’essere stata un’altra Creatura a farlo. Volevo chiederti se tu sapevi qualcosa che noi non sappiamo. –
Quello che aveva parlato era uno Sherlock diverso, tra quelli che Watson non aveva ancora mai visto. Certo serio e impassibile, ma il tono di voce era meno distaccato, con una leggera nota di complicità formale che c’è solo tra chi condivide un segreto come il loro. Le sopracciglia appena corrucciate, al posto dell’espressione di superiorità, ne era ulteriore segno.
Il loro interlocutore socchiuse le palpebre su quegli occhi vuoti, come pensieroso.
- Qualcosa l’ho sentito. – la sua voce si era abbassata. – O meglio, ho sentito che qualcosa del genere sarebbe successo. A volte alcuni vengono qui a  confidarsi, e si lasciano sfuggire qualcosa di troppo. Non ho idea di cosa significhi, però. Se era un avvenimento programmato, come mi è parso, probabilmente ha a che fare con il Ragno. – si portò le mani al viso, si strofinò con forza le palpebre.
- Non ti so dire più di questo, purtroppo. – sospirò. Improvvisamente sembrava stanco. – Però sembra ci sia una persona, nella nostra fazione, che è al corrente di quasi tutto ciò che accade. Potrei dirti dove trovarla, non è particolarmente ostile con la vostra fazione, di solito. –
Sherlock annui. – Se per te non è un disturbo, sarei interessato a parlare con questa persona. –
- Il suo nome è Irene Adler, abita nel distretto di Belgravia, nella Londra centrale. Ha una professione… particolare. Spesso e volentieri coinvolge anche umani puri. La chiamano la Donna. Molto intelligente, fai attenzione mentre parli con lei. Vuoi che ti scriva il suo indirizzo su un foglio? –
- Sì, per favore. –
Empty Stare prese a colpo sicuro una penna biro, trovata infilando una mano alla cieca (nessuna battuta intesa) nel cassetto della scrivania su cui si era quasi seduto. John a quel punto dovette chiedersi se ci vedesse, in effetti, e i suoi occhi bianchi non fossero una caratteristica da Creatura senza alcuna influenza sulla sua vista, perché non sapeva altrimenti come avrebbe potuto scrivere, con una grafia così elegante oltretutto.
Sherlock ripose il biglietto in tasca. – Grazie molte, Empty Stare. – questi fece un gesto con la mano, come a dire che non era stato nulla.
- Non ho nulla di meglio da fare che aiutare voi giovani, Sherlock, dicendovi ciò che posso. Mi fai un favore se riesci a far fuori il Ragno. –
- Di sicuro lo faccio a mio fratello. –
Lo salutò poi chinando di qualche centimetro la testa in quello che sembrò un mezzo inchino.
Sembrava rilassato, Holmes, mentre uscivano dal vicolo per andare a cercare quella Donna. Ma John, ormai, lo poteva vedere. Lo poteva vedere il modo in cui lo sguardo color ghiaccio guizzava troppo velocemente, o in cui stringeva le mani a pugno per poi rilassarle di nuovo, ripetutamente. Persino lui si sentiva tremare come febbricitante, dall’aver sentito nominare il Ragno.
Contro di lui non era una caccia, come ai comuni criminali.
Era una guerra.
 
 
 
- Bizzarro l’omicidio di questa notte, non è vero signora Adler? –
L’interpellata rispose con un sorriso sornione. – Bizzarro, sì. – disse con voce morbida. – Credo che quell’idiota che è andato a farsi ammazzare ci farà avere delle visite, oggi. –
La donna che le stava chiudendo la zip del vestito si fermò, colta dallo stupore dopo quell’affermazione. – Dite? –
- Oh, certo. – confermò la Donna. – Un detective ed il suo collega. Vorranno chiedermi se ne so qualcosa. –
- Per quale ragione dovrebbero venire proprio qui? – chiese ancora l’altra, finendo di chiudere il vestito.
- Perché sicuramente qualcuno avrà detto loro di farlo, dopo che i due avranno cercato quella persona trovandosi in assenza di indizi. Siamo in due ad avere sempre informazioni riservate, qui a Londra. Una di queste due persone non può avere accesso ad alcune fonti in così breve tempo. L’altra sono io. –
Il campanello suonò rumorosamente.
- Eccoli, appunto. Vai ad accoglierli mentre mi preparo? –
 
John non era sicuro che la donna biondiccia che li aveva accolti avesse creduto alla messa in scena che le avevano fatto, ma comunque li aveva fatti entrare nella casa, per cui non poteva lamentarsi di quanto fossero assurdi i piani di Sherlock, e di quanto si basassero sul presupposto che le persone fossero completamente idiote. Forse lo erano, in effetti, ma comunque…
La donna aveva fatto accomodare Sherlock in soggiorno, accompagnando poi lui alla ricerca del kit da pronto soccorso. Non aveva avuto intenzione di colpire Sherlock sul viso così forte, ma l’investigatore sapeva come fargli perdere le staffe, quando voleva ottenere qualcosa. In questo caso quel qualcosa erano un taglio sul labbro e una tumefazione allo zigomo. Il dottore già pensava ai mille modi per chiedergli scusa non appena fossero tornati a Baker Street, dopo aver incontrato Irene Adler. Dopo il primo minuto di rabbia per essere stato colpito, si era sentito tremendamente male, anche sapendo di aver agito esattamente secondo la volontà del compagno.
Dalla valigetta di plastica, in realtà non gli occorreva quasi nulla, a parte del disinfettante ed un paio di cerotti, per cui si fece dare una bacinella d’acqua fredda e una pezza pulita, prima di tornare dove aveva lasciato Holmes.
Lui era lì, seduto sul divano, dove l’aveva lasciato. Seduto sul divano con la schiena diritta ed una disinvoltura invidiabile. Non ricordava, però, che ci fosse anche una donna completamente nuda china di fronte a lui, intenta a fissarlo intensamente negli occhi mentre gli sfilava dal colletto la striscia di carta che aveva usato per farsi passare per un prete. Una donna con una lunga e sottile coda verde scuro coperta di piccola squame, per dipiù.
Interdetto, rimase a bocca aperta davanti a quella scena grottesca.
- Mi sono perso qualcosa? – riuscì finalmente a dire dopo lunghissimi secondi, ottenendo l’immediata attenzione dei due.
Lei gli sorrise maliziosamente, perforandolo con due taglienti occhi azzurri. – Prego, si accomodi. – gli disse, scostandosi da Sherlock, che non si era scomposto minimamente.
- John, lei è la signora Adler. – disse tranquillamente. – Signora, immagino lo saprà già, ma comunque le presento il dottor Watson. –
- Già, lo sapevo. – confermò lei, allontanandosi con nonchalance dal detective, senza badare al fatto che il dottore la stava fissando a bocca aperta, paralizzato dallo stupore. – Molto divertente il vostro travestimento, signor Holmes. –
- Buono a sapersi, lo userò più spesso allora. – replicò Holmes senza fare una piega. Poi rivolse uno sguardo interrogativo a Watson. – John, cosa stai facendo? Vieni a sederti. – e sembrava quasi un ordine, a cui da soldato quale era stato, John non poté disobbedire.
- Uhm… - borbottò rivolto alla donna. – Scusi, ehm… potrebbe mettersi qualcosa? Questo? – e alzò leggermente il rettangolo di stoffa che aveva portato assieme all’acqua. Sherlock alzò gli occhi al cielo, accompagnato da un ghigno della signora Adler, prima di passare a quest’ultima il proprio cappotto.
- Stavamo giusto per parlare della Creatura uccisa questa notte. – continuò la Libellula.
- Oh, di questo stavamo per parlare? – la Donna finse sorpresa. – Pensavo stessimo parlando dei suoi zigomi. Comunque anche un omicidio è un argomento intrigante. –
Holmes fece per ribattere qualcosa, ma sembrò cambiare idea, e chiuse la bocca dopo un istante di indecisione. La Donna lo rimirava con un movimento pigro dell’occhio ed un sorrisetto tutt’altro che rassicurante. Sherlock, per lo sgomento del coinquilino, sembrava confuso e irritato allo stesso tempo. Si stava mordicchiando leggermente il labbro inferiore, le sopracciglia aggrottate allo stesso modo in cui le aggrottava John, ai tempi del liceo, di fronte ad un logaritmo particolarmente difficile da risolvere.
- Ovviamente lei sa già chi è stato. –
- Ovviamente. – concordò Sherlock all’affermazione di Irene, lentamente, come fosse per metà distratto.
- E purtroppo questo la riporta alla situazione di partenza: io so che è stato il Ragno, come lo sa lei. Ma lei vorrebbe sapere perché, e questo non lo so nemmeno io. A questo punto, potremmo anche collaborare. Non che mi importi di quel pover’uomo che si è fatto uccidere, ma un mistero da risolvere può essere uno svago interessante. Poi… - fece una pausa, ampliando il sorriso malizioso, e ora stava esplicitamente mirando agli occhi di Sherlock. – Mi piace vedere i cervelli al lavoro. Trovo che l’intelligenza sia molto sexy. –
Oddio pensò John  se sta davvero provando a sedurre Sherlock, sta perdendo tempo. A lui non interessano…
Dovette interrompere bruscamente quella frase, anche se era solo nella sua testa, quando si accorse dello sguardo rapito e curioso dell’investigatore.
Oh, Gesù! Non può fare sul serio!
Fece appena in tempo a comporre quest’ultima frase, prima che un fragore lo facesse sussultare tutti e tre.
Sembrava che la porta d’ingresso fosse stata violentemente scardinata.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
******
 
Note:
 
Non so nemmeno io dirvi come si sta evolvendo la storia. Di sicuro non nel modo che avevo previsto quando l’ho iniziata. Beh, non si sa mai che sorprese ci tiene in serbo quella parte del cervello che ci spara le idee per le storie!
Nei prossimi mesi non dovrei avere problemi a mantenere più o meno lo stesso ritmo di pubblicazione, ma con l’avvicinarsi degli esami di maturità, da gennaio in poi, non posso garantire di riuscirci.
Kisses
 
Sofyflora98

 

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Capitolo 16
*** Lui sapeva ***


Come il forte rumore aveva dato a sembrare, la porta era effettivamente stata scardinata, il che fu ulteriormente confermato dall’irrompere di quattro uomini nella stanza. Per l’esattezza, quattro uomini armati e non apparentemente propensi ad una conversazione civile e pacifica.
- In piedi, tutti e tre! – sbraitò quello che stava di fronte al quartetto, un tipo con capelli biondicci  a spazzola, massiccio, e con un forte accento americano che fece arricciare il naso al detective.
Sherlock si sollevò fluidamente, imitato da John con nervosismo e dalla Donna con fredda circospezione. Quattro pistole erano puntate contro di loro.
- In ginocchio sul pavimento! – intimò loro ancora l’americano, e stavolta obbedirono al suo ordine.
Sherlock osservò i loro visi. Erano sudati e accaldati, come avessero la febbre, e i loro occhi erano ancora più strani: le pupille erano estremamente dilatate nonostante la luce bianca che entrava nella stanza, arrossati dalla rottura di diversi capillari. In tutti e quattro, queste stesse caratteristiche. Non era casuale, e ne ebbe la conferma quando vide le ferite cucite ma non ancora rimarginate che avevano sulle dita, dei segni orizzontali all’attaccatura delle unghie. Non originale, ma chiaro come l’acqua.
- Immagino sia a questo che a Moriarty è servito il professor Stapleton. – mormorò. – Creare nuove Creature, per rimpolpare le sue file, ecco dov’è finito quando hanno denunciato la sua sparizione. Però, avrebbe dovuto aspettare che le ferite si chiudessero per non farle infettare, invece che mandarvi ad eseguire i suoi ordini così presto. –
- Fai silenzio, Holmes! – il bestione sputacchiava mentre parlava. Sherlock si ritrasse disgustato. – Non sono qui per la puttana del Gatto, ma per quell’altra lì! – e così dicendo indicò Irene con una falange spessa e callosa.
Non era nemmeno offeso, Holmes. Piuttosto una via di mezzo tra l’essere sbigottito e nauseato dalla bocca sudicia e volgare dell’energumeno. Lo stesso non si poteva certo dire di Watson, un metro più in là. Con la coda dell’occhio, Sherlock vide una vena del suo collo pulsare, le labbra strette in una smorfia che non era altro se non colma di disprezzo e rabbia. Se non fossero stati in minor numero e privi di armi in mano, non avrebbe fatto nulla nel caso questi avesse dato all’americano una lezione sull’ appropriato utilizzo dei vocaboli.
- Per me? Tutte queste visite in nemmeno un’ora mi lusingano davvero. – il sorriso della Donna poteva essere affascinante, sicuro, sexy, ma non rassicurante. Velenoso, piuttosto.
- Taci. Il Ragno dice che tu sai perché una Creatura della sua fazione è stata uccisa stanotte, e chi è l’assassino! Parla, o ti faccio un buco in testa! –
A giudicare dai modi di quella Creatura palesemente appena creata, i comportamenti disgustosamente aggressivi e rozzi degli uomini nei film statunitensi non era affatto differente dalla realtà, pensò il detective. Non sapeva se esserne più preoccupato o schifato.  La Donna non sembrava meglio disposta nei loro confronti, a giudicare dal modo in cui aveva assottigliato gli occhi.
- Ve lo direi, ma purtroppo non ne ho la più pallida idea. – disse con voce morbida e suadente come il velluto.
- Allora come mai hai uno degli Holmes in casa? – più che parlando, l’uomo stava abbaiando contro di loro. – Non sono stupido, donna. –
- Beh, questa notizia giunge inaspettata. – si lasciò sfuggire il detective, nonostante il pericolo di quelle armi puntate nella loro direzione.
- Ho detto zitto, Libellula! E non ho ancora sentito la risposta della signora. –
- Mi permetta di contraddirla, ma le ho già detto che io non ne so nulla. – a giudicare dal suo sangue freddo, non si sarebbe detto che fosse Irene ad essere sotto tiro, tra lei e l’americano biondo.
Sherlock si girò appena verso di lei.
- Sarò pronto a crederle tra tre secondi, donna. Tre… - iniziò a contare lo sconosciuto, avvicinandosi di più.
Quando lo sguardo di Irene incontrò quello dell’investigatore, lei guardò la pistola, dando poi un altra fulminea occhiata all’uomo.
- Due… - anche Sherlock, ora, guardava fisso la pistola.
- Uno… -
Non arrivò allo zero, cacciando invece un grido di dolore quasi contemporaneo ad un rumore secco che a John ricordò terribilmente le ossa spezzate. L’arma gli sfuggì di mano, e l’istante dopo era in quelle del detective.
La sorpresa aveva colto gli altri tre uomini, trovandoli impreparati, e quei pochi secondi di confusione costarono loro altrettanti proiettili nelle mani.
La Donna, e il dottore si disse che il polso ora gonfio e piegato in un angolo sbagliato dell’americano fosse probabilmente in quello stato a causa della sua coda squamata che guizzava come una frusta, scattò in avanti ed afferrò la pistola di uno degli altri tre, assestando un colpo sulla testa del loro capo con il calcio dell’arma.
- Ottimi riflessi, signor Holmes. – commentò, rivolgendo l’attenzione verso di lui, compiaciuta. Gli occhi di quest’ultimo erano ora cangianti, le pupille ridotte a due puntini quasi invisibili. – Una mira perfetta. -
- E lei ha degli scatti sorprendenti. Natura o Estensioni? –
Il sorriso della donna si allargò, continuando a non essere rassicurante nemmeno vagamente. – Entrambe le cose. –
Il modo in cui i due si scrutavano, uno con preoccupata curiosità e l’altra con condisceso interesse, a lungo, e senza aggiungere altro, era, a parere di John, piuttosto imbarazzante. Una certa gelosia, in effetti, copriva solo una parte dei motivi per cui le due Creature lo stavano mettendo a disagio. Erano del bel mezzo di un’indagine, ed avevano appena subito un aggressione, e loro sembrava stessero per saltarsi addosso a vicenda. Un limite alla decenza doveva esistere anche per dei semi umani, oppure no?
- John, potresti chiamare la polizia, e dire loro che ci sono quattro feriti a questi indirizzo? – disse all’improvviso Sherlock, girandosi repentinamente.
- Sì, sì. Certo. – Watson uscì a passo svelto dalla stanza, sperando che la sua presenza non fosse l’unico fattore ad impedire alla sala di prendere fuoco.
Quando furono soli, la Donna diede le spalle a Holmes e prese a tracciare il profilo dell’elegante divano con le punte delle dita. Sul pavimento, l’uomo biondo era privo di sensi a causa del colpo alla testa, mentre gli altri tre erano raggomitolati su se stessi che si stringevano al petto le mani ferite e sanguinanti.
- Mi saprebbe spiegare come mai questi quattro sostengono che il Ragno non sia l’artefice dell’omicidio? – domandò l’investigatore, mentre lui e Irene camminavano lentamente verso le finestre, al limitare della stanza.
- Davvero non ne sono in grado, signor Holmes. – rispose lei, le braccia conserte. Accostatasi ad una scrivania in legno scuro che era addossata alla parete, sfiorò anche questa con le falangi lunghe e magre dalle unghie laccate. – Magari è solo un pretesto per liberarsi di me, non gli sono mai andata particolarmente a genio. Tendo a raccontare troppe cose alle gente. – e non si poteva non sentire un certo compiacimento in quelle parole.
Sherlock portò le mani dietro la schiena, chiuse una nell’altra. – Io non credo, signora Adler. Penso che lei sia molto astuta, e che sappia molto bene cosa è successo questa notte a quell’individuo. Ma che né quella di questi inviati della vostra fazione, a mio parere troppo facili da pestare perché potessero essere intesi come un vero tentativo di aggredirla, né l’ipotesi che lei stessa ci ha proposto prima siano veritiere. C’è qualcos’altro, non è così? –
- Lei vede troppi complotti, se lo lasci dire. – Irene  si era girata ad averlo di nuovo faccia a faccia. – A volte i dispetti tra Creature sono molto più semplici e diretti di quanto lei non sembri credere. –
- Per il momento vedo due ipotesi. – proseguì l’uomo. – La prima è che lei in effetti non sappia cos’è successo davvero, e che il ragno sia coinvolto nella faccenda come entrambi credevamo dall’inizio, ma sinceramente ne dubito. La seconda, è che lei faccia direttamente parte di tutto questo, ma lo scopo di questa morte mi è ancora del tutto ignoto. –
S’irrigidì quando Irene allungò una mano a sfiorare la linea della sua mascella, producendo una soffice risata che sembrava quasi affettuosa.
- Io non sono il suo nemico, signor Holmes. – disse. – Avrei potuto esserlo, ma il caso vuole che ci troviamo nella stessa situazione. Non amo, per questo, essere accusata di azioni di cui nessuno di noi è a conoscenza l’origine, specialmente contando il fatto che io me ne stavo per i fatti miei, prima che lei piombasse qui in cerca di risposte. –
- Non la sto accusando, per ora. Solo esponendo le possibilità più probabili. – replicò il detective. – Non può incolpare me se lei non riesce a sembrare innocente ai miei occhi. –
Irene rise di nuovo, stringendo il mento dell’uomo tra le dita. Questi si contrasse di nuovo al contatto, quasi si aspettasse un aggressione improvvisa.
- Per il momento dovrebbe andarsene, signor Holmes. Avremo altre occasioni per discutere se sono coinvolta o meno. – la Donna gli afferrò saldamente la testa, e prima che Sherlock riuscisse a sfuggirle dalla presa, affondò i denti sul suo labbro inferiore, strappandogli un gemito sorpreso di dolore.
Lo lasciò andare non appena lui, superato lo stupore, iniziò ad opporre resistenza alle sue mani. Holmes indietreggiò, le mani alla bocca che già si erano tinte di rosso per il sangue che gli colava dalle due ferite che Irene gli aveva inflitto.
- Cosa… - boccheggiò, un lieve senso di torpore che gli annebbiava i sensi. Si appoggiò alla prima parete che gli capitò vicino, ma non riuscì comunque ad impedire alle sue gambe di cedere alla forza di gravità, trascinandolo sul pavimento.
Una nuvola d’ovatta gli circondava il cranio.
- Su, non faccia drammi. Lei mi mette in pericolo, signor Holmes. – fece in tempo a vedere due zanne affusolate, lunghe e sottili ritrarsi nelle gengive della donna. Un attimo dopo lei gli aveva preso le spalle e lo adagiò a terra. Sherlock si sarebbe opposto, ma gli arti non sembravano rispondere ai comandi, men che meno il cervello.
- Non durerà molto. Non credo, almeno: non ho mai usato il mio veleno su me stessa. Starà bene, però. –
Il rumore dei passi affrettati di Watson distolse l’attenzione della Donna dall’uomo più giovane. Se il sangue che gli colava in gola dal labbro non gli stesse solleticando spiacevolmente i tessuti, facendolo tossire, Sherlock avrebbe quasi riso. Da quando era diventato così ingenuo da permettere ad una Creatura di andargli così vicino? Sperò con tutto se stesso di non sembrare un perfetto idiota, quando sentì John esclamare e chiedere ansiosamente alla signora Adler cosa fosse accaduto. E lei, odiosamente algida e a suo agio, mancò di rispondere dicendo piuttosto al dottore di voltarlo sul fianco per non farlo soffocare.
La vide vagamente gettarsi da una finestra, poi il buio della vista.
Sentì confusamente la voce di John chiamare il suo nome nervosamente, poi il buio dell’udito.
E infine, alcune dita callose che gli accarezzavano i capelli e uno zigomo, poi il buio totale.
 
 
 
Le prime sensazioni che lo colpirono furono un lieve tramestio tintinnante di porcellana su metallo. Posate? Forse. continuava però a sentire un peso sulla testa, un pulsare cadenzato ma non doloroso, che però era sufficiente a distrarre ritmicamente il suo pensiero.
Aveva la guancia premuta su un tessuto ruvido e spesso. Era sdraiato. Divano? Probabile: era una superficie lunga, ma non larga, quindi non un letto. Gli ci volle qualche secondo in più a riconoscerne l’odore, identificandolo come quello del suo appartamento. Suo e di John, si corresse automaticamente.
Tossì, mentre cercava debolmente di alzarsi. Gli prudeva la gola. Un bruciore al labbro gli ricordò che probabilmente erano le gocce di sangue che gli erano scivolate un bocca dopo essere stato morso.
Il tramestio si bloccò. Uno scalpiccio di passi affannati. – Sherlock? –
L’interpellato rispose con un altro colpetto di tosse. Si lasciò ricadere sul divano, portandosi le mani agli occhi, strofinandoli piano.
John gli mise una mano sulla testa, accarezzando delicatamente la cute. Sherlock si rilassò tra i due cuscini che gli tenevano il capo e le spalle, con un sospiro tremolante. Con cautela provò a dischiudere gli occhi, e all’inizio fu abbagliato dalla luce bianca che entrava dalla finestra, le tende completamente tirate ai lati.
- Sherlock? – provò di nuovo il dottore. – Come ti senti? –
- Come dopo un capogiro. – rispose in un sussurro. – Come se fossi senza ossa e con la testa che continua a saltare e perdere il filo. –
- Certo. Uhm… - l’uomo spostò il peso nervosamente da un piede all’altro. – Posso… sapere cosa ti ha fatto esattamente quella donna? -
- Mi ha morso il labbro. E così facendo mi deve avere iniettato qualche sostanza nelle sue zanne. Probabilmente le sue Estensioni derivano da qualche rettile velenoso. Non abbastanza da uccidere un umano, però. Credo si sia sentita minacciata dal nostro aver attirato l’attenzione su di lei. –
- Eravamo appena andati da lei! – esclamò Watson aggrottando le sopracciglia.
- Se il Ragno vuole, può sapere cosa facciamo in qualsiasi momento. –
- Lei non mi convince, Sherlock. –
- Neanche a me, per ora. – con il pronto aiuto di John, la Creatura si issò sulle braccia e si sedette, cercando goffamente di sollevare i due cuscini con le mani ancora intorpidite. Fece una smorfia quando sentì che la testa gli girava per quel piccolo movimento, accompagnata da un morbido mormorio divertito del dottore.
- Non ti muovere per almeno un’altra mezz’ora. Non voglio doverti trascinare di nuovo, non hai idea di quanto faticoso sia stato. – lo rimproverò, premendogli la spalla verso il basso.
- Bugiardo. Avevi chiamato la polizia, ti avranno aiutato loro. –
- Comunque non muoverti. –
Sherlock sbuffò, ma più per far scena. Non aveva alcuna intenzione di spostarsi di lì, non con John che si sedeva sul bordo del divano facendo attenzione a non schiacciargli il braccio, e che nonostante tutto sorrideva. Se la sua mente era un computer, John Watson era l’antivirus e il firewall. Era la spina della corrente, senza la quale avrebbe prima o poi scaricato definitivamente le ore di autonomia della sua batteria. Doveva essere stato un miracolo arrivare ancora quasi del tutto aggiustato al giorno del loro incontro.
- Stavo facendo il tè – disse il più vecchio tutt’un tratto. – Vuoi che te ne porti un po’? –
Sherlock scosse la testa, chiudendo gli occhi. – No. Resta seduto dove sei. –
- D’accordo. –
Le dita di John non ebbero difficoltà a trovare quelle di Sherlock, lunghe e fredde, che non opposero alcuna resistenza alle sue. Prese con cautela la mano del più giovane, disegnando alle cieca cerchi concentrici sul suo palmo con il pollice.
Il dottore vide chiaramente, distintamente, lo sciogliersi delle membra della Creatura, il cadere della perpetua lieve durezza nel suo sguardo. I battiti furiosi contro l’interno del torace, stava giusto aprendo la bocca quando squillò l’arrivo di un messaggio nel cellulare di Sherlock.
- Vado a prenderlo io. – disse, cercando di trattene il fastidio furioso verso il maledetto apparecchio mentre lo stringeva tra le mani.
Sherlock, una volta ricevuto il sadico marchingegno di plastica e metallo, gli riferì ad alta voce il suo contenuto.
“Sto venendo a Baker Street. M.H.”
Mai come in quel frangente, John Watson aveva desiderato essere responsabile della morte di Mycroft Holmes.
 
 
 
Sempre di parola, il maggiore degli Holmes aveva fatto il suo solenne arrivo al loro appartamento con tanto di auto nera e misteriosa accompagnatrice che lo stava attendendo fuori, più simile ad un super criminale da film giallo che direttore di un’organizzazione che in effetti mirava a far arrestare un super criminale.
Sembrava anche compiaciuto di sé quando entrò nel soggiorno, vedendo Sherlock ancora stravaccato sul divano (ma molto più sveglio e noncurante di un quarto d’ora prima), come se fosse stato consapevole di aver intralciato i nobili intenti dell’unico umano al momento presente nella stanza.
- Salve, fratellino. Dottor Watson, è un piacere vedere che è sempre in ottima salute. – li salutò, l’ombrello stretto a mo’ di bastone da passeggio.
- Salve, Mycroft. -  rispose John, con un cenno del capo. Sherlock lo ignorò completamente.
Il leader della fazione di sopra sollevò un sopracciglio con rassegnato disappunto, per poi andare a sedersi su una delle due poltrone, lasciate vuote dagli inquilini dell’appartamento. Non senza darle una spazzolata preventiva con la mano, naturalmente, per poi pulirsi distrattamente quest’ultima con un fazzoletto che teneva nel taschino della giacca.
- Mi è stato riferito del piccolo incidente in cui ti sei introdotto. Riguardo la signora Irene Adler e il cadavere di cui tutti sembrano attribuire la responsabilità alla fazione opposta. –
- Il tuo sistema di informazione è infallibile come sempre. Oppure mi fai pedinare? Comunque non passano che alcune ore, e sei già qui a farti gli affari miei. – disse annoiato il detective, continuando a non rivolgere nemmeno uno sguardo al fratello.
Mycroft emise un sospiro irritato. – Questi sono affari che riguardano anche noi. La fazione di sotto non ha mai negato l’uccisione di un umano fatta per mano loro, e se ora succede credo sia una buona ragione per iniziare a preoccuparsi. –
Sherlock si sollevò di scatto, stavolta guardando il maggiore fisso negli occhi, gelido come il ghiaccio.
- Lo so, fratello. – e la sua voce, a John, parve quasi un sibilo ostile, il soffiare di un gatto. -  Capire il modo di pensare dei criminali è il mio lavoro, se per caso lo hai scordato. So che quest’uccisione dev’essere probabilmente parte di un piano, e so quali sarebbero le conseguenze se il Ragno dovesse avere la meglio su di noi. Non ho bisogno che tu venga a farmi la predica come fossi un bambino stupido. –
Ora era seduto sul bordo del divano, le mani strette ad esso e il busto proteso in avanti, come sul punto di alzarsi in piedi. Mycroft non si scompose, il suo volto una maschera imperscrutabile.
- Potrebbe essercene bisogno, invece, se la prima cosa che fai è provare a farti manipolare dalla Donna. –
- Manipolare? Sono soltanto andato a vedere se mi avrebbe detto qualcosa, e forse nemmeno lei è al corrente di quello che è accaduto! –
- Il che è oltremodo sospetto, a mio parere. –
- Mycroft… - cominciò Sherlock, stavolta in piedi sul serio. Il fratello lo fermò prima che cominciasse, alzandosi a sua volta e mettendogli davanti il palmo della mano.
- Non cominciamo nemmeno. Non ho voglia di discutere su quanto io mi fidi o non mi fidi del tuo giudizio adesso. lei può essere un’ottima alleata, ma è più probabile che sia un pericolo e un’insidia. Stai attento, e non farti uccidere. Buona giornata. –
Si congedò senza nemmeno dar loro il tempo di ribattere, e in pochi secondi era già fuori dalla loro vista.
John, che non aveva detto una parola da quando i due fratelli avevano iniziato la loro discussione, prese il polso di Sherlock, invitandolo a tornare seduto con un leggero strattone. Sbuffando, Holmes fece come il dottore gli suggeriva, lasciandosi cadere pesantemente.
Watson gli si sedette accanto, e lasciò che Sherlock spostasse il proprio peso discretamente contro di lui, fingendo di non accorgersene.
- Dovrei chiedere l’opinione di Victor. - mormorò il detective. Questo, più che la discussione con Mycroft e l’incidente con la Donna fece preoccupare John. Molte altre volte uno dei due era rimasto acciaccato o leggermente ferito a causa di qualche caso, e i litigi tra Sherlock e il fratello erano tutto tranne che insoliti. Ma che Sherlock pensasse di chiedere consiglio a qualcuno che non fosse il suo stesso cervello, era un’anomalia, qualcosa che faceva scattare l’allarme, che indicava una rottura, un’incrinatura nel sistema perfetto nel suo funzionamento che era la Creatura. Perfetto fintanto che autonomo e separato da un vetro dalle persone, naturalmente. Ma se fosse scivolato dentro un granello del mondo, smettendo di essere solo visto da lontano, l’ingranaggio rischiava di incepparsi o mutare il proprio funzionamento. Forse qualcosa in quel caso aveva incrinato il vetro, forse aveva trovato una fessura in cui insinuarsi. Forse era la Donna.
Questo diede fastidio al dottore. Molto. Se qualcosa avesse dovuto modificare quel delicato equilibrio ad orologeria, avrebbe dovuto essere lui. E forse avrebbero potuto accusarlo di essere ingiustamente geloso, perché non poteva reclamare proprietà su una persona che non gli apparteneva, ma saperlo non influì minimamente sulla sua crescente irritazione. Pensò questo rabbiosamente, prima di ricordare di avere ancora Sherlock quasi appoggiato contro il suo lato.
- Forse, sì. La sua vita nascosta potrebbe portargli informazioni diverse dalle nostre, magari. -
- Magari, sì. -
Dopo la foga con cui aveva risposto a Mycroft, la sua voce sembrava essersi fatta flebile, quasi. Come se non riuscisse a darci impeto, non ne avesse l’energia necessaria. O fosse con la testa altrove, distratto.
- Vuoi andare tu da lui, o trovare qualche altro modo per contattarlo? -
- Andrò io. Domani mattina. -
- Vuoi che ti accompagni? -
- Devi lavorare, se non sbaglio. -
- Lo so. Ho solo pensato che magari… nulla, lascia stare. Come vuoi tu. -
Sherlock non aggiunse nulla a questo. Però, John sentì il suo peso farsi meno sulla sua spalla.
Quando, quasi un minuto dopo, si voltò il detective non era più lì. Non l’aveva sentito alzarsi dal divano per dirigersi lentamente verso la propria stanza.
Sentì però, in qualche modo, il silenzio perfetto quasi quanto il sistema ad ingranaggi di Sherlock che permeava il soggiorno quanto la camera del coinquilino.
 
 
 
Dopo il non molto celato rifiuto di Sherlock alla sua offerta di accompagnarlo a cercare Trevor, John era andato come da routine allo studio medico, lasciando l’altro uomo solo in casa.
Sherlock non sapeva nemmeno perché gli aveva fatto intuire che non lo voleva con lui. Non sapeva nemmeno se lo voleva con lui o no in quel momento. Era confuso, e inquieto. Il modo brutale in cui quella Creatura morta era stata mutilata delle sue Estensioni l’aveva fatto rabbrividire. Gli artigli strappati, lasciando quelle fessure slabbrate e sanguinolente sopra le unghie, come a voler urlare quanto l’assassino intendesse privare la persona delle sue armi, delle sue difese. Il rendere l’individuo debole e vulnerabile, spoglio di ciò che lo aveva reso differente e senza il cui smetteva di essere. No, non voleva che John lo vedesse perdere il controllo, e siccome il dottore fin troppo bene aveva dimostrato di sapergli leggere dentro l’unico modo era impedirgli di essere con lui nei momenti in cui rischiava di più di mostrarsi. E voleva anche averlo con sé, allo stesso tempo. Non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma muoversi nel campo di battaglia da solo ora lo faceva sentire vulnerabile. Non gli era mai capitato prima. Era sempre stata la norma, l’abitudine essere solo. Ora non più. Il dottore era scivolato dentro il suo sistema chiuso, e ci si era integrato dolcemente, senza quasi che lui se ne accorgesse. Prima che potesse evitarlo, era diventato un programma fondamentale del suo software.
Quindi era lì, a non sapere nemmeno quale delle due opzioni fosse migliore. Temeva che lasciargli capire quale potere potesse avere su di lui avrebbe portato alla ripetizione di ciò che era accaduto con il precedente coinquilino. Temeva che non avrebbe più saputo tenere assieme i pezzi di se stesso, se John non fosse stato lì a controllare che restassero al loro posto ed eventualmente incastrarli di nuovo ed aggiustare la posizione di alcuni che lui aveva riassemblato come meglio gli era riuscito.
Al che, non era ancora andato a cercare Victor. Era rimasto a pensare e cercare di non pensare. Forse era proprio quello il suo problema: pensava troppo. Avrebbe finito per soffocare nei propri pensieri.
- Dannazione… - sospirò, il viso affondato tra le mani, le dita che massaggiavano le tempie e gli occhi. Questi ultimi gli pizzicavano. Ecco, ci mancava proprio.
Il campanello suonò. Un singolo tintinnio, dato da una mano decisa ma precisa. Holmes si alzò lentamente dalla sua poltrona, andò ad aprire senza neanche controllare chi fosse, o urlare alla signora Hudson di farlo lei.
Quasi sussultò quando vide Victor Trevor ad attenderlo con una punta di ansia nella postura, gli occhi coperti da occhiali da sole nonostante la totale assenza di esso. Quasi sussultò.
- Salve, Sherlock. - disse, con voce esitante. O quasi esitante. Sherlock si accorse di non riuscire a concentrarsi sui dettagli.
- Victor. - la sua voce era sempre stata così, così simile ad un sospiro tremolante?
- Posso entrare? - il suo amico d’infanzia sembrava più sicuro, ora.
Sherlock annuì soltanto. L’espressione di Victor si era fatta da ansiosa a preoccupata, stavolta sembrava nei suoi confronti. Forse era qualcosa nel modo in cui era suonata la sua voce. Forse il liquido tiepido che gli striava gli zigomi, di cui non si era accorto prima.
Il Gatto, ad ogni modo, richiuse la porta alle proprie spalle, e avvolse le braccia attorno a lui.
Non c’era bisogno di chiedersi come facesse Victor ad essere lì nel momento più opportuno, o ad aver già capito dopo avergli dato solo uno sguardo. Victor lo faceva sempre. Sapere le cose era il motivo per cui esisteva.
E quindi, Victor lo riaccompagnò di sopra, senza aggiungere nulla. Perché sapeva cosa andava fatto.
Lui sapeva.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*****
 
Note:
Ho rischiato un ritardo colossale, questa volta. Una gita scolastica di una settimana mi ha limitato molto le ore di scrittura, ma tornata a casa mi sono accorta che avevo già finito il capitolo prima della partenza, prendendomi avanti, per cui ho dovuto solo rileggere, correggere e aggiungere qualche cosetta qui e là. È comunque un po’ più corto del solito, ma questo passa il convento, lettori cari.
Un bacio, come sempre, a chi legge, segue e recensisce!
Kisses
 
Sofyflora98

 

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Capitolo 17
*** Mentre sognava non era lucido ***


Non si era accorta subito della loro presenza. All’inizio, anzi, era completamente ignara degli individui che la stavano spiando dai lati della strada. C’era un certo viavai, e non aveva fatto caso alle figure appoggiate silenziosamente alle pareti degli edifici pubblici che delimitavano la via, l’attenzione stranamente rivolta solo alla chiamata che stava ricevendo al cellulare, piuttosto che spartita anche con la necessità di tenere d’occhio i passanti.
Iniziarono a camminare lentamente, distrattamente dietro di lei quando la strada si fece meno folta di persone, e lei per un po’ continuò a non notare nulla. Solo quando il rumore diminuì di più, e sentì meglio i passi pesanti alle sue spalle, cadenzati. Le bastò, a quel punto, una rapida occhiata per rendersi conto di essere seguita.
Affrettò il passo, e gli uomini fecero altrettanto.
Osarono iniziare a correre su serio quando finirono in una zona della città stranamente vuota. Un quartiere residenziale, e a quell’ora erano quasi tutti al lavoro, per cui nessuno era più in giro. Ovvio che gli uomini sapevano che si stava dirigendo in un posto dove non avrebbero trovato passanti a disturbarli o ad essere testimoni.
La Donna riuscì, a quel punto, a sfilarsi rapidamente le scarpe dal tacco alto, e prese a correre.
Il Ragno mandava i suoi omaggi.
 
 
 
Avevano fatto in tempo appena a salire le scale ed entrare nell’appartamento, a scambiare qualche parola  soltanto, prima che con istantanea intesa con il detective Victor afferrasse le spalle di Sherlock e gli aggredisse le labbra. Questi lo lasciò fare, e si limitò a portare le mani sulla schiena dell’altro mentre veniva leggermente reclinato all’indietro, le dita del gatto ora affondate tra i suoi riccioli scuri.
- Penso che possiamo parlare dopo… - ansimò il detective quando si staccò per respirare. Ricevette in risposta un suono simile alle fusa di un felino, che interpretò come segno di assenso.
Victor iniziò a spogliarlo con metodica precisione, le mani che si spostavano senza esitazione in gesti che eseguiva automaticamente, senza bisogno di guardare ciò che stava facendo, potendo così tornare a impossessarsi della bocca della Libellula. Non appena ebbe libero accesso alla pelle del torace di Sherlock, Victor lo trascinò con gentilezza sul pavimento, facendolo sdraiare con la schiena sopra la moquette.
C’era reverenza, Sherlock lo vedeva, nello sguardo di Trevor, mentre quest’ ultimo gli sfiorava il petto con le labbra sospirando soffi tiepidi che nonostante ciò lo fecero rabbrividire. Lo sguardo quasi disperato degli occhi verdazzurri che gli fissavano il viso dal basso, ora, e il modo in cui tremavano le mani che lo toccavano e accarezzavano, a tratti più forti e a tratti delicate, quasi si stesse trattenendo per qualche ragione, erano tra quelle cose che Sherlock non era in grado di comprendere. Non c’era alcun motivo per cui Victor dovesse rivolgere uno sguardo simile a lui. Non capiva nemmeno come mai lo desiderasse, in verità. Trevor era attraente, avrebbe potuto sedurre chiunque volesse, e stava sulla moquette polverosa di un appartamento retrò con un mezzo mostro. Perché se lui era l’unico a cui erano riusciti a impiantare delle ali, l’unico il cui corpo le aveva accettate nel sistema, doveva esserci qualcosa di diverso in lui. Qualche errore che gli aveva permesso di sopravvivere dove altri erano morti per le infezioni e le ferite, facendo di lui un’aberrazione anche tra le Creature.
Invece gli occhi di Victor sembravano urlare tutt’altro, come faceva anche l’emozione che vibrava sotto il guscio. Doveva essersi accorto che la sua mente era scivolata altrove, perché mormorò il suo nome con tono quasi interrogativo, ma non meno adorante, e premette nuovamente le labbra sulle sue, succhiò morbidamente il suo labbro inferiore, e chiese accesso con la punta della lingua. Era sempre morbido, pensò Sherlock, ogni movimento e gesto del Gatto. Sempre gentile e intenso allo stesso tempo, come se volesse avvolgerlo in una nuvola di lattice e ovatta, sciogliergli i muscoli e le giunture.
Si sollevò, Victor, seduto sopra di lui. Giusto il tempo di sbottonarsi la camicia in fretta e furia, di lanciarla lontano, prima di cercare il contatto diretto della pelle. Con una mano gli strinse la vita, e con l’altra cercò di rimuovere ciò che restava dei loro vestiti. Quasi divertito da quel tentativo goffo, Sherlock accorse in suo aiuto, entrambe le mani ora libere e svelte.
Il Gatto si liberò di quegli ultimi strati di stoffa che andarono a fare compagnia alla sua camicia. Si fermò a contemplarlo, il fiato corto e le guance arrossate. Victor era ancora più alto e più affusolato di lui, con una grazia ed un’ eleganza nella forma e nelle movenze che ben si combinava con le sue caratteristiche feline. Era sinuoso e affilato al tempo stesso, ed era bellissimo. Proprio per questo era certo di non essere innamorato di lui.
Ed era incredibilmente pallido, ma in un modo diverso da Sherlock. La Libellula aveva un pallore soffice, soffuso, che si poteva anche definire fuggente. Una materia fluida o gassosa trattenuta assieme da qualche forza misteriosa. Il Gatto era un’inattaccabile superficie d’avorio.
- Vorrei che tu fossi mio. – sospirò Victor, lo sguardo triste. Sherlock non rispose, ma si portò alla bocca le dita dell’altra Creatura, senza guardare Trevor negli occhi. Inumidì le falangi con la saliva lentamente, senza realmente stringerle con le labbra però.
- Io non ti avrei fatto del male. – sembrava quasi che Victor stesse parlando a se stesso che con qualcun altro, che si stesse rimproverando per qualcosa, che stesse cercando di convincersi che avrebbe potuto essere diverso.
Con fermezza Holmes gli prese il polso e condusse la mano di Victor dove doveva andare. Victor quasi dimenticava cosa stava facendo, in quei momenti. Ciononostante spinse l’indice dentro di lui con tutta l’attenzione di cui era in grado. Sempre così gentile…
Sherlock chiuse gli occhi e lasciò cadere la testa sul pavimento ricoperto dalla moquette. Non era mai stato un problema accogliere Victor: lui aveva sviluppato un controllo quasi totale delle proprie azioni, e Sherlock sapeva che l’aveva fatto per non rischiare di ferire lui. Non era mai successo, infatti, perché l’idea di fargli male avrebbe tormentato Victor per settimane, e ogni minimo movimento era misurato quasi maniacalmente.
Mentre lavorava piano con le dita, Victor si era nuovamente calato sopra di lui, e gli accarezzava uno zigomo. Quando Sherlock, ad un certo movimento di quelle falangi dentro di lui, spalancò gli occhi con un piccolo gemito, vide che era l’altro ora ad averli chiusi.
Victor prendeva il tempo che gli serviva, per assicurarsi che non gli avrebbe procurato il più piccolo dolore. Era bravo in questo, nell’ignorare i propri istinti per fare del bene a lui. Sherlock prese ad accarezzargli i capelli che gli ricadevano sulla fronte, ricci biondo scuro  un po’ più lunghi dei suoi e molto soffici. A volte, quando si rendeva conto pienamente di cosa c’era dentro di lui, si sentiva in colpa per non amarlo. Victor non meritava questo. Ci aveva provato, in passato. Ma semplicemente non poteva costringersi a provare un sentimento che non gli apparteneva. Gli voleva bene, moltissimo, e per anni era stata l’unica persona per cui davvero sentisse affetto, ma oltre a questo e l’attrazione fisica non c’era altro. E sicuramente era doloroso per il Gatto restare in quella posizione precaria, ma probabilmente l’avrebbe distrutto essere abbandonato. Non che Sherlock avesse mai pensato desiderato farlo, ma era una conclusione a cui era spontaneamente giunto.
- Sherlock, posso…? – ansimò Trevor, le guance rosse e il fiato corto.
La Libellula annuì, il corpo che già da qualche minuto era scosso da tremiti e brividi che gli attraversavano la spina dorsale come scariche elettriche. Divaricò le gambe in modo invitante quando Victor ritrasse le dita, rivolgendogli uno sguardo che in quell’occasione era più voglioso che malizioso e seducente, ma che non fu meno efficacie sull’altro uomo comunque. Con un sospiro più rumoroso, Victor premette le labbra contro la pelle della sua coscia, lasciando svariati baci umidi e passionali, ma che non lasciarono alcun segno. Proseguì nella sua venerazione delle membra perlacee che si trovava tra le mani sfiorando appena l’osso del bacino e premendo più forte sulla pancia, ora usando solo la punta della lingua, facendo tremare ancor di più Sherlock sotto di sé, che gemeva di frustrazione per non aver ancora ottenuto ciò che voleva.
Il Gatto, d’un tratto, gli afferrò le gambe in modo possessivo, e se le sistemò attorno ai fianchi, senza trovare alcuna resistenza da parte della Libellula. Era una cosa che a volte aveva sconcertato il Gatto in passato, quella mancanza di reazione quasi passiva e assente. Gli ci era voluto un po’ per rendersi conto che Sherlock semplicemente non si muoveva e basta, e che non era un segno di apatia o passività frigida.
Si fece strada dentro di lui con grande lentezza, aiutandosi con una mano. Un lungo movimento fluido, che ormai non richiedeva più chissà quale controllo di sé per evitare di entrare rudemente. Da Sherlock sentì un respiro secco e più forte. Non di dolore, aveva imparato a riconoscere i vari suoni che uscivano dalle sue labbra rosa chiaro quasi come riconosceva umani e Creature a colpo d’occhio.
Rimase fermo dov’era, in attesa del via libera, che non lo fece attendere che una ventina di secondi prima di arrivare. Sherlock strinse più forte le gambe attorno alla sua vita, e quello fu il segnale. Iniziò a dare delle spinte languide, più dei colpetti con i fianchi in realtà, senza quasi uscire dal calore che lo avvolgeva. Aveva bisogno di più contatto, di essere ancora più vicino, pensò confusamente, gli occhi serrati, mordendosi le labbra per non singhiozzare come uno sciocco dal piacere e dalla commozione che ogni volta lo investiva.
Scese fino ad appoggiare la pelle nuda del petto su quella della Libellula, avvolse le braccia attorno a lui e affondò il viso nell’incavo tra la sua spalla ed il suo collo, inspirando profondamente quel profumo inebriante che era in parte suo di natura e in parte dovuto al suo essere una Creatura.
- Victor? – come facesse a dargli ordini anche in quella posizione e continuare ad apparire autorevole era tra quella cose che Victor non riusciva a spiegarsi di Sherlock Holmes, una delle cose straordinarie di lui. – Sì. – gli rispose con voce arrochita, intuendo al volo cosa intendesse con quella singola domanda.
Aumentò l’intensità delle spinte, e le dolci dita di Sherlock furono subito sulla sua nuca a tracciare ghirigori come ricompensa per avergli obbedito senza farsi aspettare.
Non si rese conto nemmeno di quando fu che cominciò a baciare e leccare il collo, il torace, ed ogni centimetro di cute diafana che riusciva a raggiungere con la bocca, ma non vide perché avrebbe dovuto smettere: il sapore era intossicante, per lui.
Sentì il piacere che si accumulava dentro di lui, e resosi conto che non avrebbe resistito a lungo prima di giungere al culmine. Portò una mano tra i loro corpi alla ricerca del membro del suo amore, stringendolo delicatamente ma con fermezza quando lo trovò alla cieca, non riuscendo a distogliere lo sguardo dagli occhi che ora avevano intercettato i suoi, belli come astri strappati dal cielo e altrettanto alieni.
Con la sua mano, aiuto Sherlock a raggiungere l’orgasmo per primo. Quelle belle membra si irrigidirono e inarcarono, e finalmente un gemito più acuto giunse come una melodia alle sue orecchie, e finalmente un brivido preannunciò la scossa che fece tremare il suo intero corpo, fino a farlo riversare dentro all’amante.
In uno stato semi cosciente, scivolò fuori da lui, sdraiandosi al suo fianco. Non ebbe bisogno di guardarlo per sapere che tra i due era lui stesso quello più scosso, ma comunque non si impedì di percorrere con lo sguardo quel gioiello che aveva in prestito senza poter tenere. Lo attrasse a sé con un braccio, dandogli un ultimo bacio insolitamente casto sulle labbra semi aperte.
 
 
 
Sherlock gli aveva raccontato della loro incursione nell’abitazione di Irene Adler mentre si lavavano dal sudore e dalle altre tracce appiccicose che avevano addosso. Dalla tranquillità e noncuranza con cui aveva iniziato a parlare, non si sarebbe neanche detto cos’era successo poco prima, ed era una delle cose che rendevano Victor dolorosamente consapevole dell’unilateralità del suo amore. Ciononostante, aveva sorriso mestamente e aveva ascoltato senza lasciar trapelare ciò.
Sherlock aveva riferito il dialogo avvenuto tra lui e la Donna con una precisione e ricchezza di dettagli impressionante anche per chi da anni ed anni era avvezzo al suo modo di registrare i ricordi, e Victor poté analizzare mentalmente una per una tutte le frasi pronunciate dalla Adler. Sapeva di lei che era un’abile manipolatrice, ma non aveva mai avuto l’impressione che fosse particolarmente legata al Ragno o alla sua fazione. Si fece ripetere alcune parti del discorso più volte, in cerca di qualche parola o frase che potesse tradire la sua implicazione, ma non trovò nulla. O era davvero ignara riguardo ciò che era accaduto alla Creatura trovata morta, o era un’abilissima bugiarda.
- Non dare per scontata la sua sincerità. E se la incontrerai di nuovo, cosa probabile, non fidarti di lei fino a che non avrai prove certe. – disse al detective. – Scusami, so che sai meglio di me come comportarti, essendo il tuo lavoro. Non riesco però a non preoccuparmi se ci sei tu di mezzo, anche se rischio di sembrarti come Mycroft. –
Sherlock scosse la testa. – Dì pure quello che pensi. Due cervelli sono meglio di uno. E tu non sei Mycroft. –
- Anche se quell’uno è il tuo, di cervello? –
Sherlock sorrise appena. – Come facevi a sapere che volevo parlare con te, quando sei apparso stamattina davanti alla mia porta? –
La domanda parve mettere a disagio il Gatto. Esitò, prima di trarre un sospiro e rispondere con voce nervosa e imbarazzata. – Me l’ha detto Mycroft. – stavolta Holmes quasi scoppiò a ridere. – Tenevo d’occhio la zona, e ho visto John uscire con un’espressione strana. Ho pensato che avrei fatto bene a farmi vedere. Quando ti ho visto è stato piuttosto palese che ho fatto bene a non lasciarti qui solo. So cosa succede quando sei così. –
Aveva finito di strofinarsi i capelli con l’asciugamano che gli aveva passato Sherlock poco prima. Lo piegò meglio che poté e lo posò sul piano stabile più vicino.
Poi un rumore li soprese. Uno scatto secco, e un tonfo.
Sherlock si era appena girato, che il gatto, da esemplare felino già teso e pronto ad un eventuale lotta, spalancò la porta del bagno e uscì in cerca della fonte di quel suono. La Libellula lo imitò di poco in ritardo, stando attento a restare sempre dietro al più alto. Non si sarebbe mai riparato dietro a nessuno normalmente, ma quello era Victor.
Victor socchiuse gli occhi, in ascolto, mentre la libellula aguzzava lo sguardo. Un rumoroso fruscio e quelli che inconfondibilmente erano passi, ruppero il silenzio degli ultimi momenti. Abbandonarono il camminare cauto, e scattarono verso il soggiorno, da dove proveniva quel lieve trambusto.
La grande finestra era aperta. Quasi ad aspettarli c’era Irene Adler, intenta a infilarsi un paio di scarpe col tacco alto che teneva in mano, i capelli scompigliati e il fiato corto.
- Oh, salve. – li salutò con disinvoltura. – Spero non sia un problema se sono venuta qui senza avvisare prima. –
Victor si rilassò quasi del tutto, anche se Sherlock lo vide stringere la mascella con forza. – Immagino che lei sia la signora Adler. – disse con voce ferma solo vagamente ostile. Lei gli sorrise, e fece scivolare lo sguardo lungo la sua figura, dalla testa ai piedi con grande lentezza. Quando si accorse di cosa stava facendo, Victor dischiuse appena le labbra dallo stupore, e Sherlock avrebbe giurato di vederlo arrossire. In ogni caso, portò le braccia a coprirsi il torace, voltandosi per andare in cerca della camicia che non aveva ancora avuto il tempo di indossare, a differenza del compagno.
La Donna si lasciò andare ad una risata rilassata, stranamente priva di malizia vera e propria. – Perdonatemi, signor Trevor. Da quel che avevo sentito su di lei, non mi sarei mai immaginata che foste il tipo da imbarazzarsi per così poco. – e sembrava quasi sincera mentre lo diceva, ma Sherlock si guardò bene dal fidarsi di ciò che lei voleva far credere loro.
- Salve anche a lei. – rispose comunque, mentre Victor finiva di chiudere gli ultimi bottoni. – C’è una specifica ragione per cui voi vi siete… arrampicata sui muri per entrare dalla finestra, suppongo? –
- Davvero perspicace. – ghignò lei, lasciando che il suo abituale atteggiamento tornasse al suo posto. – In effetti c’è, signor Holmes, nonostante vi avrei volentieri fatto visita comunque. –
Sherlock sollevò appena un sopracciglio, a suo modo divertito dallo spudorato flirting della Creatura. Victor era decisamente meno divertito, ma probabilmente era per motivi più personali, che potevano comprendere il metterlo in imbarazzo davanti al suo amante e lanciare sguardo di apprezzamento verso quest’ultimo.
- Vi ascolto. – la esortò il detective.
- Essere inseguita da cinque Creature probabilmente al soldo del Ragno vale come motivazione per introdursi nell’abitazione del migliore detective d’Inghilterra, mi hanno detto. Lei cosa ne pensa, signor Holmes? –
L’uomo diede uno sguardo a Trevor prima di tornare ad osservare Irene. – Mi state dicendo la verità, signora Adler? – chiese. – Perché potrebbe fare una grande differenza se per esempio lei fosse una bugiarda ma confessasse ora, o se invece aspettasse che io lo scopra per conto mio. –
- Croce sul cuore, signor Holmes. Quel che le ho detto è vero. – ribatté lei.
- Aspetti due minuti allora, per favore. –
Sherlock invitò Victor ad allontanarsi da lei per poter scambiare due parole. Non andarono in un’altra stanza, si limitarono a spostarsi all’ estremità opposta del soggiorno, rivolgendole le spalle. Se anche li avesse aggrediti, in due erano più che sufficienti per fermarla, specialmente se considerate le eccellenti abilità del gatto nel combattimento corpo a corpo.
- Secondo te è sincera? – domandò Trevor a bassa voce.
Sherlock scosse il capo. – Non saprei. È brava a celare le sue emozioni. Penso che sia possibile, però. –
Victor le scoccò un’occhiata veloce da sopra la spalla. – Aspettiamo che torni John Watson, e poi ne discutiamo anche con lui. Nel frattempo, prendiamola con le pinze. Non vorrei che scatenasse uno scontro aperto tra fazioni. –
Holmes assentì.
- Può restare, per il momento. – disse, rivolgendosi ad Irene. – Quando John tornerà, sarebbe davvero gentile se ci raccontasse nel dettaglio cos’è successo. Nel frattempo si accomodi pure. –
Lei lo ringraziò, e cercò subito la zona più comoda del sofà. Victor sparì in cucina, annunciando che avrebbe preparato il tè. Sapeva essere divertente il suo essere, come Watson, così tipicamente inglese nel reagire alle difficoltà.
 
 
 
Era tardo pomeriggio quando John finalmente riuscì ad uscire dall’ambulatorio e fuggire alle signore paranoiche e alle mamme iperansiose. Con enorme sollievo ed enorme stanchezza, fece le scale per raggiungere l’appartamento sperando di poter tornare a tentare goffamente di coccolare Sherlock senza sembrare troppo sfacciato, come il giorno precedente, ma fu spiacevolmente sorpreso nel veder crollare questa dolce fantasia (per quanto in sé difficile da realizzare), quando sentì che c’erano tre voci diverse che provenivano dall’interno. D’accordo che con Sherlock non si poteva sapere cosa aspettarsi, ma interpretare voci differenti per fingere di parlare con qualcuno era troppo anche per lui.
Quindi, fatti due conti, la presenza di Trevor sulla sua poltrona non fu così scioccante, anche se avrebbe preferito vederlo sul divano. Purtroppo quest’ultimo era occupato dalla molto meno ovvia presenza di Irene Adler, che a quanto pare non doveva essere troppo gradita a Victor, dato che nonostante lo spazio libero aveva comunque evitato di sedersi accanto a lei. Perlomeno, Sherlock era nel suo posto di sempre quindi magari poteva contare su un briciolo di suo controllo della situazione. Forse, s’intendeva.
- Salve, John. – e uno.
- Dottor Watson, è un piacere rivederla. – disse a sua Volta Trevor. E due.
- Non le dispiace, vero? perché la vostra visita mi ha causato alcuni problemi. – aggiunse la Donna. E tre.
Cristo santo, pensò tra sé e sé. Uno psicopatico alla volta sembrava non essere sufficiente, a quanto pareva. La combriccola quasi all’intero sembrava volersi impegnare a farlo unire a club, con la loro completamente fuori luogo nonchalance.
- Sherlock. – chiamò seccamente il coinquilino. – Passi per Victor, ma come mai lei è qui? – sembrava molto poco una domanda in verità, ma non gli importava molto di modulare correttamente i toni di voce sul momento.
- A proposito di questo dobbiamo discuterne. – rispose il detective. – Metti giù le tue cose, e poi torna qui, per favore. Dobbiamo decidere se è una bugiarda oppure no. –
Come riassumere un anno e mezzo di coabitazione in due frasi.
Dopo aver fatto come gli diceva il coinquilino, si sedette su una sedia che portò dalla cucina (in tutta sincerità, nemmeno lui si sarebbe sentito a suo agio seduto accanto ad Irene Adler), vedendo che la sua poltrona continuava a restare occupata. Stette ad ascoltare il racconto della Donna su come alcuni uomini avevano iniziato a pedinarla, e poi ad inseguirla in una strada, costringendola a far perdere loro le sue tracce e arrampicarsi dalla finestra nel loro appartamento per nascondersi. A suo parere erano di sicuro uomini del Ragno, mandati a causa del fallimento precedente. Ormai dovevano essersi davvero convinti che lei ne sapesse qualcosa, diceva.
Non vennero ad una conclusione, alla fine: non avevano la più pallida idea su come capire se mentisse oppure no, quindi decisero di concederle il dubbio, e nel frattempo lasciarla stare lì per proteggerla nel caso fosse sincera. La discussione occupò diverso tempo, più per il dibattito riguardo Irene che il racconto in sé, e quando si accorsero che erano già le diciannove passate, Victor si offrì molto cavallerescamente di preparare la cena per tutti. Probabilmente il fatto che Sherlock fosse parte del quartetto e che si trovavano nella sua abitazione (e di John, ma probabilmente per Trevor non contava) lo influenzò parecchio in questa spontanea voglia di fare.
Mangiarono nervosamente, o almeno lo fece il dottore. Sherlock a malapena toccò cibo, come suo solito, e quel poco che ingerì di sicuro fu per il fatto che veniva da Victor. Trevor sembrava più guardingo che nervoso, e John non poté non notare che teneva sempre d’occhio la donna di sbieco. Lei non batté ciglio, perfettamente a suo agio.
Per il resto della sera, due paia di occhi acquamarina, più o meno freddi o sospettosi, le stettero incollati, due menti a loro modo entrambe sopra la media che la cercavano di giudicare o cogliere in fallo. Watson sentì quasi un moto d’ammirazione verso di lei, per la serenità con cui li ignorava beatamente, anzi mettendo loro stessi a disagio. Una maestra nell’avere a che fare con la gente, pensò. A differenza degli altri due tra l’altro, in particolare del suo coinquilino dato che Victor aveva almeno una sorta di gentilezza nel trattare le persone.
Alla fine, misero la Adler a dormire nella camera di Sherlock, mentre Victor si raggomitolò sul divano come un gatto. Se fosse fuggita, le avrebbero dato la caccia. John e Sherlock stettero invece nella stanza del primo dei due, e l’umano quasi sentì su pelle lo sguardo penetrante e insinuante della Donna quando uscirono insieme dal soggiorno. Probabilmente sarebbe stato più sicuro che restassero tutti il più vicino possibile a dove lei si trovava, ma d’altronde, se si fosse ingaggiata una lotta nessuno dei due sarebbe stato particolarmente utile, specie se c’era un mezzo felino a portata di mano ad una distanza decisamente inferiore.
Girati uno da un lato del letto ed uno dall’altro, spensero le luci presto, anche se sapevano che nessuno dei due si sarebbe addormentato a breve, e che Sherlock forse non avrebbe dormito per niente. John sentiva come un velo di pesantezza che stava calando sulle loro spalle. Non era il primo caso bizzarro con cui avevano a che fare, ma qualcosa lo inquietava profondamente, e non si trattava solo della Donna.
Non aveva sonno. Nemmeno un po’. Si voltò dall’altra parte, ignorando la consapevolezza che a quel punto avrebbe fatto fatica a tornare a dare le spalle a Sherlock come avrebbe dovuto. Fu sorpreso nel trovare un paio di occhi cangianti che lo scrutavano nel buio, silenziosamente. Erano gli occhi del Sherlock Creatura, non del detective. Erano bellissimi e irreali.
- Cosa ne pensi? – sussurrò. – Secondo me hai una mezza idea, ma non volevi dirlo davanti a Victor e alla signora Adler. –
Sherlock batté le palpebre con estrema lentezza, nascondendo per qualche secondo l’unica cosa che risplendeva nella stanza. Come facessero a farlo anche nell’oscurità era un mistero. – Secondo me l’uccisione di quella Creatura non ha una ragione. È un pretesto per far agitare le acque. –
- Per fare cosa? – ora Sherlock lo guardava di nuovo. Era uno sguardo che somigliava ad un tentativo, all’avvicinarsi timido e guardingo di un bambino. Inconsapevolmente, John spostò una mano da sotto la testa a davanti a sé, sul materasso, le dita che per poco non sfioravano la fronte del coinquilino, che si era avvicinato.
- Il Ragno ha un piano, ne sono sicuro. Per aggredire la fazione, oppure me, questo è da vedere. Forse vuole usare questo omicidio per stimolare l’aggressività da entrambe le parti. Forse vuole far ricadere la colpa su di noi. –
- E la Donna? –
Sherlock scosse la testa. – Non lo so. Non mi piace non sapere, ma resta comunque il fatto che non so come capire se lei è coinvolta o meno. Potrebbe, come anche no. –
- Hai paura? – non sapeva, il dottore, se era un bene fare questa domanda a Sherlock. I suoi punti deboli erano nervi scoperti anche con lui, ma non aveva saputo tacere. Sentì il detective trattenere il fiato alcuni istanti di troppo, prima di rilassarsi di nuovo.
- Non lo so. – c’era una punta di disperazione malinconica, una muta richiesta d’aiuto, nella sua voce. Ma John non sapeva cosa doveva fare, non sapeva come gestire le emozioni di una persona che le aveva tenute lontane per troppo tempo.
- Non importa. – disse, comunque. – Te lo dirò se avrai bisogno di saperlo. –
- Cosa? – chiese confuso il più giovane, aggrottando le sopracciglia, movimento che Watson vide solo come il lieve spostarsi di una sagoma scura.
- Ti dirò se hai paura. Se mai avrai bisogno di saperlo con certezza. –
- Come farai a saperlo? –
John sorrise tra sé. – Lo saprò. Io so tutto quello che non sai tu. – scherzò. Sperava di far ridere almeno un po’ l’altro uomo, e ci riuscì a giudicare dal basso suono gorgogliante che fuggì dalla gola di Sherlock.
- Buono a sapersi, allora. –
Quella notte John sognò occhi azzurri e riccioli neri, luce chiara e limpida, profumo di erba fresca e una risata dolce e serena che era di sicuro impossibile nella realtà, ma che stava tremendamente bene su quelle labbra rosa chiaro. C’era anche tanta pelle, bianca e liscia, e in qualche modo c’erano anche dei fiori di campo.
Lucidamente, Watson avrebbe storto il naso davanti ad un’immagine così sdolcinata, così da romanzetto rosa per adolescenti. Ma mentre sognava, di certo non era lucido.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 18
*** Mutamento nei ranghi ***


La giovane donna si era presentata alla centrale di polizia la mattina presto, e dai chiari segni di nervosismo e indecisione, non ci volle Sherlock Holmes a capire che aveva qualcosa da raccontare. Lestrade ci sperava, e sperava anche che avesse a che fare con l’uomo che avevano trovato morto qualche giorno prima: erano riusciti ad identificarlo, ma continuavano a non avere alcun appiglio per proseguire le indagini, e come se non bastasse nemmeno Sherlock aveva aggiunto altro dopo aver affermato che era una Creatura. Di solito a quel punto lasciavano perdere, perché non erano mai riusciti a cavar fuori nulla dai casi che coinvolgevano le Creature. Le strane modalità di quel particolare assassinio, però, li avevano spinti a tentare comunque.
Erano riusciti a scoprire che quell’uomo lavorava come impiegato in una piccola azienda, che viveva solo in un appartamento in affitto, e che le poche persone che il vicinato aveva visto assieme a lui non erano né identificabili né rintracciabili. La scientifica non era riuscita a capire esattamente cosa portasse Holmes a sostenere che fosse una Creatura, perché il corpo sembrava esattamente uguale a quello di qualunque umano. Qualche piccola stranezza c’era, in effetti: un doppio solco per le unghie e dei tagli nelle gengive che sembravano aver ospitato denti in più, e inoltre aveva nell’organismo una strana sostanza chimica artificiale che stavano ancora analizzando, ma che probabilmente era qualche sostanza stupefacente. Comunque nulla faceva pensare che avesse il potere di succhiare la vita alle persone senza lasciar traccia.
Avevano fatto pubblicare la notizia, tralasciando il fatto che si trattasse di una Creatura e le condizioni in cui si trovava, per vedere se c’era qualche testimone o se qualcuno aveva comunque notato qualcosa di strano, e finalmente era arrivato qualcosa di concreto.
La giovane stringeva e tirava l’orlo del maglioncino, seduta su una sedia di plastica. Cercava convulsamente di evitare lo sguardo dell’ispettore, ma tornava ogni qualche secondo a far saettare gli occhi su di lui, ansiosa.
- Parli pure, signorina Brown. – le disse gentilmente Lestrade, preparandosi ad ascoltarla per vedere se c’era qualcosa di importante, mentre il sergente Donovan attendeva che lei iniziasse a parlare per scrivere le sue parole.
- Passavo di lì mentre portavo a spasso il cane. – iniziò, tenendo lo sguardo fisso sulle proprie ginocchia e una mano a grattarsi una brutta irritazione poco sotto l’orecchio. – C’era un uomo che camminava una ventina di metri più avanti, non ci avevo fatto caso. Poi un secondo uomo è sbucato fuori dal nulla. Gli si è avvicinato, e hanno scambiato due parole, prima che estraesse un coltello e gli tagliasse la gola di scatto. Mi sono paralizzata e sono corsa via, ma ho fatto in tempo a vederlo chinarsi e fare qualcosa alle sue mani. –
Lestrade annuì lentamente. Non avevano detto alla stampa delle mutilazioni del cadavere, quindi escludendo che lei stessa fosse l’assassina, doveva aver visto davvero la scena.
- Sapreste descrivere l’uomo che l’ha ucciso? –
Lei scrollò le spalle. – No, era sera tardi. Era buio, ed erano un po’ lontani. Posso solo dirle che mi sembrava alto, abbastanza magro, e che aveva un cappotto lungo. –
- D’accordo, va bene così signorina. La ringraziamo per la sua collaborazione. –
La giovane uscì a passetti rapidi, dopo essere stata congedata dai due poliziotti. La Anderson storse il labbro mentre rileggeva gli appunti che aveva preso.
- Mi sembra un po’ forzato, ad essere sincera. –
Lestrade alzò le spalle. – Forse. Che l’uomo non si sia  accorto di lei e non abbia provato ad inseguirla per chiuderle la bocca è improbabile. O è stata molto fortunata, oppure è un’altra sciocchezza. Dovremmo chiedere a Sherlock, magari. –
- Se proprio non può farne a meno. – rispose la donna, senza nascondere una smorfia.
Non le sarebbe mai piaciuto, quell’uomo.
 
 
 
John si svegliò con un ricciolo bruno che gli solleticava il naso. Ci mise un po’ ad aprire gli occhi e a rendersi conto che si trattava di una ciocca dei capelli di Sherlock, e che di conseguenza realizzasse di essersi voltato nel sonno verso di lui (che era decisamente con il viso rivolto all’esterno del letto) ed essere arrivato fino quasi a respirargli sul collo. Maledicendosi mentalmente, cercò di allontanarsi e girarsi nuovamente il più piano possibile, sperando che non stesse solo fingendo di essere ancora addormentato e che non si fosse accorto di nulla.
Sperando di essere riuscito nell’impresa, provò anche a scivolare fuori dal letto con la stessa silenziosa discrezione, e siccome il detective non mosse un muscolo suppose che non si era destato a causa sua, sempre ammesso che stesse dormendo. A volte si chiedeva se non fingesse soltanto per fare contento lui.
Era già scorso qualche giorno da quando si erano trovato ad ospitare Irene Adler e Victor nell’appartamento. Non era successo nulla di particolare, e generalmente John aveva continuato a fare ciò che faceva sempre. Non sapeva con esattezza cosa facesse Sherlock mentre lui era al lavoro, o se ci fosse qualche segreta missione del “club” delle Creature che si svolgeva alle sue spalle, ma d’altronde nemmeno quando erano solo loro due sapeva davvero cosa faceva l’investigatore in sua assenza. E a volte nemmeno in sua presenza, a dirla tutta.
Victor faceva da cane da guardia alla Donna e parlava molto poco, e a volte John lo sorprendeva a confabulare a voce bassissima con Holmes, lo sguardo dolce ed adorante. Lo rattristava, assistere all’amore incondizionato e non corrisposto del Gatto. Si chiedeva se non sarebbe finito così anche lui, a venerare qualcosa di totalmente fuori dalla sua portata, consolandosi con il fatto che era perlomeno uno dei pochi ammessi accanto a lui.
Il pensiero per un attimo lo annichilì.
Evitava di pensarci se poteva, non era in grado di sopportare l’idea di restare in quel limbo com’era accaduto a Victor. Era doloroso, e terribilmente vero però, che non era più in condizione di potersi allontanare da Sherlock senza soffrirne come un cane. E restare sarebbe stato un perpetuo anelare ad un gioiello così vicino da poter essere sfiorato con le dita, ma che sarebbe svanito al primo tocco perché semplicemente non era fatto per essere preso. Non trovava altro modo per dirlo: Sherlock non era per le persone, semplicemente. Se lui e Victor lo desideravano era perché c’era qualcosa di terribilmente masochista in loro, o perché erano stati particolarmente sfortunati. Come voler afferrare la luce di una lampada: era lì, sotto il vetro, potevano tenere quanto volevano la sfera trasparente tra le mani, ma non avrebbero potuto prendere la luce per la sua stessa natura: non si poteva toccare. Fisicamente impossibile, come il pensiero che Sherlock potesse innamorarsi di qualcuno di loro. Affezionarsi magari era plausibile, ma nulla di più.
- John? – la voce del più giovane arrivò come una lama di ghiaccio, in quel momento.
Il dottore azzardò un’occhiata verso Sherlock, che si doveva essere appena svegliato, o aver appena smesso di fingere di dormire, e per la prima volta si pentì immediatamente di averlo fatto.
Era proprio lì, palese, l’esternazione di quel suo senso di irraggiungibilità. Occhi cangianti, non umani, ma così dolorosamente belli che pensò di cavarsi i propri per smettere di volergli baciare le palpebre, che lo fecero quasi piangere di frustrazione.
Uscì dalla stanza  velocemente e senza guardarsi indietro non appena scorse il primo lembo di pelle candida fare capolino da sotto la coperta, facendogli tornare in mente che ovviamente, ovviamente, Sherlock dormiva con solo i pantaloni del pigiama, e che non gli passava nemmeno per l’anticamera di quel magistrale cervello che qualcuno avrebbe dovuto piantarsi le unghie nei palmi delle mani per non saltargli addosso.
Non si voltò nemmeno quando Sherlock lo chiamò di nuovo, sconcertato dal modo in cui era essenzialmente fuggito da lui.
Era fottuto, pensò con rabbia disperata John. Era definitivamente fottuto.
 
Sherlock aveva dormito non più di tre o quattro ore, come suo solito. Era sveglio già da parecchio quando aveva sentito John muoversi lentamente per scivolare giù dal materasso, probabilmente credendolo ancora assopito. Per tutto il tempo da quando aveva aperto gli occhi, il detective non aveva mosso un muscolo proprio perché lui non si accorgesse che era esattamente il contrario. Avrebbe voluto voltarsi nella sua direzione quando aveva sentito i capelli del dottore sfiorargli il collo, ma aveva temuto che questi si svegliasse e tornasse a rivolgere il volto alla parete o al soffitto.
Alla fine, John si era destato e si era allontanato da lui. Sherlock sentì ed ascoltò avidamente il rumore attutito dei suoi passi sulla moquette della camera. Pensò che sarebbe uscito con tutta calma, che avrebbe preso i vestiti e si sarebbe diretto verso il bagno, o verso la cucina per fare colazione. Invece i passi s’interruppero prima che uscisse dalla stanza.
Aguzzò l’orecchio per sentire che un poco alla volta il suo respiro si era fatto più rumoroso, lievemente strozzato. Pensò che magari aveva avuto un incubo. Che gli fosse tornato in mente qualche episodio accaduto in Afghanistan. Solo dopo qualche minuto passato ad ascoltare il silenzio, decise di indagare e fingere di svegliarsi in quel momento.
Si stirò piano, con uno sbadiglio perfettamente emulato. Girò la testa, per vedere il dottore in piedi accanto al letto, lo sguardo verso il basso, le mani strette a pugno e il corpo che vibrava irrequieto. – John? – provò a chiamarlo.
Watson reagì istantaneamente. I suoi occhi saettarono su Sherlock come se non fossero che in attesa di un segno da parte sua. Sherlock si sentì stranamente a disagio sotto quello sguardo, perché era diverso. Non era il tipico sguardo caloroso, o magari ironico o scocciato che aveva solitamente. No, aveva gli occhi sgranati e le sopracciglia corrucciate, un filo di una paura che non sapeva spiegarsi sul tremolio di quest’ultime, che non apparteneva nemmeno agli incubi sulla guerra. Anche le sue labbra tremavano, come di tensione e singhiozzo, ma solo un poco.
Fu questione di un ulteriore istante prima che una nuova sfumatura si facesse largo in quel tumulto che già si scuoteva appena sotto la superficie del viso del suo coinquilino. Era qualcosa che non avrebbe mai pensato di vedere su di lui, specialmente mentre si trovava ad essere l’oggetto della sua attenzione. Bramosia.
E poi fuggì. Non c’era altro modo di definire la veloce ritirata di Watson, la sua quasi corsa fuori dalla porta. E si lasciò indietro la confusione del detective, lo spaesamento.
Perché? Questa domanda s’impigliò nella gola di Holmes, scivolò giù nel petto, e poi risalì alla testa, e di nuovo verso la gola. Ora questa bruciava. Senza una vera ragione, ma faceva un male terribile, paragonabile a quello delle prime manifestazioni delle sue Estensioni, quando la carne ancora non si era ancora adattata all’intrusione delle nuove parti.
Quella reazione improvvisa lo aveva sconcertato. Confusione, ancora confusione.
Cosa c’era? Cosa aveva fatto?
E poi quello sguardo, che per qualche secondo sembrava volesse divorarlo.
Perché scappi, perché adesso?
Il mostro, tanto, l’aveva già visto molte volte.
Si alzò, uscì dalla stanza a piedi nudi. Scese le scale per raggiungere il soggiorno, dove doveva essere andato John. Non lo vide quando entrò, ma trovò Victor seduto a gambe incrociate sul divano, i capelli scompigliati ma lo sguardo ben sveglio e vigile.
Questi si sciolse in un sorriso più gioviale quando lo vide. - Ben svegliato. - gli mormorò. Un rumore attutito di passi annunciò l’approssimarsi della Donna, appena uscita dalla camera di Sherlock. Tranquilla e attenta, sempre coerente a se stessa.
- John è sceso? - domandò il detective al Gatto. Quest’ultimo annuì, poi gli indicò la cucina.
Dentro, John stava davanti ad un bollitore sul fuoco, ma non sembrava vederlo. Sherlock si avvicinò con cautela dopo aver chiuso la porta dietro di sé. Il dottore, quando lo sentì entrare, gli rivolse un cenno di saluto con la testa, e tornò a fingere di guardare il bollitore.
Sherlock attese una qualche reazione, ma non ottenne alcunché.
- Ho fatto qualcosa che non va bene? - decise di chiedere alla fine, di fronte alla persistenza di Watson nell’ignorarlo.
John sollevò appena il capo, una stilla di attenzione finalmente ottenuta. - Uh? Cosa te lo fa credere? -
Sherlock si spazientì. - Sei praticamente scappato, John. È per via di Irene Adler? Lo so che questa situazione di stallo è snervante, ma non posso fare nulla in proposito al momento. E comunque non credo che si tratti di questo . -
Ora, lo vedeva, John era attento.
- Lei non c’entra, Victor nemmeno, e neanche questa situazione. E tu non hai fatto nulla che non va. - disse stancamente, abbassando lo sguardo sul fornello acceso, anche se ora non un briciolo del suo interesse era rivolto ad esso.
- Sei corso via solo quando hai visto che non stavo dormendo. - gli fece notare il detective. - E per qualche secondo mi hai fissato, prima di farlo. Non sono bravo a capire cosa pensano le persone non criminali, ma è semplice intuire che il problema sono io. -
John emise uno strano suono che era l’incrocio tra un gemito di frustrazione ed un ringhio, e chiuse gli occhi, le mani ancorate saldamente al mobile di fronte a lui. Quando parlò, però, non c’era rabbia nella sua voce, né fastidio o scherno. Solo, un filo di esasperazione sfiancata. - Non so se ti accorgi di troppe cose o se non ti accorgi abbastanza delle cose, a volte. - sospirò infine. Continuò vedendo l’espressione perplessa di Sherlock. - Tu non sei un problema, di tuo. Sei problematico per me. -
Sherlock fece per dire qualcosa, aveva dischiuso le labbra con quell’espressione confusa e corrucciata, ma il dottore lo fermò mettendogli una mano di fronte al viso. - Hai detto che ti ho osservato per qualche istante, prima di uscire. Hai visto anche come ti guardavo? -
Il più giovane annuì in maniera appena percettibile, una scintilla di comprensione che ammorbidiva di poco i suoi lineamenti tesi. Ovvio che l’aveva visto, si disse John. La sfortuna lo perseguitava, non poteva nemmeno fingere che nulla lo turbasse.
- Se l’hai visto, come mai mi chiedi qual è il problema? Lo avrai già capito per conto tuo. -
- No. Non credo. -
A John venne quasi da ridere. - No? Cristo, sei davvero molto meno sveglio di quello che ci fai credere, allora! - ancora una volta dovette interrompere l’uomo mentre questi iniziava a dire qualcosa. - Il problema è che tu sei parte di un mondo diverso, che sei difficile da raggiungere e impossibile da sfiorare. E che io sono un dannato masochista, perché altrimenti non sarei qui a farmi del male. -
Ora era Sherlock a fissarlo, spaesato. John stava dicendo che lui era impossibile da sfiorare? Lui, che doveva tenere a bada le lacrime ogni volta che John si apriva in uno di quei sorrisi tiepidi e dolci, o che gli accarezzava la spalla quando s’incupiva?
- Io non sono impossibile da sfiorare. - sussurrò.
John alzò gli occhi al cielo. – Lo sai che non mi riferisco in senso letterale. -
- Sì, lo so. Quello che ho detto, lo intendevo. -
- Davvero, o lo credi soltanto? O hai capito solo una parte di ciò che ti sto dicendo, quella più semplice da spiegare? – e nonostante le parole, che avrebbero potuto essere aggressive se solo il dottore avesse voluto, il suo tono restava controllato, calmo, con una punta di malinconia.
- John… - tentò ancora il detective, un filo di ansiosa disperazione nella voce. Annaspò un poco quando Watson lo prese per le braccia e lo spinse contro il tavolo al centro della stanza, dove solitamente Holmes teneva ammucchiati i suoi strumenti per fare esperimenti, ma che da qualche giorno aveva spostato per via dei due nuovi inquilini provvisori. John s’insinuò tra le sue gambe con decisione, ma le mani che ora teneva una tra i suoi capelli e una a circondargli il viso erano delicate e gentili. Fece in tempo ad esalare un respiro tremolante, e poi le labbra più sottili del più vecchio furono su quelle della Creatura.
Un languido sfiorare, nulla di più. Un bacio quasi casto. Sherlock aveva chiuso gli occhi, il respiro spezzato, combattuto su se concentrarsi più sul respirare o sulla sensazione della bocca di John sulla sua. Era il caos, era il vuoto, e non riusciva a pensare che a parole sconnesse ed elementari. Bello, bello, bello.
John si era staccato. Non doveva, non doveva assolutamente, pensò istintivamente Sherlock spalancando gli occhi per cercare la fonte di distrazione dell’altro. Ma non c’era alcunché ad averlo distratto. John era ancora rivolto a lui, lo sguardo ben focalizzato sul suo viso.
- È questo, il mio problema. – sospirò. E poi restò lì, in attesa. In attesa della sua approvazione.
Lo amo. Fu naturale pensarlo, più di quanto Sherlock aveva mai immaginato sarebbe stato. Ovvio, scontato quasi. Eppure non era mai stato innamorato per poterlo sapere.
- Non è un problema. – rispose Sherlock, sussurrando. - È… giusto, così. -
Senza smettere di guardare nei suoi occhi, lo attrasse a sé lentamente e non aspettò che fosse l’altro a far aderire le loro labbra. Un po’ più intensamente di prima, ora, e con anche la sua partecipazione attiva. E tenne le palpebre ben spalancate, l’esitazione non del tutto sparita da lui, per poter vedere con chiarezza ogni mutamento nel viso di John. E lo vide, lo vide bene. Sollievo e incredulità, e poi di nuovo quel calore adorante, e infine la stessa bramosia di poco prima.
John strinse le mani poco sopra le sue ginocchia, facendole scorrere lungo le sue cosce fino ad afferrargli i fianchi, provocandogli una scarica di brividi. Lo sospinse lentamente contro il tavolo dove già era schiacciato, inducendolo a sedersi su di esso.
Non fece però molto altro, a parte continuare a tenere la bocca incollata a quella del detective con appena qualche istante di interruzione per riprendere il respiro quando si sentiva soffocare, e cingergli la vita con entrambe le braccia, con forza, tenendolo stretto a sé, le braccia dell’altro attorno al collo come quelle di un naufrago.
Sherlock avvolse le gambe attorno al corpo del dottore. Le usò per stringerlo ancora di più, attirandolo e lasciandolo andare in un morbido movimento ondulatorio. Non ci volle molto perché Watson sostenesse questo moto spostando le mani dalla sua schiena ai suoi glutei, un basso mugolio di approvazione che gorgogliava dalla sua gola.
Poi, si fermò. Non si allontanò da lui, però. Interruppe il bacio lentamente, il respiro tremante, e prese il viso del detective con entrambe le mani, senza riuscire a distogliersi dal colore alieno e ammaliante dei suoi occhi, ora mutati. Gli accarezzò un zigomo con il pollice, e poi sentì le dita di Sherlock coprire le sue.
Sapeva che dire di essere senza parole, estasiato, era banale e cliché in un modo disgustoso, ma non sapeva come altro definire ciò che provava in quel momento. La sua testa era svuotata, galleggiante, e a tenerlo lucido c’era solo lo sguardo di Sherlock incatenato al suo, altrettanto rapito. Quel senso di inebriato oblio che si sente quando ancora non si riesce a razionalizzare un evento, quando ancora non lo si percepisce come reale. Come poco dopo un lutto. Senza però quel fastidioso ronzio cupo nelle orecchie.
Si sporse a posare un bacio leggero e breve sulla bocca del coinquilino. Poi ne seguì un altro, e fu seguito da un dolce ansito. A quel punto ne ricevette un paio anche lui, in cambio. Più incerti dei suoi, ma non meno morbidi.
L’emozione di Sherlock la sentiva quasi fisicamente, la vedeva vibrare sotto la sua pelle come se cercasse di prendere una forma propria. Era la cosa più bella che avesse mai visto.
- Ti amo. Più di quanto sarebbe il mio bene. – sospirò, affondando il viso sul petto del detective. Quest’ultimo, in risposta, lo baciò tra i capelli più e più volte, facendo ancora più salda, se possibile, la presa che aveva su di lui.
- John. – sussurrò soltanto, ma era più che sufficiente per essere capito, una volta tanto.
Il bollitore aveva preso a fischiare, quasi stesse pretendendo la loro attenzione dopo essere stato così beatamente ignorato.
John ridacchiò, e aiutò Sherlock a scendere dal tavolo. Non che ne avesse bisogno, ma era una scusa per non doverlo lasciar andare.  - Chiamo Victor e Irene per fare colazione, oppure li lasciamo dove sono a chiedersi perché non siamo ancora usciti? -
- Chiamali. Se lo chiederanno più tardi. –
 
 
 
Dopo essere uscita dalla centrale di polizia, Emily Brown era tornata dritta di filato al suo appartamento. Viveva sola, e non aveva nessuno ad attenderla, ma ciononostante non amava restare troppo tempo fuori casa, ultimamente. Non avrebbe smesso di essere nervosa finché non avrebbero finito ciò che stavano facendo.
Salì le scale con passo svelto, gettò poi il cappotto sul piccolo divano, e corse in bagno. L’irritazione che aveva sotto l’orecchio era diventata terribilmente fastidiosa. Temeva che avesse fatto infezione, ma non avrebbe potuto andare a farsela vedere se anche così fosse stato.
Davanti allo specchio, si gettò indietro i capelli per vedere la ferita, che di per sé era relativamente piccola. Si era molto arrossata, vide, e la pelle bruciava per il suo continuo grattare (non avrebbe dovuto, ma non riusciva a farne a meno). Però, per fortuna, non era gonfia, e non la sentiva pulsare. Per buona precauzione ci applicò sopra del disinfettante e la coprì con una garza e del nastro adesivo, di quello che si trova nelle cassette per il pronto soccorso.
Più tranquilla, tornò nel piccolo soggiorno, e cacciò un urlo quando vide un uomo guardarsi in giro distrattamente, che prima era sicura non ci fosse. Al suo grido, lui si girò verso di lei, lo sguardo annoiato. Emily lo riconobbe, e tirò un sospiro di sollievo.
- Scusatemi, mi avete colto di sorpresa. Non mi aspettavo di vedervi fino a domani. –
L’uomo sbuffò. – Non te lo aspettavi perché non ti era stato detto, sciocca. –
Lei chinò il capo. – Sei andata alla polizia? –
- Certamente. –
- Bene, allora. Puoi avvicinarti, per favore? – aveva una voce cantilenante, che le impediva di capire quando fosse irritato e quando di buon umore. In ogni caso, obbedì al suo capo, e avanzò fino a che non si trovò a tre passi da lui.
Fu poco più di un secondo, il tempo che gli ci volle ad estrarre le Estensioni e tagliarle la gola con un rapido guizzo della sua coda lucida e affilata. Non fece nemmeno in tempo a sorprendersi, o a gridare, a pensare che questo non era previsto dal piano che le avevano spiegato.
- E grazie per i tuoi servizi alla fazione. Saranno ricordati sicuramente. – disse il Ragno tranquillamente. – Oh, puoi procedere, ora. – disse all’uomo, discretamente appoggiato al muro in un angolo della stanza , che assieme a lui aveva atteso la ragazza.
Questi annuì silenziosamente. Mentre il Ragno usciva dalla finestra con l’aiuto delle Estensioni, lui se ne andò per la porta principale, a passi lunghi e affrettati, le mani in tasca e i risvolti del cappotto alzati.
 
 
 
Lestrade aveva telefonato a Sherlock più tardi, nel primo pomeriggio.
Durante la mattinata, dopo quello che John definì la “fine del suo stato di scapolo”, non era accaduto molto altro. Non era sicuro, il dottore, che Victor e Irene non si fossero accorti di nulla. Lei li aveva occhieggiati con fare malizioso più di una volta, ma d’altro canto quello era il suo modo di fare abituale. Trevor non aveva mostrato comportamenti diversi dal solito, ma questo non significava nulla. Comunque nessuno dei due disse una parola, e così altrettanto fecero Sherlock e John. Quest’ultimo, in verità, si sentì piuttosto a disagio per tutte le ore che passarono assieme a quei due: ora che l’aveva fatto una volta, trovò che tenere le mani lontane da Sherlock era ancora più difficile di quanto fosse prima. Non osò però tenere il braccio attorno alla sua vita, o prendere a riempirgli il viso di piccoli bacetti come avrebbe voluto, non sapendo se Sherlock intendeva o meno lasciare che gli altri sapessero del mutamento della situazione nei ranghi.
Sherlock da qualche giorno attendeva notizie da Mycroft, o da qualche altra delle sue fonti, per sapere se accadeva qualcosa di strano nell’area della fazione di sotto, o se si scopriva qualcosa riguardo l’omicidio della Creatura sul lungofiume. Ancora, però, non aveva ottenuto nulla.
La chiamata dell’ispettore di polizia, quindi, fu una piacevole distrazione. Risolvere un omicidio era sempre un ottimo modo per passare il tempo, a suo parere.
Lestrade gli disse, agitato, l’indirizzo della scena del delitto, e il detective corse a prendere il cappotto non appena ebbe chiuso la chiamata. Ovviamente trascinò con sé anche John, confidando nel fatto che Victor avrebbe tenuto d’occhio Irene Adler in loro assenza.
Victor li lasciò andare senza protestare.
Seduto nuovamente sul sofà, da dove meglio poteva osservare tutta la stanza e tenere la Donna sotto lo sguardo, lasciò che la fronte gli cadesse sulle mani aperte. Aveva sentito un mutamento nell’odore di Sherlock, quando qualche ora prima. Accadeva, a volte, quando il loro stato emotivo cambiava in modi consistenti, e tutti loro aveva un olfatto particolarmente sensibile apposta per sentire quelle differenze.
Ovviamente non poteva conoscere i dettagli, ma qualcosa doveva essere accaduto tra lui e Watson. Ed era un bene, si disse. Era felice. Lui aveva visto quanto quell’umano fosse divenuto indispensabile per la Libellula, e quanto Sherlock fosse l’astro attorno a cui Watson compiva le sue rivoluzioni.
Non aveva alcuna importanza la sua gelosia ingiustificata. Anche se lo faceva bruciare lentamente da dentro.
Anche Irene doveva essersene accorta del nuovo odore. Una Creatura del suo calibro non poteva non averci fatto caso. Infatti, eccola che sorrideva compiaciuta tra sé e sé, e gli strizzava l’occhio facendo un cenno verso l’uscio che gli altri due si erano chiusi alle spalle.
- Sono dolci, non trovi? – gli domandò. Victor non rispose. Non le concedeva il dubbio, a differenza di Sherlock. Gli aveva detto di essere estremamente cauto con lei, ma sapeva che per quanto il suo intelletto praticamente non avesse eguali, poteva essere molto ingenuo. Lui aveva dovuto abbandonare l’ingenuità a forza, dopo essere stato costretto a nascondersi dalla fazione di sotto.
Irene si avvicinò all’ampia finestra del soggiorno. Senza guardarlo, la aprì, quasi senza far rumore.
- Fa freddo. Non credo sia il caso di tenerla aperta. – le disse l’uomo, atono.
Lei per tutta risposta rise quasi gaiamente. E saltò giù.
Il Gatto balzò in piedi, esterrefatto, e corse a guardare. La Creatura era atterrata su piedi e palme senza farsi un graffio, e ora lo osservava dal basso con gli occhi che scintillavano di divertimento e sfida. Con una mano gli fece cenno di scendere anche lui, prima di correre via ridacchiando.
- Merda. – ringhiò con voce bassa, prima di balzare giù con agilità felina e iniziare ad inseguirla.
Avrebbe dovuto saperlo, si disse, che aspettava solo un’occasione per fuggire dal loro controllo dopo averli osservati come si deve, dopo aver carpito qualche punto debole. Non aveva nemmeno idea di cosa stesse accadendo nella fazione di sotto, che cosa stesse tramando il Ragno, ma ne era sempre più inquietato.
La Donna non correva molto velocemente. Era a piedi scalzi sull’asfalto, ma la cosa non le sembrava arrecare alcun fastidio. Piuttosto, gli parve che ogni tanto rallentasse, come per non farlo allontanare troppo, ma senza permettergli di raggiungerla. Accelerò il passo.
Le stette dietro per diversi minuti fino a che lei non lo portò ad un vicolo stretto e buio, parecchio distante da Baker Street. La luce pallida del sole non filtrava tra i muri alti e fitti, l’odore di muffa e altre scorie era rivoltante.
Lì lei si fermò.
- Non un buon punto dove insidiarsi quando scappi. – osservò Trevor.
- No, pessimo. – confermò la Donna, senza guardarlo.
- Cosa diavolo pensavi di…? – cominciò a dire il Gatto, prima che un dolore atroce gli colpisse la schiena. Qualcosa lo aveva afferrato per le braccia, e gli stava lacerando le carni. Spalancò la bocca ed emise un suono strozzato.
Cristo santo, Sherlock… fu l’ultimo pensiero che fece prima che la vista gli si oscurasse.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 19
*** Silenzio ***


Era bizzarro, a parere di Sherlock. John, invece, pensava che fosse inquietante.
Quando Lestrade aveva chiamato il detective, e questo lo aveva raggiunto sulla scena del delitto, gli aveva raccontato una storiella alquanto intrigante. Una giovane donna si era recata quella mattina, molto presto, in centrale per rilasciare una testimonianza sull’omicidio della Creatura sul lungofiume. Aveva dato una sommaria descrizione dell’aggressore, che aveva visto da lontano, e poi se ne era andata. Qualche ora dopo, una signora di mezza età aveva chiamato la polizia per dire loro di aver visto un uomo uscire dall’appartamento della propria vicina di casa, ed aver trovato quest’ultima morta quando era andata per chiederle chi fosse quello strano individuo. Il caso volle che la vittima fosse la stessa ragazza che diceva di aver visto l’assassino della Creatura.
- Converrai che questa non può essere una coincidenza. – diceva appunto l’ispettore al detective, che non gli diede però la soddisfazione di prestargli troppa attenzione. Era piuttosto concentrato sul cadavere che giaceva sul pavimento del piccolo soggiorno.
- La ferità è particolare. – commentò Sherlock, osservando i bordi del taglio sulla gola della ragazza. – Non sembra fatta con un coltello. Non sei d’accordo, John? –
Il dottore, osservata la ferita, dovette dare ragione al suo collega. Coinquilino. Ragazzo. Qualunque cosa fosse. – Sembra quasi un colpo di frusta. Molto forte, se ha lacerato i tessuti così a fondo, e molto veloce visto che è così netto e pulito. –
- Anche questa è una Creatura? Come l’altro uomo, intendo. Magari qualcuno che sa come riconoscerle ora vuole sterminarle. – azzardò Greg.
Sherlock alzò le spalle. – Può darsi che lo sia. La tua teoria è irrimediabilmente azzardata e improbabile, oserei dire assurda, ma non escludo che questa ragazza possa essere qualcosa di non umano. Come si chiama? –
- Emily Brown. Vive qui da quattro anni, più o meno. Sembra che non ci sia nulla di insolito su di lei. Ha un cane, lavora come impiegata part time in una piccola azienda, e non ha mai avuto un fidanzato per tutto il tempo che ha passato qui. Segue una routine piuttosto precisa, e ogni fine settimana esce con un gruppo di amici, sempre con molta regolarità. –
Il detective ora osservava un’irritazione sul collo della ragazza, che aveva appena scoperto dopo aver rimosso una specie di cerotto fatto con garza e nastro adesivo. La pelle era arrossata e lesa, come se si fosse grattata con insistenza per molto tempo. – Trovato qualcosa, Sherlock? –
- No, nulla. Nulla di rilevante. – rispose questi. Rimise il cerotto sulla pelle martoriata e si alzò, distogliendo l’attenzione dal corpo. – La vicina ha saputo descriverle l’uomo che ha visto uscire da qui? –
- Alto, con un lungo cappotto. Niente di più, non è riuscita a guardarlo bene: l’ha incrociato solo di sfuggita. Sherlock, sei sicuro che non ci sia niente di importante? –
Sherlock assottigliò gli occhi, visibilmente offeso. – La ferita sul collo è stata causata da lei stessa, anche se era già irritata precedentemente. Spesso le persone stuzzicano i punti dolenti, ma non in questo modo. È stress nervoso, quindi qualcosa la tormentava. Forse l’aver visto l’assassino, o forse qualcos’altro. Non ci sono segni di scasso, quindi o l’assassino aveva una copia delle chiavi dell’appartamento, o l’ha fatto entrare lei, o è un professionista. Le ultime due sono le più probabili. Il taglio è pulito, preciso, quindi non è un delitto passionale: l’ha uccisa a sangue freddo. Ma come faceva l’assassino a sapere che questa era la ragazza che l’aveva intravisto poco tempo prima, a sapere dove abitava? Questo è il problema da risolvere. Ci sono telecamere nei paraggi? –
Lestrade disse ad uno degli agenti sulla scena di andare a controllare se ce ne fossero. – Ormai dovrei smettere di strabiliarmi, ma è pazzesco quello che fai .- ammise, gli occhi sgranati dallo stupore. Il detective sbuffò.
- Fammi sapere se trovate qualcosa nelle videoregistrazioni. – gli disse.
- Te ne vai già via? –
- Sto lavorando anche ad un altro caso. Più o meno. – un sorrisetto divertito increspò le labbra perfettamente rosa del detective. – Andiamo, John? –
Assieme al dottore, che puntualmente aveva assunto quell’espressione incredula e piena d’ammirazione che seguiva ogni sua esibizione di deduzioni, lasciò l’appartamento pieno di poliziotti per tornare il più in fretta possibile a Baker Street.
- Si dipana la tela. – mentre diceva questo, una volta fermato un taxi, non riusciva a smettere di sorridere con fare predatorio.
John aggrottò le sopracciglia. Si avvicinò maggiormente all’altro uomo, sul sedile, fino ad avere le braccia strette tra loro. – Puoi spiegarti? –
La Libellula fece scivolare le dita sulla mano di John, accarezzandone il dorso delicatamente. – Un uomo è morto, una Creatura. Una ragazza l’ha visto succedere, da lontano. Poco dopo viene uccisa, e la descrizione dell’assassino somiglia a quella data da lei stessa alla polizia. E anche lei è una Creatura. –
John voltò la testa di scatto. – Davvero? –
- Sì. L’irritazione sul collo nasconde un’Estensione impiantata da non molto. E in maniera meno violenta che come hanno fatto con noi del primo esperimento, devo dire. Ma la polizia non lo saprà mai, abbiamo qualcuno dei nostri nella scientifica. Comunque, è strano che l’assassino abbia saputo chi era e come trovarla in così poco tempo. Non poteva averla vista chiaramente, la notte del primo omicidio. Quindi la conosceva. Anzi, forse era programmato. Tutto quanto, sia la morte dell’uomo che la testimonianza di Emily Brown. È stata uccisa subito dopo la sua testimonianza. Sarebbe piuttosto audace, come coincidenza, non trovi? –
John dovette dare ragione alla Creatura. Ma per quanto si mostrasse soddisfatto per aver iniziato a intravedere un’ombra di ciò che stava accadendo nella fazione di sotto, non poteva nascondere un fremito di frustrazione per non avere la possibilità di scoprire di più. Non poteva nasconderlo a Watson quantomeno.
Quest’ultimo gli afferrò la mano. – Lo scoprirai. Non si riesce a tenere qualcosa nascosto in eterno a Sherlock Holmes. Scoprirai cosa stanno facendo. –
Sherlock non rispose.
 
Il 221B era silenzioso, al loro rientro. Quando John annunciò ad alta voce il loro ritorno, non giunse nessuna risposta. Cercarono Victor e Irene in tutto l’edificio, controllarono al piano superiore, e chiesero addirittura a Mrs. Hudson se avesse visto un uomo ed una donna nei dintorni, senza ottenere nulla.
La finestra del soggiorno, però, la trovarono spalancata. Per il resto non c’era nulla di fuori posto, o di diverso. Nemmeno agli occhi di Sherlock, che a quel punto iniziò a mostrare evidenti segni di disagio e nervosismo, anche se era molto abile nel lasciar trapelare molto meno di ciò che realmente pensava.
- Potrebbero essere stati presi da qualcuno della fazione di sotto? – azzardò il dottore.
Sherlock scosse la testa freneticamente. – Ne sentirei l’odore. Le Creature si riconoscono dall’odore. – spiegò mentre correva da una parte all’altra della stanza in cerca di qualche indizio sulla ragione dell’assenza dei due.
- … giusto. – in realtà John non era a conoscenza di questo particolare, ma non è mai il caso di far perdere la pazienza ad un semi umano in un momento di crisi. O a Sherlock Holmes in generale, umano o no. – Allora cosa…? –
Sherlock non gli rispose fino a che non ebbe scandagliato l’intera superficie del pavimento e dei mobili. – Se ne sono andati di loro spontanea volontà. Devono. – annunciò alla fine, la bocca storta in una smorfia. – Una possibilità è che qualcosa li abbia attirati fuori. Quella più probabile è che la Donna abbia attirato fuori Victor. Sono passati dalla finestra, giù nella strada. Non deve essere stato un problema per loro saltare da qui. – si sporse a guardare giù. – Potrei provare a seguire la scia del loro odore, ma all’aria aperta è probabile che si sia dissolta. Anzi, è quasi certo. –
- Riesci a seguire l’odore delle persone? – chiese incredulo John.
- Solo quello delle Creature: emaniamo delle sostanze chimiche particolari, ma voi non potete sentirle. Soltanto tra noi riusciamo. Penso che questa reazione sia dovuta ad alcuni dei composti che sono serviti a far fondere le parti estranee con i nostri organismi. –
Non si era sbagliato, pensò John, quando mesi prima aveva scritto nel suo blog che fiutava i criminali come un cane da caccia.
Sherlock si sentì stupido. Non gli era quasi mai capitato. Lui sapeva, sapeva che lei era pericolosa, che era coinvolta direttamente in qualunque piano si stesse svolgendo attorno a loro, ma aveva voluto con tutte le forze darle la possibilità del dubbio, affascinato dalla sua intelligenza e dalla sua capacità di nascondergli le cose.
Victor aveva passato anni a nascondersi, dopo essere stato quasi ucciso dal Ragno, e una svista, un capriccio, poteva aver mandato quegli sforzi al vento. Stupido, stupido Sherlock, si disse. Idiota egoista.
Voleva piangere. Non lo fece. Non ora che John era lì a poter vedere. Doveva almeno fingere di non essere patetico, di non aver fatto un casino. Negli ultimi mesi, però, fingere gli riusciva sempre più difficile.
- Ha aspettato che fossimo via entrambi. – mormorò. Provò a contenere il tremolio della sua voce, ma fallì miseramente. – Hanno fatto in modo che lei fosse qui. Da dentro avrebbe agito liberamente, e appena è rimasta sola con Victor… - la testa gli pulsava. Con un gemito soffocato si portò una mano alla fronte, gli occhi serrati in una smorfia, lasciandosi cadere sulla sua poltrona.
Dita gentili, quelle di John, non attesero di vederlo esplodere prima di sfiorargli la testa. Scivolarono leggere sulla sua fronte, sullo zigomo. Sherlock protese il viso verso di esse lasciando che il caos uscisse dalle sue labbra sotto forma di un sospiro appena spezzato.
- Victor starà bene. – John si era abbassato a sussurrargli all’orecchio, lentamente, la voce che sembrava avvolgerlo come un balsamo. – Lui è una persona forte, di quelle che se la cavano sempre. E poi mi pare sia un combattente dotato, no? Starà bene. –
Il detective lo afferrò e lo strinse forte, il viso premuto contro il suo petto. E il dottore sapeva, sapeva cosa doveva fare per farlo sentir bene. Sapeva che doveva baciargli la testa, molto volte, teneramente, e sussurrare ancora parole dolci, così dolci. E lo fece. E Sherlock pensò che sì, con lui avrebbe potuto stare tutta la vita. John per lui era benefico.
Avrebbero potuto distruggersi a vicenda, se solo qualcosa fosse stato leggermente diverso. La linea era sottile, sarebbe bastato un nonnulla perché fosse la capitolazione definitiva per i due individui. Invece, per caso fortuito, erano rispettivamente ciò che serviva per mantenere intero l’altro. Un equilibrio meraviglioso, pensava Sherlock, anche da un punto di vista scientifico. Come due piante in simbiosi.
- Non lasciare che ti perda di vista. Devi fare in modo che non succeda mai. D’accordo? – sussurrò con voce flebile, soffocata dal tessuto della giacca del dottore.
- D’accordo. Ma ora tirati su: se ci sbrighiamo a cercarli sarà più facile trovarli, no? –
- Non necessariamente. – obiettò Sherlock, corrucciando le sopracciglia in un’espressione severa. – In alcuni casi, il passare del tempo aumenta… -
- Sì, come vuoi. – il dottore sospirò divertito ed solo leggermente esasperato. Sherlock avrebbe sempre avuto l’ultima parola.
Il cellulare di Sherlock prese a squillare. Scioltosi dall’abbraccio, questi rispose alla chiamata con una smorfia, dopo aver visto il nome di Mycroft sullo schermo. – Pronto, fratello. – disse, con il solito tono arrogante che teneva in serbo per l’altro Holmes.
John non riuscì a sentire cosa stesse dicendo il maggiore, ma il viso di Sherlock era più che eloquente, e perfettamente sufficiente per intuire che non si trattava di qualcosa di piacevole. O rassicurante, comunque.
- Come mai? – chiese Sherlock con voce tesa, lo sguardo guardingo. – Mycroft, lo so quando mi stai nascondendo qualcosa. Sì, d’accordo. Come vuoi tu. –
Richiuse la chiamata con stizza.
- Cos’è successo? – John gli prese il telefono dalle mani e lo posò sulla poltrona prima che il povero arnese fosse fracassato sul pavimento. In teoria la moquette avrebbe dovuto attutire la caduta, ma non si sarebbe sorpreso di vederla cedere nella sua lotta contro Sherlock Holmes.
Sherlock sembrava profondamente infastidito e confuso. – Ha detto che dobbiamo restare qui ed aspettare che venga a prenderci. Non ha voluto dare spiegazioni, ma sembrava dal tono che fosse successo qualcosa di serio. Più del solito. –
- Allora aspettiamo. –
- Mi da fastidio. – replicò Sherlock. – Mi irrita che pretenda di farmi fare ciò che vuole senza dirmi il perché fino all’ultimo momento. È estremamente presuntuoso da parte sua. –
- Lo so. – dovette concordare John. – Ma è un po’ tardi per cambiarlo. Temo che dovrai tenerlo così. –
- Nessuno dice che io voglia tenerlo. – però non aggiunse null’altro, limitandosi a tenere un cipiglio seccato e a dirla tutta parecchio infantile dopo essersi seduto sopra il proprio stesso cellulare senza degnarlo di uno sguardo. Probabilmente una persona normale avrebbe dovuto accorgersi del pezzo di metallo piatto sotto al fondoschiena, ma era risaputo anche che mondanità simili non potevano sfiorare l’unico consulente investigativo al mondo.
 
 
 
Come prevedibile, Mycroft non venne a prelevarli di persona, ma mandò alcuni dei suoi sottoposti a prendere il fratello e il soldato, probabilmente anch’essi Creature della fazione di sopra pensò John.
Li accompagnarono in un edificio nella parte più ricca del West End, che dall’esterno appariva come un palazzo d’abitazione retrò, ma che dentro si rivelò una specie d’enorme complesso d’uffici all’avanguardia. John pensò che doveva trattarsi di un luogo di raduno della fazione, o qualcosa di simile. Dovevano pur avere un’organizzazione per restare celati ai loro occhi così totalmente.
Furono lasciati in una stanza anonima, fatti accomodare su un divanetto nero, e fu detto loro di aspettare l’arrivo del capo fazione. E fu specificato di non uscire per nessuna ragione, e ripetuto più e più volte. Non poteva essere più evidente che qualcosa aveva spaventato o perlomeno messo sulle difensive il maggiore degli Holmes.
La stanza in cui erano stati depositati era scura. Pareti color seppia, tendaggio ancora più nero, così come i mobili e buona parte di ciò che li ricopriva. Le cose che sembravano più brillanti, lì dentro, erano i plichi di fogli bianchi sulla scrivania che troneggiava al centro dell’ambiente e qualche oggetto metallico che rifletteva la luce dorata proveniente da un paio di lampade. Molto differente da ciò che avevano visto mentre venivano accompagnati lì: il resto dell’edificio aveva una tendenza ai colori pallidi e freddi. Questo era il regno di Mycroft, e pertanto era avvolto dalla penombra.
Non parlarono, quasi. C’era un silenzio irreale tra quelle pareti, vibranti d’attesa e apprensione. John finì per pensare, per un istante soltanto, che se avessero parlato, detto qualcosa, Mycroft non sarebbe arrivato mai a sputare il rospo. Sherlock sembrava ipnotizzato ad osservare la parete di fronte.
Faceva freddo. Era insolito. I corridoi che avevano attraversato prima di entrare lì non erano freddi se non per i colori. Involontariamente si strinse di più al fianco di Sherlock
- Mycroft è meno resiliente di quanto faccia pensare. – mormorò il detective, immerso in qualche ragionamento. Ecco, il silenzio era stato rotto. Ormai tanto valeva parlare liberamente.
- Che intendi dire? – nonostante ciò, però, John tenne la voce ad un volume moderato.
Sherlock sembrava sul punto di scoppiare in una risata, dal modo in cui aveva piegato la bocca, ma questa non aveva raggiunto i suoi occhi. – Fa freddo. – spiegò. – lui non ama il freddo, per quanto si possa pensare il contrario. Ma faceva freddo a Baskerville. Nel laboratorio, intendo. È un suo modo per rimanere vigile, o un qualcosa di inconscio, per ricordare che prima era stato umano anche lui, e non per pochi anni quanto me. –
Era impossibile non accorgersi di come aveva lasciato cadere le spalle e lo sguardo.
- Me ne vuoi parlare? – non era sicuro, il dottore, che fosse la domanda giusta. Però sperava che lo fosse.
Sherlock gli rivolse lo sguardo per la prima volta da quando erano in quella stanza. – Sì. – disse semplicemente. Watson gli prese la mano tra le sue e se la posò in grembo, accarezzandola piano con i pollici.
- Non ricordo quasi nulla del prima. Ero molto piccolo, non avrò avuto più di sette o otto anni. Probabilmente all’epoca ricordavo molto bene, ma ho rimosso quasi tutto negli anni successivi. Sistema di autodifesa automatico, suppongo. Mycroft invece era già più vecchio, e immagino ricordi tutto della nostra vita precedente, ma non ne fa mai parola. Non so nemmeno come siamo finiti nelle loro mani. Rimozione totale. Ma ricordo bene quello che succedeva lì dentro.  –
Sherlock si lasciò ricadere contro lo schienale del divanetto, dove prima era stato seduto rigido come uno stoccafisso. Il collo piegato all’indietro e lo sguardo pensoso verso il soffitto, riprese a parlare.
- Quando ci hanno portati lì, era già da un pezzo che gli esperimenti si svolgevano. Le prime Creature erano imperfette, molte non erano sopravvissute a lungo. Non avevamo idea all’inizio di cosa effettivamente facessero. Eravamo tutti in delle gabbie. Vedevamo alcuni essere portati nelle sale di laboratorio, e poi uscire privi di sensi e coperti di sangue e ferite aperte, o a volte morti. Poi venivano portati da qualche altra parte che noi non vedevamo. Dopo abbiamo scoperto che era soltanto una stanza differente, dove tenevano le Creature già formate, per non mescolarle alle cavie.
Su di me avevano provato un impianto che non era mai riuscito prima. Gli impianti che coinvolgevano la spina dorsale non era mai andati a buon fine. Le mie ali sono state le prime. Successivamente, hanno attaccato le zampe di ragno alle schiena di Jim Moriarty, eppure le mie Estensioni hanno da subito suscitato inquietudine tra le altre Creature. Delle ali di libellula sono troppo sottili per permettere ad un umano di volare, ma è bastata l’idea per impressionare la gente. –
Non era difficile immaginarsi lo scenario, per il dottore: aveva visto laboratori e operazioni a sufficienza durante i suoi studi al Bart’s, e altrettanto orrore in Afghanistan. Una serie di stanze bianche con luci al neon, attrezzature d’acciaio e tante facce angosciate e confuse dentro a gabbie dello stesso metallo. Visi pallidi e scavati, corpi rannicchiati a farsi più piccoli nella speranza di non essere i prossimo ad essere tirati fuori. Poi, in un’altra stanza, gabbie simili che ospitavano figure abbandonate e dallo sguardo spento, o dal viso contratto dal dolore, esangui  e febbricitanti per le ferite aperte e le eventuali infezioni, ed unghie affilate e lunghe, denti simili a zanne, code lucide o squamose, occhi dalle pupille verticali.
E lì in mezzo, un bambino esile e dagli occhi enormi e simili a gemme, pallido come la morte e tremante come una foglia. Preferì, però, non provare nemmeno a figurarlo in mezzo alle vittime già martoriate e sanguinanti.
- Di quando mi hanno messo queste due mostruosità ho un’immagine approssimativa. Avevo il viso appoggiato contro il lettino, e stringevo un pezzo di stoffa tra i denti. Gli occhi me li hanno operati non appena si accorsero che il primo impianto era andato a buon fine, e hanno deciso di completare la seconda fase. Non ho più visto nulla per quasi un mese, credo. –
- Ma poi siete fuggiti. –
- Sì. Una Creatura è riuscita a liberarsi, e ha fatto uscire anche tutti gli altri. Credo fosse Moriarty, ma non è certo. Abbiamo sterminato tutte le persone che ci trovavamo di fronte. Non so cosa sia stato di coloro che ancora non erano stati trasformati. Spero abbiano fatto fuggire anche loro, ma non ci ho fatto caso. –
- Dove siete andati? –
- Gli altri, non ne ho idea. I primi giorni li abbiamo passati  a girovagare a vuoto, e a prosciugare le persone che trovavamo eravamo affamati da morire, e avevamo appena scoperto quel nostro potere, e come ci faceva sentire meglio usarlo. Più tardi ne è stata identificata la natura, ma al tempo riuscivamo a malapena a pensare di sopravvivere. Io, Mycroft e James Moriarty siamo stati avvicinati dalla signora Hudson, e per anni abbiamo vissuto assieme a lei. Lei si era intrufolata e sapeva cosa succedeva in quel luogo infernale. Era estremamente curiosa e impicciona. Non mi ha mai detto cosa l’ha spinta fin lì, però. –
John non osò chiedergli altro di quello che cercava di forzare le sue labbra a dire. Cose del tipo “come hai fatto a non impazzire come Moriarty?”, oppure “come sei riuscito a restare umano quando molti umani puri di fatto non lo sono?”, semplicemente non andavano chieste. Lui non avrebbe voluto che gli venissero chieste se fosse stato al posto della Libellula. Però non poteva non sapere da Sherlock stesso cosa aveva visto a Baskerville. Non poteva accontentarsi del racconto che gli aveva fornito Mycroft, non quando era con il più giovane degli Holmes che viveva ogni giorno. Aveva avuto bisogno delle sue parole.
- Grazie. – gli disse. Sherlock certamente sapeva per cosa.
E poi silenzio di nuovo.
Da quando aveva iniziato la condivisione dell’appartamento con Holmes, John aveva scoperto molti tipi di silenzio che prima non conosceva. Era avvezzo al silenzio cupo e pesante che gli gravava sulle spalle quando, da solo, stava davanti al portatile o seduto sul letto a chiedersi se gli sarebbe mai capitato qualcosa di interessante dopo la guerra. anche quello teso e senza fine che precedeva un attacco, o nei tempi successivi l’aggressione di un criminale che inseguivano, non era una novità. Ma un paio in particolare lo avevano spiazzato.
Quello rilassato, un poco noioso talvolta, ma privo di imbarazzo che era estremamente frequente al 221B. Era silenzio e basta, nel senso che nessuno parlava perché semplicemente non aveva bisogno di parlare solo per riempire spazi vuoti. In un certo qual modo era confortante. E poi c’era quello che avrebbe definito vibrante. Era quasi una via di mezzo tra il silenzio cupo e il silenzio teso, ma con un pizzico di angoscia e timore per qualcosa che non era la propria stessa vita, o di qualcosa che sapeva non poteva evitare che sperava comunque di non sapere mai. Ecco, questo era quello che lo soffocava in quell’ufficio freddo, prima e dopo aver avuto quell’unica breve conversazione con Sherlock durante l’apparentemente infinita attesa di suo fratello.
Alla fine Mycroft arrivò. Non dopo poco dalle ultime parole scambiate tra il detective e il dottore, però. Almeno un’altra ora era passata quando finalmente videro la porta socchiudersi lentamente e sentirono la voce del maggiore degli Holmes rivolgere loro un saluto formale. Troppo formale, anche per lui.
- Salve, Sherlock. Dottor Watson, anche a lei. –
Non erano le parole che aveva usato ad essere diverse dal solito, ma il modo in cui le disse. Non c’era nessun tono di superiorità, nessuno sguardo divertito al fratello, né stizzito o seccato. Era serio, accigliato, e John avrebbe osato aggiungere lugubre.
- Salve Mycroft. Ti degni di dirci come mai siamo qui? – rispose invece il minore, senza celare né il fastidio né l’ansietà.
Mycroft non disse nulla, sul momento. Attraversò la stanza con strana e misurata lentezza, posò il soprabito su un attaccapanni di legno scuro e l’ombrello accanto ad esso. E quando John si aspettò che sedesse dietro alla scrivania e dicesse loro di accomodarsi davanti a lui, invece Holmes trascinò una delle due sedie che erano posizionate davanti al mobile di fronte a loro, e si sedette lì.
- Ho saputo del nuovo caso per cui la polizia ti ha chiamato. – disse.
Sherlock sbuffò. – Ovviamente. Saprai anche che quella ragazza aveva appena dichiarato di aver visto l’uomo che ha ucciso una Creatura lungo il Tamigi poco tempo fa. –
- Come hai detto tu, ovviamente. –  rimbeccò il più vecchio. – Non è per questo però che ti ho chiamato. La polizia non è la sola a ricevere segnalazioni. –
- Spiegati. –
- Mentre tu eri sulla scena del crimine, suppongo, una delle nostre Creature mi ha fatto sapere di aver visto qualcosa di interessante vicino a casa tua. Una specie di inseguimento a piedi, troppo veloce per poter coinvolgere umani puri. Siamo andati a controllare, e abbiamo perlustrato l’area a dieci minuti a piedi da Baker Street, fino a che non ci siamo fermati in un vicolo chiuso. –
John pensò che dovesse esserci qualche tipo di comunicazione telepatica approssimativa e rozza tra i due Holmes, o magari tra le Creature, perché era sicuro, assolutamente sicuro, che Sherlock avesse capito già a quelle parole quali sarebbero state le successive, glielo leggeva nello sguardo paralizzato e fremente al tempo stesso.
Quando continuò, Mycroft aveva abbasto la voce. – Abbiamo trovato Victor Trevor. –
- E in che condizioni l’avete trovato? – sussurrò Sherlock interrompendo il contatto visivo con il capo fazione, per lasciarsi scivolare la fronte sulle mani, le palpebre chiuse.
- Sherlock… -
- Dimmelo. Ora. – il suono fu simile ad un ringhio basso. Non aveva quasi nulla di umano, e Watson l’aveva sentito solo pochissime altre volte. Grazi al cielo mai rivolto a lui.
Mycroft sembrava combattuto, indeciso se avvicinarsi al fratello o voltargli le spalle. Come compromesso, non si mosse, ma il disagio restò visibile. – Morto. Lo era già quando la fazione l’ha trovato. E comunque, se anche lo avessimo trovato ancora vivo, dubito avremmo potuto fare nulla. Mi dispiace, fratellino. –
John poté sentire un altro tipo di silenzio, ancora.















 

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Capitolo 20
*** Nessuno guardava con attenzione ***


Abbiamo visionato le registrazioni.
Il poliziotto che aveva portato quelle parole all’ispettore Lestrade non aveva certo idea di cosa stesse per scatenare. E Greg non aveva idea che un video potesse essere così destabilizzante. Eppure lo era stato. Lo era stato maledettamente.
Gli aveva mostrato le registrazioni delle telecamere vicino al blocco di appartamenti dove abitava la defunta Emily Brown, e all’ora indicata vagamente dalla vicina effettivamente era entrato ed uscito un uomo. Era un’immagine poco definita, e non gli si vedeva la faccia con chiarezza. Era visibile però quel che bastava a fargli gelare il sangue nelle vene.
L’uomo aveva una figura piuttosto allungata, e camminava velocemente e con sicurezza. Portava un lungo cappotto scuro, ed erano riconoscibili i riccioli che gli coprivano la testa quasi come un casco. Non molto su cui basarsi, considerando che Londra aveva una popolazione immensa, a meno che un tuo conoscente non rassomigli con quella persona. In modo quasi inquietante: non vedeva il viso, come già detto, ma la camminata era ben riconoscibile, allo stesso modo della postura.
Merda.
Sapeva che non poteva aver senso. Non riusciva a trovarci un senso. Perché se anche Sherlock avesse avuto un qualunque motivo per uccidere quella donna, non sarebbe certo stato così stupido da lasciarsi riprendere, o da suggerire lui stesso di controllare le videoregistrazioni. Eppure non poteva fingere di non accorgersi della somiglianza tra l’individuo nel video e il detective.
Naturalmente anche il sergente Donovan lo vide, e non mancò di farglielo notare con molta enfasi.
- Andiamo, Sally! – aveva esclamato, cercando di sembrare sicuro di ciò che diceva. – Sai che non può essere lui. Perché dirci allora di vedere questi? –
- Magari si annoiava, e ha pensato di darci un aiuto per vedere come si sarebbe svincolato dalla difficoltà. – suggerì la donna. – Sai che è uno psicopatico. –
- Mi sembra improbabile. E se invece avessero voluto provare ad incastrarlo? Credo che debba avere diversi nemici, no? –
Sally ci mise un po’ a replicare, concentrata in qualche ragionamento che Lestrade non aveva speranza di prevedere. – E se fosse una Creatura? – disse lei piano.
Greg spalancò la bocca in un istante di stupore e sconcerto, perché un’ipotesi del genere non gli era mai  passata per l’anticamera del cervello. Pur ammettendo che non erano ancora in grado di distinguere una Creatura da un umano, a meno che Sherlock non desse talvolta una piccola consulenza sui cadaveri trovati, era assurdo che uno di quegli esseri rischiasse di tradirsi stando in stretto contatto con la polizia.
- Pensaci. – continuò Donovan. – Lui è l’unica persona che si conosca che sappia qualcosa sulle Creature. E non sa solo qualcosa, ma moltissime cose. Eppure non abbiamo idea di dove abbia trovato quelle informazioni. Non ha mai indagato su omicidi compiuti da Creature, quando i cadaveri erano trovati “addormentati”. Solo l’uomo del lungofiume ha attirato la sua attenzione: una Creatura uccisa da una Creatura. E l’unica testimone di quell’omicidio è morta, omicidio che sembrava uno dei pochissimi casi che non stesse riuscendo a risolvere. –
- Capisco benissimo quello che dici, ma.. –
- Solo quando è stata una Creatura ad essere morta ha indagato su un caso che coinvolgesse quegli esseri, mentre le vittime umane le ignorava, dicendoci solo che erano state prosciugate. Magari è per questo che è qui. Magari, se lui è una Creatura, sta proteggendo i suoi simili così che non possano essere trovati. Ma ovviamente non può sorvolare sulla morte di uno di loro. Non credi che abbia senso? –
- Questo solo partendo dal presupposto che lui sia una Creatura, cosa che è solo una tua teoria. –
- Allora spiegami come può avere tutte quelle informazioni e conoscenze sulle Creature, quando nessun altro sa alcunché. –
Lestrade sospirò, portandosi le mani tra i capelli. Ci provava a far entrare da un orecchio le parole della donna per farle uscire dall’altro, ma innescata l’idea, accennata la possibilità fondata che le cose stessero come diceva Donovan, era difficile far finta di nulla o impedire al cervello di ronzare in modo fastidioso.
- Possiamo provare a chiederglielo… - disse, come ultimo tentativo.
- O a interrogarlo. – aggiunse Sally.
Alla fine l’ispettore dovette cedere. – D’accordo, ne parliamo con il mio superiore, e faremo come riterrà più opportuno. –
Ciononostante sapevano entrambi che qualunque fosse stato l’esito, una volta interpellato poi Holmes stesso, i risvolti non avrebbero potuto essere che disastrosi.
 
 
 
La fazione aveva stabilito che Victor Trevor sarebbe stato sepolto quella sera stessa, in segreto. Avevano trovato un punto che era sembrato loro adatto, tra le tombe più antiche di un vecchio cimitero. Nessuno avrebbe fatto caso al nome aggiunto sul fondo di una lapide vecchia più di cent’anni con uno scalpellino, in piccolo e senza alcuna data scritta. Nessuno guardava con attenzione.
Essendo dato per disperso da anni, anche se le circostanze non fossero state delicate non sarebbe stato possibile fare una cerimonia ufficiale, ma non aveva alcuna importanza: nessuna delle Creature aveva più alcuna fede da quando erano fuggiti da Baskerville, tra quelli che ne avevano avuta una prima. Quasi tutti non l’avevano mai avuta, essendo stati all’epoca solo dei bambini. Ma anche questo, non aveva alcuna importanza.
Mycroft li aveva portati con sé nel luogo designato, e in assoluto silenzio aveva osservato alcune Creature estrarre la vecchia bara, seppellire il corpo nel terreno sottostante, e rimetterla al suo posto. Erano stati bravi: nessuno avrebbe detto che qualcosa era cambiato da quella mattina.
Nessuna parola aggiunta. Sempre e solo silenzio. L’unico rumore era quello della cassa che veniva sollevata, riposizionata, e delle vanghe che scavavano e riempivano nuovamente. Poi il tintinnio secco dello scalpello sulla pietra. Qualche colpo di tosse, il massimo dell’espressione. Ma da Sherlock neanche un soffio.
Non aveva proferito parola da quando Mycroft gli aveva dato l’infausta notizia. E la cosa turbò John molto più di quanto avrebbe fatto un’eruzione. Si era aspettato rabbia nei confronti del Ragno, urla, lacrime, o qualsivoglia altra dimostrazione esterna di qualsiasi cosa stesse avvenendo dentro di lui. Invece, niente. Nulla di tutto ciò. Aveva ingigantito gli occhi, la confusione e lo stupore che lo investivano, ma una volta ricomposto rimase indecifrabile.
John spostava il peso da un piede all’altro, la terra umida e morbida che sprofondava sotto il suo peso, e guardava nervosamente il più giovane. In tutta sincerità, aveva paura. Paura per lui, avendo ormai capito quanto fosse distruttivo il suo dolore se lasciato ad auto fermentare e distorcersi senza freno. Doveva essere difficile sopportare il dolore, per qualcuno abituato a reprimere le emozioni. Era francamente sollevato di non riuscire ad immaginare quale potesse essere l’impatto.
Per tutta la durata del “funerale”  si era chiesto come riuscire a farlo parlare, fargli fare qualsiasi cosa che non fosse aggrottare le sopracciglia e fissarlo come se non lo conoscesse. E se l’era chiesto sterilmente, perché una soluzione non l’aveva trovata.
Finito il tutto, Mycroft li aveva riaccompagnati in quell’ufficio nero. L’ambientazione era così azzeccata che nemmeno in un film ci sarebbero riusciti. Aveva in qualche modo fatto portare un materasso ed una rete, e aveva fatto spostare buona parte dei mobili per farceli stare. Disse che preferiva che rimanessero lì finché la situazione fosse stata critica, che non poteva permettersi di mettere a rischio loro e la fazione in un momento in cui erano deboli sia gli uni che l’altra.
Sistemati lì il fratello e il suo compagno, si defilò parlando di emergenza e riunione con altri membri coordinatori della fazione. Li lasciò lì, soli.
Sicuramente l’edificio era zeppo di altri suoi sottoposti a tenerli d’occhio in sua vece, pronti a contattarlo in caso di necessità, ma senza più nemmeno Mycroft a riempire l’aria di parole sembrava che l’ossigeno fosse saturo di polvere e gesso da quanto era pesante da respirare.
John si addormentò abbastanza velocemente, ma dormì poco o  nulla. Si assopì solo forse una ventina di minuti prima di destarsi nuovamente. Nessun rumore l’aveva disturbato, semmai il contrario. Il respiro di Sherlock era appena percettibile, e gli sembrava che il suo in confronto rimbombasse come in una grotta.
Allungò una mano verso di lui. Sherlock s’irrigidì di colpo, per poi rilassarsi nuovamente. Era sveglio. Non che non fosse esattamente ciò che John si era aspettato.
L’unica fonte di luce nella stanza, ora erano i suoi occhi spalancati, cangianti nella loro forma mutata, e affascinanti quanto inquietanti. Sherlock rimosse lentamente la mano che era posata sulla sua spalla, e circondò il polso di John. Poi baciò il palmo aperto, con tocco leggero come una farfalla. O una libellula.
Continuò a farlo per diversi minuti, dal palmo alle dita, poi il polso e nuovamente il palmo, il dorso della mano. Come se non avesse altro da fare. John ne fu rattristato ancor più.
Trasse a sé il più giovane, che gli si aggrappò addosso con un’irruenza che lo lasciò di stucco. Provò ad accarezzargli i capelli in quello che gli sembrava un modo rassicurante, ma l’unica risposta che ottenne fu essere baciato stavolta sulle labbra, con altrettanta forza. E in modo famelico, disperato, come se stesse rubando l’aria dalla sua bocca. O come se essa stessa lo fosse. Il che era plausibile, da quanto l’ossigeno che li sommergeva sembrava irrespirabile e opprimente persino al dottore.
Non si ritrasse dal contatto, al contrario avvolse le braccia attorno alla figura dell’altro per stringerlo quanto più poteva. Ebbe un attimo di tregua solo quando Sherlock annaspò con un piccolo gemito dopo che il soldato ebbe insinuato una gamba tra le sue cosce. John la mosse con sicurezza, sapendo bene dove andare a mirare. Sentì il risultato in modo molto tangibile addosso a suddetta gamba.
Fallo. Lo sai che ne ha bisogno. Qualcosa di buono, con tutto quello che sta succedendo… l’hai vissuto su tua pelle in Afghanistan, no? Decise cosa fare in quel momento.
Lo lasciò scivolare via dalle sue braccia. Lo incitò a voltarsi, a rivolgergli la schiena, prima di continuare. Tirare fuori la camicia dai pantaloni, aprire questi ultimi e spingerli in giù quel tanto che gli bastava. Poi, strinse un braccio attorno alla sua vita per averlo vicino, molto vicino, per non rischiare che sparisse d’improvviso o che finisse in qualche posto che non conosceva.
Gli solleticò la pancia rendendo il tragitto delle sue dita fino alla meta quanto più lungo poté, cercando di ignorare il forte tremore delle membra tiepide e più morbide al tatto di quanto sembrassero di Sherlock. Il debole ed acuto “John, per favore!” che ottenne valse la pena della sua pazienza.
Non ci mise molto, non perse tempo a tenerlo sulle spine come avrebbe fatto in un’altra situazione. Però gli baciò il collo tutto il tempo, e gli accarezzava la pancia con la mano libera. Sentiva ancora le ossa delle costole troppo prominenti al tatto, nonostante i suoi sforzi per fargli prendere un po’ di peso. Ma ci avrebbe posto rimedio.
Un sospiro più forte e spezzato degli altri fu l’unico suono che avrebbe potuto tradirli, se qualcuno fosse stato lì ad ascoltare. Sentì Sherlock tendersi come una corda di violino, e poco dopo si sciolse completamente tra le sue braccia.
- Ti ho già detto che ti amo, vero? – sussurrò il dottore, quando il detective fu di nuovo voltato verso di lui e cercò di tornare a farsi stringere a lui come prima. Annuì contro la sua spalla. – Però va bene se me lo ripeti. Così ne sono sicuro. –
John si accigliò, l’oscurità però impedì all’altro di vederlo. – Hai paura che non sia così? –
Anche se non poteva vedere, poté sentire il respiro farsi simile a sospiri di rassegnazione. – Che tu abbia cambiato idea. A volte, i primi mesi, temevo che tu decidessi di andartene da Baker Street. Non sono abituato a… -
Non terminò la frase, ma il resto John lo dedusse. Ad essere importante per qualcuno. A parte Victor. Che ora è morto. John non aveva nemmeno mai pensato che una vita potesse essere così triste. Oh, aveva visto situazioni ai limiti della sopravvivenza, situazioni cruente e misere, ma quel velo di costante malinconia e pura tristezza che portavano con loro gli Holmes era qualcosa di alieno. L’isolamento volontario, la convinzione e la sicurezza di non avere nessuno. E l’abbandono. E questo lo portava a chiedersi, quanto più prezioso doveva essere lui per Sherlock di conseguenza. Non si era mai sentito così prezioso per qualcuno. Gli faceva venir voglia di piangere.
- Ti amo. Ti amo. – disse di nuovo. – E non dubitarne mai. –
E lo strinse forte, con il desiderio di inglobarlo dentro di sé, renderlo una parte di se stesso per non doverlo mai perdere  e per proteggerlo. Da cosa, non era chiaro neanche a lui. Ma se avesse detto dal mondo ci sarebbe andato molto vicino.
- E se vuoi piangere per Victor, – continuò – fallo ora. Senza fingere di star bene. Non trattenerlo, ti faresti solo del male. –
Allora Sherlock lo fece. Silenziosamente, ma a lungo, e copiosamente.  
 
 
 
La riunione si teneva nell’apposita sala che era stata fatta costruire nel seminterrato. In una città come Londra era difficile trovare edifici con sale sotterranee, ma d’altronde la sede della fazione di sopra era stata ubicata lì appositamente. Poco dopo l’organizzazione ufficiale della fazione e la scelta del palazzo, il seminterrato era stato espanso, ripulito e ristrutturato. Ora era consono alle loro necessità.
Il tavolo attorno a cui erano seduti i partecipanti alla riunione era rotondo, fatta eccezione per un piccolo segmento tagliato retto, davanti al quale sedeva Mycroft Holmes.
Acciaio, tanto acciaio grigio chiaro li rinchiudeva in quella che avrebbe potuto diventare una prigione, se solo il capo fazione avesse voluto. Fortuna, quindi, che quella notte non fosse sua intenzione.
- Ci hai chiamato nel bel mezzo della notte. – disse una donna. Aveva circa sessant’anni, i capelli tinti di biondo e raccolti in uno chignon, vestita elegantemente di un grigio poco più scuro di quello della stanza. – Se volessi spiegarci il perché, prima che faccia mattina, sarebbe gentile da parte tua. – il tono non era sgarbato, ma bastava guardarla per capirne l’irritazione. A nessuno di loro piaceva essere raccolti a certi orari: rendeva più difficile spiegare la loro improvvisa necessità di uscire di casa, quando i consorti non sapevano nulla del coinvolgimento della fazione con il governo e i servizi segreti. Mycroft, ovviamente, aveva avuto un ruolo fondamentale nel consolidare gli accordi segreti con loro.
- Per quanto possa comprendere il vostro malumore, lady Smallwood, ho un’ottima ragione per avervi tutti qui ora. Come ben sapete, negli ultimi mesi la fazione di sotto ha lanciato alcuni chiari segnali d’aperta ostilità nei confronti di mio fratello, di me e della nostra fazione. Ebbene, dopo alcuni omicidi dei loro stessi membri di cui il colpevole non è identificato, anche se probabilmente è stato incaricato da James Moriarty, abbiamo ricevuto una prima offesa diretta. –
- Ebbene? –
- Uno dei nostri membri è stato assassinato. Le circostanze dell’omicidio e l’identità della persona ci portano a pensare che lo scopo fosse di colpirci psicologicamente e di dimostrare la portata  della loro rete: non si trattava di un individuo semplice da trovare, quello che è stato ucciso. –
Un resoconto su chi fosse Victor Trevor e come mai fosse sparito dalla circolazione da più di quattro anni seguì a ciò. Il Gatto aveva intralciato in modo diretto un’uccisione di un gruppo di umani che stava per essere eseguita da alcuni dei servi più stretti del Ragno. I membri più importanti della fazione di sotto avevano l’abitudine di prosciugare le persone tutti assieme, come una specie di infausto banchetto per le loro Estensioni. Ma l’interruzione casuale di uno di questi, e poi il combattimento che ne era seguito, avevano spinto il Ragno a ordinare l’assassinio del Gatto. Da quel giorno aveva continuato a occultarsi, ed era possibile incontrarlo solo e soltanto se lui stesso si faceva vivo. Ormai non più, però.
La conclusione a cui giunse la riunione fu semplice: era necessario che fossero organizzate delle pattuglie, che venisse tenuta sotto osservazione la polizia, che si iniziasse una manovra offensiva definitiva verso la fazione di sotto. Non era chiaramente il singolo omicidio la causa di tale risoluzione, che mai era stata presa in tutti quegli anni, ma ciò che significava: non c’era più nessun tipo di coesistenza con le Creature avversarie, e la guerra era aperta. Il campo di battaglia era l’intera città.
Mycroft sperava che non fossero arrivati in ritardo. Che non sarebbe finita di lì a pochi giorni, perché in quel caso sarebbe stato solo con una vittoria degli avversari. A meno che non morisse il Ragno. Ma sperare in quello, era sperare nell’impossibile. Nessuno era mai riuscito ad arrivare a lui.
 
 
 
- Lei è un’idiota. –
Le parole del suo superiore erano state categoriche e definitive. E lo avevano fatto sentire decisamente di merda. Pur consapevole di non essere una cima, dubitava fortemente che le intuizioni del sergente Donovan fossero corrette, ma il suo superiore ovviamente aveva dovuto darle ragione. O per la precisione, lo aveva fatto dopo aver sentito che la maggior parte degli ispettori di polizia si servivano di Holmes per risolvere i loro casi. Se anche il detective si fosse rivelato innocente alle accuse che ora il mondo voleva sbattergli in faccia, quell’uomo non avrebbe potuto sopportare che Scotland Yard fosse messa in ridicolo in quel modo.
Stronzo.
Comunque questo fu il pretesto per poter rilasciare un bel mandato di perquisizione, e furono spediti a Baker Street la mattina seguente. Greg ebbe l’impressione che i suoi colleghi fossero sconvenientemente gongolanti all’idea di frugare in casa del detective, tanto che gli pareva di essere capitato in una gita dei boyscout piuttosto che in un’indagine. Non si sarebbe detto, ma non era una bella sensazione.
Trovarono l’appartamento vuoto.
La porta era stata lasciata aperta. Lestrade pensò che fosse strano, perché né Sherlock, né John, né tantomeno la signora Hudson avrebbero dimenticato di chiudere a chiave quando nessuno dei tre era in casa. Nessun altro però sembrò darci importanza: un caso, una dimenticanza, può capitare.
C’era un nonsoché di lasciato in sospeso in quella casa. La finestra del soggiorno era anch’essa spalancata. A parte quel dettaglio, per quanto sconcertante, non c’era nulla di preciso a dargli quell’impressione. Eppure…
- Guardate in giro. E cercate di non fare troppo casino, siamo qui solo per controllare. Non ci sono accuse reali né prove, per ora. – disse ai poliziotti. Sapeva che importava loro poco o nulla di mettere in subbuglio l’appartamento del “fenomeno”, ma sperava ricordassero che un Holmes infuriato era uno spettacolo terrificante quasi quanto l’operato di un serial killer.
Gli uomini si divisero, per setacciare ogni stanza nel minore tempo possibile.
Nelle due camere da letto non trovarono nulla di particolare, anche se qualcuno commentò che non si aspettava di trovarle disfatte entrambe. Lo stesso valse per il bagno, fatta eccezione per il gran numero di asciugamani usati, che avrebbe potuto essere sufficiente per quattro persone. In cucina, l’unica cosa fuori dall’ordinario era un sacchetto di alluci mozzati nel frigo. Grazie al cielo le abitudini di Sherlock riguardo i suoi esperimenti non erano proprio un segreto. E non risultava loro che le Creature mangiassero la carne umana.
Erano ormai quasi sicuri di aver fatto un buco nell’acqua, o che almeno non avesse lasciato prove in casa, quando uno degli agenti richiamò l’attenzione dell’ispettore ad un mazzetto di biglietti e brevi lettere senza francobollo infilate tra alcuni libri di medicina.
Il primo che prese in mano diceva “C’è una testimone della morte di Steven Hopkins. È necessario liberarsi di lei. M”.
- Chi è Steven Hopkins? –
- Si tratta dell’uomo che abbiamo trovato morto sul lungofiume. Siamo riusciti ad identificarlo. – rispose Donovan al giovane poliziotto che l’aveva chiesto dopo che il biglietto fu letto ad alta voce.
Quella M, quell’iniziale, Lestrade si chiese a chi appartenesse. Poi gli venne in mente che Sherlock aveva un fratello, che glielo aveva accennato un paio di volte e che forse l’aveva pure intravisto assieme al detective. Mycroft si chiamava, se ricordava bene. Mycroft.
Donovan nel frattempo sfogliava con un sorrisetto quasi compiaciuto e piuttosto sconveniente il resto delle lettere. – Le altre sono persino più esplicite della prima. – commentò. – Qui abbiamo ben più di qualche indizio, questa è una miniera! –
- Non saprei. – ribatté Greg. – Non è stato un po’ troppo semplice trovarle? Sherlock ha provato più volte che riuscirebbe benissimo a nascondere qualcosa alla polizia, e ha dimostrate che anche molti altri saprebbero farlo. E perché le ha conservate? Voglio dire… nessuno sarebbe così ingenuo. – ma ricevette solo sguardi esasperati e di compassione.
- Senti, lo so che lo ammiri, e che in fondo in fondo ti sta quasi simpatico, ma non devi difenderlo fino allo stremo. Sappiamo entrambi che spesso si rivela meno furbo di quanto non sia di solito. –
Eppure era tutto molto stupido, per l’ispettore. Gli indizi troppo facili da trovare, troppo banali e sfacciati, troppo cliché. Una video registrazione e poi un mucchio di lettere consegnate a mano? Gli pareva roba da romanzo. Era artificioso.
Non sapeva però come dirlo al sergente Donovan: sembrava che i suoi colleghi non avessero aspettato altro che quel momento dalle loro facce. Come se fosse per loro una soddisfazione che l’investigatore che li toglieva dai casini quando brancolavano nel buio potesse essere un assassino, un impostore, o chissà che altro. Un mostro spuntato da chissà dove che uccide le persone senza lasciare traccia sui cadaveri.
Ad essere sincero con se stesso, iniziava ad avere paura. Di cosa di preciso non sapeva. Però quel qualcosa di certo non era Sherlock.
Almeno, sperava di no.
 
 
 
La sede della fazione di sotto non era naturalmente un elegante palazzo nel West End, ma manteneva comunque la sua dignità quasi quanto la segretezza della sua ubicazione.
Non essendo la loro un’organizzazione accordata con le autorità umane, non si radunavano in massa alla stessa ora rischiando di attirare l’attenzione. Sapevano che quando c’era un raduno dovevano andare un po’ alla volta, magari anche la mattina quando l’incontro era la sera, e possibilmente quando c’erano meno persone possibili in zona. La loro area di competenza era l’East End. La metà degradata della città era terreno fertile per la fondazione di un’organizzazione criminale, a discapito dello strato più povero dei cittadini, che si trovavano in balia sia di criminali umani comuni, gangsters e mafia, sia delle Creature del Ragno.
L’incontro di quella notte, però, non era un’assemblea: era un ritrovo privato. Il Ragno non partecipava a raduni generali, in pochi persino nella sua stessa fazione l’avevano mai visto da vicino. Lui dettava ordini generali su come atteggiarsi rispetto agli avversari, e poi si occupava da vicino delle manovre che svolgeva con i collaboratori più stretti.
La Vipera non era un collaboratore stretto, e a dir la verità era dubbio anche che fosse un collaboratore. Libero professionista su commissione era una definizione più corretta. Il Ragno l’aveva pagata perché avvicinasse la Libellula e uccidesse il Gatto.
- Il tuo lavoro è stato eccellente. – disse alla donna, che seduta sul bordo del tavolo di metallo addossato all’angolo della parete in fondo era intenta a disinfettarsi alcuni graffi sulle piante dei piedi. Correre a piedi nudi sull’asfalto feriva anche la pelle resistente delle Creature. – Molto fine. Ed esattamente come funzionano le tue Estensioni? –
Lei sollevò lo sguardo. – Ho una coda di squame piuttosto tagliente. La seconda è una ghiandola che produce una sostanza che si dissolve nell’aria o che infondo alle mie vittime tramite contatto. Ha un effetti sulla psiche: le rende più bendisposte e docili, le fa infatuare in modo più o meno cosciente. Ha fatto sì che Holmes non vedesse attraverso di me. –
- Raffinato. – approvò ancora il Ragno. – Sono spiacente per il piccolo inconveniente che hai avuto mentre portavi Trevor da noi. – e fece cenno ai suoi piedi. Lei rispose con una piccola smorfia noncurante.
Per quel lavoro, le aveva dovuto promettere un pagamento molto alto, di cui una parte aveva dovuto darle in anticipo. Non si faceva mettere i piedi in testa, la Vipera, né si faceva scrupoli. Ma sapeva esattamente il valore di ciò che sapeva fare e i rischi che le poteva comportare, e si faceva rimborsare ogni centesimo di impegno ed esposizione al pericolo.
- Non intendo chiederti come mai ti serviva la casa di Holmes vuota, ma qualche piccolo indizio non mi dispiacerebbe. – disse Irene.
Moriarty sorrise. Sarebbe stato utile e dilettevole se fosse stata un membro ufficiale della fazione, e non una mercenaria. – Tra un minuto, carissima. –
Guardò l’orologio, e il suo sorriso si ampliò. Pochi secondi dopo il suo cellulare iniziò a suonare, e lui rispose con evidente soddisfazione. – Ebbene, Sebastian, avete sistemato quelle cose a Baker Street? –
Alla Donna parve di sentire una risposta affermativa provenire dall’apparecchio, anche se il suono era smorzato e distante. L’espressione del Ragno però parlava da sola.
- Ottimo. È sempre un piacere vedere che il lavoro assegnato viene svolto come si deve. Quando prevedete che la polizia penserà di andare a fare un’ispezione? Io punto su domani mattina, considerato che a quest’ora avranno già visionato le nostre videoregistrazioni. –
Ecco perché le stava quasi simpatico, pensò la Donna. Era così malignamente scaltro!
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

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Capitolo 21
*** Cosa ti turba? ***


Non fu la luce del sole che filtrava da dietro una tenda a svegliarlo, ma quella delle luci neon che irruppero nella stanza scura quando Mycroft Holmes ebbe spalancato la porta. Colpì gli occhi di John come un’ondata di minuscole lame. Sherlock era già desto, gli occhi imperscrutabili rivolti al soffitto.
Non aveva idea, John, di che ora potesse essere, ma considerato che se ne erano andati in giro per Londra la notte precedente per via del funerale di Trevor, probabilmente era ormai mattina inoltrata, se non addirittura quasi mezzogiorno.
- La polizia è entrata al 221B. – annunciò Mycroft come saluto. La sua voce era grave, non un accenno allo scherno e all’ironia che solitava trasudare da ogni sua parola.
John incespicò nella coperta mentre tentava di alzarsi. Non era sicuro che farsi sorprendere avvinghiato al fratello minore fosse un buon modo per far iniziare la giornata del maggiore degli Holmes, anche se pensava che il minore non avesse problemi in proposito.
Sherlock si sollevò fluidamente, l’espressione indecifrabile. - Perché? - domandò, ma non sembrava che gli importasse particolarmente.
- Sarebbe meglio se te lo spiegassi quando avrai mangiato e ti sarai svegliato del tutto, o almeno quando lo avrà fatto il dottor Watson. -
John aveva da tempo sviluppato una serie di elementi da cui intuire lo stato d’animo degli Holmes o la gravità della situazione. Per esempio, se Sherlock parlava ininterrottamente di sciocchezze quasi di sicuro si annoiava e cercava di fare ricerche su qualsiasi cosa riuscisse a trovare. Se Mycroft chiamava lui invece che il fratello, era perché era preoccupato per questioni che avrebbe definito emotivo-psicologiche.
Se Mycroft era reticente a parlare seduta stante, era successo qualcosa di molto grave.
Holmes fece sloggiare i due dal materasso, e li spinse per un tratto di corridoio fino a condurli in un bagno con l’ordine di rendersi presentabili e poi tornare nel suo ufficio. Fecero il meglio che poterono, ma John ebbe l’impressione che senza il suo aiuto Sherlock probabilmente non sarebbe stato sufficientemente presente da rimettere tutti i vestiti al posto giusto, una volta toltosi il sudore del giorno prima di dosso.
Quando fecero ritorno nell’ufficio nero, Mycroft aveva preso posto dietro alla sua scrivania, che nel frattempo era stata riposizionata dov’era originariamente. Fermo come una statua, pareva che non fosse nemmeno vivo se non fosse stato per lo sbattere delle ciglia. Persino l’espandersi della cassa toracica con il respirare era difficile da vedere.
- Questa mattina, sono entrati nel vostro appartamento con un mandato di perquisizione. – esordì il capo fazione. Sherlock e John si sedettero di fronte a lui, dall’altra parte della scrivania. – Purtroppo non ho informazioni più precise su cosa stessero cercando o se abbiano trovato qualcosa  che interessava loro, ma una mia fonte mi ha fatto sapere che è stato mandato l’ordine dopo la visione di alcune registrazioni. Credo che voi sappiate di che si tratta. – parlava con voce più bassa e calma del solito. Temeva di far perdere il controllo al fratello, forse? C’era in effetti un che di guardingo quando volgevo lo sguardo verso la Libellula.
- Emily Brown. – mormorò Sherlock. – Avevo detto loro di guardare le registrazioni delle videocamere di sicurezza. Non posso immaginare perché questo li abbia spinti ad irrompere al 221B per altra ragione al chiedere consulenza, se non che contenessero qualcosa che mi colleghi all’omicidio. –
- Temo sia molto probabile. Quella ragazza era una Creatura appena formata,  e quindi non registrata nei miei archivi. Il Ragno sta facendo creare Creature in considerevoli quantità, da quando ha fatto sparire il professor Stapleton da Baskerville per il suo lavoro. Ne sono già morte innumerevoli, dopo essere state usate come mercenari, o gettate in prima linea. Gli uomini che hanno finto l’aggressione a Irene Adler quando siete andati a parlare con lei nella sua casa erano tra queste. –
Un istante solo la maschera di Sherlock vacillò, quando fu nominata la Donna. Perlomeno Mycroft ebbe il buonsenso di non fargli notare come il suo dubbio di giudizio le avesse permesso di ingannarli e condurre Victor Trevor alla morte. Doveva bruciare da morire, l’umiliazione di quell’errore. Per non parlare del senso di colpa per aver indirettamente causato l’uccisione dell’unica persona che aveva contato prima che arrivasse Watson. John ne vedeva l’orrore e l’angoscia fremere sotto la maschera. Non avrebbe retto per molto, realizzò. Non questa volta.
Poi, d’improvviso, Sherlock si bloccò. – Noi eravamo fuori, questa notte. Eravamo qui. –
Mycroft si mostrò perplesso. – Per cui? –
- Eravamo presi da… nessuno era a Baker Street. Avrebbe potuto entrare chiunque, mettere qualcosa nell’appartamento e sparire. Se avessero dato alla polizia un motivo per entrare al 221B, e avessero fatto in modo che lo facessero stamattina, allora la Donna non ha che creato una scusa per tenerci tutti fuori. – disse lentamente, con crescente tensione.
- Probabile. – decretò Mycroft. – Ma non… Sherlock! – esclamò.
Il fratello si era alzato in piedi repentinamente, voltando loro le spalle. Tremava visibilmente, ma non come se stesse piangendo. Piuttosto, sembravano brividi di freddo. Si strinse la braccia attorno al corpo, vacillante, il respiro rumoroso e irregolare.
- Me l’aveva detto di non darle il dubbio, di tenerla lontana. – sussurrò flebilmente. – Avrei dovuto dargli retta. –
- No, non cominciare nemmeno. – disse ancora Mycroft a voce alta, e rivolse a John uno sguardo allusivo, come per incitarlo a darsi una mossa e fare qualcosa.
Il dottore si affrettò ad alzarsi anch’esso. – Sorprendentemente devo dare ragione a tuo fratello. – disse al detective, posando le mani sulle sua e cercando di sciogliere quella specie di nodo che aveva stretto attorno a se stesso con le braccia. – Se stai pensando che sia tua la responsabilità della morte di Victor Trevor, toglitelo dalla testa. So come fai quando succedono queste cose: pensi sempre che sia colpa tua. Di solito non ti si può contraddire, ma questa volta… Ehi! Alza gli occhi! –
Ma l’altro era sempre meno disposto a lasciarsi avvicinare, già in procinto di racchiudersi nel suo guscio. Non gliel’avrebbe permesso, non questa volta.
Lo scrollone che gli diede, afferrandolo per il colletto della camicia, non era particolarmente forte, ma servì al suo scopo. Sherlock, infatti, a questo si ritrasse di colpo, stupefatto, e lasciò andare la stretta su se stesso che avrebbe preannunciato l’irraggiungibilità.
- Basta così. – intimò il soldato all’incredulo investigatore. – Non ho alcuna intenzione di stare a guardarti mentre ti addossi la colpa di tutto come tendi spesso a fare. Piangi Trevor per quanto hai bisogno, ma non pensare neanche un momento di prenderti la responsabilità della sua morte. E quando avrai finito, dovrai tornare in te: hai un criminale da ostacolare, non te ne starai chiuso in casa a distruggerti con il pensiero. –
Quando ebbe finito gli venne il dubbio di essere stato eccessivamente severo nel modo di rivolgersi al più giovane. Il dubbio venne cancellato quando vide la lieve (ovviamente lieve) ammirazione nello sguardo di Mycroft e il perplesso stupore in quello del minore.
- Ottimo discorso, dottor Watson. Dovremmo invitarla alle riunioni per far tacere gli altri presenti. – commentò Mycroft con una punta di ironia. – Il che mi spinge a chiederle se le recherebbe disturbo lasciarmi solo con mio fratello per un determinato tempo. Riguardo ai recenti avvenimenti, dobbiamo discutere delle importanti questioni, e sarebbe meglio se rimanessero private. –
Con questo, il dottore fu cacciato dall’ufficio, irritato e infastidito, mentre ripensava per l’ennesima volta al fatto che lui quel giorno di diverso tempo fa aveva solo accettato di avere un coinquilino.
 
I due Holmes rimasero in quell’ufficio per un tempo indefinito, ma John era piuttosto sicuro che poteva essere quantificato in ore. Un paio, più o meno. Un record, da che lui ricordava, di tempo passato assieme dai due, da che li conosceva. In quel tempo, scoprì l’esatto motivo per cui si soleva dire “girarsi i pollici”.
Quando sentì di nuovo la porta aprirsi, con un quieto suono quasi frusciante, soltanto Sherlock ne uscì. Era cambiato, però. Il suo volto era severo, corrucciato.
- Posso sapere cosa vi siete detti, a meno che non sia segreto nazionale? –
- Abbiamo discusso su come… affrontare la situazione. Non posso dire tutti i dettagli, per motivi di sicurezza. Mi dispiace, ma spero che tu capisca che Mycroft in questo caso non sta facendo il misterioso per alterigia. –
John annuì. – Bene. È bello sapere che ogni tanto non si diverte alle nostre spalle. –
- Però, – continuò il detective. – abbiamo delle cose da fare. A Baker Street. –
- A Baker Street c’è la polizia, a quanto pare. – obiettò il medico.
- Dettaglio irrilevante. –
John ringraziò ogni divinità esistente o meno che gli venisse in mente quando, dopo che riuscirono a sgattaiolare discretamente nei pressi di Baker Street, videro che sul momento nessun poliziotto era nei dintorni. Magari avrebbe dovuto ringraziare Mycroft una volta o l’altra per come la loro fortuna tendesse a rivelarsi nei modi più costruttivi.
Grazie alle vaste conoscenze di Sherlock sui mille modi di compiere un crimine, riuscirono ad introdursi di soppiatto nell’appartamento, e John sperò davvero che la polizia misteriosamente assente non decidesse di tornare sul più bello.
Il detective ispezionò rapidamente le varie stanze facendo attenzione a non toccare nulla.
Uscirono dopo solo pochi minuti. Il soldato seguì il più giovane mentre questi si toglieva dalla strada per dirigersi verso stradine e vicoli dimessi e più stretti, dove c’erano meno possibilità di essere visti.
- Sembra che la polizia abbia frugato un po’ in giro. Era tutto spostato. – disse ad un certo punto.
- Io non me ne sarei accorto. –
- Non ne dubito. Non c’era nulla, in giro che potesse tradirmi. Non lascio mai biglietti o altro, e ho sempre il cellulare con me. –
John non lo disse ad alta voce, ma pensò di sicuro che se era così (e credeva che lo fosse) la polizia non poteva per forza aver trovato nulla, e che la loro ispezione fosse stata inutile. Ovviamente Sherlock non era della stessa opinione, dal modo in cui lo guardò, e John si chiese quanto fosse facile leggergli in faccia i pensieri.
- Significa che se hanno trovato qualcosa deve essere stata messa qui di proposito. – spiegò il detective un po’ divertito e un po’ annoiato. Perlomeno, era un buon segno vederlo comportarsi come al solito. – Il fatto che Victor… fosse fuori casa, significa che per un certo numero di ore l’appartamento è rimasto libero. Chiunque avrebbe potuto entrare e lasciare qualcosa tra gli scaffali o in qualche cassetto. –
Camminarono in silenzio per diverso tempo, Watson non avrebbe saputo dire quanto di preciso, sta di fatto che si accorse di conoscere il quartiere grigio e disabitato dove era stato condotto. Era stato lì quando Sherlock l’aveva portato in quel vecchio negozio abbandonato per parlare con il vecchio cieco. Era la zona neutrale.
- Siamo qui per…? –
- Parlare con Empty Stare, se è qui. Se non è qui, gli diamo la caccia: lui ci ha detto di andare a cercare la Donna, voglio verificare se fosse o meno consapevole di cosa sarebbe successo. –
Si avvicinarono all’edificio. – Ho bisogno che tu aspetti qui fuori, per fermarlo se per caso scappa e riesce ad uscire. Puoi farlo? Non è particolarmente forte. –
La Creatura entrò con circospezione, il soldato rimase ad aspettare.
Da fuori sentì il rumore attutito dei passi di un’altra persona. Irregolari, caotici, come se si fosse mosso repentinamente. Non riusciva a capire cosa si stessero dicendo. Sherlock parlava a voce bassa, l’altro aveva solo un filo di quella che John ricordava.
Poi un rumore secco, legno che si spezza, e un clangore.
Pochi secondi dopo i due erano fuori dalla porta, il più vecchio trattenuto per le braccia da Holmes. Quest’ultimo aveva le labbra strette in una smorfia adirata, gli occhi freddi come mai John li aveva visti prima.
Empty Stare si dibatteva nella stretta, ma era evidente che non sarebbe riuscito a scivolare via.
- Non volevo, non volevo farlo. Lo giuro. – balbettava debolmente, le lacrime agli occhi.
- Piuttosto bizzarro il tuo modo di non voler fare le cose. – ribatté Sherlock, senza un velo di pietà né nello sguardo né nelle parole. – John, aiutami a riportarlo dentro. –
Così fece. Trascinarono il vecchio riluttante e spaventato nel negozio polveroso ed angusto, e lo lasciarono cadere su una sedia impagliata che aveva visto giorni migliori. Empty Stare non osava sollevare lo sguardo, la testa china e le mani tremanti. Ogni tanto gli sfuggiva un lieve squittio angosciato.
Sherlock trascinò una specie di poltrona che trovò in fondo al negozio davanti all’altra Creatura, e si sedette imperioso e in attesa. John stava giusto un passo indietro, sconcertato. Non era sicuro di capire cosa stesse succedendo (raramente lo era), e sebbene con gli Holmes era abbastanza normale, avrebbe preferito essere messo a conoscenza di cosa si aspettasse di ottenere Sherlock quando usufruiva del suo aiuto, specialmente nella situazione corrente.
Il vecchio prese a strofinarsi le mani nervosamente, scoccando occhiate rapide al detective che stava ad aspettare, prima di iniziare a parlare con voce concitata e lamentosa.
- D’accordo. Sono stato io. Era già pianificato. – esclamò alzando finalmente lo sguardo. - Il Ragno immaginava che avresti chiesto consiglio a me, per cui mi ha detto che dovevo farvi andare da Irene Adler. –
- E tu dovresti essere neutrale e fuori dai giochi. Traditore. – ribatté Sherlock con sprezzo.
- Mi ha obbligato a farlo! – il tono della Creatura si era fatto disperato. – Mi avrebbe ucciso! Non avevo idea che Victor Trevor sarebbe rimasto coinvolto, non sapevo che si sarebbe presentato da te! –
Sherlock tacque per lunghissimi minuti durante i quali l’altra Creatura si faceva via via più terrorizzata.
Quando John pensò che il vecchio sarebbe scoppiato da un momento all’altro, Sherlock infine parlò.
- Sei fortunato. Ti porterò da Mycroft invece che occuparmi di te personalmente, e lascerò che sia lui a decidere cosa fare con te. –
Era glaciale, come John non l’aveva mai visto, e per tutto il viaggio di ritorno all’edificio dove Mycroft aveva il suo ufficio. C’era una linea dura sulla sua fronte.
Il vecchio Empty Stare non aprì più bocca, e lo stesso fece il detective.
La “consegna” dell’uomo a Mycroft fu quieta e rapida. Sherlock scambiò due parole con il fratello, a voce troppo bassa perché Watson potesse sentire.
Il dottore non riusciva a liberarsi dell’impressione che gli Holmes avessero un piano per una situazione come quella in cui si trovavano. Erano troppo intelligenti per aver sprecato tutti gli anni di tensione tra le fazioni senza aver previsto un’eventualità simile. Ma la cosa non lo faceva sentire meglio, anzi il contrario. Capiva che potesse essere funzionale tenere segrete le loro intenzioni anche a lui, ma un paio di occhiate cupe che gli aveva scoccato il maggiore lo fecero sentire profondamente a disagio e confuso, e pensò che probabilmente quello che si stavano dicendo e che si erano detto ore prima chiusi nell’ufficio non gli sarebbe piaciuto per nulla.
Mycroft fece sparire Empty Stare dalla loro vista in un batter d’occhio, prima di congedarsi.
 
 
- Sospettavi già che il vecchio ti tradisse, oppure…? –
- Non mi sono mai fidato di lui completamente. Ma il fatto che Victor sia stato ucciso dalla Donna lo ha reso ovvio. Avrei dovuto immaginarlo già quando ci ha detto di andare a incontrarla, ma non sono stato attento. –
Il pavimento dell’edificio era tiepido. All’occhio sembrava marmo. Per qualche motivo che non era ben chiaro, si erano seduti sul pavimento, la schiena contro il muro, invece che cercare delle sedie, o qualcosa del genere. Poco importava, probabilmente Sherlock non ci faceva neanche caso da quanto assorto era stato nell’ultimo quarto d’ora.
John raccolse una delle sue mani pallide, che era appoggiata per terra, tra le proprie, riuscendo ad attirare l’attenzione del detective senza parlare per primo. Gli baciò le nocche, una ad una, e sentì il rumore un po’ più forte di Sherlock che tratteneva il respiro.
- Ti amo. – gli disse la Creatura in un mormorio. E la cosa più bella di quelle due parole così brevi era la semplicità con cui le aveva pronunciate. Sembravano quasi un suono unico, senza abbellimenti o scenate melodrammatiche come facevano molte persone che non sapevano realmente cosa stavano dicendo. Solo quello, ed era sufficiente a fargli sentire tutto ciò che c’era dietro. La tenerezza, il desiderio, la fiducia, le preoccupazione e la meraviglia che entrambi provavano per quell’emozione.
- Lo so. Faccio un po’ di fatica a rendermene conto, ma lo so. E non sai quanto mi renda felice. Nonostante tutto.  –
Sherlock sorrise. – Credo di saperlo. –
Gli strinse a sua volta la mano. – John, ho bisogno che tu faccia una cosa. – disse poi, tornando serio.
- Certo, dimmi. – ed eccola lì, quella strana espressione esitante e nervosa che aveva mentre parlava con Mycroft e quest’ultimo lanciava occhiate cupe.
- Sarebbe bene che tu stessi con la signora Hudson per le prossime ventiquattro ore. Avrà bisogno di qualcuno che la protegga se le cose non vanno bene. –
- Protegga da cosa, le Creature? Con le Estensioni e tutto il resto? –
- Se ci spari, moriamo come tutti. Per favore. –
John sospirò. – Ovvio che lo faccio. Ma tu? .
Sherlock esitò prima di rispondere, e anche allora non parve né convinto né sincero. – Ho da sbrigare alcune faccende con Mycroft. Forse abbiamo trovato una soluzione, ma dobbiamo rifinire i dettagli e poi trovare un modo per mettere il tutto in pratica. Dovremo cercare alcune persone. Non ci vorrà moltissimo. Cominceremo tra un paio d’ore. –
- Ed è un segreto, ovviamente. –
- Mi spiace. – e sembrava sincero mentre lo diceva. – Ma è meglio che meno persone possibili conoscano le intenzioni di Mycroft, o rischieremmo di compromettere ogni cosa. –
- Di Mycroft? Non sono anche tue, quindi? –
- Le nostre. Ma l’idea è stata sua. John, ti spiegheremo più tardi, d’accordo? Non abbiamo trovato nulla di migliore, o con più probabilità di riuscita. –
John, come tante altre volte, lasciò perdere e decise di fidarsi, pur convinto che il vero motivo del segreto fosse altro da ciò che diceva Holmes.
 
Non molto dopo ciò, Sherlock lo ricondusse alla stanza dove avevano passato la notte, tenendogli la mano in una presa leggera. Aveva smesso di nuovo di parlare. Non che ce ne fosse bisogno, quando si sedette sul materasso su cui avevano dormito trascinando l’altro uomo con sé e baciandolo languidamente.
Non era così che John aveva immaginato sarebbe stata la prima volta che facevano l’amore. Non su un materasso nell’ufficio di Mycroft (che grazie al cielo doveva essere impegnato a fare qualcosa di importante che lo teneva fuori di lì), non con la morte di un uomo a pesare sul suo compagno. Aveva immaginato un giorno o una sera sereni, senza psicopatici a minacciare la loro vita. Ma Dio, quanto l’aveva desiderato!
Sherlock lo stringeva con le braccia attorno al torso e al collo, lo teneva stretto come se volesse inglobarlo, farlo fondere a se stesso. C’era una sorta di affamata disperazione nel modo in cui gli mordeva le labbra e graffiava la schiena, in cui lo avvolgeva con le gambe e le usava per stringerlo ancora di più.
Era un’esperienza completamente diversa da quelle che aveva avuto con altre persone. Sentiva emozione. Tanta, immensa, che gli faceva tremare la voce e lo obbligava a non interrompere il contatto visivo. Era impensabile distogliere lo sguardo da quello di Sherlock. Si sentiva traboccare di adorazione.
- John… - un sospiro, poco più. Perché c’era malinconia in quel sospiro? Perché c’era quel filo di rassegnazione negli occhi freddi ma colmi d’amore della Creatura?
Un senso di inquietudine, sebbene insignificante se messo a paragone con tutto ciò che stava provando mentre spingeva lentamente nel corpo diafano dell’altro, gli chiuse la gola. C’era qualcosa in quello sguardo, qualcosa di definitivo, che non riusciva a cogliere o che non conosceva, ma sentiva ora più che mai di essere ignaro di qualcosa di importante, qualcosa che rendeva Sherlock così.
Che cosa hai intenzione di fare? Cosa ti turba in tal modo da guardarmi come se fosse l’ultima volta?
Attesero il giorno seguente quasi senza parlare.
 
 
 
 
 
 
 
 
John aveva fatto come gli era stato detto. Era stato con la signora Hudson. Aveva atteso che Sherlock e Mycroft facessero quello che dovevano fare. Aveva atteso con ansia, maledicendosi per non poter fare di più, partecipare, essere utile in qualche modo. Detestando il fatto di essere all’oscuro di tutto. Scervellandosi nel tentativo di capire cosa potesse essere così delicato e importante da dover rimanere segreto in tal modo, e senza riuscirci.
Aveva passato le ore ad ascoltare la donna, leggere, osservare la signora che sferruzzava qualcosa che non aveva ancora preso forma.
Per fortuna l’abitazione della signora Hudson non era perquisita dalla polizia, e potevano rimanerci tranquillamente.
Quando fu passato il mezzogiorno, era decisamente con i nervi a fior di pelle per via della preoccupazione.
Poi, un uomo di Mycroft gli aveva telefonato.
Dottor Watson?
Il coinquilino di Sherlock Holmes?
Mi è stato detto di chiamarla immediatamente.
Mi dispiace di dover dare notizie così funeste.
Il signor Sherlock Holmes è morto. Con lui, anche James Moriarty.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
**********
 
Note:
Sono passati mesi dall’ultimo aggiornamento. Lo so, lo so. Mi dispiace immensamente, ho fatto di tutto per trovare del tempo per scrivere. Purtroppo, gli esami di maturità ed alcune vicende personali piuttosto problematiche me lo hanno rubato senza pietà. Non ho abbandonato, ciononostante, la storia. Non ho idea di quanto mi ci vorrà per finirla, ma finirà, non rimarrà incompleta.
In ogni caso, non dovrebbero rimanere più di due capitoli, ed entrambi non lunghi quanto i precedenti (come questo d’altronde).
Grazie per chi ancora legge questa storia nonostante la negligenza dell’autrice, che cerca sempre scuse per i suoi ritardi.
Kisses
 
Sofyflora98
 

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Capitolo 22
*** Silenzio ***


Quando il silenzio era finito, allora era iniziato il ronzio. Era strano rendersi conto di quanto il silenzio, che tanto lo aveva spaventato la notte precedente, potesse essere un sollievo. Ora non c’era riposo, non c’era tregua da quel nervoso ronzio che lo perseguitava. I suoni, fossero voci, rumori o musica, era disturbati da quella frequenza che, era sicuro, esisteva solo nella sua testa.
Il silenzio era tornato il giorno dopo ancora. Da lì in poi tornò a desiderare il ronzio. Sebbene quel costante rumore nelle orecchie gli avesse reso difficile formulare pensieri, ora il nulla, l’oceano bianco del silenzio, lo lasciava vuoto e sfinito. Tutto era come ovattato, mentre John si aggirava come un fantasma. Il silenzio non era, si rese conto, all’esterno.
Questo durò diverso tempo. Il tempo sufficiente per assistere al maledetto funerale. Quello che avrebbe preferito non vedere mai in vita sua.
Fu tutto molto formale e pulito. Semplice, veloce. Funzionale. Sherlock avrebbe approvato di sicuro.
La maggior parte dei presenti erano o della polizia o Creature. Alcuni individui che dovevano essere stati dei clienti che avevano “salvato” se ne stavano verso il centro della sala. Tutta la parte in fondo era occupata da Creature. Guardie? Probabile, visto che John era lì. Mycroft doveva avere ancora un po’ di considerazione per l’amore di suo fratello.
Sembrava surreale. A John non sembrava di camminare sulla terra. Non si sentiva correttamente connesso con il mondo esterno. Qualcosa non funzionava. A volte aveva difficoltà a capire cosa gli si stava dicendo, a restare concentrato, ad accorgersi delle persone che gli camminavano accanto. Si muoveva in trance, ed era come se la nebbia gli avesse colmato il cranio e offuscato i sensi.
Mycroft non si era presentato al funerale, ma John credeva di averlo intravisto in lontananza più tardi, al cimitero.
E tornò a casa. La casa vuota.
Perché era vuota, vero? Come aveva potuto abitare lì solo per tutto quel tempo, prima di condividerla con qualcuno? Solo l’idea gli pareva ora insostenibile.
Quella notte, quando si svegliò di soprassalto alle tre del mattino, il silenzio nella sua mente cessò. Fu allora che iniziarono le grida. Non un suono vero e proprio, ma uno stridio lancinante, un lamento, che era della stessa natura del silenzio. Solo in lui.
Niente, di colpo, fu più ovattato o nebbioso. La stanza era anzi fin troppo reale per lui. I colori erano troppo scuri, il filo di luce che scivolava lì dentro da sotto la tenda troppo lancinante, e si ritrovò a rivolere il silenzio indietro un’altra volta.
Ma le grida, quelle che non erano un vero suono, che erano solo nella sua testa, non si fermarono. Non sul serio. Invece continuarono, per settimane, ed aveva l’impressione talvolta che qualcuno riuscisse a sentirle di tanto in tanto, ed allora lo guardavano in quel modo che non sopportava. Lo guardavano con pena, con tristezza, e gli veniva voglia di vomitare.
Ogni tanto scorgeva Mycroft, in giro. Lo controllava? Probabile. Ma mai gli aveva rivolto la parola. Lo guardava anche lui in quel modo, ma forse in lui c’era un filo di comprensione.
Oh, e non dimentichiamoci della polizia! Ad un certo punto erano riusciti a trovare prova che le prove precedenti erano totalmente invalide e false. Un filo troppo tardi, ma cosa si poteva pretendere da loro! pensava John senza nemmeno fingere di non essere sarcastico. Lestrade perlomeno sembrava sinceramente in colpa per aver dato corda ai colleghi. Il veleno non faceva parte della personalità di Greg.
Però vederli, vedere quelle persone, era sempre insopportabile. Pensandoci bene, vedere le persone era insopportabile. Vedere la gente sorridere, girare le strade per mano. A volte, quando doveva vedere tutto ciò troppo a lungo, tornava a casa di corsa e si chiudeva in camera. Dopo qualche minuto le grida e i singhiozzi non erano più solo nella sua testa.
Continuava a non sapere cosa fosse successo in quel giorno. In quel giorno terribile.

Passò un mese.
Riuscì a tornare a lavorare in clinica senza perdere il controllo o estraniarsi d’improvviso. Le grida si erano nel frattempo trasformate in un pulsare acuto. Non era affatto meglio. Talvolta quel pulsare era al petto, talvolta allo stomaco, ma spesso, la notte, arrivava fino alla gola e agli occhi, e rendeva la realtà insostenibile. Poi affondava il viso nel cuscino, e piangeva fino ad addormentarsi.
Mycroft appariva meno spesso, e più nervoso del primo periodo. Quasi agitato, spesso al telefono. Ora osava incrociare lo sguardo con il suo invece che limitarsi a tenerlo d’occhio.
John aveva chiuso a chiave la stanza di Sherlock. Non ci aveva più messo piede. Aveva il dubbio che la signora Hudson ogni tanto ci entrasse, ma non aveva ancora nessuna prova per questo.
Dopo due mesi dormiva meglio, ma il dolore non dava segni di cessare. Sognava occhi cangianti, riccioli neri e pelle color crema. Mycroft, invece, non lo scorgeva quasi più.

Fu dopo quattro mesi che accadde qualcosa di rilevante.
Successe che gli attacchi delle Creature agli umani, già prima più rari che nei tempi precedenti, erano cessati. Non sapevano perché, ma smisero di trovare i corpi. Che fosse successo loro qualcosa o avessero trovato altri modi per nutrire le loro Estensioni, John non poteva immaginarlo. Ma poco gli importava, a differenza del resto della città.
Però era indiscutibilmente un evento per tutti i cittadini. Andavano in giro la notte con un pericolo in meno da temere. Non dovevano più preoccuparsi di capire se era con un umano o un essere sovrannaturale che parlavano.
Illusi. Probabilmente parlavano di continuo con delle Creature, semplicemente non lo sapevano e le immaginavano tutte sparite.
Fu a quel punto che Mycroft tornò a farsi vedere in giro. E con un’aria indecentemente soddisfatta. John era certo, assolutamente sicuro, che lui fosse in qualche modo responsabile. Ciononostante, non gli aveva ancora parlato una singola volta, né gli era stato fatto sapere cos’era successo quel giorno di quattro mesi prima.
E il dolore continuava a perseguitarlo.

Due anni.
Non era stato semplice. Immaginavano che il Ragno, che Moriarty, avrebbe cercato uno scontro aperto prima o poi. L’assedio era un gioco di menti che apprezzavano entrambi, ma non poteva durare in eterno. Un punto era in loro favore: la fazione di sotto dipendeva totalmente dal suo sovrano assoluto. Morto lui, bastava trovare il filo principale della tela e tirare perché tutta la trama si disfacesse.
Era morto, James Moriarty? Sì, lo era indiscutibilmente. Com’era morto? Con un inganno. Era morto perché aveva creduto di aver reso gli avversari impotenti, e non aveva pensato che anche loro fossero in grado di mentire, di ingannare lui come lui aveva ingannato loro. Era intelligente, lo era davvero. Ma due cervelli Holmes lo erano di più.
Alla fine si era ucciso. Pensava che così facendo li avrebbe fermati, che non avrebbero avuto le informazioni che possedeva sulla sua fazione, che non sarebbero riusciti a liberarsi dalla polizia. Purtroppo, i suoi sottoposti erano ancora più stupidi di quanto lui credesse, e un filo da tirare gli Holmes lo trovarono. Ebbero informazioni, e molto più.
Poi, proseguirono a reclutarli o eliminarli. Dal primo all’ultimo, fino a che nessuna Creatura dell’intera città rimase fuori dall’influenza di Mycroft Holmes.

Necessario. Era una parola terrificante sotto molti punti di vista.
Necessario. Qualcosa che va fatto assolutamente, sennò è il deperimento o la distruzione. E che in ogni caso porta con sé un prezzo. Nel suo caso questo prezzo era stato il tempo. Non rimpiangeva la menzogna, e l’inganno non gli era estraneo. Ma il tempo, quello era ciò che lo rodeva dall’interno.
Mesi, e mesi ancora. Mesi a rintracciare tutte le Creature che erano state associate con il Ragno, James Moriarty, e che si erano disseminate ovunque dopo la notizia della sua morte. E lui li aveva cercati. Rintracciati. Resi inoffensivi. Necessario.
Non dormiva da giorni, e a malapena si reggeva in piedi. Ancora qualche ora e non avrebbe retto. Aveva terminato l’ultimo dovere giusto in tempo per non collassare. Di sicuro non aveva un odore gradevole, dopo tutti quei giorni. Le mani, doloranti e sanguinanti, erano un vero e proprio macello. Inoltre non ripiegava le Estensioni da molte ore, e sapeva che richiudere le ali e far sparire quelle inquietanti iridi cangianti sarebbe stato difficile. Come far rilassare un muscolo che è al lavoro da diverse ore.
Mycroft l’aveva intercettato poco fa, e riportato in uno dei loro luoghi sicuri. Non che ci fosse più alcun pericolo urgente, ma la sicurezza non era mai troppa. Ora non desiderava che lavarsi di dosso sudore, sangue e polvere, e poi dormire per una settimana intera.
Riuscì in qualche modo a non addormentarsi nel bel mezzo della doccia, e a trascinarsi fino al letto. Si addormentò per qualche ora, e al suo risveglio scoprì che le ali avevano iniziato a ripiegarsi per conto proprio. Inoltre, c’erano alcuni messaggi da parte di Mycroft.

23.45 Congratulazioni per aver terminato. Possiamo iniziare la reintegrazione di tutti gli ex membri della fazione di sotto nella nuova Organizzazione. Tieniti pronto a tornare. MH

01.32 Stiamo tornando a controllare John Watson. Sto elaborando il migliore modo per riallacciare i rapporti. Non fare casino. MH

03.21 Verremo a prenderti alle undici di questa mattina. Fatti trovare nella casa, se non pronto. MH

Ora erano le cinque del mattino. Aveva approssimativamente sei ore per dormire ancora un po’ e prepararsi al viaggio di ritorno. Inseguire quelle Creature non era stato un gioco, molti erano fuggiti a gambe levate fuori dall’isola britannica. Non vedeva l’ora di mettere piede di nuovo nella sua città.
Riuscì a chiudere gli occhi per qualche ora. In quel poco tempo che aveva, sognò il volto sorridente e pacato di John, la sua espressione allibita con quel tocco di sarcasmo ed esasperazione quando non Sherlock non ascoltava i suoi consigli e si metteva ripetutamente in pericolo per questo, la ruga di preoccupazione sulla sua fronte, e i suoi occhi grigi e blu.
Mycroft si fece vedere non un minuto di più e non uno di meno rispetto all'orario che gli aveva comunicato. In condizioni normali Sherlock sarebbe stato pronto a muoversi già da ore, ma come mai gli era successo da molti anni quel giorno si sentiva stanco, terribilmente stanco. Era pronto a partire per Londra a malapena.
Scoprì piacevolmente che in sua assenza non era cambiata. Gli stessi colori fuligginosi con qualche sprazzo di rosso dovuto agli autobus e alle cabine telefoniche. Non gli sembrava nemmeno che fossero passati già due anni. Non appena mise di nuovo piede in quella città, fu a casa, come fosse passato solo qualche giorno.
Quasi a casa si ritrovò a pensare, chiedendosi cosa avrebbe trovato se, in quel momento, fosse entrato in Baker Street. John era ancora lì? Oppure aveva cambiato residenza? Non che avesse ragione di rimanere in un luogo colmo di ricordi dolorosi, pensò. Lui era morto. Probabilmente avrebbe trovato polvere e tarme. Forse non si era nemmeno preso le sue cose. Per qualche ragione non se la sentiva di chiedere a suo fratello. Gli era bastato sapere che John fosse al sicuro.

Mycroft lo portò in quello che immaginò fosse il suo nuovo ufficio. Non molto diverso da quello precedente, ad essere sinceri, ma decisamente più ampio. Mai che perdesse l'occasione per perseguire le proprie ambizioni, il maggiore.
- Sgranchisciti le ali, mi sono procurato una sufficiente quantità di siero perché tu possa rinvigorire le tue Estensoni. Nuova formula, prima che tu me lo chieda. - anche Mycroft, come Londra, era rimasto tale e quale. Sia d'aspetto che nel suo modo di parlare. Non era necessariamente un bene. Sperava che avesse perso almeno un pizzico di quel suo tono altezzoso, ma d'altronde non si può chiedere miracoli.

A due anni da quel maledetto giorno, John aveva già abbandonato Baker Street da un pezzo. Quel luogo gli era diventato claustrofobico, e non poteva guardare un granello di polvere posarsi su un mobile senza pensare a tutte le volte che quello stesso mobile era stato toccato dal deceduto detective. Quando si rese conto di non essere in grado di andare avanti in quel modo, prese tutto il coraggio che gli era rimasto e se ne andò. Non troppo lontano, ma sufficientemente da non riconoscere ogni filo di vento, ogni mattonella come parte dei suoi ricordi con Sherlock.
Non fu facile. Dovette abbandonare lì tutte le attrezzature scientifiche di cui non solo non sapeva cosa farsi, ma che anche non sapeva dove mettere nel suo nuovo e più piccolo appartamento. Portò con sé solo qualche piccolo ricordo, tanto per non sentirsi troppo codardo o troppo stronzo. E dovette ammettere che da quando si spostò le cose migliorarono. Non che quell'acuta fitta al petto se ne fosse andata, no, ma divenne più facile ignorarla. Divenne più facile tenere i ricordi lontani per qualche ora, invece che esserne sommerso giorno e notte. Per lui era già più che sufficiente.
Aveva conosciuto delle persone, nel frattempo. Colleghi, frequentatori degli stessi luoghi, e cose del genere.
Aveva anche fatto la conoscenza di una donna, Mary Morstan, che sembrava interessata a lui. Per quanto lei gli piacesse, non riusciva a sentire quella scintilla, né tanto meno a far sparire Sherlock dalla sua testa. Rimasero comunque ottimi amici, John e Mary. Era un’ottima persona a cui poteva chiedere consiglio o sostegno per molte cose, ed era brillante e divertente. Persino Sherlock l’avrebbe apprezzata.
John non ne aveva mai fatto cenno a lei, ma da come le sue pupille talvolta sembravano cambiare forma e le sue unghie affilarsi di punto in bianco, lui sospettava che anche lei fosse una Creatura.
Comunque, dopo due anni da quel giorno, trovò la forza di tornare a quello che fu il ‘loro’ appartamento per vedere la signora Hudson. Si sentiva meschino a non aver nemmeno chiamato da quando aveva cambiato casa, ma non aveva avuto il coraggio di affrontare lei e la sua compassione. Si era sentito già abbastanza miserabile com’era.
Fuori dalla porta, poco prima di suonare il campanello, si sentì a disagio. Con la coda dell’occhio intravide un ombrello scuro che tamburellava sul suolo vicino a delle scarpe eleganti. Non perse neanche tempo a verificare se fosse Mycroft: sapeva che era lui. Era sempre lui.
Quando la signora lo accolse, fu dapprima imbarazzante. Lei lo fece entrare e gli preparò il tè, come se fosse passato solo un giorno. Lo fece accomodare nella cucina del proprio appartamento.
- Non è stato per niente cortese da parte vostra sparire per tutto questo tempo. - lo rimproverò affettuosamente la signora Hudson. - Potevate almeno telefonare! -
- Lo so. Volevo farlo, all’inizio, ma non riuscivo a ripensare a questo posto senza star male. Dopo, è diventato sempre più difficile pensare di sollevare la cornetta. - Lei non era cambiata, osservò il dottore. Era sempre la solita adottabile vecchietta dall’aspetto caloroso che non dava nemmeno ad immaginare quanto poco ordinaria fosse stata la sua vita.
- Non fa sempre bene, fuggire. - ribatté la signora. - Volete vedere di sopra? È rimasto tutto come l’avevate lasciato. - John acconsentì.
Le parole della donna erano state veritiere: nulla pareva esser stato toccato da più di un anno. C’era un velo di polvere su ogni cosa, l’aria stessa ne era pregna. A John parve stranamente appropriato.
C’erano ancora attrezzature scientifiche negli scatoloni, qualche tazza abbandonata come se Sherlock fosse stato ancora lì. Vedere questo posto fece male, ma John ormai ci si era quasi abituato.
Ricordò, il dottore, che era stato lui stesso a non toccare nulla per settimane, dopo il funerale. Aveva vissuto come in un museo, quasi spaventato all’idea di cancellare le tracce dell’esistenza di Sherlock Holmes.
Si sedette su quella che un tempo fu la poltrona del detective sollevando una nuvola di polvere. Guardando le stanze da lì, da dove era stato lui, sentì il peso che aveva tenuto nel petto per due anni farsi più pressante. La fitta che aveva provato ad ignorare tornò a farsi sentire prepotentemente mentre lacrime calde gli infiammavano il viso.
Faceva male, un male terribile, e tra i singhiozzi e gli abbracci della signora Hudson si ritrovò a pensare disperatamente che non poteva continuare così. Non senza di lui.
Quando, ore dopo, uscì dal palazzo, Mycroft era lì fuori.
John lo ignorò, dapprima, e fece per oltrepassarlo salutandolo con un cenno del capo. Non riuscì a farlo, disgraziatamente, perché l’uomo aveva parato l’ombrello di fronte a Watson con un movimento del polso appena accennato.
- Salve, dottor Watson. - fece questi con nonchalance. John si sentì fortemente infastidito. Forse arrabbiato. Mesi, per mesi Mycroft l’aveva osservato senza dirgli nulla, come se lui fosse stato un estraneo, come se non fosse stato il compagno di suo fratello. E tornava a parlargli con quella solita e insopportabile indifferenza, con quel tono sul filo del sarcasmo e quell’aria di sufficienza e superiorità. Se non avesse avuto di meglio da fare gli sarebbe piaciuto dargli un paio di pugni in faccia, tanto per far sparire quel tono altezzoso.
- Mycroft. Vedo che torni a comunicare con me. È bello vedere che non sono del tutto invisibile anche senza Sherlock – Mycroft strinse le labbra a quel commento, ma non ribatté. Strano.
- C’è una questione che sarebbe bene discutere il prima possibile. Immediatamente sarebbe l’ideale. Ed avete fatto bene a tirare in ballo mio fratello. -
poi Mycroft gli disse una cosa, tre parole soltanto. Bastarono a spingere John a seguire il più vecchio degli Holmes.


Per un po Sherlock aveva contemplato l’idea di non dire a John del loro inganno, di lasciare che ricostruisse la propria vita lontano da quel disastro che era la famiglia Holmes. Era dolorosamente consapevole di quanto lo avrebbe fatto soffrire scoprire di essere stato preso in giro da lui per quegli ultimi due anni, e amava John. Se ci fosse stata la possibilità di risparmiargli tutto questo, l’avrebbe fatto.
Probabilmente, ai tempi in cui si erano conosciuti, cose come il comprendere ed empatizzare con qualcun altro sarebbero state impossibili per lui. Prova di quanto la compagnia di John l’avesse cambiato.
Comunque, aveva successivamente cestinato l’idea. Se pensare di ferire John un’altra volta era orribile, essere disonesto al punto da lasciargli vivere una menzogna sarebbe stato insopportabile.
Mycroft quel giorno era uscito dicendo di avere una faccenda da sbrigare e raccomandandogli di riposare. Stranamente premuroso da parte sua. Sherlock pensava che stesse facendo qualcosa alle sue spalle. Irrilevante. Allontanò il pensiero dalla mente: non voleva passare i primi giorni del suo ritorno a Londra pensando a Mycroft.
Qualche ora dopo capì che invece avrebbe dovuto pensarci eccome, che suo fratello si sarebbe senza dubbio occupato di ciò che temeva Sherlock avrebbe cercato di evitare.
E siccome aveva accennato a lui l’opinione di mantenere il segreto, ore prima, non avrebbe dovuto stupirsi nel vederlo rientrare con a seguirlo un John Watson molto cupo e corrucciato.
Invece, ciononostante, lo fece. O meglio, per una manciata di secondi gli sembrò che gli si fosse fermato il battito cardiaco.
- John? - disse con voce incerta, mentre suo fratello si toglieva dal disturbo con un mezzo sorrisetto.
Dopo averlo fissato in modo strano per una manciata di secondi, il dottore infine aprì bocca.
- Sherlock. -












Note:
Lo so, lo so. E' passato più di un anno dall'ultimo aggiornamento, mi dispiace.
Che dire? Ho iniziato l'università, poi ho cominciato a studiare per la patente, e tra esami, esercitazioni e occasionali attacchi d'ansia ho trovato poco tempo e poca motivazione a scrivere. Alla fine, dopo mesi e mesi, sono riuscita a superare un brutto periodo di stress e riprendere la scrittura.
La storia, in ogni caso, si avvicina alla fine. Non credo che ci saranno più di uno o due capitoli dopo quello corrente.
Come sempre, spero di non aver deluso nessuno e che questa storia continui a piacere ai lettori.
Kisses

Sofyflora98

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Capitolo 23
*** Stupore ***


- Sherlock. –

Stupefacente come una parole possa riassumere cosi molto. Stupore, incredulità. Il mio amore è vivo.

Sherlock.

Mycroft mi ha detto tutto. So come avete fatto a uccidere il Ragno.

Sherlock.

Hai finto la tua morte. Mi hai abbandonato. Come hai potuto?

Sherlock.

Il detective voleva tanto distogliere lo sguardo, ma sapeva che se l’avesse fatto sarebbe stata la fine, ammissione di colpevolezza. John non gli avrebbe nemmeno più rivolto la parola, e ora che lo vedeva di nuovo desiderava tanto sentire la sua voce. Lo desiderava più di ogni altra cosa. Non osava però aprir bocca, per timore di dire qualcosa di indesiderato che avrebbe fatto fuggire o imbestialire il compagno.

Il dolore, il tradimento che leggeva nei suoi occhi erano puti e grezzi, quasi taglienti nel loro essere privi di alcun tentativo di essere celati.

Alla fine fu il dottore a parlare per primo.

- Quindi – esordì con un filo di voce. Cercò di ricomporsi quando si sentì, e si schiarì la gola. – Quindi, eccoti qui. Vivo. –

Il suo respiro era irregolare, e gli tremavano le mani e le labbra. Per qualche strano impulso Sherlock pensò che le sue parole avrebbero potuto farlo cadere in pezzi, se avesse commesso qualche errore nel pronunciarle. Pur cercando freneticamente nel suo palazzo mentale, non trovò nulla di meglio da dire di un ridicolo monosillabo.

- Già. – mormorò con un debole sorriso che non raggiungeva i suoi occhi e che a malapena riuscì a mantenere per qualche secondo, fino a che non vide John inspirare profondamente e stringere i pugni.

A lungo stette in silenzio, in piedi, e con lo scorrere dei minuti il suo sguardo si faceva da sconvolto e arrabbiato a via via cupamente malinconico. C’erano anche delusione e confusione, in quegli occhi che Sherlock aveva così cari, e questo fece male più di ogni cosa.

- Dammi un minuto. – disse di punto in bianco John.

Con grande sorpresa del detective, John gli si avvicino cautamente e si sedette solo qualche decina di centimetri da lui.

- Non mi interessa sapere come hai fatto ad ingannarci. –

Batteva ripetutamente le ciglia, quasi in modo nervoso, le sue mani non parevano in gradi star ferme. Si stringevano e rilassavano, prima l’una sull’altra, poi separate, poi intrecciate tra loro, spasmodicamente. Sherlock teneva le proprie immobili, ai lati del proprio corpo. Tutte le sue membra erano come congelate al loro posto.

- Una cosa però devi dirmela, Sherlock. – continuò il dottore, e si voltò a guardarlo. – Devi dirmi il perché. Questo me lo devi. Mi hai lasciato a piangerti da solo. Voglio sapere se ne è valsa la pensa. –

 

Perché. Questo era ciò che temeva, questa domanda.

Se fosse stato solo per John, certo che ne era valsa la pensa. Per il bene di John valeva la pena fare qualsiasi cose. Ma cosa avrebbe pensato Watson? Non credeva che per lui sarebbe stato lo stesso, che avrebbe dato alla propria vita lo stesso valore che le dava Sherlock.

D’altronde, se John fosse stato al suo posto e le situazioni fossero state invertite, Sherlock stesso probabilmente avrebbe considerato assurde e dolorose le sue azioni. Avrebbe anche lui preteso delle spiegazioni.

Sotto lo sguardo d’attesa del compagno si sentiva esposto, privo di armatura.

Iniziare a parlare, sebbene avesse preparato ciò che voleva dire sin dal giorno in cui era sparito, fu atroce. La lingua non voleva scollarglisi dal palato, secca e impastata com’era.

- Non sapevo cos’altro fare. – riuscì infine a dire a mezza voce, incapace di incrociare ancora lo sguardo di John. Una volta uscite le prime parole, quelle successive fluirono con meno intoppi, ma il silenzio vibrante che calava quando taceva gli metteva una sorta di ansiosa trepidazione e inquietudine. Sentiva John che accettava le sue spiegazioni, sentiva sempre John che le rifiutava e che diceva di non voler più avere a che fare con lui. Poteva sentire ogni risposta che avrebbe potuto dare, contemporaneamente, ed era terrificante.

- Qualsiasi azione avessi fatto per fermarlo, la tua vita sarebbe stata troppo soggetta a possibili attacchi. Non ti avrebbero lasciato vivere dopo la morte del loro leader, a meno che la tua uccisione non fosse stata inutile. Senza Holmes in circolazione non avrebbe avuto significato, perché la tua morte non avrebbe ferito nessuno dei loro nemici. Da morto ho potuto fare la caccia ai membri della fazione di sotto sparsi per il paese, convincere alcuni di loro a passare sotto le direttive di Mycroft o allontanarsi e cessare le loro azioni violente contro gli esseri umani. Senza il loro capo, non c’era più la forza di opporre resistenza. –

John nel frattempo si era portato le mani alle tempie e le massaggiava con lentezza.

- Sherlock. – lo interruppe. – Non voglio sapere perché hai ingannato loro. voglio sapere perché hai ingannato me. Perché non mi hai coinvolto in questa tua messinscena? –

Perché, perché.

Il silenzio continuo ancora un minuto infinito prima che Sherlock parlasse ancora.

 

 

 

- Per non rischiare. – borbottò John alla signora Hudson.

Non era passata più di un’ora da quando era uscita mezzo stranito da quella dannata stanza. Si era trovato la signora di fronte poco dopo aver messo fuori piede. Naturale che Mycroft l’avesse chiamata, non poteva certo lasciarla all’oscuro di tutto.

Ripensandoci, probabilmente lei era sempre stata a conoscenza di tutto. John non aveva voglia di saperlo, comunque.

- Per non rischiare, capisce? – sbottò ancora. – Rischiare cosa? Che io lo dicessi a qualcuno? Si fida così poco di me? –

La donna gli rivolse uno sguardo preoccupato che con sbigottimento del dottore rivelava anche una nota di dubbio.

- Pensa che abbia ragione. Sul serio? – le chiese con gli occhi sgranati mentre gli veniva versata una tazza di tè bollente.

- Beh, non si offenda, ma lei non è certo così indiscreto. Ognuno ha le proprie pecche, caro. –

La verità nella sentenza della signora forse gli bruciò ancora di più dell’inganno. In fondo sapeva che era stata la scelta più razionale da parte del detective. Sapeva anche che a situazioni invertite avrebbe probabilmente fatto lo stesso.

Sei frustrato, si disse. Sei solo frustrato. Speravi che per te avrebbe fatto l’atto irrazionale, che ti avrebbe messo a parte di ogni cosa, o che ti avrebbe portato con sé. Ma indovina? È di quella persona che ti sei innamorato, non di qualcun altro. Sapevi benissimo com’è lui. Non cambierà certo per soddisfare il tuo ego, proprio come non lo farai tu.

A questo pensava ancora ore dopo, con gli occhi spalancati sul soffitto della sua camera e nessun segnale che si sarebbe addormentato di lì a breve.

Fu dopo un’infinità di minuti o ore passate a contemplare una crepa che si stagliava sull’intonaco sopra di lui che arrivò alla conclusione che non ce l’avrebbe fatta.

A fare cosa? Ad allontanarsi da Sherlock, a rifiutare il suo ritorno?

A che scopo? Se si trattava di orgoglio o rabbia non sarebbe durata molto comunque. Sherlock, sotto quel punto di vista, l’avrebbe sempre avuto vinta.

Quasi si detestava per la sua debolezza. Il fatto che non era mai riuscito a tenergli testa era stato quanto mai più odioso in passato. La pensava ancora così, forse.

Stava mentendo a se stesso, spudoratamente pure. Non era passato nemmeno un giorno che già aveva accettato il suo “ritorno in vita” in tutta la sua naturalezza, e si preoccupava della presunta offesa più di ciò che avrebbe più di tutto dovuto sconvolgerlo. Forse in cuor suo sapeva che non poteva essere semplicemente morto così, oppure era ormai troppo abituato ai modi di Sherlock da stupirsi.

Ora che era tornato non l’avrebbe lasciato andare come se niente fosse, Sherlock aveva sempre ciò che voleva. Sherlock avrebbe fatto tutto ciò che la sua mente geniale sarebbe riuscita a concepire per averlo di nuovo al proprio fianco. Sarebbe stato così, alla fine, nonostante Sherlock era sembrato molto incline a lasciarlo andare.

Forse si sbagliava e davvero Sherlock non credeva che John l’avrebbe mai voluto nella propria vita nuovamente. Eppure, nonostante tutto ciò che aveva detto di fronte alla signora Hudson, John desiderava che tutto tornasse come prima. O magari simile a prima.

Ogni fibra del suo corpo gli gridava di tornare da Sherlock, ma gli sussurrava anche che non avrebbe fatto male se avesse deciso di lasciarlo sulle spine, da restituire un pizzico di ciò che aveva subito.

Una mente stanca e provata gioca brutti scherzi e fa pensare ciò che in condizioni normali non avrebbe mai contemplato, e questo John avrebbe dovuto saperlo. O per meglio dire, lo sapeva molto bene, ma per l’appunto la confusione e la stanchezza resero gradevole contemplare per qualche minuto l’idea di far attendere Sherlock almeno qualche giorno.

Se avesse tirato la corda solo un pochino, solo un pochino, si sarebbe sentito soddisfatto almeno un po’.

La luce nella sua mente si spense gradualmente mentre mormorava queste parole tra sé.

 

 

 

Si svegliò attanagliato dai sensi di colpa. Sorprendente quanto poco possano durare le idee nate da un cuore offeso, stanco e frustrato, seppur almeno in parte giustificate. Chissà quante cattive decisioni si potrebbero evitare se solo tutti avessero otto ore di sonno a dar loro il tempo di cambiare idea.

Non che fosse così drastico ciò che il sonno aveva capovolto nella testa di John. Solo, non gli sembrava più una grande soluzione quella di tirare la corda e restituire a Sherlock ciò che aveva sofferto durante la sua assenza. Sei davvero così infantile? Per l’amor del cielo, sei stato un soldato”

Fece colazione e si lavò in tutta calma, temendo che se solo si fosse mosso più in fretta avrebbe risvegliato la frustrazione e l’amarezza del giorno prima.

Fu sul punto di imprecare ad alta voce nel vedere trentacinque messaggi non letti, tutti dallo stesso mittente. Il numero era sconosciuto, ma letto il primo non ebbe dubbi su chi fosse.

Lesse uno dopo l’altro i messaggi inviati da SH, che via via si facevano più imploranti. I suoi propositi di lasciarlo a bollire nel suo brodo per qualche tempo ancora erano stati inutili, e fu nel leggere le parole dell’altro che si infransero completamente. gli chiedeva di perdonarlo. Gli chiedeva se voleva vederlo ancora o non aveva più intenzione di parlargli.

Al diavolo. Corse a prendere la giacca come se qualcuno lo inseguisse.

Dopo tutto quel tempo, c’era un solo posto dove voleva essere. Non aveva importanza che Sherlock gli avesse mentito, non aveva importanza alcun tipo di orgoglio o vendetta. Seppe che lo stesso pensava Sherlock quando, mentre si precipitava fuori di casa, un trentaseiesimo messaggio fece accendere lo schermo del suo telefono.

“Non vorrai parlarmi, e avresti ragione. Io però ho bisogno di parlarti ancora. Sarò da te entro due ore, qualunque cosa succeda. SH”

Due ore? John sarebbe stato lì molto prima che mettesse piede fuori dalla porta del rifugio di Mycroft.

Prendendo la metro non gli ci sarebbero voluti più di venti minuti ad arrivare in zona, e poi altri dieci minuti a piedi. Forse meno, se avesse corso e non avesse trovato ostacoli.

Percorse il tragitto in stato quasi febbrile, il corpo che tremava in preda ad un’improvvisa eccitazione. Era come se tutte le emozioni, la gioia e l’incredulità che non si erano fatte sentire così molto il giorno prima fossero piombate su di lui d’un botto.

Era stato il messaggio, quell’ultimo messaggio. Il modo in cui Sherlock lo tempestava di messaggi e richieste, e il modo in cui decideva di agire senza chiedergli nulla lo avevano riportato bruscamente alla realtà. E la realtà, quella che contava davvero, non era quella di un inganno costruito a tavolino, ma quella del ritorno, della vita che pensava fosse andata perduta, e che invece poteva toccare con mano di nuovo.

Percorse gli ultimi minuti di corsa, senza quasi vedere le persone che gli passavano accanto. Quando intravide l’edificio in cui gli Holmes avevano il loro rifugio, si rese conto che non sentiva nemmeno stanchezza per lo sforzo.

Mycroft ovviamente sapeva, sapeva ogni cosa che ognuno di loro due aveva fatto e pensato, quando John giunse trafelato, il più anziano era già pronto ad aprirgli la porta, un sorriso compiaciuto stampato in faccia.

- Te l’avevo detto, fratellino. – disse con una nota divertita nella voce. – Ti avevo detto che non c’era nessun bisogno che ti preparassi per uscire. Sarebbe arrivato lui in ogni caso. –

John rivolse lo sguardo all’uomo che stava oltre le spalle di Mycroft.

Sherlock non rideva, non era compiaciuto, neppure soddisfatto. Mentre l’umano di avvicinava alla Creatura, questi pareva piuttosto meravigliato. Non proferiva parola, cosa che avrebbe dovuto far preoccupare Watson. Un Holmes che non parlava non era certo cosa comune.

- Eccomi, Sherlock. – disse semplicemente John.

Sherlock, però, ancora non si muoveva. Era come in attesa, in dubbio. Certo che lo era, come poteva essere altrimenti?

Doveva essere lui a muoversi, lo capì nel vedere l’espressione incerta di Sherlock. Se fosse stato John a toccarlo, sarebbe stato tutto a posto. Avrebbe significate che era disposto a riaccoglierlo. Era molto semplice, il modo in Sherlock ragionava, a volte. C’era sempre una logica, che fosse una logica scientifica o infantile e ingenua.

Gli sfiorò la mano, con la punta delle dita. La punta soltanto, e per pochi istanti. Quel minimo contatto, però, fece visibilmente distendere il detective. Si azzardò ad afferrargli la mano con più forza, e l’uomo più giovane ricambiò con evidente sollievo. Era finita, forse. O il contrario.

- Sono qui, sono qui. – mormorò piano John, e avvolse con delicatezza le braccia attorno al suo amato.

Fu Sherlock a stringerlo, stavolta, e il suo respiro era irregolare e spezzato.

- Sì, lo so. – sussurrò contro l’orecchio di John. – E io sono tornato. -

 

 

 

 

 

 

Baker Street, di nuovo, è abitata da due uomini. Un detective ed un ex medico militare. Una Creatura ad un umano.

La ricomparsa si Holmes fece scalpore, ma i cittadini furono meno sorpresi di quanto ci si sarebbe aspettato.

- D’altronde – diceva la vicina di casa. – Lui è Sherlock Holmes Trova sempre un modo. –

 

 

 

 

 

- FINE -

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