Neverville di Amantea (/viewuser.php?uid=830056)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** -1- Tutto quello che ho ***
Capitolo 2: *** -2- ***
Capitolo 3: *** -3- ***
Capitolo 4: *** -4- ***
Capitolo 5: *** -5- Tutto quello che sono. ***
Capitolo 6: *** -6- ***
Capitolo 7: *** -7- ***
Capitolo 8: *** -8- ***
Capitolo 9: *** -9- Tutto quello che voglio ***
Capitolo 10: *** -10- ***
Capitolo 11: *** -11- ***
Capitolo 12: *** -12- ***
Capitolo 1 *** -1- Tutto quello che ho ***
Neverville
NEVERVILLE
-1-
Tutto quello che ho
Un uomo legge il
giornale seduto all'interno della sua automobile, ogni mattina.
Una donna anziana non
mette mai il cappotto, nemmeno nelle mattine d'inverno più
fredde.
Mia madre mi tiene per
mano mentre camminiamo spedite, è presto, ma non poi
così presto, me lo ripete, dolcemente, mentre mi tira un
po', lungo la salita, che è faticosa per le mie gambette
muscolose ma corte, rispetto alle sue. Mia madre ha lunghe gambe, dalla
falcata decisa, e un poco nervosa.
Salutiamo i passanti,
pochi in verità, perché qui, a Neverville, come
le sento ripetere spesso, ci sono poche anime, e quasi tutte perdute.
Anche mia madre, forse,
è un'anima persa.
Cerca di non farmelo
vedere, perché io sono piccola, e i bambini hanno diritto
alla loro felicità, anche quando tutto, intorno a loro,
sembra gridare il contrario.
Così non mi
parla mai di mio padre, né del suo lavoro. Né
della fatica che deve fare, lei, così bella, abituata alle
grandi metropoli, a vivere in un pugno di casupole sparse su questa
collina, a ridosso del mare.
Con me è
dolce, e ride spesso. Mi tiene in braccio per farmi vedere come brilla,
all'orizzonte, il sole quando si adagia su quel filo d'acqua che
è il mare visto da quassù. E mi ripete che sono
fortunata a vivere in un posto dove la follia degli uomini sembra non
avere ancora attecchito.
Qui ci sono radici
antiche, e aria buona.
Qui saremo al sicuro, mi
ripete.
Me lo ripete spesso,
così tante volte che alla fine sembra crederci anche lei.
Io le credo,
è ovvio. Lei è mia madre. Ed è tutto
quello che ho.
- Mina!
E' il Capitano che mi chiama, ha il tono imperioso, come sempre.
Getto uno sguardo pigro e rapido all'orologio che troneggia sopra alla
mia brandina. Non che il tempo sulla Motherhead abbia
un qualche significato. E' un retaggio infantile, qualcosa che ci fa
sentire ancora essere umani, sebbene a una distanza incolmabile dalla
Terra. Ma per non impazzire del tutto il Capitano ha voluto che ci
fosse un ritmo nelle nostre giornate senza sole, e nelle nostre notti
senza luna. E allora, quell'orologio mi ricorda che è quasi
mezzogiorno, e che mi staranno sicuramente cercando per il pranzo, se
così si può chiamare il momento in cui ci
ritroviamo nella saletta azzurra per fare il punto della situazione.
- Minaaa!!!
Sorrido, alzandomi a sedere, poggiando a terra le punte degli stivali.
Potrebbe mandarmi a chiamare da qualcun altro, oppure farmi chiamare
semplicemente premendo un pulsante... invece ogni giorno è
così, si sgola per i corridoi per cercarmi. Credo che gli
piaccia il suono del mio nome. Credo che provi una sottile
soddisfazione a prendersi cura personalmente di me.
Quando la porta del mio piccolo abitacolo scompare nell'intercapedine
della parete me lo ritrovo davanti, il pugno ancora alzato.
I suoi begli occhi scuri si ammorbidiscono, prima della bocca.
- Mina, quante volte...
- Ho sentito -, ribatto. Mi sfugge un lieve sorriso anche a me. Mi
accorgo che mi sta guardando, forse un po' troppo. Un po' troppo
intensamente, per essere il mio Capitano.
- Dai, ti aspettano. Tutti, nella sala azzurra.
- Sì, arrivo.
La porta si richiude dietro di me. Lo seguo, seguo la sua
figura alta, fasciata nella tuta d'ordinanza. Potrebbe essere mio
padre, forse per quello si prende cura personalmente di me. Ormai sono
quattro mesi che viaggiamo nello spazio. Altrettanti ne mancano, prima
di raggiungere la nostra destinazione.
I nostri passi non fanno rumore lungo questi corridoi.
Quando finalmente entriamo nella saletta mi accorgo, in effetti, che
mancavo solo io.
Non amo molto questi momenti conviviali. Il mangiare insieme, se
così si può definire deglutire quello che
è stato predisposto per la nostra sopravvivenza,
è una scusa per fare gruppo. Lo sa bene chi ci ha mandato
quassù, in missione. La solitudine dello spazio ti entra
nelle vene, e te le spezza.
La ristrettezza degli spazi, l'aria finta che respiriamo, il buio che
ci inghiotte, il nulla in cui viaggiamo... basta poco per perdere il
senno.
Credo che qualcuno lo abbia già perso, in realtà,
o forse semplicemente è nato senza.
Mi riferisco a Jody, e lui lo sa, perché non perdo occasione
per dirgli che è pazzo. Lui mi ride contro, e di solito poi
rido anche io.
Ecco, credo che se non ci fosse lui mi sentirei un po' più
sola, quassù. Perché con le donne non ho legato
molto.
Se non ci fossero il Capitano, Jody, e Pete...
Ma Pete, è tutta un'altra storia.
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Capitolo 2 *** -2- ***
Neverville cap. 2
NEVERVILLE
-2-
Una vasca colma d'acqua
dolce, nascosta in una grotta.
Capelvenere a grondare
dalla roccia, come la goccia che ha creato queste concrezioni, e un'eco
sottile, lo scroscio dell'acqua.
Mia madre mi tiene per
mano, "Vieni", mi dice, "non aver paura".
La seguo, stando attenta
a non
scivolare sull'umidità che ricopre il terreno. In
realtà mi piacerebbe saltellare sui sassi che sporgono
appena
dal fango, come fossero i segni di un percorso segreto, ma mia madre mi
tiene
salda e stretta al suo fianco.
Quando mi affaccio al
bordo della vasca rimango incantata.
Dei grossi pesci, scuri
alcuni e
rossi altri, stanno nuotando in quell'acqua trasparente, smossa e dello
stesso colore delle pietre e del muschio che vedo sul fondo.
Piccoli filamenti di
alga fluttuano
lungo i bordi. E' lì che i pesci indugiano con la bocca e
poi
scattano veloci, come se sapessero che fermarsi può essere
pericoloso.
Eppure noi, mamma, ci
siamo fermate. Viviamo da anni in questo piccolo borgo.
E se nemmeno questi
pesci si sentono sicuri nella loro vasca, come possiamo
esserlo noi?
E' una domanda che ogni
tanto mi si affaccia alla mente, ma non la traduco in parole.
Mi fido di mia madre.
Del posto in cui mi ha portato.
Restiamo a guardare,
incantenate ai giochi di luce che fa l'acqua con se stessa, quando
rincorre le sue stesse piccole onde.
C'è quiete,
qui, e un poco di freddo.
Un'iscrizione sul muro
riporta a un tempo in cui i pellegrini passavano di qua, e si fermavano
a questa fonte.
" Se succedesse
qualcosa... Mina, guardami".
La sua voce,
all'improvviso, mi ferisce, è tesa, come poche volte l'ho
sentita.
"Se succedesse qualcosa,
tu devi venire qui, piccola mia... la strada la conosci. Pensi di
poterla ricordare?".
Annuisco, la strada la
conosco.
Scende per il bosco, dopo un piccolo bivio. Sì, la conosco
bene
mamma, saprei ritrovarla, ma cosa...
"Tu devi venire qui. Qui
c'è l'acqua, è un posto sicuro, dove non ti
verrebbero mai a cercare".
Non riesco a chiedere
oltre. Chi, mamma, chi potrebbe venire a cercarmi?
E che c'entra l'acqua...?
Da chi dovrei fuggire...?
Ma non chiedo nulla. Mi
bastano gli
occhi di mia madre. Un poco liquidi, come quell'acqua di fonte, mentre
mi bacia la testa, stringendomi forte al seno.
Jody sta ridendo e scherzando con una collega. Mi pare si chiami ... oh, non ne ho la
più pallida idea. Lo fa spesso, ultimamente.
Le si siede accanto, con una scusa, e poi gesticola, vistosamente, per
raccontare qualcosa.
E' incredibile la quantità di cose che escono da quella
bocca,
sempre ridente. Sai come inizia e non sai mai come andrà a
finire.
Anzi, di solito, a dirla tutta, finisce con lui che cerca, con
indifferenza, di
cingerle le spalle con un braccio, e lei che lo scansa, divertita. E'
un gioco antico, il loro.
Il Capitano chiude un occhio, su queste cose.
Purché
ognuno sia pronto ad eseguire gli ordini, quando necessario, e tutti
funzioni alla perfezione, sulla Motherhead,
quello che poi succede nelle proprie stanze non interessa a nessuno.
Non avrebbero scelto un equipaggio misto,
altrimenti, in spazi tutto sommato così angusti.
Pete mi fa cenno di sedere accanto a lui. Credo che l'abbia fatto fin
dal primo giorno che siamo saliti a bordo.
Gli altri mi guardavano con diffidenza, soprattutto le donne. Lui
invece non si è mai fatto problemi, della mia
diversità.
E allora accetto, anche stavolta. Non è poi un gran peso, lo
confesso.
Pete ha sempre un'aria rassicurante, un sorriso gentile. Non
si espone mai, rimane al suo posto, anche quando i suoi occhi
chiari si fanno densi e sembrerebbero far presagire tutto il contrario.
- Mancavi solo tu -, mi dice.
Annuisco, e il ciuffo che porto sulla fronte mi solletica un po' il
naso.
- Non mi piace molto questo momento -, confesso. Non è una
novità, temo lo sappia benissimo, senza che glielo ripeta
ogni giorno.
- Al Capitano piace vederci tutti insieme, credo lo inorgoglisca
l'idea...
l'idea che siamo un po' una famiglia -, mormora, la voce accosta al mio
orecchio, per non farsi udire dagli altri.
Mi piace la confidenza che mi riserva. Non ho fatto nulla per
incoraggiarla, ma è nata, spontanea, sin dalle prime volte.
E' una cosa di pelle, sebbene sia strano parlare di
'pelle' con queste tute che ci ricoprono dal collo sino agli stivali. A
parte le mani, potrei giurare di non aver mai visto una porzione del
corpo di
nessuno, qui, sebbene l'aderenza del materiale aiuti l'immaginazione
oltre ogni
pudore.
- Il Capitano sa bene che una famiglia la si ama, mentre qui sarebbe
meglio non affezionarsi troppo -, dico.
Ho usato un tono aspro, e me ne dolgo. Gli occhi di Pete si sono fatti
un poco cupi, infatti.
E' per questo che non gradisco affatto questi convivii. Alla fine dico,
o penso, sempre qualcosa di spiacevole.
- Scusa -, mi affretto ad aggiungere. Cerco di sorridere, e ritrovo
anche il suo, di sorriso.
Ma oggi, non so perché, è più
difficile del
solito. Forse perché siamo a metà strada. Forse
perché tra quattro mesi sarà tutto finito.
Mi alzo, senza far rumore, trattenuta appena dalla sua mano.
Lo guardo stupita, è la prima volta che si azzarda a
toccarmi.
Cerco gli occhi del Capitano, che intanto alla mia mossa ha girato la
testa, attirato dal guizzo rosso della mia tuta che si è
stagliata sul tavolo, sopra a tutti gli altri. Apre la bocca, ma non
dice nulla, e mi segue con gli occhi, mentre mi allontano, lasciando la
sala azzurra. Senza che possa dire nulla per trattenermi. Senza che io
mi avveda del rimprovero silenzioso e deciso che Jody ha rivolto a
Pete.
Senza che io mi accorga che anche Pete si è
alzato, con il
consenso del Capitano, e mi stia correndo dietro, perché non
resti sola.
----
Grazie di cuore a chi sta leggendo questo mio racconto (il mio primo
originale) e a chi lascia il suo pensiero, graditissimo!
So che ancora ci sono tantissimi 'punti oscuri' ma si dipaneranno
strada facendo ;) e se avete dubbi... chiedete :)
Amantea
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Capitolo 3 *** -3- ***
-3-
NEVERVILLE
-3-
Quando al mattino mia
mamma parte per andare a lavoro, o almeno questo io penso che vada a
fare,
giù in città, mi affida alla vicina di
casa.
Ma prima mi saluta con
un abbraccio caldo e dolce, all'interno del quale mi faccio piccola
piccola, per assaporarlo tutto.
Poi si raccomanda che
dia retta, e con una mano stretta sul cuore si avvia in strada, a passo
svelto.
Il naso premuto contro i
vetri, la
vedo tagliare per il bosco, seguendo il sentiero, e so
-questi i
tempi che lei mi riferisce- che di lì a un'oretta
arriverà a destinazione. E di mia madre non resta
che un
alone di
fiato caldo alla finestra, e i segni che vi traccio dentro, con il
dito.
Non abbiamo
un'automobile, noi. Un'automobile funzionante, intendo.
Il mondo viaggia a
rilento, via terra, quanto sfreccia veloce nel cielo.
Di lì a poco,
sarebbero cambiate così
tante cose...
La vicina è
una brava donna. Anziana, come il resto degli abitanti di Neverville.
Io non capisco subito
-non posso
immaginare, in realtà- che non sono rimasti che vecchi e
forse altri bambini, qui, e non so altrove.
Che gli
adulti e i giovani ritenuti abbastanza in forze sono stati
arruolati, e le famiglie spedite nelle Colonie.
Ma mia madre non ha
accettato di
partire. Ha detto che i bambini non dovevano abbandonare la
Terra. Che avremmo trovato il modo di sopravvivere, e di convivere. Che
solcare lo
spazio era un azzardo troppo recente, per sentirsi al sicuro.
Che la minaccia che
aveva squassato e
devastato il nostro pianeta si era arrestata, forse soddisfatta di
quanto aveva saccheggiato e conquistato, e ci avrebbe lasciato
continuare la nostra vita in pace.
Che il nostro era un pianeta inospitale, per Loro, perché
troppo
ricco di acqua, e per Loro, l'acqua, era come un veleno (come
per
noi la mancanza di ossigeno, insomma, mi spiegava).
Mia madre non poteva
sapere, allora, quanto si sbagliava.
Mi accorgo di aver corso per il corridoio solo quando raggiungo la mia
porta, e ho il battito un poco accelerato.
Ma prima che riesca ad entrare, Pete è su di me.
Rimango
sorpresa, forse me lo legge sul viso.
Chissà perché mi aspettavo che fosse Jody a
corrermi dietro. E' quasi un fratello per me. Da quando lo conobbi
all'Accademia, almeno dieci anni fa.
E invece è Pete, che mi ha raggiunto, e ha posato la mano
sulla
parete, il braccio teso, il palmo aperto, tutto pericolosamente vicino
al mio viso.
- Non sparire -, mi dice.
La tuta è poco più di un colore sui suoi muscoli
tesi,
li vedo guizzare sotto alla tinta scura del tessuto, e il suo corpo,
così accosto al mio, è quasi caldo.
I suoi occhi chiari... me li immagino, puntati addosso al mio viso,
nascosto dal caschetto dei capelli, anche se fisso
ostinatamente il pulsante d'apertura, quasi che rispondesse ad un
comando ottico invece che tattile, e provo quasi un fastidio,
all'altezza dello stomaco, perché vorrei che mi
lasciasse
andare, che non cercasse di trattenermi, tanto meno parlare
con
me... e tanto meno cercare di capire.
- Dove vuoi che vada -, esclamo. -Voglio solo chiudermi in camera mia.
- Per favore... -, insiste. Poi sospira, si passa la mano tra i
capelli, e appoggia la schiena, dove ancora si consuma l'impronta umida
della sua mano.
- Mina -, mi chiama, ha il tono raddolcito adesso. - Tu te ne stai
già troppo
per conto tuo.
Potrei sgusciare nella mia stanza anche subito, eppure resto immobile,
a guardare la parete grigia e lucida.
Cos'è che mi inchioda qui?... Lui ha incrociato le braccia,
tiene gli occhi bassi, e nemmeno mi sfiora... eppure non riesco a
muovermi.
Lo guardo, tra le ciocche appuntite dei capelli. So che sente i miei
occhi, volti su di lui, ma non si arrende, ancora.
E' caparbio, lo conosco. Non potrebbe aver fatto la carriera che ha
fatto, altrimenti. Ma non percepisco prepotenza in lui.
L'ho già guardato, altre volte. L'ho osservato spesso, in
questi
mesi. E' alto, quasi come il Capitano, e bello, senza dubbio. Ma
è una descrizione riduttiva, che non gli rende affatto
merito. E
comunque, a parte Jody, è l'unico che passa un po' del suo
tempo
con me.
Scuoto la testa, perché sento che sta vincendo lui, senza
colpo ferire.
- Non mi va di tornare di là, con gli altri -, ammetto. Non di sicuro dopo una fuga del
genere. La voce un po' incerta, quasi lasciassi a lui la
possibilità di decidere per tutti e due.
- Ti va di stare un po' con me? -, mi chiede.
Mi sta guardando, adesso. Accenna un sorriso, ed è
maledettamente convincente quando fa così.
- Ti concedo che hai avuto una bella idea -, dico, sorridendo.
- Mi concedi? Beh, è già qualcosa -, ridacchia
lui.
Siamo adagiati, mollemente, su due chaises
longues, che ci hanno avvolto come una carezza,
nella Sala bianca. Poco più di un quadrato, in
realtà.
Stiamo per essere trasportati
in scenari
meravigliosi, a noi la scelta. Tramonti, cascate, foreste tropicali,
spiagge, scorci panoramici... una rassegna del National
Geographic, penso tra me e me. Da piccola ne ritagliavo le foto e poi
le incollavo sui
miei quaderni, era una vecchia collezione della mamma, di
quando era
bambina. Solo che qui percepiamo tutti i suoni, e gli odori, e i
profumi,
come se fossimo realmente
dentro al paesaggio.
Chi viene qui lo fa per ritemprarsi dal nulla che scorre oltre gli
oblò
dell'astronave. Forse qualcuno anche per ricordare com'era la Terra, o
per vedere cose che non ha mai visto. E preferisco non pensare cosa ci
venga a fare Jody. Sì,
sono molto gelosa di mio fratello.
Pete ha lasciato che scegliessi io, e se ne sta rilassato, le dita
intrecciate dietro la nuca, un ginocchio piegato, in attesa di finire dentro a
ciò che io ho in mente di selezionare.
Chissà a cosa sta pensando.
E io scelgo, senza esitare.
Stiamo sorvolando l'oceano come fossimo gabbiani. La superficie si alza
e si abbassa, ne vediamo ogni increspatura, ogni tonalità di
verde e azzurro. E poi isole lussureggianti, e spiagge bianche. Mi
piace l'acqua, oceano o lago che sia. Ne ho bisogno. Mi scorre nelle
vene, come linfa rigenerante. E non è una metafora.
Il sibilo del vento tra i capelli... par di sentirlo... sembra davvero
di volare.
Basta così poco per illudere
i nostri cervelli.
Pete è un pilota d'assalto di prima linea, come Jody. Loro
sì che vanno
veloci, sulle loro navicelle, altro che i gabbiani. Ma non possono
sentire questa brezza sul
viso, né respirare l'odore salmastro del mare.
- Neverville...? -. E' poco più di un sussurro. Lo
spettacolo è finito. Spio tra le ciglia, i
suoi occhi sono a un palmo dai miei. Si è sporto con il
busto, un gomito appuntellato, una mano attaccata al profilo
della mia chaise.
Sono pochi coloro cui permetto di chiamarmi così.
- Mmmh?
- Stai dormendo?
Rido.
- No, non sto dormendo. Avevo solo chiuso gli occhi.
Li apro, completamente, ma lui è ancora
lì. E per quelle
poche cose che so, della vita, giurerei che non se ne sta
lì,
incantato, solo per volermi guardare.
---
Grazie di cuore a chi continua a leggere e commentare :)
Pian piano svelerò tutto, prometto, e capiremo meglio
missione, personaggi e ambientazione. Tra poco l'astronave
farà scalo ... :)
A presto!!
Amantea
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Capitolo 4 *** -4- ***
-4-
NEVERVILLE
-4-
Mamma mi mette a letto
prima del solito... Non protesto, sono stanca, ho giocato fino a
sfinirmi.
Ho anche raccolto foglie e ghiande, enormi, lungo la strada del bosco,
e poi
a casa le ho colorate con le tempere...
Si avvicina
Natale, e io ho quasi 8 anni. Ho i capelli lunghi e lisci, fino alla
fine
della schiena, e mamma me li pettina, come sempre, prima di andare a
dormire. Mi guardo allo specchio, mentre lo fa. Le somiglio
così
tanto.
Tutta la mia infanzia l'ho vissuta a Neverville, e a quel tempo pensavo
ancora che ci avrei trascorso la vita intera.
Mi sveglio agitata, forse ho fatto qualche brutto sogno.
Ho sete, e mi alzo con l'intenzione di andare in cucina a chiedere, per
l'appunto, un po' d'acqua.
Mi fermo sull'uscio, esistante. Sento delle voci che provengono dal
salottino...
E' appena un brusio, in realtà.
La fronte appoggiata allo stipite della porta, un rettangolo di luce
soffusa e poco più.
Vedo la sagoma di mia
madre che attraversa il mio spicchio di visuale ... scorgo il suo
sorriso, sembra che parli con qualcuno... con qualcuno seduto sul
divano... deve essere un uomo, perché sono mani da uomo
quelle
che d'un tratto la trattengono per un braccio ... mia mamma
ride contro le nocche della mano, si abbassa verso di lui... e chiudo
la porta,
per non vedere oltre.
Sogno una strana immagine... un disegno. Qualcosa di rosso racchiuso in
qualcosa di scuro.
Un tatuaggio, sì, deve essere una specie di tatuaggio.
Appena
intravisto, eppure impresso, indelebile, nella mia mente fanciulla.
L'unica traccia che mi rimane dell'uomo che, quella sera, amò mia
madre.
La sua mano si insinua tra i capelli, mi sfiora la gota e
scivola sulla nuca, appena un istante prima che le sue labbra sfiorino
le mie.
E assaporo questo contatto morbido, quasi trattenuto,
mentre la tensione scorre sulle sue dita, a tracciare piccoli
cerchi sulla pelle sensibile del collo.
Mi sento precipitare, una vertigine le sensazioni che lui risveglia
senza osare oltre, se non tornare su di me, a labbra audaci e curiose,
cercandomi ancora, invitandomi a fargli spazio.
-E' sbagliato-, mormoro contro la sua bocca, il cuore che ha preso un
ritmo tutto suo.
-No-, risponde, scuotendo la testa, trattenendomi un poco, quasi
temesse che possa fuggire via, come prima, nella sala azzurra.
Non lo respingo, non ce la faccio, e chiudo gli occhi, e
così un poco gli sfuggo davvero, mentre raduno i pensieri,
tacitando quello che il mio corpo, a modo suo, sta tentando invece di
gridare.
-Tu non sai cosa significa perdere chi si ama-, insisto, inesorabile.
Allora è lui che si stacca, ma è solo un attimo
il senso di vuoto che mi assale, prima di ritrovarmi ravvolta nel suo
abbraccio, premuta contro il suo petto.
Pete sa che ho ragione.
Io ho perso tutto quello che avevo, a 8 anni.
Pete è nato su una Colonia. Sua madre incinta
lasciò la Terra, con suo padre, non abile per essere
arruolato, al tempo delle prime Migrazioni. E ha vissuto
lassù, con loro, su un pianeta gemello del mio,
artificiosamente reso ospitale e abitabile, fino a che in
età da soldato non è entrato all'Accademia, come
tutti gli altri, qui, del resto.
Così mi ha raccontato, una delle tante volte che ci siamo
ritrovati a parlare, un poco discosti dagli altri, le parole misurate e
poi in caduta libera, come quando ti senti al sicuro.
Io sarei nata qualche anno dopo di lui, invece, sulla Terra... e il
resto, quasi tutto, lo sa.
-Mi stanno cercando-, annuncio, sollevando il mento dalla sua spalla,
dove la sua stretta mi ha portato ad adagiarmi, vincendo con dolcezza
la mia titubanza.
-Cosa... ?-, chiede, un poco confuso, perché non ha
sentito nulla, o forse perché sta sentendo troppo, qui con me,
per accorgersi del resto.
Non può udire la voce che sento io, mi arriva ovattata come
quando si tiene la testa sott'acqua, ma è così
che io percepisco le voci, quando sono ancora inudibili per gli altri.
Di solito le ignoro, e restano un rumore di sottofondo, un
borbottìo confuso, cui non presto ascolto. Ma stavolta non
posso far finta di niente.
Mi guarda in attesa di una spiegazione, gli occhi che indagano i miei,
la sua mano ancora ad accarezzarmi il viso.
-E' Jody, mi sta chiamando, e sta per arrivare qui-.
Quando la porta della Sala bianca si apre mi sto risollevando dalla mia
chaise.
-Ahhh, sapevo di trovarvi qui-, dice, baldanzoso.
Getta uno sguardo rapido a Pete, e uno a me.
-Neverville, ti vuole il Capitano-, riferisce.
Alza le spalle, anticipando la mia domanda. Già, non
può certo sapere il perché di questa convocazione.
Annuisco, semplicemente, ed esco dalla stanza, lasciandoli soli.
Un passo, e già mi manca.
Un passo, e già sento le loro voci.
Sono molto amici, è logico che parleranno di me... che Jody
insinuerà qualcosa -niente che non abbia immaginato
già-, e Pete gli chiederà consiglio, lui che mi
conosce così bene... o forse niente di tutto questo.
Non lo voglio sapere.
Ho il cuore in subbuglio, il suo calore stampato sulla pelle, il suo
sapore sulla lingua, stravolto da un ultimo bacio.
Accelero l'andatura, e svuoto la mente.
Questa giornata, sulla Motherhead,
sembra avere in serbo ancora delle sorprese, per me.
Arrivo nella Sala comandi, il Capitano è in piedi contro i
monitor che brillano nella penombra della stanza.
Tiene le mani dietro la schiena, la posa fiera, mentre controlla che
tutto proceda per il verso giusto.
-Capitano... -.
Si volta, mi guarda con condiscendenza, gli occhi aguzzi.
-Domattina, verso le 8, tempo terrestre, faremo scalo per i
rifornimenti-.
Mi dà di nuovo la schiena, per sfiorare uno schermo e far
apparire una mappa, un accrocchio di puntini e numeri e traiettorie.
-Qui-, indica con il dito, un puntino identico a tanti altri, il cui
nome non aggiungerebbe nulla all'essenza delle sue parole.
Mugolo, non so dove vuole andare a parare.
Conosco la nostra meta, e conosco le mappe per quel tanto che compete
al mio ruolo, e non invidio i suoi sottoposti che invece devono
conoscere a occhi chiusi ogni pixel di quella schermata, e delle
innumerevoli altre possibili.
-E' previsto anche lo sbarco per l'equipaggio, e scenderai anche tu-,
chiosa.
Si volta di nuovo, immaginando forse la mia espressione sorpresa, e non
gliela lesino affatto.
-Ma io ho ricevuto raccomandazioni precise di non abbandonare
l'astronave... per la mia sicurezza-, ribatto.
Sorride, e rivedo quello sguardo intenso che sembra quasi coccolarmi,
ogni volta che mi investe.
-Mina, è un mio ordine e non si discute-.
----
Grazie a chi passa da questa mia storia, grazie di cuore a chi lascia
un commento.
Tornerò nel fine settimana, per dedicarmi il 26 a un contest
indetto sul fandom di Lady Oscar (che è la mia prima casa).
Un abbraccio e a presto!
Amantea
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Capitolo 5 *** -5- Tutto quello che sono. ***
-5-
NEVERVILLE
-5-
Tutto quello che sono
E' una mattina come le altre, a
Neverville.
Io e mia madre siamo uscite presto, come al solito,
per procurarci
qualche provvista. C'è uno spaccio di generi alimentari, in
paese.
Con qualche buona contrattazione si può ottenere del latte e
del
pane. Mamma di solito baratta cose della sua vecchia vita, come dice
lei. Forse altre, più particolari, se le procura in
città. Abiti, o piccole cose inutili che invece alla gente
di
qui sembrano interessare parecchio.
I giornali, ad esempio. Poiché non ne stampano
più, e da molti decenni, sembrano valere un patrimonio.
Non so perché questi vecchi devono essere così
attaccati a cose che non hanno più valore.
Forse è proprio la loro età a renderli
così?
A farli restare ostinatamente ancorati a qualunque
cosa ricordi loro ciò che erano, o ciò
che è stato.
Chissà come sarò io, da vecchia. E se mai ci
arriverò.
Mia madre è riuscita ad entrare nel cuore degli abitanti di
questo posto sperduto.
Credo lo abbia fatto con smisurata pazienza, e un'infinita accorta
gentilezza.
Li aiuta, se può e come può. E poiché
i bambini
riscuotono gran simpatia, di solito, il fatto di avere me attira
ancor più benevolenza.
Per questo non è raro che qualcosa ci venga anche regalato,
da mangiare.
E allora, in casa, è festa grande.
Una mattina fra tante.
Un sole pallido, in pieno inverno, poche foglie rinsecchite sui rami.
Un vento insistente e freddo, che sibila appena dietro ai vetri delle
finestre.
Mamma non è scesa in città.
La vedo un po' nervosa, da qualche giorno. Scruta con noncuranza il
cielo, ma lo fa troppe volte e troppo ravvicinate perché sia
solo curiosità.
Sobbalza se faccio cadere qualcosa... e tiene i giacconi sulle
spalliere delle sedie, come dovessero essere a portata di mano... per
cosa, mamma?
Se ci ripenso, provo ancora una grande angoscia.
L'attimo in cui udimmo un tonfo sordo, e squassante, come quando
c'è il maremoto. E poi tutto cominciò a tremare.
E mia madre in un lampo fu su di me, "Devi scappare, Mina", e mentre
anche io tremavo di paura e di lacrime, incapace di chiederle cosa,
cosa stesse
succedendo, lei mi aveva già infilato gli stivali, e la
giacca,
senza che nemmeno me ne accorgessi.
Ricordo solo i suoi occhi, febbricitanti, le labbra strette tra i
denti, e le mani veloci anche se rigide, e tutta la disperazione di una
madre, che deve salvare sua figlia.
"Vai, corri, alla fonte, Mina, vai alla vasca, e non voltarti
indietro... io ti seguo, ma tu corri, hai capito? Corri!"
E' un ordine, e non si discute.
Il Capitano ha il viso indurito da anni di
autorità e di
decisioni scomode. I tratti sovrapposti dall'età e
dall'esperienza,
dalle cose che ha visto e che ha ordinato di eseguire. Il corpo
disegnato,
allenato alla fermezza. Eppure quelle piccole increspature intorno agli
occhi indicano che cede spesso al sorriso, se non proprio con le
labbra.
Si passa una mano tra i capelli, corti e screziati di ciocche bionde,
quasi bianche. Un filo di barba che gli incornicia il volto...
sembrerebbe più giovane senza, forse è per questo
che se
la fa crescere. Direi che mancano ancora diversi anni, ai suoi
cinquanta. O
per lo meno, i dottori che si sono occupati di me, e che avevano
quell'età, sembravano più vecchi di lui.
I suoi occhi scuri mi scrutano, si appendono ad una domanda, che mi
raggiunge senza severità.
-Dimmi che ti succede, Mina-.
Mi spiazza, però. Sposto il peso del corpo su una gamba,
incrocio le braccia al petto.
-Niente-, rispondo.
Non sono affatto convincente. E se glielo dicessi, mi aiuterebbe? Se
gli dicessi che comincio a
vacillare, se gli dicessi che non erano previsti coinvolgimenti
sentimentali, e che questo rende tutto più difficile, mi
aiuterebbe?
E d'un tratto quelle voci che avevo cercato di ignorare rimbombano con
forza nelle mie orecchie.
-Cazzo, Jody, ma perché proprio lei... perché
lei?! -
-Beh, la sua storia la sai... no? Te l'ha raccontata?-
-Sì, non credo mi abbia detto tutto... ma ne abbiamo
parlato, sì -.
-E quindi? Che intenzioni hai, Pete?-
-Che intenzioni ho?... Io ci ho perso la testa, Jody, ecco che
intenzioni ho -.
-Ha ha ha! Sei innamorato marcio... beh, questo si vede...
intendevo... -
-Togliti quel risolino dalla faccia, Jody... non è successo
niente, qui... -
-Niente? Mmmh dall'espressione che avevate, tutte e due, non
direi proprio... -
-Mina! -.
Mi stringo la testa fra le mani, non voglio sentire, non voglio... non
così.
-Mina!!-.
Il capitano mi ha raggiunto con due rapide falcate, le sue
dita strette intorno alle mie spalle, sono calde, le sento, mi scuote
un poco. Sollevo lo sguardo, è preoccupato.
- Voglio sapere che cosa diavolo ti sta succedendo! -.
La sua voce è venata di tensione, chiudo gli occhi. E cedo.
- Io... io sento se qualcuno sta parlando... da una certa
distanza, intendo. Io riesco a sentire le conversazioni... è
un
rumore continuo, costante, di sottofondo... -. Incontro di nuovo il
guizzo delle sue iridi, alzando il mento. Inarca le sopracciglia, mi
invita a proseguire.
- Non è sempre stato così ... Non era
così quando sono salita a bordo -.
- E quand'è iniziata questa storia... sai dirmelo? Puoi
ricordarlo? -.
Sospiro, mi sforzo di radunare le idee, di non ascoltare la voce
accorata di Pete che si sovrappone a quella stranamente bassa di Jody
... Quanto tempo sarà. dunque? Quando
è stata la prima volta che ho sobbalzato, e sono rimasta in
ascolto, incredula, di qualcosa che non vedevo ma che mi arrivava
dritta al cervello, come se l'avessi davanti agli occhi?
- Direi... sì, un paio di settimane... non di
più... tempo terrestre, ovviamente. Un paio di settimane -.
Sì, mi sembra una valutazione corretta. Mi mordo le labbra,
mentre fisso un punto imprecisato sul pavimento, tra le punte dei
nostri stivali.
- Ne hai parlato con la dottoressa? -.
Con la dottoressa? No, nemmeno ci ho pensato, in verità.
- No... dovrei? -.
Esito, glielo chiedo francamente.
- Sai che tutto quello che ti riguarda deve essere tenuto sotto
controllo, registrato, analizzato ... -, ribatte, la voce un poco
più bassa.
Sì, lo so. Certo che lo so. Se non avessi quei ricordi che
riaffiorano come scogli con la bassa marea, potrei quasi pensare che
non ho fatto altro, nella mia vita, che farmi analizzare.
- Lo farò. Immediatamente -.
Il capitano annuisce, allenta la presa sulla mia pelle. Sembra
riscuotersi da quel contatto, quasi fosse troppo intimo, e se ne torna
rapido ad osservare i suoi schermi. Fremono
i muscoli della schiena, non è affatto
tranquillo. L'incontro è terminato. Lo saluto con
una mano alla fronte, retaggio di antichi saluti militari, non importa
se non mi vede, sa che è così che occorre
accomiatarsi, e lascio la stanza, diretta verso l'infermeria.
Il mio corpo sta cambiando dunque. Non pensavo che sarebbe potuto
accadere.
Pete è innamorato di me. Quel suo bacio dunque, quel suo
modo di guardarmi... Non avrei voluto ascoltare quella conversazione.
C'è qualcosa di inviolabile, in ciascuno di noi.
Qualcosa che va al di là dei confini del corpo.
Un nucleo di pensieri, emozioni, sentimenti, che ognuno
dovrebbe avere il diritto di tenere nascosto, o rivelare, ma solo a suo
piacimento.
Io, invece, che cosa sono?
Ciao, mi chiamo Mina, ho
22 anni e sono nata sulla Terra.
Sono silenziosi i corridoi dell'astronave. Li conosco a memoria, ormai.
L'ammiraglia, il fiore all'occhiello dell'intera flotta astrale. In
viaggio verso la base nemica, verso il Loro
pianeta, con altre astronavi gemelle, per l'attacco finale, la resa dei
conti, l'annientamento definitivo. Una macchina da guerra, la Motherhead:
il miglior Capitano della Confederazione (1),
i migliori piloti. E l'arma più potente mai
creata, a bordo. Io.
----------------------
(1) Confederazione: Riunisce i Governi della Terra e delle
Colonie nello spazio.
E così ora ne sapete un po' di più (!).
Grazie di cuore a chi è arrivato fin qui, a chi mi segue
dall'inizio e a chi si aggiungerà strada facendo. Siamo
appena all'inizio...
Un abbraccio,
Amantea
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Capitolo 6 *** -6- ***
-6-
NEVERVILLE
-6-
Volo
le scale di casa senza sentire altro che il cuore impazzito frusciare
nelle orecchie, la gola riarsa, gli occhi offuscati dalle lacrime.
Spalanco il portone singhiozzando, attraverso la strada, e poi via, per
il bosco, il terrore che mi spezza le vene, le ginocchia molli, la voce
di mia madre che mi rimbomba nella testa, senza sosta.
Corro senza voltarmi indietro, la ghiaia sdrucciolevole sotto alle
suole, il mondo che balla scomposto davanti ai miei occhi a ogni passo.
E dietro di me, il nulla.
Finalmente arrivo alla grotta, e allora mi blocco, per non
scivolare sul fango. Tremo, mi stringo contro il giaccone, mi faccio
animo, mamma mi raggiungerà a breve... me lo ha promesso...
Un senso di angoscia improvviso mi mozza il fiato, e allora raggiungo
la vasca, più in fretta che posso. Le mani sul bordo, mi
volto,
lentamente.
Mi pare che... che ci sia qualcosa, fuori dalla grotta. Non saprei dire
cosa... mi sembra di sentire un brusìo, o forse è
solo il
frastuono che ancora fa il sangue pulsando scomposto nelle
tempie... e d'improvviso... vedo
dei bagliori... delle piccole lame di luce che appaiono e scompaiono,
in un guizzo.
L'acqua, un posto sicuro (1) ... Coraggio, un ultimo passo e
sarò salva!
Guardo l'acqua, smossa dal rocchio che esce dalla roccia. La tocco con
un dito, è gelida.
E' un attimo, e scavalco l'orlo di pietra con uno stivale. L'acqua
penetra sotto le calze, imbeve i pantaloni, una gamba e
poi l'altra.
Quelle strane scie fluorescenti continuano a danzare all'ingresso della
grotta.
Trattengo il fiato, le spalle contro la parete di sasso, mi
lascio
scivolare, l'acqua che risale attraverso il giaccone, la maglia che si
appiccica alla pancia. Brividi.
Stringo le ginocchia al petto, ho così freddo che i denti
battono da soli tra le labbra dischiuse.
Ma qui non mi cercheranno. Qui non potranno farmi del male.
Mammina, fai veloce, che ho tanta paura.
Ciò che mi scorre nelle vene mi rende un
essere anomalo.
Non nell'aspetto esteriore. Forse sono leggermente più
pallida degli altri, i miei occhi hanno una rara trasparenza, sebbene
screziata di verde, che non ho mai riscontrato in altre persone. E da
un paio di settimane a questa parte ho un udito da
pipistrello. Ma
per il resto, se posso dir così, sono una ragazza come le
altre.
Eppure incuto diffidenza. Un malcelato timore. Ne sono consapevole, e
non biasimo coloro che mi evitano.
Ma forse se sapessero che anche io provo emozioni, formulo
pensieri e ipotesi, al pari loro...
C'è
stato un tempo in cui guardavo ogni cosa con occhi pieni di speranza.
Poi la mia vita ha deviato il suo
corso... e adesso, per la prima volta... mi accorgo che non
è tanto il corpo, che reclama
la sua felicità, quanto l'anima, che ci passa attraverso.
Mi fermo davanti alla porta dell'infermeria. Una leggera pressione del
palmo per farmi aprire, annuncio il mio nome.
La porta scorre, disvelandomi. La dottoressa ruota il busto dallo
sgabello su cui è seduta, mi sorride.
Gli esami sono una routine per me. Mi ci sottopongo ogni
giorno.
Il mio corpo è ricco di un complesso vitale che
potremmo chiamare per semplicità acqua, e lo
è molto più del normale. Molto
più di un qualsiasi altro essere umano, modificato o no.
Ci sono voluti decenni di ricerche perché gli scienziati
trovassero la "misura" giusta, creando un liquido equivalente che
permettesse al corpo umano di vivere e di funzionare alla perfezione.
Ma io sono l'unica che ha sforato ogni limite.
Il mio materiale organico mi rende l'arma più potente al
momento conosciuta contro gli Invasori.
La verità è che ero già predisposta
a essere modificata. Sono l'unica sulla faccia della Terra a possedere
questa caratteristica genetica. Non replicabile. Non
trasmissibile
(il mio sangue è incompatibile con quello degli altri
umani).
E nessuno sa ancora il perché.
Fu chiaro quasi subito, al tempo del Primo Attacco, come stavano le
cose.
Almeno per quello che ho studiato, e per come me l'hanno raccontata,
ché io non ero ancora nata.
Arrivarono sulla Terra, e dopo un primo contatto fortuito e rovinoso
con le acque dell'oceano, non si avvicinarono più all'acqua.
Le loro
astronavi, intendo. Nessuno ha mai visto come fossero fatti i piloti.
Nessuno ha mai visto uno di Loro. Che io sappia, ma è solo
quello che so, ripeto, non ne è mai stato catturato neppure
un
esemplare.
Che cosa cercassero sul nostro pianeta, non è mai stato
stabilito con certezza.
Forse alcune sostanze presenti all'interno del suolo terrestre. Forse
alcuni tipi
di elementi. Forse non sapevano quanto il nostro pianeta potesse
rivelarsi venefico.
Non hanno mai rapito esseri umani. Non hanno mai cercato un "contatto".
Non hanno mai comunicato, sotto nessuna forma.
L'acqua fu usata come un'arma per tenerli a distanza, ma non era
sufficiente. Li danneggiava, ma solo temporaneamente.
La vera svolta fu scoprire che un pilota kamikaze aveva arrecato
più danno di un'intera controffensiva aerospaziale.
Era il nostro organismo
l'arma più efficace.
Gli invasori se ne andarono
all'improvviso così come erano arrivati.
Al tempo del Secondo Attacco, invece, io ero nata, e vivevo a
Neverville.
Chi aveva potuto farlo, volontariamente o meno, era stato spedito nelle
Colonie spaziali. Gli altri erano stati trasferiti nelle metropoli
infraoceaniche, specie di città costruite sotto il livello
del
mare, al sicuro quindi. Pochi erano restati sulla terraferma. Un nucleo
di idealisti, che credevano che
fosse possibile trovare il modo di convivere con gli Invasori, una
manciata di vecchi (i più difficili da sradicare -o forse i
più inutili da salvare), e pochi altri.
E quando Loro tornarono, e spazzarono via quel che era rimasto della
superficie del pianeta, non furono molti i sopravvissuti tratti in
salvo.
Le modifiche genetiche nel frattempo erano state perfezionate, era
stata trovata la misura, che non indeboliva ma fortificava.
Eravamo
pronti per la nostra prima offensiva.
E poi trovarono me.
La dottoressa ha origini asiatiche. Non che la razza abbia una qualche
rilevanza, qui nello spazio.
La osservo, rapita dalla sua cortese efficienza, ogni volta.
Quando gli uomini hanno lasciato la superficie del pianeta il
concetto di etnia o razza ha perso di significato. C'era un luogo da
ripopolare, e questo era quanto. Ma non posso non notare i suoi capelli
lisci e neri, le sue mani piccole, e i suoi piccoli piedi. Si muove
veloce, eppure ossequiosa, gentile, gli occhi amorevoli raccolti
attorno alle rughe, sottili, così come le labbra.
Io credo di essere soprattutto un mistero. Per lei, e anche per gli
scienziati che mi hanno avuto in custodia per molti anni, che
mi hanno studiata e rivoltata come un calzino. Che mi hanno trattata
come un tesoro raro e prezioso, allenata e istruita come dovessi
diventare il migliore dei soldati. Formata e cresciuta
nell'idea che io avrei salvato la Terra e gli esseri umani dell'intero
universo. Che io ero destinata a una morte gloriosa per la salvezza
dell'umanità.
Non ho mai dubitato. Non c'è mai stato un momento, uno solo,
in
cui io abbia avuto paura, o abbia provato qualcosa di simile a un
pentimento o un ripensamento. Non ho mai vacillato. Ho un compito. E'
per questo che sono qui. Non sarei nata diversa altrimenti.
La dottoressa è attenta, quasi delicata. Mi fa entrare
all'interno di una colonna trasparente, che darà in poco
tempo
una schermata di numeri e intervalli di valori, la lista dei parametri
da valutare. Pochi istanti, e posso già sdraiarmi su un
lettino.
- Come ti senti, Mina? Hai qualcosa da riferire? -, mi chiede, come
ogni volta.
- Sto bene, ma c'è una novità -, annuncio subito.
La dottoressa solleva lo sguardo dagli schermi che stava controllando:
-Una novità? -, ripete.
- Sì. Il mio udito è diventato molto sensibile -.
- Molto sensibile quanto? -.
- Riesco a cogliere gli scambi di battute di una conversazione, anche
se non sono presente. Da un paio di settimane a questa parte -.
La dottoressa tace, sembra raccogliere i pensieri.
- Fino a che distanza riesci ad udire distintamente le parole? -,
chiede infine.
A che distanza? Non saprei, davvero.
- All'interno della
Motherhead, sicuramente. Non... non arrivo a cogliere
conversazioni su altre astronavi -, spiego.
Che sia chiaro, non è una capacità psichica, non
leggo i
pensieri, sento le voci... il che mi rende discretamente folle, ma
tant'è.
- Ma se ti chiedo di concentrarti, di prestare attenzione... il luogo
più lontano che percepisci? La sala macchine... il
deposito...
cosa... -.
L'astronave è grande, decisamente. E' strutturata su
più
livelli. Tre, compreso quello in cui ci troviamo adesso. Dove si apre
anche la Sala azzurra, la stanza del capitano, gli alloggi dei piloti e
dell'equipaggio, la Sala bianca... Se mi concentro? Vediamo...
Chiudo gli occhi, lascio fluire i suoni, respiro. Ondate di voci e
parole mi saettano nel cervello, sembrano confusi, si sovrappongono. Mi
concentro, respiro ancora. Voci diverse che si rincorrono. Posso
seguirle, ci riesco, sì, contemporaneamente.
- Mmm... voci che non riconosco, devono essere degli addetti alla
revisione dei veicoli spaziali, perché stanno parlando di
livelli di energia e di manutenzione. Quindi... livello 1... il
più distante da qui. Direi che posso udire una qualunque
conversazione tenuta in un posto qualunque dell'astronave -.
Devo gioirne?
La dottoressa prende atto delle mie parole, annuendo.
- I tuoi livelli vitali sono leggermente alterati, ma non credo che
possano essere all'origine o conseguenza di questo tuo
inaspettato... dono-, riferisce.
- Eseguiamo il prelievo, adesso, così avrò un
quadro completo. Porgimi il braccio, Mina -, continua.
Mi denudo il braccio fino a sopra il gomito. E' bastato pensarlo. Con
queste tute biosensitive è fin troppo facile, dato che
rispondono agli impulsi cerebrali. Si espandono e si modellano sul
corpo, creando una barriera termica, sottile eppure indistruttibile,
almeno dalle armi conosciute.
Riapro gli occhi a fatica.
Devo aver perso conoscenza.
- Il tuo corpo è diventato più sensibile, Mina -,
sentenzia la dottoressa.
Mi accorgo di avere le mascelle contratte, e di sentirmi
inaspettatamente debole.
- Faremo ulteriori indagini, ma non preoccuparti -.
- Okay -, rispondo, a fatica. Ho la gola secca e la voce
tremolante.
- Direi che è il caso che tu vada subito nella vasca. Ma non
credo che sarai in grado di arrivarci con le tue gambe -.
La guardo, incredula. Che diavolo sta dicendo? Provo ad alzarmi dal
lettino, la testa mi gira. Una mano mi blocca, costringendomi
a restare giù.
- Ti ci faccio accompagnare. Devi assolutamente rigenerarti.
Chiederò al Capitano di mandare qualcuno a prenderti -.
- No -, mi affretto a rispondere. Non voglio tirare in mezzo ancora il
Capitano, oggi. - Fate chiamare Jody, nel caso -.
Sì, verrà di sicuro. Mi ha sempre
aiutato, lo farà anche questa volta.
- E' in stanza, ma non è solo, in questo momento -, aggiungo
titubante. - Ma se gli spiegate che ho bisogno di lui, verrà
-.
La dottoressa fa un cenno di assenso con la testa. La vedo
allontanarsi, mentre resto sdraiata, ancorata a quel lettino, incapace
di muovermi.
Il mio corpo sta cambiando, mio malgrado.
Il mio corpo si sta forse ribellando? Tutti fanno affidamento su di me.
Non posso cedere. Proprio non posso (2).
Jody non tarda ad arrivare. Si gratta la testa, e so che è
imbarazzato quando fa così. Nutre una viscerale antipatia
per la dottoressa.
Abbozza un saluto, tossicchia, e mi sorride di sotto in su, senza farsi
vedere.
- Avete finito, con lei? - chiede rivolto alla donna. Lo fa con un tono
aspro, e l'espressione placida della dottoressa lo innervosisce ancora
di più.
- Vieni, piccola -, mi sussurra. Un braccio sotto alle ginocchia, uno
dietro le spalle, e sono tra le sue braccia.
Aspetta di essere nel corridoio per parlarmi di nuovo.
- Che ti hanno fatto, stavolta? -, esordisce, la voce preoccupata.
Tengo la testa sul suo torace, il ritmo calmante del suo cuore contro
il mio orecchio.
- Il solito -, mormoro.
- Beh, non l'hanno capito ancora come sei fatta, che altro devono
analizzare?! -.
E' ancora arrabbiato. Mi sfugge un sorriso. Mi ha sempre difeso, per
quanto ha potuto, sin da ragazzini.
A 12 anni si entra in Accademia per diventare soldati... lì
ci siamo conosciuti, e non ci siamo più lasciati. Dieci anni
di amicizia...
- E' il protocollo -, puntualizzo.
Sbuffa un poco, mentre il corridoio si incunea verso sinistra, e lui
continua a camminare a passo non troppo spedito.
- Non devi raccontarmi niente... di Pete? -, mi chiede a bruciapelo.
- Niente che tu non sappia già -, rispondo. Non mi va di
confessargli che li ho uditi, prima, nella Sala bianca.
Si ferma davanti ad una porta. Allungo una mano, perché si
schiuda, e Jody varca l'ingresso, stando attento a non farmi battere i
piedi contro la cornice dell'apertura.
- Eccoci qua -, commenta.
- Mi metti tu, nella vasca? -, gli chiedo. Ormai, che mi aiuti fino
all'ultimo.
Mugola qualcosa, poi raggiunge il bordo e si inginocchia. Lo fa con
estrema attenzione, contraendo ogni muscolo, per posarmi dentro l'acqua
senza perdere l'equilibrio.
Rotolo giù dalle sue braccia, e mi immergo.
Sono a casa.
---------
(1) Dai ricordi di Mina, cap. 2.
(2) Va beh, alle Oscariane che mi seguono questa frase
risulterà molto molto familiare <3
Grazie di cuore a tutti voi che leggete, seguite e commentate.
Stavolta capitoletto un po' più lungo, mi piaceva farvi
vedere un po' meglio Jody :)
Credo che adesso il quadro sia un po' più chiaro ... se
riuscirete a pazientare ci sarà anche un po' di azione (no,
non intendo tra Pete e Mina, hahaha) ...
A presto!
Amantea
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Capitolo 7 *** -7- ***
-7-
NEVERVILLE
-7-
Quando riapro gli occhi mi trovo
in un posto che non conosco.
Sono ancora immersa nell'acqua, letteralmente, ma non è
quella di Neverville.
E' una specie di vasca trasparente, sono nuda e non posso muovermi.
Tengo gli occhi aperti, e respiro. Non con il naso, e nemmeno con la
bocca, ma il mio corpo vive e in qualche modo trova l'ossigeno di cui
ha bisogno, in quel liquido.
Non ricordo nulla.
Non ricordo come sono finita lì.
L'ultimo ricordo che ho è il freddo che mi fa tremare tutta,
i vestiti inzuppati, rannicchiata dentro a quella fonte, il buio della
grotta, l'odore di umido e muschio, e quelle luci fluttuanti al suo
ingresso.
Eppure non ho paura.
Stranamente, mi sento a mio agio là sotto.
Alcune persone vestite di bianco si agitano intorno a me, non posso
sentire le loro voci.
Ho ancora 8 anni, credo, e nessuna intenzione di uscire da
lì.
L'acqua mi avvolge, mi sospingo fin quasi a toccare il fondo e poi
riemergo.
Jody è ancora lì, un ginocchio piegato vicino al
bordo, un braccio appoggiato mollemente sopra e l'altro teso puntato
contro il pavimento.
Mi aggrappo all'orlo della vasca, il corpo immerso: - Lasciami sola -,
gli dico, non è una richiesta, quanto piuttosto un ordine,
ma gli sorrido.
Anche lui sorride: - Sicura di star bene? -. Si preoccupa sempre
così tanto.
- Ora sì -, ammetto, è vero, e lo sa.
- Lasciami sola, dai. Voglio liberarmi di questa tuta... -, continuo.
Non c'è malizia nella mia voce, non potrei mai, con lui.
- Mmm e pensi di convincermi ad andarmene, così? - ribatte,
ridendo un poco, gli occhi che si fanno stretti e monelli. Lui
sì, invece, che scherza sempre.
Lo schizzo con l'acqua, si alza, indispettito, la mia risata che
risuona in quella stanza fatta solo di acqua e di riflessi cangianti,
come un acquario.
Poi cerco di tornare seria, ho bisogno, davvero, di sentire l'acqua
sulla pelle, senza questa tuta che mi imprigiona.
Avverte il mio disagio, torna ad inginocchiarsi: - Pete è
uno in gamba, e non solo perché è il mio migliore
amico -, mormora, lo sguardo che diventa intenso d'improvviso.
- Sì, forse in un'altra vita -, ribatto.
- Non abbiamo un'altra vita, Neverville -, alza un poco la voce, ma
solo per dare enfasi alle sue parole. - E lo sai anche tu, che
è quello giusto -.
Non aspetta che io risponda, sa benissimo di avere ragione, lo so anche
io, si alza, un cenno di saluto con la mano.
Resto a guardare la porta che lo nasconde alla mia vista, e poi non
posso fare altro che desiderare di essere nuda, mentre mi immergo, di
nuovo.
Il mio corpo respira sott'acqua.
Non sono una sirena, tanto meno ho branchie da pesce.
Ma il mio corpo respira. Rimango in sospensione come un'alga, per poi
nuotare un poco, a braccia tese, senza emergere mai, e lasciarmi
galleggiare a un palmo dal fondo. L'acqua è scura, un poco
salata, limpida, e rigenerante.
Ogni senso si acquieta, non sento voci qua sotto.
Inseguo un riflesso argentato, c'è solo un piccolo
luce nell'intera stanza che ospita la vasca, a livello del pavimento.
Irradia una luce bianca e densa, che anche da sotto mi fa percepire la
superficie. Potrei rimanere qui per il resto della giornata, e anche
per tutta la notte. Senza avere bisogno di altro. Né di
cibo, né di luce, né di aria.
Non mi pongo domande.
Non me le sono mai fatte.
Ho accettato quello che ero, quello che avrei dovuto fare, senza
chiedere spiegazioni.
So che Jody lo ha fatto per me. Che avrebbe voluto prendere il mio
posto, che non si è ancora arreso all'evidenza che sono
unica nelle mie peculiarità.
Che c'è stato un tempo, eravamo così giovani, che
avevamo scambiato la nostra simbiosi per amore, e invece forse, se
possibile, era qualcosa di più: una sorta di alleanza. O
forse è sempre stato sempre e solo semplicemente amore, ma
di una forma che non prevede l'appartenenza, o il possesso. Che non
rimescola il sangue nelle vene, che non ti fa desiderare di andare
oltre, oltre i tuoi confini, intendo, o di annullarli, fonderli,
mischiarli a quelli di un altro.
In definitiva, sono più fortunata di altri. Non ho
più una madre, ma ho lui. E se volessi, potrei avere anche
...
Disegno un cerchio, mi spingo sul fondo, unisco le braccia davanti a
me, m'inarco e nuoto, ancora, lentamente, come se non ci fossero
più né tempo né spazio, ma solo
silenzio, e il mio cuore, che batte, rallentato, quasi da sembrare
fermo.
[Intanto...]
Il Capitano ha chiesto alla dottoressa di farsi aprire la porta
dell'infermeria. Attende, e poi entra, la saluta in modo amichevole.
- Mina è nella vasca -, lo informa la dottoressa.
- Quindi possiamo parlare o ci sente? -, chiede. Ha un tono urgente, la
mascella serrata.
- Non credo che sott'acqua percepisca alcunché -.
- Bene. Allora, hai scoperto qualcosa? -.
- Qualcosa che possa collegare questa sua nuova facoltà agli
avvenimenti di due settimane fa? - chiede la dottoressa, sospirando,
gli occhi puntati sui risultati degli esami che ha effettuato su Mina
poco prima.
Il Capitano annuisce, è impaziente, lo si vede da come il
suo volto è tirato.
- No, nulla. Non è cambiato nulla di sostanziale nel suo
corpo -. La dottoressa scuote la testa. Si siede su uno sgabello e lo
invita a sedersi al suo fianco.
- Eppure deve esserci un collegamento. E' evidente -, ribatte
con forza lui. - Quella che abbiamo intercettato due settimane fa era
una richiesta di soccorso. Non ci sono dubbi su questo. E non era terrestre -. Calca
con cura le parole, scandendole, mentre con una mano si preme le
palpebre, l'altra conficcata a pugno contro un fianco.
- E' per questo che hai ordinato di fare scalo? -.
- Sì. Voglio andare a vedere di che si tratta, e mi servono
rifornimenti aggiuntivi. Il segnale era chiaro, abbiamo individuato la
posizione da cui proveniva, ma dovremo uscire dall'iperspazio -.
- Ma come giustificherai questa 'deviazione' al comando centrale? Siamo
in missione, Oliver... -.
L'uomo si passa le mani sul volto.
- Lasceremo le altri navi sulla direttrice restabilita. Lo scalo
intanto farà bene a tutti. Potranno distrarsi un po'. I miei
ragazzi se lo meritano -, sospira. - E' per questo che ho ordinato
anche a Mina di scendere. Lascerò il comando a Mark della
Hollerhead, e noi poi li raggiungeremo in un secondo momento -.
La dottoressa lo guarda. Sono amici, da tempo. Il Capitano ha scelto il
suo equipaggio con cura certosina. Non è un caso
che abbia voluto proprio lei a bordo della nave ammiraglia.
- E poi siamo talmente lontani dalla Terra che difficilmente potranno
impedirmelo -, soggiunge, schiudendo finalmente le belle labbra in un
sorriso.
- Quando hai intenzione di dirglielo? -.
Si aspettava quella domanda. Sa che si è trattenuta, altre
volte, dal formularla, ma adesso il tempo stringe sempre di
più.
- Non credi che sia meglio tacerle tutto? La vedo così
cambiata, da quando è salita a bordo... preferisco
attendere, ancora un po' -.
Ho perso la percezione del tempo, fluttuando nell'acqua della vasca.
Un senso di benessere mi pervade, mi sento forte. Probabilmente mi sono
anche lasciata andare ad una specie di sonno.
La mente vuota, lascio che sia solo la carezza dell'acqua ad
attraversarmi i sensi rarefatti, rifuggo ogni malinconia, ogni ricordo
doloroso.
Sono pulviscolo, sono un elemento, sono trasparente, sono viva.
[Alle 8:00, tempo
terrestre, il giorno seguente]
Il Capitano ha convocato l'equipaggio nella Sala azzurra e
sosta, in piedi, sì da essere visibile da tutti, il
portamento fiero.
- Sapete tutti come ci si comporta durante uno scalo -, annuncia, il
tono fermo e altisonante. - Le poche regole vigenti su Innertown vi
verranno spiegate durante il trasporto a terra. Le comunicazioni con la
nave verranno lasciate attive, quindi restate in allerta per il rientro
a bordo. Tenete le armi scariche e non fatemi pentire di avervi
concesso questa giornata di libertà -.
I soldati sorridono, alcuni ringraziano, i più
annuiscono. E' sempre un'occasione ghiotta scendere in una di queste
stazioni di rifornimento nello spazio. Un modo per socializzare con gli
equipaggi delle altre navi, sgranchirsi le gambe, respirare spazi
più aperti, sebbene altrettanto artificiali.
Innertown è poco più di una piattaforma coperta
da una cupola, ma così estesa da non poterne vedere i
confini a occhio nudo. Tutto sommato, dà l'impressione di
sbarcare su un pianeta, ed è più di quanto
avrebbero mai potuto desiderare.
Il Capitano osserva i suoi ragazzi compiaciuto, ma non ha ancora visto
Mina, e non può fare a meno di esserne contrariato.
L'ha chiamata più volte, come è costretto a fare
quasi ogni mattina, e, almeno per il momento, senza risultato
alcuno.
Jody se n'è accorto, una gomitata nel fianco a Pete, che
come sempre sosta accanto al suo miglior amico, perché lo
segua.
- Ieri l'ho lasciata nella vasca, Capitano. Potrebbe essere ancora
lì -, annuncia avvicinandosi.
- Allora uno di voi due la vada a chiamare. Tra poco inizieranno le
operazioni di sbarco -.
Il Capitano li congeda con quel compito, per tornare rapidamente nella
sua postazione. Lui non scende mai dalla Motherhead.
- Ci pensi tu? -. Il tono e la mimica con cui Jody si rivolge a Pete
sono alquanto eloquenti.
Jody nemmeno lo lascia rispondere e segue gli altri, verso il
portellone d'uscita. Un sorriso, e una stretta allo stomaco.
Quel bacio, vivo ancora, eppure così minuscolo,
così lieve, per tutto l'amore che sente dentro e che
vorrebbe donarle, se solo lo lasciasse fare.
------
Non posso che continuare a ringraziarvi per l'affetto e la costanza con
cui leggete questa mia piccola storia!
Un saluto affettuoso ai nuovi lettori, e a tutti coloro che
preferiscono e seguono.
In questo capitolo, un grazie particolare va a Emerald77 che mi ha
aiutato in un dettaglio molto importante: anche il Capitano ringrazia!
Spero sia chiara l'alternanza della voce narrante di Mina con
la "mia" di autrice. lei è immersa nella vasca, isolata dal
resto dell'astronave, ma gli altri parlano e si muovono e agiscono, a
sua insaputa (ma non di voi lettori).
A presto!
Amantea
p.s. Neverville non va in vacanza, quindi... a presto!
|
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Capitolo 8 *** -8- ***
-8-
NEVERVILLE
-8-
Mi hanno sottratto
all'acqua contro la mia volontà, forse mi hanno dovuto
sedare per riuscirci.
Perché quando mi sono accorta che le loro mani entravano
nella
vasca, per tirarmi fuori, ho iniziato a dibattermi, come un animale in
trappola.
Solo allora ho sentito qualcosa sotto pelle, forse aghi, o altro, non
saprei, e ho notato una matassa di tubicini bianchi immersi insieme a
me, che i miei movimenti scomposti stavano aggrovigliando sempre di
più.
Non provavo dolore, no, ma ho visto qualcosa sciogliersi nell'acqua,
dopo che uno di quei cosi si era staccato dal mio braccio. Non era
sangue.
Conosco il colore del sangue, è rosso scuro, spesso mi sono
sbucciata le ginocchia, ho perso buona parte dei denti da latte...
conosco il colore del sangue, e quella scia vischiosa che si spandeva,
a stento rosata, non poteva proprio essere uscita dal mio corpo...
Giaccio
nuda su un letto, ho freddo, appena un brusio confuso le voci che sento
muoversi intorno a me.
Respiro, lentamente, con il naso, a pieni polmoni, mi guardo attorno fin
dove riesco, le persone vestite di bianco mi osservano, qualcuna
sorride, dicono cose sottovoce che io non capisco, o forse
sono io
che non sento bene, ho la testa ovattata e un poco confusa.
Si avvicina una donna, ha i capelli nerissimi e lisci, gli occhi dal
taglio sottile, mi lascia una carezza, vedo le sue labbra che si
muovono e una voce che rimbomba di lontano, e altre che si
sovrappongono: "Come ti senti?", "I livelli sono stati stabilizzati",
"Un risultato eccezionale", "Avvertite il comando centrale che
la
bambina di Neverville è stata riadattata con successo".
Mi metto seduta, non ho più nulla che esce dal mio corpo,
non
sono ferita, non ho congegni attaccati, non ho tubi, nulla. Solo pelle,
che trema.
Non ho nemmeno più i miei capelli lunghi, me li devono aver
tagliati, penso, altrimenti sarebbero stati d'intralcio in quella
piccola vasca dove mi avevano messo.
"Ricordi il tuo nome?" mi chiede ancora la donna di prima, è
una
dottoressa, scoprirò poi, ma non ci vuole molta
immaginazione
per rendersi conto che sono tutti dottori, o scienziati, e che mi trovo
in una specie di laboratorio o ospedale. Tiene in mano un indumento,
bianco, e mi aiuta, perché ci infili dentro il braccio.
"Dov'è la mia mamma?" chiedo, raccogliendo la voce dal pozzo
profondo in cui sembra caduta.
Prima che possa vestirmi del tutto un ragazzino si affaccia sull'uscio,
dietro di lui altri musetti curiosi. Mi blocco stupita, un braccio
ancora a
mezz'asta.
Mi fissa a bocca aperta, ha un ciuffo di capelli più rossi
che
biondi sulla fronte, gli occhi grandi, è alto e magrissimo,
e
non ho idea di quanti anni abbia. Ha indosso anche lui una camiciola
bianca che gli copre a malapena le ginocchia ossute, e come lui sono
vestiti i ragazzini che si sporgono per guardarmi da dietro la sua
schiena.
La dottoressa coglie il mio sguardo sbarrato, si gira verso la porta, e
le parte un grido.
Il ragazzino ride, fa una specie di buffo sberleffo con la lingua, mi
guarda ancora un attimo, sorridendo, e poi scappa, gli altri dietro,
inseguiti da qualcuno che li sta richiamando senza successo. Colgo solo
un nome, Jody, e lo registro nella mia mente.
"Dov'è la mia mamma?" ripeto, la camiciola ancora aperta sul
petto.
"Sei l'unica sopravvissuta alla distruzione di Neverville", mi informa,
la voce piatta e ferma. "Allora, vuoi dirmi come ti chiami, tesoro?".
L'unica sopravvissuta. Serro le labbra, inghiotto le lacrime che sento
bucarmi gli occhi, e non proferisco più parola.
Giuro a me stessa che non sentiranno più la mia voce. Che
non parlerò più. E manterrò la
promessa, per molto tempo da allora.
Appoggio la nuca e le spalle contro il bordo della vasca,
c'è ancora silenzio nella stanza.
Un brusio indistinto, lontano. Opaca la superficie dinanzi a me,
come un velo di latte, o uno specchio di luna . Creo piccole
increspature, soffiando piano, cerchi rapidi che si espandono e poi
scompaiono.
Galleggio senza peso, in una bolla d'acqua che viaggia nello
spazio più profondo.
Quanto vale la mia vita, grumo infinitesimale nell'universo?
Ormai sarà mattina, forse sono già iniziate le
operazioni
di sbarco, e non ho nessuna intenzione di unirmi ai compagni.
Non sono mai stata in una stazione di rifornimento spaziale. Ma la
curiosità di scendere a Innertown non è
abbastanza forte.
Non abbastanza, almeno, rispetto al desiderio di restarmene nascosta,
qui.
D'un tratto un senso di pericolo mi attanaglia le viscere.
Non saprei descriverlo. Ho i sensi in allerta, tutti. Sgrano gli occhi,
il cuore rallenta.
Dò l'ordine alla tuta di ricostruirsi sul mio corpo, non mi
sento più sicura, nuda, adesso.
Aspetto trattenendo il respiro che qualcosa - ma cosa?- accada.
La porta si apre. Non so come sia possibile, perché
è stata predisposta per reagire al mio solo
comando tattile, a meno di essere tecnici e possedere l'autorizzazione
a modificare le impostazioni di sicurezza, dietro a un preciso ordine
del Capitano.
Eppure è proprio un tecnico quello che entra ridendo nella
stanza, seguito da un collega. Li riconosco dal colore dell'uniforme,
di un giallo tenue (1).
Il personale addetto alla manutenzione alloggia e lavora al livello 1 (2)
e non lascia mai la propria postazione.
Mi immergo di più, lasciando fuori la testa quel tanto che
basta per ascoltare cosa si stanno dicendo.
Non mi hanno ancora visto, sono soddisfatti di aver compiuto
una bravata, che reputano innocente. Hanno pensato che
l'astronave
fosse deserta, che tutti i soldati fossero scesi, e hanno voluto
approfittare di questa vasca rilassante. Un tuffo in piscina,
praticamente, correndo tuttavia il rischio, altissimo, di essere
scoperti e puniti.
Ogni singolo membro
dell'equipaggio sa che questa vasca serve a me, nessun altro la usa,
non è previsto. Devono aver pensato che fossi scesa assieme
agli altri.
E invece nell'acqua ci sono io. E avverto ancora addosso una sensazione
inquietante.
In ogni caso, si accorgeranno presto che sono qui. E io ho paura.
[In attesa delle
operazioni di sbarco... ]
Jody ha incoraggiato Pete a raggiungere Mina, e ora si sforza di
attendere in buon ordine che il portellone del lato ovest della nave si
apra.
Il fisico slanciato, asciutto e muscoloso, tradisce
un'innegabile
tensione, per come i muscoli della schiena e delle cosce guizzano
contratti e tesi.
E' eccitato, difficile nasconderlo. Gli occhi, di un raro grigio
screziato di azzurro e giallo (sì, quasi gli occhi di un
gatto,
direbbe Mina), si muovono curiosi tra i soldati che gli sostano al
fianco e le piccole luci rosse che si illuminano in sequenza di fronte
a lui.
Uno sbarco offre molteplici possibilità. Un luogo mai visto,
cose nuove da provare, e soprattutto facce
diverse da quelle che ormai conosce a memoria. Si passa una mano tra i
capelli, sistemandosi alla bell'e meglio quel ciuffo biondo ribelle che
gli ricade sempre sugli occhi, e si guarda intorno, con fare distratto.
E' stato un annuncio inaspettato quello, senza dubbio. Un rifornimento,
a metà strada, non era necessario. Non per astronavi di quel
tipo.
I soldati devono obbedire agli ordini, e non è previsto che
si
interroghino sulle motivazioni. Però... chissà,
magari
riuscirà a scoprire qualcosa di interessante, parlando con i
soldati degli altri equipaggi. Qualcosa che potrà essere
utile al piano che sta elaborando con Pete sin dal primo giorno che
sono stati arruolati per la missione. Un piano per provare a salvare
Mina dal suo destino.
[Intanto, nella vasca]
Esco lentamente dall'acqua. I due uomini stanno ancora ridacchiando.
Uno si
è piegato verso la vasca, per saggiarne la temperatura. Sono
distante diversi metri da loro, non mi hanno ancora visto. Rasento la
parete. Forse correndo potrei riuscire a
raggiungere la porta.
Ma uno alza distrattamente la testa e mi vede.
Una sgradevole sensazione mi invade. Un brivido freddo dalla
nuca mi corre lungo tutta la schiena.
Un sorriso obliquo gli si dipinge
sulla faccia mentre con una mano strattona il braccio del compagno,
perché gli presti attenzione.
- Ehi! -, dice il primo, dopo aver rivolto un'occhiata veloce
all'altro.
Le loro intenzioni sono confuse, lo percepisco. Possono fare poco, in
realtà. Se anche qualche idea abietta ha
attraversato loro il
cervello, non riesco ad immaginare come potrebbero metterla in pratica.
Forse sono solo troppo ingenua. Ho ancora le viscere attorcigliate, e
non mi fido affatto.
- Non vorrai già andartene -, grida il secondo, - l'acqua
sembra invitante. Non ti va una nuotata in compagnia? -, aggiunge,
muovendosi
lento lungo il bordo. L'altro si sta muovendo nella direzione opposta.
Vogliono accerchiarmi? E poi?
Non voglio stare lì, devo scappare. Hanno espressioni che
non mi piacciono, e stanno provando emozioni che mi feriscono.
Stanno perdendo ogni barlume di ragionevolezza. Per cosa stanno
rischiando così tanto? Non sarà difficile
risalire ai loro nomi. Denunciarli al Capitano, radiarli, punirli. Io
non capisco... non capisco l'insensatezza, non capisco la cattiveria,
la sopraffazione, la brutalità.
Si stanno ancora muovendo. Uno sogghigna: - Tu sei Mina, giusto? -.
Certo, sai bene chi usa questa stanza. Solo io posso (potevo) farlo.
- Senti, bellezza, toglimi una curiosità... -, continua
l'altro. - Ma tu sei ... sì, insomma, sei come le altre
ragazze o no? Sai, me lo sono sempre chiesto... -.
Me lo sono sempre chiesto...
provo un senso di nausea.
Respiro, immobile.
Continuano ad avanzare verso di me. E sento le loro
stesse sensazioni.
D'improvviso provo una rabbia sconosciuta. La sento avanzare come la
marea, montare come un'onda, crescere come un vento impetuoso, risalire
dalla pancia verso la gola, irrompere senza freni e senza controllo,
come una tempesta che si abbatte contro una spiaggia e la sovrasta,
cancellandola il tempo della risacca.
Mi accorgo che quei due si sono fermati, anche senza vederli.
Non so cosa hanno di fronte. Io non posso vedermi da fuori, ma dentro
ho qualcosa che non riesco più a trattenere.
Grido un no a denti stretti, due ali d'acqua si sollevano
dalla vasca, e ricadono di schianto, e quei due sbattono contro le
pareti, quasi sospinti da un'onda d'urto, così forte che
sento appena un urlo rotto e un tonfo sordo.
Tremo, tremiti convulsi, di freddo, mi accascio, la testa fra le
mani...
Dio mio, cos'ho fatto... cos'ho fatto... ?
Cosa sono... cosa sono, io, veramente?
Qualcosa di caldo scivola lungo le guance, l'acqua
è immobile, adesso, come quei due corpi...
E non provo più nulla, se non un'immensa tristezza.
Qualcuno mi chiama, la porta è rimasta aperta, grida il mio
nome, ho gli occhi chiusi e tremo ancora, conosco queste mani calde che
mi afferrano il viso, conosco questa voce.
-------------
(1) I soldati e il Capitano hanno invece l'uniforme di un
colore blu scuro. Mina è l'unica che ha la tuta rossa.
(2) Cap. 6: la Motherhead
è strutturata su tre livelli.
Mmm la storia si complica?
La parte iniziale, come in ogni capitolo, in corsivo, sono i ricordi di Mina bambina.
Avete riconosciuto la dottoressa?
Grazie di cuore a tutti coloro che mi seguono e leggono e lasciano la
loro traccia in questa storia.
Ci sono le vacanze all'orizzonte, ma non per me. Se non aggiornerò prima di Natale faccio gli auguri a tutti. A presto!!
Un abbraccio di cuore
Amantea
|
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Capitolo 9 *** -9- Tutto quello che voglio ***
-9-
NEVERVILLE
-9-
La dottoressa registra
il mio nome come 'Neverville'.
Passeranno dei giorni prima che capisca dove mi trovo.
La chiamano l'Accademia.
Al di là dell'edificio in sé, è una
specie di struttura scientifico-formativa.
E siamo sotto l'Oceano, in una città costruita al riparo
dagli
attacchi sulla superficie terrestre da parte degli invasori... 'Loro'.
Così li chiamano, con evidente poca fantasia.
Nell'Accademia i bambini della mia età frequentano una
scuola.
Poi, a 12 anni, si passa agli studi superiori, all'addestramento
militare vero e proprio.
Di qui escono i soldati, tutti. Almeno quelli della Terra.
Immagino che sulle colonie, nello spazio, ci siano altre Accademie del
genere.
Immagino anche che non ne siano rimasti molti, di abitanti, sul nostro
pianeta.
Forse sarebbe più logico abbandonare tutto e andarcene anche
noi su qualche colonia.
Non capisco tutto questo attaccamento a un pianeta semidistrutto.
Ma io sono solo una bambina, e si sa che i bambini -così
dicono- ne sanno meno degli adulti.
Ci sono camerate per dormire, sale comuni per mangiare, e poi aule per
seguire lezioni e studiare.
Io non sono mai andata a scuola. Quello che so me lo ha insegnato la
mia mamma.
Anche a leggere, e scrivere.
Scrivere mi piaceva molto, e anche disegnare.
Ma qui non si scrive. Si apprende tutto su schermi che sparano immagini
a velocità inverosimile, e che il cervello memorizza quasi
senza
che ce ne rendiamo conto.
Io sto in aula assieme agli altri bambini. Mi guardano con sospetto, e
io non interagisco con nessuno.
Ho una stanzetta tutta mia, dove ritirarmi, e una specie di vasca dove
posso immergermi quando ne sento il bisogno.
Mi fanno analisi tutti i giorni, e sembrano soddisfatti.
Io non parlo: non chiedo e non rispondo. E nessuno mi spiega nulla.
Il ricordo del mio paese e di mia madre, e dei suoi abitanti, a volte,
mi sembra tutto solo un sogno.
Mi vedo la pelle più bianca di quanto ricordassi, ma non ho
specchi per guardarmi.
So che avevo gli occhi verdi, come mia madre, e i capelli lunghi e
scuri.
Chissà se mi riconoscerei, adesso.
Il ragazzino che ho visto quel giorno lo incontro tutt'ora, ogni
giorno.
Ma deve essere più grande di età,
perché entra in aule diverse dalle mie.
Poi però a mangiare siamo tutti insieme.
E' lui che si avvicina una prima volta. Mi chiede se sono
malata.
Io lo guardo senza rispondere, e lui si siede accanto a me.
"Sai parlare?", continua. Io annuisco e accenno un sorriso. Ha il viso
simpatico. "Vuoi parlare?", insiste. Gli dico di no con la testa.
Tira su con il naso, spostandosi una ciocca di capelli rossi e un po'
riccioluti dagli occhi.
Ha gli occhi verdi anche lui, ma con strani colori
mescolati, e guizzano senza sosta.
"Non importa, parlerai quando avrai voglia". In compenso, parla lui per
tutti e due.
Da quel giorno, mi cerca spesso. Forse gli faccio pena. Quando dobbiamo
spostarci da un posto a un altro mi prende per mano, e io sono felice.
Credo di avere un amico. Credo che potrei anche parlare, con lui. E
forse un giorno lo farò.
Mi ha fatto vedere dove dorme. Una volta, senza essere visti, mi ha
fatto fare un giro per l'Accademia.
Mi ha chiesto se ero destinata anche io a essere un soldato, e ho fatto
spallucce. Non lo so.
Lui mi ha detto che lo diventerà, e lo ha detto con
orgoglio,
gonfiando il petto, e facendomi sentire i muscoli del braccio.
Io ho riso, perché è talmente magro che i
muscoletti che
ha attaccati all'osso sembrano poco più che due pomi acerbi.
Si è un po' risentito, e mi ha detto di ridere ora,
perché poi quando diventerà grande grosso e
muscoloso
resterò a bocca aperta dallo stupore.
Una sera non riesco a prendere sonno.
Mi è sempre difficile, in realtà,
perché quando si
spengono le luci la testa mi si affolla di ricordi e pensieri e stare
sola mi fa paura.
Dormivo con mia mamma, a volte, e mi manca... mi manca così
tanto.
Una manciata di passi e sono fuori dalla mia stanza. Pochi sorveglianti
in
giro, ho imparato a eluderli. Jody è stato un bravo maestro
in
questo.
Raggiungo la sua camerata, trattengo il fiato.
Sembrano già dormire tutti. Quello di Jody è
l'ultimo
letto, vicino a una parete. Scivolo in silenzio, sono poco
più
di un'ombra pallida nel buio.
Lo raggiungo, e mi infilo sotto il lenzuolo.
Sobbalza e quasi caccia un grido, ma gli butto le mani sulla bocca
schiacciandolo contro il cuscino.
I suoi occhi si sgranano, me ne accorgo anche se l'illuminazione
è fioca e soffusa.
E poi si stringono in un sorriso.
"Che ci fai qui? Hai paura a dormire sola, Neverville?", bisbiglia
quando gli libero la bocca e mi accuccio sul materasso. Annuisco.
Mi osserva per qualche istante, si guarda intorno. Nessuno si
è mosso. "Vuoi stare qui?". Annuisco di nuovo.
"Però domattina devi sgattaiolare via prima che ti vedano".
Annuisco ancora, con decisione.
"Dai, vieni, ranocchietta", mi dice, e ridacchia. "Girati che ti
abbraccio, così ti scaldo. Ma sei sempre così
gelata,
tu?".
Mi faccio ancora più minuta, e lui mi passa un braccio sotto
la
testa e con quello mi cinge la spalla opposta, e l'altro lo chiude
davanti a me. Lo sento che si sistema con le ginocchia dentro
all'incavo
delle mie, e poi mi augura la buonanotte.
Fu la prima di molte notti che dormii insieme a lui, e nel calore di
quell'abbraccio ritrovai la serenità del sonno. E anche un
po' d'affetto.
Schiudo gli occhi, Pete è chino su di me, le
sue mani calde attorno al mio viso, è anche
spaventato.
- Che è successo, Mina, che ti hanno fatto!? -, ha la voce
allarmata.
Nego, scuotendo la testa, - Niente, sono io che... sono io che li ho...
sono morti? Sono morti, Pete? -.
Pete si guarda intorno, si sofferma sui due uomini che giacciono inermi
in terra, mi rivolge uno sguardo solido e rassicurante e accenna un
sorriso.
- Stai tremando tutta, Mina, vieni, ti porto nella tua stanza, qui
tra poco arriverà la sorveglianza e devo avvertire subito il
Capitano.
Ma tu non preoccuparti -, mi dice, mentre mi solleva prendendomi tra le
braccia, quasi senza sforzo, - non risaliranno a te, lascia fare a me -.
Non ho la forza di dirgli nulla, il freddo mi è entrato
nelle
ossa e non riesco a smettere di sussultare. Gli allaccio le braccia
dietro al collo, la tempia contro il suo torace. Sento che mi sfiora il
viso con le labbra, la paura svanisce un poco, mentre mi porta nella
mia stanza.
C'è un regolatore della temperatura in ogni
alloggio,
vedo che armeggia per alzarla di qualche grado. Mi ha
adagiato sul letto con premura, mi ha tolto gli stivali e mi ha coperto
con il
lenzuolo. Tremo ancora, come se nella stanza ci fosse la neve, e non il
caldo che sta sicuramente spandendosi intorno a me.
- Vado a parlare con il Capitano, inserisco il controllo vocale alla
porta
così puoi aprirmi senza alzarti, ok? Torno subito -.
Mi accarezza il viso mentre parla, il tono basso, gli occhi che non mi
lasciano. Mi sfiora le labbra con le sue, dolcemente.
Chiudo gli occhi, mentre esce, e aspetto, il freddo sulla pelle, fin
dentro il cuore.
Non ho idea di quanto tempo sia trascorso, da quando sono rimasta sola.
Adesso non ho nemmeno la forza di formulare un pensiero coerente, ma
appena sarò in grado, dovrò capire... capire cosa
è successo, nella vasca, prima.
Che cosa sto diventando... che cosa sono.
Da dove è uscita tutta quella forza che non conoscevo, che
cos'è questa capacità di governare l'acqua, cosa
questa empatia che mi fa vedere le emozioni altrui. Se sono una
macchina da guerra più mortale di quanto pensassero, e se
rischio di esplodergli letteralmente
tra le mani, al Capitano e alla dottoressa.
Loro rappresentano il potere
qui sulla Motherhead. Sono loro che prendono decisioni. Loro che danno
ordini.
Ho apprezzato la premura di Pete, la sua prontezza.
E' in gamba, non potrebbe essere altrimenti. Non per un pilota come
lui, intendo.
Se la dottoressa venisse a sapere cosa ho combinato mi sottoporrebbe di
nuovo a tutta una serie di analisi e di esami... sarei davvero felice se
potessi evitarli.
Sento la voce di Pete. E del Capitano.
- Che cosa è
successo? Dov'è Mina?
- Mina è
nella sua stanza, Capitano. Hanno cercato di aggredirla, ma sono
intervenuto in tempo.
- Tu? ... Mina sa
difendersi da sola, cosa diavolo è successo qui Pete?
- Quello che ho detto.
Non le ho dato il tempo di reagire, sono intervenuto prima io. Era in pericolo e non ho riflettuto, ho agito, come deve fare un soldato.
- Sono morti, Capitano. (Una
voce che non conosco, forse un addetto alla sicurezza)
- Pete sei sicuro di
star dicendo la verità?
- Sono comandato
all'obbedienza, non potrei mai mentire, Capitano.
(Silenzio. Mi par quasi di vederli, fronteggiarsi, gli
occhi scuri del Capitano, inamovibili, in quelli fieri e coraggiosi di
Pete).
- Lei... sta bene? (Ha
la voce meno ferma rispetto a poco fa).
- Sì, un poco
scossa per l'accaduto, ma sta bene. Non so come possano averla
raggiunta nella vasca, quei due, io...
- Predisporrò
delle indagini. Tu continua ad occuparti di lei. Lo sbarco dura fino a
stasera, se volete... Avvertitemi se scendete.
- Sì,
capitano, sarà fatto.
- Mina... -.
Non esito a dare l'ordine alla porta di aprirsi, ho bisogno di lui, qui
con me. Ora che so che quei due uomini sono morti, ora che so che li ho
uccisi.
- Mina, come stai? -.
Mi raggiunge al bordo del letto, non sto bene, affatto. Mi chiama,
ancora più sottovoce. Sto piangendo, sono lacrime quelle che
sento attraversare le ciglia, e scavalcare il naso, solleticando un po'
la pelle, prima di scivolare oltre la guancia, nel cuscino.
- Sono morti, Pete -, ripeto, dentro di me e poi a lui.
Mi guarda un po' sorpreso, non era una domanda la mia.
- Ti ho sentito, mentre parlavi con il capitano. Non chiedermi
perché, Pete, io non so più nulla di quello che
sono... eravate distanti, nel corridoio, ma vi ho sentito, come fossi
lì con voi -.
Apre la bocca quasi a chiedere oltre, ma poi tace. E lo ringrazio, di
nuovo, per la sua accortezza.
Per il suo non indagare, non voler sapere. Per il suo esserci,
semplicemente, qui, per me.
- Non ti sei affatto scaldata, però, maledizione -. E' quasi
un'imprecazione.
- Senti Mina, forse non ti piacerà, e non so come altro
dirtelo, ma c'è un unico modo per provare ad alzare la tua temperatura corporea... Se
hai un'idea migliore, se vuoi che ti chiami la dottoressa, dimmelo...
Ma ci hanno insegnato che in caso di ipotermia, se la tuta va in
tilt per qualche motivo, bisogna scaldarsi pelle a pelle -.
Lo guardo, muta. Ho capito perfettamente cosa intende, e so anche io,
che forse è l'unico modo.
La tuta che indosso non riesce a scaldarmi, la temperatura tropicale della
stanza neanche.
Il gelo lo sento dentro, come se per difendermi avessi dato fondo a
tutte le mie energie, come se quello che ho percepito (le brutture, il
male che ho sentito in quegli uomini) mi avesse spento, consumato... e
invece la presenza di Pete mi rassicura, mi fido di lui.
Sorrido... mia madre diceva sempre che l'affetto scalda il cuore...
non aveva idea di quanto fosse vero.
Pete sta ancora aspettando una risposta. Ha il volto tirato, e
nessun'ombra dentro di lui.
Alzo il lenzuolo, con un sorriso incerto, la mano mi trema per il
freddo, è un invito.
Chiudo gli occhi, il rumore degli stivali sul pavimento, e poi sguscia
accanto a me quasi senza sfiorarmi, non ancora.
Ho dormito tante volte con Jody. Non è la stessa cosa. Ma so
cosa significa stare in due sotto lo stesso lenzuolo.
Il suo braccio, nudo, mi cinge una spalla, e mi stringe a
sé, e una gamba si fa spazio tra le mie ginocchia, serrate,
si insinua, e la lascio passare. Un incastro perfetto, stretta contro
il suo torace. Non dice nulla e aspetta.
Ha determinazione, penso, e autocontrollo, o forse solo una sconfinata
irragionevolezza.
E quando lascio che la tuta scivoli via, che sparisca, lentamente, come
dissolta, è finalmente il suo corpo che percepisco.
Trattiene il fiato, mi stringe di più. Ed è il
suo calore che mi pervade piano, che si fa strada, come il sole quando
sorge da dietro una collina, che man mano irradia tutto, della sua
luce, e allunga le ombre e le ritira e le fa sue, e tutto colora, e
tutto prende forma, lentamente, e sempre di più.
E forse questa luce è solo amore.
E Pete è questa luce. E Pete è questo amore.
E io sono di nuovo un corpo, caldo, che vive e che ama, e che riluce. Per
lui.
---------
Carissimi tutti, in tempo per gli auguri per il nuovo anno!!
Capitolo un po' romantico, lo so... ogni tanto ci vuole ...
Resta da vedere cosa sta facendo Jody ... Questa volta aggiungo e disvelo poco ... ma prima o poi tutto quadrerà.
Un abbraccio a chi legge, segue, e lascia una traccia negli spazi siderali ;) Amantea
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Capitolo 10 *** -10- ***
-10-
NEVERVILLE
-10-
Non ricordo bene il giorno esatto in cui tornai a parlare, ma fu con
Jody, senza dubbio.
Forse una delle notti che era corsa da lui a cercare conforto e calore.
"Mina", mormorai semplicemente. "Che hai detto?", bisbigliò.
"Mina. E' il mio nome. Ma puoi continuare a chiamarmi Neverville, se
vuoi".
"E' il posto da cui vieni?"
"Sì".
"Cosa sei?".
"Umana, credo. Tu... tu che pensi?".
"Sì, lo sei. D'un tipo specialissimo. Ma lo sei".
Non mi chiese altro. Non gli dissi altro. Mi avvicinò a
sé, e mi tenne così, forse un po' più
stretta del
solito, per tutto il tempo che potei restare nel suo letto.
Sapevo che non sarebbe durato per sempre, quel nostro piccolo mondo
all'interno dell'Accademia.
A 18 anni chi è destinato a diventare soldato effettivo
s'imbarca sulle astronavi che sorvegliano e difendono la Terra.
Chi invece è destinato alla riproduzione viene inviato sulle
Colonie.
I soldati sono sterili, non possono riprodursi. Chi ha famiglia non
può pensare alla guerra, e in un certo senso non
è una
teoria così sbagliata.
Non per un'epoca come quella che stiamo vivendo.
Il desiderio del singolo viene sacrificato in nome della sopravvivenza
del genere umano, è per questo che si entra da bambini
all'Accademia, e tutti passano dai laboratori. Tutti vengono
modificati, selezionati, avviati al loro destino.
Io non sapevo bene cosa ero. Ero l'unica che spesso si immergeva in una
vasca colma d'acqua. L'unica che veniva analizzata ogni giorno.
Jody diceva che ero umana, e io gli credevo.
Era tutto ciò che mi era rimasto, e sapevo che non mi
avrebbe tradito o mentito mai.
Man mano che si avvicinava il momento in cui Jody avrebbe dovuto
lasciare l'Accademia, per imbarcarsi, lo vedevo sempre più
irrequieto.
Non so cosa provasse veramente. Se fosse l'eccitazione per la sua prima
missione, o altro che non mi disse mai.
Era diventato un ragazzo alto di statura e certamente, da come
lo guardavano, incontrava i gusti delle ragazze.
Aveva persino mantenuto la promessa di quel giorno da bambini.
E decisamente il suo corpo si era
irrobustito e forgiato nella muscolatura.
Io per certi versi ero ancora una ragazzina. Me ne stavo isolata,
guardata con sospetto e diffidenza. I ragazzi non erano interessati a
me, né io a loro. Dormivo ancora nel laboratorio, e
quando potevo di notte raggiungevo Jody. Non più
troppo spesso in
realtà. Mi era sembrato a disagio a volte, e non volevo che
tra
noi si creasse un'atmosfera imbarazzata. Non l'avrei potuto tollerare.
Era ancora il mio unico punto di riferimento, non potevo rischiare di
perderlo per qualcosa che all'epoca non mi era nemmeno molto chiara.
Ricordo la nostra ultima notte come fosse adesso.
Fu lui a cercarmi. Si affacciò nel laboratorio, aveva l'aria
stranita.
"Dormi Neverville?". Una domanda sciocca, sorrisi nel buio precario
della mia stanza.
" No. Pensavo a te".
Si avvicinò, le mani buttate sulle braccia incrociate.
"Posso stare un po' qui?".
Lo invitai, sedette vicino a me, in quella stanza asettica e bianca,
come le lenzuola e il cuscino e il letto tutto.
"Domattina ci imbarcano sulla Motherhead".
Lo sapevo bene, volle comunque dirmelo. Forse in quel modo gli
sembrò di trovare conforto.
"E' solo una perlustrazione", precisò.
"E' il tuo battesimo", ribattei. Il tuo battesimo di soldato.
Sì, sorrise.
"Te la caverai, e andrà tutto bene". Ci credevo, fermamente.
Avevo perso mia madre. Quel dolore era più che sufficinete.
Non
avrei perso più nessun altro. Non lui.
"Tu hai ancora un paio d'anni da passare qua. Ma poi ci ritroveremo. Io
ti aspetto Neverville".
Lo guardai in silenzio, perché mi era sembrato che la sua
voce
si incrinasse un poco a pronunciare quell'ultima frase. Ma i suoi occhi
sembravano limpidi, e non li mosse dai miei. Non li chiuse, non li
abbassò. Erano dritti, in un modo che non avrei potuto
dimenticare mai.
Jody ha gettato uno sguardo sulle altri astronavi,
disposte a
raggiera
intorno alla cupola di attracco che sovrasta la base di rifornimento. Ha osservato i
soldati sciamare fuori nelle loro divise scure, prima di prendere posto
sulle navette che li porteranno al suolo. Tutti devono sostare per
qualche istante in una zona di
"decontaminazione", prima di poter salire a bordo dei piccoli aerobus
messi a disposizione dalla stazione centrale di Innertown.
All'interno si prende posto lungo il bordo, su
sedili disposti in modo tale da osservare il centro, sì che
tutti possono
vedere tutti, mentre una voce fuoricampo illustra le regole vigenti a
terra. (1) (v. cap. 7)
Il trasferimento non dura molto. Ma abbastanza
perché la
soldatessa che gli sta seduta a fianco non gli tolga gli occhi di
dosso, il viso attraversato da un sorriso
sghembo.
Più che osservarlo lo sta fissando, i lunghi capelli che le
scendono lisci oltre le spalle, una cicatrice che le
segna lo
zigomo. Uno sguardo piuttosto duro, che non fa sconti, e che sembra
quasi trovare gusto nel provocarlo.
- Sei della Motherhead,
tu -, gli dice infine.
- Sì -.
- Quindi viaggi con... con quella?
-.
Ecco dunque il motivo di tanta curiosità. Jody incrocia le
braccia al petto. Un altro soldato, dietro a lei, ha sporto la testa,
gli avambracci sulle ginocchia.
- Cosa stai dicendo Sam... voglio ascoltare anch'io! -.
La ragazza si volta. Sembra che lo sguardo sprezzante sia quello che le
riesce meglio, data la facilità con cui lo distribuisce
anche all'amico.
- Sto dicendo che qui abbiamo qualcuno che viaggia con quella... -.
- Fossi in te la smetterei di chiamarla così -.
- Oh! Interessante... -.
Sam lo sta guardando di nuovo, il sorriso che si è allargato
fino a diventare ironico.
- Voi della Motherhead
siete proprio strani. Viaggiate con quel coso che rischia di
esplodere da un momento all'altro, e con un capitano
su cui girano voci ... insomma... tutt'altro che raccomandabili... E a
quanto vedo ne siete pure orgogliosi. Veramente interessante -.
Ridacchia, appoggiando di nuovo il busto alla parete lucida
dell'aerobus.
- Via soldato, sii sincero. Non devi interpretare nessun ruolo qui.
Siamo in una terra di mezzo... Nessuno ti vede o ti
ascolta. Non c'è bisogno che reciti. Non ti viene nemmeno
molto
bene, tra l'altro -.
- Sei proprio un bel tipo tu -. Jody non può fare a meno di
notare come la cicatrice conferisca a quel bel volto un'espressione
più dura di quanto forse fosse in origine. Ma conosce il
tipo, e
non si stupisce più di tanto. Certe donne soldato sono molto
più spietate dei colleghi maschi. Più ribelli,
più indomite. E senza dubbio più insopportabili.
- Non devo dirti nulla su Neverville. Siamo in missione, dovresti
saperlo. E lei è la nostra arma. Punto -.
- Oh sì, certo. Raccontala pure così se ti fa
piacere. Se
ti hanno convinto a tal punto
da crederci, affari tuoi. Io me ne tiro
fuori -.
- Tu te ne tiri fuori? -.
- Sì. Noi della Hollerhead
(2) ce ne tiriamo fuori. Non dirmi
che non ne sai nulla -.
Ha raccolto l'invito di Sam e dell'altro soldato, che ha scoperto
chiamarsi Buster, e adesso siedono tutti e tre in una specie
di punto di ristoro nella stazione centrale. Quella sosta
improvvisata è una festa grande per Innertown. I soldati
portano notizie fresche, fanno girare un po' di monete (non che abbiano
molto valore nello spazio, se non per coloro che sognano di pagarsi il
viaggio verso altre stazioni o pianeti), e sono senza dubbio un evento
degno di nota da annotare nei registri commerciali e militari.
I tre osservano il viavai degli altri soldati, seduti in un salone che
ricorda certi posti analoghi di sapore terrestre, almeno per quello che
ne possono sapere.
- Il nostro comandante ha ricevuto l'ordine di prendere il comando
della missione. Non ne sapete nulla voi sulla Motherhead? -.
Sam lo sta guardando con un sorrisetto malizioso che a Jody non piace
affatto.
- Non capisco perché. Non abbiamo ricevuto nessuna
comunicazionbe in merito... perché mai il capitano Oliver
dovrebbe cedere il comando a Mark? -.
- Non lo so, soldato. Noi siamo qui solo per eseguire gli ordini. Non
per farci domande -. Socchiude gli occhi sul bicchiere prima di buttare
giù un sorso di qualcosa che emana un odore penetrante e
secco. Si asciuga la bocca con il dorso della mano, e torna a buttare i
suoi occhi in quelli verdi di Jody:
- A meno che tu non abbia altri obiettivi in testa... Ma ti confesso
che tutta questa missione ha qualcosa che non mi convince -. Rotea il
bicchiere vuoto tra le mani, e aggiunge: - Ringrazia questa roba che mi
fa parlare -.
- Sam tu sei sempre la solita... vedi complotti dappertutto! -,
bofonchia Buster.
- Può darsi. Oppure, stavolta, il nostro amico qui
mi darà ragione -.
- Spiegami in che senso e ti dirò cosa ne penso io -.
- Beh... Un gran dispiegamento di forze terrestri. Giusto? Le migliori
astronavi, le meglio equipaggiate, le meglio armate. Tutte in viaggio
verso un punto indefinito dello spazio. Da mesi. Non si è
mai saputo nulla di coloro che hanno attaccato e distrutto la Terra...
eppure all'improvviso se ne conosce persino il pianeta
d'origine. E si decide di sferrare l'attacco. Noi, una manciata di
astronavi, poche centinaia di soldati, a casa del nemico, per
sconfiggerlo -.
Jody ascolta con attenzione. E man mano che Sam inanella le sue parole,
e le condisce di teorie, gli sembrano sempre più familiari e
dotate di un qualche senso, seppure ancora sconosciuto.
- Dimentichi Mina. Lei sola basterebbe a spazzare via il pianeta nemico
e tutti i suoi occupanti -, chiosa l'altro gesticolando eloquentemente.
- Certo. Quella...
ma è pur sempre un'arma sperimentale. Hanno previsto che
funzionerà. Ma finché non verrà messa
alla prova non ne è data sapere l'efficacia... e non mi
sembra che abbia una seconda possibilità d'azione. O va bene
alla prima... o siamo spacciati -.
- Non ho capito dove vuoi arrivare Sam -.
- Dove voglio arrivare, Jody? Le mie sono solo osservazioni. Sono un
soldato, obbedisco. Mi piacerebbe capire un po' meglio per chi e per
cosa venderò cara la pelle. Ma tutto sommato morire qui o
altrove non fa molta differenza per me. Qualcuno avrà i suoi
motivi per averci mandato nello spazio profondo lasciando sguarniti
tutti i settori vicino alla Terra e alle colonie... -. Uno sguardo
ammiccante, prima di proseguire. - Piuttosto... il vostro bel capitano
Oliver... nasconde molti più segreti di quanto non appaia.
La sua fama di grande combattente e stratega ha messo a tacere
tutto il resto, ma... gira voce che fu lui a ritrovare Mina, sebbene il
suo salvataggio sia ancora avvolto nel mistero. Non ti pare strano?
Mina fu ritrovata una settimana dopo la distruzione di Neverville.
Nessuno è mai sopravvissuto così lungo ad un
attacco. O meglio, nessuno è mai stato trovato a
così tanti giorni da un attacco. Dicono che il capitano non
avrebbe dovuto trovarsi là. Che faceva parte di quel gruppo
di invasati... come si facevano chiamare? Quelli che credevano nella
convivenza pacifica con i nostri invasori, con... Loro?... Oh, non mi
ricordo più. Perché mi guardi così? Ti
piacciono le mie teorie? -.
Jody era rimasto assorto, in silenzio, ad ascoltarla.
Non aveva mai saputo nulla del ritrovamento di Mina. Non gli aveva mai
raccontato nulla perché diceva di non ricordare
alcunché, che non fosse la vasca dove si era immersa,
terrorizzata, in attesa che sua mamma venisse a salvarla.
Eppure qualcosa nella sua testa girava senza sosta intorno a quella
vasca, al capitano, alla natura differente di Mina... girava e non
riusciva ad incastrarsi, né a quadrare. Ma se davvero il
capitano aveva ordinato a Mark di prendere il comando... cosa aveva
previsto per la Motherhead
e il suo equipaggio? Una qualche deviazione forse... e
perchè? Forse allora ci sarebbe stato davvero il tempo per
elaborare un piano per salvare Mina dal suo destino.
Doveva assolutamente scoprire che cosa stava succedendo e parlarne con
Pete quanto prima.
E magari anche scoprire fino a che punto poteva fidarsi di Sam.
Aveva promesso a Neverville che non l'avrebbe mai lasciata sola. Che
avrebbe fatto di tutto per proteggerla e salvarla. E avrebbe mantenuto
quella promessa. A tutti i costi.
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(1) vedi Capitolo -7-
(2) vedi Cap. -7-
Torno ad aggiornare dopo molto tempo, e me ne scuso. Mi sono
semplicemente incartata con gli aggiornamenti di altre storie.
Ma il nostro viaggio sulle Motherhead e i suoi misteri continua ^^
Grazie a chi segue, commenta o legge in silenzio...
Un abbraccio, Amantea
|
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Capitolo 11 *** -11- ***
-11-
NEVERVILLE
-11-
Quel giorno mia madre mi
sembrava particolarmente malinconica.
Ci eravamo inerpicate fino alla cima di un colle, per vedere il
panorama sulla valle sottostante, fino al mare.
Un piccolo spiazzo erboso, su cui ci eravamo accomodate, una fetta di
pane tra le mani per merenda, e i suoi capelli lunghi, che il vento
agitava un po'.
Questo ricordo, soprattutto. I suoi capelli. Inutile cercare di tenerli
fermi con una mano, c'era sempre una ciocca sfilacciata, che sgusciava
tra le dita e tornava a solleticarle il naso e la bocca. E mia madre
ridacchiava, di quel vento impertinente, che le sue mani non potevano
fermare.
- Perché? -, le chiesi d'un tratto.
Le mie piccole braccia cingevano da dietro il suo collo, e il mio peso
le faceva quasi oscillare il busto.
- Perché cosa, piccola mia? -, mi chiese.
Non dissi nulla, guardai la valle, e il verde tutto che si apriva sotto
ai nostri occhi, poggiando la mia guancia alla sua.
Volse gli occhi verso di me, intercettò il mio sguardo e lo
accompagnò, fino all'orizzonte.
- Non sempre le cose sono come appaiono, Mina -.
- Ma hanno distrutto tutto, mamma... -.
Sospirò, in un modo profondo e lento.
- Sì. Ma non credo volessero farlo veramente. Credo che non
siano stati capiti, quando hanno cercato un contatto la prima volta. E
allora hanno reagito così -.
- Come quella volta mamma che ho rotto un bicchiere perché
non mi stavi ascoltando? -.
Rise, e strinse le sue mani contro le mie braccia, accarezzandole, in
gesti lenti colmi di calore e affetto.
Deglutì, chiudendo gli occhi. Me ne accorsi, la guancia
attaccata alla sua, e sotto gli occhi la grana fine della sua pelle,
morbida, rosata.
Non stavamo parlando di un bicchiere rotto, lo capì bene.
Parlavamo di terre e città distrutte, di morti, di guerra...
forse troppo, troppo per il cuore di una bambina.
- Bisognerebbe avere sempre la capacità di ascoltare.
Attendere, dare fiducia, prima di giudicare. Alcuni uomini sanno farlo,
altri no. Tu cerca di farlo sempre, Mina. Ascolta, dai fiducia, e
attendi. Prima di agire -.
Non so per quanto tempo Pete resta con la bocca incollata
alla mia, le mani intrecciate strette, il respiro fuso al mio, che si
scioglie poi in un sorriso, e gli occhi liquidi e profondi, che dicono
molto, senza staccarsi dai miei.
Un senso forte di appartenenza mi fiorisce nel petto, vorrei dirgli che
lo amo, ma resto ancora un poco muta, il corpo che galleggia
senz'acqua, sospeso tra il calore che sento ancora dentro, e quello che
percepisco da lui, ancora adagiato tutto su di me.
Voglio restare ancora un po' così, respirare i suoi capelli,
e il suo alito caldo, lasciare che il suo corpo si imprima bene nel
mio, come un tatuaggio, marchiato sulla pelle, fin dentro il cuore.
Come fossi nient'altro che sua, semplicemente.
- Farò di tutto per salvarti -. Lo mormora, carezzandomi i
capelli, gli occhi che non mi lasciano, quasi che potesse davvero
convincermi.
Io conosco il mio destino, l'ho sempre saputo. E provo quasi tenerezza
per questo ragazzo che mi ama in un modo così disarmante.
Riserro il cuore, non ci sarà scampo, soffrirà, e
sarà solo colpa mia.
E l'unica consolazione che provo, è che il mio sacrificio
servirà a salvare la Terra, e se Pete e Jody
sopravviveranno, sarà anche per merito mio.
- Non devi mettere a repentaglio la tua vita per me... La missione
è già stata decisa, cosa pensi di fare? -.
- Tu non preoccuparti, di questo -. La sua mano mi sfiora la guancia,
le sue labbra scendono di nuovo a cercare le mie.
- Non fate pazzie... tu e quella testa calda di Jody -. Sorride, del
mio tono quasi di rimprovero.
- So benissimo che voi due vi muovete sempre in coppia -, aggiungo. Ed
è vero. Forse all'inizio non avevo dato importanza alla
cosa, osservavo e prendevo atto, di quel loro modo di eclissarsi dal
gruppo, di guardarsi, di scambiarsi gesti di intesa, per poi sparire.
Ma adesso, mi è chiaro che qualcosa stavano escogitando. E
non oso pensare cosa. Come potrebbero mai affrontare il Capitano, come
metterlo in scacco... come potrebbero mai farcela, in due, contro
un'intera flotta aerospaziale.
Siedo sul letto, di nuovo la tuta rossa d'ordinanza che mi avvolge,
mentre Pete se ne sta in piedi, taciturno, anche lui nel suo bel blu
aderente, che ne segna il corpo. Immagino i pensieri che lo stanno
attanagliando, anche se nemmeno respira, quasi.
Poi d'improvviso sento l'equipaggio che fa ritorno a bordo, un brusio
confuso nelle orecchie.
- La sosta è finita -, annuncio.
Pete mi guarda quasi avesse urgenza di dire qualcosa, ma non ce
n'è bisogno.
- Verrà Jody a cercarti ... -, lo rassicuro. Non chiedermi
come faccio a saperlo, ma so che verrà qui da me a cercarti.
In fondo, è lui che ti ha spinto tra le mie braccia, lui che
ha visto oltre,
prima ancora che io stessa me ne rendessi conto, che tu fossi quello
giusto, che avrei potuto cedere e lasciarmi amare.
Ti cercherà qui, da me, l'unico luogo dove potresti essere
in questo momento.
E' la sua voce quella che mi chiama alla porta.
Uno scambio di sguardi rapido con Pete, e lascio che Jody entri.
Più che entrare piomba dentro a passo svelto, e resta poi
d'improvviso bloccato, quando si accorge di Pete in piedi da una parte
e di me seduta sul letto a braccia conserte, quasi a segnare una
distanza innaturale, che non ingannerebbe nessuno. Non so
perché provo uno strano senso del pudore, sotto ai suoi
occhi che mi osservano in silenzio, seri per alcuni istanti, prima di
sciogliersi in un sorriso sghembo, che non gli illumina il viso come di
consueto.
E non capisco se è per la situazione in cui mi ha trovato, o
per altro, accaduto a Innertown, che non posso sapere, e che pure
inizia a vibrarmi dentro, e spandersi, come una goccia d'inchiostro in
un'ampolla d'acqua, troppo piccola per mutarla di colore, ma
sufficiente a sporcarla.
- Pete ti devo parlare -. Il tono è secco, e
urgente. Non si fa scrupolo di parlare davanti a me, che io capisca, forse, non è poi importante al momento.
Appena un cenno, ma deciso, di assenso, e Pete fa il gesto di seguirlo,
fuori da qui.
Mi alzo in piedi, senza sapere bene cosa dire. Resto ferma, loro che se
ne vanno, come se potessero davvero cambiare il mio destino.
Stanno parlando per il corridoio, e non sanno che io li posso
ascoltare, senza nemmeno muovere un passo dal mio alloggio.
E questa volta voglio sapere tutto, e basta concentrarmi, socchiudere
gli occhi per cercare di eliminare il fruscio impetuoso delle tempie,
per cogliere ogni singola loro parola.
Fatti importanti...
informazioni che non ti immagineresti mai... lo sbarco è
stato solo un diversivo... la Motherhead cambia rotta...
Il tono è concitato, non l'ho mai sentito
così.
Dobbiamo agire, e alla
svelta... Quando il Capitano è da solo in sala controlli...
ce ne occuperemo io e te.
Il battito
accelera, sono degli idioti. Questo penso. Degli idioti!!
Mi involo per il corridoio, non sono distanti. Li vedo in piedi a
parlottare, le mani di uno sulle spalle dell'altro, l'adrenalina che
scorre sotto pelle.
Ne ho anche io, da vendere.
- Voi non farete proprio niente! -.
Mi guardano, come si guarda una ragazza che piomba in mezzo a cose da
uomini.
- Vi ho sentito. Toglietevi dalla testa di fare pazzie! Non voglio che
corriate rischi per me... nessuno dei due! -.
Mi guardano, come guardassero la cosa più preziosa che hanno
al mondo.
I loro occhi mi spiazzano. Non è solo Pete... ci ho appena
fatto l'amore, riconosco quello sguardo, l'ho appena conosciuto. Quello
che mi taglia in due è lo sguardo di Jody. E' intenso,
è diretto, è sfrontato. Lo vedo che si
trattiene, che stringe i pugni, che si morde le labbra. Si morde le
labbra... cosa vorrebbe dirmi? Cosa, che ancora non so?
Ed è lui che guardo. Lui che affronto. Lui, l'amico di una
vita. Spingo le mie mani sul suo petto, nemmeno lo sposto. Oscilla
appena, ma non cede.
- Noi ti salveremo, che ti piaccia o no -. Me lo sibila sul viso, gli
occhi accesi.
- Nessuno ve lo ha chiesto. Non permetterò che vi succeda
qualcosa al posto mio... a nessuno dei due! -.
- Non c'è bisogno che tu ce lo chieda, Neverville. TU...
NON... MORIRAI -. Me lo grida, con rabbia. Pete è in piedi,
lo sento, sento la sua presenza, il suo calore, colgo i movimenti
impercettibili del torace, ogni sussulto dei suoi muscoli. Ma la mia
mente è su Jody. I miei occhi sono catturati dai suoi, il
sangue scorre veloce per lui, adesso. Per quella rabbia che gli trema
tra i denti, e che non avevo mai visto prima d'ora.
- Il Capitano ci nasconde qualcosa, e io devo scorpire cosa. E se
c'è anche solo una possibilità... UNA,
Neverville, di mandare all'aria questa missione e salvarti la pelle...
giuro che non me la faccio sfuggire!-.
Mi afferra i polsi, per togliermi via le mani dal suo petto. Ma non lo
fa. Rimane, come sospeso, le dita strette intorno a me, strette fino
quasi a farmi male, eppure non me ne fa. Come se in tuta quella rabbia
ancora riuscisse a dosare la forza.
E io lo so che lo sta facendo solo per me. Lo so. Lo so che sta solo
cercando di mantenere una promessa fatta da ragazzi, in un letto,
stretti, quando non avevo altro al mondo che lui.
E allora cedo. Se l'amore mi ha già travolto una volta, che
lo faccia di nuovo.
Cedo, gli occhi bassi, i polsi che si abbassano.
- A una sola condizione -.
Lo guardo, più cattiva che posso. Non gli farei mai del
male, ma conosco la mia forza adesso.
Può uccidere, anche se lui ancora non lo sa.
- Vengo anche io dal capitano. Devo sapere, almeno quanto voi. O
così, o non vi permetterò nemmeno di avvicinarlo
-.
Un lungo istante, di rabbia che smuore lentamente.
E sia.
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Un saluto affettuoso a tutti coloro che seguono e recensiscono!
Amantea
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Capitolo 12 *** -12- ***
NEVERVILLE
-12-
Avevo un amico invisibile da bambina.
Ero piccola al tempo, avrò avuto forse quattro anni.
Non c'erano bambini a Neverville. Io non ne ho mai incontrati. Non so se venivano tenuti nascosti, o se fossero tutti già stati portati via.
Ma io avevo un amico immaginario. Gli sfogliavo i miei libri, ci facevo merenda insieme, e qualche volta mi arrabbiavo con lui.
Perché a volte combinava disastri, e poi mia madre dava la colpa a me.
Una sera mi disse che sarebbe dovuto partire. Tornarsene a casa.
Che per lui quello non era un posto sicuro. Che sarebbe arrivato qualcosa di cattivo, e di stare attenta, di non farmi prendere. Che come lui ce n'erano altri, e forse un giorno sarebbero tornati, per aiutare i bambini della terra.
Io ero talmente piccola...
Non so perché i ricordi riaffiorano quando meno ce lo aspettiamo.
Ma quella sera di tanti anni fa il mio amico mi salutò.
Fu appena un guizzo di luce, una scia di colori. E poi sparì.
L'equipaggio non è ancora tornato a bordo, Jody ha anticipato tutti e questo gioca senza dubbio a nostro vantaggio.
Non credo che abbiano bene in mente le conseguenze delle loro azioni. Jody è una testa calda, e Pete gli va dietro.
Stanno rischiano tutto... e lo stanno facendo per me.
Osservo l'espressione dura di Jody, la sua determinazione, mentre mi precede lungo il corridoio. E ascolto la strana sensazione che mi ha lasciato il nostro scontro di poco fa. Pete mi segue, percepisco anche in lui il coraggio di affrontare il Capitano, e il senso di protezione che nutre verso di me.
Io, e gli uomini della mia vita... sorrido, mentre a passo svelto puntiamo alla porta della sala comandi, fiduciosa che l'effetto sorpresa sarà più che sufficiente, e non ci sarà bisogno di alzare le armi e tanto meno -tanto meno!- di usarle.
Non contro il capitano.
Basterà disarmare lui e gli addetti ai monitor -dovrebbero essere quattro per turno, non di più- e poi costringerli a parlare.
Un piano semplice per dei fuori di testa.
Una spallata decisa, e la porta si apre, e sono rapida a cogliere il capitano fermo davanti ai suoi schermi, nell'atto di voltarsi, la mano all'arma, gli occhi dapprima fermi e poi increduli. E in pochi istanti, la mano all'arma ci corre davvero, gli altri soldati che si alzano dalle loro postazioni, poche parole gridate quasi senza senso.
Appena due guizzi di colore, è questo quello che percepisco di Jody e Pete mentre si lanciano a disarmare i compagni.
Io guardo il capitano, so che non mi farebbe mai del male, so che non può farmene.
Ma come nella vasca, mi sento forte, so che posso disarmarlo senza nemmeno toccarlo, e lo faccio. Non so bene come. Qui non c'è acqua che si solleva, eppure sì, è un'onda d'urto, che gli fa saltare via l'arma dal fianco, e gli squarcia la tuta, dalla coscia al polso.
Come un quadro, o una fotografia.
Li sento tutti immobili, raggelati nell'ultima posizione assunta prima che partisse quello che è partito dalla mia mano, e che non saprei come chiamare, ma il cui effetto è evidente.
Poi lentamente Pete e Jody si muovono, puntano le armi sui compagni, ché restino al loro posto, o ci tornino, mentre il capitano non distoglie gli occhi dai miei, e neanche si muove.
Non so se sia più incredulo o rammaricato.
- Spero che abbiate una spiegazione per tutto questo -, dice solamente. - E tenete giù quelle armi -.
Pete e Jody si scambiano un'occhiata rapida, non si fidano, restano in guardia, le cosce tese e le braccia puntate, ora sull'uno ora sull'altro.
- Sì -, dico io.
Abbiamo una spiegazione, e non c'è bisogno di armi. Non fra di noi.
Faccio un cenno con la mano, mentre mi avvicino di qualche passo.
Non dovevo essere io a guidare questo strambo attacco, eppure adesso che sono di fronte al capitano mi sento autorizzata a parlare, a chiedere, e a sapere.
Soprattutto a sapere.
Jody mi vede avanzare, sembra voler dire qualcosa, ma non lo fa.
Non so se è l'antica fratellanza che ci unisce che lo convince, ma lui l'arma la abbassa veramente, pur continuando a tenere i compagni sotto controllo.
Pete lo imita, mormora il mio nome, ma non gli rispondo.
So cosa fare.
Getto uno sguardo rapido allo squarcio che ho provocato.
Non esce sangue.
Non l'ho ferito.
E' una constatazione che mi solleva, dunque posso controllare in qualche modo questo mio potere... non è necessariamente distruttivo.
Non sono pericolosa. Non sempre. Non quando non serve. Non quando non voglio.
Il capitano alza il polso, se lo massaggia un po'.
Forse brucia. Che sensazione dà? Vorrei chiederlo... ma so che non è il caso.
E' un attimo, qualcosa mi colpisce.
Qualcosa di rosso e qualcosa di scuro.
Un tatuaggio forse... un marchio? Sul polso del capitano.
Un ricordo bambino che torna prepotente e mi toglie il fiato.
Mi blocco, non posso farne a meno.
Se non fossi già abbastanza pallida, giurerei che sto sbiancando.
- Neverville... stai bene? -. E' lui che parla. Lui, il capitano. Coglie ogni sfumatura. Me lo sono chiesta ogni fottutissima volta come diavolo faccia. Perché abbia questa maledetta sensibilità verso di me. Questa stramaledetta premura.
- No -.
Aspetto che il mio no sibilato a stento faccia effetto.
- No! -, ripeto. - Voglio sapere. Una volta per tutte. Voglio sapere la verità! -.
Non credo fosse questo ciò che Pete e Jody si aspettavano da quest'irruzione.
E adesso immagino che ci stiano guardando, percepisco il loro stupore, il loro sentirsi sospesi, e un po' interdetti.
- Voglio la verità!- grido, di nuovo.
Oliver abbassa gli occhi, e quando li rialza su di me sembrano quasi raddolciti, o rassegnati.
- La verità? -, ripete.
- Ho amato tua madre, Mina. L'ho amata veramente. E salvando te, è come se avessi salvato qualcosa di lei -.
Fa una pausa. Giurerei che ha la voce commossa. Ma forse è solo un'incrinatura, prima di tornare la voce ferma e salda di sempre.
- Ti ho tirato fuori io da quella vasca, dopo una settimana. E non eri sola in quell'acqua, Mina -. |
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