Halleluyah

di carachiel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** It's a cold and it's a broken Halleluyah ***
Capitolo 2: *** Tutto quel che è in un abbraccio ***



Capitolo 1
*** It's a cold and it's a broken Halleluyah ***


Halleluyah 2.0

Halleluyah

It’s a cold and it’s a broken Halleluyah

Era una pomeriggio gelido di fine dicembre ad Heartland City. 
Aveva nevicato per tutta la mattinata e il cielo plumbeo non dava l’ impressione di voler smettere. 
La città, improvvisamente coperta da quel delicato manto candido, si era come fermata; ogni suono era stato attutito, ogni colore era scomparso, inghiottito da tutto quella bianca pace. 

Tuttavia, ad Arclight Manor l’ aria era carica di una strana tensione fremente.

Three esitò un istante prima di bussare alla porta della stanza di Five; sapeva che per il fratello erano giorni molto difficili, poi si fece coraggio e bussò. 

“Avanti.”  
Five era seduto sul bordo del letto e teneva tra le mani un trattato di astronomia, tuttavia non lo stava leggendo; il suo sguardo era rivolto verso il telefono fisso, poggiato su un tavolino là accanto. 
“Non hanno ancora telefonato ?” domandò Three 
“No. Avevano detto che avrebbero telefonato se la situazione fosse cambiata, in bene o…- esitò, quasi avesse paura delle parole che andava a pronunciare -… in male.”
“Come si dice, nessuna buona nessuna nuo-“

Three non ebbe neppure il tempo di finire la frase che il telefono squillò. 
Five prese la cornetta in mano, sperando con tutto sé stesso in una buona notizia. 
“Pronto ?” 
Three vide il fratello farsi scuro in volto mentre mormorava: “Si… Ho capito, arrivo. La ringrazio.”      

Il ventenne si precipitò fuori dalla stanza e scese di corsa la rampa di scale rischiando di travolgere Four, che andava nel verso opposto.
In altre occasioni il Puppet Master avrebbe protestato vivacemente, tuttavia stavolta, vedendo lo sguardo stravolto del fratello, si fece da parte senza dire nulla. 

Five prese il trench e la sciarpa dall’attaccapanni e una volta pronto uscì di casa: lo salutò una folata di vento ghiacciato accompagnato da un pugno di nevischio, tagliente come la lama di un coltello. 
Il ventenne entrò in macchina ed accese il riscaldamento al massimo per evitare di gelarsi, dopodiché accese il motore e partì. Mentre guidava continuava a ripetersi, come un mantra: “Fai che non sia troppo tardi, fai che non sia troppo tardi.”

Una volta arrivato in ospedale parcheggiò e si fiondò verso la reception, dove venne indirizzato verso il terzo piano, stanza numero 70. 
Salì i gradini due a due e attraversò il corridoio a passo sostenuto prima di fermarsi davanti ad una porta con una targhetta con su scritto “Tenjo”. 
Entrò. 
Kite giaceva sul letto, con gli occhi chiusi.
Accanto a lui vari macchinari registravano i battiti cardiaci.
Il ventenne prese una sedia e si sedette accanto a lui. 

Lo guardò e gli venne da sorridere. 
Quando dormiva era l’unico momento in cui, seppur inconsciamente, abbandonava quell’ espressione accigliata che lo caratterizzava e si rilassava. 
Era strano ma in alcuni momenti Kite gli ricordava, anche solo vagamente, Four. 
Lo stesso carattere ambizioso, la stessa fierezza e la medesima tendenza a nascondere nel profondo di sé ciò che provavano. 

Con una dolcezza che non gli apparteneva Five allungò una mano, sfiorando la guancia del diciottenne con una carezza lieve. 
Rimase a lungo così, carezzandolo affettuosamente, mentre la sua mente ritornava a cinque anni prima, quand’ erano ancora maestro e allievo. 
All’ improvviso quei giorni gli parvero lontanissimi: troppe cose erano cambiate, troppe porte erano state chiuse per poterle riaprire. 
Il tempo poi aveva preso un’ altra direzione, facendo deragliare le loro vite, che fino ad allora erano corse su due binari paralleli.
Il tradimento di Faker, il ritorno di Tron, la carriera di Cacciatore di Numeri di Kite… 
E tutto era cambiato in un battito di ciglia. 

Gli rimase accanto per tutta la notte, pregando e sperando che potesse farcela. 
Alla fine, quando era ormai prossima l’ alba, stremato e oppresso dai troppi ricordi, Five appoggiò il viso sul materasso e si addormentò accanto al suo ex allievo. 
Si svegliò dopo un po’, senza saper dire quanto avesse dormito; potevano essere passate ore oppure pochi minuti. 
Sentì su di sé il peso di uno sguardo e sollevò appena la testa, quel tanto che bastava per ritrovarsi con gli occchi grigi di Kite a due millimetri dai suoi che lo guardavano con un’ espressione a metà tra l’ imbarazzato e il divertito. 
“So di essere confortevole ma la prossima volta vedi di non usarmi come cuscino, ok ?

Five sbattè più volte le palpebre, confuso, poi si accorse di essersi addormentato sulla spalla del suo ex allievo. 
“Oddio, scusami” disse sedendosi sul bordo del letto 
“Non importa. Piuttosto, come mai sei qui ?” domandò il diciottenne 
“Volevo solo sapere come stavi.” 
“Five, non mi mentire.” disse guardandolo in tralice 
“D’accordo, lo ammetto. Sono qui perché mi mancavi.” rispose il ventenne in tono annoiato. 

Kite sgranò gli occhi. Non si sarebbe mai aspettato che Five gli dicesse così apertamente che sentiva la sua mancanza. “Anche tu mi sei mancato, Chris.” disse abbracciando il suo mentore. Five per un istante rimase congelato, poi dolcemente ricambiò l’ abbraccio. Rimasero a lungo stretti l’ uno nelle braccia dell’ altro finchè Five non si accorse che la stretta di Kite si stava indebolendo.
“No, non può succedere ! Ti prego Kite, non puoi lasciarmi.”
pensò Five stringendo più forte il suo ex allievo, quasi a volergli trasmettere tutto l’affetto che provava nei suoi confronti. 

Più sentiva i suoi battiti rallentare più gli sembrava che gli stessero strappando via l’ anima dal petto. 
Cercò di comprimere il dolore in un angolo, perché non voleva che l’ ultima cosa che il suo amico vedesse fosse la sua sofferenza. 

Ad un certo punto Kite gli sussurrò all’ orecchio poche parole, come a volergli dire addio, poco più di un sussurro, per poi esalare l’ ultimo respiro. 
Five pianse, stringendo il corpo dell’ amico, con la dolorosa consapevolezza di non poter più far nulla per aiutarlo. 
Lo depose delicatamente sul letto per poi passargli due dita sugli occhi. 
L’ unica cosa che, seppur minimamente, riusciva a consolarlo era il fatto che Kite se ne fosse andato con il sorriso sulle labbra, come se la morte fosse una vecchia amica che non vedeva da tanto tempo. 
Si alzò e si diresse verso la porta ma prima di aprirla si voltò e mormorò “Addio.” 

Nel frattempo, fuori dalla porta si era creata una piccola folla. 
Non appena videro Five uscire la prima cosa che domandarono fu “Come sta ?” ognuno sperando, in cuor proprio, che la risposta fosse positiva. 
Il ventenne sussurrò “Ha smesso di soffrire.” per poi allontanarsi. Tutti gli fecero spazio, consci che lui era la persona che più di tutti teneva a Kite.

Uscì dall’ ospedale per poi dirigersi verso la macchina e salirvi. 
In quel momento fu felice che la sua famiglia non gli fosse accanto. 
Per quanto potessero dargli il proprio supporto e affetto Five non avrebbe mai potuto accettare di farsi vedere così vulnerabile. 
Era pur sempre il primogenito, la colonna portante della sua famiglia. 
La sua famiglia, per quanto fosse disastrata, era sempre stata il suo unico sostegno.        
E non poteva assolutamente farsi vedere debole da chi contava su di lui. 
Per Three e Four era sempre stato lui il punto di riferimento, la persona che aveva sempre dato loro certezze. 
Persino più di loro padre.

Già, persino più di loro padre. 
Non che Five si lamentasse di ciò, era soltanto che non voleva essere visto come un surrogato di loro padre. 
Anche lui, a dispetto di quello che pensavano i suoi fratelli, aveva avuto bisogno di una figura di riferimento. 
E quando loro padre era scomparso era riuscito a ritrovare parte delle sue certezze in Kite. 
Lo stesso era valso per il diciottenne, che in Five aveva trovato qualcosa di più di un mentore: aveva trovato un amico. 

E ora che Kite se n’era andato per sempre se n’erano andate anche le sue certezze, volate via come colombe ad un soffio di vento. 
La speranza aveva lasciato posto alla rassegnazione, davanti all’ irreversibilità della morte.

Accese il motore e partì. Non tornò verso casa, si diresse verso la campagna che circondava Heartland City.

Bastava allontanarsi anche di pochi kilometri dalla città che lo scenario mutava. 
Al posto di palazzi tecnologici, misere casette di calce bianca. 
Al posto dei robot pulisci-strada, scope di saggina. 
Al posto di fast food campi di pomodori. 
Sembrava di tornare cinquant’anni indietro nel tempo. 
Tuttavia, gli abitanti di quella zona non si lamentavano. 
Era una vita più difficile, ma senza dubbio più soddisfacente e più salubre: si mangiava il frutto delle proprie fatiche, si godeva la gioia delle cose semplici. 

Era ormai pomeriggio inoltrato quando Five fermò la macchina vicino al ciglio della strada e si incamminò verso un ponte che si affacciava su di un torrente. 
Si appoggiò al parapetto, guardando l’ acqua cristallina che scorreva sotto di sé. 

Il fiume scorreva placidamente lungo gli argini, il sole morente arrossava il cielo coi suoi ultimi raggi, rifrangendosi sulla superficie dell’ acqua in scaglie dorate mentre una leggera brezza faceva frusciare dolcemente le foglie e la neve continuava a cadere, imbiancando il paesaggio circostante.

“E’ proprio un bel posto per morire.” 

Non era stato facile prendere una decisione così estrema, ma ormai non gli importava più. 
Ogni riferimento, ogni speranza, ogni sogno era scomparso, inghiottito da quel bianco che lo circondava.

Nulla, neppure le tecnologie più avanzate, né filtri e pozioni avrebbero potuto riportare in vita Kite. 
E niente avrebbe potuto porre rimedio a quel grande buco nero che gli si era formato nel petto, ingoiando ogni illusione e ogni speranza, lasciando posto solo ad una lacerante disperazione. 
In quell’ istante nulla gli parve più dolce del sonno eterno, un sonno che gli avrebbe fatto dimenticare ogni cosa, ogni dolore e ogni pena, per far spazio solo al nulla eterno. 
Non avrebbe dovuto far altro che lasciarsi scivolare giù nell’ acqua gelida. 
Arrendersi. 
In fondo, era convinto che neppure quell’ acqua potesse essere più gelida del freddo che gli albergava nel petto.

Era quasi sul punto di tuffarsi quando un pensiero lo sfiorò. 
La sua famiglia. 
Come l’avrebbero presa i suoi fratelli se si fosse suicidato ? 
La risposta era una sola: gli avrebbe spezzato il cuore. 
Aveva il diritto di procurargli tanto dolore ?

“No, non posso fargli questo. Loro hanno sempre contato su di me e non posso tradire in questo modo la loro fiducia.”

Gli ritornò in mente quando era andato a prendere Three e Four all’ orfanotrofio e Four gli aveva urlato in faccia che lui aveva un dovere nei loro confronti. 
Ed era vero. 
Quando aveva firmato per prenderli sotto la propria custodia si era assunto delle responsabilità. 
Non poteva e non doveva abbandonarli. 
No, non poteva finire la sua vita in questo modo. 
Kite non l’avrebbe potuto sopportare. 

Ritornò verso la macchina con una strana confusione nella testa. 
Accese lo stereo per cercare di arginare i sentimenti che gli sfuggivano in tutte le direzioni e partì un vecchissimo cd di Beethoven. 
Accompagnato dal suono del pianoforte accese il motore e fece ritorno verso casa.

Angolo Autrice: Per la serie "A volte ritornano" ecco a voi Halleluyah 2.0 ! Riscritta daccapo con l' aiuto della mia insostituibile beta, ho corretto tutti gli errori presenti. 
Recensite, ho bisogno di feedback oppure non scrivo più.

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Capitolo 2
*** Tutto quel che è in un abbraccio ***


Capitolo 2: Tutto quel che è in un abbraccio.

Nda: Byron è tornato con le sembianze originali

Una volta varcata la porta di casa Four lo aggredì: “Ma si può sapere dove sei stato? E’ tutto il giorno che ti aspettiamo! Accidenti, eravamo preoccupati ! 
…O meglio, quei due lì” disse indicando con un cenno Three e il padre “erano preoccupati. A me se ci sei o non ci sei non fa né caldo nè freddo.” chiarì, come a voler rimarcare la distanza che lo separava dal fratello. 

Five lo scansò, oltrepassandolo, per poi dirigersi verso la propria camera. 
Una volta lì si lasciò cadere sul letto, esausto, sprofondando in un sonno senza sogni. 

“Cioè, mi ha ignorato? Mi ha ignorato! Appena esce di lì giuro che lo faccio pentire di avermi trattato così !” esclamò Four, ancora arrabbiato per il trattamento ricevuto dal fratello maggiore. 
“Thomas, è ovvio che sia sconvolto. Tu come ti sentiresti se ti fosse appena morto il tuo migliore amico ?”replicò calmo Byron guardandolo in tralice 
“…Che cosa ??” 
“E’ così. Ed è assolutamente naturale che tuo fratello sia distrutto. Me l’ ha comunicato ieri mattina Faker.” spiegò piatto l’ uomo, lasciando Four per la prima volta nella sua vita, senza parole. 

“Accidenti, perché nessuno mi ha detto nulla ? Gli avrei potuto dire qualcosa ! 
Ora capisco perché aveva quello sguardo stravolto quand’è uscito…” esclamò il diciassettenne gettando occhiatacce infuocate al padre. 

“Perché quando qualcuno soffre si tende, anche solo involontariamente, a lasciare sola quella persona. 
Il dolore è qualcosa che va superato individualmente e, per quanto tu possa dare conforto, non basterà mai a colmare il vuoto che si crea nel cuore, come una voragine o un buco nero, che inghiotte tutto. 
Se ci pensi bene è molto più facile dire “Il mio dente fa male” che dire “Il mio cuore è spezzato”. Eppure negare non può essere una soluzione, sebbene quando si soffre si faccia di tutto pur di non farlo pesare agli altri.” 

E Byron sapeva fin troppo bene quello che stava dicendo. 
Senza saperlo, stava ripetendo quello che gli aveva detto suo fratello, molti anni prima, quando si era ritrovato con tre figli da crescere e un senso di abbandono crescente nel petto.


La lucida spiegazione del padre lasciò Four di nuovo senza parole: il diciassettenne, scioccato e confuso, biascicò un veloce “a dopo” per andarsi a chiudere nella propria stanza, col rumore di quelle parole che gli rimbalzavano nel cervello come un'eco impazzita. 

Passarono tre giorni e la situazione non migliorò affatto. 
Il ventenne si presentava solo ai pasti, senza dire una parola. 
Mangiava e sparecchiava, per poi andarsi a rinchiudere nella propria stanza a pensare a chissà cosa. 
Era diventato un fantasma, una muta presenza, un estraneo persino per la propria famiglia. 

Three, una volta trascorsi cinque giorni, iniziò a preoccuparsi seriamente. 
Five non era mai stato molto loquace ma adesso era diventato talmente silenzioso da essere inquietante.
I tre decisero di fare una riunione per cercare di trovare una soluzione.
“Non possiamo andare avanti così! Sono cinque giorni che Five ci ignora! Dobbiamo fare qualcosa !” sbottò Three, che non riusciva proprio a tollerare quella situazione innaturalmente tesa. 
“Beh, se ti vengono in mente idee brillanti proponi pure, signor “Dobbiamo fare qualcosa”! Io credo che andrò a farmi un panino.” disse Four alzandosi dal divano e dirigendosi verso la cucina. 
“Non pensarci proprio !” lo riprese il padre “Tu rimani qua e insieme cerchiamo una soluzione.” 
“Insieme? Scusa, mi vuoi spiegare da quando in qua in questo “noi” saresti incluso anche tu?” 
“Five è anche mio figlio, potrò nutrire almeno un briciolo di preoccupazione nei suoi confronti?” 
“Se permetti, Christopher Arclight era tuo figlio, dopo quello che gli hai fatto dubito che lui ti consideri ancora come parente o parte integrante di questa... “famiglia”, se così si può chiamare.” replicò Four guardandolo con aria di sufficienza.

"Esattamente come me e Three... A volte fatico a credere davvero che lui ci consideri effettivamente parte di uno stesso nucleo.” pensò amaramente il Puppet Master ripensandoci.

“Non lo saprò mai se continuo ad ignorarlo, esattamente come fai tu, che lo fuggi come la peste.” 

“Non sono stato io ad evitarlo, è lui che mi ha scansato.” Disse a mo’ di scusante.
“Già, ma siamo stato tu a permetterglielo.” intervenne Byron. 
“L’ho già perso una volta, non posso permettermi di perderlo di nuovo.” pensò dirigendosi verso la camera del figlio maggiore.
Una volta davanti alla porta di mogano esitò un istante, vedendola accostata. Sapeva che se essa era aperta si poteva entrare liberamente, mentre quando era chiusa stava a significare che era meglio non disturbare. Aspettò un secondo per poi bussare delicatamente. 
Un leggero “Toc toc” ruppe l’opprimente silenzio che regnava nella camera di Five, spezzando l’atmosfera gelida. Il ventenne, seduto sul bordo del letto e lo sguardo perso nel vuoto, voltò appena la testa per poi mormorare “Avanti.” 
“Ti posso parlare ?” esordì Byron entrando. 
“Va bene.” L’uomo si sedette accanto al figlio, un po’ distante 
“Come stai ?” 

“Non faresti prima a chiedermi come non sto? Non felice, e questo dovresti poterlo intuire da te.” pensò con amara ironia 
“Bene.” 
“Chris, non mi mentire. Te lo leggo negli occhi che non è così.” 
“Quando la smetterai di chiamarmi con quel nome? Lo sai anche tu che quella persona che era Christopher Arclight è morta e non potrai riportarla indietro.”rispose, irritato dal suono di quel nome che gli riportava alla mente troppi ricordi sgradevoli 

“Non mi importa poi molto. Che tu ti faccia chiamare Five o Christopher Arclight non cambia nulla. Non è il nome a determinare chi siamo, sono le nostre azioni e le nostre scelte.” 
“Ah, non sapevo che per te questo discorso non valesse. Non puoi ripresentarti qui dopo cinque anni e pretendere di fingere che non sia cambiato nulla, pur di recuperare uno straccio di rapporto con noi. 
Le persone cambiano, il tempo passa.” disse Five con un tono tagliente come il ghiaccio dell’ artico. 

Non era mai riuscito a perdonare del tutto al padre quei cinque, lunghi anni di assenza e, sebbene il padre cercasse di riavvicinarsi, da lui non avrebbe ricevuto altro che fredda indifferenza. 
Serviva ben altro che delle belle parole a farlo sciogliere.

“Sarà come dici tu, ma mi sembra che il tuo rapporto con Kite non sia cambiato, a giudicare da come hai reagito.” “Non nominarlo. Tu non hai neppure il diritto di pronunciare il suo nome, soprattutto dopo quello che mi hai ordinato di fare ad Hart.” replicò il ventenne trattenendo a stento uno scatto d’ ira.
“Io…”
“Vorresti non averlo mai fatto, vero? Eppure l’hai fatto, e io ti ho obbedito, come un bravo soldatino. 

Neppure le tue belle parole adesso serviranno a qualcosa. 
Le tracce restano.” disse Five senza nascondere il pungente sarcasmo nelle sue parole. 

Poi si alzò e si diresse verso la finestra. 
Oltre le finestre la neve aveva cessato di cadere e un forte vento faceva ondeggiare i rami spogli degli alberi, tesi come braccia scheletriche a ghermire l’aria, mentre la flebile luce che riusciva a perforare le spesse nubi grigie trafiggeva i vetri resi opachi dal calore che aleggiava nella stanza. 

Sospirò pesantemente per poi mormorare a bassa voce: “Ti prego, non lo nominare. Tu non hai idea di quanto mi sia costato dirgli addio.” 

Byron rimase per un attimo scioccato dalla risposta del figlio. “Ti prego” erano due parole che Five usava molto raramente, ed era la prima volta che ammetteva apertamente quanto gli mancasse l’ amico. 
L’ uomo si alzò e gli si avvicinò, fino quasi a toccarlo per poi carezzargli affettuosamente i lunghi capelli argentei. 
“Posso fare qualcosa per te ?” gli domandò dolcemente 
“No, a meno che tu non possa cambiare il passato, ma non credo che tu possa.” replicò il ventenne chiudendo gli occhi, mentre la rabbia e il rancore che gli avvelenavano il sangue scemavano. 
“Neppure potendo vorrei farlo. 
Il passato costituisce ciò che siamo, nel bene e nel mare e cambiare ciò che è stato equivarrebbe a distruggere una parte di noi stessi. Converrebbe davvero farlo?” 

“Cambiare il passato forse cambierebbe ciò che è stato.”

“Lo so, non è bello e non è giusto ciò che ho fatto, e se ancora adesso pago lo scotto delle mie azioni vuol dire solo che è giusto così.” disse. 

Five sollevò appena la testa per andare ad incrociare gli occhi verde chiaro del padre e vi lesse solo un disperato bisogno di amore, al di là del prezzo da pagare pur di ottenerlo. 

No, non sarebbe bastato chiudergli una porta in faccia per lasciarlo fuori dalla sua vita. 
Lui sarebbe rimasto lì, con quella sua dolce insistenza.

Byron prese un respiro profondo per poi avvicinarsi al figlio e attirarlo a sé cingendogli le spalle. 
Gli passò una mano tra i morbidi capelli e ne respirò il profumo, trattenendolo più che poteva, come se fosse un prezioso incenso d’Oriente. Dopo qualche istante percepì che l’ altro si irrigidiva e allentò la stretta, affinchè potesse andarsene, se voleva. 

Non se ne andò. 

Five rimase lì, fermo, lasciandosi stringere dolcemente, ripensando all’ultima volta che suo padre l’aveva stretto così.
Quando erano ancora una famiglia.

Sebbene quei tempi sembrassero talmente lontani da appartenere a un’altra vita improvvisamente gli sembrava che fosse possibile ricominciare. Certo i rimpianti e i rimorsi sarebbero rimasti, ma sentiva prepotente il bisogno di tornare a vivere.
Era arrivato a un bivio, e da lì in poi si poteva solo andare. 

Ci pensò per un istante, poi finalmente trovò nel profondo di sé il coraggio per ricambiare l’abbraccio e azzerare la distanza tra di loro, mentre il muro che si era costruito nel cuore per proteggere quella parte di sé che ancora sperava, pian piano si sgretolava, mattone dopo mattone, lasciando libero sfogo al dolore che aveva trattenuto per troppo tempo. 
Appoggiò il capo sulla spalla del padre e chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dalla tenerezza di quel discorso così silenzioso eppure così eloquente. 
Si strinse un poco di più, mentre il calore di quel contatto così intimo lo avvolgeva e lo faceva sentire al sicuro, come se tutto il resto non fosse mai successo, come se fosse stato solo un brutto sogno, una realtà sospesa e illusoria. 
I loro due battiti si fusero in uno solo per un istante e i respiri risuonarono uno nell’altro, mentre ognuno trovava in quell’abbraccio caldo e sincero la certezza di essere amato. 

*Epifania: Manifestazione della divinità, illuminazione.

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