L'impressione di Mycroft

di Dolores Haze
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cioccolato ***
Capitolo 2: *** Una corolla senza gambo ***
Capitolo 3: *** Quel che sorprende dell'ignoto ***
Capitolo 4: *** Corona di spine ***
Capitolo 5: *** Cuore di violino ***



Capitolo 1
*** Cioccolato ***


Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Sir Arthur Conan Doyle, Steven Moffat e Mark Gatiss.

Riferimenti a persone o avvenimenti reali o ad altre storie pubblicate su questo sito sono puramente casuali e involontari. 

Questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

 

 

Il giorno grigiastro filtrava attraverso le imposte mal accomodate, illuminando la piccola stanza. Il pavimento era occupato da un tappeto logoro, una pila di grossi manuali di medicina e un calzino bianco, appallottolato con malgarbo. Il suo gemello giaceva a pochi centimetri di distanza, ma più in alto, adagiato per un quarto sul letto, pronto a scivolare al suolo alla minima spinta. Il comodino impolverato recava tracce di un recente passaggio, lì dove le dita di una mano avevano annaspato alla ricerca della sveglia, lasciando tracce come pennellate sul legno. La sveglia aveva trillato sino a spegnersi, un suono orribilmente deformato dal contatto con il suolo. Le lenzuola erano un guazzabuglio, spiegazzate all’inverosimile e leggermente umide di sudore, il guanciale ripiegato come se fosse stato colpito da dei pugni chiusi. Ferito dalla luce incombente, l’uomo si trascinò con lentezza insonnolita sino al bagno, dove, abbandonato il lungo lenzuolo entro il quale era andato avvolgendosi, si infilò malvolentieri sotto il getto d’acqua fredda della doccia. Chiuse gli occhi, ma non ne ricavò alcun tipo di sollievo. Aveva la bocca impastata, la testa dolente, gli arti intorpiditi. Si lavò con poca attenzione, sentendosi istupidito a tal punto da temere di dover trascorrere la giornata a letto, in una nube di malessere e incoscienza.

“A giudicare dal tuo passo strascicato, fratellino caro, ho l’impressione che tu sia particolarmente a disagio per qualcosa”. La voce di Mycroft sembrò insinuarsi dalla fessura della porta chiusa con melliflua rapidità.

“Considerando che mi sono svegliato da poco, fratello”, ribatté Sherlock, uscendo dalla doccia e avvolgendosi in un asciugamano pulito “la tua impressione circa il mio presunto disagio può considerarsi erronea solo per metà.” Un secondo asciugamano andò a ricoprirgli il capo. “A meno che tu non conosca qualcuno che al mattino, posati i piedi sul pavimento, si sollevi e vada a fare colazione levitando. Riconoscerai un insolito ottimismo nelle mie parole, dal momento che posso fare un rapido calcolo sull’effettivo numero di persone che hai conosciuto nella tua vita e tale stima non supera il totale dei chilogrammi che il medico ti ha prescritto di perdere. Impressione erronea, dunque.”

Mycroft non replicò subito. Stava ridendo. Sherlock afferrò con malgarbo l’ennesimo asciugamano e se lo pose sulle spalle bagnate. Chiuse gli occhi, beandosi dell’improvvisa, quanto fugace, quiete appena creatasi.

Ma avrebbe avuto vita breve.

“Come hai già lodevolmente rimarcato, fratellino” di nuovo quella voce petulante “si tratta di un’impressione erronea per metà. E il tuo impeccabile ottimismo la dice lunga sull’affetto che provi nei miei riguardi.”

“Prima che ti risponda davvero male, Mycroft, sparisci.”

“Tu sottovaluti i segnali del corpo, Sherlock, dovresti soffermarti sulla natura profonda nascosta dietro questa febbricola improvvisa. Paracetamolo, dunque?”

Respiro.

“Il disagio circa il quale deliravi poc’anzi è meramente corporale, Mycroft. Dato che mi stai tediando e che forse questo servirà a levarti dai piedi, spezzerò una lancia in tuo favore. Goditi il momento, potrebbe non ripresentarsi prima della prossima glaciazione. Dunque. Prima impressione: corretta. Effettivamente non mi sento bene. Febbricola, giusto. Molto probabile. La mia camminata ti ha suggerito che avessi qualcosa che non vada. Impressione ricavata, tuttavia, da una deduzione grossolana conseguente ad una mancata contestualizzazione. Il mio caro fratellino si trascina, o che diavolo ne so, pertanto sta male, fisicamente o emotivamente. È mattina, Mycroft. Se consideri le tue premesse, chiunque appena sveglio potrebbe risultare un depresso cronico o un pericoloso terrorista, solo da come si avvicina al bagno. Non proprio l’ideale per uno che lavora per la Regina, non trovi?”. Sorriso.

Silenzio.

“Paracetamolo, dunque. Caso chiuso.” Riprese Sherlock, strofinandosi i capelli e riponendo l’asciugamano umido. Si guardò attorno alla ricerca del phon.

“Davvero sbalorditivo. Ma tu non cammini così quando sei sveglio, Sherlock”, fu la risposta, pronunciata con tono incredibilmente serio, dall’altra parte della porta chiusa.

“Evidentemente cammino così quando sono sveglio, ma tu non puoi saperlo, per una serie di ragioni talmente ovvie che la sola idea di spiegartele mi provoca…”

“O forse posso saperlo, fratellino, per una serie di ragioni talmente ovvie che spiegartele equivarrebbe ad un vero e proprio insulto alla tua monolitica intelligenza.”

Taci. Respira. Conta. Battito accelerato, occhi umidi. Pinne nasali arrossate. Paracetamolo, senza ombra di dubbio. O una pallottola, magari, sparata dritta attraverso la vecchia, cigolante porta del bagno, odiosamente azzurra. Un foro fumante. Un corpo accasciato sul pavimento del bagno o del corridoio, gli occhi vitrei. Sangue sulle pareti.

“Mycroft, non ho intenzione di uscire da questo bagno finché non ti leverai dai piedi. Sono stato chiaro?”

“Non ho intenzione di andarmene da qui finché non avremo parlato.”

Un ringhio. “Senti un po’, oggi non hai qualche riunione super segreta? E che ne è stato di quel conflitto atomico da causare in qualche remota regione del globo? Per quale ragione…” Sherlock sbiancò. Accantonate le visioni di sangue e schegge di legno, fece un balzo felino verso la porta e la spalancò d’impulso. Mycroft, appoggiato alla parete, non diede alcun segno di sorpresa o di spavento. Impeccabile nel suo completo marrone, storse appena il naso alla vista del suo degenere fratello minore in tenuta da bagno. Ciononostante, sorrise educatamente.

“Per quale ragione ti trovi in casa mia a quest’ora?”, lo aggredì Sherlock. “Da quanto tempo sei qui? E perché ti sei messo a spiarmi?”

“Ma Sherlock”, rispose Mycroft, senza perdere la compostezza, “io ti spio sempre, qualora non l’avessi ancora afferrato.”

“Sì, ma non a quest’ora del mattino!” sbraitò Sherlock.

 “Ho soltanto pensato che, dopo i recenti avvenimenti” Mycroft sembrò esitare, ma solo per un attimo “tu potessi commettere qualche sciocchezza e che necessitassi di un sostegno.”

“Mycroft, questo è davvero commovente”, replicò Sherlock con amara ironia. “Sfortunatamente per le tue ansie da eroina, non ho assolutamente nulla che non vada. Ho intenzione di continuare a stare benissimo per ancora lungo tempo. C’è solo un macroscopico dettaglio che mi impedisce di portare a termine i miei piani, e non ha a che fare con la febbre.” Lo guardò in cagnesco, mentre lo diceva.

Mycroft fece un passo verso il fratello minore, con il fantasma di un sorriso colmo di tristezza sospeso sulla sua bocca serrata.

“Ricordo che quando eravamo bambini avevi un’irritante tendenza a entusiasmarti per qualsiasi cosa ti si parasse davanti”, disse. Sherlock sgranò gli occhi, disgustato. “Per favore, Mycroft…”

Il fratello lo interruppe. “Qualsiasi cosa”, ripeté. “Il ronzio del frigorifero, lo scorrere dell’acqua nel lavabo, i pulsanti del telecomando. Eri sempre pronto a chiedere perché. Come. Passavi giorni interi in giardino, cercando di indovinare tutte le diramazioni possibili delle radici delle piante sotto il terreno. Ricordi che prendevi piccoli appunti su un quadernino viola? Un passatempo davvero affascinante.”

“Abominevole”, ribatté Sherlock.

Mettergli le mani al collo? Comprimere con particolare attenzione le arterie carotidi? Compiere una rotazione di approssimativamente novanta gradi e cercare rifugio in camera da letto? Attendere? Capire dove vuole arrivare?

“Sfortunatamente, forse proprio a causa della tua natura volubile, la tua inesauribile curiosità non riusciva a restare concentrata per troppo tempo. Nel giro di qualche giorno eri annoiato e scontroso come se tutto quello che avevi esplorato e scoperto non avesse più alcun tipo di valore per te”, Mycroft sorrise senza scoprire i denti. “In un certo senso, un preludio a quella che sarebbe stata la tua vita di oggi.”

“Sono profondamente toccato da questo felice ricordo d’infanzia. Grazie del tuo tempo, Mycroft, buona giornata”. Sherlock si volse e rientrò nel bagno sbattendo la porta. Attese qualche secondo, aspettando di udire un rumore di passi che si allontanavano lungo il corridoio.

“Sono ancora qui”. Quasi avesse intuito i suoi pensieri. Sherlock strinse istintivamente i pugni. Se non se ne va entro cinque secondi lo colpisco, pensò.

“Ti dirò, Sherlock, che questo tuo piacere di scoprire e sperimentare quante più cose possibile riguardava anche il cibo. Nostra madre ne era deliziata, ricordi? Non appena qualcosa ti risultava particolarmente gradito, lei provvedeva a prepararlo, o comprarlo, più spesso, in modo che potessi gustarlo quando più lo preferivi. Davvero un esempio di formidabile amore materno. Ma la tua volubilità viziava anche questo processo. Ricordo intere scatole di biscotti ancora chiuse per mesi in dispensa senza che tu le toccassi. Senza che ci pensassi.”

Oh. Ecco dove vuole andare a parare.

“C’era solo una cosa che sembrava sfuggire a questa legge implacabile. È buffo che abbia dei ricordi talmente dettagliati in merito.”

“Buffo davvero”, rispose Sherlock, ma la sua voce si affievolì mentre lo diceva.

“Il cioccolato. Stecche intere scomparse nel giro di uno o due giorni. Ti nascondevi in solaio e mangiavi con voracità impressionante. Mamma non capiva, faceva spallucce e nel giro di poco tempo tornava a casa con quantità ancora maggiori. Il più delle volte pensava addirittura che fossi io il responsabile.”

“Ti sbagli di grosso, Mycroft, perché non mangio più cioccolato da anni. E prima che tu possa elaborare qualche stupida teoria sulle mie gravi carenze affettive, io…”

“Quello che voglio dire, Sherlock, è questo: ho l’impressione che negli ultimi anni tu abbia trovato qualcosa o qualcuno che sfuggisse davvero, definitivamente e per sempre, a questa terribile legge che regola la tua vita.”

Ucciderlo. Occultarne il cadavere. Potrei farlo prima che arrivi Mrs. Hudson con il tè.

La voce di Mycroft si fece più bassa e roca. “E che ora questo qualcosa o qualcuno sia, per un insieme di fattori, sfuggito a te, al tuo controllo. Per la prima volta. Una situazione oltremodo inedita.” E questo, Sherlock, aggiunse Mycroft silenziosamente, mi spaventa. Non puoi immaginare quanto.

Uno, due, tre, quattro secondi. Poi Sherlock parlò con voce neutra.

“Il qualcosa o qualcuno cui fai riferimento con le tue assurdità, Mycroft – davvero, non ci sono altre parole per descriverle – se non ho capito male, ha soltanto cambiato abitazione. Non so se sai come funziona, ma il matrimonio implica il vivere sotto lo stesso tetto. Niente è sfuggito al controllo di nessuno. Ora sparisci.”

Un sospiro. “Oh, Sherlock.”

“Vattene.”

Sherlock rimase in attesa, fremente. Mycroft sembrò esitare solo per qualche attimo, ma poi alzò le spalle e si avviò a passi lenti lungo il corridoio, facendo picchiettare l’ombrello sul pavimento. Si fermò sulla soglia dell’appartamento, in attesa. L’orribile, grigio silenzio persistette per un altro istante, spezzato dal ronzio del phon azionato da Sherlock. Solo allora Mycroft discese le scale, già inghiottito dalle incombenze della giornata crescente.

Dopo essersi asciugato e vestito, Sherlock raggiunse il minuscolo soggiorno e sedette nella sua poltrona, congiungendo le punte delle dita. Fissava ostinatamente la lampada della cucina, facendo correre lo sguardo sui mobili che aveva di fronte. Tutto gli sembrava orrendamente spoglio da quando John aveva raccolto le sue cose in alcuni scatoloni, in modo da renderne più agevole il trasporto verso la nuova casa che divideva con Mary.

È sposato, si disse, da due giorni e diciannove ore. Paracetamolo, senza dubbio. Non ricordavo il dettaglio del cioccolato. È sposato. Sessantasette ore. Sono già sessantasette ore? Mycroft dev’essere completamente impazzito. Paracetamolo e cocaina non vanno molto d’accordo, non è vero? Oh, Sherlock. Oh, John, sparisci anche tu. Forse il paracetamolo può attendere, si disse.

Mycroft si sbaglia, come sempre. È questa l’unica cosa di cui non posso davvero fare a meno. John non ha mai costituito un qualcosa da cui dipendere. Perché mai avrebbe dovuto? Cocaina e soluzione acquosa, un ago sottile, la mia vena pulsante in evidenza. È l’unica cosa cui ambisco, l’unica cosa di cui ho bisogno per non marcire, per non consumarmi. Ricordo un giorno luminoso e un grosso pezzo di cioccolato che non avevo ancora finito di masticare. Ricordo quel sapore. Non mi ha mai abbandonato. Mycroft ha davvero un’immaginazione fervida. La febbre mi rende sentimentale, oltre che incredibilmente debole. Dove diavolo avrò messo la siringa? Oh, Sherlock. Oh, John, vattene, sparisci.

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Capitolo 2
*** Una corolla senza gambo ***


La sensazione era simile a quella che avrebbe provato se si fosse immerso in un oceano di miele, di melassa, di ambra. Sognò (o credette di sognare) di nuotare in quel mare quieto e silenzioso, osservò (o credette di osservare) il proprio corpo confondere i colori con quanto lo circondava. Lampi di azzurro, di bianco, di bruno, di oro pallido, entro i quali cominciavano ad insinuarsi subdolamente altre sfumature, ben più reali e concrete. Sentì bruciore, umido, si volse di scatto su un fianco, scalciò con disperazione, già saturo di quel languore obnubilante, del quale non riusciva a liberarsi. Sgranò gli occhi ciechi per un solo istante, subito dopo dovette richiuderli. Gemendo, o credendo di gemere, annaspò alla ricerca del lenzuolo per avvolgervisi all’interno, in una sequenza di gesti noti alla parte muta e inconscia del proprio corpo, e pertanto non necessitanti di essere organizzati in modo razionale dall’intelletto piegato ad un’altra volontà.

Un colpetto di tosse lo sconvolse: il suo sogno, o quel che ne rimaneva per tormentarlo, era profondo a tal punto che qualsiasi suono sarebbe giunto amplificato in modo straziante alle sue orecchie. Così fu. Aprì gli occhi, terrificato. Oltre un velo di sudore e bruma di stanchezza, conseguenza di un sonno agitato e discontinuo, distinse nettamente una figura familiare sullo sfondo del muro crivellato da proiettili – colpa della sua accidia, del suo tormento, della dannata febbricola che lo insidiava da settimane. Il suo battito cardiaco accelerò senza preavviso.

Sulla soglia dell’appartamento si stagliava una figura nota, ma sconosciuta: ad un primo sguardo, essa sembrava un assemblaggio di più parti, ciascuna appartenente ad un individuo diverso. Sherlock distinse nettamente le piccole scarpe di Mrs. Hudson, recanti piccoli sbaffi di farina sulle punte, le quali spuntavano al di sotto di un completo gessato che sembrava quello di Mycroft, ma non poteva trattarsi davvero di lui, perché le mani, abbandonate lungo i fianchi, erano troppo piccole e delicate, più probabile che appartenessero a una donna. L’orologio al polso della mano sinistra era di Lestrade, poco ma sicuro: cinturino vecchio, logoro, quadrante graffiato. Risalendo con lo sguardo, Sherlock credette di intravedere un ciuffo di capelli biondi, ma il volto che ne ricambiava lo sguardo era sdoppiato, dai confini sfocati, impossibile da localizzare o riconoscere in alcun modo.

La razionalità prevalse sull’irrazionalità. Sto sognando, pensò. Guarda un po’ come funziona bene il mio meccanismo di censura onirica.

Udì nuovamente quel colpetto di tosse. Sherlock si ritrasse istintivamente. La strana figura mosse qualche passo verso di lui, che giaceva riverso sul pavimento accanto alla sua poltrona. Messa a fuoco con maggiore chiarezza, apparve per quel che era: grottesca, nauseante, terrifica. Una mano recava un lungo, lucente coltello.

“Non puoi farlo”, credette di bisbigliare Sherlock con un filo di voce. La figura, apparentemente sorpresa, si fermò con il braccio levato. “L’attività del mio sistema reticolare attivatore ascendente sta per intensificarsi. Ciò significa che mi sveglierò da un momento all’altro, prima che tu possa colpirmi.”

La figura sembrò sorridere. “Dunque tu credi che durante la tua veglia io svanisca, come se esistessi soltanto nei tuoi sogni?”

Sherlock si irrigidì. “Come dici?”

“Sono sempre con te, Sherlock. Un abbozzo rudimentale di tutto ciò cui tieni maggiormente, senza che possa comprenderlo sino in fondo quando sei cosciente. È solo nel sogno che ti accorgi davvero di quanto sono potente”.

“Credo di capire. È per questo che mi mostri quel coltello? Simboleggia il tuo presunto potere su di me?”

“No”, rispose la figura, con un’inflessione nel tono che a Sherlock ricordò orribilmente la voce di John. “Lo faccio perché tu possa ricordartene sempre”.

Calò di scatto il coltello su di lui, mirando al volto. Preso alla sprovvista, Sherlock non riuscì a ritrarsi in tempo, ma sollevò d’istinto una mano per proteggersi: la lama lo colpì sul palmo, tagliandolo appena, senza trafiggerlo. Con uno scatto colmo di rabbia selvaggia la figura impugnò il coltello con entrambe le mani, pronta ad assalirlo nuovamente…

Con un sussulto, Sherlock spalancò gli occhi: fu costretto a richiuderli quasi subito, a causa della luce che inondava la stanza. Si mise a sedere tra le lenzuola spiegazzate, mentre gli ultimi palpiti di irrazionalità, che lo stavano via via abbandonando, lo spinsero a guardarsi le mani e a toccarsi in volto. Il palmo della mano sinistra bruciava appena: non senza sorpresa, Sherlock vi riconobbe un filo di sangue fresco appena combaciante con la plica centrale.

Il telefonino posato sul comodino vibrò appena. Il suono distolse Sherlock dalle proprie cupe meditazioni: digitò il codice di sblocco e lesse il messaggio che Lestrade gli aveva appena inviato.

C’è qualcosa di interessante per te.

Meccanicamente, Sherlock digitò in risposta:

Dove? SH

 

“Sono sorpreso che tu ci abbia raggiunto senza fare le tue solite domande”.

“Sono sorpreso che mi abbiate chiamato soltanto adesso. A giudicare dalla tua faccia e dai tuoi vestiti, ci stai lavorando almeno da ieri sera.”

“Sì”, sospirò Lestrade, passandosi una mano sui capelli cortissimi “ma non sono ancora riuscito a ricavarne nulla. Un tuo parere accelererà i tempi. Ben tornato, a proposito. Anche tu sembri aver trascorso una notte piuttosto movimentata.”

Sherlock fece una smorfia. “Non sai quanto.”

I due uomini percorsero il vialetto che conduceva all’ingresso principale del vecchio edificio. Sherlock, nonostante il grigiore della giornata e l’umidità pressante, la mancanza di sonno e la linea di sangue che si era ritrovato sulla mano sinistra, avvertì un palpito di eccitazione quando oltrepassarono il nastro giallo e varcarono la soglia.

La costruzione era decadente e indebolita dalla mancanza di cura e dall’impetuosità con cui i fenomeni atmosferici l’avevano funestata: volgendo attorno lo sguardo, non era raro trovare i resti di finestre frantumate, calcinacci impolverati e lunghe crepe sui muri ingialliti, dalle quali faceva capolino vegetazione selvaggia. La luce era smorta e un senso di desolazione ne opprimeva le pareti. Un’antica dimora signorile. Costruita probabilmente nei primi anni dell’Ottocento e abbandonata da almeno dieci anni, considerando gli ultimi lavori di ristrutturazione operati in quella zona dell’ingresso. Sherlock non si rese conto di aver pensato ad alta voce.

“Apparteneva ad una famiglia di ereditieri emigrata in Sudamerica da decenni”, aggiunse Lestrade, mentre salivano le scale che conducevano al piano superiore. “Abbiamo controllato la documentazione.”

“Lo stato dell’immobile suggerisce che nessuno dei famigliari rimasti se ne prenda cura”, rispose Sherlock pensosamente. “Perché dovrebbe interessarmi?”

“Non ci sono famigliari rimasti a prendersene cura, Sherlock. C’è solo un custode, un uomo anziano che vive nei dintorni e periodicamente visita la casa per accertare che sia tutto a posto”, rispose Lestrade, avviandosi verso il corridoio.

“Cioè per verificare che tutto continui a cadere a pezzi e a danneggiarsi?”, replicò Sherlock, pungente.

“Qualcosa del genere”, fu la risposta di Lestrade. “In ogni caso, nel tardo pomeriggio di ieri il signor Hughes ha trovato una bella sorpresa durante la sua ispezione.”

Riluttante, Sherlock lo seguì. “Sta davvero arrivando Natale. Più si avvicina il giorno del tuo viaggio in Dorset, più diventi cinico.”

“Ah, io?”, replicò l’ispettore.

La stanza non era molto grande, polverosa e decadente al pari di quanto già aveva avuto modo di osservare. Alle pareti marciva una carta da parati che doveva essere stata elegante, beige con decorazioni floreali. Grosse macchie di umidità si allargavano agli angoli del soffitto. Non vi erano quadri o arazzi di alcun tipo, solo un lampadario imponente, dai lunghi bracci affusolati color oro, e un pianoforte, lucido, scoperchiato. Alla destra di Sherlock si trovava una toeletta in legno scuro, il cui specchio attraversato dalle crepe restituì il riflesso di un uomo lungo, pallido, smunto, terribilmente rassomigliante alla figura composita del sogno di quella mattina. Voltando il capo, Sherlock scacciò quel pensiero. A sinistra, accanto al pianoforte, si trovava un pesante tavolo nero, adagiato su un tappeto di color rosso, che contrastava terribilmente con il pallore marmoreo del pavimento.

Era una scena che Sherlock aveva osservato innumerevoli volte: gli uomini della Scientifica, intabarrati in quelle tute che li rendevano simili ad astronauti su un pianeta sconosciuto, si affaccendavano intorno a dettagli ed elementi che in un’altra circostanza sarebbero stati privi di interesse. Questa è la giustizia perversa dell’omicidio, si disse amaramente mentre si dirigeva verso il gruppo, infilandosi un guanto in lattice. Rende visibile ciò che dovrebbe restare occulto, che grida e che si dibatte per emergere alla superficie.

È morto da almeno dodici ore. Giovane, bruno, anonimo, sulla trentina. “Nessun segno di violenza? Di colluttazione?” No. Non è ironico? Sembra quasi che dorma. “Che ci faceva qui?”, chiese seccamente. “È questo che ti sto chiedendo di capire”, borbottò Lestrade in risposta, ma Sherlock non lo udì. Carnagione chiara. Due nei sul sopracciglio destro, setto nasale appena deviato. Cianosi. Occhiali… inseriti in una busta per i rilievi, lenti incrinate. Collo sano, intatto. Segni di strangolamento assenti. Passò un dito sulla camicia scura, sfiorando i bottoni, la piccola tasca. Che ci facevi qui? Sapevi che stavi andando incontro a qualcosa di ben più… “Oh.” Un collarino ecclesiastico. Un collarino ecclesiastico?

Lo estrasse con delicatezza. Lestrade lo fissò come se fosse un insetto. “E questo?”

“E questo?” gli fece eco Sherlock, sarcastico. “A quanto pare la matassa è parecchio ingarbugliata. Dunque. Uomo bianco sulla trentina.” John. John saprebbe. Lo capirebbe in pochi secondi. Dieci. Facciamo quindici. “O forse dovrei dire sacerdote bianco sulla trentina. Cianotico, volto congestionato. Paralisi respiratoria e arresto cardiaco, ad un’occhiata superficiale. Aspetta”, alzò una mano, interrompendo Lestrade, del quale aveva percepito la lieve esitazione verbale. Il detective sospirò. “So cosa stai per dire”, proseguì Sherlock. “Non ci sono segni di violenza o di colluttazione. Tutto lascia presagire che quest’uomo sia giunto qui da solo, e che da solo sia morto. Niente di più sbagliato. Per due ragioni.”

Straordinario. Sta’ zitto, John.

“Sentiamo”, mormorò Lestrade.

“Primo: il collarino ecclesiastico male occultato in una tasca della camicia. Quest’uomo doveva incontrare qualcuno, qualcuno che probabilmente conosceva e di cui si fidava. Qualcuno”, proseguì Sherlock, scrutando profondamente il volto inespressivo dell’uomo disteso sul pavimento “con cui a quanto pare aveva una relazione. Di qualsiasi tipo. Forse complicata, forse no.” Ironico, no? Cos’è più ironico? Che lo stia pensando adesso o che lo stia pensando per la seconda volta in pochi minuti? “Ha rimosso il collarino, ma non lo ha nascosto. Perché farlo? Probabilmente anche chi era con lui sapeva che era un sacerdote. Probabilmente volevano dimenticarsene entrambi per qualche tempo.”

“Entrambi? Cosa ti fa credere che ci fosse solo un’altra persona con lui?”

“Guarda questa stanza, Lestrade, e trai le tue conclusioni. Una decadente toeletta, un pianoforte scordato… non lo trovi romantico? Direi che un simile scenario ammette un massimo di due individui, non uno di più.”

“Tu credi che quest’uomo si sia incontrato qui con… un’amante?”. Lestrade abbassò la voce mentre parlava, lanciandosi occhiate furtive intorno. Lo inchiodò con uno sguardo cocente. Sherlock rimase impassibile. “Ti rendi conto di quello che stai dicendo?”

“Io non credo proprio nulla, Lestrade, deduco e basta”, rispose seccamente Sherlock.

Lestrade strinse le labbra. “E la seconda ragione?”

“Molto bene, Graham…”

“Greg!”

“Greg. Considerando il modo in cui il cristianesimo fa del martirio il proprio segno di riconoscimento, per quale ragione quest’uomo avrebbe dovuto morire nel silenzio e nell’ombra, se avesse voluto suicidarsi? Ho scritto un articolo sull’ipertrofia che sembra caratterizzare l’ego di molti ecclesiastici…”

“Questa”, lo interruppe Lestrade “mi sembra, più che una deduzione, una convinzione personale gratuita…”

Sherlock sorrise, visibilmente divertito. “Infatti. La vera ragione è che questo è un luogo perfetto per un omicidio. Fuori mano, isolato, abbandonato.” Sentì un’eccitazione crescente, mentre lo diceva. Il tedio nichilista è finito, si disse, fremente. I giochi si riaprono. “Guardalo e dimmi cosa vedi.” Lestrade fece per parlare, confuso. Sherlock lo interruppe. “Cianotico, congestionato, l’ho già detto. E sudato, anche se gran parte delle secrezioni sono evaporate. Probabilmente avrà dei segni di emorragie puntiformi a livello delle congiuntive. Tutto lascia presagire, Lestrade, che quest’uomo sia morto per avvelenamento.”

Si volse nuovamente a guardarlo. Morire per avvelenamento non dev’essere affatto facile, si disse. Eppure il suo volto ha un’espressione talmente quieta… Le mani. Non ho controllato le mani. Sherlock, fratellino, perdi colpi? Sta’ zitto, Mycroft, o ti ritroverai quell’odioso ombrello in zone indesiderabili.

“Che prove hai per dimostrarlo?”, stava chiedendo Lestrade. Ma come in un lungo, turbinoso sogno, Sherlock rimase folgorato dalla mano sinistra del sacerdote, la quale era serrata in un pugno apparentemente impossibile da sciogliere, a differenza della destra, che ricadeva invece inerme di lato. Con non poca difficoltà Sherlock vi riuscì, manovrando le dita irrigidite con una disinvoltura acquisita negli anni trascorsi a sperimentare sui cadaveri del Bart’s.

“Oh.” Per la seconda volta. È davvero questo ciò per cui vivi? È davvero così emozionante? Oh, Mrs. Hudson, non può sapere quanto. “Guarda un po’.”

Lestrade si chinò per guardare. “Cosa diavolo…?”

“Non c’è bisogno di una millenaria esperienza in botanica per sapere che questo è un fiore di aconito, Lestrade. Viola, forma conica, pochi petali. Tre milligrammi dell’alcaloide aconitina possono uccidere un uomo adulto. Un omicidio elegante, poetico. Quasi sadico, a dirla tutta. L’aconito non è propriamente l’ideale per una morte veloce e indolore.”

“Ma perché l’assassino avrebbe dovuto darci indicazioni riguardo l’arma del delitto?”

“Interessante domanda, Lestrade. Le ipotesi, a tal proposito, sono due. La prima ci dice che questo fiore costituisce una sorta di firma dell’assassino. È il suo modo per dirci: sono stato io. Sono proprio io. La seconda suggerisce che tutto questo sia frutto di una tragica fatalità. Considerando la rapidità e la considerevole diffusione di questo tipo di piante nelle campagne, probabilmente quest’uomo ha portato il fiore con sé… una sorta di galanteria dell’ultimo minuto.” Sherlock sorrise amaramente.

Lestrade chiuse gli occhi, spossato. “Bene, direi che è sufficiente, per ora. Ma questo non ci dice nulla sull’identità dell’assassino.”

“Interrogate gli abitanti della zona, chiedete loro se hanno visto strani movimenti nella serata di ieri”, replicò Sherlock. “Bussate a tutte le parrocchie e informatevi sull’identità di quest’uomo. Qualcuno starà sicuramente diffondendo la notizia della sua scomparsa.” Sherlock si sfilò il guanto in lattice, dopo aver riposto il fiore in una bustina di plastica trasparente. La consegnò ad un uomo della Scientifica e si volse nuovamente verso Lestrade. “E non siate tanto ottimisti: qualcosa mi dice che colpirà ancora. Ma io posso stanarlo prima che ciò accada effettivamente.”

Lestrade non replicò. Si limitò a scrutarlo con uno sguardo indecifrabile. Fu solo un istante, ma tanto bastò per innervosire Sherlock.

“Che c’è?”, sbottò.

“Niente”, replicò Lestrade con noncuranza. “Mi chiedevo se stessi bene, tutto qui.”

Sherlock ricambiò l’occhiata con rinnovata fierezza. Nonostante la lunga, sottile ferita che gli pulsava nella mano, non dissimile all’altrettanto lunga, fastidiosa, insostenibile ferita che da settimane lo tormentava e che tuttavia era ben più difficile da sanare… nonostante la febbre, la solitudine, la tristezza, i frequenti e incomprensibili incubi notturni, si sentiva forte, sicuro, rinvigorito. Non sorrise, ma si limitò a dire con calma:

“Io sto benissimo.”                          

 

Chiedo scusa sin da ora se qualche particolare (soprattutto dal punto di vista medico-legale) possa risultare inesatto o fuorviante. Ringrazio tutti coloro che hanno letto e recensito, in particolar modo Ayreon, justanothermuggle ed emerenziano. Le vostre parole mi hanno davvero riscaldato il cuore. Spero di non deludere le vostre aspettative. Amo moltissimo Sherlock e tutto ciò che desidero è percorrere le vie più impervie della mia stramba fantasia, senza sapere esattamente dove terminerà il cammino, tenuta per mano dai miei personaggi preferiti. Sarei felice se vorrete intraprendere questo percorso assieme a me.

Un bacio e buone feste a tutti,

alla prossima,

Denirose

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Capitolo 3
*** Quel che sorprende dell'ignoto ***


Dopo un paio di giorni trascorsi a meditare con le punte delle dita congiunte, sprofondato nella poltrona del salottino, insensibile ed indifferente a qualsiasi tipo di stimolo, il mattino soprese Sherlock con l’arrivo di Mrs. Hudson, la quale, a giudicare dalle sopracciglia corrucciate e dallo strano bagliore negli occhi miti, sembrava più determinata che mai. Il primo suono era un tintinnio argentino, sottile e difficilmente individuabile se non in condizioni di perfetto silenzio, ma l’udito di Sherlock, oltre a essere particolarmente sensibile, era anche notevolmente allenato. Il secondo suono, ben più vigoroso, era lo scalpicciare dei suoi passi da passerotto sulle scale, le quali sembravano accogliere la pressione dei piedi di Mrs. Hudson con un cigolio morbido in risposta. Terzo suono. Rumori benevoli, affettuosi, accettati, quasi attesi da Sherlock, nonostante il torpore delle sue meditazioni, le quali, a dispetto della sua postura inerme e dell’apatia dei suoi occhi, erano divenute più frenetiche con il passare delle ore.

Bruno. Aconito. Villa abbandonata. Rovine. Neanche una traccia, neanche un’impronta. L’unico a detenere le chiavi è il vecchio custode, Howard Hughes. Una casa circondata dalle campagne a poca distanza dalla villa dove è stato trovato il sacerdote. Howard Hughes. Il nome suggerisce grandezza, un passato munifico, un presente invidiabile. È invece un vecchio possidente caduto in disgrazia. Capelli grigi, occhi neri, sottile e nervoso. Le crosticine intorno alla bocca suggeriscono una dipendenza da popper. Aria ingenua, tremito impercettibile. Non aveva mai visto un cadavere prima di allora. Non divagare. Scusa, Mycroft. Un momento. Cosa ci fai tu nel mio palazzo mentale? È una cosa insana, Sherlock, lo sai bene. Sparisci. Subito, ma non prima di averti ricordato che è la vigilia di Natale e che trascorrerai quasi sicuramente una serata in compagnia.

Una serata in compagnia?

“Sherlock!”

Aconito. Cigolio della porta. Scricchiolare delle assi del pavimento. Farina, capelli raccolti, bocca dipinta. Grembiule. Vassoio. Tazza di tè. Mani tremanti. Il cucchiaino sbatacchia appena contro la zuccheriera. Un tintinnio argentino perenne, nascosto, come un suono segreto, come un messaggio. Cosa diavolo ci faceva lì quell’uomo? Come ci è entrato?

“Caro, non tocchi cibo da troppo tempo. Ho pensato che un buon tè potesse farti tornare un po’ di appetito.”

Un suono gutturale in risposta.

“Come ti senti, a proposito?”

Apparentemente è l’omicidio perfetto. Non riesco a individuare il movente. Ho troppi pochi dati a disposizione. La serratura della porta di ingresso è stata forzata una volta sola, l’ultima. L’unica stanza impiegata (per cosa, poi?) è stata utilizzata una volta sola, l’ultima. Potrebbe sembrare un suicidio.

“Ho pensato che stasera potessimo trascorrere un po’ di tempo tutti assieme. Sai, scambiarci i regali, chiacchierare, bere qualcosa…”

Ma io so per certo che non lo è.

Si schiarì la voce. “Non credo di poter partecipare. Sto lavorando ad un caso.”

Mrs. Hudson sembrò delusa. “Anche stanotte, Sherlock? Non puoi proprio prendere una giornata di pausa per stare con i tuoi amici?”

“I criminali non vanno mai in vacanza, Mrs. Hudson”, replicò Sherlock.

“Ma i consulenti investigativi possono farlo per qualche ora”, lo rimbeccò lei con determinazione, scrutandolo con occhi duri.

Un sospiro.

“Per quanto possa trovare incredibilmente avvincente la sua dedizione a certe incomprensibili tradizioni, Mrs. Hudson, non ho nessunissima ragione logicamente validata per sottostarvi”.

“E invece ne hai a bizzeffe, caro, perché i tuoi amici hanno un grande desiderio di stare in tua compagnia. Non puoi deluderli.” Mentre lo diceva, allungò una mano esile per dargli un buffetto sulla guancia. Sherlock rimase paralizzato da una sensazione di imbarazzo difficile da classificare. La sua mente, con strida di ingranaggi impazziti, riprese a lavorare freneticamente.

Tradizione. Compagnia. Champagne. Amici. Diamine. Terrificante, noioso, impensabile. Londra è piena di pericoli di ogni sorta, c’è un pazzo avvelenatore a piede libero e il mio destino è quello di ritrovarmi imprigionato in una situazione sociale talmente spinosa da farmi venir voglia di strapparmi i capelli a ciocche. Il mio battito cardiaco sta accelerando, ho le mani sudate. C’è un pensiero, uno solo, che preme per uscire, si dibatte e scalcia come in un incubo, ma non lo lascerò andare. Devo trattenerlo.

“Non mi interessa deludere o meno chicchessia. E poi ho ancora un po’ di febbre”, azzardò timidamente.

Smettila di punzecchiarmi, smettila, smettila, smettila…

Mrs. Hudson prese un lungo, eloquente respiro. Si alzò e si diresse verso il vassoio che aveva deposto sul tavolo, accanto al laptop e a una pila di libri di chimica e fisiologia. “Sherlock…”

Oh, ti prego…

“John.” Espirò senza riuscire più a trattenersi. Con un sobbalzo, riuscì a focalizzare visivamente il proprio muscolo cardiaco saltare un battito e riprendere a pompare sangue con più voluminosa audacia di prima. Arterie, capillari, vene. Scambi gassosi. John. Tu sai cosa mi sta accadendo. Tutto questo accade dentro di me, ora, subito. Lo sai bene, benissimo, eppure non ci sei.

Mrs. Hudson non diede segno di sorpresa. Era troppo impegnata a versare il tè nella tazza sbreccata, a raccogliere i granelli di zucchero sfuggiti al cucchiaino, a pianificare l’orrenda serata che, date le premesse, si preannunciava più cupa che mai. Il soffitto non si è sbriciolato sulle nostre teste, Mrs. Hudson non ha avuto nessun colpo apoplettico, io non sono morto. L’ho detto. L’ho detto davvero. John. John ci sarà? Lui, Mary, la famigliola felice?

“So bene”, stava dicendo Mrs. Hudson, porgendogli la tazza di tè con un sorriso felino “che le circostanze siano particolari e che tu non tenga particolarmente a queste feste, ma ci incontriamo ogni anno assieme agli altri. Non interrompiamo questa tradizione.”

Sherlock sorbì il tè senza replicare. Era caldo, gradevole, rinvigorente. Effettivamente, dopo qualche istante si sentì meglio. Ripose la tazzina e chiuse gli occhi, massaggiandosi le tempie indolenzite. Percepì un’esitazione infinitesima in Mrs. Hudson, la quale aveva prontamente messo in ordine il tavolino ed aveva cominciato ad avviarsi verso l’ingresso, sulla soglia del quale si era fermata, vagamente a disagio. Attraverso l’intercapedine delle palpebre chiuse, Sherlock ne visualizzò gli occhi inumiditi dalla stanchezza, l’anca dolorante, i denti che rincorrevano le labbra, affondando nella carne rosea e resa più accesa dal rossetto. Tracce di trucco, un sospiro strozzato, mani che si torcerebbero, se non avessero l’impedimento del vassoio appena tremante. Tanto bastò a metterlo in allerta.

Spalancò gli occhi. “Che c’è?”, sbottò.

Mrs. Hudson si finse sorpresa con una smorfia che qualunque altra persona avrebbe trovato graziosa, ma non Sherlock, il quale, dopo averla soppesata per un istante, inarcò le sopracciglia e decretò:

“Ha qualcosa da dirmi, Mrs. Hudson?”

La donna emise un suono soffocato, a metà tra un gemito e un risolino. “Oh, Sherlock, niente di particolarmente interessante. Ho pensato, però, che dovessi essere preparato.” All’udire quelle parole, Sherlock si visualizzò nello stesso modo in cui si trovava in quel momento: esile, semisdraiato in poltrona, il volto pallido, i grandi occhi chiari sgranati, le dita giunte, le vene improvvisamente pulsanti. La voce gli uscì sottile, appuntita: “Preparato a cosa, esattamente, Mrs. Hudson?”

Un respiro voluminoso, concentrato, saturo d’ossigeno. “Stasera…”

“Stasera?”

Ho un presentimento. Ed è il più terribile che possa mai essere concepito.

Mrs. Hudson si corresse precipitosamente. “Quel che voglio dire, Sherlock, è che vorrei tu fossi presente stasera per dare il benvenuto ad una ospite…”

È peggio di quanto credessi. Una ospite. Sesso femminile. Ospite.

“Una ospite?”

“Per la precisione, una sorta di… coinquilina”, esalò Mrs. Hudson, bianca come un lenzuolo.

Sherlock non avrebbe potuto descrivere in nessun modo il caos coagulato che gli esplose improvvisamente in tutto il corpo all’udire quelle parole. Era come se ogni suo organo si fosse ribellato alla decisione presa da Mrs. Hudson contro la propria volontà e protestasse con tutta la forza di cui era capace. Il cuore gli pulsava contro la gabbia toracica con impetuosa disperazione. I suoi polmoni sembravano necessitare improvvisamente di un quantitativo maggiore di aria da inalare, e ciononostante ogni respiro gli bruciava curiosamente e dolorosamente la trachea. Il tè sembrava avergli incollato il cardias ed il piloro, un tappo zuccherino aromatizzato al limone, sigillandogli, apparentemente per l’eternità, lo stomaco. Stille di sudore freddo gli imperlarono sgradevolmente la fronte.

Di quella deflagrazione lacerante Mrs. Hudson captò un unico, impercettibile segnale: le labbra di Sherlock, appena impallidite, si mossero appena per congedarla. “Ci sarò”, fu l’unica cosa che disse.

 

Sherlock trascorse le ore successive profondamente immerso nell’oceano che aveva invaso il suo palazzo mentale con un fragore insopportabile in seguito allo scambio avuto con Mrs. Hudson. Si era aggirato per qualche tempo per le stanze ed i corridoi umidi, muovendosi a fatica a causa dell’acqua che ne intralciava il passaggio, osservando con tristezza lo sfacelo che lo circondava e chiedendosi con orrore quando sarebbe stato nuovamente agibile. Temeva che i danni potessero essere permanenti, ma si costrinse a focalizzarsi su un solo pensiero: se non poteva affrontare tutta quell’acqua, avrebbe lasciato che quest’ultima lo ghermisse e lo portasse in qualsiasi direzione. Solo così avrebbe avuto chiara tutta la situazione e avrebbe potuto collocare al loro posto le tessere mancanti del puzzle. Così fece. Smise di opporre resistenza all’acqua e le permise di trasportarlo, muovendo appena le braccia e le gambe per rimanere a galla. La sensazione non era spiacevole: i suoi vestiti si erano gonfiati e fluttuavano, i suoi movimenti erano lenti e cadenzati. L’abbraccio dell’oceano era quasi confortante.

Quando Mrs. Hudson, vestita di tutto punto, si affacciò sulla soglia dell’appartamento, carica di stuzzichini e decorazioni natalizie, lo trovò nella stessa posizione in cui l’aveva lasciato più di sei ore prima, con gli stessi vestiti, lo stesso respiro e lo sguardo liquido e lontano. Per un istante la donna ebbe l’impulso di correre al telefono e annullare tutto, ma dopo pochi istanti prese un respiro profondo e si disse: Martha, non essere ridicola. Sarebbe peggio per lui se tutto gli fosse dovuto, se tutto gli fosse reso facile.

“Sherlock”, ordinò “va’ a vestirti. Gli altri saranno qui tra poco.”

Sherlock, pur non avendo dato cenno di averla vista o udita, si alzò lentamente e si diresse verso la propria camera. Passando nel piccolo corridoio diede un’occhiata all’orologio che portava al polso: tale gesto sembrò rinvigorirlo, perché frugò con decisione nell’armadio e scelse la camicia color bordeaux che aveva sempre indossato in occasioni come quella. Con altrettanta sicurezza passò nel bagno per lavarsi, esile, rapido, efficiente. In poco tempo fu pronto. Mrs. Hudson, nel frattempo, si apprestò ad allestire il piccolo salotto per la festa, senza perderlo d’occhio un solo istante. Dal canto suo, Sherlock non diede alcun segnale di averla notata. Terminò di vestirsi e rientrò in camera, mentre Mrs. Hudson, dopo aver sistemato le ghirlande e le lucine, pensava a quanto strana fosse quella danza inconsapevole che stavano entrambi compiendo, quasi stessero girando intorno ad un fantasma, senza toccarlo mai, senza affrontare mai il problema. Com’è possibile che un uomo tanto geniale e colto, così esperto nelle sue deduzioni, o quel che diavolo sono, possa essere tanto ingenuo e spaesato di fronte ai sentimenti? Qualunque altra persona avrebbe affrontato la cosa con una leggerezza diversa rispetto a quella che lui sta ostentando. Così si diceva Mrs. Hudson, mentre Sherlock le passava accanto senza quasi vederla, dirigendosi verso il violino posato sul tavolo polveroso e lasciando dietro di sé una lieve scia di acqua di colonia.

Le prime, esitanti note di un valzer riempirono la stanza. Mrs. Hudson si fermò sulla soglia, accarezzando Sherlock con occhi affettuosi. È così vulnerabile, si disse. Come un bambino, come un figlio. Vorrei poterlo aiutare in qualche modo.

Sherlock chiuse gli occhi, e la melodia che stava suonando divenne un sottofondo ovattato, distante. Si ritrovò nel palazzo mentale, percependo come le cose fossero cambiate in quel lasso di tempo in cui era rientrato nella quotidianità. Il flusso d’acqua si era ingrossato ed aveva aumentato la sua velocità, costringendolo a voltarsi sulla pancia e a nuotare con ampie e abili falcate. Nel farlo, lanciava sguardi angosciati intorno, appurando come l’acqua avesse corroso gli ambienti, apparentemente in modo irreversibile. Accadrà ancora? Si chiese. Tutto questo deperirà senza che io possa impedirlo? Tutto questo deperirà prima che possa risolvere il caso del sacerdote avvelenato?

I suoi pensieri furono arrestati bruscamente dall’arrivo di Lestrade e Molly Hooper, i quali lo salutarono con premura esitante. Sherlock offrì loro un sorriso tirato, poi ripose il violino e sedette, tamburellando le dita sul tavolo con manifesto nervosismo. Mrs. Hudson offrì del vino e salatini a tutti, i quali accettarono, eccezion fatta per Sherlock, che sedeva rigido e teso. “Allora, Molly”, disse “hai esaminato il corpo del sacerdote?”

Molly arrossì, ma rispose con compostezza. “Tutto lascia presagire che sia morto per avvelenamento, come avevi… insomma… già detto tu. Aspettiamo i risultati del tossicologico per una conferma definitiva.”

Sherlock annuì seccamente. Mrs. Hudson intervenne: “Non parliamo di queste cose tristi, caro. È pur sempre la notte della vigilia di Natale…”

“Un vecchio trucco che con me non attacca”, replicò Sherlock con fare apparentemente gioviale. Mrs. Hudson scosse la testa con fare rassegnato. Sherlock lanciò un’occhiata nervosa verso la soglia dell’appartamento. Arriverà? Si chiese. Arriveranno?

Molly si rivolse a Lestrade con un sorriso imbarazzato. “Come sta tua moglie, Greg?”

Sherlock decise di indirizzare la propria attenzione su quello scambio banale solo ed esclusivamente per contraddire qualsiasi risposta Lestrade avesse proferito, ma prima che potesse selezionare le affermazioni più deboli e gustose da attaccare, un suono remoto lo fece appena sobbalzare. Nessuno diede cenno di essersene accorto. Il suo stomaco sembrò rivoltarsi come un guanto, il cuore cominciò a sbatacchiare in maniera impensabile, come una finestra lasciata aperta in un giorno di vento. Strofinò nervosamente le mani sulle ginocchia, per nasconderne il sudore crescente. Sono disgustoso, si disse. E le mie metafore fanno schifo.

Sono arrivati. Lui è qui.

Si era sbagliato, ma non completamente. I passi che aveva udito sulle scale si fecero più nitidi man mano che i piedi cui appartenevano si avvicinavano. Dopo un’iniziale attimo di incredulità, rivoli di amarezza si ingrossarono nelle sue viscere. Sherlock roteò gli occhi, visibilmente disgustato. Una sola persona. Camminata leggera, quasi felpata. Struttura corporea certamente minuta e poco pesante. Niente tacchi. A giudicare dal rumore è più probabile che siano anfibi. Dànno volume al suono dei passi, che altrimenti sarebbe indistinguibile e pertanto passerebbe inosservato. Non promette nulla di buono. Ci sarebbe molto da dire sulla psicologia delle calzature. Dovrei scrivere un saggio in merito. Riassumiamo. È una donna, minuta, magra, giovane. Detesto i giovani.

“Ah, Helvia!”, esclamò Mrs. Hudson non appena quest’ultima si affacciò sulla soglia con un sorriso impacciato. Sherlock non riuscì a trattenersi e sbuffò rumorosamente. Molly gli rivolse uno sguardo interrogativo ed intenso, ma lui non se ne accorse. La sua mente riprese a lavorare con frenesia, passando al vaglio e demolendo quasi simultaneamente i dettagli e le caratteristiche ricavate dall’osservazione della ragazza.

Noioso, noioso, noioso. È stato davvero questo a prostrarmi per un pomeriggio intero? Una biondina con un anello al naso e i jeans strappati? Una sciocca che cerca di emergere dalla banalità della sua stessa vita pasticciandosi i capelli e forandosi le cartilagini? Impensabile.

“Buonasera a tutti!”, esclamò quest’ultima, rivolgendo un sorriso ai presenti. Baciò Mrs. Hudson sulle guance e si rivolse a Sherlock con un’espressione cordiale, tendendogli la mano. “Molto piacere, signor Holmes. Mi chiamo Helvia Haynes. Martha mi ha parlato molto bene di lei.” Sherlock la inchiodò con uno sguardo gelido, ma la giovane non diede mostra di essere rimasta impressionata. Ritrasse elegantemente il braccio e gli diede le spalle. Molly e Lestrade osservavano la scena a bocca aperta.

“Ti stavamo aspettando!”, intervenne Mrs. Hudson con voce appena stridula, spezzando il silenzio imbarazzato che si era improvvisamente impadronito dei presenti. “Accomodati pure.”

“Sì, accomodati, Helvia”, fece eco Lestrade con voce arrochita. “Gradisci del vino?”

“Volentieri, grazie!”, rispose la ragazza, ravvivandosi i capelli con un gesto che Sherlock soppesò per un istante. Pratico, non affettato né vanitoso. Apparentemente non egocentrica. Accolse il calice tra le mani esili e bevve un sorso. Le sue guance si tinsero leggermente di rosa. Buono a sapersi, pensava Sherlock, sarà più facile tenerla alla larga. Lanciò un’altra occhiata all’orologio e si sentì improvvisamente meglio. Manca poco, si disse.

E John non verrà.

Quel pensiero fu talmente insostenibile da spingere Sherlock ad alzarsi bruscamente, incupito. Le mani gli tremavano leggermente, ma i suoi movimenti erano secchi. Indossò il cappotto e la sciarpa e si guardò attorno alla ricerca dei guanti. Mrs. Hudson lo guardava con tristezza. Sherlock intercettò lo sguardo di Molly e Lestrade, i quali apparivano più rassegnati che sorpresi. La ragazza bionda continuava a sorseggiare il vino, ma le sue dita erano contratte. Sherlock avvertì un palpito di soddisfazione.

“Dove stai andando, Sherlock?”, chiese Lestrade.

“Ho un improvviso e frenetico desiderio di tranquillità”, rispose Sherlock con voce neutra.

Lestrade lo scrutò con diffidenza. “Non dirmi che ha a che fare con il sacerdote dell’altro giorno.”

“Se te lo dicessi non farebbe differenza, dico bene?”

Mrs. Hudson fece per aprire bocca, ma l’occhiata che Sherlock le lanciò la ammutolì. “Ti lascio qualcosa da mangiare”, disse con voce flebile.

Sherlock rivolse un ultimo sguardo agli astanti. I suoi occhi si soffermarono sulla pelle opaca e sugli anellini alle orecchie di Helvia, la quale scrutava il fondo del suo calice. Coinquilina, pensò con vago disgusto. Potrebbe rivelarsi più arduo del previsto. Ma del resto potrebbe rivelarsi anche più facile e scontato del previsto.

Si volse e scese le scale. Mrs. Hudson si rivolse con un sorriso tirato a Helvia: “Ci farai l’abitudine, cara. Sotto quella corazza batte un cuore gentile.”

Lestrade fece una smorfia. “Probabilmente si sta confondendo con qualcun altro.” Molly gli tirò una gomitata, senza sorridere. Aveva gli occhi velati di lacrime.

Sherlock uscì nella notte fredda e immobile. Guardò un’altra volta l’orologio e pensò che avrebbe potuto facilmente raggiungere la chiesa di St Peter a piedi. Mancava ancora qualche ora alla veglia di mezzanotte. Sorridendo appena tra sé, ripensò al pomeriggio trascorso nell’incertezza e nello spavento dell’ignoto che si era poi materializzato sulla soglia dell’appartamento con un anello al naso. Si figurò la ragazza bionda, sbiadita come una vecchia immagine, e pensò a quanto l’ignoto potesse essere sorprendente nella sua banalità. Poi i suoi pensieri si soffermarono con amarezza su John, più lontano che mai, e poi pensò a se stesso, gonfio di tristezza, dolente e vulnerabile come mai si era sentito prima di allora.

 

 

Desidero ringraziare sentitamente tutti coloro che hanno letto e recensito, in particolare emerenziano. Ti ringrazio davvero per tutti i complimenti (che non merito), mi riscaldano il cuore in un modo che davvero non so descrivere!

Un abbraccio, a presto,

Denirose

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Capitolo 4
*** Corona di spine ***


Il disagio di sentirsi circondato da persone, le quali avevano cominciato da tempo ad affollare l’ingresso della chiesa, accompagnate dallo scalpiccio di passi e dal vociare, rumori che creavano una sorta di condensa, di alone tiepido intorno a Sherlock, il quale attendeva irrigidito e paziente accanto a uno dei due cancelli che cingeva la scalinata, era compensato dalla consapevolezza che nessuno degli individui che attendeva di prendere posto per la celebrazione della mezzanotte avesse la minima idea di chi fosse Sherlock Holmes. Sorrisi, volti arrossati dal freddo. Scricchiolare di scarponcini e stivali contro la neve, una miscellanea di parole in inglese e in italiano, lingua che Sherlock non conosceva, ma della quale riusciva a riconoscere i suoni.

Luci fioche, sguardi fugaci. Cielo d’inchiostro, stelle esili. Sherlock guardò l’orologio una, due, tre volte.

Alla quarta, mentre muoveva appena i piedi nella neve per scaldarsi, intravide una figura fendere la folla di fedeli che si stava via via diradando man mano che tutti si dirigevano verso l’entrata. Pur sentendosi ancora debole e istupidito dalla delusione di non aver incontrato John neanche quella sera, scrutò con attenzione il volto e i capelli della donna che gli si accostò con fare esitante e domandò con un sorriso: “Sherlock Holmes?”

Sherlock annuì. “Laurine Gerthard, suppongo.” Indirizzo email improponibile. Qualcosa che ha a che fare con i gatti, se non ricordo male. Lineamenti europei, ma non inglesi. Capelli tinti, aridi, occhi chiari. Denti regolari, sani. Pelle non troppo fresca, forse a causa dell’abuso che questa donna fa di prodotti cosmetici, come segnalano i residui di trucco sulle palpebre e sugli zigomi. Ha ritenuto opportuno struccarsi prima di incontrare me? Interessante. Incertezza come tratto caratteriale o eccessivo egocentrismo? Tu che ne dici, John? Cappotto e stivali di buona qualità. Guanti morbidi, trama fine, mani piccole e apparentemente ben curate. Per lavoro? Probabile.

“Mi stava aspettando da molto?”, chiese la donna, scrutandolo in volto con sguardo limpido.

“Un tempo sufficiente da indurmi ad andare via. Ciononostante, lei è arrivata prima che potessi mettere in atto i miei propositi.”

La donna si voltò verso l’ingresso della chiesa, osservandolo per qualche istante. “Non va alla funzione di mezzanotte?”, chiese poi con un sorriso cordiale.

“Per l’amor del cielo, certo che no”, fu la risposta secca. “Vuole ora farmi la cortesia di spiegarmi per quale ragione ha inteso convocarmi qui in questo giorno, a quest’ora di notte?”. Mentre lo diceva, Sherlock provò un istintivo moto di gratitudine verso la sconosciuta, a dispetto del tono irritato e dell’occhiata severa che le lanciò. Non credo che avrei resistito un solo secondo in più, in quella maledetta stanza. Laurine lo osservava con gli occhi appena sgranati, un’espressione colpevole a incurvarle gli angoli della bocca.

“Ha ragione, mi scusi”, replicò con voce sottile. Gli occhi le si velarono, mentre proseguiva: “Può immaginare il motivo di questa convocazione, però. Desidero parlare con lei di padre Jonathan.” Le si incrinò appena la voce.

Sherlock la osservò per qualche istante, in silenzio. Poi affermò: “C’è un bar nelle vicinanze. Andiamo lì.”

Il locale in cui presero posto qualche minuto dopo era piccolo e riscaldato, con carta da parati giallo canarino su cui erano raffigurati fiori dai petali purpurei e tavoli in legno, con vezzosi centrini bianchi posati sugli stessi: tutti fattori che lasciavano presagire un certo senso di intimità in coloro che lo frequentavano. A Sherlock, tuttavia, l’illuminazione artificiale instillava una sensazione di umida tristezza, appiccicosa e annichilente. Scacciò quel pensiero e osservò Laurine ordinare un cappuccino.

“Ho un paio di condizioni cui le chiedo caldamente di sottostare”, esordì Sherlock dopo qualche istante di silenzio. Sedeva rigido, le mani affondate nelle tasche del cappotto, le gambe incrociate sotto il tavolo. La donna, perplessa, rispose: “Mi dica.”

“Sia rapida. Focalizzi gli elementi più importanti per l’indagine e me li riferisca senza annoiarmi. La avverto”, proseguì Sherlock, implacabile “mi annoio molto facilmente.”

Laurine annuì, senza sorridere. Si sfilò i guanti e incrociò le dita delle mani sul tavolo, premendo con forza i palmi. “Padre Jonathan era la persona migliore che conoscessi”, bisbigliò con un filo di voce. Sherlock osservò con attenzione la pelle screpolata del dorso delle mani della sua interlocutrice. “Aveva un grande cuore, era umile, gentile.”

Sherlock la interruppe. “Le suggerisco di riservare questo genere di affermazioni per una commemorazione, non per un’indagine. C’è altro?”

Laurine lo osservò, interdetta. “Volevo solo… farle capire che tipo di uomo fosse padre Jonathan. Conduceva una vita molto riservata, ma la sua porta era sempre aperta per chiunque ne avesse avuto bisogno. Era una persona limpida, senza segreti…”

Sherlock roteò gli occhi. “Ci risiamo.”

La donna gli scoccò un’occhiata rabbiosa. “Dovrebbe avere rispetto del dolore altrui, signor Holmes.”

“Il dolore di natura emotiva, appartenendo alla sfera dei sentimenti e delle emozioni umane, non costituisce per me ambito di interesse alcuno.”

“Invece dovrebbe, signor Holmes. Padre Jonathan era il mio padre spirituale e ha significato molto per me. Significa ancora molto…” sussurrò Laurine, estraendo un fazzoletto dalla tasca del cappotto. Nonostante tutto, Sherlock ne trovò il contegno estremamente ammirevole.

“Non c’è bisogno di commemorazioni strappalacrime, se mi ha consultato dovrebbe sapere che posso comprendere in pochissimo tempo ciò che lei intendeva dire.” Laurine lo fissò come se avesse visto un marziano. “Oh, no, non mi guardi così, lo fate sempre tutti. Dunque. Quello che lei vuole portare alla mia attenzione è il fatto che il signor Jonathan fosse una sorta di santo, o di creatura angelica. Una persona pulita, destinata a morire comodamente nel proprio letto dopo una vita tranquilla.” Laurine, nonostante le lacrime agli occhi, annuì con rabbia. “Alla luce di ciò, la sua domanda implicita, Laurine, è davvero interessante: perché proprio lui? Me lo dica lei.”

“Io?”, replicò, spiazzata, la donna. “Perché pensa che io possa saperlo?”

“Lo ha detto lei prima”, le labbra di Sherlock si distesero in un vago sorriso. “Un uomo senza segreti. Per fare questa affermazione doveva conoscerlo davvero bene, eppure…” il suo sguardo incrociò per un attimo quello della sua interlocutrice, soffermandosi per un attimo sulle sue iridi bluastre, guardandola senza in realtà vederla “c’è qualcosa, ci dev’essere qualcosa che lei non si spiega. Dico bene?”

Laurine sembrò illuminarsi in volto, ma subito dopo la sua espressione tornò cupa. “Una donna, signor Holmes.”

Sherlock congiunse la punta delle dita. “Ricorda quello che le ho appena detto?”

Con voce incolore, Laurine replicò: “Rapida, sintetica, essenziale.”

Il consulente investigativo annuì. “La ascolto.”

“A dire la verità non so molto… padre Jonathan non me ne ha mai parlato personalmente. Sono soltanto… voci… sussurri…”, esitò Laurine, torcendo il fazzoletto che aveva tra le mani. “Una donna che lo amava e che giurò di riprenderlo con sé, in un modo o nell’altro…”

Sherlock avvertì il fortissimo impulso di sbuffare rumorosamente, ma riuscì a contenersi. Prima che potesse pronunciare una sola sillaba, Laurine alzò il volto rigato di lacrime verso di lui.

“La trovi, signor Holmes”, boccheggiò, scrutandolo con occhi supplichevoli. Sherlock avvertì una sensazione sgradevole alla bocca dello stomaco. “Io…”

“Ho visto…” lo interruppe Laurine, singhiozzando “io… ho… letto… l’aconito… so cosa fa, come riduce le persone… è atroce… è perverso… e quella villa abbandonata… lei voleva che non fosse mai trovato, capisce? Voleva lasciarlo lì… a marcire…”

Sherlock non riuscì a parlare. Ecco cosa significa, sussurrò Mycroft dalla sua poltrona accanto al caminetto, mescolando lo zucchero nella sua tazza di tè. Accavallò appena le gambe e lo scrutò in volto. Ecco cosa significa perdere qualcuno, fratellino. Sta’ zitto, Mycroft. Il calore dell’ufficio di Mycroft si dissolse, e Sherlock si ritrovò scaraventato con violenza nel bar anonimo del giorno di Natale, mentre Laurine si preparava per fuggire, raccogliendo borsa e guanti con velocità sconnessa, ostacolata dal pianto. Evidentemente non c’era più nulla da dire, ma quel pensiero risultò curiosamente insostenibile a Sherlock, il quale, d’impulso, volle trattenerla: le afferrò il polso piccolo e freddo, meravigliandosene l’istante successivo. Laurine lo scrutò con espressione costernata, ma non tentò di divincolarsi.

“Era…” la voce gli uscì in un soffio. Fece una pausa, poi ritentò. “Era sereno.”

Laurine sembrò comprendere, e nuove lacrime le spuntarono agli angoli degli occhi gonfi. Sembrava avesse esaurito tutto ciò che avrebbe voluto o potuto dire.

“Io ho visto il suo corpo, l’ho esaminato…” proseguì Sherlock, goffamente. “Sembrava dormisse. Come se non avesse sofferto.”

Laurine annuì, piangendo. Sherlock, sconfitto, ritrasse la mano. La donna gli porse la sua, con un bagliore di gratitudine annidato nello sguardo.

“Grazie, signor Holmes.”

Sherlock ricambiò la stretta, volgendo gli occhi verso l’ampia vetrata del locale che dava sulla strada. Doveva essere molto tardi. Iniziava a nevicare. Sorrise con tristezza remota.

“Buon Natale, Laurine.”

 

Rientrò dopo qualche ora. La notte era profonda, scura, sbiancata dalla neve farinosa: entrò nell’appartamento pensando freneticamente, nonostante l’ora tarda, allo scambio avuto con Laurine, rimproverandosi aspramente per l’irrazionalità sgradevolmente emotiva con la quale aveva condotto il colloquio. Che mi sta succedendo? Si chiese. Non ho mai avuto in simpatia le festività, né le donne che piangono. Ciononostante, quanto mi ha suggerito potrebbe essere fondamentale. Avvelenamento, molto poetico, molto femminile. Movente passionale, il cerchio si chiuderebbe. Per ora, in ogni caso, questa donna ha le fattezze di un fantasma, considerando che non ha lasciato tracce di alcun tipo. Dovrò esaminare personalmente tutti gli effetti personali e i documenti di padre Jonathan…

“Signor Holmes?”, la voce, sgradevolmente familiare, alterò per un attimo il delicato equilibrio dei suoi pensieri.

“Cosa?”, sbottò in risposta. Helvia, orrendamente seduta nella poltrona di John, – la poltrona di John! – si alzò con aria colpevole, come se sapesse. Senza la felpa e i jeans strappati, senza trucco e piercing, infagottata in un anonimo pigiama di flanella, sembrava ancora più insignificante della prima volta in cui Sherlock l’aveva vista.

“L’ho aspettata per chiederle scusa”, sussurrò la ragazza, torcendosi le mani. “Per essere piombata in questo modo in casa sua, senza preavviso… Sono a Londra solo da qualche mese e avevo bisogno di un posto dove stare per poter proseguire gli studi… Martha è stata così gentile da offrirmi questa soluzione per qualche mese, prima che io trovi una casa mia…”

Sherlock sollevò una mano per interromperla. “Potremmo andare avanti per tutta la notte in questo modo, ed è l’ultima cosa che desidero al mondo”, disse con voce neutra. “La sua camera da letto è al piano di sopra, come già sa, considerando che durante la mia assenza ha già sistemato le sue cose.” Si voltò per andarsene.

“Mi dispiace, signor Holmes”, rispose Helvia in un bisbiglio triste che per un momento lo raggelò, pur continuando a dirigersi verso la sua stanza. “Mi dispiace per tutto.”

Sherlock non rispose. Continuò a camminare come se nulla fosse e si chiuse la porta alle spalle, chiudendo gli occhi per un secondo. Il telefono, con un suono di cuore spezzato, vibrò appena nella tasca del cappotto. Un messaggio. Di John.  

Sherlock dovette sedersi, il sistema cardiocircolatorio in cortocircuito, le mani sudate, la pelle sbiancata dalla paura, dall’emozione.

Io non ho emozioni, si disse seccamente, prima di ricadere nel deliquio. Il mio cuore, le mie vene. La notte fuori dalla finestra sembrava perfetta per accogliere il suo dolore, la sua disperata speranza, la sua vulnerabile, tenera dolcezza, la stessa che gli si sprigionò nelle viscere come un manto di velluto e seta dopo aver letto il testo del messaggio. Rimase a fissarlo per altro tempo, incalcolabile, già dimentico di qualsiasi cosa – Reichenbach, la rabbia, il matrimonio, la solitudine, il sacerdote, il palazzo mentale invaso d’acqua, dalle fondamenta esili, debole, il pianto di Laurine, il dolore di Laurine, così insopportabilmente rassomigliante al proprio.

Scusa se non sono riuscito a passare.

Ho avuto un po’ di problemi da risolvere.

Spero tu stia bene.

Buon Natale, Sherlock, a presto.

John

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Capitolo 5
*** Cuore di violino ***


Il campanello suonò due volte. Sherlock era già in piedi, vestito di tutto punto, lo sguardo puntato sui documenti del sacerdote che un riluttante Lestrade gli aveva fatto pervenire in mattinata. Due volte. Anomalo, insolito, improbabile. Sherlock lasciò vagare distrattamente lo sguardo sulle carte, sbuffando appena. Pensa, pensa. Nessuna citazione, nessun riferimento, se non qualche rigo ambiguo nel quaderno personale, composto con una grafia talmente contorta da risultare quasi indecifrabile. L’inibizione sessuale che trasudano questi scritti è talmente palese da farmi torcere lo stomaco dal disgusto. La banalità di questa vita è palpabile. Inibito e banale: un connubio insopportabile.

Fatture, carte di poco conto. Davvero un uomo pulito, anonimo, insignificante. Perché farlo fuori? E in modo tanto atroce, per giunta.

Con una smorfia di disappunto, Sherlock riprese il quaderno dalla copertina nera tra le mani. La chiave del mistero, a quanto pare, è tutta celata qui dentro. Dovrò passare al vaglio racconti di giornate interminabili, riflessioni sulle Scritture, brevi annotazioni sui membri del coro – un possibile cantore, ulteriori connessioni? Noioso. Odioso. Sconfortante. E Laurine Gerthard? Nemmeno un riferimento?

Che senso ha annotare minuziosamente tutto quello che succede? Perché non immagazzinare, semplicemente, tutto nel proprio database cerebrale? Ognuno di noi ne possiede uno, pressappoco con simili potenzialità: se solo tutti sapessero usarlo con la mia stessa efficienza, il mondo sarebbe un posto migliore.

Il cigolio remoto della porta d’ingresso. Un suono sospeso, infinitesimo.

In ogni caso, quest’uomo non doveva avere granché da fare nelle sue giornate. Il tedio della sua esistenza è talmente intenso da risultare osceno. Persino la sua fede – ma del resto, cosa posso saperne io? – appare opaca, viziata, come un vetro cosparso di ditate.

La carta di questo quaderno è di pessima qualità. L’inchiostro della sua penna è vago, sbiadente, contenuto in una cartuccia da pochi penny. Castità, umiltà, povertà… non è così? – ma qui si esagera un tantino.

Esclamazioni di contentezza di Mrs. Hudson.

Osceno. È la parola giusta.

Cosa diavolo starnazza quell’impossibile donna? E dov’è finito il mio tè?

“Come sei dimagrito! Il matrimonio ti dona, non è vero?”

Il muscolo cardiaco non può cedere a suo piacimento, a meno che non ci si trovi in particolari condizioni di scompenso o di patologia conclamata. Di per sé, è normalmente trattenuto dalle sue sierose e dai suoi stessi fremiti instabili. Non è vero, consulente investigativo?

“Te lo garantisco, invece!”, cinguettò Mrs. Hudson in risposta a qualcosa che il proprio interlocutore – un interlocutore familiare, sposato da poco, evidentemente giovane a giudicare dal passo elastico, atletico, conosciuto, adorato – aveva proferito e il cui suono non aveva raggiunto l’appartamento situato al piano superiore.

Sherlock non aveva mai prestato particolare attenzione alle istanze del proprio corpo, avendolo sempre reputato una sorta di involucro vuoto, finalizzato esclusivamente alla custodia e alla protezione del proprio granitico intelletto. Senza rendersi conto di come potesse essere accaduto, si ritrovò in piedi, ansante, fremendo, vagando come impazzito per il salotto. Scendo, si disse. Scendo e lo ammazzo. No, no, no, no! Lo aspetto qui, acquattato. Un predatore in attesa della sua vittima. Lo circondo con le braccia, il tempo necessario per confonderlo, e poi lo stordisco con un pugno. I suoi passi erano sempre più concitati, i suoi occhi saettavano follemente dal muro al tavolino, dal tavolino al pavimento, dal pavimento alla porta, dalla porta alla finestra, in modo talmente sconnesso da lasciare intuire il caos frenetico esploso nella sua testa.

Non puoi pensare così, chiarì l’eco di una voce inquisitoria, la quale giunse ovattata, come da dietro una porta chiusa. Sherlock, ringhiando, visualizzò lo studio del fratello, illuminato dalla luce sterile che filtrava attraverso le eleganti tende, udì il frusciare detestabile di granelli di zucchero fendenti la superficie ambrata del tè contenuto in una fragile tazza di porcellana bianca. Sentì con dolore l’odioso, ovattato, acquatico rimestare di un cucchiaino al suo interno. Il liquido era troppo, pensò, pur non vedendolo: avrebbe raggiunto facilmente il bordo della tazza. Taci, Mycroft, per l’amor del cielo. Fratellino, sei scomparso per due anni senza lasciare traccia, lasciando il tuo partner nel lutto e nella sofferenza. Lasciagli riprendere ciò che gli spetta di diritto… Il tè traboccò. Rivoli color paglierino si raccolsero nel cerchio del piattino dai bordi dorati.

Non è il mio partner, replicò Sherlock con un sibilo. Sapevo che il tè sarebbe traboccato. Sei un idiota, Mycroft. La porta cigolò delicatamente. Il cuore di Sherlock ebbe un sobbalzo. Salì sul tavolino, calpestando le carte del sacerdote ammonticchiatevi sopra. Non è il mio partner, non è il mio partner, non è il mio partner, non è…

“È un brutto momento?”, chiese una voce con gentilezza.

Sherlock sbiancò in volto, sgranando gli occhi. Attese un istante prima di volgersi verso l’uscio, fingendo di esaminare un post-it appiccicato sulla parete all’altezza del proprio sguardo chissà quanto tempo prima.

Inspirò lentamente. “Pessimo”, dichiarò freddamente. “Il peggiore tra i peggiori.” Era ancora di profilo, lo sguardo glaciale e disperato puntato sulla carta da parati.

Gli sembrò di percepire un sorriso in risposta. “Sono contento anche io di vederti, Sherlock.”

Sherlock sbuffò. “Contento”, pronunciò con sprezzo. Discese adagio dal tavolino e sogguardò John per un istante, prima di dargli le spalle e dirigersi verso la piccola scrivania. Finzione, finzione, pensò con disgusto. Sono la grottesca pantomima di me stesso.

Avvertì John sospirare. “Se ti sto disturbando, posso ripassare un altro giorno.”

“No.” Temette di aver alzato troppo la voce. L’espressione vacua di John glielo confermò. Per l’amor del cielo, non arrossire. “Resta pure.” Resta, John. “Accomodati.”

John si schiarì la voce. “Ti ringrazio.”

Sherlock aveva fatto tutto ciò che gli era stato possibile per rimandare il momento in cui avrebbe nuovamente posato davvero gli occhi su John. Il periodo di lontananza prima di quell’incontro era stato esiguo, – qualsiasi frangente di tempo è minimo rispetto all’eternità scintillante della solitudine – ciononostante Sherlock temeva, nel cuore del suo cuore, che John potesse essere cambiato a tal punto da divenire irriconoscibile agli occhi di chi ne conosceva ogni più recondito ed impenetrabile segreto, esposto in piena luce sulla pelle chiara. Tuttavia, quando posò gli occhi sul suo volto, sulle sue mani, sulle pieghe della camicia, sul cavallo dei pantaloni, si rese conto con un fremito di disperato riconoscimento che John era sempre John, anzi, che era più John che mai, con i capelli tagliati corti, la barba di due giorni e le borse sotto gli occhi chiari, schietti, onesti; John con i lacci della scarpa destra appena allentati, con i jeans scuri e le unghie rotonde tagliate corte; John appena più magro, più smunto, apparentemente più infelice – il matrimonio, davvero, non ha poi tutti questi benefici –. John con la fede al dito, più lontano, più irraggiungibile che mai.

Sherlock, con incuriosito dolore, si rese conto di non essersi mai sentito così prima di allora. John era di nuovo lì, la sua fisicità affondata nella poltrona, lo sguardo quieto e affettuoso posato su di lui, somigliante in tutto e per tutto a una lieve farfalla dalle ali variopinte adagiata inconsapevolmente sul tronco di una vecchia, dura quercia secolare… Una bolla tumida, gonfia di appassionata nostalgia, prese a crescere nel petto di Sherlock. La sua mente, snello, filiforme segugio, cominciò a inseguire immagini impossibili. Le mani gli tremavano. Fratellino… controllo. Sta’ zitto, Mycroft. Afferrò il violino posato accanto alla propria poltrona e cominciò a pizzicarne con forza le corde. John sorrideva, consapevole di tutto e di niente.

“Un nuovo caso?”

“Sì, nuovo.”

Il violino gemeva, offeso e rassegnato.

“Di cosa si tratta?”

Vuoi davvero parlare di questo, John?

“Sacerdote. Atrocemente avvelenato.”

“Sacerdote? Avvelenato?”

“Atrocemente, John.”

“Caspita.”

“Tu?”

“Io, cosa?”

“Come…”, Sherlock incespicò mentre parlava. Ho la bocca dannatamente asciutta, maledizione. Osservò per un istante la tastiera del violino, e la sua mano si allontanò dalle corde. Sentì lo strumento tirare, per un istante, un sospiro di sollievo. Premette con forza un dito sull’intarsio del ricciolo. Dove diavolo è Mrs. Hudson quando serve? “Come stai?”.

Un velo andò a oscurare lo sguardo di John. Sospirò impercettibilmente, ma quando levò il viso verso di lui, la sua espressione era forzatamente cordiale. “Sto bene”, rispose. “La vita coniugale è…”

Sherlock distese le labbra in un sorriso a trentadue denti. Sta bluffando, pensò. Posso farlo anche io.

“Assai appagante”, proseguiva John, ignaro di tutto. “Mary è molto, molto cara.” Diede un colpetto di tosse, tentò di schiarirsi la voce arrochita. Riprovò con maggiore successo. “Tutto sommato noi… stiamo molto bene, sì.”

Si guardarono per un istante. Sherlock sollevò un sopracciglio.

“E tu?”, chiese John con forzata allegria, spezzando il silenzio. Sherlock si rese conto di non averne realmente soppesato la profondità e il volume sino a quando John non lo aveva interrotto, forse di proposito, forse perché era tanto squamoso, invadente, colmo di significati inespressi da risultare intollerabile. Quel pensiero lo turbò.

“Io, cosa?”, chiese con malgarbo.

“Anche tu non te la passi tanto male, vedo”, commentò John con un lieve sorriso. “Mrs. Hudson mi ha detto che hai una nuova amica.”

Sconcerto. “Se Mrs. Hudson si riferisce alla rifugiata in calzamaglia venuta ad occupare abusivamente il tuo posto, John, direi che potremmo attribuirle gli appellativi più disparati, ma nessuno tra questi sarebbe per me più offensivo quanto quello che hai appena usato tu.” Fu la gelida replica. 

John roteò gli occhi, divertito. “Ah, già. Dimenticavo che tu sei Sherlock Holmes, l’uomo senza amici. Neanche per sbaglio.” Lo guardò con una strana, inesprimibile dolcezza negli occhi.

“Dovresti dire: l’uomo con un solo amico…” cominciò Sherlock, la bocca arida. Dovette fermarsi. Un solo, vero compagno di vita.

John volse lo sguardo attorno a sé, schiarendosi la voce, ma Sherlock percepì che aveva capito, che taceva solo per impedire che accadesse l’inimmaginabile. John, tu non hai idea di come sia, gli disse silenziosamente, sentire tutto, vedere tutto, sapere tutto. Hai cambiato bagnoschiuma: questo ha delle note floreali vagamente disturbanti. Un regalo di Mary? E la barba? I baci ispidi ora sono più graditi? O forse no? Forse dormi sul divano? Per terra? O vieni da una nottata di sfrenati amplessi, tanti e tali da lasciarti quelle spaventose occhiaie? I miei pugni stretti in grembo. Una serpeggiante, strisciante paura, frammista a orgoglio, gelosia, emozione, passionalità. Nostalgia. Oh, John, non riesco più a leggerti. Pochi mesi di distanza, la tua destra unita alla destra di un’altra donna, e ti ho perso per sempre. Ma il tuo tatto, il tuo odore… sono così sterili, così impersonali. Hai cancellato ogni traccia? Per me? O, semplicemente, non ho tracce da seguire?

Con orrore, udì John dire: “Bene, sarà meglio che vada. Devo andare in ambulatorio.” Un’occhiata all’orologio, una mano tesa a stirare le pieghe della camicia. Con un movimento fluido, snello, John si alzò. “È stato…” si schiarì nuovamente la voce, “è stato un piacere rivederti, Sherlock. Se dovessi avere bisogno di qualcosa… di qualsiasi cosa… conta pure su di me.”

“Certo”, bisbigliò Sherlock, intontito dal dolore.

“Ah, e tienimi aggiornato sul caso del sacerdote. Sembra… promettente.”

“Puoi venire ad aiutarmi quando vuoi. Questa è casa tua, John”, mormorò Sherlock. “Ricordalo.”

John lo guardò. Sherlock temette di non riuscire più a contenersi, ma non poté fare a meno di soffermare i propri occhi in quelli dell’uomo che aveva di fronte. Un uomo giovane, sposato, un corpo di carne, ossa e cartilagini, come il proprio. Un corpo colmo di segreti, di pensieri, di specchi d’acqua profonda, di cancelli dorati, di giardini al crepuscolo… Sherlock avvertì una fitta di rimpianto.

Si osservarono a lungo, intensamente.

John fece un passo. Uno solo. Mosse con delicatezza il piede sinistro, flettendo il ginocchio, il suo tronco s’inclinò appena, i suoi occhi vagamente velati saettarono dagli occhi alle labbra di Sherlock. Erano umidi, torbidi, colmi d’un tremito infinito, sospeso, indecifrabile. Nessuno mi ha mai guardato così, pensò Sherlock per un luminoso istante. Trattenne il respiro, temendo di tramutarsi in cenere. Qualsiasi cosa faccia, si disse, è la cosa giusta.

John si fermò. Il suo sguardo opaco sembrò schiarirsi d’incanto. Osservò Sherlock con sguardo nuovo, lontano, lo sguardo di un uomo sposato, poi distese le labbra in un sorriso timido, di scusa, e bisbigliò con voce arrochita, senza più tentare di schiarirla: “Ci vediamo.”

Sherlock non rispose. Vide John voltargli le spalle, raggiungere con ritrovato vigore la porta, aprirla, uscire, richiuderla con delicatezza, senza guardarlo, senza aggiungere altro. Udì i suoi passi giù per la scale, lenti, misurati, eppure abitati da una certa frenesia remota, insondabile, inesprimibile. Desiderò di averlo accompagnato sulla soglia, di avergli fatto sbattere la porta alle spalle tanto da far vibrare i cardini, e una nuova frustrazione, simile ad incendio liquido, lo pervase sino alle più delicate fibre del corpo. Si rese conto, con l’illuminazione selvaggia delle grandi idee e delle più triviali passioni, che John aveva concentrato la sua presenza particellare in un solo punto della stanza: e che quel luogo era tanto più prezioso da frugare quanto più l’essenza di John sbiadiva con il trascorrere dei minuti. Con un salto animalesco, Sherlock si annidò sulla poltrona dove, fino a pochi istanti prima, John si era accomodato, facendo dondolare la gamba destra, passandosi una mano tra i capelli, schiarendosi senza successo la voce. Con furia cieca di avvoltoio, completamente umana, Sherlock aspirò con violenza l’aria circostante, tentando di catturare ogni molecola di anidride carbonica che John aveva espirato nel suo breve soggiorno in salotto. Le mani tremanti del consulente investigativo tastarono disperatamente il sedile della poltrona, come se il suo tatto infallibile potesse ghermire il calore delle natiche e delle cosce di John, lì dove erano affondate nel tessuto dozzinale a fiori del rivestimento. Furioso, Sherlock si tirò su. Accecato, prostrato, si diresse verso la propria poltrona, afferrò il violino, il quale tremava – ne era certo – di disperata paura, e cadde in ginocchio sul pavimento, distendendosi con lentezza, le dita implacabili pronte a maltrattare nuovamente il suo strumento, il suo cuore. Sono un miserabile, pensò. Non posso darti torto, fratellino, commentò Mycroft serafico, versando un altro cucchiaino di zucchero nella tazza di tè.

 

Mille scuse per il prolungato silenzio! Come sempre desidero ringraziare dal profondo del cuore chi legge e recensisce, in particolare emerenziano e comeseiqui. Presto aggiornerò anche “Il corpo di chi ti ama”.

A prestissimo,

Denirose (da oggi Dolores Haze)

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