Ritorno

di LubyLover
(/viewuser.php?uid=16397)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 01 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 02 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 03 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 04 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 05 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 06 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 07 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 08 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 09 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 01 ***


Titolo della storia: Ritorno - Capitolo 01
Fandom: ER Medici in prima linea
Personaggio principale: Luka Kovac
Pairing: Luka Kovac/Abby Lockhart
Rating: Giallo
Set In Time: Stagione 13: è nato Joe da poco, Luka ed Abby non sono ancora sposati, Ames non è accaduto.
Note: Long fic; What If?; Luka's POV; angst (molta angst)
Allora, questa storia ha una "gemella": Attesa, una fiction che parte dallo stesso punto ma raccontata dal punto di vista di Abby. Non è indispensabile leggere le due storie per capire; si capisce tutto benissimo anche leggendone una sola soltanto (ma io vi voglio più bene se le affrontate tutte e due...)
Disclaimer: Mr Kovac e miss Lockhart non sono miei. Nemmeno dopo tutto questo tempo. Soldi? Zero, naturalmente.




 

1.

 

 

Vukovar passa leggera davanti ai suoi occhi.

Vukovar. E basta. Vukovar, nei suoi occhi stanchi, nei suoi ricordi, Vukovar.

 

***

Devo partire”

Lo aveva guardato, confusa.

Devo, capisci?”

No, non capiva. Cos’era cambiato in lui? Cosa aveva fatto scattare il meccanismo che fino a quel momento era stato immobile?

Ma…”

Un dito sulle labbra, lo sguardo affranto di un uomo davanti al destino. “Ti prego, non farlo. Devo”

***

 

Sobbalzi leggeri nella strada, stomaco che va su e giù. Non è solo la strada, non solo. È Vukovar, e tutto quello che significa.

La sua città, la loro città, il ricordo immobile del passato, il ricordo immobile di quando loro erano suoi, il ricordo immobile di lei. Lei e per sempre. Per sempre, per sempre, era una promessa. Chiude gli occhi, non vuole vedere, ma vede lo stesso.

 

***

Ti amo”

Sorriso, guance rosse, imbarazzate.

Verrai con me?”

In capo al mondo”

***

 

E Vukovar era in capo al mondo. E lei, e loro e il resto. In capo al mondo, per sempre. Lei la promessa l’aveva mantenuta.

Altra buca nella strada, ricordo doloroso di quello che era successo dopo. Case diroccate, tetti rovinati, un cane, ai bordi della strada, guarda con occhi sconsolati il pullman che passa. I loro occhi, per un attimo, si incontrano, e uomo e cane, per un attimo, sono sulle stessa lunghezza d’onda. Il cane capisce, quegli occhi la sanno lunga.

 

***

Quando tornerai?”

Guarda in basso, cercando nelle piastrelle bianche ed anonime e sporche una risposta che non c’è, una risposta che non sa dare.

Tornerai, vero?”

Alza lo sguardo. L’abbraccia. Come riesca ad amarla così, nonostante tutto resta un mistero.

Luka…”, il suo nome sulle sue labbra sa di lacrime e dolore. Lui trema.

Ti amo”

La bacia, imprimendo nella sua mente il ricordo delle sue labbra, il suo odore, la sua pelle, lei. E gli occhi, anche loro, sì, lui li vuole portare con sé. E lo sa, quello sguardo accusatore e ferito lo seguirà fin laggiù, in capo al mondo, ma è giusto così. Promesse, promesse, un’altra spezzata.

Si abbassa, solleva la sua valigia, le accarezza una guancia, si volta e si costringe ad allontanarsi.

***

 

Il tramonto. Sole basso ed arancione, la luce diretta nei suoi occhi sfumati di verde. Sospiro. E Vukovar, sempre lì fuori. Una città viva, che lo perseguita. Vukovar. Tempo passato, decisioni prese.

 

***

Vukovar? Ma è lontana da qui”

Dici sempre che tua madre ti fa disperare…”, sorriso. Occhi che si incrociano, comprensione. In capo al mondo, era la promessa.

Le prende la mano, sente le sue dita allacciarsi alle sue. I suoi occhi azzurri brillano, vivi e eterni.

Quando partiamo?”

***

 

Ed ora, ora non è più una questione di partenze, è una questione di arrivi. Vukovar sembra sorridergli, sorniona. Vukovar lo sta aspettando.

Luka sente la nausea salirgli in gola. Non sa se è pronto. Sarà una guerra, l’ultima, ed il vincitore sarà uno solo.

Scende dal pullman. Il tramonto di poco fa se n’è andato. Ora, ha la notte davanti.

Una guerra, è sempre stata così. Una guerra, e Vukovar.

 



Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 02 ***


 

2.

 

 

La notte. Buia, silenziosa e persecutoria.

La notte è sempre la stessa, non cambia mai. La notte. E Vukovar.

Inclina la testa di lato, lo sguardo fisso davanti a sé, per cercare di vedere, come se non stesse già vedendo abbastanza.

Farsi del male. La cosa che da sempre gli riesce meglio.

 

***

Papà…”

Fantasma bianco sulla porta, piedi nudi, voce titubante

E’ buio… ho paura…”

Voce incrinata. Come resistere, come?

Sguardo comprensivo, sorriso accennato. Lei ha già vinto, ma ancora non lo sa. Non sa che vincerà sempre. Sempre, anche quando non ci sarà più niente da vincere. Sempre.

Vieni. piccola”

Piedini che corrono, lenzuola in movimento, tepore. La sua pelle candida.

***

 

Lungo sospiro. Si allontana dalla finestra. Camera d’albergo ordinaria, come le milioni che ha già visto, frequentato, abitato. Chissà cosa avrebbero da raccontare quelle camere. Chissà cosa racconterebbe quella di Vukovar. Denominatori comuni: tristezza e malinconia. Luoghi fatti per brevi permanenze, luoghi fatti per dimenticare. Camere. Alberghi. Monotonia.

Il telefono è come se lo aspetta: bianco, pesante, antiquato. Solito pensiero banale del quanto pagherà la telefonata. Accarezza la cornetta curva. Chiude gli occhi.

 

***

Ti posso chiamare?”

È una delle poche volte in cui lei gli chiede il permesso di fare qualcosa. Il suo cuore manca un battito.

Ti telefonerò io”, la voce gli trema: come può riuscire a dirle una cosa del genere? “Non preoccuparti”

Lei tocca la sua valigia aperta, come per lasciargli un suo ricordo. Si siede sul letto. Come può non preoccuparsi?

Luka…”

Sguardo smarrito, viso pallido, occhiaie. Come se qualcosa lo stesse divorando da dentro. D’improvviso, Vukovar.

Sospiro strozzato. La mano esausta che passa ancora su quegli occhi distrutti.

Ma cosa è stato?”

Sfugge la domanda, come sempre.

Tra mezz’ora devo andare”

Ti accompagno io”

Silenzio. Groppo in gola.

***

 

La nausea sale improvvisa. Corre in bagno. Si lascia cadere in ginocchio davanti alla tazza. Conati.

Poggia la testa contro la vasca, guardando il soffitto giallino. Sta tremando, il fisico esausto. Non dorme più.

Cos’è stato?

Perché?

Perché adesso?

Vukovar rimane muta e imperscrutabile. Lui si spegne a poco a poco.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 03 ***


 

3.

 

 

Paura. Tremore. Occhi spalancati. Sudore.

Incubo. E Vukovar. Nella sua memoria scossa le due cose hanno lo stesso significato. Incubo. E Vukovar. Eppure c’era stato un tempo in cui l’aveva amata. Un tempo in cui aveva guardato le acque allora limpide del Danubio con un sorriso sereno. C’era stato quel tempo, c’era stato, ne è sicuro.

Si mette a sedere sul letto, la testa vuota. È ancora nauseato. Teme lo sarà per sempre. Fuori è ancora notte. Sembra impossibile, ma la notte sembra non finire mai. Forse è una condizione normale a Vukovar, notte eterna e incubi e paura. E ricordi. Ricordi, come se il resto non fosse abbastanza.

 

***

Luka…”, qualcuno lo sta scuotendo dal sonno.

Mmmm…”, è stanco. L’università, il tirocinio, non vuole svegliarsi. Cerca di girarsi sull’altro fianco.

Luka!”, più forte adesso, con insistenza. “Marko piange”

Appena lei lo dice, il pianto del neonato lo raggiunge, imprimendosi nella sua testa. Apre gli occhi. Sguardo implorante. Niente. Lei è una sfinge: “Dai, è il tuo turno. Vai a vedere cos’ha, non è ora di mangiare”

Il bambino lo guarda quando entra nella sua stanza. Tira un sospiro e poi ricomincia a piangere. Lui lo solleva. Prova a controllare il pannolino, ma è asciutto. Lo culla un po’, le manine strette a pugno contro il suo collo. Dopo un po’ Marko si addormenta.

Che aveva?”

Nulla di che. Un incubo, forse”

***

 

Un incubo, forse. Una cosa da nulla, quando c’è qualcuno pronto a consolarti, ad accarezzarti i capelli ed ad abbracciarti. Ma quando si è soli, lì è tutta un’altra storia.

Chiude gli occhi. Si sente irreale. Pensa a Chicago, come può non pensarci? L’odio per se stesso aumenta.

 

***

Pensi che stia sognando?”, la sua voce è piena di speranza.

Luka guarda attentamente. Sente il suo cuore battere, vivo. È sicuro: “Certo, guarda che espressione serena”

Ha il mento appoggiato sopra la testa di Abby, riesce a sentire il profumo dei suoi capelli, l’odore della sua pelle. È inebriante.

Sai una cosa? Mentre dorme, Joe ha la tua stessa espressione. È bellissimo”

Non è solo la mia espressione… è la nostra combinata. Siamo noi, ma è anche lui”

Lei lo guarda confusa: “A volte il senso di quello che dici mi sfugge”

Lui ride, piano. È felice. È completo.

***

 

Chicago.

Vukovar.

Non doveva partire, ma non poteva non farlo. Tutto avviene per una ragione. Tutto avviene per una ragione. Tutto avviene per una ragione.

Sta tremando ancora. Prova a alzarsi dal letto, ma non riesce a muoversi. Le sue gambe sono paralizzate. I muscoli non rispondono più. È intrappolato, non può muoversi. Ha paura. Sa che sta per morire, ne ha la matematica certezza.

Vukovar è forse il posto giusto. La città si stende davanti ai suoi occhi. Sa che ha ragione.

Morirà, e lo farà a Vukovar. Chiuderà il cerchio, come è giusto che sia.

E Vukovar, lì fuori, maliarda, incantatrice, lo chiama. Lo chiama, ma non risponde.

 


Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 04 ***



 

4.

 

C’era un uomo qui, una volta”

Sguardo stanco, solo parzialmente interessato al racconto della donna anziana accanto a lui.

Parco. Panchina. Due raggi di sole. Più che sufficiente per trovare il coraggio di attaccare bottone con uno sconosciuto. Modo lieve ed ingenuo per allontanare la solitudine. Anche solo per un attimo.

Durante la guerra, intendo. Un uomo”

Stranamente Luka sente il nervosismo salire. È più attento adesso.

Era un medico... è una bella storia, sa? La vuole sentire?”

La vuole sentire. Non è solo gentilezza o il fatto che è troppo esausto per alzarsi da quella panchina. È davvero interessato. Non sa perché, ma c’è qualcosa in quella storia.

Breve cenno del capo. Sono giorni che non parla.

Come le dicevo faceva il medico, in ospedale. Si dice fosse una persona speciale, di quelle che passano di qui molto raramente. I suoi occhi, quello che si dice di loro, beh... chi lo ha conosciuto dice che nei suoi occhi c’era l’infinito. Ora, io non so cosa significhi questa frase, ma...”

 

***

Javor non è proprio un amico. Però è simpatico ed alla mano. Con lui, è facile dimenticarsi della guerra.

Javor, capelli rossi, efelidi, occhi grigi. E una fantasia infinita.

Javor, cantastorie.

E poi lui li ha guardati, vi giuro, con quel suo sguardo e vi giuro ragazzi, loro hanno capito tutto. Hanno accelerato subito e se ne sono andati. Ed erano cetnici, capite? Cetnici brutti e cattivi e armati e arrabbiati ed è bastato uno sguardo, uno sguardo solo... ma d’altronde, chi può resistere alle occhiate di Luka?”

Scoppio di risate, troppo simile ad una scarica di mitra.

Tono imbarazzato: “Come sempre, Javor sta un po’ ingigantendo i fatti. Non ho la forza di far scappare nessuno, tanto meno usando solo lo sguardo”

Sguardi su di lui. Poi occhiate l’uno con l’altro. E, infine, ancora Javor.

Javor e la sua ultima verità: “Luka, nei tuoi occhi c’è l’infinito”

***

 

La signora riflette assorta. Ha finito la sua storia, anche se non si è resa conto che Luka non la sta più ascoltando. Sospira; riesce persino ad immaginarselo quel giovane. Pensa che le sarebbe piaciuto incontrarlo. La cosa strana è che era da un po’ che non pensava più a quella storia, ma quel giorno le era tornata improvvisamente in mente.

È Vukovar, certo. Vukovar che ti lavora dentro, Vukovar e i suoi ricordi.

Vukovar, una parola sola, ma con dentro un universo.

Se ne parla ancora di quel giovane, sa? E tutti noi un pochino lo amiamo. Non so se è esistito davvero, ma è bello sapere che potrebbe esserci stato qualcuno che ha saputo dare la forza a Vukovar... Luka”

Lui alza gli occhi e la fissa.

Luka. Così si chiamava”. Lei tace e lo guarda. È un momento lunghissimo. Nessuno parla. Lei, istintivamente, lo riconosce. Luka, dagli occhi infiniti. Non può sbagliarsi.

Ora lo so”, la voce è un po’ roca, “so cosa significa affogare dentro gli occhi di qualcuno. Ora lo so, è come impazzire rimanendo sani. I tuoi occhi...”

Silenzio. Luka si sente irreale.

La donna accenna un sorriso, il sorriso di chi sa: “Bentornato. Bentornato, Luka. Vukovar ti stava aspettando.”

Poi si alza, e, un po’ instabile sulle gambe, si allontana.

E Luka alza gli occhi al cielo, una lacrima solitaria sulla sua guancia.



Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 05 ***


5.

 

Pronto? Luka... sei tu, vero?”

Silenzio. La sua voce. Vuole solo ascoltarla parlare. Il groppo in gola va su e giù. La sua voce.

Luka, parlami per piacere”

Non può. Non ne è più capace. Non riesce nemmeno più quasi a respirare. La sua voce. La sua stupenda voce.

Ok, allora... mmmm... io sto bene, insomma... beh, mi manchi... e Joe... lui, anche lui sta bene... dice le prime parole ormai... e... lo so, parlava anche quando sei partito ma... mmmm... Luka”

Niente. Lui è paralizzato, diviso eternamente tra due vite. Chi è lui? Chi è adesso? E cos’è stato? Dalla finestra, Vukovar continua ad osservarlo muto. È una trappola, Vukovar. Perché è capitata sulla sua strada? Perché Vukovar, perché? Essere a metà così è come non esistere, è come non essere. Lui non è, ma la voce di Abby che pronuncia il suo nome gli ricorda che lui è. Non ha senso, non può averlo. Non c’è soluzione.

... beh, Joe oggi ha detto, detto tata...”

 

***

Tata!”

Oddio! Ma ha detto... ha detto?”, sguardi confusi, orgogliosi e speranzosi. “Ha detto...”, non si sarebbe mai aspettato di perdere il coraggio in un momento così bello. Non poteva nemmeno immaginare che ci sarebbe voluto coraggio in un momento così.

Eh già, Luka, sei la prima parola di Jasna... sei contento?”

La mia principessa...”, non si è mai sentito così. La sua bambina. La sua prima parola. I suoi occhioni innocenti lo fissano. È un patto siglato. Lui sarà suo per sempre. Sempre. Tata. Tutti i significati del mondo in quattro lettere. Jasna e il suo tata. Per la vita.

***

 

Io... Luka, riesci a dirmi qualcosa? Lo so che è difficile... ho cercato di capire, e forse ci sto riuscendo, però ho bisogno che tu mi aiuti... ho bisogno di te... per piacere”

È affranto, Luka, il cuore in mille pezzi. Non riesce a parlare e non riesce a smettere di piangere. Piangere e stare male. Piangere e stare male. È quello che sta facendo da quando è a Vukovar. È tutto quello che gli ricorda Vukovar. Lacrime. E dolore. E disperazione. E morte. E come può da quel posto atroce voler parlare a Abby, lei che è sempre stata uno dei suoi momenti di gioia?

I suoi singhiozzi la raggiungono attraverso la cornetta, lontani chilometri e chilometri, ma terribilmente vicini e reali. Abby non ha mai desiderato stringere qualcuno così tanto.

Luka... vorrei essere lì... Luka parlami, ti prego...”

Quell'implorazione. Così disperata. Così vera. Si odia sempre di più, Luka. Non riesce più nemmeno a contare le persone che ha fatto soffrire. Amarlo. È questa la maledizione.

 

***

Ma papà...”

Niko, basta. Ti dico che è meglio così”

Lasciarlo partire?”

Sente anche quello che non vuole (o deve) sentire. Il muro di mattoni è freddo contro la sua schiena. L’aria è umida. Il mare incessantemente rumoroso.

Inverno e mare. La sua tristezza.

Si alza il vento. Trema nel freddo. Ne è contento. Partire...

Non capisci? Noi non riusciamo ad aiutarlo”

È lui che non vuole essere aiutato”

Puoi biasimarlo?”

Silenzio. Luka guarda le nuvole che passano nel cielo. Aiutarlo. Come se ne valesse la pena, come se le cose potessero cambiare, come se loro potessero mai tornare.

Deglutisce. La sua vita dove è andata? Perché lui? Perché Vukovar?

Sempre a difenderlo, il tuo bambino. Il punto è che tu non sei meno codardo di lui”

Luka sente distintamente lo schiocco dello schiaffo sulla guancia di suo fratello. Vorrebbe – e sa – che dovrebbe provare qualcosa, ma ciò che resta di lui non è altro che un involucro.

Guarda il mare. Quelle onde sono più vive di lui.

***

 

Si accascia sul pavimento, solo parzialmente consapevole della sua durezza. Chiude gli occhi. Vede i loro corpi martoriati. Li riapre di colpo.

La voce di Abby sembra lontana e lontana. Stringe la cornetta, ma le dita non rispondono bene.

La voce lontana e lontana.

Il groppo in gola.

I loro corpi martoriati.

Paura e disperazione.

La cornetta gli sfugge.

Vukovar se la ride.



---

Margheritanicolaevna: grazie per aver letto e commentato. Mi piacerebbe se seguissi questa storia fino alla fine.

 

 

This Web Page Created with PageBreeze Free HTML Editor

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 06 ***


6.

 

Le porte automatiche si aprono e si chiudono. Sono nuove, moderne, con un bel plexiglas trasparente e pulito.

Aperte. Chiuse. Perfettamente funzionanti. La visione è disturbante, stridente rispetto a quello che si immaginava. Ma perché no? Gli anni passano, le cose cambiano, si dimenticano. La modernità avanza. Il problema è lui. Lui e sempre lui. Intrappolato.

Aperte. Chiuse.

Persone vanno e vengono, in un certo senso leggere nella loro preoccupazione. Le persone dimenticano, rimuovono, non c’erano.

Aperte. Chiuse. Ipnotizzanti.

 

***

BOOOOMMM!!

Cazzo, questa era davvero vicina”

Ma non lo sanno che questo è un ospedale?”, tono arrabbiato, offeso.

Lo sanno, lo sanno”, Luka. Il suo tono, invece, è amaro. Consapevole.

Dottore può venire?”

Corsa frenetica attraverso il corridoio. Slalom tra barelle. Uomo sofferente, addome aperto, sangue. Plic, plic, gocce sul pavimento.

Ci vorrebbe qualcosa che non c’è. Ci vorrebbe un miracolo.

Ok, proviamo almeno a stabilizzarlo”, voce già sconfitta. Sull’anulare dell’uomo brilla una fede d’oro. Da qualche parte, a Vukovar, sta per nascere un’altra vedova.

Dr Kovac, ha perso troppo sangue...”

Plic, plic...

Proviamo a...”

BOOOOMMM!!

Le luci si spengono d’improvviso. Buio. L’unico chiarore viene dalle fiamme che bruciano il palazzo vicino.

Il ferito è immobile, gli occhi chiusi. La fede sembra troppo luminosa. Fa male agli occhi, a guardarla. Luka li sbatte, non vuole guardare il suo, di anulare. Sospiro. Non finirà mai.

Ora del decesso...”

***

 

Aperte. Chiuse. Aperte. Chiuse. Un viavai inaspettato, quasi.

Un passo. E poi un altro. Si aprono ancora le porte. Per lui, stavolta. Per lui.

È dentro, adesso. È tutto cambiato, nuovo, ma può vedere le tracce di ciò che era stato. Può vedere se stesso lì dentro, ed è ciò che fa più male.

Un’impiegata molto carina dell’accettazione gli sorride: “Cerca qualcuno?”. Scuote la testa. Va in sala d’attesa. È quasi vuota. Classiche sedie di plastica dure. Tutt’intorno, perfezione, pulizia. Ambiente asettico. Non può non pensare ad altro, ad un altro ambiente asettico. Non ha senso. Appoggia la schiena allo schienale. Esala pano. Di fronte a lui un medico ride con un’infermiera. È tutto così banale e scontato che gli fa male la testa. Chiude gli occhi.

 

***

Vuole aprire gli occhi, ma non ce la fa. Non riesce a capire. Intorno a lui sta succedendo qualcosa, sente delle voci confuse. Sam, una è Sam. E le altre? È paralizzato. Non può nemmeno respirare. L’aria, l’aria sta uscendo dai suoi polmoni, li sente sgonfiarsi come dei palloncini, ancora e ancora. Soffoca, sta soffocando e non può muoversi, il diaframma bloccato, morirà, e che morte assurda sarebbe quando... ossigeno, finalmente. Qualcuno lo sta ventilando. Sam. Sente la sua voce. Gli sta accarezzando i capelli, tenta di calmarlo.

Dobbiamo intubarlo”

Il tubo in gola è atroce, gli gratta la trachea, è quasi più soffocante della mancanza d’ossigeno. Il tempo passa. Si concentra sulla respirazione. Sente degli spari. Abby? Dove sarà? Prega che sia al sicuro.

Finalmente riesce ad aprire gli occhi. Buio. Riacquista lentamente la capacità di muoversi. Muove la testa. Destra, sinistra, ancora destra. Abby. La vede attraverso la porta, sta bene, sembra stare bene. inizia a sentirsi sollevato ma poi... cos’ha sulla mano? Sangue? Ma dove, no, no, no sta svenendo, qualcuno faccia qualcosa, qualcuno...

***

 

Spalanca gli occhi di soprassalto. Il sudore gli cola lungo la spina dorsale. Sta tremando. Non è Chicago, è Vukovar. Vukovar. Gli sale una risata amara, come se le cose fossero migliori. Chicago, Vukovar... solo andata, probabilmente. Una settimana e ancora non è cambiato nulla. Una settimana e sente solo di stare peggio.

Una figura si materializza davanti a lui. Un medico. Sguardo stranamente comprensivo. Come se sapesse.

Serve aiuto?”

Scuote la testa. Nessuno lo può aiutare, nessuno. Sente le lacrime bagnargli gli occhi. Ancora.

Qualunque cosa fosse venuto a cercare in ospedale non c’è. Lì c’è solo modernità a pulizia. Come se qualcuno fosse passato con uno straccio capace di cancellare i ricordi.

Si alza, stanco. Gli gira un po’ la testa, ma riesce a non cadere.

Inizia a camminare, sconfitto. È troppo presto per tornare in albergo. C’è troppo da pensare in quella stanza solitaria. E quel telefono sul comodino fa troppo male.

In giardino c’è una targa. Non è molto, ma aiuta a ricordare”

È lo stesso medico di prima. Apparentemente non ha parlato a nessuno, gli occhi fissi su una cartella, ma Luka sa che la sua frase era rivolta a lui.

Si gira indietro deciso. Per un millisecondo il medico alza lo sguardo. Un millisecondo. Ma è abbastanza. Lui sa.

Luka esce. Il giardino è curato, semplice. Sui rami stanno sbocciando le prime gemme. La vita continua, anche lì, anche a Vukovar. È un pensiero che gli fa un po’ male.

La targa è a pochi metri. Un sospiro. Due. Trovare la forza di camminare non è mai sembrato tanto difficile.

Coraggio, quei nomi lo hanno avuto. È ora che ce l’abbia anche lui.


 

-*-*

NdA: Nei giorni successivi al 18 novembre 1991, le milizie serbe entrarono nell'ospedale di Vukovar, uccisero gran parte del personale medico e dei pazienti e distrussero l'edificio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

This Web Page Created with PageBreeze Free HTML Editor

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 07 ***


7.

Neka mu Dragi Bog

da da spava

na krilu andela”*

Lo sapeva. Ma non ci può credere. Non è semplicemente possibile. Tra tutte le mille frasi esistenti proprio quella. L’unica che per lui ha avuto significato.

Ricordi, ricordi. Vukovar a Chicago e Chicago a Vukovar. Ospedali e colleghi che si assomigliano. La vita è un cerchio. Tutto si ripete. Sempre.



***

Non dovremmo dire qualcosa?”

Locale allegro, cocktails assurdamente variopinti. Il suo è di un verde abbagliante.

Le persone sedute a quel tavolo non ridono e non scherzano.

Le persone sedute a quel tavolo hanno la tristezza come compagna.

La tristezza. E Mark.

Mark, che ci aveva creduto.

Mark, che aveva una nuova vita felice.

Mark, unica vera anima del Pronto Soccorso.

Mark, unico e vero dolce principe del Pronto Soccorso.

Silenzio.

E poi Luka. E la sua voce, che arriva da lontano.

Neka mu Dragi Bog da da spava na krilu andela”

Amleto, alla fine. E perché no?

***



E ora, ancora.

Anni dopo la stessa frase, ma ricordi diversi.

Tocca la targa. È fredda, senza vita. I nomi incisi si imprimono nel suo palmo, nel suo cuore. Scorre veloce la lista. Non vuole leggere. Leggere è come ammettere. Ma non è forse lì per quello?

Dusan Kovacevic, medico.

Dusan, eternamente serio e composto. Dusan, che non scherzava mai.

Valerija Kostelic, medico.

Che sorriso, Valerija. Luminoso come i riflessi di luce sul mare. Valerjia, da sempre innamorata di Dusan.

Sanija Simic, medico.

Sanija, la lunatica. Sanija, capace di mandarti a quel paese per un nonnulla.

Janko Pavic, medico.

Janko, il primario. Janko, con gli occhi paterni e la voce sempre calma. Janko, che lo amava come un figlio. Janko, che gli ha salvato la vita.

Ratko Savic, medico.

Ratko, il pigro. Ratko, che quando c’era bisogno di lui non lo trovavi mai. Ratko, e le scommesse sulle partite di calcio.

Lavinija Mesic, infermiera.

Lavinija, l’intelligente e arguta. Lavinija, la sensibile. Lavinija, con cui era facile parlare di tutto e di più.

Nina Boban, infermiera. Nina, la ritardataria. Nina, sempre di corsa per i corridoi. Nina, talmente timida da passare inosservata.

E poi altri nomi, tutti gli altri, impressi per sempre nel metallo lucido. Nomi che hanno avuto una faccia, nomi che parlavano, ridevano, interagivano con lui. Mesi passati con loro, mesi, a parlare del futuro. E ora, il loro futuro non è altro che una targa fredda. Una targa, e qualcuno che si ricorda di loro. Qualcuno che può associare quei nomi a sorrisi, voci e gesti. Qualcuno. Luka. È irreale, Luka, mentre appoggia la fronte sulla mano sinistra, mentre con la destra continua a toccare la targa e piange, singhiozzando, il corpo scosso, per quei nomi, quei nomi che per lui hanno anche un significato. Nomi di persone che Vukovar si è inghiottita, fredda città senza cuore.

Non sa quanto tempo se ne sta così, a salutare quei nomi, a rendergli omaggio, ma sente che loro gli stanno rispondendo, sente le loro voci, come se niente fosse mai successo.



***

Certo che ogni anno con gli studenti siamo messi bene”, tono ironico, Sanija. Non le va mai bene niente.

Certo che tu sei sempre ottimista”, Valerija, che vede sempre il lato positivo.

Che state guardando?”, Ratko, caduto dalle nuvole come suo solito.

I nuovi studenti”

Oddio, ma se dobbiamo ancora riprenderci dal duo Kovac – Kovacevic dello scorso anno!”

A me Luka non dispiace”

Eh già Lavinija, come darti torto? Luka non dispiace mai”, Sanija.

Nina, dal suo angolo, arrossisce senza riuscire a dire nulla.

Però, dai, anche Dusan...”

Certo, Valerija, certo”

Ragazzi, capisco che in un certo senso è divertente prendersi gioco degli ultimi arrivati, ma che ne direste di andare a lavorare?”, il dottor Pavic, come sempre, a riportare l’ordine. Non è arrabbiato, vuole bene ai suoi ragazzi. Lui, senza figli, ne ha trovati un bel po’ in quell’ospedale. “Nina, vai ad aiutare il dottor Kovac in sala suture, per piacere”

Lo sapevo. Quella Nina... fa la timidina, così le capitano sempre le occasioni migliori...”

Sanija, non cambi mai...”

***



Piange Luka. Piange per quelle chiacchiere senza senso, perché nessuno sapeva che cosa li aspettava, perché ridere e scherzare era tutto ciò che aveva un senso. Perché la vita, allora, era bella e facile, perché se avessero saputo, se avessero saputo...

Ma forse è stato meglio così. È stato sicuramente meglio immaginarsi un futuro, una famiglia, dei figli, viaggi, amori, passioni, immaginarsi la vita.



***

E tra 10 anni, come ti vedi tra 10 anni?”

Felice”

Felice”

Realizzato”

Felice”

Con moglie e figli”

Innamorata e ricambiata”

Felice”

***



Già, felice, com’era semplice. Felice. Tra le mille opzioni disponibili, nessuno aveva scelto morto. Morto. Morto in modo assurdo, imprevedibile. Morto, tra atroci sofferenze. Morto, per la propria etnia. Morto.

Luka si lascia scivolare a terra, in ginocchio, di fronte a quella targa. È ancora fredda sotto il suo palmo, e il suo freddo si sta trasferendo nel suo corpo. Freddo mortale, freddo tombale. Freddo di persone che non potranno mai più scaldarsi.

Le lacrime continuano a scendere, le spalle scosse da singhiozzi rumorosi.

Una mano sulla sua spalla. Il medico di prima, quello che sa:

Tieni”, una semplice candela bianca, sottile, la cera un po’ rovinata e consumata. Il porta candela scuro contrasta il candore della cera.

Gli trema la mano mentre appoggia la candela a terra, proprio davanti alla targa.

Fiammifero, fiammella azzurrina. Lo stoppino si accende subito, come se non avesse aspettato altro. La fiamma danza leggera di fronte ai suoi occhi. Gialla, rossa. Fiamma viva. Sulla targa, bagliori caldi.

È finita”

Gli occhi chiusi, gli ultimi singhiozzi a scuotere la sua gola. Breve cenno del capo. Inesorabilità. Fine. Destino.

Dovevi voler loro molto bene. Di sicuro, loro ne volevano a te”

Si gira indietro, Luka, gli occhi verde-mare ancora bagnati di lacrime. È incredulo. Quel medico sa troppe cose.

Saranno contenti, ora che li hai salutati, ora che hai detto loro addio”

Silenzio.

Il medico accenna un sorriso, le labbra rivolte appena all’insù.

I tuoi occhi... c’è il destino lì dentro. E, anche se per te non ha senso, per me ce l’ha. E ce l’ha anche per Vukovar”

Si allontana, il passo leggero.

Luka si alza a fatica. Fissa la candela e poi ancora i nomi. Sente ancora le loro risate.

Sollevato è troppo per descrivere come si sente, ma forse inizia a sentirsi meglio. Forse si è aggiudicato il primo round.



------------------------------------------------------

* Traduzione:

Che un volo d'angeli t'accompagni cantando al tuo riposo (May the Dear Lord/make him sleep/on the wings of angels)

W. Shakespeare, Amleto; Atto quinto, scena seconda

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

This Web Page Created with PageBreeze Free HTML Editor

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 08 ***


8.


La ragnatela ondeggia leggera nell’aria che entra dalla finestra socchiusa.

Luka la guarda, domandandosi se esista differenza tra lei e lui. Ne deduce di no. Entrambi si lasciano trasportare, inermi, dagli avvenimenti. Tutte e due non reagiscono. Senza forza, senza volontà, senza vita.

Il materasso è duro e bitorzoluto, pregno di un vago sentore di naftalina. Tristezza su tristezza.

È ancora notte fuori e, ancora, lui non può dormire.

Gli avanzi della cena, o meglio la cena intera, giacciono dimenticati sul loro vassoio d’ordinanza. Non dorme, non mangia. Si lascia trasportare. Vukovar sta per prenderselo.

Cambia posizione, sospirando. La schiena gli fa male, i muscoli si lamentano per quella privazione forzata di riposo a cui sono sottoposti. Vecchie cicatrici prudono dolorosamente. Le labbra sono secche, spaccate, gli occhi arrossati. Qualche giorno in quel posto basta a farlo sentire un cadavere.

Il materasso è duro. Non dormirà nemmeno stanotte.


***

Il manto erboso è soffice sotto la sua schiena. Il cielo blu ha la stessa identica sfumatura dei suoi occhi giovani.

Diventerò un grande medico”

Danijela, seduta accanto a lui, ride: “Ma se solo ieri non sapevi nemmeno se Medicina era la scelta giusta”. Non che a lei importi. Lei lo ama, ciò che gli deve è solo stargli vicino. Nient’altro conta.

Mi fa piacere sapere che ho il tuo appoggio”

Luka le poggia una mano sulla schiena, percorrendo con un dito le perle delicate che compongono la sua colonna vertebrale. È perfetta, bellissima. Ed è sua.

Lei si gira a fissarlo con un sorriso dei suoi. Nel girarsi, una manica le scivola giù, rivelando la pelle candida della spalla. Lontano, dei bambini stanno giocando. E Luka si convince che mai nella vita potrà essere così felice e completo. E quel giorno, il giorno in cui ha deciso di diventare medico, se lo porterà dentro per sempre. Quel giorno, indelebile, così come la spalla bianca ed eccitante di Danijela. Indelebile. E perfetta.

***


Si alza e prende una sigaretta.

L’accende piano. Aspira. Il fumo scende nei suoi polmoni. Tossisce un paio di volte. Aspira ancora. Tossisce ancora. Guarda la sigaretta che si consuma lentamente. Strana analogia con la sua vita. Ha paura, improvvisamente. La spegne. La getta via.

Le stelle. Ce ne sono tante in quella notte strana. Vukovar, nel suo terrore, sa anche essere incantevole, vera regina malvagia che spaventa ed affascina i suoi sudditi. Amore ed odio. Repulsione e passione. Vukovar.

Le stelle. A centinaia, davvero.


***

Oh, Lu’, guarda una stella cadente!”

Abby solleva appena la testa dal suo petto per vedere meglio. Il suo pancione è premuto dolcemente contro il suo fianco.

Credevo dormissi”

Nah, tuo figlio continua a maltrattare la mia vescica”

Luka sorride. Suo figlio. Da non crederci.

Esprimi un desiderio”

Rimane in silenzio, stanco. L’indomani si deve alzare presto, prima il turno e poi una noiosa riunione con Kerry e Anspaugh. Gli si chiudono gli occhi.

Hey, rispondi!”, Abby gli da’ un pizzicotto sul braccio, la voce ridente.

Mmmm… vorrei… vorrei… che tu dormissi”

Lei ride e lo pizzica ancora.

Molto spiritoso, Kovac… tu lo sai, vero, che questo desiderio non si avvererà mai?”

Ne avevo il presentimento…”

La guarda. Le accarezza una guancia. È bellissima, le guance piene, la pelle luminosa, il sorriso dolce.

Quando tutto ciò che hai desiderato si avvera per chi cadono le stelle?

Segue il profilo del suo collo col dito. Lei sussulta appena. Si guardano. Rimangono fermi a fissarsi. Passione, amore, loro due. E un bambino. Chissà, forse loro non hanno più bisogno delle stelle.

***


Che stupido è stato. Smettere di sognare è come smettere di credere. Le stelle, è ovvio che gli servono ancora.

C’è Abby a Chicago. Una stella per lei, che riesca a dormire bene senza di lui.

C’è suo padre in Croazia. Una stella per lui, che la smetta di preoccuparsi per lui.

C’è suo fratello, sempre in Croazia. Una stella per lui, che gli faccia capire i motivi della sua partenza.

C’è Joe, in un lettino caldo ed accogliente. Una stella per lui, che ha tutta la vita davanti.

E c’è lui. Fisso davanti a quella finestra di Vukovar. Una stella per lui, che lo aiuti a perdonare se stesso ed a capire, che gli faccia ricordare, che lo faccia tornare indietro.

E c’è Vukovar, infine. Una stella per lei, che la smetta di torturarlo, finalmente.

Per chi cadono le stelle quando tutto ciò che desideri si è avverato?

Per chi? Luka spera solo non sia troppo tardi.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 09 ***


9.


Il profumo familiare gli fa girare la testa.

Famiglia, lì sulla sinistra, mamma, papà e bimbo, cinque - sei anni. Tutto regolare. Tutto ovvio. Tutto scontato. Sguardi allegri, risate. Famiglia felice.

Solita panchina nel solito parco. Solito sole che inizia a scaldare. Solito Luka abbandonato e malinconico. Solita Vukovar minacciosa. Immobilità.

Ma è il profumo che disturba i suoi pensieri. Il profumo.


***

Luka, così brucerai la carne…”

Non è vero!”

Sguardo dubbioso, sguardo di chi sa. Ogni donna nasce dotata di quello speciale sguardo che rivolgerà al marito. Uomini, che ne sanno loro?

Dani, dai! Griglio cevapcici da quando ero bambino”

Vuoi dire che guardavi tuo padre farlo”

Lui si gira, offeso. In quel momento Marko inizia a piangere. Danijela si allontana. Soddisfazione di Luka. La griglia è da sempre affare suo. Così come la macchina, l’elettronica e le partite di calcio. Ovvio, scontato. Uomini e donne. Evoluzione immobile.

***


Stanno mangiando ora, come se il resto del mondo non li interessasse. Probabilmente è così. Le persone felici sono sempre un po’ strane, sempre un po’ lontane dalla realtà.


***

Luka, ci prenderemo un raffreddore!”

Dai, sai anche tu che è solo una leggenda metropolitana”

Sguardo implorante. Luka, che parla senza aprire bocca. Come resistergli?

Ok, ma solo per stavolta”

Abby si avvicina a lui. Grosse gocce di pioggia lasciano il loro timbro su giacca e pantaloni, le sente scivolare sui suoi capelli. Eppure… abbracciata a lui, sotto la pioggia, non si è mai sentita così felice.

Luka, il suo pazzerello.

***


Luka riflette.

La felicità, che cosa strana. La felicità, che arriva da dove meno te lo aspetti. La felicità è un fuoco, tre persone e della carne da arrostire.


***

Cosa sono quei cosi?”

Alex!”

Sorriso di Luka. Adora Alex e i suoi modi non esattamente da piccolo lord. Gli ricorda lui da bambino.

Sono cevapcici”

Ce... che?”

Cevapcici. È carne da arrostire, praticamente”

Ah, come spiedini”

L’incanto dell’esotico già svanito. Come spiedini. Come se bastasse a spiegare cosa sono davvero per lui i cevapcici. Cultura, patria, amore, abitudine, vita.

Come spiedini. Tutto spazzato via in due parole. Come spiedini.

***


È così strano.

Quante vite ha vissuto, Luka. Quanti stop, quante ripartenze, quante occasioni. Ma lo sapeva, lo sapeva che c’era Vukovar.

Vukovar, che è l’inizio della fine, il trauma primario. Vukovar, un pezzo di cuore.

Solleva le gambe, appoggiando i piedi sulla panchina. Si abbraccia le ginocchia con le braccia e vi lascia cadere sopra la testa. Posizione di difesa, di chiusura al mondo esterno.

È solo, e dannatamente spaventato. Quello spazio aperto, chiunque lo può aggredire da qualunque parte.


***

Non ti addormenti mai dando le spalle alla finestra”

Mentre parla, Abby sta seguendo con il dito il profilo mascolino di Luka. Gli zigomi, l’arcata sopraccigliare, il naso, le labbra, il mento. È un tocco leggero, una carezza. Luka sta quasi per addormentarsi, ma vuole risponderle prima.

Non mi piace l’idea”

E poi basta. Chiude gli occhi. Lei osserva le sue ciglia lunghissime e scure. E si domanda per la milionesima volta cosa nasconda veramente Luka. Cosa, da fargli così paura?

***


Nervosismo. Lo sente salire dalle dita dei piedi, percorrergli la colonna vertebrale e invadergli il corpo.

Il papà della famiglia lo sta fissando curiosamente. L’ha certamente notato mentre fissava suo figlio e sua moglie. Ora, sta valutando se preoccuparsi o lasciar perdere.

Luka si alza. Non vuole aggiungere guai ai guai. Non servirebbe a nulla. L’ultima scia del profumo dei cevapcici arriva alle sue narici. Barcolla un po’. Fa un respiro profondo. L’uomo lo sta guardando ancora, più seriamente adesso.

Luka si allontana.

Altro giorno inutile.

Altra sofferenza.

Non ci sono soluzioni.

   

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


10.

 

Sta urlando. A pieni polmoni.

 

***

È un buon segno, no? Vuol dire che sta bene...”

Speranzosa, Abby. Strano, però, non è mai stata troppo ottimista. Sarà la maternità.

Beh, se continua a strillare così, lo dimettiamo il prima possibile”

Sorrisi.

***


Urla. Ed urla ancora. Da chiedersi da dove prenda tutto quell’ossigeno. Nessuno può sentire. Nessuno può aiutare. È solo, disperatamente solo. Ma non l’ha forse voluto lui?

Cerca di muoversi, ora, l’urlo appena affievolito, nient’altro che un gemito di sofferenza, ormai.

 

***

Sembra si stia calmando...”

Speriamo. È più di un’ora che lo sto cullando... e se penso che Jasna si addormentava subito...”

Beh, Marko ha il suo bel caratterino”

Sì, proprio come il suo papà”

Sguardi. Le labbra disegnano un sorriso appena accennato.

Amore.

Affetto.

Comprensione.

Ed orgoglio.

Il suo bambino. Il suo carattere. Chissà quando sarà adolescente.

***

 

Un respiro profondo. Un altro ancora. Non deve pensare al dolore. Respira ancora. Il male serpeggia nelle sue dita. Dolore acuto e pulsante lungo le sue dita affusolate di medico. Perfette. E precise.

Apre gli occhi, il respiro ancora affrettato. Lo stomaco si sta contraendo, sente il sudore imperlargli la fronte. Gli trema la mano.

La solleva, una smorfia sul viso pallido. Sulle dita, all’altezza delle falangi, l’impronta, come di tatuaggio, dell’anta di legno/metallo della finestra. La pelle è lacerata e tumefatta. Chiazze rosse e violacee stanno sbocciando come fiori tropicali.

Che stupido è stato. Lo sapeva che quella finestra era pericolosa, già qualche giorno prima aveva rischiato le dita. Ma quel pomeriggio, senza riflettere, ci si era appoggiato e – BAM – dita schiacciate. Stupido, stupido ed ancora stupido.

Si alza piano e va in bagno. Apre il rubinetto con la mano sinistra, solo leggermente conscio di farlo con leggera fatica. Acqua gelata. Un lieve sollievo. Fissa ancora la mano. Sta ancora pulsando. E fa male. Fa male davvero.

Non ci voleva proprio. Dove lo trova il coraggio di andare da un medico? Dove lo trova il coraggio di spiegare? Spiegare che è stato un incidente, ma forse chissà, quella finestra ed il desiderio inconscio di sentire qualcosa, foss’anche dolore fisico, per sfuggire, solo per un attimo, al dolore mentale e psicologico di quei giorni a Vukovar? Dove trova il coraggio e la forza di sottoporsi ad esami, radiografie e consigli medici? Dove, quando vorrebbe dire tornare in quell’ospedale e sentire ancora il peso freddo di quella targa lucida?

Continua a fissarsi la mano, cercando una qualunque soluzione razionale. Mano destra tumefatta e dolorante. E lui non è mancino, per niente.


***

Un giorno mi spiegherai come può uno che fa il medico, ed in teoria dovrebbe avere una buona manualità, a essere così impedito con la mano sinistra”, glielo dice fissandolo divertita, Abby, mentre lui continua a lottare con la confezione chiusa.

Vuoi forse negare che la cosa ti affascina?”, sta flirtando spudoratamente. Come se lei non avesse già ceduto mesi - no, anni - addietro. Nonostante tutto, si sente arrossire. Il tono che lui ha usato: ora lei non può fare a meno di pensare cosa non riesce a fare Luka con la mano sinistra, nel cuore della notte, quando tutti, a parte loro due, stanno dormendo.

***


Chiude il rubinetto con la stessa fatica con cui l'ha aperto. Deve letteralmente obbligarsi a non usare la mano destra.

Torna al letto. Come sempre, Vukovar è lì fuori. Inizia quasi ad affezionarsi al suo profilo grigio e terra bruciata.

Prova a piegare piano le dita. Brutta mossa, brutta davvero, quando anche solo l’idea del movimento fa storcere la bocca in un ghigno di dolore. Il cervello che dice quello che il fisico sta per scoprire: è rotta, amico, le tue belle dita momentaneamente in vacanza. Ci si vede tra una quarantina i giorni.

E adesso? Lo sa, Luka, cosa deve fare. Si vede anche mentre lo fa, ma non riesce a farlo.

Lacrime di frustrazione scendono sulle sue guance. Si detesta. Ma l’ha voluto lui. E adesso la mano, ulteriore punizione. Ha mollato loro sotto le macerie, ha mollato suo padre, la sua famiglia, gli amici, i mille ospedali dove ha lavorato, ha mollato la sua vita in più di un’occasione, ha mollato Patrique in Congo in un certo senso, lasciandolo solo di fronte ad un destino che poteva evitare, ma soprattutto

ha

mollato

Abby

a Chicago

E Joe, piccolo innocente, con lei.

È un mostro, non merita di essere felice, merita solo dolore e dolore e dolore.

Sa cosa deve fare, ma non lo farà.

Raziocinio addio.

Si stende sul letto, la mano un’appendice dolorosa di carne viva a sud delle sue orecchie.

Chiude gli occhi e ne ascolta le frequenze disturbanti che colpiscono il suo cervello.

Lì, non si muoverà.

Dolore, tutto ciò che si merita.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


11.

 

 

Lenzuola sudate, umide.

Corpo che si gira e rigira, sofferente.

La luna, fuori, che rischiara la stanza.

Non ha chiuso occhio, Luka, da quando si è sdraiato sul letto ore prima. Pensa e soffre.

Insonnia mista a dolore. Quanto tempo può resistere un uomo senza dormire?

 

***

Wow... cos’è, ho dormito per secoli?”

La sua voce è piena di entusiasmo e di una lieve traccia di sonno. Luka alza gli occhi dal lettino mezzo smontato. “Non è ancora finito”

Per me è bellissimo”

Pareti gialle, mobili di legno chiaro, un divano. La camera del loro bambino.

Come va l’insonnia?”, mano tra i capelli, come a scacciare via i brutti pensieri. Si siede accanto a lei. È bellissima. Non vuole pensare all’insonnia, non più. Appoggia la testa sulla sua pancia. Ascolta il piccolo scalciare. Non è più stanco. Si sente vivo.

***

 

Si gira ancora, la mano si lamenta. Carne viva e pulsante. Sta tremando, sente la febbre sulla sua pelle.

Si alza, provare a dormire è inutile. Gli gira la testa, sente le ginocchia molli. Ancora nausea. Raggiunge il bagno. Probabilmente è il posto in cui ha passato gran parte del suo tempo. Quella tazza bianca ha una piccola crepa scura in basso a destra. Quasi tutte le sere Luka è costretto a vedere quella crepa. Come si è ridotto? Perché, perché non poteva starsene a Chicago con Abby, perché ha deciso per Vukovar?

 

***

Ha uno dei reparti di emergenza più avanzati e poi è una città cosmopolita e culturalmente valida”

Culturalmente valida? Papà, ti sei mangiato una guida turistica di Vukovar?”

Cos’è che ti fa paura?”

Silenzio.

Ho una moglie, una figlia... e se qualcosa va male?”

Mano sulla spalla. Tenerezza infinita per quel figlio appena ventenne che è diventato grande.

Il rischio... c’è rischio in tutto, bambino. L’importante è non farsi annientare”

***

 

Rimane con la schiena appoggiata alla vasca, il corpo madido di sudore scosso da brividi. Dita rotte, infezione. Di bene in meglio.

Il punto è quanto crede di meritare di stare male. Soffrire fino a morire? O fermarsi un po ’prima? Quello che ha già pagato –perché ha già pagato –rimane o non conta più nulla?

 

***

E non me ne frega più niente!”

Ma...”

Marta, basta... stai zitta. Io con quello non voglio averci più niente a che fare”

Lo consideravi un figlio”

Prima che uccidesse la mia bambina ed i miei nipoti”

Scatto imperioso di Josif. In men che non si dica Tomislav si trova spinto contro il muro.

Non osare dirlo... tu sai che non è vero. Luka, lui non ha ucciso nessuno”

Dall’altra stanza, raggomitolato sul suo – loro – letto Luka non può fare a meno di ascoltare. Le parole di suo padre sono inutili. Anche quelle di Tomislav, a voler essere sinceri. Non c’è bisogno di specificare che lui è il colpevole. Lo sa già.

Colpevole.

Colpevole.

Colpevole.

Lo sarà sempre.

Tre sorrisi persi nel nulla.

Tre vite, tre vite che lui amava.

Tre, numero perfetto della sua disperazione.

Tre.

***

 

Soffrire fino a morire? E tutto quello che ha realizzato poi? Gli sforzi che ha fatto, le lotte che ha sostenuto, le vittorie...

 

***

Notte calma, due corpi abbracciati stretti. Pelle nuda.

Luka, oziosamente, le accarezza una spalla.

Occhi di carbone liquido dentro i suoi.

Ti amo, Luka”

La mano di lui si sposta sulla guancia di Abby e poi segue il contorno delle sue labbra perfette. La fissa e fissa i suoi occhi scuri e brillanti. Lo ama. Esiste frase più perfetta e completante?

***

 

Soffrire fino a morire?

Forse non ne vale la pena. E forse non sarebbe nemmeno giusto.

Quello che ha già pagato, e quello che sta per pagare dovranno bastare.

Basteranno. Li farà bastare.

Perché Abby ci ha creduto.

Abby lo ha ascoltato.

Abby si è fidata.

Soffrire fino a morire?

No, non ne vale la pena. Bentornato raziocinio.

Si alza piano, facendo attenzione alla mano.

Si avvia verso la porta.

Non si ferma a riflettere.

 

 

 

 

 

 

 

This Web Page Created with PageBreeze Free HTML Editor

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


 

12.

 

Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.

Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.

Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.

Immobile. Tremante. Confuso.

Davanti a quel plexiglas lucido e pulito. Non può muoversi. Gli sembra un incubo. I contorni dell’edificio circondati dalla luce in un certo senso spettrale dell’alba. Ha paura. Resta fermo. Non può, non può. Il corpo sempre scosso dai tremiti.

Uuuhh, brutta ferita... forse dovresti entrare”

Il solito medico. La sua voce, come balsamo sulle sue ferite.

Sguardo allucinato.

Fidati. Non ti farò del male”

Il medico allunga la mano, dolce. Luka esita. Fiducia. Non è forse stata la fiducia di Danijela nei suoi confronti a farlo decidere per Vukovar? E adesso?

Due secondi passano. Due secondi, ma sono due secondi lunghissimi. Poi, Luka afferra la mano del medico come se fosse l’unica cosa da fare, come se da quel gesto dipendesse la sua vita.

Entrano. Luka guarda in basso. Si vergogna, ha paura e si sente anche uno sciocco. Che ci fa lì? Nel ruolo del paziente poi.

Tranquillo. Andrà tutto bene”

Stanza vuota e leggermente isolata. Silenzio. Luka si siede sul lettino senza smettere di tremare. La mente sempre più confusa.

 

***

Fa caldo. Ma anche freddo. Ormai, non ha più neanche la forza di chiedersi come sia possibile.

Le ginocchia gli fanno male. Sotto il sinistro ha un sasso appuntito che sta torturando la sua carne.

Colpi di pistola.

Grida.

Implorazioni disperate.

Ed i suoi tremiti.

Sta morendo, lo sa.

Finalmente.

***

 

C’è bisogno di una lastra”

Sguardo allarmato.

Tranquillo, userò un apparecchio portatile... non entrerà nessuno qui”

Il medico esce e rientra con il macchinario.

Si muove per la stanza tranquillo, lieve. Come per calmare Luka.

Ti darò un po’ di morfina, almeno il dolore fisico lo domiamo”

Luka osserva la siringa con attenzione, gli occhi spalancati. Il liquido chiaro viene iniettato piano. Ne sente subito l’effetto. La testa è più leggera adesso, ma è piacevole, e la mano non si lamenta più. Si appoggia allo schienale del lettino quasi senza accorgersene e chiude gli occhi.

Sollievo.

 

***

Cos’hai stasera? Mi sembri nervoso...”

Io, niente, perché?” Mentre lo dice gli scivola il tovagliolo a terra. Si china a raccoglierlo.

Quando si rialza gli occhi blu di lei brillano di malizia. Lei sa. Per un attimo pensa di maledire il sesto senso femminile, ma poi rinuncia: come si può prendersela con qualcuno che ha quel sorriso e quelle labbra?

Danijela...”, un respiro profondo, “... vuoi sposarmi?”

Sì”, così, semplice, senza bisogno di fronzoli. Un po’ ovvio, ma favoloso.

***

 

Apre gli occhi di soprassalto, confuso.

Si guarda intorno.

Stanza bianca, ospedale.

 

***

Quanto ho dormito?”

Poco più di mezzora. Un’ambulanza sarà qui tra 10 minuti. Sparatoria tra baby gang.”

Grazie, Haleh”

Si alza scuotendo la testa, cercando di allontanare il sonno. Si stiracchia e sbadiglia. Sta davvero diventando vecchio per il turno di notte.

Dr Kovac...?”

***


Ti senti meglio?”

Sguardo fisso, sorriso amichevole.

La mano in un gesso bianco. Nessun dolore.

Ti ho lasciato dormire mentre ti medicavo… sembravi davvero esausto”

Il medico continua a parlare mentre sistema la stanza.

Via i guanti.

Cestino.

Va al lavandino. Apre il rubinetto per lavarsi le mani. Luka osserva la sua schiena incurvata in avanti e le spalle che si muovono su e giù.

Sai, dovrei essere stupito dal fatto che non dici una parola, ma mi sembra una cosa normalissima. Si vede che hai i tuoi motivi… questo però non significa che non hai il diritto di ricevere aiuto se ne hai bisogno. Allora…”

Si avvicina a lui, che non ha smesso di fissarlo. È più lucido adesso.

“… le dita erano fratturate, ho dovuto steccarle ed ingessarle. Niente di troppo grave, però. C’era un principio di infezione, ma ho pulito bene la ferita. La febbre è scesa, e ti ho fatto una flebo di fisiologica. La disidratazione non è esattamente un bene per l’organismo”

Luka è stupito. Si rende conto che quel medico è la persona che gli ha dedicato più attenzioni da quando è arrivato a Vukovar. Vorrebbe ringraziarlo in qualche modo, ma sente solo altre lacrime bagnarli le guance. Peggio di una stupida donnicciola.

Non preoccuparti… si sistemerà tutto. Te lo prometto. Ora purtroppo devo dimetterti. Ce la fai ad alzarti?”

Luka ci prova. Le ginocchia sono ancora deboli, ma lo sorreggono.

Bene, bene. Qui ci sono gli antidolorifici e gli antibiotici”, gli porge una busta.

Il gesso va tolto tra sei settimane. Posso togliertelo io… se sarai ancora qui…”

Sei settimane sembra un tempo lunghissimo. Sei settimane, quarantadue giorni. Come può sapere cosa succederà tra sei settimane?

Silenzio.

Porta.

Nessuno vede, nessuno ha visto. Passaggio lieve, muto. Come un fantasma. Da chiedersi se Luka sia mai esistito.

Buona fortuna, ragazzo. E riguardati”

Lui non si volta, ma lascia che le parole del medico gli entrino dentro.

Buona fortuna. Ne avrà davvero bisogno per dove sta andando.

Perché c’è solo un posto rimasto.

Perché è quello il motivo per cui è lì.

Vukovar, è la resa dei conti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

This Web Page Created with PageBreeze Free HTML Editor

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


13.

 

È il momento.

Il momento di cui ha avuto tanta paura, il momento che non lo lascia in pace nemmeno nel sonno.

 

***

Si sveglia di colpo, la fronte madida di sudore, il cuore impazzito.

Hey, tutto bene?”

Abby lo sta guardando preoccupata. È sulla soglia della porta della loro camera da letto, Joe tranquillamente addormentato tra le sue braccia.

Sì, sì...”, deglutisce, “un incubo, era solo un incubo”

***

 

Il momento del coraggio.

Un uomo, davanti al destino. Ultima resa dei conti, la definitiva.

Il sole batte sulla sua schiena. Il sole. Strano, non si sarebbe mai aspettato il sole in una giornata così. La pioggia, il freddo sarebbero stati più ovvi. Ma ancora una volta Vukovar è riuscita a confonderlo. Il sole, caldo sulle sue spalle ed il freddo atroce che lo invade.

Tiene lo sguardo fisso davanti a sé, vedendo finalmente la pietra grigia, lucida e curata.

Fiori colorati l’adornano.

Non si ferma nemmeno a pensare chi potrebbe averlo fatto, non vuole pensarci. Sarebbe come mettere un dito nella piaga delle sue mancanze. Ed a questo punto, è stufo e nauseato delle sue mancanze. A questo punto sente semplicemente la necessità di concentrarsi sulla pietra lucida e curata che ha di fronte.

Tre nomi, naturalmente.

Tre semplici nomi, due dei quali con lo stesso cognome, due dei quali dividono con lui qualcosa in più del semplice cognome.

Jasna Kovac, anni 4.

 

***

È una bambina!”

L’esserino sta piangendo, il viso rosso.

Come la chiamiamo?”

Jasna... Jasna Kovac”

***

 

Marko Kovac, mesi 18.

 

***

Oh, guarda quanti capelli neri”

Che bel maschietto”

Marko, come il nonno di Danijela”

Marko Kovac, mi piace”

***

 

Danijela Barac in Kovac.

 

***

Con il potere conferitomi io vi dichiaro marito e moglie. Lo sposo può baciare la sposa”

Luka si piega piano verso Danijela. Lei è bellissima, il semplice vestito bianco a sottolineare il fisico sottile.

Finché morte non li separi. Come se a ventun anni, durante il tuo matrimonio per di più, l’idea della morte possa sfiorarti.

Finché morte non vi separi, a ventun anni, sotto il sole caldo, con il rumore delle onde, ha il sapore dell’eternità.

***

 

Fredda lastra lucida. Anche quella ha il sapore dell’eternità, ma in un modo terribilmente diverso. Non era così che doveva andare.

Si inginocchia davanti al destino, gli occhi chiusi, la testa china. Il sole regala ai suoi capelli riflessi irreali, giocosi.

Nella mano sinistra stringe tre rose. I gambi gli fanno sudare il palmo, ma quasi non se ne accorge.

Sospira.

Appoggia i fiori sul terreno ricoperto di ghiaietta.

Ne afferra uno, un bocciolo di rosa di un rosso cupo, vellutato, simile a sangue coagulato.

Lo deposita sulla tomba.

Altro sospiro.

Il tempo. Ecco cosa gli è mancato. Non l’amore, la passione, la fiducia. Il tempo. E chi mai avrebbe potuto prevederlo. Ma sarebbe stato giusto prevederlo? Forse, chissà, avrebbero perso spontaneità, gli occhi sempre fissi all’orologio che li separava da quel momento atroce. Il tempo. Tic tac, tic tac.

Guarda ancora la rosa rossa. Il fiore preferito di Danijela. Quella che le ha portato simboleggia tutte quelle che avrebbe dovuto portarle in passato, quelle che avrebbero dovuto essere già lì su quella tomba. Quasi sedici anni ed un pensiero costante. Mancanze coniugali. Il marito, lui era un marito. Come ha potuto, come? Se le scuse fossero un oggetto, sarebbero di sicuro quella rosa di sangue coagulato. Danijela, per tutto quello che è stato, e per tutto quello che avrebbe potuto essere.

Piega ancora la mano, per raccogliere un altro fiore.

Rosa rosa stavolta, delicata e sensibile. Jasna. La sua principessa.

La vede chiaramente, il suo sorriso, i suoi occhi. Era – è, dannazione – la sua bambina. L’amore istintivo, eterno. Qualcosa che non si può spiegare. Sua figlia. Nella sua mente, ora bambina, le trecce lunghe e nere, ora adolescente, con una gonna troppo corta, ora donna, ora mamma. Mente che disegna immagini perfette, precise. Immagini destinate a frantumarsi sulla lastra fredda che ha di fronte. Jasna, ora e per sempre bambina di quattro anni, Jasna che non abbandonerà mai le sue bambole. Jasna che aspetterà per sempre la fatina del dentino. Jasna. Se l’essere donna di Jasna potesse avere forma sarebbe quella rosa dai petali leggeri e arricciati. Jasna, futura donna perfetta e bellissima. Jasna, immagine pura della femminilità.

Ultima rosa, ultimo gesto, ultimo momento.

Rosa bianca, ingenua. Marko, dallo sguardo puro.

Marko nel seggiolone a spalmarsi allegramente la pappa sul visino. Marko, così simile a lui (e non vuole nemmeno pensare a chi altri è tanto simile Marko, perché altrimenti ne impazzirebbe), Marko dai passi incerti. Ingenuo, allegro, divertente, il suo bambino. L’amore della mamma, più che del papà, ma pur sempre amato oltre ogni spiegazione razionale. Marko, e le chiacchierate che non verranno mai. Marko, ed i consigli che moriranno in gola, che nessuno mai ascolterà. Marko, fermo all’età perfetta di diciotto mesi, quando ancora non si sa cos’è il tempo. Marko, che ha smesso di vivere ancor prima di aver avuto a pieno la coscienza di essere vivo. Se qualcosa potesse rappresentare il rapporto adulto tra padre e figlio sarebbe quella rosa candida. Marko, Luka, e le cose che avrebbero potuto imparare l’uno dall’altro.

Sta piangendo, Luka, senza nemmeno rendersene conto. Perché quello è l’ostacolo principale, perché se sopravviverà poi non avrà più scuse, perché essere lì è come morire e poi rinascere. Perché essere lì vuol dire accettare, capire.

E lui lo capisce che è la fine, che è l’addio, che il suo futuro è oltre quelle vite.

Per sempre li amerà.

Per sempre penserà a loro.

Ma loro non lo annienteranno più. Ma Vukovar non lo torturerà più.

Si alza piano, rispettoso. Le rose risaltano, bellissime. Sembrano l’immagine di un sogno. Tutto accade per una ragione. Ora ne è davvero sicuro.

Guarda il cielo, di un azzurro pallido. È quasi il tramonto.

Guarda ancora la lapide. I nomi incisi sembrano sorridergli, comprensivi.

Anche lui accenna un sorriso, un sorriso vero.

Addio. Vi ho amato e ancora vi amo. E così sarà per sempre. Lo prometto”

Si gira e si allontana. Non c’è più tempo per i rimorsi e i rimpianti.

La luce è bellissima, quasi arancione e dolce.

La luce illumina Vukovar in modo incantato.

Luka si guarda intorno.

Vukovar non è mai stata tanto bella.



 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

This Web Page Created with PageBreeze Free HTML Editor

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Epilogo ***


EPILOGO

Non c'è movimento alcuno e, per una volta, la cosa gli sembra perfetta. Effettivamente, è lui il primo a non volersi muovere, a essere così restio a cambiare posizione. Cerca di ignorare il mal di collo e schiena, spaventato dal fatto che un suo movimento possa far cambiare in modo tragico quello che sta ammirando da un'ora a quella parte.

Immagine perfetta e incantata, che riempe il suo cuore di gioia. Tutto ciò di cui ha bisogno è lì davanti a lui. Il resto non ha più significato.

Casa, finalmente. 

Ma poi, un movimento c'è, e non è nemmeno male come avrebbe potuto immaginarsi. Anzi, è infinitamente meglio.

Movimento di palpebre, distensione di labbra. Occhi castani dentro ai suoi.

Riconoscimento immediato. Sollievo. Sorriso. Come si era aspettato, del resto.

"Sei tornato..."

"Già", la voce più stabile e sicura, ora. E pensare che credeva di averla persa.

"Ho avuto paura", l'ammissione è difficile per lei. Non è mai stata una donna che parla apertamente dei suoi sentimenti.

"Lo so. Ne ho avuta anch'io". Si ferma, pensieroso. Ammetere di aver avuto paura è troppo, non può nemmeno provare ad addentrarsi nel profondo della questione. Di che cosa ha avuto veramente paura? Di Vukovar? Del passato? Di quelle tombe? Di se stesso? Forse di un po' tutte quelle cose messe assieme, ma ormai è tutto finito. Vukovar, la bella e incantata e maliarda gli sembra solo un puntino distante, una storia macabra ma dolce a suo modo, raccontata ai bambini per farli dormire. Vukovar. Il nome, come una folata di vento, si svolge nella sua mente. Vukovar.

"Non vieni a letto?"

"Direi che qualcuno sta occupando il mio posto...", il tono tinto di un vago sorriso. E, in sottofondo, amore e tenerezza. Il suo posto occupato dall'unica persona che può tollerare di vedere lì, dall'unica persona che ha un senso ad essere lì. Joe. Il suo adorato bambino. Il suo futuro.

"Ha sentito la tua mancanza... non voleva più dormire nel suo lettino", il tono di Abby è cauto, è un tono che sottintende altre cose. Luka lo sa, non è mancato solo a Joe, è mancato anche a lei. E anche lei non voleva più dormire da sola. Cosa sarebbe successo se...?

Restano in silenzio per un attimo. Tra loro, non sono mai scorsi fiumi di parole. Basta uno sguardo, un gesto.

"Hai fame?"

"No... penso di aver più che altro bisogno del mio letto", e di chi c'è dentro, sicuro.

"Possiamo stringerci un po'", lieve sorriso. Lei non sta aspettando altro che averlo lì al suo fianco, di poterlo abbracciare ancora, di perdersi nell'odore della sua pelle. Delicatamente, con un gesto che solo le madri riescono a fare, sposta Joe contro il suo fianco. La testina del bimbo ruota appena, dalle labbra socchiuse esce un piccolo sbuffo. Disapprovazione. I bambini detestano essere disturbati nel sonno. Luka ed Abby lo fissano un attimo, pronti a calmare un'eventuale crisi di pianto. In sottofondo, l'orologio ticchetta indisturbato. Niente. Joe si appallotola un po' di più, continuando a dormire.

Luka si alza dalla poltroncina su cui stava ed inizia a spogliarsi. Prima la giacca e poi si china per le scarpe. Abby lo osserva attenta, imprimendo nella sua mente i movimenti decisi dei muscoli del suo uomo, quando...

"Ma cosa...?", la voce è allarmata. Si sta dando mentalmente della stupida: come ha fatto a non accorgersi prima?

"Non è niente...", le sta passando accanto per aprire l'armadio e lei gli afferra il polso destro. Lascia scorrere le dita sul gesso ruvido. Lui chiude gli occhi. "Fa male?"

"Ora non più", ed è sincero. Le dita leggere di Abby sono come un balsamo sulla sua ferita. La mano smette di pulsare; è in pace adesso. Come lui, come lui.

Lei gli sorride, in un certo senso rassicurata. Lui è di nuovo lì - vivo - per le spiegazioni ci sarà tempo un altro giorno. Perché lei saprà aspettare il momento in cui lui si sentirà pronto. Così come, lo sa, prima o poi le spiegherà il motivo di una partenza così improvvisa e drammatica. Ma adesso non vuole pensarci. Luka è tornato.

"Dai, che ti aiuto io"

Lui si siede sul letto accanto a lei e la lascia fare. Le sue mani lavorano delicate i bottoni della sua camicia (lui per un attimo pensa alla fatica che ha fatto per abbottonarla con una mano sola) e poi spingono giù l'indumento. Lei gli accarezza le spalle e poi le braccia e il collo e il petto, percorrendo leggera la cicatrice che ha sopra l'ombelico. Luka si china in avanti e appoggia la testa nell'incavo del suo collo. La sua pelle, quanto gli è mancata. Riamangono fermi così, le mani di Abby che alternativamente gli carezzano i capelli e la schiena, soffermandosi dolcemente su ogni vertebra, come a voler rivendicare come suo quel corpo.

"Sei dimagrito"

"Lo so", la sua voce contro il suo collo le fa venire la pelle d'oca.

"Ci penso io a farti tornare in forma"

Lo sente sorridere contro la sua pelle. Lei gli afferra il volto tra le mani e lo costringe a guardarla negli occhi. Fronte contro fronte, naso contro naso, sguardi persi l'uno in quello dell'altro. "Stai forse deridendo la mia cucina?"

"Beh, lo farei se ci fosse qualcosa da deridere..."

Silenzio. Continuano a fissarsi, così, a pochi centimetri. Luka ha gli occhi lucidi. Abby gli bacia la fronte, una, due volte e poi passa alle labbra. Prima è un bacio leggero, come a volersi ricordare cosa vuol dire baciarlo, come se quello fosse il loro primo bacio. Luka la lascia condurre il gioco e si gode quei tocchi leggeri e pieni d'affetto, ma poi, quando lei approfondisce il bacio, immediatamente risponde. Si baciano per un tempo lunghissimo. Ed è bellissimo riscoprirsi di nuovo, con calma, come se nient'altro al mondo esistesse.

È Luka il primo a staccarsi.

"Grazie"

Lei lo bacia ancora, sullo zigomo stavolta. "Stanco?"

"Distrutto"

"Allora, dormiamo. Anche perché tra un po', comunque, Joe si sveglierà"

"Non vedo l'ora..."

Luka si è spostato, sdraiandosi in parte al bambino. Gli bacia la testina calda. Il piccolo fa una smorfia dolce. Luka sorride. Suo figlio. "Ti adoro, piccolino"

Si sdraia e con la mano sinistra abbraccia la sua famiglia. È finita, è finita davvero. Adesso ha solo una cosa da fare: vivere il presente. Chiude gli occhi, e un'immagine gli appare davanti: Danijela, Jasna e Marko gli stanno sorridendo da lontano, liberi. Poi, finalmente, dopo molto tempo, crolla in un sonno profondo, riposante, senza sogni. È finita, è finita davvero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

This Web Page Created with PageBreeze Free HTML Editor

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=631244