Preludio alla fenice

di aniasolary
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo e primo capitolo ***
Capitolo 2: *** Secondo capitolo ***
Capitolo 3: *** Terzo capitolo ***
Capitolo 4: *** Quarto capitolo ***



Capitolo 1
*** Prologo e primo capitolo ***


PROLOGO
Settembre 2015
Quando apro gli occhi è già sorta l’alba.
Dalle tende di velo dell’ospedale, Liverpool brilla d’arancio e cannella nella sua luce autunnale. Guardarla sembra diminuire il peso costante che mi grava su stomaco e cuore. Stomaco, perché è lì che colpiscono tutti i dolori – non riesco a mangiare, a malapena a bere, e mi strasformo in uno spettro che non ha bisogno di nutrirsi. Cuore perché è là che, quando arrivano quei dolori, tutto di te si restringe. Siamo come tessuti tutti diversi, noi uomini, ma la vita ci tratta sempre allo stesso modo; allora ci restringiamo, e noi stessi diventiamo un abito che non ci sta più bene. L’ho imparato a mie spese.
Anche adesso ho addosso il solito completo da lavoro. Giacca, cravatta allentata, camicia. La sigaretta che mi trema tra le mani – non puoi fumare qui, non puoi andartene.
Non puoi lasciarla sola.
«Arthur,» mi chiama mia madre, e solo adesso mi accorgo che ha aperto la porta. «Va’ a casa, resto io con lei… Sei stanchissimo.»
Mamma è sempre stupenda, anche coi solchi sul volto dell’età e dei desideri abbandonati lungo la strada della sua giovinezza. Quanti anni ha compiuto, il mese scorso? Cinquantaquattro o cinquantacinque… ha fatto una bella festa, lei e papà hanno ballato, le persone hanno applaudito. Io guardavo da lontano.
La tinta l’aiuta a mantenere d’un biondo brillante i suoi capelli.
«Lo so da me, ma’. Ma vado via quando lo decido io.»
Mamma si mette a braccia conserte, sbuffa e fissa i suoi occhi nocciola nei miei. «Fai più capricci adesso, a quasi trent’anni, che quand’eri bambino.»
I suoi rimproveri mi riempiono di tenerezza; cercano di recuperare i momenti in cui era impegnata a rimproverare se stessa. «Ne devo compiere ancora ventotto e poi non è vero.» Quasi rido. «Sono sempre stato bravo… sono certo che lei se lo ricorda.»
Allungo la mano verso la donna addormentata nel letto, con gli aghi di flebo infilati nelle vene del suo polso. Bianche le coperte, bianchi i suoi vestiti; bianca la sua pelle.
Con quei capelli nero d’antracite sparsi sul cuscino, il naso ad aquila e il corpo da nuotatrice, in te si irradia una bellezza fatta di sola luce. Un’estasi meravigliosa, ma accecante.
Tu sei così, Eirene.
Mia cara Eirene.
«Sì, Eirene sicuramente ricorda tutto. Come potrebbe mai dimenticarsi di te?»
Sbuffo, non riesco ad evitarlo: Eirene potrebbe averlo fatto, invece, e me lo meriterei. È così che i ricordi mi si affollano nella parte inferiore delle palpebre, liquidi, ed io li trattengo. Devono essere solo miei.
Queste lacrime sono solo mie.
«Ero solo un bambino, mamma,» mi ritrovo a sussurrare.
Poi sono stato solo un ragazzo.
Forse ora sono solo un uomo.
Ci sono tante cose che ti ho nascosto, Eirene. Non mi sei madre, non mi sei sorella, non mi sei legata per sangue. Eppure sei stata tutte queste cose, anche il sangue, tutte le volte in cui ho ammesso di averne bisogno.
“C’è il veleno nei tuoi occhi”, mi hai detto quel giorno maledetto. “Come c’è finito, là dentro?”
Ed io mi sono scostato da te.
Ti ho negato l’unica cosa che mi hai chiesto in tutti questi anni.
Ti ho negato, poi, tutto me stesso.
Hai la mano fredda, la stringo alla mia. Mi hai accarezzato i capelli, con quella mano, un anello d’oro finto per ogni dita, bella gitana che sei stata. Gli anni non sono mai passati per te, più t’avvicini alla morte più ti riempi di vita.
Mi chiamavi re. Mi raccontavi del tuo mare turchino, della tua Atene di sole e macerie, della tua bambina che correva tra le colonne del tempio di Atena.
Rallenta questa fine.
Regalami un adesso, ma un adesso che duri, perché per una volta vorrei avere la possibilità di essere abbastanza. Ti darò l’unica cosa che mi hai chiesto, ma non andare.
Ti prego, Eirene, almeno tu sii immobile, come le statue dei tuoi antichi dèi.
Ce l’ho ancora, questo veleno. Lo so mentre mia madre mi guarda e mi lascia uno sfioro che sembra un bacio sulla guancia che punge di barba. Non ho chiuso occhio. Non mi sono guardato allo specchio. Non riesco più a riconoscermi.
Ora saprai come mi è finito dentro, questo veleno.
Mia madre esce dalla stanza. Ha detto qualcosa – un saluto, forse un torno presto – ma ha poca importanza.
Tu non devi fare altro che ascoltare, Eirene: mi sta ritornando in mente la mia vita come non l’avevo mai vista prima, come puoi vederla solo tu. Riesci a vedermi?
Sono di nuovo un bambino.
Ho di nuovo diciassette anni.
Sono sempre vicino a te.
E tu non devi fare altro che restare.
Preludio alla fenice
 
«Quando tu riesci a non aver più un ideale, perché osservando la vita sembra un enorme pupazzata, senza nesso, senza spiegazione mai; quando tu non hai più un sentimento, perché sei riuscito a non stimare, a non curare più gli uomini e le cose, e ti manca perciò l'abitudine, che non trovi, e l'occupazione, che sdegni – quando tu, in una parola, vivrai senza la vita, penserai senza un pensiero, sentirai senza cuore – allora tu non saprai che fare: sarai un viandante senza casa, un uccello senza nido. Io sono così».
Luigi Pirandello, “Lettera alla sorella Lina”, 13 ottobre 1886
 
Primo capitolo
 
«Arthy, scendi! Non costringermi a salire!»
Sollevai la testa dal modellino della mia Ferrari e lanciai uno sguardo alla porta con il poster di Batman. Mamma aveva la voce alterata dal nervosismo e così mi alterai anch’io, e subito mi alzai dal tappetino su cui giocavo. Lasciai la mia stanza e percorsi il lungo corridoio, scesi le due rampe di scale e mi fermai di fronte al salone. Mi lisciai la maglia, e sperai che il nostro ospite non si curasse della macchia di cioccolato che ne segnava l’orlo.
Avevo mangiato una brioche di nascosto.
«Tesoro,» mia madre mi chiamò, mentre si abbassava per posare il vassoio del tè e dei biscotti sul tavolino di cristallo. La gonna corta che indossava le si stirò sulle cosce, e il tornare con la schiena dritta con quei tacchi alti ai piedi le recò una difficoltà che cercò di nascondere con un sorriso tirato.
Era la prima volta che serviva qualcuno.
«Vieni a conoscere la nuova governante,» continuò, e i suoi occhi nocciola si addolcirono.
Feci qualche altro passo nella stanza e gli occhi castano scuro della donna seduta di fronte a lei mi squadrarono.
Eri tu.
Capelli nerissimi, pelle pallida, i lineamenti fini, una veste bianca addosso.
Sembravi un cigno.
«Ciao.» Quel saluto – nella tua voce grave – mi parve quasi l’insieme di un mormorio di tante voci. Mi regalasti un sorriso di mezza luna. «Sei il figlio di Vanessa e Richard, non è così?»
Avanzai. «Sì,» ti risposi. «Mi chiamo Arthur.»
Non smettesti più di sorridermi. «E quanti anni hai?»
«Compio sei anni il trenta dicembre.»
Allungasti le mani verso di me ed io, perso nei tuoi occhi caldi, mi lasciai catturare nel tuo spazio. Così mi ritrovai ad essere cullato dal tuo abbraccio.
Mia madre, i capelli biondi che le scendevano lisci sulle spalle e la tazzina del tè a mezz’aria, ci fissava. Forse aveva già capito che saresti stata tanto importante per me.
«Io mi chiamo Eirene Mesiani,» dicesti poi. «Prometti che ti comporterai bene con me?» Avevi uno strano accento, rendevi dolci tutte le vocali, come se stessero tutte per trasformarsi in i.
«Che nome è Eirene?» chiesi io.
«Arthur!» Mamma mi lanciò un’occhiata contrariata e posò la tazzina nel suo piattino.
La tua risata sembrava uno stormire d’uccelli.
«Va tutto bene, signora,» parlasti tu. «Il mio è un nome greco perché vengo dalla Grecia, Arthur. Sai dove si trova?»
Restai interdetto. Mi morsi il labbro, cercai il sostegno di mia madre ma trovai solo uno sguardo distolto.
Così mi ritrovai solo.
«Papà mi ha insegnato a leggere le ore sull’orologio, a fare le divisioni e a costruire i castelli di carte. Mamma mi ha insegnato a memoria il sonetto settantacinque e centosedici di William Shakespeare e a scrivere, ma no…» Scossi la testa, preso da un senso di colpa che non comprendevo. «Non so dov’è la Grecia.»
Mi accarezzasti il volto, notai i tanti anelli che portavi alle dita dalle unghie lilla. «Imparare fa parte del vivere.» Posasti un bacio sulla mia fronte. «Domani porterò una cartina e te la mostrerò.»
Eirene Mesiani. Avevi trentotto anni di forza ed eleganza. Il lavoro non ti stancava ma sembrava insito in queste mani ora abbandonate lungo i tuoi fianchi, in queste braccia ora molli come continuazione dei tuoi tendini. Per questo non ti limitavi a dare ordini alle cameriere ma lavoravi tu stessa. Cucinavi pranzi squisiti, sapevi rammendare i vestiti, curavi le rose e le margherite del nostro giardino. Quando appassivano, coglievi i fiori alla fine dello stelo, per non farli soffrire, perché tutti a questo mondo soffrono anche se non piangono. In camera mia, mentre giocavo con il modellino della mia Ferrari, trovasti una coccinella sul vetro della mia finestra: la facesti salire sulla paletta della polvere e la lanciasti fuori, in modo che si librasse in volo. Appena mi svegliavo rifacevi il letto sotto i miei occhi, mi spiegavi come cominciare e finire perché verrà un giorno in cui non ci sarò, e sarai solo, e imparerai quanto sono facili le grandi cose, capendo quanto è difficile curarsi delle piccole cose.
Io mi svegliavo sempre alle sette e da che mi alzavo ti seguivo come un grillo saltellante e parlante, anche se tu eri libera da qualunque coscienza altrui.
«Ti piace la scuola?» mi chiedesti un giorno, mentre lavavi il pavimento, ed io mi stringevo le ginocchia al petto seduto sulla sedia, per non intralciarti. Un sospiro e poi altre parole. «Vedo che porti sempre buoni voti.»
«Mi piace di più giocare in giardino.» Reclinai la testa e chiusi gli occhi. «E fare il supereroe.»
Ti mettesti a ridere.
Quando ridevi non sembravi più un cigno, ma un gabbiano.
Già, proprio così.
Ti guardo, Eirene. Cuore codardo che non hai altro. Proprio adesso che ho cominciato ad aprire gli occhi doveva portarti via da me?
Eri rimasta a casa. Così non mi hai visto attaccato alla gonna di mamma mentre si apriva la porta, e la famiglia che mi ha preso il cuore ci ha accolto nella loro immensa villa con quell’aria semplice e solenne di chi non sa niente, di chi vive nella grazia e nella gioia.
La famiglia Truman.
«Rick! Vanessa! Oh, e c’è anche il vostro, piccolo Arthur…» Una miriade di sorrisi, e voci, e abbracci mi invase, ed io ne rimasi per l’ennesima volta incantato. Buford Truman, occhi azzurrini, occhiali fini scivolati sulla punta del naso, il migliore avvocato di tutta Liverpool, con un braccio teneva stretta sua moglie.  «Ti trovo benissimo, Theresa!» esclamò mamma. In mezzo a loro, la figlia maggiore dei signori Truman:  era nata solo sei mesi prima di me. D’una bellezza disarmante e intoccabile, così fresca da annullare il fatto che in Inghilterra tante bambine nascono con la pelle bianca di latte. Aveva gli occhi che parevano un cielo ombrato: gli stessi del padre, ma allora il signor Truman possedeva, nello sguardo, più chiarore; lei invece sembrava scorgere minacce ovunque guardasse ed era pronta, senza paura, ad affrontarle. «Ciao a tutti,» sorrise. Dopo i vari saluti corse al piano di sopra mentre io, con la mano stretta a quella di mamma, desiderai disperatamente seguirla.
La signora Truman mi accarezzò i capelli con un tocco leggero ma caldo, e così attirò il mio sguardo. «Diventi più bello ogni giorno che passa… non è così, Arthur?» mi chiese, con tutta la curiosità che non si potrebbe mai trovare in una domanda retorica. La trovavo bella in modo tanto strano, con quel vestito bianco che sembrava una camicia: era una fata scura, che aveva preso i colori delle cortecce degli alberi mentre la pelle, lucida, aveva la sfumatura più chiara delle foglie autunnali. Theresa, il suo nome – con il th, perché all’anagrafe ci fu uno sbaglio che suo padre, non sapendo leggere, non notò. E lei si divertiva sempre a raccontare a noi bambini questa storia, del suo papà napoletano che fino alla fine l’aveva chiamata Teresì, che nell’amore di suo marito è diventato Tracy, ma che nel cuore dei suoi genitori è sempre stato Teresa, la piccola Teresa, figlia di due avventurieri italiani.
Feci un alzata di spalle ed arrossii come poche volte ho poi fatto nella vita.
«Tracy, lo metti in imbarazzo,» la richiamò papà con voce divertita, e mamma lo guardò come guardava ai tempi, in televisione, due maschi che si baciano, con fastidio e un immotivato disgusto. Richard Conrad Benkinson, mio padre. Un gran manager. Sempre lontano. Sempre a suo agio.
«Oh, non vorrei mai,» gli risposte Theresa, e tornò a rivolgersi a me. Ed io corsi fino alle scale, fino al piano di sopra, fino a quando me lo disse il cuore. Mi fermai solo al suono della voce di Jade.
«Sei proprio bellissima,» diceva. «Lo sei proprio, proprio tanto.»
Quella voce aveva sempre il potere di bloccare qualunque cosa accadesse nel mio universo, lontana o vicina che fosse. Un suono che era come una sirena, e mi metteva all’erta.
Aprii la porta, piano, per non far rumore.
Jade, i capelli scuri così lunghi da sfiorarle la vita, teneva entrambe le mani appoggiate alla culla di legno decorato, con la testa abbassata a guardare giù.
E poi, d’improvviso, si girò verso di me.
Bella e splendente come la gemma che è il suo nome.
«Perché stai qui?» chiese impettita, e incrociò le braccia al petto.
Dura e difficile come la pietra.
«Sono stato invitato a salire,» dissi io.
Jade roteò gli occhi. «Non ti ho invitato io,» sbuffò. «E sai, Barbie magia delle feste 1993 che mi hai rotto non si è più potuta aggiustare.»
«Mi dispiace…»
«E fai bene a dispiacerti!»
Un risolino attirò la mia attenzione.
«Cosa c’è lì?» le chiesi, con un cenno del mento.
Jade fece un passo indietro e si appoggiò alla culla di schiena. «Non è un “cosa”, è mia sorella,» sibilò. «E se quando ti vede piange, lo dico a papà.»
Sbuffai.
Era sua sorella, è vero, eppure io continuavo a chiedermi che cos’è? perché mi sembrava impossibile d’essere stato così piccolo. La piccola era della stessa misura di una bottiglia d’acqua. Come faceva a sorridere senza denti? E lo faceva, con quella pelle olivastra che sembrava esser fatta per assorbire tutti i raggi del sole e i grandi occhi, marroni come il cioccolato amaro, vispi e selvatici.
Aveva la testa piena di capelli, corti e castani.
«Non è perfetta?» mi chiese Jade, e la sua voce aveva una sfumatura così dolce, un tono colmo di adorazione.
«Sì, è perfetta.»
Jade rise, le guance le diventarono più rosse, avvicinò la mano a quella della bambina e la piccola la strinse, così mi accorsi che la sua presa era forte anche se era appena nata: è una bambina che vuole vivere, mi venne da pensare. Si portò il dito di Jade alla bocca con un risolino che mi fece venire i brividi sulla nuca.
«La mia Natalie,» mormorò Jade, come se non esistessi; come se non fossi più un intruso, come se facessi parte di tutto questo. «La mia sorellina.»
Natalie si addormentò, Jade mi lanciò uno sguardo d’affetto immotivato, come se negli occhi potessi leggere le parole ti ho perdonato, puoi stare qui, puoi bearti con me di quanto è meravigliosa questa vita; fece la mossa di spostarsi i capelli dietro le spalle, mi prese per il braccio e mi condusse fuori, in silenzio.
Alla nascita di Natalie Truman anch’io ho chiesto a mia madre di avere una sorella o un fratello con cui giocare, ti ricordi? Eravamo appena tornati dalla cena dei Truman, tu aiutavi papà a togliersi il cappotto, mamma si toglieva le scarpe alte e scomode sul tappeto ed io correvo da una parte all’altra, mi seguivate con lo sguardo da una parte all’altra, mi sentivo come Superman ed a un certo punto ho girato come una trottola e sono caduto sulle ginocchia, sfinito, ridendo.
Credevo ancora che bastasse rivelare i propri desideri, per realizzarli.
Mamma e papà non mi ascoltarono mai.
Avrei preferito un fratello per fare giochi da maschi impavidi, ma mi è toccato il dono della solitudine, l’imposizione forzata e poi benedetta di bastarmi.
Ma questo lo sai già.
***
Quella sera mi rimboccasti le coperte. Erano tanto calde mentre io pensavo alla bambina appena nata che avevo appena conosciuto e a sua sorella maggiore.
In quella stanza dal profumo dolce e delicato, ero rimasto stregato.
«Arth? … mi pare di capire che il mito di Piramo e Tisbe non ti piace molto. È vero, è molto triste. Dormi con gli occhi aperti, piccolo re?»
«Cosa? No… ho solo sonno.»
«Va bene, adesso spengo la luce.»
Che brutta figura. Tu mi raccontavi tutte quelle belle cose che a scuola non mi avrebbero mai insegnato ed io pensavo alle due bambine della mia infanzia. Dovevo dimostrarti di non essermi dimenticato di te.
«Ti piace Liverpool?» ti chiesi.
Spegnesti la lampada sul mio comodino, ma il bagliore dei lampioni esterni ti raggiungeva e ti sfiorava con il suo orlo dorato. «Oh, molto.»
«E non ti manca casa tua?»
Mi accarezzasti i capelli per farli finire all’indietro e mi ipnotizzasti. Chiusi gli occhi.
«Sì, mi manca. Mi mancano mia figlia e mio marito.»
«E perché sei qui, allora?» Mi offesi, perché non mi avevi mai parlato prima della tua famiglia.
Credevo fosti sola.
Credevo fosti nata solo per rendermi un bambino felice.
«A volte sei costretto a lasciare le cose che ami per amarle di più.» Il tuo fu un sussurro, ed io sollevai di poco le palpebre. «Forse, tra un po’ di tempo, quando avrò racimolato abbastanza soldini, potrò tornare ad Atene e aprire un bel ristorante, proprio come sognava la mia mamma, Clio… E qualunque cosa accada, piccolo re, s’agapò. Io ti voglio bene. Ti vorrò sempre bene.»
Rimasi colpito dal suono di quella parola straniera. Non da te, che mi amasti subito come si amano tutti i bambini nel momento in cui si supera il loro mistero: senza motivo, perché esistono, perché nel loro vivere non ci sono artifici ma solo giochi d’amore, di guerra, di pace, tutto si risolve con un bacio, un abbraccio, un non lo faccio più.
Ed io feci lo stesso con te.
«S’agapò,» la assaporai con lentezza. « Ti voglio bene, Eirene.»
*
*
*
*
Ciao a te, lettore! <3 se non ci siamo mai conosciuti, eccomi: sono Ania e ti ringrazio immensamente per essere qui e per dare un possibilità alla mia preludio alla fenice. Questa è la storia di Arthur Benkinson: non è la prima volta che scrivo di lui, compare nella mia long conclusa La volpe di Liverpool in cui Natalie Truman, che qui vedete quando è una bimba appena nata grande quanto una bottiglia, è la protagonista. Preludio alla fenice si può leggere anche senza conoscere La volpe di Liverpool.
Se tu, lettore, fai parte di quelli che hanno letto la volpe... ben tornato in questo viaggio che va all'indietro solo per andare molto, molto avanti. Grazie per essere tornato a trovarmi *--------------------*
Grazie per aver letto.
Grazie a te per avermi dato una possibilità.

A presto
Ania <3

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Capitolo 2
*** Secondo capitolo ***





Secondo capitolo

 
Jade, a scuola, andava nella classe accanto alla mia. In cortile, a pranzo, spesso mi perdevo a guardarla tra un panino al formaggio e una mela verde. Non sapevo perché guardavo Jade; nemmeno perché mi voltavo quando ne sentivo, anche in lontananza, la voce – squillante, candida, piena di vigore che gridava ciao! Ehi! Vuoi giocare con me?
Nessuno le diceva mai di no.
Accanto a lei c’era una bambina magrissima con i capelli rosso rame, quel giorno.
Jade stava aprendo la confezione del suo yogurt, ed io mi ricordai di quello che facevi tu, Eirene, a casa nostra. Il tuo yogurt greco e amaro, che addolcivi con delle gocce di cioccolato perché io lo mangiassi. Potevo andare da Jade e dirle ehi, la mia Eirene fa uno yogurt diecimila volte più buono di quello che hai tu. Quando vieni a fare merenda con me?
Ma un rumore costante attirò la mia attenzione, come una pioggia di sassi.
Era una pioggia di sassi.
Un passerotto saltellava, tenendosi in equilibrio su una sola zampa, mentre un gruppo di bambini gli lanciava contro delle pietre.
Un senso di disagio mi invase. Se avessi agito, mi sarei fatto dei nemici, e allora io sarei stato proprio come quello che intendevo salvare: l’obbiettivo di tante sassate.
Ma c’era qualcuno, al mondo, che era molto più deciso di me. Questo qualcuno a grandi falcate si diresse verso il gruppetto, si fece spazio a colpi di gomiti e si chinò a proteggere il piccolo passerotto.
«Ma che fai, scemo?» gli gridò un membro del gruppo.
Il bambino, adesso in ginocchio e col passerotto tenuto in due mani, voltò la testa di scatto. I suoi occhi taglienti trafissero tutti i presenti.
«Se volete prendere a sassate qualcuno, ci sono io,» disse, e chiuse la mano a coppa, in modo che l’uccellino non potesse vedere all’esterno. Suonò la campanella della fine dell’ora di pranzo e il gruppo si sciolse tra sbuffi e vaghi insulti. Il bambino scuro continuava ad accarezzare il passerotto, a parlargli a bassa voce, a lasciargli piccoli baci sulle ali.
Provai per lui un’ondata di ammirazione che mi fece gonfiare il cuore.
«Ciao,» gli dissi. «Tu sì che sei un tipo forte.»
Il bambino parve non aver sentito. Si mise in piedi, constatò con rassegnazione di essersi sporcato i pantaloni sulle ginocchia e tornò a guardarmi.
Aveva due occhi oblunghi nerissimi, intensi. Doveva venire da un paese molto, molto lontano.
«Mi ha cacato in mano,» disse, con una freddezza che mi fece diventare le orecchie rosse. «Mi accompagni in infermeria?»
Mi girai un attimo: tutti i bambini erano entrati, adesso rimanevamo solo io e questo bambino sconosciuto. La maestra si sarebbe sicuramente arrabbiata. Anche mamma si sarebbe arrabbiata.
Anche papà.
Oh, insomma, Batman non si farebbe così tanti problemi!
«Sì, ti accompagno,» decisi, mi incamminai con lui. Avrei dovuto imparare a disubbidire prima o poi, no? «Io mi chiamo Arthur, come il padre di mia madre, che è andato in cielo quando io ero nella sua pancia. E come il re della leggenda. E tu come ti chiami?»
«Bradley, perché mamma è inglese e i nomi thailandesi per lei sono tutti brutti,» fece lui, con una voce allarmata. «Mamma mia, continua a fare la cacca!»
***
Avevo il fiatone.
C’era odore di fiori ed erba fresca; mamma aveva portato il cestino con i panini che avevi fatto tu, che eri la governante migliore del mondo per la famiglia migliore del mondo. E la famiglia migliore del mondo eravamo noi. Sulla tribuna, le teste bionde di mamma e papà attiravano i raggi del sole, perché la luce accoglie solo la bellezza. Ed io ero lì perché c’erano loro, e mi chiedevo come poteva esser venuto fuori un risultato più piccolo dalla loro somma, quando la somma è sempre un più e non accetta mai meno.
Mi ero allenato tutto l’anno, per quella gara, e tu lo sapevi. Dopo la scuola e i compiti, tornavo stanco e ansimante, pronto solo per una doccia veloce, una cena imbandita ed un sonno riposante e profondo. Ed ora correvo come fanno le gazzelle quando scappano dei leoni, leggere e impaurite. La paura le uccide ancora prima che il leone riesca a prenderle.
Ecco perché non ce l’ho fatta.
Papà mi fissava dalla tribuna, allo stesso modo di come guarda chi non rispetta le scadenze di pagamento in banca. Come se guardarmi lo ferisse.
Come se avesse perso lui al mio posto.
Papà fece per scendere, mentre mamma accanto a lui lo seguiva ed io non respiravo più.
Ma continuai a correre.
«Arthur!» mi chiamò mamma.
Ma l’unico motivo per cui volevo ancora correre non era vincere: era scappare, scappare per sempre.
Finii nel boschetto proprio davanti al campo.
Inciampai. La radice di una vecchia quercia mi aveva bloccato il passaggio ed il vetro di una bottiglia mi ha aperto uno squarcio sul ginocchio.
Bruciava.
«Non ti arrendi mai, tu, eh?»
No… no, questo no.
«Lasciami da solo.»
Uno sbuffo. «No.»
«Ti ho detto di lasciarmi in pace.»
«Io obbedisco solo alla mia mamma e al mio papà.» Mi fece voltare il viso, aveva le mani bianche, era la neve che ghiacciava il dolore, lo trasformava in freddo e così pungeva meno.
«Vattene via, Jade…» Anche la famiglia Truman era venuta ad assistere alla gara; erano arrivati quando era già iniziata, perché quando il fischio si è propagato nell’aria per la partenza, i miei genitori erano soli, circondati da persone di cui oggi ho dimenticato volti e nomi.
Un fazzoletto contro il mio naso. «Soffia, stupido.»
Obbedii, mi venne fuori lo stesso rumore di una pernacchia, c’era il muco.
«La mia sorellina sbava meno di te,» ridacchiò. «Ti sta uscendo il sangue.»
Strinsi forte le palpebre.
«Ho perso.» La mia voce era tutta compressa.
«Veramente sei arrivato quarto.» Mi mise una mano sotto il braccio per farmi sollevare. «Quindi hai perso bene.»
«Scusa,» grugnii.
«Per essere un maleducato? Lo sei, Arthur Benkinson, non mi hai nemmeno detto grazie. Ad Halloween potrai anche vestirti da principe, ma un cavaliere non lo sei per niente.»
«Ti ho detto grazie per farmi appoggiare alla tua spalla.» Sospirai. «E tu potrai anche vestirti da Jasmine di Aladdin e trasferirti in Africa, tanto non ti abbronzerai mai.»
Assottigliò gli occhi. «Quasi quasi ti faccio cadere.»
Chinai la testa. «Scusa.»
«Litigare con te è una noia, chiedi sempre scusa.»
«Scusa.»
«Scusa per cosa?»
«Per averti chiesto scusa.»
«I maschi sono tutti scemi.»
«E le femmine sono tutte antipatiche, tranne la mia mamma e la mia governante.»
«Pff.»
«Pfffft.»
Scuotemmo la testa nello stesso momento. Arrivammo all’inizio del boschetto e lei si fermò.
«Adesso vai da solo.»
Sgranai gli occhi. «Ma zoppico…»
«Tutti gli altri ti insulteranno se vedono che ti aiuto.»
Annuii, affranto. «Lo so.»
«Non ti insulteranno. Non mi vedranno. Andrai da solo.»
Scossi la testa, i capelli mi finirono davanti agli occhi. «E se cado? E se mi faccio di nuovo male? Non sono sicuro…»
«Impara a crederci,» disse, piano. «Se impari a crederci potrai arrivare tanto lontano, anche zoppicando.»
Guardai dritto davanti a me.
«Anche se fa male?»
«Anche se fa male
Un attimo di silenzio.
Un sospiro.
Feci il primo passo.
***
Papà si rigirava tra le mani la chiave del circolo di golf. L’avevano eletto vicepresidente, e poteva andarci tutte le volte che voleva. Mi ci poteva portare tutte le volte che voleva.
«Ecco.» Lasciò cadere una sacca di lino piena di palline ed una mazza. «Comincia a giocare.»
«Non posso andare a nuotare un po’ in piscina? »
«No,» rispose secco. «Devi esercitarti. O vuoi deludermi, come hai fatto con la gara di corsa? »
Chinai la testa, ed il pomeriggio soleggiato divenne improvvisamente nero di nuvole piene di pioggia. «Non ti voglio deludere,» mormorai.
«Questo è il mio ragazzo.» Mio padre mi diede una pacca sulla spalla, sorrise a quel suo modo composto e al tempo stesso caloroso, tentai d’imitarlo. Mi mise in mano la mazza da golf. «Comincia. »
«Per quanto tempo devo esercitarmi?»
«Fino a quando non diventi il migliore.»
«E come faccio a sapere di essere il migliore?»
«Continua a fare quello che bisogna fare.» Mi scostò i capelli dal viso. Diceva sempre che voleva portarmi dal barbiere per farli tagliare. «Fino a quando non muori.»
Mi aspettai un altro sorriso, una risata, un qualcosa che rivelasse il trucco. Ma non ci fu niente di tutto questo, solo una serietà inaudita, una severità inaspettata, un gelo improvviso. Richard Benkinson si era svegliato, quella mattina, ed aveva deciso di educarmi per farmi a sua immagine e somiglianza. Ma io avevo già nove anni: una creta già indurita, non fango malleabile con cui Dio creò, nella Bibbia in cui tu credevi, Adamo ed Eva. Con sforzo doveva stringermi attorno le dita, usare coltelli, parole dure, mentre io mi impegnavo di compiacerlo.
Ma avevo già la forma dell’uomo che sarei diventato e tu, Eirene, sei stata la mano decisiva che mi ha modellato.
***
Quante volte mi hai fatto il solletico, dopo le cene che i Truman passavano a casa nostra, ridendo forte come un branco di gabbiani che stormisce in coro lungo il cielo, mi chiedevi “ti piace Jade, eh? Ti piace?”, ed erano le uniche volte in cui ti gridavo “e lasciami in pace, Eirene, e mollami, e dai!” Così ce l’avevo con te per tutto il giorno, e tu ridevi, Eirene. Mi mostravi la foto di tua figlia Clio – l’avevi chiamata come tua madre –  che aveva diciassette anni ed aveva rubato il cuore a tanti bambini, proprio come Jade aveva fatto con me, e ne eri orgogliosa ed io ancora di più, nel profondo dello stomaco – perché lì mi sono sempre finiti tutti i dispiaceri – ce l’avevo con te. E mentre mi rifugiavo nel mio armadio, la tua voce aspra mi arrivava alle orecchie sulle note di una canzone in una lingua sconosciuta. Tante volte mi hai spiegato che il tuo Greco non è lo stesso di quello che parlavano Solone e Clistene, Pericle e Aspasia e tu, dopo aver finito la tua canzone, mi venivi a trovare, mi abbracciavi forte e mi sussurravi, all’orecchio, la parola più importante in tutte le lingue del mondo.
Ti voglio bene.
Ricordi quando mi aspettavi con il mio accappatoio con sopra i disegnini degli squali? E tenevi gli occhi chiusi sotto mia costrizione, perché mi era nato il pudore per la mia nudità stramba; mi avvolgevi nel tessuto strofinando dappertutto e mi chiamavi piccolo re; mi asciugavi i capelli, mi facevi infilare i jeans, mi spruzzavi l’acqua di colonia di mio padre e poi, dalla finestra, mi salutavi fino a quando l’auto di papà non svoltava l’angolo per raggiungere la casa dei signori Truman.
Ecco proprio in quelle cene infinite, in quei pomeriggi col tè ai frutti di bosco e i biscotti al burro, in quelle domeniche di sole e sonno, io osservavo. Il signor Truman seduto a leggere un libro sulla poltrona del salotto, Jade che gli si avvicinava piano piano, credendo che la montatura degli occhiali del padre riuscisse a nascondere i suoi passi felpati; il salto da leone con cui lei saliva sulle gambe di suo padre ed il libro che gli scivolava tra le gambe insieme alle caviglie sottili di Jade. Lei si lasciava abbracciare e baciare a morsi senza denti da quell’uomo che in tribunale scannava con le parole, ma lì era innocuo, lì era un padre innamorato. Gattonando, una piccola Natalie si avvicinava a quelle risa di festa, e allora il signor Truman lasciava Jade seduta su una coscia e si sistemava Natalie sull’altra, che sorrideva vittoriosa e faceva ciao con la mano. Natalie era una bambina che sorrideva a tutti e salutava tutti, a casa con chi vedeva ogni giorno e al supermercato con gli estranei, per questo Jade, quando facevamo delle passeggiate a Crosbey Beach, accanto al passeggino spinto dalla signora Truman, prendeva il ruolo di cane da guardia, da caccia, e da pascolo per proteggerla, attaccare e assicurarsi che tutto andasse bene.
Così passò la mia infanzia. Con te che mi aspettavi all’ingresso e mi leggevi negli occhi quanto cresceva il sentimento straordinario che sarebbe stato la causa della mia distruzione. Mi carezzavi il viso e mi stringevi forte al tuo petto dal profumo di latte e farina.
Sapevi che nemmeno tu saresti riuscita a salvarmi.
***
«Adesso che è finita la cena,» cominciava una Natalie di sei anni, lisciando il tovagliolo con le sue mani piccole. «Possiamo andare in salotto così Jade può suonare?»
«Magari i signori Benkinson sono stanchi,» le diceva sua madre mentre aiutava Wanda, la loro cameriera, a sparecchiare.
«Non sono stanchi!» insisteva Natalie. Con quel vestito rosa di tulle e i capelli che crescevano e le si raccoglievano ad onde, sulla schiena, come dopo non hanno fatto mai più, era una bambina meravigliosa. «Jade, ti preeeeego.»
«Non suonerò Chopin, stavolta,» precisava Jade, che si schermiva facendo passare il dito sul bicchiere di cristallo.
Jade cresceva con una naturalezza disumana. Il viso era rimasto tondo e luminoso come quando era piccola, le forme del corpo erano definite nel loro essere ancora acerbe. Cercavo di guardarla negli occhi il meno possibile, perché quel colore a metà tra il mare e il prato bagnato di rugiada mi ipnotizzava, e non accennava a cambiare. «Beethoven,» decise. «Solo per chi è più paziente.» Mi lanciò un’occhiata, si alzò da tavola e si incamminò verso il salotto.
Natalie, saltellante, si avvicinò al mio posto. «Si alzi, signora! Si alzi, signore!» fece ai miei genitori, e Buford Truman scoppiò in una risata fragorosa che Natalie parve non notare. Si rivolse a me con la dolcezza nei occhi allungati.
«Arthur, vieni?»
Mia madre si mise a gambe accavallate seduta su di una poltrona, mentre Jade si sedeva al piano. «Allora vuoi fare la musicista, Jade? » le chiese.
«Voglio fare l’avvocato,» rispose lei, pigiò qualche tasto qua e là. «Voglio mandare in prigione i delinquenti, come papà. Il pianoforte è una cosa in più,» continuò. «Se non suonassi, Natalie sarebbe triste.»
«Lo saremmo tutti noi,» aggiunse la signora Truman. «Ma ora suona, tesoro. Facci sentire un po’.»
Jade suonava il pianoforte da quando aveva nove anni. Il modo in cui diventava padrone dei nostri fiati, dei battiti dei nostri cuori, dei nostri sguardi nel momento in cui le sue dita toccavano i tasti era la prova del suo talento. Era una sirena che cantava attraverso la voce di corde che le appartenevano più di qualsiasi altra cosa. In quegli attimi di pura concentrazione potevo perdermi a guardarla senza vergogna, e così arrivai ad impararla a memoria – la ruga in mezzo alla fronte, sette lentiggini sul naso, un neo sotto lo zigomo – a impararla così bene che la riconoscevo di lontano a miglia e la notte, nei miei sogni, sembrava vera, sembrava lei.
«Che cos’era, questa?» chiese mio padre, con un fallito tentativo di risultare indifferente, ma la sua voce ne tradì l’emozione.
Richard Benkinson era lontano da molte cose che contenevano l’amore.
«Sonata al chiaro di luna,» rispose Natalie, piano. Corse ad abbracciare Jade. «È la mia preferita.»
Oh, erano belle quelle sere, così tanto che ho la paura tremenda di averle solo immaginate, sognate, e che Jade sia stata tutta un’immaginazione, un sogno. Ma non lo era: lei suonava al suo pianoforte, in salotto, ed io avrei potuto guardarla per ore, ascoltarla per ore, guardarla e ascoltarla ancora un attimo, ti prego, per sempre. La signora Truman voleva che Natalie aspettasse qualche altro anno per seguire anche lei delle lezioni, ma la bambina si sedeva al piano e, con le mani aperte, faceva sui tasti TAN TAN TAN. Natalie mi lanciava un’occhiata furba, orgogliosa d’avermi fatto sorridere. Lei, così piccola, in quegli anni mi ha dato tutto l’affetto e l’interesse che io agognavo dalla splendida freddezza di Jade. Col tempo imparai a rassegnarmene, a sapere che con Jade avrei sempre commesso degli sbagli – romperle una barbie da collezione per sbaglio, mettere troppo cibo nella boccia del suo pesce rosso, avere un attacco di tosse mentre lei recitava la poesia per la festa della mamma –, che lei era troppo di più ed io ero troppo di meno ed insieme eravamo due linee che non sarebbero mai state convergenti tra loro, anche se io mi incurvavo ostinato verso di lei. Tanti amici di mamma e papà sono venuti a cena a casa nostra, ed io sono andato a cena da tanti altri amici di mamma e papà che tu hai conosciuto, eppure il riguardo che avevi per Jade e Natalie Truman, che dimostravi da prima di capire che la loro presenza mi scatenasse vergogne ed ansie titaniche, mi faceva gioire. Perché ti piacevano, Eirene? Perché Theresa è italiana e la Grecia è vicina all’Italia, lo era soprattutto quando i tuoi avi erano al loro massimo splendore? Volevi bene ai signori Truman, alla loro allegria pacata – che in Natalie esplodeva – alla loro gentilezza di cuore, ai loro sorrisi.
Così mi hai visto diventare un ragazzo. Iscrivermi alle gare d’atletica e piangere, perché non ci volevo andare; finire a vincere i campionati di golf, proprio come mio padre; diventare il migliore in Matematica e mediocre in Lettere – hai curato con un bacio, una volta, uno schiaffo di mia madre; scappare a casa di Bradley tutte le volte in cui non ne potevo più e ritornare, per prendermi il doppio delle botte sul sedere che mi avresti dato se fossi rimasto.
I veri uomini restano, hai capito, piccolo re? Mi dicevi. La prossima volta non scappare più.
Hai conosciuto anche Bradley, che mi chiamava  per giocare a calcio, salvava gli animali e faceva sempre l’occhiolino a tutti, come il personaggio di un musical. Ci ho fatto insieme la prima sbronza, la prima sigaretta, la prima canna – Dio, non credevo che avrei mai avuto il coraggio anche solo di pensare di rivelarti simili sciocchezze. Per un po’ fare certe cose mi ha fatto sentire grande come volevo essere, perché anche se crescevo mi sentivo sempre troppo di meno mentre Jade diventava ancora troppo di più. Ero un gran stupido, me ne rendo conto, ma la tristezza mi annebbiava il cervello, mi faceva fare quello che facevano tutti, mi aiutava a pensare che ero contento come lo sembravano anche gli altri. E Jade guardava tutto questo dall’alto, intoccabile. Il tempo che passava la levigava, la illuminava: divenne il perfetto inizio di splendida donna che tante volte mi ha fatto restare sveglio, tra le coperte, fino all’alba. 
*
*
*
*
Ringrazio infinitamente le splendide persone che mi hanno lasciato il loro pensiero su efp e wattpad. Vi sono davvero grata e spero che la storia continui a piacervi. Arthur sta crescendo e nel prossimo capitolo lo vedremo nel pieno della sua adolescenza. 
Per chiunque volesse sognare un altro po', qui trovate la Sonata al Chiaro di luna <3 
Qui il gruppo in cui parlo di scrittura e della storia, se avete piacere di farne parte :3

Grazie ancora di cuore,
Ania <3

 

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Capitolo 3
*** Terzo capitolo ***




Terzo capitolo

 
«E così Daisy dà una megafesta in cui tutti gli invitati possono portare degli amici e gli amici possono portare con sé altri amici.» Stavi sfogliando un libro, ma senza leggerlo. Era la biografia di Maria Callas – la cantante lirica che cantava nel nostro stereo proprio in quel momento.
A casa mia, tra me e te, il terzo atto della Tosca.
«Megafesta?» ti feci eco.
«Ti ho sentito parlare con Bradley. Ma come le dite le cose, voi ragazzi? Greco e Inglese insieme. Prrr.»
Scossi la testa. Maria Callas cantava Il tuo sangue o il mio amore 
volea... Fur vani scongiuri e pianti. 
Invan, pazza d'orror, 
alla Madonna mi volsi e ai Santi... 

Mettesti via il libro accanto a te e, con un teatrale movimento di braccia bianche, m’indicasti il pacco regalo sistemato sulla poltrona. «Tua madre le ha preso un bracciale in corallo. Davvero squisito. Tutte le ragazze saranno invidiose, e tutte si innamoreranno di te.»
Sbuffai. In quel periodo queste erano le nostre conversazioni: erano fatte di sbuffi, sguardi rivolti al cielo di Liverpool anche da sotto il soffitto e sorrisi che esplodevano, sospinti dal profondo dello stomaco. Avevo l’età della paura e delle proibizioni, e tu riuscivi a misurarne tutte le insofferenze.
«Ma che innamorarsi. Mica mi interessa.»
«Non dire così. Un giorno ti vorrai ingoiare la lingua per averlo detto.» T’alzasti dal divano, presto mi fosti di fronte: ti sormontavo. Ero ancora il tuo bambino, ma quella piccola eri tu ed io un alto orso. I tuoi occhi neri mi lanciarono un ammonimento con il loro luccichio, ne rimasi folgorato. Aspettavo sempre e solo te: le tue sentenze eterne, le tue preghiere nascoste.
Mi togliesti il papillon dalla camicia e mi sbottonasti un po’. «Così va meglio, piccolo re. È sempre meglio la cravatta del cravattino. In assenza di cravatta, meglio nulla.»
L'empio mostro dicea: già nei 
cieli il patibol le braccia leva! 
Rullavano i tamburi... 
Rideva, l'empio mostro... rideva... 
già la sua preda pronto a ghermir! 

«Meno male,» risi. «Mi sentivo uno scemo con quel coso.»
Ma tu eri ancora seria. «Un giorno sarai così bello che accecherai gli occhi di chi ti guarda. Come Medusa: pietrificherai tutti, ma tutti resteranno in vita, perché in te non c’è superbia. Solo inconsapevolezza. E c’è qualcosa di divino in chi possiede qualcosa di grande ma non sa d’averlo.» Un accenno di sorriso sulla tua bocca larga, screpolata e scura. Donna, tu: quarantotto anni e palpebre come carta velina. Restavi bianca. Restavi giovane.
«Non sempre ti capisco, Eirene.»
«Come succede con tutte le cose importanti.» Finalmente mi regalasti un sorriso. «Ti scendono nel ventre e crescono e si sentono davvero solo quando ti fanno male. Adesso vai, o farai ritardo. Bradley non è ancora arrivato?»
"Sei mia!" - Sì. - Alla sua brama 
mi promisi. Lì presso 
luccicava una lama... 
Ei scrisse il foglio liberator, 
venne all'orrendo amplesso... 
Io quella lama gli piantai nel cor.

«No,» dissi, e tu t’avvicinasti al mobiletto su cui era posato un bicchiere ed una scatolina. Nel bicchiere pieno d’acqua caddero delle pillole.
«Quelle per cosa sono?» ti chiesi.
«Oh, semplice mal di testa.»
«Spengo lo stereo?»
«Oh, no, Arth,» sospirasti. «No, per l’amor del cielo. La voce della Callas mi cura da tutte le rogne.»
Qualcuno suonò il campanello.
Mi rassegnai presto. «Come vuoi… È Bradley, sicuro. Allora vado.»
Facesti un sorso. «Vai. E non tornare tardi, fai preoccupare tua madre. E sii gentile. Non sai mai quanto è stato difficile il percorso che ha fatto la persona che sta davanti a te per essere lì in quel momento. Sii gentile, sempre.»
Uscii.
Avevi già il cuore debole.
E non volevi che anch’io m’indebolissi insieme a te.
***
Daisy Spalding.
Rossa di capelli e magra come un chiodo, era un animale sociale che stava bene solo in mezzo alla gente.
Quella sera, maglietta striminzita che le lasciava scoperto l’ombelico e pantaloncini inguinali, mi abbracciò come se fossi un suo caro amico. Ci eravamo intravisti qualche volta a scuola; per lei dovevo essere solo un vicino di casa che, quando io e Bradley giocavamo a calcio, la disturbava per farsi avere indietro la palla che finiva nel suo giardino.
Bradley e Daisy si guardarono, e fu evidente che lo sguardo anche se non contiene verbi e immagini ha qualcosa che racchiude, in un solo istante, tutto quanto. Così quando lui le porse la mano per stringerla, occhi negli occhi, fu inevitabile il loro barcollare, uno sfiorarsi indeciso, un abbassare gli occhi per toccarsi di proposito e dire ciao, ciao, Brad, Daisy. Come i fiori. Eh, sì. Daisy, bello. Vado a salutare gli altri che sono arrivati.
«Buongiorno, cinesino,» feci al mio amico, gli diedi uno schiaffetto sotto al mento per ridestarlo e mi beccai un’occhiataccia.
Gli feci un sorriso tutto denti.
«Non sono cinese,» grugnì, serio.
«Lo so. Ed hai appena avuto una specie di colpo di fulmine.»
«Ti do io un bel colpo se non la pianti.»
«Ah sì?»
«Nelle palle. Quindi smettila,» fiatò. «E poi non ti sei accorto che la tua Jade è proprio qui?»
Lo stereo mandava Asereje a tutto volume, ma per l’epicità di quel momento ci starebbe stata meglio Maria Callas, la sua voce da Madonna in terra che avevo finito di ascoltare solo dieci minuti prima. Maria, Madonna, la stessa cosa. Vi somigliavate. Avevate dipinto negli occhi le stesse luci di grazia.
Chi si duole 
in terra più? Senti effluvi di rose?!... 
Non ti par che le cose 
aspettan tutte innamorate il sole?...

Capendo poco, ero riuscito comunque a ricordare il testo della canzone. Solo anni dopo, per curiosità, sarei andato a cercare il significato, ma nel frattempo mi era entrata nella testa lo stesso.
Jade indossava un vestito argentato che le scendeva largo dopo la vita, e si guardava intorno con quei capelli lunghi lunghi, e lisci, e lo sguardo sperduto. Bella, ma non come te: tu mi proteggevi.
Jade mi privava di ogni difesa.
La lingua mi si fece così secca che non mi sarei sorpreso se si fosse sbriciolata in un ammasso di sabbia. Jade voltò la testa verso di me.
Sollevai la mano a salutarla.
E lei, con un sorriso timido, mi sorrise.
Jade mi sorrise!
«Hai visto?»
«Che?»
«Ha sorriso! Ha sorriso a me!»
«E che vuoi? Una targhetta?» Bradley fece uno sbuffo infastidito.
Quando mi girai di nuovo a guardarla, Daisy se la trascinava via ridendo. Non capitava mai che Jade mi sorridesse. Mi aveva guardato tante volte in modo critico, ostile, distaccato, sprezzante, divertito.
Ma un sorriso, mai. Solo una volta, di fronte alla culla in cui se ne stava una Natalie appena nata, avevo assistito a quella specie di miracolo.
Quello fu il mio primo sorriso, fatto solo a me anche se era suo, e mi è rimasto conficcato nel cuore, nei miei ricordi possiede la stessa luce dei diamanti. Una moltitudine di colori ed uno spazio infinito in cui il tempo si dissolve in un presente perpetuo, sconfinato.
Lei è ancora lì.
Lontana.
Irraggiungibile.
Così tra balli, tiri con le freccette e giochi a carte mi ritrovai in uno stato d’inquietudine che mi riempì di adrenalina, ed io cercavo di acquietarla con la mia partecipazione ai giochi, alle battute, alle risate. Daisy mi legò un fazzoletto sugli occhi per giocare a moscacieca ed io pensavo a Jade, cercavo lei, volevo lei, sognavo lei e fino all’ultimo sperai, dopo venti minuti di frustrazione e corsa, che i polsi che stringevo tra le mani, sottili e leggeri, fossero quelli di Jade Truman. Rimasi deluso di fronte ad un’altra ragazzina dal volto che non riesco a ricordare.
In quel momento, la sorella maggiore di Daisy tirò fuori dal mobiletto del salotto delle bottiglie di vodka e cominciò a versarne il contenuto in diversi bicchieri. Mi feci spazio tra la folla e riuscii a prenderne due.
Uno per me.
Uno per Jade.
Mi misi a cercarla al piano di sopra, in terrazza, nelle camere da letto: scomparsa. Stavo per mollare quando mi ricordai della balconata al piano terra.
Jade era lì, appoggiata alla ringhiera.
C’era sempre stato un vetro tra me e lei, proprio come in quel momento, ma questo non mi fece demordere, non quella volta: dovevo provare a raggiungerla. Dove avevo trovato quei pensieri coraggiosi? Non lo so ancora, Eirene. Forse da te, che amavi il coraggio in ogni cosa che trovavi, nella natura e nell’istinto animale, nella dignità della morte e nelle fantasie di scrittori seppelliti secoli fa, con la speranza che certe cose non muoiano mai.
Aprii di poco la porta a vetri. Jade stava parlando al telefono. «Sì, la festa è molto divertente ma è quasi mezzanotte, come mai non sei a letto?»
«Io non riesco a dormire se non mi suoni la ninnananna,» riuscii a sentire.
«Quale ninnananna?» chiese Jade.
«Il chiaro di luuuuna. Quella che hai suonato l’altra sera quando c’era Arthy.»
«L’altra volta, quando c’era Arthy – come lo chiami tu – ho suonato “La goccia” di Chopin. Inoltre, Natie.» Sentii il rumore del suo sorriso – mi invase la circolazione, mi riempì tutti gli organi, mi fece sentire, per la prima volta e davvero, un re. «Non potrò esserci sempre, prima della buonanotte. Dovrai imparare ad addormentarti anche senza la mia ninnananna.»
«Uff,» le rispose Nat. «Ma almeno, Jadie, puoi darmi la buonanotte?»
Jade e Natalie erano in simbiosi, soprattutto da quando avevamo scoperto che i disagi scolastici di Natalie derivavano da una forma, quantomeno leggera, di dislessia. Natie si trovava male con parole e numeri e amava i disegni. Amava soprattutto disegnare vestiti e riprodurli sulle sue bambole.  Jade e la signora Truman passavano pomeriggi interi a svolgere esercizi con la piccola perché migliorasse, così quando Natalie, alla fine dell’anno, riuscì a superare il problema senza ritorsioni non seppe mai, per scelta di Tracy e Buford Truman, d’essere stata una bambina dislessica.
«Certo, Natie.» La voce di Jade mi distrasse dai miei pensieri. «Buonanotte.»
Jade era orgogliosa di sua sorella.
«E tanti baci?»
E lo ero anch’io.
«Tanti baci.»
«Col rumore?»
«Col rumore.» Jade mimò degli smack smack con la lingua e scoppiò a ridere. Che cosa non aveva, quella risata. Riusciva a ridestarmi nel bel mezzo di un sogno e farmi catapultare in un altro sogno ancora. In fondo non è questo, che accade, quando nasce un sentimento irreparabile?
Inspiegabile?
Immaginai che lei mi vedesse e mi rendesse complice di quel bellissimo gioco. Jade sussurrò qualcos’altro e chiuse la telefonata, poi continuò a guardare il telefono come incantata. La luce dei fanali esterni, dei lampioni della strada e della luna calante le si imbrigliava fra i capelli. Sembrava altro argento, sembrava mercurio. Immaginai di levarglielo via tutto con le mani, guardare quella luce raccogliersi in gocce che scivolavano in terra, stringerla tra le braccia – col tempo fermo, il cuore fermo, il mondo lì fuori, là dentro, quaggiù immobile – e continuare a guardarla.
E baciarla.
«Arthur?»
Ma lei si voltò.
«Jadie, ti ho preso un po’ di vodka, vuoi…»
In quel momento Jade aprì di più la porta della vetrata ed io, incapace di fermare la mia velocità, le finii contro con una specie di spintone in tutto il mio peso.
E in tutta la mia vodka.
Che le era caduta sul vestito e adesso gocciolava dall’orlo.
«Oh…»
«Il mio vestito…»
«Io…»
«È rovinato…»
«Jadie…»
«Chi ti ha detto che puoi chiamarmi Jadie?!» digrignò e, con l’affanno, mi si allontanò di due grandi passi. Parlò a bassa voce: «Questo vestito l’avevo scelto con Nat…»
Mi sorpassò con una velocità tale da stordirmi e, quando si girò di nuovo a guardarmi, incontrai uno sguardo di disprezzo che mi fece saltare il cuore in gola.
Mi sentii un idiota cosmico.
Tra tutte le ragazze con cui potevo essere coglione, lo ero stato proprio con lei. Lei. Jade. Jade Felicity Truman. Jadie. A quasi quindici anni ormai ero abbastanza sveglio per capirlo: mi attraeva nei barlumi di quotidianità che mi concedeva di vivere insieme a lei, negli istanti in cui non si accorgeva che c’ero, quando correva per prendere il bus in ritardo come suo solito e quando suonava il pianoforte;  quando si teneva il cucchiaino in bocca anche se aveva finito la sua porzione di gelato, quando carezzava i capelli di Natalie per farla addormentare e quando sottolineava il libro di Sociologia, l’unica lezione che condividevamo insieme.
Dopo l’accaduto, quando i Truman ci invitavano a cena, Jade inventava scuse per restare in camera sua. La piccola Nat, per attirare la mia attenzione, mi lanciava i mais dell’insalata tra i capelli ed io, solo perché era lei, solo perché era tanto diversa da Jade, solo perché non potevo non volerle bene, le sorridevo.
Ma quella sera – era passato quasi un mese dal compleanno di Daisy – non sarebbe andata come voleva Jade.
Sarebbe andata come volevo io.
«Signora Truman…»
«Tracy. Quante volte devo dirti che devi chiamarmi così?»
«Tracy,» accettai la correzione. «So che Jade non si sente bene. Ma potrei salire un attimo al piano di sopra? Dovrebbe prestarmi un libro per il compito di Sociologia. Il mio l’ho dato a Bradley perché non ce l’ha…»
«Sì, vai,» acconsentì il signor Truman. «Ti accompagna Wanda.»
«No, io!» s’inserì Natalie. «Io io io!»
«No, tu no,» decise la signora Truman. «No se prima non finisci tutti i pomodori che hai nel piatto.»
«Ma mi fanno schifo,» disse Natie, con una voce sottile sottile. «Perché non mi dai direttamente il gelato? Non è giusto che voi l’avete già mangiato!»
«Noi abbiamo mangiato anche i pomodori.»
«Non è vero! Il signor Benkinson non li ha mangiati tutti, ne ha lasciati tre.»
Wanda mi venne accanto, con un cenno, mi invitò ad alzarmi e a seguirla per le scale. Ed io non finii di assistere ad una delle le tante discussioni in cui avrei visto impegnate Tracy e Natalie nel corso di tutta la mia esistenza.
Mi lasciò davanti alla camera di Jade ed entrò nella stanza accanto alla sua.
Bussai.
Mi arrivò, attutita dalla porta chiusa, la voce chiara e vibrante di Jade. «Wanda, non scendo. Ho appena chiamato il ristorante, ho ordinato giapponese.»
«Sono Arthur.»
Qualcosa, nella sua stanza, cadde. Un blocco di appunti, forse, o un ammasso di vestiti.
Aprì la porta. Portava un pigiama svasato che le distorceva tutte le forme, ma io la guardai negli occhi, subito, per non sfuggirle più.
«Arthur?»
«Sì… solo io.»
«Mio padre sa che sei qui?» mi chiese.
«Mi ha dato il permesso.»
Jade incrociò le braccia sotto il petto. «Non mi sento bene. Che c’è?»
Imitai le sue mosse. «Non ti senti bene ed ordini il Giapponese?»
«Ti piace il Giapponese?»
«No.» Fui sincero.
«Un altro motivo per cui non me la racconti giusta,» mormorò. Un’ombra le attraversò lo sguardo: c’erano così tante ombre in lei. Riuscivo a perdermi in tutte quelle che vedevo. «Che cosa vuoi?»
Tossii un po’. «Vorrei scusarmi. Per il vestito. Alla festa di Daisy. Sono sere in cui vengo a cena, e tu mi eviti, e mi dispiace.»
Gli occhi azzurri di Jade si spalancarono. Storse la bocca – così era uguale a sua madre, anche se non le somigliava per niente. Jade era tutta il signor Truman. E mi accecava gli occhi per quanto era bella. Con quante assurdità mi riempivi la testa, Eirene. Hai trovato le parole del mio amore prima ancora le trovassi io stesso.
Jade si lasciò andare a un sospiro. Era pieno di stanchezza, d’esasperazione.

«Benkinson,» sussurrò, ed un brivido mi fece irrigidire la schiena. «Arthur Philip Benkinson. Tu crois être le centre de l’univers
Sbattei le palpebre, con lo stomaco ribaltato insieme alla cena: il mio nome intero sulla sua lingua, tra le sue labbra piene. Ed una lingua sconosciuta, morbida, che avrei voluto mordere su quella bocca.
Che pensieri, erano questi?

«Oppure potrei dire,» aggiunse. «Crois-tu être le centre de l’univers? O ancora est-ce que tu crois être le centre de l’univers? Si può dire in tutti e tre i modi.»
Deglutii. «… E così parli Francese?»
E a cantare per noi, nella mia mente, Tosca:
Trionfal, di nova speme 
l'anima freme in celestial 
crescente ardor. 
Ed in armonico vol 
già l'anima va 
all'estasi d'amor.

«Lo sto studiando tutte le sere da un mese, genio,» le venne fuori, con tanta velocità quanto ardore. «Non scendo a cena da un mese. Non suono il pianoforte se non il pomeriggio prima di fare i compiti. La mia vita sociale praticamente è andata in vacanza a Timbuctu. Altrimenti come me lo prendo il livello B1? Di certo mia madre non mi manda in viaggio a Parigi con il club di Musica se non lo prendo.»
Non mi ero accorto di aver trattenuto il respiro. E lei indossava quel pigiamone e le guance le si erano colorate di quel rossore purpureo che mi fece salire il sangue alla testa ed io credetti d’impazzire, Eirene, impazzire.
Perché desideravo tanto fare l’amore con lei, anche se non avrei saputo da dove cominciare.
«Ecco perché non scendo a cena. Quindi sì, non ho avuto l’onore di cenare con la famiglia Benkinson,» fiatò. «E nemmeno la famiglia Earl, Howland, Ogden e… I miei genitori sono così popolari. Com’è possibile? Mia madre è socievole solo con i bambini.»
Scossi la testa, riconobbi il mio sbaglio e me ne pentii, nella mente, tante e tante volte. «Non immaginavo che…»
«La mia domanda era questa, Arthur: credi di essere il centro dell’universo?» mi chiese.
Restai in silenzio, in completo imbarazzo, con l’ebbrezza inquieta del condannato. Mi grattai la nuca, distolsi lo sguardo da lei, tornai a guardarla.
«Perché non mi rispondi? »
«Perché non so che dire…»
«Perché la risposta è sì,» finì lei. «Credi di essere il centro dell’universo, Arthur Benkinson. Il motivo per cui la figlia di una coppia di amici dei tuoi genitori non scende a cena. Be’, non è così. Io non ti penso proprio.» Mi guardò con una sfida che le fece tremare lo sguardo. «Ho molto da fare. Non mi viene regalato niente. Forse non è questo che hanno insegnato a te, ma a me sì. Non si ottiene niente con niente. Si ottiene qualcosa con l’impegno. O con la fortuna, ma quella non ci può sempre essere. Mio nonno Gregory faceva il fornaio, mia nonna Felicity lo aiutava, si alzavano ogni giorno alle quattro di mattina e con tutto questo sono riusciti a far studiare cinque figli. Quando mio nonno Santino è arrivato in Inghilterra da Napoli negli anni sessanta non aveva un soldo in tasca, ed è riuscito ad aprirsi il suo negozio di elettrodomestici dopo anni a fare lo spazzino. Mia madre si è laureata col massimo anche con dei professori che la chiamavano ancora sporca italiana. Stai certo che non è perché ci sei tu che accadono le cose. O almeno, non sempre.» Scosse la testa. «Ed ora, se sua altezza mio re lo permette, vorrei studiare.»
Chinai il capo, incapace di articolare altre parole. Mamma che stronza, sputò la mia mente. Che cosa potevo dirle, in risposta? Che eccellevo nelle cose in cui ero portato e per il resto chiedevo aiuto a mia madre, direttrice della biblioteca di Liverpool e con una laurea prestigiosa in Letteratura Inglese? Che, in ogni caso, entrambi i rami da cui provengo sono sempre stati benestanti da generazioni e adesso, di fronte al sudore dei suoi avi, diventava quasi una colpa?
No, non è vero, me l’ero meritato. Non ero il centro dell’universo, lo sapevo. Non ero il centro del suo universo: ingoiai l’aroma amaro anche di quella consapevolezza.
Nemmeno tu sei il centro del mio universo, Jade.
«Volevo solo essere gentile,» mi ritrovai a dire.
Tu sei tutto il mio universo.
«A volte mi chiedo se sei anche altro oltre ad essere gentile,» sbottò e chiuse la porta.
Restai fuori.
Restai fuori dall’universo di Jade Truman.
Non tutto quello che mi dicevi, Eirene, mi faceva ottenere gli effetti che avrei voluto. Ebbene, tu non mi educavi per attirare consensi.
Mi educavi per rendermi, un giorno, fiero di me stesso.
Nonostante tutte le porte in faccia che avrei preso nel corso della mia esistenza. 
*
*
*
*
Buongiorno, fenici! <3
Qui trovate l'atto terzo della Tosca, se vi va di andare ad ascoltare. Molto musicale questa storia, non trovate? Forse solo un'altra volta mi è successo che la musica fosse così unita alla storia che raccontava. 
Qui, di nuovo, il link del gruppo.
Spero che la storia continui a piacervi. Come ho scritto in una risposta in una recensione, ho cominciato a scriverla per me stessa. Arthur è un personaggio con una crescita davvero difficile e intensa, una crescita che conoscevo bene nella mia mente ma sentivo il bisogno di metterla su carta o, più semplicemente, di scriverla nel mio foglio di word. Nell'altra storia in cui appare, La volpe di Liverpool, lui è già cresciuto, ha  ventisei anni.
Quindi eravamo io ed Arthur, solo io e lui, ma poi mi sono accorta ancora una volta quanto quello che scrivo, nel momento in cui lascia la mia mente, è sinceramente vostro.
Vi appartiene.
Quindi grazie di cuore per esserci.
Al prossimo capitolo,
Ania :)

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Capitolo 4
*** Quarto capitolo ***




Quarto capitolo

 
Passò un’ estate tra partite di golf, tè ghiacciato, sigarette fumate di nascosto e la villeggiatura in costa azzurra, scogli rossi d’argilla circondati dal mare blu ed il sole, immenso, a colpirne il paradiso, a colpire i miei occhi. L’amico fotografo professionista di mamma, Steven, ci fece molte foto, conservate nei nostri infiniti album di famiglia. Di quel soggiorno ricordo una ragazza parigina, con una splendente pelle olivastra, il nasino all’insù e gli occhi cerulei. Era un anno più grande di me e quella sera, mentre mamma e papà ballavano il valzer viennese ed io fissavo i giochi di luce del lampadario di cristallo, mi sorpresi che la ragazza stesse facendo psss proprio a me.
Mi alzai da tavola e la seguii nel giardino del ristorante, sotto una palma finta.
«Salut,» le dissi.
Lei ridacchiò. «Lo sapevo che eri inglese,» mi rispose, nella mia lingua. «Anche se hai qualcosa che ricorda un tedesco.»
Trattenni un sorriso di fronte a quella erre così morbida. Mi piaceva, quel suono. Ci trovavo qualcosa di infantile e sensuale nello stesso tempo.
Che Jade, con la sua strafottenza, non era proprio riuscita a riprodurre quella sera in cui mi aveva cacciato via.
«L’altezza,» ipotizzai.
«Le spalle,» continuò lei. «Sì, le spalle.»
Stirai le labbra e mi sedetti sulla panchina che anche lei aveva occupato, senza parlare.
«Ti annoiavi, lì, con i tuoi genitori,» fece ancora lei, e la musica del valzer accompagnava le sue parole. «Ti manca la tua fidanzata?» mi chiese.
«No!» mi venne fuori tuonante. E mi apparve Jade che teneva la mano di sua sorella e diceva no, non mi va di andare in Francia, quest’estate. Tanto ci andrò ad ottobre con il club di musica, visto che adesso ho il B1 di Francese… E se andassimo a Napoli a trovare nonna Anna?
«No… non ce l’ho la fidanzata,» dissi, con più calma.
«Davvero stranissimo.»
Fu umido e sospirato, uno sfioro in cui non capivo cosa fare, come farlo e perché farlo. E in tutto questo, assaggiavo il sapore di champagne che aveva lei.
Mi aveva dato un bacio.
Sì, ed io la stavo baciando.
«Constance!» Una voce di bambina esplose tra i cespugli, ci fece staccare all’improvviso. «Constance, où es-tu?»
«Oh, no,» sospirò la ragazza accanto a me. «È la bambina a cui faccio da babysitter.»
«Constance!» Quella voce la chiamò ancora ed apparve una ragazzina sui dieci anni, con i capelli nerissimi e la pelle di porcellana.
«Emanuelle, j’arrive!» Constance si alzò, senza voltarsi indietro, e corse verso la piccola Emanuelle che adesso mi fissava.
Il giorno dopo, al ristorante, non c’era l’ombra di nessuna delle due.
Ma rividi, un giorno, l’ombra di una di loro.
Ecco il mio primo bacio: in Francia, a una sconosciuta appena conosciuta. È bizzarra, la vita: ti lascia vivere le cose importanti anche senza le persone importanti. Perché tu non ci seguisti, Eirene.
Eri nella nostra bella casa, ad aspettare che tornassi.
Ed io non vedevo l’ora di tornare da te anche se, quando misi piede su suolo inglese, mi fissasti per un lungo momento negli occhi, prima di parlare. Era come se non stessi guardando me.
Ma qualcosa dentro di me.
«Sei un po’ cambiato… sempre bello, anzi di più, ma c’è qualcosa di diverso.» Restai in silenzio e tu continuasti. «Sei ancora cresciuto in altezza, forse?»
«Sei tu che sei nana,» risi.
Mi facesti la pernacchia e mi scompigliasti i capelli.
***
Tornai a scuola per l’inizio del secondo anno delle scuole superiori. Bradley, accanto a me, puzzava di coniglio – in gabbia, non in casseruola. Ed io mi guardavo in giro alla ricerca estenuante di Jade Truman.
Quando la vidi, in corridoio, che sorrideva a quel modo appena accennato, persi tutto il fiato che avevo in gola. Non si era abbronzata, a Napoli, ma in quei due mesi che aveva passato lì i capelli le erano cresciuti tanto da arrivarle all’altezza del seno.
Jade sorrideva a un ragazzo. Lui le fece fare una giravolta e, quando Jade fu voltata, l’abbracciò da dietro. Jade chiuse gli occhi.
E lui, più scuro di me, più alto di me, più grande di me, più bello di me, la volse di nuovo verso di sé, Jade restò a occhi chiusi e lui la baciò.
Il nome di quel ragazzo, due anni più grande di me, è John Goode. È diventato un astrofisico della N.A.S.A. proprio come aveva detto il giorno dell’orientamento del nostro liceo, per invogliare i futuri studenti ad iscriversi. Con una bella donna, o un bell’uomo, si sarà anche già sposato.
Ma quel giorno aveva quanto di più desiderassi al mondo tra le sue braccia.
«Arth,» mi chiamò Bradley. «Ti è scivolata la cartellina di Inglese.»
«Merda,» sussurrai.
Una merda che Jade baciasse quello sconosciuto e non me, che io non avessi speranze, che non ne avessi mai avute.
«Una vera merda,» specificai. E ruggì, per la prima volta in me, la belva della gelosia:  mi attanagliò le viscere tra le sue zanne, pronte a strappare e a lasciarmi sanguinante, inerme.
Ed avrei dovuto dirtelo. Tutte quelle volte in cui mi rimboccavi le coperte, anche se stavo diventando grande; i pomeriggi in cui mi preparavi lo yogurt con le gocce di cioccolato mentre guardavamo un programma a quiz in tv; le sere tristi in cui aprivi la porta, mi vedevi seduto alla scrivania e mi chiedevi “stai studiando?”, senza aspettare la risposta.
Mi lasciavi un bacio sulla testa, ed io sospiravo per risucchiare quel bacio e mettermelo nel cuore come un cerotto, per curare i graffi che gli artigli di quel sentimento mi lasciavano.
In superficie, ma inguaribili.
***
Natalie Hanna Truman non faceva altro che crescere. Continuava a trotterellare dalle scale per venirmi ad abbracciare, ma il tempo passava anche nella sua infanzia. Con un cappellino a forma di cono fermato sotto al mento da un elastico, soffiava la fiamma che ghermiva un numero otto di cera. I suoi capelli erano diventati più lisci fino alle punte, di quel tono cioccolato che tradiva quello di Jade.
 «Un panino al burro, Arthur?»
«No grazie, signora, sono a posto così.»
La signora Truman mi sorrise, e qualche ruga le guarnì gli occhi da cerva. «Puoi chiamarmi Tracy, lo sai.»
«Tracy, giusto,» finsi che la mia formalità fosse nata solo da un’abitudine ch’era dura a morire. Ma Theresa, Teresa, Tracy, sapevo benissimo quale fosse il suo nome: aveva messo al mondo la ragazza per cui avevo perso la testa, come potevo non venerarla e al tempo stesso condannarla per questo?
«Hai mangiato poco, oggi,» mi disse, come offesa. «Devi crescere! Quindi devi mangiare. Non te lo dice tua madre?»
In realtà era una cosa che mi dicevi tu, Eirene. Mamma, con la biblioteca e l’organizzazione di eventi con scrittori famosi – quell’anno era eccitatissima perché un certo George R.R. Martin aveva accettato di fare una seduta di autografi dopo infinite telefonate col suo agente –, e per questo non c’era quasi mai a pranzo.
Mi strinsi nelle spalle. Oltre al golf – qualche volta aveva giocato con noi anche Buford Truman – mi ero iscritto ad una palestra vicino casa, dove mi dimenavo tra addominali, pertica e spalliera. Dopo arrivavo a casa sfinito.
Ed io ero grato di riuscire a pensare sempre meno.
«Mamma! Io vado,» fece Jade, vicino all’entrata del salotto. Si era messo addosso un piumino chiaro su cui scendevano, ad onde, i suoi capelli castani – quanto fu freddo, quel diciotto novembre.
«D’accordo, ma non tornare tardi.»
«Non preoccuparti, mi accompagna John. Lui è prudente,» la rassicurò Jade, ed abbassò il capo fino a che la sciarpa non le coprì il mento. Era arrossita. Le lentiggini sul naso erano ancora sempre sette. Il neo era sempre sotto lo zigomo. Ed io non potevo nulla contro la forza del mio destino.
«Lo spero,»  sbuffò Tracy.
Jade rimase sullo stipite per qualche secondo ancora, incrociai lo sguardo col suo e fu come cadere giù da un burrone. Tu, Eirene, mi hai raccontato molte storie: nei paesi africani, le persone credevano che i possidenti degli occhi chiari fossero demoni che, guardandoti, ti succhiavano via l’anima.
Con Jade l’impressione era la stessa – come una caduta continua: panico nel sangue, nervi tesi, ossa pronte a rompersi. Per poi ricominciare, rincominciare, rincominciare a cadere – anche se il suo era un azzurrino indefinito, con sfumature che da lontano non potevo scorgere al meglio.
Così si girò ed imboccò il corridoio, ed io allora decisi di seguirla e a metà strada gridai.
«Jade!»
Si mantenne in equilibrio sul suono del suo nome.
«Mhm?»
Fu tragico il momento in cui capii di essere arrivato al limite. Che il macigno che portavo nel cuore – non sopra ma proprio dentro, ingombrante e pesante – era troppo per me. E l’unico modo per asportarlo, seppur di poco, anche se così mi sarebbe stato visibile in mezzo al petto come un iceberg nell’oceano, era essere egoista nel più meschino dei modi.
Mi dicevi che ero un bravo bambino.
Un bravo ragazzo.
Ti sbagliavi di grosso.
«Ti accompagno alla porta,» le dissi.
Jade rimase perplessa, lo lessi nel suo viso. «È casa mia, credi che non sappia dov’è la porta?»
«Ovviamente lo sai,» le arrivai accanto. Sicuro. Come se tutto fosse una sciocchezza. «Però non sapevo come altro restare solo con te perché è da tutta la sera, da tutta la settimana, da tutto il mese, da tutto l’anno e forse da tutta la vita che dovrei farlo e ancora non l’ho fatto e allora tanto vale…»
«Che cos…»
«Sto diventando pazzo.»
«Lo vedo!» Le si inarcarono le sopracciglia. «Che hai?»
«Sei la creatura più meravigliosa a questo mondo ed io sono un povero scemo. Sono un povero scemo perché sono innamorato di te. Anche se mi odi. L’ho capito. E quando ti parlo faccio sempre casini. E se tu mi parli mi insulti. Non ha senso, lo so. Hai il ragazzo, lo so. Ma dovevo dirtelo.» Aprii le braccia ad abbracciare un cielo che non avrei mai raggiunto. «Adesso che lo sai, posso stare meglio.»
Ecco il mio egoismo: asportarmi quel segreto dal cuore in modo che anche lei sapesse. In modo che fosse anche un suo segreto.
In modo che fosse condiviso.
Jade restò a bocca aperta. Respirò ad ampie boccate: incredula? Sotto shock? Sorpresa?
Scoppiò in una risata che parve infrangere i vetri delle finestre, ma la verità è che mi colpì come uno schiaffo in pieno viso, la giusta punizione dopo aver rotto qualcosa che non si può più aggiustare.
Era quello che avevo fatto: avevo distrutto qualcosa.
Tutto il tempo passato insieme nel corso degli anni, alle cene o in vacanza in Corsica o in Puglia, un anno in Svizzera, l’altro in Irlanda, aveva creato una successione di momenti di cui entrambi eravamo proprietari, anche se distanti.
Jade, nel contegno che riuscì a ritrovare in se stessa, non poteva continuare ad essere distante da me: io sapevo, lei sapeva. Questo ci legava. E sarebbe stato per sempre.
Mi fissava con due occhi persi e splendenti, la bocca dischiusa, il respiro a passarle attraverso, le gote arrossate.
«Arth…» E ci fu così tanta vergogna, in quel sussurro. Voleva continuare. Non sapeva come farlo.
«Il tuo ragazzo ti sta aspettando,» la interruppi, e ringraziai me stesso per aver parlato con tutta quella decisione: mi ero rotto dentro, ma la mia voce restava sempre la stessa, misurata. Non più infantile, vicina al tono grave che ho oggi.
Preso da una calma e una freddezza che credevo di non avere, le aprii la porta. «Divertiti, Jade.»
Non si mosse.
Jade non accettava ordini, inviti. Ogni tanto, ma non da me, dei consigli.
Per la prima volta, però, non si oppose.
«Grazie.»
E raggiunse la moto del suo John a passi veloci.
***
 «Goaaaaal!» gridò Bradley, correndo con le mani a pugni e con gli occhi a guardare il cielo, come i veri calciatori che tante volte avevamo visto allo stadio di Liverpool.
«Piantala, pivello,» gli feci io, sprezzante. «È il primo goal che segni, da quando giochiamo insieme.»
«Ma è sempre un inizio!» E, vittorioso, e cadde in ginocchio con un sorriso impastato di sonno.
Entrammo in casa, per lavarci io sarei andato nel bagno più grande, mentre Brad in quello più piccolo.
«Chi finisce più tardi di lavarsi ce l’ha piccolo,» disse lui, a tutta velocità, per poi correre verso il bagno.
Ci tenevo davvero a dimostrare la mia virilità, quindi mi impegnai a lavarmi in fretta e furia, uscii con i capelli bagnati e solo i pantaloni addosso e corsi in camera mia. Nello stesso momento e nelle stesse condizioni uscì anche Bradley, e raggiungemmo la mia stanza tra spintoni e schiaffi umidi che profumavano di muschio bianco.
«Daisy cadrebbe ai tuoi piedi se ti odorasse in questo momento,» sospirai.
Bradley scosse la testa e mi arrivarono delle goccioline d’acqua sul petto. «Non li pensa proprio i ragazzi, quella.»
«Pensi che le piacciano le femmine?»
Cominciai ad asciugarmi con l’asciugamano.
«No, anzi, pensa solo ai suoi libri e ai suoi telefilm, i ragazzi reali non li considera proprio,» mormorò.
«Be’, non è facile competere con gli alieni di *Roswell
«Piantala di prendermi in giro.»
Scossi la testa. «Magari se le dici cosa provi, lei si accorgerà di te.»
«Jade si è accorta di te?»
Questo mi irritò tanto da farmi accaldare, nonostante il freddo, nonostante fossi mezzo svestito.
«È diverso,» mi sbrigai a dire. «Ci sono sempre stato. Lei c’è sempre stata. Non sono riuscito a impedirlo.»
Non volevo impedirlo.
«Ma quando gliel’hai detto… ti sei sentito meglio davvero?»
Presi la maglia del pigiama e me la infilai. «Mi sono sentito coraggioso, coraggioso come non sono mai stato,» sospirai.
«Tu sei sempre stato coraggioso. Sicuro di te, in gamba.»
«Non è vero. Faccio finta. Alle ragazze piace. A mamma e papà piace.»
«Non so se crederci,» mormorò, ed anche lui finì di vestirsi. «Quanto conta quello che sei, se non corrisponde a quello che fai? Siamo lo specchio delle nostre azioni.» Si mise nel suo sacco a pelo ed io mi coricai sul letto. Al soffitto era ancora attaccato un poster di Toy Story.
«Ora capisco il perché di quel dieci a scrittura creativa, Brad.» Sorrisi.
«Pensa a me, che prendo solo insufficienze in Matematica. Come farò a studiare veterinaria, se non so risolvere un sistema?»
«Poi ti aiuto io, tranquillo. È una cazzata.»
«Tutte le cose per te sono cazzate e intanto, quando non esci, ti sbatti sui libri fin quando non muori.»
Mi rigirai nel letto. «Tu leggi la mia anima, Bradley.»
«Sì, amico.»
Chiusi gli occhi, preso dalla curiosità. «Ma tu te lo sei mai misurato?»
Un attimo di silenzio. «Con il metro che ho a casa.»
«Esagerato!»
«Non ti chiederò più in prestito la tua riga.»
***
Jade passò tutto il tempo che poteva a farmi sentire la sua assenza. Passò il Natale dalla nonna, a Napoli, e il capodanno a casa di Daisy.
«Sono inseparabili, quelle due,» disse il signor Truman, mentre versava il vino alla cena di capodanno. «Quando anche Nat troverà un’amica così, io e Tracy staremo sempre da soli.»
«Non essere drammatico, Buford,» gli rise dietro mamma. «Tu hai due figlie, io ne ho solo uno, chi è il più fortunato tra noi?»
«Arthur,» rispose il signor Truman, e mi lanciò uno sguardo complice. «Tu lo vuoi, un po’ di vino?»
«Veramente lui…» s’intromise mamma.
«Voglio assaggiare il vino,» decisi. «Credo che la birra sia troppo amara.»
Buford si mise a ridere e mi versò del vino rosso nel mio bicchiere, scosse la testa. «Quante volte cambierai cose in cui credere, Arthur. Alla salute.»
Rumore di vetri che si toccano appena.
«E io?» squittì un funghetto che venne fuori da sotto il braccio del signor Truman. Natalie lo guardava con il labbro inferiore proteso verso di lui, i capelli sollevati in un’acconciatura intrecciata, gli occhi allungati a chiedere tenerezza.
«Solo un goccio, va bene?» le concesse il signor Truman.
«Grazie,» gli disse Natie, con una riconoscenza così matura nella sua voce che mi sorpresi: come poteva provenire da una bambina di soli otto anni?
«A cosa vuoi brindare, Natie?» le chiesi, travolto dall’ondata di affetto che m’ispirava ogni volta.
Natalie mi guardò ed io mi immersi nel languore del suo sguardo.
Sorrise.
«Alla felicità.»
***
Le olimpiadi di Matematica diventarono il fulcro dei miei pensieri. Dopo il campionato di golf a cui ero arrivato primo, mio padre mi dava la stima che avevo sempre desiderato da lui e, una volta che l’ebbi assaporata, capii che cos’era quell’elemento di cui non potevo più fare a meno.
La mia ambizione.
Il superare gli altri, chiunque fossero gli altri.
Lavorare e lavorare e lavorare, tutta la notte.
Purché mi aiutasse a non pensare a lei.
«Sta’ attento, Arthur,» mi dicesti un giorno, di fronte ad uno dei miei tanti successi. «Seduto a una tavola imbandita, mangia ciò di cui non puoi fare a meno. Se mangi tutto e troppo, non ricorderai il sapore di nessuno dei cibi che hai assaggiato e sarai pieno. Nauseato. E tutto sarà stato vano.»
Ma poi mi sorridesti. Ci fu un abbraccio stretto stretto, come quando ero piccolo. «Ma sei stato bravo anche stavolta, piccolo re.»
***
«Ehi, stacanovista.» Bradley mi lanciò una pallina di carta. «Non è che hai un minuto solo per me?»
«Che c’è?» gli chiesi, mentre spappolavo un mostro attraverso la divina invenzione della prima playstation.
«Non ci capisco un cazzo dello spazio euclideo tridimensionale,» sbuffò.
Impostai la pausa e mi voltai verso di lui che, seduto alla mia scrivania, sospirava sul suo quaderno.
«Non ti allarmare,» gli dissi. «È più facile di quel che pensi.» Mi avvicinai a lui e gli posai una mano sulla spalla, mentre il mio sguardo vagava sui suoi appunti. «ax+by+cz=d. Che cosa vuol dire?»
«Boh.»
Scossi la testa. «a, b, c sono delle costanti reali. Esistono, le vedi, le accetti.»
«Purtroppo per me, sì. »
«Ed esistono per ogni punto, a per x, b per y, c per z. La presenza delle costanti reali e dei punti ci conferma che si trovano sullo stesso piano anche nella loro diversità, isolati dal resto. Su un unico piano. E questo vuol dire…» indicai il disegno. «Che hanno la facoltà della complanarità. Cioè la proprietà di giacere sullo stesso piano… di stare insieme,» tentai di semplificare per lui. «È come se il piano fosse la loro casa e loro, quei tre punti, sono legati tra loro… sempre. Non importa il resto.»
Feci un profondo sospiro.
Bradley si passò una mano tra i capelli e restò in silenzio. Avvicinai l’altra sedia alla scrivania, mi ci sedetti e aspettai che mi guardasse.
Fu come incontrare lo sguardo di un cucciolo ferito.
«Facciamo degli esercizi insieme, va bene?» gli proposi.
«Ho capito, Arthur.»
«Oh, grande.»
«Ho capito,» scandì, di nuovo. «Spieghi bene. Solo… mi è venuta in mente una cosa…»
«Che cosa?»
«No, niente… è una scemenza… facciamo gli esercizi.»
«A che cosa hai pensato?»
«A Daisy,» mi liquidò. «Penso sempre a lei.»
***
Avevo scoperto da poco il fumetto di Freccia Verde. Il protagonista, Oliver Queen, si dimenava tra i delinquenti della sua città con le sue frecce e belle donne, quando qualcuno bussò alla porta.
Tu, Eirene, eri l’unica che entrava nella mia stanza.
E l’unica, adesso che stavo diventando uomo – ti riempiva la bocca, quella parola, e riuscivi a dirla in un solo, ansimante respiro: uomo – ad aprire la porta solo se dicevo, come in quel momento: «avanti».
In punta di piedi, nella mia stanza, tu.
«È bello il fumetto?»
«È troppo figo,» mi sfuggì. «Ti racconto la storia?»
«Veramente…» T’avvicinasti un po’ di più fino a sederti sul letto, accanto a me. «Dovrei essere io a parlare, adesso.»
«È successo qualcosa?»
«No, no.» Scesero piano, quelle sillabe, con calma insieme alla tua incertezza. «Arthur… una volta, quando eri piccolo, mi hai chiesto se mi piace questa città.»
Sbattei le palpebre alle prese con la mia memoria: io, in quello stesso letto, tu china su di me a rimboccarmi le coperte. Una sera fredda… novembre, Jade nel suo gelido splendore e, per la prima volta, lei.
Natalie Truman.
«Ah, sì. Mi ricordo.»
«Ti parlai anche della mia famiglia.»
Annuii.
«E ti dissi altro.» La tua voce era allarmata, non mi era mai suonata così acuta. «Ricordi?»
La scena mi tornò chiara come te la racconto ora. Vivida. Viva.
«S’agapò.» E la mia voce tremò, non seppi spiegarmi il perché.
«Sì…» Il tuo sospirò tradì un’emozione con cui non avevo mai avuto a che fare. Era quella dell’ultima parola. Dell’ultimo sguardo. Dell’addio. «Non è cambiato niente. S’agapò, piccolo re.»
Mi irrigidii. «Non sono più tanto piccolo.»
«Lo so, Arth. E il mio cuore si è già spezzato al pensiero che sto per andare via.»
Il fumetto mi scivolò dalle mani, una tua carezza sul mio viso, calda sulla pelle, gelidi i tuoi anelli. Era tutto troppo forte.
Mi scostai.
«Torni in Grecia.»
«Mi dispiace.»
«Non è vero. Era questo che volevi dall’inizio.» Mi alzai dal letto, ti diedi le spalle, feci un respiro profondo: non dovevi vedermi così. «Io… io sono contento,» esalai, con fatica.
«Contento?»
«Io non sono tuo figlio,» dissi. Un altro respiro ben misurato. «Una madre ce l’ho, e si chiama Vanessa Rachel Irvin. Un padre ce l’ho, e si chiama Richard Conrad Benkinson. Porto il nome dei miei nonni, sono Arthur Philip Benkinson. Tu, Eirene, non ci sei.» Deglutii. «Sono un estraneo per te.»
Un gemito roco. «Sei arrabbiato.»
«Non è questo che ti sto dicendo.»
Mi facesti voltare il viso. Non mi ero accorta che ti fossi mossa, eri silenziosa ed elegante, incisiva. Coi tuoi occhi mi scavasti il cuore, facesti rimbombare le tue parole.
«Tu hai ancora bisogno di me.»
Socchiusi gli occhi. Non dovevo piangere. Non potevo piangere. Volevo piangere. Ma tu non mi avevi ancora insegnato come comportarmi in situazioni simili.
«E adesso mi dirai una cosa come “ti manderò una cartolina”.»
«Arthur!» Un grido che spaccò il cielo. «Questo è banale: soffri, e nascondi ciò che senti nella strafottenza. Non è così che devi fare.»
«Insegnami, Eirene.»
«Tu…»
«Tutto bene, qui?» In camera entrò mio padre, senza bussare.
Abbandonasti il mio viso.
«Sì, va tutto bene, signor Benkinson,» dicesti.
«Te l’avevo detto che il mio ragazzo l’avrebbe presa bene,» rise lui. «Non è uno che si lascia toccare facilmente, da queste cose. E poi tu ci invierai delle cartoline, no?»
Un sussulto, sulle tue spalle: l’offesa ti rimbalzò contro. Era la stessa cosa che avevo fatto anch’io? Mi vergognai. Quante volte ho provato vergogna, Eirene, soprattutto con le donne.
Ma non potevo costringerti a restare nella mia vita, tu avevi la tua.
«Se avrete piacere,» sussurrasti. Il calore della tua presenza si dissipò da me e, prima di uscire, ebbi ancora i tuoi occhi.
Ma io, ostinato, guardai altrove, incapace di perdonarti, quando l’unico a dover chiedere perdono dovevo essere io.
Non ho bisogno di te, mi convinsi. Sto bene da solo.
Io sono nato per farcela da solo.
Così, quando m’abbracciasti per l’ultima volta prima di partire, restai con le braccia stese sui fianchi, senza rispondere.
Non sentivo niente.

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*
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*Roswell, serie tv di genere teen drama fantascientifico, prodotta dal 1999 al 2002.
Ciao a tutti, lettori, potete considerare questo capitolo come il mio regalo di Natale per voi <3 Vi auguro di passare delle splendide feste.
Non vi assicuro un aggiornamento a breve poiché è probabile che io decida di partecipare, con questa storia, ad un concorso letterario, motivo per cui i vostri pareri sono preziosissimi *.* se così fosse, dovrei togliere la storia dal sito, ma vi avviserò con un messaggio, se volete : )
Grazie mille a chi ha recensito, a chi legge, a chi mi sostiene giorno per giorno. A chi c’è e per questo è importante.
Vostra Ania <3

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