Quel Vischio Con Sotto Un Bacio

di tixit
(/viewuser.php?uid=707972)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** C'era una volta un bacio che aspettava di essere dato ***
Capitolo 2: *** Un bacio tra febbraio e settembre ***
Capitolo 3: *** Un bacio per il mai ***
Capitolo 4: *** Niente baci per tutti i tuoi forse ***
Capitolo 5: *** Quel bacio senza il vischio ***
Capitolo 6: *** Un bacio per il sempre ***
Capitolo 7: *** Un sorriso, uno schiaffo e nessun bacio ***
Capitolo 8: *** Un bacio negli occhi tra due troppo uguali ***
Capitolo 9: *** Un po' come se ti avessi dato un bacio ***
Capitolo 10: *** Un bacio venuto male ***
Capitolo 11: *** Nessuno bacia bene come il vento ***
Capitolo 12: *** Un bacio per la vita, che ti da sempre tanto ***
Capitolo 13: *** Tempo di abbracci e baci ***
Capitolo 14: *** Un bacio per ringraziarti di saper vedere ***
Capitolo 15: *** Un bacio per darti forza ***
Capitolo 16: *** Un bacio che forse andava dato ***
Capitolo 17: *** Tutti vogliono cose complicate, io solo darti un bacio sulla guancia ***
Capitolo 18: *** Ce ne vorrà per il bacio della pace ***
Capitolo 19: *** Per avere un bacio da Gerd ***
Capitolo 20: *** Un bacio di magia e di ghiaccio ***
Capitolo 21: *** Il primo bacio fu all'alba, d'estate ***
Capitolo 22: *** Dolci quei tempi del bacio della buona notte ***
Capitolo 23: *** Il bacio che adesso non ci diamo ***
Capitolo 24: *** Tanti tipi di baci per tante sfumature di te ***
Capitolo 24: *** Quel bacio che non può cambiare ciò che è e ciò che è stato ***
Capitolo 25: *** E finalmente si vede un bacio ***
Capitolo 26: *** Certe Volte Ci Vorrebbe Proprio Un Bacio ***
Capitolo 27: *** Serve davvero un bacio per dirtelo? ***
Capitolo 28: *** Un bacio in amicizia che, si sa, vale di più ***
Capitolo 29: *** Il bacio della pace ***
Capitolo 30: *** Quel bacio che da solo non basta ***
Capitolo 31: *** C'è un bacio per te, nei miei occhi ***
Capitolo 32: *** Un bacio certe volte non aggiunge nulla ***



Capitolo 1
*** C'era una volta un bacio che aspettava di essere dato ***


Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Ryoko Ikeda e di chiunque altro abbia diritti sul mondo di Lady Oscar; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

 
 

Quel Vischio Con Sotto Un Bacio

(Quel che si fa per amore)

 

C'era una volta un bacio che aspettava di essere dato


Oscar si inchinò rigidamente davanti a Monsieur Henri de Girodelle, le spalle ben squadrate sotto l'impeccabile giustacuore blu.

All'uomo ricordò molto Augustin, il padre della piccola, che frapponeva uno scudo tra sé ed il resto del mondo, scudo fatto di regole di comportamento molto precise - questo, ovviamente, quando il suo amico non era intento a comandarlo, quello stesso mondo, con ordini altrettanto precisi.

Sospirò pensando a quanto fossero cresciuti loro due - e cambiati - da quando erano solo due pivellini per la prima volta completamente soli a Parigi. Poi si inchinò a sua volta, con una eleganza priva di sforzo, dettata da una lunga pratica.

Voleva lui, Monsieur Henri tirare due colpi di fioretto? Nell'attesa che il Generale arrivasse? Lo avevano chiamato d'urgenza nelle stalle. Questo era il succo del discorso della bambina, concluse l'uomo dentro di sé.

"Nell’Atrio?" Aggrottò le sopracciglia, perplesso, fissandola severo con i suoi occhi chiari da spettro. Si, la piccola era decisamente il ritratto di Augustin, non solo per via dell'ossatura lunga, ma anche per qualcosa nel volto che non riusciva a definire.
 
"Nell’Atrio", ribadì Oscar, lo sguardo trepidante da bambina che affiorava e si ritraeva sul visetto, come lo sfarfallio di una candela.

L'uomo fu tentato di congedarla con un sorriso, in fondo era passato solo per un saluto, trascinandosi dietro i ragazzi. Tutto quello che aveva avuto in mente era un salto veloce nello studio, un bicchierino di Armagnac - aveva la bottiglia in tasca - e tanti ricordi di cui non serviva affatto parlare, come era giusto tra soldati: la quiete in mezzo a quella tempesta di pacchetti, nastrini, fiocchetti e mandarini canditi.
Avrebbe sicuramente passato in rassegna le figlie del suo amico, più tardi - se le immaginò un passo dietro Oscar, tutte e cinque schierate dalla più alta alla più bassa, come ad ogni festa, il mento alto e le spalle ben diritte, come veterani durante una rivista... il suo vecchio amico credeva sul serio fosse cosa possibile portare l'ordine in quel gran caos che era la vita.

Oscar lo guardò seria in volto, mentre mormorava qualcosa sull'imprevedibilità della durata dell'impegno del Generale.

Ammazzare il tempo con un duello? Si accarezzò pensoso la cicatrice che gli devastava il volto. I duelli al coperto erano solo un ricordo scapestrato della sua gioventù.
Non che avrebbe preferito un duello in giardino: fuori stava fioccando la neve e lui non aveva più l’età per scivolare sul ghiaccio vicino alla fontana senza rompersi un osso. O anche due.

La piccola Oscar sembrava sulle spine, gli occhi enormi in quel visetto che si sforzava di apparire impassibile.

Perché no? pensò d'impulso Monsieur Henri: Oscar, che tentava di indossare l'impassibilità di Augustin adulto, gli ricordò sua figlia Cassandra, quando, un pochino più piccola, provava a vestirsi con gli abiti di sua madre, tutta orgogliosa del suo giocare ad esser grande, credendoci davvero, eppure ancora traballante come la bambina che in fondo era.
Non era difficile capire che la piccola voleva qualcosa da lui, che non poteva chiedere.

“Il salvapunta!” disse con un tono che non ammetteva repliche.

Oscar annuì mentre cercava di soffocare un sorriso esultante. Orgogliosa, ma con lo sguardo rivolto a terra, ne estrasse due dalla tasca “So che in allenamento su questo non transigete...”

Monsieur Henri alzò un sopracciglio - e così la piccola si era preparata.

"Fatemi strada" disse burbero.

La scrutò mentre camminava davanti a lui, il passo un po' rigido, da militare. Somigliava ad Augustin, decise, non per le ossa lunghe dei Jarjayes, e nemmeno per quella bocca così volitiva rubata al suo amico: Oscar somigliava ad Augustin perché aveva i suoi gesti.
Ma non quelli del ragazzino esuberante che lui aveva conosciuto tanti anni prima: erano i gesti dell'uomo adulto, l'unico Augustin che lei conoscesse, il Generale.



Note finali: Per amore si ha un pochino di tempo anche per cose che non ci interessano.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Un bacio tra febbraio e settembre ***


Quel Vischio Con Sotto Un Bacio

(Quel che si fa per amore)

Un bacio tra febbraio e settembre


Oscar era stata, per nascita, l’ultima figlia di François Augustin Reynier, l'ennesima. La sesta, per precisione. Ed era, per scelta, il suo primo figlio. L'unico maschio del Conte de Jarjayes, nonché Generale dell'Esercito di Sua Maestà Luigi XV.
Un figlio immensamente amato.

Da quando il suo amico aveva deciso di fingere che Oscar fosse un maschio, l'aveva fatta educare come un uomo: fioretto, latino, greco antico, almeno una lingua moderna oltre il francese, storia e mitologia greco-romane, architettura militare, equitazione, corsa, nuoto - Augustin dava molta importanza all'attività fisica, mens sana in corpore sano - un corso di studi di stampo classico, tipico più della loro generazione, che di quella dei loro figli.
Ma questo non gli era bastato: l'aveva pretesa maschio in tutto, piegando al suo volere perfino la grammatica. Oscar, per tutti, era Monsieur Oscar, l'Erede.

Anche per se stessa.

Se stesso, anzi, corresse l'uomo, dentro di sé, con una punta di amarezza.

Si accarezzò piano la cicatrice. Forse Oscar, come tutti, meritava qualcosa di più che essere un argomento di conversazione. Per una volta gli sembrò giusto fare qualcosa con lei, invece che limitarsi a parlare di lei con suo padre.

Arrivati nell'Atrio, ammirò il pavimento a scacchi bianchi e neri tirato a lucido e le balaustre in marmo chiaro che vi si affacciavano. Erano state decorate per le feste con delle ghirlande verdi: Madame Marguerite, come sempre, dava il suo tocco di sobria originalità - un ossimoro che solo con lei diventava possibile - all'impeccabile esistenza di Augustin.

Tolse dalla tasca la bottiglia e la poggiò con cura su un tavolino.

Di colpo notò, in un angolo, una imponente massa di rametti di vischio con le loro bacche lattiginose. Monsieur Henri si ricordò che da giovane, la moglie di Augustin era appassionata di leggende nordiche, un interesse peculiare in un mondo dove era d'obbligo - e di moda - conoscere i miti solo del mondo latino. Ricordò anche altre cose, legate alla sua giovinezza, al vischio, a una festa, a un giovane donna dai capelli lucidi come le castagne d'ottobre, ma decise di serbare quel ricordo per dopo. Se lo sarebbe assaporato con cura.

"Con il fioretto valgono solo colpi di punta e il bersaglio è solo il tronco - niente colpi alle gambe, alle braccia e niente al volto." disse in tono deciso. 
Oscar annuì ed Henri si ritenne soddisfatto - non voleva farle del male ed il torso, tra salvapunta, panciotto e giustacuore, era ben protetto. Poi aggiunse "Terrete voi il conto dei punti. Mi fido." Il visetto della piccola si illuminò d'orgoglio e Monsieur Henri trattenne un sorriso ripensando ai suoi figli maschi: in caso di duello, il punteggio era sempre appannaggio di chi rimaneva fuori, dei tre, fin da quando erano piccolissimi. Non che quelle pesti barassero, quello mai - non lo avrebbe tollerato - ma gli piaceva raccontarsi tra loro che assolutamente non si fidavano l'uno dell'altro - proprio delle pesti. Che però tra loro si cercavano sempre.

"En garde!"

Cominciarono.

Oscar era decisa e incalzava Monsieur Henri costringendolo ad arretrare verso l’arco centrale.
Monsieur Henri un po’ la lasciò fare, poi decise che era giunto il momento di insegnarle un paio di cosette e passò all’attacco.

“Scusate...” apparso dal nulla, un ragazzino dai capelli neri, tenuti fermi in una lunga coda da un nastro azzurro, sospinse una chaise longue proprio dietro la bambina, bloccando il suo arretrare e arrestando l’avanzare di Monsieur Henri.

“Scusate davvero, Nonnina mi ha detto di metterla qui per il momento... le pulizie... sapete...” si inchinò e scomparve camminando rapido all'indietro, gli occhi fissi a terra.

Oscar ripartì di colpo all’attacco, stessa direzione di prima, e Monsieur Henri per un momento l’assecondò. Non poteva spingerla nella direzione della chaise longue – sarebbe inciampata e si sarebbe fatta male – per cui decise per uno spostamento laterale e con un sorriso, senza fretta, attaccò.

“Scusate ancora...” stavolta il ragazzo apparve con un vaso sotto il braccio, sospingendo un tavolino su rotelle. Lo piazzò lì proprio nel mezzo dell’atrio e lo bloccò con il vaso, proprio sotto il naso di Monsieur Henri, che lo osservò esterrefatto – bloccare un Davenport, uno scrittoio da nave, robusto e su ruote ben oliate, con un vaso di delicatissima fattura? Che idea balorda! Adesso capiva perché Augustin era nervoso così spesso!

La bambina ripartì con il fioretto e costrinse Monsieur Henri ad una ritirata, ma lui girò su se stesso e cercò di sospingerla lontano dal vaso - ora lo riconosceva! Il preferito di Madame Marguerite! Alla larga!
Senza contare che qualcuno si sarebbe di sicuro fatto male raccattando i cocci! Scosse la testa irritato, che gabbia di matti! Povero Augustin! Lui che ci teneva così tanto ad ordine e disciplina...

“Scusatemi ancora...” Monsieur Henri si fermò incantato: una enorme poltrona bergère si stava muovendo da sola per l’atrio e si sarebbe fermata, ci avrebbe scommesso, guarda caso proprio... “Scusate, mi han detto di metterla qui...” il ragazzino sbucò da dietro lo schienale e si inchinò, arrossendo, senza guardare Monsieur Henri negli occhi.

“Sono stati categorici, immagino...” disse Monsieur Henri accarezzandosi piano la cicatrice che gli devastava la guancia – e nascondendo con quel gesto un sorriso divertito.

“Molto...” mormorò il bambino senza guardarlo, mentre diventava rosso come un peperone.

Oscar riprese ad incalzare e Monsieur Henri la lasciò fare, impassibile, poi scartò di lato, e costrinse la bambina ad aggirare, con un giro molto molto largo, la bergère panciuta – non sia mai le accadesse qualcosa. A lei o alla poltrona – le donne si fanno tali fisime sulla tappezzeria, se poi non riescono a ritrovarla uguale a quella della poltrona gemella o dello stesso stesso colore del bordo del tappeto... una tragedia! Per un pezzetto di stoffa c’è il caso che buttino all’aria una intera stanza!

Puntuale apparve il ragazzino bruno con uno sguardo infelice trasportando una sedia in legno con la seduta in paglia intrecciata. “Scusate davvero... sono mortificato...”

“Ma certo! Ma certo! Le pulizie!” tagliò corto burbero Monsieur Henri, accarezzandosi il viso con la mano, mentre un ventaglio di rughette gli si apriva intorno agli occhi chiari. “Fate con comodo giovanotto!”

Il bambino si allontanò di corsa e Oscar riprese l’attacco.

Monsieur Henri soppesò per un attimo che cosa lo avrebbe divertito di più: scoprire con cosa si sarebbe presentato il ragazzino stavolta – a lungo andare qualcuno sarebbe arrivato a chiedere che stava facendo e aveva il sentore che non sarebbe finita molto bene per lui -  o scoprire cosa voleva davvero la piccola Oscar da lui.

Decise di accontentarla e, senza dargliela troppo vinta  - aveva figli pure lui e sapeva che, pure in un contenitore così piccolo, l’orgoglio poteva essere tanto - arretrò.
Quando fu sotto l’arco, Oscar si fermò impacciata e fece un inchino “Grazie” disse “abbiamo finito.”

Fu a quel punto che, da dietro l’arco, sbucò un’altra bambina, vestita di verde, con i capelli incipriati e legati con un nastro, verde anch'esso e con dei ricami dorati, che li avviluppava completamente in uno nodo stretto stretto, raccolto sulla nuca.
La Numero Cinque, pensò divertito Monsieur Henri, la migliore amica di sua figlia Cassandra.

La bambina gli si avvicinò senza imbarazzo, le mani intrecciate dietro la schiena - una posa abituale per lei - e disse con voce gentile “Non so se avete notato, Monsieur Henri, dove vi siete appena fermato, casualmente.” E, sorridendo, con gli occhi indicò qualcosa appeso alla parete.
Monsieur Henri riconobbe un rametto di vischio, più piccolino, legato con un nastrino dorato. Sorrise, e, cerimonioso, si accoccolò sui talloni, davanti alla Numero Cinque per essere proprio alla sua altezza e guardarla negli occhi “Sono lieto che mi abbiate trovato proprio qui... posso?” delicatamente la attirò a sé e la baciò sulla guancia. “Siete sempre più affascinante, Madamigella Jarjayes... è un onore.”
La bambina sorrise tutta soddisfatta, poi gli prese il viso tra le mani e lo baciò delicatamente a sua volta “E voi siete e sarete sempre un impagabile gentiluomo.”

Poi, dopo un impeccabile inchino, si allontanò via trotterellando con l'aria di chi ha appena avuto in regalo il mondo.

Monsieur Henri guardò divertito Oscar, che era visibilmente imbarazzata e le passò affettuosamente una mano tra i capelli – sapeva che un bacio l’avrebbe solo messa ancora più in imbarazzo. “Aspetterò Vostro padre nello studio, se permettete” disse con un inchino “e complimenti!”

“Per il duello?” disse Oscar con un sorriso.

“Per l’ottimo lavoro di squadra.” Disse Monsieur Henri, senza voltarsi, perché gli stava scappando da ridere.
 
 
Note finali: Per amore si fanno pazzie.
Per la Numero Cinque ringrazio qui Ninfea Blu che è la mamma dell'originale, anche se questa derivata, man mano, sta prendendo il comando e vuole essere disegnata come dice lei.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Un bacio per il mai ***


Quel Vischio Con Sotto Un Bacio

(Quel che si fa per amore)

 

Un bacio per il mai

Madame Marguerite, appoggiata alla balaustra esaminò con attenzione le decorazioni che aveva preparato insieme al giardiniere più anziano, il padre del loro capo-giardiniere: c'erano ghirlande di rami d'abete intrecciati con rametti di agrifoglio dalle insolenti bacche rosse, corone d'edera verde scura avviluppate su rami di frassino, curvati ad arte, gli ultimi ciclamini con le loro foglie ricamate in verde, tono su tono. Loro due avevano fatto un buon lavoro, divertendosi.
Era così che da giovane aveva immaginato venisse addobbato il salone delle feste di Odino, sovrano barbarico di un Olimpo del Nord.

Avrebbe anche aggiunto un finto pozzo e della rugiada per simboleggiare il pozzo di Urd, una delle tre Norne, dove affondano, per abbeverarsi, le radici di Yggdrasil, il frassino che regge l'Universo. Dalle foglie di Yggdrasil stilla la rugiada che torna ad alimentare il pozzo: il passato nutre il presente, ed i piani degli uomini, volti al futuro, sono una riparazione del passato che pesa sulle nostre spalle, un tentativo continuo di alleggerire quel peso.

Le venne da sorridere ripensando ai primi libri che le aveva regalato Jean-Claude e a quanto si fosse appassionata a quel mondo gelido dai nomi rudi come le loro storie. Era una buona cattolica, devota, ma le era piaciuta l'idea di un tempo ciclico, che permette non solo l'espiazione di un errore, ma anche il rimedio, che a volte le sembrava più importante del semplice pentimento e del perdono. Ma questo, sospirò, lo aveva apprezzato crescendo - invecchiando, pensò con malinconia - da ragazza la affascinavano le storie.
Le spiacque non essere riuscita a condividere la sua passione con Oscar - una bambina che amava vivere in un mondo ordinato. Proprio come suo padre.
Lei aveva trovato affascinante la cosmogonia norrena con Yggdrasil, l'albero, che sorreggeva i Nove Mondi. Ad un certo punto le era parso che quasi tutti e nove coesistessero nella vita di ogni uomo: Nielfheim, il mondo primordiale del ghiaccio, del buio, del freddo e della nebbia. I momenti di vero dolore. Jotunheim, il mondo fuori dalle palizzate, il caos, l'anarchia, l'aspetto selvaggio della libertà. I desideri del cuore. Hel: il mondo dei morti, in fondo perennemente vivi nei nostri ricordi... Scosse la testa per scacciare un nome.

Non tutti avrebbero capito il richiamo ad un anno che terminava e ad un passato da rendere più dolce con dei buoni progetti per il nuovo anno che stava arrivando - voltare una pagina è sempre una illusione, le radici di una pianta sono forti, la rugiada è solo gentile e ogni storia è solo una scheggia di uno specchio molto più ampio - ma tutti avrebbero apprezzato la bellezza delle decorazioni, il profumo resinoso del pino, e la bevande tenute al fresco nell'acqua.

Lo sguardo le si posò sul vischio - si erano divertiti lei e l'anziano giardiniere a riprodurre un cespuglio sferico, molto più grande che in natura, ma con una forma naturale. L'uomo era in gamba e ormai si conoscevano da tanto tempo - erano una squadra.
Lo avrebbe messo sul pozzo, sospeso, come un Yggdrasil destinato a portare solo baci.

Di colpo sorrise. E così la sua meravigliosa Oscar, creatura del sole, aveva regalato un bacio alla sua lunare Numero Cinque, amante delle ombre e delle cose complicate. Forse il primo.

Ricordava molto bene il suo primo bacio di Natale, aveva 8 anni, nessuno pensava a sposarla o a farla sposare e lui era stato uno dei suoi cugini - l'aveva baciata sulla guancia, davanti a tutti, e tutti avevano riso. 
Tranne lei, che, arrossendo nel sentirsi osservata, aveva pensato per la prima volta che, forse, era bellissima.

Non avrebbe saputo dire quanti baci sotto il vischio negli anni successivi: la baciavano sulla guancia, ridendo, le persone a cui lei voleva bene, afferrandola per la vita, o inchinandosi cerimoniosi e lei sorrideva paziente, sentendosi parte di un tutto. E anche lei scherzosa baciava - mai sulle labbra - i più belli e i più anziani e i più timidi della famiglia.

Questo fino ai suoi dodici anni.

Poi presero a baciarla solo i più anziani della casa, cerimoniosi e gentili, facendole capire che il tempo dell'infanzia stava per terminare e tra un po' i suoi baci avrebbero avuto un padrone.
Sperò tanto che sarebbe stato gentile: il padrone sarebbe stato padrone assoluto.

Augustin le fu presentato d'inverno - i suoi le volevano molto bene e avrebbe potuto dire no, se proprio non lo voleva. 
Era bello, era alto, era biondo, quel biondo, che poi sarebbe stato il colore di tutte le sue figlie - quasi tutte - con gli occhi di un azzurro così particolare, l'azzurro di tutte le sue bambine - quasi tutte.

Augustin Reynier de Jarjayes non conosceva la tradizione del bacio sotto il vischio, era scandinava, e si capiva che non l'approvava - un uomo severo, amante del rigore. Per coerenza (lei pensò questo allora - era ingenua), per coerenza con le sue idee non la baciò.
Aveva il permesso di poterla frequentare, ma era certo, e lo si capiva, che la ritenesse solo una formalità. 

Seppe di piacergli, ma come una perla in una montatura: da sola forse non l'avrebbe notata o forse l'avrebbe guardata lo stesso, ma, con l'oro della sua dote e la cesellatura dei legami di famiglia con la Corte, lei era splendida. 
Del resto anche lui era splendido nella sua montatura, che lei, così giovane - sospirò - non avrebbe mai saputo dissezionare assegnando l'esatto valore a ogni cosa.

Era giusto così.


Ci fu un altro bacio, un gigante con i capelli rossi - uno del clan dei Sisteron, si vedeva lontano un miglio, anche se non era un Sisteron - sedette con lei e le spiegò ogni dettaglio della leggenda di Freya, che guidava un carro trainato da due gatti e di Frigg che forse era solo un altro nome per Freya o forse no, e della preoccupazione di una madre per un figlio, che chiese che tutto il mondo giurasse di non fargli del male. Le citò tutte le variazioni della grafia di quel nome in non so che poemi impronunciabili, e le narrò che aveva una collana che quattro nani le avevano donato purché in cambio giacesse con loro, uno alla volta, per altro, non tutti insieme - le venne da ridere a quel punto, le sembrava di parlare con il suo precettore, per cui nulla era osceno e tutto da prendere sul serio, pure dei nani che corteggiavano una dea alta, a quel punto lei presumeva, un po' più del gatto di casa.

Lo baciò, come avrebbe baciato uno della famiglia - in fondo lo sarebbe diventato - e lui rise stupito.

Scherzarono a lungo, lui le chiese di lei, di cosa le piaceva sul serio, ascoltandola con attenzione.
Non le era mai successo, non con uno che non la conoscesse da quando era una bambina: non aveva avuto una grande educazione, come tutte le ragazze, in fondo, e non aveva poi molto da dire.
Però suo padre la faceva leggere per lui alla sera - leggevano a turno, leggere da soli, in famiglia, era considerato quasi immorale: troppe fantasie incontrollate.
Le piacevano i miti, ma erano troppo crudeli - questo lo capiva ora, da adulta: tante donne ricordate solo per aver dato un figlio ad un Dio, Danae per avere generato Perseo, Alcmena per aver generato Ercole, Europa per Minosse, Leda per Castore e Polluce... Madame Marguerite per Oscar, la figlia che non osava guardare in volto. 

Ma lei allora questo non lo sapeva: parlarono di Arianna e di Teseo, di lui che fuggì "lasciando che i venti disperdessero le sue promesse". Lui riconobbe i versi e la guardò curioso. Lei scoprì solo dopo le nugae di quello stesso autore, Catullo, e tutte quelle sue parole d'amore un bel po' scostumate. Allora, da ragazzina, la sua governante non lo avrebbe permesso, che leggesse di cento o mille baci da rimescolare fino perderne il conto e ricominciare da capo.

Un monito per tutte le fanciulle, la vicenda di Arianna che sapeva di sale, come lacrime e mare, perché stessero bene attente a chi decidevano di donare il cuore, se decidevano di agire di testa loro e non seguire i consigli della famiglia. Avevano riso insieme.
Lui era un pescatore di perle, decise, e se ne compiacque arrossendo.

Ma lui distolse lo sguardo, quando lei disse, severa, che il Minotauro era in fondo il fratello di Arianna e che essersi schierata contro un fratello, per amore, un capriccio, una di quelle cose a prima vista che solo nelle favole, non era giusto. Un fratello è per sempre. E la vita, la famiglia, la tradizione, sono tutte cose molto serie, da trattare con rispetto.

Le chiese se conosceva la differenza tra le Parche, che filavano il destino degli uomini e le tre Norne, Urd, Verdandi e Skuld che lo incidevano in rune nella corteccia di Yggdrasyl, riunite accanto al pozzo della maggiore, colei che incideva Ciò che Una Volta Fu: le Norne non stabilivano cosa sarebbe stato, a differenza delle Parche. Facevano solo ipotesi, indicavano una forma possibile, per lo più quella iniziale, ma l'uomo norreno sentiva di avere un margine di libertà di scelta. Libertà che però non era per tutti.

Ci fu un altro bacio, incerto, molto delicato - il primo per lei, per lui l'ultimo (aveva fatto una scelta definitiva e lei lo sapeva) - nient'affatto voluto. Si guardarono a lungo ognuno dei due chiedendosi perché fosse successo, se voleva per caso dire qualcosa, se era il caso di disfare ogni cosa e rifarla in modo diverso. 

Poi venne Augustin a cercarla. Possessivo, se la portò via, e il resto andò come doveva andare.


 

Pensierosa guardò verso l'Atrio, sentendo un rumore di passi.
Augustin stava arrivando, quindi. Sorrise tra sé con indulgenza: anche stavolta dopo un bacio che non avrebbe approvato.


 

Note finali: Per amore si fa un passo indietro senza sentirli per forza più deboli.
La citazione sulle promesse di Teseo ad Arianna, viene da Catullo. Sue sono anche le "Nugae" che sono in realtà solo una parte dei suoi carmi brevi che lui definiva così ("noci", cose di poco conto, scemenzine insomma).
Nei carmi brevi ci sono poesie d'amore per Lesbia, ma pure versi "scostumati" ed insultanti per questo e quello - è normale che il gigante con i capelli rossi la guardi stupito e si chieda cosa questa bravissima ragazza abbia magari letto per i fatti suoi.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Niente baci per tutti i tuoi forse ***


Quel Vischio Con Sotto Un Bacio

(Quel che si fa per amore)

 

Niente baci per tutti i tuoi forse

Il Generale si diresse verso il Palazzo, irritato: i soliti dettagli insignificanti, il capo-stalliere avrebbe anche potuto decidere da sé! Che lo pagava a fare, altrimenti?

Anche se, rifletté spassionatamente, avevano fatto bene a chiedere la sua approvazione. Meno discussioni inutili.

Dopo.

Nel caso.

Per ogni frase pensata sferzò lo stivale con il frustino, assaporandone lo schiocco - i passi sulla neve facevano un rumore che non era un rumore, solo uno scricchiolio da fantasma, mentre lui si sentiva vivo e scattante.

Una volta dentro, attraversò l’Atrio a passo di carica, Henri lo stava sicuramente aspettando! e forse si era portato dietro pure i ragazzi!
Pregustò divertito le chiacchiere sulle loro avventure - quando passava a Palazzo Girodelle passavano sempre, lui ed Henri, nel Salottino Rosso, quello destinato ai figli del suo amico: era una stanza non tanto grande, che forse una volta era stata tappezzata di rosso, dove finivano i mobili vecchi che tanto quei diavoli avrebbero finito per distruggere. Una stanza sempre piena di scherzi, discussioni e risate. Sorrise. Magari i ragazzi - quasi uomini ormai! - avrebbero gradito dei mandarini canditi... o, sogghignò, qualcosa da bere di alcolico... poi, l’occhio gli cadde sul vischio. No! Non era possibile!

Si arrestò allibito: detestava quella sciocchezza nordica! Un rametto di una pianta parassita, che succhiava la linfa dagli alberi - il capo-giardiniere avrebbe avuto gli incubi, un uomo così preciso... di sicuro quella era stata una idea di Marguerite e del padre del capo-giardiniere, quell'ometto bizzarro che si occupava delle serre e delle rose di Marguerite!
E gli scandinavi, che ne avevano fatto di questa pianta inutile? Si erano inventati una leggenda in cui un cieco – un cieco! – si mette in mente di partecipare ad una gara di tiro con l’arco e chiede ad un altro di dirgli dove mirare! Uno scemo ed un pazzo! O due scemi, o due pazzi o un po’ di questo e di quello!
Così lo scemo con l’arco colpisce con del vischio un tizio simpatico a tutti. Con del Vischio!

Un vero uomo, si sarebbe solo sporcato con quelle bacche lattiginose, avrebbe detto qualcosa, magari, vedendo che c’era di mezzo un cieco, avrebbe capito la situazione e glissato con nonchalance... ma no! Quello muore sul colpo! Sul colpo!

Col vischio! La bacca che uccide!

Leggende nordiche, roba barbara – lui aveva un’idea molto vaga, avrebbe dovuto chiedere a Jean-Claude per i dettagli, solo lui perdeva tempo con quella roba! Anzi no! Meglio di no! Jean-Claude lo avrebbe assillato con almeno due versioni diverse della stessa storia, invece di convenire con lui che era una indecenza!

Si perché sotto quel vischio, era nata un’usanza, va a sapere perché! Forse per ricordare il tizio che era morto, se era morto, o che non era morto se non era morto.
Ah Jean-Claude! Capacissimo di dirgli che erano possibili tutte e due le cose! Che esisteva una qualche versione di un bardo storpio, composta poca prima del suo suicidio e trascritta in parte in gaelico da un monaco irlandese su un vello di pecora danneggiato e poi tradotta, ricopiata e commentata da degli eruditi ortodossi di un monastero greco, in un volume di cui esistevano solo tre copie in tutto il mondo... ma danneggiate! Guarda un po! Danneggiate!

Ah Jean-Claude, Jean-Claude! Scosse la testa irritato. Di sicuro lo avrebbe ammorbato con una storia di questo tipo! Una gran bella testa, non aveva dubbi, ma ogni tanto... si perdeva appresso a certe cretinate! Ostinato come un mulo!

Ma non divaghiamo!

I nordici usano il vischio per ricordare uno così furbo da piazzarsi sulla linea di tiro! Una cosa che nemmeno un tamburino alla sua prima battaglia! Uno così, che poi voleva pure fare il guerriero – il guerriero! - era solo questione di tempo... non serviva per forza il cieco!

Comunque sotto quel vischio, che fanno gli scandinavi? Si baciano!
E perché?
Lo sa solo Jean-Claude!

Tra coppie sposate lo avrebbe anche capito, ma sotto il vischio si bacia chiunque! Un uomo è sotto il vischio? E tutte le donne intorno lo baciano perché è tradizione! Si, certo! Piazziamo sotto il vischio uno sfregiato! Voglio proprio vedere chi corre a baciarlo! Nessuna! Fingerebbero tutte di essere distratte!

Se invece ci si piazza un giovane ufficiale, tutto bello nella sua alta uniforme, lo sguardo spavaldo... ah la tradizione! La tradizione! Bisogna onorare la tradizione!

Bisogna? Si deve? E’ necessario? Perché? Perché altrimenti che succede?

Nulla!

Un branco di oche! Tutto quello che vogliono è baciare un giovanotto! Toccare un giovanotto! Palpare un giovanotto, sperando che a sua volta, più tardi, in un luogo discreto, magari ricambi il favore... la conosceva Versailles!

Ipocrite e lussuriose! Andassero in chiesa è pregare, piuttosto! E’ Natale! E’ così che si onora la tradizione! Pregando!

E poi piantiamola con “tradizione”: non è tradizione di Francia! E’ una tradizione altrui e va rispettata, ma lasciata a chi la possiede. Parliamo di moda piuttosto! Il modo in cui rimedia alla noia la gente che non ha cervello!

E finché sono vecchie… le si potrebbe perfino scusare: tutto l’anno che aspettano il vischio per saltare addosso ad un maschio! Spettacolo indegno!

Ma i giovani no! Loro no!

Gli metti un rametto di vischio e quelli si siedono lì sotto e chiacchierano e si guardano timidi e si mettono in mente cose che non stanno né in cielo né in terra. Pensano che potrebbero disfare le loro vite e rifarle, ricucendole a loro piacimento, guidati solo dall’impulso di un momento, da un paio di occhi più belli, capelli più luminosi, labbra più piene, sorrisi più caldi, dal calore di una festa, dal vino che rende meno timidi i timidi e più malinconici gli spavaldi... incoscienti!


Una tela viene accuratamente cucita da altri per loro, con i fili migliori ed un disegno ben studiato, il meglio del meglio, pensato apposta, non sull’impulso di un pazzo momento, e quelli (che non sanno nulla di nulla!), pensano di poter prendere in mano il telaio e scombinare un lavoro che parte da quando sono nati - e ancora non è finito!

Per fortuna che i matrimoni sono tutti combinati! A lasciar fare ai giovani chissà che confusione e che drammi e quanta gente infelice!

Rabbrividì... lui avrebbe fatto il suo dovere! Nessuna delle sue figlie sarebbe stata mai lasciata da sola a prendere decisioni che non era assolutamente in grado di prendere! Nessuna!

Sollevò lo sguardo, esasperato e la vide, lì, sulla balaustra... Marguerite.

Il cuore perse un battito, ancora, dopo tutto quel tempo e le cose di una vita, lei gli faceva accelerare il cuore.
La guardò: osservava quel vischio pensosa, un sorriso vago sul volto, così malinconico, persa in chissà che pensiero… quel vischio doveva sparire! Sentì la rabbia stringergli il cuore. Non la voleva vedere malinconica. Mai più.
Dentro di sé aveva promesso, quando l'aveva scelta, di non doverne mai contare la lacrime. E aveva fallito.

Poi lei si voltò e gli sorrise.

E lui, le sorrise, in risposta, sentendo che il cuore, suo malgrado, gli si socchiudeva.
Si diresse in fretta verso le scale - Henri avrebbe aspettato (e, soprattutto, avrebbe capito, per un attimo pensò con tristezza alla prima Madame Girodelle). Salì rapido i gradini, due alla volta.


Note finali: per amore si protegge e ci si accollano delle responsabilità. Anche più di quanto serve.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Quel bacio senza il vischio ***


Quel Vischio Con Sotto Un Bacio

(Quel che si fa per amore)

 

Quel bacio senza il vischio


A Palazzo vigeva da tempo la regola che i piccoli, così come i cani, non dovessero essere né visti né uditi, se non quando era necessario. E che, come i cani, dovesse essere possibile acciuffarli rapidamente ogni qual volta ce ne fosse stato bisogno.
Non potendo rinchiuderli in un canile, più che altro per ragioni igieniche, una suite di stanze dedicate era stata da tempo organizzata allo scopo di aiutare più di una generazione di Jarjayes a sopravvivere alla propria infanzia.

Si trattava di uno spazio isolato, vicino alle scale usate dalla servitù per muoversi invisibile ed operosa, trasportando su e giù per i gradini secchi e vassoi senza essere d'intralcio alla famiglia. Le stanze che componevano la nursery avevano tutte una porta celata nelle boiserie, che dava su un piccolo corridoio di servizio, inteso per la servitù, mentre un ospite di riguardo che avesse voluto visitare, per qualche suo ghiribizzo, proprio l'ultima stanza in fondo avrebbe dovuto attraversarle tutte.
Proprio per questo, l'ultima stanza in fondo era la vecchia stanza di servizio delle balie, ormai abbandonata - l'ultima era stata quella di Joséphine, la madre di Margot-Pur-Beurre, in un tempo in cui Oscar ancora non esisteva e che tutti e tre facevano fatica ad immaginare: Joséphine, per loro, era una dei grandi. Talmente donnina nei modi e perfetta in ogni gesto che era impossibile immaginare che ci fosse stato un tempo dove, come tutti, aveva gattonato. O, non sia mai, fatto una cosa così poco signorile come sbavare.

All'interno della Stanza delle Balie c'era un camino con un parascintille enorme e troppo pesante perché venisse spostato da un bambino piccolo. Due forni incavati nel muro sfruttavano il calore di una canna fumaria che veniva dalla cucina, per scaldare o per cuocere qualcosa al volo, anche in piena estate; ormai venivano usati occasionalmente solo da André per preparare la cioccolata senza dar fastidio in cucina - aveva sempre timore che Oscar si scottasse.
La stanza ospitava, inoltre, un lavatoio con acqua corrente con la pressione un pochino debole, spazio per stendere e per stirare, e mensole ed armadi che ancora contenevano tutto l'occorrente per la gestione dei bambini piccoli.
Per il resto era una stanza spoglia: un tempo era stato un luogo dove lavorare ed in fretta, non un luogo di meditazione.
Le pareti erano intonacate, senza nessun ornamento: ogni anno, quando lì c'erano stati dei bambini delle generazioni precedenti, la tradizione domestica dei Jarjayes aveva imposto che venisse completamente lavata e ridipinta.

La Numero Cinque l'aveva ribattezzata la Stanza dei Misfatti, e loro, ormai, la usavano per Nascondere le Tracce: era lì che un pantalone strappato veniva rammendato al volo, un bottone sostituito, una camicia lavata ed asciugata in uno dei forni, o rimpiazzata rapidamente con una pulita, senza che il mondo degli adulti ne sapesse mai nulla. O, al limite, in modo che lo sapesse solo dopo essere stato adeguatamente preparato.
Questo però succedeva solamente quando c'era la penultima dei Jarjayes, l'unica che avesse una idea di come funzionassero, precisamente, un ago e un ferro da stiro - con tanta pazienza - e come fosse possibile regolare la temperatura di un forno perché una camicia si asciugasse e non si cuocesse - con ancora più pazienza.

Seguiva una Stanza da Bagno, la Stanza per la Notte, dove non dormiva più nessun bambino da tanto tempo e che faceva un po' paura, con i mobili ricoperti da lenzuola e gli scuri sempre chiusi perché la luce non li rovinasse. L'ultima occupante era stata Joséphine, ma di lei, per come la conoscevano ora, non era rimasta nessuna traccia.
Dall'altro lato del corridoio c'era la Camera dei Figli degli Ospiti che, in caso di necessità, veniva usata per ospitare i bambini che si ammalavano per tenerli isolati dai fratelli e dalle sorelle - i Jarjayes erano sempre stati severissimi su questo.

Buon ultimo: il Salottino dei Bambini, luminoso e spaziosissimo, perché, durante il giorno, avrebbe dovuto ospitare non solo i piccoli Jarjayes, ma anche i figli di eventuali ospiti, le balie e tutti i visitatori che avessero mai voluto incontrarli.

Ed era lì, nel Salottino, che la bambina con il nastro verde stava giocando distrattamente a dama con il bambino bruno. Ogni tanto sospirava.

Tecnicamente sarebbero stati tutti e tre troppo grandi per la nursery - ormai erano da tempo nell'età dei precettori! - ma quel Salottino era un posto appartato e fuori dal mondo, tenuto pulito per abitudine, ma non più frequentato da nessuno, dove potevano stare tutti e tre insieme nel tempo libero, senza essere cortesemente separati e diretti fermamente ognuno al posto che gli competeva.
Soprattutto era un posticino dove potevano leggere insieme o chiacchierare lontani dallo sguardo dei grandi, pronti a giudicare ogni cosa che avessero detto o fatto, ed ogni gesto usato per sedersi o alzarsi o prendere qualcosa, spiegando che sbagliavano, che difettavano in grazia o in virilità e costringendoli a ripeterlo - l'educazione, pareva a tutti e tre, era una disgrazia a cui non si riusciva a sfuggire, e, in quanto i più piccoli, non c'era nessuno che non si sentisse inadatto ad educarli.

Inoltre, ma questo non lo avrebbero mai ammesso, specialmente davanti a Joséphine, la figlia più in sintonia con il Generale, il Salottino era perfetto, con tutte le sue porte, il corridoio nascosto, le scale a due passi, per sgattaiolarsene eludendo una ricerca.
Insomma, anche se con una data di scadenza, quello era un regno tutto e solo loro.

“Non c’è gusto però!” sbottò esasperato il ragazzino, “non ti stai concentrando e perdi rovinosamente! Di solito sei un osso duro! Ma oggi giocare con te... è quasi peggio che giocare con Oscar!”

Oscar alzò il naso dal libro che stava leggendo “Non si impegna? Avrà la testa altrove!” disse un po’ acida, ma giusto un pochino.

La bambina con il nastro verde guardò le fiamme nel caminetto con aria sognante “Non potrà mai aspettarmi mentre io cresco... ma almeno questo me lo ricorderò per tutta la vita!”

“Esagerata!” ribatté Oscar, alzando gli occhi al cielo “Nessuno ama una persona per tutta la vita se non c'è un briciolo di speranza!”

“E tu che ne sai?” risposero in coro gli altri due ragazzini, infastiditi.

“Lo so e basta! La vita non è mica come quei libri che leggi tu di nascosto! Dove uno ama una senza dirglielo, disperato ed in silenzio, per venti anni! E poi un giorno esplode e fa una confessione da vero cretino! Ma per carità!”disse Oscar sogghignando. “La voglio proprio vedere una scemenza del genere!”

La bambina con il nastro verde non disse nulla, ma scosse la testa addolorata, “Non scherzare,“ disse, “lo so benissimo da me, credimi, che non c'è un futuro. Lui sarà sempre solo una persona speciale e niente di più. Ma tu non scherzare mai su queste cose... non porta fortuna...“  

“Mi fa piacere che tu non ti sia completamente instupidita e che sai come stanno le cose...” riprese, Oscar, soddisfatta “Quando tu sarai abbastanza grande, lui sarà decrepito!"

La ragazzina vestita di verde sobbalzò e guardò Oscar, offesa "E allora? lui non invecchierà mai nel mio cuore! Ogni volta che lo guarderò lo vedrò esattamente come è adesso!"

Oscar la guardò dubbiosa, "Come adesso? Con quella cicatrice? Ma nei tuoi romanzi gli eroi non hanno la pelle di alabastro?"

"Un romanzo è un romanzo," ribatté la piccola con aria sussiegosa, "ma nella vita le cicatrici capitano, chi non ne ha? Quello che a me piace di Monsieur Henri è che ha un cuore enorme. E poi che è un impagabile gentiluomo. "

Oscar scosse la testa “Il cuore! E poi la milza ed il fegato, magari... ma che idee strampalate! Un uomo si giudica dall'onore! E dall'abilità in battaglia! E dal suo sangue!"

"Il Generale colpisce ancora, vedo!" la piccola sollevò le sopracciglia molto lentamente in un gesto ben studiato."Un uomo lo giudichi da quello che ci vuoi fare - tu pensi solo a quanto sarebbe utile se lo dovessi mandare a combattere. Come se fosse uno dei cani da caccia del Generale."

André alzò lo sguardo verso di lei e con un sorriso buffo chiese: "Mentre tu cosa ci vorresti fare con Monsieur Henri?"

"Viverci." rispose senza esitazioni. Oscar sgranò gli occhi e sbuffò esasperata "A casa sua? Che idee strampalate!" poi aggiunse con un sorriso trionfante "Non credo che a lui piacerebbe vivere con te, gli piace duellare!"

"Non mi pare proprio che faccia di queste cose con Madame de Girodelle." ribatté la piccola, pensierosa. "E loro si sono scelti, non è stato un matrimonio combinato, sai?"

André sorrise conciliante "Non le somigli molto. E' una donna molto severa che comanda tutti a bacchetta. E veste come una governante."

"E' precisa." la ragazzina guardò imbarazzata l'orlo del suo vestito, detestava che si criticassero i Girodelle, in sua presenza "ed è molto attenta ai dettagli e alle sfumature. Non veste come una governante, solo che non è... flamboyante... il suo è uno stile inglese, del resto è inglese, perfetto per chi privilegia la vita all'aria aperta, ma è molto attenta alla qualità delle cose." poi sorrise "E credo che sappia molto bene chi è l'uomo che ha scelto."

Oscar alzò gli occhi al cielo, ma stette zitta - sua sorella spariva spesso con la Carriola, il suo carrozzino personale, per andarsene in visita dai Girodelle, una cosa che proprio non capiva e che le dava sempre un gran fastidio. Madame de Girodelle l'avrebbe dovuta mal sopportare, quella scema di sua sorella, con tutte le sue stramberie e tutti i suoi fiocchetti, e rispedirla a casa dopo pochi minuti, invece, da quel che aveva capito - perché lei, in visita dai Girodelle, proprio mai! ma per carità! - quelle due si occupavano insieme di giardinaggio, ricamo - sua sorella aveva imparato da quella donna - cucito, come se fosso state delle governanti appunto, e, addirittura, leggevano insieme riviste inglesi! Inglesi! Insieme a Cassandra, un'altra smorfiosa.

"E invece Joséphine?" chiese André per riportare il buon umore, "come sceglierebbe un marito? Uno spadaccino? Uno per la vita all'aria aperta?"

Le ragazzine sorrisero, poi quella vestita di verde disse con un enorme sorriso:“Se dipendesse da Josée imporrebbe ad ogni gentiluomo in età da marito di mostrare il suo pedigree, come i segugi del Generale! Di farlo registrare in un Ufficio del Re, il Registro degli Scapoli... includendo alcune informazioni pratiche, come, per esempio, a quanti anni è morto ognuno dei suoi antenati, di che malattie hanno sofferto, quali sono i difetti più evidenti del carattere dei parenti stretti ancora in vita... ed anche quelli del gentiluomo!"

André rise... "Uno schedario intendi," sorrise, "Già mi immagino cosa ci sarebbe scritto, se dipendesse da te: Monsieur Nicolas ha le giunture che si usurano facilmente, non è adatto per chi vuole ballare... Monsieur Paul non è attento, non ha capacità previsionali e non ricorda mai che carte sono state giocate, da tenere assolutamente lontano dai tavoli da gioco se la posta è in denaro ed assolutamente inadatto ad una damigella patita della dama..."

Rise anche Oscar... "Monsieur Jean-Charles è allergico ai gatti, assolutamente sconsigliato alle damigelle appassionate di questo genere di animali da compagnia..."

La ragazzina arricciò il naso, indispettita "Non siete divertenti! Invece sono cose che si dovrebbero sapere... Non certo se preferisce il fioretto o la sciabola o quanti uomini ha ucciso in battaglia!"

"Sono tutte sciocchezze, di cui tu non ti dovrai mai preoccupare, puoi tenere i tuoi gatti, qui a Palazzo, giocare a dama con André, quando avrà del tempo libero dalle nostre avventure, e per ballare ti troveremo qualcuno..."

"Mi troverete qualcuno?" la ragazzina era senza fiato.

"Certo! Visto che abbiamo deciso che non ti sposerai mai...”

“Scusa un po'! E questo chi lo ha deciso? E da quando?” esclamò interdetta l’altra bambina, spalancando gli occhi chiari.

“André ed io,” André, il ragazzino bruno, si strinse nelle spalle con un gesto di scuse, mentre la bambina con il nastro verde lo guardava socchiudendo gli occhi, minacciosa “c’è sempre una sorella zitella, che non si sposa e tu vai più che bene! Quando sarà il momento metterò bene la cosa in chiaro con il Generale...” terminò Oscar con un tono che non ammetteva repliche, "non serve che tu ti sposi, sarebbe solo uno spreco, tutti quei soldi per una dote, solo per farti cambiare cognome... che importanza ha? Invece tu te ne stai qui tranquilla! corteggiatori... se proprio ci tieni, è accordato! Per me puoi fare la cretina ai balli quanto ti pare, e anche passare a trovare Monsieur Henri, ormai sulla sua elegante sedia a rotelle, con il suo strabiliante cornetto acustico, per auscultargli quel cuore così enorme che ti piace da morire! ma mariti: scordatelo!".

La bambina con il nastro verde alzò gli occhi al cielo esasperata – ancora con questa fissa di far fare ad ognuno di loro quello che voleva lei! Ma dove mai s’era visto? Sua sorella non aveva giocato con le bambole, ma con i soldatini, a quanto pare si! E pensava di poterla comandare a bacchetta! Uguale sputata al Generale! Poi però disse, addolcita, cambiando volutamente discorso “Comunque grazie Oscar, grazie per il tuo regalo di Natale... sei stata fantastica!”
Volse lo sguardo verso il bambino bruno “... e pure tu André! Un tempismo perfetto!”

“Avrà capito?” chiese preoccupato il bambino."Monsieur Henri, intendo."

“Eh si!” sospirò la bambina con il nastro verde, “ma quando una cosa è in un modo, è inutile far finta che sia diversamente...”

André annuì - concordava. Se vuoi bene a qualcuno, gli vuoi bene. Se ti piace, ti piace. Nasconderlo non serve a nulla.

“... è che si era detto di scambiarci regali fatti da noi, ma io so solo tirare di spada...” mormorò Oscar imbarazzata.

La bambina con il nastro verde si chinò di scatto e baciò la sorella sulla guancia “Tu vai benissimo così, credimi. Così come sei. Una grande!”

Oscar arrossì imbarazzata.

“Solo... un pochino meno... scema...” aggiunse la bambina, con aria timorosa, “non guasterebbe... sai?”

La lite scoppiò con il boato di un fulmine, e proseguì come una serie di fuochi di artificio, quelli che stavano diventando di moda in quegli anni, pensò André, che le osservava affascinato.

Prudentemente si alzò e le lasciò sole – tanto ci avrebbero pensato la Governante e Nonnina, a rimetterle in riga – lui, per oggi, con quelle due, aveva già dato.
 
Abbondantemente.  
 
 
 
Note finali: per amore si esaudiscono desideri, anche se ci sembrano sciocchi.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Un bacio per il sempre ***


Quel Vischio Con Sotto Un Bacio

(Quel che si fa per amore)

 

Un bacio per il sempre


Al sicuro, nello Studio del Generale, Monsieur Henri allungò le lunghe gambe verso il fuoco del caminetto e si versò lentamente l'armagnac nel bicchiere. Ne annusò attento l'aroma, pensando a botti di legno scuro, scorza d'arancia, mandarino ed albicocca - un profumo complesso, ma non complicato.

E così il vischio - sorrise divertito... sfiorò piano il punto in cui era stato baciato dalla ragazzina, su quella cicatrice che, a quanto pareva, non le faceva orrore; subito il pensiero volò alla sua prima moglie - non c'era stato giorno che non lo avesse fatto per almeno cinque minuti.

Da solo, per carità, non sarebbe stato corretto altrimenti, non verso la seconda - amata, e, soprattutto, scelta - che già si era fatta carico di ragazzi che non erano i suoi; solo una buona abitudine che sembrava gli rendesse più dolce la vita. 

Allo stesso modo, ogni giorno, pensava per cinque minuti alla morte, compagna di tutta una vita - era un soldato, era stato in America, in mezzo agli Indiani, aveva dovuto trovare un modo per andarci d'accordo con questa compagna invadente, che ogni tanto lo fissava negli occhi, a volte a sorpresa, o la sua vita non avrebbe funzionato affatto.
Aveva una moglie, dei figli, non aveva il tempo per il disastro della codardia o per il cinismo; nemmeno per il dolore da gettare in faccia a chi lo amava e dipendeva da lui, o per l'alcol che sommerge ogni cosa, come un lago insidioso dalle acque tranquille.
Aveva preso la morte a piccole dosi, come fosse un veleno a cui assuefarsi - Mitridates rex Ponti... lo stava traducendo anche uno dei suoi figli - fino a farsela amica.
Una amica che sarebbe comunque arrivata (mai al giusto momento), e di cui non avere paura. E aveva rispettato la vita.

Anche lei lo aveva baciato, tanto tempo prima, sotto un ramo di vischio, e pure per prima; gli era stata appena promessa - la solita scommessa dei matrimoni combinati - ma loro si conoscevano da tempo e chi li aveva scelti, l'uno per l'altra, era stato gentile.

Si sarebbero scelti comunque, sospettò, se l'avessero promessa ad un altro non sarebbe stato a guardare: l'avrebbe reclamata per sé, poche storie. La famiglia era lei e nessun altro, e quanto alla tradizione... faceva il soldato, il suo tributo lo aveva pagato e lo pagava ogni giorno, e come metteva su casa e con chi non riguardava nessuno.

Sperò di ricordarsene, con i ragazzi, venuto il momento. 

Un minuto dopo il bacio, le stava già sciogliendo i capelli - gli piaceva l'idea di poterle passare le mani tra quelle ciocche, ogni volta che ne aveva la voglia: la moda non lo interessava (tutte gran cretinate e pure lei, per fortuna, concordava - il loro Studio, una volta sposati, sembrava la bottega di un rigattiere, ma quanto calore... e quel tappeto dai colori autunnali... ah quello... dopo lo aveva dovuto far sparire, sarebbe stato indecente).
Li sorpresero appoggiati al muro, le labbra che si sfioravano in un milione di piccoli baci - lui (un cretino!), che citava poesie! Serio, disse a tutti che lui era per un fidanzamento breve. Il più breve possibile.

Imbarazzati, furon tutti d'accordo. 

Lei era stata bruna, i capelli del colore delle castagne, lisci e lucidi.

Era stata alta e con gli occhi scuri. Se non l'avesse potuta pensare quei cinque minuti ogni giorno, come avrebbe potuto guardare altri occhi, dello stesso colore, senza dolore o magari fastidio? Come avrebbe fatto a trattare alle stesso identico modo il maggiore e il minore?

Forse non era stata propriamente bella, non l'aveva mai capito - la moda e i pittori dicevano che il massimo, per la bellezza, era nascere biondi e con gli occhi azzurri, solo che gli uomini, al dunque, finisce che scelgono come gli pare - ma a lui, con quei capelli marroni da ragazza di bosco, piaceva, oh se gli piaceva!

Era stata religiosa, molto religiosa, e molto, troppo dogmatica in quel campo. Sorrise ripensando alle innumerevoli discussioni accanto al camino e alle scelte che aveva fatto per sé, e insieme a lui.

Era stata spavalda, testarda, gelosa e con la lingua affilata. Certe volte una autentica stronza.
Sorrise - a volte il secondogenito gliela ricordava (una lingua di vipera e sogghignò nel pensarlo), pure in quel lato più dolce che lui teneva accuratamente nascosto.
Lei no. Lei regalava dolcezza, come la primavera i suoi fiori.

Era stata leale. Era stato con lei che aveva preso l'abitudine a rigare dritto.

Era stata misericordiosa dove lui era stato solo giusto - a pesare le parole e a decifrare gli sguardi l'aveva imparato con lei, capace di esplosioni - gli scappò una risatina - ma anche di silenzi attoniti, per cui non le aveva mai chiesto abbastanza scusa.
Essere indifferente e far finta di nulla, non erano affatto la stessa cosa: era cresciuto con lei, da ragazzo a uomo, ne aveva fatti di errori...

Era stata ardente. Sorrise divertito - si era stata ardente la sua giovane sposa, dopo un lungo assedio alla sua ritrosia. Per fortuna nella sua Bibbia c'era andate e moltiplicatevi, altrimenti... che guaio sarebbe stato! Sorrise di nuovo, stavolta con tenerezza infinita.

Sarebbe rimasta sempre nella sua piena giovinezza, mentre lui piano piano sarebbe invecchiato, fino a che non sarebbe sembrato indecente che un vecchio pensasse cinque minuti ogni giorno a una ragazza di quell'età. La sua ragazza.

Questa storia del vischio, pensò, era un'ottima cosa: qualche bacio in più, tra giovani, di nascosto s'intende, non avrebbe fatto male a nessuno. Anzi, avrebbero capito... come sarebbe stata dopo la faccenda. Se era il caso, insomma, tra loro... il vero inferno è dividere la tenda con una donna bisbetica.
Si ricordò di colpo di quando la prendeva in giro, dopo una discussione - rara - tra loro, usando la sua stessa Bibbia contro di lei:

Il gocciolar continuo in tempo di pioggia
e una moglie litigiosa, si rassomigliano:
chi la vuol trattenere, trattiene il vento
e raccoglie l'olio con la mano destra.


La sua ragazza non era una che restava mai arrabbiata a lungo, l'aveva sempre vista sciogliersi in un sorriso.
Lo stesso del suo figlio più grande, rifletté.

Si, stasera a casa avrebbe messo del vischio: c'era una sfilza di feste in arrivo.

Sorrise e sorseggiò piano il bicchiere. Per un attimo gli sembrò che qualcuno gli sfiorasse, delicato, il volto, ma fu solo un istante. Un soffio di vento.




Note finali: Per amore si cresce insieme e si cambia, accettando pregi e difetti.
Mitridate, re del Ponto, dice la leggenda, bevve a piccole dosi un miscuglio di una cinquantina di veleni, che, nei giorni, lo rese immune ai veleni conosciuti della sua epoca.
E' una leggenda sicuramente, alcuni dicono che in realtà bevesse antidoti, certo è che in guerra con i Romani aveva una gran resistenza, sopravviveva alle sconfitte, sfuggiva alla cattura e sembrava risorgere ogni volta dalle sue ceneri - per i Romani era sicuramente snervante e questa sua capacità di sopravvivenza non se la spiegavano...

Quanti figli ha Monsieur Henri? In questo universo, il mio personalissimo headcanon, non è un mistero... 2 + 2!

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Un sorriso, uno schiaffo e nessun bacio ***


Quel Vischio Con Sotto Un Bacio

(Quel che si fa per amore)

 

Un sorriso, uno schiaffo e nessun bacio


I due ragazzi, avvolti nei mantelli scuri bagnati di neve, irruppero nell’atrio ridendo e facendosi cenno, l’uno con l’altro, di tacere. Uno era un pochino più alto, ma, a parte quel dettaglio, che svelava e non svelava, era difficile capire chi fosse il maggiore.

“Abbiamo seminato Victor!” disse, in tono divertito, quello tra i due che aveva un paio di formidabili occhi azzurri da spettro.

“Sconvolgente… in effetti fuori sta nevicando! Sarà per quello?” rispose sogghignando il secondo.

Poi si guardarono in faccia, perplessi, udendo le urla che provenivano dalla stanza vicina. Il ragazzo con gli occhi scuri afferrò l’altro per il gomito e lo guidò, deciso, ma senza strattonare, verso un divanetto damascato, proprio sul fondo della stanza, vicino ad una porta. 
Si tolsero i mantelli e li ripiegarono con cura, con i gesti precisi, di chi è abituato, almeno esteriormente, ad una severa disciplina militare.
Il nero opaco dei loro vestiti, privi di ricami vistosi, insieme ai capelli senza né parrucchino né cipria, per un attimo, in contrasto con il legno dorato del divanetto e la lucentezza della seta, li fece sembrare fantasmi di un secolo passato, forse anche uno e mezzo, austeri puritani di un altro paese, pronti all'imbarco per il Nuovo Mondo - non fosse stato per la foggia molto moderna, ma semplificata, e per un certo brillio irriverente nei loro occhi così diversi.

“Una tragedia?” sussurrò il ragazzo con gli occhi chiari.

“Credo più... Commedia dell’Arte” mormorò il secondo, mentre l’idea di un sorriso gli invadeva gli occhi, scuri e profondi.

 

Due bambini, a quel punto, si catapultarono nell'Atrio, uno appresso all’altro, come ciottoli lanciati da una coppia di  fionde.

“Piantala!” disse quello biondo a voce alta, il primo ad entrare, quasi imponente in un panciotto blu, e in un giustacuore dello stesso colore, ricco di ricami blu scuro a forma di palme.“Sei noiosa e sgradevole.”

Un distinto gentiluomo, dai capelli dorati, con qualche ambascia. Era evidente.

“Florindo!” soffiò divertito il ragazzo dagli occhi scuri, e accavallò le gambe, fasciate dagli stivali alti e dai pantaloni neri di panno pesante.

“O forse Beatrice” rispose, ironico, l’altro, vestito in modo identico, appoggiandosi allo schienale imbottito del divanetto “ti ricordi Goldoni? A teatro?”
Il ragazzo dagli occhi scuri annuì, Carlo Goldoni si era stabilito a Parigi oramai da qualche anno, e si era messo ad insegnare l'italiano alle figlie di Re Luigi XV: era riuscito a trovare uno spazio per le sue commedie, in modo che non venissero confuse con la Commedia dell'Arte e le stava facendo diventare di gran moda. Lui le aveva trovate molto interessanti: lo scrittore veniva da Venezia. Quando un secolo prima in Europa si era diffusa l'idea che il commercio e l'industria fossero occupazioni indegne per l'aristocrazia (se non su larga scala), l'aristocrazia veneziana era invece rimasta salda nei suoi principi di patriziato "attivo" nel mondo e nella società. Ogni patrizio veneziano votava nel Maggior Consigio ed ognuno di loro poteva diventare Doge, una carica elettiva - una posizione che sarebbe piaciuta al Vecchio, abbarbicato all'Isola di Jersey e alle sue idee come una cozza al sua scoglio. Non era tutto oro, lo sapeva, era stato a Venezia per conto del Vecchio, ma in Francia tutte le idee su una nobiltà attiva politicamente erano ormai morte con la Fronda.
Le commedie di Goldoni erano interessanti anche per quello: i suoi borghesi non erano necessariamente ridicoli. Avari forse, ma non ridicoli.
Un'ombra gli attraversò il viso: suo fratello però alludeva a Il Servitore di due Padroni, dove una donna, Beatrice, si faceva passare per un uomo. Per sua scelta, questo andava detto, e quando il mistero di chi lei era veniva svelato, in scena, nessuno trovava qualcosa da criticare... Non era però questo il caso di Monsieur Oscar - non lo sarebbe stato, diciamo; tutti loro fingevano di credere a quello che voleva il Generale de Jarjayes - per tutto il resto una gran brava persona.
Ma cosa sarebbe stato di Oscar, crescendo?


“Tu invece sei scema!” esclamò la seconda, una femmina indubbiamente, nel suo vestitino verde scuro, coi ricami di un verde più chiaro, le maniche lunghe quasi fino ai polsi, e le engageantes di pizzo color avorio, corte, che le lasciavano libere le mani paffute.


“Rosaura?” chiese il ragazzo dagli occhi chiari, “che ne dici? Può andare?”

Il ragazzo dagli occhi scuri scosse impercettibilmente la testa - se la creaturina in blu aveva tutti i modi di un Erede, quella in verde aveva troppa energia per essere l'innamorata delicata di una commedia.
Osservò intento la bambina: la stoffa della gonna era indubbiamente bella, ma non era seta. Era lana - broccato di lana, non certo uno straccio - e il taglio era pratico.
Chiunque le facesse cucire i vestiti, la voleva vedere attiva, era chiaro.
Non fuori luogo, non malvestita, non che si sentisse a disagio, tra le altre piccole aristocratiche, minuscole quanto lei, ma, semplicemente, chi le ordinava i vestiti, la voleva attiva.
E chi si occupava di lei non voleva che si ammalasse, era evidente anche quello... la scollatura alta - non che ci fosse qualcosa da vedere, era una bambina, ma vestivano tutte come le loro madri, a Versailles... la pelle in piena vista, se bianca, era di gran moda - il fichu... ma soprattutto quella lana: un disastro lavarla, lo sapevano tutti, ci voleva molta cura, oppure la lana infeltriva, e tinta, prendeva sempre sfumature più scure rispetto agli eleganti pastello che andavano tanto di moda...
I dettagli parlavano chiaro: i raffreddori, con quella bambina, non erano affatto graditi. Rischiare di buttar via una gonna! un jupon matelassé avrebbe detto Cassandra, la loro sorella più piccola, mentre la madre di Cassandra lo avrebbe chiamato quilted petticoat, con quel suo accento inglese che non era mai riuscita a far sparire (o forse non ci aveva tenuto, se lo avesse davvero voluto avrebbe domato quell'inflessione straniera, così come domava ogni ribellione dentro la sua casa) . Uno spreco! Forse un capriccio, o, molto più probabilmente, buttare una gonna era un rischio minore che farla ammalare.
Unica nota davvero civettuola il nastro verde con i ricami dorati, che le teneva i capelli acconciati in un nodo ben stretto sulla nuca, ricoprendoli completamente.
Per il resto erano stati spruzzati di cipria e sembravano bianchi.


“Smeraldina...” rispose meditabondo, pensando che il verde le stava proprio bene ”anche se…”

 

“Conosci, almeno, parole con più di due sillabe?” il bambino biondo, incalzò sarcastico.

“Scervellata, rimbambita, balorda, e inoltre tirannica, dispotica, ed  incontenibile.”


“Le conosce.” commentò brevemente il ragazzo con gli occhi di ghiaccio, senza farsi sentire. L’altro annuì.


“Oh ma guarda! Quasi quasi chiamiamo il precettore a sentirti! Così è la volta buona che sviene! Sta ancora boccheggiando da quando ti aveva chiesto l’elenco dei Sette re di Roma! Hai dato delle risposte che non stavano né in cielo, né in terra!”

La bambina arricciò il naso, somigliando per un instante ad un gattino sul punto di soffiare, impermalita "La conoscenza umana è talmente vasta, non so se lo sai, che ho il diritto di non sapere tutto. Alla mia età, poi!" replicò sussiegosa,"... non posso proprio! E nemmeno ci tengo!"
"Non ci tieni?!?"
"Mi lascio qualche sorpresa per il futuro, sai com'è?"

"Creatura previdente...” sussurrò ammirato il ragazzo con gli occhi chiari.

"Previdente o che se la sta giocando bene..." rispose l'altro, che faticava a restare serio.

Il bambino biondo sgranò gli occhi e poi riprese, prendendola in giro “E così… per lo meno, conosci parole da addirittura quattro sillabe! Da quando? E come è possibile?”

“Forse legge...” sussurrò incuriosito il primo ragazzo.

“Si, ma non libri di storia.” chiosò divertito il ragazzo dagli occhi marroni.

“E’ la migliore amica di Cassandra… so io cosa legge…” rispose l’altro in un mormorio, alzando gli occhi al cielo.
Il ragazzo con gli occhi marroni trattenne una risatina.

“Ma infatti! Perché usarne quattro quando due sillabe bastano e avanzano? Aggiungi pure tutte le sillabe che vuoi! Tanto la scemenza resta costante! Scema, sei scema! Sce-ma!”

“Scemo semmai! Sgrammaticata!” il tono era carico di un tale disprezzo che i due ragazzi si guardarono senza fiato.

La bambina esterrefatta, mise le mani proprio sopra i minuscoli petit-panier che le allargavano quei fianchi che non possedeva (per ora!), secondo la moda.
“Ma tu! TU! Mica parli sul serio?” prese un respiro profondo, mentre diventava scarlatta, “Passi il Generale! Che vuoi che capisca? Ma tu! E pure André, io dico… ma lui, è orfano! E comunque ci prova! Io lo so che ci prova a fare la cosa giusta! Con tutto il cuore!” le vocina le uscì disperata, ”Ma tu! TU!"  non aveva parole e nemmeno respiro, mentre i capelli le sfuggivano dal nastro, in riccioli ostinatamente ribelli “tu glielo fai fare!”

 

Il secondo ragazzo si mosse imbarazzato “Ha ragione...” mormorò come se si vergognasse, ma l’altro replicò asciutto “Non sta a noi interferire! Ricordati cosa ha detto nostro padre! Ognuno in casa sua fa come gli pare! Vuoi tornare in un'epoca in cui se volevano, ti entravano in casa e ti prendevano i figli per battezzarli, se per caso pensavano che tu non lo avessi fatto? In ogni casa c'è una porta! E per entrare prima si bussa e si aspetta il permesso!”

 

“Ma te ne vuoi render conto? Tu non sei…” la bambina non fece in tempo a finire la frase, che lo schiocco secco di uno schiaffo echeggiò per l’atrio, “Non ti azzardare!” disse il bambino biondo disperato, con due occhi enormi, azzurro zaffiro, ”non ti azzardare mai più! Stai zitta! Io non sono… io non voglio essere come te! Io non voglio, lo capisci? E, una volta tanto, perché non ti occupi dei fatti tuoi?”

 

Il ragazzo con gli occhi scuri fece il gesto di alzarsi, ma l’altro lo trattenne “... lo facevamo anche noi...” sussurrò, “lascia fare… si devono chiarire. Lo sai pure tu, dai! Tra fratelli... non conta!”

La bambina voltò le spalle offesa, la mano sulla guancia e gli occhi gonfi di chi sta per mettersi a piangere “Questo non lo dovevi fare! Adesso io me ne torno in Normandia! Stasera stessa!”

“Ma magari! Per quanto ti sbrighi sarà sempre fin troppo tardi! Non sei la sorella che voglio! Io voglio Josée! E’ lei la mia preferita!”

“E allora gioca con Joséphine!” rispose stizzita. “Va da lei e dillo a lei che non si deve sposare! Poi vedi se ti lascia straparlare, solo per quieto vivere, di queste assurdità! Joséphine... figuriamoci! Le viene un incubo se solo le dici una cosa del genere!”

 

Il ragazzo dagli occhi scuri li spalancò divertito “Non far sposare una sorella? Ma questa è pazzia… le sorelle si devono sposare! Devono! E’ l’unico modo per togliersele una buona volta dai piedi!”

“Già,“ disse l’altro, “magari si sposasse anche Victor!”

 "Ma chi vuoi che se lo prenda?"

 "Sai che non saprei? E' così perfettino... E poi con quei capelli lunghi che gli danno un'aria tanto delicatina... non è credibile con una spada in mano! Nostro pare dovrebbe intervenire!"

 "Magari piacerebbe ad una bella energumena! Una alta, muscolosa che mastica tabacco! Una russa!" I due ragazzi bisbigliavano divertiti con gli occhi brillanti.

 "Sulla Russia non posso che appoggiarti: un bel matrimonio per procura e via!"


“Quanto a me, la mia preferita è Horthense!” disse la bambina, sollevando il nasino in aria, offesa. Dalla punta dei ricci a quella delle scarpette.

“Sai quanto me ne importa! Vai! vai da Horthense! Una il cui soprannome è tutto un programma: Ghiaccio Blu! Su! che aspetti? Almeno la pianti di stare tra i piedi dove nessuno ti vuole! André ed io stiamo benissimo soli! Che credi?”

“Da sola ci sto benissimo anch’io!” la bambina incrociò le braccia battagliera, lo sguardo torvo.

“Non è vero! quando sei qui sei sempre appresso a me o ad André, il terzo incomodo! Noiosa e lagnosa! Vuoi giocare con André! Voi due vi mettete a giocare a dama per conto vostro! A carte! Tu che dipingi bottoni… vomitevoli! Sei un peso morto! E ora questa storia deve finire! lui è mio! l’hanno preso per me! Tu prenditi un gatto!”

“Ma tu ti senti quando parli? Mio? Di una persona? Non siamo mica alle Antille! Questo è suolo di Francia! Qui non esistono schiavi!”

“E tu ti ascolti? Parli come lo zio Jean-Claude! Che ha tutte idee sovversive! E’ un ribelle! E pure un perturbatore!”

“E questo chi lo dice?” la bambina era proprio arrabbiata e avanzò verso Oscar a passo deciso. La fissò furibonda, alzandosi sulla punta dei piedi. “Chi lo dice?”

“Nostro Padre, che ha sempre ragione!”

“Il Generale può dire e fare tutto quello che vuole, a me non importa! Ma tu non parli in questo modo dello zio Jean-Claude! Non davanti a me!”

“Io faccio come mi pare! Io sono l’Erede e tu mia sorella! Quando nostro padre non ci sarà più, sarò io responsabile per te! Io mi occuperò sempre di te, sappilo! Anche se non te lo meriti! La mia casa sarà sempre la tua! Sempre! Ma tu mi obbedirai! Ficcatelo ben ben in mente!”

“Io ti obbedirò? A te? che sei la più piccola? Altrimenti? Che farai? Mi rinchiuderai in soffitta?” scattò in avanti furibonda. Poi spinse.

Pochi attimi dopo erano in terra in due, strillando: una pazza palla di stoffa, colorata di verde e di blu

 

I ragazzi scattarono “Direi che questo lo facevamo anche noi, ma ci dividevano!”

“Concordo.” rispose secco il ragazzo con gli occhi chiari.
 

Il primo sollevò la ragazzina, che ancora scalciava “Numero Cinque!” le disse ridendo, “ora basta! Ricordati che sei una signora!” sorrise “o, almeno, una versione ridotta...”

Il ragazzo dagli occhi di ghiaccio fissò i suoi in quelli di zaffiro del bambino biondo e gli tese la mano “Monsieur Oscar…” mormorò tirandolo in piedi.

“Siete tutti orribili” disse la ragazzina in verde rattristata. “Ma io me ne vado in Spagna! Altro che Normandia! In Spagna...” agitata, parlottava tra sé.

Oscar si voltò e la guardò, spalancando gli occhi sgomenta “In Spagna?” bisbigliò spaventata, ma la bambina non la degnò di uno sguardo - guardava irritata il ragazzo dagli occhi di ghiaccio, poi esplose, “E Voi, Monsieur Alo, proprio Voi!” il ragazzo distolse lo sguardo, improvvisamente imbarazzato, “Monsieur…” mormorò con disprezzo la bambina, “si, certo… Monsieur Oscar!”

 


“Oscar! Didì! Cosa state facendo?” il Generale raggiunse l'Atrio a passo di carica, dopo aver sceso le scale di fretta, mentre da una porta sbucò, preoccupato, Monsieur Henri de Girodelle, seguito da un ragazzino dagli occhi chiarissimi.
Come i suoi.
Come quelli del giovane Alo.


Note finali: Per amore indubbiamente si litiga, se si pensa che l'altro non capisca quale è il suo bene.

Il titolo Un sorriso, uno schiaffo e nessun bacio allude a Un sorriso, uno schiaffo e un bacio in bocca, film del 1975 fatto forse con niente, ma divertente.

Florindo era il bell'innamorato della Commedia dell'Arte, il protagonista maschile.

Beatrice è un personaggio di Arlecchino Servitore di Due Padroni, di Goldoni: una ragazza che va in giro vestita da uomo. 

Rosaura è l'equivalente di Florindo, mentre Smeraldina / Colombina / Corallina è la servetta. Tra le tre versioni lo spettatore sceglie Smerladina per via del colore con cui è vestita e acconciata la Numero Cinque.

Monsieur Alo esiste, e sue sono alcune frasi che qui gli vengono attribuite, estrapolate dal contesto e tutte usate con la sua autorizzazione. Fisicamente è diverso, ma, gliel'ho chiesto, ed acconsente ad avere gli occhi color ghiaccio. Non legge fanfiction per cui è andato sulla fiducia.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Un bacio negli occhi tra due troppo uguali ***


Quel Vischio Con Sotto Un Bacio

(Quel che si fa per amore)

 

Un bacio negli occhi tra due troppo uguali


"Allora? Vi ho sentito discutere! E discutere è un eufemismo!" ogni parola suonò come una sferzata.

Le bambine gelarono lì sul posto e abbassarono automaticamente lo sguardo.

Monsieur Henri guardò subito i due figli più grandi con aria inquisitoria, ma i due alzarono le spalle e allargarono le braccia - per una volta era vero che non c’entravano niente.
E vero nel senso di “vero sul serio”, non il solito vero. Quello tutto a modo loro.

Il ragazzo dai profondi occhi scuri tirò piano un ricciolo della bambina vestita di verde, in piedi accanto a lui, uno sfuggito al nodo sulla nuca e a quel viluppo di nastro che le ricopriva i capelli in modo impenetrabile.
Si chiese, ozioso, come sarebbero stati senza quella cipria terribile che andava così di moda - roba da vecchi e da donne vanitose, una sciocchezza che poteva solo peggiorare - quei capelli erano davvero come se li ricordava? O era il classico ricordo d’infanzia che, da grande, si rivelava sempre deludente?

Da qualche parte nel labirinto della sua memoria di bambino, imprecisa e tortuosa, c’era una immagine di lui con suo padre - sorrise al ricordo di una carezza - e quello strazio di Victor, sempre appresso. Forse erano tutti in una chiesa.
Victor, allora, gli aveva chiesto una cosa strana delle sue, qualcosa come catturargli proprio questa bambina.
Allora era in una versione ancora più piccola e portava i capelli sciolti sulle spalle, invece che raccolti in file ordinate di boccoletti, la famosa tête de mouton (una vergogna, secondo Madame de Girodelle, che era contraria a tante coquetterie francesi, ma che non approvava che i capelli di una bambina per bene restassero così, come Madre Natura li aveva fatti - andavano imbrigliati in qualche modo).
La piccoletta girava per la chiesa, forse si era persa, ma non frignava, e si succhiava il pollice.
Per piacere aveva detto Victor me la prendi? con lo stesso tono con cui ogni tanto gli chiedeva di prendergli un gatto selvatico (fosse matto!) o una lucertola (ecco, quello era già meglio), o un qualcosa su uno scaffale (dipende! Esistono le sedie!).

A proposito... Victor! Lo guardò e lui gli fece un cenno con la testa: cosa era successo?
Replicò con un gesto impercettibile che, nel linguaggio tra loro, voleva solo dire “dopo!” - gli avrebbe raccontato di quelle due e dei Sette Re di Roma (chissà che cosa aveva risposto Smeraldina? Quella che non poteva sapere tutto e nemmeno ci teneva).

Poi il ragazzo dagli occhi scuri, che si chiamava Maxence, rivolse lo sguardo a suo fratello Alo: tre passi indietro, impassibile, osservava la scena.
Tra tutti loro Alo era quello che somigliava di più al loro padre, lo dicevano tutti: Alo era il ritratto di Monsieur Henri da ragazzo, stessi colori, stessi occhi di ghiaccio. Anche stessa durezza, sussurravano.
Il che gli faceva sperare in bene per suo fratello - se davvero somigliava così tanto al loro padre, forse c’era il caso che, magari, crescendo, risultasse un po’ meno stronzo. Niente di esagerato eh! giusto quel tanto da non farti venire voglia di dargli una botta in testa almeno tre volte a settimana.

Alo aveva ragione, comunque: in ogni casa c’è una porta e prima di entrare si deve bussare e aspettare che ti aprano.

Fece tre passi indietro pure lui: queste erano le figlie del Generale e il Generale aveva il diritto di farne ciò che voleva. Quanto a lui... avrebbe preferito una lucertola.
Oppure, e arrossì violentemente nel pensarlo, cinque minuti sotto il vischio con Mademoiselle Horthense, cuore di ogni cuore, corona di ogni corona. Il cuore gli si strinse nel petto e sperò tanto di non doverla incrociare quel giorno - s'era portato dietro qualcosa apposta, per starsene per i fatti e suoi e non pensare.


“Allora? C’è qualcosa che dovrei sapere?”


Il Generale, severo, squadrò Oscar, che non osò ricambiare lo sguardo: non era abituata a sbagliare. Forse.
L’altra bambina strofinò la mano sulla stoffa del vestito e poi la porse, con il palmo in avanti, alzando gli occhi e fissando un punto imprecisato alle spalle del Generale, la schiena rigida.
Ma forse era solo il corsetto.

Alo fischiò pianissimo “Una dichiarazione di guerra, solo per quello io le darei un paio di bacchettate in più… tanto per farle capire per benino come stanno le cose...”.

Il ragazzo con i profondi occhi scuri si dispiacque, giusto un poco - sapeva, per esperienza, cosa veniva dopo e non era esattamente il massimo. Ma sarebbe passato in fretta e, mentalmente, fece coraggio a tutte a due - il dolore, in fondo, era solo questione di un attimo, la maggior parte della fatica stava nel non perdere la faccia in pubblico, quello mai.

Alo gli si avvicinò e sussurrò “Ora vediamo che tipi sono davvero Beatrice e Smeraldina: se sono di quelle che, arrivate al dunque, piangono, o se sono di quelle che si rialzano...”
L’altro ragazzo non disse nulla - se c’erano due cose che in casa Girodelle non si tolleravano proprio, quelle erano il pianto per una punizione meritata e il non provare a rialzarsi. Potevi fallire - lui lo sapeva bene - ma almeno una seconda volta ci dovevi aver provato. Meglio ancora una terza.

Su Beatrice non aveva dubbi: Monsieur Oscar non sarebbe sobbalzato e nemmeno sarebbe arretrato di un pollice, ci avrebbe scommesso. Ma Smeraldina? Davvero l’avrebbe dovuta giudicare così male se avesse pianto per la rabbia, o per l’umiliazione?
O per il dolore?

Si sentirono nell’atrio i passi leggeri di Madame Marguerite che trattenne il fiato, portando le mani al petto. Non era Natale senza una discussione tra i piccoli, lei veniva da una famiglia numerosa, era normale, nel Palazzo dove era nata... e anche Augustin, anche lui - perfino lui! - avrebbe dovuto saperlo, ma tutte le loro figlie più grandi erano state educate severamente, erano tutte così silenziose, tutte figlie perfette... ragazzine di convento, levigate dalle buone maniere e dal silenzio dei chiostri.
Quelle due, invece, erano un'altra cosa.

Il Generale aggrottò le sopracciglia e osservò prima l’una e poi l’altra con aria accigliata.
Le due bambine non fiatarono.
Poi, d’improvviso, distese la fronte e con un gesto brusco scompigliò i folti capelli biondi di Oscar “Per questa volta, non voglio sapere nulla di nulla, è quasi Natale!”

Sorrise.
Oscar sorrise a sua volta e i due si guardarono con gli stessi occhi di zaffiro che brillavano di un identico affetto, persi gli uni negli altri.

Poi il Generale mise la mano sulla spalla di Oscar con un gesto benevolo, e la guidò verso Monsieur Henri. “E’ cresciuto, dall’ultima volta, vero?”

L’altro uomo annuì energicamente.

“Ha le ossa lunghe dei Jarjayes!” riprese il Generale, “Ne faremo uno spadaccino nervoso! Sapete come si dice no? Leve lunghe per la spada...”

“... e agilità per il fioretto! Con Oscar abbiamo duellato poco fa, ho visto che ha fatto molti progressi… Ha tentato pure un disarmo a spirale! Molto ben fatto!”

“Non lo sapevo! Dovete dirmi tutti i dettagli! Un duello quindi? Ma pensa…” il Generale si accarezzò il mento cercando di non far trasparire l’aria compiaciuta."Tentato non è come riuscito... ma con la differenza di stazza in gioco... è una buona strategia. E la scherma non è solo forza, è anche cervello! Ci lavoreremo!"

Monsieur Henri sorrise “Non è stato solo un duello, ma una piacevole esplorazione dei molti talenti di Oscar…”
La bambina arrossì imbarazzata, mentre il Generale tornò ad affondare la mano nei ricci biondi per scompigliarli scherzoso. "Io ero molto bravo, alla sua età, ma Oscar mi batte, ha quel bel nervosismo... ne faremo uno spadaccino di razza! Ora che c'è la neve potremmo far correre un po' i ragazzi e farli lavorare sul fiato... che ne dici Henri? Mens sana in corpore sano!"

Nel frattempo la ragazzina in verde, era scivolata verso il fondo della stanza, tutta quieta, con le mani intrecciate dietro la schiena. Madame Marguerite la osservò corrugando la fronte, forse avrebbe dovuto parlarle, ma la sua attenzione venne ricatturata da Oscar, con quegli occhi color zaffiro così pieni di orgoglio mentre guardava Augustin - erano così uguali quei due...
Il ragazzo dagli occhi scuri sentì guizzare, per un momento, i muscoli della mandibola, ma non capì bene perché. Era solo una delle sorelle di Horthense, in fondo, non era mica Cassandra. Era solo la piccola che arrivava a casa loro in groppa alla Carriola, una invenzione di uno dei suoi zii, e che ogni tanto era divertente riportare a casa. Niente di più.
Eppure quella scena lo aveva infastidito - guardò suo padre, incerto, chiedendosi cosa ne pensasse veramente.
Suo fratello Alo lo raggiunse e mormorò, come parlando a se stesso, "L'amore incondizionato non esiste, c'è sempre attaccata una qualche aspettativa. Oppure" aggiunse beffardo, "per qualcuno non c'e attaccato proprio nulla."

"Ho saputo che fervono dei grossi preparativi..." disse Monsieur Henri de Girodelle, cortesemente, spostando, di proposito, la conversazione su un argomento più generale, che coinvolgesse un po' tutti, anche Madame Marguerite.
Anche la Numero Cinque, decise, così minuscola che tra un po' sarebbe sembrata la figlia più piccola - non aveva le ossa dei Jarjayes, questo era chiaro, era più una del clan Sisteron che, o erano dei pali, o dei soldi di cacio, fatti per acqua e sale, sempre in movimento come il vento - la cercò con lo sguardo, ma non vide dove si era cacciata - la bambina era come svanita.
"Un uccellino mi ha detto che le ragazze Jarjayes terranno un vero concerto per Natale…" insistette.

"Ma certo!" rispose il Generale orgoglioso, "Si sono organizzate in duetti, trii, quartetti… E Oscar, con il suo violino, avrà pure un pezzo da solista, sono giorni che si esercitano sapete?" strinse la spalla della ragazzina, che sollevò lo sguardo, gonfio di orgoglio, verso suo padre, e sorrise, arrossendo, timida.

Monsieur Henri fece un cenno d’assenso. "Ascolterei volentieri una prova generale," disse, "sarà un piacere vederle tutte all’opera…"

Madame Marguerite accolse con entusiasmo l’idea e corse subito a richiamare le altre - oramai stavano crescendo tutte, sospirò dentro di sé, proiettate verso il loro futuro. Bisognava sfruttare ogni occasione perché stessero insieme.



 
Note finali: Per amore si impongono regole severe che aiutino la formazione di un bel carattere, per amore si lasciano trapelare l'orgoglio e l'approvazione, per amore si cambia argomento per tentare di includere.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Un po' come se ti avessi dato un bacio ***


Note iniziali: se si può o si vuole pensare ad un tema musicale legato ai personaggi, uno di tipo pop io direi:

  • per madame Marguerite: il Cigno di Saint-Saens. Perché madame è elegante, delicata, dolce e distaccata, e bellissima.(https://www.youtube.com/watch?v=b44-5M4e9nI).
  • per la piccola Oscar come è ora, e non come sarà: C'est moi qui décide, colonna sonora di un film delizioso (https://www.youtube.com/watch?v=-8L_UTL4WqU). Perché qui è una ragazzina energica che pensa di poter decidere tutto lei. Almeno per quanto riguarda sua sorella.
  • per il Girodelle dagli occhi chiari, il giovane Alo: Bad (to the bone) di George Thorogood (https://www.youtube.com/watch?v=X9FyQNx8oyU) con quel suo riff così energico.
  • per il Girodelle dagli occhi scuri, il giovane Maxence innamorato, ma troppo giovane per essere preso sul serio Tubthumping dei Chumbawamba, per di qui: https://www.youtube.com/watch?v=kS-zK1S5Dws
  • per la Numero Cinque e l'umore che ha in questa giornata dove è costantemente rimessa al suo posto, un posto che non le piace... Another Brick In The Wall (Pink Floyd) https://www.youtube.com/watch?v=HrxX9TBj2zY




Quel Vischio Con Sotto Un Bacio

(Quel che si fa per amore)

 

Un po' come se ti avessi dato un bacio


Poco dopo, le quattro Jarjayes bionde, insieme a Oscar, erano tutte riunite nel Salottino della Musica.

Era l'ultima saletta in fondo alla fuga di salottini del piano nobile, dal lato del palazzo che si affacciava sul giardino sul retro: non era una stanza che si attraversava per caso, cercandone un'altra.
Il soffitto era a cassettoni di legno scuro, con dentro ottagoni in legno più chiaro, e, al centro, dipinta, una rosa; la classica rosa stilizzata, una rosa antica, una Eglantine, forse, pensava ogni volta Madame Jarjayes, con le foglie dal leggero profumo di mele. O una pimpinella, la burnet di cui parlano in Scozia, che cresce sui terreni sabbiosi e col vento del nord, e fa frutti color melanzana.
Di certo non erano le splendide rose Jarjayes - insieme al padre del capo-giardiniere (un genio!) ne coltivava con amore bianche ed eleganti, dal profumo sottile, rosse, dai petali carnosi e dal profumo profondo, e anche una varietà rosa pallido, quasi evanescente.
Ma, anche quando erano solo dipinte su un cassettone da qualcuno che non era un giardiniere (otto petali! Una rosa?), sempre rose erano.
Ottanta rose per le sue sei, diceva, quando entrava lì, per ascoltarle suonare.

Il pavimento era semplice: un mosaico chiaro color panna, con un bordo quasi rosso, geometrico, che ne ribadiva i contorni ordinati.
Madame Marguerite trovava appropriata quella stanza per l'uso a cui era stata destinata: non c'era nulla di pomposo che distraesse lo sguardo. Chi entrava lì poteva fare solo due cose: concentrarsi su ciò che stava facendo o ascoltare.

Oppure pensare.


Apparve pure André, un po’ timido, con la scusa di trasportare fin lì alcune sedie per gli spettatori - Monsieur Henri lo guardò bonario (lo aveva riconosciuto, il Complice del Duello), mentre il ragazzino diventava color porpora - aveva capito che Monsieur Henri aveva capito. Ma, come diceva la sorella di Oscar, quando le cose stanno come stanno è inutile fingere.

Mentre le bionde musiciste accordavano i loro strumenti, si scaldavano, ripetevano le battute che sbagliavano sempre e sistemavano gli spartiti fruscianti, tutte un bisbiglio, anche i pensieri del loro pubblico pian piano, si andavano accordando, per sgomberare la mente da tutte le loro preoccupazioni e prepararsi all’ascolto.


In prima fila Madame Marguerite, orgogliosa, se ne stava seduta in una ampia poltrona marquise (la sua, da spettatrice), dal cuscino morbido e accogliente; il legno della struttura era dipinto in verde chiaro e riprendeva i colori tenui della stoffa. Orgogliosa, abbracciava con lo sguardo le sue ragazze - avrebbe seguito ogni nota, trattenendo il fiato, e sperando tanto che Josée non sbagliasse il suo attacco.
Il Generale, impettito e con lo sguardo severo, se ne stava seduto accanto a lei su una poltrona à la Reine, ricca di dorature, che somigliava ad un trono - le accarezzò distrattamente la mano e lei non la ritrasse, anzi Marguerite si voltò e gli sorrise con quello stesso sorriso un po’ timido di quando era una ragazza, che non apparteneva ancora a nessuno.


Seduto su uno sgabellino ployant ricco di dorature, vicino al muro, André osservava anche lui, orgoglioso, la concentrazione di Oscar - sapeva che non si sentiva ancora soddisfatta di come aveva preparato alcuni pezzi (la solita perfezionista) e, come i loro sguardi si incontrarono, le strizzò un occhio come incoraggiamento. Lei, di rimando, socchiuse i suoi, severa, e suonò qualche nota, tutta assorta nel suono dello strumento.


Monsieur Henri e suo figlio Victor, tutti e due seri e composti, seduti in due poltrone duchesse, semplici, accoglienti, e, soprattutto, comode, avevano assunto esattamente la stessa posizione, senza rendersene conto. Osservavano anche loro la piccola Oscar. Quelle ciglia così lunghe sulla pelle color della porcellana non mentivano: erano indubbiamente di una bambina che sarebbe diventata, nel tempo, una bellissima donna.


Monsieur Henri scosse la testa, a disagio: Augustin avrebbe pagato caro la sua follia, Oscar anche, ma Augustin... la fiducia è una moneta così rara.
Pure l’affetto per altro; e lui da parte di Oscar ne vedeva proprio tanto, come un cagnolino verso il suo padrone, ché i figli da piccoli erano - sono - proprio così, con una fiducia incrollabile dei genitori, convinti che siano il massimo. Non sanno che pure i genitori sono esseri umani… e tradiscono.

Si riscosse e a forza cambiò il flusso dei suoi pensieri. Guardò le ragazze, una per una, tutte bellissime. Aveva dato per scontato che le musiciste sarebbero state sei, altrimenti non avrebbe mai chiesto di ascoltarle… sospirò e si voltò un attimo a controllare i suoi due maggiori: stavano seduti uno accanto all’altro, su due sedie gemelle, tutti compunti neanche fossero in chiesa - sogghignando Monsieur Henri si chiese cosa mai stessero architettando quei due.
Perché qualcosa quei due, gli era chiaro, ce l’avevano in mente.
Sperò solo che non si facessero male - in fondo, Augustin aveva ragione, era quasi Natale.

Poi tornò a guardare la violinista, il centro della casa; se Madame Marguerite era ancora tra loro era merito suo, la felicità di Augustin era dipesa tutta da quella bambina.
Lui sapeva cosa era successo il giorno in cui era nata l'altra, la Numero Cinque - aveva avuto molta fretta, troppa, quella piccoletta, Jean Claude l’aveva battezzata in casa, aveva dovuto insistere, Augustin orripilato che non voleva assolutamente… la delusione, la moneta gettata sul tavolo per quella bambina minuscola che forse era proprio una bambina e forse non lo era… tipico di quei due discutere dell’anima e di teologia nei momenti meno adatti.

Quanto ai nomi... il primo quanto meno... mah! Jean-Claude leggeva troppo rispetto a loro.

E poi… un’altra volta la stessa cosa. Solo molto più straziante - c’era stata così tanta cura e tanta attesa. E Augustin... povero Augustin, stavolta il Battesimo lo avrebbe implorato, ma non ce ne era stato bisogno...
Tutto quel dolore era stato troppo per Marguerite: lentamente se ne era scivolata via dal mondo dei vivi, mentre il cuore ancora le batteva nel petto, forte e sano.

E tremendamente inutile.

Quella gravidanza era stata una benedizione: Oscar aveva riportato Marguerite fuori dal mondo dei morti, tenendola per mano. Come dopo un inverno troppo lungo, con Oscar, addirittura fin da prima che nascesse, timidamente, era tornata la primavera.
Dopo la nascita, la primavera era esplosa: Marguerite era sempre accanto alla bambina, entusiasta di ogni piccolo dettaglio che la riguardava, di ogni gorgoglio e di ogni gridolino, delle piccole mani perfette con le dita dalle unghie minuscole, completamente vinta da quei capelli biondi dei Jarjayes e da quei bellissimi occhi color zaffiro, il marchio di famiglia.

Sospirò. Ma non era bastato.

Ad Augustin non era bastata la primavera: aveva voluto, a tutti i costi, pure la promessa di una estate tutta a sua immagine e somiglianza.


Il ragazzo dagli occhi scuri sogghignò divertito osservando Victor, che osservava Monsieur Oscar: chissà se quei due si sarebbero piaciuti, crescendo? Optò per un sì. Decisamente sì.
Victor il Perfetto adorava la perfezione in ogni cosa, un amante delle simmetrie e delle opere d’ingegno ben costruite.
Anche se… perfetto… ripensò a suo fratello sull’isola di Miquelon, spedito lì dal Vecchio a farsi una esperienza, e lui che era stato mandato a dare un’occhiata e riportarlo a casa con gli altri ragazzetti.

Era stato allora che il piccolo Victor si era messo ad indossare dei lacci di cuoio con delle perline di vetro, portare mocassini, e si era fatto crescere i capelli, neanche fosse stato il Re Sole, o un indiano Mi'kmaq, come Wenongonet e Mousquasso. Gli venne da ridere rigorosamente dentro di sé: uno come Victor che nel tempo libero se ne andava a dipingere, pescare e a fumare!
Fumare, se la rise sotto i baffi... sperò fosse stato tabacco, perché che diavolo facesse suo fratello con Wenongonet (battezzato Etienne, come il primo martire, dai Gesuiti), Mousquasso e con Grimaud, quando non lavoravano sotto la frusta del Capitano, lo sapevano solo loro quattro (Wel’tasualtulk’tinej dicevano e sparivano).

Vivi e lascia vivere, diceva lui.
Certo è che suo fratello aveva imparato a leggere i pittogrammi Mi’kmaq e inciderli sulla corteccia con un ago di porcospino. E se ne era tornato con una collezione di acchiappasogni degli Ojibwa (così diceva lui - asabikeshiinh, o qualcosa del genere, in legno di salice) e un cesto in corteccia che stava ancora in camera sua.

Forse, piuttosto che il Re Sole, pensava di essere Jean-Claude Reynier, il gesuita nero della famiglia Jarjayes, che, con quei capelli lunghi, ricci e rossi, faceva quasi paura - si mormorava che avesse pure dei tatuaggi! Quanto a Victor… se aveva fatto qualche cretinata, era una cretinata discreta, di cui nessuno sapeva nulla.

Sulla nave, tornando in Francia, un po' alla volta era tornato ai vestiti civili, ma i capelli no, quelli li aveva tenuti lunghi e non c'era stato verso di smuoverlo - tanto non avrebbe mai portato il parrucchino, disse, quindi perché mai tagliarli? Piuttosto li avrebbe rasati...

Il ragazzo dagli occhi scuri, il maggiore dei Girodelle, si riscosse: la ragazzina vestita di verde, aveva preso una sedia e si era seduta vicino a loro due.

“Tu non suoni?” le chiese prendendola in giro, “Non sei abbastanza brava?”. Era la migliore amica di sua sorella, gli sembrava ridicolo dare del Voi ad una cosa così piccola che qualche minuto prima si stava rotolando in terra come una selvaggia. “O non hai studiato?” chiese fingendosi severo. Moriva dalla voglia di sapere cosa aveva detto al precettore sui Sette Re di Roma.

“Non ho avuto il tempo per esercitarmi…” sussurrò senza scomporsi, la bambina forse un po’ triste - o almeno così gli parve, “ero dal Nonno, a casa…”

Suo fratello gli diede un colpetto con il gomito e i due se sgusciarono via in silenzio, con uno sguardo complice, sotto gli occhi esasperati della ragazzina, che però non disse nulla di nulla.

A metà della sala accanto, mentre si affrettavano verso l’uscita, gli tornò in mente la scazzottata dietro il forno - il solito balordo a cui non piaceva il suo nome completo, che tradiva le ingombranti idee religiose di sua madre - schiena contro schiena, quante ne avevano prese, lui s’era tagliato lo zigomo, e suo fratello… eh! era cresciuto il cucciolo...ma continuava a essere il solito strazio.

Pensò a suo fratello sempre tra i piedi e poi, dietro il forno di Miquelon, quando tutto era finito, ripensò a Victor, con il sangue che gli usciva dal naso, che se ne stava seduto tranquillo contro il muro, massaggiandosi la mano, come se nulla fosse. Victor che non aveva detto nulla, non s’era lamentato di nulla, che con quella lite non c’entrava proprio niente. Victor il tranquillo. Quello strazio di Victor…

Victor che era solo un bambino… Victor di cui lui si sarebbe dovuto occupare - ce lo avevano mandato apposta - e non farlo menare in una rissa...

Gli scappò una imprecazione. Lui aveva fatto una cazzata con suo fratello e non avrebbe mai potuto rimediare - nemmeno glielo avrebbe chiesto quello scemo. Però da allora gli era stato molto chiaro che lui doveva essere responsabile.
Non poteva lasciare. Lui non poteva lasciare un combattente sul campo - e la piccola lo era, non aveva versato nemmeno una lacrima e non per le bacchettate, ma per dopo, quando era sparita come spuma di mare e nessuno se ne era curato. No, lui non mollava i combattenti, anche se erano piccoli, vestiti di verde come dei folletti, e con più faccia tosta di quanta sarebbe stata giusta per il loro bene. Lui non poteva proprio.


La ragazzina in verde, se ne stava seduta nella poltroncina, ascoltando il concerto e fissando il pavimento. Le gambe erano tutto un movimento, ma senza produrre nemmeno un fruscio.

Improvvisamente sentì il calore di una mano sulla spalla. Sollevò lo sguardo, stupita.
Il ragazzo con gli occhi scuri le fece segno di tacere, poi la prese per mano e se la trascinò via brusco.

Alo, appoggiato allo stipite della stanza accanto, aveva l’aria molto seccata, ma non disse nulla, quando li vide arrivare.

"Ragazzina," disse Maxence, guardandola serio in viso, "noi abbiamo una slitta. Voi una discesa. Vuoi venire con noi?"





Note finali: Per amore non si lasciano in disparte quelli più piccoli.

Ringraziamenti: a Tetide e a Françoise, che, tengono duro e mi tengono tanta compagnia in questo viaggio un po' strambo tra vischio, baci, uomini che citano leggende nordiche, uomini che le detestano, prime mogli infinitamente amate, figli, figliastri, fratelli, sorelle, duelli, rose e concerti.


Note Esplicative: Girodelle è stato mandato a lavorare d'estate in modo che imparasse a stare al mondo (Monsieur Henri vuole molto bene ai suoi figli, ma non li vizia) - questa annotazione c'era in parte nella storia di "Estate e pasticcini" e avrebbe dovuto essere raccontata anche nel capitolo 13, mai venuto alla luce (per ora) ed in uno seguente. Di cosa è successo a St Pierre et Miquelon se ne parlerà in Una Storia Rococò.

La storia della Numero Cinque: vedi sopra. Avrebbe potuto essere "il figlio della riconciliazione" ma un po' di cose sono andate storte. O dritte, dipende dai punti di vista. La moneta di cui si parla... in Una storia Rococò la porta legata al polso con un laccio di cuoio e la tiene nel pugno perché non faccia rumore mentre si agita.

Lo zio Jean-Claude: vedi sopra. Sì ha i capelli rossi, ma sono molto comuni nel ramo Sisteron della famiglia.

Grimaud: è un omaggio a I Tre Moschettieri. Si è visto in Un testimone, Due padrini e Tre Mele per Un Duello. Gli piacciono i lupi.

Wenongonet è effettivamente un nome indiano Ojibwa (Chippewa, stesso gruppo di indiani, ma negli US li chiamano Chippewa, mentre in Canada Ojibwa). Dopo averlo usato, ho scoperto che è anche in un libro ambientato nella zona del lago Umbagog (che io non ho letto).
Mousquasso viene probabilmente da Muskat trapper ed è un nomignolo dato agli indiani, diventato poi un cognome - lo si trova registrato tra i cognomi del Sartigan, nei documenti relativi al censimento del XIX secolo.

Gli acchiappasogni sono effettivamente manufatti degli Ojibwa che mettevano sulle culle dei bambini. In seguito alle migrazioni di indiani sono stati apprezzati e prodotti pure da altre tribù, inclusi i Navajo (bella distanza!), ma non da tutte, e comunque l'origine è degli Algonquins Maritimes.

I Mi'kmaq si tatuavano. Anche in volto.
I bianchi si tatuavano - non come i marinai dell'Ottocento, ma, ho verificato in giro, e pare che nelle descrizioni di persone scomparse o ricercate degli accenni a tatuaggi ci fossero. Ma non era una cosa "di moda" come adesso, che, ancora un po' e lo fanno pure le nonne...

I Mi'kmaq usavano un alfabeto a pittogramma, che i Gesuiti studiarono ed usarono per produrre i primi testi di catechismo per i bambini indiani delle missioni.

I Gesuiti erano noti come missionari che "assimilavano" i costumi degli indigeni e li studiavano, imparandone la lingua.

Il soffitto: a cassettoni ne ho visti una marea, questo è uno delle tante salette di palazzo Morando, della porzione della pinacoteca.

Le sedie: non so disegnare, ma avevo in mente quelle degli spettatori in prima fila, quelli davvero interessati insomma alla musica. Metto un link (ce ne saranno di più belli, lo so) per far vedere come avrebbero potuto essere queste sedute: http://www.confort-decor.ch/29616/30706.html
La Marquise è ampia e morbidosa, la poltrona à la reine è un po' rigidina e molto formale... gli altri, che non morivano dalla voglia di assistere (o che già avevano pianificato di sgattaiolare via) si sono accomodati su quel che c'era.
Presumo che Augustin e Marguerite non fossero molto formali con Monsieur Henri - il giorno del concerto ufficiale ci sarebbero state le sedie giuste, uguali per tutti, ma ora era una cosa improvvisata, tra amici.

Si, questa storia ha dei legami con Una storia rococò e, quindi, con Estate e Pasticcini.
No, non mi sta antipatica Oscar, nemmeno André, ma a questo giro non sono i soli protagonisti di una storia: c'è tutto un mondo intorno che gira ogni giorno e che fermare non potrai. Questa è una citazione dei Matia Bazar, metto il link a 'sta cosa vintage https://www.youtube.com/watch?v=iAUSGv7PCZE.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Un bacio venuto male ***


Quel Vischio Con Sotto Un Bacio

(Quel che si fa per amore)

Un bacio venuto male


“Una slitta o uno slittino?” chiese la Numero Cinque, trotterellando appresso ai due ragazzi, mentre si dirigevano verso lo scalone, per abbandonare il piano nobile,“perché cambia… la discesa intendo. Voi pensavate a dove c’è il tempietto, dove c’era la cascata artificiale, giusto? Slittino quindi? In tre ci stiamo?”

“E’ la ragazza giusta...” disse, soddisfatto, il ragazzo con gli occhi scuri.

“Passiamo dalla cucina?” propose pratica la bambina, tutta un fremito dalla punta del nasino a quella delle scarpette.

“Abbiamo lasciato lì gli stivali alti” rispose brusco Alo, “e i mantelli nell’Atrio… certo che passiamo dalla cucina” borbottò sarcastico, “... è arrivata lei...”

“Ascolta! Vestita così non vai bene!” disse il ragazzo dagli occhi scuri, osservandola, di colpo, con attenzione. Se la gonna, il jupon matelassé et piqué, come avrebbe detto Cassandra in tono sussiegoso, era di seta e, soprattutto, di lana, un motivo di sicuro c’era e non voleva scoprirlo quando sarebbe stato troppo tardi. “Fuori nevica e con lo slittino…”

“Vado a prendere dei vestiti come quelli di Oscar, che ho sistemato per me. A casa, col Nonno, se serve, io lo faccio sempre quando andiamo…” smise di colpo di parlare, imbarazzata.

Alo alzò gli occhi al cielo “Non sapete nemmeno mantenere un segreto! Perché mai dovremmo portarVi con noi?”

“Se il segreto è mio ci faccio quello che mi pare!” disse con aria sostenuta, incrociando le braccia davanti al petto.”Con un segreto comune è un’altra cosa.”

Erano arrivati davanti alla balaustra in ferro battuto delle scale di servizio, che era stata disegnata da Madame Marguerite stessa, insieme a un allievo di Jean Lamour, il famoso ferronier che aveva lavorato per il Re di Polonia, il padre dell'attuale Regina.
Madame Marguerite conosceva Lamour personalmente, ma, su suo stesso consiglio, aveva preferito commissionare il lavoro, in fondo modesto, ad un suo allievo promettente, che lavorava alla forgia della chiesa di Saint Sulpice - ridendo Lamour le aveva detto che lavorare con un giovane avrebbe permesso sia a lei che a lui di fare esperienza: lui era troppo convinto delle sue idee per modificarle a questo punto della sua vita, ma una donna doveva essere regina della propria casa, specialmente per le parti non di rappresentanza, quelle era giusto fossero il più possibile "sue".
Marguerite gliene era stata grata: aveva potuto esprimere le proprie idee, venendo ascoltata e corretta - cortesemente, ma onestamente -su quello che non era tecnicamente fattibile. Una esperienza entusiasmante, che le era tornata utilissima quando aveva restaurato e ammodernato il Salone della Musica, sempre con quel giovane, ora più sicuro di sé.
Il risultato era stato un lavoro delicato e leggero, che la bambina adorava: un roseto stilizzato con i fiori dal calice semplice, con i loro cinque petali (sempre cinque!) dalla simmetria imperfetta, e tante foglioline stilizzate, coi rami che finivano in riccioli, che a lei ricordavano sempre le codine dei maialini della fattoria. Quella collegata con la casa in Normandia - il Nonno glielo diceva sempre: per ogni persona che mangia ci vuole un po' di giardino, per l'anima, e un bel po' di terreno coltivato per il corpo.
Nessuna doratura, solo il nero lucido del ferro battuto, attraversato dalla luce delle finestre che pioveva sul pavimento a scacchi bianchi e neri. La leggerezza moderna rocaille senza nessun orpello barocco, che strizzava l'occhio all'essenza di un infinito arbusto di rose, la passione di Madame Marguerite.

Ognuna delle sue figlie aveva potuto scegliere nel roseto la propria varietà, e, quando era toccato alla Numero Cinque, questa aveva deciso di coltivare le talee della rosa glauca, le aveva pure in Normandia - il Nonno l’aveva aiutata ad interrarle. Le foglie erano quasi azzurrate coi bordini frastagliati color bronzo, su rami color amaranto scuro, quasi viola, e i fiori erano piccoli, rosa ciclamino intenso con gli stami gialli; d’autunno si riempiva di bacche inizialmente color prugna, che poi diventavano di un bel rosso accesso, come la ceralacca che faceva colare sulle lettere del Nonno per aiutarlo a chiuderle con il suo sigillo.
Una rosa ostinata, che trovava il mondo di crescere allegramente, anche con il tempo avverso ed il terreno non proprio adatto, e che sapeva offrire qualcosa di bello in ogni stagione - peccato per il profumo. Ma - il detto ero noto, no? - non si può avere tutto.


L’avrebbero aspettata, si chiese, aspettata sul serio? O la stavano scaricando? Li guardò sospettosa. Perché Xence era venuto a prenderla?

“Come no? Affidabile… le donne sono tutte inaffidabili!” la rimbeccò Alo.

“Ma che dite?” disse sgranando gli occhi.

“E’ così, specialmente tra di loro… si conoscono, si trovano, si dicono Amora, amorissima, saremo amiche per sempre! Si scambiano baci, bacetti, bacini, si danno nomignoli tutti carini, mon chou, mon chouchou, mon coeur, mon poussin, ma puce, mon sucre d’orge... Poi, il giorno dopo, litigano furiosamente per un’inezia e si portano rancore per tutta la vita.”

La bambina sgranò ancora di più gli occhi, cercando una risposta dentro di sé e chiese esterrefatta “Ma che gente frequentate?”

“I Jarjayes, per esempio,” la rimbeccò imperturbabile, “alcune si rotolano perfino per terra…”

La Numero Cinque arrossì, e l’altro ragazzo tagliò corto “Va bene, ti chiamerà mon loup e si rotolerà in terra davanti a te più tardi, ma adesso," e si voltò verso la bambina, severo,"tu, vatti a prendere un cambio di pantaloni pesanti, un mantello pratico, gli stivali - i più caldi che hai - fai veloce, e...”

Alo lo interruppe, con aria seria, “Non sono convinto” disse.

I due lo guardarono stupiti. L’altro ragazzo sollevò gli occhi al cielo, irritato.

“Ho una mia dignità,” riprese Alo, “e non mi faccio vedere in giro con chiunque. Prima deve dimostrare di essere degna della mia compagnia.”

La ragazzina sbuffò impermalita, ma stette zitta.

“Chi sono i Sette Re di Roma? sentiamo!” chiese aggressivo fissandola negli occhi con un cipiglio degno di un orco di una favola.
Il ragazzo dagli occhi scuri voltò il viso dall’altra parte per non far vedere che gli occhi gli stavano lacrimando per la risata che cercava di trattenere.

La ragazzina arrossì, poi fissò il suolo e muovendo incerta il piedino, disse “Romolo...”

“Fin qui ci siamo.”

“Remo.”

Alo alzò un sopracciglio “Il suo fantasma presumo...”

“Ah già... lo aveva ucciso…” mormorò aggrottando le sopracciglia, “proprio sul limitare della città… mentre ne tracciava con l’aratro i confini...”

“Eh queste bande di malnati di periferia!” disse Alo sarcastico.

“Briganti.” puntualizzò Maxence irritato, alzando un sopracciglio “Romolo ha tutta la mia comprensione… se mai mi venisse voglia di uccidere mio fratello, se mai, sottolineo, mi venisse in mente una idea così bislacca, " e dicendo questo fulminò con lo sguardo, Alo, che però rimase impassibile, "io userei quella scusa… e per Romolo era perfetta: Remo morto lì, sul solco dell’aratro, sul limitare, anzi appena fuori della città… Briganti! O, se preferisci gli Inglesi: highwaymen, i cavalieri della strada.”

“O la borsa, o la vita, o vostra moglie?”

“Già.”

“Ma piantatela!” esplose la ragazzina, battendo un piedino per terra.

“Chi viene dopo?” riprese Alo, tornando severo.

“Marzio?”

“Marzio chi?”

“Uno della gens Marcia, presumo...” disse irritata la bambina.

“Presumi bene, ma il nome? Gaio? Lucio? E comunque non sarebbe il secondo... ”

“Ma la rotolante, qui, va in ordine creativo...” intervenne il ragazzo con gli occhi scuri, conciliante. “... e tu non hai specificato in che ordine li volevi. Dovevi essere preciso!”

“Enea era prima, giusto? Era il fondatore, per Virgilio, ma in senso morale…” mormorò la bambina pensosa.

“Enea, il famoso Fondatore Morale…” il ragazzo con gli occhi scuri trattenne il fiato.

“So che c’è un Tarquinio il Superbo!” la vocetta della bambina si era fatta acuta. Si capiva che era a disagio.

“Alla fine però. Manca tutto quello che c’è tra l’alfa e l’omega!” disse Alo, severo.

“Se non mi volete non serve una scusa come questa!” esclamò esasperata. “Tanto probabilmente nemmeno sono davvero esistiti! Alcuni quasi sicuramente sono solo delle leggende...”

“Nessuno riceve in società una ragazzina che non conosce i Sette Re di Roma. Vi è chiaro?” la redarguì Alo. “Si sfiora il ridicolo. Esistono cose che si devono sapere! Si devono!”

Lei lo guardò da sotto in su, irritata: “Si, avete ragione, ci sono cose che si devono sapere. Altrimenti si sfiora il ridicolo.”

“Mi fa piacere vedere che siete d’accordo.” la rimbeccò Alo in tono asciutto. La faccenda era chiusa.

“Per cui Ve la pongo io una domanda, giusto per vedere se sareste degno Voi, Monsieur Alo, di accompagnarVi a me nel mio giardino del mio Palazzo, per consentirVi di giocare con uno slittino… alla Vostra età.”

Il ragazzo dagli occhi scuri strinse le labbra per non ridere. “Ben giocata” sussurrò tra sé, e con un gesto teatrale invitò suo fratello Alo a rispondere.

“Dite pure, Madamigella…” Alo si inchinò ossequioso.

“Siete ad una cena elegante con ballo annesso, presso una Contessa. Dovete accompagnare la Vostra dama al tavolo… sapete… quando si va con tutte le coppie in fila ordinata… avrete presente immagino, o slittate soltanto? Chi ha la precedenza: la figlia maggiore di un barone, o la seconda figlia del secondo figlio di un duca? Non vorrete mettere in imbarazzo la Vostra dama, immagino… offenderla o offendere la dama di un altro gentiluomo, o, peggio ancora, sfiorare il ridicolo e finirci dentro con tutti i vestiti...”

Alo tacque, trattenendo il respiro.

Il ragazzo dagli occhi scuri scoppiò a ridere “Ti porto con me, se è il caso… quando sarai cresciuta, ovviamente, insieme a Cassandra, e se il ballo non sarà dopo l’ora della nanna… vi porto tutte e due e te lo chiederò… e poi ricatteremo insieme Alo, perché lui non lo sa adesso e non lo saprà nemmeno in futuro!”

Alo bofonchiò, con gli occhi che brillavano divertiti “Qualcosa, a quanto pare, la sapete.”

“Come ho già detto ad un’altra testa dura: il sapere umano è un po troppo vasto perché lo possa contenere tutto una persona sola. Non ho questa pretesa...”

“Capisco… Voi tenete qualcosa per dopo… se sapeste già tutto alla Vostra età, poi la vita diventerebbe troppo noiosa. Questa informazione, sui Sette Re, vi deve giungere, ad un certo punto, come una sorpresa...” Alo era imperturbabile.

“Voi tenetevi i vostri Sette Re di Roma, per fare bella figura con il precettore. Io mi tengo quello che mi serve per dove voglio andare io… e vi assicuro che non è col precettore che voglio passare le mie serate. E quando quei sette mi serviranno... Ve li verrò a chiedere...o me li studierò da me. So dove sta il libro.” lo disse quieta, aveva pareggiato, anche se solo in qualche modo, e non c’era bisogno di litigare.

Il ragazzo dagli occhi scuri le diede un buffetto sulla guancia. “Sbrigati, non staremo ad aspettarti in eterno! E ricordati di portare delle calze di lana sopra quelle di seta! Anche se sono meno eleganti!”

“Ne ho di bellissime! Tutte ricamate!” rispose entusiasta.”E poi al ritorno… io avevo preparato delle cose, per la merenda, per Oscar e André, ma non se le meritano… ti piacciono i bignè? E le mele?”

“Anche Cassandra da piccola fingeva di servire il te alle bambole,” disse Alo con un sospiro “non siete un po’ cresciuta?”

La bambina lo guardò stupita “L’Asciutta, in Normandia, mi ha insegnato!” Sorrise entusiasta. Un sorriso un po’ sdentato, ma, tutto sommato, simpatico.

“Sarebbero?”

“Beignets de Gelée de Grosseilles, ma modificati, alla normanna.” disse tutta sussiegosa.

“Sarebbero?” chiese Alo asciutto.

“Sfogliatine che verranno fritte nel lardo - ma abbiamo anche il burro eh! - e ripiene!”

“Di cosa?”

“Invece che di marmellata avevo preparato della mela marinata con il miele e la cannella e pure un chiodino di garofano e del rum. Si si lo so la cannella non è più di moda, non è esclusiva, ma è molto buona, e con la mela sta bene.”

“Va bene, venite con noi” Alo sospirò rumorosamente. “...e… ascoltate, non portateVi dietro il cattivo umore: nostro padre è un caso a sé e ha un bilancino da speziale per certe cose… non è come...”

Il visetto della ragazzina si accartocciò letteralmente sotto i loro occhi. Fu un attimo, si ricompose subito, ma il ragazzo dagli occhi scuri lo vide.

Le voltò le spalle brusco e prese a scendere le scale - questo era un colpo basso, non valeva per vedere quanto uno era bravo a incassare o a non perdere la faccia.
Trascinò suo fratello con sé, tirandolo sgarbatamente per il gomito “Corri!” disse brusco, parlando alla ragazzina senza voltarsi a guardarla “Noi non aspettiamo le principesse viziate, sappilo! Ti aspettiamo entro cinque minuti in cucina e poi ce ne andiamo! Non c’è molto tempo, giusto un paio di scivolate e si torna! In tempo per sentire la fine di quel concerto, che tanto poi ci ritocca, in versione ufficiale, tutti bardati, e nel Salone della Musica! Spero tanto di non russare!”

Quando sentì i passettini galoppare lontano si fermò e spinse Alo contro il corrimano, ma senza cattiveria “Certo che sei proprio una bestia!”

“L’intenzione non era quella.” ribatté l’altro piccato.

“E cosa era? Una cortesia riuscita male? A te? che pensi sempre prima di parlare?”

“Succede! E poi le cose stanno così.” Alo si strinse nelle spalle e l’altro ragazzo alzò gli occhi al cielo.”E’ un dato oggettivo.”

“Oggettivo tanto quanto tu sei…” il ragazzo si trattenne, stupendosi dentro di sé di come diavolo fosse che poi, quello che finiva a rissare e con un occhio nero era sempre lui e non Alo, la Lingua di Vipera.

Poi Alo fece una smorfia, “E’ un peso...” bofonchiò imbarazzato.

“Per una volta! Non casca il mondo!”

“Appunto! Per una volta che non abbiamo tra i piedi Victor ci tiriamo dietro la rossa?”

“E tu come lo sai che ha i capelli rossi?”

“Me lo ha detto Victor… sembra sia un colore che gli aggrada...”

L’altro ragazzo chiuse gli occhi e si affrettò verso le cucine, esasperato. “Fino a che non torna non voglio più sentire una parola, consideralo un gesto di scuse per lo scortesia di poco fa e ora piantala! Proprio tu ed io dovremmo sapere bene che certe cose...”


Alo non disse nulla e seguì suo fratello senza parlare.



Note finali: per amore ci si prende un po' in giro, si sta attenti alla salute dei più piccoli e ci si irrita per un commento che sottolinea che qualcuno è meno amato - per amore, tendenzialmente, si cerca di non ferire.


Noterelle un po' così:Il piano nobile, di solito, in un palazzo settecentesco era il primo. Nell'anime, lo confesso, non ci ho mai capito niente.

I jupon matelassé et piqué, i quilted petticoat, li cucivano principalmente a Marsiglia, ne era stata vietata la produzione per un periodo prima del 1750 quando era stato vietato il cotone, ma, ho letto in giro, circolavano tra i vari strati della popolazione. Più personalizzato e ricco era il ricamo, più costavano. In Provenza li cucivano e facevano anche i boutis.

Jean Lamour era rinomato per le sue decorazioni e cancellate in ferro battuto. Madame Marguerite, a quanto pare, se faceva qualcosa la faceva bene (figli maschi a parte) e il Generale con lei non badava a spese.

La rosa glauca è una rosa antica, nei quadri dell'epoca non è il tipo di rosa di moda - io ho notato solo rose globose e rosate (damascene?). Si usa anche ora nei giardini, purtroppo non ha profumo. Quanto al fatto che madame Marguerite abbia solo rose rosse, rosa e bianche non è mancanza di fantasia: le gialle, per esempio non esistevano proprio - per quanto ne so io apparvero a inizio dell'800, secolo in cui si cominciarono ad ibridare e coltivare e arrivarono in Europa quella cinesi.
Fonte: ore passate negli anni a sbavare sui cataloghi Barni (e non solo) e a girellare per Orticola.

I beignets citati sono in un ricettario del XVIII secolo e pure in uno sito americano dedicato alla ricostruzione delle ricette dell'epoca. Mi sembrano la preparazione più semplice per una merenda, tenendo conto che il famoso pane fatto in casa, che oramai, assieme al lievito madre, sembra il gioco di prestigio della donna in gamba moderna, allora era appannaggio di tutte le contadinelle dai 10 anni in su.

Si l'Asciutta ha le sue idee e il Nonno, in Normandia, è più un nobile campagnard, ma si sa: le vecchie generazioni lavorano e risparmiano, le nuove spendono e spandono senza ritegno (pure le balaustre in ferro battutto! Sulla scala di servizio!)

Si, la Numero Cinque è ancora irritata con sua sorella e ha deciso che i dolcetti, preparati con tanta cura, se li mangia tutti lei insieme ai suoi due nuovi amichetti che se la filano: se il cuore duole, il corpo non ne deve soffrire.

Victor a quanto pare sa molto bene come è fatta la Numero Cinque. Dato che però è un ragazzino, non so proprio dire se sia un po' scocciato con i suoi fratelli che se ne sono andati per i fatti loro portandosela dietro, o se la faccenda per il momento non lo interessi proprio. Magari preferisce guardare Oscar che suona e sospirare... secondo l'adorata tradizione "fanonica" per cui, insieme ad André, questo è l'unico tizio che proprio non può rifarsi una vita, immolato sull'altare di Oscar con il cuore trafitto da una spina gigante.

La Numero Cinque è troppo piccola per i due ragazzini in questione. A questi, tra l'altro, piace moltissimo, invece, Horthense, che, a quanto pare, era considerata una gran gnocca.


Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Nessuno bacia bene come il vento ***


Quel Vischio Con Sotto Un Bacio

(Quel che si fa per amore)

Nessuno bacia bene come il vento


Il Generale era un uomo sobrio e a tavola detestava gli eccessi.
Soprattutto detestava che il cibo venisse trattato con stravaganza - era stato in guerra, aveva mangiato pane fatto di miglio e crusca, condito col fango: certe cose gli sembravano uno sfregio - però era abituato, in tempo di pace, alle sue sette parche e sobrie portate.

Sette.

Servite con puntualità impeccabile.

In cucina le due ragazzine sotto-aiuto-cuoche sminuzzavano, affettavano, e tagliavano, brandendo dei coltellacci, rapide e precise, mentre qualcosa sobbolliva in due o tre calderoni distinti, uno dei quali era tenuto sospeso sul fuoco da una catena di ferro avvolta su una carrucola.

Non fosse stato per il profumo, sarebbe sembrato un sotterraneo per le torture.
O un antro per apprendiste streghette, vestite di bianco.

“Double, double toil and trouble” canticchiò Maxence, il Girodelle dagli occhi scuri, ridendo.

“Fire burn, and caldron bubble” finì asciutto Alo, con un brillio divertito negli color ghiaccio.

Le ragazzine non capirono, ma sorrisero lo stesso, arrossendo.

“Su, raddoppiatevi, fatica e doglia! ardi tu, fuoco, e tu, calderon, gorgoglia!” tradusse Maxence fingendo di essere una strega. Era un pezzo che lui ed Alo avevano letto e poi avevano visto a Londra, recitato in un inglese quasi incomprensibile, il canto di tre streghe, prima dell'inizio di una tragedia. Victor, come al solito, se lo erano ritrovato tra i piedi; li aveva seguiti fin dietro le quinte, e non erano riusciti a combinare nulla con le ragazze della compagnia - tutte carine ed allegre - perché si erano messe a coccolare il piccolo Victor, con quel suo impeccabile inglese gelido gelido che veniva dritto da sua mamma, i modi eleganti di Monsieur Henri e l'ingenuità dei suoi anni, che a loro sembrava piacere.

Le ragazzine risero, una agitò minacciosa una carota nodosa verso Maxence. come fosse una bacchetta, mentre la capo-strega - la cuoca dai capelli castani raccolti in una cuffietta bianca - sospinse subito i giovani Girodelle fuori dal suo regno fino nella seconda cucina. Con quei gesti che avrebbe usato per delle ocone testarde e starnazzanti che le avessero invaso la fattoria.

Però rideva anche lei.

Quello era il locale usato per tutte le preparazioni dolci: molto più piccola, aveva le pareti tappezzate dagli scaffali in legno scuro, con dentro pentole di rame lucide e barattoli tutti ordinati.
Sul tavolo un vaso in ceramica conteneva dei rami di pungitopo e di agrifoglio con le loro squillanti bacche rosse.
Due vasconi grossi come culle facevano bella mostra di sé su una parete e, a differenza della cucina principale, i rubinetti per l’acqua, non erano a forma di drago, ma, come decorazione, avevano delle farfalle di bronzo e una rosa a cinque petali.
Accanto ad uno di questi vasconi, un barattolo di vetro spesso, elegante e panciuto, conteneva delle scaglie di sapone.

“Aspettiamo una damina. Una del tipo molto piccolo” disse Alo, asciutto, “o una che crede di esserlo. Una dama, intendo. Piccola è piccola.”

“E allora questo è il posto giusto” rispose la donna, con un sorriso, prima di tornarsene in tutta fretta a comandare il suo esercito. “Se è la dama che ho in mente io, questo è il suo regno.”

La Numero Cinque arrivò di corsa, con un involto sotto il braccio – i suoi ingombranti abiti da Smeraldina.

Sembrava un abitante dei boschi, uno della ghenga di Puck, pensò Maxence, sorpreso, uno femmina, decisamente, vestita da maschio, ma come un maschio non si sarebbe vestito, tutta civettuola, tutta marrone e verde scuro.
Non era il verde brillante ottenuto con l’arsenico rifletté: chi la vestiva le concedeva le cose di moda, ma filtrate con una gran bella dose di buonsenso. Chi la vestiva, soprattutto, le voleva bene.

“Sembri uscita da un bosco…” le disse, dandole un buffetto su una guancia, ”tutta vestita di verde… come Puck?”

“Come Sigyn!” disse con un sorriso enorme la bambina, togliendosi in fretta gli spilloni dai capelli e poggiandoli in una ciotola.“Come me.” e nel dirlo arrossì.

Maxence pensò alla moglie di suo padre, che non amava andare a Versailles e che teneva i capelli raccolti secondo il sobrio uso inglese: per rispetto verso le idee religiose della prima moglie di suo marito, la loro madre, aveva vestito lui e suo fratello come due puritani in visita, venuti dritti dritti dal secolo prima.
Eppure lui la ricordava sua madre - memorie imperfette di bambino, di sicuro non era stata davvero così bella - non vestiva mai di nero, ma con i colori, lo aveva capito poi, una volta cresciuto, che venivano dal bosco: il blu violaceo dei mirtilli, le corolle brillanti del gualdo per il giallo (il verde una mescolanza di questi due con la polvere d'indaco venuta dalle Antille)... ma le due Madame Girodelle non si erano mai conosciute.
Sospettò che a sua madre sarebbe piaciuta la cucina piccola dei Jarjayes, con i rami di pungitopo in una brocca. E avrebbe sorriso indulgente dell'eleganza un po' infantile di quei rubinetti.

Contrasse un pugno. Poi sorrise... quante prese in giro aveva dovuto sopportare… ripensò ad un suo compagno di studi, che citava Voltaire e pure a sproposito.

je veux que ces mortels
esclaves de ma loi
tremblent sous un seul Dieu
comme sous un seul roi

Un coglione che se ne era andato a teatro a vedere l’Alzira e ne era tornato più scemo di prima. Un solo paese, un solo Re ed un solo Dio.
Un pomeriggio gli aveva rotto il naso, soddisfatto, chiudendo l’argomento in modo definitivo. Era stufo di sentir sfottere le idee religiose di sua madre! In casa, però, non aveva voluto spiegare perché, suo padre si sarebbe addolorato, sua moglie pure e non sarebbe servito comunque a nulla - ma quante bacchettate!

La bambina, che ora stava trafficando con gli stivali, indossava un panciotto, con due tipi diversi di bottoni, alternati: alcuni erano grossi e tondi, altri piatti.
A prima vista non parlavano affatto di sano buonsenso, notò allegramente (e, saggiamente, tenne per sé), però, in tutta onestà, l’insieme era molto carino - si domandò, incuriosito, chi mai glieli avesse cuciti.

“Sigyn è il tuo primo nome, vero?” chiese Alo inquisitorio.

“Si, lo scelse lo zio Jean-Claude il giorno in cui sono nata” disse tutta orgogliosa la piccola “fu lui che mi battezzò… lo scelse perché a mia Madre, prima di sposarsi, piaceva la mitologia norrena. E perché lui voleva che io avessi qualcosa di lei, di quando era solo una ragazza…” abbassò il tono dubbiosa, come se stesse parlando a se stessa ”... mia Madre fu d’accordo, io credo… almeno… lo zio Jean-Claude racconta sempre che disse che andava bene...”

Maxence ascoltava distratto, mentre si sistemava il mantello, perfino Victor, poveraccio… per non fare troppe differenze... fin da piccolissimo lo mandavano in giro vestito tutto di nero. Ci credeva che poi, lasciato a se stesso, quell’estate, s’era divertito a giocare all’indiano con le perline ed i lacci di cuoio. Aveva perfino portato un coltello a serramanico appeso la collo, all’uso dei Mi’kmaq – uno spettacolo spaventoso.

Uscirono. Appoggiato al muro c’era uno slittino di legno. Il ragazzo dagli occhi scuri lo prese e tutti e tre trotterellarono nella neve.

Il mantello della bambina era pesante e parlava di buonsenso.

“Chi è questa Sigyn?” chiese Alo.

“Sigyn è la dea della fedeltà e della costanza.”

“Una seccante, di quelle sempre tra i piedi.” borbottò Alo, ma dagli occhi si capiva che non parlava sul serio.

“Sigyn è sposata, immagino” disse Maxence, certo di sentire qualche improbabile storia d’amore tra ghiacci e renne.

La bambina arrossì e poi disse in fretta: “Quella di Sigyn non è una storia proprio felice… è un po’ una sposa bambina. Bella, ma non la più bella, potente, ma non la più potente. Una ancella della Dea del desiderio."

"Non dell'amore?" chiese Maxence dubbioso - quella bambina stava un po' troppo coi grandi.

"No. Freya, lei... era un po'... era una che si aspettava... delle cose in cambio... una collana d'oro... quattro nani..." era diventata scarlatta e mentre Alo la guardava severo - tutta una posa - Maxence ne ebbe pena, "Vedo che l’Olimpo è sempre una congrega di bella gente, in ogni religione... dimmi di Sigyn, piuttosto" la invitò cortese.

"Lei era la grazia e la gentilezza, ma anche l’obbedienza… Lo sposo la scelse e non la chiese…”

“Difficilmente si chiede alla sposa” disse Alo secco, “io non chiederei.”

“Sai che novità?” La Numero Cinque lo guardò da sotto in su irritata, e poi riprese, molto incerta, “ma… è diverso. Lui non chiese proprio, avrebbe potuto… ma… e lei obbedì. Ma avrebbe potuto.. cioè… in un certo senso...”

“E la parte triste dov’è?” tagliò corto Alo.

“Succede una cosa terribile, “disse la bambina rabbuiata, “è legata anche al vischio… la gente si bacia sotto il vischio e alcuni pensano a qualcosa di allegro, ma il vischio è legato ad una storia di lacrime, dove nessuno è contento… lo sposo di Sigyn fa una cosa terribile e la conseguenza è una cosa ancora più terribile per i figli adorati di Sigyn, uno in particolare… Ma lei resta accanto a lui.”

“E perché mai?”

“Non lo so. Lo zio Jean Claude dice che forse spera che ci sarà il perdono, dopo l’espiazione, o forse lei sogna il giorno in cui i mondi si sbricioleranno in cenere. Ma l’essenza del matrimonio è nella buona e nella cattiva sorte, soprattutto la cattiva. Così dice lo zio anche se....” si interruppe, incerta se continuare - si capiva che non le piaceva criticare questo zio adorato.

“Anche se?” la incoraggiò Maxence.

“… è un prete… non so quanto ne sa.”

Restarono tutti e tre in silenzio per un po’. La bambina non sembrava contenta di questa faccenda dello zio Jean-Claude, o forse stava pensando ad altro, ma non aveva nessuna intenzione di dividere i suoi pensieri con loro.

“Addirittura mondi ridotti in cenere…” Maxence riprese il discorso, per stemperare l'atmosfera “doveva essere molto arrabbiata questa Sigyn…”

“E’ il Ragnarok” disse la bambina scrollando le spalle. “Come l’Apocalisse. Solo che nessun uomo verrà giudicato, solo spazzato via.”

Maxence pensò che la bambina passava un po' tanto tempo con Père Reynier - forse un po' troppo, sul serio - e si notava. Tipico di un religioso dare più importanza alle cose degli dei che a quelle degli uomini.
Con buona pace dei Re di Roma.

Intanto erano arrivati in cima alla struttura della cascata artificiale. L’idea era scendere lateralmente - ripido, ma non così ripido.

“Qui ci vuole un urlo di guerra” disse Maxence serio.

“C’è quello di Victor… Uiltik! ititik!” replicò Alo con un sogghigno.

“Ma che dici?”

“E che ne so? Una frase indiana...”

“Ah si! Wel’tasualtulk’tinej! Quando portava quei lacci di cuoio al collo con le perline… e andava a pescare con Mousquasso!!”

Alo rise, poi però disse “No, qui ci vuole un urlo che coinvolga anche la Rossa!”

“Ho un nome.” li interruppe piccata.

“Non me lo ricordo.”

“Bugiardo, me lo hai chiesto proprio poco fa!” la bambina poggiò la mano sul braccio di Alo e la costrinse a guardarla.

“Sigyn, ma è vero a metà: non è il tuo solo nome.”

La bambina alzò le spalle - che importava?

“Ho trovato!” esclamò Maxence, “Per Voltaire!”

La bambina lo guardò preoccupata “Non so se è una buona cosa…” sussurrò spalancando gli occhi, spaventata “Il Generale...”

“Si, anche io dissento” soggiunse Alo sussiegoso, “e pure molto!”

“E allora tirate fuori qualcosa voi!”

“Ragnarok?” chiese Alo.

“E che Ragnarok sia!”

“Che non sia!” puntualizzò la bambina.

Urlarono nel vento, un po' per la paura, un po' per l'eccitazione e molto per l'incoscienza, mentre scendevano, reggendosi forte.

“Stai bene?” le chiese Maxence una volta che lo slittino si fu fermato.

Alo la sollevò e la scrollò a mezz’aria “Non perde pezzi, direi che sta bene!”

“Mettimi già screanzato!”

“Come vuoi,” la lasciò andare di colpo, ma su un cumulo di neve.


“Ehi!”


“Ti ho obbedito. O sei la classica femmina che non sa mai cosa vuole?”

La piccola cercò di sforbiciargli le gambe ma Alo fece un passo indietro e alzò un sopracciglio “Imbranata!”

Maxence chiese stupito “Ma non ti insegnano niente a casa? Passi il precettore, che si è abbondantemente capito che non ti frusta abbastanza… ma Monsieur Oscar, dico? Va bene che è più piccolo!”

“Noi a Cassandra vorremmo spiegare come reagire se uno la attacca...” riprese Maxence vedendo che lei lo guardava stupita.

“Nostro padre ha combattuto con gli Indiani, corpo a corpo” disse Alo, sereno, “bisogna anche sapere cosa fare a distanza ravvicinata.”

“Una pistola ovviamente è meglio!”

“Anche un fucile…”

“Si, se uno ti attacca, se gli spari con il fucile, di solito hai risolto.” concesse Maxence.

“Una longue carabine è una risposta quasi definitiva. Però, se è più di uno ad attaccarti, poi devi ricaricare. Lui si avvicina, tu usi la pistola, magari due.”

“Ma poi… se ha un tomahawk può essere che con lo spadino ci fai poco, sai?”

“Quindi avere un tomahawk è una buona cosa, ma in Europa ti guardano male…”

Sigyn-e-altri-nomi li guardò affascinata, cercando di non mettersi a ridere.


“Impara ad usare un pugnale: è un’ottima cosa.” disse Alo, pratico.

“Per la spada oramai è tardi: sei troppo cresciuta. Tutti iniziano prima di te e non li riacchiappi più. E poi… sarebbe solo un impiccio. Posa il pensiero. Ti faresti solo del male. E poi non devi ottenere il rispetto di un tuo pari, devi risolvere un problema pressante che non richiede necessariamente eleganza, ma che deve essere efficace.
Devi saper usare un pugnale, se serve, soprattutto il lancio del coltello. Usare il mantello per deviare il colpo. E sparare! Ah sparare! Lì è tutta questione di mira e nervi saldi.”

“Però, la cosa migliore, più che colpire, è toglierti da vicino chi ti minaccia!” disse Alo, interrompendo Maxence. Didascalico, come se stesse spiegando una cosa ovvia. “Noi lo diciamo sempre a Victor!”.

“Si perché un pugnale lo porta di sicuro pure lui. Stai parlando di una battaglia con uno che ti vuole fare fuori, che ti odia…”

“Uno che vuole strapparti un orecchio a morsi!”

“Aprirti il torace e vedere il tuo cuore che smette di battere!”

“E poi prendersi il suo scalpo mentre sei ancora vivo!”

“Non ci puoi parlare, discutere, insomma, magari ha ragione lui eh! ma quando sei arrivato a quel punto non basta più ammetterlo.”

“No, chiedere scusa non sarebbe più sufficiente.”

“Quindi meglio se impari a difenderti. Non per batterlo. Magari è impossibile, ma per scappare e portarti a distanza.”

“E, poi, quando sei a distanza, gli spari” concluse Alo sbrigativo.

La bambina sorrise un po' incerta - aveva una buona mira, fantastica, anzi, a dar retta al Guardiacaccia, ma non è che sparare a qualcuno fosse proprio in cima alla sua lista dei divertimenti - poi Alo le tese la mano e sollevò in piedi.

“Tu devi imparare questo, “ le disse bruscamente, e con un gesto veloce, le uncinò un piede, con la gamba, sbilanciandola, e la gettò nella neve.

“Ma dico? Ma la vuoi smettere?” gemette la ragazzina, senza fiato, sdraiata sulla schiena.

“Noi stiamo insegnando a Victor e vorremmo che anche Cassandra sapesse un minimo come non farsi imporre una cosa che proprio non vuole. Se vieni…”

“Tanto vieni comunque.“ tagliò corto Alo.

La bambina annuì, e una ciocca le sfuggì dal nastro che si stava allentando.

Maxence notò che erano proprio rossi, rossi come se li ricordava, peccato per quella cipria, così orrenda…

“Sono belli,” le disse, “Me li ricordavo, ma, vedendo come li tieni legati e coperti, pensavo di ricordare male. Non sono di moda, lo so, ma sono belli, sai?”

“Non sono biondi.“disse la bambina con aria di sfida.

Maxence non disse nulla, ma dentro di sé pensò “Ah ecco! Ora ho capito…”


“Abbiamo il tempo di ancora due scivolate,” intervenne Alo, “poi dobbiamo per forza tornare, e, almeno, sentire l’assolo! Noblesse oblige!”.




Le famose note a pié di pagina: Double, double toil and trouble è nel Macbeth, lo cantano le streghe poco prima di dire che sentono i pollici che prudono e che qualcosa di malvagio sta per sopraggiungere.
Quello è il ricordo di Maxence e Alo, che sono giovanottini bene educati, non è quello delle ragazzine che hanno in mente dei racconti popolari, quanto a me... vien in mente Harry Potter, https://www.youtube.com/watch?v=EMzrgXFeX_o
Voglio sperare che in quella casa si lavino le mani prima di cucinare... il sapone, comunque, è di Marsiglia, fatto con puro olio di oliva.

Sigyn è la moglie di Loki, ma non serve sapere la sua storia in questo capitolo - comunque qualcosa la piccoletta racconterà.

I versi che cita Maxence sono dell'Alzira di Voltaire, pronunciati da un tizio che vorrebbe delle conversioni forzate - Voltaire alludeva alla posizione assunta verso l'editto di Nantes che era stato revocato a suo tempo, dal sovrano precedente, e quindi parlava, con ironia, a favore della libertà di culto, mentre l'amico di Maxence non aveva colto.

La matrigna di Alo e Maxence non vuole interferire nell'educazione dei ragazzi in campi su cui la loro madre aveva idee molto nette.

Il Generale, si sa, su Voltaire ha delle idee non proprio benigne.

"Per Voltaire" è una citazione di Eriadan: era il grido con cui Zirconia, la sua gatta, abbatteva gli Alberi di Natale. Se non avete presente, mi spiace tanto per voi.... meritava :)

No, la Numero Cinque non è destinata a diventare un ninja.

Credo si cominci ad avere un'idea sul perché Monsieur Henri appare un pochettino protettivo coi giovani, preoccupandosi che usino il salvapunta per il fioretto, per esempio.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Un bacio per la vita, che ti da sempre tanto ***


Un bacio per la vita, che ti da sempre tanto


Non avrebbero saputo dire, dopo, di chi fu l’idea, esattamente - l’unica cosa certa è che era piaciuta tanto a tutti e tre: stavolta sarebbero scesi lungo il letto della cascata.
Ripido.
Molto ripido.
Favolosamente ripido.

Ma non verticale.

E, a voler ben vedere, neanche poi tanto alto.

Avevano visto delle tavole di legno appoggiate lì vicino - dimenticate dopo qualche lavoro di manutenzione - e gli sembrò ovvio usarle per farne un trampolino. Lo avevano ricoperto con la neve, entusiasti, incuranti delle dita gelate.
Che altro avrebbero dovuto fare? Le tavole chiedevano solo di essere usate. Chiunque, avrebbero detto dopo, chiunque avrebbe fatto esattamente lo stesso.

In piedi, sul bordo della cascata, dopo aver ricontrollato la traiettoria, Maxence la guardò negli occhi “Se non te la senti, dillo!” disse.

“Intende: dillo ora”, intervenne freddamente Alo, “perché se lo decidi dopo, che tu ti vuoi fermare, intende, sarà troppo tardi. Non c’è modo: devi arrivare fino in fondo.”

“Puoi urlare, però…” concesse Maxence.

La bambina annuì - nessuno l’avrebbe scippata della sua scivolata. Nessuno!
Non era testardaggine.
Nemmeno incoscienza.

Forse.

Era che le sembrava che, dentro di lei, ci fosse una pianta che si stava riempiendo di foglie, come un’edera pazza, ed era quella sensazione che le sembrava che non dovesse andare affatto sprecata.
Se fossi un’edera starei abbracciando una quercia, pensò.
Se fossi un gabbiano starei scendendo in picchiata. Se fossi un’onda sarei una esplosione bianca di spuma.

Alo scosse la testa “Spero solo che tu non ti metta a piangere dopo.”

“Starai dietro” decise Maxence, un po’ dubbioso, “mi sembra più sicuro… purtroppo non esistono tabelle balistiche per gli slittini… se i calcoli a spanne sono giusti  dovremmo atterrare nelle siepi del labirinto di tua madre, affondarci dentro, insomma, non superarle. Ci rallenteranno, a contatto curviamo con il peso… come su una barca a vela… forse.”

La bambina annuì.

“Tu fa quello che facciamo noi.” disse brusco Alo.

“E se non ti viene, non fare assolutamente nulla!” aggiunse Maxence un po’ preoccupato.

“Soprattutto, reggiti forte.” concluse Alo.

Presero posto in silenzio: Alo davanti, Maxence in mezzo e dietro, stretta al mantello del ragazzo, Sigyn-e-altri-nomi. L’aria era gelida e aveva ripreso a nevicare; in tre, sincronizzati, spinsero più che poterono, di corsa, lo slittino e poi ci balzarono sopra, gridando “Ragnarok non sia!”.

Fu un attimo: la sensazione dello stomaco nella gola, il colpo sul trampolino improvvisato - ci stiamo alzando! pensò improvvisamente la bambina (e non solo lei), mentre senza nemmeno accorgersene, gridava (e non solo lei).


Volarono.

Come una palla di cannone di quelle di cui parlava sempre il Generale. Il vuoto sotto di loro, la statua della fontana pure - per fortuna, pensò, se l’avessero danneggiata… non osava nemmeno pensarci. Il tempo che sembrò dilatarsi davanti e dietro di lei.
I pensieri le vorticarono nella testolina, uno sopra tutti: se lanci qualcosa in alto prima o poi torna sempre giù.
Per un attimo le sembrò di non avere nessun peso.

Poi la botta.
Fu a quel punto che senza volere, assolutamente senza volere, si staccò da Maxence.

I ragazzi la videro volare, schiantarsi, rotolare, ma fu un attimo,  come un battito di ciglia, ognuno vide un istante diverso - non seppero nemmeno loro la dinamica esatta, in fondo si stavano muovendo tutti. Seppero solo che loro non si schiantarono, cioè il colpo lo sentirono, come atterrare su un’onda, ma anche lo scivolamento sulla parte alta e flessuosa - benedetto il labirinto, benedetti i rami giovani non potati - disposta a flettersi sotto di loro. Rallentarono semplicemente grazie ai cespugli, ci navigarono sopra, come avevano progettato, e atterrarono, non proprio dolcemente, ma tutti interi, in una scia di neve che volava dietro di loro a spruzzo.
Corsero subito a cercare la piccoletta, senza dire una parola, e la videro: un pacchetto nero e verde, bocconi nella neve.

 

Era lì e intanto, tutto intorno, fioccava.

 


 

L’esibizione delle ragazze Jarjayes era giunta all’intervallo. Come in un teatro vero.

Madame Marguerite le guardò sciamare nella stanza accanto per bere qualcosa; prima ancora che iniziassero a suonare aveva dato tutte le disposizioni necessarie per qualcosina di leggero - frutta e limonata. Al Generale non piaceva vedere che le persone si rovinavano l' ’appetito per il pranzo, piluccando fuori pasto. Soprattutto se erano figlie sue.
E poi, così, Monsieur Henri e Augustin avrebbero finalmente avuto qualche minuto tutto per loro - Madame Girodelle era intransigente sugli orari.
Ma dove era Sigyn, la piccoletta?
 

Le ragazze si raccolsero attorno a Madame Marguerite, ansiose: come erano andate? l’acustica non era quella del Salone, ma il suono come era stato? si erano notati gli errori? E l' attacco di Josée? Marguerite cercò di tranquillizzarle, amabile: era andato tutto bene e qualche piccolo errore non sarebbe mai stato notato.
Non glielo disse, non avrebbero apprezzato, non dopo essersi impegnate così tanto e così seriamente: non avevano oltrepassato quel confine tecnico tra amateur e musicista - era anche questione di esperienza nell’esibizione, ma non era solo quello - ma erano brave, qualcuna, Horthense, un talento. Avrebbero suonato insieme, sarebbe rimasto un filo tra di loro, e avrebbero capito cosa c’era dietro in un pezzo musicale - un gusto in più, un altro modo di provare un piacere nella vita, il rispetto forse, per il talento di un altro.

Oltre la musica, però, il vero spettacolo erano loro con la loro giovinezza, la loro bellezza, e con la loro dedizione. Tutte così simili e così diverse: nessun roseto carico di boccioli sarebbe mai stato così bello.
Avrebbero ricordato a tanti che cosa fantastica era essere giovani, vivi, sani e saper godere di ciò che offre la vita. E chi giovane non lo era più avrebbe pensato che, anche se la rugiada ormai se ne era andata, loro avevano ancora alcune cose da fare e tanto da raccontare e ricordare: non era mica finita.

Con lo sguardo cercò la piccola, dove si era cacciata?
 

Fu Horthense che pose la domanda ad alta voce, imperiosa - aveva deciso molto molto molto tempo fa che Sigyn era la sua protegée e la piccola le aveva fatto le fusa.

Fu Oscar che rispose “E’ andata via… non è rimasta a sentirci.”
Era sdegnata, ma cercava di controllarsi, austera come un soldatino.


Madame Marguerite sospirò, ma piano: Oscar era proprio figlia di Augustin, per lei glissare era qualcosa che aveva a che vedere solo con la musica.

“Vi ha ascoltato molte volte in questi giorni” disse conciliante, “ha copiato spartiti, li ha voltati per voi, vi ha tenuto il tempo… si sarà stancata,” sorrise, questa volta parlando solo ad Oscar, con tutta la dolcezza di cui era capace “non devi avercela con tua sorella...” non le disse che il verbo giusto forse non era “stancata”, ma “annoiata”, Oscar si sarebbe offesa.
E non le ricordò che loro due si volevano bene e che Oscar si sarebbe dispiaciuta, dopo, se ci fossero state conseguenze per questa piccola ribellione non notata da nessuno.
Non notata da nessuno fino a quel momento.

Non disse nulla perché Oscar avrebbe bruciato dentro, incapace di dire nulla, per non aver pensato alle conseguenze, nel caso fossero arrivate (per lei quasi sempre una sorpresa).
Quanto al voler bene… avrebbe negato e avrebbe drizzato subito gli aculei - voler bene ad esseri inutili come le femmine? Ammettere di voler bene? Voler bene era solo una debolezza.


Madame Marguerite si sentì improvvisamente molto stanca ed inutile. Del resto era o non era una femmina anche lei?
 

Possibile che Augustin non avesse lasciato trapelare con Oscar - almeno con Oscar! - l’unico segreto che valesse davvero la pena di vedersi rivelare per tempo? il fatto che sentirsi separati dal resto del mondo è solo una illusione - necessaria a volte, per carità -  ma solo una illusione,  e pure di quelle che alla lunga danno solo dolore?
 

“Non è andata via da sola! L’hanno portata via.” puntualizzò Oscar con tono accusatorio.



Note finali: Grazie alla vita che mi ha dato tanto è di Violeta Parra (Gracias a la vida).

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Tempo di abbracci e baci ***


Tempo di abbracci e baci

I ragazzi scattarono senza parlare. Vestiti di nero, alti e magri, con i muscoli allungati, sembravano due lupi giovani dello stesso branco. I passi crepitavano, mentre la neve scendeva senza rumore.

Si accoccolarono sui talloni accanto alla piccola, come se dovessero annusarla.

Uno dei due le sfiorò delicato il collo, là dove il battito del cuore pulsava nel sangue e fece un cenno affermativo all’altro, che aspettava. In due sospirarono, un sospiro pudico, quasi impercettibile, che era sollievo, ringraziamento e preoccupazione a cui veniva tolto solo il primo strato. Il non te lo dico, non te lo dirò mai, che sono preoccupato faceva da basso continuo.

Poi si guardarono - sapevano bene cosa andava fatto: le estati con il Vecchio - autentiche pene del contrappasso, ora lo capivano, pensate da chi li aveva visti e giudicati - per loro erano state condanne appresso ai suoi conciaossa.
A Victor, invece, erano toccati i merluzzi.

“Non muoverti topolina, non ti muovere, non farmi nessun cenno, stai ferma e vediamo con ordine tutto.”

Maxence le infilò la mano sotto il viso, a coppa, liberando una strada per l’aria, per consentirle di respirare meglio.
Si accorse che la piccola cercava di sputare via la neve dalla bocca, ma le mancava il fiato.
Ci pensò lui. “Va meglio? dimmi solo qualcosa...” il lupo di Cappuccetto Rosso non avrebbe potuto avere voce più suadente. Prima regola: tranquillizzare.

“Ahi” bofonchiò.

“Qualcosa di sensato.” la rimproverò piano, un brontolio basso, giusto per tenerla all’erta. Era con loro, non era scappata in un regno da cui è difficile tornare.

“Sto bene.” Una frase sensata o una senza senso?

“Chi sono?” Maxence insistette educato.

“Ho la neve negli occhi,” sussurrò, “e comunque sei quello con gli occhi marroni...” il solo tra i miei fratelli, bambina, che hanno tutti gli occhi degli spettri... credo che qualcosa ce l’abbiamo in comune.
Ma io dei miei occhi sono orgoglioso.

“Ho un nome.” Più di uno in realtà. Ma sono fatti miei che non ti riguardano.

“Anche io, non sono la rossa, che ti credi?” brava così, un cucchiaino di spirito battagliero sotto i fiocchi e i nastrini serve sempre. No, non sei la rossa, ma lo sarai sempre, per quanta cipria potrai usare e per quanto potrai avviluppare quei capelli in un nastro. Ma questo non te lo vuoi sentir dire da me - alla tua età io non avrei voluto che un estraneo mi frugasse dentro - nemmeno ora mi fa piacere, non lascio porte socchiuse

“Sei Sigyn la litigiosa, che se ne vuole scappare in Spagna” la voce di Alo fu un brontolio cupo e Maxence annuì. Io so da dove vengono i miei occhi scuri, piccoletta, e mi piacciono proprio per quello. Tu… c’è qualcosa che ti chiedi?

“Xence. E Alo.” sussurrò. Bene, sei con noi. Xence... non è male, come Alo del resto, forse dovrei sapere come ti chiama chi ti vuole bene - sarebbe giusto, visto che pensi di conoscermi abbastanza da accorciarmi il nome. Cosa vedi ogni volta che vieni a casa nostra, ospite silenziosa nella stanza dei bambini?

“Sono rotolata come una capriola, come se cadessi da cavallo,” Non sei solo la rossa, comunque, e nemmeno solo la protetta di Horthense, anche se non sei Horthense, piccola. Horthense, che è il cuore di ogni cuore, e la corona di ogni corona. Mi dispiace non averlo capito prima.

“Ti hanno insegnato?” chi dobbiamo ringraziare? Chi devo? Non sia mai che il più grande non si prenda la sua colpa, come fosse un bambino che ha paura della punizione… Certe volte faccio cazzate che, se vanno al mal fine, sono al limite di un racconto epico.

“Il Nonno. Non si fida che io monti all’amazzone, dice che è innaturale...” Immagino cosa penserà di questo...

“Non sei tanto pratica eh!” fu brusco. Fine dei convenevoli, ora iniziano le danze.

Le chiesero di muovere le dita, poi le mani, le tastarono le braccia, tutti e due, con molta attenzione, senza fretta. Alo le controllava il respiro. Poi le tolse il mantello con cura.
Le dissero che la dovevano voltare. La tennero ferma, Alo le bloccò il collo e la girarono.
Le slacciarono il panciotto con quegli strani bottoni, Maxence non perse tempo a controllare che fossero, ma Alo sogghignò “Fiori e bacche…” disse.
Tolsero i guanti e appoggiarono le mani dentro i loro panciotti, sulla pelle, per scaldarle prima di toccarla.

Era atterrata con la spalla. Maxence ed Alo si guardarono: le avrebbe sicuramente fatto male, ma era il meno peggio. Aveva avuto la fortuna di portare un corsetto, di esser riuscita a rotolare e di non aver colpito nulla di sporgente, cadendo. Il giardino lì era a prato, ma avrebbero dovuto controllare. Prima. S’intende.

Piano Alo le sfiorò una tempia, senza parlare, arrossendo come se si vergognasse.

Le controllarono la testa in due, tastando ogni pollice coi polpastrelli. Aveva solo un graffio sul sopracciglio e un bernoccolo sulla fronte. Questa notte le avrebbe fatto male. Ma non quanto la spalla.

La tastarono e poi le dissero che l’avrebbero sollevata, piano, se le faceva male qualcosa di dirlo subito, le fecero muovere le gambe, le braccia, Alo le tolse gli stivali e le sfiorò i piedini avvolti nelle calze ricamate, “Muovi le dita” ordinò.

Poi, piano piano la testa. Alla fine respirano in due di sollievo. Mancava l’ultima cosa, che non ci fosse niente che non andava... “dentro” - controllarono a lungo e lei li lasciò fare, il panciotto slacciato, il fiocchi di neve nei capelli, reprimendo i brividi sotto il fioccare lento della neve.
Perché, nel caso, un rimedio non c’era. Solo aspettare.

“Ti ho sentita volare e ti ho visto cadere.” commentò Maxence con un brontolio cupo che riassumeva tutti i suoi pensieri.

“La prossima volta dovremmo usare degli elmi.” disse pratico Alo, ma non parlava sul serio.

“Io so che c’è un angelo che si occupa di me...” disse seria la ragazzina. "Lo dice sempre lo zio Jean Claude."

“Pure gli angeli ogni tanto si distraggono” commentò Alo, asciutto, “la prossima volta reggiti più stretta, per piacere”

“Si, aiuta quel poveraccio del tuo angelo...” disse Maxence senza ridere. ”Aiutalo sempre un pochino.”

“Sono rotolata, come se cadessi da cavallo. Ginocchia e gomiti piegati, come dice il Nonno, il resto abbandonato.” Era ostinata nel voler minimizzare. Non gliela dovevano rovinare questa scivolata! non dovevano. Lei era stata spuma di mare, vento che scalciava i fiocchi di neve, libera come in Normandia, non lo riuscivano a capire?

Si rimise in piedi come un puledro appena nato, malfermo sulla zampe.

Fu a quel punto che Maxence l’abbracciò.

Era ancora accoccolato sui talloni e la strinse a sé, avvolgendola dentro il suo mantello, per scaldarla.
All’inizio la tenne abbracciata e basta, poi le sussurrò nei capelli, piano, che sentisse solo lei “Sigyn, vanitosa Sigyn, Sigyn imbrogliona, che non sai i nomi dei re,“ lei si agitò in segno di protesta, cercando di scappare, ma lui la teneva stretta, avvolta nel bozzolo del mantello “Sigyn, Lingua d’Argento, che sai l’ordine in cui marciano le damine, te lo giuro, puoi chiedermi quello che vuoi, puoi chiedermelo ora o puoi aspettare che io cresca, o puoi aspettare di crescere tu. Vieni quando vuoi e chiedi quello che ti pare.”

“Guarda che non mi sono fatta niente.“ gli sussurrò ostinata all’orecchio, che capisse bene, parlando con lui e solo con lui, “e scivolare l’ho voluto io. Sono io che non mi son retta...” però smise di divincolarsi e accettò il contatto. Capiva in qualche modo che per il ragazzo era un discorso serio, un debito d’onore, ma non serviva, aveva scelto lei, nemmeno lei dava la colpa agli altri, quando non ce l'avevano. E sua sorella ce l'aveva spesso: lei non contava.

Maxence non disse nulla, ma si alzò in piedi. La strinse stretta stretta ancora per un attimo “Non fare la petulante, ora ti dico una cosa che ti dovrai ricordare sempre.”

Alo sogghignò “Dovrai farci un ricamo, così non la dimenticherai.” La stava prendendo in giro, registrò Sigyn, ma non le importò. Alo aveva la lingua affilata, ma le sue mani erano state gentili.

“E’ la pioggia leggera che fa crescere i fiori, non il tuono.”

“Sarebbe?” chiese sospettosa.

“Lo capirai da grande.” disse Alo brusco. “Per ora segnatela!”

La neve le stava sciogliendo la cipra, Alo prese un pugno di neve e gliela passo tra i capelli, senza pensare “La cipria sui capelli… è veramente orribile.”

“E’ la moda.” replicò scontrosa aggrottando le sopracciglia.

“Cioè quello che fanno gli sciocchi per essere uguali agli altri.” disse Alo tranquillo.

“Ad alcuni piace.” disse sussiegosa.

“Sai alle mosche dove piace posarsi? e guarda che le mosche sono davvero tante. Avranno ragione loro su cosa è buono mangiare?“ non stavano litigando. Lei lo guardò a lungo cercando negli occhi di Alo quella scintilla di una risata nascosta che in Maxence era di solito più evidente. Quando la ebbe trovata non disse nulla, ma annuì. Lo poteva accettare, da Alo, che le desse della sciocchina vanitosa. E da Maxence.

“Comunque alla fine è amido di mais… ci dovresti fare una zuppa, o una torta!” disse Maxence bonario “Non spargertela sui capelli.”

Lei starnutì

“Un’altra pessima idea…” brontolò Maxence, ricordandosi della gonna di lana - ci mancava solo che la piccoletta si ammalasse.

La ragazzina, presa da un pensiero improvviso si frugò nel panciotto, tutta concitata. Poi sorrise soddisfatta: nel pugno teneva un ciondolo attaccato ad un laccio, intorno al collo, che d'impulso baciò.

Alo le tese la mano con il palmo aperto e lei glielo mostrò tutta orgogliosa.

“Una moneta d’oro?” chiese Alo, cortese, mentre la sfiorava: era contenuta in un porta ciondolo aperto, una doppia cornice con un perno e una griglia protettiva a maglie larghe e sghembe, in filo d'argento.

“Ho avuto paura di averla persa” disse incerta, “Questa è la moneta di quando sono nata. Il laccio me lo diede lo zio Jean CLaude... qui non lo levo mai.”

“Cioè?”

“Lo zio Jean Claude mi aveva comprata...” disse con aria di importanza. I due ragazzi la osservarono perplessi. "Come 24 libbre di cioccolata. Non è poco!"

“Un autentico affare...” disse Alo, "considerato quello che costi in fiocchetti e nastrini e, soprattutto, cipria per capelli... vedo infatti che è andato a monte."

La bambina stava per replicare, piccata, quando sentirono un fischio e si bloccarono tutti.

A cavallo, in cima alla cascata, Victor Clément de Girodelle li stava osservando, cupo. La disapprovazione lo avvolgeva come una bagliore - impossibile non capire che il suo giudizio, su di loro, complessivamente era negativo (poi sapere il giudizio su cosa, la quantità esatta e come fosse ripartita, quello era tutta un'altra faccenda).
Smontò, tirò fuori una corda dalla bisaccia, ne legò una estremità attorno ad un ciottolo e la lanciò a Maxence.

“Ci riporti trainandoci?”

“E’ tardi e vi stanno aspettando per la seconda parte... c’è l’assolo!” la voce crepitò gelida più della neve. Ghiaccio, come di ghiaccio gli occhi.

“Ah beh! Se c’è l’assolo…“ disse Alo sarcastico.

Gli fecero un cenno d’assenso e assicurarono bene la slitta.

“Come ci hai trovato?”

“Le impronte” rispose laconico il ragazzo, rimontando a cavallo “e lei la tenete in mezzo, deficienti, non dietro.”

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Un bacio per ringraziarti di saper vedere ***


Un bacio per ringraziarti di saper vedere.


“Portata via?” ripeté interdetta Madame Marguerite, chi poteva aver portato via la bambina?

Si chiese se suo suocero forse per caso arrivato a sorpresa per riprendersela. Ma era Natale, no Monsieur Antoine non avrebbe mai... non a lei!
E nemmeno a Sigyn: Natale era una festa di famiglia, non una occasione in cui una bambina veniva sballottata qua e là! e la piccola già girava fin troppo, sempre appresso a tutti loro. E poi no, lei non lo avrebbe accettato! Lo riconosceva che era cresciuta bene, quasi sempre nel terreno giusto per lei, rigogliosa, ma, ovunque crescesse, era pur sempre la sua bambina.

A meno che non glielo avesse chiesto Sigyn. Rabbrividì. Sigyn scriveva sempre al Nonno e agli zii, quando era lontana da loro. Scriveva tutto. E nessuno controllava mai le sue lettere...
Ma, anche se avesse detto... - Marguerite corrugò la fronte - anche se avesse accennato che non voleva stare lì, Jean-Claude le avrebbe chiesto il permesso, prima.

Jean-Claude...

Madame Marguerite ricordò di colpo quella sera, la sera di Sigyn Dai Molti Nomi.
Una sera senza la luna.
Jean-Claude era ospite loro da un paio di giorni, di ritorno da un lungo viaggio e da una lunga assenza fatta di anni - il caso.
Il dolore era stato improvviso e lo aveva subito riconosciuto ma non era il tempo, non lo era affatto. Si era sdraiata su un fianco, spaventata, sperando che smettesse - un falso allarme. Jean-Claude se ne era accorto e si era seduto accanto a lei. Il gigante dei capelli rossi le aveva tenuto la mano, tranquillo, mentre aspettavano.

Lui era un missionario, un nero gesuita, abituato a vivere coi selvaggi, i capelli raccolti da un laccio di cuoio. Si occupava di anime, di istruzione e di corpi: probabilmente lei ai suoi occhi, ridotta alla sua essenza di donna, non era tanto diversa da una selvaggia col viso tatuato, preoccupata di una preoccupazione che tanto non sarebbe servita a nulla.

La cosa tenera, per lei, fu scoprire che in Jean-Claude non c’era pudore, repulsione, o timore: lei era lei e basta. Anche sudata, su un fianco, il corpo deformato, il ventre duro, spaventata come un animale, prossima ad una faccenda di urla, sangue e tante lacrime, disperata, ma senza parole per dirlo, lei era lei.

Jean Claude Reynier vedeva la perla anche senza la montatura giusta.

Anche se non era sua, non era stata destinata a lui.

Anche non era la perla perfetta che lei avrebbe tanto voluto essere.

Anche se era la donna che non sapeva far figli maschi - una delusione, una vergogna, certe sere non le era riuscito quasi di alzare il capo.

Lui, comunque, vedeva la perla.

“Mi racconti una storia?” glielo aveva chiesto.

Lui, così caustico con Augustin, leggendarie le loro discussioni, con lei era stato dolce, le aveva carezzato piano la fronte con il pollice, distendendo quella rughetta tra gli occhi “Che storia vuoi ascoltare?” le aveva chiesto.

Marguerite sospirò - ricordava tutto di quella notte.

“Il vischio...”

“E’ il caso?”

“Parla di una madre che chiede protezione per un figlio,” aveva sussurrato, esausta, “non esiste un momento migliore.”

“Vuoi davvero sentire questa storia?”

Lei aveva annuito.

“C’era una volta una donna molto bella di nome Frigg, il cui nome vuole dire “amore”. Era la moglie di un uomo molto potente di nome Odino. Lei aveva il dono della preveggenza, un dono sviluppato più di quello di suo marito, ma non gli narrava ogni cosa che vedeva e alcune le teneva per sé.”

“Una donna saggia…”

“Una donna che amava e che pensava di far bene.” Le aveva sorriso e lei aveva sentito il fiato mancarle per il dolore di uno spasmo. Lui le aveva stretto la mano e l’aveva guardata negli occhi con tenerezza. “La donna aveva un figlio che amava moltissimo, un giovane di nome Baldr, bello, alto, biondo, con gli occhi azzurri.”

“Un rubacuori.”

“Si, lo amavano tutti.”

“Di cosa era dio?”

“In particolare di nulla.”

“Oh!”

“Un giorno Baldr sognò della propria morte e ne parlò con sua madre e lei vide cosa avrebbe potuto essere, seppe che Baldr aveva ragione, avrebbe potuto morire, e, forse, vide anche altro, forse vide chi e perché e tutto quello che ne sarebbe derivato, come lo snodarsi di un fiume nella nebbia e allora girò per tutta la terra per far giurare ad ogni pianta e ad ogni pietra che non avrebbe mai fatto male a Baldr…”

“E accettarono?”

“Si, l’unica pianta a cui non chiese il giuramento fu il vischio…”

“C’è il trucco quindi. Come con Achille…” aveva sospirato chiudendo gli occhi e ricordando di quando era stata solo una ragazza e aveva parlava così leggermente di Arianna e di Teseo, non capendo proprio nulla della vita.

“Si, Achille ha il tallone, e Baldr ha il vischio. Era una pianta troppo giovane, secondo Frigg, per poter giurare in coscienza. O forse, penso io, non aveva le sue radici nella terra che è ciò di cui era dea Frigg; era una pianta che non dipendeva da lei. E quindi scelse liberamente.”

“Sbagliò?”

“Forse il vischio pensò che era giusto che Frigg accettasse che la vita ha anche la sua fetta dolorosa.”

Lei si era sentita morire e poi aveva sussurrato “Frigg non lo sapeva, secondo te? Non la aveva mai assaggiata una briciola di quella fetta?”

Jean-Claude aveva sospirato e l’aveva guardata a lungo.

“O forse voleva che Frigg capisse che nulla è davvero scritto. Che quella preveggenza che pensava di avere… erano solo ipotesi, possibilità. Paure di tutti gli uomini e le donne.
Oppure voleva che sapesse che è giusto lottare per cambiare le cose ingiuste, un dovere, ma che è una empietà affannarsi per poter cambiare le cose che non si possono cambiare. Quelle del presente, e, soprattutto, quelle del passato. Ed era un peccato gravissimo dannarsi l’anima in terra con quelle impossibili.”
Non fu cattivo nel dirlo. Aveva una voce tonante quando si accalorava sulle cose in cui credeva, ma quella sera no, quella sera fu sempre dolce.

“E poi che successe?”

“Gli altri dei si divertivano a mettere Baldr al centro della sala delle loro feste, e a lanciargli delle cose addosso, per vedere se era vero che nulla gli poteva fare del male.”

“Non erano molto raffinati.”

“Temo di no. Gli lanciavano spade, asce, pugnali, frecce… e, ogni volta, la spada, l’ascia, il pugnale, rimbalzavano sulla pelle di Baldr, o si vaporizzavano nell’aria.”

“Frigg aveva chiesto troppo?”

“Forse se Frigg non lo avesse reso intoccabile, gli altri non avrebbero mai trasformato in un gioco una cosa molto seria. Forse Baldr non avrebbe pensato di essere invincibile e non si sarebbe esposto così.
Forse Baldr, non condividendo più alcuni limiti degli altri uomini, perse parte della sua capacità di capire gli altri. Forse non seppe più valutare un pericolo. O un uomo.
O forse la persona che lo uccise non lo avrebbe trovato odioso per la sua baldanza, e nemmeno la persona che lo armò… Forse sarebbe morto comunque, ma in un altro modo.“

“Eppure Frigg ci ha provato, ci ha provato tanto… a proteggere il suo bambino…”

Lui le aveva accarezzato il viso e poi le aveva detto con un sospiro “Proteggere un bambino è doveroso, i bambini devono avere qualcuno che parli per loro perché loro non hanno una voce, ma Baldr era un uomo fatto e nessuno è responsabile della felicità di un uomo adulto. Forse Frigg avrebbe dovuto pensare un po’ più a se stessa, sai? Invece di affannarsi per il mondo, per renderlo il luogo perfetto per una persona sola. Forse il vischio, rifiutandosi di giurare aveva solo voluto farle smettere quella corsa tra tutte le cose della terra, il cui scopo era assurdo, e che la stava distruggendo.”

Lei aveva capito, era una donna che a volte coglieva il non detto - non sempre eh! non sempre… - un’arte che aveva appreso crescendo.

Gli aveva preso la mano e se le portata sul ventre, un gesto così intimo, ma lui non si era ritratto. “Questo è un bambino concepito con tanta dolcezza… tanta… forse per la prima volta dopo tanto tempo.” le voce le era uscita disperata, “correre da ogni pianta e implorare non è un prezzo alto sai?”

Sapeva che Jean-Claude le stava dicendo di accettare il peggio che forse non era il peggio, che le parlava di altro, ma lei non poteva. La cosa di cui più si vergognò, dopo, molto tempo dopo, fu che neanche per un momento pensò che quel bambino potesse non essere un maschio.

“Quando ero una ragazza…” Jean-Claude annuì, “Allora… io pensavo che essere una donna adulta volesse solo dire non dover chiedere a nessuno il permesso per andare ad un ballo, sai?” lo disse vergognandosi. Ma Jean-Claude non rise, si limitò a stringerle la mano.

Madame Marguerite ricacciò indietro le lacrime - c’erano ospiti, non era il momento.
Di quella sera ricordava tutto. Ricordava che dopo era arrivato Monsieur Henri - per caso anche lui. Aveva capito subito cosa stava per capitare ed era rimasto. Per Augustin.
E poi Augustin. Deluso.

Si riscosse - non voleva ricordare. Se non fosse stato per Jean-Claude… se fosse dipeso solo da Augustin. O da lei.

Le sembrò di risentire la voce dura di Jean-Claude, che apostrofava Marie “...è la stessa cosa - se un uomo sta affogando e voi dalla barca non fate nulla per aiutarlo a stare a galla, che avete fatto? Nulla di male? Parole opere e omissioni cara la mia donna… omissioni!”

Due omissioni aveva fatto lei. Enormi.

Scacciò il pensiero - non era il momento dell’espiazione, per la prima aveva espiato tanto e per la seconda... andò verso i due uomini che, discosti parlavano a bassa voce. Forse Augustin sapeva qualcosa di chi aveva “portato via” Sigyn Margot...

Non poté non sentire le loro parole.

“Noi possiamo solo sperare che quello che facciamo sia giusto, ma pretendere che lo sia sempre porta solo ad una forma raffinata di cattiveria, mascherata da esagerata rettitudine...” … eccoci dunque alla mia seconda omissione, pensò.

“Cosa vuoi dire?” … se solo te lo avessi saputo dare il figlio maschio che tanto desideravi… non avresti avuto la tentazione di giocare a Dio. Se solo tu sapessi che brutta cosa sentirsi in colpa per qualcosa di cui non ci si può davvero pentire… non mi pento di nessuna delle ragazze, sappilo...

“Voglio dire che se non riconosci mai almeno la possibilità di una ambiguità morale in ciò che fai allora sei destinato a diventare una persona sleale...” questo è un discorso generale perché Augustin capisca da solo il caso particolare, che tormenta la coscienza di Henri:Oscar. Capisca, ma senza perdere la faccia... - Monsieur Henri non stringeva mai in un angolo se non era necessario, non credeva fosse giusto ingozzare a forza un uomo con le idee di un altro. E lei lo rispettava per questo.

“Sciocchezze!” Augustin spera di rimandare il problema più in là. Al giorno in cui ci sarebbe stato un perdono, o il mondo si sarebbe sbriciolato. Lo pensò e se ne vergognò.

Madame Marguerite si allontanò in fretta sbattendo gli occhi - non voleva ascoltare, non a Natale.


Si trovò di colpo davanti ad un ragazzino, l’ultimo maschio di Monsieur Henri, che, educato, le stava porgendo un bicchiere di limonata, con un inchino impeccabile.

Lo guardò interdetta. Aveva gli occhi lucidi e sperò tanto che lui non se ne accorgesse - un adulto non piange quando si sta divertendo, soprattutto non lo fa davanti ai suoi ospiti.

“Li recupero io…” disse tranquillo Victor Clément, dopo averla squadrata per almeno mezzo minuto “Mademoiselle Jarjayes, intendo. E non solo lei. Non è corretto che l’assolo non abbia tutto il pubblico che merita...” la voce gli era uscita severa, lo sguardo anche, e con un cenno del capo indicò Oscar, immersa nella luce della finestra, tutta vestita di blu, coi suoi riccioli biondi, corti, che rilucevano. A Madame Marguerite si strinse il cuore.

Oscar stava fissando suo padre, in attesa che finisse di parlare con Monsieur Henri.

Sembrava vibrare, una variazione di uno stesso ritornello, che lei Madame Marguerite conosceva bene - l’aveva suonato anche lei molte volte - sua figlia lo cantava con i suoi occhi, col suo viso dalla struttura delicata ancora senza sesso, con le sue spalle erette da bravo soldatino, con tutta quella serietà ancora infantile intorno alla bocca: dimmi, dimmi, cantava, che sei orgoglioso di me, che ho fatto tutto bene, tutto come lo volevi tu…
Tutti i complimenti di André, che era sinceramente entusiasta e così palesemente orgoglioso non bastavano, le rassicurazioni, oneste il necessario, di sua madre, nemmeno: di sicuro voleva l’opinione di suo padre sulla prima parte dell’esibizione, anche se Augustin, di musica... Madame Marguerite scrollò le spalle.


Tornò a guardare il piccolo Girodelle, che osservava Oscar pensoso.
Un piccolo gentiluomo, pensò, che si era accorto di lei, che era preoccupata, di Oscar, che desiderava tanto tutto il suo pubblico anche se poi le importava di un ascoltatore solo, e di quella che mancava all’appello, sparita senza lasciare traccia, portata via - finalmente ci arrivò - dagli altri cuccioli Girodelle, troppo grandi, aveva pensato, per prenderla anche solo in considerazione.

Senza pensarci, lo baciò su una guancia - non dovette chinarsi molto, i Girodelle erano tutti alti, come e più dei Jarjayes - poi, mettendogli le mani sulle spalle, gli sussurrò un grazie all’orecchio.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Un bacio per darti forza ***


Un bacio per darti forza

Il Generale si allontanò da Henri con la scusa di procurare qualcosa di serio da bere per tutti e due - la limonata, d’inverno, andava bene per donne e bambini!

O come sorbetto a fine pasto, concesse.

Detestava quei discorsi, anche se erano fatti in amicizia, lui lo sapeva bene, per questo mai se ne sarebbe offeso. Mai.
Con Henri, mai.

S’erano salvati la vita da ragazzi più di una volta, Henri era stato ospite nella casa in Normandia, quella portata in dote da sua madre, l’aveva conosciuta… per un attimo pensò a quel passo leggero, a quell'insolito colore dei capelli (era una Sisteron), a quella tiratina ai capelli, quel ragazzi che combinate?
Era morta così giovane, quando lui già pensava di essere un uomo e invece… non era pronto. Non era stato pronto.

Scosse la testa ripensando a quel periodo della sua vita, in cui s’era reciso l’ultimo legame con quella noblesse campagnarde e ribelle che detestava. Quella di cui suo padre era esponente orgoglioso. Suo padre che disobbediva alle leggi che riteneva ingiuste - disobbedienza civile, diceva, non collaborazione, diceva... era stato proprio Henri a dirgli, ammirato, che suo padre citava La Boétie... C'era dunque un altro pazzo sovversivo che riteneva di poter scegliere lui a quali leggi obbedire e a quali no, secondo come gli facesse comodo! Secondo coscienza ... si, come no? Ma la Legge non è così! Non è un gioco! Se deve essere il fondamento della società la Legge va rispettata sempre e da tutti, e non solo quando fa comodo!
Sapeva ben lui cosa faceva suo padre disobbedendo alle leggi del Re!

Si riscosse, non voleva pensare a suo padre!

Henri gli era più caro di un fratello, ma Henri non capiva... lui in casa aveva il Salottino Rosso, quello dei ragazzi, con una bottiglia di vino nascosta tra i libri - se ne era accorto l’ultima volta, del resto erano grandi, si sentivano uomini ormai… era ora che imparassero a bere come si deve!
Quel Salottino con la tappezzeria sbreccata dai colpi di spada, fioretto e sciabola - una volta quei tre avevano pure sparato un proiettile contro il muro... Madame Girodelle, la seconda, s’era tanto irritata, mentre a lui, con Henri, stava venendo da ridere: s’erano guardati di sottecchi, ricordando di quando erano loro i ragazzi…

... ragazzi che combinate?

Aggrottò le sopracciglia irritato. Henri aveva tre maschi, ognuno diverso dall’altro, con cui forgiare un legame. Non capiva, no, non poteva capire. E lui non gliene avrebbe fatto una colpa.

Sulla porta si voltò e cercò Oscar con gli occhi. Marguerite era accanto a lei, malinconica gli parve e gli si strinse il cuore.

... ragazzi che combinate?


 

Madame Marguerite sorseggiò piano la limonata che le aveva dato il suo giovane gentiluomo - peccato fosse troppo presto per qualcosa di un pochino più forte. Troppo presto per una donna, s'intende: Augustin e Henri di sicuro si sarebbero procurati qualcosa da bere tra loro.

Si avvicinò ad Oscar e le sorrise pacata, “Va tutto bene? Un po’ di timore per l’esibizione?” Non disse tesoro, anche se avrebbe voluto.

La bambina spalancò gli occhi stupita, “Mi sono preparata, come mio dovere, Madre.”

Madame Marguerite sospirò: una risposta degna di Augustin.

Lei non voleva vedere sua figlia debole per poterla amare, non era così e non lo era mai stato: quando era nata l’aveva tanto desiderata forte e sicura. Diversa da lei.
Oscar, da quando aveva saputo di averla dentro di sé, era stata il suo appiglio per rimettere i suoi pensieri in carreggiata: uno alla volta, con tanta pazienza, aveva slegato ogni nodo e riannodato ogni filo che le si era spezzato. Uno alla volta. Per lei e con lei.
Aveva salutato il bambino che stava sempre con lei, i due bambini, per farle spazio dentro il suo cuore, un cuore integro - Dio cosa aveva fatto, quanto aveva dato per scontato... non aveva mai chiesto di Sigyn perché lei era certa… lei aveva creduto...

Si riscosse, non era il momento per questi pensieri. Aveva imparato che con i pensieri ci vuole disciplina, più che con le azioni, o, come la marea in Normandia, ti posso tagliare fuori dalla riva, trasformati in un'isola più a lungo di quanto sia sano.

Ma, disse fiera dentro di sé, forte non era duro. E duro non era per forza forte.

D'impulso baciò Oscar su una guancia. Spero che tu sia forte bambina, forte come una rosa.




Mentre il Generale andava verso il suo studio a passo di carica, ricordò quel giorno in cui aveva visto Marguerite che parlava accanto a Jean-Claude, tutti loro così giovani. Chissà cosa avevano mai da dirsi quei due… - nel pensarlo gli si strinse il cuore - lui con quel laccio di cuoio nei capelli – un selvaggio – lei perfetta, come non ne aveva mai visto un’altra in tutta la sua vita – nemmeno dopo.

Un delicato cristallo, con quei capelli così biondi che, sotto la luce delle candele, sembravano di oro cesellato e annodato in mille volute da un artigiano paziente, con un’arte nelle sue dita che nemmeno un dio in mille anni.

Una giovinetta serena che non aveva mai visto il mondo – avrebbe tanto voluto narraglielo lui, il mondo, ma solo le parti più belle, le più delicate.

Un fiore di serra da proteggere, pensò con amarezza, aveva promesso, dentro di sé, di vederla sorridere sempre, quieta e fiduciosa, al sicuro nella sua casa.

Di non doverne contare le lacrime.

Mai.

Marguerite era cresciuta in una casa in cui onoravano l'usanza del vischio, e lui s’era chiesto, oh se se l’era chiesto, se per caso una volta, in tutti quegli anni da quando era bambina, le era successo di pensare che forse... se avesse visto per caso degli occhi che l’avevano guardata in un modo e fatta sentire... diversa.

Lei era così obbediente, quando l’aveva conosciuta: non avrebbe mai disfatto una tela intessuta per lei con amore, fedele alla sua famiglia, dolce, fiduciosa, certa della saggezza e dell’affetto di chi la circondava, no lei non lo avrebbe mai fatto un gesto così inaudito. Era le dea della fedeltà e della fiducia.

Mai, mai avrebbe fatto uno sciocco colpo di testa!

Ma pensato? Lo aveva pensato?

Lo tormentava l’idea che lei un giorno, magari un giorno amaro – e ce ne erano stati di giorni così – avesse pensato, distrattamente s'intende, un’idea tra le tante, che se un altro l’avesse voluta, forse la sua vita sarebbe stata diversa.

Ma diversa come?

 

Forse non sarebbe stata a Versailles – ma sapeva che le piaceva. E lei era perfetta, la perla perfetta al centro del mondo: la Francia. E nel centro del centro del mondo: Versailles. Null’altro luogo le se addiceva.

Aveva gusti raffinati, dove altro avrebbe potuto trovare tutta quella bellezza? Pittori, architetti, gioiellieri, musicisti, cantanti, scrittori, tutti convergevano lì, mostrando le loro cose, come mercanti vicino alla chiesa. Non sarebbe stata felice in qualche villaggio, avendo come unico svago, le chiacchiere di qualche curato.

Forse non sarebbe stata in un Palazzo come quello - ma era perfetto per lei, le aveva lasciato scegliere ogni cosa come la voleva, quelle balaustre leggere in ferro battuto... il Salone della Musica, così austero e lieve al contempo - Marguerite aveva un gusto impeccabile - e dove altro avrebbe avuto le sue rose? Lei era un gioiello dentro un gioiello. Non sarebbe stata felice in qualche palazzo senza luce, stretto tra le rumorose vie parigine.

Forse ci sarebbero stati più figli maschi – strinse i pugni infastidito – no, questo non lo credeva, povera Marguerite, il suo solo difetto. No quello, con un altro uomo non sarebbe cambiato, purtroppo... ma li aveva desiderati davvero o li aveva desiderati solo per lui? Rabbrividì. No! Che sciocchezze andava pensando! Il desiderio era stato comune! Comune!

E poi, con un altro uomo, non avrebbe mai avuto Oscar – e a quello Marguerite non avrebbe mai rinunciato, l’adorava, l’adoravano in due: il gioiello più bello - il solo, in un certo senso - la gioia ed il vanto di casa Jarjayes, il figlio che gli somigliava nei modi e nei gusti, nel modo di pensare, nei gesti! l’erede tanto atteso a cui insegnare tutto ciò che sapeva fino a farne un soldato molto migliore di quanto lui era mai stato! A cui consegnare tutto ciò che sapeva perché ne facesse buon uso e vivesse con pienezza la vita!

No Marguerite non avrebbe mai potuto immaginare un mondo senza Oscar – amava i suoi figli, lui lo sapeva, nessun futuro poteva essere migliore se non contemplava i suoi figli. Quel figlio.

Forse sarebbe stata amata di più – ma tutti i matrimoni hanno i loro alti e bassi, in un contesto realistico “quello”, che qualcuno potesse amarla di più, non era possibile. Certo, chi non l’avrebbe amata? Marguerite era nata per essere amata. Tutti l’avrebbero amata. Tutti.

Ma non quanto lui.

Forse amata in modo diverso.

Ma non più di lui, quello mai.

Ma lei, lo sapeva? Questo lei lo sapeva?






Note finali: con questo finisce l'autocannibalizzazione / riscrittura del pregresso.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Un bacio che forse andava dato ***


Un bacio che forse andava dato

“Se fosse morta avremmo dovuto occultarne il cadavere,” concesse Alo, con voce controllata, diretto a Victor Clément, “una faticaccia” e attirò la ragazzina tra sé e suo fratello, afferrandola per una spalla, senza molto garbo.

Lei arrossì - morta? avevano pensato quello? quei due avevano pensato che lei... e non avevano detto nulla? Niente scene di panico? Niente darsi la colpa a vicenda? Niente chiedersi cosa avrebbero detto i grandi, salvo poi correre a cercarli perché risolvessero l’irrisolvibile?

Guardò intimidita Maxence, e gli sfiorò il gomito con la punta delle dita - con Oscar e André è successo di peggio, sai? gli avrebbe voluto dire, ma Oscar e André erano solo bambini, lo intuì, Maxence no. Maxence ormai era cresciuto, non gli importava niente della punizione, lui si sentiva responsabile.

Si sorprese: quello era un pensiero da grande, e lei ancora non lo era!

Di colpo si spiacque di non averlo abbracciato anche lei, prima: quando la aveva tenuta stretta nel mantello, prima, non la stava trattando come una bambina spaventata, era stata… un’altra cosa. Tutta un’altra cosa. Quasi amicizia. Quasi affetto. Quasi come con Horthense... E lei non aveva capito proprio niente!

“A me è piaciuto e tanto” ripeté ostinata, senza guardarlo in faccia, e gli toccò l’avambraccio, timida, con la manina - che scocciatura non essere abbastanza grande e non sapere i gesti giusti da fare. E le parole.
Horthense avrebbe saputo, forse. Josée no, era troppo… troppo so-tutto-io, ma Horthense, quando non era imperiosa, le persone ce le aveva a cuore.

Era vero comunque, che le era piaciuto, non era una cosa di quelle che si dicono per cortesia! Le era piaciuto eccome!
Tranne quando non si era stretta abbastanza - in quel momento era stato panico puro. Come una frustata, ma di paura.
Ricordarsi le lezioni del Nonno Antoine sulle cadute... puro istinto! Aveva fatto bene il Nonno, a farla provare e riprovare sulla sabbia fina della spiaggia - lui, che non si fidava che lei cavalcasse all'amazzone in Normandia.
Glielo avrebbe raccontato - ma a voce, con calma, nello Studio, accoccolata nella poltrona à dome... per lettera no, si sarebbe preoccupato.

Beh, era andata! Inutile rimuginarci sopra.
Non l’avrebbe rifatto mai più - non in quel modo, in un altro... forse... uno più sicuro... ma ci doveva pensare. Comunque a lei, era piaciuto, s’era sentita onda di mare e l’onda, alla fine, si abbatte sullo scoglio, esplode in spuma e poi si ricompone.
Lei, dentro, era esplosa. E non lo avrebbe mai dimenticato.

Maxence brusco, quasi sgarbato, le tolse dai capelli i fiocchi della neve impastati di cipria e Sigyn starnutì.

“E’ ora di tornare.” La voce di Victor Clément non lasciava dubbi: era irritato. In una scala da uno a dieci, era irritato almeno da otto e mezzo, otto e tre quarti.
Imbarazzati, montarono tutti e tre sullo slittino, senza fiatare.

La bambina si ritrovò abbracciata ad Alo che, con un mano le teneva i polsi, mentre Maxence la stringeva, schiacciata sulla schiena di suo fratello “Così non ti capita nulla” si scusò, mentre lei si agitava per stare più comoda - non dico tanto, almeno respirare... dato che non gli era riuscito di farla morire per una caduta, tentavano, per caso, di farla morire soffocata? Ma fu una battuta che si tenne per sé - era una cosa da petulante, lo capiva da sola.

Victor fece fare una brusca accelerata al cavallo e poi lo fermò di colpo rilasciando un tratto di corda che teneva avvolta tra mano e gomito: lo slittino balzò in avanti e poi scivolò all’indietro per un tratto, per poi fermarsi bruscamente - in tre strillarono sorpresi.
Lui li guardò critico. “Bene, vedo che vi state reggendo tutti e tre e tra di voi. Un netto miglioramento.

“Certo che sei un bastardo!” disse Alo, seccato.

“Ti piacerebbe,” ripose Victor, gelido, “ma sono un Girodelle. Tanto quanto te.” Sigyn senti, affondata nei suoi capelli, la risatina di Maxence e quasi scappò da ridere anche a lei.

Il ragazzo li riportò al trotto fino alle cucine; filavano che era una meraviglia - Clément, a quanto pare, sapeva quel che faceva: teneva una andatura senza sbalzi, e a lei sembrava di galleggiare sulla neve farinosa, come su un’onda, con gli spruzzi sullo scafo, solo che non era scafo e non era mare. Le piccole irregolarità ogni tanto li facevano tuffare.
Le sarebbe piaciuto alzarsi in piedi, per sentire il vento sul viso, ma non osava: Alo le teneva i polsi fermi, come in una morsa - non le faceva male, ma muoversi era impossibile.

I ragazzi inclinavano il peso piano, in sincronia, e lei si ritrovò a fare altrettanto, come al mare, per comporre tante piccole esse: erano più stabili così, che a filare dritti (un po' come a pattinare, pensò, Cassandra aveva uno stagno vicino a casa, forse...).
Lei andava in barca col Nonno, con lo zio Jean-Claude, che preferiva pagaiare come un indiano, e con lo zio Antoine-Benoit. Con lui era stata fino a Sercq, l’isola dove la castellana poteva essere una donna, la Dame de Sercq - doveva raccontarlo ad Oscar, doveva! - come Susanne Le Pelley, che il Nonno aveva conosciuto. La Dame, per tre anni, aveva tenuto in pugno i quaranta domini! Solo per tre anni, perché poi era morta... altrimenti... non avrebbe mollato mai.
E il comando se l'era preso lei, tutto da sola - e gli altri... tutti zitti! E mai (mai!) aveva finto di essere quello che non era. Mai!
Tutti la chiamavano La Dame... non Le Seigneur.

Oscar questo lo doveva sapere... ma lei non veniva mai in gita con loro - una da terra e fango, una da prato! Scosse la testa, ma piano - poi Maxence si sarebbe preoccupato.

Le sarebbe piaciuto, la prossima volta proporre a quei tre una gita: Oscar e André erano tipi da bocage - cavalli, fango, stalle e, per André, mele - non capivano niente dell’estran, quei due! A loro piaceva cavalcare lungo la spiaggia larga, con l’alta marea, quella senza ciottoli. Sentire il vento e la velocità, con gli zoccoli dei cavalli ben piantati nella sabbia quasi dura.
Non gli piaceva passeggiare con calma vicino alle rocce scivolose per le alghe, dove l'estran brulicava di vita. O guardare le oche selvatiche che svernavano da dicembre a marzo.
Quei due facevano rumore!

Ma questi altri tre… lei li aveva visti i figli di Monsieur Henri, attraccare al pontile della casa in Normandia, di sera, insieme al Vecchio, il Girodelle Nero, vestito come un pirata - rabbrividì al pensiero; quello era un segreto, segreto del Nonno! Lo accompagnavano a turno, forse, e lei li aveva osservati, non vista, ogni volta, appollaiata sotto il pontile, come un topolino, trattenendo il fiato, mentre il passo del Vecchio faceva tremare le assi - e non solo quelle.
Non oscillavano indecisi sul bordo dello scafo, non sapendo bene che fare... Quelli erano un po' come lei, che non stavano in un posto solo. Gente di terra e gente di acqua e sale.
La prossima volta, decise, avrebbe salutato. Avrebbe camminato sul pontile accanto al Nonno, come la Dame de Sercq, che non aveva paura di nulla e di nessuno.

Si riscosse: Clément li aveva fatti arrestare dolcemente, davanti alla porta della cucina piccola.
I due ragazzi la sollevarono per le ascelle, per non farle entrare la neve negli stivali ancora slacciati, e la depositarono sulla soglia. Appena toccò terra, sentì l’urlo sorpreso di Alo e la risata dell’altro - si voltò: Clément sogghignava, mentre i due si toglievano la neve dal collo, brontolando. Come Maxence si voltò verso il fratello per protestare, una terza palla di neve lo centrò dritto in faccia.

Sigyn guardò Clément stupita... e così il fratello gentile di Cassandra, quello che le ascoltava sempre cicalare senza prenderle (troppo) in giro, s’era tenuto tre palle di neve (tre!) per tutto il tragitto, aspettando solo il momento giusto.
Che fetente! pensò.
Ma lo pensò con ammirazione.

“Con questo direi che la questione fuga ed assolo è chiusa...” disse il ragazzo, gelido, inarcando un sopracciglio. “Del resto se ne parla a casa, tra di noi.”

Lei però non l’aveva colpita, pensò. Perché era piccola?

“Non pensavo ci tenessi tanto... all’assolo....” disse Maxence, ripulendosi la faccia.

Gli piaceva Oscar, per caso? e da quando? Forse a sua sorella essere trattata da femmina avrebbe fatto bene - André non ci provava nemmeno, seguiva l'onda... e poi l'adorava, figuriamoci se la contraddiceva su una cosa così... enorme!

“E’ un appassionato di musica” disse Alo alla bambina, sospingendola, “pignolo all’eccesso. Per lui da teatro andrebbero scacciati tutti quelli che giocano a carte e fanno rumore!”

Entrarono ridendo, scuotendo la neve dai mantelli e dagli stivali.

Alo le aprì gli sportelli di una madia e si inchinò cerimonioso - quello sarebbe stato il suo spogliatoio a quanto pare. La bambina sollevò le spalle - era stracerta che nessuno dei tre l’avrebbe guardata cambiarsi - e comunque la cosa non l’avrebbe imbarazzata affatto.
Forse.

Sulla tavola, accanto alla brocca con i pungitopo e gli agrifogli, in un piatto di ceramica, troneggiavano i suoi beignet de gelée de grosseilles senza marmellata di grosseilles - il ribes sarebbe stato rosso e succoso a luglio, per quando Oscar sarebbe stata con lei in Normandia, li avrebbero colti insieme, sua sorella ne andava matta.

Stupita aggrottò le sopracciglia “Ma come…”

Clément entrò portando dentro un orcio di birra,”Sono passato di qui, prima, e ho visto cosa avevi preparato… Non c’era il tempo per farti friggere e farti anche rivestire, ho chiesto alle ragazze di là, nella cucina grande, se potevano...”

Maxence lo interruppe con un fischio ammirato “E così sei cresciuto… sembra ieri che ti si buttava a terra con uno spintone e restavi lì in lacrime… senza sapere che fare!”

“Voi due, invece, siete rimasti le solite bestie...” Victor Clément allungò ai fratelli dei bicchieri di stagno.

Sigyn trattenne il fiato: non stavano litigando sul serio! Sentì che Alo aveva preso i piatti, l’acciottolio sul tavolo, il rumore delle sedie scostate.

“Hai dato qualcosa alle ragazze? Per il disturbo, intendo… sono molto occupate! Hanno un lavoro da fare, e non possono perdere tempo appresso a te e a delle frittelle!”

“Si, certo, come dici sempre tu, se è un favore e non il pattuito ci deve essere scambio equo...”

“Questo lo dice anche l’Asciutta” si intromise la bambina, da dietro lo sportello, mentre si allacciava in fretta la gonna trapuntata, contorcendosi.

“Tu pensa a vestirti!” la rimbeccò Alo, “non a fare conversazione!”

Senti la voce di Maxence che diceva “E bravo che hai messo la birra in fresco nella neve…”

“Di là c’era la limonata… se preferite... andatevene.” Il tono era neutro, ma si capiva che non avrebbe obiettato se fossero spariti all'istante.

“Meglio la birra…”

“Non per lei…” sentì che la voce gelida di Clément le si stava avvicinando. "Ma lei è comunque meglio se non la vedono, se non dopo l'assolo, con calma..." Il ragazzo le allungò, da dietro lo sportello aperto, senza guardarla, un involto.
La ragazzina lo prese incerta e lo osservò sospettosa: era un fazzoletto bianco ripiegato più volte ed annodato. Clément non annusava tabacco, non gli servivano rossi e marroni per nascondere le macchie - così bianco ed elegante... di sicuro era suo. Lo annusò: si, quello era il profumo di Clément, garofano, gelsomino, cedro e noce moscata, ma cosa c’era dentro?

“Per la fronte” le disse spazientito, allontanandosi.

Oh! pensò con un sorriso, neve compressa…

Timida, qualche istante dopo, sbucò fuori dallo spogliatoio improvvisato, la mano mano che teneva quel fazzoletto con la neve ben premuto sulla fronte, non sapendo bene a chi dei tre rivolgersi - Clément era escluso: era arrabbiato, anche se non lo diceva - poi, guardando a terra, mormorò “Il corpetto… il nodo…” le guance le diventarono scarlatte.

Alo alzò gli occhi al cielo “Le scarpine, quelle te le sai mettere da sola?”

“Ma certo!”

Maxence la sollevò e la fece sedere sul tavolo, poi strinse il nodo con pazienza “Sei come Cassandra, un po’ lenta su queste cose, non va bene, sai?” lei arrossì.

Clément la chiamò agitando una delle sue brocche, quella cinese, verde, che le aveva mandato lo zio Antoine-Benoit - Sigyn arricciò il naso: provasse a romperla o anche solo a scheggiarla...

“Dobbiamo sistemare quei capelli e in fretta!”

Maxence ed Alo annuirono “Non è solo cipria vero?”

“La moda impone anche un po’ di grasso... “ disse Clément severo, “per la tenuta.”
I due ragazzi fecero una smorfia disgustata. La bambina si sentì piccola piccola “E’ la moda…” pigolò.
Alo sogghignò "Burro e farina, quindi, pronta per essere fritta... beignets de Sigyn... ma sei abbastanza dolce?"

Maxence scosse la testa, ma non disse nulla - non era solo la moda e lo sapeva, ma non erano fatti suoi. Poi chiese con aria indifferente “Ma questa Sigyn, la dea della costanza… i capelli di che colore ce li aveva?”

“Castani...” sussurrò la ragazzina, perplessa.

Alo sogghignò “Pensavo biondi, un colore di moda.”

Victor la prese per mano e la portò vicino ad una vasca “Avevo messo l’acqua a scaldare vicino al caminetto, con dentro delle scaglie di sapone.”

La ragazzina lo guardò sospettosa - non poteva sapere delle neve impastata nei capelli! non quando aveva preparato l'acqua! o aveva immaginato? previsto? - ma lo lasciò fare.

“Non ci sono divinità con i capelli rossi?” chiese Alo.

“Ce ne è una,” la ragazzina arrossì e trattenne il fiato come se si fosse pentita di essersi lasciata sfuggire quella frase. Victor intanto mescolava acqua calda e fredda in una brocca, saggiando con il dito la temperatura.

“Quale, sentiamo?”

“Loki...” mormorò in un soffio.

“Oh e non sei contenta? hai le chiome rosse come quelle di Loki, che poi cosa sarebbe? La dea delle frittelle?”

“E’ un maschio” disse la ragazzina piccata.

“Non proprio...” intervenne quieto Victor, facendola sedere e facendole piegare il capo all’indietro, “è moscone, è cavallo, è quello che vuole... anche una donna se crede.”

“Interessante questo dio, ma preferire non dividerci la tenda insieme!“ disse Alo. Maxence lo colpì nel fianco con una gomitata.


Sigyn arrossì imbarazzata. Loki non era proprio interessante, ma loro cosa ne sapevano?

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Tutti vogliono cose complicate, io solo darti un bacio sulla guancia ***


Tutti vogliono cose complicate, io solo darti un bacio sulla guancia


Come il giovane Girodelle ebbe lasciato la stanza dei rinfreschi, come un novello Cavaliere alla ricerca del Graal, che poi sarebbero stati i suoi fratelli - bel Graal davvero! - e la Numero Cinque - un Graal piccolino, più un elegante bicchierino da liquore da meditazione (ma con lo stelo minuscolo) che un austero calice da vino dell'Ultima Cena, e come vide sua madre finire di parlare con Oscar, Horthense, un incanto in blu, marciò dritta verso Madame Marguerite.

La ragazza indossava un abito semplicissimo, blu scuro, ed un fichu trasparente, negligentemente - sapientemente - appoggiato sulle spalle, che non copriva affatto, con la dovuta modestia, la scollatura.

Anche vestita da giorno e da casa, come chi sa che non sta aspettando visite - e lo ostenta - ogni dettaglio e ogni pezzo di tessuto congiurava a dire a tutto il mondo chi era lei, da dove veniva e - forse - dove stava andando.
Beh forse "mondo" era un po' esagerato, diciamo la sua famiglia e chiunque fosse passato di lì per caso, o, ammettiamolo, sperando di poterle dare una sbirciatina, che chi diavolo mai passa in visita "per caso" in un palazzo nobiliare fuori di Parigi e circondato da un parco?

Madame Marguerite la esaminò scrupolosa - era suo dovere proteggerne la reputazione, era così giovane e un passo falso poteva costarle molto! - ma Horthense, in quello, non seguiva la moda: non era mai scollata in modo esagerato, giusto quel tanto da intrigare lo sguardo.
Aveva la pelle bianca come l’interno di una conchiglia, delicata, quasi traslucida, rosata appena appena sulle guance, il giusto colore della bonne mine, mentre la trama delle vene era invisibile sotto la pelle, ma, sul polso, improvvisamente, appariva azzurrina, sbucando da sotto il braccialetto di perle. Non aveva bisogno di mostrare per attirare lo sguardo, e lo sapeva.

Il fichu andava bene, decise Madame Marguerite, era di moda e non era impudico.  

Il ricamo era delicato; Madame Marguerite sapeva che aveva partecipato, entusiasta, anche la Numero Cinque: aveva avuto l’idea di usare dei fili metallici color argento, per piccoli ricami sparsi, minuscoli, non a punto pieno, come sulla stoffa di un giustacuore, ma a punto lungo e corto, sfumando con filo bianco e filo leggermente azzurrato.
Lo stesso lavoro era stato fatto sulle impalpabili engageantes.

Il risultato era degno di una fata. E di una fatina.

“Vorrei parlarVi, Madre.”

Madame Marguerite annuì.

Non avrebbe dovuto saperne proprio nulla, ma, sul bordo del fichu, ricamata in filo d’argento, in caratteri piccoli c’era una frase - un segreto tra Horthense e Sigyn, che era trapelato dai loro bisbigli - cammino orgogliosa per la mia strada.

Una frase di qualche poetessa oscura, di quelle che piacevano ad Antoine-Benoit, sospettò. Suo cognato era distratto e di sicuro aveva lasciato il libro in giro, non curandosi di chi lo potesse leggere e se era adatto a una dell'età della piccola - Augustin avrebbe subito chiesto quale strada? Quella che poi porta alla perdizione o ad un convento? Per lui le donne avrebbero dovuto "camminare per delle strade", solo dopo aver ricevuto istruzioni dettagliate, forse anche una mappa, e stilando un rapporto mensile dettagliato!

Una poetessa spagnola le era parso di capire - aveva sentito Sigyn chiedere ad Horthense se preferiva la frase: sigo orgullosa mi camino.  

“Dimmi cara...”  chiese paziente. Il tono di Horthense era deferente, ma Madame Marguerite non si fece ingannare: quando Horthense voleva qualcosa… non solo camminava orgogliosa per la sua strada, ma ci trascinava, recalcitranti, pure gli altri.  

Tra tutte le sue figlie, quella, forse, era la più bella. Mettendole a confronto oggi, per lo meno.
Con quelle vene azzurrine le ricordava una creatura mitica delle terre di ghiaccio e neve, una di quelle di cui le aveva parlato Jean-Claude quando era lei la ragazza: una Jotun, una del popolo dei giganti del ghiaccio, sempre in lotta con gli Aesir di Asgard. Gli Jotun, il popolo di Loki...
Una che guidava una slitta trainata da lupi bianchi.

Le sarebbe piaciuto farle dipingere una miniatura così, che catturasse quella piega volitiva della bocca, e che la immaginasse immersa in paesaggio di ghiaccio, a tratti opaco e a tratti trasparente, dai riflessi blu. Il pittore si sarebbe divertito - e anche lei.

“La piccola,” disse Horthense andando dritta al punto, le mani incrociate con grazia, “vorrei che venisse a stare con me.”

E che dire del biondo dei capelli? così chiaro, il più chiaro tra tutte - piccole variazioni rispetto ai colori dei Jarjayes, non era vero che le ragazze erano tutte uguali!
Quella sfumatura di biondo era quella più vicina alla sua, pensò, per un attimo, orgogliosa.  

“Con te?” chiese svagata - Intorno al collo la ragazza portava un nastro dello stesso tono del vestito, con una acquamarina come pendente.
Faceva colpo. Ghiaccio Blu.

Era contenta di aver commissionato le miniature delle ragazze: ne aveva una per ogni anno della loro vita - tranne che per una. Sospirò.

“Quando sarà il momento, intendo.”

“Quale momento?” per Horthense ne voleva una con lei vestita come oggi, la sua Horthense, la Perfetta. Ed un’altra come dea guerriera nel ghiaccio azzurro. Dea non per la gloria o per l’onore, ma per se stessa, che camminava orgogliosa per la sua strada.

“Non siamo eterni…” disse Horthense, come un dato di fatto.

“Ma stai parlando della mia morte?” chiese divertita - ma cosa voleva, benedetta ragazza? Di solito una figlia femmina chiede che la madre le riservi un gioiello nel testamento… invece della collana di perle a sette giri, Horthense, cosa le stava chiedendo? Sigyn? Ma chissà Sigyn dove sarebbe stata...

“No madre, della morte del Nonno Reynier - è anziano. O volete lasciarla con lo zio Jean-Claude? Che vada in qualche missione in qualche terra sperduta?”

“In questa casa c’è molto posto...” rispose Madame Marguerite con una punta di ironia, reprimendo un sorriso. La sua dea azzurrina non era certo la Dea del Tatto!

“Con la soluzione che sto prospettando, può imparare a gestire una casa.” Horthense non demordeva.  

“Se mai accadrà, tua sorella Sigyn Margot tornerà a casa sua per tutto l’anno...” replicò diplomaticamente Madame Marguerite, che non voleva irritarsi.

Disse “se” e non “quando”, e non aggiunse “finalmente” perché non sarebbe stato generoso verso suo suocero.

E non sottolineò che il Nonno Reynier stava già addestrando la piccola senza che lei se ne rendesse nemmeno conto: la bambina aveva una copia di tutte le chiavi della casa in Normandia - il Generale avrebbe storto il naso… educazione campagnarde, ma lei lo capiva. Vedeva tante dame a Versailles che non sapevano che cosa fare del loro tempo. Donne che non avevano idea del valore delle cose, figuriamoci di quello delle persone... I conventi, nell'educarle, si concentravano troppo su Dio.
E poi suo suocero aveva ceduto tutto quanto era "Jarjayes" ad Augustin, mentre lui era ancora in vita, perché vivesse la vita per cui era stato educato. Non gli era mai servito - aveva detto.
Augustin non sapeva nulla dell'obbedire, del dipendere da un altro uomo per le piccole spese, del far bastare una piccola rendita... era stato reso padrone di se stesso, e di tanto, in un'età in cui spesso non lo si era.

Soprattutto, Madame Marguerite si trattenne, con un certo sforzo, va detto, dal chiedere cosa diavolo sapesse mai Horthense della gestione di una casa, visto che glielo stava insegnando proprio lei…
Si trattenne solo perché la ragazza si impegnava moltissimo: non era una stupida e sua figlia aveva capito di dover lavorare sulla diplomazia - gestire una casa delle dimensioni di quelle dei Jarjayes non richiedeva solo polso fermo: ci voleva anche un forte senso etico perché si era per forza chiamati a prendere decisioni che avevano conseguenze su delle persone - esseri umani.
Soprattutto era necessaria una forte inclinazione per le soluzioni diplomatiche. In un esercito si spara ai disertori… Augustin non capiva che non si poteva sparare alle ragazze delle cucine se la cena non era puntuale al secondo… e nemmeno metterle ai ferri. Sorrise.

No, Horthense non avrebbe mai lasciato che altri gestissero a gusto loro la sua casa al posto suo… avrebbe imparato anche la diplomazia, se serviva a farla camminare orgogliosa per la sua strada.  

“Starebbe benissimo con me. E anche più a suo agio: è abituata ad una certa indipendenza.” la ragazza in blu proseguì, con voce cortese.

“Ci penseremo quando ti sarai sposata...“ tagliò corto in tono leggero Madame Marguerite, nascondendo l’irritazione - ma cosa ne voleva sapere Ghiaccio Blu di dove stava a suo agio Sigyn Margot?

Di colpo si ricordò di una cosa di tanto tempo prima, di una bambina che aveva chiesto udienza per discutere di certi mostri... E la scacciò subito dalla mente.




Oscar, intanto, era irritata: “A lei piace andarsene a giocare con quei Girodelle, va sempre a casa loro. E’ la migliore amica della loro femmina… una smorfiosa!”

André trovava simpatica Cassandra, a dire il vero, anche molto carina, ma, saggiamente, tenne la cosa per sé.

“Gli sta sempre intorno, perché vuole essere coccolata! Non riesce a capire che deve avere un atteggiamento più forte! Meno debolezze da femmina! Dovrebbe essere più… virile!”

André alzò gli occhi al Cielo, ma poi mormorò cortese “Hai ragione. Dovrebbe prendere te come modello… anche se è più grande...”

“Forse giocano insieme con le bambole...” disse Oscar con aria perplessa, come se stesse parlando di una tribù di un altro continente che si tatuava delle stelline sugli zigomi… strane usanze, narrate da qualche viaggiatore temerario, di gente selvaggia.

“E’ possibile.” convenne André.

“Ha detto che vuole andarsene in Spagna! A fare cosa?" disse Oscar, irritata, "ma poi ce la vedi tu in Spagna?” la bambina scosse la testa con aria molto seria.

“Non saprei… parla spagnolo?” chiese il ragazzo in tono misurato. Avrebbe voluto accarezzarle i capelli, ma non la sfiorava mai quando stavano con tutta la famiglia riunita - gli era molto chiaro che, fuori dal loro mondo, finite le loro lezioni, e usciti dal Salottino dei Bambini, erano su due piani diversi, anche se poi, a volte, la sera si ritrovavano a dormire insieme, in un incastro perfetto. E poi, la peste, non amava le smancerie.

“Lo sta studiando! Di nascosto! Ma a cosa le serve? Cosa pensa di fare in Spagna? Non riesce nemmeno a comportarsi bene qui! A casa sua! Ti immagini cosa combinerebbe in Spagna? E poi cosa potrebbe fare lì tutto il giorno? No, la Spagna… non le piacerebbe affatto!”

“Non so…” le sorrise indulgente, porgendole il bicchiere di limonata che era andato a prenderle appena aveva finito di suonare “magari potrebbe partecipare alla vita mondana di Madrid?” ce la vedeva Sigyn a qualche ballo, le piaceva il fandango - s’erano esercitati insieme tante volte, finivano sempre le loro prove ridendo: per lo scambio del compagno non avevano nessuno e finivano per girare intorno alle sedie ed impicciarsi.

Probabilmente si sarebbe imbucata in qualche ballo in campagna per saltellare tutta allegra.

E poi le piaceva suonare la chitarra spagnola, la vilhuela, o tamburelli… a Madrid si sarebbe divertita. Poco ma sicuro.
Ma i dettagli, sempre molto saggiamente, continuò a tenerli tutti per sé: aveva il sentore che Oscar che non avrebbe gradito questa immagine di Sigyn che canticchiava zarzuelas magari sgranocchiando un biscotto, tutta dimentica della Famiglia Jarjayes.

“Ma cosa dici?” quasi esplose, severa, Oscar, aggrottando le sopracciglia esasperata “ma qualche volta pensi prima di parlare? Lei deve stare qui, abbiamo tante cose da fare, so ben io! Altro che Spagna!”

Di colpo guardò André irritata “Ma perché non l’hai fermata? La afferravi e la rimettevi a sedere, senza tante storie! Seduta! Zitta e muta!”

“Stavo gustando la musica e non mi sono accorto di nulla...” era vero. Non aveva staccato gli occhi da Oscar una sola volta. Gli sarebbe piaciuto portarla sotto il vischio e darle un abbraccio scherzoso - se lo meritava, aveva studiato tanto... la solita perfezionista! Anche un bacio sulla guancia… da buoni amici si intende.

“E poi perché sta andando a cercarla quel tipo? Ma chi è? Ma cosa vuole? Perché si immischia in cose che non lo riguardano? Non mi piace per niente!” diede un colpetto al braccio di André con l’indice, inquisitiva “Ma non potevi offrirti tu di andare?”

“Lui è più grande, e poi, se, come dici tu, si è allontanata coi suoi fratelli, è meglio se ci pensa lui…” obiettò in tono giudizioso. Non era così sicuro che i fratelli Girodelle gli avrebbero obbedito, se si fosse presentato lì ad interrompere qualunque cosa stessero facendo. Non gli erano sembrati dei tipi concilianti… sembravano, piuttosto, due giovani lupi, tutti neri, con gli occhi che brillavano... uno poi, il più freddo (un eufemismo), aveva gli occhi da spettro!
No, non ci teneva affatto.. avrebbero ringhiato e, se gli andava bene, si sarebbero fatti due risate alle sue spalle. Altrimenti... capacissimi di tirargli un pugno in faccia e poi voltargli la schiena senza dargli retta.
Avevano un fratello? Che se ne occupasse lui!
Che diavolo ci trovava Sigyn, poi? Di sicuro l’avevano trattata come uno sgradevole impiccio per tutto il tempo! Seguire quei due… che idea!

Porse ad Oscar un piattino con della frutta a pezzi “Mangia un pochino! e rilassati un attimo… come tornerà ti chiederà scusa...”- le parlerò io, pensò, La farò ragionare, e si scuserà! Converrà anche lei che non doveva allontanarsi così, non mentre Oscar stava suonando… ma, mentre lo pensava, non si sentiva tanto tranquillo a riguardo: Sigyn, quando si impuntava, era pure peggio della sua peste.




In cucina, Victor Clément de Girodelle, gelido come il ghiaccio dei suoi occhi, parlò, severo, diretto alla ragazzina:”C’è chi ha lavorato sodo per questa esibizione e mi sembra davvero meschino non partecipare solo perché tu non hai voluto lavorare altrettanto seriamente.”

La ragazzina non disse nulla. Non era proprio così, pensò allibita, ma le mancava il fiato per parlare - un po' era la posizione, lì, appoggiata di schiena al vascone, con Clément che le versava l'acqua sui capelli, un po' quelle parole!
Le parole di Clément erano peggio, mille volte peggio della caduta dallo slittino.

Alo tacque anche lui e pure Maxence. I due contrassero le mani, ma non dissero nulla nemmeno loro.






Note: più chiacchiere che note vere e proprie. La poetessa spagnola era andalusa e nata nel 1001, ma non scriveva in castigliano, ovviamente, ma in arabo. Wallada de la Omeya (bint al-Mustakfi). In un'epoca di suore e sante - che scrivevano - c'erano pure queste poetesse in Europa, anche se in una Europa poco europea.
La Numero Cinque ha letto qualche traduzione perché in spagnolo circolavano e lei lo sta studiando di nascosto - chissà che diavolo ha trovato in giro? In Normandia mi sa che la controllano poco...
Dicono fosse bionda e con gli occhi azzurri (mah!) e che girasse a capo scoperto e con abiti su cui aveva ricamato i suoi versi, tra cui questo, ricamato sulla spalla destra (con i caratteri arabi viene molto più figo), che prosegue dicendo qualcosa tipo "permetto che il mio innamorato mi baci la guancia"... alcuni versi sono erotici e questo la direbbe lunga su Antoine-Benoit, lo zio scapolo, che avrà in qualche modo controbilanciato l'influenza dello zio gesuita (almeno si spera).

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Ce ne vorrà per il bacio della pace ***


Ce ne vorrà per il bacio della pace

Victor aveva aperto i cassetti fino a trovare le tele di lino, quelle coi ricami.
Poi aveva versato piano l’acqua insaponata sui capelli della ragazzina, solo dove serviva, dal beccuccio della teiera cinese, tamponando - se c’era una cosa che lui aveva imparato andando a pesca di merluzzi, era che non serviva una grossa quantità d’acqua per lavarsi, se si aveva una grossa quantità di pazienza.
Il viso del ragazzo era impenetrabile e i modi impeccabili, ma in qualche modo, o per via di qualcosa nei gesti, o per via dello sguardo, la piccola ebbe questa sensazione indefinibile, come una premonizione, che, ad avere tempo, avrebbe riempito i vasconi di acqua gelida e ce l’avrebbe volentieri scaraventata dentro.

Cosa aveva detto? C’è chi ha lavorato sodo per questa esibizione e mi sembra davvero meschino non partecipare solo perché tu non hai voluto lavorare altrettanto seriamente...

Con una sola frase le aveva dato della meschina, dell’invidiosa, dell’insensibile e della pigra. Forse anche della viziata.

Sigyn sentì che il cuore le si faceva piccolo piccolo.
Clément!
Quello che l’aveva aiutata a imparare la declinazioni latine!

Seduti in terra nel loro Salottino Rosso, a Palazzo Girodelle, accanto al candeliere con il Moro veneziano, altissimo, quasi quanto lei, gliele aveva fatte ripetere e provare fino a che non le erano state chiare, quasi scontate. Senza farle pesare nulla; altro che il precettore che la  incalzava di domande scuotendo la testa!
Gli aveva portato in regalo dalla Normandia uno dei suoi gattini, Ciottolo, piccolo, grigio, proprio carino, dentro un cesto.
Ogni volta che era in visita da Cassandra lei passava sempre a salutarlo e ora...

O lasciava che pensasse male di lei, o lei gli doveva dire il suo punto di vista. Lei non era mica quella frignona di Josephine, che faceva leva sulla sua debolezza per farsi sempre compatire! E non era nemmeno come Oscar, che pensava di vivere a Sparta, il Mondo Ideale del Generale! Convinta che fosse suo dovere farsi divorare da un lupo in silenzio. Tranne che, poi, con lei e con André che le volevano bene davvero, allora lì il lupo lo voleva fare lei! La solita prepotente...

Si sollevò impettita, lo guardò negli occhi e replicò tranquilla: “Ma che dici? Io sono arrivata che erano già un pezzo avanti quelle cinque! E mica hanno aumentato le ore di studio per recuperare e inserire me nel loro spettacolo! Lo sapevano benissimo che io sarei arrivata! E sapevano pure la data!” le montò quasi la collera al pensiero di quando era arrivata e aveva scoperto che nessuno le aveva nemmeno scritto per avvisarla! Belle sorelle!
Solo Horthense, che era una signora, aveva sollevato la questione! E Josephine, la solita paraventa… figuriamoci! Tante belle cose su tutto quello che aveva da fare e non si può… e non è capace… e non è nel nostro stile, noi siamo tutte unite nella nostra visione musicale…la dimensione artistica… e la prossima volta forse magari... una artista nel menare il can per l’aia! E allora lei aveva detto no, no grazie! fine della storia!

Si stava davvero irritando, ora che ci ripensava, ma mantenne un tono tranquillo: “E poi io mi sono divertita...mica sono rimasta lì in un angoletto... ho giocato, ricamato, letto, sono andata in visita da Cassandra...  e adesso dovrei piangere perché quelle altre se ne stavano tappate in quel buco a farsi male alle falangi perché sbagliano le note in continuazione!”

Lui la riafferrò deciso e cominciò a sciacquarle i capelli, senza degnarla di uno sguardo.

“E voi non avreste dovuto incoraggiarla.” disse, freddo, rivolto ai suoi fratelli, che si stavano ingozzando di beignets-aux-grosseilles-sans-grosseilles-mais-avec-pommes..

“Non credo tu abbia gli occhi dietro la schiena,” sbottò Sigyn, “non hai visto nulla e non sai nulla di nulla! Non mi ha incoraggiato proprio nessuno!”

“Sei piccola! non credo proprio che tu capisca le conseguenze di quello che fai, altrimenti non saresti qui con un graffio su un sopracciglio e un bozzo sulla fronte. E ringraziamo il Cielo che il graffio sia solo sul sopracciglio.” La voce era veramente gelida, senza un’ombra di simpatia.

“Io corro sulla sabbia e cammino sugli scogli scivolosi, sono agile. Sono rotolata. Non sono caduta come un piombo: sono rotolata!”

Sigyn trattenne il fiato: di Clément si era sempre fidata. Non le poteva fare questo!

“E ringraziamo che sia solo un graffio!” il ragazzo sfiorò con le punta delle dita la crosticina che si stava formando, attento a non bagnarla “non ti resterà una cicatrice, ma te lo saresti meritato!”

“Se lo fanno i tuoi fratelli, lo posso fare anche io! Sono sana quanto loro! Sono sveglia quanto loro! Sono capace di badare a me stessa! E, se vogliamo mettere i punti sulle i, sono nobile quanto loro! Posso entrare esattamente in ogni posto in cui entrano loro e nessuno avrebbe un motivo valido per fermarmi! E poi questo è il mio giardino!”

Maxence e Alo si guardarono  strangolati dalle risate che stavano ricacciando a forza in gola - in ogni posto? in ogni posto… proprio ogni posto… no.

“Si, ma noi sappiamo chi sono i Sette Re di Roma!” disse Alo, cercando di riportare tutto verso lo scherzo..

Clément la mise in piedi, le tese un telo di lino pulito e le indicò brusco il camino.
Sarebbe stato più cortese con un cane di caccia, pensò rattristata la ragazzina.
Poi lui, come ripensandoci, la arrestò e la fissò severo “Ma davvero tu non sai chi sono i sette Re di Roma?”

“Vuole che le arrivi come una sorpresa appena si sentirà pronta per reggere la notizia.” disse Alo. Victor lo fulminò con lo sguardo.

Poi, riprese guardando la piccola, tutta avvilita: “E io poi non capisco, ma cosa ti costava startene quieta ad ascoltare la tua famiglia suonare? Avresti dovuto essere orgogliosa di loro e farglielo sentire, invece di filartela via a fare stupidaggini con questi altri due buffoni, che oramai dovrebbero essere troppo grandi per certe bravate Alla loro età su una slitta!”

“In Svezia le usano le slitte! Tutti i giorni! Grandi e piccoli! Maschi e femmine! In inverno ovviamente! Per non parlare della Russia! Slittano in continuazione! Lo fa anche l’ambasciatore russo! E’ un divertimento e non c’è niente di male!” pigolò disperata Sigyn accoccolata accanto al camino, mentre si asciugava i capelli.

“In Svezia...” disse Victor Clément con il volto impassibile, inarcando un sopracciglio..

Alo intervenne “In effetti è vero… trainate da cani, anche…” poi tacque perché lo sguardo di Clément non sembrava quello di uno con il senso dell’umorismo.

“Monsieur Oscar … c’era parecchia irritazione nell’aria, sia mentre suonava, sia dopo...” la squadrò serio e le toccò i capelli per sentire come andava l’asciugatura

L’irritazione di Oscar? Di Oscar? Allora era vero quello che diceva Maxence! Clément ci teneva ad Oscar! Ma magari se quei due... magari! basta che poi lei non cominciasse con Clément è mio! André è mio! Tutto suo doveva essere! E lei? Non aveva diritto anche lei ad un suo posticino?
“Ma figurati!” disse seria, “La conosco! Se davvero le avesse dato fastidio sarebbe scesa dal palco e avrebbe detto la sua! E il Generale a darle pure ragione! Mi avrebbe fatto sedere davanti a lui, nel caso, per tenermi d’occhio! Ma cosa vuoi che gliene importi a Oscar se io ci sono o non ci sono! Basta che ci sia il Generale! E poi basta chiamarla Monsieur! Basta! E’ femmina! Sennò chiamate Monsieur anche me visto che non capite la differenza! Che il Generale possa essere fuori di… non compos sui… è un suo diritto, ma che gli ospiti lo seguano in queste paz… idee bislacche… in Normandia non succederebbe! Il Nonno non lo permetterebbe.”

“Proprio perché non ti piace quel Monsieur avresti dovuto avere rispetto ed esser presente all’esibizione. Una creatura sensibile costretta a seguire scelte che prima o poi… Tu proprio non capisci, vero? Non riesci proprio a immaginare il futuro? E comunque quando ve ne siete andati  s’è capito che qualcosa non andava: ad un certo punto aveva uno sguardo severo, per un po’ ha perso la concentrazione e si sentiva! Ne ha risentito tutto il pezzo!”

“Ma se non sanno suonare!” la ragazzina trasecolò, Clément era severo sulla musica, lo sapeva molto bene… a teatro era critico, trascinava lei e Cassandra a sentire la musica italiana al Louvre, e poi dei musicisti qua e là per i salotti parigini, ma che stava dicendo? Era impazzito? “Una, Horthense, è proprio brava, le altre si arrangiano! Suonano per il loro piacere, mica per quello degli altri!“

“E quello che mi spiace è che in tutto questo c’è qualcosa di veramente meschino. Avevate litigato, va bene, ma questo non è una giustificazione!”

Non la stava ascoltando! Non la stava ascoltando per niente!

“Ma cosa c’entra adesso un litigio con una corsa su uno slittino? E’ capitata l’occasione e l’ho colta al volo!” cercò di essere serena, ma le costò un grosso sforzo.

“E tua madre era veramente dispiaciuta! Ha dovuto giustificarti con tua sorella Horthense dicendo che forse ti eri stancata, di fare cosa lo sa solo il Cielo. Un eufemismo per la parola annoiata, a me pare!”

Cominciò a legarle i capelli in una treccia semplice - impossibile rifare l’acconciatura originale.


Ero annoiata. Si, ero annoiata. Vedo che anche tu sai usare le parole giuste per definire una situazione!” Le stava venendo da piangere, non era giusto! Non era affatto giusto!

“Quello che è imperdonabile è che se fosse successo con un cantante famoso ingaggiato per una festa, sarebbe stato molto maleducato lo stesso, ma avrei potuto capirlo - se non hai un animo sufficientemente sensibile per la musica, non è colpa tua.”

Adesso stava esagerando!
“Non è che a me non interessa la musica... non mi interessa quella musica! Quando mi hanno portato a sentire il piccolo Mozart dal Principe Conti, mi è piaciuto, se permetti! Ma vogliamo mettere sullo stesso piano Mozart e le sorelle Jarjayes? E poi, è vero, io preferisco la Tarantella di Kircher! Gesuita come lo zio Jean-Claude! Oppure Stefano Landi... Si more cantando, si more sonando la Cetra, o Sampogna, morire bisogna.Si muore danzando,bevendo, mangiando…”

Alo annuì - la piccola aveva ragione, si deve morire, tanto vale godersela e andare su uno slittino con due deficienti non molto saggi, se c’è l’occasione... però Sigyn stava davvero troppo con Père Reynier, pure le canzoni sulla morte… alla sua età? Quest’anno l’avrebbe portata a teatro con Cassandra! Era ora che quelle due cominciassero a sgrezzarsi un pochino... Opera Comique! Ma prima, gli era chiaro, avrebbe dovuto chiedere il permesso a Clément… sogghignò tra sé, divertito. Chiedere al fratello minore... che idea!

Victor Clément le legò la treccia con il nastro verde.

“Ma quello che è imperdonabile è quando una cosa del genere la fai a un membro della tua famiglia.” La voce di Victor esplose tagliente come una stalattite di ghiaccio chi si infrangesse al suolo.

Alo alzò gli occhi al cielo. Victor sembrava grande, ma era piccolo! Sono proprio quelli che ti vogliono bene che dovrebbero accettare che non ti piace sentirli suonare, invece di costringerti ad essere quello che non sei solo per farli contenti. E non dovrebbero nemmeno chiedere perché. Anche perché quello lo dovrebbero capire da sé.

Maxence invece strinse la mano a pugno - perso in pensieri che un po’ gli facevano male.

Sigyn non disse nulla e chiuse gli occhi. Questo non glielo avrebbe perdonato! Mai! Non l’avrebbe mai più salutato se andava a trovare Cassandra, e se lui capitava in Normandia con il Vecchio… ah beh! se ne sarebbe rimasta al calduccio in casa, senza degnarlo di uno sguardo! Anzi avrebbe suonato la chitarra in camera sua, così nemmeno lo avrebbe sentito. E non avrebbe più suonato con lui, o ballato con lui, tanto c'era André.
E nemmeno avrebbe più giocato a dama e a carte con lui anche se era il solo che le desse soddisfazione: contava le carte come lei!
Si scostò da Clément con un movimento rapido.

Victor le toccò la spalla - un gesto gentile - per riportarla lì, ma la vide sobbalzare; la scoprì fino all’omero, incurante delle sue proteste, con gesti bruschi.
Imprecò.
“Ti farà male stanotte, lo sai vero?” disse irritato, “E domattina sarà pure peggio!”

“Si, io lo so, ma tu lo sai vero che non è affar tuo?” rispose scontrosa, come un micetto selvatico, rimettendosi a posto il vestitino “e che nemmeno io sono affar tuo?” precisò senza arrabbiarsi e senza alzare la voce, “non sei mio fratello e non sei il mio tutore...”. E non sei nemmeno più il mio amico, pensò. Ma non lo disse.

“Però sono più grande,” sbottò, irritato Clément, “e forse il solo, in questa stanza, che ha ancora un po’ di cervello!”

Tacquero tutti.

Fu Alo che ruppe il silenzio “Parlami di Loki, cosa è la cosa terribile che fa?”

Sigyn deglutì e scosse la testa.

“Non c’è tanto tempo, Numero Cinque, ci stanno aspettando… raccontami solo chi era questo tizio con i capelli rossi. Di cosa si occupava?“


“Principalmente della fine del mondo, direi...” si intromise Clément irritato.

Sigyn alzò gli occhi al cielo.

Maxence chiese incuriosito “Il Ragnarok? Dove l’uomo non viene giudicato, ma spazzato via?”

Sigyn annuì “Si, lo fa iniziare lui, arriva su una nave fatta con le unghie dei morti…”

"Personcina curiosa questo tuo Loki..." disse Alo, con un sogghigno

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Per avere un bacio da Gerd ***


Ringraziamenti: a Tetide, a Françoise e a Katia, che leggono questa storia, facendomi compagnia.




Per avere un bacio da Gerd

Monsieur Henri, il gomito appoggiato al marmo del camino, si guardò allo specchio spassionatamente - doveva smettere di parlare di Oscar con Augustin, decise. O sarebbe impazzito.
Era come parlare di certe cose, sempre le stesse, con Maxence ed Alexandre: una esperienza  intellettualmente stimolante, per carità  (di certo i suoi figli non lo avrebbero fatto arrivare alla vecchiaia rimbecillito, ammesso che non venisse colto, prima, da un infarto). Una esperienza a tratti pure sorprendente, specialmente con Alo che, se messo alle strette, aveva l’animo del sofista.

Ma, diciamolo, una esperienza, per lo più, inconcludente.

La vera frustrazione di un genitore, decise, se questo si interessa sul serio di ciò che fanno i figli, è l’impossibilità di trasmettere una esperienza: sarebbe bello poter allungare ai propri ragazzi un pacchetto con dentro alcune delle proprie cretinate, scelte nel mazzo, e dire “Ora sai.”

Ma non funzionava così.

Fece un brindisi alla sua immagine con il bicchiere di limonata e sospirò: i ragazzi avevano dovuto imparare a camminare cadendo sui pavimenti di Palazzo Girodelle… e avevano imparato ad usare il calamo rovinando la punta e macchiando il foglio.
Si imparava facendo errori.
Si cresceva facendo esperienze.
La scelta di lasciargli una bella dose di autonomia l’aveva presa da quando erano in fasce, in braccio alla sua ragazza, sull’isola di Jersey - li avevano fatti nascere lì, tutti e due quei furfanti, in una dependence della casa del Vecchio.
Lei la pensava esattamente come lui, almeno su questo. Scosse la testa con un un’ombra di un sorriso “chi è causa del suo mal…”.

Si guardò con attenzione nel riflesso: chi era mai lui, in fondo per dire ad Augustin cosa sarebbe stato o non stato nel futuro? Ma cosa diavolo ne sapeva?
Lui era solo un uomo e doveva smetterla di dire ad un altro uomo cosa avrebbe dovuto fare in casa sua!

Osservò il riflesso delle altre persone nella stanza: da una parte, vestita di blu, in abiti maschili, Oscar, la bambina, stava parlando, tutta concitata, con il ragazzino dai capelli neri.
La vide allontanarsi dal suo piccolo amico con uno sbuffo irritato per poi puntargli l’indice sul braccio rimarcando ogni parola che gli stava dicendo.
Il rapporto tra quei due, al momento, era ben delineato: lei, il Comandante, che dettava ordini e lui, l’Attendente, disposto a seguirla nei suoi piani senza discutere. Come durante il duello di poco prima - un ragazzino paziente.

Dall’altra Horthense, vestita elegantemente di blu pure lei, ma da donna, stava parlando, tutta composta, con Madame Marguerite, le mani morbidamente intrecciate in grembo.
Uno dei suoi figli, lui lo sapeva, scriveva versi sulla giovane Jarjayes - Ghiaccio Blu.
Non lo avrebbe dovuto sapere - il ragazzo non gliene aveva mai parlato, non aveva mai chiesto nulla, nemmeno che lui sondasse con Augustin… Ma lui sapeva.

Quei versi sembravano un lamento sui calli, una cosa terribile, una volta durante una marcia forzata gli era venuta una vescica ed aveva sofferto come un cane… ecco suo figlio scriveva cose di quel tipo lì - i tormenti di un amore non corrisposto…
In un certo senso era una fortuna che Horthense non ricambiasse... erano troppo vicini come età: lui avrebbe dovuto farsi una posizione, o, quanto meno, mettere la testa a posto, prima. Augustin lo avrebbe preteso.
E lei non avrebbe avuto tutto quel tempo - il loro era un mondo in cui si invecchiava presto e spesso anche male: non era giusto far aspettare troppo una bella ragazza…

Così suo figlio non aveva chiesto una ragazza che non lo voleva, e si era messo a scrivere  versi di cui tra un paio di anni si sarebbe vergognato - non avrebbe dovuto, i versi erano orribili, ma il sentimento che c’era dietro no.
 

Tornò ad osservare le due ragazze con attenzione.
Tutte e due le piccole Jarjayes volevano qualcosa, decise, ed ognuna delle due stava facendo le sue mosse, alla sua maniera, per ottenere questo qualcosa. Chissà di che si trattava. Probabilmente - sicuramente - non la stessa cosa.
 

Oscar ed Horthense, così, viste nel riflesse dello specchio, con tutte quelle decorazioni in bronzo dorato, sembravano dentro un quadro, rifletté: Passato e Futuro.
Solo che il futuro di Oscar non sarebbe mai stato “essere Horthense”.

Però… il pensiero lo colpì all’improvviso, lui si preoccupava sempre per la bambina. Anche stasera ne aveva voluto parlare con Augustin, indirettamente; a spingerlo era quella strisciante sensazione di colpevolezza di quando si è testimoni di qualche bastardata, a cui non si ha il coraggio di opporsi in modo deciso, ma nemmeno la capacità di assolversene dicendo che in fondo non sono fatti propri. Ma in fondo… neanche Horthense aveva mai sperimentato cosa volesse dire “essere Oscar”. E nessuno si preoccupava di questo.

Aveva bisogno di aria - decise di andare a cercare i suoi due furfanti: o l’autorità di Victor era stata allegramente messa in discussione dai due più grandi, cosa possibilissima - anche se il minore non si arrendeva dinanzi al dettaglio di essere solo il minore - o era successo qualcosa che non avrebbero voluto che lui sapesse  e stavano coprendo tutte le tracce. In tre.
 


Maxence interruppe Sigyn infastidito “Sentite, io questa cosa tutta femminile di cominciare una storia dalla fine e di andare poi a balzelloni non la sopporto per niente. mi è chiaro che tu, Victor, sai chi è questo Loki, ma io non ne so nulla… Questa nave… questa fatta con le unghie dei morti…”

“Si?” chiese Sigyn sgranando gli occhi.

“Se è la fine del mondo, direi che è proprio il fondo della storia, giusto?”

Alo inarcò un sopracciglio “Se il mondo si riduce in cenere, direi che non resta molto di cui narrare, dopo.”

Clément accarezzò distrattamente la treccia di Sigyn, che si scostò scontrosa “Non è esatto, poi succedono ancora delle cose: è un mito che potrebbe simboleggiare un ciclo…una ripartenza…  in fondo il Diluvio Universale non è la fine, e nemmeno l’Apocalisse è la fine...”

Alo sogghignò “Vallo a dire ai vicini di casa di Noè, che non fu la fine…”

Clément lo rimbeccò “Tu guardi sempre il dettaglio, ma è la visione di insieme che conta: tutti gli uomini muoiono prima o poi, ma è l’umanità che, ostinata, resta…”

Alo rispose tagliente “Ora mi citi Seneca? A me? Homines quidem pereunt? Guarda che l’ho tradotto qualche anno prima di te… e con lo stesso precettore. Forse anche lo stesso libro!”

“E anche nella stessa casa… sedendo sulla stessa sedia, allo stesso tavolino e… pensa un po’... respirando la stessa aria…” lo prese in giro il ragazzino.

“A me un ciclo che si ripete identico sembra strano…” disse Maxence, interrompendoli, “ma vorrei sapere di più su questo Loki, come ci è arrivato su quella nave? Da dove le ha prese tutte quelle unghie? Con cosa le tiene insieme? Ma poi perché una nave fatta di unghie?“

Alo era pensoso “Secondo me è una metafora: siccome le unghie non sono enormi e, comunque, crescono molto lentamente, per me vuol simboleggiare che ci volle molto tempo per costruirla - i disastri non arrivano mai all’improvviso, ma covano a lungo, iniziano da una cosa da nulla, e poi si nutrono di piccole cose, quasi senza peso, giorno per giorno...”

Victor Clément lo guardò interessato “E’ una bella interpretazione, sai? Non ci avevo mai pensato... non penso sia filologicamente corretta, ma ha un suo fascino… quanto a te Maxence, che non credi ai cicli che si ripetono uguali… ti ricordo che ogni anno festeggi il solistizio di inverno... ”

“Io festeggio il solistizio d’inverno?” disse Maxence incredulo “io? ma da quando? ma che dici?”

Alo lo guardò da sotto in sù “Lo festeggi.” disse con un tono che non ammetteva repliche, “è una festa pagana di cui i Cristiani si sono appropriati per il Natale. Se festeggi il Natale, e lo festeggi, allora festeggi anche il Solistizio d'inverno.”

“Ah si! certo... dimenticavo... se ne sono impadroniti giusto l'altro ieri…” Maxence fece un sorriso sornione, “e per fortuna che ci siete ancora in giro voi due a tenere alta la bandiera del mondo pagano… Topolina, per piacere, lasciali perdere e continua…”

Sigyn arrossì,“Cosa vuoi sapere?” chiese a Maxence con cortesia, evitando accuratamente di guardare Clément, che non si spostava di un pollice da dietro di lei.
“Comincio da dove vuoi...” aggiunse.

“Cominciamo dal Natale, cioè la nascita, che ne dici? Loki di chi è figlio? di Odino?” chiese Maxence.

“No, non è figlio di Odino, è Loki Laufeyson, figlio di Laufey… mettevano il son per dire figlio di e il dottir per dire figlia di, Horthense, per esempio, sarebbe Augustindottir…”

Maxence annuì, soppesandola con lo sguardo - usare come esempio Horthense, cuore di ogni cuore, andava bene, sempre e comunque, ma… non gli era sfuggito che non aveva usato come esempio Oscar… Augustinson o Augustindottir? Ci sarebbe stato da discutere, meglio lasciare da parte Monsieur Oscar per un esempio grammaticale - troppo imbarazzante - ma perché non aveva usato se stessa? Sigyn Augustindottir non le piaceva, forse?

“Henri Elie Maxence Henrison...” le disse con un sorriso, incoraggiandola, ma la ragazzina non colse l’invito e proseguì tutta seria: “Non viene nemmeno dallo stesso luogo… anche se… ad essere proprio precisi... ma forse è meglio se cominciamo ancora un pochino prima: devi sapere che esiste Asgard, che è dove vivono gli Aesir. Non è una città: in realtà è un enorme, immenso ed unico castello, al cui interno svettano dodici palazzi. Sono quelli principali, ma non sono i soli, alcuni sono di oro massiccio, altri di oro hanno solo le porte, altri gli interni… uno è tutto di vetro ed è lì che Idun coltiva le sue mele.”

“Un mondo ricco e pieno di delizie.” riassunse Maxence, con cortesia.

“Si, un luogo imponente, lussuoso, dove tutti hanno tanto e possono moltissimo. Sono Dei. Vivono nel bello. E’ anche un luogo dove si recano i guerrieri in visita da altri mondi, per rendere omaggio, chiedere aiuto, o avere il permesso di fare qualche cosa…”

“Ho inquadrato il tipo di posto…” le disse Maxence.

“Bene," gli sorrise, "Asgard è il luogo che appartiene ad Odino, e a cui Odino appartiene. Lui comanda e non si fa chiamare Re, ma Generale e Padre di Tutti.”

“Un solo re, un solo popolo, una sola religione…” mormorò Alo, con un’ombra di sarcasmo.

“E Loki ad Asgard che fa ?” chiese Maxence andando dritto al punto.

“Loki non è di Asgard...” disse la ragazzina incerta.

Clement si intromise “Loki è di Asgard! Non diciamo sciocchezze! Lui lì ci vive, eccome! E lì si comporta anche malissimo!”

“Slitta?” chiese Alo con aria di finta innocenza.

Sigyn arrossì, ma Maxence le fece cenno di continuare e di non badare a quei due deficienti dei suoi fratelli.

“Un ponte, Bifrost, congiunge Asgard alla Terra di Mezzo, che è il mondo degli uomini.” guardò i ragazzi per vedere se la stavano seguendo, e quelli fecero un cenno di assenso, “E poi esiste Jötunheimr, che è il mondo degli Jotun, un mondo nordico, dove arriva il ghiaccio ed arriva la neve, dove il vento a volte può soffiare gelido e dove esistono luoghi dove si può camminare e non incontrare nessuno, solo il silenzio...”

“Ma che posto orrido!” commentò Alo.

“No, per niente” la ragazzina era irritata e si sedette su uno sgabellino basso, accanto al fuoco, allontanandosi da Clément. “Non è orrido per niente! Quanto al silenzio... lo zio Jean-Claude dice sempre che il silenzio è la voce di Dio...è solo un posto diverso.”

“La topolina ha ragione” disse Maxence conciliante, “diverso non è per forza brutto”.

“Diverso è diverso” tagliò corto Alo, “il diverso non piace a tutti. Anzi, non piace quasi a nessuno!”

Sigyn trattenne il fiato e lo guardò per un attimo amareggiata, poi proseguì “La loro capitale era Utgard. Gli Jotun non usavano l’oro per le loro case, ma scolpivano il ghiaccio, o facevano gelare l’acqua in modo che assumesse le forme che a loro piacevano: usavano ciò che avevano in armonia con il loro mondo e quello che aveva da offrire, prendendo solo ciò che a loro serviva...”

“Erano dei selvaggi, non erano Dei.” disse Clément infastidito. “Erano crudeli e violenti, Barbari, dalla pelle azzurrata e coi muscoli di acciaio sui tendini nervosi… erano lupi dagli occhi rossi di fiamma! E alcuni erano giganti che giravano con la clave vestiti di pelli, capaci di mangiare chiunque avessero incontrato!”

“Non erano selvaggi! Non erano Asgardiani, tutto lì!” disse Sigyn arrabbiata. “Alcuni erano Guerrieri potenti, altri erano Maghi...Alcuni erano ingegnosi architetti ed inventori… e io immagino sempre la reggia di Utgard fatta di ghiaccio con vari gradi di opacità e trasparenza, dove la luce si riflette e si separa come in un prisma, il ghiaccio imprigiona, intrappola, congela ed uccide, è forza, però col calore si scioglie e da l’acqua, è vita… un posto luminoso e spesso silente… un posto con tanti toni di blu!”

Per un attimo la bambina pensò allo Studio del Nonno Antoine, alla sua poltrona-à-dome ricoperta di stoffa indiana di color indaco, blu di Persia, blu Marino, blu Egiziano e un po’ di rosso cupo e al tappeto della Savonnerie color zaffiro, dove lei si accoccolava quando il Nonno le leggeva una storia. Stasera gli avrebbe scritto per raccontargli di questa giornata - non proprio tutto, magari...

Il Nonno alla sera avrebbe preso il tè da solo, senza di lei... ma ci sarebbero stati i suoi gattini a tenergli compagnia e a fargli le fusa. Sperò che l'Asciutta si fosse ricordata di infornare i biscotti e di farlo uscire a passeggiare, anche se faceva freddo... arricciò il nasino, se non c'era lei a tenere certi dettagli sotto controllo...

Clément alzò gli occhi al cielo. “E' un discorso da favola… In realtà stiamo parlando di un luogo desolato, dove l’unica compagnia era il soffiare del vento e l’ululare dei lupi… e dove l’unica alternativa all'annoiarsi a morte era giocare con il ghiaccio... una vera delizia.”

“Immagino che Jotun e Asgardiani non andassero molto d’accordo. Si odiavano?” chiese Maxence, con un sospiro.

“Si e no: gli Jotun erano i Giganti del Ghiaccio ed erano banditi da Asgard, e la gente di Asgard non li amava. C’era guerra tra loro, battaglie sanguinose, e a volte scontri tra singoli abitanti di un mondo e dell’altro. Però a volte collaboravano. E alcune volte un Aesir scopriva di amare uno Jotun o una Jotun, e a volte un Aesir la pretendeva: Freyr osservò gli Jotun dal Trono di Odino, da dove si potevano osservare luoghi lontani in tutti i Nove Mondi.
Vide una Jotun, di nome Gerd. La vide che faceva una cosa semplicissima: stava andando verso la dispensa della casa di suo padre, ma qualcosa di lei lo colpì e lui continuò ad osservarla da lontano per tanto tempo finché ad un certo punto il cuore non gli fece male nel petto.”

“E così la chiese in sposa, ma lei lo rifiutò dicendogli un mare di sciocchezze sul fatto che non sarebbe stato opportuno e che voleva una casa di ghiaccio tutta all’ultima moda, ma ad Asgard si sarebbe sicuramente sciolta macchiandole la tappezzeria delle poltrone!” concluse Alo con un sogghigno,versandosi da bere.

“Oh no…” disse Sigyn, stupita “non andò così, lui non la corteggiò affatto e non le chiese nulla di nulla… lui mandò un suo emissario a prendergliela e basta, anche se lei non lo voleva per niente. Le fece sapere che se faceva troppe storie le avrebbe lanciato una maledizione e poi le avrebbe sterminato la famiglia e così se la sposò. Del resto lui era il cognato di Odino, cioè il cognato del Re...”

Maxence alzò un sopracciglio “Gente rozza e violenta questi Asgardiani, dietro quelle porte d’oro...”

Alo commentò “Ma anche gli dei greci, in fondo, si comportavano allo stesso modo, con le umane in particolare… e non se le sposavano, dopo. Al massimo si occupavano di un eventuale bambino… il che mi ricorda il Parco dei Cervi… e Agathe Louise de Saint-Antoine de Saint-André” Maxence lo zittì di colpo con una gomitata: Sigyn era ancora piccola! Non era giusto che davanti a lei suo fratello parlasse del bordello personale del Re! Il Parco dei Cervi… E nemmeno che alludesse alla figlia bastarda che il Re aveva avuto con la piccola Morphise, la sua amante bambina!

Clément era arrossito: “Avevano un lato primitivo anche ad Asgard, non erano perfetti, ma era gente che quando amava, amava sul serio...”

Sigyn lo guardò disgustata “Io credo che Monsieur Henri non sarebbe molto contento di sentirVi parlare così - Voi parlate proprio come Oscar… per lei il massimo della dimostrazione di affetto verso qualcuno è o cercare di infilzarlo con la spada, o progettare di rinchiuderla in qualche soffitta e tenercela per sempre, comandandola a bacchetta...”

Maxence non disse nulla, ma osservò la ragazzina rattristato - forse succederà anche a te, topolina, non credo proprio che tuo padre ti chiederà nulla... spero tanto che quella soffitta non sia troppo piccolina per te, e che il tuo Freyr sia un uomo gentile…

Clément rispose con aria seria  “Un conto è un mito, dove ognuno agisce come in fondo desidererebbe, se non ci fossero i freni morali, ed un conto è cosa un uomo onesto può fare ai giorni nostri. Io non chiuderei mai nessuno in una soffitta, a meno che non lo volesse… ma resta il fatto che Freyr amava davvero Gerd, non era stato solo un modo per dimostrare che un Asgardiano può prendere ciò che vuole da uno Jotun...”

Ma la ragazzina non lo degnò di uno sguardo.

Alo tagliò corto “Torniamo a Loki, che si sta facendo tardi!”






Note sparse: stranamente Oscar e Horthense stanno parlando proprio della stessa cosa: Sigyn. Una per "ghermirla e alla sedia incatenarla" e l'altra perché preservi la sua dose di indipendenza. Sono tutti gesti d'amore.

Con gli Jotun mi sono presa qualche libertà - sono più gli Jotun del film su Thor temo, i fascinosi giganti cornuti dalla pelle blu. Consiglio un giro su quel fandom perché ci sono storie molto belle.In particolare, se non si hanno forti preclusioni verso lo slash, consiglierei Disease di Fiamminga.

I toni di blu di Jotunheimr sono di Sigyn... è chiaro che Asgard le fa pensare ad un certo mondo e Jotunheimr ad un altro. E quei toni di blu a cui è tanto legata e che tanto si immagina permeino il mondo degli Jotun non stanno ad Asgard, credo si sia capito...
Quanto alla poltrona  è la stessa di Una Storia Rococò: nella casa in Normandia sono cambiate un po' tante cosette e lei non è più la ragazzina che ha tutte le chiavi della casa...

La storia di Gerd non è inventata da me: è della mitologia norrena.

Il Girodelle innamorato di Horthense è... Maxence (penso si fosse capito anche questo) - i versi che scrive... chi non ha scritto versi da giovane? non credo verranno mai scoperti da nessuno, non certo da me.

Clément è più realistico sugli Jotun intesi come creature mitologiche, qualcosa delle proiezioni di Sigyn gli sfugge e, un pochino, pensa che il posto di Loki è Asgard e sarebbe meglio se la piantasse di sparire nella terra dei giganti di quando in quando - che, poi, se si passa da quelle parti in barca, nemmeno viene a salutare...

La Morphise era l'amante bambina di Luigi XV, a 15 anni fu scacciata dal Parco dei Cervi e fatta sposare. Dal Re ebbe una bambina nel 1754, stesso anno di nascita di André e di Sigyn, che da grande verrà sposata ad un marchese.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Un bacio di magia e di ghiaccio ***


Ringraziamenti: a Barbara, Françoise, Katia e Tetide, in ordine alfabetico, per la compagnia. Dall'acquaio, in pochi minuti, siamo arrivati alla terme di Jotunheimr. Spero vi divertiate :) 

Dedicato a Madame Neko, noto critico letterario, che non leggeva, ma passeggiava sulla tastiera insoddisfatta.




Un bacio di magia e di ghiaccio


Maxence stese le gambe lunghe, tipiche dei Girodelle, sotto il tavolo di legno, poi, agitando la forchetta verso la piccola disse: “Prima di tornare a Loki… ma... questi Giganti... dimmi un po’... che aspetto avevano? Perché una donna alta è una cosa - a me piacciono molto, per esempio…” Alo sogghignò divertito abbassando lo sguardo, ma non disse nulla, “... ma una gigantessa, alta il triplo di me, non so… mi pare una perversione...”

Sigyn sospirò “Gli Jotun erano di tanti tipi, e tante altezze,” cercò di spiegare, “Jotunheimr non era solo un castello, era un mondo intero: ce ne erano di enormi, e ce ne erano dell’altezza giusta per un Aesir… solo che la Gente del Ghiaccio non era dello stesso colore della gente di Asgard: erano blu!”

Poi abbassò la voce, in tono confidenziale, “Nessuno lo sa per davvero," sottolineò, "ma io, personalmente, credo fossero solo leggermente azzurrini, in realtà. Un sottotono della pelle… certo sarebbe bello un blu di Persia, intenso come il colore ebano degli uomini delle Antille, un bell’effetto, come il colore del demonio in certe chiese antiche, ma io penso ad un mondo dove d’inverno c’è tanto bianco: il candore soffice della neve, il bianco traslucido del ghiaccio, il bianco opaco della stalattite dell’acqua che cola e che gela dalla grondaia…”

Maxence annuì, aveva presente gli inverni sull’isola di Jersey ed era anche stato anche altrove: aveva visto i lastroni di ghiaccio galleggiare su un fiume del Nord, a febbraio, come promessa di primavera, le foche stese a prendere un pallido sole ed i passanti abituati allo spettacolo, che nemmeno si sporgevano più a guardare…

“Gli orsi polari sono bianchi ed avorio, le volpi artiche sono bianche e grigio-azzurrate..." continuò la ragazzina, "io penso che gli Jotun dovessero avere un colore chiaro e azzurrino... per camuffarsi nell'ambiente in cui vivevano.”

Alo sorrise “Vada per l’azzurro, come la luna! Prosegui!”

"E avevano gli occhi rossi o orlati di rosso, come i lupi infernali, che correvano tra le terre di ghiaccio, enormi, che uno Jotun li poteva cavalcare, se ne aveva il coraggio, mettendogli intorno al collo un collare di ferro. E alcuni Jotun avevano bellissime corna arcuate. E altri avevano segni chiari sulla pelle azzurrina...”

"Niente animali domestici un po' più tranquilli? Il mantenimento di un lupo infernale non doveva essere cosa da poco..." chiese esageratamente cortese Victor. "Di quante volpi artiche c'era bisogno ogni sera per la cena del lupo?"

La ragazzina si osservò le mani, dibattendo dentro di sé una questione spinosa: doveva rispondere a quello screanzato che le aveva calpestato l'orgoglio e tutto il resto? lui ed i suoi assoli!
Poi disse, decisa: "Gatti."

"Gatti blu?" la stuzzicò Victor.

"E perché no?" replicò la ragazzina con aria di sfida. Victor distolse lo sguardo - era ancora arrabbiata, ce ne sarebbe voluto del tempo...

“Non so se la faccenda delle corna mi piacerebbe…" rifletté Alo ad alta voce, mentre stava seguendo tutto un suo ragionamento interno, "sono gusti immagino… Su una ragazza devono essere un bell’impiccio...”

Maxence sospirò - divagavano tutti troppo per i suoi gusti - “Loki era uno Jotun quindi?" andiamo al punto, pensò irritato, "Tutto blu? Con delle striature bianche?”

“Non proprio, Loki era Loki Laufeyson, che vuol dire figlio di Laufey...” disse Sigyn incerta e anche un pochino imbarazzata, ancora seduta accanto al camino.

“Capisco… ma chi è questo Laufey?” chiese il ragazzo dagli occhi scuri addentando con gusto una frittella.

Clément sorrise e si intromise gentilmente “Non è un uomo, Maxence: Laufey è una donna… per quel che se ne sa… i miti norreni sono meno documentati di quelli greco-romani… e le trascrizioni sono di epoca cristiana: la narrazione è in un certo senso meno autentica, parlano di un mondo che per loro non è vitale... non ci credevano più.”

Alo alzò gli occhi al cielo “Victor, ti prego… spegni il precettore che è il te!”

“Perché? Vuoi essere l’unico So-Tutto-Io della famiglia?” rispose il ragazzo un vago sorriso ironico che gli aleggiava tra le labbra e gli occhi azzurri chiarissimi.

“Strano patronimico…” disse Maxence, cambiando argomento, volutamente “che ruolo avevano le donne ad Asgard? Per caso contava di più la madre per gli Jotun? Come sempre del resto...” aggiunse, abbassando il tono della voce.

Victor fu secco nel rispondere: “Non nella nostra società." disse. "Per una famiglia qui conta il padre.”

“Tu dici?” disse Alo con un sogghigno.

Victor rispose serio serio “Sì. Conta il padre. E conta anche la madre. Non si esclude nulla, ma si unisce tutto.”

Alo arrossì e versò da bere un po’ di birra al fratello minore, passandogli il bicchiere con un gesto brusco. Maxence sogghignò divertito, ma non disse nulla - che se la sbrigassero tra di loro! alla fine quei due deficienti andavano d’accordo: avevano gli stessi occhi.

“Laufey era del mondo degli Aesir, una asgardiana, ed era bellissima. Aveva i capelli dorati...” fu Sigyn stavolta ad interromperli, “Lui si chiamava Farbauti ed era uno Jotun.”

“Oh Santo Cielo!” disse Alo alzando un sopracciglio, “Lui la rinchiuse in soffitta, legata con una catena di ghiaccio? O fu lei che minacciò di sterminare la famiglia di lui se lui non la sposava all’istante?”

“Oh no!” sospirò la bambina con occhi sognanti, “Lui era il fulmine e Laufey le foglie e per me questa immagine vuol dire che tra Laufey e Farbauti ci fu un grande amore che divampò come un incendio in una foresta, in un notte di temporale. Selvaggio e senza freni.”

Clément alzò gli occhi al cielo, ma non disse nulla.

Maxence fischiò “Dovrò proprio dare un’occhiata ai libri che vi scambiate tu e Cassandra… questa cosa del selvaggio e senza freni non è che mi piaccia poi tanto, piccoletta… forse è il caso che voi due torniate a leggere Cenerentola! Direi che quella è una storia sufficientemente  emozionante per la vostra età… c’è la fata, la fuga notturna, il pericolo, la ricerca… per voi basta e avanza! Fin troppe emozioni!”

Alo si mosse a disagio sulla sedia e poi replicò in tono sarcastico “Il classico mito nato per spiegare un fenomeno naturale… la divinità primordiale del fulmine, il mucchietto di foglie, ed ecco il fuoco. Poi, ai bambini, quando li metti a letto, racconti di Farbauti che ha le corna, perché un fulmine non è una cosa che piace, diciamolo francamente, nessuno lo vuole vedere capitare a casa propria… per cui deve essere come il diavolo, che è il più cattivo dei cattivi: cornuto! E di Laufey si narra che è dorata perché le foglie verdi non prendono fuoco facilmente...”

Maxence sorrise “Sei proprio un poeta…”

Alo alzò un sopracciglio arcuato con un gesto elegante, poi congiunse le mani in un angolo acuto toccandosi le punta delle dita: “Dimenticavo… sei tu, Maxence, nella nostra famiglia, la massima autorità nel campo della poesia”.
Maxence quasi si strangolò con la birra.
Guardò Alo con occhi di fuoco, ma non disse nulla di nulla, poi guardò Victor che però aveva un sorriso innocente - fintamente innocente! pensò con veemenza il ragazzo dagli occhi scuri, fintamente e fottutamente molto poco innocente. Ma c’era la bambina con loro e non era il caso di commentare come avrebbe voluto.
Stranito tacque.

Sigyn li guardò scuotendo la testa, rattristata “No, Alo, non è come dici tu! Non è affatto come dici tu… un fulmine, letteralmente un fulmine... e delle foglie secche, che idea... “ gli sorrise paziente, “Farbauti era alto e forte, un guerriero, un mago ed un principe e amava Laufey di un amore immenso, e quando si videro fu un colpo di fulmine ed è questa è la storia: non un vero incendio in un bosco, quella è un metafora, non so se il precettore te la ha spiegata…” si fermò e lo guardò incerta, colta da un dubbio “se non lo sai non c’è nulla di male…” la voce le uscì molto comprensiva, come quella di una mammina.

Alo la guardò senza fiato, non sapendo come replicare.

Victor sorrise e disse “Alo, non te ne devi vergognare, ci mancherebbe…se non lo sai...”

“Eh si Alo, se non lo sai…” fece eco Maxence.

La ragazzina riprese, tutta precisa: “Una metafora è quando sostituisci un termine con un altro, che non appartiene alla cosa di cui stai parlando, ma che rende l’idea, come il ruggire del mare, che non è un leone e però il mare comanda, anche se spesso è tranquillo, alla fine... comanda e ruggisce.”

Alo sorrise “Quindi se uno dicesse, che ne so? in un poesia... i tuoi capelli, cuore del mio cuore, sono oro, userebbe una metafora?.” chiese gentilmente, guardando di sottecchi Maxence, che, dopo averlo guardato storto replicò garbato “Anche una grandine di pugni, penso sia una metafora, sai, Alo? Molto calzante...”

“Si, esatto, bravi” disse la bambina, con un sorriso, “Per cui il fulmine in questa storia vuol dire vedersi e di colpo amarsi, e come Farbauti e Laufey capirono che il loro era amore, si reclamarono l’un l’altro con la velocità di un lampo...”

Alo sogghignò “Spero per la povera Laufey che non sia stato proprio... veloce come un lampo al momento di...” Maxence gli tirò uno scappellotto, Clément lo guardò scuotendo la testa disgustato e Sigyn lo fissò stupita “Che vuoi dire? Non ho capito...”

“Meglio!” disse Maxence in tono secco.

“Nulla,” bofonchiò Alo, “lascia perdere… e quindi i due si amarono e poi?”

La voce della ragazzina si abbassò in un tono confidenziale “Io ho sempre immaginato che si fossero incontrati durante una tempesta di neve, una di inizio novembre…”

Clément la guardò socchiudendo gli occhi - “A inizio novembre?” chiese con educazione. Poi le porse la ciotola con dentro le sue forcine per i capelli.
Lei lo ringraziò, sostenuta, con un cenno del capo.

“Si,” Sigyn sospirò, e cominciò pian piano ad appuntare la lunga treccia rossa intorno alla testa, come una coroncina fiammante “per me lei si era persa nella tempesta, doveva andare ad Utgard in visita con una delegazione di Aesir, ma si perse, sapete come sono i viaggi… il vento, la neve, la pioggia, le strade diventano impraticabili, interi tratti si cancellano, diventano fango e non li distingui dai campi, solo se c’è qualche muretto a secco, allora forse... bisogna cambiare direzione, tutti che brontolano, si deve passare per posti che non si conoscono, la pioggia batte, le dita si gelano, i cavalli diventano nervosi, succede sempre qualche guaio prima o poi, e alla fine ci si è persi… e tocca che qualcuno ti aiuti...”

Clément suggerì vagamente irritato “Forse bisognerebbe andarsene in giro di meno e restare tranquilli a casa propria, rimandando le gite all’estate, quando fa caldo e il sole tramonta tardi…”

“Forse,“ disse Sigyn incerta, “o forse la cosa importante è ricordarsi di portarsi sempre dietro un po’ da mangiare, da bere e delle coperte, che non si sa mai… Comunque per me fu lui che la trovò grazie al seidhr”

Maxence la interruppe con un gesto della mano “Il seidhr… sarebbe?”

“Magia” spiegò Clément, “una cosa praticata solo dalle donne.”

“Ma Farbauti non era un uomo? Un guerriero forse e potente e alto? “ chiese Maxence perplesso.

“E non dimentichiamo le sue stupende corna...” aggiunse Alo impassibile, “corna arcuate! Da vero maschio capo branco!”

La bambina fece un gesto esasperato “Victor Clément de Girodelle, non li confondere! Il seidhr era una cosa da donne ad Asgard: ad Asgard gli Aesir disprezzavano le femmine e apprezzavano solo la guerra e la lotta. Si occupavano solo di quello e tenevano in gran conto solo quella cosa lì, tutto il resto non importava. Tutto il giorno a tirare asce, frecce, darsi dei gran colpi di spada, da mattina a sera, senza un attimo di tregua - gli piaceva fare solo quello. Per cui gli uomini Aesir non si interessavano al seidhr!”

Maxence annuì “Dei bruti, insomma, senza un’oncia di sensibilità…”

Alo proseguì severo: “Gente incolta, che si pasceva nel brago della sua ignoranza, non sapevano nulla dei Sette Re di Roma, immagino...” ma la ragazzina fece conto di non aver sentito.

“Non esistevano maghi maschi tra gli Aesir, mentre ai maschi di Jotun il seidhr piaceva, non pensavano ci fossero molte cose solo da maschio o solo da femmina, ma ad Asgard tutto era molto diviso: gli uomini si interessavano solo di armi e di guerra e di storie di armi e di guerra, e le donne potevano interessarsi del seidhr, o di nulla del tutto - agli Aesir non importava. Se non eri un guerriero per un Aesir eri una persona che non esisteva e, anche se non te lo dicevano chiaramente, era chiaro che ti disprezzavano.”

“Ambientino curioso questa tua Asgard” disse Maxence, “ma mi interessa Farbauti: la situazione si era fatta interessante… con tutta quella neve e quella tempesta...”

Sigyn proseguì tutta un sorriso, gli occhi persi in un sogno “Lui la portò in una grotta scavata nella roccia, una con dentro una sorgente… un rifugio che conosceva lui...” la ragazzina arrossì, sospirando: stava pensando ad un luogo che le aveva mostrato il Nonno, uno in cui non aveva mai portato Oscar perché quello era stato un luogo che la Nonna aveva fatto conoscere al Nonno tanto tanto tempo prima, prima ancora che nascesse il Generale, figuriamoci! Era lì che si erano dichiarati il loro amore… e siccome Oscar rideva sempre delle storie d’amore e la prendeva in giro… - era insopportabile! e André, poi, che non la contraddiceva mai... sempre a raddrizzare le cose che diceva Oscar, cambiare il tono, grattar via le parole sgradevoli... tutto per farla passare, poi, ogni volta, dalla parte della ragione... perché non contava mai cosa aveva detto o fatto, ma solo cosa intendeva e come lo avrebbe voluto dire, ma non le era riuscito bene. Arricciò il nasino disgustata. Non ce l’aveva mai portata. Punto e basta!
Tanto sua sorella non avrebbe apprezzato la magia di quel posto - si sarebbe tuffata nel laghetto schiamazzando, avrebbe tirato dei sassi, avrebbe spinto in acqua André… la solita selvaggia, insomma..
No, lei lo voleva tenere per qualcun altro, portarci una persona speciale, al massimo un amico, uno vero... come Clément, non fosse che adesso non erano più amici, solo che poi, lei lo sapeva, vagamente, che non potevano restare in lite in eterno... magari anche Alo e Maxence, solo che se poi Oscar lo avesse scoperto... e chi la sentiva più?
E poi c'era che l’acqua nella sua, di grotta, era fredda.

“Una sorgente,  con un laghetto di acqua calda…” disse, guardandoli per vedere se avevano capito - non sapere cosa fosse una metafora! Alla loro età! E chissà cosa altro non sapevano quei due! L’unico era Clément… una certezza. Che però forse pensava ad Oscar - non che sarebbe stato un male, per carità, perché magari a lei, a Oscar, avrebbe fatto bene...

“Vulcani” tagliò corto Alo, “Gli Jotun vivono dove ci sono dei vulcani e delle sorgenti termali.”

“Lui la portò lì che era gelata e respirava appena appena e costruì per lei una culla di ghiaccio con la sua magia. Incise sul bordo le rune di protezione: Naudhr, la runa della costrizione, per darle la determinazione, Eiwaz, la runa della pazienza, su tutte Hagalaz la runa del risveglio e poi Othila, la runa del ritorno a casa.
Poi la foderò con il suo mantello di pelli di lupo infernale, morbido e bianco ed argento, le tolse gli abiti bagnati e gelati e, avvolta nel mantello, la fece scivolare nel laghetto. Così piano piano la culla-zattera si sarebbe sciolta e lei lentamente si sarebbe scaldata,” li guardò severa, “Non va affatto bene passare bruscamente dal freddo al caldo! L’Asciutta dice sempre che deve essere graduale, quando un marinaio viene ripescato in inverno, o sbattuto dalle onde della burrasca sulla riva, non so se lo sapete...”

Maxence annuì “Farbauti fece molto bene, un laghetto con acqua calda è un’ottima idea… ed è molto elegante il tocco delle pelli di lupo infernale… scommetto che le ragazze Jotun ne andavano pazze.”

Alo sogghingò “Si, ma le tolse i vestiti...”

Clément concesse “Non aveva scelta… e comunque, siccome era un principe, anche se Jotun e quindi un pochino barbaro, di sicuro non l’aveva guardata, mentre glieli toglieva...”

“Ah beh!” disse Alo sarcastico, “se era un principe… di certo non frequentava il Parco dei Cervi e non sbirciava le ragazze senza vestiti addosso… al Parco dei Cervi ci vanno solo i Re!”

Maxence gli allungò un calcio da sotto il tavolo, “Non dargli retta, bambina, continua il racconto, sono certo che Farbauti non ha fatto nulla di scorretto con Laufey!”
"O comunque," aggiunse sottovoce, tra sé "nulla che Laufey non volesse anche lei."

La ragazzina arrossì, “Farbauti cantò per Laufey per far montare il seidhr ed aiutarla a guarire, anche se lui non era un guaritore, ma un guerriero.. ma per lei cercò dentro di sé la magia di guarigione e lasciò che il suo seidhr si unisse a quello  di Laufey per ricondurla a sé, lontano dal freddo. La avvolse nel seidhr e le cantò di svegliarsi, di non cedere alla magia del ghiaccio che ti chiede di addormentarti per sempre, avvolto nella sua bellezza, ma di soffiare, piuttosto, sulle braci del suo fuoco rinnovandone la magia. Cantò di non seguire lo scricchiolio del passo della volpe sulla neve, ma di fermarsi e piano piano tornare indietro. Tornare verso la casa, accanto al fuoco, e di non temere se accanto alla fiamma c'era uno straniero. Lui era lì solo per alimentare il fuoco, bruciando il legno di tasso per le magie degli incantatori e farle trovare la strada. Cantò per lei con il seidhr fino a quando non sentì tutte le increspature dei pensieri di Laufey cominciare a formarsi e i pensieri di lei tornare da dove erano fuggiti e rispondergli, allora smise di cantare per lei e le carezzò i capelli dorati e a quel punto lui sentì il fulmine che passava tra loro, e per un attimo gli parve che lei per lui divenisse azzurrina mentre lui diveniva rosato come un Aesir. Ma fu solo un attimo.”

Maxence guardò la ragazzina stupito “E’ una bella storia, piccola Sigyn dalla Lingua d’Argento - meglio di quella dei Sette Re, te lo concedo.”

La ragazzina arrossì deliziata, tutta contenta del complimento e di essere al centro della loro attenzione.
Poi abbassò gli occhi e finì di appuntarsi la treccia con le sue forcine argentate ricoperte da perle di fiume. “Farbauti vide la bellezza di Laufey e Laufey quella di Farbauti e quindi si amarono. Dalla loro unione nacque Loki… il fuoco.”

Alo scosse la testa, “Farbauti ha guardato, eccome se ha guardato! Principe si! ma anche un barbarico Jotun!”

Clément alzò gli occhi al cielo, ma non disse nulla.

“E di che colore era Loki?” chiese Maxence incuriosito

“Azzurro!” disse al bambina con un sorriso, “Era Jotun!”

“E i capelli?” insistette il ragazzo con aria indifferente.

La ragazzina arrossì “Loki era il fuoco… i capelli erano rossi, come una fiamma.”

“E ad Asgard come ci finisce Loki?” chiese Maxence pazientemente.

La bambina arrossì e poi disse esitante “Un giorno Odino bussò alla porta della casa di Loki e disse che lo voleva ad Asgard, perché era ciò che Laufey avrebbe voluto, forse, nessuno sa bene perché... giurò che lo avrebbe trattato sempre come… come... uno della sua gente, e portò Loki nel suo Palazzo…ma non fu proprio…”

Clément la guardò incuriosito, ma non disse nulla.

“Il fatto è che Loki era Jotun, non era Aesir, lui sapeva che non era per davvero proprio uno di loro...“ la bambina sussurrò piano piano, senza guardarli.

Clément disse schietto: “Era Aesir. Era lui che non lo capiva. Guardava le differenze come differenze abissali e non come ricchezza… Ma era Aesir. Anche nei difetti.”

“Beh se era tutto blu tra gente di un altro colore...” tagliò corto Alo, “ci credo che si sentisse a disagio e che gli altri lo fissassero stupiti… Un tizio blu coi capelli fiammeggianti in mezzo ad una banda di gente bionda tutta bianca e rosa… non dirmi che non lo si nota!”.

“Loki mutava la sua forma, era una sua magia... Loki è il Dio che cambia il suo aspetto a secondo del luogo...” disse la bambina incerta.

Clément annuì, venendole in soccorso “E’ salmone, è moscone, è anche cavallo, uomo e a volte donna… è un mutaforma… nessuno fissava Loki perché Loki non era blu.” Poi aggiunse molto severo “Nel caso lo fissavano, piuttosto, quando aveva una delle sue uscite imbarazzanti.”

“Ma sta sempre ad Asgard quindi?” chiese Alo.

“Loki viveva ad Asgard, ma non sempre… “ disse la bambina esitante, “ogni tanto partiva e tornava tra gli Jotun.”

“Perché?” chiese Clément, cercandone gli occhi con lo sguardo, “Perché Loki desidera sempre andare via? Non gli piace Asgard? Eppure è un posto molto bello, e Loki ci si diverte parecchio... Perché sempre ad un certo punto sparisce senza salutare nessuno?”

“Perché? Io credo che sentisse la nostalgia di Jotunheimr... forse..." disse la bambina irritata, "Io non lo so perché… è così e basta!”

“Magari la domanda giusta è quella contraria” disse Alo irritato “perché diavolo torna ad Asgard questo Loki? Se è Jotun… perché non li manda tutti al diavolo?”

“Per Laufey, credo... e perché Asgard era bella... Quando era a Jotunheimr era orgoglioso dell’azzurro e del rosso, mentre ad Asgard era chiaro come Laufey, il suo tocco poteva essere di ghiaccio o caldo, non importava, aveva tutte e due le forme dentro di sé, ma i capelli di Loki erano rossi e restavano tali, non li cambiava mai...”

“Faceva bene, anzi benissimo! Va bene tutto, ma modificare ogni cosa no, non va chiesto e non va fatto!” Alo fu duro nel dirlo.”Se uno ti vuole nel suo Palazzo, è giusto che prenda la versione che c’è e non la versione migliore dei giorni di festa!”

Maxence guardò il fondo del bicchiere “E’ tardi piccina, dimmi solo una cosa, Loki… i suoi capelli... li teneva legati stretti stretti in modo che non si notassero?”
Non la guardò in viso. Scusa topolina se te lo chiedo, pensò, ma forse mio fratello capirebbe perché era più divertente, per una volta, venire via a scivolare con noi e non te lo chiederebbe più di essere spiacente. Non con quel tono almeno. Ma per lui è più semplice: è piccolo e certe cose non le sa.

“No,” disse la ragazzina arrossendo, "lui si faceva delle trecce." tacque pensosa. Si sfiorò i capelli, che erano, oramai, perfettamente acconciati “E’ ora di andare, l’assolo…” si capiva che era disagio.

Clément guardò la ragazzina intensamente, ma non disse nulla.

Maxence si alzò i piedi e poi disse con fare distratto “Qualcuno che ha esperienze di luoghi diversi è sempre un ospite gradito ed interessante. Sono certo che fosse un piacere avere Loki a casa propria come ospite.”

Ma la ragazzina non disse nulla, si sistemò la gonna, lisciando le pieghe, con attenzione e si allontanò dal camino.

Alo si alzò anche lui, pronto ad andare “Quando uno vive tra due mondi, invece, secondo me, finisce sempre che non appartiene né all’uno e nemmeno all’altro” disse, “e risulta sgradito a tutti e due, perché nessuno lo sente come un vero membro del proprio gruppo!”

Sigyn lo guardò senza fiato, gli occhi enormi enormi nel visetto pallido, ma non disse nulla.

Maxence sentì dentro di sé che avrebbe tanto voluto colpire Alo, con una grandine di pugni assolutamente non metaforica.

Fu Clément che ruppe il silenzio “E’ ora che andiate…" la voce era gelida e distante, "quanto a Loki," aggiunse brusco, "io ho sempre pensato che ogni volta che Loki se ne andava da Asgard per i suoi viaggi tra gli Jotun… chi lo conosceva, tra gli Aesir, finiva sempre per sentire la sua mancanza." la voce gli si addolcì, involontariamente, "Sempre.”

Alo alzò le spalle e si diresse fuori dalla cucina seguito dalla bambina, che teneva le mani intrecciate dietro la schiena.

Clément si avviò anche lui, esasperato, dietro di loro, ma Maxence gli mise una mano sul braccio e lo fermò “Aspetta solo 30 secondi, ti prego, Lingua d’Argento ha il diritto di dirgli qualcosa in privato, anche di tirargli un pugno, se crede, io non la fermo… senza giocarsi la faccia...” non aggiunse “E lui ha diritto di scusarsi senza perdere la faccia davanti a noi due...” perché non ce ne fu affatto bisogno: Clément annuì  - era un Girodelle pure lui - e cominciò a contare con la fronte aggrottata.
Non era contento per niente.

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Il primo bacio fu all'alba, d'estate ***


Il primo bacio fu all'alba, d'estate

Monsieur Henri osservò i ragazzi attraverso il vetro spesso della finestra.
Stava ancora nevicando, ma a lui il freddo sferzante sul viso faceva piacere - era abituato alla vita all’aperto.
Piano si sfiorò la cicatrice sul volto - ammettiamolo, pensò - l'inverno non perdonava nessuno, una stagione dura che spazzava via anziani, bambini, deboli e le persone che non avevano una casa o non possedevano i mezzi per scaldarsi... quello che rendeva l'inverno bello nella sua cruda essenzialità era sapere che, volendo, lo si poteva osservare stando pigramente al calduccio vicino a un camino.

La sua seconda moglie, prendendo possesso della sua nuova casa francese, aveva voluto piantare un calicanto vicino al cancello d'ingresso. Una pianta che cresceva lentamente e fioriva in inverno, sfidando il gelo e la neve: i fiori sbocciavano sui rami prima delle foglie - apparentemente dei rami secchi - una pianta prepotentemente viva in una stagione di morte.
Non gli era affatto sfuggito l'aspetto simbolico di quel gesto, all'epoca: il calicanto era la pianta dell'affetto e della protezione. Tutti e due loro erano vedovi, e si erano scelti - non un ripiego! - perché tutti e due amavano la vita e capivano quegli spazi segreti dell'uno e dell'altra, che li avevano resi, in fondo, migliori. Erano sopravvissuti all'inverno, amandolo. E si erano fatti casa, tepore e anche fiamma, l'uno per l'altra.

Soprattutto avevano accettato e voluto in fretta dei fiori.

La sua seconda moglie non era mai stata una di molte parole. Per la nascita di Victor aveva piantato un ciliegio e per Cassandra una magnolia stellata.

Sorrise, poi osservò con maggiore attenzione i suoi cuccioli troppo cresciuti. Fiori... mah! L'unico vero fiore in quella stanza era la bambina. Forse - a lui faceva sempre venire un mente una elegante volpacchiotta dalle zampine minuscole.

Ecco dove si erano cacciati! pensò irritato, Girare per le cucine del loro ospite, ma che idea!

Ci mancava solo che adesso quei tre facessero una dormitina nel letto di Augustin, o bevessero nella tazzina di Madame Marguerite… come nella fiaba inglese che sua moglie raccontava a Cassandra, apparentemente per divertirla, di fatto per insegnarle come un‘ospite e una brava bambina assolutamente non si dovevano comportare.
Le frittelle, a quel che vedeva, già se le stavano mangiando… meglio della pappa d’avena della favola, di sicuro… che furfanti!

Ma era una irritazione tutta superficiale, perché quei tre, intenti ad ascoltare la piccoletta, gli facevano, tutti insieme, una gran tenerezza.

Victor, quello responsabile - troppo per i suoi 13 anni - stava sistemando, serio serio, i capelli della Numero Cinque. Tutto gambe e boccoli, sembrava un elegante e compito topo di biblioteca - frequentava l'Harcourt e si distingueva - anche se… no, Victor, un topolino proprio no. Nemmeno quando trotterelleva i suoi primi passi.
La dolcezza del ragazzo era per sua madre, era per Cassandra, di un paio d'anni più piccola… poi basta. Un pochino la riservava anche per la piccola Sigyn, ma accompagnata da qualche zampata “educativa”, a cui, tecnicamente, non avrebbe avuto diritto.

Lei sembrava un gattino scontroso, senza nessuna voglia di essere accarezzato. Avevano litigato? Lui si era intromesso in qualche suo gioco per riportarla, recalcitrante, all’ordine?
Di sicuro le aveva spiegato dettagliatamente tutto quello che vedeva di miope, egocentrico ed ineducato nello svanire durante un concerto privato - di Oscar, poi! L’Erede dei Jarjayes. Nientemeno!
Un crimine di lesa maestà - anche se Victor ed Oscar, in pratica, nemmeno si conoscevano… meglio così, per altro.

Scosse la testa.

Sperò che la bambina si fosse divertita, qualunque cosa avesse combinato - Victor era solo l’antipasto.

Lo sperò, ma non glielo avrebbe mai detto.

Incuriosito esaminò la cucina piccola: non era mai stato in quella parte di Palazzo Jarjayes, ma sua figlia Cassandra si; riconosceva, dai suoi racconti, uno dei regni della Numero Cinque, che stava ricevendo una impeccabile educazione di Corte - Madame Marguerite - insieme ad una impeccabile educazione campagnarde - il vecchio Antoine e le sue idee eccentriche su come dovesse vivere un uomo (e pure una donna).
A non viziarla ci pensava sicuramente Augustin, che aveva ottenuto coi suoi metodi quattro figlie silenziosissime e discrete - lui, invece, aveva sicuramente sbagliato qualcosa.

Inutile sottolineare quanto il vecchio Antoine disprezzasse Versailles, quanto la Corte disprezzasse la nobiltà di provincia e quanto Augustin disprezzasse i cortigiani inutili e i nobili di provincia ribelli.
Una corsa ad ostacoli.

Apprezzò i mazzi di erbe appesi a testa in giù e osservò divertito la ruota in alto, sul camino, per far muovere gli spiedi, tutta dipinta di blu, con la sua scaletta, azzurra anche lei.
In Inghilterra e sull'isola di Jersey era normale che ci fosse un cagnolino in cucina, che correva dentro la ruota, muovendola, così che questa, a sua volta, facesse girare gli spiedi sul fuoco. Vernepator cur - aveva pure un altisonante nome latino: il Cane Che Muove La Ruota. Li aveva visti anche in America, nelle taverne in cui si erano fermati esausti per mangiare - zampettare di cani, guaiti e latrati, cinghie che cigolavano, catene che sferragliavano - un caos che ottundeva i brutti pensieri.
Lì non c'era nessun cane e la ruota, dipinta di toni di blu, era ornata, presumeva, per quel che poteva vedere da quella distanza, da disegni di fiori. Ospitava piantine - niente cani in quella cucina. Piuttosto, vedeva una serie di congegni meccanici, di sicuro opera di Antoine-Benoit, il fratello minore del suo amico.
Si accarezzò il mento divertito: da ragazzino, ospite della loro casa in Normandia, lo aveva visto tante volte presentare orgoglioso le sue "invenzioni" mosse dal vapore o dal vento, o molle e da pesi - con quanta sufficienza lo avevano trattato, loro, quelli "grandi"!
E adesso Antoine-Benoit era uno stimato (ed eccentrico) ingegnere militare... aveva frequentato il Louis-le-Grand e aveva fatto amicizia coi Jeunes de Langues, i ragazzi che studiavano le lingue orientali, destinati a divenire interpreti - ricordava le cene con lui e Jean-Claude, intenti a spiegarsi l'un l'altro come riprodurre un certo suono la lingua la devi poggiare lì... le labbra così... no il suono viene di gola... tutti concentrati a fare versacci, come dei ragazzini, e Augustin che li osservava disgustato e poi batteva il pugno sul tavolo per riportarli all'ordine...

Bei ricordi.

A Monsieur Henri non sfuggì affatto che questo regno, dove nessun nobile avrebbe messo piede, a Palazzo, era una riproduzione del bislacco mondo normanno a cui la piccola era affezionata.
L'aveva vista, in Normandia, con il suo mazzo di chiavi da padrona della casa. I passi della piccola, al mare, avevano risuonato come quelli della sua ragazza, che non aveva mai capito il fascino delle chatelaine (imitazione civettuola per donne senza potere, di un oggetto di puro potere: le chiavi di tutta una casa, stipi ed armadi compresi).

Alla madre di Alo e Maxence quella cucina sarebbe piaciuta, decise, con i suoi girarrosti meccanici e i rametti di pungitopo nella brocca.

E la madre di Victor e Cassandra ne avrebbe apprezzato l'ordine e la funzionalità.

Tutte e due, invece, avrebbero avuto qualcosa da dire sull'evidente amore della piccola per le cose frivole. E per come si impiastricciava i capelli - così carini, pensò, ora che erano al naturale... proprio una volpacchiotta.

Tornò a osservare i ragazzi: Alexandre - Alo - di sicuro stava precisando qualcosa nel racconto della piccola… Lingua di Vipera - era ora che si togliesse questa idea che gli altri fossero quasi tutti scemi o, prima o poi, lo avrebbe trovato uno disposto a tirargli un pugno in faccia. Cinque anni più di Victor, aveva lasciato l’aria sgraziata dell’adolescenza dietro le spalle definitivamente - quasi definitivamente - uno spilungone, con quegli occhi quasi trasparenti, impossibili da leggere, il passo dinoccolato da marinaio

Quanto a Maxence, il Poeta - Monsieur Henri sogghignò - sei anni più del minore, quasi sette, una passione per tutto quello che era folle e spericolato e… una bella dose del non detto di sua madre. Era stato sempre il più difficile da tenere a freno e il più facile da punire - prendeva molto sul serio i suoi sbagli e non cercava mai scuse.

C’era troppa differenza di età tra questi due e la bambina per una amicizia vera, eppure i gesti… oltre al cameratismo, i suoi due lupi sembravano davvero interessati a quello che quella piccola volpe elegante stava narrando.

Si accorse del livido sulla fronte della piccola e gli spiacque. In cosa l’avevano coinvolta? E perché poi? Quei due da piccoli avevano sempre cercato di escludere Victor dai loro giochi, una cosa normale, erano i “grandi”, loro due. Quelli che “sapevano le regole”, baravano e le dettavano a modo loro.
Mentre Victor, tranquillo, non demordeva mai, certo di avere il diritto di fare esattamente tutto quello che facevano i suoi fratelli, pure meglio di loro, nonostante l’età…

Rivalità a parte, però, quei due, in fondo, erano contenti di insegnare al minore quello che sapevano. O che credevano di sapere.


Ma la Numero Cinque?
Perché si erano portati dietro a fare qualche corbelleria la piccola? E cosa altro si era fatta oltre ad un livido sulla fronte?
 

Sigyn, Sigyn, pensò tra sé, se ti ammali sono guai… da piccolina una influenza invernale la atterrava: brutte febbri e brutte tossi...

Sigyn dai molti nomi, tutti che spiacevano ad Augustin: non ne aveva scelto nemmeno uno, a braccia conserte in quella stanza, mentre Jean-Claude proponeva imperterrito la sua lista, ogni nome una pugnalata, compreso l’ultimo: Désirée, la desiderata. Ricordava benissimo lo sguardo di Augustin, carico di odio che sembrava dire che lui, quello che era successo, non lo aveva desiderato affatto!

Il ricordo del giorno in cui la bambina era nata lo fece sentire a disagio.

Era arrivata prima del suo termine, una notte senza luna, di venerdi - erano corsi ad avvisare Augustin e lui, Henri, era andato a prendere il medico - del tutto inutile.
Avevano trovato Madame Marguerite con due occhi enormi nel volto, pieni di apprensione e di paura. Come un condannato in attesa di giudizio, aveva pensato allora, perplesso.
La piccola… un gattino, con un respiro flebile flebile, come delle fusa - non piangeva nemmeno, come se pure quello fosse troppo faticoso… Monsieur Henri non aveva mai visto una neonata così minuscola: i suoi figli erano stati tutti lunghi e robusti, perfino Cassandra, l’unica femmina... certi pianti che sembravano urla di guerra.
Osservandola gli era sembrato che Madame Marguerite e Augustin, due divinità alte e dorate, avessero generato un topolino pallido coi capelli rossi, una di quelle bimbe delle favole, nate da una coppia che non poteva avere figli e che piantava semi magici in qualche giardino, con risultati sorprendenti.
Le orecchie piccoline gli erano parse solo abbozzate, come un ritratto ancora da finire, la pelle lucida... e Augustin aveva sentenziato che quella non era una bambina, che era solo un feto, grumo di sangue appena sbozzato, perché vestirla come una bambina? Uno scherzo crudele e di pessimo gusto! Che non osassero metterla in braccio a Marguerite... quella “cosa”! Sua moglie non stava già soffrendo abbastanza? Aveva appena perso il figlio che portava in grembo!

Il medico aveva sentenziato che non avrebbe succhiato ed inghiottito: sarebbe morta soffocata da un rigurgito o, semplicemente, avrebbe smesso di respirare, quando per lei sarebbe diventato troppo faticoso. Questione di giorni.

Marie, sbrigativa, aveva parlato di misericordia - se solo fosse stato inverno… esporla al freddo della notte… piuttosto che lasciarla morire lentamente di fame.

E allora soffocatela, che ci vuole? se davvero pensate che non sia una bambina… stringetele il nasino e tappatele la bocca! Non mi pare tanto difficile! Ancora ricordava il ruggito di Jean-Claude, carico di disprezzo per tutti loro.

Lui aveva respirato di sollievo - aveva avuto Cassandra solo sei mesi prima... e se lì ci fosse stata Cassandra? se Cassandra non fosse nata lunga e forte, con quel pianto che ti trapanava il cervello, cosa avrebbe fatto? Non avrebbe mai, aveva pensato, mai!
Ma una agonia dolorosa, alla sua bambina?

Il punto era che Augustin non vedeva una “bambina”… vedeva qualcosa che avrebbe potuto, forse, essere una bambina, ma che non lo era stata e non lo sarebbe stato mai. Inutile far illudere sua moglie, lasciare che si affezionasse, per poi farla soffrire.
E quando Augustin si impuntava su una cosa, non c’era verso di smuoverlo.

Fu allora che vide Horthense, bionda e delicata, seduta in terra ai piedi del letto. Li stava fissando, lo sguardo attonito.

L’aveva presa per mano per portarla fuori - non era giusto che stesse lì, a sentir parlare di sua sorella in quel modo.

La bambina, con le mani raccolte in grembo, lo stesso gesto fin da piccola, quello che le aveva visto fare nella sala, gli aveva chiesto seria seria “E’ perché è femmina, vero?”

“Oh no, tesoro, no!”

Ma la bambina, era stato palese, non gli aveva creduto: “Hanno affogato i gattini in un secchio,” gli aveva detto, una volta che si erano spostati nella stanza accanto, la porta chiusa dietro di loro, come se gli confidasse un segreto, “tutti i gattini femmina perché sono inutili: mangiano, ma non sono veloci come i gatti maschi e poi fanno i piccoli, troppi e qualcosa bisogna fare…” A Monsieur Henri era sfuggita una imprecazione.
“Ho sentito le zampine grattare contro il secchio…” ma chi aveva fatto una cosa del genere con vicino una bambina? si chiese sgomento… la vita era già dura per tutti senza doverla complicare per forza - chi aveva fatto una cosa del genere davanti ad Horthense… il rumore delle zampine, Santo Cielo! Era la figlia di Augustin, accidenti! Un po’ di riguardo...
Pensò al tamburino ucciso in battaglia e gli si strinse il cuore - un ragazzino - la guerra è dappertutto, pensò. E l'inverno non finisce mai.

Fu la domanda successiva che lo spiazzò completamente “Affogheranno anche lei?”

“No, assolutamente no.”

La bimba si era subito allontanata da lui, bollandolo come bugiardo, gli era chiaro “Oh si, assolutamente si!” aveva detto seria, “in una casa ben gestita quelli che non servono non possono aumentare ed aumentare… io sono stata molto fortunata perché ero la prima. Lei è la numero cinque e non è affatto quello che nostro Padre voleva.”
 

Henri rabbrividì - nessuno si chiedeva mai cosa volesse dire “essere Horthense”, nemmeno lui. Ma Horthense li aveva giudicati tutti - demoni che affogavano gattini e bambine per una buona gestione delle risorse di una casa. In fondo avevano parlato tranquillamente di esporla al freddo della notte - davanti alla bambina, Santo Cielo! Ma cosa erano diventati tutti loro in poche ore?

Era stata Horthense che aveva sussurrato “Se lo zio Jean Claude la vuole io credo che potrebbe prenderla lui. Poi quando sarò grande la prendo io. E’ l’Ultima Femmina… E io sono la Prima, tocca a me.”

Jean Claude era uscito ed aveva sentito.

Un uomo di Chiesa non è marito si ricordò di aver pensato. Ma padre? Sarebbe stato imbarazzante per un sacerdote occuparsi di una bambina con i capelli del suo stesso colore? Ma Jean-Claude, tra le persone che conosceva, era l’ultima interessata a preoccuparsi delle chiacchiere della gente.
Poi veniva il vecchio Antoine. E infine il giovane Antoine-Benoit.

 

La rabbia di Augustin e l’ostinazione di Jean Claude e il rumore della moneta gettata sul tavolo… il Battesimo affrettato… tutti ricordi su cui non si voleva soffermare.

 

Marguerite aveva accettato la decisione di suo marito - sembrava non riuscire a riprendersi dall’idea  che le cose erano andate storte, se ne stava lì schiantata come se avesse commesso il più abominevole dei peccati.
Ma quale peccato, Monsieur Henri non lo capì: non avere partorito un maschio, o avere dato vita ad una “cosa” abominevole, una caricatura di bambina - un abbozzo, pensò lui, sarebbe stata uguale ad un neonato ad agosto, perché in fondo, adesso, non lo era. Era una gemma su un ramo, ma chi lo aveva detto che non poteva essere un fiore, al giusto momento?

Aveva detto a bassa voce a Jean-Claude che la sorella della balia di Cassandra aveva avuto una bambina da poco… una donnona, cicciottella, molto dolce, pulita… se voleva, stasera stessa…
All'alba quei tre erano partiti per la Normandia, dal vecchio Antoine - un viaggio insensato di morte, secondo Augustin, che nemmeno li aveva salutati. Un uomo tutto d’un pezzo.

Prima di andare via Jean-Claude aveva messo la piccola in braccio ad Horthense, le aveva raccontato che presso gli antichi Romani il riconoscimento di un bambino, il dire che apparteneva ad una famiglia, richiedeva che il piccolo venisse preso in braccio e poggiato sulle ginocchia. Horthense, tutta seria, aveva annuito - qualcuno doveva stare dalla parte delle femmine aveva sussurrato, e poi, d'impulso, aveva baciato Sigyn Margot. Il suo primo bacio.

Poi erano successe tante altre cose. I fratelli muro contro muro per dispetto, domande non poste, risposte non ascoltate, un altro lutto... Marguerite che era come scivolata via… Non era stata colpa di nessuno, decise, solo una serie di tragiche coincidenze. Per fortuna che ad un certo punto era successa Oscar - Oscar aveva riportato la pace. E dopo Oscar… si ricordò di Sigyn nella chiesa che ostinata cercava Jean-Claude, tutta quieta.

Ma neanche quello importava, perché adesso eccola lì, la volpe rossa, in mezzo ai suoi figli, che teneva banco raccontando qualcosa, tutta vestita di verde, con quei capelli di fiamma. Lucky Number Five come la chiamava Antoine-Benoit prendendola in giro.
Gli sarebbe piaciuto entrare e sentire che stava narrando, ma sapeva che avrebbe solo rovinato la festa a quei quattro.


Avevano sbagliato tutti quella notte: la scienza del medico, la saggezza popolare di Marie, l’orgoglio razionale di Augustin, che in fondo voleva solo proteggere Marguerite, l’obbedienza (il fatalismo?) di Marguerite, che era sempre stata una buona moglie, la dea della fedeltà, il suo silenzio, di pessimo amico che non si era voluto immischiare… tutti avevano sbagliato, tranne Jean-Claude.

Sperò che nessuno glielo avesse mai raccontato di quella notte a Sigyn - Augustin di certo no, lo sapeva - ma tutti i bambini ad un certo punto chiedono del giorno in cui sono venuti al mondo, cosa è successo, cosa è stato detto, cosa si è pensato… come erano appena nati, cosa facevano di buffo... chissà Jean-Claude cosa le aveva narrato…

Sperò, soprattutto, che Horthense, di quella notte, non ricordasse assolutamente nulla.

  


L'angolo della pedante petulante: Monsieur Henri non ha cercato un ripiego, ma un buon incastro con cui avere tepore e anche fiamma - ci sarà voluto del tempo  - la seconda Madame de Girodelle non è di certo la copia della prima e nessuno le ha mai chiesto di esserlo. Da qui l'idea un po' bislacca del Girodelle adulto che i matrimoni funzionano pure con qualche ricordo ingombrante alle spalle, se uno lo vuole sul serio. Alla fine il calicanto fiorisce davvero in inverno (sulla fecondazione non ho proprio idea).

Lei, in questo universo, è inglese, un bel po' rigida, austera ed è appassionata di giardinaggio e giardini - e ricami.

Al Louis-le-Grand studiò Diderot, era tenuto dai Gesuiti ed era, per molti, gratuito.
Montesquieu, Perrault e Talleyrand studiarono a l'Harcourt.
Cartesio a La Flèche.
Le Quatre Nations era solo per gentiluomini di alcune regioni della Francia - era stato fondato da Colbert che aveva seguito le disposizione testamentarie di Mazarino e aveva una biblioteca rinomata e aperta al pubblico.

Al Louis-le-Grand c'era anche la scuola di lingue orientali per preparare i "drogman" cioè gli interpreti:  studiavano turco, arabo e persiano ed avrebbero accompagnato diplomatici ed ambasciatori. I professori della scuola erano i segretari - interpreti del Re.
Antoine-Benoit e Jean-Claude dividono questo amore per le altre culture, ed è per questo che Antoine Benoit conosce le poesie di una poetessa araba andalusa, e non solo. Quanto a Sigyn, che studia spagnolo di nascosto (dal Generale, ma in Normandia direi proprio di no: ha chiesto e le è stato fornito quanto necessario, direi - il Nonno ha le sue idee su come deve crescere una donna e a Jean-Claude e ad Antoine-Benoit fa sicuramente piacere se la piccola si interessa di cose a cui si interessano loro), legge i libri che trova in casa - come spesso capita - e fa interessanti scoperte.

Studiavano i borghesi. Studiava anche l'élite aristocratica, quella che non si divertiva soltanto, ma cercava posizioni di potere - i Lamoignons, Malesherbes... non erano "cortigiani" amici di amici (o non solo quello) ma gente con una solida preparazione (secondo le convenzioni della loro epoca, ovviamente - di certo non studiavano informatica).  L'accademia militare non era la sola opzione.
Per contro Lauzun disse sempre di essere stato educato "sulle ginocchia delle dame di Corte". 

Sui collegi per ragazze so poco: di moda in una certa parte del secolo, meno di moda dopo, non tutte li frequentavano. Il Saint Cyr, per quel che ho letto, era per fanciulle impoverite con una nobiltà di almeno 140 anni e niente dote - preparava mogli per la nobiltà di campagna e le dotava.

Il cane da cucina esisteva veramente, chi si vuole divertire cerchi Turnspit Dog.

I nomi dati a Sigyn erano regali per la bambina: Jean-Claude non è un disgraziato che vuole fare un dispetto al fratello chiamandogli la figlia che sta morendo "Desirée", cioè Desiderata... pensa che se la piccola vive, visto che non ha iniziato proprio bene bene, è giusto che abbia dei nomi che le dicano che lei vale. In fondo Jean-Claude ha raccontato la favola del vischio a Marguerite solo poche ore prima e sa che la bimba era stata davvero desiderata e concepita nella dolcezza. Vorrebbe che Marguerite se ne ricordasse, ma Marguerite... comincia a non starci più con la testa, diciamo...

Nemmeno il Generale è "cattivo": ha visto una cosa, ha tratto le sue conclusioni e ha immaginato un finale. Pensava che la sua soluzione fosse quella giusta. Se fosse andata come pensava lui... la figura del pazzo impiccione senza un briciolo di sensibilità l'avrebbe fatta Jean-Claude. Potere del caso.

La piccola è nata alla settimana 33. Sarebbe dovuta nascere a fine luglio / inizio agosto. Vive in campagna e fa i suoi conti pure lei... 'sto grande amore sbocciato a inizio novembre / fine ottobre tra Laufey e Farbauti... mah! L'idea di qualcuno messo in una culla e portato in un posto più caldo... le rune della protezione... fa una grande insalata di miti e sue fantasie personali.
Però i conti li sa fare - la educano a gestire una casa di cui fa parte una fattoria - e sa farli anche Victor, che giustamente si chiede chi diavolo sia questo Farbauti nella fantasia di Sigyn, così convinta che Loki non sia affato un Aesir, ma solo uno Jotun in visita di cortesia...  

Horthense è un pochino matta - come del resto un po' tutti in quella disgraziata famiglia, anche se difficilmente se ne rendono conto. 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Dolci quei tempi del bacio della buona notte ***


Dolci quei tempi del bacio della buona notte


Monsieur Henri vide i ragazzi alzarsi - era ora!

I due più grandi non erano stati buoni ospiti. Decisamente pessimi, piuttosto, anche se, questo glielo doveva riconoscere, pessimi in modo discreto - si chiese se la volpacchiotta rossa sarebbe stata d'accordo, con quel livido sulla fronte e quell'aria perplessa che aveva improvvisamente indossato.

Se la rammentò, più piccolina, in Normandia: una mattina presto l'aveva osservata trotterellare sulla spiaggia, incurante dell'aria frizzante. Camminava sugli scogli scivolosi assieme a Jean-Claude, mano nella mano, una bambina paffutella ed un gigante austero, tutti e due coi capelli raccolti in una coda, i riccioli di fuoco nel vento gelido, che scappavano da sotto il monmouth, il cappello da marinaio di lana, spalmato di resina di pino per impermeabilizzarlo.
Non c'erano dubbi: quelli erano i capelli dei Sisteron, il lato materno di Augustin de Jarjayes.

L'aveva vista chinarsi, sicuramente per stuzzicare qualche granchio: si capiva che le piaceva l'estran, quella parte della spiaggia che veniva continuamente invasa e abbandonata dalla marea, e che brulicava di vita nascosta.
Era vestita come un marinaio: i pantaloni al ginocchio, le calze sicuramente ricamate - ci avrebbe scommesso - la cappa con il cappuccio alla spagnola e gli stivali. Un marinaio vezzoso, senza dubbio, ma pur sempre un marinaio.
Cadere in acqua con gonne e sottogonne pronte ad inzupparsi, lo capiva, era un suicidio, ma Monsieur Henri si era sorpreso di quanto fosse informale Jean-Claude con la piccola e la piccola con Jean-Claude: l'aveva vista, su una barca, sfilarsi rapida stivali e calze ed arrampicarsi agile sui cordami a piedi nudi - inaudito! - per un ordine del vecchio Antoine, senza batter ciglio. Poi si era rivestita tutta composta, come una impeccabile damina di Versailles, pronta per una ciaccona.

Ad un certo punto, quella mattina, Jean-Claude e Sigyn Margot si erano inerpicati sul pontile ed erano scivolati dentro una barca a vela, una chasse-marée. Se la erano filata chissà dove, tra il blu dell'acqua e l'azzurro del cielo, coi cappelli che sicuramente profumavano di pino e di menta come una caramella, i guanti e gli stivali da marinaio. Lui, austero, tutto vestito di nero e lei con un nastro dorato nei capelli, come un segnavento.

Una Sisteron anche in quello: gente di acqua e sale

Il vecchio Antoine era orgoglioso di come lei, così piccola, se la sbrogliava su una barca, quieta come un topolino - ma non glielo diceva mai. Si limitava a portarsela dietro - non una passeggera, ma la sua ombra, coi suoi compiti da sbrigare.
In sella, invece, lo sapeva, lo sapevano tutti, Sigyn non era un granché - montava cavalli da fattoria dal passo pesante, buoni nel fango, e solo se era proprio necessario - Augustin se ne lamentava sempre - campagnarde, in quello, senza rimedio.

Decise di rientrare - aveva preso abbastanza freddo ed era pronto per recuperare almeno due dei suoi figli e portarseli alla seconda parte della prova - Clément, se, una volta tanto, voleva fare il ragazzino, era dispensato: non era giusto che fosse sempre lui il più serio dei tre.

Quanto a lui: voleva ascoltare l’esibizione di Oscar e quella di Horthense.

Poi, quando i due più grandi sarebbero stati ben certi di averla fatta franca, con la guardia abbassata, li avrebbe interrogati su quel livido... Clément no, ché, quando nella faccenda non c'entrava, sui disastri dei fratelli era una tomba.
Se avevano dovuto addirittura lavarle i capelli... chissà che avevano combinato... disgraziati!

Un po', però, gli scappava da ridere.






Alo fece finta di non sentire i passettini affrettati della piccola dietro di sé.
Attraversò il caos della cucina grande, salutando le ragazzine indaffarate con un cenno del capo. Poi, imboccato il corridoio, si arrestò e si voltò. Si appoggiò con la spalla alla parete, obliquo, gli occhi socchiusi, e incrociò le braccia davanti al petto “Cosa desideri Lingua d’Argento?” chiese educatamente, ma in tono inequivocabilmente freddo.

Il corridoio era poco illuminato e non poteva vederla bene in viso, ma era certo che non si era messa a piangere. E che nemmeno lo avrebbe fatto, nemmeno se lui ci si fosse messo.
Forse.

“E’ strano sai.... Lingua d’Argento è proprio uno dei nomi di Loki...” disse la bambina esitante, “tu lo sapevi?” chiese imbarazzata. “lo sapevi? conoscevi già la sua storia?”

“No,” era sincero, non le avevano dato quel nomignolo per prenderla in giro su un mito che si era rivelato, forse, un pochino più personale di quanto pareva a prima vista.

“Una Lingua d’Argento è anche una espressione inglese: Silvertongue,” riprese in tono professorale - in fondo era piccolina, non era giusto dare per scontato che cogliesse ogni dettaglio, ed era chiaro che quello che sapeva lei non coincideva con quello che avrebbe dovuto sapere. Cosa aveva detto nemmeno un'ora prima? Remo uno dei Sette Re di Roma? Cose da pazzi...
“Un silvertongue è una persona brava con le parole e nei ragionamenti… un pochino un’imbrogliona e un pochino capace di non farsi imbrogliare… da come te la sei cavata con il quesito dei Sette Re… direi che ti si addice.” Sorrise, ma sapeva che la piccola non lo avrebbe notato ”hai superato una prova a modo tuo… e la storia che hai raccontato, quella di Farbauti che canta per Laufey perché non muoia, era davvero incantevole sai?”

Non poteva vederla in viso, ma capì che Sygin stava raccogliendo le parole, solo che la piccola era troppo piccola per riuscire ad essere tortuosa quanto serviva per non far perdere la faccia a nessuno dei due.

Apprezzò.

“Io sono Lingua di Vipera,” disse in tono neutro. Forse non valgono come scuse, pensò, ma sono una buona approssimazione di quello che mi vorresti dire. E direi che assistere ad una ammissione spontanea da più gusto di lanciare un insulto che verrà incassato con aplomb.

Lei sospirò poi riprese “Quello che hai detto sui due mondi...”

“Lo penso sul serio e non me lo rimangio. Però vorrei aggiungere alcune cose che sei troppo piccola per capire, purtroppo...” lo disse con aria di sufficienza e non se ne spiacque affatto.

La sentì sbuffare e sentì pure che mormorava “Che me le dici a fare, allora...”

Il ragazzo trattenne una risatina - non aveva tutti i torti - e si concentrò per mettere a fuoco il suo visetto nella penombra.

“A volte c’è qualcosa del narratore in ciò che viene narrato, un’ impronta qua e là... A me non dispiace un Loki blu: è un bel colore. E… io preferisco i capelli biondi, lo sanno tutti, biondi sono stupendi, ma rossi… non sono male. Soprattutto non meritano pomate profumate e amido di mais colorato per camuffarne il colore.“ Fece un gesto per far star quieta la bambina, che era chiaro, stava per interromperlo ”Faceva bene Loki ad intrecciarli e a tenerli così come erano. Bene in vista.”

Le diede il tempo di assorbire il discorso.

“E non mi rattrista che ad Asgard Loki non fosse sempre felice - nessuno è felice ovunque e tutto il tempo. E penso proprio che non fosse sempre colpa di Asgard… questo tuo Loki... pure lui... ci metteva sicuramente del suo!”

Le mise una mano sulla spalla, e la piccola non si ritrasse.

“Secondo me ad Asgard Loki si divertiva anche, in fondo era figlio di Laufey… apprezzava sicuramente quel palazzo di vetro di Idun di cui ci hai parlato, e le porte dorate che a Jotunheimr non c’erano… e magari i lupi infernali erano belli coi loro occhi rossi, ma averceli intorno giorno e notte...”

La piccola annuì.

“Quello che preoccupa me è che alla fine,” e volutamente sottolineò con le voce queste due parole, “alla fine Loki costruisce una nave fatta di unghie di gente morta. Non penso che avesse torto, ascoltami bene, saranno sicuramente successe tante cose che non ci hai narrato, alcune grosse ed altre piccoline, ma il risultato... è chiaro che a lui il mondo che ha distrutto non piaceva. Certo, se, come dite tu e Clément, ad un certo punto c’è pure una rinascita… un ciclo... non è un distruttore e basta: c’è un aspetto di creazione del mondo... un briccone che cambia le carte in tavola, diciamo, e movimenta una partita noiosa. Ma se Loki arriva a distruggerlo, quel mondo in cui vive, vuol dire che quel mondo non gli piace.”

Gli occhi del ragazzo si erano abituati alla penombra e vide che la piccoletta stava sgranando i suoi.

“Il fatto è che distruggere… non fa bene a nessuno. Ed è questo che preoccupa me. Che il tuo Loki azzurrino diventi una persona di quelle che non fa piacere incontrare. Blu è stato il colore del demonio sai?”

La piccoletta annuì.

Alo si accoccolò sui talloni e la guardò dritto in faccia “Una nave di unghie di morti… sai quanto tempo ci è voluto? Un bel po’ direi, un bel po’ di tempo e un bel po’ di rabbia. Non tanta tutta in una volta… piccole cose...”

Piano le sfiorò una guancia con la punta delle dita “Forse Asgard non è un mondo giusto con le bambine,” la sentì ritrarsi dalla sua mano e si ritrovò a sospirare per la frustrazione.

Si alzò in piedi e appoggiò la schiena contro il muro, pensoso.

“Forse Asgard non è il mondo giusto per uno Jotun azzurro,” ricominciò da capo, con una pazienza che gli era di solito aliena, “e, forse, Loki, certe volte, si sarà dispiaciuto che non lo apprezzassero per come era, che dovesse assumere una forma che piacesse agli Aesir, per non stonare tra tutti quegli asgardiani rosei, tutti alti e biondi e tutti noiosissimi guerrieri… scommetto che mangiavano cosciotti di bue con le mani, con il grasso che gli colava lungo il mento e si pulivano con il dorso della mano...” allungò il braccio e le sfiorò con il pollice l’angolo della bocca sentendone il sorriso. “Ma Loki faceva benissimo ad essere come era, a tenersi i suoi capelli del loro colore perché gli Aesir, quando lo guardavano, avrebbero sempre visto l’azzurro selvatico dello Jotun sfrigolare sotto la pelle da Aesir, come i fulmini di un temporale. E gli Jotun avrebbero sempre visto qualcosa dell’Aesir che aleggiava attorno a Loki. Forse era giusto che Loki se ne ricordasse sempre e non si aspettasse troppo… e che non ci credesse davvero in quei piccoli aggiustaggi che faceva.“

Tornò a guardarla “Soprattutto era ora che Loki lasciasse in pace quei capelli!”

La vide arricciare il nasino, ma non si era offesa. Bene, pensò, perché neppure io ho voglia di essere diverso da come sono. Non per una piccola come te.

“Jotunheim sta morendo” sussurrò la bambina con difficoltà, “un mondo che si sta sfaldando…”.

“Ma Loki non morirà con Jotunheim,” replicò deciso, “c’è sempre un piano di riserva ed Asgard non è male, nell’attesa di qualcosa d’altro…”

Poi tornò ad accoccolarsi sui talloni e la guardò dritto in faccia.
“Ascolta,” disse, “ti sto trattando esattamente come tratterei Maxence… o Victor… come una grande, lo capisci? Vuoi sapere le cose come stanno sul serio? La gente, tutta la gente, incluso me e inclusa te, è fatta così: male!” La osservò fino a che non la vide annuire e poi si alzò in piedi.

“Però alcuni ci provano!“ mormorò la ragazzina disperata. Come tuo padre avrebbe voluto dire, ma le parole non le uscirono, anche se, non seppe come, aleggiarono nell’aria perché Alo le sorrise - un sorriso raro - e disse “Si, è vero, alcuni ci provano con tutto il cuore” le poggiò la mano sulla spalla, “ci prova mio padre e io mi sentirò sempre in debito con lui...”

Mi spiace per quello che ti ho detto sulle scale sul tuo, non voleva essere un insulto, ma io l’ho visto che c’erano due bambine che discutevano e che una era… come spuma del mare sulla scia di una barca, che scivola via, senza traccia.
E ho pensato che mio padre non mi lascia mai scivolare via, anche se non sono... "facile"... così come sono, anche se non sono facile come Victor.

Lo pensò, lo pensò delicatamente.
Ma non lo disse.

“Ci prova Maxence e io… non glielo dico mai, non glielo dirò mai, ma non vorrei un altro fratello nemmeno se potessi scegliere. E ci prova pure Victor… e non è male nemmeno lui. Magari fallo anche tu.”

Se ne andò via con passi lunghi, infastidito per averle detto fin troppo, ma una nave di unghie di morti per spazzare via un mondo… non era un buon imbarco per nessuno. Anche se la tentazione… quella la capiva. E lo capiva che la piccola ci avrebbe pensato - tipico di quelli che stanno in due posti.

Aprì la porta che dava sulla saletta prima dell’Atrio e la luce li inondò.

La piccola alzò la mano per schermare gli occhi.

“E adesso scusami, ma ho da fare, penso che assisterò con molta educazione ad un concerto molto noioso, e che dopo andrò a baciare Josephine sotto il vischio - di nascosto s’intende - perché è molto carina e ha l’età giusta e perché credo proprio che la cosa le piacerebbe... è curiosa e detesta non sapere le cose... e non è sentimentale neanche un pochino. Penso che me ne ricorderò a lungo. Ma non mi metterò a scriverci su poesie.”

Non avrò nessun bisogno di un bacio per ricordarmi di te: vieni quando ti pare, ospite bizzarro, frivolo come un Aesir, magico come uno Jotun e porta pure tutti i lupi infernali che vuoi.
Il ragazzo lo pensò. Ma non glielo disse.
Tanto sarebbe venuta in visita comunque: non era necessario dirle proprio niente.

Non avrò proprio bisogno di nessun bacio per ricordarmi di te, ma figuriamoci! ci vediamo quando ti pare, ospite bizzarro, sgarbato come un Aesir, gentile come uno Jotun e porta pure tutti i lupi infernali che vuoi.
La bambina lo pensò. Ma non glielo disse.
Tanto sarebbe andata in visita comunque: non era necessario dirgli proprio niente.






Maxence osservò suo fratello Clément, che nascondeva a fatica l’irritazione: era un ragazzino giusto, forse fin troppo dogmatico - somigliava tanto anche a sua madre, severo come lei, ma le gambe lunghissime era quelle dei Girodelle. Avrebbe lasciato alla topolina il tempo di dire la sua in privato a quella Lingua di Vipera di suo fratello. Anche se non era per niente d'accordo.
E avrebbe lasciato ad Alo il tempo necessario per scusarsi. A modo suo s’intende - non s‘illudeva: la parola “scusa” non sarebbe mai stata pronunciata da quella lingua.

Ci aveva messo del tempo per accettare Victor come fratello e non ne era affatto orgoglioso. Diciamo pure che un po’ se ne vergognava che non gli fosse venuto subito, come a Victor, di volergli... di accettarlo in famiglia.
Invece, quel perfettino, loro due, non li aveva mai messi in discussione… l’unica cosa a sua discolpa era che per Victor era stato facile: li aveva già trovati lì, non aveva dovuto vedere un funerale, un matrimonio e un battesimo e farsi piacere tutte e tre le cerimonie.

Lui per tanto tempo aveva pensato che, se avesse potuto scegliere, avrebbe preferito un mondo dove c’era la sua mamma, coi suoi capelli castani, lucidi come le castagne ed il passo veloce e tintinnante... pazienza per Victor che non sarebbe mai nato - non era poi una gran perdita.

Gli era mancato da piccolo il rituale della preghiera, la storia prima di addormentarsi, il bacio leggero... Suo padre era un soldato e aveva fatto il massimo perché la loro casa fosse sempre una casa… ma lui... non aveva potere sui suoi desideri.

Però era vero che Victor non li mollava mai, non gli dava nemmeno sempre ragione, uno strazio, un autentico strazio… pensava pure di poterli comandare. E certe volte sembrava che ti volesse bene in un modo sdolcinato quasi imbarazzante - veniva lì a chiederti le cose, sicuro che tu avresti aggiustato tutto.
Soprattutto non si metteva mai contro di loro quando facevano qualche cazzata.

Ripensò a loro due sulle isole di Saint Pierre e Miquelon e gli si strinse il cuore - era stato un vero stronzo a lasciare che Victor venisse coinvolto in una rissa, accidenti!
Eppure lui voleva molto bene a suo fratello, bene sul serio. Solo che suo fratello era piccolo e non capiva. Non capiva certe cose e non capiva… Loki.
Non capiva che certe volte… certe volte è dura.
E' dura accettare che le cose sono andate come sono andate. E che va bene così.
E' dura accettare che non sapresti mai scegliere tra due scenari che si escludono con l’altro e per fortuna che non è tuo potere scegliere. Perché nessuno dei due è perfetto senza l’altro - come le Jotunheimr ed Asgard della piccoletta. No Victor non avrebbe mai capito Loki, il traditore, che aveva sempre qualche pezzo del suo puzzle che non si sovrapponeva e gli restava in mano. Un pezzo per cui non c'era spazio.

Maxence si riscosse, ridendo, quasi, di se stesso - che diavolo andava a ricordare? Di quando era un moccioso? Ma per carità!
La piccola doveva aver finito e Clément aveva smesso di contare e si vedeva che stava friggendo - aveva qualcosa per la testa.

“Direi che è ora.” disse brusco, tirando un finto pugno alla spalla di Victor - era troppo cresciuto, per scompigliargli i capelli, a quel Mi'kmak mancato.

Si incamminarono svelti, uno dietro l’altro.

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Il bacio che adesso non ci diamo ***


Il bacio che adesso non ci diamo

Victor superò Maxence coi suoi passi lunghi, nemmeno avesse avuto gli stivali delle sette leghe.

Suo fratello lo guardò un po’ sorpreso e affrettò il passo, a sua volta, per tentare di raggiungerlo, e, ovviamente, superarlo.
Erano in vacanza, accidenti! pensò tra sé irritato, ma quel capellone non ne aveva abbastanza delle sveglie alla sei di mattina e di correre tutto il giorno? un po’ di pace, gli faceva schifo, forse? Era così imperdibile questo benedetto assolo?

A questo punto avrebbe anche scosso la testa con aria di superiorità, ma questo lo avrebbe rallentato, per cui si limitò a sbuffare molto inelegantemente.

Stavano correndo, senza correre, per una bambina bionda, che, in fondo, Victor nemmeno conosceva sul serio.
La conosceva solo di vista e nei racconti epici della piccola Jotun domestica dai capelli di fuoco.

Maxence sapeva che suo fratello si divertiva a disegnare e a dipingere: c'erano tante cose e tante persone nel suo quadernone degli schizzi. Mousquasso, Grimaud, il gelido mare di Terranova, una balena - venuta un po' male - le rose di casa loro… C’erano pure degli schizzi di quella bambina bionda.
Li aveva notati, ma... suo fratello disegnava un’idea.

Raggiunsero Sigyn che, pensosa, stava attraversando la stanza, le mani incrociate dietro la schiena, i piedini intenti a posarsi solo sui rombi neri del pavimento a scacchiera.
Victor superò anche lei senza degnarla di uno sguardo, e, sbucato nell’Atrio, raggiunse Monsieur Henri e Alo, che stavano parlando a bassa voce. O meglio... uno solo parlava: l'altro ascoltava con le orecchie basse.

Maxence vide suo fratello scusarsi per l’interruzione e sussurrare qualcosa a Monsieur Henri, a loro padre, che annuì divertito.
Poi se ne tornò indietro, rapido come quando era venuto, chiudendo la porta dietro di sé, con delicatezza.

Chi lo capisce è bravo rimuginò Maxence rassegnato, vedendolo sparire, a meno che… sollevò un sopracciglio. Ma non ebbe il tempo di impicciarsi, sia pur col pensiero, dei fatti di suo fratello: Monsieur Henri li stava squadrando severo - a casa, gli era chiaro, ci sarebbe stato un conto da pagare.

“Ragazzi, sbrigatevi.” il tono asciutto non ammetteva repliche.

Non gli importava, decise, avviandosi rassegnato verso lo scalone di marmo bianco, avrebbe pagato il conto e avrebbe anche osservato Horthense mentre suonava, splendida in tutto quel blu e quell’impalpabile azzurro, come una fata crudele, ogni sguardo non ricambiato una scheggia di vetro che gli si conficcava nel cuore.

Capiva quel tizio di cui aveva parlato la piccola Sigyn, quello perso appresso alla Jotun azzurra, che l’aveva mandata a prendere, senza tante storie. Quello della giovane Gerd, cuore del suo cuore.
Capiva, ma non condivideva.

Avrebbe potuto chiedere, anche lui, eh!
Senza bisogno di arrivare alle minacce alla famiglia, si intende, non siamo mica animali pensò disgustato.

E il padre di lei avrebbe pure risposto - a suo padre per altro, non a lui.

Ma l’unica riposta che contava era quella di lei: anche a lui piaceva molto di più la storia di Farbauti e di Laufey, incluso quello che avevano sicuramente combinato, dopo, quei due, su quelle pelli di lupo infernale, probabilmente morbidissime - alla fine, se ad un certo punto era nato Loki, qualcosa era successa… mica solo magia.

Anche se, obiettò dentro di sé, quella storia era, di certo, in gran parte, una fantasia della piccola mezza Jotun di Versailles, che leggeva storie d'amore in segreto.

Comunque, la risposta che contava l’aveva già avuta: Horthense faceva rima con tante cose, ma, a quanto pare, non con Maxence.

Basta, la faccenda era chiusa - si disse salendo i gradini - peccato che il cuore non fosse d’accordo, ma pazienza, lui adesso era grato a Dio se esisteva, al Caso, alla neve, che era stata tanta e bianca e soffice, al vecchio Antoine in Normandia e alle sua manie per le tecniche di caduta, alla moda dei corsetti con le stecche di balena e la stoffa rigida per le ragazzine, al giardiniere dei Jarjayes che non aveva lasciato pietre nel prato, a Sigyn che si era retta, in fondo, quasi fino all’ultimo - brava bambina! - ed era rotolata senza fare tanti drammi, e pure dopo era stata tranquillissima - il lato Asgardiano, probabilmente... stasera sarebbe passato con Alo a controllare che stesse davvero bene.

E soprattutto era grato a sua madre che sicuramente gli stava appresso dal Cielo, perché un angelo custode da solo, con lui, non sarebbe bastato.


Clément socchiuse la porta, lasciando dietro di sé suo padre ed i suoi fratelli. Non gli era sfuggito che Alo era nei guai e che suo padre gli stava facendo un discorsetto.
E faceva benissimo! Ce ne erano di cose da dire... a quei due!

Guardò Sigyn in bilico su di un piedino, incerta nella scelta del rombo su cui poggiare l’altro.

Lei sollevò lo sguardo e sospirò “Arrivo, arrivo... lo so, l’assolo, Oscar... bisogna sbrigarsi...”

Il ragazzo le bloccò la strada, costringendola ad arretrare.
Sembrava una partita di scacchi solo che lui aveva il vantaggio delle gambe lunghe, che lei, purtroppo non aveva.
Quando si ritrovò di nuovo ricacciata nel corridoio la ragazzina sospirò e cercò di superarlo, ma lui le bloccò la strada con un braccio. Lei cercò di passare sotto e lui lo abbassò intercettandola.

“Non vale!” esclamò piccata.

“Non sapevo ci fossero regole,“ rispose Clément senza scomporsi “... e comunque è una mossa efficace.” - sapeva che portava il corsetto con le stecche e che non poteva piegarsi come voleva.

“Cosa desideri?” tentò di essere affabile, ma le uscì un tono sussiegoso: non si ricordava se lo aveva perdonato o meno per tutti quei rimproveri di poco prima - le pareva di sì, anche se non se lo meritava, e poi le era piaciuto quando lui aveva detto che Loki mancava di sicuro ai suoi amici di Asgard, anche se non era certa che lui stesse parlando proprio di Loki… ma, anzi... proprio per quello... valevano come scuse? Secondo le regole no, però… una frase efficace, diciamo.

E poi c’era che Alo aveva ragione: non voleva costruire una nave di piccole unghie su cui veleggiare tutta sola per il suo Ragnarok personale. Non contro Clément. Clément, al massimo, lo avrebbe voluto in barca con sé a girare attorno al Grand Bé con l’alta marea. Chissà se era capace...
O forse alla barca ci avrebbe pensato lei e lui avrebbe tenuto tra le braccia Oscar lì sulla prua, roba un po' da cretini, su una barca piccola, ma magari sua sorella avrebbe gradito e capito alcune cose della vita, che proprio non le erano chiare.

Però pure lui ne aveva dette di cose! Una frase non sarebbe bastata!

“Io non ho mangiato le frittelle.” rispose Victor Clément con lo sguardo serio. Solo l'angolo della bocca tradiva l'idea di un sorriso.

Sospirò - no, questo ad un ospite proprio non si può fare... lasciarlo senza frittelle... un gesto imperdonabile.
E poi lui non le aveva mangiate perché le aveva lavato i capelli!
Le frittelle, a questo punto, gliele doveva.

Senza contare che era stato lui a occuparsi di farle cuocere…

Lo guardò di sottecchi.

E nemmeno poteva lasciarlo da solo nella cucina piccola, con il suo piattino - una buona padrona di cosa tiene compagnia ai suoi ospiti, non li porta in cucina, per poi andarsene per farsi i fatti suoi, nemmeno si trattasse di un mendicante a cui offrire un po’ di zuppa e un po’ di calore in inverno. E anche lì… neanche il mendicante lo si lascia da solo. L’Asciutta non l’avrebbe mai permesso.

Che poi, volendo mettere ben ben i puntini sulle i, questi fatti che si sarebbe dovuta fare invece di tenergli compagnia, cosa erano? Il concerto di quelle cinque! che nemmeno si erano degnate di avvisarla. Una lettera! In cinque non gli era riuscito di scriverle due righe con l’elenco dei brani e poi lei tanto si sarebbe arrangiata in qualche modo.
S’erano fatti i loro combini tra di loro, e lei era stata fin troppo gentile ad aiutarle ricopiando gli spartiti, tenendo il tempo, girando fogli, assistendo in parte alle prove - mica tutte, sia chiaro eh! non era mica la loro prima cameriera! - e tutto il resto.

Mentre lei se lo ricordava molto bene di Clément che la aiutava con le sue prima declinazioni in latino, sempre paziente con lei, come se avessero davanti tutto il tempo del mondo, fino a che non le erano filate liscissime.

Non tenendo conto di Horthense, che era una cosa a parte, se un debito ce lo aveva, ce lo aveva con Clément, non con Joséphine. Quanto ad Oscar... dopo le avrebbe parlato, ma molto dopo! Un "molto dopo" del tipo "prima di andare a letto"!

No, decise, era obbligata a restare con lui. Moralmente obbligata.

Una buona padrona di casa lo fa. Con gli ospiti.

E conversa elegantemente con loro.

Sollevò le spalle ben dritte e con grazia si voltò, precedendolo verso la cucina - era la padrona di casa e di certo non poteva piantare il muso a Clément sotto il suo tetto!
Per le scuse, quelle vere, quelle fatte per benino, ne avrebbero riparlato a Versailles. In campo neutro.

Clément la seguì mentre la piccola trotterellava davanti a lui, pensando che con quei capelli somigliava ad una volpe. Una volpe vanitosa con un fiocco verde e oro.
Gli piaceva disegnarla così: buffa e paffuta su zampine minuscole - nel suo quadernone degli schizzi; a sorpresa, ogni tanto gli scappava dalla matita o dal pennino, senza che se ne rendesse conto, quando magari si annoiava a lezione: c'era una volpe che si stiracchiava ancora mezza addormentata, una che evitava le pozzanghere, una triste, una che mangiava un biscotto...
A casa, quel pomeriggio, avrebbe fatto uno schizzo della volpe vanitosa su uno slittino, o sepolta in un cumulo di neve.

Silenziosamente ringraziò che fosse andata come era andata - non aveva visto il volo, ma aveva seguito le impronte e immaginato la traiettoria - dei pazzi, pure un trampolino!
E poi aveva visto il sollievo di Maxence, mentre la stringeva nel mantello, e i suoi fratelli non erano tipi da spaventarsi per poco: avevano, tra tutti loro tre, carte geografiche di lividi di cui nemmeno si ricordavano, se non quando li urtavano senza volere.

E quella spalla, accidenti.


Gli spiacque essersi arrabbiato prima, non era solo per la scortesia verso il concerto di una bambina come Monsieur Oscar, sicuramente sensibile e sicuramente con un futuro non proprio facile per via di quel Monsieur, ma… accidenti!
Possibile che la piccola proprio non si rendesse conto di quello che le sarebbe potuto succedere? che nemmeno si dispiacesse? che non pensasse a tutti quelli che, dopo, si sarebbero preoccupati per lei?

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Tanti tipi di baci per tante sfumature di te ***


Ringraziamenti: a Tetide, Françoise, Barbara e, come new entry Krys, mentre Lydialinne avanza dal passato, che mi hanno gentilmente tenuto compagnia in questo ultimo tratto di questa avventura




Tanti tipi di baci per tante sfumature di te

Victor Clément la osservò con approvazione mentre si aggirava rapida per la cucina piccola, servendolo, con una cura decisamente diversa da quella usata dai suoi fratelli: una tovaglietta di misure ridotte, con dei ricami azzurri, una cosa da bambole, secondo lui, - carina, dovette ammetterlo, sul legno scuro - un piattino di ceramica dal bordo ornato di blu, messo proprio al centro della tovaglia piccolina, la forchettina poggiata accanto al piattino, il tovagliolo, ripiegato rapidamente in modo elegante, una coppetta di vetro blu di Bristol per lavarsi le dita.
Gli fece tenerezza quel suo amore per i dettagli, che in fondo pure lui condivideva.

Poi Sigyn prese lo sgabellino e si sedette accanto a lui, guardandolo da sotto in sù.

“Come ti trovi all’Harcourt?” chiese educatamente.

“Te l’ho scritto.“ rispose tranquillo, servendosi “Intendi parlarmi elegantemente anche del tempo? Fuori nevica, si, mi piace molto e si, ho notato che piace molto anche a te. Per via degli slittini e delle slitte presumo, passione che a quanto pare, condividi con gli Svedesi, un po’ tutti da quel che ho inteso, senza grosse preferenze, e con l’ambasciatore russo. Non sapevo avessi un debole per Dmitry Golitsyn, a proposito, anche se non capisco cosa abbiate in comune, slitte a parte s’intende... forse perché è un collezionista d’arte? Mentre potrei capire una certa simpatia per sua moglie.”

“Perché balla molto bene?” chiese timidamente la bambina.

Il ragazzo mangiò con gusto una frittella e poi rispose con un lampo di divertimento negli occhi “Perché scommette a carte e vince - le conta come fai tu. Fa solo poche puntate a mazzo appena mescolato, sapendo già che perderà, giusto per confondere le acque.”

La bambina arrossì violentemente, poi aggiunse “Contare non è barare: è abilità. Un giocatore di scacchi non gioca a caso, sai? E nessuno dice che imbroglia solo perché pensa. Piuttosto… non stiamo facendo tardi per la seconda parte del concerto?”

“Arriveremo dopo, ho chiesto il permesso a mio padre.” rispose senza scomporsi.

“E l’assolo?” disse Sigyn corrugando la fronte.

“Abbiamo tutto il tempo - ho il programma: me l’ha comunicato tua sorella Joséphine.”

Victor depose la forchettina, con aria soddisfatta. “Le frittelle erano ottime.”

Lei annuì guardandolo sospettosa.

Lui osservò il panciotto della ragazzina, ripiegato ordinatamente sulla sedia accanto alla sua. I bottoni erano di tipo diverso e si alternavano: alcuni erano di un colore rosso acceso quasi violetto, adagiati su una base intricata marrone scuro, come delle bacche barocche, gli altri erano piatti e robusti: un cerchio verde grigio e al centro un fiore rosa acceso con 5 petali, il centro giallo.

“Sono rose? Fiori e bacche?” chiese educatamente.

La ragazzina annuì: “Rosa glauca...” sussurrò.”La mia.”


“Veniamo al punto,” disse Victor serio, appoggiando il mento sulle mani “mio fratello Alexandre ha le sue idee, io le mie. Io penso che Loki mancasse molto ai suoi amici, che probabilmente avrebbero gradito scrivesse un po’ più regolarmente. Anche se capisco che Loki potesse essere molto occupato a Jotunheimr con tutti quei lupi infernali e quei gatti blu a cui stare appresso.”

La ragazzina arrossì irritata.

“Poi volevo dirti che non conoscevo affatto questa storia dell’incontro tra Laufey e Farbauti… “

La bambina trattenne il fiato, ma Clément le fece un cenno con la mano per non farsi interrompere “Credo che alcuni dettagli siano proprio tuoi, sei una brava narratrice sai? Ho trovato interessante che Loki sia stato concepito a inizio novembre… un bambino di fine luglio e inizio agosto.” come avresti dovuto essere tu se tutto fosse andato come doveva pensò, ma non glielo disse e mi ricordo molto bene di quando scandalizzasti mia madre parlando della gravidanza delle mucche e del concepimento dei vitellini. Motivo per cui non intendo dirti proprio nient’altro perché già sai tutto quello che c’è da sapere. E se non ci arrivi da sola, allora non vale la pena perdere tempo a parlare con te.

La ragazzina arrossì e si guardò la punta delle scarpette.

“Io credo che Loki si divertisse molto ad Asgard, anche se forse un pezzo del suo cuore non stava lì, ma sempre con gli Jotun. Mi spiace che non si rendesse conto che era anche nel cuore di alcuni Aesir, anche se nessuno è nel cuore di tutti. Nessuno.”

La bambina soppesò con calma i fatti, che delle emozioni a volte si fidava poco - lui l’aveva superata, prima dell’atrio, andava a passo di carica per l’assolo - questo aveva pensato.
Però poi rapido era tornato indietro. Non aveva visto, ma a quanto pare aveva chiesto il permesso a suo padre di scusarlo per il ritardo o qualcosa del genere - Clément non si metteva mai nei guai scioccamente, pensava sempre alle conseguenze, lui. E preveniva, o arrivava preparato. A dama ti intrappolava.
Non come Oscar che non ci pensava mai, sempre sorpresa quando capitava il guaio, come se proprio non l’avesse mai visto arrivare. Pure se poi era un guaio grosso come un cinghiale e altrettanto furibondo.

Lei era un po’ a metà tra loro due, però non era scema. Poteva non sapere chi fossero questi benedetti Sette Re di Roma, con cui, a quanto pare, si erano fissati tutti, a partire da Oscar, ma non era scema per niente: tutta quella corsa era stata per lei, per poter… mangiare le frittelle.
Da soli.

Lo guardò soppesandolo. Non le avrebbe mai chiesto scusa, le era era chiaro - coi Girodelle quella era una parola un po’ difficile, pure Cassandra certi pomeriggi… ti toglieva il respiro da quanto era ostinata. Però non erano come Oscar che si chiudeva a riccio e ti tagliava fuori - quando esageravano, dopo, cercavano sempre il modo di fartelo capire che gli dispiaceva. Loro.

“Loki, tutto sommato è un dio simpatico.” riprese Clément in tono tranquillo “Sul Ragnarok aveva perfettamente ragione, secondo me. Però se la prendeva troppo… avrebbe fatto meglio a lasciar correre e a lasciarli parlare. Se ne dicon di parole...
Nel Lokasenna lo so che se la prende tanto perché non l'hanno invitato ad una festa e perché lì stavano parlando non tanto bene di lui, compreso Odino, ma è da lì che iniziano tutti i suoi guai.
Non conta mica il parere di tutti, cosa credi? Ormai stai crescendo... te lo dico come ad una grande: la cortesia è una cosa, ma dare davvero retta è un'altra." lo sguardo si fece penetrante e con la mano le toccò un braccio "Un parere a caso non lo si nega mai a nessuno, lo sai anche tu, c'è gente che non fa altro tutto il giorno, ma questo non vuol dire che a quel parere bisogna dare per forza peso: un parere a caso merita, al massimo, una risposta a caso. Quanto a Baldr... ne parliamo un'altra volta...”

Inutile pretenderle queste scuse, pensò Sigyn, nemmeno a Versailles in campo neutro. Però su quelle cinque, su tre di loro, per lo meno, le stava dando ragione. Ma, ovviamente, non su Oscar, che faceva sempre caso a sé. Le era chiaro.

“Loki non appartiene ad Asgard, non per davvero...” sussurrò la piccola, riluttante.

“Secondo me si.” disse Victor Clément, deciso, “E il colore dei capelli di Loki non conta.”

“Erano rossi.”

Victor la guardò interdetto perché era vero che lui aveva una passione pazzesca ed incontenibile per i capelli biondi, non poteva mentirle su questo. Poi disse: “Le persone con i capelli rossi sono gli unicorni della specie umana… rari, anche perché le rosse naturali ormai li tingono. Tra un po’ si dirà che voi rossi non esistete davvero, che siete leggenda." Guardò gli occhioni perplessi della ragazzina e tagliò corto "Sono carini non strani.”

La ragazzina lo osservò a lungo sospettosa. Poi disse senza guardarlo “Forse i miei capelli sono quelli della nonna… non l’ho mai conosciuta. Il nonno l’adorava e parla spesso di lei, dice che le somiglio.
Però, per me, i miei sono i capelli dello zio Jean Claude e sono tanto orgogliosa di somigliargli almeno in una cosa... " anche se, pensò, anche se...
"Io sono sua," aggiunse brusca, "mi ha comprato sai?”

Victor non disse nulla - avrebbe chiesto di questa storia a suo padre… interessante che la Numero Cinque si potesse comprare, volendo, chissà quanto costava?

“Non credo che tuo padre ti avrebbe ceduta così, sai?”

“Non capisci… Non è mio padre.” lo sussurrò, piano piano, che sentisse solo lui, quello di cui lei era certa e che non poteva dire a nessuno. Il dettaglio che spiegava tutto e metteva ogni cosa al suo posto. Quello su cui aveva rimuginato a lungo cercando una spiegazione su tante piccole cose che non erano come avrebbero dovuto essere. Alcune perfino dentro di lei, che in cima al suo affetto aveva il severissimo ed eccentrico Père Reynier.

Lui le fece cenno di accostarsi e le toccò la fronte con il dorso della mano.

“Sei fresca…” disse stupito.

“Ma certo!”

Delicatamente il ragazzo le sollevò il mento e le sfiorò la fronte con le labbra.

“Che fai?” chiese scontrosa “qui non c’è il vischio!”

“Nulla, vedo solo se stai bene...” ribatté imperturbabile.

“Io ti stavo parlando!”

“Oh lo so… ti ascoltavo,” le sorrise indulgente, “ma sono cose che non dovresti raccontare in giro, sai? “

Lei sbuffò “Lo so benissimo da me!”

“E di chi sei figlia, sentiamo?” chiese senza scomporsi.

“Non lo so di sicuro,” arrossì nel dirlo, “io pensavo, dato che mi piacciono così tanto i dolci, di un pasticcere.”

“Capisco” l’espressione del ragazzo era impenetrabile e la bambina proseguì.

“E poi una volta ho sentito mia madre che diceva che io ero stata cercata nella dolcezza… qualcosa vorrà dire no?”

“Immagino…” ma si guardò bene dal prenderla in giro. Anche se l’immagine di Madame Marguerite che, con aria birichina, rubava l’impasto di un dolce con un dito, facendo l'occhiolino ad un enorme pasticcere, lo faceva sorridere. Non credeva che fosse esattamente quella la dolcezza che una donna adulta aveva in mente...

“Un gran pasticcere, uno molto bravo, che gira per il mondo, e un giorno verrà qui a prendermi per portarmi via con sé.” riprese decisa.

“Via dove?” il ragazzo corrugò la fronte perplesso.

“In Spagna!”

“Parli spagnolo?” chiese Clément interessato.

“Lo sto imparando con lo zio Jean Claude!” disse timida come se gli stesse confidando un segreto.

Il ragazzo annuì, con aria di approvazione,”Fai molto bene, imparare delle lingue è un’ottima cosa. Forse potresti imparare l’inglese? Mangiano dolci anche lì sai?”

“L’ho studiato,” rispose tutta orgogliosa, “Però non come te… tu lo parli da quando sei nato.”

“Si, certo, mia madre è inglese. Puoi fare esercizio con Cassandra, e con mia madre, le farà piacere. Abbiamo molti libri, se vuoi, passa da me quando vieni a trovarla e ti trovo qualcosa che ti potrebbe piacere.”

“A me piacciono le storie d’amore!” disse lei come un dato di fatto irrefutabile e non mercanteggiabile.

“Io le trovo incredibilmente imbecilli.” rispose lui come un dato di fatto irrefutabile e non mercanteggiabile, “ma qualcosa troveremo, vedrai. In Spagnolo cosa stai leggendo?”

“La dama boba!”

“Sarebbe?”

“La dama sciocca…” sorrise, “è bellissimo!”

“Quando lo hai finito, me lo racconterai, le rispose cortese,”però… questa cosa su Madame Marguerite e il pasticcere… per favore, non raccontarla in giro…” povera Madame Marguerite, pensò tra sé, la Ladra di Dolci...

“Non la dico mai a nessuno. Ho provato una volta con Oscar, ma non vuole ascoltare.”

“Cosa le hai detto?” chiese interessato, “esattamente, intendo…” era proprio curioso di sentire un dialogo tra quelle due.

“Che penso che mi trasferirò in Spagna.”

Il ragazzo annuì “Questo lo puoi anche dire… è un posto molto caldo, hanno le zarzuelas… ti piacerebbe… temo.”

La bambina lo guardò con occhi sgranati e poi gli sorrise, un sorriso enorme e un pochino sdentato. “Sono contenta che ora lo sai. E comunque ti scriverei e saresti sempre invitato.”

“E’ ora di andare.” Le credeva. Nel senso che sapeva che lei ci credeva a quello che gli stava raccontando - tutte sciocchezze, figuriamoci! - era un pochino matta, ma crescendo le sarebbe passato. In fondo non era tanto diverso da credere ai mostri nascosti nell’armadio, all’Uomo Nero o dall'avere un amico immaginario.
Quando Cassandra si era fissata che c'era un mostro nascosto dietro il paravento della sua stanza, le spiegazioni razionali non erano servite, non c'era stato nulla da fare, se non regalarle una giraffina verde di stoffa. E Cassandra non era una mica stupida.
Aveva dei seri dubbi che ci fosse una giraffina abbastanza grande per queste fantasie di Sigyn, che non era scema nemmeno lei, ma avrebbe chiesto a sua madre, stasera, discretamente, qualche dettaglio.
Intanto, imparare bene lo spagnolo, male non le avrebbe fatto.

La precedette lungo il corridoio e poi si fermò a metà, bloccandola con il braccio, come aveva fatto, prima, senza toccarla. Stavolta però appariva incerto.

“Ho preso una cosa per Cassandra, prima, nel tuo giardino,” estrasse dalla tasca, con cura un bel fascio di ramoscelli di vischio, con le bacche lattiginose intatte, “ma penso farò a metà con te.”

Un po’ rigido le porse la metà del mazzolino di rametti di vischio “Puoi baciare chi vuoi, così.” La mano era tesa e lui sembrava non tanto sicuro di quanto stava facendo, ma così, nella penombra, era impossibile da dire.

Lei lo guardò come se non capisse bene cosa mai avrebbe dovuto farne, poi glielo confessò - "Io ho già baciato tuo padre sai?” glielo sussurrò in un soffio… un altro segreto, poi li aveva finiti. Di quelli grossi, almeno.

Victor ebbe una voglia improvvisa di sbuffare e alzare gli occhi al cielo ma si trattenne… suo padre! Ma che idee! Era proprio piccola….

Si scostò per lasciarla passare, pensando per un attimo a Loki prigioniero, incatenato su tre rocce dagli Aesir, che sognava il Ragnarok - non era un suo desiderio incatenare proprio nessuno. Tanto meno la sua amica!

La ragazzina si fermò a riflettere poi gli sorrise complice, nella penombra “Però lo prendo lo stesso, so cosa farne!”

Allungò la mano anche lei; lui sentì le punta delle dita che si sfioravano e la guardò sorpreso, pensando per un attimo che forse, per lui, lei, sarebbe diventata di colpo azzurrina, o forse bionda come le sue sorelle. Lo aveva sentito anche lei? Una specie di scossa sotterranea…

Ma lei se ne stava lì tutta allegra, la sorella di Oscar e di Horhense, la migliore amica di Cassandra… la protetta dei suoi fratelli - la cosa gli diede fastidio, aveva passato ore con lei, e a voler ben vedere l’aveva pure vista per primo…


Ma non ebbe tempo di pensare ad altro, lei lo prese per mano e se lo trascinò dietro correndo “Vieni dai! Non dobbiamo assolutamente perderci l’assolo!”




Ringraziamenti speciali:Fiamminga, che scrive Thorki, e a cui devo in parte l'amore per gli Jotun e, soprattutto, una tremenda giraffina.

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Quel bacio che non può cambiare ciò che è e ciò che è stato ***


Quel bacio che non può cambiare ciò che è e ciò che è stato

La vide scivolare dentro il Salottino della Musica e, improvvisamente, si sentì soddisfatta - era ora, pensò asciutta.
Oscar, però, non sorrise.

Questo accadeva un minuto prima.

Gli altri due spilungoni un po’ scemi, i figli di quell’amico di suo padre che piaceva tanto a quella grandissima sciocca, erano arrivati trafelati e tutti avevano fatto finta di non notare che erano in ritardo.
Se fosse dipeso da lei due frustate non gliele avrebbe tolte nessuno: la puntualità è la prima cosa, Suo Padre lo diceva sempre.
Se un uomo non riesce ad essere fedele nemmeno al minuto di un impegno che ha preso lui stesso, liberamente, cosa possiamo dire di quanto sarà fedele all’impegno in questione?
Cosa possiamo dedurre sulla sua fibra morale?

Questo accadeva un quarto d’ora prima.

Quanto a quella grossa sciocca: era un peccato che non si potesse rinchiuderla in una torre quando si comportava male - più che altro perché non avevano una vera torre adatta allo scopo, solo la colombaia. Suo Padre, non aveva dubbi, avrebbe approvato.
Eppure lei lo sapeva bene quanto si erano esercitate… Oscar strinse le labbra in una linea sottile: lei aveva preferito quei due a loro cinque.

Questo accadeva un’ora e mezza prima prima.

Ma quei due erano ospiti di suo Padre e toccava sopportarli - del resto sua sorella era ospite loro in continuazione: chissà cosa combinava e loro non battevano ciglio.
Se la carrozza non era disponibile, quella sciocca se ne andava in visita dai Girodelle, prendendo il cabriolet piccolo, quello dello zio Antoine-Benoit: a cavallo sua sorella non si muoveva oltre il loro giardino - era una da cavalli vecchi e pigri, o da acqua salmastra e scogli scivolosi, che puzzavano di pesce.
Lo zio aveva trasformando una vetturetta da smorfiose, per passeggiate nel parco, in una trappola leggera, tutta piena di molle e di cinghie perché fosse comoda, e non si ribaltasse in un fosso alla prima buca - così sosteneva lui, ma lei, Oscar François de Jarjayes, non ci avrebbe scommesso sopra un soldo: Suo Padre lo diceva sempre che le idee dello zio Antoine-Benoit non erano affatto da prendere sul serio!

Questo - delle idee dello zio - accadeva da sempre.

Quel cabriolet era una cosa ridicola, una conchiglia in bilico su due ruote altissime con la copertina per ripararsi dagli schizzi di fango e con il tetto a fisarmonica che si poteva aprire. Lui gliela aveva lasciato apposta, a quella sciocchina, perché non dovesse sempre chiedere.
E quella incosciente la usava.

In primavera, però… voleva proprio vederla sua sorella, con la pioggia o con questa neve, ad andarsene in giro da sola sul cabriolet, con le sue scarpettine assurde.

Questo accadeva da un anno. Grosso modo.

Suo Padre disprezzava quel genere di veicolo e faceva benissimo - una trappola che permetteva a chiunque, perfino ad un mercante di tessuti di Rue Saint-Denis, o a un libraio di Rue St Jacques, di avere una "carrozza" tutta sua senza dover mantenere una vettura seria, una di quelle con le modanature, gli angioletti, la stoffa e le imbottiture e i vetri e gli stemmi dipinti sul fianco… e soprattutto senza dover mantenere quattro cavalli, dei lacché ed un cocchiere.
Tutti cocchieri improvvisati che giravano per le vie di Parigi fino alle Porte, cercando di ammazzare ed ammazzarsi.

Questo accadeva da prima che lei nascesse.

Suo Padre chiamava quel tipo di veicolo La Brouette, la Carriola. Se avesse saputo che a sua sorella bastava un cavallo pigro e la Carriola, per sparire… ma nessuno glielo diceva, per fortuna di Didì.
E a Suo Padre non veniva mai in mente di chiedere.

Questo, in effetti, che chiedesse, non accadeva mai.

Tanto poi lei, il più delle volte, se ne tornava con la carrozza dei Girodelle, insieme a Cassandra - una smorfiosa piena di fiocchetti - e con uno dei suoi fratelli che, cortesemente, guidava a tutta velocità la Carriola, per riportarla a Palazzo Jarjayes.

Non poteva quindi rimproverarli per il ritardo, lo capiva da sola, per via delle volte in cui si erano occupati di riportare a casa quella sciocchina.

Questo, tutto questo pensare critico - il giusto - e un pochino seccato - forse - accadeva dieci minuti prima.

Dopo, però, si era stupita che lei non fosse arrivata con quei due; l’avevano sicuramente mollata da qualche parte, troppo noiosa perfino per loro, il che era tutto dire: noiosa per quei due così noiosi di loro.
Glielo avrebbe fatto notare, non appena poteva: cosa voleva andarsene in giro a fare? Non vedeva che il suo posto, quello giusto per lei era lì, a Palazzo Jarjayes, insieme ad André?
Invece lei… pensava alla Spagna.

Probabilmente, le interessava solo perché le piacevano gli smeraldi e andava pazza per degli orecchini con dei pappagallini di smalto verde - se lo ricordava che una sera aveva sospirato qualcosa su degli orecchini così.
Le sfuggiva che venivano dalla Colombia, non da Madrid.
Alla sua età, sua sorella, ancora non sapeva come era fatto il mondo.
Del resto non sapeva nemmeno chi fossero i Sette Re di Roma - non c’era proprio nulla di cui stupirsi.

Questo accadeva prima. Forse cinque minuti prima.

Dopo si era preoccupata. Che davvero se ne fosse andata in Spagna?
E se non in Spagna… in Normandia, a casa del Nonno Antoine, un uomo anziano che non capiva più che la severità era la prima delle virtù - lo diceva sempre Suo Padre.
E da lì, chi la stanava più?

Invece eccola qui. Con l’ultimo dei Girodelle, un capellone assurdo, con le gambe da merlo e i capelli che forse giusto il suo bisnonno... per fortuna che dopo il concerto si sarebbe tolto dai piedi: era ora che tutti questi ospiti - graditissimi, sia chiaro, gli era stata pure offerta la limonata - se ne tornassero da dove erano venuti.

Le sfuggì completamente - sua sorella era seduta in terza fila - che la mano della bambina stringeva ancora, senza accorgersene, quella di Victor Clément.
E che lo spilungone con le gambe da merlo e i capelli da indiano la lasciava fare.


Tra poco sarebbe toccato all’assolo e Madame Marguerite voleva essere concentrata su Oscar - aveva studiato tanto!

C’erano altri pensieri che la distraevano e avrebbe lottato per ricacciarli indietro.
Non pensieri oscuri, per fortuna - non ce l’avrebbe fatta una seconda volta a riannodare tutto - non come… non come tanto tempo prima.

Il primo passo verso il buio lo aveva fatto dopo Sigyn, svanita assieme a Jean-Claude - solamente il giorno dopo aveva capito di aver dato un assenso con il suo silenzio.
E il giorno dopo ogni traccia che in quella casa avrebbe dovuto esserci un bambino era stata fatta accuratamente sparire: la culla di legno verde pallido, con il fregio veneziano con le conchiglie dorate, la Madonna piccolina dipinta sulla testata, le zampette curve… scelta con tanto amore per quel bambino, che avrebbe dovuto essere un nuovo inizio, e, allo stesso tempo, il suo ultimo figlio. Svanita.
Ogni traccia era stata rimossa.
Tranne i suoi seni, che le dolevano di un dolore inutile.
Tranne gli occhi enormi di Horthense che la scrutavano, giudicandola, forse, per la prima volta.

Lei non aveva detto nulla, quella volta, nulla, nulla di nulla.
Non lo aveva capito che pure il silenzio può essere letale.

Se lei, se solo lei… Jean-Claude non avrebbe mai scelto al posto suo. Mai.
Ricordò quel bacio lieve, sotto il vischio: era stato il bacio innocente di una ragazzina molto piccola, che non sapeva nulla della vita, così occupata ad essere la figlia perfetta di suo padre e di sua madre da non avere più spazio per essere qualcosa di davvero nuovo.

Si ricordò di Jean-Claude, quella notte, i capelli rossi, legati con un laccio di cuoio, che si preparava a battezzare Sigyn e proponeva la sua lista di nomi, mentre Augustin rabbrividiva dal disgusto. E lei lo capiva, capiva le ragioni di Augustin, deluso da lei, dalla bambina, che per lui non era nemmeno una bambina.

Il primo nome era stato un regalo di Jean-Claude per lei, per la ragazzina che era stata e per la donna che era, forse perché si scuotesse e capisse che quella piccolina era sua e che pure lei poteva decidere: non glielo aveva detto, solo poco prima, quando il dolore era iniziato e lei aveva implorato dentro di sé che si fermasse, che le desse tempo, che desse tempo al bambino?
Lei, proprio lei, non aveva detto che andare a piedi da ogni essere vivente ad implorarlo perché salvasse il suo bambino non era un prezzo troppo alto da pagare per Frigga?

Ma lei non lo aveva capito. Frigga aveva implorato tutte le piante della terra perché non facessero male a Baldr suo figlio e lei non era riuscita a dire nulla ad Augustin, che stava in quella stessa stanza, a pochi passi da lei.

Anche se forse era stato meglio così; quei tre uomini fuori dalle righe, in Normandia, erano stati più abili di quanto lo sarebbe mai stata lei, così brava a seguire le regole, mai a disfarle. Sigyn le sarebbe scivolata tra le dita come…

Non poteva nemmeno pensarci, il dolore, la seconda volta, era stato immenso. Augustin aveva disposto subito per un Battesimo in casa, e non si era chiesto, quella volta, se era vita, quel respiro che piano si spegneva davanti ai loro occhi, o se era solo la brutta copia blasfema di una vita.

Si mantenne ben dritta sulla poltrona, apparentemente distante, ringraziando per il busto che non la lasciava crollare mai.

Madame Marguerite se lo domandò, alla fine, se lei era stata davvero una buona moglie.

Ma cosa faceva di una moglie, una buona moglie?

Una buona moglie è quella che obbedisce al marito e lo segue passo passo? Due persone che lasciano una sola fila di impronte sulla sabbia?

Una buona moglie è quella che fa di tutto per rendere suo marito felice?

Una buona moglie è quella che sa fare un figlio maschio?
Si prende moglie per quello, in fondo no? Sapeva benissimo che esistevano tanti modi per coprire le variegate necessità dell’amore e del desiderio - dalle amanti ufficiali, come la Pompadour, ai bordelli - ma, per fare un figlio, ad un uomo, occorreva per forza una moglie.

E, se non le riesce? Se non sa fare figli maschi?
Una buona moglie, forse, è quella che - per espiare - consente il sacrificio di una delle sue bambine? quella che le aveva riempito di nuovo il cuore? quella che l’aveva aiutata a dire addio ai due bambini morti? Perché allora lei non aveva mai sperato o saputo. Soprattutto lei non aveva mai chiesto nulla.

Pensò a Sigyn, l’Aesir della mitologia norrena, la Dea della Fedeltà.
Il marito di Sigyn, Loki, un briccone che a volte seguiva regole tutte sue, aveva commesso un atto terribile con un ramoscello di vischio.
Baldr, il figlio così tanto amato da Frigga, aveva un fratello, Hodhr, che era nato cieco, e che non poteva quindi essere un guerriero - per questo motivo nessuno ad Asgard lo guardava due volte, nemmeno Frigga, sua madre.
Quando Frigga aveva ottenuto da ogni pianta, pietra e metallo della terra, il giuramento di non fare mai del male a Baldr - e solo a Baldr, solo a lui! - tutti avevano trovato divertente colpirlo con ogni tipo di oggetto. Non sapevano che tutte le piante avevano giurato, meno una: il vischio. Loro, gli Aesir, non lo sapevano, ma Loki, lo Jotun, lui sapeva, aveva capito, e quello che non poteva dedurre lo aveva saputo chiedendo, e quello che non poteva sapere chiedendo direttamente lo aveva ottenuto con l'inganno.
Fu una festa, forse, a scatenare il tutto: se Loki fosse stato Greco si sarebbe limitato a forgiare una mela d'oro, assolutamente non avvelenata, a scrivere un bigliettino, quello si velenoso, e a godersi tutti i guai che ne sarebbero venuti, compresa una guerra degli uomini durata dieci anni. Invece era Jotun.
Armato dal suo risentimento per il senso di esclusione da Asgard, e per l'invidia verso Baldr, fece l'inaccettabile: donò un ramoscello di vischio a Hodhr che se ne stava triste in disparte.
Davvero Hodhr non sapeva? Davvero Loki voleva?
Fu l'unione di due desideri, forse, o solo il caso, o forse mille volte quei sentimenti, covati a lungo, si erano sfiorati, e quella fu solo la volta in cui successe davvero? Fosse ciò che fosse, Hodhr volle provare a colpire suo fratello, per fare, per una volta, anche lui, una cosa da guerriero.
E così un cieco, che non sapeva nulla di come combattere o tendere un arco, con un unico colpo, a caso, aveva ucciso Baldr.

Del resto per uccidere un uomo basta un colpo solo, anche incidentale, è un dato di fatto.

Gli Aesir gli furono subito addosso come lupi e lo massacrarono.

Per punire Loki, sacrificarono i figli della dolce Sigyn, amata da tutti e che non litigava mai con nessuno: il primo, trasformato in un lupo, era stato spinto a sbranare il fratello. Con le budella del secondo gli Aesir avevano incatenato Loki su tre spuntoni di roccia, e sopra di lui avevano posto un serpente, perché colasse, goccia a goccia, veleno bruciante sul suo volto.
La dolcezza di Sigyn non servì a salvare i bambini. Nessuno si ricordò di lei, del suo dolore, il suo amore di madre fu semplicemente calpestato come un fiore in un prato - senza farci caso.
Evidentemente c'erano cose più importanti.

Sigyn era stata una buona moglie: con le braccia alzate aveva retto una coppa, sotto i denti del serpente, per raccogliere il veleno, goccia dopo goccia, per proteggere Loki, allontanandosi solo per svuotarla quando era piena.

Era quello una buona moglie? Colei che, fedele e costante, tace e regge la coppa, goccia dopo goccia, i muscoli tesi fino al tremito, il sorriso sul volto? Sempre dalla parte di suo marito, nel bene e nel male? Senza mai rimproverargli la sorte dei loro bambini?

O una buona moglie è quella che cammina accanto al marito? Che lo avvisa che, forse, a un certo punto, loro due hanno sbagliato strada?

Una mattinata brutta - pensò - forse era tutta quella neve, o quel vischio con tutti i suoi ricordi, dolci e velenosi, o forse la sparizione di Sigyn, che le riportava nel cuore l’ansia della prima sparizione, o la richiesta di Horthense di portarsela via come se avesse deciso che quella non era la casa giusta per Sigyn, o lo sguardo del più piccolo dei Girodelle che aveva letto qualcosa dentro di lei e non l’aveva giudicata.

Ma adesso toccava all’assolo di Oscar, decise, sistemandosi con cura le pieghe del vestito, e non si sarebbe distratta.



Henri Elie Maxence guardò senza volerlo, assolutamente senza volerlo, la ragazza alta, vestita di blu, con quel fichou da fata sulla pelle candida.
Accidenti all’assolo di Monsieur Oscar e alla buona educazione di Victor! Lui non doveva per niente stare lì. Non ce la faceva.
Lui era venuto con suo padre per porgere dei saluti al Generale e a Madame Marguerite. E basta - questo non era compreso. Questo era troppo!
Prima se le era svignata per fare qualcosa di folle e non pensare, ma adesso Victor lo aveva inchiodato al suo dovere di ospite, amico, figlio ed adulto.

Non riusciva a capacitarsi di come fosse possibile, ma lui, se c’era Horthense, si sentiva sempre in bilico, come su quello slittino, solo poco prima, come se bastasse un piccolo disequilibrio, un soffio di vento nella direzione sbagliata, perché il suo cuore scivolasse, indifeso, verso di lei a velocità crescente, senza niente per poterlo fermare, nemmeno uno straccio di siepe.
Amore, ma non delicato:c’era anche tanto desiderio.

Lui capiva benissimo quel tizio, quello di Gerd, di cui aveva raccontato la piccola mezza Jotun di Versailles, quello che aveva preteso la giovane Jotun, disposto a maledirla, pur di averla, con la certezza che lei, in quel modo, avrebbe comunque maledetto lui.

Una parte di lui si sarebbe voluta alzare, prenderla per mano e portarsela altrove - ovunque - solo per accarezzarle il volto e baciarla, sfiorare con le labbra quella pelle candida fino a sentirla fremere per lui, accesa dal suo stesso fuoco.
Era possibile, il desiderio ha delle sue leggi che molto spesso non coincidono con quelle del cuore. Il piacere si impara. E lui non aveva fretta: per insegnarle avrebbe preso tutto il tempo che ci voleva per trasformarla da moglie ad amante.

Avrebbe voluto prenderla contro gli stucchi dorati di una stanza qualunque tra la casa di lei e la stanza di lui - tra tutti e due ne avevano a bizzeffe di dorature - o nel gelo della neve, o nella sua stanza, dove la sognava tante di quelle sere sentendosi di nuovo sciocco e ragazzino.
Aveva un letto grande, un camino con un buon tiraggio, che altro serviva?

Desiderava accarezzarla fino ad obbligarla a dire il suo nome sulle sue labbra, sotto le sue dita.
Anche se lui sapeva, lo sapeva molto bene, che lei non provava assolutamente quello che provava lui: certi sentimenti sono come fiumi che scorrono tumultuosi in un senso solo e non esiste nulla che possa invertirne il corso.
Al massimo lui poteva indurla a desiderare.

Un’altra parte di lui, invece, voleva solo strisciare per chiederle perdono per aver osato anche solo immaginarla tra le sue braccia.
Non beveva più - certe sere, tra amici, si era ritrovato a salire in sella al suo cavallo col pensiero di andare da lei, ad ululare sotto le sue finestre, come l’animale che era. Non gli riusciva di immaginare una vita in cui lei era di un altro e nemmeno una in cui lei era sua - lei non lo voleva, non lo amava e non lo desiderava… non l’avrebbe mai chiesta. Mai.

La sola cosa decente da fare era aspettare pazientemente che il suo cuore tornasse a essere senza padroni - prima o poi sarebbe successo.
Se c'era una cosa che aveva imparato con i conciaossa del Vecchio è che la vita è ostinata: aveva assistito alle amputazioni, aveva visto il dolore di un braccio spezzato svanire... Per un cuore sarebbe stato lo stesso?

Per il resto: inutile prendersela con qualcuno, e, di certo, molto meschino odiarla.
Il Caso.

La sfortuna.

O forse era lui che non meritava quell’amore.

Scosse la testa.
Forse, semplicemente lui non era fatto per un amore che non fosse a pagamento - patti chiari, amicizia lunga, era così che si diceva, no? Sperò che l’assolo finisse in fretta, così se ne sarebbe tornato a casa. O in una casa dove ogni gesto di amore aveva un tariffario preciso - non gli interessava il piacere ad ogni costo, l’aspetto manipolativo della seduzione per il gusto di scopare il difficilmente scopabile; trovava molto più onesto che il costo ci fosse, fosse ben preciso e lasciasse fuori le illusioni e i giochi di prestigio.

Ma prima avrebbe dovuto spiegare a Madame Marguerite perché la Topolina di Versailles aveva un bernoccolo sulla fronte e concordare con lei una punizione, per sé, che avesse un senso. Il Generale lo avrebbe lasciato fuori solo per non mettere nei guai Sigyn - non era un codardo - perché la ragazzina, in fondo, aveva solo sognato una fettina di Ragnarok tutta per sé.
Cosa che, per altro, ogni tanto era capitata pure a lui.

Accavallò le gambe e strinse i denti. Come se non bastasse, il suono del violino, a lui, non piaceva per niente - preferiva la vilhuela.

Guardò distrattamente Monsieur Oscar e pensò che aveva scelto un pezzo molto tecnico... aveva il fascino della risposta sempre giusta - sarebbe piaciuta di sicuro a Victor il Perfetto. Forse.

A meno che anche suo fratello non trovasse molto più divertenti certe folli risposte sbagliate.




Victor Clément de Girodelle si godette l’assolo di Oscar François de Jarjayes, assorto nel profilo assorto di lei e nelle mille sfumature di biondo dei suoi capelli, corti fino alla nuca. Aveva delle ciocche quasi bianche, altre, la maggior parte, colore del grano, altre sembravano del colore della sabbia sotto il sole, e altre biondo cenere. Altre ancora avevano lo stesso colore dello zucchero caramellato prima di diventare nero.
La molteplicità di colori di ciocche era tipico dei bambini e, oziosamente, si chiese, che tipo di biondo avrebbe assunto da grande, quale sarebbe stato il suo colore definitivo.

Quanto al pezzo che aveva scelto...tecnicamente aveva molto da studiare e si capiva, ma era bravina, non era il solito strazio di violinista di buona famiglia.

Non si accorse, così, del momento esatto in cui Sigyn smise di stringergli la mano.

Quando se ne rese conto la guardò, incuriosito, ma la ragazzina se ne stava pensosa, appoggiata allo schienale, le mani incrociate elegantemente in grembo, lo sguardo attento all’esibizione finale delle sue sorelle.

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** E finalmente si vede un bacio ***


E finalmente si vede un bacio

Nel brusio del dopo concerto, fatto di bisbigli, complimenti, ricerche di rassicurazioni, frusciar di gonne e ticchettare di scarpettine sul marmo color panna, la bambina dai capelli rossi, appartata vicino ad una delle finestre del Salottino da Musica, estrasse con attenzione il mazzolino di vischio dalla tasca interna della gonna.

“Perché?” chiese André sospettoso.

“Perché quando le cose stanno in un certo modo, è inutile girarci intorno o fingere che non sia così!” rispose pratica la ragazzina, dividendo con cura il mazzolino e donandogliene una parte.

Le orecchie di André divennero color della brace, ma poi le rispose, con un sorriso buffo sul viso “Leggi troppi romanzi d’amore, secondo me…”
Intanto, però, prese con cura i rametti e li ripose nella tasca del suo giustacuore, come fossero stati  un tesoro.
La ragazzina fece una smorfia, prendendolo in giro, ma senza cattiveria.

“Non immaginarti cose che non esistono.” precisò André, nervoso, in un sussulto di orgoglio.

“Io non immagino proprio niente,” ribatté la piccola, con le braccia intrecciate dietro la schiena, “però te lo sei preso, mi pare, questo vischio di cui non sai proprio cosa fare...”

“Non so che farne sul serio!” insistette il ragazzino arrossendo, e la ragazzina alzò le spalle. “Non mangiare le bacche, mi raccomando!” aggiunse giudiziosa, osservando con cura la punta delle sue scarpette “sono velenose.”

André alzò gli occhi li cielo, ma non replicò - non c’erano poi molti usi per un rametto di vischio, lo sapeva lui e lo sapeva molto bene pure lei. Era chiaro che lo stava prendendo in giro.

“Qualcosa ci farai. Anche solo un abbraccio, sai? Non deve essere per forza una faccenda da innamorati, siamo tutti così piccoli! Il vischio è di buon augurio," lo guardò affettuosamente, "dietro c'è una storia complicata, ma quello che ti serve sapere è che non nasce affatto da un gesto d’amore, non so se conosci la storia…“ lo guardò dubbiosa, “A te non interessa molto la mitologia norrena, vero?"
André scosse la testa e la ragazzina riprese in tono paziente: "Nasce da un gesto molto brutto, uno screzio tra guerrieri che non sanno fare pace in tempo. Se l’avessero fatta, il mondo non sarebbe finito con il Ragnarok...” la ragazzina tacque arrossendo, poi aggiunse: “Lei pensa siano tutte smancerie da femmina… è proprio sciocca, sciocca senza rimedio,“ scosse la testa, “è un gesto di buon augurio…” poi lo guardò maliziosa “oppure lo userai con un’altra in un altro modo… non sono mica io che decido.”

Tacque un attimo, poi aggiunse riluttante “Ne darò un pochino anche ad un’altra persona. Mi spiace. Ma si merita una possibilità...” Accarezzò piano il braccio di André, come per consolarlo di qualcosa, ma lui non capiva “Forse anche per… quella persona le cose stanno in un modo e nemmeno se ne accorge.” cercò di spiegare la ragazzina, incerta.
Poi sussurrò pensosa “Forse… o forse no. In ogni caso... non sarebbe un male per Oscar. Capire tutto quello che è possibile, intendo...”

“Perché dovrebbe spiacermi?” chiese il ragazzino stupito.

Stavolta fu Sigyn ad alzare gli occhi al cielo  esasperata - tutti che dicevano di sapere tutto e poi non sapevano mai niente! Solo nomi di Re! -  “Magari perché ha gli stessi gusti tuoi.” rispose con pazienza.

“Cioè?” chiese André spalancando gli occhi, stupito, “In che senso?”

“Gli piacciono le mele,” tagliò corto la ragazzina e si allontanò a passo svelto - non aveva mica tempo da perdere, lei, con un imbranato!


Nel centro della stanza Victor Clément si complimentò rigidamente con Monsieur Oscar, che lo ascoltava appena, irrequieta - tutti e due lanciavano sguardi distratti verso Sigyn ed André che, in disparte - che ineducazione - si scambiavano del vischio e si dicevano va a sapere cosa. Victor aggrottò le sopracciglia - era quello ciò che la pazzerella voleva farci con il suo regalo? Darlo a quel ragazzo che seguiva Monsieur Oscar come un'ombra? E per farne cosa? Per quanto ne sapeva lui, il grosso pregio di André era essere bravo a dama - giocava con Sigyn - c'era per caso altro che avrebbe dovuto sapere?  


Il Generale li raggiunse e, con un gesto brusco, mise la mano sulla spalla della ragazzina bionda, attirandola a sé, poi, con la voce piena di orgoglio, esclamò “Ben fatto! Di solito non amo questa musica moderna, ma Voi Oscar, mi avete reso orgoglioso! Ottimo lavoro! Potevate fare meglio, ovviamente, ma avete le giornate piene di impegni seri! Non come le Vostre sorelle, che non hanno altro da fare tutto il giorno! Domani lavoreremo un po’ sul fiato, ce ne andremo nel bosco a correre e Vi mostrerò degli esercizi da fare! Per uno spadaccino il fiato è importante! In un duello, a parità di tecnica, il fiato gioca un ruolo innegabile... ma intanto, che non si dica che la gente d’arme non ha anche un animo per l’arte! Voi che ne dice Victor?”
Il ragazzo arrossì - la più brava era Horthense e, rispetto alle altre, non c’era proprio gioco, ma sapeva che non era quella la risposta che quell’uomo si aspettava. Mormorò qualcosa di neutro in tono educato, osservando come lo sguardo di Monsieur Oscar si illuminava, perso nel viso di Augustin de Jarjayes.
Non lo stava ascoltando era chiaro, assaporava ancora i complimenti del Generale.
Suo Padre.
Non di un pasticcere.

Di colpo si sentì in imbarazzo e fu  Alo che giunse in suo soccorso, declamando versi in inglese. L’uomo che non ha musica nel cuore ed è insensibile ai melodiosi accordi è adatto a tradimenti, inganni e rapine.
Il Generale rise e Victor si rilassò, mentre distrattamente, li ascoltava chiacchierare. Ripensò a quella giraffina verde di sua sorella, con cui per tanto tempo se ne era andata a dormire Cassandra, la sua difesa con il Mostro del Paravento. Forse con Sigyn… forse  avrebbe fatto meglio a regalarle qualcosa del genere e non del vischio.

 

Maxence, Monsieur Henri e Madame Marguerite parlottavano, intanto, vicino al camino. La donna, ad un certo punto, si portò una mano al cuore.

Fu Joséphine che venne ad interromperli e i tre si sciolsero come in una danza, dove ogni gruppo di dame e cavalieri si scompone e ricompone a tempo e con grazia.
 

Sigyn sorrise ad Alo, che si era liberato, e gli porse cerimoniosa dei rametti di vischio.
Alo inarcò un sopracciglio e la ringraziò, ironico, anche a nome di Joséphine, che, sicuramente, avrebbe gradito, avendo quel giusto grado di coquetterie, tipico di una damina di Versailles.
Mademoiselle Josée era curiosa di provare qualcosa che non padroneggiava bene, lui ne era certo, ma le serviva la giusta circostanza (del ragazzo le importava poco e al ragazzo andava molto bene così, non era mica quel pazzo sentimentale di suo fratello! Le donne servivano ad una cosa sola! Come lui a Joséphine, questo gli era chiaro). Ma tutto questo a Sigyn non lo disse: o non avrebbe capito o, pensò incerto, non avrebbe approvato.
Anche se lei non era una donna.

La bambina lo osservò pensosa, ma non disse nulla - Joséphine ultimamente non le stava proprio simpatica, anzi... le faceva un po’ un certo effetto tartufesco, e, per tutta la faccenda del concerto, a ripensarci, le sembrò sempre meno da apprezzare: era quasi certa che non fosse stata una svista, che sapesse bene cosa stava facendo tagliandola fuori... ma se Alo voleva baciare proprio lei, di sicuro aveva suoi motivi. Facesse pure. Scosse le spalle e non rispose nulla.


Nemmeno ne avrebbe avuto il tempo, perché sentì le mani di Maxence, afferrarla per le spalle e girarla senza tanti complimenti.
Con le dita, una sorpresa così delicate, le sfiorò il bernoccolo che cominciava a cambiare colore virando verso il viola scuro “Ripasso stasera a vedere come stai, va bene?” Lei annuì.

Non era il bernoccolo a preoccuparlo, ma che internamente andasse tutto bene: coi conciaossa aveva imparato che può succedere di tutto, ma, se succede, succede in meno di ventiquattro ore. La osservò con attenzione, pensando che gli sembrava fosse tutto a posto: così allegra era pronta per un'altra scivolata. Magari con una slitta da spingere, pensò, a casa ne avevano una, nelle stalle...
Non sarebbe tornato solo per lei, ma non glielo disse - troppe domande - suo padre gli aveva prospettato una punizione che aveva fatto sorridere Madame Marguerite.
Passando le avrebbe portato del linimento - una pomata con arnica montana, salice, artiglio del diavolo e un pochino, giusto un pochino, di oppio - per la spalla: tra poco avrebbe cominciato a farle male. Le era andata bene... avrebbe mosso il braccio un po' male, per qualche giorno, ma nulla più - i legamenti erano a posto e nulla si era slogato.


Lei gli diede quel che restava del mazzolino di vischio, tenendo per sé solo un paio di rametti  e lui la guardò perplesso. Non c’era nessuna di cui gli importasse che lo avrebbe baciato per amor del vischio - gli avrebbe fatto male, anzi... ferita mortale - e quelle che stasera avrebbe baciato… di certo non lo avrebbero fatto in cambio di bacche… ma ritenne più corretto tenere il pensiero per sé ed apprezzò il gesto.

 

Fu lei che cominciò a parlare di una gita in barca fino ai Minquiers, per quando fossero stati in Normandia, con uno degli zii, cosa che ai ragazzi parve interessare parecchio, anche se ribatterono proponendole di venire da loro il giorno dopo: voleva pattinare sullo stagno? Si stavano mettendo d’accordo, quando giunse Horthense con lo sguardo severo fisso sulla fronte della bambina, pronta ad esigere spiegazioni. A quel punto fu Victor a correre in soccorso di Maxence - non ce l’avrebbe mai fatta a farsi trattare come un disgraziato proprio da quella, tra tutte le Jarjayes. Suo fratello avrebbe strisciato in terra chiedendole perdono. Avrebbe fatto benissimo, s'intende, ma lo spettacolo sarebbe stato penoso!


La danza tra le sei dame ed i sei cavalieri continuò ancora per un po', fino a che non sciamarono fuori dal Salottino, giù per lo scalone e verso l’Atrio. Tranne Oscar ed André.

 

“Volevo farti vedere una cosa...” disse, con circospezione, il ragazzino dai bellissimi occhi verdi, toccandole il braccio, per trattenerla.
Oscar si fermò e lo guardò incuriosita con i suoi grandi occhi chiari.

André tirò fuori dalla tasca del giustacuore i rametti di vischio e le sorrise.

 

“Te l’ha regalato mia sorella, vero?” disse Oscar scontrosa. Li aveva visti, quei due, che confabulavano per i fatti loro, tagliandola fuori. Come si erano permessi? Lui era suo e lei era sua sorella! Rimpianse che a Palazzo non ci fosse nessuna Torre in cui rinchiuderli per un paio di giorni: una bella lezione era proprio quello che sarebbe servito a quei due sciocchi!
Però loro avevano solo la colombaia, che faceva veramente schifo con tutti quegli escrementi di piccione - quella, in tutta onestà, quei due non se la meritavano. Restava la Torre dell’Acqua, ma, probabilmente, ci si sarebbero fatti dentro il bagno. Capacissimi! Con l’acqua che alimentava le cucine! Storse il naso disgustata.
No, quei due, se dovevano essere rinchiusi dovevano essere rinchiusi separati. Forse in cantina… ma sua sorella aveva il terrore dei ragni, dopo quella volta... il Generale l’aveva fatta serrare nella carbonaia per punizione e Margot-Pur-Beurre, la cameriera di Joséphine, s’era dimenticata di liberarla fino a sera. Era stata quella smorfiosa di Cassandra che aveva un appuntamento con lei ed era venuta a cercarla... Sigyn diceva che non le era importato - ma Sigyn non le diceva mica tutto! Aveva dei segreti... però, per quello, in una cantina non ce l'avrebbe chiusa mai. Ma un Torre... era tutta un'altra cosa... peccato non averne una.

 

“Si,” rispose lui guardandola negli occhi, “per usarlo con te” puntualizzò, ma la bambina fece uno sguardo schifato.

“E’ roba da femmine!” disse brusca,”per fare quelle smancerie che piacciono tanto a quella sciocca, con cui, tra parentesi, non parlo più!” tacque un momento, poi aggiunse, “Finché non chiede scusa, s’intende… allora forse, potrei ancora parlarle...”

Aspetta e spera pensò André tra sé alzando gli occhi al cielo, Sigyn non gli era sembrata tanto pentita di essersela svignata perdendosi l’esibizione delle sorelle, che, secondo lei, suonavano pure in modo straziante; a pentirsi non ci pensava proprio, anzi… da un paio di osservazioni fatte prima, in privato, c’era pure una piccola faccenda da sistemare: il fatto che non l’avevano avvisata del Concerto. E non aveva torto, ammise tra sé. Oscar non lo aveva fatto apposta - non ci pensava mai alle cose - ma scrivere due righe...

“Non è roba da femmine!” puntualizzò irritato, “Tu la storia non la sai!”

“Perché tu sì?” lo rimbeccò irritata la bambina.

André tacque un attimo e poi cortese le disse “Mi ha raccontato velocemente tua sorella...” e con un tono di voce molto serio, chiese “tu pensi che lei sappia quello che dice?”

Oscar soppesò tra sé la domanda; sua sorella ignorava allegramente molte cose, lei lo sapeva bene e il Precettore lo sapeva anche meglio di lei, poveraccio! Però ne conosceva perfettamente altre - quelle che la interessavano per inciso. E il vischio… sembrava interessarle assai “Cosa è che ti ha detto?” domandò scontrosa.

“Non è solo un gesto tra innamorati, è anche un gesto di amicizia tra guerrieri, di buon augurio, per chiudere le liti, e cominciare da capo un anno nuovo.” rispose sicuro André con lo sguardo fermo.

“Tra guerrieri?” chiese la ragazzina incerta.

“Tra guerrieri,” ribatté André in un tono che non ammetteva repliche. “Guerrieri che avevano discusso... Guerrieri barbari, con le corna, che non si lavavano, mangiavano un intero bue arrosto e si pulivano le mani unte sulla tovaglia! Maneggiavano asce, facevano a pugni durante i banchetti, si ubriacavano con l'idromele! e poi davano fuoco ai villaggi, uccidevano i villici! Guerrieri vichinghi, mica femminucce! Era un uso loro." E aggiunse, tutto sussiegoso "Norreno, dice tua sorella! Norreno!”

“Ah beh… allora…” lei gli sorrise incerta.”Se lo facevano i vichinghi…”

“Si! I vichinghi si baciavano sotto il vischio!” completò lui deciso, poi, con aria di importanza, prese i rametti e glieli sistemò tra i capelli, come un fiore. La osservò con un sorriso soddisfatto: il verde nell’oro stava proprio bene! Peccato non averne abbastanza per farne una coroncina…
Delicatamente la attirò a sé e con un braccio le circondò le spalle; lentamente piegò la testa per baciarla sulla guancia, assaporando il momento e pure l’attesa di lei, che, a quanto pare, non cercava di scappare da nessuna parte… anzi.

Lei lo abbracciò stretto cingendogli la vita e per un pochino restarono così, insieme. Poi lui le scompigliò i capelli con affetto “Peste!” le disse e lei ridendo si staccò da lui.

Il rametto cadde in terra senza fare rumore.

 

“Dobbiamo fare qualcosa per Sigyn, “ disse Oscar, decisa, “sai? vuole andare in Spagna!”

André sospirò “Forse dovresti parlarle… fare pace...”

“Dovrei parlarle per prima? Non ci penso proprio!” esclamò Oscar con aria sdegnata.

“Forse se dormiste insieme…” suggerì lui, incerto, “so che chiacchierate la sera...”

“Ha il suo letto!” replicò seccata.”E io ho il mio! Perché dovrei andare da lei? A fare cosa?”

“Si ma…” André la guardò incerto, “se fosse lei che non potesse usarlo?” cercò di suggerirle senza sbilanciarsi troppo, "se fosse lei a dover venire da te a chiederti ospitalità..."

Oscar socchiuse gli occhi… non le spiaceva l'idea di dover ospitare graziosamente sua sorella nelle sue stanze, e che lei dovesse dirle grazie e per piacere... le avrebbe concesso di dormire nel suo letto e dopo le avrebbe detto che la perdonava, ma che non lo facesse mai più! Svignarsela così...
Poi sussurrò pensosa “Lei mette sempre nel letto un paio di bottiglie piene di acqua bollente perché ha sempre freddo…”

“Appunto…”

“Potrebbero non essere chiuse bene…” il tono di Oscar era suadente e lo sguardo divertito.

“Poi darebbero la colpa a qualcuno…” replicò André severo, scuotendo la testa: non dovevano andarci di mezzo degli innocenti, su quello non transigeva.

“Già” rispose Oscar sconsolata.

“Si, dovrebbe essere proprio un incidente…”

I due tacquero immersi nei loro pensieri.


“Però dorme sempre con i gatti…” disse Oscar con un sorrisetto.

“Non dovrebbe!”

“Non dovrebbe, ma entrano in quella stanza, dormono, e ogni tanto litigano tra loro... e ora ha un gatto bruttissimo, quello nuovo, quello che sembra un pirata quando ti guarda! Ha un carattere orrendo.”

André annuì - detestava quella belva.

“Potrebbe far cadere il paravento… ci sono sopra dei vestiti, è instabile…”

“E per pura sfortuna il bordo del paravento colpisce il tappo…”

“Eh la sfortuna!”

“Il caso!”

“Non sarebbe colpa di nessuno…”

“Solo del gatto...” disse André con un certo rammarico.

“E’ un animale perfido ed è giusto che dorma fuori al freddo.” disse Oscar severa.”Sarebbe ora che quel gatto avesse una lezione… e imparasse un poco a stare al mondo! Soffia a chiunque, nemmeno fosse il padrone di casa!”

“In effetti…” André sembrò convinto.”Sigyn lo vizia…”

“Esatto! Sarà un bene anche per lui! La severità, lo dice sempre Mio Padre, è la prima delle virtù!”

André sogghignò - quel gatto cercava sempre di graffiarlo… e lo scopo di un gatto e cacciare topi, non essere coccolato da bambine con i capelli rossi e rimpinzato di panna.
Stava diventando anche un po’ grasso intorno ai fianchi… non gli avrebbero fatto un danno, anzi! In fondo era anche il bene del gatto che facevano! Un po’ di movimento all’aria aperta fa bene a tutti, non lo diceva sempre anche il Generale? C'era tanto spazio per correre, nel Parco, per un gatto... avrebbe lavorato anche lui sul fiato!

“Però deve succedere la sera…” disse Oscar pratica. “deve essere troppo tardi per poterci  far qualcosa…”

Tutta allegra uscì quasi saltellando dal Salottino della Musica.

André si accinse a seguirla, ma, improvvisamente, si fermò e guardò intento il rametto di vischio sul pavimento. Delicatamente lo raccolse con la punta delle dita e, con cura, lo ripose nella tasca interna del giustacuore, non sapendo bene neanche lui perché.

 

Poi disse “Aspettami!” e corse dietro ad Oscar, fuori dalla stanza.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Certe Volte Ci Vorrebbe Proprio Un Bacio ***


Certe Volte Ci Vorrebbe Proprio Un Bacio

In cima allo scalone, la ragazzina coi capelli rossi prese la manica di Victor Clément de Girodelle. Non la afferrò, né si aggrappò, semplicemente la sfiorò, un tocco leggero, e poi chiuse le dita intorno alla stoffa.
Lui si fermò e le sorrise: “Se vuoi ti offro il braccio, per scendere.” Annotò da qualche parte che lei non gli stava più dando la mano da un pezzetto - avrebbe indagato.

 

“Volevo darti una cosa…”

 

“Immagino...” non la prese in giro, “hai preso il vischio che ti ho regalato e lo hai diviso qua e là… l’ho notato,” sorrise indulgente, “hai un rametto anche per me?”

 

“Non ti spiace vero?” si fermò,  il piedino sospeso prima del gradone: aveva dato per scontato che a lui non sarebbe interessato per niente di cosa ne avrebbe fatto, ma se non fosse stato così?

 

“No, tranquilla, semplicemente non era il regalo giusto.” Gli venne in mente una volpacchiotta rossa, intrappolata in un enorme gomitolo di vischio verde, che, perplessa, rotolava nella neve - stasera si sarebbe divertito a disegnarla, o, forse, a dipingerla con gli acquarelli.

Ma cosa ci avrebbe mai dovuto fare una cucciola di volpe con del vischio? In fondo aveva già baciato suo padre: per qualche anno era a posto.
Per lei era più adatta una bella formella maiolicata: con tutte quelle mele, in Normandia, sicuramente, prima o poi, una cotognata... O degli stampi per dolcetti: si sarebbe divertita, rinchiusa al sicuro nella sua cucina tascabile, blu come la caverna di uno Jotun, con tutti i suoi rametti di pungitopo, le scaglie di sapone profumate ed i suoi barattoli misteriosi, a sperimentare ricette nuove - e a lui, assaggiare, non dispiaceva affatto.

“Sai fare la pasta sfogliata? Cotta nel forno?” chiese distrattamente.

 

“Sai cosa pensavo che ci avresti dovuto fare con il tuo?” chiese Sigyn, mentre rifletteva, sdegnata, anche se solo rigorosamente dentro di sé - era una signora. Lui avrebbe dovuto pensare al vischio e ad Oscar, la sua bellissima e bionda sorella, purtroppo scema, scema senza rimedio. E possessiva, accidenti quanto possessiva! sbatté gli occhi davanti all’immagine di lei ed André, nel Salottino dei Bambini… lei li vedeva come due bracchetti ammaestrati che giocavano a dama… era così, poco ma sicuro! Illusa… Che pazienza ci voleva con lei…
Era per quello che era giusto che sua sorella vedesse che, per alcune persone, lei non era solo uno spadaccino! E poi c'era la Dame di Sercq, sua sorella doveva conoscere la sua storia! doveva! Susan Le Pelley non aveva mica guidato le 40 signorie dell'isola minacciandole tutte con la punta della spada! Aveva usato la forza del suo buonsenso - e poi si certo, qualche minaccia, forse... le sarà anche scappata, ma eran dettagli - il punto era che lei era stata La Dame, non le Seigneur!
E tutti si erano inchinati davanti alla Dame senza che dovesse prima dimostrare quanto fiato aveva, correndo qua e là come una matta!

Oscar doveva venire con lei su La Coupée e sentire la forza del vento!
L'isola di Sercq, in realtà, era composta da due masse, unite da un istmo, La Coupée appunto, stretto stretto e a strapiombo sul mare su tutti e due i lati. Lei c'era stata con lo zio Antoine-Benoit: avevano navigato tra i delfini con il naso a bottiglia e avevano attraversato a piedi La Coupée sotto le raffiche di vento... lei aveva dovuto gattonare ad un certo punto, mentre lo zio la teneva stretta per il mantello. Avevano riso come pazzi: sembravano due pipistrelli goffi, accecati sotto il sole, con il vento che si portava via le loro voci - al Nonno non lo avevano raccontato, però, aveva come l'idea che non sarebbe stato tanto contento - e poi erano scesi lungo il fianco della collina, per dei sentieri scoscesi (poco più che percorsi per pecore) tra le farfalle tigre, fino alle spiagge con l'acqua azzurra.

Era un peccato che non ci fosse stata anche Oscar, ma lei andava solo a cavallo... per lei il mare erano solo le spiagge sabbiose, lunghe e larghe, su cui fare a gara con André, non capiva proprio nulla delle piccole cale di ciottoli, e della bellezza delle onde e del vento, che soffiano come vogliono e sono come sono e tu non ci puoi fare proprio niente.

Era un peccato non ci fosse stato anche Clément (ce lo avrebbe proprio voluto vedere con quei capelli lunghi, nel vento, avrebbe dovuto legarli con un laccio di cuoio, come lo zio Jean-Claude, o farsi le treccine come un vichingo).
E Alo e Xence! Cassandra, invece, lo avrebbe apprezzato un po' meno.

E poi era onesto che tutti avessero la loro piccola possibilità... anche se... Clément... a fare il terzo bracco... non ce lo vedeva tanto - lo osservò di sottecchi che aspettava che lei riprendesse a parlare, imperturbabile. Con quegli occhi chiari le sembrava più simile ad un gatto, abituato a fare a modo suo.

E al povero André, Clément non ci pensava? Un martire cocciuto che un giorno era salito su un pero...

E pure un pochino a lei, che diamine! Erano amici loro due, no? Ci sarebbe sempre stato, nel caso, un posticino nel suo cuore anche per lei? Non occupava mica tanto spazio!

A quello doveva pensare, Clément - le venne voglia di battere il tacchettino sul gradino dello scalone, tutto di marmo bianco, per dar sfogo al nervosismo - mica alla pasta sfoglia, che, tra parentesi, le veniva bene eccome!

 

“No,” le rispose il ragazzo, visto che lei non sembrava voler terminare la frase, “non ho idea di cosa tu pensassi a riguardo…”, le sfiorò piano il graffio sul sopracciglio, non avevo idea fossi una vera incosciente, anche se quella Carriola che ti ha lasciato tuo zio per scorrazzartene in giro era un buon indizio, poi, inarcando (con eleganza) il sopracciglio sinistro, chiese molto cortesemente “Credi che io abbia bisogno di qualche consiglio?”
Perché non sono io quello con i lividi, pensò, ma, saggiamente, non lo disse.

 

La stava prendendo in giro, decise la ragazzina, e alzò gli occhi al cielo irritata. Un giorno, se le avesse chiesto di portare sua sorella con sé ad un ballo, per poterci danzare insieme e fare il cretino, gli avrebbe riso in faccia. Beh, magari proprio in faccia no, dietro un ventaglio… con garbo. E allora glielo avrebbe detto di non prenderla per il verso sbagliato, che non c’era nulla di personale… che doveva solo maturare un pochino, per i fatti suoi, da solo, tranquillo, senza fare capricci… che per consolarsi intanto si mangiasse la pasta sfogliata, magari con la marmellata di petali di rose!
A meno che sua sorella, a quel punto, non ci tenesse proprio tanto, allora… avrebbe organizzato per quei due un appuntamento perfetto, forse nella limonaia, che però era umida, con quei camini e l'acqua gettata in terra sul pavimento... e poi al capo-giardiniere sarebbero venuti gli incubi ad avere Oscar, sempre così aggressiva, che girava tra le piante delicate, a passo di carica e con una spada in mano... per carità, meglio il roseto, dove non poteva far danno! Le avrebbe appeso delle candele dentro delle bocce di vetro tra i rami... bianche ovviamente! In un roseto, le candele di sego che puzzavano, no! Non andavano bene per niente!

"Forse" rispose. Sostenuta.

 

“Ascolta, Lingua d’Argento…” la voce era gentile, “è carino che proprio tu mi voglia consigliare,” le sfiorò le spalle, assorto in qualche sua riflessione misteriosa, mentre piegava, garbato, la testa verso di lei, “ma… non hai mai pensato, così, tanto per fare una ipotesi, che...”

Fu in quel momento che nell’Atrio sbucò un uomo molto alto, incappucciato in un mantello scuro non particolarmente elegante, che scendeva fino a sfiorargli la punta degli stivali innevati..
La ragazzina si catapultò tutta felice giù per le scale, con un gridolino, e lo abbracciò stretto stretto affondando il viso nel petto dell’ospite inatteso
L’uomo rise e il cappuccio gli ricadde sulle spalle, rivelando dei capelli rossi fiammeggianti, e una barba folta, dello stesso colore, in cui rilucevano dei fiocchi di neve lì lì per sciogliersi. Sembrava lo Spirito dell’Inverno di qualche leggenda nordica.
 

A Victor Clément spuntò un sorriso: eccola là, la fanatica dell’etichetta, abbarbicata ad un gesuita vichingo, unico nella sua specie… gli tornò in mente un pomeriggio piovoso in cui Sigyn e Cassandra si erano rintanate in una stanza: si erano messe a provare e riprovare l’inchino perfetto, indossando delle scarpette di un secolo prima, scoperte in un vecchio baule, troppo grandi per loro, e dei buffi cappelli con le piume… ma nessun tentativo traballante sembrava soddisfare fino in fondo quelle due vanitose. Grazia, riserbo, contegno, sobrietà, eleganza… cianciavano di quello, mentre lui, che era andato a controllare che diavolo stessero combinando, appoggiato allo stipite, se la rideva sotto i baffi. Non serviva scomodarsi ad andare fino ad un teatro… le Precieuses ce le aveva proprio lì, in casa!

Una intesa espressione protettiva gli apparve a sorpresa sul viso, mentre ammetteva con se stesso, a malincuore, che questo lato campagnarde non era niente male: a un buon amico fa piacere venire salutato come si deve, senza troppa di quella grazia, riserbo, contegno, sobrietà ed eleganza. Adattissima con gli estranei, per carità e a Versailles… ma non alla caverna blu di una minuscola Jotun - perché tra i Giganti del Ghiaccio questa versione di Sigyn, Dea della Costanza, non tanto dolce, ma di cuore, sarebbe sembrata proprio piccolina.
E poi, a quanto pareva, nel frattempo, aveva pure imparato a correre sui tacchetti - un ottimo miglioramento, senza dubbio.


In quel momento suo fratello Alo gli si avvicinò e gli poggiò un braccio sulla spalla “Farbauti,” sussurrò, in un tono quasi meno di un bisbiglio, ”sbucato fuori dalla sua caverna tra i ghiacci, che passa a salutare la sua Loki femmina.”

Non si accorsero che, proprio dietro di loro, appoggiata con le mani alla balaustra, c’era madame Marguerite. La donna impallidì, mentre il sorriso le si scioglieva dalla labbra - se qualcuno l'avesse osservata, l'avrebbe trovata, d’improvviso, più giovane. Forse per via di quell’aria vulnerabile attorno agli occhi.
Fu solo per pochi secondi, perché poi, forza dell’abitudine, cancellò con cura ogni espressione dei suoi sentimenti (troppo privati) dal volto.

 

“Spero tu non voglia insinuare.” sibilò secco Victor.

 

“No, non credo in senso letterale,” rispose Alo con aria indifferente, dato che non si curava mai dell’effetto delle sue parole sugli altri, “ma, per quello che conta, lui è Farbauti e lei è un Loki in miniatura.” Poi sospinse giù per le scale il fratello, aggiungendo divertito, “ma cosa vuoi saperne tu? Sei troppo piccolo per capire.”

 

“Sicuro di poter scendere le scale senza un bastone?”

 

“E perché mai?”

 

“Non so… un uomo di tanta esperienza e tanta età… a proposito… i reumatismi?”

 

“Non è età fisica, ma mentale…”

 

“Oh mentale, mi è chiaro… tutta nella tua testa, intendi?”

 

“Poco se mi valuto, molto se mi comparo, e scriviti questa frase sul palmo della mano, quando l’avrai capita, s’intende. T'aiuterà. Perché nella vita sarai troppo spesso a corto di parole. Credimi.”

 

“Adesso mi citi S.Agostino?” Victor sogghignò. ”Sentivi il bisogno di uno sfoggio di cultura?”

 

“Riconosci la citazione? Incredibile! non pensavo…”

 

“Pensi? E da quando pensi, scusa?”


Madame Marguerite non li osservò scendere battibeccando allegri sotto voce: teneva lo sguardo fisso su Sigyn e Jean-Claude, seduti sul divanetto vicino alla porta dell’Atrio, lei che rideva tutta allegra, lui che le teneva con noncuranza un braccio sulle spalle, mentre le ragazze si affollavano intorno allo zio per salutarlo. Erano così spontanei insieme, così a loro agio l’uno con l’altra... però, i due ragazzi Girodelle, prima, perché avevano citato Farbauti? forse erano appassionati di leggende del Nord… ma perché proprio Farbauti e Loki? Loki era un personaggio così ambiguo... era un amico dell'uomo, l'inventore della rete da pesca, ed era un distruttore: per odio, puro odio, covato nei secoli che aveva trascorso incatenato ad una roccia, aveva guidato il popolo del fuoco contro gli Aesir, aveva dato inizio al Ragnarok.
Sigyn era terrorizzata dai ragni, non mangiava la carne al sangue, dormiva con dei  gatti randagi - credeva che lei non lo sapesse! - adorava le cuffiette di pizzo… perché una cosetta così piccolina e sempre indaffarata, per i due ragazzi, era come Loki? C’era qualche motivo per cui la piccola avrebbe potuto desiderare di ridurre il suo mondo in cenere, insieme a tutti quelli che lo abitavano?


O era qualcosa che aveva detto? Era sparita con loro in fondo… si Maxence le aveva raccontato, si era preso la colpa… ragazzate, suvvia! per fortuna che era andato tutto bene… ma forse avevano anche chiacchierato insieme? C’era forse qualcosa che Sigyn non diceva in casa a nessuno di loro, ma a degli estranei si? Ma se era troppo piccola perché i due più grandi la prendessero sul serio! E poi le pareva che Maxence fosse assorbito da certi pensieri suoi, troppi per occuparsi pure di quelli di una bambina.

Sapeva che sua figlia era affezionata al giovane Girodelle, non era un segreto, ma non aveva proprio idea se il ragazzino la ascoltasse. Era così più piccola rispetto a lui, che era così serio e anche così… compito, pure un po’ freddo... imperscrutabile diciamo… e appariva così raramente a Palazzo Jarjayes, vagamente affascinato da Oscar. Possibile che Sigyn si fosse confidata su qualcosa di personale, fuori dalla famiglia?

 

La osservò, stava chiacchierando con Jean-Claude, poi lo vide, lo stesso gesto, in tutti e due, nel ravviarsi i capelli e le parve che le si ghiacciasse un angolino del suo cuore.


Loki era anche quello che vedeva l’imperfezione degli Dei…

Lentamente, spostò lo sguardo su Augustin. Anche lui, a pochi passi tra i due, stava osservando la bambina, con una cupa aria di disapprovazione sul viso.

 

Fu allora che Madame Marguerite pensò che tanti anni prima aveva obbedito all’impulso sbagliato - qualcosa si era rotto, e non si era più aggiustato per bene, come avrebbe dovuto.
Si ricordò di quando Sigyn era tornata a casa, di come lei avesse cercato di far diventare sempre più lunghe le sue permanenze a Versailles, in modo che lentamente senza che se ne accorgesse… in modo che la Normandia diventasse solo un posto dove andare a riposare, buona per una villeggiatura... e poi, un giorno, Sigyn aveva chiesto udienza, seria seria: c’era un problema, c’erano dei mostri che vivevano sotto il suo letto… no, non le facevano affatto paura… solo facevano troppo baccano e non la lasciavano dormire. Poteva tornare a casa sua? Solo per dormire un pochino?

 

Quando aveva raccontato l’aneddoto a Madame de Girodelle, a suo tempo, lei non aveva riso, ma l’aveva guardata, le era sembrato, con compassione. Come un lampo subito spento - la moglie di Monsieur Henri non parlava molto, anche se in casa sua comandava tutti a bacchetta.
Quello che le era sfuggito, allora, era quello che non sfuggiva ad Horthense, a quanto pare… la piccola Sigyn, a cui non facevano paura i mostri sotto il suo letto, non aveva chiesto di tornare a trovare suo nonno, o suo zio, di andare a divertirsi al mare, ma di tornarsene a casa.



Amareggiata si chiese per l’ennesima volta se lei era stata davvero una buona moglie e una buona madre... perché le pareva che la sua vita cominciasse a mancare di significato.
Aveva modellato se stessa con lo stesso rigore con cui aveva stretto i lacci del corsetto, fin da quando era solo una bambina, pensando che esistesse un "dentro" ed un "fuori": il mondo esterno, troppo complicato per lei, un mondo di cicatrici, guerra, spietatezza ed onore, era appannaggio di suo marito, di cui si fidava completamente, ma lei aveva sinceramente creduto che esistesse una porzione di mondo in cui potesse dare il meglio di sé, per aiutare il suo sposo a costruire la loro casa.
Forse era stata tutta una illusione... una favola che si era narrata per non voler vedere la realtà: il suo unico ruolo - lei aveva fatto finta di ignorarlo - avrebbe dovuto essere quello di una ape regina, servita e riverita al centro di un alveare da non abbandonare mai, intenta solo a fare, a ripetizione, bambini del giusto tipo.
Non le era riuscito - lei faceva solo splendide bambine bionde - e così si era inventata questo "dentro", dove si era illusa che il suo buon gusto contasse: avrebbe reso bella la casa del suo sposo perché vivere nel bello fa bene al cuore... e pure il prestigio di suo marito non ne avrebbe avuto danno. Grazie a lei, il nome dei Jarjayes era legato alla scoperta di giovani artigiani promettenti, che avevano cominciato a far fortuna.
E si era illusa che le sue capacità organizzative - una scoperta, affinate con tanti errori - potessero servire a rendere piacevole quella casa, e comoda, un posto dove fosse gradevole tornare e che questo avesse anche un effetto positivo sul loro bilancio familiare, cosa che non sarebbe guastata - ne aveva viste di donne sperperare il denaro del marito a furia di partite a zecchinetta e poi coprirlo di imbarazzo...
E si era pure illusa sul valore della sua capacità di dare affetto... lo aveva amato tanto quel suo bellissimo ragazzo dai capelli d'oro... e aveva ascoltato tutti in quella casa - quasi tutti, a quanto pareva. Non si era mai messa contro suo marito. Mai. Non lo trovava serio - avevano fatto un patto dinanzi a Dio di obbedienza e di protezione e Augustin non era un orco di una favola - ma aveva smussato angoli, facendo da tramite, cercando soluzioni... fin dove aveva potuto.

E poi aveva sentito suo marito dire alla sua bambina adorata, la piccola Oscar, la sua perfezionista, che lei sì che aveva da fare, non come le altre che non facevano nulla d'importante.
Le altre facevano cose da donne... come lei, che quindi, a quanto pare, non faceva niente. Niente che avesse un valore, o meritasse stima o suscitasse rispetto. Nemmeno la tenerezza, nemmeno quello che riservi al perdente, che, almeno, ci ha provato.
La frase di suo marito le aveva fatto davvero male.

Ultimamente le pareva che il suo mondo si stesse sfaldando - si sentiva incompleta. Perfino la sua immagine nello specchio le cominciava a sembrare estranea - quella di una donna che non viveva secondo i principi che aveva sempre rispettato. Una donna che mentiva a una figlia adorata, la sua più piccola, quella grazie alla quale era tornata a vivere. Una donna che non sapeva cosa desiderasse un'altra delle sue bambine, quella che aveva lasciato andare a morire da sola.

Pensò alla Regina... le aveva chiesto se le sarebbe piaciuto essere la sua femme d'autour e lei aveva sorriso garbatamente, mentre rifletteva su come trovare un diniego che non risultasse offensivo.
Una femme d'autour porge alla Regina spilloni per i capelli, pettinini, spille, gli orecchini ed infine le allaccia la collana. Alla mattina porge le giarrettiere e pure le chemise - a meno che non ci sia una princesse du sang, che allora l'onore tocca a lei... Una dame d'autour si occupa dell'argenteria.
A lei pareva di essere impegnata in cose più importanti a Palazzo Jarjayes, dove chi le pettinava i capelli veniva dalla campagna e aveva imparato a leggere e a scrivere sui banchi di una chiesa, insieme agli altri bambini della parrocchia, quando non erano occupati nei campi a dare una mano ai genitori... Quanto a porgerle gli orecchini, a volte c'era Sigyn, che la scrutava ammirata.
Aveva peccato d'orgoglio e forse si era solo illusa... forse sarebbe stato più onesto porgere sottocoppe al tavolo di una Regina sola e non più amata. Forse le sarebbe servito un bagno di umiltà, accanto ad una donna che aveva tanto e aveva avuto tanto, pure i figli maschi, e ne aveva persi tanti, ed era stata amata e poi non amata più. Forse avrebbe dovuto pensare ad avere degli obblighi più semplici e meglio delineati, invece di pensare di essere una perla in una montatura... lei era solo una donna imperfetta che ancora non aveva capito quale era il suo compito.

Sospirò incerta, poi scese le scale per andare a salutare Jean-Claude.

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Serve davvero un bacio per dirtelo? ***


Serve davvero un bacio per dirtelo?

“Un concerto? addirittura?” Jean-Claude la prese in giro, poi, con un gesto affettuoso, cominciò a toglierle le forcine dai capelli, disfacendo la coroncina rossa fiammante.
La versione di Sigyn che abitava a Versailles per lui era sconcertante - almeno la stava piantando con quella orrenda mistura di grasso e cipria, mai avrebbe capito la moda!
Le sfiorò il bernoccolo con la punta delle dita, un gesto leggero, che alla ragazzina ricordò, per un attimo, quello del suo amico Clément, rendendoglielo, di riflesso, più caro - Augustin non lo aveva notato e non aveva fatto domande, quanto a lui… cose che capitavano, se si sceglie una vita attiva. Avrebbe aspettato pazientemente e avrebbe saputo cosa aveva combinato. Sperò solo che non fosse il risultato di una lite con Oscar, quelle due insieme, a volte, ti toglievano il fiato: si sarebbero litigate l'aria fritta e regalate il mondo.

Le annusò i capelli, non potendo darle un bacio - ancora sapevano di sapone e menta - e la attirò contro di sé.

Capiva Marguerite che le consentiva certi esperimenti da damina: stava dando alla piccola gli strumenti per non essere fuori posto a Versailles, se la bambina avesse deciso, un giorno, di farne casa sua.
Deciso? aggrottò le sopracciglia, o forse era inevitabile? Doveva parlare di questo con Marguerite, si disse, non poteva rimandare all'infinito qualcosa che non gli piaceva affrontare, non era un bambino.

Le ragazze, intanto, si erano tutte sedute accanto allo zio, alcune su delle panchettine ployant basse basse, in un salottino, uno spettacolo d'oro e di azzurro, tutte riunite per chiacchierare un po’, giusto prima di cena, prima che forse passassero i giovani Girodelle per un salto veloce - andavano a teatro. Intervennero in massa per narrare i dettagli, tutte un cinguettio, mentre il gesuita le ascoltava con affetto, cercando di dare a tutte la giusta attenzione.

Joséphine, tutta seria, coi modi compiti di un segretario di un Vescovo, cominciò ad illustrare i brani del programma, spiegando il perché di ogni scelta.

Augustin era un uomo fortunato e non lo capiva, rifletté con un sorriso Jean-Claude, lui aveva scelto Dio, tanto tempo prima, da ragazzo, perché non gli sembrava ci fosse un futuro più giusto per lui - era lui il fratello maggiore, avrebbe potuto fare tante altre cose e disfarne anche molte, come un ciclone; ma aveva scelto di fare quello che sentiva essere la cosa giusta.
La solitudine era stato un prezzo, ma anche un dono: se fosse stato un uomo che aveva tutto, forse sarebbe stato troppo soddisfatto di sé e non avrebbe capito la solitudine del povero, quella della vedova, dell'orfano o dello straniero.
Ogni volta che uno di questi si fosse avvicinato ad un confessionale per cercare il conforto di Dio avrebbe solo trovato il giudizio dell’uomo.

Uno spreco: come se i più piccoli tra di loro quella cosa, il giudizio per lo più negativo sulle loro inadeguatezze, già non la sperimentassero ogni giorno, conoscendo molto meglio di lui l’emarginazione.

Il giudizio spetta a me, dice il Signore, io solo leggo in fondo ai cuori.

Lui, in fondo, in questo Paese, veniva rispettato anche per il suo ruolo e il suo latino: grazie all'abito talare e ad una lingua misteriosa, le anime più semplici gli assegnavano subito il ruolo di stregone del villaggio.

La solitudine lo aveva forgiato, pensò, sfilando distrattamente le ultime forcine di Sigyn.
Aveva distillato in lui il meglio che aveva. Ad maiorem gloriam Dei. Vale per la cancellata di una chiesa, vale per un’anima ed vale per una vita: chi è solo ha il privilegio di poter sempre decidere in coscienza e di poter parlare per i piccoli di questo mondo perché non ha bisogno di ingraziarsi i grandi. La solitudine ti consente di diventare voce per i senza voce: non era stato un lavorio interiore senza uno scopo.
Ma la solitudine ti forgia come fa il maniscalco, battendo quel povero pezzo di ferro della tua anima con un martello su una incudine che non ti lascia via di fuga.

Aveva sperimentato la solitudine come assenza di un focolare - Augustin, se solo tu sapessi... mi sei mancato, fratello, che ti credi? mi è mancata nostra madre... - e la solitudine del missionario, quel sentirsi ad un certo punto scartato (per propria scelta) dal proprio ambiente culturale, cui si appartiene per nascita ed educazione. Aveva sentito profondamente le differenze di mentalità con altri popoli e si era chiesto se anche loro stentassero a comprenderlo - era una solitudine anche quella, ma se non l'avesse sperimentata non avrebbe saputo vedere sotto gli orpelli della moda, delle convenzioni, della ricchezza e dell'arretratezza, degli odori per forza diversi, sarebbe stato solo categorico nel definire cosa era un Uomo e cosa non lo era, cosa civile e cosa selvaggio, cosa giusto e cosa sbagliato. Era stato un dono, anche questo, riuscire a vedere qualcuno sotto i capelli incipriati e le coroncine di perle e qualcuno sotto gli stracci che odoravano di foglie di coca masticate... ma quanta sofferenza furtiva certe sere... e che piacere certe altre riscoprire il rumore della gente attorno a sé.

La solitudine, caro Augustin, è una forgia dolorosa, pensò amaro tra sé, ci lascia la compagnia di noi stessi, che, credimi, caro fratello, spesso è la più sgradevole tra tutte. Non ci possiamo nascondere ai nostri stessi occhi... e la solitudine di un sacerdote non è reversibile: sempre davanti ad uno specchio che ci mostra impietoso chi siamo, sapendo che sarà sempre così, fino alla nostra morte. Tu invece Augustin hai avuto dalla vita sette specchi che ti hanno tanto amato e forse nemmeno te ne rendi conto.

Sigyn interruppe il corso dei suoi pensieri, parlandogli tutta eccitata “Perché non resti per il concerto? Per Natale! E poi riparti subito! Puoi avere il mio letto ed io dormirò con Oscar! Ti prego... di di sì!”

Sua sorella abbassò gli occhi imbarazzata: il “gatto” aveva appena fatto il suo lavoro, ad averlo saputo...

“Non ci sarò, piccola, il Nonno è solo in Normandia, Antoine-Benoit è in India e io voglio passare il Santo Natale con lui. Ci mancherai molto, però, sappilo.”

Augustin, che stava leggendo accanto al fuoco, sollevò lo sguardo e lo osservò accigliato.

Sigyn arrossì orgogliosa, poi cercò di risistemarsi i capelli “Qui li porto sollevati” disse, con sussiego e Jean-Claude le sorrise, indulgente. Vanitosa! In Normandia non glielo avrebbero mai permesso di perdere tempo con tutte quelle forcine - di perle, addirittura! per farne cosa, poi? seminarle sulla spiaggia o per tutto il bocage?

A lui piaceva vederla con la treccia rossa sulle spalle, che studiava accanto a lui in silenzio, tutta concentrata, o coi capelli raccolti sotto la cuffietta, mentre trafficava in cucina sotto l’occhio severo dell’Asciutta, o seduta a piedi del Nonno, nella poltrona à-dome rivestita di stoffa blu, mentre lo ascoltava, adorante, parlare del passato, o, coi riccioli al vento, su una barca a vela, sola o in compagnia. Ora et labora, non Prega e Pettinati.
E gli piacevano le sue lettere buffe in cui c’era lei per come era e non per come avrebbe dovuto essere in un mondo ideale. Ma il mondo era stato creato da Dio e donato agli uomini che si erano portati appresso un pochino del Diavolo: non era un posto ideale ed era inutile pretenderlo.

Era stata un dono, pensò, un dono in un momento il cui la sua fede era stata attraversata dal dubbio e da tanti ripensamenti sulla sua vita, sulle scelte fatte (e non fatte) a suo tempo.
Un caso esserci stato quella sera, un caso fosse successo proprio allora e in quel modo, un caso che non fosse stata destinata lei ad essere Oscar, un caso che ci fosse stata Horthense a dare il parere di una innocente, un caso avere quella moneta con sé, un caso una balia disponibile, dolce, grossa e pulita… davvero un caso? Tutto era stato solo un lancio di dadi?
Le sere passate a vegliarla, così piccola, cullandola seguendo il rumore del mare, erano state un dono. Le aveva letto le cose più disparate, i suoi sermoni, i brani del Vangelo, perfino Pascal e alcune poesie d'amore, tenendola su una spalla, senza che lei potesse capire, così fiduciosa, abbandonata contro di lui.
E un dono era stato il suo primo sbadiglio, mentre il suo primo pianto potente e disperato, mesi dopo, che li aveva fatti tutti ridere dal sollievo.

Non avrebbe mai tolto la bambina a Marguerite. Mai.
A Marguerite non avrebbe mai tolto nulla e se avesse potuto darle qualcosa, le avrebbe dato tutto.

Era stato con il cuore che gli faceva male, che aveva preso in mano il calamo ed aveva scritto a Augustin per comunicargli la notizia. Come suo fratello l’avesse rivoluta, gliela avrebbe riportata a casa subito, anche quel giorno stesso - quel che era giusto, era giusto.
Ma Augustin non aveva mai risposto alle sue lettere e poi aveva scritto per comunicare la nuova gravidanza e che Marguerite non doveva essere turbata con sciocche speranze alimentate da un uomo che si credeva Dio e che non sapeva nulla del dolore di un padre e di una madre, Marguerite doveva concentrarsi, serena, sulla certezza del nuovo bambino in arrivo.

Guardò con curiosità suo fratello, che, si accorse, lo stava fissando cupo.

“Ma come li avete divisi questi brani tra voi?” chiese alle ragazze, tornando al presente.

Joséphine si fece avanti e riprese a parlare in tono professorale.
Jean-Claude annuì, fece domande pertinenti e le suggerì, se c‘era tempo, di distribuire agli ospiti il programma un pochino prima, con delle indicazioni sul perché della scelta e dell’ordine di esecuzione e alcune note - le considerazioni delle piccole erano interessanti e agli ospiti avrebbe fatto piacere, si sarebbero sentiti meno passivi: non ospiti recalcitranti, trascinati ad ascoltare una esecuzione amatoriale di cinque vanitosette, ma amici con cui condividere un piacere - questo non glielo disse, però, non avevano lavorato così tanto per poi sentirsi come una medicina da far assumere a forza a gente, in fondo, sanissima.

Poi si informò nel dettaglio su cosa avrebbe suonato ognuna di loro, avendo per tutte una frase scherzosa. Le ragazze ridevano ed arrossivano, tutte animate.

Lasciò la rossa per ultima, e poi chiese, fingendosi molto severo - detestava viziarla “E tu? Sei riuscita a metterti in pari? Che suonerai?”

La ragazzina rimase un po’ interdetta e poi scosse le spalle “Nulla, non son riuscita...” preferì glissare lasciando la cosa nel vago - lei non sarà stata capace di rimettersi in pari con le altre cinque, va bene... e quindi pace… ma non è che le altre ci facevano poi una gran figura, volendo proprio vedere.

Joséphine fu severa “Non è adatta, zio, lei non si amalgama bene con il repertorio che avevamo in mente, noi volevamo qualcosa di moderno e al contempo comprensibile per un ascoltatore non più giovanissimo.“

Sigyn corrugò la fronte, ma non disse nulla.

Joséphine proseguì, rivolta alla sorella, con aria paziente “Devi capire che tu suoni la vilhuela, che è uno strumento adatto ad un repertorio rinascimentale, ormai datato, o a cose popolari, che, lo sappiamo tutte, a te piacciono, perché non sei ancora abbastanza sofisticata di natura e perché non ti applichi a sufficienza ad educare il tuo gusto, ma che non sono adatte ai nostri ospiti, tutte persone di rango.”

Al gesuita venne da ridere sotto i baffi, pensando a quando Sigyn, una sera, interrogata, aveva fatto l’elenco di chi aveva incontrato a La Marée, una taverna quasi malfamata dove quel disgraziato di Antoine-Benoit ogni tanto se la tirava dietro per andare a giocare a freccette. Augustin era diventato paonazzo quella volta - un uomo del tutto privo di senso dell’umorismo.

“Hai ragione Joséphine, la vilhuela non è per gente di livello, ma la chitarra… in Spagna la suonano ancora? Che dici?” le rispose vagamente scherzoso.

“E’ uno strumento borghese, zio.” disse Joséphine scuotendo la testa, molto seria, “L’Arte è tutta un’altra cosa…”.

Fu a quel punto che Sigyn sbottò “E’ un concerto in famiglia per dei presunti amici, non è il concerto di Mozart a Palazzo Conti, sai? Nessuno pagherà un biglietto! Non ci saranno dame che intrigheranno per essere invitate, che ti credi? e tante sbadiglieranno dietro i ventagli!” poi lanciò uno sguardo pieno di commiserazione alla sorella, che la guardava scandalizzata, “sei inutilmente… fanatica!”

Joséphine alzò il naso all'aria "Sei proprio una selvaggia, adatta giusto alla Normandia, dovresti restartene lì tutto l'anno! Invece come gira il vento eccoti qui a scombinare gli umori di tutti!" Nostro Padre si innervosisce quando ti vede, ancora non te ne sei accorta? Sei una delusione...

"E tu sei solo una intrigante ipocrita, che starebbe bene solo in un posto, Versailles, dove sbaveresti per essere quella che porge il cucchiaino per la cioccolata ad un membro della famiglia reale!"

"A me, per lo meno, lo farebbero porgere. Ed io lo porgerei con molta grazia, come si addice ad una Jarjayes. Mentre tu... forse ti manderebbero a lucidare le scarpe della cameriera di una Cameriera della Regina!"

"Faccio cose più interessanti, se permetti!"

"In Normandia!" esclamò con uno sbuffo sprezzante la ragazzina bionda.

"Si, in Normandia. Dove noi ci occupiamo di parte delle cose della famiglia, e anche di quel burro che ti piace tanto spalmare sul tuo pane ogni volta che puoi. O quel formaggio che vuoi offrire ai tuoi ospiti di rango... viene dalla Normandia. E pure la marmellata di mele, anche quella viene da lì sai?" disse Sigyn seria.

"Solo di cose di contadina ti sai occupare, non certo di Arte."

"Non sei Mozart. E non hai capito proprio nulla di cosa doveva essere questa cosa... un concerto, si, va bene, ma più che altro una occasione per fare le cose in famiglia... senza tante pretese." come coi Girodelle, pensò irritata. Non mi inviteresti mai a slittare come ha fatto Maxence e non era tenuto! Non sei nemmeno un decimo di quello che è stare con loro. Non scivoleremmo mai, insieme, sentendoci vive, non mi terresti protetta tra te e un'altra sorella, attenta che non mi faccia male, non mangeresti le mie frittelle dicendo che sono buone. E lo sono! Accidenti se lo sono!
Non mi laveresti i capelli per non farmi passare un guaio, come ha fatto Clément, anche se era arrabbiato, nero come la morte... non sapresti nemmeno farmi davvero male con quella lingua che credi? Non come può fare Alo. Non capiresti mai nulla e non mi diresti mai niente che mi possa servire... tu servi giusto a porgere i cucchiaini della cioccolata a gente che nemmeno sa che esisti! ma io che ci faccio qui?

Oscar, piccata, intervenne “Appunto! Un concerto in famiglia! da cui te la sei filata senza dire nulla a nessuno! Non hai chiesto il permesso e te la sei andata via per farti i fatti tuoi mentre nostro Padre era voltato! E con degli ospiti presenti! E tutto per tornare con un bozzo sulla fronte!”

Si pentì di averlo detto non appena le parole le uscirono dalle labbra, vedendo lo sguardo di sua sorella farsi sul serio preoccupato.

Poi sentì i passi di suo padre, decisi, che si avvicinavano dietro di lei, per delle spiegazioni.

Fu in in quel momento che quel bernoccolo le sembrò davvero enorme e davvero blu; le esplose dentro una rabbia dolorosissima contro sua sorella, che spariva a giocare con le bambole insieme a Cassandra e fare con quella scimunita viziata tutta una serie di altre scemenze che con André e con lei - sua sorella! - non faceva mai. E contro lo zio ed il Nonno, che le permettevano di vivere in Normandia ogni volta che ne aveva voglia. E contro i Girodelle, che se l’erano portata via, che la attiravano a casa loro, non si sa a far bene cosa, e che nemmeno erano stati capaci di curarsela - ed era già tanto che un pomeriggio non fosse finita in un fosso con quella Carriola di cui loro padre non sapeva nulla. E contro Joséphine che le aveva convinte tutte a non farla suonare, come se se fosse poi così importante se Sigyn avesse suonato anche lei insieme a loro una qualche cretinata che le piaceva. E contro André che non glielo aveva ricordato di scrivere due righe, e sì che le stava sempre appresso a farle notare quando faceva qualche cretinata. Il precettore del buon comportamento! Quanto le dava sui nervi!
E, soprattutto, contro di sé che certe volte faceva le cose senza capire le conseguenze.






Note Finali: La Marée è un chiaro omaggio all'Intruso. A quanto pare un rappresentante della famiglia Jarjayes che andava a fare un salto alla taverna c'è sempre stato - Oscar ed André no, troppo educati, ma Antoine-Benoit, il nerd della famiglia, aveva la passione per le freccette e si portava appresso, certe sere, la nipote, pensando che questo avrebbe completato la sua variegata educazione (che non crescesse con troppe illusioni sugli uomini e che non sposasse un cretino, insomma).

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Un bacio in amicizia che, si sa, vale di più ***


Un bacio in amicizia che, si sa, vale di più

Sigyn se ne stava tranquilla nella cucina piccola - in esilio fino all’ora di andare a letto - le braccia incrociate sul petto, ancora indispettita.

Oscar si era zittita. Quasi subito. Quasi.

Ma sempre troppo tardi. La frittata ormai l'aveva fatta.

Clément, ci avrebbe scommesso, avrebbe saputo benissimo quando tacere! Poi, per i fatti loro, le avrebbe fatto la predica - pesante, pesantissimo! per un Girodelle i conti devono sempre tornare... - e l’avrebbe trattata peggio di un cane da caccia entrato in cucina per errore, con le zampe tutte sporche di fango, e che cercava di leccare l’arrosto. Ma, davanti al Generale... ah beh! si sarebbe tenuto tutte le sue considerazioni sgradevoli per sé: Clément era, per un quarto, un gran fetente.
E lo pensò con sincera ammirazione.

Poi, purtroppo, per un altro quarto era da Tribunale dell’Inquisizione, sarebbe andato d’accordissimo con Torquemada, la Leggenda Nera - sospirò addolorata - ma lei gli voleva bene lo stesso.

Quanto ad Oscar... scosse la testa, alzandosi in piedi, decisa a rimettere tutto in ordine. Oscar si era arrabbiata va a sapere perché - cioè sua sorella non si arrabbiava mai per come la trattavano, non le faceva venir voglia di urlare questa idea che dovesse essere tutta una cosa che non era, solo per fare felice il Generale… e si arrabbiava con lei! Una cosa folle! Ma se era tornata apposta per il suo assolo! Non se lo sarebbe mai perso e lei avrebbe dovuto saperlo!
Oscar era sempre più scema, decise sconsolata, e come tutti gli scemi faceva molti più danni, senza farlo apposta, di uno malvagio! Ah, ma lei stasera le avrebbe parlato. C'erano cose che Oscar faceva con André e che a lei non interessavano per niente e c'erano cose che lei faceva per i fatti suoi, che ad Oscar non interessavano. Poi mise i piatti nel vascone e fece scorrere l’acqua ringraziando dentro di sé lo zio Antoine-Benoit perché aveva ripreso i lavori della generazione precedente anche lì a Palazzo Jarjayes e non solo in Normandia.
Però forse ad Oscar poteva far piacere conoscere meglio Clément... erano così perfetti quei due... La Leggenda Nera e La Spartana Inquietante... che coppia!

Quanto a Joséphine - Sigyn arricciò il nasino disgustata - Joséphine era subito intervenuta con la sua solita aria da saggia paciera per dire a tutti che si, certo, lei aveva visto la “bambina” (ah questa poi! sbatté la teiera colma d’acqua vicino al fuoco, perché si scaldasse, con un gesto brusco). L’aveva vista allontanarsi senza chiedere il permesso… probabilmente era stata un “capriccetto” perché “non le era riuscito di colmare le sue lacune ad adattarsi alla caratura artistica delle sue sorelle” e aveva anche aggiunto “difettando della disciplina interiore che le sarebbe stata necessaria” e poi altre scemenze sulla “organicità del repertorio” che sarebbe come dire che a lei piacevano le cretinate prive di gusto e che non c’entrava niente con le altre cinque, perché quell'organicità non era tanto del repertorio quanto di tutta la cucciolata Jarjayes. Cosa che, in effetti era vera, Alo aveva ragione, lei stava tra due mondi ed era inutile che facesse finta che non era così. E allora basta con quella cipria sui capelli! Basta! Non se lo meritavano il suo sforzo di adeguarsi a loro!

Perché lei era “infantile” e “voleva essere al centro dell’attenzione”.

Senti senti… detto da Joséphine! che si era impuntata per fare tutto a modo suo, tagliandola fuori… bello schifo.

Fissò la sua ruota blu, senza cani, ci mancava solo quello, le avevano sempre fatto pena i cagnetti nella ruota, costretti a correre e correre, e se rallentavano le cuoche gli tiravano a addosso dei pezzi di carbone… Sua sorella Joséphine l’avrebbe voluta vedere così, come se, a correre nella ruota - e che ruota! - non ci fosse già Oscar, che bastava per tutte.

Sfregò i piatti arrabbiata.

Il Generale l’aveva interrogata a lungo, ma lei si era guardata bene dal parlare. Non era cascata nell’imboscata - involontaria - di sua sorella Oscar, non aveva perso la testa con Joséphine che cercava di farle saltare i nervi - e ce ne voleva di aplomb con quella - e nemmeno aveva ceduto davanti all’interrogatorio serrato del Generale che cercava di portarla a contraddirsi - figuriamoci! Non avevano proprio capito niente, tutti loro, di come era fatta lei!

Il fatto era che lei non aveva mai sentito di un undicesimo comandamento che diceva “aiuta gli altri a metterti nei guai”, cioè... c’era “non mentire” e lei avrebbe dovuto parlarne un po’ meglio con lo zio Jean-Claude, ma, per quel che le pareva, un conto era “mentire per mettere nei guai un altro”, come faceva Joséphine, che piegava la realtà in modo che combaciasse con le sue idee - e si convinceva pure da sola! - e un conto era “mentire per ottenere qualcosa che non ti spetta”, ma un altro conto era “aggiustare le cose in modo da non prendere le solite bacchettate”, quello era sopravvivenza. E il suicidio era o non era un peccato capitale? L’unico imperdonabile? Anche perché, se ti riusciva per benino, non facevi nemmeno in tempo a pentirti, cosa che con un omicidio… con un omicidio di tempo ne avevi, volendo, per il pentimento - anche se, a dirla tutta, questo il motivo per cui non avrebbe mai strangolato Joséphine: non era poi così certa che se ne sarebbe pentita, bisognava vedere bene quanto tempo c’era dopo a disposizione… e allora tanto valeva lasciarla blaterare. Su quello Clément aveva ragione: se ne dicono di parole! Loki non avrebbe mai dovuto stare ad ascoltare gli Aesir quando tiravano fuori l'elenco dei suoi difetti e parlavano di lui come se non ci fosse, o prendersela con Thor quando lo chiamava "immonda creatura!".
Loki avrebbe dovuto guardare oltre.

E così lei aveva detto che sì era uscita, ma per il mal di testa - era vero! mamma mia come suonavano male! siamo seri: solo Horthense si salvava! - e aveva messo un po’ di neve fresca in un fazzoletto per il bernoccolo - cosa che era tecnicamente vera - e la neve non era quella vicina alla cucina, dove c’era lo scarico della stanza in cui si puliva il vasellame - i pitali, sottinteso, quelle cose che tutti usavano, ma che non si dovevano nominare! - per cui era passata prima a prendersi il mantello, ovviamente. E anche questo era vero. E basta.
Il resto erano fatti suoi e non cambiava nulla se lei dopo essersela filata era andata a slittare o a mangiare frittelle… l’accusa era solo di essersela filata senza permesso, no? Atteniamoci a questo!

Quanto a Joséphine l’aveva solo vista uscire e altro non sapeva. E certo lei non le avrebbe fornito dettagli succosi con cui inchiodarla.

E poi non voleva tirare dentro Maxence, che tanto si era già scusato con sua Madre - chissà che le aveva detto, di sicuro che aveva cercato di ammazzarla... esagerato! Con uno slittino, poi...

Asciugò tutto con attenzione e rimise ogni cosa al suo posto, guardandosi intorno, soddisfatta.

E così il Generale l’aveva solo potuta esiliare in uno dei suoi posti preferiti - nemmeno lo sapeva che quel posto le piaceva… pensava di trattarla come Cenerentola! - e farle saltare la cena.
Ecco, quello sì, la cena... anche se... andiamo... lei aveva obbedito per coerenza.
E poi perché questo Clément non glielo avrebbe perdonato facilmente - le punizioni si accettano e si scontano fino in fondo, anche se non sono giuste, e questo un pochino lo diceva anche lo zio Jean-Claude, che era un sacerdote ed aveva un debole per i martiri e che non avrebbe apprezzato proprio tanto le sue... omissioni con il Generale - ma... la volevano senza cena... e la rinchiudevano in una cucina? Come se fosse come una di loro, incapace di prepararsi un tè tutta da sola?

Fu a quel punto che qualcuno la sollevò in braccio, tappandole la bocca e la depositò sul tavolo con ben poco garbo, ma senza rovesciare la brocca con dentro l’agrifoglio.

“Alo! Maxence...” sussurrò sgranando gli occhi.

“Siamo passati a vedere come stavi… prima di andare a teatro...” disse Maxence con un sorriso facendole segno di non fare rumore.

“Tutti e tre, ma Victor non passerà a salutarti di nascosto” puntalizzò Alo con un sogghigno, “ha saputo che sei in punizione e pensa che tu te lo sia meritato per cui non intende interferire… sta conversando, tutto compito, con Monsieur Oscar...”

Eccolo là pensò Sigyn, questo era il quarto della Leggenda Nera, il peggiore dei quattro quarti di Clément. Ma se stava con Oscar… era scusato.

Maxence la osservò con attenzione, il colore degli occhi, i riflessi, con quegli occhi scuri sempre un pochino ironici, e, alla fine, decise che andava tutto bene. Il sollievo era palpabile, mentre le passava una mano a scompigliarle la treccia.

“Ti ho portato una cosa… ci tenevo…”

“Cosa? “ chiese Sigyn curiosissima.

Maxence le porse un anellino con sopra saldato un topolino cicciottello d’argento. Gli occhi erano due pietre azzurre, come gli occhi di Sigyn e la ragazzina si chiese se era solo un caso

“Mi sembrava adatto,” disse il ragazzo, “un topolino per una topolina.”

“Non dovevi... “ ma lo provò subito, trovandolo proprio carino - lo avrebbe messo in tasca, Joséphine di sicuro le avrebbe chiesto chi glielo aveva dato e quando… “piuttosto,” gli sorrise, “cosa hai detto a nostra Madre?”

“A Vostra Madre? Che farò il cartografo per un periodo… mi sembra un’ottima punizione.”

Sigyn non sembrò tanto convinta.

“Con tuo padre,” aggiunse Maxence con un tono di voce tutto compunto, mentre gli occhi gli brillavano. Sigyn rise piano, alzando gli occhi al cielo “Ah ecco... mi pareva…i conti devono sempre tornare per un Girodelle...”

“Eh si…”

“Vuoi venire da noi, domani?” si intromise Alo, "ti mandiamo Clément a prenderti, così ti spiegherà perché la tua punizione è più che giusta... ti farà bene. Sarà molto educativo."

“Può venire anche Oscar?”

“Monsieur Oscar?” chiese il ragazzo guardandola dritto in viso, con i suoi occhi chiarissimi.

“Si, mia sorella Oscar.”

Alo sbuffò “Pure?” poi aggiunse "Ti pare che trasudiamo pazienza? Sembriamo forse delle balie? Odoriamo di latte per caso?"

Sigyn si trattenne dall'alzare gli occhi al cielo e Maxence intervenne conciliante “Puoi, ma certo che puoi!"

“Ma non verrà” puntualizzò Alo con un sogghigno.

Maxence alzò gli occhi al cielo e sospirò rumorosamente “Hai una palla di cristallo?”

"Perché? Serve addirittura la palla di cristallo?" poi, aggiunse a beneficio di Sigyn,“... la storia di Monsieur Oscar, perché questo è: Monsieur Oscar, per scelta della sua famiglia! La sua storia, dicevo, è come un rammendo: funziona, ma non devi guardare da vicino, e non deve guardare lei. Per cui non verrà, non credo si allontani spesso da Palazzo, sbaglio? Ma tu questo, ovviamente, non lo capisci: sei troppo piccola...” Sigyn sbuffò, ma si trattenne dal replicare “... lo capirai da grande e tutte le persone coinvolte ti piaceranno molto meno.”

Maxence uscì nella neve, lasciandoli soli. Sperò solo che la ragazzina non colpisse suo fratello con quelle brocche con dentro agrifoglio e pungitopo.

Alo, rimasto, le tese il rametto di vischio con un sogghigno, “Ti sta bene?” chiese.

“Cosa?” domandò sospettosa.

“Lo uso con te. Il tuo vischio. Tua sorella… quella abbastanza grande... c’è tempo… e comunque ci starebbe anche senza...” disse pratico, “è più il tipo della cocquette, senza esagerare. La porterò a teatro e a prendere una cioccolata...” Poi la guardò negli occhi, “ma non metterti strane idee in testa, è un bacio in amicizia… e vale di più, credimi.”

Da come lei lo guardò capì che la piccola non ci pensava proprio, a un bacio da grande, e le sorrise “Però il vischio me lo tengo… ho idea che potrà tornarmi utile in questi giorni.”

Sigyn annuì con un sorriso.

“Mi hanno detto che sei andata a vela fino in Inghilterra, l’hai invasa?”

“Con lo zio Antoine Benoit,” disse, seria, Sigyn “siamo passati per l’isola di Sercq e abbiamo dormito lì, vicino alla spiaggia, in una delle sue tende di lino, quelle ricoperte di resina...”

“Brava…” poi si chinò e le diede, senza fretta, un bacio delicato sulla guancia.

“Alo?” disse la ragazzina con uno sguardo trasognato.

“Si?”

“Tu sei davvero una Lingua di Vipera, sai? Ma ti riscatti sempre sul finale.”

Il ragazzo scosse la testa - ma gli occhi gli brillavano divertiti - e scivolò fuori dalla porta, silenzioso come era arrivato.




Madame Marguerite parlò brevemente con Jean-Claude, mentre suo marito salutava Monsieur Henri - suo cognato avrebbe dormito da loro per poi ripartire il giorno dopo per la Normandia.

“Grazie Jean Claude…” Grazie ancora perché, se serve, combatte le sue battaglie con tutto quello che ha a disposizione, e perché vuole davvero bene ad Oscar, mentre la potrebbe invidiare, come una pianticella che cresce tutta storta, o un foglietto spiegazzato pieno di cancellature, che non sarà mai l’orgoglio di chi lo ha scritto.
Pensò ad Hodr e a Baldr, i due fratelli, uno la luce della sua famiglia, l'altro l'ombra, immerso nelle tenebre della sua cecità e dell'indifferenza: ad un certo punto era partita una freccia. Non era stato certo un atto d'amore, unirsi a tutti gli altri che trattavano Baldr come un bersaglio vivente - e lui, Baldr, nemmeno se la prendeva.
Sigyn, rispetto a tutti loro, era, riguardo ad Oscar, la nota stonata... ma per affetto. Augustin aveva rinunciato a punirla perché si rifiutava di chiamare sua sorella Monsieur: ad un certo punto il Generale aveva deciso che non era ribellione, ma stupidità, che alla piccola proprio non restava in mente, troppo complicato, come un soldato incapace di leggere le mappe - toccava arrendersi.
E così Sigyn non tirava frecce a sua sorella, unendosi agli altri; si limitava a darle della scema - a Madame Marguerite quasi scappò da ridere.

“Mi dispiace portartela via così spesso. Io te la lascerei sempre anche se mi da un gran dispiacere quando non c’è. E’ come se fosse mia.”

“Henri me lo disse una sera…” la gola le faceva male, un groppo che non andava né su né giù.

“Cosa?”

“Mi disse… “ esitò, poi riprese in tono leggero “mi disse che a volte gli indiani crescono dei bambini bianchi… perduti... come se fossero loro. Le madri cercano i loro figli, ma non sono più quei bambini: sono indiani, e non se lo scordano più.” Dimmi che non è vero, pensò, dimmi che non sto crescendo una indiana che non sceglierà mai Versailles, ho sbagliato davvero così tanto? E’ stato tutto un malinteso gigantesco.

“Te l’ho riportata che era molto piccola e te l'avrei riportata anche prima... ve lo scrissi.” Jean-Claude, anche se quella era una precisazione, era gentile: non era offeso, anzi, la comprendeva. Avrebbe voluto abbracciarla, ma Augustin non avrebbe capito.

“Lo so, ma prima c’era Oscar da crescere. Non ci sarebbero stati altri figli dopo Oscar, lo sapevamo tutti e due, era la nostra ultima piccolina e non volevamo si ammalasse… evitammo il contatto con chiunque, sai? Non volevamo le portassero malattie… ero così attenta che non prendesse freddo, la mia bambina nata nella brina… con quella pelle chiara come neve e quegli occhi azzurri immensi, come laghi… la tenevo avvolta in una scialle azzurro e bianco per paura che prendesse freddo, la mia bambina venuta dal gelo, mentre la neve fuori mi sembrava maledetta, pronta a ghermirla e a portarmela via… seguivo ogni suo respiro, contando i giorni e vedendola sempre un pochino più forte. Non pensavo ad altro… mi sembrava certe sere che perfino l’aria mi stesse stretta, dall’ansia… e quanto amore, Jean-Claude… tanto tanto amore. Da riportarti in vita.”

Jean-Claude la accarezzò una mano, comprensivo. Sapeva che dopo Sigyn e prima di Oscar c’era stata un’altra gravidanza, quella di cui aveva scritto Augustin, quel maschio tanto atteso, cercato, si immaginò, con ferocia e disperazione - povera Marguerite, Augustin il lutto di Sigyn se lo era cancellato così, dal cuore, guardando avanti, cercando subito un altro figlio.
Quella gravidanza era quello su cui Marguerite si sarebbe dovuta concentrare per ritrovare la serenità, secondo lui.
Ma il bambino era nato prima del termine: più frettoloso di Sigyn, piccolo e scuro, senza speranze di sopravvivere.

Diversamente che per Sigyn, sapeva che suo fratello aveva imposto un Battesimo e lo aveva sepolto nella Cappella di Palazzo Jarjayes. Non aveva chiesto per lui una morte pietosa - il figlio maschio tanto atteso, come avrebbe potuto? Marie non avrebbe osato dire nulla.
Sperò che Sigyn certe cose non le sapesse mai - sarebbe stata la cancellatura di troppo.
Marguerite, allora, era crollata senza far rumore. Nemmeno aveva chiesto della bambina, pensando ad un altro lutto... forse, se l'avessero costretta a guardarla... ma tutti si erano spaventati per lei, scivolata chissà dove, immersa nel silenzio, e Sigyn sembrava comunque sempre troppo piccola.

“Abbiamo rimandato troppo, non dovevamo… quando è entrata in casa non era come... come con le balie. Le balie restano in una casa, a volte per tutta la vita, le si fa fare altro ad un certo punto…però danno continuità, svaniscono nello sfondo pian piano, ma lei…”

“Non eravamo balie pagate per trattarla bene e farle fare tutto quello che voleva. E avevamo le nostre vite, lo sapevi e lo sai.”

“Lo so, le avete voluto bene sul serio,” Marguerite sorrise, grata, ”tu non lo noti, ma ha i gesti di Antoine, ha anche tanti tuoi gesti, sai? Porta le mani incrociate dietro le schiena, come fai tu... una volta le ho chiesto e lei… è la non interferenza mi disse” Jean-Claude sorrise divertito “e poi aggiunse vuol dire che non romperò le tue cose, non le ruberò, non prenderò il posto di un altro... Molto da missionario gesuita.”

Fu in quel momento che Augustin giunse a reclamarli per la cena - detestava l’assenza di puntualità.
Marguerite si irritò, dentro di sé: suo marito non le chiedeva di cosa stesse parlando, dava per scontato che i suoi discorsi, per lei, fossero meno importanti della puntualità di una cena... pensò alla proposta della Regina, forse le avrebbe fatto bene. Forse se lei fosse sparita da quella casa in cui non faceva poi nulla di importante, sarebbe stato un bene per lei. Per Augustin.
Per tutti.

Scacciò il pensiero, ma decisa a valutarlo per bene, prima di addormentarsi. Decise che sarebbe passata dalle bambine, subito dopo. Non poteva portare a Sigyn qualcosa da mangiare, sarebbe stato come mettere in discussione le decisioni di suo marito, ma Maxence le aveva dato un barattolo con della crema da spalmare - si era tanto raccomandato - e le aveva spiegato che alla piccola, alla sera, avrebbe cominciato a fare male la spalla.

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Il bacio della pace ***


Il bacio della pace

Quando Sigyn entrò nella stanza di Oscar, Oscar si finse irritata. Arricciò il labbro e incrociò le braccia sul petto, poi la apostrofò con un severo “Sei ospite, qui, ricordatelo!”
Intanto si mise ad osservarla con occhio critico: sua sorella era già pronta per la notte, indossava una palandrana blu scuro spruzzata lungo il collo di ricami più chiari (fiorellini, ovviamente, che altro?) e delle pantofoline con un fiocchetto dello stesso azzurro dei fiori. La solita vanitosa.
Sotto si intravedeva la chemise, bianca, di lino, lunga fino alle ginocchia, severa, con il colletto arricciato. I capelli, le ricadevano sciolti sulle spalle, profumati di erbe e di pino. Nella casa in Normandia, le donne, rimestando nei calderoni, preparavano il sapone con l'olio di menta piperita e aghi di pino e Sigyn ne portava sempre una barra o due a Palazzo Jajayes - quando arrivava recava con sé il profumo del vento del nord tra le loro rose e la loro lavanda.
Non se li ricordava così rossi… ma come li portava di solito i capelli? Stava bene, comunque.
Teneva tra le braccia con molta cura, un enorme cuscino ed uno scaldaletto d’argento con il manico d’avorio - uno di quelli di Hortense le parve, che se li era scelti tutti sbalzati - e non la degnò di uno sguardo.

“Abbiamo cuscini in abbondanza non so se lo sai…” la prese in giro, con più sarcasmo, che affetto.

Sigyn poggiò con cura il cuscino sul letto “Io dormo a sinistra” annunciò serafica, infilando lo scaldaletto sotto le coperte con molta cura.

“C’è una chaise longue…” precisò Oscar irritata.

“Accomodati pure,” concesse Sigyn, perplessa, con un gesto conciliante della mano “ma a me non da troppo fastidio se dormi con me, per stanotte.”

Oscar, senza fiato, osservò il cuscino, che le parve si stesse contorcendo.

“E’ il mio letto…” mormorò impacciata, non sapendo bene come affrontarla, mentre Sigyn ci si sedeva sopra, con le gambe incrociate, sistemando ordinatamente sotto i talloni i lembi di stoffa, come la corolla di un fiore. Poi, la ragazzina coi capelli rossi tirò fuori dalla tasca un paio di forbicine “Tecnicamente, in questa casa, non c’è proprio nulla di tuo,“ mormorò irritata, mentre scuciva rapidamente il cuscino, “nemmeno il violino…” il cuscino si agitò mentre sua sorella sussurrava “Su buono... buono... abbiamo finito... fa il bravo ancora un momento…”

"Anzi," aggiunse con un tono puntigliosetto, "a voler ben vedere, tu sei la proprietà più preziosa di Palazzo Jarjayes. Come puoi solo pensare di possedere qualcosa... proprio tu?"

Pochi istanti dopo un gatto bianco e nero si stava stiracchiando le zampe posteriori sull'austero copriletto rosso dell'enorme letto a baldacchino di Oscar, il pelo di una delle zampotte posteriori era nero, mentre sulle altre tre era completamente bianco.
Sigyn sorrideva tutta contenta, sussurrandogli un mare di scemenze, che il gatto tanto non avrebbe capito. Alla fine, dopo essersi strofinato lungamente contro di lei, facendo delle fusa sorde, le saltò tra le gambe, dove si acciambellò soddisfatto. Oscar lo fissò irritata, e le parve che il gatto ricambiasse l'occhiata, con aria di sfida. Una macchia di pelo nera, dalla forma irregolare gli copriva metà del muso, proprio attorno ad un occhio, come una benda - André aveva ragione, quel gatto aveva un'aria strafottente, da pirata.

“Non crederai che quella bestia dorma con me?” esclamò Oscar - non era così che si era immaginata l’ingresso di sua sorella in camera sua: avrebbe dovuto chiedere cortesemente - implorare! - per un posticino in un angolo e lei sarebbe stata magnanima e prima l'avrebbe spedita sulla chaise longue e dopo, molto dopo, l'avrebbe accolta nel suo letto - Sigyn soffriva il freddo, lo sapevano tutti.

”Ma non avevi detto che avresti dormito sulla chaise longue?” chiese la ragazzina dai capelli rossi, sgranando gli occhi.

“Ma nemmeno per sogno!” rispose Oscar con voce oltraggiata.

“Monsieur Jambe-de-Bois chiede asilo…” disse Sigyn con un sorriso, gli occhi che ridevano - quella disgraziata l'aveva presa in giro fino ad ora, decise Oscar, sbattendo gli occhi. “Margot Tutta Panna, l’Anima Nera dell’Austero Generale e della Principessa Intrigante Joséphine So-Tutto-Io, voleva rinchiuderlo in una segreta, al buio ed al gelo, tutto solo, per secoli… per poi bandirlo per sempre dal Regno… scacciato nel gelido inverno, tra ghiacchi e crepacci...“

“Avrà fatto qualcosa di male, presumo,” replicò Oscar in tono sostenuto, "ghiacci e crepacci non sono per il primo che capita."

“Oh no! Monsieur Jambe-de-Bois fu vittima di un intrigo…”

“Un intrigo, Voi dite, Madamigella? E che intrigo? sentiamo…”

“Chiamatemi Porzia, gentile Ariel, vi prego” Sigyn sorrise tutta affettata mimando un inchino da seduta “Due filibustieri lo vollero incastrare, facendolo accusare di un crimine che egli non aveva affatto commesso! Ed egli non poté difendersi, non gli lasciarono scampo! Combatté fieramente i suoi nemici e poi si diede alla fuga, ed ora è qui, nascosto da una amica fidata, che gli fece attraversare il confine con l'inganno, sotto lo sguardo inclemente di Margot Tutta Panna. E' ricercato per tutto il Regno! Ma lui chiede solo di lasciare il suo dolore sulla soglia ed entrare...”

“Perché non si difese, non aveva un alibi?” Oscar decise che si stava divertendo.

“Era con una Signora, ma non poteva trascinare il suo nome nel fango… Monsieur Jambe-de-Bois è un gentiluomo e l’ama moltissimo, per cui non proferì verbo!” A queste parole accorate di sua sorella, Oscar alzò gli occhi al Cielo: qualcuno doveva avvisare il Generale! bisognava assolutamente avvertirlo che Sigyn leggeva troppi romanzi d'amore! Troppi... il nome nel fango... addirittura!

“Come fate a dire che è innocente, Porzia, la Credula?”

“Impronte… Ariel Che non Sempre Controlla... vi era una impronta parziale di uno dei due malfattori nella stanza, e, sulle mensole cariche di neve, impronte di gente goffa e traditrice, non certo le impronte eleganti di Monsieur Jambe-de-Bois.”

Oscar sobbalzò e la guardò dritto in faccia “E perché non siete andata a salvare il Vostro amico portando le prove di questo presunto intrigo?” André non ha pensato alle impronte, accidenti! Non dovevamo passare dalle mensole con tutta quella neve fresca!

“Perché, grandissima, scema, ormai era fatta e io volevo tanto dormire con te.”

Oscar non disse nulla, ma guardò sua sorella che le sorrideva tranquilla accarezzando l’orribile gatto. “Va bene,” concesse con un sorriso, “il gatto resta, ma non nel letto!”

“Lo volevano rinchiudere in uno sgabuzzino! E con una museruola! non gli sarebbe piaciuto!” protestò Sigyn.

“Oh poveretto!” disse Oscar, in tono sarcastico, “non sia mai che Monsieur Jambe-de-Bois si turbi! Lo sa, quella bestia, che, certi, qui in giro, se li mangiano, i gatti? Con il rosmarino, il timo e i pinoli tostati? O con quella menta che a te piace tanto...”

Sigyn abbracciò il gatto, protettiva, facendo una specie di squittio, “Non dirlo nemmeno per scherzo! Lo sai che ha il tuo stesso nome? L’ho chiamato così per te e per Clément...”

“Ah Girodelle ha una gamba di legno?” Oscar si sedette anche lei sul letto appoggiandosi alla testiera, le braccia incrociate dietro la nuca.

“No,” Sigyn la guardò inorridita, “Si chiama François LeClerc, come il Pirata, detto Jambe-de-Bois, è di Réville, sai? dove ci sono le spiagge come piacciono a te e ad André. Lunghe e sabbiose. Si chiama François, proprio come te.”

“E quel fesso di Girodelle, come c’entra col gatto?” Sigyn le si appoggiò addosso, e Oscar le spostò i capelli perché non le pizzicassero il naso.

“Beh LeClerc era francese, ma stette dalla parte della Regina d’Inghilterra.”

“E che c’entra?”

La ragazzina tacque, all’epoca del Pirata c’era stata la ribellione dei protestanti normanni, e il Pirata era stato dalla loro parte... c’erano cose della mamma di Alo e Maxence di cui non si parlava tanto, non che loro se ne vergognassero, anzi, ma c’era una ambiguità… la mamma di Cassandra era inglese... ma non erano fatti di sua sorella, decise, poi li avrebbe raccontati al momento meno opportuno.

“Gli piace la Storia” rispose vaga, sistemandosi più comoda contro Oscar.

“Oh! Quante cose che avete in comune… lo sa quel tizio tutto impostato, che tu non sai nemmeno chi sono i Sette Re di Roma? Che ne pensa? apprezza?” La bambina si pentì subito di quello che aveva detto, con un tono per cui si sarebbe presa a schiaffi, ma Sigyn se ne rimase zitta zitta e non le rispose,

Poi sua sorella disse, in un sussurro, “Non essere ingiusta, Clément... di lui dovresti apprezzare l'eleganza dei modi, lo spirito e quel talento, in fondo raro, nel rendersi gradevoli senza fare ricorso alla piaggeria..." Oscar sospirò rumorosamente, come per protestare, ma Sigyn proseguì, tutta triste, "Lo so per esperienza, non ho avuto sempre i complimenti, che ti credi? Ma non mi ha mai colpito per il gusto di colpire e dopo era sempre lì a tendermi la mano... oggi mi ha fatto sentire un verme su certe cose, è quel suo lato da Leggenda Nera..." Oscar sgranò gli occhi, la leggenda nera? quale leggenda? ma di che parlava sua sorella? "Però mi ha accarezzato i capelli nel modo dello zio Jean-Claude, impagabile..." Oscar storse il naso irritata, qualcuno aveva accarezzato i capelli di sua sorella? E come si era permesso? Non era mica un gatto! "Quanto al resto… non hai torto, non pensare che non sia una cosa che io non abbia preso in considerazione… la cultura, la perfezione - quella non sono io, quella sei tu… la Spartana Inquietante... La Leggenda Nera è fatta per stimare la Spartana, non stimerà mai Loki, e nemmeno Hodhr che è cieco, e io penso sia una metafora, e va bene così. Non mi importa. Andrà come deve andare. Ma ti giuro che non ha importanza.”

“Ma che dici?” Oscar sobbalzò. Di che parlava sua sorella, ora? la perfezione? Loki? Il cieco?

“Nulla… povero André… ma c’è tempo...“ poi si accomodò meglio, con un sospiro, "c'è tanto di quel tempo... prima o poi capirai..."

"Vuoi davvero andare in Spagna?" la voce di Oscar si era fatta timida.

"No, non è una cosa che voglio..."

"Però lo spagnolo lo stai studiando..." la voce di Oscar si fece inquisitiva.

"Si e mi piace molto... è una cosa che sento che capiterà. Lo spero almeno, lo spero tanto."

Oscar si sdraiò portando la sorella con sé, sui cuscini. Sigyn non protestò, e nemmeno il gatto.

"Puoi restare con me e con André quanto vuoi, sai?"

"Grazie" disse educatamente la bambina mezzo addormentata, accoccolandosi contro sua sorella, assaporandone il calore e abbracciandola.

"Puoi anche tenere i gatti in camera tua, a noi non da fastidio... tutti i gatti che vuoi!"

"Bene" disse Sigyn trattenendo uno sbadiglio, "tanto già lo faccio..."

"Vuoi parlare in spagnolo con André, per caso?" Oscar si puntellò sul gomito, strattonandole la spalla perché le desse retta.

"Ma per carità!" Sigyn sorrise con gli occhi chiusi “ma povero André... lo tratti come... lo comandi come fa il Generale con il suo attendente.”

"Monsieur Henri è troppo vecchio... lui non ti sposerà mai, tu questo lo sai vero?" Oscar si fece esitante: Sigyn adorava in silenzio Monsieur de Girodelle.

"Eh si... e poi c'è il piccolo dettaglio di Madame Girodelle... a cui voglio bene. Dovrebbe restare vedovo per la seconda volta... mi si spezzerebbe il cuore. Pure a Cassandra e a Clément. E poi diventerei la loro matrigna, e questo mi fa un certo effetto."

"Allora? Lo accetti? Senza discutere?"

"Oscar, per piacere... ho sonno"

"Tu non vuoi bambini, vero?" Oscar strinse gli occhi nel dirlo.

"Non ne ho idea..." Sigyn aprì gli occhi perplessa, è questo che ti preoccupa? - pensò frastornata - che Horthense pensa a sposarsi? Credi che moriremo tutte di parto? Lo sai che la mamma non poteva più dopo te, perché sarebbe stato troppo pericoloso? Forse a una di noi toccherà, è il caso... ma non ci si può fare nulla. Ma non glielo disse, forse non era quello il motivo, e avrebbe cominciato a preoccuparsi per niente e a dare il tormento anche a Horthense.

"Non sei adatta, secondo me."

"Ah ecco, questa mi mancava." Sigyn fece una risatina.

“E' perché vuoi stare in un posto solo?” chiese Oscar preoccupata, con voce esitante.

“Ma no! Cosa c'entra?”

“E allora?”

“Oscar, ti prego, ho sonno...” Sigyn si strinse ad Oscar, "ti prego!"

“Ma...”

"Oscar ascolta," Sigyn la attirò verso di sé e le accarezzò il visetto, "oggi una persona mi ha detto una cosa, vale per me, ma pure per te, pensaci su..."

"Sarebbe?"

"E' la pioggia che fa crescere i fiori, non il tuono!"

"Che scemenza!" Oscar indurì lo sguardo, chissà che si credeva che le avessero detto... la pioggia... ma che banalità! Ed è il vento che fa stormire le fronde, e se nevica mettiti gli stivali con il pelo.

"No, è che io voglio fare la pioggia, e pure tu... in casa ce ne abbiamo già abbastanza di tuoni, mi pare, uno in più, a che serve?"

"Ma..."

“Sai la storia del vischio, vero?" Sigyn sistemò le ciocche bionde di sua sorella dietro le orecchie, "C’erano due fratelli, che si volevano molto bene, Baldr e Hodhr. Baldr era bello, biondo e con gli occhi azzurri, il meglio del meglio…”

“Il numero uno.” scherzò Oscar. 

“Puoi dirlo forte, lo amavano tutti perché era perfetto.”

“E Hodhr?”

“Hodhr era nato cieco, che non è mai una bella cosa, ma la loro razza, gli Aesir, era una razza di guerrieri, e non c’era posto per uno che non lo fosse, lo capisci?”

“Povero Hodhr…”

“Ma povero cosa?” Sigyn si irritò, “Hodhr campava benissimo, guarda… cioè, c’era stato un periodo… ma poi era passato. Se agli altri piaceva fare i guerrieri, si accomodassero, Hodhr si occupava di altre cose!”

“Mi fa piacere per Hodhr.” Oscar la abbracciò, perplessa.

“A Hodhr non dispiaceva se Baldr era il preferito, sai? Tutti prima o poi sono i preferiti di qualcuno… anche Hodhr a modo suo era il preferito e da qualche parte c'era qualcuno che l'avrebbe preferita sempre, prima o poi, quindi andava bene. Quello che spiaceva a Hodhr,” arrossì nel dirlo e poi piano glielo sussurrò stringendola a sé “quello che spiaceva davvero tanto a Hodhr, era che Baldr era il preferito solo perché poteva essere un guerriero. Non perché Baldr era… una brava persona. Uno che voleva bene sul serio a suo fratello, uno con cui era un piacere...  E’ quello che è sbagliato, lo capisci? E’ una bugia grossa. E Baldr gliela lasciava raccontare ogni volta, si faceva tirare addosso di tutto, per dimostrare che era un guerriero, ma non c’era bisogno, era una cosa da circo! e questo faceva infuriare Hodhr. Suo fratello non era un fenomeno da baraccone!”

Sigyn tirò su con il naso ed Oscar si agitò - sua sorella si era messa a piangere? sperò tanto di no, perché lo faceva raramente e quando lo faceva... nessuno la sapeva consolare, lei meno di tutti
Fu a quel punto che sua sorella la baciò sulla guancia.
“Ma Hodhr non ce l’aveva con Baldr, non per quello, non perché era il preferito, e nemmeno se fosse stato il preferito anche per... gli amici di Hodhr... nemmeno se Baldr fosse diventato il preferito dell'amico preferito di Hodhr... non gli importava! Non gli importava davvero! Sapeva che sarebbe successo, forse era già capitato, ma Hodhr non avrebbe voluto nemmeno un'oncia di bene di meno, né al suo amico preferito, né a Baldr! Al massimo ce l’aveva con Baldr quando era prepotente… ma mai per quello. Mai. Te lo giuro.”

Oscar le sfiorò le lacrime con la punta delle dita, dispiaciuta perché non sapeva che dire o che fare “Sigyn...“ sussurrò sgomenta.

“Si?”

“Non è che ti appassioni un po’ troppo a questa mitologia norrena?” le chiese timidamente. “Ci sono libri con storie più divertenti sai? Se vuoi domani e ne presto uno...”

A quel punto sentì sua sorella che rideva semisoffocata contro il cuscino. Oscar scosse la testa - chi la capiva quella era bravo, ma bravo davvero... forse era perché era nata prima del tempo... era sempre un passo dopo di dove sarebbe dovuta essere. Lo dicevano anche il Generale ed il Precettore - non che fosse proprio stupida stupida, ma... indietro, più lenta, con idee un po' balzane...

Le bambine furono interrotte da Madame Marguerite, che fece togliere a Sigyn la palandrana e ne esaminò la spalla, con le sopracciglia aggrottate.

Oscar fece un fischio di compiacimento - sarebbe diventato un livido stupendo! “Quasi quasi te lo invidio...” disse. “devi aver fatto qualcosa di molto divertente per procurartelo… fuori i dettagli!”  

Sigyn bofonchiò qualcosa, e Madame Marguerite sorrise con indulgenza “Oscar, non sempre devi dire ogni cosa che pensi, sai? Magari a tua sorella non fa piacere che le si facciano domande su questa cosa... impara a chiedere in privato, con discrezione.“

Poi guardò Sigyn e mentre le massaggiava la spalla con la crema che le aveva dato Maxence, d’impulso le chiese “Vuoi tornare dal nonno, per caso?”  

“Penso che alla lunga si sentirà solo: lui non viene qui volentieri e nemmeno Voi, Madre... a Voi piace stare qui e a Versailles... la Normandia non vi piace.”  

“Giri tanto appresso a tutti noi...”

“Oh a me piace! E sto tanto bene con lo zio Jean-Claude… quando non c’è, mi manca...” Madame Marguerite chiuse gli occhi - non era giusto e, allo stesso tempo, era giusto, Jean-Claude aveva il diritto di essere amato, se l'era guadagnato sul campo tutto quell'amore, aveva passato con la bambina ore, tenendola tra le sue braccia, leggendole quando nemmeno capiva, cosa che nemmeno lei aveva fatto con nessuna delle sue figlie, forse solo con Oscar, ma sempre preoccupata di non farla ammalare - non usava, ma Jean-Claude era vissuto con i selvaggi e se ne era tornato con tante abitudini così... peculiari. Per cui si, Jean-Claude, era giusto... ma il posto di Augustin in tutto questo? dov’era? Non lo aveva mai reclamato, ma era suo di diritto...  

“Lo zio Jean-Claude ti vuole molto bene,” delicatamente le accarezzò il viso, “ma… anche tuo padre… a modo suo… credimi… ti vuole bene con tutto il cuore.”

“Quando verrà?” chiese incuriosita la bambina, “avrò un quarto posto dove stare?”

“Quando verrà chi, cara?” Madame Marguerite era sinceramente interdetta, chi doveva venire?

“O ne avrò solo uno? Uno nuovo?” la voce della ragazzina sembrava un pochino preoccupata.  

“Preferiresti stare in un posto solo? Sempre, intendo...” Madame Marguerite cercò si restare calma nel dirlo, ma pensò Non a Natale, non me lo chiedere come fosse un regalo, ti prego, perché non lo so quale è il posto che sceglieresti, io non lo so… E ad Agustin ho chiesto almeno la penultima… fammela crescere come se fosse solo mia… non voglio conventi e balie… e ora?

La piccoletta non rispose.  

“Questo quarto posto, cosa avevi in mente? “ chiese in tono leggero Madame Marguerite. Forse la casa di Cassandra, pensò. Stavano spesso insieme quelle due, la madre di Cassandra le aveva insegnato a ricamare. Andava d'accordo anche con Victor, che era paziente con lei e adorava Monsieur Henri, in un modo così palese, che nessuno osava prenderla in giro. Sperò non fosse la casa di Horthense… perché allora voleva dire che quelle due si erano parlate, e che la bambina… che aveva chiesto lei, che non era un capriccio di Horthense Ghiaccio Blu, ma un desiderio di Sigyn…

“La Spagna.”

 Madame Marguerite non seppe se preoccuparsi o ridere per il sollievo.

“Senti quante scemenze dice!” le interruppe Oscar visibilmente infastidita “Vuole andarsene in Spagna! si è messa pure ad imparare lo spagnolo! Sta leggendo di nascosto La dama boba! Gliel'ha data lo zio Jean-Claude! Invece di farla ragionare... in Spagna! Ma che ci va a fare? E’ per quello che abbiamo litigato prima! E legge un mucchio di storie d'amore con una leggenda nera, un pirata normanno ed un tizio cieco! NON SOLO! Si è fatta pure accarezzare i capelli da un tipo, uno che pensa che lei sia cretina! E forse questo deficiente non ha nemmeno torto!”

"Io ti uccido," sibilò Sigyn, "il tuo buonsenso si è suicidato, mi è chiaro, e non ti ha lasciato nemmeno un biglietto per avvisarti..."
Madame Marguerite scoppiò a ridere e le abbracciò. "Le mie piccoline..." mormorò.


Madame Marguerite lasciò la stanza solo dopo averle baciate, beandosi del loro odore ancora da bambine. Oscar, la sua rosa, profumava di rose, Sigyn di pino e di menta - c'era tempo, ringraziò Dio dentro di sé, c'era ancora un pochino di tempo, prima di vederle sparire, prima che non avessero più bisogno di lei. Si sentì terribilmente stanca, con il cuore che le sembrava si fosse spaccato in mille pezzi, che ora le vagavano impazziti nel petto. Decise che doveva andare a parlare con Augustin, c'erano state cose che non si erano detti, forse, e il risultato non era esaltante, non per lei almeno. Doveva assolutamente parlare con suo marito.

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** Quel bacio che da solo non basta ***


Quel bacio che da solo non basta

Madame Marguerite scese i gradini dello scalone, accompagnata dal fruscio del vestito - le piccoline erano proprio due cucciole, la Spagna quindi? Oh Sigyn, Sigyn... che idee! Sciocca proprio come sua madre, che pensava ad un incarico dalla Regina.
Avrebbe indagato con Hortense, la sua musicista diabolica, apparentemente di ghiaccio!
Le ragazze avevano suonato bene davanti a Monsieur Henri, Joséphine avrebbe dovuto lavorare un pochino su alcuni dettagli, ma erano ad un ottimo punto, di più sarebbe diventato quasi professionale e non si sarebbero divertite.

Attraversò l’atrio con passo leggero, mentre un sorriso nostalgico le attraversò il volto: una volta anche lei suonava. Era brava, brava davvero, anche se Hortense la batteva, ma questa era la sua musica, ora: tacchi su marmo e fruscio di robe à la Polonaise, crepitare attutito di scarpette di seta, tintinnio di cucchiaino di ceramica in tazza di Mennecy - stile originale e, a modo suo, anche ingenuo - acciottolio di vasi di terracotta con eco su vetro di una orangerie, contrappunto di forbici da potatura con giardiniere fedele con reumatismi e figlia distratta con chatelaine tintinnante, sorriso d’autore.

Come Oscar, ogni volta aspettava con ansia gli applausi, cercando di essere sempre un pochino migliore, come uno dei gattini di Sigyn, che si allungavano ansiosi per afferrare un cordino dispettoso.

Se non c’era qualcuno a dirglielo, lei non lo era. Brava. Non lo era sul serio.

Ma quanto era lecito far allungare un gatto?

Forse non era un caso che a Sigyn dai capelli rossi, che profumava di menta piperita, piacessero i gatti indisponenti che facevano quello che volevano.


Si ricordò la dolcezza di una fine di settembre ed uno splendido ottobre in Normandia e in Bretagna, la pioggia battente e il vento che spegneva le candele; era stata lei ad andare a trovare suo marito, l’uomo più indisponente che avesse conosciuto, che faceva sempre solo quello che considerava giusto.

Lei aveva una chemise ricamata con del pizzo di Alençon su cui riponeva grandi speranze - era già stata abbondantemente madre eppure era rimasta così ingenua: credeva che il desiderio risolvesse tutto.
Augustin l’aveva presa per mano e l’aveva portata per le viuzze di Saint Malo, il freddo che la faceva sentire viva e lui pronto a scaldarle le dita. Avevano bevuto brodo di pesce in posti rumorosi per riscaldare i cuori affamati

Marguerito sospirò. Lui stava in un appartamento prestato da qualcuno del clan dei Sisteron, in un palazzo dentro la città vecchia, tutta ombre, acqua e sale e lei si era installata lì, come una amante discreta.

Glielo aveva detto, che si era sentita poco importante e Augustin, i gesti così delicati, le aveva fatto sperare che non contasse affatto quello che non era.

Con Joséphine c’era stata una brutta emorragia - l’orrore delle mani del medico che la frugavano, animale di carne e sangue non certo creatura eterea di poesia e raggi di luna, non c’era nulla come la maternità che ti togliesse l’illusione di non essere solo una bestia, venuti al dunque.


Feconda, questo era quello che non era.

Per quello che era le venivano in mente tante parole: sterile, inutile e deludente, madre di femmine. Bréhaigne, come una bestia da monta

Augustin aveva sfiorato tutti i rilievi di quel pizzo facendola rabbrividire: le sembrò che le avesse tatuato sulla pelle le rose di filo di seta, in una scia di fuoco.
Si era ritrovata a spegnere la lampada soffiando sulla fiamma, le braccia incrociate sui seni, la chemise annodata intorno al nodo delle sue anche e lui che rideva malizioso, lasciandola fare. Quattro bambine, più di quattro gravidanze - inutile piangerle, era la vita - qualche striatura pallida sulla pelle a testimoniarlo - le sue personali cicatrici di una guerra, fatta di battaglie tutte perse.
Eppure quella notte si era sentita di nuovo vergine. Ma non impacciata.

Lui in quelle sere aveva reclamato ciò che era suo, tornando impaziente al loro nido, dopo il lavoro, dopo gli spostamenti per la regione, coperto di polvere e fretta di ritornare.

Augustin, io ho bisogno di te, glielo aveva detto.

L’attesa di Sigyn era stata una sorpresa.
Ripensandoci pensava di poter indicare quasi con certezza il giorno del concepimento: la notte dell’ultimo di ottobre, quella prima di Toussaint.
Lo avevano fatto con gesti pigri e lenti - Augustin, la notte di Sigyn, si era come arreso, o forse era stata lei a dettare il ritmo senza arrendersi a lui.

Quella bambina l’avevano fatta senza fretta, con acqua e sale, vento che veniva dal mare, dolcetti caramellati, tanta tenerezza e rare (ma belle) parole d’amore.


Entrò nello studio di suo marito, intimidita e lo trovò che, pensieroso stava sorseggiando del liquore. Gli si avvicinò esitante, poi, con un sorriso piccolo, gli prese la mano.

“Vieni con me...”

“Dove?”

“Vieni, ti prego.”

Lo portò sotto il vischio e lì gli si strinse addosso cercandone le labbra. Dimmelo che non ti sei mai pentito di avermi sposata. Dimmelo che sei stato felice di avermi accolta a Saint-Malo, come se fossi stata preziosa per te.

Augustin sorrise imbarazzato “Andiamo in camera mia, Marguerite…”

“Si, ma prima… baciami, qui, sotto il vischio.” gli sfiorò con l’indice le labbra. Dimmelo che non conta che sono tutte femmine. Lo so che sei un uomo buono, le tue figlie a volte non lo capiscono, Sigyn sembra che non lo sappia quanto le vuoi bene, ma io lo so.
So che gliene vuoi molto, ho cercato di farglielo capire, proprio pochi minuti fa.

“Non ci penso affatto! Non l’ho fatto quando eri ragazza, a casa tua, e non intendo farlo ora che sei mia moglie!”

“Perché?” Ti prego, stasera, dimmelo che vuoi bene a tutte e sette, le tue donne, grandi e piccole. Ho tanto bisogno di sentirtelo dire… la Spagna… ma non capiresti...

“Certe cose vanno fatte nell’intimità del talamo coniugale, in pubblico sono solo indecenti!”

“E’ simbolico, è un modo per dare un nuovo inizio…” Maledizione Augustin, a volte mi sembra di camminare dietro a te per un sentiero di montagna, di rendermi conto che abbiamo sbagliato strada, e non trovare la parole per dirtelo.

“Prima di tutto ad un uomo non servono gesti plateali, quando si parla di cose personali. Secondariamente, alla mia età, certe frivolezze sono solo inappropriate. Quello che provo per te lo dovresti sapere molto bene da sola, non ti dovrebbe servire un gesto alla moda, che non è neanche della tradizione francese!” La voce era così severa che Marguerite arrossì imbarazzata.”Non serve del vischio e una leggenda nordica per sapere cosa è importante per un uomo. Queste stupidaggini vanno lasciate ai giovani, che hanno bisogno di chiari di luna e poesie in complicate rime baciate per compensare, con l'artificio, lo spessore che non hanno.”

“E poi non devo dare un nuovo inizio a nulla perché non c’è nulla che io voglia disfare...” aggiunse irritato, accarezzandole una guancia con una tenerezza infinita.

“Ogni tanto parlare fa bene," Marguerite insistette piccata, "e i gesti simbolici servono proprio a quello, a dare una cornice importante a qualcosa di serio e a fornire l’occasione per dire quelle cose, che altrimenti, per pudore, si finirebbero per dare per scontate…” Forse avremmo dovuto parlare un po’ di più mentre sceglievi il destino di Oscar, è come se mi fossi distratta un attimo e dopo era tutto già deciso!

“Parlare di cosa?” in Augustin stava montando il pessimo umore - un classico quando in casa c’era Jean-Claude.

“Di Oscar, per esempio...” le uscì spontaneo, “sta crescendo.” Forse dovremmo educarla in modo un pochino diverso... non è un uomo! Ad un certo punto se ne accorgerà.

Augustin sorrise rasserenato “Oscar è un figlio splendido, che cresce magnificamente - ha le ossa lunga dei Jarjayes, ne faremo uno spadaccino nervoso. Il precettore è molto soddisfatto ed anche io: è intelligente e si applica con rigore. E aggiungo che mi è piaciuto nell’assolo: un uomo non può vivere solo di guerra,“ accarezzò la mano di Marguerite, “ero scettico all’inizio su questa tua idea di imporgli lo studio del violino, ma ho capito che gli serve per incanalare la sua sensibilità…”

Marguerite arrossì sentendosi grata per quel complimento, poi azzardò scherzosa “Sei un po’ parziale non credi?”

“Certo! E’ mio figlio! Mio.” fece una risata bonaria, pieno di orgoglio.

“E le altre?” Marguerite intrecciò le dita con quelle di suo marito, prendendolo in giro.

“Quali altre?” il tono era sinceramente stupito.

“Abbiamo sei figlie Augustin.” Madame Marguerite era perplessa.

“Ma è diverso, Marguerite, non intraprenderanno mai la carriera militare, non saranno rettori della Sorbona, nemmeno membri dell’Académie Française. Non diventeranno non dico un Primo Ministro del Re come un Richelieu o un Mazarino, non siamo una famiglia così potente, ma nemmeno un segretario di un serio uomo politico… al massimo potranno partecipare al buon andamento della Maison de la Reine con qualche incarico minore. Cose di poco conto. Una casa per le bambole a grandezza naturale.”

Marguerite sobbalzò umiliata; anche lei aveva dei dubbi sulle cariche delle dame nella Maison de la Reine, non sempre le persone prescelte erano in grado di gestirne veramente il buon andamento - non sono cose in cui ci si improvvisa, lo aveva imparato gestendo le proprietà del marito. Eppure aveva considerato la proposta della Regina un grande onore.

Augustin si affrettò a rassicurarla, fraintendendo ”Verrano tutte fatte sposare, come è giusto, non ti preoccupare. Tutte.” la voce suonò così seria, come se le stesse facendo una promessa solenne, “Il loro scopo è ratificare una alleanza preziosa tra famiglie e le ragazze sono, quasi tutte, compagne di valore per un aristocratico ambizioso - non lo faranno sfigurare in società.
Sono state addestrate ad essere silenziose ed obbedienti, perfette nei modi e nella grazia e con il giusto grado di istruzione. Troppa le avrebbe rese ridicole!
Invece, così come sono, non risultano imbarazzanti. Hai fatto un ottimo lavoro con loro, lasciando il grosso ai collegi e occupandoti del perfezionamento. Ma non possiamo negare, né tu, né io che la loro conversazione esclude un buon numero di argomenti… se permetti, tra qualche anno, durante una cena, o in un salotto davanti ad un bicchiere di armagnac, parlare con Oscar sarà molto diverso che parlare con una di loro.” Augustin le sorrise indulgente, e poi concluse dandole un colpetto sul dorso della mano “Non puoi paragonare Oscar a… alle altre, lo vedi da sola!”

Marguerite sgranò gli occhi davanti al sorriso di suo marito, che le parve troppo condiscendente - sì, certo, erano state tutte addestrate dal maestro di danza, fin da quando avevano tre anni, ad esser perfette nei gesti, chinarsi, sedersi, porgere, prendere, alzarsi, fare un inchino. Il bastone del maestro aveva tenuto il tempo per loro e le aveva costrette a ripetere ogni gesto fino a che non sembrasse spontaneo. Erano perfette. Ma non erano solo quello.

“Le ragazze non sono solo quello.” azzardò incupita.

“No, certo, e tu continuerai a seguirle, che imparino a scegliere un abito senza rendersi ridicole, a seguire la moda, ma da lontano… a organizzare una cena... che ognuna di loro si integri nella società a cui appartiene per nascita, senza stridere, ma neanche senza sembrare solo una tra le tante."

Marguerite arrossì ripensando alla cura con cui aveva osservato il fichu di Hortense solo quella mattina - era questo che lei faceva? solo questo? osservare campionari di stoffa? Aveva smesso di parlare con loro, ad un certo punto, delle cose che davvero contavano?

"Augustin, sono state educate non solo ad inchinarsi nel modo corretto! Hanno un'anima e una sensibilità, spero che tu lo abbia notato."

"Ma certo Marguerite" tagliò corto il Generale, "sono femmine, certo che sono sensibili, e anche molto emotive. Solo che, cerca di capire, Oscar ha dalla sua l'intelligenza e l'applicazione nello studio, due cose che, insieme al carattere, che è quello fiero e leale dei Jarjayes, le forniranno uno spessore. Oscar è un solido, le ragazze sono delle... superfici, molto belle e che saranno il vanto di chi le avrà come spose. Ma non puoi mettere a paragone queste due cose. ”

“Ma non è un difetto," si affretto ad aggiungere con cortesia, "sono destinate a vite diverse, tutto qui. Con le prime quattro sarà facile, vedrai: sono tutte molto belle, alte e bionde, delle vere Jarjayes. Usciranno una ad una da questa casa e saranno le spose di qualcuno, mi sono mosso per tempo e con la massima cura, mi puoi credere. Solo che non torneranno mai più qui, non sono nate per restare con noi: sono solo creaturine di passaggio, non certo come Oscar, che resterà per sempre. E per fortuna che è nato…”

Marguerite divenne terrea, “Non è nata maschio.” obiettò con una nota di ostinazione nella voce.

Augustin le accarezzò una guancia, “So che stai pensando al nostro angelo… Rimarrà sempre del dolore nel fondo del mio cuore per il nostro bambino, vissuto così poco. Non ne parliamo mai, ma so quanto ti ha devastato la sua perdita - e anche per quello ringrazio sempre per la nascita di Oscar. “ si schiarì la voce, imbarazzato - ho temuto di averti persa per sempre, pensò.

“Se fosse… se fosse successo anche a Sigyn… sarebbe stato lo stesso?” Marguerite si sentiva la gola secca, non era di questo che voleva parlare… lei aveva dato per scontato…

Augustin fece un gesto impaziente, allontanandosi da lei “Ma perché vuoi torturarti con quello che è successo? Se cominci a chiederti queste cose, Marguerite, ti farai solo del male. Dio, o il Caso, ha voluto prendersi nostro figlio e farne un angelo. Avrebbe avuto davanti a sé una vita piena. Ora, magari, starebbe cartografando per me, proprio come feci io da ragazzo. Lo vedrei fare gli stessi errori che feci io ai miei tempi, e glieli lascerei fare tutti, per poi parlarne assieme. Avrebbe avuto un cavallino tutto suo fin da piccolo, e gli avrei insegnato a sparare vicino al tempio, in questo giardino. E tu gli avresti insegnato a suonare il violino, o il clavicembalo. D'estate sarebbe andato in barca coi giovani Girodelle, su alle anglo-normanne, magari con Maxence sui Minquiers a combinare qualche guaio... lo sai come sono i ragazzi..." la voce dell'uomo si fece roca e lui distolse lo sguardo dalla moglie. Brusco, concluse "Forse, se fosse successo il contrario, alcune cose sarebbero state diverse, ma la verità, per quanto apparentemente feroce possa sembrare, è che, la numero cinque è vissuta, il nostro angelo no."

Marguerite impallidì. Anche lei pensava al bambino, vedendolo crescere accanto a sé, nella sua fantasia, quando aveva baciato sulla guancia il giovane Victor de Girodelle...
Lei era stata devastata quando pensava che fossero... volati via... tutti e due, uno dopo l'altro, e che non le dicessero nulla della tomba di Sigyn per non turbarla, perché lo vedeva benissimo da sé come stava, in quel periodo.

"Ma sei felice che almeno lei sia sopravvissuta?" chiese tremante.

"Vuoi che ti menta? E allora sì, avrei sofferto allo stesso modo, se fosse successo il contrario… ma non è vero. La numero cinque era stata una sorpresa. Io a Saint Malo non stavo cercando di fare un bambino: io cercavo te. Non pensavo che ne avremmo più avuti ed era un dolore, ma mi faceva molto più male vederti andare via da me. Non è stata cercata, non è stata desiderata... è capitata. E' diverso, lo sai.”

“Per te è stato un errore quello che successe quella notte?” Se avessi appoggiato te non sarebbe mai vissuta… sono contenta di non averlo fatto, mi spiace.

Augustin si allontanò, poi con un gesto impaziente le rispose irritato, “Se uno sbaglia una previsione ne paga le conseguenze e io sto pagando il mio errore: ho una figlia stupida, con un nome stravagante datole da un gesuita - fosse almeno il nome di un santo!
Tu hai voluto che studiasse in casa, come Oscar, con gli stessi precettori, ma non impara facilmente, me lo dice sempre il Padre Spirituale che le osserva tutte e due. Oscar è un puledro di razza, un arabo dalle gambe lunghe e nervose. Sigyn è… un cavallo per donne anziane o incinte, con qualche bizzarria. Non si può pretendere da lei… e io non pretendo. Del resto è una femmina, e su di lei, fosse anche stata intelligente, un eccesso di istruzione l’avrebbe solo resa ridicola. O infelice: avrebbe messo in discussione il suo ruolo, finendo per diventare una fedifraga, si sarebbe ridotta ad essere l’imbarazzante amante di qualche filosofo. Così è destinata ad essere al massimo l’amante di qualche attore, e siccome è troppo stupida per valutare le conseguenze, corre il rischio di finire rinchiusa in un convento con una lettre de cachet. Non credo che qualcuno la vorrà in moglie - dovrebbe essere una dea per… compensare, ma... non lo è. Non è te. Forse sarebbe stato meglio tenerla qui, quella notte, e poi piangerla come un angelo. In ogni caso farò il possibile, come mio dovere, te lo promisi e manterrò la mia promessa.”

“Ma cosa stai dicendo?” A Madame Marguerite sembrò di essere precipitata in un incubo.

“Perdonami Marguerite, ma anche tu, per piacere, lo so benissimo che te ne rendi conto da sola. Capisco che non vuoi ammetterlo, ma l’hai esclusa tu stessa dall’esibizione delle ragazze. Joséphine mi ha raccontato che non ha stile, che non impara, che va bene solo per un repertorio popolare… è un fallimento anche in quello. Ha convinto le altre a non scriverle del concerto per evitare una pessima figura - me lo ha spiegato. Joséphine è stata brava, una vera Jarjayes, di carattere. E’ stata lei che si è messa in moto, ma tu lo hai permesso. Mi è chiaro che te ne vergogni, ammettilo… guarda che io non ti rimprovero affatto. Nacque troppo presto, povera bambina, voler farla vivere a forza fu un errore. Jean.Claude non aveva il diritto... lui pensa alla sacralità della vita, ma... c'è vita e vita.”

Marguerite trattenne il respiro, lei aveva lasciato ampia libertà alle ragazze e non aveva detto nulla sull’esclusione di Sigyn - aveva dato per scontato che fosse stata lei a non volere, che in Normandia fosse stata troppo occupata, che non fosse riuscita a reperire gli spartiti, e che qui, da loro, preferisse passare più tempo con Cassandra… era stata così carina con tutte, aveva ricopiato per loro… possibile che Sigyn non fosse corsa da lei per protestare contro le sue sorelle? Che non l’avesse cercata, nemmeno per lamentarsi?

“Non hai mai pensato di parlarne con lei?” senza accorgersi aveva drizzato la schiena, arrabbiata. “Forse ti stupirebbe.”

“E di cosa mai dovrei parlare con quella sciocchina? Ancora non ha capito che deve chiamare Oscar Monsieur. Alla fine ho rinunciato. L’unico linguaggio che pare capire è quello del frustino, come un animaletto un po’ ottuso. Per lei andrà bene qualcuno paziente, uno che viva in campagna. Magari Joséphine potrebbe fare le sue veci a Versailles nelle cene di rappresentanza del marito… bisognerà inventarsi qualcosa.”

Marguerite strinse le labbra… cosa era peggio? essere considerate irrimediabilmente stupide o ribelli?

“Ma, almeno, le vuoi bene?” dovresti ricordare quando l’abbiamo concepita… non puoi avere dimenticato... dovrebbe esserti molto cara anche solo per quello.

“E’ tua figlia, Marguerite, l’hai voluta e te la sono andata a prendere… non ha molta importanza, mi pare, quello che io posso dire a parole...“ si strinse nelle spalle.

Nostra figlia.”

“No, non è nostra è tua.” Augustin era stanco. “Ho accettato tua figlia,” disse con calma, “sono andato a prendertela in Normandia e te l’ho portata, ho fatto tutto il viaggio in carrozza con lei, che mi guardava come se fossi un estraneo.” Chiuse gli occhi, non avrebbe mai detto a Marguerite che colpo era stato rivedere i capelli di sua madre, e i suoi occhi, che gli erano tanto mancati, in quella cosa così piccola, e che dolore non trovarci dentro nessuna traccia di quell’amore a cui era abituato da giovane. Aveva detestato la bambina. “Ho controllato che mangiasse, bevesse, che non avesse freddo, non ho fatto questo per nessuna delle altre quattro, che portano tutte la mia impronta. Non avevo mai fatto da balia ad una bambina, ma a tua figlia si.” La detestava ogni volta che la vedeva correre tra le braccia di Jean-Claude, e poi gli faceva stringere il cuore.

“Tu pensi?” Marguerite era pallidissima e sdegnata.

“Io non penso nulla, ti ho lasciato tutto il tempo per dirmi qualcosa, se volevi, ma l’hai voluta tua, l’hai voluta a metà con mio fratello e con mio padre e sapevi benissimo che non avrei approvato.”

“Non stava bene qui.”

“E allora? sarebbe bastato usare il pugno di ferro, avrebbe pianto ma ad un certo punto si sarebbe piegata, come si piega un cavallo un po’ troppo vivace. Tutti i bambini piccoli piangono, ma poi non si ricordano, non sarebbe stato diverso, invece tu l’hai voluta educare diversamente dalle altre, in un modo che non riconosco come mio.” sospirò “Perché l’hai fatta allevare da mio fratello? Perché proprio da lui?”

“Era il solo che la volesse...” Marguerite era interdetta.

“E solo per quello era il più adatto? Perché la voleva? Capisco il primo anno, facemmo tutti un pasticcio, ma dopo? Mia sorella è sposata con un d’Agout, un’ottima famiglia, perché hai preferito quel buco normanno? Con un gesuita distratto e selvatico più di quei selvaggi che ama tanto, innamorato dei libri, con un ragazzo sempre con la testa tra le nuvole e le invenzioni più assurde, e con un vecchio sedizioso e riformista? Era questo, secondo te, il meglio che io avrei voluto per una che fosse mia? Il posto da cui me ne sono andato con un sospiro di sollievo?”

“Lì si sentiva amata, lo sai anche tu!”

“Ma non era questione di essere amati, ma educati, Marguerite!”

“Avremmo dovuto mandarla a prendere prima” Marguerite si sedette su un divanetto, stanca. Sigyn si era affezionata troppo a Jean-Claude ed era anche stata anche colpa sua.

“Non darmi la colpa di questo, te ne prego: non hai mai chiesto di lei… Come la hai chiesta te la sono andata a prendere e ho specificato a Jean-Claude che l’avrei cresciuta come le altre.
Ma tu non lo hai voluto.”

“Non mi hai mai veramente consultata. La tua volontà era legge. Hai sempre deciso anche per me.”

“Non era legge Marguerite, non con te! Se io ho deciso, è successo perché tu me lo hai lasciato fare. Non voglio essere l’orco delle favole, basta...” si passò una mano nei capelli con un gesto stanco, “Ascolta, quando io la guardo penso che forse ti è capitato di desiderare un’altra vita, ma non so quale. Tu non mi hai scelto Marguerite, tu mi hai scelto solo a Saint Malo, perché sei venuta a cercarmi tu, a pretendermi come se fossi tuo, e l’ho apprezzato tanto, credimi. Più del giorno in cui ti ho sposata.
Ma non mi hai scelto quando ci siamo fidanzati, hai obbedito ai tuoi genitori, a me che ti volevo, ti sei piegata, ma tanti anni fa eri sotto un ramo di vischio e parlavi con Jean-Claude… io non lo so se vi siete baciati, non lo voglio sapere, non avrebbe importanza tutto sommato, non dopo tutto quello che c’è stato tra noi, ma vi ho visto guardarvi come due sciocchi…”

“Augustin!”

“Lasciami finire. So bene che la numero cinque l’abbiamo fatta noi due a Saint Malo, per caso! Ma poi, arrivati al momento di farla crescere tu hai scelto di crescerla con Jean-Claude. Fosti chiara all’epoca mi dicesti che la penultima volevi fosse educata come dicevi tu, era tua e me lo hai comunicato. E io l’ho accettato. E questo, tra parentesi, vale molto di più di un bacio sotto il vischio!”

“Ti eri preso Oscar, Augustin! Ho solo desiderato che almeno una tra loro crescesse come me, che fosse un po’ frivola, meno impostata, che adorasse la sua famiglia, e che però al tempo stesso, fosse diversa da me, che sapesse dire di no! Che avesse una istruzione che le permettesse di scegliere da sola.”

“Marguerite, guarda, io spero che tu stia scherzando...” Augustin scosse la testa “Mi dispiace, ma non c’è spazio per questo, non c’è.” la guardò con compassione, “Per un maschio forse, un libertino, ma per una femmina no. Solo una molto molto in gamba potrebbe essere il tipo di donna che hai in mente tu, ma nemmeno Oscar, che è una personcina davvero intelligente, potrebbe... E la quinta è molto diversa da Oscar, la meno adatta per delle idee di… libertà… figuriamoci! Una creatura semplice... limitata, non per colpa sua, ma...”

“Basta con questa storia! Dici un mare di sciocchezze!”

“Ascolta Marguerite, non esiste un anno fatto solo di primavera, viene l’inverno prima o poi.
Ma tu sei delicata, non resisti all’inverno, e allora bisogna costruirti una serra intorno e ci vuole che nell’inverno ci vada qualcun altro. E a me va bene così. Sei una donna e sei la mia donna.”

Augustin si fermò per riprendere fiato, mentre passeggiava avanti ed indietro davanti a sua moglie.

“Ma, se le cose stanno così, cara Marguerite, io non posso sognare cretinate. O distribuire baci sotto il vischio! O lanciare in aria petali di rose! Io devo pensare a ciò che è bene per tutti. Quello che a voi sembra un abominio è stato un obbligo ed è il miglior regalo che possa fare ad Oscar: non essere una creatura che ha bisogno di una serra e di un uomo che la curi. E un uomo qui ci vuole, per quando non ci sarò più. Ci vuole per te, per le altre, per la continuità, per finire di puntellare la solidità economica di questa casa, per garantire ottimi matrimoni a quelle figlie che mi accusi di non amare... Tu stessa hai bisogno di un figlio maschio per non ricadere in quella tua ossessione di essere inutile. Ne avevi fatto una cosa enorme del problema di un erede, più grande di quello che potevi sopportare, ti stava soffocando. Forse con Saint-Malo avremmo iniziato insieme un'altra fase della nostra vita, ma quella gravidanza imprevista, ti ha riportato... ci ha riportato a prima di Saint-Malo. E tutta quella tragedia, dopo... pensavo che ti avrei persa per sempre.
Mi rimproveri la mia scelta, ma è stata un bene anche per te: ne avevi bisogno per tornare a vivere. E tu sei la vita di questa casa, lo sai, senza di te..."

Marguerite sobbalzò. Che suo marito avesse ragione? che si fosse illusa, che la sua forza venisse anche dal sacrificio di una sua bambina?

"Se l'avessi voluta davvero, avresti chiesto di lei, non avresti demandato tutto ad una corrispondenza impacciata tra me e Jean-Claude, me l'avresti chiesta, come a suo tempo hai chiesto di rifare il Salone di Musica, o le balaustre in ferro battuto... io lì non mi sono dovuto occupare di nulla. Ne deduco che in fondo nemmeno tu... fu Oscar a riportarti tra noi, non la bambina che già c'era."

Marguerite cercò disperatamente di negare, ma Augustin le fece segno di non interromperlo, "E un maschio serve anche perché questa casa sia un porto sicuro, se qualcosa va storto nelle vite che abbiamo cercato di pianificare al meglio per le ragazze di cui parli con tanto amore!”

Marguerite spalancò gli occhi spaventata.

“Per questo amore ci vogliono fatti, non parole o poesie! E i fatti richiedono una porzione di sacrificio da parte di tutti. Sacrifici tuoi, miei, loro!

Ci vogliono pure per quella figlia che non sarebbe dovuta mai nascere - il precettore, il Padre Spirituale concordano è… non è all’altezza. Ma io mi occuperò anche di lei. Perché è giusto così.
Quanto ad Oscar... siamo stati fortunati e io non intendo farne una inutile femmina. Prima di tutto perché serve un maschio, e poi perché è troppo in gamba. Tra crescere una precieuse ridicule, mai affrancata da una autorità maschile, ed un uomo, meglio un uomo! Almeno sarà davvero libera!”

“Augustin!”

“Lasciami finire, io a te ho lasciato la poesia, ed il fatto di essere amata da tutti i tuoi figli!” il tono gli uscì così amaro ”io non ti chiedo di amare una figlia più o meno di un’altra, non ti chiedo se nel tuo cuore ci sono preferenze, e tu non venire qui a chiedermi perché amo o non amo questa figlia o quella. Io non ti chiedo di essere una valchiria, accetto tutto di te, forza e debolezza, per quello che hai voluto dividere con me e quello che non hai voluto, e tu non osare mai più chiedermi di essere quello che non sono.”

Marguerite si alzò di colpo in piedi, le guance in fiamme, e se ne andò di corsa nella sua camera, sotto lo sguardo addolorato del Generale. Non riusciva a capire l’esplosione di rabbia di suo marito. Mai, mai le aveva parlato così!


Era la contrarietà perché lei metteva in discussione l’educazione di Oscar? Erano i sensi di colpa verso Sigyn e tutti gli errori fatti con lei? Credeva davvero che lei vedesse quella figlia come il sogno di un’altra vita che forse avrebbe preferito? Era la solita competizione con Jean-Claude? Gli spiaceva non avere saputo amare e farsi amare dalle altre cinque, in quello stesso modo spontaneo come gli succedeva con Oscar? O davvero pensava che la bambina non fosse normale? O era stata lei che effettivamente aveva scelto di educarla con Jean-Claude perché era un uomo più comprensivo, anche con lei? Da Jean Claude lei si sentiva sempre... considerata.

Risalendo le scale, urtò qualcosa e sentì un miagolio di protesta.

“Sigyn?” chiese incerta. Mio Dio, ti prego, non questo...

La vide girarsi nella penombra con il gatto tra le braccia, impassibile “Avevate lasciato la porta aperta, madre, e Jambe-de-Bois è scappato giù per le scale.”

Avrebbe voluto chiederle se era scesa fino alla studio, se li aveva sentiti discutere, e cosa aveva ascoltato, e a che punto se ne era tornata lì sulle scale tutta sola, ma non ne ebbe il coraggio - comprese che la bambina, nel caso, le avrebbe mentito e lei non avrebbe saputo mai distinguere il falso dal vero.


Fu quella notte che Madame Marguerite decise che un quartier dalla Regina le avrebbe fatto bene - come scrisse a suo marito, con molto rammarico, forse quell’educazione che avrebbe voluto per almeno una delle sue figlie, avrebbe prima dovuto sperimentarla su se stessa, in una casa di bambole a grandezza naturale. Poi aggiunse, perché era vero, era giusto e forse era la cosa più importante, che non aveva mai amato nessuno come lui, e che gli spiaceva che proprio la sua debolezza, che lei credeva un dovere, non l’avesse resa quella compagna, capace di tenergli testa, quella socia a cui lui - e tutte e sei le loro figlie - avrebbe avuto diritto.






Note finali: ormai manca solo l’epilogo. Madame Marguerite cercava rassicurazioni, ma ha trovato altro. Mi sarebbe piaciuto sviluppare meglio il dialogo tra questi due – a Madame tocca la parte più debole – ma non ho tutto il tempo che vorrei e preferisco riuscire a chiudere questa storia per poi riprendere Una storia rococò, di cui questa è un pochino il prequel.

Grazie a Tetide e Françoise, ma non solo a loro, grazie anche a Barbara e a Katia che mi hanno tenuto compagnia durante questa passeggiata e a Sandra che segue da lontano. Grazie a lenovo che è arrivata per l'ultimo tratto.

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** C'è un bacio per te, nei miei occhi ***


Note: pensavo sarebbe stato l'ultimo capitolo, ma non lo è...


C'è un bacio per te, nei miei occhi

 

Victor Clément de Girodelle cavalcava impaziente lungo il viale che conduceva al cancello secondario dei Jarjayes, quello vicino al vecchio casino di caccia. In primavera le chiome si sarebbero toccate formando quasi un tutt’uno - un cielo buio, fatto d’intrico verde, a sprazzi bucato dai raggi di sole, un sollievo in estate.
Ora, a sfiorarsi, c’erano solo i rami spogli.
Neri e duri - tutto ciò che era avanzato di tenero dalla primavera se ne era sparito in autunno - ricoperti di ghiaccio e di neve, parevano una enorme ragnatela luccicante di rugiada sotto le prime luci nel bosco.
Quanta luce con un sole così piccolo, pensò, guardando il cielo bianco e trovandolo assurdamente bello.

Quando riaccompagnava Sigyn a casa, di solito, passava da quella parte: con il Generale c’era sempre il timore che fosse troppo presto o che non lo fosse abbastanza o che fosse davvero tardi, fin troppo. Sigyn, che, in Normandia, conosceva il calendario delle maree, il minuto del tramonto, le notti senza luna e l’ora esatta in cui era attesa a cena, lì, a Versailles, non aveva la minima idea di cosa volesse suo padre da lei.

Arrivato al cancello smontò e cercò con le dita la pietra scabra che nascondeva la chiave -  la conosceva a memoria: o lui o Sigyn aprivano il cancello e sgattaiolavano dentro. Rimetterla al suo posto toccava quasi sempre a lui.
Legò il cavallo all’interno e poi si diresse verso il Palazzo, voleva parlarle con calma, darle un regalo, e spiegarle perché la sera prima non l’aveva cercata - non sarebbe stato giusto: era in punizione e lo scopo di una punizione è o colpire o educare, o, nella maggior parte dei casi, tutte e due le cose. Sottrarsi era scorretto e, tutto sommato, controproducente - le punizioni di suo padre avevano sempre dei risvolti interessanti. Pure quelle del Vecchio, anche se lui tendeva a cercare il nervo - bravissimo in quello, ti leggeva come una mappa delle correnti - e a colpirlo senza pietà.

Ciò che era successo non era grave, ma era brutto quello che c'era dietro: quella fuga, così, da un concerto in famiglia, in sfregio alle sue sorelle - e agli ospiti! - come se non gliene importasse nulla di loro. Erano le sue sorelle, e lui era un suo amico - c'era dell'affetto in gioco.
E in sfregio al Generale - non aveva chiesto il permesso, era troppo abituata ad evitare i conflitti scivolando tra le maglie del non detto.

Qualche attenuante c’era, glielo concedeva, Joséphine non si era comportata proprio comme-il-faut - la capiva eh! era una tale perfettina… una deliziosa miniatura di madame de Noailles -  quanto agli ospiti… beh… in effetti la piccola se l’era svignata proprio con metà di loro. La metà sbagliata.
Ma Monsieur Oscar c’era rimasta male. Sigyn non avrebbe dovuto.

La punizione era stata più che tollerabile - il Generale non l’aveva voluta spezzare, ma solo piegare un pochino, il giusto: l’aveva rinchiusa nella cucina piccola, senza cena, non era certo come se l’avesse fatta trascinare in un sotterraneo, attraverso un dedalo di budelli asfittici, e gettare in una cella incrostata di muffa, dove si faceva fatica a respirare.
Le era toccata una cella che odorava di miele, vaniglia e cannella, e di quell’odore fresco, di vento del nord, fatto di pino, menta e neve, che la piccoletta prediligeva.

Si diresse subito alla finestra della cucina piccola, sperando di trovarla lì, da sola, al mattino presto, magari intenta a preparare un tè per tutti e due, ogni dettaglio apparecchiato con cura - gli spiaceva invitarla a pattinare sul loro laghetto davanti a Monsieur Oscar, che - Alo aveva ragione - avrebbe senza dubbio declinato l’invito con voce scostante. Per Monsieur Oscar aveva rispetto, ammirazione e pure tenerezza.

La cercò con lo sguardo in tutto quell’azzurro - la caverna di una minuscola Jotnar, Victor sorrise tra sé - ma Sigyn non c’era.

Fu la piccola lavapiatti che gli svelò - timida - doveva poteva trovare Mademoiselle - addirittura! - Sigyn: nelle stalle.

E fu lì che la trovò, Mademoiselle Sigyn, che, incurante dell’odore grasso e pungente del luogo, dava da mangiare dei quarti di mela ad una cavalla, quella tranquilla, che cavalcava solo lei.
Victor scosse la testa: Sigyn adorava gli stivali da cavallerizza, ne aveva non so quante paia, una diverso dall’altro, ma come cavaliere era… represse un sorriso - aveva un ampio margine di miglioramento, diciamo.

La ragazzina gli dava le spalle, mentre la cavalla la sfiorava con benevoli musate; a contrasto, sull’abito verde muschio, spiccavano i capelli rosso fiammante, raccolti in una treccia semplice, come una indiana Mi'kmaq. O - Victor corrugò la fronte - da giovane damerino. Curioso che Monsieur Oscar portasse i capelli corti e non un codino, così come invece, faceva il ragazzo che stava sempre con lei.
Quanto a Sigyn, preferiva immaginarsela in versione indiana - le avrebbe regalato uno dei suo acchiappasogni.

“Sono belli.” disse il ragazzino.”Biondi, in generale, sono più belli,” aggiunse, come un dato di fatto, stuzzicandola, ma la ragazzina non si voltò.

“Monsieur Oscar li ha davvero stupendi.” insistette senza malizia, non accorgendosi delle spalle contratte “Ma i tuoi sono giusti per te.” Con delicatezza li sfiorò, annodando la coda intorno ad un dito, meravigliandosi, ancora una volta, della morbidezza.

Sigyn a quel punto si girò e gli diede retta. O, forse, le mele erano semplicemente finite.

“Non scottano!” disse Victor con un sorriso, cercando quello di lei, almeno negli occhi, senza riuscirci. “Il gatto ti ha mangiato la lingua?”

“Il silenzio è la lingua di Dio.” rispose Sigyn in tono neutro.

Delicatamente le sistemò un ricciolo ribelle dietro le orecchie, poi disse “Complicata Sigyn...” - lei alzò il mento con aria di sfida - “Non metterai più la cipria? Mai più?”

“No,” la piccola arricciò il nasino, “in effetti è una abitudine orribile…”

“Bene, molto bene,” le sorrise, poi d’impulso aggiunse, “lo spagnolo come va?” sperando che non fosse un passo falso.

“A me piace,” rispose diplomaticamente Sigyn e lui non chiese altro - quando avrebbe avuto voglia, lei gli avrebbe raccontato; nel frattempo, studiare non le avrebbe fatto male.

“Ho riflettuto su un libro, in inglese, da prestarti: pensavo I Viaggi di Gulliver. Lo puoi leggere in due modi… come una avventura o come una satira. Ora che sei piccola è sicuramente una avventura, ma, tra qualche anno, lo rileggerai con altri occhi… e poi ci sono dei giganti… non sono blu, ma dovrebbero piacerti.”

Sigyn arrossì, ma non disse nulla.

"Sono venuto a prenderti per accompagnarti..." azzardò Victor, perplesso. Quel silenzio cominciava a pesargli, non era la quiete tranquilla di quando lei cuciva qualcosa con Cassandra, nel loro Salottino (la Stanza dei Bambini, in realtà, ma Cassandra se ne sarebbe offesa) e lui passava in visita: era come qualcosa di appiccicoso, tra loro, che si incollava ai pensieri, rendendoli stonati.  

Sigyn lo soppesò ben bene, come se stesse cercando di valutarne il valore e il ragazzo si sentì a disagio - non aveva preso in considerazione la possibilità di un no, non gli era mai successo: Sigyn difficilmente cambiava idea in modo capriccioso ed era sempre contenta di vederlo. C’era qualcosa che non andava.

"Anche i miei fratelli ti aspettano..." gli spiacque averlo detto nel momento stesso in cui lo disse - giocarsi la carta dei fratelli, quelli con cui se l’era svignata, gli sembrò patetico, ma, se era per la punizione, perché loro avevano infranto le disposizioni del Generale, e lui no, beh, non poteva farci nulla: aveva deciso in coscienza che lei, una punizione, da parte di suo padre, la meritava e non intendeva rimangiarserlo.

"Davvero?" chiese sospettosa la ragazzina.

"Si, certo..." era vero, per quanto a lui sembrasse assurdo, era vero, “ti spiace se usciamo, questo odore comincia a darmi fastidio...” non era vero - era stato sulle navi da pesca vicino a Michelon, lì a Terranova, con Grimaud, dall’altra parte dell’Oceano, una vera avventura (aveva visto una balena! E partecipato ad una vera rissa dietro al forno!) e aveva sventrato merluzzi per ore - non c’era più nulla che lo avrebbe fatto vomitare, non per l’odore, quanto meno.
Voleva solo vederla alla luce.

La prese per mano e la scortò fuori, come la bambina che in fondo era; una volta in cortile, sbatté le palpebre, la vista appannata, e guardò il cielo bianco - non gli parve più così bello: in pochi minuti, da bianco glorioso era diventato solo scolorito.

La guardò, aveva gli occhi un po’ gonfi, gli parve che forse ci fosse una lacrima intrappolata tra le ciglia, ma lei distolse lo sguardo "A proposito dei miei fratelli, Alo chiedeva se qui hai dei pattini per il ghiaccio, gli ho detto che non mi risulta..."

"Non li ho."

Victor la osservò irritato “Sei davvero antipatica oggi…”

“E allora vattene e lasciami in pace."

"Sigyn accidenti" La afferrò stretta per il polso, nel timore di vederla voltarsi e sparire "Cosa c'è? Non può essere niente di davvero terribile..." Avrebbe voluto afferrarla per le spalle e scuoterla, ma, per quanto l’idea non gli spiacesse, non era così che questa cosa si sarebbe risolta.

“Non c’è nulla.” Sigyn strattonò il braccio, cercando di liberarsi - lui la lasciò subito andare, pensando alla spalla, che le faceva sicuramente male. Poi alzò gli occhi al cielo - c’era già passato con sua sorella Cassandra - quando si arriva al “non c’è nulla” allora qualcosa c’è sempre, solo che non se ne vuole parlare. Bisognerebbe poter essere un indovino, certe volte, poter lucidare la palla di cristallo e scoprire che cosa è successo, perché qualcosa, quando si arriva al “non c’è nulla”, qualcosa è sempre successo. Da qualche parte c’è un dolore muto che si ostina a non voler trovare le parole.

"E' perché non sono venuto ieri a salutarti?" chiese severo - non aveva nessuna intenzione di chiederle scusa per “quello” - "Se è così, mi spiace, ma eri in una meritatissima punizione e non era mia intenzione alleviartela."

"Figuriamoci..." sbuffò irritata la ragazzina.

"Tuo Padre ha fatto benissimo a punirti, sarebbe stato ingiusto che tu la facessi franca. Sai come la penso!"

"Si lo so: mia sorella si è turbata e questo ha ferito il suo cuoricino."

"Non fare l’antipatica."

"Giammai!"

"Sigyn, la famiglia è importante, non ci si fanno cattiverie tra fratelli. E non si sparisce senza avvisare - bastava chiedessi il permesso. Aggiungiamo - e questo tuo padre per fortuna non lo sa - che ti sei quasi ammazzata per questa bella impresa!"

“Addirittura!”

“Non scherzarci sopra, perché poi sembri sciocca: avete fatto una cretinata, che è andata bene, e ringraziamo il Cielo, ma io ho visto gente farsi molto male per una caduta come quella, e Xance ed Alo ne hanno vista molto più di me. Xance era mortificato, ti ha osservato tutto il tempo per esser certo che tu stessi bene. Siamo tornati apposta alla sera, con la paura di una emorragia interna, quindi non dire Addirittura con quel tono perché poi sembri sul serio una stupida!”

Sigyn sobbalzò e abbassò gli occhi.

Victor proseguì imperterrito “E’ stato divertente? Fino ad un certo punto sono sicuro di sì, non sono un cretino. Le cose pericolose hanno tutte un loro fascino. E’ stato saggio? No. E una punizione che ti desse il tempo di riflettere su questa cosa, ci stava tutta. Non mi chiedere di trattarti come una bambina a cui si da quello che vuole pur di non farla frignare.”

Il tono di Victor si abbassò, con delicatezza le mise una mano sulla spalla, “Sigyn, per piacere,” le scoccò un sorriso incoraggiante, “vuoi venire con me a pattinare sul laghetto ghiacciato? Ai miei fratelli fa piacere, Cassandra, lo sai, non vede l’ora… ti stanno aspettando.” Avrebbe voluto dirle che faceva piacere anche a lui, ma gli sembrò che l’equilibrio tra loro fosse come un fiocco di neve destinato a liquefarsi da un momento all’altro. Ieri sera mi sei mancata, ho chiacchierato con tuo padre, ma aspettavo che spuntasse Maxence, finalmente tranquillo perché tu stavi bene. Mi sono preoccupato per te, come lo avrei fatto con Cassandra, con Alo e con Xance. Lo pensò, ma non glielo disse.

Sigyn annuì.

“Prendiamo la Carriola?” chiese. Sono venuto a prenderti e pensavo di trovare te, le frittelle e un po’ di broncio che sarebbe finito, come sempre, con un sorriso. Fai parte di quelli la cui incolumità mi è preziosa. Ma non disse nemmeno questo.

Sigyn annuì di nuovo, poi aggiunse scontrosa “Vado a prendere il mantello e il manicotto, e chiedo ad Oscar se vuole venire.”

“Va bene. Mi farebbe molto piacere.” Tanto non sarebbe venuta. Gli parve che il cielo, dove incontrava il suo sguardo, fosse intriso di grigio e di gelo. Monsieur Oscar era una brava bambina, ma oggi non ce la voleva, ospite scontrosa da intrattenere, invitata apposta per lui, gli era chiaro, mentre la sua amica svaniva in una sconosciuta imbronciata e scortese.

 

Andarono con la Carriola, Victor guidava sicuro, ma senza accelerare troppo, il suo cavallo leggermente offeso per essere stato degradato a cavallo da traino - all'inizio aveva pensato di usare la cavalla di Sigyn, la quieta mangia-mele, ma in questo modo si era garantito il ritorno assieme: la piccola aveva la Carriola, ma non un cavallo.

Sigyn se ne stava immersa in pensieri che non intendeva condividere.

A metà strada Victor accostò e tirò le redini. "Così non va bene."

Sigyn non lo degnò di uno sguardo.

“C’è qualcosa che preferiresti fare?”

Sigyn arricciò il nasino "Si, mi piacerebbe molto andare a teatro. Desidero conoscere degli attori."

Victor la guardò perplesso. "Degli attori?"

"E perché no? Credo che siano gli unici in grado di tollerare la mia compagnia intellettuale." lo guardò con aria di sfida, una cosa che lo sorprese.

"Non so, probabilmente resterebbero sconcertati anche loro." Victor mantenne un volto impassibile - non era il momento di prenderla in giro.

"Capisco." Sigyn strinse le labbra - brutto segno - e non disse nulla.

"Hai litigato con Oscar?"

Sigyn scosse la testa.

"Qualche tua sorella?"

"Hanno anche loro dei nomi, sai?" Sigyn sembrava amareggiata.

"Devo fare l'elenco?"

"Non serve, sarebbe no no no e no."

"Il Generale?"

Sigyn scosse la testa "Non ho litigato con nessuno."

"Mi fa piacere," rispose secco "però stai litigando con me."

"Non è mia intenzione."

“Cosa c’è che non va?”

“Nulla.” Non era vero - c'erano delle cose che non andavano: voleva tante cose, e non ne voleva tante altre. Se avesse detto qualcosa all'Asciutta avrebbe stretto le labbra irritata, e le avrebbe risposto che lei non doveva dimostrare niente a nessuno. A parte far bene i suoi compiti a casa e tener giusti i conti.
Se lo avesse detto al Nonno, le avrebbe detto che lei era unica.
Ma loro non contavano, avevano il cuore di burro. E poi unica non voleva dire nulla: unica come l'unica tazza sbeccata del servizio da tè di sua madre, quello di Sèvres? Lei questa mattina si era svegliata che non voleva l'unicità, voleva essere come tutte le altre, sparire nel mucchio. Non solo per via dei capelli, quella, ripensandoci era solo una grossa sciocchezza, era tutto il resto, che non aveva mai preso in considerazione.
E però non voleva, perché lo zio Jean-Claude, lo capiva anche lei, non spariva nel mucchio, e nemmeno lo zio Antoine-Benoit, che erano unici anche nel modo in cui le volevano bene, facendole fare cose "da Oscar" senza pretenderla maschio e tollerando i suoi nastri ed i suoi fiocchetti. E Joséphine, con tutte le sue arie da Benevola Donna Saggia del Villaggio, le pareva in realtà crudele - non ci teneva poi tanto ad essere come lei.

“Non cercare di prendermi in giro come faresti con una delle tue sorelle.”

“Ti ho detto che non ho nulla.” Gli Jotun non piangono decise Victor, o se piangono, piangono fiochi di neve, perché Sigyn stava combattendo le lacrime con tutto il suo orgoglio.

"Sei arrabbiata con me? Se ti ho fatto qualcosa, mi dispiace, ma se non c’entro nulla, non intendo essere il tuo bersaglio personale." Questo era esagerato, non si può essere bersaglio di un silenzio o di un mancato sorriso, ma il silenzio, tra loro, generava imbarazzo. Sembrava come se dovesse piovere, ma poi non si decidesse mai. E lui non ce la faceva ad inghiottire il dispiacere con un sorriso educato.

Sigyn stette zitta per quasi un minuto intero e Victor sentì lo scorrere del tempo. La ragazzina pensò che avrebbe voluto sapere se loro erano amici sul serio, perché i tre Girodelle... il Generale li stimava, non li avrebbe definiti mai stupidi, eppure, se lei era una stupida, se i Sette Re di Roma contavano sul serio, allora perché volevano passare del tempo con lei? Gli faceva pena? O faceva ridere? Era parte di un enorme scherzo talmente macchinoso da essere divertente solo per pochi? O lei era solo l'amica di Cassandra, la figlia di un amico di famiglia, e, soprattutto, la sorella di Oscar?

"No," disse alla fine, "No, tu non c'entri..." con delicatezza gli accarezzò il braccio "E' un po' come dice tuo fratello, quando le cose stanno come stanno è inutile..."

"Come starebbero queste cose?" era paziente.

"Nulla Victor, dai..." sorrise pensosa, "ho dormito male stanotte, non farci caso. Poi mi passa." In fondo i miei difetti li vedi... me li fai anche notare.

Si strinse nella coperta e si raggomitolò in un angolo chiudendo gli occhi come un gattino.

Il fatto che lo avesse chiamato Victor lo infastidì, ma aveva davvero il visetto stanco. Si chiese se per caso il Generale c’entrasse qualcosa - quando si vuole cambiare qualcosa - un paio di stivali, un pennino, un cane da caccia - è perché quella che abbiamo non fa per noi. Non ci si inventa un padre segreto, nonché pasticcere, e, per di più, spagnolo, quando tutto va come dovrebbe andare.




Una volta arrivati a Palazzo Girodelle - dal cancello principale, ovviamente, con il calicanto piantato da sua madre tanti anni prima a dare il benvenuto - arrivò per primo Alo per aiutarli a smontare. Sigyn ancora dormiva.

Suo fratello commentò divertito "L'hai annoiata fino alle lacrime!"  e lui inarcò un sopracciglio, molto lentamente - si esercitava a copiare Alo perché Alo, quando lo faceva, ti faceva saltare i nervi all'inverosimile, ma non potevi accusarlo di nulla.

Poi arrivarono Cassandra e Maxence, e se ne andarono tutti al laghetto.

Sigyn, gli occhi ancora lucidi dal sonno stentato, si strofinò gli occhi, poi, un pochino impacciata, cominciò a legare le lame di ferro lucido ai suoi stivaletti.

Maxence le chiese, cortese, “Sai pattinare?” pronto a porgerle il braccio, nel caso.
La ragazzina arrossì violentemente e si guardò la punta dei piedi.

“Non ho capito,” disse Maxence, con pazienza “si o no?”

“E’ arrossita” disse Alo, con un sogghigno “allora forse è un no, però è ignorante come una capretta e non se ne vergogna, quindi secondo me è un , ma il sì di una che sa che le ragazzine non lo dovrebbero saper fare... non è ancora diventato di moda.”

“Non sono ignorante come una capra.” scattò Sigyn, irritata sul serio, ombrosa come un gatto pronto a soffiare.

“Anno della battaglia di Zama?” tagliò corto Alo e attese la risposta. Sigyn lo fulminò con lo sguardo, ma tacque indispettita.

Victor la guardò stupito “Non lo sai sul serio?” - Maxence gli tirò una scappellotto sulla nuca.

“C’è un unico modo per scoprirlo!” esclamò Cassandra, e, tenendo per mano l’amica, si slanciò, con Maxence dietro, a fare da chioccia per tutte e due.

Si, sapeva pattinare - Victor questo già lo sapeva, e pure Cassandra (sua sorella non era una stupida, anche se, indubbiamente, era impetuosa come tutti i Girodelle).

Victor girellò per il bordo, tenendosi in disparte e divertendosi a curvare - degli otto precisi sul ghiaccio, uno ridisegnato sull’altro con uno scarto minimo. Guardava gli altri quattro che stavano cercando di ballare sul ghiaccio, tra mille risate - quando guardi un tuo amico che si diverte senza di te, ti senti stonato, e, se gratti bene sotto le noti discordi, trovi un senso di perdita. Una pausa.

Se Monsieur Oscar fosse stato con loro sarebbe stato lo stesso: una conversazione scostante con una bambina che sarebbe diventata una donna bellissima, ma, quasi certamente, altera nella sua perfezione, come tutte le giovani Jarjayes - tranne una.
Una bambina molto amata, Monsieur Oscar, forse anche troppo e forse - non stava a lui giudicare - amata davvero male.

Victor Clément de Girodelle sospirò e si chiese se era una perdita temporanea quella della sua complice, amica e protetta, o se era l’inizio di un rapporto diverso tra loro. E, soprattutto, che accidenti erano queste cose che, a quanto pare, stavano come stavano.

Fu che a quel punto si sentì caricare da un bue. Cioè a lui sembrò così, che fosse stato un bue sfuggito dalla fattoria lì vicino, a travolgerlo - invece era Alo.

Ritorna all'indice


Capitolo 32
*** Un bacio certe volte non aggiunge nulla ***


Quel Vischio Con Sotto Un Bacio

(Quel che si fa per amore)

Un bacio certe volte non aggiunge nulla

“Dai triste sire, vieni con noi, ci serve un palo intorno a cui girare!” Alo lo prese in giro, mentre si produceva in una serie di cerchi perfettI, tutto attorno a suo fratello, Victor Clément de Girodelle, crollato rovinosamente a terra.

“Si vieni qui in mezzo, con quei capelli da Re Sole… sei perfetto! Noi facciamo i pianeti, se ti accontenti di quattro!” esclamò Maxence, raggiungendoli, le mani dietro la schiena. Subito tirò Victor in piedi, sollevandolo per un braccio “Dai che ti piace essere al centro dell’attenzione!”

“Sostieni l’eliocentrismo?” disse Victor ridendo, mentre lo inseguiva “E da quando?”

“Dal XVI secolo, giorno più giorno meno…”

“Ardito!”

“Sai come siamo noi pagani, no? Noi festeggiamo il ciclo delle stagioni ed il solstizio d'inverno... non ci ferma nessuno.”

Victor si divertì a far piroettare Cassandra intorno a sé e poi fu il turno di Sigyn, sorprendentemente elegante.
Alo emise un fischio di ammirazione e poi le disse “Però dovresti pattinare così solo con gli amici, ricordatelo!”

“Perché?” chiese Sigyn, ingenuamente.

“Perché, quando avrai un corteggiatore, metà del piacere, per te, starà nell’appoggiarsi timidamente al braccio di lui e metà del piacere, per lui, starà nell’afferrarti mentre stai per cadere…”

La ragazzina arrossì, ma insistette “Ma se lui sapesse benissimo che io so pattinare… come la mettiamo?”

Alo rise “Dovresti ingannare tutti, fingendo di non saperlo fare, da qui fino alla tua morte.” e Sigyn scosse la testa scandalizzata.

Maxence la prese per mano e la fece frullare, assieme a Cassandra “Non dargli retta,” disse, “quando sarai grande capirai che gli farà molto piacere se gli darai il braccio proprio se saprà che sai pattinare…” le strizzò l’occhio, “perché vorrà dire che sei davvero interessata… quella potrebbe essere la sua unica occasione per un abbraccio.”
Dopodiché afferrò le due ragazzine e le sfidò ad una corsa.

Quando rientrarono in casa, Cassandra e Sigyn corsero a darsi una sistemata, ridendo, le guance rosse ed i riccioli tutti per aria, mentre i ragazzi si rintanarono nel Salottino Rosso per versarsi qualcosa da bere.

“Ascolta Victor” disse Maxence, con un sorrisetto di superiorità, “sei un bravo bambino, ma non capisci molto delle donne.”

“Dovrei scrivere dei versi immagino…” ribatté Victor sogghignando.

“No, un altro vate in famiglia?” gemette Alo, “piuttosto insisti con il violino, è di un certo effetto, lì sotto la luna…”

“Inquietante, direi! Non certo di effetto… e se poi suona male?”

“Chi Victor? Ma figuriamoci… Victor è un perfettino... Al limite si beccherà una secchiata di acqua gelida, come si fa con un gatto insistente!”

“Parli per esperienza personale?” chiese Victor con voce innocente.

“No, divino profezie” rispose Alo senza scomporsi.

“Io invece do consigli…” disse Maxence con un sorriso benevolo.

“Non richiesti.” Victor lo interruppe.

“Sono i consigli migliori, giovane Aesir, amico di Loki”

“Si dice As! Aesir è il plurale!” brontolò Victor irritato.

“Abbiamo tra noi un violinista grammatico! Nonché pattinatore provetto…” si stupì Alo. "Oh quale benedizione!"

“Ma come amico lascia un po’ a desiderare… è chiaro che Loki ha avuto una giornata pesante ad Asgard. Magari ha discusso con Thor, Magari con il giovane Baldr, quello perfetto…” disse Maxence con pazienza.

“O forse con Odino in persona. Il Re Generale non mi sembra uno che va tanto per il sottile: terribile nella sua collera, giusto, ma non misericordioso… è una divinità pagana, del resto…” disse Alo pensoso.

“Loki non ha discusso con nessuno.” la voce di Victor era secca.

“Questo è quello che dice Loki…” disse Maxence ridendo, ed Alo interloquì “Questo è quello che dice Loki a te, che non ispiri fiducia, non per le faccende importanti!”

“Ma può anche essere vero ed è successo il contrario: qualcuno ha discusso con Loki…” riprese Maxence con un sorriso conciliante, mentre si gettava su un divano, poggiando i piedi, con le caviglie elegantemente incrociate, su un bracciolo.

“Tua madre voleva mostrarle le rose, accompagnala.” Tagliò corto Alo.

“Hai dieci minuti, dopo arriviamo anche noi!” seguitò Maxence. “Ho voglia di un’arancia!”

"E non sprecarli a indagare sulla battaglia di Zama: non ne ha idea. E non sa nemmeno i nomi dei Sette Re di Roma, ma eviterei di toccare questo tasto: la innervosisce parecchio…”


Nella serra Sigyn ammirò rapita il miracolo di una fioritura fuori stagione - e così il camino ed i bracieri avevano ingannato una rosa… In Normandia il calore veniva usato per la frutta e per la verdura - erano serre prosaiche, decise con un sorriso, mentre quelle dei Girodelle erano decisamente poetiche. Intonate a Monsieur Henri.
Però forse a Madame de Girodelle avrebbe fatto piacere parlare con lo zio Antoine-Benoit, un pomeriggio: una parte delle loro serre era riscaldata con il vapore che circolava sotto il pavimento e in alcuni tubi appoggiati al muro, e nella serra più piccola il vapore sfiatava verso l'alto e c'era una scala a chiocciola che si inerpicava quasi fino al soffitto, passando per la balconata dove tenevano le piante più strane, che piacevano al nonno e allo zio. C'erano pure le farfalle, convinte di vivere in una eterna primavera!
Sulle farfalle la mamma di Cassandra e Clément avrebbe avuto da ridire, decise Sigyn, obiettivamente, ma il suo senso pratico avrebbe apprezzato le soluzioni dello zio Antoine.
E poi gli ananas le piacevano!

“Grazie per avermi portato.” disse un po’ timida, guardando il giovane da sotto in su.

“Prego.”

“Grazie davvero, Clément.” gli mise la mano nell’incavo del braccio e lo tenne per la manica della redingote. “Grazie per la pattinata, grazie per essermi venuta a prendere, anche se sono stata… petulante.”

Victor giudicò prudente non replicare.

“Ascolta,” riprese Sigyn, arrossendo, “se da grande dovessi scappare via con un attore…”

Victor alzò gli occhi al cielo, ma non disse nulla.

“Tu non ti scandalizzeresti, vero?”

"Non credo ne sarei particolarmente entusiasta."

"Beh, ma non cambierebbe nulla tra noi..." gli frugò nel viso alla ricerca di una rassicurazione.

"Se lo dici tu..."

"Se ci fosse una lettre de cachet..."

"Sono delle infamie!" esclamò irritato.

"Ecco, tu mi aiuteresti se te lo chiedessi?"

"Chi se la sarebbe procurata, sentiamo..." chiese Victor con molta pazienza - non pensava che la rivalità con Joséphine sarebbe mai giunta a tanto. Se non altro perché le lettre de cachet costavano davvero parecchio e non gli risultava che Joséphine maneggiasse tutto quel contante.

"Secondo me, ora che mi ci fai pensare, nessuno..." rifletté la ragazzina, "non credo che al Generale importerebbe"

"Se tu scappassi con un attore, intendi?" Victor la guardò stranito, ma si trattenne, “Credi che tuo padre non sarebbe… sorpreso?” ti frusterebbe con il cinturone di cuoio a cui tiene appesa la spada, pensò irritato. Dal lato della fibbia.

"Credo se lo aspetti, quindi direi che ci arriverà sufficientemente preparato." il tono di Sigyn era pratico, ma gli occhi guardavano a terra.

"Non so quanto uno riesca ad essere mai preparato per una cosa del genere..." obiettò Vicotr con voce seria.

"Forse mio marito..." Sigyn era pensosa.

"Tuo marito?" Il ragazzo si chiese se la piccola stesse per caso parlando di un marito immaginario, uno della stessa famiglia del famoso Pasticcere Spagnolo, ma mantenne un volto impassibile.

"Beh credo sia il solo che potrebbe voler dire qualcosa... anche se non credo gli cambierebbe molto."

"Non gli cambierebbe molto? Se te ne vai in giro con un attore?” Aggrottò le sopracciglia, meditando su una serie di scenari, poi, senza ridere, aggiunse, “Onestamente non so quanto potrebbe esserne soddisfatto… Credo sarebbe piuttosto… vocale - come biasimarlo, del resto?”

"Ma tanto ci sarebbe Joséphine con lui" esclamò Sigyn,

"Josephine?" Victor la guardò incerto. “Joséphine ha espresso il suo interessamento per le faccende di un tuo eventuale marito?” Joséphine non era quella che voleva sbaciucchiarsi con suo fratello Alo per capire come era la faccenda? Intraprendente la fanciulla… un tipo da progetti a lunga distanza.

"No, lei personalmente non credo. Per quanto sono certa che le piacerebbe molto… Più che altro è una idea del Generale: Joséphine lo accompagnerebbe a cena a Versailles, gli organizzerebbe qualche ricevimento, di sicuro qualcosa di musicale… Archi ed Archetti, Corni e Tartine… cose così. Niente chitarra spagnola, ovviamente!"

"Ma perché quel poveraccio dovrebbe andare a cena a Versailles invece che con te? Perché tu te ne sei andata a cena con un attore? Gli attori non vengono ricevuti a Versailles, lo sai vero?"

"Beh credo che sulle cene a Versailles dovrei metterci una pietra sopra, però forse farei cose più divertenti, con qualcuno con cui starei bene e che starebbe bene con me..."

"Tuo marito non va bene?"

"Esce con Josephine." Sigyn sembrava irritata.

"Tuo padre per caso..." chiese cautamente - era piccola, ma non voleva dire, il Generale era molto previdente, lo diceva sempre suo padre, del resto aveva solo femmine da piazzare e la concorrenza era alta. Si chiese chi mai l'avrebbe voluta, qualche bambino in qualche nursery forse: uno più grande, uno come suo fratello Alo, per esempio, sarebbe rimasto solo inorridito all'idea. Sorrise tra sé: Lingua d'Argento e Lingua di Vipera... che coppia...

“Mio padre cosa?”

“Questo marito è qualcosa di più di una ipotesi?” chiese brusco.

"No, non credo, nel caso saresti il primo a saperlo." Victor alzò un sopracciglio - la prima notizia era ottima.

"Così diventereste amici, ti potrei invitare a cena quando voglio, a casa mia..." gli sorrise.

"Con Joséphine?"

"Ma mi ascolti quando ti parlo? Joséphine va a Versailles!"

"Con tuo marito."

"Si."

"Una novità interessante, ma non credo sarebbe la prima cognata con questa esigenza. E tu dove staresti nel frattempo?"

"Pensavo in campagna, ne sarebbero tutti felici, ma ogni tanto immagino che mi piacerebbe andare a Parigi, dovrò farmi fare un vestito ogni tanto, mi pare… un cappellino… un paio di scarpette… non sono mica Cenerentola!” guardò Victor negli occhi cercando una rassicurazione ed il ragazzo annuì - i cappellini avevano tutta la sua approvazione.

“E nel caso, potrei uscire a cena con te, fino a che non trovo un attore, si intende."

"Credi che a tuo marito non darebbe fastidio?" azzardò timidamente - non aveva voglia di discutere con Sigyn, l’avrebbe portata fuori a cena ogni volta che avesse voluto, s’intende, ma in casa Girodelle le cose giravano in un altro modo.

"No, non penso - immagino che alla fine concorderebbe con il Generale. Che era destino e che è meglio Joséphine."

"Mia madre non se ne va in giro qua e là, sai?" fu dolce nel dirlo.

"E grazie tante! Tua madre ha sposato Monsieur Henri!" Sigyn sospirò, “dove mai dovrebbe andare?” A Victor venne da ridere, ma si trattenne.

In realtà gli spiaceva, qualcuno - sperò nessuno di davvero importante per lei - doveva averle detto che era adatta solo ad essere l’amante di un attore. Il succo del discorso era quello. Se quel qualcuno era Joséphine, beh, allora Joséphine aveva decisamente passato il segno: un conto era non apprezzare il repertorio musicale della piccola, un altro dire una cattiveria bella e buona. Anche se, pensandoci bene, dai discorsi dei suoi fratelli, gli pareva che appresso agli attori, ultimamente, ci fosse la fila...

“E comunque mi spiace di essermi spiaciuta,” gli confidò in un sussurro, “è che non ci avevo pensato prima, ma loro hanno discusso su che moglie avrei potuto essere, come se quello fosse il mio solo scopo… anche mia sorella, lei pensa solo a quello, che non lo devo fare...”

Victor le accarezzò una guancia.

“Solo col Nonno… e con lo zio Jean-Claude, e lo zio Antoine-Benoit. Io con loro sono una che impara a gestire una casa per sé, e a guidare una barca per sé e a montare una tenda per sé.” sussurrò, “Vorrei sapertelo spiegare…”

“Senti Sigyn…” le disse con gentilezza, “vado a prenderti qualcosa di fresco da bere, perché qui fa davvero caldo… quanto al resto, c’è tempo… e Joséphine, beh, lei è più grande di te, è normale che sembri anche più sveglia e che sappia molte più cose, ma è solo una impressione... ne riparliamo tra un bel po’ di anni. Tu lasciala dire...”

Mentre Sigyn osservava da vicino la corolla di una rosa, sentì la voce di Alo.

“Dovresti spiegare meglio cosa ti rode quando parli ad un amico sincero, sai?”

“Mi sono spiegata benissimo.” rispose piccata.

“Non direi proprio…”

“Qualcuno ha fatto delle profezie su di me...” disse Sigyn, irritata.

Alo replicò “Le profezie funzionano solo se le dice un profeta che parla ex post.”

“Ex post?” chiese Sigyn aggrottando la fronte, “Dovrei sapere cosa vuol dire?” chiese arrossendo.

“Vuol dire dopo che il fatto è accaduto.” le spiegò Alo con cortesia, “E la battaglia di Zama è nel 202 avanti Cristo, nel caso mio fratello te lo dovesse chiedere.” Sigyn sorrise. “Quindi,” riprese Alo con voce molto seria, “solo dopo che avrai trovato questo attore che desidera avere a che fare proprio con te, e tu con lui, potremmo dire che forse il Generale è un profeta.”

“Come lo sai?” la ragazzina si vergognò di colpo.

“Ti ho ascoltato parlare con Victor, che è troppo giovane per capire le sfumature. E quindi sembra più scemo di me, come tu con Joséphine. Solo che nel tuo caso è solo una questione anagrafica - Victor è davvero più scemo.”

“Capire cosa?” Sigyn lo guardò sospettosa.

“Victor non è il prediletto di nostro padre, tesoro, perché nostro padre, se ne ha uno, lo tiene nel segreto del suo cuore, ma, Madame Girodelle, per quanto guidata da ottime intenzioni, e di indole giusta in modo inflessibile…”

La ragazzina fece un gesto per dire che aveva capito e di non proseguire - detestava sentir parlare in modo critico di Madame Girodelle.

“Beh, tuo padre pensa delle cose, come è suo diritto, ma non legge il futuro. E comunque credo che tu abbia ascoltato qualcosa che non era diretta a te.”

“E cosa dovrei fare? Fino a che non si arriva all’ex post, intendo…”

“Considerarle per quello che sono: chiacchiere.” Alo non glielo disse, ma una storiellina con un attore, se fosse stata discreta, non era il peggio che avrebbe mai potuto combinare - e se suo marito era un uomo saggio avrebbe chiuso un occhio.

“Lingua d’Argento mettiti l’anima in pace e rassegnati al ruolo che la società ti impone: quello di un animale domestico.”

“Io non sono…”

“No, tu lo sei! E’ questo è quello che ti dovrebbe rodere, non se sarai simpatica ad un attore, ma che qualcuno che dovrebbe considerarti preziosa, ti vede solo come una merce scadente da piazzare al mercato… Un opzione ce l’hai: ribellati – a tutto: alla famiglia, alla società, allo stato, alla religione – e fai quello che vuoi. Ma se decidi di giocare a questo tavolo di gioco, sappi che non avrai amici a quel tavolo. Vedi tu.”

Sigyn lo guardò perplessa

Victor, rientrato, intervenne severo, porgendo un bicchiere di limonata alla ragazzina “Dato che non sa nemmeno lei esattamente cosa vuole fare domani, dubito sappia cosa potrebbe volere da grande. Per cui direi di limitarci alle considerazioni ex post, che fino a che non c’è il post sono quel che sono. E lasciamo perdere questa guerra a 360 gradi che metterebbe in imbarazzo Père Jean-Claude Reynier. Se davvero li ritieni saggi, questi discorsi comincia con farli a Cassandra. Davanti a nostro padre.”

“Touché.” disse Allo, arrossendo.

“E cosa sarebbero le ex post prima del post?” chiese Sigyn, con il volto in fiamme.

“Chiacchiere.” disse asciutto Victor, “come ti ha detto Alo. Solo chiacchiere stupide. E comunque a teatro ti ci porto. Dietro le quinte. Non ci vedo nessun problema.”

“Gli attori non godono di gran fama” disse Alo in tono di avvertimento.

“Meglio se li vede di persona, quindi. Invece di stare a sentire cumuli di chiacchiere stupide. Si farà una idea da sé.”

Al ritorno Victor la aiutò a sistemarsi sotto le coperte - faceva freddo sul serio.

"Per piacere,” le disse con un sorriso, “non addormentarti di nuovo..."

"Va bene"

"Sei stanca?"

"Ho dormito poco..."

"Hai chiacchierato fino a tardi con Père Reynier?"

"No..." era rattristata, "avrei fatto meglio a dormire con lui."

"Monsieur Oscar..."

"Ha russato tutta la notte..." disse Sigyn, con voce rassegnata.

"Per piacere!" esclamò Victor scandalizzato - non era possibile profanare così l’immagine di Madamigella!

Sigyn rise e scosse la testa e Victor si rilassò.

"Mi ci porteresti sul serio?"

"Dove?"

"A teatro, tu ed io, dietro le quinte."

“Si, certo. Non ci sono mai stato, ma perché no?”

La ragazzina sospirò, poi, dopo un po’ aggiunge, pensosa, “C'è un’altra cosa che ti volevo chiedere…”

“Dimmi…”

“Alo ha detto che le persone che trattano Oscar in un certo modo ad un certo punto non mi sarebbero piaciute…” Victor strinse le mascelle, ma non disse nulla - non stava a lui intromettersi nelle decisioni personali del Generale de Jarjayes.

Sigyn Margot Désirée guardò Victor “Io l’ho già capito da sola che non è giusto e mi piacciono meno tante persone e me ne dispiace tanto...” sussurrò.

Victor non disse nulla, a disagio.

“Se in casa io posso capire, forse… il Generale è il tuono.” arrossì

“I fiori li fa crescere la pioggia, non il tuono…” Victor annuì “lo dice spesso mio padre, ma in realtà lo diceva la sua prima moglie.”

“La mamma di Xence...”

“Si.”

“Comunque io non capisco gli altri”

“E’ una forma di rispetto.” disse Victor con calma.

“Verso il Generale...”

“Si”

“Ma non verso Oscar”

“Magari lo preferisce per quello che vuole fare, che ne sai?”

“Non lo so” era proprio incerta. Victor le accarezzò la treccia rossa e poi disse “Non è un discorso semplice... “

“E’ brutto quando la chiamano Monsieur Oscar sai?” disse Sigyn timidamente.

“Madamigella sarebbe meglio?” chiese il ragazzo, con cortesia.

“Non lo so, non lo so se per lei… se le piacerebbe… “ corrugò la fronte, “ma sarebbe... giusto” guardò Victor decisa “lo zio Jean Claude dice che non si dovrebbe mentire, se non per una ragione più alta, certo non per le scemenze… è un po’ dura sai vivere con lo zio Jean-Claude… non tuona tanto, ma… non è un tipo da compromessi.”

“Ho capito, Sigyn.” Il ragazzo la interruppe, e va bene, pensò tra sé e sé, Madamigella Oscar dunque, non più Monsieur Oscar.

Una volta arrivati, la aiutò a scendere, prese una bisaccia con sé e pilotò la ragazzina verso la cucina piccola.

“Vuoi qualcosa da bere?” chiese Sigyn con cortesia, ma il ragazzo scosse la testa. “Avevo un regalo per te, ma mi è passato di mente.”

"Non importa.”

“Importa si.”

“Va bene, importa.” disse Sigyn, conciliante.

Il ragazzo estrasse dalla bisaccia un libro ed un enorme quaderno rilegato, poi si sedette vicino al camino, con le gambe semiincrociate. Lei gli porse un bicchiere di limonata e si accovacciò accanto a lui.

“Non puoi stare comoda con quel paniere, ti serve sostegno per la schiena...”

Sigyn si appoggiò contro la gamba di lui, il gomito sul suo ginocchio, senza imbarazzo.
Clément fu contento che fosse ancora piccola, o comunque non così grande come pensava di essere - con Horthense non sarebbe stato pensabile, a meno di non essere suo fratello e poi, se li avessero beccati si sarebbero dovuti sposare. Lei era piccola come un gattino - sospettò che sarebbe stata sempre tascabile, una del clan dei Sisteron, gente di acqua e sale, piccolina e con i capelli rossi. Decise che averla accanto era un piacere, la strinse tra le braccia e non disse nulla.

“E’ un libro di favole…”

“Sono grande.” disse Sigyn con un sorriso.

“Si, ma sono state scritte da donne, non sono quelle di Perrault. Anche se Perrault si è sicuramente ispirato. Avevo pensato che ti avrebbe fatto piacere…” lei gli sorrise ed il ragazzo aggiunse: Sei stata brava quando hai raccontato la storia di Laufey e Farbauti, non filologicamente accurata...“ - Sigyn rise, “ma molto evocativa, per cui ho pensato che ti avrebbe fatto piacere avere un quaderno, tutto per te, per scrivere, quando ne hai voglia, qualche racconto.”

Lei annuì - quella era una cosa che le avrebbe fatto sicuramente piacere.

“E se vuoi, posso fare qualche disegno per te.”

Sigyn annuì, sentendo un groppo alla gola e d’impulso, lo baciò sulla guancia. “Grazie, “ disse, “per il libro, per il quaderno, per i disegni, per l’ex post, per madamigella, perché mi porterai a teatro, perché non prendi le parti di Joséphine…” sospirò “ un po’ per tutto.”


Il ragazzo le tirò la treccia e poi disse “Intanto, se hai voglia, possiamo cominciare a leggere insieme.”

FINE


Note finali: E così questa stora è terminata... ci ho tenuto molto - una specie di prequel di Estate e pasticcini, e un estratto dei flashback che avrei voluto mettere in Una Storia Rococò - a Sigyn ci sono affezionata, nata per scherzo come Danielle dopo aver letto Cara sorella di Ninfea Blu, ha preso pian piano vita propria ed infine un nome norreno, nonché un certo penchant per Loki e una forte amicizia per il giovane Girodelle. Se sia amore non lo sappiamo - è piccola.

So che è una storia che non ha "funzionato" nel fandom - cose che succedono, anche se un po' me ne spiace: c'e stata tanta cura - ma resta per me una storia a cui sono particolarmente affezionata.
Il trait d'union di ogni capitolo è stato il vischio e le leggende nordiche - è nata nel momento in cui sbocciava il mio interesse per l'argomento - ma conta molto il sottotitolo: "Quel che si fa per amore". Per amore della famiglia si segue un cammino tracciato, per amore di un fratello non si mette in discussione una scelta già fatta, per amore di una donna si prendono decisioni sui figli, per amore di una figlia si fanno scelte particolari, per amore dei figli si cerca di fare la cosa giusta, per amore di un marito con un passato non si è gelose di una prima moglie - o di un primo marito - e si cerca di crescerne i figli meglio che si può, per amore di un fratello si accetta che le cose siano andate come sono andate anche se ci manca il bacio della buona notte, per amore di una sorella si organizza un duello con tanti piccoli incidenti, oppure ci si offre di ospitarla per sempre a casa propria, ovunque mai sarà, o si briga perché non si sposi mai, per amore di una ragazza che non ci ricambia non ci si impone e ci si limita a scrivere poesie, per amore di una amica si decide di chiamare Oscar "Madamigella" e non più "Monsieur"... per amore si fanno tante cose, non tutte giuste e non tutte che vengono bene come avremmo voluto.

Ringrazio di cuore le fanciulle che sono rimaste con me fino all'ultimo lasciandomi i loro commenti (apprezzatissimi).
Un grazie anche a chi ha seguito, ricordato e preferito. Ed anche a chi ha letto in silenzio, la cui opinione su questa storia non saprò mai.

Alla prossima!


Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3343770