In war for the love of you;

di heysassenach
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un bambino dagli occhi sognanti. ***
Capitolo 2: *** Casa è alle spalle. ***
Capitolo 3: *** Il principe rosso. ***



Capitolo 1
*** Un bambino dagli occhi sognanti. ***


Un rombo lontano squarciò il silenzio della notte. Robert rabbrividì, nonostante i vari strati di coperte rozzamente ammassati sopra il suo corpicino gracile. No, non era freddo. Era paura. 
Robert non sapeva cosa fosse la morte. Sentiva gli adulti parlarne, li vedeva addormentarsi per poi non risvegliarsi più. Come quella volta che era accaduto a sua madre. Robert non l'aveva più vista da allora, quella donna austera che lo rimproverava ogni volta che lui e sua sorellina si rincorrevano per i corridoi del castello. Giocavano alla guerra, perché lui sarebbe diventato un grande guerriero. Non capiva cosa fosse la morte, ma sapeva, sapeva che quella notte sarebbe morto per colpa di un fulmine. Fissò l'oscurità, strabuzzando gli occhi. La camera venne rischiarata ancora una volta da quel terribile bagliore. Robert si tirò la coperta sulla testa. Presto qualche mostro sputa saette sarebbe venuto a prenderselo per portarlo via, come gli aveva raccontato una volta Ailís, la ragazza delle cucine. Sua madre disapprovava che il suo figlio maggiore parlasse con la servitù. Diceva che gli avrebbero riempito la testa di stupidaggini. Ma a lui piacevano, quelle storie. Gli piaceva anche Ailís, con i suoi capelli rossi e il suo viso tempestato di lentiggini. Solo che la notte, sotto le coperte, quelle stesse storie gli facevano paura. Cosa avrebbe mai potuto, un bambino di sette anni, contro un gigante sputa saette? Non era nemmeno robusto, gli diceva sempre sua madre. E in effetti era vero: aveva visto un bambino come lui, giù alle stalle, più alto di lui di tutta la testa. Ma almeno, Robert una certezza ce l'aveva. Sarebbe diventato un grande guerriero, e allora nessun gigante gli avrebbe potuto fare paura.


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Rollon Fitzhamon era un uomo imponente, e per certi versi spaventoso. Robert detestava quando, tornando a casa dopo tanti mesi, si rinchiudeva nelle sue stanze per ore, come se la presenza di chiunque altro lo disturbasse. Ogni volta tornava un po' più ammaccato, e un po' meno sorridente. L'assenza improvvisa della sua consorte, in ogni caso, sembrava non averlo turbato per niente. Forse anche lui non sapeva bene cosa fosse la morte, o forse sì. Ragnar, lo stalliere, gli aveva raccontato che suo padre aveva ucciso molti uomini, e si era meravigliato quando lui, Robert, era rimasto sorpreso a tal punto che era rimasto a fissarlo con gli occhi sgranati ed incapace di proferire parola, per due minuti buoni. Suo padre, era vero, era un cavaliere. Ma i cavalieri salvavano il mondo dai cattivi, per cui suo padre doveva essere per forza un uomo buono. Ragnar aveva scosso la testa, quando gliel'aveva detto, ma cosa poteva saperne lui? Era solo uno stalliere invidioso con le guance cosparse di foruncoli. Un'altra cosa che lo inquietava di suo padre, nonostante l'intensa ammirazione che provava nei suoi confronti, era la cicatrice che gli attraversava il volto. Lui non ne parlava mai, del resto quel segno aveva reso i suoi lineamenti arcigni ancora più sinistri. Ma se Robert avesse avuto una cicatrice così, sicuramente sarebbe andato a vantarsene. Quello era un simbolo di forza.
Quella mattina l'aria frizzante  gli solleticava le guance e gli scompigliava i capelli, come faceva sempre Ailís quando lo sorprendeva a rubare un po' di pane dalle cucine. I suoi capelli, al contrario di quelli della ragazza della servitù, però erano neri. Neri come il carbone, come quelli di suo padre. Gli occhi, grigi come il cielo invernale, erano però simili a quelli di sua madre, anche se Robert non aveva ancora deciso se la cosa gli piacesse o no.  Sognare ad occhi aperti gli piaceva,invece, e lo faceva di continuo. Robert osservò il verde dei terreni prossimi al castello, e annusò l'aria autunnale. Sapeva di terra umida, e del profumo dell'arrosto proveniente dalle cucine. Il suo stomaco brontolò, impaziente. Ma lui continuava a far vagare lo sguardo in quelle terre tanto grandi e verdeggianti, rischiarate da un sole che di tanto in tanto si nascondeva tra le nuvole. Immaginò sè stesso, adulto, bello e forte come suo padre, cavalcare un purosangue lungo la stradina fangosa, diretto chissà dove. Il suo cuore fece un salto, al pensiero che probabilmente, se non fosse diventato abbastanza robusto, sarebbe diventato un prete, o un signore troppo debole per uscire dalla propria fortezza. Ebbe un brivido, e solo in quel momento si accorse di non essersi vestito abbastanza. Chiuse gli occhi, in silenzio, per assaporare ancora per qualche istante quella immobile tranquillità. 

"Robert!". La pace di quei momenti si sgretolò senza che neanche se ne rendesse conto. Si voltò per vedere Isabel, la figlia della nutrice, arrancare verso di lui a fatica, sollevandosi le gonne alle caviglie per evitare che si inzuppassero nel fango. Aveva le guance arrossate e il fiato corto: certamente doveva essersi fatta una bella corsa per riuscire a raggiungerlo. 
"Cosa c'è?", chiese lui semplicemente, per nulla turbato da quell'intrusione. A Isabel avrebbe perdonato ogni cosa. Prima ancora di sua sorella, era stata la sua compagna di giochi, e anche la prima che lo aveva preso a pugni. Erano nati a distanza di un mese l'uno dall'altra, e pertanto la madre di Robert aveva assunto Jehanne, la madre di Isabel, per provvedere al suo nutrimento. Robert non sapeva perché, ma le donne nobili non allattavano: non c'era da stupirsi, dopotutto, dato che lui stesso trovava la cosa un pochino disgustosa. 
"Ti stanno cercando in tutto il castello", spiegò la bambina dai capelli biondi come il sole, "tuo padre è furioso perché non ti trova. Dice che è importante".
Fu come se uno schiaffo lo avesse colpito in pieno viso. Doveva essere successo qualcosa di grave, di irrimediabilmente grave. Robert si massaggiò la nuca, pensoso. Si trattava forse dei sassi che aveva tirato alla finestra di un vecchio servo quella mattina? O della mela che aveva rubato dalla cucina? Decise che non voleva saperlo. Lo avrebbe scoperto da solo. 

Ancora prima della collera impressa sul viso di suo padre, Robert notò la sua armatura. Indossava la migliore che aveva, con la cotta di maglia talmente tirata a lucido, che solo posarvi gli occhi gli procurò fastidio. Ma forse era solo l'effetto della luce solare, che filtrando dalla finestra gli conferiva un'aura quasi divina. Ma nel suo sguardo, di divino c'era ben poco. Robert pensò che avrebbe urlato, ma dalle labbra di suo padre affiorò un tono di voce stranamente pacato. "Dove eri finito?", domandò, gli occhi ambrati che dardeggiavano nella sua direzione. Lui cadde in ginocchio, come da sempre gli era stato insegnato per chiedere venia. "Perdonatemi", farfugliò, la voce tradita dalla paura. "Verrò subito la prossima volta che mi manderete a chiamare, lo prometto".
Una risatina alle sue spalle lo colse alla sprovvista. Non poteva essere Isabel, perché era chiaramente una voce maschile, quella che avev sentito. Stava per alzare la testa, quando ogni suo dubbio venne fugato.
 "E sarebbe questo, vostro figlio, ser Rollon? Non vi pare un po'... Malnutrito?" 
A quelle parole Robert non potè trattenersi. Si voltò di scatto, fulminando con lo sguardo lo sconosciuto. Quando aveva fatto il suo ingresso nella stanza era così preoccupato per quello che gli avrebbe detto suo padre che non aveva neanche fatto caso alla sua presenza. Non poteva avere più di vent'anni, quel giovane. Indossava vestiti sontuosi, e Robert era certo di non averlo mai visto prima. Né avrebbe voluto farlo: il sorrisetto divertito che il giovanotto aveva dipinto in volto era la cosa più irritante su cui i suoi occhi si fossero mai posati. 
Rollon parve spiazzato da una simile, irrispettosa affermazione, ma non lo diede a vedere più di tanto. Doveva trattarsi di qualcuno di veramente importante. "Ha preso da sua madre, per sua sfortuna. Debole e gracile, e voglia il Cielo che non cresca anche rammollito", ruggì, fissando truce il suo primogenito, ancora prostrato ai suoi piedi. Robert sentì le guance avvampare di vergogna, e le lacrime pungergli gli occhi come fossero ortiche. Ma non avrebbe pianto. Lui non era rammollito. 
"Oh beh", fece lo sconosciuto, parlando con tanta leggerezza che uno avrebbe potuto pensare che parlasse del tempo, "vedremo di rimediare. Lo faremo diventare forte e sano, questo scheletrino. Che ne dici, giovanotto?" 
Robert strabuzzò gli occhi, le lacrime ormai sul punto di uscire. "N-non capisco, signore." 
"Andrai con ser Ulrik, e riceverai un'educazione degna di uno del tuo rango". Il tono di suo padre era piatto, indifferente, come se si stesse disfando di una gallina in un pollaio affollato e non del suo unico figlio maschio. Robert non si accorse di essersi alzato in piedi, e non si accorse nemmeno di aver mosso un passo verso suo padre. A malapena gli arrivava alla cintura. 
"Non posso andarmene, padre. N-non posso andarmene, capisci?". Robert cercò di ignorare la lacrima bollente che gli rotolò lungo una guancia. Cercò di sostenere lo sguardo vuoto di suo padre, e per un istante si chiese se davvero volesse diventare come lui, un giorno. Poi un dolore bruciante, lancinante, seguito da un bruciore intenso. Ser Rollon lo aveva schiaffeggiato senza dire una parola, continuando a guardarlo come se non fosse altro che un fantoccio inanimato. 
"Permettetemi di togliere il ragazzo dalla vostra vista, Rollon. Temo di aver tardato anche troppo". Ser Ulrik lo afferrò per le spalle, trascinandolo lontano da lui, dall'uomo che aveva contribuito a metterlo al mondo e che ora lo vendeva ad uno sconosciuto pur di non averlo tra i piedi. Non aveva neanche la forza per piangere, o di fare domande. E nel momento in cui Ulrik, con estrema facilità, lo issò in sella, capì. Non sarebbe mai stato un cavaliere. 

 

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Capitolo 2
*** Casa è alle spalle. ***


Il viaggio a cavallo era stato massacrante. Più di una volta Ulrik aveva tentato di farlo parlare, ma lui non avrebbe ubbidito. Non avrebbe detto niente al suo aguzzino. Forse prima o poi si sarebbe stancato e lo avrebbe lasciato andare: come poteva pretendere che un bambino  che ostentava il silenzio potesse imparare qualcosa? E infatti, dopo mezza giornata di viaggio, con solo una brevissima pausa per soddisfare i propri bisogni fisiologici, Ulrik si era arreso. 
"Va bene, ragazzo, fai come ti pare. Ma ricordati che a sua maestà non farà piacere: ti farà tagliare la lingua, immagino. Tanto, a quanto vedo, non ne hai bisogno". Si sistemò il pesante mantello sulle spalle, i lunghi capelli castani che danzavano tutto intorno con una grazia innaturale. Robert si morse la lingua, per tenere fede al patto interiore che aveva fatto con sé stesso: non parlare mai, per nessuna ragione al mondo. 
Ma la curiosità era troppo forte. "Sua Maestà?" gli fece eco, inghiottendo a fatica il groppo di sbigottimento che gli si era formato in gola. Il cuore gli batteva così forte, che se non si fosse calmato in fretta, sarebbe sicuramente esploso. Ser Ulrik fissò gli occhi azzurri nei suoi, divertito. "Che c'è, hai ritrovato la tua lingua?", fece ridacchiando. Poiché il suo sguardo appariva nuovamente distante, Robert si affrettò a ripetere: "Cosa vuol dire che sua Maestà mi farà tagliare la lingua?"
"Esattamente quello che hai capito: ti avrebbe fatto tagliare la lingua, temo, ma pare che tu abbia appena scongiurato questo pericolo". E diede nuovamente di speroni, portandosi avanti di qualche passo: Robert si ritrovò costretto a scalciare con sommo nervosismo sui fianchi del suo pony per riuscire ad affiancarsi a lui.
"E' lì che stiamo andando? Dal re?", incalzò nuovamente il bambino, che davanti ai suoi occhi vide ricomparire, dopo ore di angoscia, la speranza di poter diventare un cavaliere. Ulrik annuì, e il sorriso sulle sue labbra ben disegnate si allargò. "In persona", soggiunse semplicemente. 
"E perché?". Il volto illuminato dalla rossa luce di un sole prossimo al tramonto, ser Ulrik arrestò bruscamente il suo purosangue, costringendo Robert a fare altrettanto. 
"Vedo che tuo padre non ti ha detto proprio niente", osservò il giovane, la voce velata di disappunto. Robert scosse la testa, ancora scosso da quanto accaduto. Fino a ieri giocava nei prati accanto al castello, noncurante del mondo esterno. Oggi era lontano da casa, lontano da Isabel e dalla sua sorellina, lontano da Ailis e dal vecchio servo che, tutte le mattine, si divertiva a scocciare. Ed era lontano da suo padre, che non solo l'aveva allontanato, venduto come un animale da macello, ma si era anche preso il lusso di non dargli spiegazioni. Ed ora questo strano compagno di viaggio, il suo aguzzino, tirava fuori addirittura il nome di sua Maestà. Robert non capiva più niente. Se quello era un sogno, voleva svegliarsi, e anche in fretta. Un faccia a faccia con il gigante dei temporali sarebbe stato più piacevole, e anche più verosimile di tutta quella assurda situazione. 
"Buon Dio", fu l'angosciato commento di ser Ulrik. "Ora stammi a sentire. Tuo padre, ser Rollon, non è un uomo sconsiderato. Ha scelto per te la migliore delle strade possibili: verrai educato come ci si aspetta da uno del tuo rango, e vivrai alla corte di sua Maestà Re Edoardo. Intesi?"
Ma Robert si ritrovò ancora una volta a mettere il broncio. "Io non voglio essere educato. Io voglio essere un cavaliere".
Ser Ulrik roteò gli occhi. Persino la sua pazienza cominciava a vacillare, di fronte alla testardaggine di un bambino. "Cristo santo, ragazzo, quanti anni hai? Sette, otto? Ficcati bene in testa che per diventare un nobiluomo che si rispetti, devi ricevere un'educazione. Come pretendi di essere investito cavaliere, se le tue conoscenze si limitano al cortile del tuo piccolo castello?". Non gli lasciò il tempo di replicare. Ser Ulrik diede di speroni prima ancora che Robert potesse formulare un pensiero di senso compiuto. Ma in cuor suo, sapeva di dover dare ragione a quel giovane tanto strano, avvolto in un mantello blu come la notte. Inghiottì tutto il suo disappunto, e spronò il vecchio pony a star dietro il destriero di Ulrik.

Robert aveva sempre visto il castello in cui era cresciuto come il più grande e il più bello di tutti. Le sue torrette fortificate, i lunghi corridoi in cui giocare a nascondino, le sue immense stalle: tutto sembrò dissolversi come vapore, non appena vide quella che intuì essere la sua nuova sistemazione. Che magnificenza, che salto di qualità! Quell'edificio era talmente grande che nemmeno se avesse sgranato gli occhi fino a farsi male, sarebbe riuscito a vederlo per intero. Si domandò quanto tempo gli ci sarebbe voluto per esplorarlo tutto. E quante guardie avrebbe incontrato? Quante sale piene di armi ci sarebbero state? La sua giovane mente ricominciò in un baleno a popolarsi di sogni ad occhi aperti, man mano che il castello diventava sempre più grande, sempre più imponente. 
Ser Ulrik smontò da cavallo con una grazia che Robert trovò quasi innaturale. Poi, ancora senza il minimo sforzo, lo sollevò come fosse un fantoccio, e lo fece scendere a sua volta. L'alba colorava il cielo di una tenue sfumatura rosa, e il castello si stagliava imponente, scuro, contro la volta celeste. Robert deglutì sonoramente: non si era mai sentito tanto insignificante. 
Prima ancora che potesse riprendersi dallo stupore che gli impediva di parlare, un movimento nella penombra dell'immenso cortile, attirò la sua attenzione. Un ragazzetto poco più grande di lui, gli occhi acquosi ancora impastati per il sonno, gli si fece incontro. Si muoveva quasi furtivamente, come se stesse compiendo una malefatta degna di una terribile punizione. Ser Ulrik, che stava frugando in un borsello di cuoio contenentre chissà che cosa, non sembrò fare caso alla sua presenza. 
"E' questo il moccioso?", esordì il ragazzetto, scoprendo una fila di denti irregolari e giallognoli. Indossava abiti lerci ed emanava un odore pungente ed indefinito, per cui Robert pensò subito dormisse con i cani. Si augurò di non condividere la stessa sorte. A quelle parole, Ulrik si era voltato di scatto, ma prima che potesse salutare il nuovo arrivato, Robert aveva già risposto, con tutta la sfacciataggine che aveva in corpo: "io, signore, non sono un moccioso. Voi, piuttosto, chi vi credete di essere?". 
Il ragazzetto lo fissò intontito per un attimo, strabuzzando gli occhi come se al posto di Robert avesse sentito parlare il suo pony. Poi scoppiò in una risata così fragorosa, che le guance di Robert arsero, così come la rabbia repressa che aveva in petto. Nonostante quell'antipatico sconosciuto fosse più alto di lui di tutta la testa, gli avrebbe dato volentieri un pugno. Ma ser Ulrik interruppe il diverbio sul nascere. "Oleg, basta così". 
La risata di Oleg si interruppe, cedendo il posto a un'espressione risentita nei confronti di chi l'aveva rimproverato. "Non prendo ordini da un bastardo", ringhiò il ragazzetto, prima di essere colpito in pieno volto da un pugno di Ulrik. Come se nulla fosse accaduto, come se il ragazzo che si contorceva ai loro piedi per il dolore non fosse nemmeno lì, ser Ulrik si rivolse a Robert, il volto rischiarato da un sorriso incoraggiante. "Vogliamo andare?"
Ma prima che Robert potesse chiedere "dove", si ritrovò a trotterellare alle sue spalle, il pony che lo seguiva senza opporre resistenza. 

"Cosa vuol dire bastardo?". La domanda ruppe il silenzio dell'alba, e rimbombò nell'immensa anticamera in penombra in cui erano entrati. Ulrik gli rivolse uno sguardo, forse per capire se la sua domanda fosse sincera. "Un bastardo è un figlio nato fuori dal vincolo  matrimoniale", spiegò semplicemente, come se la cosa non lo disturbasse affatto. "Ed è...vero?" domandò ancora, esistante. Ulrik annuì, e sul suo viso si fece strada, per la prima volta, un sorriso che di allegro aveva ben poco. "Mia madre era una..." esitò, rivolgendogli un'altra occhiata indagatrice, "...serva". Robert scrollò le spalle. Non capiva cosa ci fosse di così strano: anche la mamma di Isabel era una serva, ma lei non trovava la cosa così imbarazzante. "E con questo?"
Ser Ulric si ravviò i lunghi capelli castani, e sorrise di nuovo alle sue domande ingenue. "Mio padre era un nobil'uomo. Ma io, essendo nato al di fuori del vincolo matrimoniale, non posso ambire a niente". 
"Quindi non sei un cavaliere?", incalzò Robert, pur consapevole di quanto quella domanda suonasse scontata e banale. "Direi proprio di no. Ma ora basta domande, non trarresti nessun godimento dalle mie risposte. La mia vita è meno interessante di quello che credi, giovanotto. Ora vieni, ti porto alle cucine". Robert avrebbe voluto scoprire di più sulla vita di quel suo bizzarro compagno di viaggio, ma il brontolio incessante del suo stomaco lo convinse a tacere una volta per tutte. 

Pensò di aver vissuto tutta la sua vita in una sorta di catapecchia, non appena fece il suo ingresso nell'enorme stanzone in cui si affaccendavano decine e decine di donne, tanto assorte nel loro lavoro che quasi non fecero caso a loro. Il soffitto della stanza era curiosamente basso, tanto che Ulrik lo toccava con la testa. Robert osservò il suo 'rapitore' avvicinarsi a una giovane con il viso tutto sporco di farina. "Cécile, vita mia", la salutò. Tentò di baciarla, ma lei si ritrasse. Robert gliene fu grato: trovava rivoltante quando gli adulti si scambiavano effusioni. Sperò di non doverlo fare mai. "Ulrik, ma come ti viene in mente?" disse lei a denti stretti, sincerandosi, con un'occhiata tutto intorno, che tutti fossero troppo immersi nel loro lavoro per averli notati. 
Ser Ulrik si grattò la nuca, in evidente imbarazzo. "Scusami", borbottò controvoglia. Robert trovò la scena tanto assurda, che avrebbe volentieri fatto a meno di assistervi, se il bisogno di riempirsi lo stomaco non fosse stato tanto impellente. Anche Ulrik sembrò della stessa idea, dato che, ricordatosi del motivo principale per cui aveva fatto il suo ingresso nelle cucine, spiegò: "Siamo reduci da due giorni di viaggio, io e il piccoletto qua presente". Fece un cenno verso Robert, e Cécile si affacciò oltre la spalla dell'amante per riuscire ad individuarlo. Il suo tono di voce, e i suoi bei lineamenti, si rilassarono all'istante. "Ciao piccolo", cinguettò abbassandosi per poterlo guardare bene in faccia, "hai fame?"
Robert annuì energicamente, senza proferire parola. Voleva tastare un po' il territorio, prima di dare confidenza a una sconosciuta. "Vieni con me, allora", gli disse tutta sorridente. Sebbene non gli fosse stato detto esplicitamente, anche ser Ulrik si unì a loro: anche lui, del resto, stava comprensibilmente morendo di fame. 
La stanza limitrofa era meno chiassosa, e l'arredamento era decisamente più spartano di quello che Robert si sarebbe mai aspettato di trovare in un castello di quella portata. Ma forse quell'ala era frequentata solo dalla servitù, si disse Robert, osservando con l'acquolina in bocca una bella fetta di pane e miele che si era materializzata, come per magia, sulla tavola poveramente imbandita. 
"E' un tipo timido, il giovanotto", disse ser Ulrik alla fanciulla, che nel frattempo si muoveva avanti e indietro per la stanza, intenta a recuperare mille pietanze diverse. "Pensa che si è deciso a tirar fuori la lingua solo quando ha scoperto che avrebbe incontrato sua Maestà!"
Cécile si bloccò per un momento, lo sguardo confuso fisso su Robert, il quale, dal canto suo, era molto più concentrato sulla sua colazione che sulla conversazione in corso. "Scoperto?" , gli fece eco debolmente, andando a posizionare un enorme boccale stracolmo di vino proprio davanti a Ulrik. 
"Proprio così. Ser Rollon non gli aveva detto niente, Dio solo sa il perché", spiegò ser Ulrik, portandosi il boccale alle labbra e tracannando un lungo sorso di vino. "Ma almeno ci parli con tuo padre?", chiese, tornando a rivolgersi al bambino. Robert scosse la testa. "Poco", biascicò, con la bocca ancora piena. "Oh beh, è comprensibile, allora". Cécile si accomodò accanto a lui, arruffandogli i capelli. Robert non era tanto sicuro che quella confidenza gli piacesse: del resto, di amore materno, ne aveva ricevuto ben poco e non poteva dirsi abituato a simili manifestazioni d'affetto. "Vedrai che qui ti troverai bene", lo incoraggiò ancora la ragazza, sporgendosi per afferrare una mela rossa, "e mangia pure quanto vuoi: c'è cibo in abbondanza".

Robert non sapeva quanto tempo fosse passato dal suo arrivo nell'immenso castello: da quel che era riuscito ad intuire, al re piaceva svegliarsi all'ora che voleva, e di certo non si sarebbe alzato all'alba solo per ricevere il gracile figlio di un signorotto di provincia.  Era quasi sul punto di addormentarsi, dopo l'immensa abbuffata della mattina, quando Ulrik ricomparve improvvisamente- Robert non era certo di voler sapere dove fosse finito- per mandarlo a chiamare. Prima di tutto, come c'era da aspettarsi, gli venne fatto il bagno. La tinozza dell'acqua era troppo calda, e a stento Robert era riuscito a non urlare. In secondo luogo, il fatto di dover essere per forza aiutato da tutti quei servi, che peraltro non conosceva, lo mise un po' a disagio. Nella sua ormai vecchia casa, Robert era abituato a fare il bagno in un laghetto: quello era il suo bagno, e nessuno aveva mai avuto niente da ridire. Ma qui di laghetti non ce n'erano, e sembrava proprio che per incontrare il sovrano- ancora doveva scoprirne la ragione- Robert dovesse profumare come un fiore di campo. Poiché anche i vestiti migliori che possedeva non furono giudicati consoni a una tale, sfarzosissima occasione- e Robert lo capì da come una delle serve arricciò il naso vedendoglieli addosso- gliene furono fatti indossare degli altri, che naturalmente, nonostante fossero approssimativamente della sua taglia, gli andavano larghi. 
Quando vide la propria immagine riflessa nello specchio, dopo questo rituale di preparazione, quasi non si riconobbe. Il viso era magro come al solito, ma al posto del consueto pallore, le sue guance erano ora di un rosa acceso. I capelli, neri come la notte, gli erano stati sistemati in modo che non gli andassero sugli occhi, anche se Robert nutriva qualche dubbio in merito alla riuscita di tale esperimento. Indossava una tunica di un blu acceso, che recava, sul petto, quello che doveva essere lo stemma regale: una croce greca, di un giallo acceso, circondata da cinque uccellini. Che stemma stupido, pensò Robert, rigirandosi più volte per osservare il risultato finale. Dopo qualche minuto e tante giravolte, decise finalmente che tutto sommato poteva andare. E poi, si disse, quand'è che avrebbe indossato degli stivali di cuoio tanto pregiati?
Quando la porta si spalancò, e il viso ormai familiare di Ulrik fece capolino nella stanza, Robert capì che era giunta l'ora. Balzò in piedi, e seguì quel giovanotto, che in fondo in fondo cominciava a stargli simpatico. E mentre varcava le immense porte di bronzo della sala del trono, si sentì più importante del bambino stremato che quella mattina era approdato al castello in sella ad un pony. 

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Capitolo 3
*** Il principe rosso. ***


Il rumore dei suoi passi leggeri rimbombò e si disperse nell'immensa sala. Tutto era esattamente come l'aveva immaginato: il pavimento di pietra, le enormi finestre che irradiavano luce, e il trono, che torreggiava imponente su chiunque si presentasse al cospetto di sua Maestà. L'uomo che stava seduto sul trono, però, non era il giovane bello e vigoroso re che Robert si era aspettato. Al contrario, a fissarlo mentre timidamente avanzava per la sala subito dietro a Ulrik, erano due occhi acquosi, incorniciati da una fitta ragnatela di rughe e da una miriade di capelli argentati. Quell'uomo, si disse il bambino, era persino più anziano del servo che abitava nel suo piccolo castello: non avrebbe mai immaginato che l'età del re fosse tanto avanzata. L'unico, inconfondibile segno che non gli fece dubitare che quello fosse effettivamente il re, fu la corona indossata dall'uomo. Persino da quella, tuttavia, Robert si sentì in parte deluso: si era aspettato un'imponente e pesantissima corona d'oro massiccio, tempestata di pietre preziose, eppure quella che ora stava in bilico sul vecchio capo canuto era piuttosto disadorna, con un'unico, grosso rubino incastonato sul davanti. Ma naturalmente non lo diede a vedere: ricordava quello che ser Ulrik gli aveva detto su re Edoardo, nonostante ci fossero altissime probabilità che si trattasse di sciocchezze inventate per fargli paura.  Non appena il suo accompagnatore si prostrò dinanzi al trono, Robert si affrettò ad imitarlo. Sperò che quella sua lieve goffaggine non avrebbe indotto il re a condannarlo alla pena capitale.  
Ci fu un istante di silenzio, che sembrò durare una vita. Robert non osava alzare gli occhi dal pavimento per paura di offendere, in qualche modo, re Edoardo.  Una voce roca risuonò da qualche parte sopra di lui. "Alzatevi", ordinò pacatamente il sovrano. Il bambino scattò in piedi come una molla, bramoso di studiare per bene il volto anziano di un uomo tanto importante. Fu ser Ulrik, con suo immenso sollievo, ad introdurlo al re. Per qualche istante, l'eventualità che dovesse farlo lui stesso, si era materializzata nella sua mente. 
"Maestà", la voce del giovane tremava leggermente, "il fanciullo al vostro cospetto è il primogenito, nonché unico erede legittimo di ser Rollon Fitzhamon, vostro fidato cavaliere".
Aveva parlato tutto d'un fiato, come se pronunciare quelle parole il più velocemente possibile lo avrebbe protetto da ogni pericolo. Qualunque cosa Ulrik temesse, comunque, svanì nel momento esatto in cui il re alzò una mano ossuta per imporgli il silenzio. Robert pensò di non aver mai visto un uomo tanto anziano. 
"E così questo è il ragazzo di Rollon". Lo sguardo indagatore negli occhi incorniciati da una miriade di rughe era tutt'altro che malevolo: per una volta, la prima cosa che saltava agli occhi del suo interlocutore non era la sua fragilità fisica, ma il fatto che suo padre fosse un uomo d'onore. Robert deglutì e rimase in un cauto silenzio. Non voleva rischiare di rovinare quel breve momento di gioia interiore. 
"Qual è il tuo nome, giovane Fitzhamon?" domandò il sovrano, protendendosi leggermente in avanti per scrutarlo meglio. D'istinto, il bambino abbassò ancora una volta lo sguardo sul freddo pavimento di pietra. Per quanto gentile, lo sguardo indagatore del vecchio sovrano era per lui impossibile da sostenere. "R-Robert", balbettò con un filo di voce, lo sguardo ostinatamente fisso su una mattonella scheggiata. 
"Parla più forte, giovane Fitzhamon: sono anziano, e il mio udito mi sta abbandonando. Tuo padre non sarebbe contento di vederti così...pusillanime, dico bene?" 
Al sentire nominare suo padre, Robert sentì le guance diventare ardenti come tizzoni. Tutti i pensieri che gli erano frullati in testa fino a quel momento gli scivolarono addosso con una tale naturalezza che egli stesso si sorprese nel fissare deciso il suo sguardo in quello tanto profondo del vecchio re. "Robert, Maestà", ripetè a voce più alta, e forse anche troppo, visto che sentì quella stessa voce frantumarsi e disperdersi contro gli spessi muri di pietra quasi disadorna della sala del trono. Robert aprì la bocca per articolare il suo pensiero immediatamente successivo, 'non sono pusillanime', ma il re parlò per primo. 
"Robert Fitzhamon". Soppesò quelle due parole, sovrappensiero, come se in quello stesso momento stesse progettando il futuro del bambino. Robert ammutolì nuovamente, e attese. 
"Ti verrà insegnato a leggere e a scrivere, naturalmente, e il comportamento da adottare a corte. Secondo il volere di tuo padre, non appena sarai pronto sarai educato anche all'arte della guerra". Robert si concesse un composto sospiro di sollievo, stando attento a non risultare, in qualche modo, oltraggioso. 
Un breve colpo di tosse alle sue spalle gli ricordò ancora una volta di comportarsi come ci si aspettava dal rampollo di una famiglia tanto fedele alla corona. Robert non esitò, e si prostrò ancora una volta dinanzi al trono, il capo chino in segno di rispetto. "Vi ringrazio, mio Signore", riuscì a dire in un tono di voce reso quasi stridulo dall'emozione. 
"Ma bada bene", lo ammonì il vecchio, perentorio, "comportati da sciocco anche solo una volta e verrai rimandato da dove sei venuto". Il bambino deglutì. Per quanto la nostalgia di casa sua fosse già  intensa, il solo pensiero di veder sfumare i suoi sogni di gloria gli tolse il fiato. Strinse i pugni fino a farsi male, il capo ancora rigorosamente chino. 
"Non accadrà, Sire, ve lo garantisco". Robert aveva quasi dimenticato la presenza di Ulrik, alle sue spalle. Per la prima volta, da quando era stato 'rapito', fu veramente grato a quel giovanotto di bell'aspetto. "Bene. In piedi, giovane Fitzhamon". 
Robert scattò in piedi. Si concesse un rapido sguardo all'anziano re adagiato sul trono come un grosso uccello spennacchiato nel suo nido. I suoi giovani occhi incontrarono quelli blu e acquosi del vecchio. Per un momento il silenzio fu così intenso, che il bambino cominciò a pensare di aver azzardato troppo, puntando i propri occhi in quelli del re. 
"Potete condurlo ai suoi alloggi, ser Ulrik. Rimetto nelle vostre mani l'educazione di questo giovanotto". Un altro inchino, altre parole di ringraziamento. E in pochi minuti Robert si ritrovò a trotterellare felice dietro il mantello svolazzante di ser Ulrik, immaginando sè stesso, da adulto, entrare trionfante dalle immense porte della sala del trono ed essere elogiato dal re. 

Nonostante Robert fremesse per soddisfare la propria sete di conoscenza quanto prima, la prima lezione non ebbe luogo che due settimane più tardi. Suo malgrado, si era reso conto di quanto vivere in un castello tanto grande potesse talvolta essere noioso. Trascorreva le sue giornate in esplorazione, e quando proprio non c'era di meglio da fare, intavolava una conversazione con la servitù. Sebbene non avesse accesso agli alloggi reali, qualche volta gli capitava di vedere re Edoardo dirigersi verso la sala del trono in compagnia delle sue guardie, due uomini giovani ed imponenti. Camminava lentamente, i lunghi capelli argentati che rilucevano alla luce del sole. Se anche un tempo era stato un uomo alto e robusto come quelle sue guardie, era difficile, per il bambino, immaginare un re giovane e forte. Era di fronte a visioni come quella, che il piccolo  Robert si chiedeva come avrebbe fatto a rimanere per sempre giovane. 

Scrivere gli piaceva molto. Imparare a decifrare quegli strani simboletti chiamati lettere, ascoltare il rumore raschiante della piuma sulla pergamena, e persino sporcarsi la mano di inchiostro nero, erano tutte piacevoli distrazioni che lo distoglievano dalla monotonia della vita in un castello immenso e abitato quasi unicamente da adulti che con lui non volevano avere niente a che fare. Aveva visto qualche bambino giocare e rotolarsi nel fango, e mai prima di allora aveva desiderato così ardentemente di potersi unire a loro. Ma poi, a far sfumare quei sogni ad occhi aperti ci pensava Ulrik, ormai divenuto la sua ombra, che gli ricordava la sua appartenenza ad una classe sociale troppo alta per potersi rapportare con la servitù. "Io voglio giocare", protestò Robert dopo l'ennesima predica su nobiltà e servitù. 
"Sei stato destinato ad uno scopo diverso, giovane Robert. La corte di re Edoardo non è un piccolo castello di campagna, e da te ci si aspetta ben altro. Quella gente rimarrà ignorante, e morirà ignorante. Tu diventerai qualcuno". E nonostante quelle parole in parte l'avessero rincuorato, tanto da fargli amare ancora di più le lunghe lezioni di ortografia, filosofia, latino e teologia che occupavano le sue giornate, Robert si ritrovò più di una volta ad immaginarsi libero di correre nei campi così come era solito fare a casa sua. 
Una mattina stava recandosi nello studio di Padre Olyver, per assistere alla consueta lezione di latino, quando qualcosa di insolito attirò la sua attenzione. Robert era abbastanza sicuro di non aver visto altri bambini aggirarsi indisturbati in quell'ala del castello, eppure quello che sentì sembrava proprio il pianto di un bambino. Sentì dei passi avvicinarsi, e nonostante non stesse facendo niente di proibito, decise di correre ai ripari. Nascosto dietro una grossa colonna di pietra, potè finalmente vedere la fonte di tutto quel baccano. Erano in due, e avanzavano lungo il corridoio che lui aveva appena percorso. Robert aguzzò la vista per poterli osservare meglio, nella penombra. L'uomo era alto e robusto, quasi quanto le guardie del re, ma anzi che l'armatura indossava abiti riccamente decorati. Portava i lunghi capelli corvini sciolti sulle spalle, salvo due trecce ai lati del viso che oscillavano prepotentemente ad ogni passo. La barba,contrariamente al colore dei capelli, era di un rosso acceso in alcuni punti, mentre in altri, a quanto potè vedere il giovane Robert, virava al castano scuro. Un individuo decisamente bizzarro, ma tutto sommato di bell'aspetto, pure con quella cicatrice lungo il volto e lo sguardo gelido. Non poteva avere più di trent'anni. 
L'esserino rumoroso che questi si trascinava dietro con somma impazienza invece, doveva essere suo figlio. Anch'egli era vestito in maniera regale, con la piccola casacca verde smeraldo intarsiata di fili d'oro. I suoi capelli erano del color del fuoco, lisci e setosi e così diversi dalla zazzera riccioluta di Robert. Doveva avere forse qualche anno meno di lui, a giudicare dalla stazza e dal comportamento. Forse era stato educato in un modo diverso, ma Robert non si sarebbe mai sognato di fare tutto quel baccano in quel castello. In ogni caso, li seguì con lo sguardo fino alla porta di legno dello studio del monaco, lo stesso luogo dove anch'egli si sarebbe dovuto recare. L'uomo non fece in tempo a bussare che la testolina ingrigita del precettore fece capolino con un grosso sorriso stampato in faccia. Il pianto del bambino con i capelli rossi era troppo rumoroso e troppo perseverante, tanto che Robert non riuscì a capire niente di quello che il monaco e lo sconosciuto si dicevano. Non doveva trattarsi di qualcosa di particolarmente complicato però, dato che dopo pochi minuti l'uomo robusto si allontanò, lasciandosi alle spalle il monaco che si teneva stretto quella peste con i capelli infuocati. Se non altro, quel fastidiosissimo pianto servì a Robert come sveglia, dal momento che aveva quasi dimenticato la sua lezione. Era terribilmente in ritardo, e affrettò il passo verso la porta ormai socchiusa. Quando bussò, non ottenne nessuna reazione da padre Olyver: il pianto del bambino sovrastava ogni altro rumore. Ed eccola lì, la fonte di tutto quel baccano: seduto su uno scranno- quello in condizioni migliori, nella stanza dall'arredamento decisamente spartano- il bambino era scosso dai singhiozzi e non accennava a voler smettere. Non appena il monaco si accorse della sua presenza, anzi che rimproverarlo per il suo ritardo, gli rivolse un'occhiata supplichevole. 
"Ciao". Robert si avvicinò al bambino, sorridendogli amabilmente. Quantomeno quello smise di urlare, curioso di quello che aveva da dire, e lo fissò con gli enormi occhi azzurri arrossati dal pianto. "Come ti chiami?" 
Il nuovo arrivato rivolse un'occhiata dubbiosa al monaco in ascolto lì accanto. Poi deglutì rumorosamente, passandosi le manine sulle guance paffute per asciugare le lacrime. "William", rispose flebilmente. "Io sono Robert", replicò lui indicandosi con il dito a mo' di spiegazione, "e lui è padre Olyver". 
"Mio padre mi ha detto che dovrò vivere qui", replicò William mettendo di nuovo il broncio. Ma prima che Robert potesse dar voce a quel 'davvero?' che istintivamente gli avevano provocato le parole del bambino, il monaco parlò con il tono di voce più controllato che riuscisse a tirar fuori. "E' esatto, mio principe, ma non temete: questo mio umile studio non sarà affatto la vostra dimora. Verrete, naturalmente, sistemato in alloggi degni del Vostro nome". William fissò il monaco con somma diffidenza, ma decise che polemizzare non sarebbe servito a niente. Robert, dal canto suo, non riuscì a contenersi, e rivolgendosi al vecchio precettore con somma incredulità ripetè: "Principe?" 
Quello scosse la testa, sorridendo della sua ingenuità. "Giovane Robert, vi trovate dinanzi al figlio primogenito del principe Guglielmo, erede al trono del regno. Il giovane William è qui per essere educato anche più di voi, giacchè è anche da questo, che dipenderà il futuro del suo regno. Dico bene?" .
Ma il giovane principe si limitò al silenzio, mangiucchiandosi voracemente una pellicina sul pollice. Come un fulmine a ciel sereno, Robert si rese conto di come ci si doveva rivolgere ad una persona tanto importante. "Perdonate la mia maleducazione, William. Io non sapevo minimamente che il re fosse vostro nonno", disse in un tono allo stesso tempo solenne e dispiaciuto. Questo bastò a strappare un sorriso al visetto imbronciato del bambino dai capelli rosso fuoco. "Sei gentile", osservò il principe, "ma non sono ancora re. Sono solo William". 
"Solo William", gli fece eco Robert, sorridendogli a sua volta. Forse era solo una sua impressione, ma ebbe la sensazione che le sue giornate sarebbero state un po' più divertenti, d'ora in poi. 


Angolo autrice: 
Salve, miei prodi lettori! Se vi siete spinti fino a qui, vuol dire che il capitolo non vi ha annoiati a morte, e la cosa mi rende felice. Ci ho messo un bel po' a scriverlo, non perché non avessi idee, ma perché semplicemente sono stata sommersa di impegni ultimamente e ho trascurato un po' tutte le mie storie. In questo capitolo ho voluto introdurre la nuova vita del nostro giovane Robert a corte, e naturalmente il suo incontro con altri personaggi chiave: da re Edoardo (detto il Confessore) al piccolo William, passando per l'incontro indiretto con il futuro Guglielmo il Conquistatore. Il motivo per cui William e Guglielmo hanno nomi diversi, è per una questione pratica e spero capirete (standing ovation per Guglielmo il Conquistatore che chiama suo figlio Guglielmo, grazie tante). 
Come sempre, ogni consiglio, critica /costruttiva/ o parere è ben accetto, sbizzarritevi pure e cercherò di migliorarmi. 
Grazie a tutti coloro che mi seguono, a presto! 

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