Acquazzone del nord

di Northern Downpour
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La follia del folletto Outrè ***
Capitolo 2: *** L'incantesimo delle mani d'Avorio ***
Capitolo 3: *** I famigerati pesci del Tamigi ***
Capitolo 4: *** Il cameriere è una pettegola ***
Capitolo 5: *** Colazione di french toast, tè ed imbarazzo ***
Capitolo 6: *** Cordofoni fantastici e svariate realistiche fandonie ***
Capitolo 7: *** Dolci contese al gusto di Red Velvet cake ***
Capitolo 8: *** Scaffali di dischi e copertine floreali ***
Capitolo 9: *** L'Acquazzone del nord manda i suoi saluti ***
Capitolo 10: *** Mercoledì 4 Febbraio ***



Capitolo 1
*** La follia del folletto Outrè ***


Capitolo 1
La follia del folletto Outrè

È divertente pensare ora a come, quando mi svegliai quel mattino, non avevo idea di quanto quella giornata avrebbe cambiato tutto.
M’illudo però di ricordare che, quando mi svegliai, avvertii un calore tanto speciale quanto insolito, accompagnato da un incoerente brivido che veloce mi percorse la colonna vertebrale, paralizzando al suo passaggio tutti i muscoli che incontrava.
 
E quando la pesante trapunta di piume che mi ricopriva venne rapidamente (per non dire selvaggiamente) spostata, irruppi nel freddo silenzio mattutino della mia grande casa con una gioiosa esclamazione.
«Buongiorno, fortunato mattino!»
Per quale ragione avessi esclamato ciò era tanto ignoto quanto il perché della mia gioia.
Volevo forse informare le stanze vuote di quanto la mia giornata si prospettasse proficua?
O forse credevo che i muri si interessassero ai miei affari?
Una sola cosa è certa: il mio animo giovane e allegro ben poco si curava di essere il solo ad abitare quella grande, vecchia casa, e di certo non si straniva dei suoi stessi comportamenti.
Consapevole del ritardo che incalzava, nonostante questo fosse ormai considerato il mio marchio di fabbrica, mi alzai in gran fretta e mi preparai.
Non mi piaceva quella casa, quella mia informale prigione, e se non fosse in passato appartenuta a varie generazioni della mia famiglia, l’avrei certamente venduta da tempo.
Odiavo le finestre eleganti ammiccavano perfidamente e la porta di scuro legno massiccio pareva un ghigno beffardo che mi rammentava le mie disgrazie passate.
Detestavo i vecchi mobili reduci di mesi di spolverate arretrate che muti e che dipingevano errori e dolori di ben tre generazioni.
E diamine, quella casa era davvero troppo grande per me soltanto!
Eppure qualche magica catena mi teneva legato a quel castello degli orrori, e quasi provavo nostalgia e rimorso ad abbandonarlo, ed ecco la ragione del mio ritardo.
O meglio, ecco ciò che amavo pensare fosse, la ragione del mio ritardo cronico.
Ma quel giorno forse fu questa davvero la ragione, poiché mi fermai accanto alla porta e per qualche istante tornò vivo il ricordo triste del dramma, svoltosi accanto a quelle mura innocenti colpevolizzate da me per egoistiche ragioni, per cause infondate, ed allora rimasi là, uno, due minuti.
Ricordare per dimenticare.
Far disordine per riordinare.
È lo stesso concetto, cambiano solo i vocaboli, i verbi.
Quando finalmente uscii, l'aria invernale mi arrossì le gote, gravando sul mio aspetto d'uomo professionale e trasformando il mio viso in quello di un bambino.
Lo detestavo.
Odiavo sentitamente il fatto che il mio volto dovesse mostrare l’esigua cifra dei miei anni, mentre la mia mente e le mie esperienze erano da tempo quelle di un uomo maturo.
Difatti non uno mancava a stupirsi quando veniva a conoscenza della mia giovane età, e spesso questa pecca numerica mi aveva fatto perdere clienti che mi avevano erroneamente considerato ingenuo ed inesperto.
Ma in quei casi mi consolavo, credendo di non esser l’unico che ne usciva perdente, poiché anche loro perdevano l’occasione di lavorare con me, il più giovane e brillante avvocato Londinese del momento
Ma no. Quel giorno non sarebbe avvenuta un'altra sconfitta!
Avrei ottenuto quel contratto ad ogni costo, anche se il mio cliente avesse pensato che 25 anni fossero troppo pochi per esercitare diligentemente la professione di avvocato.
Ricordo Londra quel giorno particolarmente bella, ma non ammetto di non esserne oggettivamente certo: è piuttosto probabile che questo ricordo idilliaco sia influenzato dalle emozioni più che felici collegate a quell’evento.
Ma il cielo azzurro, stranamente privo di nuvole, l’aria limpida ed il sole distante, che non infastidiva affatto con il suo torpore appena percettibile (seppur certamente più piacevole del freddo pungente dei mesi passati) era un evento climatico particolare per la mia città; questo è poco ma sicuro.
In effetti, la mia liscia giacca di calda lana irlandese e la grossa camicia mi tenevano quasi fin troppo caldo, mentre l'ossigeno stentava ad entrare nei miei polmoni schiacciati sotto al gilet.
O forse era l’ansia, a rendere l’aria vischiosa come catrame?
Era bastato il tempo di apprezzare il clima e tentare di placare l’ansia, ed arrivai al bar.
Mi soffermai qualche decina di metri dall'entrata ad osservare quel luogo, credendomi parte d’un film, e con fare scenico ricordo d’aver pensato a come là dentro avrei potuto ottenere l'incarico della mia vita: l’occasione che certi uomini non ricevono mai e che a me, appena venticinquenne, era già pervenuta, e i miei fondi già considerevoli sarebbero divenuti tanti che avrei potuto dedicarmi totalmente all’ozio, lasciando il lavoro per un po' e vivendo di rendita.
Dovevo solo essere convincente.
Così presi un po' di coraggio, e scuotendo l'angoscia giù dalle spalle con un sussulto, entrai.
Mi tolsi cappello e giacca, porgendoli al giovane appositamente messo lì, e scrutai tra i tavoli alla ricerca del mio cliente.
E notai nella mia ispezione che un cameriere, asciugando distrattamente dei bicchieri, mi fissava.
Eppure non appena tentai di ricambiare lo sguardo, chiedendomi se per caso potessi conoscerlo, questi abbassò il capo e se ne andò.
Nella mia perlustrazione fui colpito dalla calda atmosfera di casa che quel luogo ricreava con il semplice ausilio delle luci ed i materiali.
I grandi lampadari pendenti erano, seppur minuziosamente lavorati, semplici e si sposavano perfettamente con i legni rossatri dei tavoli ed il marmo verde del bancone posto in fondo alla sala.
Le luci, aiutate dalle candele disposte apparentemente a caso per tutto il locale, emanavano un calore aranciato e pacato, tranquillizzante ed amorevole, come un abbraccio materno.
Ma eccolo, nel suo tavolo accuratamente numerato, il mio cliente!
Mi diressi al riservato tavolino d’angolo, con una calma apparente, a quanto pare, incredibilmente ben riuscita e con una nonchalance più finta del parrucchino dell’uomo del tavolo affianco, chiesi educatamente se avessi trovato proprio la persona che andavo cercando.
«Mi scusi, per caso ho il piacere di parlare con il signor Outrè?»
«Quindi lei è il signor Hall! Quanto è giovane? Dev'essere proprio uno di quei nuovi talenti, un prodigio!»
Che irritazione provai!
Era possibile che anche quell’uomo, all’apparenza così simpatico, m'avesse gabbato con la fatidica domanda?
Apparivo davvero così giovane?  Troppo giovane?
No, non poteva andare così. Dovevo distrarlo e cambiare argomento, conquistare la sua benevolenza, per poi ottenere i suoi soldi.
Pensandoci ora mi rendo conto di quanto paressi un miserabile approfittatore ma al tempo avrei potuto giurare sulla mia stessa testa di necessitare quel denaro per buone ragioni.
«Mi chiami Edward, la prego! E no, non sono affatto un prodigio signore, cosa va dicendo! Devo tutto ai miei efficientissimi collaboratori ed impiegati, che proprio come faccio io mettono tutta la loro passione in questo lavoro!»
Mi stupii di quanto fosse divertente mentire: credevo che fosse uno svago usuale solo alle donne, eppure io, certamente uomo, ero piuttosto bravo in tale arte.
«Che giovanotto simpatico, Edward! Ma torniamo al lavoro, ragione del nostro incontro!» esortò poco dopo lui, che pareva più emozionato di me.
Mentre relativamente seri discutevamo d’affari venne verso di noi il cameriere, ed avrei giurato fosse lo stesso che prima avevo visto osservarmi, scusandosi dell'attesa causataci, ma tanto eravamo assorti nel dialogo che neppure lo avevamo notato il ritardo!
D’una cosa ero certo: non lo conoscevo.
In caso contrario sarebbe stato difficile dimenticare un soggetto con uno stile così insolito: l'anonima uniforme da lavoro era personalizzata da una sciarpa in flanella d’un beige grigiastro tanto ricercato quanto particolare, e teneva alle mani dei guanti a mezza nocca neri.
I capelli leggermente mossi gli affusolavano il viso fanciullesco, mentre una fascia, posta in parte anche sulla fronte proprio per farsi notare, faceva sì che i ciuffi non raggiungessero gli occhi ed infastidissero quindi la visuale.
Questa capigliatura sbarazzina e nuova lo facevano sembrare un adolescente, e per quanto questo, molto probabilmente, non fosse l’effetto da lui desiderato, non appariva male.
Porgeva un vassoio argenteo dal quale ci offriva in scusa un assaggio del più pregiato whiskey posseduto dal negozio, mentre osservava il signor Outrè con incerto timore e divertimento.
Lo comprendevo: un uomo di mezz’età, alto 1 metro e 65 circa e che in ogni cosa che faceva metteva tanto gaudio ed emozione e che indossava un visibile strato di trucco nero attorno agli occhi, avrebbe stranito chiunque. Ricordava quasi un folletto, non era però un uomo cattivo, altroché! Era di gran cuore e possedeva una grande conoscenza, ma questo non toglieva l’ironia nel suo aspetto.
Notai quindi che anche lui era, seppur lievemente, truccato: proprio come Mr. Outrè (seppur con molta più moderazione) con della matita nera era andato a colorare le rime interne inferiori dei suoi occhi.
“Un tocco di classe: gli risalta enormemente lo sguardo già luminoso”, ricordo di aver pensato. Avessi avuto io i suoi occhi avrei fatto la medesima cosa, ne ero certo.
Non presentava traccia di barba, e quando notai quei suoi grandi occhi splendere per la visione d’un altro uomo che come lui usava truccarsi, constatai che era certamente un bambino cresciuto troppo in fretta, non c'era altra spiegazione.
E così, con un cenno celato gli sorrisi, per ringraziarlo dell’omaggio fattoci, e poi osservare l’esitante e timida espressione di letizia che gli apparve sul volto in resa.
Aveva la classica disinvoltura dei camerieri e più tipicamente ancora dei barman, sempre pronti ad ascoltare gli affanni e i dolori di un uomo per poi rispondere con saggi consigli, ma si scorgeva una timidezza principesca, dietro l’abbigliamento particolare, che tentava di essere informale ma appariva pensato e studiato con impegno, e l’aria da vissuto ragazzo di città.
Solo quando poi si voltò per andare mi accorsi di quanto fosse slanciato: le lunghe gambe magre si muovevano leggiadre come quelle d’una gazzella.
In mezzora avevo ottenuto il contratto, ma questa cosa non mi scalfì più di tanto: ero piuttosto sicuro delle mie capacità, e mi aspettavo un successo.
Trascorsi quindi la successiva ora tra le gioiose bevute di vittoria offertemi da Mr. Outrè, che rideva gagliardo e si rallegrava di aver trovato ciò che cercava: un capace avvocato che lo avrebbe degnamente difeso in tribunale dopo quelle accuse fattegli dalla moglie, convinta di aver subito adulterio.
Non era una causa particolare in realtà, ciò che la rendeva tanto bramata era il profumato conto in banca dell’accusato.
Ma nella mia testa ronzava persistente il desiderio di conoscere meglio il cameriere che ci aveva servito quella sera, e lo osservai ancora un attimo, ero rapito dal suo stile sbarazzino che si univa perfettamente alla sua docile goffaggine.
In realtà la raffinatezza delle sue movenze e della sua espressione sarebbe stata meglio su un agiato gentiluomo, ma creava uno stimolante contrasto con la semplicità della sua divisa (eccezione fatta per la sciarpa) e quindi del suo rango sociale. Mi chiesi così da dove venisse, quale fosse la sua storia e chi fossero i suoi genitori.
Lo rimiravo, dal mio tavolo, mentre serio lavava qualche piatto e si soffermava ad osservare apparentemente apatico la folla di gente che riempiva il locale: chissà cosa pensava.
Fissavo poi il suo sguardo perso e distante, che chiedeva solo di poter uscire da quell’inferno di gente ebbra e confusionaria, che attendeva solo la fine della giornata. Chissà che avrebbe fatto poi, una volta arrivato a casa. Chissà dove abitava...
Si distingueva proprio dagli altri 19 camerieri che, come trottole diligentemente oliate e caricate, giravano veloci e precisi per il locale: non avrei potuto discernere tra loro nessuno, fuorché quel ragazzetto dai capelli scompigliati che perso nei suoi pensieri svolgeva distratto i compiti assegnatili. Chissà come mai lavorava lì, se non apprezzava ciò che doveva fare.
Quando poi, nel primo pomeriggio, il signor Outrè propose di tornare nelle nostre rispettive abitazioni per iniziare il lavoro, accettai la proposta e lasciai il luogo, cosciente del fatto che il giorno seguente sarei tornato là.
Riflettendoci, quella giornata di Gennaio apparentemente innocente fu una porta a trabocchetto: vi ero entrato con la convinzione che ne sarei uscito incolume, solo più agiato di prima, mentre già alla sera notai una frizzante aria di cambiamento in giro, che non riguardava di certo le mie finanze quanto la mia vita ed una certezza fondamentale che per tutta la vita avevo creduto, ma ancora questo non lo sapevo.

 

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Capitolo 2
*** L'incantesimo delle mani d'Avorio ***


Capitolo 2

L’incantesimo delle mani d’avorio

 
“Nuovo giorno, nuova avventura” fu il primo pensiero che ebbi quando aprii gli occhi quel dì novello.
Mi alzai quindi come facevo sempre, trascinandomi lentamente sino al bagno.
Avevo saltato la mia solita tappa alla cucina dove usualmente trangugiavo voracemente la mia colazione.
Quella mattina, infatti, avevo deciso che avrei fatto colazione al bar.
Mi pettinai minuziosamente e svolsi la mia toeletta quotidiana con una particolare precisione, felice di quel piccolo cambio d'abitudine.
E indossata la mia calda amata giacca e il cilindro mio prediletto, uscii.
 
Il clima non poteva vantare di una grande purezza, essendo nebbioso e spettrale, ma speravo in un miglioramento pomeridiano; detestavo quando il clima non rispettava il mio stato d'animo.
Oh, come ero egocentrico nello sperare che il clima se ne importasse di me.
Arrivato sulla soglia del bar, indugiai qualche secondo.
Avevo fatto bene a tornare? Da solo, per di più?
E se lui non ci fosse stato? O se non mi avesse riconosciuto?
E, questione più importante: mi ero pettinato adeguatamente?
Come mi sentii sciocco, in quel momento.
Insomma, cosa importava a me? Per quale ragione provavo tanto fermento?
Era solamente un cameriere, perché tanta agitazione?
Anche se, pensandoci bene e in maniera oggettiva, aveva un viso davvero grazioso, con quei caldi occhi innocenti, dalla forma di mandorla e il colore del mogano più pregiato, grandi come pianeti, con quella bocca tanto piena e ben definita che pareva disegnata, quel nasino così equilibrato che avrei giurato fosse stato forgiato dalle mani del miglior artigiano… Quanto ero teatrale!
Che esagerazioni, queste riflessioni insensate e inutilmente poetiche.
 
Il locale di certo si presentava accogliente come l'ultima volta, ma il mio sguardo ignorò i tavolini minuziosamente apparecchiati e gli scintillanti lampadari di vetro cesellato in minuscole gocce che rifrangevano la luce.
Non notai le piccole finestre scure di vetro verde, né le candele spente.
I miei occhi ignorarono tutto ciò, e corsero direttamente al bancone, dove il movimento fulmineo di due mani sottili coperte da guanti a mezza nocca e di una inconfondibile sciarpa beige annodata con maestria attirarono la loro attenzione.
 
A metà del mio percorso, che allora pareva durare quanto l'odissea di Ulisse, il cameriere intercettò il mio sguardo e mi accompagnò con esso fin in fronte a lui, senza mai smettere di sorridere.
 
Quando mi fermai, ormai arrivato al bancone, lui mi offrì una visuale ancora più completa dei suoi bianchissimi denti, e mentre appoggiava il mento sulle nocche delle mani, e con voce impacciata, nel tentativo di emulare la voce vissuta di chi avesse ripetuto quella frase centinaia di volte, diceva: «Cosa le porto, Capo?»
A quelle parole, così spigliate e popolari, non potrei fare a meno di lasciare che un risolino sbieco si facesse strada sulle mie labbra.
«Gradirei un french toast, grazie. Oh, e anche un tè, per favore!»
E subito lui annuiva con un lieve cenno del capo, e alzando la voce tentava di attirare l’attenzione di un collega.
«Gee! Smettila di chiacchierare e portami un tè!».
L’altro però, prontamente rispondeva, chiedendo che tipo di tè serviva.
 
Si voltò perciò nella mia direzione, cosciente della misera figura appena fatta, il ragazzo dalla sciarpa beige, mentre un forte rossore gli s’apriva in volto per l’imbarazzo.
«Quasi dimenticavo…come lo vuole il tè, Capo? Un Earl Grey? Un the nero? Un…» il nome dell’ultima tipologia di tè gli morì in gola, e ancora una volta mi sfuggì una risatina.
Che maleducazione!
 Certo, pensandoci ora mi sorge spontaneo domandarmi perché tanta vergogna, ma in quel momento mi parve totalmente appropriato e logico.
«Un Earl Grey va benissimo»
 
Nella mia mente vuota tentavo invano di trovare ragioni valide per iniziare una conversazione, scrutando le cose attorno a me con grande perizia, ma sempre, sempre, il mio sguardo tornava a posarsi sulle mani precise e delicate che esperte lavoravano dietro al bancone.
Sarebbe risultato stupido chiedere dove avesse acquistato la sciarpa che indossava?  Sì, certamente.
Avrei fatto la figura dell'idiota, anche perché probabilmente non l'aveva comprata lui ma sua domestica, o la governante, o la fidanzata o…la moglie?
Era abbastanza adulto per essere sposato?
Il suo viso dimostrava non più di sedici anni, quindi non potevo rispondere a questa domanda (dato che per motivi logici ne aveva più di sedici: se così non fosse stato, come avrebbe fatto ad ottenere il lavoro?), ma sarebbe comunque potuto essere fidanzato.
Eppure più pensavo a lui in una relazione, più mi convincevo qualunque donna sarebbe stata troppo volgare per lui.
Ma, d’altro canto, chi ero io per giudicare?
Decisi così di tacere, ed attendere paziente sino a che la mia ordinazione non fosse pronta: allora e solo allora avrei potuto decidere se sfidare la sorte e aprire la bocca oppure ingoiare qualunque assurda frase mi si fosse affacciata alla mente, facendo finta di niente.
Sì, tutto questo sempre se fossi riuscito a distogliere lo sguardo da quelle mani affusolate che facevano avanti e indietro da un incarico all’altro: non so che potere esercitassero su di me, ma ero totalmente assorto nell’osservare quelle dieci dita lunghe e sottili, pallide ma segnate da minuscole cicatrici (probabilmente procurate tra un bicchiere infranto e una tazza troppo calda).
Erano mani grandi e lunghe, come se ne vedevano addosso molti uomini, ma erano dotate di una grazia sottile nei movimenti, che le rendeva tutt’altro che rozze.
Mascoline lo erano, però, con le vene ben visibili che si raggruppavano al gomito.
Si muovevano regalmente da un’occupazione all’altra: prima versavano l’acqua in un bollitore in seguito messo a scaldare sopra la fiamma di un fornello, poi infilavano espertamente e con fare sicuro il pane nella crema d’uovo, poi poggiavano il toast caldo e profumato su un piatto coperto da un tovagliolo, poi spingevano il suddetto piatto sul bancone…
Finite le loro mansioni, le belle mani d’avorio tornavano a stingersi l’un l’altra, in una posizione un po’ impacciata e fanciullesca, ma decisamente adorabile.
E io le guardavo, le guardavo riempendomene gli occhi, e non sapevo neanche il perché: insomma, erano solo un paio di mani!
Ma si muovevano con una certa insofferenza, una certa svogliatezza, che contrastava enormemente con quelle degli altri camerieri: loro facevano movimenti secchi precisi, senza lasciar passare emozioni. Ma i movimenti di quel ragazzo dicevano tutto: lui non voleva essere lì.
Ero ancora perso nel miraggio di quelle delicate mani quando queste si avvicinarono a me, porgendomi la tazza di the e il french toast richiesto.
Ma lì per lì non me ne resi conto, dovette infatti il ragazzo schioccare giocoso le dita a qualche centimetro dal mio naso per attirare la mia attenzione a lui.
Ero ancora perso nel miraggio di quelle delicate mani quando queste... cosa accadeva!? Per quale ragione le belle mani si si avvicinavano? E perché ora schioccavano quelle dita, poco distanti dal mio naso?
Mi riscossi, così, dal mio stato di trance, con il suono sordo di quello schiocco, e distolsi finalmente lo sguardo dalle dita ancora intrecciate che galleggiavano davanti al mio viso; con movimento fulmineo alzai lo sguardo, sino ad incrociare quello luccicante del cameriere, il cui volto sospeso in fronte al mio passava rapidamente dalla seccatura, poiché l’ordine che aveva preparato era stato ignorato, al divertimento, a causa della faccia spaesata che dovevo all’imbarazzo, alla vergogna, dato che egli era cosciente di quel gesto villano che aveva appena fatto ad un cliente, per infine arrivare ad un timido compiacimento di sé, dato che si era accorto che la mia distrazione era dovuta al fatto che mi ero incantato a contemplarlo. O meglio, a contemplare le sue mani, ma di certo non avrei puntualizzato vista la situazione.
Il suo sorriso obliquo gli accese un baluginio malandrino nelle pupille, e con un tono che tentava di mascherare il divertimento si rivolese a me: «Capo, è ancora qui?»
Sbattei più volte le palpebre e assemblai un sorriso imbarazzato, farfugliando qualcosa di non molto intelligente che probabilmente riguardava il fatto che mai me ne sarei andato senza la compagnia del toast appena ricevuto.
Ripresi quindi controllo di me ed iniziai a sbocconcellare la mia colazione, cercando in ogni modo di ignorare il sorrisetto divertito nonché insolente del ragazzo.
Cosa mai mi aveva fatto, per assorbirmi a tal punto che non ero riuscito ad evitare una figuraccia del genere?
Probabilmente tutto questo era dovuto al sonno mattutino che, non avendo ancora bevuto il thè ricco di teina pronta a rinvigorire le mie sinapsi, mi faceva vedere il mondo attorno a me rallentato.
Nonostante la fame tentai di cibarmi in modo decoroso, seguendo le regole base dell’etichetta a me da sempre cara.
Sentii il fischio della teiera, che per un attimo coprì i miei fitti pensieri, e rimasi solo con il mio grande imbarazzo.
Non alzai lo sguardo e neppure ringraziai quando arrivò il mio tè caldo, tanta era la vergogna e la paura dell'essere ancora una volta rapito alla vista delle graziose mani.
Tenni quindi il mignolo alzato mentre silenzioso sorseggiavo la bevanda ustionate, la schiena era ritta, poggiata sullo schienale e tutto attorno a me era ordinato.
Accanto a me i passi veloci del cameriere percorrevano avanti e indietro il bancone per tutta la sua lunghezza, e con il solo ausilio dell’udito seguivo ogni suo movimento: non volevo incontrare il suo sguardo più, almeno per quella giornata.
Sentivo ancora residui del grande vento caldo che s’era sprigionato da dentro il colletto, e che poi s’era proteso lungo tutto il mio busto sino a raggiungere le gote e la fronte. Temevo di sciogliermi, ma poco dopo avrei capito che forse se mi fossi sciolto sarebbe stato meglio: avrei evitato quell’imbarazzante a dir poco situazione di attesa.
Fui calmo poi solo quando sentii lontano il suono dello sportello che divideva il famigerato bancone dalla sala, e con la coda dell’occhio riuscii a scorgere l’uscita del cameriere dalla bella sciarpa.
Potevo andare quindi, e così alzai lo sguardo alla ricerca di un altro cameriere a cui pagare il conto, che nel rispetto del mio silenzio imbarazzato il ragazzo aveva lasciato accanto a me senza aprir bocca, pagai ed uscii, trascinandomi per il locale come un fantasma.
Non ero riuscito nel mio intento, quindi, ma il giorno seguente ce l’avrei fatta, ne ero speranzoso.
E la mia visione positivista del mondo mi costrinse ad immaginare questa sconfitta come un aiuto: avevo potuto studiare il carattere del soggetto per aver la possibilità di evitare gran parte delle future figuracce, mentre tornavo solitario a casa.

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Capitolo 3
*** I famigerati pesci del Tamigi ***


Capitolo 3

I famigerati pesci del Tamigi


I sogni sono la cosa più affascinante della natura umana.
Ti fanno piangere, spaventare, ridere e parlare.
Certe volte ti svegli col sorriso, ripetendoti di dover raccontare quel sogno a tutti.
Perché, in fondo, i sogni non sono altro che la pulizia della nostra mente.
E proprio come devi tirar fuori le cianfrusaglie per poi buttarle via, quando sogni si uniscono i ricordi, i pensieri più vecchi ed inutili, e col tuo risveglio muoiono.
O almeno questo è ciò che mi è stato detto.
Però come mai alcuni sogni li ricordiamo? Confusi ed incompleti, ma li ricordiamo.
Così io ricordavo, quando mi svegliai spaesato, il mio sogno. Parziale, sfocato. Confuso.
Così lo ricordavo, mancante di parti certo, ma abbastanza nitido, abbastanza folle per non essere confuso.
Il rosso acceso come sangue della giacca, il nero scuro come la pece del cilindro.
Ero nel sogno, abbigliato come il proprietario del circo, e tentavo con esasperate gesticolazioni e voce gonfia, colma di angoscia e rabbia, di convincermi a cambiare vita nel momento in cui ancora fanciullo scelsi il mio destino.
“Da grande farò un lavoro che renderò ricca la famiglia: voglio fare l’avvocato da grande, così farò felice il papà!” oh piccolo ed innocente me, come sei dolce.
Ma quale grande, enorme, oserei dire, errore furono quelle parole.
E avrei giurato che se soli 2 anni dopo avessi avuto la possibilità, avrei desiderato tutt’altro, ma non ne sono più così certo ora.
La natura umana ci porta a disprezzare ciò che si possiede ed idealizzare ciò che si desidera.
Solo col tempo si impara a non confondere ciò che si ha con ciò che si odia, ed ero ancora troppo giovane per capirlo.
Così al risveglio quel sogno, che m’illustrava come la mia vita sarebbe stata se non avessi fatto l’avvocato e m’illudeva con una realtà fasulla dove le convenzioni sociali di povertà e ricchezza non esistevano, ed il denaro non era necessario, mi parve meraviglioso.
Ma ancora, come mai alcuni sogni li ricordiamo?
Mi piaceva pensare fosse perché quello era un sogno premonitore. Un segno del destino.
Poi però ricordavo: io non credevo nel destino
Ed allora, triste di dover lasciare l’appiglio a quel sogno meraviglioso che mai avrei voluto terminare assieme al calore che le coperte in piuma trattenevano, mi alzai.
Il freddo mi colpì come un pugno allo stomaco, e per un attimo fui attratto dall’invito del letto ancora caldo che tentava d’ammaliarmi.
Ma come Ulisse, ebbi la forza di desistere dal canto soave di quella sirena di abete, molle e calde piume.
E così assonnato, pettinato e curato mi diressi fuori.
 
La frizzante aria mattutina mi scosse abbastanza da risvegliare i miei pensieri ibernati nel tempo e fermi al momento in cui i miei piedi toccarono il parquet tiepido dopo il torpore del letto amato.
 
Decisi di pensarci subito, alle ragioni per attaccare discorso, onde evitare di andare ancora una volta invano a quel bar, che oltretutto non era propriamente economico.
Non fraintendete: non avevo problemi su quel fronte, ma certamente non mi dispiaceva risparmiare qualche sterlina in più.
 
Avrei potuto chiedergli qualcosa riguardo al suo lavoro.
«Potrebbe dire quali sono i suoi guadagni? Sto facendo una ricerca sulle diverse classi sociali»
No, no.
Idea terribile.
Avrei infierito sulla sua privacy in modo a dir poco villano, e sarei parso uno sbruffone.
Cosa, quindi? 


Sarebbe stato abbastanza distaccato chiedergli come si preparava un qualche drink?
Sì, anche troppo.
«Buona questa bevanda! Mi può svelare quale sia la ricetta?»
Santo cielo, no!
Con una domanda del genere la conversazione sarebbe morta subito, e probabilmente la risposta sarebbe persino stata negativa.
 
Una domanda troppo personale sarebbe stata volgare e si sarebbe imbarazzato oltremodo, quindi anche questa era da evitare. 
Ma cos' è la giusta mediana, che pur mantenendo un tono serio lascia possibilità di esprimere le proprie idee?
La politica.
Ma certo, come avevo fatto a non pensarci prima? Ogni uomo d'ogni rango e di ogni età è appassionato alla politica, mai si sbaglia se si tocca questo argomento!
Cambiai perciò rotta, puntando al più vicino giornalaio; non feci caso lì per lì dello spreco che avevo appena compiuto.
Già lo possedevo un giornale, infatti ogni giorno il garzone del mio giornalaio di fiducia passava a recapitarmi il quotidiano.
Il negozio per mia fortuna era vuoto e feci in fretta il mio acquisto.
Iniziai a sentire la fame incombere e lo stomaco già accennava a degli strozzati brontolii.
A cuor leggero quindi mi diressi verso la mia destinazione, certo dell'efficacia del mio piano.


Diversamente dal solito, quel giorno non feci commenti sul clima, e quando lo notai ne rimasi piacevolmente sorpreso, poiché evidentemente questa nuova, seppur passeggera, abitudine della colazione fuori aveva preso il posto del mio quotidiano e monotono commento sul perenne grigio che sovrastava Londra e dintorni.
Potei così ritenermi ancora una volta soddisfatto delle mie azioni, già due in quelle prime ore della nuova giornata.

Per strada alcuna mano amica mi salutò: era ancora troppo presto, e le strade erano sgombre.
Si vedevano in giro facce anziane e familiari, seppur mai viste prima.
Ogni uomo che si trovava lì sapeva di desiderare un po’ di pacifica solitudine che non nuoce all’animo qualche volta, e così nel proprio silenzio rispettava i compari, che udivano rilassati il suono prepotente del fiume lontano che scorreva deciso.


Raggiunta la mia meta trovai il solito luogo accogliente, e il solito barman lavava distratto i soliti bicchieri nel solito catino, al solito posto.
Tutto filava per il meglio, quando mi sedetti sul bancone quanto più vicino al ragazzo potessi. 
Ed allora lui mi notò e posando il bicchiere che accuratamente lastrava con un vecchio straccio logoro, mi regalò un sorriso.

«Ancora lei, Capo? Pensavo che dopo ieri non sarebbe tornato» ridacchiò.
Lo vidi, mentre alzavo gli occhi dalle righe bianche e nere del giornale, maledirsi in silenzio.
 
Quale maleducazione, non è così ragazzo? Oh, malediciti ancora, ti prego!
Quell’espressione che fai, quando alzi lo sguardo verso il soffitto, aggrotti la fronte ed infine socchiudi le palpebre, per poi tornare a guardarmi.
Posso sentire i tuoi pensieri quando lo fai.
 
Ricambiai quello sguardo, e tentai di apparire convincete, temmendo che anch’egli potesse sentire cosa rimbombava nella mia mente.
 
«Diceva?»
Richiusi il giornale e lo posai al bancone.
«Mi perdoni la disattenzione, ma ha sentito di quanto è salita l'inflazione? Se non fanno qualche manovra commerciale buona finiamo in una crisi terribile! Cosa ne pensa lei?»
Convinto di avercela fatta – di esser riuscito ad inserire l’argomento prestabilito nel discorso con quella che considerai naturalezza e scorrevolezza – mi congratulai con me stesso, con un sorriso sfuggito allo sguardo di tutti.
 
Mi osservò poi lui, con i suoi caldi occhi persi, spaesati, e una volta ripreso il controllo, sbrigativamente cercò ragione per andarsene.

Possibile che avessi trovato l'unico uomo che non apprezzava e seguiva la politica!? Un caso su mille proprio io lo avevo dovuto trovare? 
 No, era pressoché impossibile.
Quindi il problema ero io? Cosa non andava in me?
Stanco, quella mattina non mi preparai con il solito appunto: era forse questo? 
C'era qualche problema con il mio alito, o forse era l'acqua di colonia, diversa dalla solita? 

Ma ormai la mia occasione era persa, e il cameriere, chiedendomi permesso, raggiunse un collega a cui misteriosamente sussurrò all'orecchio. 

Il misterioso socio era basso, di statura, tanto da esser costretto a sporgersi sulle punte dei piedi per ascoltare. Tanto da costringere il cameriere a cui non piace la politica a curvarsi scomodamente, arcuando la schiena.
Non che quest’ultimo fosse particolarmente alto, ma vederlo là, chino sulla schiena magra, pareva gigante.
E quest’immagine, seppur divertente, mi confuse; l'avevo sempre immaginato come un bambino, e raramente i bambini sono giganti!

Nel mentre della mia riflessione mi trovai accanto il ragazzo basso, probabilmente mandato qua dall’altro che imbarazzato si svincolava tra i tavoli portando le numerose ordinazioni.
Mi chiese quindi cosa volessi, e sbadatamente chiesi ciò che di lì a poco sarebbe divenuto la mia colazione solita: french toast e tè al latte.
 
Non capivo perché, cosa avessi sbagliato!
Le mie parole erano giuste, dette nel modo e nel momento corretto, e la mia recitazione era stata impeccabile e la domanda era perfetta, quindi perché se n’era andato?!
Ancora una volta, ero forse io il problema?
Tanto ero pensieroso che scordai il calore della tazza e nel bere il primo sorso mi scottai lievemente la lingua, che divenne poi intrattenimento per mettere a tacere la mia mente (per non ragionare infatti stuzzicavo la ferita con la saliva, facendo bruciare la punta della lingua per puro svago).
Una cosa era certa: iniziavo a stufarmi della ripetitiva scena in cui io sconsolato e sazio uscivo solo e silenzioso dal locale, senza aver ottenuto ciò che volevo.
Da quando in qua era così difficile? Mai in vita mia avevo avuto problemi ad ottenere quello che desideravo, ci ero sempre riuscito al primo colpo…edo ora?
 “Non è divertente? Vivere nel mondo reale? Non è bello?” tacere. Dovevano solo tacere, quei pensieri così molesti.
Ma se fossero stati giusti?
 
Decisi che non sarei tornato a casa. Non ancora una volta senza risultato.
Ed allora mi diressi verso il Tamigi, e camminai assorto nei miei ragionamenti per ore.
 
Il fiume era d’un colore marrone grigiastro, dovuto agli acquazzoni delle terre più a nord, e la sua piena era paragonabile alla portata eccessivamente fluente delle idee che mi ronzavano confuse per la testa.
“Ho forse perso il mio tocco magico?”
“Il mio fascino per caso non fa più effetto?”
“Era forse troppo invadente come domanda?”
Ma prima fra tutte: “Perché mi importa tanto d’un semplice cameriere, uno come mille altri solo in questa città?”
 
Ma lui non era un semplice cameriere, lui era speciale, non affatto come gli altri!
Ed allora cosa lo rendeva così speciale?
Domanda complessa, quasi impossibile.
Dovevo innanzitutto discernere se ciò che mi infastidiva fosse il non riuscire ad ottenere l’attenzione di quel ragazzo o semplicemente la mia incapacità di riuscire in qualcosa (evento a me totalmente nuovo).
 
Come fare per capire?
 
Non avevo voglia di rispondere, probabilmente, perché iniziai a distrarmi per le più infime cose: il volo degli uccelli, che parevano divertirsi un mondo nel buttarsi in impennata seguendo il corso del vento, un pesce che trascinato via dalla corrente saltellava fuori dalle onde, un gatto che inseguiva giocoso una lucertola, seppur consapevole del gran male che le avrebbe fatto.
Fanno così anche gli uomini se ci si pensa.
Amiamo, noi umani, giocare con i sentimenti delle persone.
Ed anzi, siamo più subdoli di quel gatto, perché per ferire in nostri simili non ci limitiamo a dargli la caccia, ma prima facciamo in modo che questi si fidino ciecamente di noi, per poi pugnalarli crudelmente nell’animo, e tutto questo per puro svago.
Ma ancora una volta stavo divagando, ed ancora una volta mi rimproverai silenziosamente.
Dovevo impegnarmi, nel decidere cosa fare.
 
Prenderla troppo sul personale non era da pensare neppure.
Sarei parso pazzo, un maniaco ai suoi occhi.
 
Fingere che nulla fosse accaduto neanche era una buona idea.
Inutile fingere che il latte mai sia stato versato: il danno c’era ma era facilmente riparabile.
Ed allora non restava che tornare là e con nonchalance chiedere spiegazione dell’accaduto.
Sì, avrei trovato il modo di farlo, era certo!
 
Sarei tornato quella sera stessa. Era deciso.

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Capitolo 4
*** Il cameriere è una pettegola ***


Capitolo 4

Il cameriere è una pettegola


Arrivai a casa nel pomeriggio, giusto in tempo per il tè delle cinque.
Pianificavo intanto la mia serata: avrei bevuto velocemente il tè, lavato teiera e, solo dopo, iniziato a preparare la cena.
A serata inoltrata, dopo aver mangiato, sarei uscito per un drink.
E se la fortuna fosse stata dalla mia parte, lungo il percorso, avrei trovato qualcuno con cui andarci. In caso contrario sarei andato da solo, non era un elemento fondamentale per la riuscita del piano, il compagno.
Era tutto così chiaro, semplice e congeniato che un successo sarebbe stato certo, per davvero questa volta. Non come quella mattina.
 
Una volta arrivato al locale, sperando che il cameriere fosse ancora lì, mi sarei diretto da questi ed avrei riciclato la domanda.
Ehi! Ma allora la risposta? Sai, oggi non m’è arrivata quando te l’ho chiesta...
Mi esercitavo allo specchio ad alta voce, come avrebbe fatto un folle. O un giovane innamorato, credo.
No, no, non va bene! Troppa confidenza! Paio un villano analfabeta a parlare così! - continuavo, e scartavo ancora una volta la domanda da farsi.
Sarei mai arrivato a capo di quella situazione?
Accordai infine che una volta arrivato avrei, prima di tutto, ordinato un daiquiri di pesca e lime, e mentre sorseggiavo il mio drink avrei trovato momento e parole adatte.
Quale modo migliore per sembrare spontanei se non essere spontanei?
Sempre più certo del successo, poi, uscii.
 
Iniziai a sentire il pungente freddo invernale appena misi il naso fuori di casa, quando questo s’infiltrò sotto alla mia amata giacca e penetrò nella mia carne per stuzzicare le ossa.
Fu probabilmente a causa di quel gelo, che non incontrai nessuno disposto ad unirsi a me lungo il tragitto.
Così da solo alla porta famosa, e sempre solitario entrai.
 
C’era confusione, ed il pungente lezzo del fumo di sigarette e sigari mi riempiva i polmoni, facendomi tossire sgraziatamente.
 
Era lì?
Il cuore nel petto tacque quando non trovai dietro al verde bancone di marmo la sciarpa beige.
Ero forse tornato inutilmente?
No, fortunatamente no.
 
Comparve nel momento perfetto, comparendo da dietro il sipario di legno che separava la sala dalla cucina annodandosi il grembiule in vita e camminava diretto, verso il suo posto.
Solo e soltanto allora, quando vidi quella sciarpa dolcemente avvolta attorno al collo, quando scorsi i capelli arruffati e gli immancabili guanti neri a mezza nocca, il sangue nelle mie vene sgelò e riiniziò a circolare e riscaldare il mio infreddolito corpo.
 
Fu allora che mi accorsi di essere fermo in mezzo alla gente, e allora subito procedetti verso il bancone.
 
Cosa succedeva? Perché la mia mente era improvvisamente completamente vuota?
Neppure un debole pensiero pareva essersi salvato, nessuno più pulsava eroicamente sopravvissuto alla strage.
Perché questo?
No, no, ecco un piccolo ricordo della mia conversazione con lo specchio.
Il daiquiri.
Dovevo chiedere un daiquiri di pesca e lime, ecco cosa dovevo fare.
Sedetti al bancone proprio come quel mattino, e con un cenno della mano chiamai a servirmi il famigerato cameriere.
Vista la mano sporta tra la piccola folla che riempiva il locale, questi s’avvicinò, e senza degnarmi d’una occhiata domandò cosa ordinassi.
 
Non so se riconobbe la mia voce, ma quando ordinai il mio daiquiri con lo scatto d’un predatore che capta la sua preda alzò lo sguardo e mi fissò.
E ancora una volta non so se accadde davvero (ma amo immaginare che andò così) ma quando mi riconobbe sorrise un attimo, prima di aprir bocca.
«Oh Capo! – disse prendendo dal grande scaffale colmo di bottiglie quelle da me richieste – è diventato un cliente abituale, a quanto pare!»
Perciò mi ricordava!
Ma…perché ero così felice?
«Daiquiri quindi? Ecco a lei!» continuò versando il daiquiri di pesca e quello di limone contemporaneamente, nell’alto bicchiere di vetro.
Ricordo di aver guardato poi le sue bellissime mani prendere la fetta di lime, e con enorme grazia posizionarla sul bicch…no, non di nuovo. No, no, no.
Distolsi subito gli occhi da quelle maledette dita: non sarei stato stregato ancora una volta.
 
«Grazie mille» mi sbrigai a rispondere con un sorriso, mentre già iniziavo a sorseggiare il mio drink.
«Oh! A proposito, non hai risposto alla mia domanda, questa mattina…»
Quando mai avevo parlato così?
Quel gergo non era mio, e mai lo sarebbe stato!
Avevo forse studiato tanti anni ed arricchito il mio vocabolario per nulla? Bastava così poco per perdere tutte le mie conoscenze?
No, da lì in poi la conversazione avrebbe seguitato in altro modo: non potevo sembrare un illetterato.
Il mio interlocutore si grattò timidamente il collo, mentre distoglieva lo sguardo e chinava la testa, con un sorriso imbarazzato e scherzoso sul suo volto.
«A dire la verità… - si soffermò un secondo per alzare lo sguardo, e sorreggendosi con le mani sul bancone esordì - a dire la verità non so nulla di politica, e neppure mi interessa. Mi scusi per quello che è successo questa mattina, ero imbarazzatissimo per colpa della mia ignoranza...»
Quindi era vero! La mia intuizione non più assurda era corretta!
Mi rincuorai appena presi coscienza di non aver perso il mio fascino.
Cosa avrei potuto rispondere? Bevvi un gran sorso della bevanda, che ne prosciugò oltre metà, e solo quando il cameriere accennò ritorno alle sue mansioni capii che dovevo ribadire in qualche modo, per pura cortesia.
Ridacchiai perciò (in modo piuttosto finto, purtroppo), e dissi: «Per quale ragione ti scusi? Non dovresti vergognartene, a volte vorrei io poter non pensare alla politica per un po’, ma è parte integrante del mio lavoro...» assaporai un altro piccolo sorso del mio drink, senza però finirlo.
Perché non ribatteva? Con un’affermazione del genere avrebbe dovuto chiedermi qualcosa relativo al mio mestiere, quell’indifferenza non era pianificata!
E così ancora una volta la conversazione stava morendo, e tentai di salvarla nuovamente.
Avrei dovuto chiedergli qualcos’altro, ma questa volta sarebbe dovuta essere certa una sua risposta.
Cosa, però?
Scrutai attorno a me alla ricerca d’uno spiraglio di speranza, di una qualche anomalia da contemplare, ma era tutto così comune!
Il mio sguardo poi si posò su quei due camerieri, che notai dialogare anche la seconda volta che entrai in quel luogo, mentre ridevano e s’abbracciavano dolcemente distanti dagli occhi di tutti.
Era forse un’anomalia?
Non saprei tutt’ora rispondere, ma mi dava una possibilità di dialogo e quindi andava bene.
«Posso domandarti una cosa?» chiesi perciò, senza far caso a quanto insulsa, per non dire stupida, fosse questa richiesta.
Insomma, è quasi un paradosso: chiedendo infatti di fare una domanda la domanda è già fatta, perché mai ho specificato che questa dev’essere differente dalla domanda con cui si richiede una domanda; la conversazione in pratica sarebbe potuta finire là, se non fosse per l’uso comune che si fa di questa formula interrogativa così contraddittoria…
Stavo divagando, tanto per cambiare.
“Se solo potessi silenziare i pensieri…”
Subito il cameriere alzò lo sguardo, senza però smettere di lavorare, e con un'occhiata incerta acconsentì.
Era delizioso, mentre scuoteva lievemente le spalle e sillabava quel piccolo sussurrato «Certo».
Mi sbrigai allora a chiedergli di avvicinarsi a me con un gesto della mano: se avessi perso il contatto avrei dovuto esprimere il mio dubbio a tutti, e sarebbe stato a dir poco imbarazzante.
Lui perciò protese la testa verso di me, avvicinando l’orecchio alle mie labbra.
«Hai presente quei due camerieri? – ma certo che aveva presente: erano suoi colleghi! Come feci a non farci caso in quel momento? – Quelli che anche ora stanno discutendo teneramente alla mia destra, ecco, il loro rapporto è d’amicizia o…» lasciai chiaramente ad intendere cosa intendessi, ma evitai di esprimerlo a parole: nel fare quella richiesta mi sentii come una donna di basso rango, una suocera che sparla della nuora non apprezzata con le compagne o, generalizzando, una di quelle persone la cui storia è così infima che per poter sembrare interessanti necessitano del supporto delle storie d’altri.
Avrebbe forse pensato questo di me, a seguito di quella richiesta?  No.
Fui sicuro di questo quando vidi un malizioso sorriso comparirgli sul volto, e gli occhi illuminarsi più di quanto fossero luminosi già di loro.
Guardò poi i due che conversavano ancora: ma non avevano clienti da servire?!
Li osservai anch’io, e mi resi conto di quanto fossero teneri.
La grande differenza d’altezza tra loro era evidente, così il più alto dei due era costretto a chinarsi per guardare negli occhi l’altro, e per potergli sussurrare misteriose parole alle orecchie.
Ricercai allora lo sguardo del mio interlocutore e lo scoprii attendermi per svelarmi il responso alla mia domanda.
Ma già con la sua espressione avevo capito tutto: la seconda opzione da me proposta era corretta.
E nello squadrare la sua espressione per trarre qualcosa, notai ancora una volta quanto fossero ben designati i suoi tratti: le labbra così curvate, belle e concise com’erano, conciliavano perfettamente con i grandi occhi scuri, luminosi come stelle nella notte.
I ricci scompigliati poi si scossero e gli occhi vispi rotearono, controllando e certificando l’assenza di sguardi indesiderati, ed infine aprì bocca, e parlò.
«Allora, Capo, questa cosa deve rimanere fra noi, ci sta? -annuii partecipe, senza rendermi del tutto conto di quanto mi stesse rapendo il suo tono cospiratorio e quasi…intimo.
«Okay. Allora: quelli sono Arthur e Frank. Per Arthur, si parla di quello bassetto e col papillon rosso- s' interruppe constatando la poca delicatezza e la mancanza di tatto in quell'affermazione, mentre con fare impacciato tentava di rimediare allo sgarbo -Cioè, non volevo dire basso… va beh, ha capito, no? E Frank sta per quell’altro, quello che ora sta parlando con un cliente e che Arthur sta guardando come se…- Fece un respiro profondo. Pensai immediatamente simpatizzasse per quei due, in maniera talmente partecipe da farlo sembrare… civettuola. Civettuolo, volevo dire civettuolo, dal momento che sto parlando d'un soggetto maschio…
Riprese contatto con me solo quando riiniziò a parlare, dal momento che ero nuovamente perso nei miei pensieri.
«Dicevamo, li vede no, Capo? Insomma, sono qui da molto prima di me: si dice fossero i primi camerieri a lavorare qui e per questo le voci di corridoio sussurrando anche che per questo il direttore, che un po’ si è ormai affezionato, li tenga con sé nonostante le, sa, no, Capo? Parlo delle voci che girano sul loro conto -trasse il fiato dopo questo partecipato e, lo ammetto, un po’ sconclusionato discorso -Comunque, se le interessa la veridicità di queste voci, messe in giro da malelingue, le dico! Beh…»
Si avvicinò ancora di più, nonostante mantenesse un fare noncurante, guardandosi attorno con aria sospettosa e divertita al contempo.
«Ha chiesto proprio alla persona giusta, Capo! Da quando sono arrivato qui, quei due mi sono subito diventati amici, e non so ancora perché dei veterani, per così dire, del lavoro abbiano preso per simpatia un novellino come me» Ora li guardava teneramente, come può fare solo un uomo che vede due suoi amici felici insieme. Sinceramente ero rimasto stupito dalla parlantina spigliata e piacevole, anche se talvolta confusionaria: l’avevo raffigurato nella mia mente come un ragazzo timido, ma dovevo ricredermi. Ci eravamo parlati giusto un paio di volte eppure grazie al giusto argomento, eravamo già in confidenza.
«Comunque, sto divagando. Per quanto riguarda Frankie e Arthur e il loro “rapporto” …» di colpo si tirò indietro, facendomi persino trasalire persino, tanto era brusco ed improvviso quel gesto, e scoppiò in una risata fragorosa. «Capo! -esclamò, ripreso il fiato da quell’attacco di riso insensato- Mi state facendo diventare una pettegola, lei e le sue domande!»
Riprese nuovamente a ridere e, involontariamente, m'unii a lui, senza poter rimanere serio alla vista di quegli occhi sorridenti e sfavillanti, fanciulleschi come non mai.
Era davvero incantevole!
La sua risata, si intende.
Comunque, ero sorpreso da quel suo retrocedere, proprio ora che mi stava per rivelare il succo del discorso, ora che quasi avevo ricevuto risposta, e che eri completamente assorto dalla questione! Tornai immediatamente serio, anche se i miei occhi sicuramente tradivano un sentore di divertimento: «Non era affatto mia intenzione trasformarti in una suocera malalingua, se ciò può rincuorarti».
Ridemmo ancora, questa volta cercando di contenerci, dato che alcuni anziani uomini impettiti, stretti nei loro gilet e seriosi come solo i professori, nella mia vita, avevo visto essere, avevano iniziato ad osservarci, scocciati da dietro i loro superalcolici che neppure li scaldavano, tanta era l'abitudine di quelle bevute!
«Però...- obiettai, una volta ripreso fiato -Nonostante tutto, la mia domanda non ha trovato responso!»
Guardò i suoi amici con finto timore e poi, nuovamente avvicinatosi a me mi bisbigliò con fare cospiratorio: -Sa, non sono sicuro di poterle fornire queste informazioni. Capisce, si tratta di argomenti delicati, e di certo il Primo Ministro non approverebbe se io…- Venne interrotto quindi da un mio scappellotto sulla spalla, che quasi lo lasciò stranito: ero in adeguatamente serio in volto, tanta era la mia curiosità! Ma non lo capì, così dovetti esprimere questo pensiero ad alta voce, e purtroppo a causa di questo mio avido desiderio di sapere m'espressi come un villano.
«Non tentare nemmeno di lasciarmi qua con una scusa, dal momento che già una volta mi hai lasciato senza risposta! Inoltre son stato incuriosito: non vorrai tenermi sulle spine, dico io! Sarebbe crudeltà!
Mi squadrò perciò da capo a piedi (o perlomeno tentò, nonostante ci fosse il bancone d'ostacolo) come se valutasse quanto potesse fidarsi di me, ma come si può capire la veridicità delle parole d'un uomo solo dall’aspetto? Non conosceva forse il fatidico proverbio: "Mai giudicare un libro dalla copertina"?
Restai in ogni caso al gioco, ed allora alzai un sopracciglio (mossa che, devo dire, mi riusciva alquanto bene e di cui andavo piuttosto orgoglioso, così la sfoggiavo ogni qual volta avevo possibilità): sembravo forse un losco individuo, forse? Parevo per caso poco affidabile? Qualunque fosse la sua impressione nei miei confronti, cedette, sconfitto dalla mia inconfutabile innocenza ed impeccabile professionalità.
«Okay Capo- sospirò, quasi scherzosamente, esasperato -Ha vinto. Il fatto è che non so come dirlo…». Si sporse ancora di più sul bancone, probabilmente per proteggere la sua confessione da orecchi indiscreti, ed io mi trovai ad imitarlo di riflesso, cosicché ci riscontrammo a pochi centimetri di distanza.
Tanto erano i nostri visi vicini, che riuscii ad odorare la sua acqua di colonia: era forse vaniglia!?
Oh diamine, non era il momento di farsi troppe domande.
Ma se io potevo sentire il suo, lui riusciva a sentire il mio, di profumo? Gli piaceva?  Ero profumato a dovere? Magari potevo cambiarlo... Per tutti i numi del cielo: che andavo pensando?!
Tornai in me, scosso dalla mia confusa coscienza che combatteva contro sé stessa, così il cameriere disse: «Le voci che girano… io le confermo. Sono più che amici, quei due. Non l’ho mai chiesto esplicitamente ma, qualunque cosa ci sia, loro due lo sanno e non è più un segreto. Non è più un segreto tra loro due, badi! Si guardano bene dal rendere pubblica la cosa, ma le voci girano. Comunque, di me si fidano abbastanza per non essere così sul chi vive quando sono in presenza come quando sono in pubblico. Per questo sono tanto sicuro di ciò che le dico. Se fossero solo supposizioni, mi guarderei dal metterle in giro, sì! Sarebbe vergognoso spargere cattive voci su dei propri amici, non crede?»
Una voce lo richiamò, da dietro la porta che celava la cucina, e lui fulmineo si voltò all’indietro, girandosi verso il suo interlocutore spaventato (avrei giurato di poter sentire il suo cuore battere esageratamente veloce, in quel momento) e spezzando quel momento di intesa che tra noi era nato, mentre mi confidava quei segreti comunemente considerati immorali e folli, mentre i nostri volti si trovavano a meno d'una spanna l’uno dall’altro. Forse il nostro comportamento non era stato adatto al luogo e al contesto, ma ora, mentre mi lanciava un’occhiata veloce, prima di andarsene a consegnare gli alti bicchieri colmi ad un altro cliente senza esprimere parola, mi sentivo quasi imbarazzato, dell’intimità che s' era creata prima, tra di noi.
Certo, era ovviamente un’intimità del tutto innocente e di pura partecipazione alla conversazione, ma comunque superiore a quella che dovrebbe esserci tra un cameriere ed il cliente.
Mi accinsi quindi, rimuginando, a consumare una buona la volta la mia ordinazione, che si rivelò essere formata esclusivamente dai rimasugli d'un daiquiri che già avevo quasi terminato, nel tentativo di rompere il ghiaccio quasi un'ora prima, e che ormai aveva perso tutto il suo sapore: me ne ero totalmente scordato, in tutta lealtà.
Dopo quasi una mezz’ora, finalmente il cameriere tornò davanti a me (ero forse rimasto in quel bar per aspettarlo? Ma che idea balzana!), ma fu solo per avvertirmi che il locale stesse per chiudere ed io, seppur svogliatamente e mascherando il mio disappunto per quest’ultima notizia datami, salutai cortesemente e m’alzai, dirigendomi a ritirare il mio soprabito dall’addetto.
Non immaginate che sorpresa quando sentii la voce bassa del cameriere raggiungermi, e subito mi girai.
«Capo! Un secondo! Se m’aspetta un attimo io metto giù il grembiule e la raggiungo, sempre che lei non abbia altro da fare ovviamente…» cosa diamine avrei potuto fare, a quell’ora!?
Ripensandoci, poteva essere stato un semplice gesto di cortesia come mille ne utilizzo e ricevo io ogni giorno, ma poco importa.
Ribadii quindi che nulla avevo programmato per quell’ora e che sarebbe stato un piacere aver compagnia nel tragitto per casa.
Quella serata pareva essere rotata tutta attorno a piccoli timidi sorrisi, infatti ecco che un altro comparve sul suo volto mentre impacciatamente tentava di slacciare il nodo troppo stretto del grembiule.
Dopo che entrambi prendemmo le nostre giacche e cappelli, c’incamminammo nella gelata notte invernale silenziosi come fantasmi.
Non avevamo in effetti molto da dirci, così tentai di tirar fuori argomenti casuali per rompere quella flebile atmosfera d’imbarazzo che s’era creata.
Sorrisi timidi ed imbarazzo, ecco come si sviluppò quella serata; sì, non l’avrei potuta descrivere più accuratamente.
«Così non ti piace la politica, giusto? Allora cosa, quali sono le tue passioni?» esordii.
Domanda azzardata forse, ma quale modo migliore per conoscere una persona se non conoscere le sue passioni?
Giocoso poi mi rispose, mentre come un bambino correva lungo la strada per superarmi e guardarmi in volto «Oh beh, Capo, io ho moltissime passioni!»
Enfatizzò poi il tutto aprendo le braccia, quasi a presentare una schiera di argomenti che lo appassionavano.
«Ah sì? Ad esempio?» risi io, con una scherzosità amichevole.
Il ragazzo accanto a me camminava all’indietro per non perdere il contatto visivo, e i vecchi lampioni londinesi ci circondavano, illuminando debolmente la strada sgombra.
Le piccole luci tentavano di combattere la grande oscurità ed in cielo non si vedevano stelle: erano forse migrate negli occhi del mio interlocutore?
Ma cosa andavo farneticando!? Pareva la frase che due piccioncini si dedicano, quale sciocchezza avevo appena pensato…
Per mascherare l’imbarazzo che da solo m’ero provocato, poi, decisi di ascoltare la sua risposta.
«Hm, ad esempio…io amo l’arte! Sì, adoro i quadri, e da bambino ne vidi molti, sa? Mi piacciono soprattutto quelli di Van Gogh, ha presente, Capo? A lei piacciono?» non avrei mai detto che a lui piacesse l’arte, e che conoscesse pittori di tale spessore. Lo avevo forse sottovalutato? Com’ero classista!
«Sì, certo che lo conosco, e personalmente lo adoro ma potrei preferire Monet… suvvia però, dimmi altre di queste tue passioni!» lo invitai in tal modo a continuare: quel discorso mi stava interessando molto.
«Beh poi amo…la poesia! E anche i romanzi… insomma: amo la scrittura in generale» seguitò lui.
Mi interrogai velocemente su quale tipo di libri potessero piacergli, ma era impossibile capire quella mente così unica e particolare. Probabilmente notandomi perso nei miei pensieri, s' apprestò a rendermi partecipe di quel dialogo.
«A lei piace la letteratura, Capo?»  Mi risvegliai dalle mille riflessioni che m'affliggevano, tentando di interessare il mio interlocutore a ciò che passava per la mia mente: «A chi non piace la letteratura, proprio come l'arte, dimmi? Io credo a nessuno, e ora ti dimostro questa mia tesi: le arti d'ogni genere sono nate per liberare l'uomo dagli affanni della vita, facendolo viaggiare in un mondo speciale. Ecco perché leggo sempre la sera, quando non riesco a dormire: porto un po’ della magia dei sogni a me.» che discorso pretenzioso avevo appena fatto, tentando di rispondere ad una domanda così, che oltretutto mai mi era stata posta!
Pareva però essere piaciuta al mio interlocutore, che mi aveva ascoltato silenzioso ed attento, mentre incantato si riempiva le orecchie delle mie vanitose parole.
«Wow Capo, che discorso! Non saprei proprio come risponderle, non posso spiegare cos’è l’arte, io…» quanta umiltà! Giusto quella che a me era mancata, in realtà.
Continuai il tragitto per casa senza curarmi del fatto che non abitassimo nello stesso isolato: quando infatti ci trovammo accanto ad un bivio neppure me ne resi conto che l’altro era fermo qualche passo dietro di me e cercava il modo per dirmi che quella non era la sua strada!
Se non mi fossi girato per parlargli non avrei notato, e sarei andato dritto per la mia via, che gesto deplorevole…
Ma fortunatamente ci avevo fatto caso ed il misfatto non era avvenuto, così mi trovai costretto a salutarlo.
Sotto la luna bianca ed ombrosa, sotto a quel manto oscuro privo di qualsiasi altro astro, noi ci salutavamo, e con i suoi grandi occhi scuri quel cameriere mi disse, con una tenerezza disarmante che solo nei bambini e nei cuccioli fino ad allora avevo visto: «Che ne dice di venire domani mattina a fare colazione al bar, Capo? Così possiamo finire questo discorso!»
Era certo che sarei andato, avevo in mente anche una piccola sorpresa!

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Capitolo 5
*** Colazione di french toast, tè ed imbarazzo ***


Capitolo 5
Colazione di french toast, tè ed imbarazzo


Mi incamminai presto quella mattina, per andare al bar. Più presto del solito, quantomeno.
Non era però nei piani questa uscita così mattiniera: mi ero svegliato tanto presto, infatti, perché temevo che sarebbe stata una dura impresa trovare la sorpresa silenziosamente promessa. 
Quel libro che mi era piaciuto tanto - tanto da meritare il titolo de “il mio libro preferito" - era perfetto per chiunque: lo stile semplice, ma senza scarsità di bellissimi dettagli che ti trascinano dentro la storia. 
La trama apparentemente così comune ma che diventava quasi magica, oltreché unica…
Sì. A chiunque sarebbe piaciuto, anche perché chiunque l'avrebbe compreso.

Sapevo che si trovava in soffitta, perché erano ormai anni che non lo leggevo, e dovevo solo scoprire se fosse stato mangiato dalle incrinate e umide assi di legno del pavimento, dalla polvere e dai topi o meno.
Era spettrale quel luogo. 
L’aria era satura di umidità, sporcizia e ricordi dolorosi a cui non dovevo pensare.
O meglio, non volevo pensare.
Sì, dovevo sorridere. 
Perché era un nuovo giorno, e poco importava di quello che era successo nel passato.
Beh, non fu complessa la mia ricerca: il libro infatti giaceva sopra ad una pila di altri tomi.
Vecchi libri di studio, impolverati ed ingialliti dalla luce flebile e dalla grande umidità che vigeva in quel luogo.
Si trovava lì da tempo, pareva: non solo la mia memoria collocava i ricordi a questo relativi ad un punto distante nel tempo, ma anche il tagliabile strato di polvere che lo copriva come una coperta di calda lana ne era prova.

Ma tornando al punto del discorso: era presto quando uscii, e fuori la città era desertica.
Il freddo era minore rispetto alla mattina precedente, ma pur sempre fastidioso.
Le mani, seppur protette dai guanti di pelle nera, gelavano nelle tasche della giacca, e la sensibilità alle punte delle orecchie l'avevo già persa da un po’.
Decisi, nonostante tutto, di girovagare per la città un po’, prima di raggiungere il locale: avrei utilizzato il tragitto lungo. 
Mi incamminai quindi lungo il Battersea. 

Amavo quel parco.    

La luce flebile del Sole ancora distante era filtrata dalle foglie di un piccolo albero, e si rifletteva gialla sul rovinato terriccio.
Quelle rare foglie, sopravvissute stranamente alle intemperie della stagione passata e di quella in corso, rimanevano ancorate ai rami, ancora troppo giovani per finire la loro breve vita e decise a vedere il mondo ancora per un po’.
Una panchina solitaria si scaldava al sole mattutino, godendosi quei raggi che a breve non l’avrebbero più colpita, e ascoltava il silenzio di quel luogo che presto sarebbe stato distrutto dalle risate giocose dei bambini.
La rugiada poi, padrona della scena, illuminava ogni pianta con il suo fascino magico.
Ogni ciuffo d’erba risplendeva per piccole gocce ghiacciate che coloravano d’arcobaleno il prato.
Camminai così, perdendomi nelle bellezze della natura, come i canti dolci e sofisticati degli uccelli o il suono del fiume che chiassoso scorreva vicino a me.
Rispolverai il mio amore per i suoni dei luoghi come quello, nelle ore dove tutti erano via.

Ma il mio tempo di passeggiata era terminato: bighellonavo in giro già da oltre mezz’ora, ed il locale si trovava relativamente distante da lì; quindi senza indugio mi diressi al bar stringendo sotto il braccio quel mio caro libro profumato di carta vecchia e memorie.
Quando mi fermai sulla soglia dell’entrata, mi resi conto che un disturbante pensiero non voleva lasciarmi solo. Ma cosa?
Non riuscivo a delinearne confini, e poteva riguardare le cose più varie... Che fastidio! 

Non dovevo però attender oltre, ché volevo davvero poter dialogare con il cameriere e non avrei potuto se fosse stato impegnato a servire un altro cliente.
Così ormai ad occhi chiusi mi diressi verso il solito bancone di marmo verde, conoscendo già quella traiettoria come le mie tasche.
E ancora una volta trovai lì il cameriere, e ancora una volta lui, non impegnato a servire nessuno, attendeva un cliente, reggendo il mento sulle mani intersecate come fili d’una ragnatela. 
Una bellissima ragnatela.
E quando mi riconobbe si disincantò, mentre tirandosi su, con un informale gesto della mano mi salutava.
«Ehilà Capo! Vedo che non mi ha dato buca!» sorrise ironico, mentre lucidava un bicchiere prima di metterlo via.
«Certo che no! Come vedi sono qua, ed ho anche un piccolo pensiero…» 
Stavo facendo il giusto, prestandogli quel libro? Non era forse avventato come gesto, dal momento che avevamo parlato solo una volta in tutte le nostre vite? 
Ma ancora una volta fui costretto a non badare alla coscienza guastafeste, perché, anche se quello fosse stato un danno, sarebbe stato già compiuto. 
«Prima però ci terrei a chiederti una cosa-» continuai.
No, non avevo realmente idea di cosa domandargli: quello era solo un misero modo per perdere tempo e sperare che dimenticasse la sciocchezza che lo precedeva.
«Certo Capo, mica serve un permesso!»
Inspirai quindi profondamente, tenendo gli occhi chiusi e mi dipinsi un sincero sorriso in volto.
Dopo aver aperto gli occhi espirando, ormai calmo, sentenziai: «Posso chiederti quale sia, dal momento che il nostro dialogo è destinato a continuare ancora per un po’, il tuo nome?» 
Accompagnai il tutto con un’espressione disinvolta: nulla di ciò che dicevo doveva essere preso troppo seriamente, e volevo che fosse prettamente inteso.
Lui quindi ridacchiò, divertito da qualcosa nel mio parlato. 
Era forse la mia voce? Avevo forse una voce comica? O era il mio modo di parlare? 
Poco mi importò però, quando poco dopo rispose.
«Io? Beh, capo, può chiamarmi Jackson, se le serve qualcosa.»
Non aveva risposto alla mia domanda: io volevo sapere il suo nome, non un appellativo qualunque!
Ma come fare a farglielo notare senza sembrare maleducato?
Avrei usato lo stesso registro che utilizzavo con i clienti, sarebbe stato colloquiale, e così non di certo volgare. 
«Mi scusi per la villania, ma gradirei sapere il suo nome di battesimo» improvvisai, accompagnando le fragorose parole con un pacato sorriso.
Ero stato forse scortese? Notai un timido rossore comparirgli dapprima sulle gote, e poi estendersi piano per tutto il volto. 
Deglutì poi il calore che lo affliggeva, e ricomponendosi, finalmente, mi rese il responso dovuto. 
«Hm... George, signore, e lei?» quelle ultime due piccole parole erano chiaramente sfuggite al suo controllo, e appena se ne rese conto l’arrossamento riapparì sul viso «Scusi, capo, io non...» mozzò il discorso lì, convenendo che tacere era meglio.
Non feci a meno di sorridere: aveva questo talento di apparire adorabile ogni cosa accadesse!
Ma…perché ero così in fermento?  Per quella domanda? 
Insomma, era solo il mio nome, nulla di personale! 
Dovevo smetterla di disperdere i miei pensieri e le mie preoccupazioni a tal modo, questa cosa stava diventato a dir poco insopportabile.
«Hall, Edward Hall. Ma è possibile che tu già abbia sentito questo nome, dal momento che è piuttosto conosciuto, in città...» che vanità trasudavano, quelle parole!
Oltretutto George (amavo il suono di quel nome, lo avrei ripetuto mille altre volte se avessi potuto) non pareva affatto una persona che s’interessava d’affari altrui, soprattutto se economico-politici (lui stesso aveva detto di non essere interessato a quest’ ultima), quindi era molto probabile che il mio per lui fosse un nome come mille altri. Sorprendentemente, fece un sorriso obliquo che lasciava intendere un “ma certo che la conosco, Capo!” (per renderla come la pronuncerebbe lui).
«Beh, Capo, il suo nome me l’ha appena detto lei, no? Quindi è ovvio che io abbia già…» tossì imbarazzato, cosciente del basso livello della sua battuta. 
Si grattò la nuca e con fare impacciato proferì: «No, comunque- si schiarì la voce ancora una volta, nel tentativo di distrarre l’attenzione dalla triste battuta -sì, ho già sentito il suo nome, Capo. Insomma, la gente ne parla, ogni tanto. Sì, dai, è un tipo popolare, no? E…» Cercava disperatamente di parlare con tono disinvolto, ma era talmente imbarazzato che strizzava gli occhi, per un qualche strano e tenero riflesso che non avevo visto addosso ad alcun altro mai. 
Alla fine capì fosse meglio cambiare discorso e, con voce forzatamente allegra (e un po’ acuta), chiese: «Cosa le porto stavolta, Capo?»
Quasi mi veniva da ridere, tanto era arrossito, ma mi trattenni ed invece, con la voce che tradiva una risata, affermai: «Un the. E un French Toast» 
Osservai nel brillare del suo sguardo, riconoscenza per la gentilezza fattagli tacendo, nonostante accanto ad una battuta tanto squallida, e stendendo le labbra in un piccolo sorriso, domandò: «Ah, come l’altra volta, Capo. Prende sempre the, la mattina?»
Non volevo sembrare troppo interessato, così mi limitai ad annuire zitto, mentre aprivo il giornale ed iniziavo a sfogliarlo.
Nel silenzio poi, si diresse a preparare l’ordine, e scorsi, osservandolo, lo stesso imbarazzo che aveva regnato padrone nei nostri primi incontri, e che credevo sparito per sempre, dopo l'amichevole intimità del giorno precedente: a quanto pare mi sbagliavo.
Al momento non mi dispiacque particolarmente questa cosa: era adorabile l'impacciataggine che George metteva nei suoi movimenti. 
Era complicato affibbiare a quel ragazzo un nome, dal momento che, nonostante ci conoscessimo da poco, già mi ero abituato ai soprannomi scherzosi.
Così pensavo, mentre si avvicinava per darmi il tè, a come desiderassi, però, di nuovo la spigliatezza nel parlato che aveva sfoggiato la sera prima, ero ormai contraddittoriamente stufo di quel tenero imbarazzo!
Gli avrei prestato il libro, ero deciso.
Avrei colto quindi la palla al balzo, lo trattenni quindi a me, esortando: «Sai prima, avevo accennato ad un presente per te, ecco...- tentai di rendere il tutto piuttosto scenico, ma con scarsi risultati, poiché non trovai subito il libro nella giacca e dovetti cercarlo un attimo prima di poterglielo porgere, facendo quindi una figura terribile -sì, dicevo, ecco: questo fu ed attualmente è il mio libro preferito. Ho pensato perciò, a seguito della discussione avuta ieri notte, di prestartelo, sono piuttosto certo che ti piacerà» sorrisi quindi, fissando il libro accanto a me, memore di dolci viaggi a me sempre cari. 
Nostalgico celebravo quel libro, come un anziano parla della sua giovinezza: con il dolce gusto do tempi belli, in cui tutto era gioco, tutto era semplice, e mi sentii orribilmente vecchio. Nella mia testa i pensieri urlavano, quasi volessero coprire il ricordo delle grandi figuracce fatte con quel ragazzo appena conosciuto, e sentii il calore diffondersi in una ventata calda che tentava d'uscita dal colletto della camicia (fortunatamente legato dalla cravatta). Cosa stava succedendo? 
Dovevo ricompormi, era sconveniente apparire così in quel luogo, pullulano di possibili clienti!
Ed ecco che di nuovo tornava ad assillarmi il pensiero del lavoro. Quanto ci metteva a rispondere quel ragazzo?!
Alzai lo sguardo, che era perso nei meandri della mia mente prolissa e confusa, e subito incrociai il suo.
«Beh sì, ci avrà pensato Capo, non volevo mancarle di…- esitò un istante, non terminando l’affermazione- Comunque…uhm…La ringrazio. Insomma, è il suo libro…- bloccò il discorso ancora una volta, prese fiato e riprese con tono sicuro- le prometto che lo leggerò, Capo! Lo leggerò attentamente e glielo restituirò al più presto, è una promessa! E George Jackson mantiene le sue promesse, Capo, davvero!»
«Ti credo, tranquillo» ridacchiai pronto in risposta.
Ed ancora una volta stava morendo la conversazione, ma ora entrambi ci imploravamo con lo sguardo di proferire parola, anche per dire la più stupida delle cose.
La mia mente però era vuota, sfortunatamente, così smisi di tentare e feci per tornare a leggere il giornale sorseggiando il tè poco prima ricevuto. 
George invece non volle mollare, e qualche istante dopo esordì con un allegro: «Allora, Capo, di cosa parla il libro?» 
Era passato tanto tempo, ma ricordavo ogni pagina, ogni dettaglio era stampato tanto bene nella mia mente quanto lo era sulla carta.
E così non ebbi alcun problema nel raccontare passo per passo la trama, senza badare al fatto che stessi esponendo il tutto prima che il poveretto avesse avuto la possibilità di leggere una misera frase di quel libro.
Non fui però l'unico a notarlo, perché a fine del mio discorso George accennò: «Uhm...Capo, grazie! Ma ora...beh, ormai mi ha già rivelato tutto il libro!» rise imbarazzato, tenendo lo sguardo basso e continuando a lavorare «Ma non si preoccupi, non è un problema!»
Che insolente che ero stato! Un egoista: non avevo pensato a lui neppure un istante mentre raccontavo...
In realtà però, in quell'opera la trama non era tutto, e glielo avrei presto detto: «Scusa! Ma tranquillo: la parte migliore, almeno a parer mio, sono le descrizioni degli ambienti, dei luoghi, ...» e così dicendo rimembrai quanto lo stile di quello scrittore era capace di trarti dentro a quel mondo immaginario, e con un dolce sorriso in volto mi lasciai accogliere da quelle terre fantastiche di nuovo.
«Capo? Devo schioccarle di nuovo le dita davanti al viso?»
Si ricordava quindi! Beh, come dimenticare quella brutta figura…
Sentii la vergogna ribollire nelle mie vene, e m’affrettai a rispondere prima che questa m’impedisse di ragionare.
«Oh no, no! Anzi, ora ti lascio qua solo e non ti anticipo altro, così potrai leggere in pace!» raccolsi quindi il giornale ripiegandolo accuratamente e pagai.
«Arrivederci quindi, Capo» mi salutò cortesemente mentre contava le monete accanto a lui.
Finché chiudevo ii bottoni della mia adorata giacca però il silenzio fu spezzato; dapprima George alzò lo sguardo su di me, poi con un lieve arrossire delle guance mi chiese: «Ehm…le conservo del daiquiri per stasera, Capo?»
Mi dispiacque dover rispondere negativamente, ma mi giustificai dicendo di aver da lavorare alla causa del Signor Outrè.
«Oh okay, a domani, quindi…» affermò, lasciando intendere dal tono incerto che quella poteva (doveva) essere intesa come una richiesta. 
Così mi incamminai verso l’uscita, e lasciai dentro al locale la mia misera risposta.
«Certo»

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Capitolo 6
*** Cordofoni fantastici e svariate realistiche fandonie ***


 

Capitolo 6

Cordofoni fantastici e svariate realistiche fandonie

 
Dopo un’intera giornata passata a lavorare, quando mi svegliai il mattino seguente ero piuttosto felice della prospettiva di quel dì: avrei fatto (come ormai ero solito a fare) colazione al bar e poi avrei tranquillamente oziato, bighellonando in giro (dal momento che non pioveva, stranamente) alla ricerca di facce amiche con cui intrattenermi.
Le frequenti piogge di quei mesi mi avevano tenuto ancorato in casa, e le uniche interazioni che avevo avuto quella settimana erano state con il Signor Outrè e con George.
Non che mi dispiacesse, sia ben chiaro, ma erano quasi tutte conversazioni distaccate (sottolineo il quasi, dal momento che la conversazione di qualche sera prima non era certamente distaccata…) o in cui non ero particolarmente partecipe.
Ma avevo tutto il tragitto per pensare, così dopo essermi preparato uscii.
Certo, nonostante l’assenza di precipitazioni il clima era piuttosto triste, grigio.
Le nuvole coprivano tutto non lasciando trasparire alcun raggio puro del sole pallido, e neppure un centimetro del manto celeste era visibile all’orizzonte.
Preferii non badare a quella pecca, poiché io non potevo fare molto per cambiare il tempo, e allora m’interrogai su chi fosse la persona con cui avrei preferito passare il pomeriggio.
Sembrerà una cosa insulsa, ma dal momento che avevo molte conoscenze, discernere chi tra quelle era più opportuno vedere fu complesso.
Familiari? Era tanto che non facevo visita alla mia cara zia, in effetti.
O forse era meglio fare un giro con un amico? Avevo promesso di aiutare Taylor a cercare una donzella, e probabilmente sarebbe stato utile anche a me trovare una compagna: ne era passato di tempo dall’ultima volta…
Non volevo però che Taylor trovasse una donna: da sempre pensavo che stesse benissimo con quella solare ragazza, come faceva di nome? Annie? Helly? No, no, era forse Hayely? Sì, Hayley, proprio lei!
Erano perfetti assieme, ed era evidente che a lui piacesse! Mi chiedo perché non avesse ancora fatto il primo passo…
Inoltre non ero personalmente interessato alla ricerca di una donna, in quel momento: stavo bene così; probabilmente questo accadeva perché non avevo ancora superato la precedente relazione…
Ma poco importava: finché questa mancanza non mi avesse provocato problemi, avrei continuato a non pensarci.
Così, senza pensare a cose nefaste, ma elencando semplicemente i nomi, nella mia mente, dei miei tanti amici, camminai in direzione del bar.
Passo dopo passo scartavo ogni persona, trovando impedimenti vari, ed arrivai al locale rassegnato a passare un’altra giornata solitario.
Entrai nel locale e come ogni altra volta lasciai cappello e giacca al solito ragazzo all’entrata, per quindi raggiungere il bancone.
E, proprio come ogni altra volta, trovai lì il solito cameriere intento a servire un anziano uomo che, sdentato, tentava di esprimersi, ottenendo però solo farfuglii confusi ed indecifrabili.
A quanto pareva ero il solo a trattenere le risate: George infatti osservava attento il buffo signore, tentando di discernere da quel discorso qualche parola preziosa, invano però.
Quando mi notò si limitò ad accennare col capo, mimando con le labbra un «Arrivo, Capo» e seguitando con una roteazione scocciata degli occhi.
Fermò poi il collega (Frank, se non vado errato) e implorò questo di prendere il suo posto.
“Solo un folle accetterebbe” pensai, sbagliando: l’amico in fatto, per un gesto di inumana generosità annuì e lo sostituì. “Sono queste cose – ragionai – che dimostrano chi è realmente tuo amico”, e tutt’ora sono convinto di ciò.
Il ragazzo quindi s’avvicinò a me, e con un divertito sorriso mi salutò, alla solita maniera: «Salve Capo!».
«Buongiorno» non esitai a rispondere, ormai abituato.
«Che le porto? Il solito?» chiese quindi lui, mentre puliva velocemente il bancone su cui poggiavo.
Non avevo precisa idea di cosa rispondere, ed allora aprii bocca incoscientemente, all’oscuro delle parole che avrei detto. «Se con “solito” s’intende tè e french toast allora sì, il solito è ciò che desidero» non fu il miglior modo per esprimerlo, questo è certo, ma grazie al cielo mi feci intendere, e non farfugliai nulla d’illogico o incomprensibile: non ero stato imbarazzante in alcun modo.
Tentavo, m’impegnavo per cercare ragione di parlare, ma tutto ciò che la mia mente produceva erano nomi di persone, conoscenti e parenti lontani, con cui avrei potuto passare il pomeriggio, e ad altro non riuscivo a pensare!
Quasi mi rattristavo ancora, sapendo che quel giorno libero si sarebbe prospettato alquanto noioso, ma insomma: in quel momento ero con qualcuno, per cosa mi lamentavo quindi!?
Prendendo il pane, e notando questa mia profonda pensierosità, George mi chiese con nonchalance: «Cosa mi racconta oggi, Capo? La vedo pensieroso».
Mi riscossi quindi, e mi dipinsi un sorriso in volto, mentre attaccavo a parlare; gli avrei raccontato cosa mi passava per la mente, d’altronde non avevo nulla da perdere.
«Devi sapere – attaccai, raddrizzando la schiena e sistemando la camicia – che ieri ho lavorato molto: sì, mi sono impegnato davvero! E oggi quindi come ricompensa volevo godermi una giornata da passare con un amico, o anche un parente, ma non c’è nessuno non oppresso dal lavoro, in città… Così, una giornata che si prospettava gioiosa e divertente è diventata quasi un problema. Ma non penso che molto possa interessarti, quindi, dal momento che non ho idea di cosa raccontarti, tu che mi dici?»
Aveva seguito il mio discorso con grande attenzione, osservandomi serio tutto il tempo, ed una volta che finii di parlare rimase zitto qualche istante a ragionare.
«Sa Capo, in realtà… – posò il pane fumante accanto a me, e trovò distrazione nell’osservare questo – in realtà io oggi, cioè, questa mattina, stacco un’ora prima dal lavoro, quindi magari – quando presi poi la fetta che ammirava, il suo sguardo si ricongiunse al mio, e la sua voce tornò sicura – sì, magari, se per lei non è un fastidio, potremmo fare un giro!».
Non ci avevo pensato! Certo, perché no! Che idea meravigliosa!
Appena finito di parlare il cameriere si scusò con un sussurro, appena percettibile, ed imbarazzato si girò a prendere il tè pronto, mentre si malediva mentalmente in modo piuttosto evidente.
No, non doveva, era stata una cosa davvero gentile da suo conto prendermi in considerazione! Dovevo ringraziarlo, cosa aspettavo?
«Non mi dispiacerebbe, affatto! Trovo anzi che tu sia stato estremamente gentile, quindi ti ringrazio davvero: mi hai salvato da un oblio di noia!» scherzai, strappando una piccola risata anche dal suo volto teso ed imbarazzato.
Scioltosi quindi, e libero dalla vergogna, mentre metteva a lavare la teiera ribatté «Beh, allora non c’è di che, Capo» accompagnò questa frase, detta con aria regale e pomposa, con una piccola ironica riverenza.
Non feci a meno di sogghignare in simultanea con lui: aveva una risata davvero contagiosa.
«Ma tu, come stai tu?» chiesi, per colmare il vuoto di dialogo che stava venendo a crearsi.
«Eh sa, si campa, anche se il lavoro è duro! Quando arrivo in casa infatti, tutto ciò che riesco a fare è stendermi a letto e dormire sino alla mattina seguente... Ma finché ho un lavoro ed un alloggio, non mi lamento: non ne vedo ragione».
Sorseggiavo nel mentre il mio tè, e dietro George notai i due ragazzi oggetti della nostra prima conversazione; quindi con sincero interesse chiesi come stavano loro.
Dovevo poi ingannare il tempo mentre attendevo poiché il turno del ragazzo sarebbe terminato solo 40 minuti dopo.
«Come stanno invece i tuoi amici?» domandai, indicandoli velatamente.
«Gee e Arthur? Stanno bene, sì. Tra loro però ci sono piccole incomprensioni: Frank vuole dire ai suoi genitori di quello, Arthur però è abbastanza contrario. Io non so proprio da che lato schierarmi; comprendo ed assecondo le ragioni di entrambi, hanno tutti e due ragione! Capisco bene che Gee voglia essere sincero con la sua famiglia, e so che i suoi genitori, come tali, continuerebbero ad amarlo; anzi, forse neppure ben capirebbero ciò che il figlio dice, o lo crederebbero uno scherzo… - si distrasse, probabilmente immaginando la scena, ma subito si destò e ricomponendosi continuò - ma immagino anche che Arthur voglia tenere il tutto quanto più segreto possibile…»
Voleva molto bene a quei due, era evidente che il loro rapporto non era affatto quello d’alleanza che si viene a formare tra colleghi, ma anzi era quasi fraterno.
Però, se questi volevano tenere la storia segreta, perché io ne ero a conoscenza? Perché me la raccontò?
Certo, ero stato io a chiederlo, ma quando mi narrò tutta la storia lui neppure sapeva il mio nome! Perché si sarebbe dovuto fidare?
Ricordai che mi aveva osservato titubante quella sera, prima di rispondermi: ma bastava realmente solo uno sguardo?!
In quell’istante sentii l’irrefrenabile impulso di sapere, spinto quasi da una scintilla di rabbia (per cose che non mi competevano affatto, oltretutto) ed allora, mantenendo il massimo riguardo, domandai: «Non vorrei sembrare sfrontato ma posso chiederti perché mi hai raccontato tutto questo, prima ancora di conoscermi?».
Speravo di non averlo offeso, perché solo dopo mi resi conto che con quelle parole parevo insinuare che lui fosse un ciarliero, un pettegolo!
Fortunatamente però lui rispose, senza segno di malizia o sdegno, ma anzi spontaneo e sincero come un fanciullo innocente fa.
«Uhu, Capo, ha colpito nel segno! Sa che me lo sono chiesto pure io? Ma, in realtà, è che...non so...mi sarà sembrato una persona fidata. Non lo è forse, Capo?»
Si fermò dal lavoro e mi guardò negli occhi, con uno sguardo irrazionalmente serio che cercava nel mio risposta.
«Certo che lo sono – mi affrettai a rispondere, abbassando la testa e spezzando così il contatto visivo formatosi – volevo solo sapere, neppure io so cosa! Non badare, non far caso alle mie parole: neppure io so di preciso perché le ho dette…».
Quegli occhi persi si erano disegnati nella mia mente e non se ne andavano: come mai mi avevano colpito tanto?
Aveva lo sguardo di un cucciolo, e, forse per un assurdo viaggio della mia mente, o forse perché i fatti stavano realmente così, pareva, con quella sua espressione, cercare certezza.
Mi spiego meglio: mi sembrò per un attimo di rivedere nel suo volto dipinta una storia, la storia di una persona che già troppe volte è stata tradita, e che fosse stanca di ciò.
E nel vederlo il mio cuore si colmò di compassione, tantoché tutto ciò che desideravo era avvicinarmi a lui ed abbracciarlo, in prova che io non lo avrei ferito…
Cosa diamine stava facendo la mia mente?! Che viaggi assurdi!
Avevo tanta fantasia che avrei potuto scrivere un libro!
«Oh, okay, come vuole lei, Capo» disse poco dopo.
«A che ora avevi detto che avresti finito?» chiesi poi. Non attesi molto per ricevere risposta, infatti subito lui diede uno sguardo all’orologio, e felice esordì: «Ora!»        
Erano realmente passati 30 minuti da quando quella conversazione era iniziata? Non mi ero reso conto di quante pause silenziose ci fossero nei nostri dialoghi…
In fretta si tolse il grembiule, e lo ripose dentro alla cucina.
Rimase un attimo dentro, e sentii voci confuse uscire di là: probabilmente salutava i colleghi.
Quando comparve già indossava giacca e cappello, e mi accompagnò quindi a prendere i miei soprabiti.
Non era particolarmente freddo fuori, probabilmente perché erano le 11.30 di mattina ed il flebile sole aveva, per quanto possibile, riscaldato.
«Che si fa, Capo?» domandò dopo qualche parola farfugliata e qualche risata insensata.
Mi resi conto che non ne avevo idea.
Di cosa avremmo potuto parlare noi, così differenti l’uno dall’altra? Nessun argomento ci accomunava realmente, per quanto ne sapessi non avevamo passioni comuni.
«Parliamo, cos’altro si potrebbe fare?» ridacchiai inutilmente, tentando di aggirare il problema.
«Sì beh certo, ma di cosa? Mi parli di lei, Capo. In fondo io non so proprio nulla di lei, eccetto che lei è un avvocato e che le piacciono i french toast, il thè ed il daiquiri di pesca e lime».
«Oh beh, da dove iniziare?» ci pensai un attimo prima di iniziare, non volevo sbilanciarmi in alcun modo: né sembrando troppo timido e riservato, né, tantomeno, sembrando troppo vanitoso!
«Dall'inizio forse?» ottima opzione!  Sui miei inizi avevo molto da raccontare!
«Bene, allora, devi sapere che non sono nato a Londra, e, anzi, sono qua relativamente da poco tempo!»
Fui interrotto poi da un curioso "Ah sì?", che mi diede tempo per riordinare i pensieri, e continuare.
«Sì, sono nato in campagna. È stata bella la mia infanzia. Non eravamo propriamente agiati; lasciami chiarire: non eravamo neppure sul lastrico, ma non navigavamo nella ricchezza. Crebbi in una grande casa, dove abitavo con i nonni ed una zia materna a cui tutt’ora sono molto legato, che fu quasi una seconda madre per me. La vita era semplice, essenziale, e traevo gioia da ogni piccolo sfizio: allora anche le cose più infime erano un lusso; non come ora…» mi persi un attimo, a rimembrare il passato (come spesso fanno gli anziani) e fu piacevole: sentii il calore d’un abbraccio materno avvolgermi, e mi lasciai cullare da questo, senza pensare al mio interlocutore. Subito però quando me ne accorsi, ripresi a parlare.
«Dicevo, la mia infanzia fu un periodo felice che si protrasse a lungo. Arrivarono poi, sulla soglia della mia adolescenza, i primi problemi: mio nonno morì, e Dio solo sa quanto soffrii. Non fu però una faccenda prettamente personale, anzi! Il lutto si ripercosse in tutta la famiglia, e con il lavoro dimezzato, arrivarono i primi grandi problemi economici.
Mio padre lavorava ed amava il suo lavoro, e per quanto sembrasse che le finanze che ne traeva non fossero abbastanza, bastarono per tirarci avanti ancora qualche anno. Ed ora arriva il momento in cui io arrivo qua, nella splendida Londra! Sì, perché da quando, ancora bambino, avevo detto che avrei fatto l’avvocato, i miei genitori avevano serbato queste parole come una promessa, ed appena finii la scuola dell’obbligo mi portarono qua, a studiare legge – notai sul volto del ragazzo una certa perplessità, come se qualcosa non quadrasse nel mio discorso, perciò non esitai ad investigare – Qualcosa ti turba, George?» faceva strano chiamarlo per nome, non era mai successo. Non fui l’unico a notarlo, però.
«Wow Capo, fa strano sentirla chiamarmi per nome, questo sì che mi turba...– ridacchiò nervosamente per la battuta scontata – In ogni caso, no: ero solo un po’ perplesso, ma non vorrei impic… – si corresse, roteando irritato gli occhi – invadere la sua privacy…»
Guardai il suo sguardo e ne colsi un lumino di sfida: sapeva benissimo che così dicendo m’incuriosiva solo di più!
«Oh no, tranquillo, dimmi pure»
«Beh, Capo, mi sorge spontaneo chiedermi come abbiano fatto ad ottenere abbastanza soldi per farle studiare legge alla facoltà di Londra… Insomma, non è propriamente economico, sa…»
Ma che diamine di domanda era!? La risposta era sin troppo scontata!
«Hanno utilizzato i risparmi che tenevano da sempre per lo scopo; non capisco la ragione di questo tuo dubbio!»
Colorì il suo volto con un’espressione di acceso interesse, ed aprì bocca come se fosse esperto nell’argomento: «Beh, Capo – esordì impettendosinon mi convince, in tutta sincerità, questa faccenda. Non che non mi fidi di lei o della sua famiglia, ma è piuttosto strano come, nonostante la povertà, abbiano tenuto da parte abbastanza soldi per iscriverla a quella facoltà… Insomma, immagino che il prezzo sia alquanto caro, perciò avrebbero potuto utilizzare quei soldi per risolvere i problemi economici che avevate, non crede anche lei, Capo?»
Ero fermo, e poiché lui non s’accorse d’avermi superato, dovette girarsi mostrando la bella siluette del suo profilo, mentre rendendosi conto dell’essere avanti si fermava a sua volta e serrava le labbra.
Quando tornai accanto a lui, vedendomi impensierito e serio, si sbrigò a precisare «Ripeto, non volevo offendere né lei né la sua famiglia, tutt’altro! Era sola curiosità, davvero…»
A quanto pare non aveva intenzione di cambiare idea! Ma cosa voleva intendere, con quelle parole? Forse che i soldi erano stati ottenuti in un modo diverso, rispetto a ciò che avevo sempre creduto? No, non era possibile! Quale altro modo poteva esserci?
Cambiare discorso, sarebbe stata la soluzione migliore.
«Ma senti, anzi, dimmi: è evidente che non ti piace il tuo lavoro; allora, cosa desidereresti fare? Qual è, in quanto a lavori, il tuo sogno più recondito? Anche il più strampalato ed impossibile, sai, va bene!»
Sul suo viso scomparve il dubbio, ed apparì un entusiasmo unico e speciale nel luccicare dei suoi occhi nocciola.
«No, non è che non mi piace, altroché! Ci sono anche Frank e Arthur, e gli altri, e poi sono ben pagato… Solo…solo che non è ciò che sogno di fare. Il mio sogno è comune e stupido, nulla di speciale eh, Capo! – esitò, quasi imbarazzato per quella sua fantasia – Io…io vorrei iscrivermi ad una scuola musicale ed imparare a suonare uno strumento, per poter fare il musicista…»
Il musicista? Certo che aveva molte passioni, il ragazzo! L’arte, la letteratura, ed ora anche la musica! Non l’avrei mai immaginato, nonostante il suo stile eccentrico, tipico degli artisti.
«E che strumento ti piacerebbe suonare?» era bellissimo vedere nei suoi occhi la gioia, di trattare un argomento a lui tanto a cuore, e l’enfasi che metteva nel parlare era la prova di tutte queste emozioni.
«Amo molti strumenti, in realtà. I miei preferiti sono i cordofoni, sì! Sto risparmiando, per quanto riesca, un po’ di soldi per prendere una bella chitarra!» gli piaceva parlare di argomenti a lui ben conosciuti e la cosa si notava: non appena avevamo iniziato a parlar di musica (cosa a lui molto cara, apparentemente) aveva completamente cambiato registro!
Avrei potuto dirgli del fatto che non era il solo che di musica ne sapeva, ma decisi di astenermi. Rimasi perciò silenzioso, ed ascoltai i suoi discorsi per quasi un’intera ora, mentre s’emozionava narrandomi i più svariati aneddoti.
Il sole alto in cielo era bello, e se non fosse stato per l’improvvisa carenza di gente nei dintorni, non mi sarei accorto del brontolare del mio stomaco: tra una chiacchiera e l’altra s’era fatta ora di pranzo.
Lo avrei forse dovuto salutare e tornare a casa mia? O avrei potuto invitarlo a mangiare qualcosa con me, per continuare la camminata ed la correlata conversazione?
In ogni caso, mi promisi di non parlare sinché non avesse finito: priorità al rispetto.
La fame però era a dir poco insopportabile! A breve, ero certo, pure lui avrebbe sentito i rantolii provenienti dalla mia pancia, e che brutta figura sarebbe stata?!
Così, esasperato, decisi che una breve interruzione sarebbe stata lecita: «Mi dispiace interromperti, dal momento che questa conversazione mi interessa moltissimo, ma s’è fatta ora di pranzo: ti va di mangiare qualcosa con me?»
Alla fine quindi avevo optato per il pranzo fuori, seppur relativamente inconscio…
«Certo, volentieri! Se vuole possiamo pranzare al bar: le faccio lo sconto, se promette che non lo dirà a nessuno» propose a sua volta.
No, avrei voluto pranzare in un luogo diverso, e non attesi un attimo per esplicitarlo.
Notai sul suo volto, mentre parlavo, comparire un'espressione seria, quasi di spavento, e dapprima non capii il perché.
Pensai, per un attimo, di chiedere, ma attesi sino a che non avesse detto qualcosa.
Formulai le ragione che potevano portarlo ad essere timoroso, eppure non ne vedevo alcuna!
«Ma dai, Capo: non accetta un mio favore? Mi dovrei forse offendere?» scherzò, tentando di dissuadermi.
Ed allora ipotizzai cosa lo infastidiva: non aveva forse i soldi per pagare un buon pranzo?
Era risaputo, in fondo, che gli stipendi dei camerieri non erano propriamente generosi, quindi la mia tesi era plausibile.
«Oh, ma il locale in cui ti vorrei portare appartiene ad un mio conoscente, con il quale sono in buoni rapporti, non ti preoccupare!» mentii: non avevo idea neppure di dove saremmo andati...
Ma continuai ad elogiare la gentilezza del fantomatico proprietario, il quale era tanto buono da offrirmi ogni volta il pasto gratuitamente, e che pasto! 
Così, dopo svariate realistiche fandonie, lo convinsi, e lui accettò.
Decisi che l'avrei portato in un buonissimo locale, di cui realmente conoscevo il direttore, ma che mai mi avrebbe offerto un pasto gratuito: gliel'avrei pagato io, il suo pranzo.
Lo avrei persino istigato a mangiare il più possibile, poiché era tanto magro che quasi scompariva! 

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Capitolo 7
*** Dolci contese al gusto di Red Velvet cake ***


Capitolo 7 
Dolci contese al gusto di Red Velvet cake


Arrivammo presto al locale, che si trovava non molto distante dal centro città; era un luogo isolato ed esclusivo, conosciuto da tutti per la buona fama della sua cucina tra i più grandi chef del mondo.
Ci andai la prima volta quando vinsi la mia prima causa, e festeggiai pagando una grande cena a tutta la mia famiglia, sperperando una buona parte dei guadagno appena ottenuto: ancora non m'interessavo alla mia personale economia, allora...
Ma poco importa, ai fini della trama di questa mia cronaca.
Quando si trovò accanto all’entrata della nostra meta, il volto di George s’accese di celato stupore che però strabordava da quei grandi occhi luminosi di bambino, i quali spesso avevano tradito le sue intente emozioni.
Le sue labbra erano tentate di dire qualcosa, e boccheggiava affascinato mentre entrando si scrutava attorno ammaliato.
Il luogo era poco affollato, e quei pochi clienti lasciavano chiaramente trasparire il loro status sociale.
Il ragazzo si perdeva, sognando forse di far parte di questo mondo, mentre un sorriso stupefatto gl’incurvava le labbra in un’espressione buffa.
E quando notò che lo fissavo, felice di vedere quella piccola gioia che gli avevo portato, cominciò a balbettare qualcosa, che presto avrebbe preso forma in un allegro: «Wow Capo, che posto! – si tolse quindi il cappello – Qua è tutto così elegante…Mi sento un po’ come un pesce fuor d’acqua, ha presente, no?» continuò, alludendo ai guanti rotti, che aveva portato accanto a sé e che osservava imbarazzato.
Subito nascose le mani in tasca, e roteò gli occhi, ammirando di nuovo ciò che lo circondava.
«Suvvia, in quanto a vestiario non sei così fuori luogo: camicia bianca e gilet nero sono un classico, non ne vedo problema. E se parli dei modi di fare, beh, almeno porti un po’ di brio in questo luogo così serioso!» solo dopo aver sussurrato queste parole, nel tentativo di non disturbare troppo la vecchia signora seduta accanto a noi, mi resi conto di quanto potevo esser stato smielato, sotto certi aspetti; ma auspicavo che lui avesse capito il mio intento reale.
«Quanta gentilezza, Capo! Se continua così andrà a finire che inizierò ad arrossire!» ridacchiò lui in tutta risposta, ma non completamente scherzoso: pareva quasi che stesse per imbarazzarsi davvero.
Quando un cameriere ci raggiunse per ordinare, non feci troppo caso a George: ero davvero affamato, e tutto ciò che desideravo era un bel piatto di *qualcosa tipico del locale*.
Una volta ordinato per me, però, notai il ragazzo in difficoltà, che guardava il foglio del menù indeciso e confuso, come se quei nomi così sfarzosi lo disorientassero, e decisi di tentare, ordinando un’altra porzione di *specialità del locale sopracitata* anche per lui.
Era in fondo una ricetta squisita, terribilmente sottovalutata dai visitatori poiché degli ingredienti poteva sembrare realmente semplice, e forse lo era! Ma il modo in cui era cotta e preparata era a dir poco speciale, e la rendeva, a parer mio, il miglior piatto del ristorante.
Non esitai a prender atto dell’azione appena compiuta, non appena il cameriere si allontanò: «Scusami, ti vedevo leggermente confuso, ed allora volevo aiutarti…spero di non averti causato qualche fastidio, se così fosse non c’è problema: puoi disdire l’ordine e prendere altro...»
Non mi badò particolarmente: i suoi occhi erano concentrati ad assaporare, almeno con lo sguardo, le calde pagnotte accanto a noi, ovvero il contorno.
«No no, la ringrazio, Capo; non avrei proprio saputo cosa prendere! Ma senta: posso assaggiare una di queste meraviglie, o per qualche regola dell’etichetta, o qualcosa del genere, è maleducazione?»
Era palese il grande desiderio che aveva di poter assaggiare quel pane, tantoché quasi l’acquolina gli colava dal bordo della bocca.
«Non mi pare che alcuna legge lo vieti, e di legge credo di saperne abbastanza» scherzai, poiché sapevo bene che non era propriamente educato ingozzarsi di pane prima del paso (si sa, in fondo, che rovina l’appetito!) ma vederlo lì, accanto a me, ammirare sognante quelle pagnottine fumanti dall’odore delizioso mi trattenne dal dire la verità: come si poteva dire di no a quel viso così innocente?
La sua longilineità poi non incoraggiava affatto una risposta sincera, dal momento che pareva non toccasse cibo da anni, quasi come un bambino denutrito di quelli che spesso si vedevano nelle periferie qualche anno prima, appena alla fine della guerra.
Non indugiò, appena sentita la mia risposta, e subito prese un bel pezzo di pane dalla cesta apposita.
Rimase un secondo a contemplarlo, mentre delicatamente lo teneva con quelle sue grandi mani quasi avesse paura di perdere anche solo un minuzzolo, poi lo addentò, e ne assaporò il sapore ad occhi chiusi.
Sbocconcellava a piccoli morsi, quasi avesse paura che finisse, e masticava davvero lentamente.
Gustava ogni briciola, o almeno ci provava: pareva che stesse mangiando il più buono dei cibi, eppure era solo misero pane!
«Wow Capo, è delizioso! – disse, una volta finita la fetta – Se non le dispiace io ne prenderei un’altra…»
E così prima ancora che io potessi rispondere, già iniziava a centellinare il pane.
«Certo, fai pure, basta che poi tu riesca a mangiare l’effettivo pasto» mi sentii molto come una madre premurosa, nel dire quelle parole: spesso mi erano state ripetute, durante la mia infanzia.
Alzò lo sguardo verso di me, mentre teneva la testa vicina al piatto per non sporcare il tavolo, e deglutì il prima possibile, per poi ricomporsi e tenere un forzatissimo fare serioso, almeno sino a che non fosse arrivato il pranzo. 
Era evidente quanto si sentisse fuori luogo, ma era ancora più evidente, e mille volte più divertente vedere come tentasse di adeguarsi ai modi dei signori e signore accanto a noi.
Una volta portatoci l’ordine, vidi gli occhi di George brillare come se fossero incastonati di mille pietre preziose, e notai le sue labbra sussurrare uno sbalordito “Wow”.
I piatti di porcellana bianca colmi di cibo vennero posati accanto a noi ed il sublime odore s’insinuò nel mio naso inebriando tutto ciò che avevo intorno: ero veramente affamato.
Non attesi, non dissi nulla, neppure un “buon pranzo” prima di addentare la forchettata bollente, ma il mio compagno non fu da meno.
Così silenziosi mangiammo, anche piuttosto rapidi, quella grande porzione di paradiso.
Avevo quasi finito, quando mi destai, e pensai bene di osservare il ragazzo che poco prima si era quasi emozionato per del semplice pane assaporare quella delizia. Non ne rimasi deluso.
Finì prima di me: lui già aveva terminato quando io ero appena a metà del pasto!
«Avevi fame, vero? Quant’era che non mangiavi?» azzardai ridendo, sperando di non sembrare offensivo in alcuna maniera.
«In realtà - esordì, deglutendo quell'ultimo pezzo di pane con cui aveva pulito il piatto (cosa che, oltretutto, non vedevo fare da estranei da quando avevo lasciato la campagna) - in realtà io mangio...».
Era divertente sentirlo dire da lui, mingherlino com'era. 
«Davvero? A vederti, in tutta sincerità, non si direbbe affatto» 
«Oh sì Capo, mangio eccome! In fondo lavoro in un bar, là di cibo ce n'è in abbondanza!» il suo argomento era logico, eppure stentavo  a credere che lui amasse mangiare.
Quel ragazzo alto, dai gomiti spigolosi e le lunghe gambe magre, le clavicole che spuntavano dal bordo del colletto sbottonato, quel ragazzo che di profilo pareva scomparire, non poteva amare il cibo. Era, per me, puramente illogico.
Sia chiaro: anche io ero piuttosto longilineo ed amavo assaporare i più svariati piatti, ma non ero così tanto magro...
«E allora dimmi, per quale ragione sei tanto magro?»  
«Beh, sa Capo, non ne ho proprio idea. Solo, sono fatto così, da sempre. Non c'è nessuna spiegazione che le possa dare a riguardo e anzi, forse lei mi potrebbe proprio dare una risposta! Perché sono così? Perché non prendo peso, nonostante tutto ciò che mangio?»
Era bravo a rivoltare i discorsi, trasformando una risposta in una domanda, neppure troppo semplice, per giunta! 
Sapevo ben poco riguardo al cibo, ed ancora meno riguardo alla medicina: le poche conoscenze che possedevo erano dovute ai dotti discorsi dei miei amici medici, che qualche rara volta mi era capitato, per anomalia, di seguire quasi interessato.
«Penso riguardi il tuo metabolismo, credo sia piuttosto rapido, forse anche troppo, ma non è questo il mio campo di studio: di medicina so davvero poco»
«Oh, capisco, Capo…» era chiaro che non avesse capito una singola parola di quella mia affermazione, ma per educazione feci finta di niente.
«Vuoi anche un dessert? Un dolce…un pezzo di torta, ad esempio! O una coppa gelato, per quanto fuori non sia propriamente caldo… - presi tra le mani il menù (sottratto segretamente ad un tavolo vicino) e iniziai a guardare le varie proposte – ecco sì, la Red Velvet cake è molto gradevole, io penso che prenderò questa. Tu vuoi qualcosa?»
Gli passai perciò il foglio con le pietanze, e tornai a tacere.
«Grazie, Capo. Io, uhm…io penso… sì, penso proprio che prenderò una zuppa inglese, per essere certo di mangiarla».
Chiamai con un gesto un cameriere di passaggio vicino a noi, e ordinai.
Portò poi via i piatti vuoti, e se ne andò senza proferire parola.
«Abitudinario, non è così?» dissi, a basso tono e con un un mezzo sorriso in volto, non sapendo bene come spezzare quel silenzio.
Non notò subito il mio richiamo: il suo sguardo era perso, forse tra gli scintillanti lustrini che adornavano le donne tutt’attorno a noi, forse tra i lisci tessuti scuri degli abiti dei gentleman, forse tra la bellissima architettura, o forse invece ammirava il grande gusto con cui era arredato quel luogo.
Memore della mia passata figuraccia pensai ironicamente di imitare il suo gesto, e così approssimai la mano al suo viso, pronto a schioccare in vendetta le dita, ma non riuscii.
Prima che io riuscissi però lui si voltò, e io mi ritrassi come un paguro nel guscio quando ci si avvicina, sperando che non avesse notato nulla. 
«Diceva, Capo?» no, non aveva fatto caso a quel mio piccolo momento di stupidità, per fortuna.
«Nulla di importante, solo una piccola osservazione…» mi fissò, tenendo il capo basso e gli occhi rivolti verso di me, quasi domandando quale fosse quest’osservazione.
«Citando letteralmente le mie parole, ho detto: “abitudinario, non è così?”. Nulla di importante, di nuovo» ero piuttosto imbarazzato per quella situazione: perché non avevo taciuto?
Mantenni nonostante tutto un contegno, e alzai gli occhi verso di lui ancora una volta.
«Non sono proprio abitudinario, Capo…solo che evito di provare cose nuove, se queste potrebbero, non piacendomi, creare fastidio a qualcun altro. Ad esempio, se avessi preso ciò che ha preso lei, e questo non mi fosse piaciuto avrei avanzato, e che figura di sasso accanto al proprietario che è così gentile da offrirci questo ben di Dio! Capisce, Capo?»
C'era una logica in quel discorso, in fin dei conti, nonostante avesse come fondamenta una menzogna. 
«Sì certo, capisco. Però se avessi preso la Red Velvet cake e l'avessi avanzata stai certo che non sarebbe andata sprecata: l'avrei mangiata volentieri io, stanne certo!» non sapevo bene cosa dire, ed ero cosciente della mia incapacità di sostenere una bugia a lungo, perciò avevo optato per una sciocchezza che non riguardasse in alcun modo l'immaginario proprietario.
Certo, non avevo fatto trasparire la verità, ma tra mille argomenti possibili avevo scelto proprio il più insulso!
«In ogni caso, se vuoi, posso dartene un pezzo: è davvero squisita» continuai senza troppe esitazioni, per sopperire a quel silenzio che si sarebbe potuto creare.
«Oh no Capo, non voglio mica rubarle il dolce: sarebbe da maleducati!» 
Mentre terminava quella frase, notai all’orizzonte una bella fetta di Red Velvet, affiancata da della crema inglese e seguita dalle spalle ritte di un cameriere che camminava a testa alta.
Così non ribadii subito, ma attesi di aver l’ordine accanto a me per poter rispondere con un gesto quasi insolente: non appena mi si posò accanto quella delizia ne tagliai un pezzo, e glielo misi (senza troppo interesse nelle sue contestazioni) sul piattò.
«Capo, no! Davvero, non serve! È stato fin troppo gentile, Capo…davvero, glielo chiedo per favore, riprenda quel pezzo di torta, la prego!» oh santo iddio, cosa lo infastidiva tanto?! Insomma, era un favore, un grazie lo avrei accettato più volentieri, questo era certo!
«Vedilo come una richiesta: voglio un tuo giudizio su questo dolce. Forse figurando questo così, la smetterai di lamentarti» risposi, alzando le sopracciglia con fare scocciato, mentre in contrapposizione la mia voce era quanto più amichevole e giocosa fossi riuscito ad ottenere.
Il ragazzo mi guardò un attimo, e poi spostò gli occhi sulla torta, ripetendo quella transizione un paio di volte.
Infine, dopo un’apparentemente accurato ragionamento, acconsentì: «Va bene, okay, ha vinto lei, se proprio insiste…»
Mi scappò una risatina divertita, ed iniziai a mangiare il dessert strenuamente conteso.
George mangiò dapprima ciò che era realmente la sua ordinazione, ed una volta finito (con una rapidità incredibile, oltretutto) rimase esitante a scrutare quel pezzo di dolce che gli rimaneva sul piatto, serio.
Infine si lasciò cadere pesantemente sullo schienale, mentre posava un avanbraccio sullo stomaco.
«La prenda lei Capo, io sono realmente sazio»
Finii anche io, ed allora raddrizzai la schiena mentre mi pulivo la bocca.
Poi lo imitai, e con fare caricaturale mi gettai sgraziato indietro, lasciandomi sorreggere dallo schienale.
«Anche io sono pieno: come si fa?» lo guardai, inarcando un sopracciglio con aria di sfida.
«Mi dispiace dirlo, ma temo che questo piccolo pezzo di delizia resterà qua… non trova che sia un peccato, Capo?» ribatté a tono, mentre si raddrizzava e protendeva verso di me.
Non aveva intenzione di perdere, era chiaro. Ma mi dispiacque per lui: io, Edward Boyd Hall, non perdevo.
«Esatto: è proprio un misfatto!»
Ci fu poi silenzio, e la docile tensione che si era creata si sciolse in una gustosa risata: in ogni caso, non si era stabilito chi avrebbe mangiato quell’ultimo pezzo di Red Velvet. Ma in cuor mio sapevo che non sarei stato io!
«Non pensi sia maleducato lasciare questo misero resto? Eppure io già ne ho mangiata molte volte… E non sai cosa perdi! È davvero buona, sai?» non lo avrei mollato sino a che non avessi visto quel cibo entrargli in bocca. 
«Però Capo, se è così tanto buona, voglio lasciarlo a lei questo pezzetto! Suvvia, prenda!» avvicinò a me il piatto, mentre con la piccola forchetta argentata spingeva leggermente la torta.
Prontamente respinsi l’invito, facendo tornare quel piatto dov’era prima.
«Certo, ma io questa torta l’ho già mangiata e posso mangiarla quando voglio: ti conviene cogliere quest’ occasione, perché potrebbe non accadere più che io ti offra qualcosa con tanta affabilità!»
La conversazione era chiusa. Avevo vinto io.
George roteò lo sguardo ed incrociò le braccia al petto, mente io lo fissavo divertito: il sapore di quella piccola vincita era persino più dolce della torta!
Rassegnato racimolò dal piatto ogni briciola del dolce e sollevò la posata colma verso il suo viso, ed io seguivo attento ogni mossa.
S’interruppe subito prima di aprir bocca, ed allontanò di poco la forchetta dal viso.
«Mi dice come fa ad averla sempre vita? Ottiene sempre lei l’ultima parola, Capo!» chiese con una certa sincerità ed ingenuità quasi adorabile.
«Sono avvocato per una ragione, non pensi? È il mio lavoro» risposi sbrigativo mentre lasciavo a lui solo un piccolo “Ah” appena sussurrato, e lo guardai gustare quella squisita perdita.
Quando iniziò a testare il sapore del dolce era chiaro che gli piacesse, ed anche un bel po’!
Stette fermo persino dopo aver deglutito: impassibile.
Quando riaprì gli occhi non disse nulla, e parve non avere l’intenzione di voler dichiarare qualcosa.
Lo dovetti infatti spingere io a lasciare un commento, con un disinvolto «Allora…?», piuttosto informale.
«Cosa le devo dire, Capo? Non si è capito che mi è piaciuto?» ridacchiò lui, che d’un tratto era diventato silenzioso.
«Sì certo, lo hai lasciato intendere, ma ora voglio sentiti dire che ho fatto bene a spronarti ad assaggiarla. Non ce ne andiamo di qua sinché tu non lo ammetterai» proclamai, mentre avvicinavo l’orecchio a lui per sentire cosa dicesse.
La sua calda voce bassa e pacata era difficile da udire persino quando parlava conciso, è perciò inutile dire che i farfuglii erano semplicemente incomprensibili.
Ne estrapolai un, a modo suo, chiaro «Sì, lo ammetto» ma non mi bastò, e lo esortai ad alzare leggermente il tono di voce poiché “non potevo udirlo e comprenderlo”.
Senza troppe esitazioni ripeté ciò che aveva detto, aggiungendone un «E so bene che è ciò che vuole sentirsi dire, per cui la accontento: sì, Capo, sono stato sciocco a rifiutare all’inizio, ma le dirò che avevo una ragione per farlo».
Non era troppo serio dicendo ciò, così preso dal momento mi limitai ad un ironico «Ah sì?».
Mi rendevo sempre più conto di quanto il mio modo di parlare fosse influenzato da quel gergo così sbarazzino ed confidenziale, che mentre su di lui calzava perfettamente, su di me pareva una forzatura fuori luogo.
«Sì: temevo che mi sarebbe piaciuto così tanto da ordinarne un’altra fetta. E diciamocelo: non è proprio educato sfruttare così una persona solo perché questa ti offre tutto! Fortunatamente sono davvero sazio, quindi nonostante tutto non chiederò né un’altra fetta di Red Velvet, né altro» disse con fare solenne.
Non capii se fosse una bugia creata al momento (come poi prima era stato il proprietario, in fin dei conti) o se fosse sincero, in ogni caso mi limitai ad annuire e chiedere il permesso di andare in bagno un secondo.
In tutta risposta ottenni un’alzata di spalle ed un «Certo», così andai.
Inutile dire che la mia meta non era il bagno, bensì la cassa: dovevo pagare il conto, logicamente!
Non fu troppo difficile trovare qualche impiegato disposto a registrare l’incasso, ma decisi di puntare anche ad un altro obiettivo: parlare (di fronte a George, ovviamente) con il proprietario.
Lo conoscevo, in fin dei conti, perciò non sarebbe dovuto essere troppo complicato.
Lo conoscevo, in fin dei conti, perciò non sarebbe dovuto essere troppo complicato, decretai.
E infatti, inventando fandonie che tenessero in piedi un discorso sensato per invitare il proprietario al tavolo senza dire mai quale fosse la verità, ce la feci.
Dopo 2 minuti tornai al mio posto, cosciente che a breve sarebbe arrivato il grassoccio chef che avevo difeso tempo prima in una causa, che ovviamente avevo vinto. 
Ed ecco, dopo neanche un minuto dal mio ritorno, che si materializzava accanto a noi, mentre con una risata gagliarda mi salutava.
«Signor Hall! La vedo cresciuto, sa? – scherzò, per quanto la cosa non mi divertisse particolarmente: ero giovane, sì, ma non così tanto! – Come sta? Vedo che c’è qualcuno qui con lei, chi è?».
«Signor Wright! Quanto tempo, non è così? Io sto bene, e lei? Oh, questo è Jackson, George Jackson, un amico».
Per tutto il tempo George era stato zitto, e un lieve rossore comparve sul suo viso quando lo definii mio amico. 
Si rese conto che probabilmente era il caso di presentarsi, ed allora discantandosi, tentando di apparire quanto più serioso potesse, si presentò.
Tese la mano verso il signor Wright, e dopo un’incerta stretta di mano (in cui le grassocce dita del più vecchio parevano salsicce, in confronto alle lunghe dita di Jackson, che potevano esser paragonate agli steli dei fiori in quanto a grazia e misure) decise di non esser troppo professionale, perciò scherzoso mi corresse: «George Lewis Jackson III, per la precisione! Piacere, è stato davvero gentile!».
Qualcosa era andato storto.
Non avevo minimamente calcolato la possibilità che George ringraziasse il proprietario per “l’offerta del pranzo”, e tutto ciò che desiderai in quel momento fu che George non scendesse nei dettagli con quei suoi ringraziamenti.
Se fosse rimasto vago si sarebbe potuto fraintendere, sperai: in fondo avrebbe potuto ringraziare per la bontà delle pietanze, non è forse così?
Pregai vivamente che quella conversazione non continuasse, ma fui punito.
«Per cosa ringrazi? – domandò dapprima, velocemente, lasciando quasi perdere quel frammento nel fluire delle parole che seguirono – Ma, in ogni caso, cosa hai ordinato di buono? Oh, che sbadato! Posso darle del tu?».
Eppure George non lasciò sfuggire quelle tre piccole, terribili, parole.
Così confuso chiese: «In che senso, per cosa ringrazio? Comunque sì, certo che può darmi del tu!»
Uno sguardo perplesso si colorì sul volto dello chef, che si limitò a cercare il mio sguardo.
Ma tutto ciò che ottenne furono due occhi imploranti di cessar lì la conversazione, mentre tutto ciò che facevo era sognare di scomparire per magia. Avrei voluto sotterrarmi.
Quando poi era pronto a domandare la temuta domanda, per volere superiore ed una fortuna smodata, arrivo un richiamo dalla cucina che lo costrinse a congedarsi. Era salvo.
«Beh, è giunto il momento di salutarci – disse mr Wright, mentre già si preparava ad andare – è stato un piacere conoscerla, signorino Jackson».
Non feci a meno di lasciarmi scappare un risolino soffocato: quel signorino era a dir poco esilarante, dato che ero certo George avesse all’incirca la mia stessa età!
George strinse energicamente la mano del proprietario, e lo salutò quasi fossero amici di vecchia data.
L’uomo poi si girò verso di me, e subito mi alzai.
«Ah, Edward, è proprio simpatico questo tuo amico! Altro che questi qua – roteò gli occhi, lasciando intendere tutti i presenti – che non ridono mai: pare che non sappiano proprio cosa sia, l’umorismo! Ora vi devo salutare però…tornate quando volete!» si allontanò, ed allora sospirai sollevato.
Approfittai dell’essere in piedi per invitare George a seguirmi, ed andare.
Quando raggiungemmo la porta poi sentimmo dei passi goffi che correvano verso di noi, e di nuovo ci raggiungeva, fuggendo da un noioso cliente, il signor Wright.
«Ragazzi! Non vi ho potuto salutare a modo prima, e poi rischiavo di addormentarmi se stavo ancora un po’ vicino a quel signorotto d’alto borgo e a quella che più che sua moglie pareva sua figlia! Ah, fatevi abbracciare! Non siamo riusciti neppure a parlare, e non ci riusciremo neanche ora purtroppo: allora, se per voi va bene, magari potreste tornare, e questa volta offre la casa!».
Avevo cantato vittoria troppo presto.
«Sei sempre troppo gentile Arthur, ogni volta la stessa storia! Grazie ancora, ma adesso va’, che non voglio mica farti finire nei guai per aver trascurato qualche cliente troppo suscettibile!» lo spinsi così indietro, e frettoloso uscii, restando zitto.
George, fortunatamente, non fu da meno, e rimase complice stando taciturno: lo avrei voluto ringraziare, ma mi trattenni.
Son seppi mai se fosse cosciente di tutto, se avesse intuito parte dell’accaduto o se semplicemente lo ignorasse, e decisi che era meglio non approfondire.

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Capitolo 8
*** Scaffali di dischi e copertine floreali ***


Capitolo 8

Scaffali di dischi e copertine floreali

 
 
Dopo un po’ che vagavamo senza tappa decisi di spezzare il silenzio che si stava facendo imbarazzante, e domandai dove si sarebbe potuto andare.
«Beh, Capo, ci sono tanto posti! Vorrei farle vedere quello che considero il mio rifu… - si bloccò, e cambiò in fretta argomento, per un motivo pressoché ignoto – le va di andare al negozio di dischi? Sa, ho acquistato un giradischi ma non ho nulla da far suonare, quindi avevo giusto preso i soldi per un bel disco, per lei va bene?»
Ero indifferente, in tutta sincerità, probabilmente reduce dell’imbarazzo e terrore infinito che avevo sperimentato poco prima, perciò colorii la mia risposta con un po’ di entusiasmo fasullo, che però non guastava.
«Oh, Certo! Volentieri» sorrisi.
Quando ci voltammo in direzione del negozio, George estrasse un cappello, che fino ad allora era stato accartocciato in una tasca della giacca.
Era di lana, seppur sottile, ed aveva la tipica forma dei copricapi dei "ragazzi dei giornali"; era, pensai, probabilmente reduce di un vecchio impiego.
Il tragitto verso il negozio non fu lungo, dal momento che questo era vicino al centro della città (nonché dove ci trovavamo noi), così non ci fu alcuna conversazione nel mentre, a causa anche dell’imbarazzo che si era prodotto. Arrivati mi ricordai di quando, ancora bambino, ero andato in quel luogo con papà, poiché lui aveva trovato lavoro per riparare grammofoni. Lì avevo scoperto il pianoforte, e da allora avevo avuto questo sogno: imparare a suonare; così, una volta ottenuti abbastanza soldi per permettermi un pianoforte a corda (era stato davvero molto difficile, dato che nei primi tempi, durante la guerra, la burocrazia era impiegata ad altro e non s’interessava ai piccoli crimini sui quali potevo lavorare io, appena laureato… Ma, una volta finita la guerra, tutti questi crimini erano saliti alla luce e così io avevo ottenuto non solo ricchezze, ma anche successo! Mi persi ancora una volta a pensare, ed allora cominciai a girare per il negozio cogliendo ogni dettaglio che potevo ricordare. La stanza era poco illuminata, e tutta la luce, che s’infrangeva tra gli scaffali creando mille ombre diverse, arrivava dalle grandi finestre in parte nascoste dalle mensole colme di dischi d’ogni genere. In fondo c’era un piccolo angolo dove un grammofono ben lucidato suonava musica allegra, che si diffondeva per tutto il negozio, e lì accanto l’anziano venditore stava fermo ad attendere qualche cliente godendosi le melodie da lui scelte.
George era rimasto all’entrata, e con lo sguardo luccicante come quello di un cucciolo al ritorno del padrone ammirava quei vinili impolverati. Quando capii che era il caso d’interrompere il flusso di pensieri fuori luogo e mi resi conto di aver lasciato indietro il mio compagno, lo raggiunsi chiedendogli quale genere piacesse a lui, giusto per sapere cosa cercare. «Beh Capo, non saprei! A me piace tutta la musica: la musica classica, il jazz, ma anche la musica da cabaret…» si fermò, pensando ad altri generi da aggiungere all’elenco, ma una volta resosi conto che non riusciva a settare altri esempi decise di continuare. Scosse quindi un po’ il capo, facendo ondeggiare i capelli mossi delicatamente, e riprese «Sì, non ho un genere preferito, ma non sono venuto qua a caso: qualche tempo fa entrai, alla ricerca di un economico grammofono da acquistare, ed in quel momento stava suonando un bellissimo disco la cui musica era solo di chitarra. Ecco, io ho messo da parte i soldi per prendere quel disco! Solo che non so il nome…»
«Riesci perlomeno a ricordarne l’artista?» lo interrogai speranzoso.
Il ragazzo si volse verso gli alti scaffali colmi di dischi, e dopo averli osservati scenicamente, abbassò lo sguardo fissando il nulla concentrato.
Dopo poco si destò, e voltandosi verso di me dichiarò non riuscire a ricordare il nome, nonostante fosse certo di averlo sentito.
Iniziammo quindi la ricerca: era stato accordato che io avrei, dal momento che non potevo sapere quale fosse il fatidico disco, estratto dagli scaffali tutti i vinili contenenti musica integralmente di chitarra, e dopo averli divisi George li avrebbe controllati tentando di discernere tra tutti il ricercato.
Terminammo in fretta la ricerca nello scaffale dei dischi nuovi, poiché questo era piuttosto sfornito, ed allora privi di risultati ci spostammo ad analizzare lo scaffale dei vinili veterani, tutti quei dischi che da tempo immemore attendevano d’essere acquistati.
Non appena mi trovai accanto a quelle copertine ingiallite dal sole pallido che penetrava dalle tende socchiuse capii che sarebbe stato consigliato cominciare un dialogo: sarebbe stato un lungo processo.
Il mobile di legno che reggeva il peso di tutti quei 33 giri era diviso in quattro ripiani, ed era il più grande di tutto il negozio; i dischi erano posati disordinatamente in ogni dove, e straripavano come l’acqua dagli argini di un fiume in piena.
Mi rimboccai le maniche, e prima di iniziare esordii: «Se ne avrà per molto, a quanto pare».
Tutto ciò che ottenni in risposta fu però una disinteressata scrollata di spalle, seguita da un incerto cenno con il capo ed un sussurrato «Già…», tanto era concentrato nella sua analisi di quei titoli.
Esitai un secondo, forse ancora inconsciamente speranzoso di ricevere una risposta più esaustiva ed entusiasta, ma sconsolato tornai ad esaminare i vinili che mi trovavo accanto.
Tuttavia trovai consolazione nella musica che riscaldava quel luogo solitario con il suo ritmo allegro e vitale.
Stavo infatti terminando la ricerca nel primo scaffale, quando s’insinuò nel mio orecchio la nota d’una melodia da me ben conosciuta: l’Habanera.
Adoravo la Carmen: quell’opera era stata colonna sonora di tante esperienze nella mia infanzia da essere ridefinita come più vivido ricordo musicale di essa.
Ed in particolare quel brano, così allegro e bello, fu il primo che imparai al pianoforte.
Ricordai tutto il tempo che avevo speso cercando di imparare- munito solo di tanta voglia di fare, qualche spartito recuperato da vecchi libri di amici ed un grande coraggio- a suonare quello strumento tanto affascinante quanto complesso che è il pianoforte, e così quasi involontariamente mi fermai, ed iniziai a canticchiare le note sotto voce.
Con le dita intanto, per un impulso istintivo, ricreai i movimenti che avrei fatto se mi fossi trovato accanto i tasti bianchi e neri da me ben conosciuti.
Quando poi mi resi conto di quanto potevo parere sciocco, nel fare ciò che stavo facendo, mi limitai ad una piccola risata per pura autoironia, ed al tornare a lavorare.
George però notò il mio risolino, ed allora distruggendo l’enorme concentrazione in cui s’era rivestito, mi fissò con un’espressione in cui confusione e serietà conciliavano meravigliosamente, nei suoi grandi occhi scuri.
«Che succede, Capo?» la sua voce bassa vibrò, e pareva che quasi avesse paura di disturbare qualcuno: ma chi, se eravamo i soli- eccezione ovviamente fatta per il negoziante- in quel luogo?
Apparì un sorriso sul mio volto, per qualche allora ignota ragione, e risposi quasi con imbarazzo.
«Oh, senti la musica? Ecco, questo brano è stato il primo che ho imparato al pianoforte, e pensa che mi è così familiare che persino, involontariamente, la suono!»
Dal momento che George, dopo aver sillabato un misero "Ah" era rimasto immobile ad osservarmi, perso probabilmente a sognare o pensare - proprio come spesso avevo fatto io- decisi di non badare a quell'altro unico presente che era il vecchio venditore, troppo impegnato a dormire su una sedia accanto al grammofono per poterci vedere, ed allora mi misi a ballare, stringendo a me un'invisibile dama.
Lo sguardo del ragazzo si levò, riscossosi da quello stato sognante, verso di me, ed ancora una volta mi squadrò confuso.
Imperterrito continuai nelle mie danze, anche quando l’espressione dapprima confusa che avevo accanto si colorò di divertimento, sino a sfociare in una soffocata risata.
«Capo…cosa diavolo sta facendo?!» la voce si ruppe in una singola risata scandita, candida e cristallina come quella di un bambino.
Sorrisi anch’io, contagiato forse da quel sorriso luminoso, o probabilmente contento dell’essere riuscito a portare un po’ di gioia in quella stanza diventata fin troppo triste, o perlomeno troppo triste per quello che era il mio parere.
«Non si vede? Sto danzando! Adoro questa musica, inoltre qua non c’è nessuno, perciò…perciò non vedo alcun problema! Vuoi unirti a me?» seguitai a ballare con fare scenico, facendo roteare tra le mie braccia quella compagna immateriale che gentilmente m’aveva offerto l’onore d’una danza insieme.
George mi fissava ancora, e il suo viso ancora divertito tornò un frammento di confusione.
Teneva la bocca socchiusa in un accenno di sorriso e gli occhi, ben aperti e scherzosi, roteavano assieme a me tra gli scaffali.
«No grazie, Capo: non che non abbia voglia, sia ben chiaro! Solo che ho paura di far cadere qualcosa…sa, non sono molto aggraziato io…» spostò lo sguardo verso se stesso, osservando con sufficienza il suo fisico allampanato, e poi tornò a posare gli occhi su di me, che cosciente dell’imminente fine del brano avevo frenato l’ardore nel mio ballare.
«Non vedo alcuna complicazione in ciò: neppure io sono un ballerino! Però un problema c’è, dal momento che la musica è prossima a finire…»
Mi fermai allora proprio come il disco, che era giunto al termine, e conclusi con una piccola riverenza.
Il ragazzo che m’era stato spettatore applaudì giocoso, e poi il silenzio colmò la stanza.
Un piccolo brivido mi corse lungo la colonna vertebrale, velocissimo, e raggelò il mio intero sistema nervoso.
Sentii dell’imbarazzo crescere e, nonostante sapessi quant’era consigliabile correre ai ripari da questo, rimasi immobile e zitto.
«Mh Capo, venga un po’ qua» George si scrutò attorno guardingo, e mi fece cenno con la mano di avvicinarmi.
Mi limitai ad obbedire muto, ed accostandomi al bordo della sedia su cui il ragazzo aveva comodamente preso posto durante la ricerca del disco lo osservai muto.
«Allora: dato che mi pare che qui al proprietario importi ben poco - attaccò, guardando verso il soggetto interessato un attimo, per poi ricongiungere il suo sguardo al mio - che ne dice, con la massima discrezione ovviamente, se mettiamo al grammofono uno di questi vecchi vinili che sono qua?»
Indicò la pila di dischi che si era formata accanto a lui, e squadrai le copertine di cartone dipinto, impolverate e sgualcite che giacevano sul parquet vecchio e sporco.
«Perché no? Va bene; prendiamo uno di questi?» risposi tendendo le braccia verso i vinili accanto a me.
«Non so...io pensavo di mettere qualcosa di jazz, però come va meglio a lei, Capo!»
Ritrassi subito le mani dal disco che già avevo agguantato, e mi raddrizzai.
«Va benissimo!» George si voltò, dirigendosi verso un vinile che pareva aver già notato precedentemente, e senza troppe esitazioni lo estrasse dal fitto scaffale.
Soffiò sopra alla copertina facendo volare il sottile manto di polvere che la ricopriva, e il pulviscolo che roteava nell’aria s’intravedeva nella luce debole che entrava dalla finestra.
Mi ravvicinai alla mensola dove avevo prima interrotto la mia ricerca, e osservai la figura del ragazzo sparire dal mio campo visivo, mentre si dirigeva quanto più prudentemente potesse al grammofono dietro di me.
Nonostante non lo vedessi riuscii a figurare ogni mossa: sentivo distintamente i passi scricchiolare sul suolo, poi la puntina che veniva accuratamente alzata, poi il disco che si posava sul piatto apposito…
E poi, per finire, la musica riprese a suonare allegra.
Nonostante tutto però decidemmo di continuare la ricerca, dato che era chiaro si sarebbe protesa ancora un po’, così tornammo a svolgere le nostre mansioni concentrati.
S’era sì ristabilita la taciturnità che prima mi aveva infastidito, ma ora il mio cuore era più sereno, poiché cosciente che non c’era alcun imbarazzo da temere.
Tranquillo continuai a lavorare, sino a che non sentii un movimento dietro le mie spalle.
Seguitò quindi un allegro urletto che decantava vittoria, emozionato, e poi di nuovo il cigolare di scarpe che avevo conosciuto prima.
Una mano fredda collise con la mia spalla, e sentii la tensione raggrumarsi in quel punto, come se tutta la mia sensibilità nervosa fosse racchiusa in quel palmo gelido.
Un colpetto mi richiamò all’attenzione, e mi girai prontamente: George, immobile accanto a me, sfoggiava un enorme sorriso, mentre stringeva tra le mani un vecchio 33 giri la cui copertina avrei giurato essere persino più scolorita delle altre.
Il cartone era decorato con disegni floreali dai colori pastello, e in caratteri dal colore vivace – rosso o arancione, se non ricordo male – illustravano il titolo della traccia che il disco portava: Acquazzone del Nord.
«È questo? Era questo il disco che cercavi?» domandai altrettanto contento.
Lui tutto gagliardo si dipinse un sorriso enorme in viso, e con voce -a suo modo- acuta ed enorme enfasi, rispose: «Sì, proprio lui, Capo!»
Era finita quella ricerca, finalmente.
Proposi di dirigerci presso la cassa cosicché, pagando, avremmo ufficialmente dato pegno d’aver terminato quella –se così la si può definire- avventura d’un pomeriggio.
«Pago io» esordii non appena ci trovammo accanto al bottegaio.
George distolse veloce lo sguardo dal disco, e questo si fece confuso.
Non realizzò all’istante l’accaduto, ma quando comprese che mi ero appena offerto di regalargli il vinile, prontamente si oppose alla mia affermazione, eppure quella non era una proposta, bensì un’imposizione!
Avevo infatti già estratto dalla tasca nella giacca il portafoglio, e con mano veloce mi cingevo ad estrarre il danaro dovuto.
«Mi oppongo: il disco lo pago io, Capo» attaccò quindi, per poi continuare a farneticare sul fatto che non dovessi fargli questo favore e simili.
Ma già, nel mentre del suo parlare, avevo pagato e senza dire parola gli porsi lo scontrino, e così smise di parlare e si chiuse in un’espressione seria.
«Grazie…» disse, mentre parodiava questo suo fastidio stringendo le braccia al petto come un bambino, ed enfatizzando l’espressione con un broncio infantile.
 
Uscimmo trionfanti dal negozio e George stringeva a se quel disco come un piccolo tesoro, tenendolo con una cura indescrivibile.
Eravamo stati dentro abbastanza e, sebbene avessi perso la concezione del tempo, me ne accorsi a causa dell’imbrunire che aumentava con un’incredibile velocità.
Respirai quell’aria pura, con gesto teatrale me ne riempii i polmoni: l’odore della carta misto al particolare profumo del vinile, ed il tutto condito con un forte caldo e puzzo di chiuso, mi avevano quasi nauseato.
Mentre sulla soglia della bottega io mi sistemavo la giacca, con la coda dell’occhio osservai il ragazzo accanto a me che immobile ammirava la copertina, scrutandone ogni millimetro ed assaporando ogni dettaglio.
Distolse poi lo sguardo dal disco per posarlo su di me, e goffamente tentò di ringraziarmi «Grazie Capo…ehm…grazie davvero, proprio non doveva!»
Stavo riallacciando concentrato i gemelli della camicia, ma potei sentire i suoi occhi fissi su di me, aspettanti una risposta, così sorrisi e mi ricomposi.
«Figurati! Però lo voglio ascoltare anche io, a questo punto. Come fare?»
Notai in quel momento quanto il stessi cambiando, solo per aver passato un po’ di tempo con George: il mio parlato nel giro di due giorni era mutato in maniera incredibile!
«Oh, certo Capo, non c’è problema, ho un giradischi per una ragione, non crede?» ribatté, mentre ci incamminavamo coscienti che saremmo dovuti andare nelle rispettive case.
L’imbrunire cresceva, e le luci iniziavano ad accendersi tutt’intorno, mentre le strade si sfollavano.
Non avevo idea di che ora fosse, ma neppure mi interessava in quel momento: si stava così bene, mentre l’aria fresca segnava l’avvicinarsi della primavera!
Mi scrutai un attimo attorno e notai che quel posto m’era familiare: era lì che, qualche giorno prima, ci eravamo salutare per imboccare strade diverse…
Decisi di non dare considerazione alla cosa: in fin dei conti non avevo alcun impegno, e quanto distante poteva abitare, dal momento che ogni giorno faceva la strada a piedi (per quanto ne sapessi, almeno)?
 
Mentre camminavamo e dialogavamo riguardo ad ogni cosa il tempo scorreva imperterrito, e la sera incombeva implacabilmente.
Tanto era fitta la conversazione che neppure mi resi conto di quanta strada avessi percorso, e mi destai solamente quando George sì fermò.
S’era fatto certamente tardi, ma essendo stranamente sprovvisto d’un orologio da taschino, non seppi con certezza dire che ore fossero.
Mi squadrai attorno e non capii dove mi trovassi: tutto ciò che notai fu un quartiere uguale a mille altri, composto di case rovinate e strade sporche; uno di quei quartieri che mai avevo visitato sino ad allora. Non che fossi classista o altro, sia chiaro! Semplicemente non avevo mai avuto occasione o motivo di visitare luoghi come quello.
George s’accingeva a salire i pochi gradini che lo dividevano dal malmesso portoncino d’ingresso (che dava accesso ad un corridoio – potei constatare – sul quale si affacciavano varie porte di corridoi ed una rampa di scale) e subito prima di infilare le chiavi nella serratura tenendo in equilibrio sotto il braccio il disco, si voltò verso di me.
«Uhm…- esitò, probabilmente riflettendo su cosa dire- vuole…vuole entrare Capo? La avviso però che la stanza è piuttosto disordinata e malconcia…non vorrei sembrare scortese…»
Notai nel sguardo un certo imbarazzo, simile a quello che vidi le prime volte che parlammo al bar, così capii che declinare la proposta era la cosa giusta da fare.
«No, grazie mille in ogni caso: è piuttosto tardi, farei meglio a rincasare e preparare la cena» risposi sorridendo disinvoltamente.
«Oh, okay…» m’apprestai a dirigermi verso casa ma notai che il ragazzo era ancora immobile, pensieroso accanto alla porta.
Tentando d’essere il meno invasivo possibile domandai se ci fosse qualcosa che non andava, e solo allora lo sguardo di George incrociò il mio, e con un sorriso convinto, chiese: «Senta Capo, le va se domani andiamo in un posto che conosco io, ed ascoltiamo questo vinile? Sempre che non abbia da fare, ovviamente! »
Nella sua voce sentii tornare la spigliatezza che m’era tanto piaciuta la prima volta che avevamo conversato.
«Certamente! A che ora dovremo incontrarci e dove?»
«Mh…davanti al bar dopo pranzo? Tipo sulle due, due e mezza? Per lei va bene?»
Notai che quasi era ansioso di rientrare, e decisi di finire il discorso in quel punto.
«Perfetto, a domani allora! Arrivederci e buona serata»
«A domani, e buona serata pure a lei, Capo»
Sentii dietro di me la porta richiudersi, e in quel momento mi resi conto di non aver idea di come tornare a casa mia.

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Capitolo 9
*** L'Acquazzone del nord manda i suoi saluti ***


Capitolo 9

L’Acquazzone del nord manda i suoi saluti

 

 

 
 
Infine la ritrovai la strada per casa, grazie alla spontanea gentilezza degli abitanti della zona.
Sembrerà insulso, ma rimasi estasiato ed intrigato dalla naturale amichevolezza che trovai in quei quattro bambini che mi accompagnarono sino al centro della città quasi, interrompendo per me i loro giochi e tardando a rincasare!
Ma un nuovo dì era iniziato, e dopo tempo quella mattina feci colazione nella mia vecchia, grande dimora.
Mi diressi perciò lento verso la cucina, e scompostamente mi accasciai su una sedia, indossando ancora il pigiama.
Avrei dovuto lavorare, probabilmente, ma quella primavera che avanzava mi aveva reso un incosciente immaturo, privo della benché minima voglia di impegnarsi, ed allora procrastinai per l’ennesima volta.
Non riuscii neppure a sentirmi in colpa per ciò che stavo facendo, tanto era piacevole quel dolce ozio a cui già da tempo mi ero liberato.
Mentre cominciavo a sorseggiare il mio tè e finché ascoltavo il pane friggere nella padella sul fuoco, ripensai alla giornata passata: ero stato davvero bene.
Quando poi mi chiesi per quale ragione non avessi la mattina precedente, mentre elencavo tutte le persone con cui avrei gradito passare la giornata, pensato a George, e la risposta quasi mi divertì: “non avremmo avuto molto da dirci” ; come sbagliavo!
Il pomeriggio passato infatti avevamo, soprattutto durante il tragitto verso casa sua, discusso dei più svariati e strampalati argomenti!
Infatti, seppur non avessimo molto in comune quanto a interessi, io e George riuscivamo a divertirci con poco, a ridere per nulla; quando scherzavo con lui non m’interessava di mantenere un’apparenza seriosa, anzi: quando ero con lui la mia mente dimenticava ciò che con gli anni aveva imparato e tornava ad essere quella di un bambino di sei o sette anni, privo di preoccupazioni, affanni o timori, e dalla risata sincera.
Sì, quando stavo con lui il mio animo s’alleggeriva più di quanto già non fosse (dal momento che la mia vita non stava andando male affatto, prima di incontrarlo): avevo trovato proprio un buon amico.
E adoravo quell’amicizia, quell’amicizia fatta di battute insensate e infantili, condita con gesti sconsiderati e dolore agli zigomi per i troppi sorrisi; la adoravo perché non necessitava di niente, e le differenze socioeconomiche tra noi erano annullate.
Quella mattinata passò lenta dal momento che, preso da un senso del dovere immotivato, decisi di lavorare con impegno e zelo.
E mi impegnai davvero!
In un manciata d’ore ero già giunto a metà di ciò che dovevo fare per il caso del signor Outrè, quando mi diressi in cucina per preparare un pranzo di fortuna. Non ero mai stato un grande cuoco.
Avrei fatto meglio ad arrivare in anticipo al bar, pensai, dal momento che solitamente ero ritardatario.
Così mangiai quello che trovai in dispensa: pane, affettati, carne in scatola e formaggio; non il più salutare dei pasti certo, ma dal momento che il mio stomaco era pieno andava più che bene.
 
Nel tragitto verso il bar pensai un po’ a dove si sarebbe potuto trovare il famigerato giradischi, poiché da quando avevo capito la nostra meta non era la casa di George, ma non ebbi neppure il tempo di pensare a cinque possibilità che già ero arrivato, e vidi ferma ad aspettarmi poco distante la sagoma di George. Ero forse, ancora una volta, in ritardo?
Eppure m’ero ben accertato di partire con un buon anticipo! Com’era possibile?
Mi scrutai attorno alla ricerca di un orologio, ma non ne trovai, così mi diressi verso lui.
«Oh Capo! È già qui?» a quanto pare non ero in ritardo, ma anzi in anticipo.
Non avrei potuto porre la medesima domanda io? Meglio tacere.
«Buongiorno! Sai, temevo di arrivare tardi come al mio solito quindi ho preferito partire presto»
Distolsi poi il mio sguardo dal suo e lo lasciai scivolare sul la busta di carta che stringeva in mano: uno di quei sacchetti che usano le panetterie per il pane, tutto stropicciato e logoro, e da un bordo vidi sporgere il cartone viola del disco.
«Andiamo?» chiesi poi, tornando a guardare George in faccia.
Il suo sguardo era basso quando feci la domanda, e guardava distrattamente un punto qualunque del terreno: stava pensando.
Si riscosse, e raddrizzandosi mi guardò «Certo Capo»
Ci dirigemmo quindi verso la sconosciuta meta, che si rivelò essere non così distante.
Il tragitto fu silenzioso, tantoché mi sentii tentato di parlare per cacciare l’imbarazzo che sentivo crescere in me, ma non ebbi ragioni per attaccar discorso così rimasi zitto.
Rimasi rinchiuso in quel silenzio infatti fino a che non arrivammo accanto ad una torre d’orologio, piccola come una formica a confronto del maestoso big ben che contava le ore alle nostre spalle, e a quel punto sentii la necessità di chiedere perché fossimo lì.
«Beh Capo, le do il benvenuto nel mio personale rifugio! È capace ad arrampicarsi, vero?» guardai velocemente la torre e subito scorsi una serie di mattoni decorativi sporgenti, e seguendo questi poco più in alto vidi una finestra spalancata, e non ebbi bisogno di domandarmi altro.
«Da bambino ero piuttosto bravo, penso di riuscirci ancora, ad ogni modo»
Lo interruppi prima che mi rispondesse, e tentando uno sguardo complice dissi sottovoce «Ho capito cosa c’è da fare, tranquillo»
Di rimando lui mi sorrise e con un piccolo «Okay» assicurando alla giacca il disco, dopo aver ispezionato il luogo attorno a lui, iniziò a scalare.
S’arrampicava come un gatto su un albero: con una grazia innata, ed una volta in cima, agile come una gazzella saltò oltre la finestra, da cui agitando un braccio mi fece cenno di raggiungerlo.
Non indossavo abiti adatti per arrampicarmi, ma non era colpa mia: quando una persona ti domanda di uscire per aspettare musica non t’aspetti di certo di dover scalare una torre!
Poi realizzai che la soluzione migliore era nascondere tutto da qualche parte lì vicino, e riprenderlo una volta disceso.
Guardandomi intorno trovai un cespuglio poco distante, e decisi di lasciare lì il tutto, quindi finalmente salii.
Mi fu semplice, a dire il vero: con i miei piedi piccoli non avevo difficoltà ad appoggiarmi stabilmente sulle mattonelle, ed in un batter d’occhio ero su.
George mi aiutò ad entrare, dopo aver osservato tutto l’avvenuto – che comprendeva solamente il nascondere giacca e cappello e l’arrampicata, in fin dei conti – dalla finestra.
Le sue grandi mani fredde rinchiusero le mie in una morsa, e mi trascinarono dentro una stanza impolverata e vuota.
Il pavimento di legno era ricoperto da un piccolo strato di polvere chiara, ed il pulviscolo s’intravedeva non solo attraverso i pochi raggi di sole che entravano ma ovunque, mentre un vecchio grammofono solitario era il solo abitante di quel luogo.
Era così affascinante!
«Ecco Capo: le do il benvenuto nel mio misero rifugio» agitando le braccia attorno a sé sposto il pulviscolo che volava nell’aria, e ad ogni passo spostava un grande strato di polvere da terra.
Camminò in cerchio nella piccola stanza, ed una volta tornato al punto da cui era partito, continuò.
«So che non è niente, cioè, uhm…è piccolo e vuoto qua e pure, ehm..polveroso, ma non c’è mai nessuno quindi…sì ecco, mi piace» si diresse verso il grammofono a grandi passi.
«È carino qua, così isolato. Molto pittoresco poi il giradischi. Mi piace» contemplai io, guardandomi attorno e spostandomi lentamente in giro.
«Oh, sono contento che le piaccia allora»
Mi rivolse un rapido sorriso, e poi una delle sue grandi mani delicate alzò la puntina, che pareva sparire accanto alla maestosità del suo palmo.
Il vinile nero ed immacolato del disco nuovo intanto rifletteva i timidi raggi di luce, tenuto dalla grande mano sinistra con visibile prudenza, mentre tutt’attorno la polvere era padrona.
Sul viso di George era costante un sorriso emozionato, che mi ricordò quello di un bambino a Natale, ed in quel momento il disco si adagiava sul piatto.
I piedi di George si allontanavano dal giradischi, e nel contempo la puntina lentamente cadeva e rimbalzava lievemente sul vinile nero.
Gli occhi di George poi si chiudevano, ed un scricchiolio proveniva dal grammofono.
E finalmente la musica partì.
Il ragazzo rimase fermo, e sotto la camicia un po’ troppo larga percepii i muscoli che si rilassavano.
Le braccia lunghe e pesanti caddero lungo i fianchi, ed il suono di una chitarra si diffuse nell’aria.
Una chitarra solitaria, che ripeteva i medesimi due accordi, eppure mi pareva così bella, in quel momento.
Poi attaccò il pianoforte, ed allora George si voltò, riaprì gli occhi e mi guardò.
Io però ero concentrato ad osservare quelle braccia lunghe, quelle gambe troppo magre, quelle mani venose eppure tanto graziose; ero troppo concentrato ad osservare tutto ciò per accorgermi che sul suo volto stava comparendo un sorriso sbilenco, o per rendermi conto che si stava passo dopo passo avvicinando a me: ormai il mio sguardo non guardava più tutto ciò, ora osservava il nulla, un punto sfocato tra le assi di legno del pavimento.
Poi arrestò la camminata, stando distante un manciata di centimetri da me; eppure ancora non mi ero svegliato da quel torpore di pensieri che mi avvolgeva.
«Capo?» chiamò «Capo è ancora qui?» il sorriso si trasformo in una piccola muta risata, mentre avvicinava una mano al mio volto.
Intrecciò due delle lunghe dita, ed io già mi stavo riscotendo.
Poi fece uno schiocco; «Déjà-Vu» disse.
Rialzai il mio sguardo mentre tentavo di mettere a fuoco il mondo attorno a me, e mi scappò una risatina.
Ci guardammo qualche istante negli occhi, entrambi alla ricerca di qualcosa da dire, perché nonostante la musica colmasse tutta la stanza, era presente la terribile sensazione di imbarazzante silenzio che avviene ogni qual volta la conversazione muore. Quella volta, a dire il vero, non era mai iniziata la conversazione.
«Sì?» domandai allora, in risposta al precedente richiamo.
George esitò, come se fosse stato perso in pensieri, o come se avesse scordato tutto ciò che era accaduto pochi secondi prima, ed il suo volto fu per un attimo perso, ma una volta ripresa coscienza di cosa stesse succedendo il sorriso sbilenco ricomparve.
«Mi chiedevo… - disse, roteando lo sguardo in giro, mentre gesticolava in modo disordinato, - Sì ecco, mi chiedevo se…»
Fece poi una profonda riverenza, tentando d’imitare una di quelle dame di corte dell’800, con i riccioli bianchi raccolti alti sopra la nuca, e osservando la mia anima attraverso i miei occhi chiese «Mi concede questo ballo?»
Rise.                                                                       
Non una risata esagerata, però; era una risata contenuta, strozzata alla fine, come se avesse tentato di celarla.
Era una bella risata.
Atteggiandomi allo stesso modo gli risposi, mentre lasciavo che la mia mano cadesse nella morsa della sua «Sarebbe un onore!»
Iniziammo a roteare, simulando un maldestro valzer, mentre lui mi stringeva debolmente a sé.
Il suo respiro vagamente affannato mi accarezzava i capelli, e in quel momento mi sentii piccolo, e sicuro.
Con l’alto soffitto che si estendeva sopra di noi, l’aria colma di quella chitarra, di quel dolce pianoforte, e le mie mani che sembravano minuscole rinchiuse nelle sue: mi sentii come un piccolo pesce, un’alice nell’immenso oceano, ma stavo bene.
Roteavamo in ampie piroette, calpestando ogni centimetro del pavimento, ogni asse di legno rozzo che lo componeva che di tanto in tanto scricchiolava, e le nostre risate quasi coprivano la musica.
Andammo avanti per un minuto intero, e più la musica incalzava, riempiendosi di percussioni ed altri strumenti a me ignoti, più io sentivo crescere in me qualcosa.
Ho sempre avuto reazioni teatrali, e in quel momento, con quella musica, in quel luogo, mi sentii sommergere da un’emozione confusa o forse semplicemente sconosciuta a me.
Al mio interno all’altezza dello stomaco sentii una morsa, come quella che si prova quando si è coscienti che una lunga attesa sta finendo e che finalmente sarà possibile vedere ciò che s’era aspettato, e un grande calore mi si disperdeva nel corpo.
Le sue mani erano fredde, a confronto delle mie, e mi impedivano di sudare.
Il mio cranio invece si faceva pesante, e trovò appoggio nel petto di lui, mentre lentamente rallentavamo.
Sentii George allontanare il suo petto da me (lasciando per un istante la mia testa penzolare), mollare la presa sulle mie mani e fermarsi.
L’aria calda del suo respiro vagamente affannato non mi soffiava più sul collo, e sentii la musica di nuovo; perché, mi resi conto, non avevo ascoltato pressoché nulla.
Prese fiato, e poi parlò: «Lo sa – trasse un respiro e continuò –Lo sa Capo che ho scritto un…uhm sì, un testo, per questa musica?»
Caricò le parole di un grande entusiasmo e terminò «Vuole sentire?»
I nostri sguardi si incrociarono e noi rimanemmo immobili là, al centro di quel rifugio polveroso.
«Certo!» esclamai dopo pochi secondi, per saziare i suoi occhi desiderosi di una risposta.
George quindi tese le orecchie, ed io mi chiesi se anche lui non avesse ascoltato la musica come me, se anche lui provasse quella piacevole confusione.
Una volta poi identificata la parte del brano che suonava, traendo un bel respiro, cominciò a cantare, con immensa concentrazione.
«…Hey, moon please forget to fall down; Hey moon, don’t you go down…»
Un gran sorriso gli comparve in volto, e appena riaprì gli occhi il suo sguardo cercò segno d’approvazione nel mio, e così sorrisi.
«Sugarcane in the easy mornin'
Weathervanes my one and lonely
» continuò lui.
La sua voce era bassa, calda, rilassante.
Quel tipo di voce che la sera in inverno, mentre tu sei intrappolato nel calore della coperta, ti canta una lenta ninna nanna tramandata di generazione in generazione, sopravvissuta alle peggiori carestie, e stai pur certo che la dormita che seguirà riserverà un sogno dolce come il glicine.
Quel tipo di voce distante e nostalgica, quasi annoiata.
Un tipo di voce che avrei potuto ascoltare per intere ore.
Lo osservavo con un sorriso inebetito in volto e lui guardava altrove, oltre ciò che è visibile. Lui guardava il nulla, tanto era concentrato.
Poi i suoi occhi ricalibrarono, rimisero a fuoco e mi squadrarono, lì immobile a guardare in silenzio, e ricaddero a mirare alle assi di legno mentre un sorriso imbarazzato gl’incurvava le labbra.
Smise di cantare, ed iniziò ad ondeggiare lievemente a tempo.
«Oh, sta arrivando il finale – di già? Il tempo pareva essere volato – potrebbe cantare questo pezzo…cioè, il pezzo che…il pezzo che ho appena cantato io. Lo potrebbe cantare? Perché sa, le voci si sovrappongono e-» s’interruppe.
«E…?»
«È il momento! Sugarcane…»
Mi attaccai a lui ed iniziai a cantare.
Dicevano fossi bravo a cantare.
George immobile mi fissava, e con uno sguardo stupito lasciò trapelare dalle sue labbra un piccolo, timido “wow”.
Lo interrogai con gli occhi. “Allora?” domandavano “Non dovevi cantare?”.
E subito lui si riscosse, e cantò.
Io dicevo “Sugarcane” e lui s’infilava con un “Hey moon”.
Poi dicevo “In” e lui “Hey moon”.
Poi dicevo “Whenevers” e lui di nuovo “Hey moon”.
“My” e “Hey moon”.
La seconda volta poi, al mio “Sugarcane” lui disse “Hey moon please forget to fall down”.
“Whetevers” e “Hey moon don’t you go down”
E le nostre voci s’intrecciavano perfettamente, come se fossimo nati per quello: per cantare, in quel luogo, in quel momento, quelle parole; era perfetto.
Eravamo perfetti.
Riprendemmo a ballare, stretti come mai, e sentivo le sue costole premere sul mio torace, il suo gomito ossuto schiantarsi contro il mio, e subito l’emozione sconosciuta tornava.
Poi tutto svanì nella chitarra solitaria, e tacemmo.
Il disco gracchiò un paio di volte, e infine ci fu silenzio.
L'unico rumore era il nostro fiato, ed i pensieri.
Attaccati uno all'altro tenevamo gli sguardi bassi, nell'ombra, lontani dalla flebile luce filtrata dalla finestra.
Troppo imbarazzati per muoverci, o aprire bocca.
Poi mi accorsi del suo cuore che pulsava veloce nel mio orecchio, che si amplificava nelle mie ossa, ed il mio battito si sincronizzava con il suo in una musica nuova.
Per quasi un minuto rimanemmo lì, a contemplare i piccoli suoni silenziosi, ed infine trovammo coraggio.
Simultaneamente alzammo lo sguardo e i nostri occhi si incrociarono.
Era tutto come prima.
La musica del nostro cuore, e la danza dei nostri sguardi. Tutto uguale a prima, ma il grammofono era spento ed i nostri corpi immobili.
Le labbra di George si mossero lievemente, e si richiusero subito dopo.
Eravamo bloccati in quel momento di stallo.
Spostare lo sguardo sarebbe stato maleducato, mantenerlo semplicemente imbarazzante. Cosa fare?
L'attrazione tra noi era reale, ed era inutile nasconderlo. Ma io non sapevo. Era giusto? No, di certo no! Non andava bene. E poi a me piacevano le donne, prova ne erano le mie precedenti relazioni.
Non che fossi irrispettoso nei confronti delle persone così, sia chiaro, solo che gli uomini non facevano a caso mio, credo.
Tanta era la confusione in me che ogni possibilità poteva essere certezza.
La schiena di George lentamente si curvò, ed il suo viso si avvicinò al mio.
Le nostre labbra, distanti sempre meno.
I nostri occhi intrappolati in quello sguardo.
E noi, bloccati in un mondo parallelo, lontani da ogni suono, spazio e tempo.
"Al diavolo" pensai "Vivo solo una vita". E chiusi gli occhi.
«OH CIELO!»
No. No. No.
Per favore, no.
 

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Capitolo 10
*** Mercoledì 4 Febbraio ***


Mercoledì 4 Febbraio
 
Caro George,
Come stai? Spero bene.
Ti scrivo perché ne sarei dispiaciuto se quel germoglio d’amicizia che stavamo coltivando venisse distrutto, e perché credo che, se continuassimo a tenerci in contatto, questo germoglio potrebbe diventare un bellissimo fiore.
Sì, perché dimmi, non sarebbe uno spreco buttare ciò a cui stavamo dando fondamento a causa degli – infondati – pettegolezzi di qualche insulsa malalingua? Secondo me molto, ed ecco perché sono qua a scriverti.
Ora, cercherò d’andare diretto al punto di questa lettera: t’andrebbe d’intrattenere una corrispondenza epistolare con me?
Domanda inutile? Può darsi, dato che se risponderai la risposta sarà affermativa, se no sarà negativa.
Ad ogni modo, suppongo questo sia un modo come un altro per dare una ragione ad una possibile risposta che spero moltissimo arrivi in un futuro più che prossimo.
Bene, ora che l’importante è stato detto – e che non mi sono affatto attenuto alla struttura gerarchica dei testi secondo cui il fulcro si deve trovare alla fine per trattenere acceso l’interesse del lettore – posso tranquillamente dialogare del più e del meno senza temere di disturbarti: se non vuoi leggere qualche mio vaneggio gratuito puoi benissimo smettere qua, e scrivere (o non) la tua risposta.
Penso che ciò che è successo sia davvero sbagliato, e non perché è accaduto direttamente a me – a noi – ma perché al giorno d’oggi son più credibili miserabili bugie uscite dalla bocca di esterni che sincere realtà dette dai diretti interessati.
Una menzogna comunemente accettata diventa una verità. Non è assurdo?
Quantomeno in cuor nostro sapremo sempre cosa è vero e cosa no, e questa cosa non ce la potrà mai togliere nessuno.
È davvero, davvero un peccato, comunque, ciò che è successo. Mi sarebbe piaciuto ballare ancora un po’, o semplicemente dialogare.
Avrei potuto portare altri dischi, musiche d’ogni genere ed origine, magari saremmo potuti andare ad un concerto assieme.
Wilhelm Furtwängler sarà qui a Londra il mese prossimo: saremmo potuti andarci.
Immagino sia giunto il momento di concludere,
Edward Boyd Hall

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