Si vis pacem

di Fenici_Bianche
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1: Un'offerta di pace ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2: Sussurri nelle ombre ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3: Quiete ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1: Un'offerta di pace ***


Capitolo 1

Note: Questa storia nasce dalla grandissima passione che ho maturato, nei panni dell’evocatrice AngryPh03n1x, per la lore di League of Legends e per i suoi personaggi. Ho voluto cercare di parlare un po’ dei rapporti difficili che intercorrono fra le città-stato del continente, soprattutto ora che la presenza della Lega delle Leggende all’interno del mondo di Runeterra non è più canon, in particolare delle tesissime relazioni fra Demacia, Ionia e Noxus dopo la riconquista del sud di Ionia e la Battaglia di Kalamanda. E ho voluto farlo sfruttando gli occhi di Sona, per il momento ancora una comunissima abitante di Demacia. Potevo esimermi dal far maturare anche un pairing che, ultimamente, mi ha preso molto? Ovviamente no, anche se preferisco mantenerlo ancora segreto! Spero che la lore di League of Legends, recentemente aggiornata con storie a dir poco interessanti e belle, non muti molto dalla pubblicazione di questo capitolo e spero di riuscire a portare a compimento questa opera con costanza, prima che ogni cosa come la conosciamo si trasformi per sempre! :P

Ringrazio il mio ragazzo, in arte Thurin, per il sostegno e per la solerzia con cui mi corregge e mi aiuta a migliorare di continuo, sperando di far riscontrare tutto questo nella fanfiction!

Ah, giusto! Vi auguro anche una buona lettura! ^^

 

Si vis pacem

Capitolo 1 – Un’offerta di pace

Quel giorno doveva essere un giorno qualunque. Sona si era alzata presto come solito e aveva abbracciato con gli occhi blu la grandezza della città dalla finestra della camera. Il cielo era terso, il sole splendeva come silenziosa promessa di tranquillità e l’estate appariva nella sua piena maturazione; aveva scelto con cura i vestiti che avrebbe indossato per passeggiare nella piazza principale di Demacia, si era indaffarata nella biblioteca centrale a cercare i libri da cui trarre ispirazione per le prossime composizioni. Tornata a casa, aveva preso a leggere nello studio della dimora Buvelle, le sue dita affusolate avevano tracciato ogni nota interessante, ogni nozione pregna di significato e il suo cuore le aveva meditate e trasformate in sinfonia.

Quel pomeriggio aveva inseguito la musica. Le mani si erano mosse veloci sulle corde dell’Etwahl, ogni accordo pizzicato era un gradino che si aggiungeva ad una scala in crescendo, la cima era una melodia capricciosa e sfuggente. L’aveva cercata freneticamente, disperata si era affacciata alle porte dei ricordi, a piene mani aveva raccolto le composizioni passate e le aveva trapassate da parte a parte per trovare gli accordi mancanti, le ultime note prima della conclusione.

Il componimento ancora scappava, saltava nella sua mente quasi volesse spiccare il volo e non fare più ritorno e Sona aveva accelerato, note sempre più acute e cristalline si erano issate per raggiungerlo. Suonavano chiare e genuine come le parole di un innamorato.

Non scappare, resta qui con me, sei la mia ragione di vita!

E le dita erano arrivate a toccare la nota finale, la melodia si era lasciata soggiogare da quella confessione così passionale da incatenarla alla voce dell’Etwahl, che ora squillava trionfale. Aveva imprigionato ogni idea volatile e l’aveva piegata al suo volere. La melodia si era spenta e le dita di Sona avevano smesso di suonare.

Allora si era alzato un applauso dall’altra parte della strada, i vicini non avevano resistito a dimostrare l’ammirazione che provavano per la sua musica. I suoi occhi erano diventati lucidi udendo quella manifestazione di stima: la sincerità della sua arte aveva fatto tintinnare le corde del cuore di quelle persone trasportandole oltre la barriera delle mura della sua casa.

Quel momento carico di commozione l’aveva fatta sorridere come se fosse la prima volta. Il suo cuore si era concesso parole che lei, purtroppo, mai avrebbe potuto pronunciare.

Sono felice.

Nella stanza dell’ambasciata di Ionia, il ricordo di quella giornata stava svanendo come l’inchiostro su un libro mangiato dal tempo. Sona si ritrovò a pensare che, in un certo senso, gli occhi imperiosi con cui il Principe Jarvan IV la stava fissando erano fin troppo simili al rodere incessante delle termiti della carta. Anche quegli specchi blu, profondi e penetranti, stavano sgretolando poco a poco ogni sua certezza.

Distolse lo sguardo in preda al panico, cercò sostegno dall’altra parte del tavolo. Ad accogliere il suo volto spaesato, il viso algido e sprezzante di Irelia fissava l’Esempio di Demacia con una furia malcelata dal rumore ritmico e pesante delle dita sui gambali dell’armatura rossa. Mosse poco il capo di fianco sperando di incrociare gli occhi di Karma con i suoi, una speranza che svanì appena fu esaudita: la donna la scrutava con un’espressione vacua, gli occhi lucidi presagivano un dolore e una paura parte del suo animo pacifico. Il timore di doversi scontrare con un prezioso alleato per una questione di principio.

Sona si pietrificò. Il respiro non riusciva a scenderle giù nei polmoni; il terrore portò il suo sguardo verso l’unico amico nella stanza: Xin sedeva sulla poltroncina a capo del tavolo, poco distante da lei. Era teso e preoccupato, osservava il futuro sovrano come se non avesse intravisto in lui, nel corso degli anni, quel fare autoritario con cui sedeva rigido e altezzoso, quel modo di porre il suo potere al di sopra di ogni atteggiamento formale. Nessuno sembrava in grado di contrastare apertamente quella forza fisica e diplomatica che riempiva la stanza con la sua figura imponente e le sue decisioni irremovibili.

Sona chiuse gli occhi mentre sentiva  scattare la serratura di una gabbia.

«Vostra Altezza non voglio credere che siate serio!»

Sobbalzò spalancando gli occhi. Karma scrutava il Principe Jarvan IV con il labbro inferiore stretto fra i denti, Sona non si aspettava quella reazione proprio da parte sua.

«Osate rivolgervi a me in questo modo, dopo che ho deciso di restare ugualmente? Avete organizzato l’incontro a mia insaputa» Infierì il futuro sovrano di Demacia. Karma scattò indietro, come ferita.

«Come osate voi attaccarci così? Ionia non è un burattino nelle mani di Demacia!» Irelia appoggiò la mano sulla spalla di Karma, gli occhi infuocati sempre fissi su quelli del principe.

«Siete molto coraggiosa o molto stupida a voler contraddire chi vi ha dato ospitalità nel suo regno, Volontà delle Lame.»

«Siamo alleati e non servi ai vostri ordini! Se pensate il contrario gli Anziani dovranno riconsiderare il sostegno al vostro paese!»

«Vi abbiamo sostenuto contro l’invasione di Noxus ed è questo il vostro ringraziamento?!»

«Vostra Altezza!», «Irelia!» Ci vollero pochi secondi perché Xin Zhao e Karma intuissero la deriva della discussione. Jarvan era scattato in piedi e si era diretto deciso verso la donna. Lei si era issata in piedi, le lame sollevate sopra la testa. La magia di Karma la bloccò sul posto, mentre Xin s’inseriva fra i due in procinto di attaccarsi. Il Siniscalco di Demacia si era lanciato verso il principe, con tutta la forza che aveva in corpo lo respingeva lontano dall’incidente diplomatico imminente. Se Karma appariva troppo basita da rimproverare la compagna, suppliche miste a imprecazioni prorompevano da Xin: invocava i nomi del nonno e del padre dell’Esempio di Demacia e invocava il rispetto per gli alleati, ma subito le sue parole si tramutavano in rabbia quando sentiva Jarvan spintonarlo, completamente sordo alle sue richieste. 

Sona aveva gli occhi chiusi ma vedeva ugualmente quello che stava accadendo: il dono dell’orecchio assoluto le permetteva di cogliere le sfumature nell’andatura dei passi di Jarvan e Irelia, l’incrinatura nella voce di Karma e la preoccupazione nel tono di Xin. Non aveva bisogno di vedere quello che la sua mente aveva già dipinto: una sinfonia di furia la cui esplosione pareva inevitabile e terribile.

E tutto per causa sua.

Aprì gli occhi e si rese conto che le lacrime scendevano lungo le guance rosse di vergogna. Si sentiva così umiliata da voler sprofondare, così stupida da meritarsi la sorte con cui il principe l’aveva minacciata di fronte alla sua decisione. La condanna all’eterno silenzio: nessuno avrebbe più potuto udire la sua musica e mai lei e il suo strumento avrebbero potuto lasciare i confini di Demacia. Se le era sembrata una decisione ingiusta qualche minuto prima, ora avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di evitare che la situazione degenerasse ulteriormente.

Invano cercò di asciugare le gocce prima che cadessero sulla lettera appoggiata sull’Etwahl, fautrice della tempesta che in quel momento imperversava nella stanza: una grafia elegante aveva impresso parole ambigue e studiate, scorrevano lungo la carta come stoccate di uno spadaccino. Sona non aveva dubbi sul fatto che, il supremo Generale di Noxus, sperasse di colpire i nemici di sempre e ridere immaginando le ferite apportate dalle sue mosse calcolate.

Mia carissima Karma, onorevole Anziana di Ionia,

Aspettavo con grande impazienza la vostra lettera, non sapete quale euforia mi riempie il cuore leggendo i vostri inviti alla pace, davvero insperati in questi tempi difficili. Mia cara vorrei che poteste vedere il sorriso che mi procurate con la vostra inusitata diplomazia, siete l’unica esponente politica di tutta Runeterra di cui potrei tessere le lodi. Non riesco neppure a decidermi se dovrei sentirmi preoccupato di un tranello che tentate di celarmi, o compiaciuto perché non credete che Noxus sia così terribile come lasciate intendere altrimenti.

Avrei voluto negarvi ancora il piacere di una risposta, mi dispiace riferirvi che l’Alto Comando nutre come sempre un certo dissapore verso le vostre idee indipendentiste, ma debbo ammettere che le vostre incessanti richieste hanno saputo impietosirmi. Non vorrei illudervi con una promessa che non potrei mantenere, ma la vostra preghiera di accettare qualunque dono possiate offrire per avvicinare le nostre fazioni a un trattato di pace, ha sortito un effetto su di me e sulla corte.

A tal proposito, ricordate l’incontro per la pace promosso dalla Regina del Freljord? Di quell’evento due sono le cose di cui ho nostalgia: la prima le vostre canapè in stile ioniano, fu un grande dispiacere non poterle più gustare dopo la vostra ultima vittoria. La seconda, gli splendidi componimenti della Maestra delle Corde.

Voi non comprendete le usanze e la cultura della nostra nazione, ma sono sicuro che rammentiate bene il nostro motto: “La forza sopra ogni cosa”. Ora sarò io ad esortarvi: convocate la meravigliosa Sona Buvelle e riferitele il desiderio dell’Alto Comando di Noxus di poter godere nuovamente delle sue magnifiche doti. Se la vostra forza reggerà davanti ai vostri alleati, forse saremo in grado di rivalutare le vostre abilità di autodeterminazione come popolo.

L’Alto Generale di Noxus Jericho Swain.

Quelle lusinghe erano suonate dolcissime nell’animo di Sona. A nulla era valso controllare l’emozione quando aveva alzato gli occhi dopo aver letto la lettera la prima volta: le sue guance erano comunque arrossite di piacere. Uno degli esponenti politici più importanti di tutto il mondo aveva riconosciuto il suo valore artistico, pur avendola udita in un’occasione soltanto. Aveva toccato qualche anfratto buio nella mente di quell’uomo all’apparenza interessato esclusivamente all’arte della guerra.

La sua testa si era mossa in un cenno d’assenso, ancor prima che l’imbarazzo, davanti allo stupore di Karma e di Irelia, potesse raggiungere la sua mente. Aveva accettato la richiesta di un nemico senza pensarci. Se avesse agito con più cautela, forse avrebbe evitato di offendere l’onore di Demacia, forse avrebbe evitato di scatenare quello scontro che non accennava a placarsi.

Le maniche della giacca erano imbrattate di lacrime, era impossibile frenare il tremore che le scuoteva le spalle, fragili sotto il peso di una domanda terribile: cosa sarebbe successo se fosse stata la causa dello scioglimento dell’alleanza fra Demacia e Ionia?

«Ora basta!» Il trambusto s’interruppe. Sona smise di singhiozzare, impietrita. Karma si frappose fra Irelia e Jarvan, le sue spalle si alzavano e abbassavano al ritmo del respiro teso e concitato mentre fissava gli occhi accesi di una luce nuova nell’indignazione pura dello sguardo di Jarvan.

«Vostra Altezza abbassate le armi, vi prego!»

«Ancora osate sfidare la mia autorità?! Non intendo sottostare a questo affronto!» Irelia si fece avanti spostando Karma con un braccio, le lame restarono alte su di lei.

«Smettetela, ne ho abbastanza delle vostre arie! Siete solo un pallone gonfiato!» Non fu il Principe a colpirla con una furia tanto provocata. La mano scura di Karma, impregnata di magia, si posò sul petto di Irelia. Sona restò immobile, nemmeno Xin e il Principe riuscirono a fare alcunché: osservavano come spettatori di una scena di combattimento al di fuori della loro portata.

 La ragazza deglutì a vuoto, scrutava la faccia basita e pallida di Irelia: non c’erano tracce di squarci sulla splendente armatura rossa, non fuoriusciva sangue dalle narici o dalla bocca. Ma le sue lame precipitarono prive di volontà attorno a lei.

«Irelia. Basta» Sona spalancò gli occhi. Quella non poteva essere la voce di Karma: un eco profondo, melodioso e minaccioso. Lava che gorgogliava impaziente all’interno di un vulcano.

Uno spillo d’energia rossa, un frammento del passato, le annebbiò la vista per un istante.

La testa della Volontà delle Lame si piegò in silenzioso assenso.

Il colore della magia esalò come fumo dalla mano della diplomatica pacifista. Lasciò che Irelia respirasse rumorosamente curva su se stessa, un colpo di tosse sfuggì oltre i lunghi capelli neri che celavano il viso. Sona avrebbe voluto aiutarla ma trattenne l’istinto, impaurita al solo pensiero di una sua reazione feroce.

Karma si era rivolta nuovamente verso Jarvan. Xin si era scostato dalla traiettoria della donna, nel rivolo di sudore che colava dalla fronte e nell’espressione esasperata, si coglieva tutta la fatica di un uomo obbligato a fronteggiare troppe novità in un giorno.

Il Principe non sembrava scosso, pareva che nulla potesse smuovere i suoi nervi. Eppure aspettò che fosse l’alleata a riprendere la discussione.

«Vostra Altezza vi prego di perdonarci» Sona era incredula: la voce di Karma era la stessa di sempre e piena di rammarico.

«A cosa debbo le vostre suppliche, Illuminata?» Se l’improvviso ritorno alla normalità lo aveva preso in contropiede, l’uomo non lo diede a vedere. Ma la lancia tornò al suo fianco.

Karma respirò piano, poi riprese:

«Io e Irelia abbiamo sbagliato a non riferirvi le nostre intenzioni subito, vi abbiamo dimostrato una grave mancanza di rispetto» Jarvan assentì magnanimo. Si sedette nuovamente sulla poltrona a capo tavola e invitò Xin e Karma a fare altrettanto con i loro posti.

«Volete aggiungere altro?» La donna annuì mentre sosteneva Irelia per farla sedere accanto a sé.

«Vostra Altezza è uomo di grande acume. Voi sapevate che non era nelle nostre intenzioni  offendere il vostro onore».

«Volevamo offrire a Sona Buvelle il tempo necessario per riflettere sul contenuto della lettera, con questa premura abbiamo indetto una riunione prima che Vostra Altezza potesse raggiungerci» Jarvan massaggiò il mento marcato, pensieroso. Nel corpo proteso di Karma si leggeva tutta la speranza imprigionata in lei. Anche Sona scrutava il Principe da dietro il fazzoletto con cui aveva asciugato le lacrime. Pregava, singhiozzava e ancora tamponava il pianto.

«Dunque rinnegate il vostro tentativo di tradire la fiducia di Demacia»

«Lo rinneghiamo» Sona sobbalzò. Irelia aveva una voce flebile e roca, anche se sedeva con la schiena dritta e la faccia aveva ripreso colore.

«Ebbene vi credo, siete perdonate» A quel verdetto, l’atmosfera si distese improvvisamente. Karma non si preoccupò di nascondere un sospiro di sollievo che liberò le spalle gonfie di paura. Si sistemò composta sul divanetto e si celò alla vista di Jarvan dietro la massiccia figura di Irelia.

Sona non avrebbe voluto trovarsi di fronte a lei, non voleva scorgere il volto rigato da lacrime sottili. Si sentiva profondamente in colpa per la frustrazione che le aveva causato, per la fatica e l’umiliazione in cui l’aveva trascinata.

Qualcosa nel capo chino della musicista doveva aver spinto Xin a scendere col viso per incrociare lo sguardo della ragazza. Venature rosse ghermivano il blu degli occhi e quando provò a stirare un sorriso sulle labbra arricciate, ogni cosa divenne opaca e luminosa.

Un breve calore alla spalla, una stretta fugace, fu l’unica consolazione che il tempo le concesse.

«Ebbene, quali sono state le conclusioni del vostro incontro?» Il principe reclamò il ritorno alla discussione.

«Volevamo spiegare a Sona le implicazioni della lettera, ma siete arrivato nel momento in cui stava prendendo una decisione affrettata» Gli occhi della Volontà delle Lame bruciarono sull’artista. Sona riuscì a sostenere solo per poco lo sguardo, dovette chinare il capo mortificata.

Avrebbe voluto tenere testa alla dignitaria di Ionia con coraggio ed orgoglio. Avrebbe voluto intimare a Jarvan di dimostrare rispetto per Karma. Un calore strano si arrampicò dal suo stomaco fino alla gola, come se volesse uscire dalla bocca muta.

Le corde dell’Etwahl vibrarono allo stimolo di una mano invisibile.

«Avete riflettuto sulla vostra condotta superficiale, Maestra delle Corde?» La paura assalì la ragazza. Annuì frettolosamente e cercò di concentrarsi sull’Etwahl: le corde dello strumento le scivolavano via fra le dita bagnate, dovette pizzicarle con forza e lentamente per riuscire a produrre un suono decente. Avrebbe potuto asciugarle, ma il tono perentorio della richiesta le aveva suggerito di non mettere alla prova la scarsa pazienza del principe.

Il freddo dello sguardo inquisitore svanì solo quando la musica emerse, magica e delicata, dall’Etwahl. Sona si abbandonò al suono: per pochi momenti dimenticò la tristezza e l’angoscia per le minacce di Jarvan. Esistevano solamente lei, l’Etwahl e l’armonia creata dalle loro voci: una udibile e l’altra racchiusa nel cuore dell’artista.

Il sentimento di rivalsa che le aveva inondato il corpo si affievolì, mitigato dal tono  proveniente dallo strumento.

Vostra Altezza, porgiamo le nostre scuse per la nostra avventatezza. Le parole del vostro nemico erano malevoli e studiate, hanno approfittato della nostra ingenuità.

Sona non sapeva come definire quella voce, era la fusione della magia e della musica dell’Etwahl, essa suonava metallica ma armoniosa insieme al resto delle note prodotte dalla sua abilità. In base ai sentimenti che l’artista voleva confluire nella melodia, le parole si sollevavano sempre educate ed adatte al contesto in cui si trovava.

La ragazza pregò che fossero abbastanza per placare la rabbia del futuro re di Demacia.

«Siete fortunata Maestra delle Corde, la vostra musica mi ha impietosito e sono disposto ad accettare le vostre scuse. Vi sia da monito per la vostra superficialità» Sona avvampò ancora, ma il tono di Jarvan si era decisamente ammorbidito. Scelse di continuare a suonare, seppure in modo meno potente di prima: la musica la calmava, non voleva tornare a piangere od a dimostrare di nuovo la sua inettitudine. E sapeva che avrebbe indotto anche il resto dei presenti a domare un po’ le emozioni.

«Vostra Altezza, io e Karma vogliamo riferirvi che siamo d’accordo nel mandare Sona Buvelle a Noxus» Un tuffo al cuore colse l’artista, le fu impossibile proseguire con l’Etwahl. Xin ormai non cercava neanche più di nascondere le difficoltà che quella discussione gli stava provocando: il suo viso era ghermito dalle mani agganciate alla pelle come ami di un pescatore e le labbra erano assottigliate dalla furia con cui erano morse dai denti. Sona avrebbe tanto voluto sorridere di fronte a quell’immagine un po’ buffa, ma dovette frenare di nuovo le emozioni.

L’Esempio di Demacia lasciava presagire tutt’altri sentimenti.

«Ah davvero? Avete delle buone ragioni?» Irelia avrebbe potuto dare peso all’ironia presente nella domanda astiosa, ma decise di soprassedere e rispose senza alcuna inflessione nel tono:

«Non sappiamo nulla di Noxus e questa potrebbe essere l’occasione ideale per studiare da vicino i nostri nemici. Crediamo che Jericho Swain stia escogitando un incidente diplomatico per gettare fango su Ionia e Demacia…»

«E ritenete che questa ragazza sia adatta ad un compito così rischioso? Dopo l’incidente diplomatico che ha rischiato di scatenare oggi con la sua condotta incresciosa?!» Jarvan interruppe la donna, aveva i denti digrignati ed una rabbia malcelata nella voce, ma Irelia non ebbe timore nel mostrare un sorriso altezzoso.

«Siete ancora arrabbiato con questa ragazza dopo averla sentita suonare?» Per la prima volta dall’inizio della riunione, il Principe spalancò gli occhi sorpreso. Sul suo viso si leggeva chiaramente il desiderio di controbattere in modo piccato, ma in pochi istanti i suoi occhi si chiusero in segno di resa. Sona accolse come un piccolo riconoscimento della sua bravura il suo sprofondare contro lo schienale della poltrona, sconfitto di fronte all’evidenza.

«Suppongo che abbiate ragione» Gli occhi dell’uomo incrociarono quelli dell’artista per un breve momento, una fugace occhiata indagatrice che la fece sentire piena d’imbarazzo.

«Inoltre, Sona Buvelle è una civile» Irelia riprese più disinvolta «le sue posizioni non potrebbero essere associate ufficialmente al vostro governo e nemmeno al nostro, nel caso in cui i piani di Jericho Swain avessero successo…» Il ghigno si tramutò in un sorriso amaro «potrete sempre dare la colpa alla condotta incresciosa della vostra suddita» Questa volta fu il turno della donna di scrutare il viso della ragazza. C’era una grande pietà nei suoi occhi neri, indusse Sona a provare tanto disgusto e paura per se stessa: dopo quello che aveva scatenato quel giorno, il terrore di cadere in uno degli intrighi che la corte noxiana avrebbe potuto architettare per distruggere la sua reputazione, divenne così reale da maledire il suo atteggiamento insensato. Il cambiamento del Principe nei confronti di un suo viaggio a Noxus non le apparve più come il ritorno del sovrano alla ragionevolezza.

Avrebbe messo la parola fine al suo futuro personale ed artistico.

«Vostra Altezza, il Consiglio degli Anziani di Ionia ripone molta fiducia in questa apertura da parte dell’Alto Generale di Noxus» Karma intervenne, la sua voce era ricolma di speranza.

«Per troppo tempo abbiamo lottato strenuamente per difendere il nostro diritto alla libertà, il nostro popolo non ne può più di questa guerra continua e per quanto l’Alto Generale sia conosciuto per la sua ambiguità…»

«Siamo disposti ad accettare il rischio, se questo potrà condurci ad aprire le trattative per la pace!» Esclamò infine ispirata, le lacrime erano un debole ricordo su quel volto felice come non mai dall’inizio della discussione. Per quanto Sona fosse contenta del miglioramento della dignitaria, provava orrore. Avrebbe messo a repentaglio la sua vita per un barlume di speranza effimero e pericoloso.

L’espressione assorta del Principe le serrò lo stomaco in una morsa gelida.

«Mio signore aspettate!» La Maestra delle corde era meravigliata, non credeva che Xin avrebbe avuto la forza di prendere parola: si era issato in piedi, si era sistemato dietro di lei ed aveva appoggiato le mani sulle sue spalle con fare protettivo. Un calore confortevole le scese fino al cuore, rinvigorendo il suo spirito.

«Non contesterò la vostra decisione, ma voglio che riflettiate: io so che genere di posto sia Noxus» La ragazza rabbrividì, non aveva mai udito Xin parlare del misterioso passato nella città. Sentì le dita dell’uomo stringersi attorno alle sue spalle, prima che lui continuasse con lo stesso tono stoico:

«E’ una fogna».

 

 

To Be Continued

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Capitolo 2
*** Capitolo 2: Sussurri nelle ombre ***


Ed eccomi a voi, con immenso ritardo! Mi dispiace di aver fatto aspettare più di un anno questo capitolo (è davvero passato così tanto tempo?!), chiedo scusa a tutti quelli che avessero letto il primo capitolo e si attendessero una prosecuzione più veloce, pensare che dovrei sapere bene cosa si prova da lettori, quando l'autore non aggiorna per molto tempo la mia fanfiction preferita! Per questo motivo non ho neppure iniziato a leggere Martin, fino a quando non concluderà l'opera, spero tanto che non la lasci incompiuta! :'(

Chiedo scusa davvero, ma voglio tranquillizzare in un qualche modo: le idee per la storia non sono mai venute meno, anzi, mentre preparavo gli esami continuavo a pensare a tantissime cose da aggiungere o togliere, fino a quando mi sono sentita soddisfatta di quanto andrò a scrivere, sperando che possa piacere anche a voi! :D

Ringrazio ancora la solerzia con cui Thurin mi supporta sempre, sia in League of Legends sia nella vita, ed i gentili recensori che hanno lasciato un commento a questa storia: Davos e SideshowEMS, grazie ancora per il vostro sostegno e scusate se vi ho fatto attendere! :P

La fanfiction la sto pubblicando anche sul forum di League of Legends, il mio nickname è AngryPh03n1x, se volete andate pure a darci un'occhiata anche lì! :D

Se riuscirò a portare a compimento questa storia, probabilmente inizierò ad indagare con altri racconti le avventure dei Campioni a Valoran, spero che la pigrizia non prenda il sopravvento su di me! :P

Buona lettura!


Capitolo 2 – Sussurri nelle ombre


Le Isole Ombra.


Non vi era nulla che suscitasse in lei più gelido disprezzo di quegli ammassi galleggianti. Dalle spiagge grigie, alle terre crepate e popolate da vermi, alle foreste nere e ripiegate su stesse come insetti moribondi, fino alle costruzioni in rovina che a stento pigolavano l'eco della civiltà di cui piangevano la scomparsa. Tutto aveva perso quel soffio vitale con cui lei amava dilettarsi nei suoi giorni a Noxus.


Rammentava gli anni in cui studiava sui tomi della Biblioteca Centrale un arcipelago baciato dagli Dei, su cui i raggi caldi del sole tramontavano solo per far sorgere quelli gentili di una luna immensa, mai calante, per volere dei maghi del regno che avevano creato un sortilegio che la mostrasse sempre fiorita o crescente. Quel gesto scaramantico non aveva impedito l'ineluttabile destino cercato dalla cupidigia umana: tutto era immobile, sepolto sotto una nebbia soffocante. Molti esseri deformi vegliavano sui morti. I loro assassini erano i custodi più solerti.


Leblanc scese dall'imbarcazione e levitò sopra la terra ed i boschi dell'isola più grande di tutte. I suoi occhi cercavano una creatura maledetta, ma ben presto s'accorsero di una presenza straordinaria: qualcosa di pulsante ed ansimante si muoveva sotto fronde di rami rugosi come mani di streghe. Una persona in fuga. La donna s'insinuò fra le fitte maglie della foresta per ammirare quello spettacolo: un mantello bianco ed una lunga gonna si dibattevano fra cespugli di rovi a cui erano rimasti impigliati. Dai lembi strappati si scorgevano gambe pallide di ragazza, il cui volto s'intravedeva appena nella penombra del cappuccio, ma l'espressione era sufficiente a capire molte cose: disperazione e terrore. Scendeva un rigagnolo dall'occhio pesto che scivolava sulla guancia paonazza e precipitava dal mento rotondo, i suoi singhiozzi increspavano le labbra piene come avrebbero fatto con il visetto paffuto di un bambino. Non doveva avere più di sedici anni e già lottava per la propria vita. Le camminò vicino, ma la giovane era ancora concentrata sulle vesti: i ramoscelli strattonavano il tessuto, l'Ingannatrice non dubitava che dietro a quella tenacia vi fosse l'opera di qualche spettro.


«Guarda un po' cosa c'è qui» Sobbalzò lontano da lei. Un grido strozzato sparì nell'aria densa, quasi fosse provenuto da una distanza lunghissima.


«Statemi lontano!» Rise di gusto.


«Avete così tanto desiderio di morire?» La ragazzina si fermò, paralizzata dalla sorpresa. Smise perfino di respirare.


«Ma chi siete?!» Vide all'orizzonte addensarsi un mare di foschia che trangugiava ogni cosa nella sua avanzata. Il silenzio innaturale del bosco si riempì di sibili. Non c'era più tempo a disposizione.


«Volete vivere?» Le porse una mano mentre il banco inondava un altro pezzo di foresta, a pochi passi da loro. Anche la ragazza sentiva il terrore lambirle la schiena, con la coda dell'occhio dovette notare alcuni fiotti candidi trasformarsi in braccia scheletriche. Tentavano di afferrarle le vesti improvvisamente libere dalla morsa delle spine, afflosciate sul terreno come paglia secca.


«Sì!» Eruppe afferrandole la mano in uno slancio che la spinse fra le braccia dell'Ingannatrice. Ella non cedette al peso, mentre la nebbia le circondò in un mulinello di scheletri, levò il bastone sopra il capo. La gemma viola sulla sommità rifulse di luce.


«Sparite» La sentenza echeggiò sull'orda di spiriti insieme ad un vento feroce, si sollevava dalla gemma e spaziava attorno alla sua padrona ed alla ragazzina. Le avviluppò in una stretta sorda, s'avvertiva solo il rimbombare degli ululati con cui la magia stava spazzando via le tenebre bianche. Quel poco che restò, si dissolse nella polvere del terreno. Tutto tornò muto ed immobile.


Il fagotto nascosto fra le pieghe del suo mantello ebbe un fremito: dall'incavo della spalla finalmente sbucarono gli occhi e la bocca spalancati della fanciulla. Il cuore scalpitante si era placato accanto al battito calmo della donna, il viso umido era l'ultima traccia di singhiozzi e ansimi. Si guardava attorno rapita dal panorama che tanto l'aveva spaventata, con circospezione, tastò i rovi che erano stati spessi come pietra, piegarsi docili al suo tocco. Respirò a fondo l'aria alleggerita dalla presenza degli spettri, quel nuovo fiato accese una luce vivida negli occhi rivolti verso Leblanc, rivelavano persino un barlume di speranza. Supplicava con le labbra tese:


«Vi prego mia Signora, aiutatemi! Vi scongiuro seguitemi!»


«Perché dovrei?» La ragazza sussultò, ma non perse vigore nella voce.


«Vi prego dobbiamo salvare mio padre! Vi supplico... aiutatemi!» La donna restò ferma per alcuni istanti. Ascoltava quella voce chiara raggiungere vette di angoscia e franare violenta su di lei, con mani piccole ed affusolate ad artigliarle le braccia in un disperato tentativo di piegarla al suo volere. Leblanc era assorta nei suoi pensieri, stava scorgendo una verità oltre un'altra nebbia, come una figura che emergesse dall'oscurità, dai lineamenti ancora celati.


La sua immaginazione divenne improvvisamente realtà: da un gruppo di alberi velati da una normale foschia, affiorò una persona ansimante avvolta in un ampio mantello nero. La bambina si avvinghiò nuovamente a lei ed altrettanto rapidamente corse contro il nuovo arrivato, il suo respiro a lei riconoscibile.


«Padre! Oh Dei vi ringrazio!» Leblanc sorrise mentre li vedeva prima abbracciarsi e poi raggiungerla. L'uomo zoppicava e si cingeva con le mani il fianco sinistro, dove la camicia era macchiata di sangue fresco. Una ferita inferta da un potente attacco velenoso, la maga dovette usare un incantesimo di difficile esecuzione per rimarginare il taglio profondo. Si prese cura anche delle altre escoriazioni disseminate sul petto scoperto dal tessuto strappato e ben visibili sul volto sbarbato dell'uomo, tuttavia non erano così gravi da suscitare preoccupazioni. Mano a mano che la magia dissipava il dolore, l'uomo riprendeva colore ed il respiro si acquietava, persino i suoi occhi si riempivano di vita; tuttavia Leblanc non poteva alcunché contro i segni di una stregoneria più potente di qualsiasi ella potesse apprendere: una persona amata che aveva condotto Sieur Dupont e Yolande, questi erano i nomi dei due parenti, verso l'arcipelago.


Leblanc aveva chiesto una spiegazione come pagamento. Nella pelle esangue dell'uomo balenavano le forme di muscoli ormai privi di allenamento, mentre narrava la sua storia: dopo la morte della madre di Yolande, aveva incontrato una fanciulla di una bellezza straordinaria e se n'era innamorato perdutamente, ancora nel suo sguardo s'intravedeva un lampo di passione mentre descriveva l'incarnato perlaceo e gli occhi scuri sotto ciglia lunghissime. Diceva d'essere la sacerdotessa di un ordine dedicato ad un Dio dimenticato, tale Vilemaw, e lui l'aveva seguita in quei luoghi per ottenere l'agognata benedizione della divinità e convolare a nozze.


«Elise era tremenda padre! Una donna orribile!»


«Perché dici questo tesoro?!» L'uomo scrutava stupito la figlia mentre replicava particolari che giungevano da un'altra storia, di cui lui e la sua intrepida passione non facevano parte e perciò i suoi pensieri capitolavano precipitosamente nella realtà, nel volto e nei suoi movimenti, da aperta meraviglia a dolore stritolante.


«Ti chiedeva sempre soldi e regali, girava per casa con decine di gioielli mentre licenziavi tutta la servitù! Hai mandato via anche Tata Marie, piangevo in continuazione! Quando presi il coraggio per parlarti, quella donna orribile ti portò via dalla villa e tornaste dopo due giorni, mi lasciaste da sola come se fossi un animale!» I suoi occhi s'inumidivano su quegli sprazzi di memoria, le parole scorrevano veloci sulla lingua mai stanca e sempre pronta a rincarare con altri spiacevoli dettagli: le velate minacce di Elise, i rimproveri del padre per la sua mancanza di rispetto e la dimora di famiglia giacente nell'incuria.


Quel fiume in piena frenò solo contro l'abbraccio ed i baci sulla chioma bionda con cui Sieur Dupont parve risvegliarla da quell'incubo, insieme a sussurri di perdono e rabbia per la sua cecità. Le loro sofferenze si unirono: piangevano, ma questa volta era lei a rasserenare il padre, a chiedergli perdono per la sua durezza, l'espressione stanca era illuminata da una gioia ritrovata. A quel punto anche le preoccupazioni dell'uomo caddero e semplicemente prese a cullare Yolande fra le sue braccia, fino a quando la stanchezza prese il sopravvento sulla giovane e, sorridendo, si addormentò.


«Povera la mia bambina! Quanta fatica ha dovuto sopportare!»


«Sì, sono cose che capitano» Fino a quell'istante, Leblanc era rimasta ad ascoltare in silenzio, quasi volesse lasciare un briciolo d'intimità ai due, poi si era riavvicinata.


«Forza, dobbiamo andare» Alle sue spalle, tra i cespugli, giunse un rumore e si girò di scatto, ma non vide nulla.


«Aspettate un attimo lasciatemi dire una cosa!» Con urgenza, Sieur Dupont affidò Yolande fra le braccia di Leblanc: non pesava granché, riusciva a tenerla senza difficoltà.


«Sono stato un pessimo padre per Yolande, dopo la morte di Maia ero distrutto e l'ho ignorata per mesi... Il suo viso me la ricordava costantemente...» Un vento improvviso tirò in alto il mantello dell'uomo, sembrava dovesse esserne inghiottito. I rumori tornarono dietro di lei, si volse ancora ma non scorse nessuno.


«La mia bambina ha sofferto troppo, abbiate pietà di lei!» Questa volta udì chiaramente dei passi, ma davanti a loro. Un ticchettio inconfondibile, non solo per le sue orecchie. Sieur Dupont aveva gli occhi lucidi mentre all'orizzonte appariva una sottile figura nera. Il suo corpo si alzò col vento e quando Elise li raggiunse, si dissolse nell'aria insieme al mantello.


«Uno dei vostri incantesimi Ingannatrice? Mi sorprendete» Gambe di ragno ed artigli sanguinolenti su mani pece. Questo era Elise e nulla più.


Un tempo, Leblanc aveva immaginato un futuro diverso per quella donna: gli occhi neri avevano covato ambizione, persino la trasformazione non avevano cancellato il suo sorriso lezioso e l'elegante andatura con la quale scivolava come acqua su tela. Con interesse l'aveva scrutata al loro primo incontro, saggiando quell'apparenza di bellezza ed avarizia, fino a sentire l'inquieto battito del desiderio: “la forza sopra ogni cosa”, il motto supremo a Noxus.


Una delle tante scommesse che aveva perso.


«Quindi hai seguito il mio consiglio» Il sorriso di Elise mostrò affilate zanne bianche e s'inchinò dinnanzi a Leblanc, gli arti inferiori come spilli puntati sul terreno.


«Tutto è andato secondo i vostri piani: la donna uccisa da Vladimir ha lasciato l'uomo completamente in mio potere... La sua vita ha soddisfatto Vilemaw!» La risata vibrò lenta, gli occhi scuri iniettati di rosso sangue.


«Grazie per aver catturato la bambina, la sua magia rinvigorirà molto il mio Signore!» La nuova natura di Elise le aveva donato uno scatto animale, ma la maga conosceva bene le sue capacità. L'aria sfrecciò fredda su di lei mentre si librava lontano dalla presa della creatura che si stringeva nel vuoto. Brividi percorsero la sua pelle nuda ed il cuore le batteva all'impazzata per via dell'adrenalina. Ora la fissava dall'alto di un albero con gli occhi ricolmi d'eccitazione: avrebbe testato volentieri la sua magia contro la mutaforma, tuttavia non tutti i suoi desideri potevano essere esauditi.


Dal basso, Elise era piegata in una posa che lasciava presagire un altro movimento repentino, ma la figura si tendeva ansimante, senza dare segni di slancio. Lo stupore nei suoi occhi rossastri era smorzato dalla bocca digrignata.


«Cosa state facendo?!» Per tutta risposta, Leblanc si sedette su un ramo robusto, appoggiò Yolande sulle gambe, mantenendo alta la staffa brillante di luce con la mano sinistra.


«Oh? Ti sei dimenticata l'accordo?» La voce era volutamente stucchevole, talmente tanto che l'aria gelò di colpo. Elise la fissava ridendo, sebbene tutto in lei fosse rigido ed avesse smesso di ondeggiare al ritmo del respiro.


«Certo ricordo, ma ho bisogno di lei» indicò la fanciulla fra le sue braccia «per portare a compimento il tutto».


«Avevi bisogno di un'ultima vittima» Leblanc afferrò un lembo rimasto fra le mani chiuse di Yolande: era nero e macchiato di sangue rappreso «l'hai avuta». Lasciò che il tessuto galleggiasse, fino a quando si sbriciolò nel nulla.


«Sono stata anche troppo paziente».


«Lo so Ingannatrice, vi ho fatto attendere mesi, ma lasciate che prenda la bambina...» Tremava sebbene il freddo non potesse scalfirla, come se qualcosa dentro di lei le impedisse un pieno controllo di sé.


«Lui è impaziente di averla...» Gli occhi di Leblanc si aprirono maligni.


«Rispetta la tua parte dell'accordo ed avrai altro sangue nobile per il tuo Dio» La furia di Elise fece posto ad un'espressione assorta. Sembrava catturata da un richiamo lontano, della cui natura Leblanc non dubitava: il legame che la univa a Vilemaw era molto potente soprattutto sulle Isole Ombra, sapeva che la vicinanza all'essere si manifestava tramite una sorta di collegamento nei pensieri, come dei sussurri all'orecchio. La maga immaginò che stessero discutendo se ucciderla o meno ed il solo pensiero la fece sorridere divertita.


La giovane fra le sue braccia ebbe un sussulto, mormorava il nome del padre. Leblanc scese con lo sguardo ad osservare quell'espressione beata: occhi chiusi, incorniciati da ciglia luminose per via delle lacrime; la guancia ora chiara si mosse appoggiandosi al suo petto, calda e morbida, così come il resto del suo corpo ancora pulsante di vita. Emilia volse lo sguardo più in basso, verso il terreno dove prima stava l'immagine di Sieur Dupont, creata con i ricordi che aveva estrapolato dalla mente di Yolande e dalla sua magia. Ripensò alle suppliche, a quegli occhi ricolmi di amore, un sentimento da lei non artefatto, ma vero e disperato. Senza realmente vederla, fissò alla sua destra la vastità del bosco, oltre quel nero orizzonte vi era la barca con cui era giunta all'arcipelago: una modesta scialuppa, abbastanza grande per accogliere due persone.


«Avrete quanto vi spetta e dopo mi darete la ragazzina».


«Va bene».


Elise teneva fra le braccia Yolande mentre Leblanc aveva appena riposto il sacchetto affidatole dall'altra nella borsa attaccata alla cintola. Lo scambio era avvenuto senza intoppi, l'Ingannatrice la lasciò ricordandole che l'avrebbe contattata per la prossima riunione della Rosa Nera, poi si sollevò in volo. La nebbia che aveva scacciato cominciava a ritornare nella foresta, imprigionandola sotto il suo manto di spettri agonizzanti, sebbene non potessero competere con la potenza della voce del suo Signore: riempiva la sua mente di un canto profondo ed antico, catturava ogni membra del suo corpo al suo volere, anche se una parte di lei rimaneva vigile e pensierosa.


Camminava tranquilla verso la tana del suo Dio, la nebbia si dipanava al suo passaggio riconoscendola come una comune abitante di quelle terre e lei aveva imparato ad apprezzare quel mondo e quegli esseri che vagavano perennemente nell'oscurità. Era un ponte fra due mondi separati da un confine impalpabile, di cui lei confondeva spesso e volentieri il tracciato, portando la vita alla sua condanna eterna, saziando per un po' i fantasmi nell'attesa della prossima Mietitura e porgendo al suo Signore le vittime sacrificali più appetitose per la sua magia.


Liberò la manica della bambina impigliatasi in un rovo e per un istante si soffermò su quel volto su cui sbocciava un sorriso; l'Ingannatrice l'aveva illusa facendo apparire il padre, poi l'aveva addormentata poco prima del suo arrivo, nello spiazzo di rovi in cui si trovavano. Quel pensiero la martellava mentre percorreva il sentiero fra alberi sempre più radi: una premura di cui non capiva la necessità.


Si volse di scatto indietro, scrutando la foresta, muta ed immobile: la nebbia non poteva nascondere nulla ai suoi occhi corrotti, eppure non scorse niente di particolare. Ritornò sui suoi passi, i nervi a fior di pelle: giurava di aver udito un rovo calpestato da qualcuno.


***


La spiaggia grigia era deserta, non che fosse solitamente popolata da spettri desiderosi di rivederlo, ma qualcosa guastava l'atmosfera al punto tale che Lucian trattenne un sospiro nervoso. Scese dalla barca annusando l'aria umida ma libera da quella sensazione di oppressione a lui familiare, per le lunghe frequentazioni che lui e la sua signora avevano avviato decine d'anni prima, quando si erano decisi che intraprendere la carriera dei genitori fosse una brillante idea. Non c'era nebbia, non c'erano tracce di non-morti sul terreno, né di animali maledetti. Nessun comitato di benvenuto.


«Qualcuno mi avrà rubato il lavoro» La battuta lo rese ancor più teso, indeciso se ritenerla un segno positivo. Proseguì al limitare della gigantesca foresta davanti a lui, seguì il confine degli alberi per una dozzina di metri, aspettandosi di scorgere, da un momento all'altro, qualche creatura demoniaca intenta a sussurrare maledizioni contro di lui. Nulla di tutto questo.


Stava iniziando a spaventarsi, quando un urlo lontanissimo, di donna, riportò tutto alla normalità.


«Detesto le sorprese» Sbuffò cominciando a correre.


Il vento freddo schiaffeggiava il suo viso e congelava i suoi polmoni, i piedi percorrevano un sentiero aperto da uno degli amuleti appesi al collo, che aveva il potere di districare il fitto nugolo di rami e rovi davanti al suo passaggio. Cercava di ricordare la provenienza del grido, angolava la corsa verso quella direzione, ma più credeva di avvicinarsi, più il bosco si ribellava e si apriva su vicoli ciechi, come se il suono fosse stato la trappola architettata da qualcuno. Lucian sapeva che non poteva essere così, la mancanza dei non-morti sulle coste poteva significare solo una cosa: una preda più succulenta della sua pellaccia dura a morire.


Si fermò di scatto in mezzo ad uno spiazzo brullo. Si diresse piano verso una serie di alberi con le gambe appesantite da fitte di stanchezza, il respiro evaporava davanti al suo sguardo concentrato. Giurava di aver visto qualcosa al di là dei rami...


Una botta allo stomaco lo travolse improvvisamente in una girandola di eventi: una donna si scontrò con lui, ebbe giusto il tempo d'intravedere un bozzolo bianco fra le sue braccia, prima di cadere sulla terra dura. Annaspò, un dolore lancinante gli attraversò la schiena. Con molta fatica, i suoi occhi misero a fuoco il volto affilato sopra: i suoi lunghi capelli neri gli solleticavano il mento ed il naso.


«Ma cosa...» Alcune ciocche gli finirono in bocca e sputò incapace di proseguire. La donna si mordeva le labbra, sospettò che dietro gli occhiali da sole ci fossero due occhi stretti dal dolore. Gemette muovendosi ed inavvertitamente pungolò lo sterno con il suo gomito, togliendogli per l'ennesima volta il fiato.


Ad un certo punto, capì che avesse riaperto gli occhi.


«Oh cazzo!» Si alzò in fretta, però la forza l'abbandonò quasi subito e cadde in ginocchio. Sangue fresco macchiava il bozzolo che teneva abbracciato, ma non fu questo a preoccuparlo.


«Lucian!»


«Shauna?!» Non poteva essere. Non poteva essere!


Si alzò in piedi anche lui, stava per dire qualcos'altro, tuttavia non ne ebbe il tempo: un brivido spiacevole gravò ancora di più sulla sua schiena e la sensazione di un pericolo dietro di sé lo spinse a girarsi, scattando vicino a Shauna. Dove c'erano le sue gambe, ora due tenaglie attaccate al muso di un ragno mostruoso fendevano il vuoto.


«Merda!» Era enorme, un disgustoso animale nero con il dorso attraversato da grandi linee rosse, le estremità delle fauci vibravano provocando un suono stridulo. Assottigliò gli occhi in preda al fastidio ed estrasse dalle fondine le pistole, che s'illuminarono sulle canne.


«Detesto davvero le sorprese».


«Attento sputa veleno!» L'aveva intuito, ma non era diretto contro di lui. Fece appena in tempo ad afferrare Shauna e correre, prima che il balzo del ragno giungesse su di loro. Il sangue gli martellava nelle tempie, frenò solo quando arrivarono dietro un albero dal tronco largo, ad una ventina di metri di distanza. Espirò rumorosamente, lasciando la donna a terra, la fronte bagnata di sudore.


«Presto dimmi qualcos'altro!»


«E' una mutaforma, può lanciare magie da umana!»


«Fantastico!» Lucian staccò un amuleto dal polso mentre osservava la creatura: stava zampettando verso di loro molto velocemente, troppo velocemente!


«Prendilo e dì: Occultus!»


«Occultus!» La donna sparì nel nulla e Lucian scattò contro il ragno, pregando che Shauna fuggisse.


«A noi due bestione!» Unì le pistole davanti a lui scaricando un fascio di luce contro l'essere. Colpì in pieno la creatura: dal dorso schizzò un fiotto di sangue nerastro. Il verso stridulo che seguì lo assordò, ma riuscì lo stesso a scansare un altro getto di veleno.


«Maledizione!» La corteccia colpita al suo posto sfrigolava e la testa gli girava. Il ragno scattò indietro, come se non si aspettasse una potenza del genere dalle sue armi. Lucian sparò una serie di proiettili verso l'animale muovendosi più rapidamente che poteva, ma stava perdendo l'equilibrio per via dello stridio. Nel frattempo, il mostro si era levato in aria con un filo e guizzava via da ogni dardo di luce, girava intorno a lui di ramo in ramo, il mal di testa stava peggiorando.


«Per l'amor del cielo stai fermo!» Esclamò, un moto di nausea gli ghermiva lo stomaco, ma la creatura continuava a saltare da una parte all'altra, sembrava quasi ridere di lui. Molti rami precipitavano mentre cercava di bersagliarla, pezzi di corteccia schizzavano alti insieme ai rumori del legno spezzato. Con orrore, udì dei sibili ovattati aggiungersi al frastuono dei colpi e gli occhi notarono la nebbia che via via imbiancava l'orizzonte della foresta.


Si stava prendendo gioco di lui nell'attesa degli spettri.


S'accorse in ritardo dello sputo, ma lo evitò: vide con precisione il liquido vischioso ed arancione a pochi centimetri dal suo volto, poi come prima, una botta improvvisa lo sbalzò via, questa volta contro un albero.


«Merda Lucian! Non distrarti!»


«Cosa ci fai ancora qui?!» La spalla gli doleva, ma non era per questo che sentiva la furia crescergli all'altezza della gola. Ebbe il tempo di scorgere il ragno fermo contro un albero, impalato da una freccia sull'addome, prima di sentire l'aria fredda percuoterlo e la foresta correre accanto a lui.


«Ti salvo la vita imbecille!» Shauna lo teneva per un braccio, anche se non poteva vederla per via dell'amuleto. Il medaglione al collo dell'uomo brillava spalancando loro la strada. Il sudore gli scivolava via dalla fronte in aria, il fischio alle orecchie stava sparendo come la nausea.


«Ti ho dato l'amuleto per scappare, non per farti ammazzare!»


«Allora sei davvero imbecille! Se volevi suicidarti bastava che lo dicessi!»


«Non capisci!» Lo sguardo di Lucian era infuocato. Le grida dei fantasmi erano alle loro spalle, tuttavia fiotti di foschia stavano cominciando a raggiungerli pericolosamente.


«Volevo trattenerlo, devi assolutamente prendere un antidoto o morirai!»


«Io non ti lascio in balia di quel mostro!» Avrebbe voluto urlargli che allora sarebbero morti entrambi.


Un fulmine di dolore lo fece urlare. Una zampa nera e pelosa trapassava la schiena e perforava la pancia. Il calore del sangue gli annebbiò la vista. Inciampò ed il polso sgusciò via dalla presa di Shauna.


«Lucian!» Lo strillo arrivò debole e confuso. Sentiva l'oscurità salirgli alla testa, quasi non vide le mani nere che gli arpionarono le spalle e lo sbatterono supino. Gemette, sentiva la schiena a pezzi, la nausea ritornare notando la ferita e le vesti nere scurite dal sangue. Non voleva soffermarsi sulla faccia che lo fissava dall'alto: vide come macchie gli occhi e la bocca rossi sul viso di un bianco cadaverico, lei spalancò le labbra mostrando una fila di zanne grondanti veleno. Avrebbe vomitato se il dolore dei suoi artigli rossi sul collo non lo avesse strozzato. Riconosceva l'eccitazione negli ansimi che rimpicciolivano gli occhi iniettati.


«Preparati a morire!» La bocca scese a mordere la gola.



To be continued

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Capitolo 3
*** Capitolo 3: Quiete ***


Salve salvino amici lettori! :D Visto? Questa volta sono riuscita ad aggiornare un po’ più recentemente rispetto all’altra volta! :P Scherzi a parte, è stata davvero un’impresa questo nuovo capitolo, per colpa della mia lentezza: hanno cambiato quasi tutte le lore delle Regioni, scombinandomi il quadro geopolitico che mi ero inizialmente prefigurata! D: In questo capitolo ho dovuto correggere il tiro, perché la nuova Noxus che si sta delineando all’orizzonte non è esattamente così incline alla diplomazia come quella prima dei cambiamenti. Dubito che nazioni come Demacia o Ionia avrebbero delle reali speranze di influenzare l’atteggiamento dello Stato con la diplomazia e perciò ho stravolto un po’ i miei piani, spero in positivo! :) Ringrazio tantissimo i recensori e non che continuano a leggere questa storia, in particolare Aenris, Davos, SideshowEMS, Thera (sul forum di Lol) e Thurin, grazie alle vostre critiche costruttive miglioro ogni volta e spero di continuare a farlo! :D
Che aggiungere? Questo capitolo è lunghissimo, riuscirò a trovare un punto di equilibrio? Chi può dirlo? :P In ogni caso, vi auguro buona lettura!  

 

Capitolo 3 – Quiete
 

Sona nutriva un rapporto di amore ed odio per la casa in cui era cresciuta. Lestara, la madre adottiva, aveva amato Ionia più della sua patria, più di un marito, tanto da essere considerata l’eccentrica zitella dell’antica casata Buvelle, con i suoi gingilli e tomi ancestrali acquistati dai commercianti del paese, i quali dovevano essere controllati sistematicamente dalle guardie perché non contenessero tracce magiche, fossero esse pericolose o inoffensive. Aveva coltivato quell’amore visitando spesso Ionia da sola, contro il parere delle matriarche della dinastia, si era sempre ribellata all’opinione dei suoi molti parenti, rinnovando ad ogni viaggio la sua passione acquistando nuovi tessuti e mobili pregiati, con cui aveva ristrutturato la villetta.

Un giorno di vent’anni prima era ritornata con una bambina in braccio ed uno straordinario artefatto in una scatola, che aveva fatto intagliare apposta per lo strumento. Nonostante le ennesime proteste per la sua impulsività, per la sua adorazione sviscerata per una civiltà agli antipodi rispetto alla Grande Demacia, alla Cittadella dell’Alba, ad High Silvermere ed ai suoi sconfinati fiumi che cingevano le montagne come nastri di velluto blu sulle forme di madre natura stessa, Lestara aveva scrollato le spalle e, sorridendo, aveva portato la piccola Sona nella sua nuova casa, mostrandole un luogo dove Ionia sfavillava in ogni stanza, con tutte le sue contraddizioni.  

Sona nascose la bocca sotto la superficie dell’acqua della vasca massaggiando le tempie, l’emicrania non l’abbandonava da quando si era risvegliata con gli occhi cerchiati da ombre violacee. Il passaggio dalla luce accecante della sua camera, dove il sole di Demacia s’insinuava dalle ampie finestre protette a malapena da tende leggere, alla penombra del corridoio celato da pesanti stoffe rubino, fino al bagno in cui la luce rifulgeva tra pareti di un bianco accecante, non l’aveva aiutata a sconfiggere il dolore. La musicista detestava quel contrasto così forte fra chiaro e scuro, morigeratezza ed eccesso, i quali confliggevano fra le stanze aperte agli ospiti, imbellite in modo che essi fossero ammaliati da un panorama d’incanti, e quelle private, dove non vi era malia alcuna che potesse distrarre la padrona dai suoi pensieri. A lei causavano solo tremende fitte alla testa, ma non poteva tenere gli occhi chiusi troppo a lungo. I suoi incubi lampeggiavano ancora nel buio delle palpebre.

Perché quella notte, mentre la luna bagnava di luce Demacia la Splendente, la Maestra delle Corde aveva danzato sopra una sinfonia sconnessa. Aveva volteggiato fra la furia delle voci del Principe e di Irelia e fra i suoi dubbi mormorati dal suono metallico dell’Etwahl, di tremenda potenza nonostante il tono flebile. Aveva singhiozzato quando la sua fuga era stata frenata da ragnatele di fasci d’energia rossa, che vibravano emettendo stridii a lei troppo familiari. A quel punto, dalle ombre oniriche, il luccichio di una freccia d’argento aveva squarciato l’aria per raggiungere il suo petto tremante.

L’odore ferroso del sangue le era fluito sulle mani bianche, ma mai quanto quelle che tenevano la balestra da cui era partito il dardo, luminescenti nell’oscurità dell’inconscio. Nel cuore della notte, quelle dita le erano parse fluttuare nel nulla, come le mani senzienti degli antichi racconti del terrore che aveva letto da adolescente, le aveva fissate con le orbite spalancate e le labbra tremule. Poi, aveva sentito il petto spaccato a metà pigolare i suoi ultimi battiti prima che cadesse a terra, il cranio perforato da una seconda freccia.

Ora che l’acqua la inglobava dentro un mondo tangibile era riuscita a dare un proprietario a quelle mani tratteggiando, grazie ai ricordi, vesti nere le quali si erano confuse con le tenebre dei sogni, dando l’impressione di arti senza padrone. Mancava ancora un volto alla creatura, tuttavia Sona poteva ritrovarlo nella mente, tra le facce che l’avevano circondata tre giorni prima.

«È una fogna» da quando Xin Zhao aveva pronunciato quelle parole, la discussione all’Ambasciata di Ionia aveva cominciato a calare nei toni. Una frase che era divenuta una pietra, con cui il Siniscalco di Demacia aveva abilmente arginato il divampare degli animi del Principe e di Irelia, aggiungendone altre per formare un cerchio che contenesse il dibattimento fra i confini della ragionevolezza.

«So cos’è Noxus, Siniscalco» ribatté aspramente Irelia «il puzzo dei loro necromanti arriva fino ai nostri accampamenti» «Conosco bene la vostra esperienza sul campo di battaglia, mia Signora» aggiunse Xin con calma «Noxus non vi deluderebbe: se non hanno morti per la loro magia nera, ne creano altri al Carnaio».

Sona rivide sulla sua spalla la mano di Xin, torcersi su se stessa per evitare di farle del male. Un sorriso malinconico le stirò le labbra mentre si stendeva di più dentro la vasca. «Il Carnaio… lo specchio delle loro corti, così mi raccontava mio nonno» «Esattamente, Vostra Altezza» In quel momento, il Principe era intervenuto pacato e Xin aveva fatto in modo che lo restasse, blandendo i due dignitari sull’unico punto su cui entrambi concordavano: Noxus e le sue nefandezze.

«La differenza fra il Carnaio e la Corte dell’Alto Generale di Noxus è che il sangue non si mischia mai col vino» «Parlate chiaro, Siniscalco» Irelia interruppe l’uomo, anche se la voce aveva perso la nota acida e l’Anziana di Ionia stava seduta senza alcuna intenzione di alzarsi, sfidando Xin o il Principe. «Lo farò volentieri, Volontà delle lame, ma prima vi chiedo un favore» non servì che il Siniscalco dicesse altro. Appena ebbe finito di rispondere, tutti gli sguardi si rivolsero su Sona, rossa e piangente.

La ragazza scivolò sotto l’acqua, un reame di specchi in cui non vi era sicurezza di quelle fattezze tremolanti e sfocate, tanto che avrebbe potuto dubitare di avere un corpo ed essere solo un ricordo privo di quell’imbarazzo che l’aveva ghermita tre giorni prima, galleggiante nella luce accecante. «Non preoccuparti, Sona» la voce di Xin oscillò anch’essa fra le acque, i suoni deformati come le immagini «sistemerò tutto». Dopo che Xin si era allontanato, lasciandola con quella promessa, la Maestra delle Corde era rimasta fuori dalla stanza, si era lavata il viso dal pianto ed aveva atteso nella saletta di fronte.

«Levatevi di torno» Sona era un’abile compositrice e musicista, dotata di un orecchio assoluto, eppure si stupì di aver udito quel sibilo in lontananza, probabilmente nei pressi dell’ingresso del lungo corridoio che portava all’aula delle udienze. Fu ancor più sorpresa di sentire, su per il naso, una zaffata maleodorante ed improvvisa che la spinse a serrarlo fra le mani, seppure l’odore fosse ancora effimero. Si meravigliò meno nell’udire i fischi metallici di alcuni dardi che si conficcavano nelle pareti di pietra, attutiti dal tonfo morbido dei mantelli e di vedere le due guardie davanti all’uscio della sala delle udienze correre via dalla sua vista, verso quel chiasso di armature e passi sordi che si trascinavano contro di loro.

Agli angoli dello sguardo si delineò un’ombra scura, una sensazione di sonnolenza le arpionò un corpo che ora era convinta fosse il suo.

«Lasciatemi andare, bestioni!» «Bloccatela!» ora il sibilo era un grido di donna dal tono secco, quasi appuntito e neppure gli inquilini della riunione poterono ignorarlo. «Cosa sta succedendo qui?!» Xin fu il primo ad uscire dalla sala e subito si tappò le narici, turbato dall’odore più intenso esclamò: «Maledizione!». Lo seguì di fuori il Principe Jarvan IV, di nuovo una maschera di furia impassibile, totalmente incurante del puzzo «Avevo ordinato che nessuno ci disturbasse, chi ha osato farla entrare?!» «Non c’è tempo da perdere, Vostra Altezza!» Finalmente, la donna comparve di fronte a Sona, trattenuta a stento dai quattro soldati che vigilavano su quella parte dell’ambasciata.

La donna che si profilava davanti alle Anziane di Ionia, Xin, Jarvan IV e Sona era segnata da qualcosa di sinistro. Le vesti nere erano strappate mostrando la carne viva, da cui sfrigolava quell’odore nauseabondo sotto forma di purulenza, i guanti lunghi fino ai gomiti erano imbevuti di sangue che gocciolava a terra. Quei dettagli avevano tutto il potere di distrarla, però la Maestra delle Corde fissava il viso asciutto e spigoloso di quella donna, macchiato di sangue rappreso, da cui gli occhi perforavano i suoi interlocutori. Leggeva sentimenti indecifrabili in quell’orizzonte plumbeo. Lei che componeva melodie per genti tranquille, per quegli occhi avrebbe scritto un’ode ai caduti in battaglia, avrebbe teso le corde per qualunque sinfonia evocasse quegli ansimi che malamente dissimulavano fatica e sofferenza. Ancora l’Etwahl vibrò come il suo cuore, colpiti da quella visione estranea alla loro vita, eppure di fronte a loro  «Ascoltatemi, devo dirvi qualcosa di molto importante!».

La ragazza risalì in superficie, prorompendo in un respiro a pieni polmoni. Serrò la gola fra le dita, ardente mentre tossiva acqua. Mano a mano che l’aria fresca tornava al suo corpo, l’oscurità lasciò il posto alla luce del sole, sorta del tutto e le sue membra ritornarono a lei, muovendosi al suo pensiero. Sospirò rumorosamente, udendo gli echi gravi nel petto acquietarsi. Si era tuffata in un mondo di ricordi fino a rischiare di diventarlo essa stessa. Rabbrividì, non solo per la paura di essersi avvicinata a quel limite più, ma anche per l’immagine di quella donna.

Brillava il ricordo delle frecce incoccate nell’ampia balestra sulle spalle e nello sparadardi laccato d’argento sul polso destro; di quelle che, invece, attendevano di essere utilizzate nelle faretre ai lati degli stivali. Una cacciatrice, la quale si era rivolta al Principe con risolutezza, senza mostrare nessuna considerazione per le piaghe che la martoriavano. Sona si era domandata cosa cercasse, ma non aveva potuto rivolgerle nessuna richiesta. Per quell’indifferenza alla sua stessa sorte, il futuro sovrano ed i suoi alleati l’avevano accolta nella sala, accompagnata da due guardie.

La Maestra delle Corde non poteva sapere il contenuto del suo avvertimento e nemmeno quali reazioni avesse suscitato in chi l’aveva ascoltata. Conosceva solo le prime e le ultime note della melodia: urlate. «Ah, lasciatemi idioti! Altezza, non potete farmi questo!» com’era arrivata, trascinata dai soldati, allora era stata strattonata fuori dall’edificio. Sona rabbrividì un’altra volta, rammentando quegli occhi di piombo fissi su di lei, la conclusione dello spettacolo.

«Ehi Sona! Sì, dico a te! La tua vita è…» Gridò manifestando quel dolore che aveva cercato di nascondere, quando uno degli uomini di guardia le afferrò una piaga bruciante, tirandola via dalla vista della ragazza. Xin avanzò verso di loro, guardando la donna con occhi talmente minacciosi che la musicista stentò a riconoscere i lineamenti dell’amico «Avanti, portatela fuori di qui!».

Sona uscì dalla vasca di colpo e mise l’accappatoio, asciugando i capelli con foga. Nell’acqua agitata, il riflesso del suo volto storceva l’espressione tesa in una smorfia grottesca. L’intervento delle guardie e di Xin non le aveva impedito di completare da sola quell’avvertimento, quasi scontato. La tua vita è in pericolo. La musicista era certa di questa intuizione.

Xin, cosa… Sona cercò di comporre quella domanda, ma il Siniscalco le chiuse le dita in una stretta «Nulla, amica mia… delirava e basta» le pose una mano sulla spalla, ma questa volta la ragazza sentì un tocco glaciale e l’esasperazione crescerle dentro, incapace di comunicarla priva della musica dell’Etwahl. Xin era a conoscenza di tutto questo, era uno dei suoi amici più cari, ma non allentò la presa, allontanando gli occhi dal viso di Sona, continuò con un filo di stanchezza nella voce: «Un mostro l’ha avvelenata, il Principe pensava potesse parlare, ma continuava a ripetere frasi sconnesse… I curatori del palazzo l’aiuteranno» certo, l’artista aveva visto quelle ferite rumorose come una corda stonata, tuttavia aveva udito anche il respiro spezzato, la risolutezza della voce… Altre lacrime lumeggiarono agli angoli dei suoi occhi e dovette afferrare con forza le corde dell’Etwahl, impaurita che potessero muoversi ancora da sole.

Una guardia giunse da loro, il Principe, Irelia e Karma erano già spariti dentro la sala. «Perdonate il disturbo, Siniscalco, il Principe mi ha comandato di accompagnare la Signorina Buvelle a casa» Xin Zhao si girò di scatto. «Che cosa? Perché Jarvan ti avrebbe ordinato una cosa simile?» il soldato non si scompose. Il Siniscalco di Demacia era stato il consigliere favorito di Jarvan II, aveva il diritto di chiamare il nipote di quest’ultimo per nome «La sua presenza non è più richiesta, verrà richiamata quando il Principe e le Anziane avranno risolto la questione» «Tutto questo è ridicolo…» sbuffò Xin strisciando una mano sul viso, liberò Sona che subito ne approfittò: Perdonatemi, ma gradirei attendere una risposta qui, la guardia spalancò gli occhi stupita di vederla così decisa, dopo il pianto di poco prima, ma ora Sona sentiva il suo spirito rinvigorito. Quel pomeriggio le aveva lasciato una lunga serie di dubbi, uno più spiacevole dell’altro, non aveva intenzione di abbandonarli senza risposta.

La guardia schiuse la bocca per ribattere, in evidente difficoltà di fronte alla decisione della ragazza, ma Xin lo anticipò parandosi di fronte a lui ed a Sona. «Soldato, andate a preparare una carrozza nel cortile, vi raggiungeremo subito» questa volta fu l’artista a spalancare gli occhi. Mentre l’uomo se ne andava velocemente, la musicista si ritrasse da Xin, prima che potesse serrarla di nuovo frenando il suo sfogo. Come puoi farmi questo, Xin? Credevo fossi mio amico, erano note che volavano leggere, in modo che nessuno potesse udirle a parte loro due «Lo sono sempre, Sona» mormorò rapido il Siniscalco, ma la ragazza rifiutò la sua mano, indietreggiando dal lato opposto dell’uscita. Stanno discutendo della mia sorte, Xin, come posso restare a casa ad aspettare? E quella donna... anche se delirava cercava di dirmi qualcosa… ho il diritto di sapere, Xin… ho il diritto di capire… La musica eterea fu spezzata dal terrore che la melodia le sfuggisse dalle dita e da lacrime di frustrazione. La Maestra delle Corde dava le spalle al Siniscalco per evitare che le scorgesse, ma era un tentativo futile. Xin aveva pronto il fazzoletto quando la fronteggiò, la musicista lo prese senza guardarlo negli occhi anche se l’amico era calato col viso a scrutarla, un sorriso mesto come unico conforto.

Fra le sbarre della finestra, una brezza fresca fece oscillare le tende. Il tramonto rosseggiava sulle poltrone di pelle nera, donandogli una tonalità molto simile a quella del sangue rappreso della cacciatrice. «Ti capisco Sona, nessuno meglio di me potrebbe…» l’artista alzò subito il viso per incontrare due specchi neri, su cui spiccavano ricordi che non conosceva, nonostante percepisse un terrore antico, più potente del suo. Il suo respiro si placò, le guance avvamparono comprendendo quelle parole inespresse. Con la mano libera dal fazzoletto, vibrò le corde: Mi dispiace Xin, non volevo… Bastò che il Siniscalco le sfiorasse la mano per fermarla. «Essere dura? Non lo sei stata» lasciò cadere la mano sulla spalla dell’amica, sospirando, abbassò lo sguardo a terra.

L’artista lo immaginò alla sua età. Un ragazzo alle prese con un destino più grande di lui, a cui mostrava una maschera impassibile, oscurando l’angoscia di un giovane soldato. Le sembrò di ritrovare quei lineamenti invecchiati, mai dissolti. Era un canto arrangiato in modo diverso che conservava la sua anima originale. Xin tornò a guardarla con un sorriso meno carico di preoccupazione «Sona, ti prometto che avrai una risposta quanto prima» portò l’altra mano al petto, all’altezza del cuore «hai la mia parola» era sincero, ma non era abbastanza per rassicurarla.

C’era dell’ironia nel passaggio dello stupore, dal soldato a Sona, concludendo con Xin, in un modo per lui insospettabile. La Maestra delle Corde aveva preso la mano dell’uomo sulla sua spalla e l’aveva portata davanti al viso, stringendola fra le sue. Chiuse gli occhi dopo aver visto quelli spalancati del Siniscalco, riflettendo se stava per fare la scelta giusta. Poi rivolse il palmo di Xin verso l’alto e disegnò le parole con le dita. Era la prima volta che lo faceva da quando si erano conosciuti, un’azione con cui aveva dialogato con sua madre e  la governante per anni, dando vita a discussioni che fossero solo loro, prive della melodia rivelatrice dell’Etwahl. Provò un moto di imbarazzo udendo Xin accostarsi al suo fianco, come altre persone prima di lui, ma seppe dall’intensità con cui guardava la mano che era a disagio quanto lei. Gli stava donando molta fiducia. Voglio vederla.

Xin sospirò, lo sentì spostare il peso da una gamba all’altra mentre l’armatura tintinnava. «Quando starà meglio» sussurrò offrendole un braccio. Questa volta, la ragazza non lo rifiutò e s’incamminarono verso l’uscita. Percorsero la strada in silenzio, quando l’aiutò a salire sulla carrozza, prima di salutarla, sussurrò soltanto: «Hai la mia parola».
 
Tre giorni erano passati ed ancora non aveva saputo nulla. La presa di Sona si allentò sulla penna, lasciando che l’inchiostro fuoriuscisse dallo spartito. Sbuffò tamponandolo con una gomma, il caldo le inumidiva il collo e le mani più del solito. Era scesa al pianoterra molto tardi rispetto ai suoi orari abituali, nel grande studio della villetta che Lestara aveva creato per lei stava cercando di recuperare il tempo perduto, sperando di concludere quelle composizioni prima di pranzo. Le tende della grande finestra a fianco del tavolo su cui lavorava erano immobili, non un alito di vento le ondeggiava e il sole era attenuato tramite i tendaggi scuri, grazie a cui vi era luce sufficiente per lavorare, ma non abbastanza per infastidirla.

La mattinata stava giungendo a conclusione, lasciando il posto alle ore infuocate del pomeriggio. Un incessante chiacchiericcio giungeva dal giardino che fiancheggiava la stanza: dove i pochi domestici curavano le siepi che decoravano la recinzione, i fiori variopinti di cui il prato era adornato ed il viale acciottolato che si allungava fino al cancello. La Maestra delle Corde sorrise udendo la vecchia governante discutere con il giardiniere di quella caldissima estate, delle faccende diventate un’impresa per colpa degli acciacchi, del pranzo che avrebbe fatto bollire in pentola, della speranza che la sua piccola Sona suonasse una bella melodia che le conciliasse il sonno pomeridiano.
Sebbene fosse stata sua intenzione licenziare tutto il personale della villa, la Signora Barrymore ed altri si erano impuntati per restare. Una decisione che, nel profondo del suo cuore, aveva commosso la ragazza, non aspettandosi quella fedeltà nei suoi confronti dopo la morte di Lestara. Fortunatamente, cedere alle loro richieste le aveva permesso di rimanere nella villetta in cui lei e la madre adottiva avevano vissuto, altrimenti i suoi parenti l’avrebbero costretta a scegliere a quale ramo della famiglia unirsi, in dimore ben più fornite di servitù ma di poca riservatezza. Comporre musica sarebbe stato impossibile.

La ragazza incrociò gli occhi con quelli verdi di Lestara. Il ritratto appeso al lato opposto della scrivania la raffigurava nel salotto, bellissima come sempre. Sorrideva, piccole rughe d’espressione delineavano i contorni della bocca, i lunghi capelli neri le circondavano il viso e la linea dei fianchi, fasciati in vesti crema che mettevano in risalto la figura flessuosa. Per anni, Sona si era chiesta se sua madre comperasse di nascosto pozioni di giovinezza da Ionia, suscitando le sue risa. Lestara le aveva promesso, un giorno, di rivelarle il suo segreto. Quel giorno non era mai arrivato. La ragazza toccò l’unica mano visibile osservando la sporgenza delle vene, un piccolo segno d’invecchiamento, ma l’effetto rivelatore era mitigato dalla minuscola manina stretta in essa, un ponte tramite cui la ragazza specchiò gli occhi blu in quelli di Sona bambina. Un sorriso incerto, una luce curiosa negli occhi, le guance rosse di imbarazzo. La vide crescere davanti ai suoi occhi, raggiungendo Lestara in altezza e gioia, senza mai arrivare allo splendore di sua madre, capace di illuminare una stanza con lo sguardo e di riempirla di allegria con una risata. Non avrebbe mai potuto superarla.

Sona appoggiò la fronte sulla tela dov’era Lestara, incapace di fissarla ancora, rivolse il viso verso l’Etwahl sul comodino vicino all’uscio. La tua vita è in pericolo. Una smorfia le stirò le labbra. Per anni aveva sognato quel momento, dilaniata dal dolore, eppure non riusciva a smettere di avere paura. La ragazza raggiunse lo strumento musicale, le dita pronte a vibrarne le corde.

«Perdonate l’intrusione, Signorina Buvelle» una folata d’aria accompagnò l’ingresso dell’unica cameriera della villetta, Ester, la più giovane di tutto il personale di servizio. «Il Signor Zhao chiede di voi al cancello, vorrebbe parlarvi» il cuore di Sona accelerò d’improvviso. Fatelo accomodare nella sala, lo raggiungo immediatamente, suonò, ma Ester aggiunse: «Fischer ha provato ad invitarlo, ma il Signor Zhao desidera che voi lo raggiungiate» poi si avvicinò a Sona notando la sua perplessità, sussurrò: «È venuto in carrozza» Sona inspirò profondamente, ma le sue guance impallidirono lo stesso. Capisco… ditegli che arriverò quanto prima.

Dopo che Ester se ne andò, Sona premette le dita contro le corde dell’Etwahl, il freddo del metallo l’aiutò a non perdere la calma. Era arrabbiata con Xin per quella lunga attesa, ma era finita. Indirizzò un’ultima occhiata al ritratto, domandandosi che effetto avrebbe avuto se fosse rimasto vuoto. Tornò di sopra nella sua camera da letto, aprì l’armadio cercando il vestito migliore per presentarsi al Principe Jarvan IV.
 

 
***
 

Al limitare delle imponenti mura di Demacia, i quartieri crescevano in lunghezza, creando tunnel di case e catapecchie contorti, i quali si intersecavano formando labirinti in cui gli abitanti giravano senza problemi, ormai abituati ad orientarsi grazie ad un’insegna logora, alla forma delle macchie del cane di quel bottegaio, al numero di buchi di una baracca mangiucchiata dalle termiti. Nei giorni in cui i negozianti cercavano di finire le scorte di magazzino, giorni come quello, era più complicato notare quei dettagli tra le folle che si raggomitolavano attorno alle attività. Molti, poco avvezzi alla geografia dei quartieri, stavano appiccicati alle pareti come mosche, sbuffando e borbottando offese alla mancanza di buon senso degli avventori, supplicando Dei che non pregavano da anni di aprirgli un varco. Poi c’erano altri, solitamente i birri, che orientavano il loro giro di ronda in base all’istinto, seguendo il crepitio di artefatti magici illegali dentro un covo di ladruncoli, assaporando nell’aria il gusto metallico del sangue in una rissa. Oppure pedinavano i tizi col mantello, controllando la distanza che cercavano di mantenere, valutando se fosse il caso di tentare il giochetto di sempre.

«Fermati, in nome del Re!» Vayne imprecò a bassa voce cominciando a correre, ma era troppo tardi. Gli agenti di guardia lanciavano l’esca solo dopo essersi assicurati di catturare la loro preda. Gemette quando una freccia le trafisse il polpaccio, rallentandola, tuttavia il dolore vero arrivò quando i due uomini la sbatterono contro il muro di una casa, bloccandole le braccia uno dietro alla schiena e l’altro premuto contro la parete. Un boato di sorpresa l’accolse, udì i passi delle persone allontanarsi da lei. La donna insultò veemente le madri e sorelle di tutti, anche delle guardie, assaporando il sangue su per le gengive, ma gli agenti la ignorarono, abituati com’erano a udirne di cotte e di crude sui loro parenti, le strapparono il cappuccio dalla testa.

«Guarda un po’ cos’abbiamo qui, una fottuta latitante! Ti dichiaro in arresto per ordine del Re!» la cacciatrice sputò a terra, ridendo sprezzante alle parole della guardia più anziana fra le due. «Quale Re? Quello che ha rischiato di ammazzarmi, rinchiudendomi in una cella ammuffita?! Vada all’inferno lui e la sua stirpe!» Ringraziò il cielo che la guardia più giovane fosse uno zelante ammiratore della casata regnante. Voleva fare il duro, perché quasi le spezzò il braccio che le stava tenendo fermo dietro alla schiena, da quanto premette lo spigolo di una delle placche dei pettorali contro l’arto, mozzandole il respiro «Bada a come parli, feccia! Il Re è…» non seppe mai come finiva quella lode, detestava dilungarsi quando il suo obiettivo era libero. Inesperta com’era, quella guardia aveva schiacciato il braccio munito di sparadardi, la nocca di Vayne si era conficcata bene fra i pezzi dell’armatura e bastò sfiorare il meccanismo per lasciargli un dardo ricordo sul costato.

La stupida recluta urlò di dolore, il suo superiore lo guardò sbalordito non riuscendo a capire cosa fosse successo. La Cacciatrice Notturna non gli diede il tempo di appurarlo: la presa del ragazzo si era allentata, aveva occhi solo per la sua prima ferita in servizio, Vayne gli regalò la seconda: lo colpì in pieno viso con un pugno, i finimenti dello sparadardi lacerarono lo zigomo. L’uomo s’inginocchiò afferrando la parte del volto sfregiata, gemendo per il dolore «Questo è per la feccia!» sbottò la donna scattando verso l’altro agente.

Lui era già pronto al suo assalto, aveva capito definitivamente che la situazione stava sfuggendo al loro controllo, anche se non avrebbe potuto fare nulla per impedire la fuga della donna. Sebbene il polpaccio sanguinasse procurandole un’intensa fitta, la Cacciatrice Notturna aveva imparato a gestire sollecitazione più gravi alla sua soglia di sopportazione. Le bestie avevano affinato i suoi riflessi, perciò si chinò in tempo, prima che le arrivasse un montante in faccia. Vayne imprecò estraendo di scatto la freccia dal polpaccio e conficcandola con tutte le energie che aveva nella giuntura dell’armatura, all’altezza del ginocchio dell’uomo. Il sangue le schizzò sul viso, l’urlo di dolore fu coperto dal rumore squillante dell’armatura, l’avvisaglia perfetta di un calcio che la cacciatrice evitò buttandosi a terra, tuttavia le prese il braccio senza sparadardi.

Gemette udendo le ossa dell’avambraccio spaccarsi contro la potenza della gamba rinforzata di metallo. «Godi, puttana!» esclamò la guardia credendo di averla fermata «Godi tu, maiale!» un fitta lancinante lo sorprese, in un punto a dir poco insospettabile. Dopo tanti anni contro gli avversari più disparati, Vayne ancora si domandava come potessero i soldati di Demacia girare senza una cintola che proteggesse le loro parti basse. Aveva approfittato della caduta per agguantare una freccia da una faretra sugli stivali, subito l’aveva incoccata per spararla proprio su per il culo della guardia, prima di scattare in piedi. Un grido molto simile a quello di una fanciulla strozzata da un nerboruto l’assordò mentre scappava senza voltarsi indietro.

«Dite al vostro Re di equipaggiarvi meglio, idioti!» Dopo lo spettacolo a cui la folla aveva assistito, Vayne non si stupì di varcare la mandria di uomini e donne facilmente, ma sapeva che la sua fuga era un’illusione: alle spalle, fra le stradine che la fiancheggiavano e persino davanti a sé udiva i tonfi degli stivali dei rinforzi, le loro urla sovrastavano le ciance della gente comune. Non aveva il potere di mescolarsi a queste: la ferita al polpaccio aveva risvegliato tutto il dolore accumulato in quei giorni di tensione, il sole del mezzodì vibrava sulle vesti nere sotto il mantello, rendendola visibile come un calabrone sopra un cespuglio di rovi. Sbuffò in preda alla fatica, capendo di aver passato il negozio in cui avrebbe dovuto intrufolarsi, Vayne si rese conto di essere giunta in una parte del quartiere a lei poco conosciuta: una serie di bancarelle di cianfrusaglie, cibarie e vestiti svettava all’orizzonte, priva di segni riconoscibili, la gente si ammassava nei pressi di queste plasmando accozzaglie uniformi grazie ai mantelli di colori molto simili, tra cui le armature delle guardie scintillavano, prive di coperture «Eccola lì, arrestatela!».

Vayne maledisse la sua stupidità, cercava febbrilmente qualunque cosa la potesse aiutare, mentre gli uomini si approssimavano a lei velocemente, quando la visione di una faccia dietro ad un bancone risvegliò in lei un avvertimento «Ricorda, se passi un tizio con la faccia di scimmia sei andata troppo avanti! Torna indietro prima che puoi, è un trafficante a cui non piacciono le facce sospette». La donna inspirò profondamente e si diresse verso l’edificio opposto al negozio della faccia di scimmia, scalandolo fino al tetto. Di traverso, notò le persone di passaggio scrutarla con sguardi perplessi, forse si stavano chiedendo se la latitante avesse perso il senno del tutto «Dea della fortuna, se ci sei batti un colpo!» Vayne stava morendo sotto quel caldo sole, il sudore le impregnava la tuta scura, il manipolo di una dozzina di guardie naufragava ai piedi della casupola. Alcuni avevano delle balestre con le frecce incoccate. Vayne saltò su, le gambe elettrizzate dal dolore, contro il sole alto nel cielo.

Sotto di sé, le guardie nascosero gli occhi dalla luce accecante, le balestre scesero a puntare il terreno, solo una scoccò un dardo, mancandola. Quella di Vayne era appoggiata saldamente al braccio spaccato, tre frecce pronte a partire non verso i suoi inseguitori, ma all’altezza della finestrella del negoziante. La Cacciatrice Notturna osservò il babbuino mentre si trasformava, dalla maschera di noia di un uomo abituato a spettacoli migliori, in un grugno sbalordito e spaventato. Lo vide sparire dalla sua visuale, correva fuori dalla casupola, permettendole un tiro più agevole di prima. «Sei la mia principessa guerriera, tesoro!» Vayne ricordò scoccando, supplicando una divinità a cui non credeva minimamente ma che esaudì le sue preghiere. Lo scimmione nascondeva qualcosa di molto esplosivo nel retrobottega. Il tetto del negozio, le sue mura, le belle porcellane rifinite vennero investite dalla furia di fiamme magiche, le quali proruppero fratturando la pietra, spingendo un nugolo di detriti contro le guardie e la gente in preda al panico, schizzavano dappertutto proprio come i proiettili che cercavano disperatamente di evitare.

Invece, l’onda d’urto investì in pieno Vayne. Per volontà della Dea improvvisamente innamorata di lei, precipitò contro un tetto di paglia, il quale attutì di molto i danni a cui sarebbe stata sottoposta, distruggendo le tegole delle altre case. La Cacciatrice Notturna ringraziò la sua nuova amata e promise, d’ora in poi, di dedicarle ore ed ore di odi declamate ad alta voce mentre sostituiva da una bancarella, dopo essersi calata, la mantella con una più coprente della sua. Si buttò in mezzo alla calca, superando le guardie. Un gruppo di agenti aveva circondato il proprietario dell’esercizio scoppiato, gli altri fissavano la gente che guizzava intorno, ma nessuno la notò.

Soddisfatta della propria fuga, Vayne riuscì a raggiungere, fra gruppi di persone sempre più rade perché richiamate dal guazzabuglio che aveva lasciato dietro di sé, la catapecchia più pulciosa di tutto quell’isolato. Aveva una ventina di buchi di media grandezza sulla facciata a ridosso della strada, ma il vero segno di riconoscimento era un cerchio di rosso brillante, sul lato che spalleggiava la viuzza d’ingresso. Un pentagramma tracciato con il sangue dell’unica capretta del vecchio proprietario, una minaccia lanciatagli da qualche rivale in affari, visibile per lui ma non per le persone che camminavano lungo la strada principale. La donna entrò e riconobbe subito l’odore un po’ acetato del vino ammuffito.

«Sono tornata, vecchio!» dal fondo dell’unica stanza visibile all’interno, un anziano tremante, dalla pelle rugosa e bardato di una lunga capigliatura canuta sbucò da sotto un bancone di legno, roso dalle termiti. Nei suoi occhi e nel corpo ingialliti scorreva il sintomo più evidente della malattia dell’alcol e nella bocca tremula si leggeva una paura ora tramutata in rabbia, per via dei denti digrignati.

Vayne l’aveva conosciuto molti anni prima, all’apice della sua carriera di malvivente, aveva sostenuto la sua caccia di alcune creature da quelle parti «Vedi di sbrigarti, Cacciatrice! Gli spargimenti di sangue allontanano i clienti e richiamano gli idioti!» «Dannazione, sei stata tu a creare tutto quel casino?! Che i demoni ti mangino gli occhi e le orecchie, non hai alcuna pietà per un povero vecchio come me!» la voce tremava ma lasciava trasparire una certa durezza. «Frena la lingua, vecchiaccio!» ribatté Vayne avanzando, la gola seccata dalla stanchezza «Ho appena mandato in malora il tuo rivale in fondo alla strada, merito molto più di un paio di sciocche maledizioni!» gli occhi dell’anziano proprietario di quella sottospecie di locale scintillarono, come i pochi denti rimasti dentro la bocca screpolata «Oh, allora quel baccano è servito a qualcosa! Vieni qui, offre la casa!».

Vayne grugnì mostrando una smorfia di disgusto quando odorò il puzzo di quel vino che doveva sapere più di calzini che di uva «Lascia perdere, Francis, voglio solo dell’acqua» Francis, il vecchio trafficante di manufatti magici illegali rise riempiendole un bicchiere di acqua «E sei pure economica! Oggi dev’essere il mio giorno fortunato!» «e il mio» convenne Vayne tracannandolo in un solo sorso e così anche i bicchieri successivi, fino a quando la pancia le dolse, gonfia e dissetata. Si pulì la bocca con la manica e cominciò a parlare di questioni serie «Le hai tenute da parte?» l’anziano Francis si rabbuiò immediatamente. Da uno scomparto segreto sotto all’asse di legno tirò fuori due pietre gemelle, con un identico simbolo inciso sopra «Sì ed è l’ultima volta che lo faccio: dopo quel trambusto, gli sbirri verranno sicuramente a farmi delle storie! Voglio essere pulito, prima di allora!» gracchiò mentre Vayne afferrava una pietra e la scrutava, girandola fra le mani assaporò l’odore dell’erba appena tagliata «Prima mi fai le feste e poi mi volti le spalle? Sei proprio un cagnaccio irriconoscente» il trafficante sospirò rumorosamente ma non la degnò di una risposta. Il suo lato sentimentale era sommerso da decenni nella fossa che aveva preparato in giardino per la sua bara, da quando si era infilato nel mercato nero della magia.

Vayne mise la pietruzza in tasca scrollando le spalle, ma lasciando l’altra sopra il bancone «E quella? Non starai pensando di mollarla!» «Stai calmo, voglio chiederti un ultimo favore» L’anziano stava per protestare, tuttavia la donna lo frenò buttando sopra il bancone, con un botto sordo, un sacchetto colmo di oro fino alla bocca di cuoio. Francis fu subito catturato da quel panorama, un’oasi di gioia di cui aveva dimenticato l’esistenza, riflessa nei suoi occhi piccoli ed ora dorati. «Chiedi ad uno dei tuoi di portarla qui» Vayne tirò fuori dalla borsetta attaccata alla cintola un foglietto, su cui era scritto un indirizzo che, una volta letto dall’uomo, lo spinse a ridere di gusto. La cacciatrice attese pazientemente che finisse il suo teatrino, respirando piano perché le zaffate le stavano causando diversi attacchi di nausea, fino a quando l’udì sbottare, con entrambe le mani sbattute sul bancone, la faccia di un cagnaccio «Sei pazza, Vayne! Se speri che manderò uno dei miei preziosi uomini nel quartiere più sorvegliato di tutta Demacia sei fuori strada! Non se ne parla nemmeno per il doppio di questo sacco!».

La cacciatrice era preparata a questa risposta e non si scompose «Oh, davvero?» Francis mostrò i denti come l’animale a cui rassomigliava. Vayne si appoggiò con il gomito sul bancone e tolse gli occhiali da sole, fissando lo sguardo di cielo nuvoloso, in procinto di tempesta, in quello quasi trasparente dell’uomo. Sorrise preparandosi alla sua espressione stupita, mentre toglieva il guanto dal braccio rotto, portando l’indice sotto la mano dell’anziano. Ottenne l’effetto che desiderava: il vecchio impallidì scrutando quella carne nera di putrefazione, i due vermi che strisciavano sui muscoli visibili, in cerchio ad una placca dorata fusa dentro l’arto. Era una scena orribile, l’emblema di qualcosa andato storto, di un incubo ad occhi aperti «Dimmi Francis» cominciò Vayne toccando con l’indice ed il pollice il mento marcato del vecchio, un verme si arrampicò vicino alla sua faccia, abbandonando una traccia scura dove si era appoggiato «Cosa credi mi fermerà dal torturarti?» l’uomo deglutì un nodo che non c’era e la donna seppe di aver vinto. Rimise il guanto su quella mano maledetta e si alzò, dirigendosi verso l’uscita «Stasera la userò, vedi che sia dove deve essere, se ci tieni alla vita».

Un po’ le dispiaceva. Solo un po’: Francis era un farabutto in declino, ma pur sempre un malvivente che aveva distrutto decine di famiglie con i suoi piani, arruolando i ragazzini perché compissero le consegne più pericolose, con la promessa di pochi spiccioli. Pedine sacrificabili, diceva. Vayne sbuffò infilandosi in una via che costeggiava le mura imponenti di Demacia e le catapecchie, una scia di liquami ben noti appestò il suo cammino, ma era l’unico luogo in cui la magia non avrebbe destato sospetti, tanto era desolata la via.

Il sole picchiava duro in quel cunicolo stretto ed asfissiante, Vayne celò il naso con la manica afferrando la pietra «Runa del Pellegrino, portami a casa» la pietra brillò intensamente, rilasciando un fascio che rivestì Vayne di luce. La donna chiuse gli occhi. Nel buio della sua mente, pregò ancora la Dea della Fortuna perché non sacrificasse più altre vite innocenti, prima di teletrasportarsi fuori da Demacia.

 
***

 
Per tutto il viaggio in carrozza con Xin, Sona aveva rimuginato su quanto accaduto tre giorni prima, osservando la strada che portava alla Cittadella dell’Alba dove si trovava anche l’Ambasciata di Ionia, con l’Etwahl muto sopra le gambe, completamente priva del desiderio di proferire alcun suono. Xin era di fronte a lei, i gomiti premuti sui gambali, le aveva chiesto scusa perché l’aveva lasciata senza risposte per tre giorni, rassicurandola del fatto che, seppure la discussione fra il Principe e le Anziane non si fosse ancora conclusa, l’Esempio di Demacia desiderava proteggerla da qualunque mossa avventata. Mentre l’aria fresca della montagna s’inerpicava con loro lungo la strada ripida che conduceva sulla vetta, dov’era il palazzo, Sona aveva annuito senza trasporto, continuando ad osservare le valli di smeraldo all’orizzonte, il rumore fragrante della ruota contro le rocce della via.

«Sona» Xin si era sporto verso di lei, prendendole le mani nelle sue, il suo tono di voce la spinse a voltarsi verso di lui. Gli occhi neri dell’uomo la catturarono «potresti guardarmi?» la Maestra delle Corde arrossì, chinando appena il capo, scrisse sul palmo del Siniscalco: Scusami, mi sento un po’ distante. «Lo vedo» mormorò l’amico, stringendo la presa «Fidati di me» Sona sospirò sollevando gli occhi su Xin. Era così sicuro di quello del quale le aveva parlato che, alla fine, fece un cenno d’assenso e lasciò che un breve sorriso comparisse sulle labbra. Va bene, Xin, l’amico le sorrise a sua volta ed il viaggio, da quel momento, divenne più sereno.

Fu come affiorare all’interno di un mondo completamente diverso. Si chiese se, quando era riemersa dalla vasca da bagno, non fosse apparsa in quel reame di specchi in cui le immagini non erano più le stesse, le persone un loro riflesso. Vostra Altezza, suonò Sona delicatamente, effondendo nell’aria una musica gentile, non sono sicura di aver inteso le vostre parole. L’Esempio di Demacia rise, un comportamento così strano, così diverso da quello dimostrato alla riunione di tre giorni prima, da trascinarla ancora di più verso quell’idea, per quanto folle che fosse. «Sono sicuro di essermi espresso benissimo, ma mi ripeterò: come futuro sovrano di Demacia, ho dimostrato quanto ancora debba imparare a gestire il mio temperamento. Vi ho mancato di rispetto in un modo inaccettabile e per questo vi porgo le mie scuse, per quanto accaduto tre giorni fa» Sona spalancò gli occhi, esterrefatta.

Si trovavano nella stessa sala in cui era accaduto tutto, Xin era ancora alle spalle della poltrona su cui era seduta, il Principe davanti a lei, dall’altra parte del tavolino. Non credeva che il bisogno di pranzare l’avrebbe indotta a vivere delle allucinazioni. Sona si alzò in piedi, il lungo vestito verde scuro frullò insieme a lei mentre si chinava in una riverenza al Principe Jarvan IV. Dopo un paio di minuti, tornò a sedersi e prese a suonare un’altra melodia: Vostra Altezza, sono io a dovervi porgere le mie scuse, ho dimostrato tutta la mia inettitudine, dando una pessima immagine di me e del popolo di Demacia. Il futuro sovrano fece come per scacciare quelle parole con un ampio gesto della mano «Debbo dissentire, i sudditi sono incolpevoli delle decisioni dei loro sovrani. È stata una scelta incauta sottoporvi ad una discussione di quel genere. Io e le Anziane avremmo dovuto discutere ampiamente di quella lettera, prima di coinvolgervi. Inoltre, la loro scarsa conoscenza del protocollo non vi ha permesso di appellarvi all’aiuto delle matriarche della vostra famiglia, lasciandovi da sola, in una situazione a voi del tutto estranea».

Oh, Sona era così contenta di non aver dovuto coinvolgere le matriarche, le stesse che sarebbero state ben contente, ora che Lestara era morta, di estendere la loro influenza su di lei, convincendola a sposarsi con un buon partito, per rinnovare lo splendore dell’antica casata Buvelle. Un’artista di grande fama in tutta Valoran come lei avrebbe potuto sperare di affascinare lo stesso erede al trono; la consapevolezza di aver eluso una situazione simile, in cui la matriarca Buvelle avrebbe potuto insinuare quel ti di proposte alla riunione, la spinse a sospirare di sollievo appoggiando una mano sul cuore. «Come Principe, sono contento di avervi risollevato» Disse l’Esempio di Demacia, totalmente estraneo ai pensieri di Sona. Si alzò in piedi porgendole una mano, lei si alzò lasciando che l’uomo la conducesse verso la porta «Purtroppo non posso rasserenarvi del tutto: la discussione fra me e le Anziane non è conclusa, ma voglio dirvi questo. Come futuro Re di Demacia ho a cuore tutte le persone di questo popolo. Voi siete la Maestra delle Corde, l’artista più abile che le mie orecchie abbiano mai udito. Non oserei privare me ed i sudditi delle vostre abilità troppo a lungo e non lo farei per lasciarvi andare a Noxus» Sona sorrise, le guance rosa di piacere, anche se si sentiva sempre un po’ a disagio per quei complimenti, Voi mi onorate, Vostra altezza.

«Ora voglio darvi una buona notizia: le Anziane vi attendono nei loro quartieri privati, qui all’Ambasciata, per pranzare con voi. Desiderano porgervi, a loro volta, le loro più sentite scuse. Il Siniscalco vi accompagnerà da loro» la ragazza fu meno entusiasta di quella prospettiva, ma s’inchinò nuovamente al Principe congedandosi, mentre lei e Xin uscivano fuori dalla stanza. Nel corridoio entrava l’aria fresca di montagna dalle finestre aperte. Il sole rischiarava la piccola sala d’attesa, rilucendo sulla pelle nera delle poltrone, riverberando sul tavolo di vetro davanti ad esse. Improvvisamente, il corridoio le parve così ampio, libero di preoccupazioni. Senza pensarci, afferrò la mano di Xin, come hai fatto? L’amico rise leggendo quelle parole e s’incamminò con lei per le scale «Sottovaluti il Principe, Sona. Io sono solo un consigliere come gli altri» ma la Maestra delle Corde era di tutt’altro parere. Un’espressione seriosa le adombrava il viso, Credo sia tu a sottovalutarti, ho come il sospetto che tu gli abbia fatto un incantesimo, il Siniscalco rise ancora guardando la scritta e si fermò dopo aver salito le scale.

«No, ho solo una grande esperienza con la casata regnante» la ragazza trattenne uno sbuffo e sospirò, superando l’uomo. Le ciocche di capelli libere dalla sua treccia le caddero davanti al viso, Grazie Xin, suonò sull’Etwahl con note cristalline, hai sistemato tutto. Il Siniscalco non rispose subito, ma si avvicinò a lei. Sona si girò quando sentì la mano di Xin sulla spalla e lo vide sorridere «Su con la vita, amica mia! Vedrai che andrà tutto per il meglio» esclamò. La ragazza si spostò dall’uomo, un sospirò leggero le fuoriuscì dalla bocca, il cuore frenato da un peso. Aveva ragione, ma lei non aveva mai nulla per cui essere felice.

Il Siniscalco di Demacia la oltrepassò raggiungendo la prima porta alla sua sinistra. La aprì ed il rumore delle poltrone spostate la raggiunse «Ci vediamo più tardi, Sona» le appoggiò una mano sulla spalla mentre andava via «cerca di rilassarti» Sona alzò gli occhi incrociando quelli scuri di Karma. Era uscita dalla stanza e la fissava, la luce della sala da pranzo scaturiva dandole un alone luminoso quanto il suo sorriso «Ti stavamo aspettando» la voce calda era gentile, lo sguardo sottile esprimeva serenità e le sue mani erano così belle e piene di tepore quando presero quelle dell’artista «Vieni pure, amica mia, io ed Irelia abbiamo portato qualche specialità da Ionia, resterai estasiata!» Il nome di Irelia la fece fremere un po’. La Volontà delle Lame non le aveva detto nulla di grave, eppure avrebbe preferito sorseggiare il tè con le matriarche Buvelle, invece di pranzare con lei. Molto volentieri, Illuminata, il suo Etwahl suonava sempre appropriato, mai incerto.

 
***
 

Al piano di sotto, il Principe Jarvan IV attendeva l’ingresso di Xin per discutere di questioni molto importanti, con due calici ed un’ottima bottiglia di vino che si era fatto portare da un domestico, considerata la tensione di quegli ultimi giorni. Lo vide superare l’uscio con il viso solcato dalla mano, aveva due occhi talmente sconsolati che l’Esempio di Demacia non riuscì a trattenersi: «Venticinque anni e la tristezza di una defunta, povero Xin» il Siniscalco fissò gli occhi del Principe fulminandolo con lo sguardo, nonostante le sue parole uscissero dalla bocca controllate, rigide «Le Anziane cercheranno sicuramente di portare acqua al loro mulino, Jarvan» «Le Anziane?» domandò l’uomo appoggiando le braccia sui gambali e alzando un sopracciglio «Se fosse per Irelia, andrebbe lei stessa alle porte di Noxus per tagliare la testa all’Alto Generale» Xin si sedette sul divano a lato della poltrona di Jarvan, la lancia saldamente appoggiata a terra, al punto che avrebbe spaccato il pavimento.

«Già, è Karma l’unica che vorrebbe mandare Sona a Noxus» il Principe Jarvan convenne riempiendo i calici sopra al tavolino nero «Ingenua, ma passionale» bevve un lungo sorso, Xin Zhao stava valutando attentamente la sua esitazione, studiando quello che avrebbe detto. Aveva consigliato suo nonno fino alla sua tragica dipartita e continuava il lavoro al fianco del padre. Era nato come un Viscero nel Carnaio e si era tramutato in un diplomatico capace di comprendere le sottigliezze della politica, nonostante solcasse ancora i campi di battaglia al suo fianco, proteggendolo insieme a Garen Crownguard da pericoli che, alla fine, affrontavano sempre insieme. Quando rientravano a Demacia, dopo l’ennesima campagna contro Noxus, eserciti di mostri e quant’altro, suo padre, Jarvan III, chiedeva al Siniscalco di seguirlo il più possibile, cercando di capire se il figlio stesse perfezionando l’arte della diplomazia a dovere.

L’Esempio di Demacia appoggiò il bicchiere sul tavolo, portando il gomito sul bracciolo «le vuote speranze sono una bella copertura per le spie» soffiò il futuro sovrano massaggiando il collo possente mentre Xin Zhao appoggiava anche lui il suo bicchiere sul tavolo, dopo averlo svuotato «Una mossa avventata, tipica dei giovani» Jarvan annuì ma era pensieroso, lisciava il mento accarezzando la pelle ruvida «potrei concordare, Xin, ma credo vi sia una certa consapevolezza nelle scelte dell’Illuminata: vuole comprendere, sapere. Sarebbe di beneficio anche per il nostro esercito» Xin Zhao aveva i muscoli rilassati da quando si era seduto. Ora, risalì con la schiena attaccata al divano, gli occhi aperti dalla perplessità. Scelse comunque le parole con cura «Capisco, cosa intendete?». Jarvan IV non rispose subito.

La sua mente volò a due anni prima, ad una ragazza con la pelle ricoperta di scaglie che si tramutava in un drago, rischiando la sua vita per salvare quella di un villaggio. Shyvana era ritornata con lui a Demacia, lottando contro le parole disgustate, la paura della corte. I suoi pensieri giungevano sempre a lei quando pensava alla magia, alla nuova città-stato che avrebbe voluto modellare, senza paure, con Shyvana libera di volare nei cieli e di passeggiare per le strade, catturando solo sguardi di ammirazione per il suo eroismo.

Un gruppo di guardie marciò davanti alla porta, chiacchieravano ridendo di qualcosa di stupido ed innocuo  «Ho passato anni per convincere mio padre a cercare alleati fuori dai confini di Demacia e mi ha concesso di riprendere i rapporti diplomatici con Ionia, a patto che fossi io ad occuparmi di queste relazioni» Jarvan IV sospirò massaggiando le tempie con una mano «non posso comprometterle adesso» Il Siniscalco colmò un’altra volta il suo bicchiere, scrutava l’Esempio di Demacia di sbieco e parlò con una voce dura, secca come una lama in pieno volto «Non tutte le relazioni vanno mantenute, se portano a pessime scelte» il futuro sovrano inspirò profondamente, riflettendo sulle possibilità che aveva in quelle circostanze. Dopo un po’ di pensieri fra di loro discordanti, replicò: «Forse, ma un amico può essere indirizzato sulla strada giusta: al di fuori delle Noxtoraa, per esempio» le Noxtoraa erano portali di pietra nera che segnalavano l’ingresso e l’uscita dai domini di Noxus. Muoversi al di fuori di questi avrebbe significato appropinquarsi alle cittadine del nemico, senza perdere il controllo della situazione.

Be’, dovette ammettere che non si attendeva la reazione del Siniscalco. L’uomo rise di gusto sbattendo la lancia a terra, la quale emetteva un rumore secco a cui il Principe replicò con una smorfia infastidita. Invece Xin aveva un sorriso a trentadue denti mentre fissava l’uomo, portando una mano alla gola  «Da non credere, l’Esempio di Demacia ha studiato i libri che gli avevo consigliato, questa è proprio una giornata piena di sorprese!» Jarvan aprì la bocca, spiazzato, ma la serrò subito, in preda all’irritazione «Maledizione Xin, stavo cercando di essere serio!» «Andiamo, Jarvan» quel consigliere da quattro soldi lo scrutava con un’espressione sibillina mentre continuava serafico: «ho sentito i soldati vociferare di una bella recluta che ti fa scherzi peggiori» Jarvan nascose il viso dietro alle mani, più che altro per celare l’imbarazzo.

«A proposito di questo…» esordì il Principe riacquistando il controllo della situazione. Questa volta, fu il Siniscalco a contrarre i muscoli, tornando serio. «La sua casa è sorvegliata?» «Sì, Vostra Altezza» il Principe attese che il sole crogiolasse un po’ l’uomo sotto la sua luce forte, poi continuò con un’autorevolezza che scorreva nel suo sangue da Principe, da Re: «Te lo ripeto ancora, perché so quanto i sentimenti possano confondere il giudizio più saldo» Garen balenò nella sua mente «Nulla di tutto questo uscirà da questa stanza, sono stato chiaro?». Conosceva Xin Zhao, sapeva quanto fosse fedele alla corona e per questo restò spiazzato quando il consigliere ribatté alle sue parole «Nulla di tutto questo? E le cose passate, vecchie e sepolte? Di quello che è accaduto a Lestara…» «Taci, Xin» Jarvan lo interruppe ed era aspro, usava lo stesso tono veemente di tre giorni prima «Non mi interessa quello che pensi, né quello che provi. Non rischierò la stabilità di questa operazione per una ragazzina spaurita» «Principe, ascoltami!» ribatté Xin, gli occhi luccicavano di una mescolanza di emozioni difficili da afferrare «È una ragazza sola, spaventata! Se sapesse che noi possiamo…».
«No, Xin, noi non possiamo, è la dura realtà» il Principe lo arrestò di nuovo ed era mesto nello sguardo basso, si massaggiava le tempie con una smorfia di dolore, ma era comunque autoritario «Sii grato del fatto che abbiamo deciso di mantenere il suo segreto, altrimenti sai a quale destino sarebbe andata incontro».

L’ora del pranzo era passata da diverso tempo. Nella stanza, decorata in perfetto stile ioniano, fluiva un vento fresco, fischiava attorno ai due uomini solleticando le loro coscienze, immerse in profondi pensieri. Non si guardavano e non si consideravano, una gara inespressa che avrebbe visto presto il suo vincitore. Un uccellino si depose sulla sporgenza della finestra, cinguettando in cerca di cibo. «Altezza» «Siniscalco» il Principe respirò rumorosamente dopo che Xin uscì. Il fringuello librò davanti a lui atterrando sul tavolino. I suoi minuscoli occhi guardavano la bottiglia di vino e Jarvan la prese colmando l’ennesimo bicchiere, come se quell’uccellino potesse rubargliela. Nei pensieri del Principe albeggiava un’unica certezza, sopra il miscuglio di sentimenti: imparare a controllare il suo temperamento era un suo impellente dovere.
 
***

 
Il ritorno a casa fu lungo ed estenuante. Xin Zhao non proferì parola, guardava ostinatamente fuori dalla finestrella della carrozza, in un modo che pareva schernire l’atteggiamento di Sona all’andata. La Maestra delle corde fissava le mani strette fra di loro, priva della forza di guardare negli occhi l’amico: avrebbe voluto dirgli che il pranzo con Karma ed Irelia era andato bene, le Anziane l’avevano trattata come una loro pari, soffermandosi appena sulla discussione di tre giorni prima ed Irelia aveva perfino mormorato una rassicurazione sul suo destino fra le mura di Noxus, semmai fossero arrivati a stabilire quel viaggio. Le avevano offerto ogni cosa si trovasse sulla tavola imbandita di specialità ioniane. Sona aveva ricordato il sapore dolce del pesce crudo sopra la frutta fresca, un accostamento che all’orfanotrofio aveva compreso, nella sua bontà, quando la maestra l’aveva imboccata sorridendole «Questo è quello che noi chiamiamo frutto di mare!». L’artista sorrise rammentando quella scusa per farle mangiare il pesce, grazie a cui non aveva più smesso di provare quelle combinazioni di sapori. Alzò il viso in un baleno, pronta a chiedere a Xin se anche lui ricordasse quei gusti così particolari, ma osservando il viso inscurito da un’ombra pesante, che lo spingeva fuori da quella carrozza, ci rinunciò. Sospirò, tornando a guardare l’Etwahl che luccicava senza vita al sole del primo pomeriggio, a meno di quella che la musicista infondeva nello strumento. Una linfa vitale di cui lei era fautrice grazie ai suoi sentimenti.

In quei momenti percepiva profondamente la mancanza di Xin. L’amico parlava moltissimo con lei, narrandole le sue giornate, le storie sul campo di battaglia, ispirandola a comporre nuove melodie, nuovi concerti. Tante volte l’aveva ringraziato per il suo contributo indiretto nella creazione della sua musica e lui aveva sempre scrollato le spalle, schernendosi per le sue scarse conoscenze su come funzionasse la più basilare delle armonie. Alla ragazza piaceva come Xin rideva a battute che lei credeva di non aver pronunciato, con quella voce bassa con cui scendeva dentro i suoi affollati pensieri, risollevandola un po’ da quelle paure che mai l’abbandonavano.

Sona si volse verso la finestrella di fianco al suo posto: alle pendici della montagna, che ormai stavano raggiungendo, la città rifulgeva candida sotto il sole, come una stella terrena di straordinaria bellezza. Il sorriso curvò verso il basso e, sospirando, premette la fronte contro il vetro freddo della finestrella. D’altronde, lei era sempre così mogia, così triste che ancora si domandava cosa mantenesse Xin al suo fianco quando ritornava dalle sue campagne con il Principe. Quella corda sottile, che lei non riusciva ad intonare, poteva spezzarsi in ogni momento, rompendo uno dei pochi legami che custodiva da tanti anni. Una morsa gelida le afferrò lo stomaco, ma non se ne curò. Xin sarebbe stato felice, per la sua malinconia non vi era soluzione.  

Giunsero alla sua casa senza particolari intoppi. Al di là del cancello, il Signor Fischer, il giardiniere, la salutò sventolando il lungo braccio, prima di andarle ad aprire. Grazie di avermi accompagnato a casa, Xin, Sona suonò sull’Etwahl una melodia semplice. Stava per oltrepassare l’ingresso della villetta, quando Xin l’afferrò per un braccio «aspetta un attimo» Sona tremò voltandosi verso il Siniscalco, serio e corrucciato. L’uomo le strinse le spalle con una forza che gli aveva visto usare poche volte su di lei. «Sona…» si fermò dopo quel sussurro, ma stavolta l’espressione si distendeva e c’era un sorriso ad illuminarlo «se qualcosa ti preoccupa, non avere paura di dirmelo, siamo intesi?» Sona spalancò gli occhi. Riuscì solo ad annuire velocemente, ma questo sembrò sufficiente all’amico «Bene, tornerò a prenderti quando il Principe e le Anziane avranno deciso il da farsi. Fino a quel momento, riposati» Xin risalì in carrozza, lasciandola con molti più dubbi di quanto avrebbe dato volentieri a vedere.

La governante fu contenta di sapere che l’incontro fosse andato bene, un po’ meno di aver dovuto passare il sonnellino pomeridiano senza le melodie della figlioccia, ma accolse la ragazza con un caloroso sorriso, abbracciandola con vigore «Tesoro, di sopra ti ho lasciato un vestito più leggero, cambiati con calma, ti aspetto per prendere il tè insieme!» Sona si congedò sorridendo e salì in camera, chiudendo la porta dietro di sé, alleggerita da diverse preoccupazioni.

Nella chiarezza di quella stanza, vide l’ombra, ma non lo comprese fino a quando non la cinse da dietro, stritolandole il collo. Sona sentì il respiro appeso nella gola, sulla sua schiena aderiva un mantello, all’altezza dello sterno udì lo schiocco di un meccanismo ed il freddo del metallo fra i lacci del vestito. Il cuore le batteva nei polmoni e nelle tempie, un sudore freddo le scivolava sulla schiena «Calma, dolcezza» sussurrò la donna che aveva udito tre giorni prima «Chiudi la porta a chiave» Sona ubbidì, sempre con lei e la sua freccia dietro alla schiena. Chiuse gli occhi, immaginando, per un istante, che quella donna l’avesse minacciata e non che l’avesse avvertita. Invece, la liberò subito dopo che scattò la serratura, lasciando che la musicista si voltasse ad osservarla.

Era straordinario come vederla da vicino le donasse una prospettiva completamente differente: Sona scoprì che la donna aveva guarito tutte le sue ferite apparenti e di arrivarle all’altezza delle spalle. Una donna alta, dalla figura spigolosa e sinuosa al tempo stesso. Quel giorno, nascondeva i suoi terrificanti occhi grigi dietro degli occhiali da sole, ma questo non strappava il suo alone di mistero, la furia con cui si era avvicinata togliendo le lenti oscure e pronunciando seccamente: «Mi presento, sono Vayne e devo dirti qualcosa di molto importante».

 

To be continued
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