Change Sides.

di EdemaRuh
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - L'inizio di tutto. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Non come le altre. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - Qualsiasi altra cosa. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - Documenti rubati. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - Change Sides. ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 - L'ennesimo matrimonio. ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 - Change Sides. ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 - Lontano. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


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Mi preparo a pubblicare questo racconto nonostante io mi sia più volte ripromessa di non farlo, di non raccontare mai a nessuno quello che è successo. Avevo promesso che non avrei più pensato a tutta questa faccenda, che sarebbe stata morta e sepolta, l’ho promesso meno di un mese fa.

Ho fatto del mio meglio per mantenere questa promessa, che forse, come tanti altri buoni propositi, era destinata a non essere mantenuta fin dall’inizio.

La mia mente sta cominciando ad accettare le sconfitte e le perdite, riportando a galla i ricordi, quindi tanto vale metterli per iscritto e condividerli con chi vorrà.

Di tutte le promesse che mi sono fatta il primo giorno di dicembre su un treno che mi riportava a casa dopo uno dei funerali più tristi a cui io abbia mai partecipato, però, ce  n’è una che non ho ancora infranto e che mai infrangerò: non guarderò l’ultima videocassetta.









Note dell'autrice.
Lo so che come prologo è corto ma a mia difesa ho da dire che i capitoli saranno tutti di una lunghezza decente. 
Non ho niente da dire al momento, se non che se volete mi trovate anche su 
Wattpad: @Edema_Ruh
Facebook: 
https://www.facebook.com/InsomniacStories/

Aggiorno ogni giovedì quindi ci vediamo tra una settimana!

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - L'inizio di tutto. ***


Il campanello suona insistentemente. Sono pronta a scommettere che sono i miei amatissimi migliori ed unici amici.
Serve a poco urlare “Arrivo!”, già lo so. Devo muovermi a vestirmi e correre ad aprire. Noteranno subito che mi sono appena alzata, o forse lo sanno già, dal momento che non scollano il dito dal citofono, maledizione a loro, ma non diranno niente, sono abituati alla mia faccia da persona appena uscita dal coma.
Non mi prendo nemmeno il tempo di guardare questa nuova giornata di novembre, iniziata nel più traumatico dei modi, ma corro verso la porta mentre mi infilo una maglietta qualsiasi, i jeans ancora sbottonati. Mi piacerebbe riuscire a fare come la sveglia mi impone, invece di spegnerla e girarmi dall’altra parte ogni mattina.
 
Qualche semplice informazione sulla mia vita, mentre io corro verso la porta: all’età di vent’anni vivo già da sola, perché ho scelto di studiare in una città che non è la mia senza un apparente motivo. Così mi ritrovo al secondo piano di una villa in periferia, controllata venticinque ore su ventiquattro da mia zia e la sua famiglia, che vive al primo piano. A farmi compagnia ho solo un coniglietto nano che si esalta ogni volta che mi vede passare. Se non altro non sono in completa solitudine.
Così ieri sera sono uscita con alcuni compagni di studio, nessuno di particolarmente interessante o simpatico, ma almeno ho bevuto un po’ e ho dimenticato le ansie della vita di tutti i giorni. E ho passato tre ore a vagare da sola mentre aspettavo di tornare abbastanza lucida per poter guidare.
Quindi ora eccomi qui, con due ore di sonno alle spalle e un gruppo di amici idioti che mi aspettano per uscire.
 
Apro finalmente la porta, anche se forse potrei dimostrarmi più entusiasta all’idea di vederli. Ma diciamocelo, non è colpa mia se mi hanno tirata giù dal letto di domenica.
Mi sposto subito per lasciarli passare senza dire una parola, sperando che siano loro a colmare il silenzio con un buongiorno. E come al solito capisco quanto adoro i miei amici quando vedo l’ombra di un sorriso beffardo comparire sulle labbra di alcuni. Mi piace che chi mi è vicino riesca a capirmi anche solo con un’occhiata e il loro silenzio mi fa capire che nemmeno loro vorrebbero essere svegliati  dopo una nottata da leoni in centro.
Si accomodano in salotto, trovando miracolosamente posto in mezzo al caos che regna sovrano in casa mia, abilità che hanno sviluppato in un anno di serate passate assieme.
 
Faccio un breve appello nella mia testa: Alessio, il mio migliore amico è lì, seduto sull’unica sedia libera oltre alle due occupate da vestiti e libri che sono lì da così tanto tempo che ho dimenticato anche i titoli. Solito sguardo divertito, uno dei soliti maglioni blu, solito silenzio perché non è mai il primo a parlare. Poi c’è Riccardo, ancora in piedi in cerca di un posto dove sedersi senza mettere a rischio la propria incolumità, aria trascurata come sempre, gli occhi di chi non ha niente da fare della sua vita, mai. E Luca, seduto sul tappeto come se niente fosse. È il ragazzo di quella che è la mia migliore amica, l’unica che non vedo; probabilmente sta ancora dormendo o sta lavorando.
Devo ammetterlo, mi sono mancati. A volte mi sembra di non averli abbastanza vicini, anche se viviamo a pochi chilometri di distanza, dieci minuti in macchina. Però a volte, soprattutto ora che è quasi inverno e quasi troppo freddo, vorrei avere qualcuno con cui passare il mio tempo, invece che stare qui da sola in questo appartamento che per me è decisamente troppo grande.
 
«Quindi, che si fa?» mi decido finalmente a chiedere. Alessio ridacchia, probabilmente per la mia voce che sembra tutto tranne che femminile in questo momento.
«Pensavamo di parlare un po’, per organizzarci per le vacanze di Natale.».
Ok, questo è davvero strano. Manca più di un mese e loro non sono assolutamente quel tipo di persone che hanno tutto pianificato da mesi, a differenza di me. Per una volta vogliono davvero avere già tutti i piani pronti, togliendosi il brivido della sorpresa e dell’ultimo momento? Conosco i miei polli, non è stata un’idea loro.
«Va bene.» li accontento. «E così, giusto per sapere, dov’è Erika?».
«Lavora, ci raggiunge tra qualche oretta.».
«Le avete detto di venire qui vero?» annuiscono. Conosco i miei polli ma anche loro conoscono me.
«Perfetto. Allora, quali sono le vostre intenzioni per Natale?» proseguo incuriosita.
«Ricordi di quel posto abbastanza isolato di cui abbiamo parlato qualche tempo fa? Quello dove i miei genitori mi portavano da piccolo? Visto che loro ormai non ci vanno più ho pensato che potremmo andare tutti lì, per passare le vacanze assieme. Magari portiamo dei fuochi d’artificio o qualcosa di divertente da fare, ci sarà sicuramente la neve.» Riccardo continuerebbe volentieri ma si è reso conto che non lo sto più ascoltando.
La neve, casa.  Non sono ancora abituata a vivere in una città dove anche se ogni tanto la notte nevica, la mattina dopo è già sparita tutta la magia. La sola parola “neve” mi riporta immediatamente alla mia infanzia, alle risate e a tanta felicità che troppo spesso temo di aver perso in questo inferno di cemento. O forse l’ho solo barattata in cambio di un po’ di libertà e di privacy. Ma questa è un’altra storia, ora è meglio che mi concentri e trovi una risposta decente, prima che i miei amici si rendano conto che mi sono di nuovo persa nei meandri della mia mente invece che ascoltarli.
«Ok, forse dovremmo aspettare che l’effetto dell’alcol passi del tutto.» aggiunge Luca nel frattempo. Ecco, appunto.
«No, ci sono, stavo solo pensando a..cose. Non importa. Non è una cattiva idea, anzi, sarei felice di passare le vacanze con voi.  Perché ne stiamo già parlando?»
«Vorremmo sapere se puoi chiedere ai tuoi parenti se hanno sci da prestarci o se dobbiamo organizzarci in un altro modo, tutto qui.».
Sapevo che c’era qualcosa sotto. Mi aspettavo di molto peggio però, quindi decido di accontentarli.
 
Saliamo in soffitta, il regno della polvere e dei ragni, che vivono in pace nella loro città di oggetti dimenticati. Voglio sapere se esistono effettivamente degli sci prima di fare visita ai piani bassi per chiedere un favore. Meno vedo i miei parenti meglio mi sento, soprattutto con la faccia che mi ritrovo oggi.
C’è di tutto: mobili in legno ormai troppo vecchi per fare bella figura in una casa moderna, una vecchia tv che chissà se funziona ancora (così a vederla sembrerebbe di no), giochi da tavolo di cui probabilmente nessuno al mondo ormai conosce le regole, un passeggino che per ora non serve a nessuno e che difficilmente verrà utilizzato di nuovo un giorno, una macchina da cucire che dimostra un centinaio d’anni e tante scatole di cartone chiuse alla meglio con lo scotch di carta, contenenti non voglio nemmeno sapere cosa. Niente sci, solo due slittini in legno che probabilmente si frantumerebbero al primo utilizzo.
Sto per parlare quando mi accorgo che gli altri sono stati attratti da qualcosa in un angolo: videocassette. Maledetti amanti del cinema.
«Trovato qualcosa di interessante?» commento sarcastica. È palese che quelle cassette hanno poco da regalare al mondo, perché, prima cosa, hanno tutta l’aria di non essere intatte e, seconda cosa, nessuno ha un lettore adatto. Almeno credo.
Credo male, perché Luca comincia subito ad espormi le sue scoperte esaltato, supportato dai commenti entusiasti degli altri due. Ribadisco: maledetti amanti del cinema.
Raggiungiamo infine un accordo di pace: loro si portano via quei deliziosi pezzi d’antiquariato della storia del cinema, così la prossima volta che qualcuno sale in soffitta non devo subirmi lo stesso spettacolo,  e io informo i piani bassi del loro sequestro da me concordato, chiedo in prestito gli slittini (senza ovviamente garantire per la loro incolumità) e mi informo per gli sci.
Con mia grande gioia, la seduta è tolta e posso tornare a dormire.




Spazio autrice:
So benissimo che oggi non è giovedì e che sono in ritardo di un giorno. Non posso che scusarmi con voi ma per una volta che decido di fare le cose fatte bene il mio computer si rifiuta di lavorare. 
So anche che questo capitolo è un po' piatto ma in fin dei conti è il primo e quando ho iniziato a scriverlo non avevo ancora in mente una trama decente, dal momento che tutto questo racconto è frutto di una sfida contro me stessa e contro il tempo, un sogno malatissimo che mi ha fatta svegliare in panico e qualche riferimento puramente casuale alla realtà.
Vi ricordo che potete trovare la storia anche su:
Wattpad: https://www.wattpad.com/story/58601329-change-sides
AO3, questo sconosciuto: http://archiveofourown.org/works/5604058/chapters/12912217
Stay tuned, ci vediamo giovedì prossimo! (stavolta sul serio)
Edema Ruh.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Non come le altre. ***


L’università il giovedì è qualcosa che si avvicina di molto all’inferno. Otto ore in aule lontane una dall’altra, così non solo ti rincoglionisci per le lezioni ma devi anche morire per arrivarci in tempo. Otto ore di monologhi, sospiri annoiati, aule piene, disperati seduti sul pavimento e tante altre cose brutte.
Pur di non ascoltare mi perdo a guardare la giornataccia grigia fuori dalla finestra. La nebbia che segna l’arrivo dell’inverno è lì, che mi guarda minacciosa. Non sai mai cosa nasconde, motivo per cui la trovo terrificante e stupenda allo stesso tempo. Difficile dire se piove, probabilmente anche se da qui non posso esserne certa, goccioline infami, così piccole da non essere viste, cadono bagnando tutto quello che trovano; preferirei che nevicasse.
Nel caso non si fosse capito, non mi piace l’inverno; freddo, pioggia, poca luce. Insomma, esistono davvero persone che lo apprezzano? Anche se in realtà nemmeno le altre stagioni mi piacciono, se fosse per me vivrei in un nulla perenne e basta, quindi forse è un mio problema. Forse sono apatica, forse sono semplicemente poco attaccata alla vita che mi circonda.
Nel frattempo la lezione è finita senza che me ne accorgessi. Con movimenti resi automatici dall’abitudine sistemo le mie cose in borsa,mi alzo, mi infilo la giacca maledicendo il caldo infernale che regna in quest’aula e me ne vado. Saluto qualche conoscente fermo sulla porta a fumare, più per cortesia che per altro, e mi lancio sulle scale con un solo obiettivo: macchinette. Caffè. Tanto.
 
Così, mentre sento la bevanda calda scendere fino al mio stomaco ed entrare in circolo, strappandomi al mio stato catatonico post – due ore di morfologia inglese, scorro le notifiche trovando con grande sorpresa un messaggio di Luca: “chiamami quando puoi”. Come prima cosa lo maledico per aver omesso la maiuscola a inizio frase, poi lo cerco in rubrica e lo chiamo, visto che non mi scrive spesso e se l’ha fatto deve per forza esserci un buon motivo.
«Pronto?»
«Buongiorno principessa. Dimmi tutto.». Butto il bicchiere di plastica ormai vuoto, raccolgo le mie cose e mi avvio verso l’uscita.
«Stavo guardando le cassette. Alcune sono film di vecchia data, quelli che mi interessavano, li ho già copiati su dvd. Poi ho trovato filmati che credo siano della tua famiglia, li ho messi da parte così quando vuoi passi a riprenderli.». Fuori fa freddo, veramente troppo freddo e io non ho la coordinazione necessaria ad allacciarmi la giacca mentre sono al telefono. Facciamola finita in fretta o muoio.
«E mi hai chiamata solo per questo?» gli chiedo, più curiosa che irritata visto che so benissimo che c’è dell’altro.
«C’è un’altra videocassetta. Non come tutte le altre. Penso che dovresti vederla. Non so se sei il tipo di persona che crede nelle cose paranormali ma…dovresti vederla. ». Wow, addirittura paranormale, devo ammettere che mi ha stupita.
«Posso passare da te stasera? Ora ho lezione e anzi sono già in ritardo quindi possiamo vederci per cena?». Affretto il passo per raggiungere l’aula e il caldo, che significa salvezza, pregando tutte le divinità che mi vengono in mente di farmi trovare almeno un posto in fondo.
«Va bene, chiamo anche gli altri.»
Riattacco dopo averlo salutato in fretta, poi entro in aula guadagnandomi l’ennesima occhiataccia dall’insegnante che ormai mi conosce come quella perennemente in ritardo. Ma non è colpa mia se ho troppe cose da fare nella mia vita e credo che anche lui lo sappia. Qualche dio a caso ha esaudito la mia richiesta quindi mi siedo ringraziandolo e mi preparo ad altre due ore di noia e disattenzione.
 
Cosa frequento a fare? Me lo chiedo spesso, più precisamente me lo chiedo tutti i giovedì, quando, se va bene, mi avvio verso casa alle sei e mezza. Perché mi ostino ad andare a lezione se tanto poi non ascolto e mi perdo a pensare a quello che voglio io? Due ore ad immaginare il probabile contenuto di una cassetta quando avrei potuto semplicemente tornare a casa e guardarla (se non fosse che ho detto a Luca che arrivavo per cena).
Paranormale. Fa tanto “The Ring”. Per due ore ho immaginato di vederla e poi sentire il telefono che squilla e quella vocina tenerissima da film horror che dice “morirai tra sette giorni!”. No, col cavolo, non sono la solita barbie stupida da film  horror, non mi lascio uccidere da un video.
Salgo sul primo tram che arriva e mi lascio trasportare in periferia, attraversando questa città bellissima, ma allo stesso tempo sempre fredda e distaccata. Le luci fuori sembrano quasi studiarmi, esattamente come io sto studiando loro; persone sole almeno quanto me fingono di non esserlo parlando animatamente al telefono, rigorosamente munito di auricolari, mentre camminano avanti e indietro sul marciapiede in attesa di qualcosa o qualcuno, senza vedere tutto quello che li circonda.
In questa città ci sono sempre troppe cose da fare e troppa vita da vivere per poter fare e vivere davvero. È sempre la stessa routine, lo stesso tram, lo stesso marciapiede, gli stessi pensieri, lo stesso grigio, le stesse persone e lo stesso nulla; e va bene così, deve continuare ad andarti bene così o impazzisci. Niente videocassette paranormali per chi è come tutti gli altri.
 
Sono tutti riuniti a casa di Luca quando arrivo io. Ben presto scopro però che nessuno è stato informato di quello che stiamo per vedere tranne me. Forse perché sono la cosa più vicina ad un proprietario che la cassetta paranormale abbia mai avuto e questo a quanto pare porta con sé anche privilegi, come il sapere le cose prima degli altri. Per un attimo mi rattrista il pensiero che qualcosa abbia passato così tanti anni (chissà quanti) solo tra ragni e polvere. Poi mi ricordo che è solo una cassetta, non può essere così paranormale da provare addirittura dei sentimenti.
«Ragazzi, devo farvi vedere una cosa che ho trovato.» esordisce Luca. Poco melodrammatico, avevo pensato a qualcosa più sullo stile “siamo tutti qui riuniti oggi” eccetera. Maledizione a me che non riesco a concentrarmi. Credo di essermi persa la parte dei film e dei filmati di famiglia quindi forse è finalmente arrivato il tanto atteso momento di vedere di cosa si tratta.
Accendiamo la tv in camera di Luca e il filmato è già lì pronto in pausa che ci aspetta. Il che toglie tutta la suspense del momento catartico in cui la cassetta viene inserita nel lettore, magari al rallentatore (leggermente ma non troppo, ovvio), poi bisogna riavvolgere il nastro, eccetera. Peccato. Dove Luca abbia trovato un lettore in grado di convertire videocassette in dvd poi, non lo voglio nemmeno sapere. Ai posteri l’ardua sentenza.
 
Ad ogni modo, è tutto nero quando il video inizia. Nell’angolo in basso a destra compare la scritta “CR68-507.1”, cosa che nessuno dovrebbe sottovalutare quando guarda una videocassetta paranormale ma che ovviamente passa inosservata a tutti tranne che a me. In basso a sinistra, invece, una data: 13 luglio. Geniale, sì, ma l’anno? Comunque sia, non dico nulla e appunto in silenzio su un foglio.
Quando il video vero e proprio inizia, lasciandomi a malapena il tempo di finire di scrivere, mi sembra di capire che sia stato girato in una specie di ospedale o manicomio (di nuovo sapere l’anno mi farebbe molto piacere). Scrivo anche questo, aggiungendo “cassetta = vecchia?”. Evidentemente il mio lato da Sherlock Holmes sta prendendo il sopravvento. La stanza è completamente bianca, non ci sono segni particolari che possano aiutare chi guarda a distinguerla, ma si capisce chiaramente che è giorno grazie alla luce palesemente naturale che entra da quella che suppongo sia una finestra sulla destra, che però non si vede.
Al centro, su una sedia di metallo, è seduto il soggetto del video, un uomo di circa quarant’anni a occhio, vestito proprio come ci sia aspetta che sia vestita una persona in manicomio, con tanto di camicia di forza. Eppure sembra una persona del tutto normale, capelli corti, barba fatta da qualche giorno, sguardo perso come se non dovesse affatto trovarsi lì.
Torno al blocco appunti.
Domanda numero uno: chi diavolo è questo tizio?
Domanda numero due: come diavolo c’è finita questa cosa nella mia soffitta?
Sto per scrivere anche la domanda numero tre, ovvero “perché tizio è in un manicomio?” quando la risposta arriva proprio dal video. Tizio (come dovrei chiamare uno sconosciuto di cui non so niente?), che fino a qualche istante prima sembrava volersene stare pacificamente per i fatti suoi a sussurrare tra sé cose incomprensibili, si volta verso la videocamera lasciandomi vedere per la prima volta due occhi di ghiaccio e comincia a ripetere sempre la stessa frase: “Change sides”. Change sides, change sides, change sides. Se questo fosse un film sarebbe un cliché tremendo ma c’è qualcosa che mi dice che tutto questo è reale. E va bene Tizio, appunto anche change sides. E, domanda numero tre (stavolta davvero): cosa ha fatto impazzire Tizio?
Riporto la mia attenzione sul video giusto in tempo per vedere un infermiere iniettare qualcosa (sono sicura al 99% che si tratti di un sedativo) nel collo di Tizio mentre una voce fredda, fuori campo, probabilmente di un medico, annuncia: «Il paziente 507 è arrivato ieri nella nostra struttura, accompagnato da un lontano parente e in evidente stato di shock. A quanto pare, prima di arrivare qui, lui stesso ha richiesto più volte di essere filmato periodicamente durante il suo soggiorno da noi, quindi lo accontenteremo una volta in settimana. Probabilmente si tratta soltanto di una sua ossessione. Sarà il primario ad occuparsi di lui, cercando di riportarlo alla ragione, nella speranza che lui stesso possa fornirci spiegazioni.».
Niente di particolarmente degno di attenzione, a parte il fatto che forse ci sono altre videocassette paranormali che vagano nella mia soffitta, sempre se questa non c’è arrivata per caso. Scrivo anche questo, assieme all’accento del medico e a 507, il numero che identifica Tizio (un nome decisamente migliore).
Poi, giusto un attimo prima che il video finisca, Tizio allunga una mano verso la telecamera, forse nel disperato tentativo di prenderla che ovviamente fallisce. «Change sides, se non vuoi morire.» sussurra con l’ultimo filo di voce prima di accasciarsi sulla sedia. Era decisamente un sedativo.
Nero.
 
«Quel tizio mischia inglese e italiano peggio di me.» è il primo commento che mi viene in mente.
«Sì ma chi è? Ha qualcosa a che vedere con la tua famiglia? Perché è impazzito?». Questa è Erika, la migliore amica che una come me potesse trovare. Senso pratico a livello mille, deve avere sempre tutto programmato e ricorda ogni cosa. Sono solo alcuni dei motivi per cui, essendo io l’esatto opposto, ho bisogno di averla al mio fianco per sopravvivere. Altro appunto: domande numero uno, due e tre rese del tutto inutili dalla sua mente geniale.
«Non ne ho idea, non l’ho mai sentito nominare e penso che lo saprei se fosse mio nonno o uno dei miei familiari.». E non ho nessuna intensione di indagare tramite i piani bassi, sia ben chiaro. Non andrò dalla cugina di mia madre o da mi cugino di milionesimo grado  a fare domande idiote su un presunto parente che è diventato pazzo e che ci ha lasciato come unica eredità una videocassetta paranormale.
Oh, a tale proposito. «Luca ma per quale motivo dovrebbe essere una cosa paranormale?», chiedo, prima di essere interrotta da ulteriori ipotesi o commenti scontati.
«All’interno del video ci sono un sacco di frame neri sparsi, impossibili da vedere mentre il video scorre ma esistono. Passano così velocemente che non l’hai nemmeno notato, ma quando prima l’ho guardato da solo ho messo in pausa e mi sono ritrovato davanti una specie di volto umano su sfondo nero. Per questo vi ho chiamati.». Fantastico. Ringrazio l’amante del cinema per avermi ricordato quanto sono ignorante in materia e per avermi quasi spaventata. E ora che si fa?
«Dovremmo scoprire che cosa significa quella scritta che era nell’angolo all’inizio. CR68-507.1. Per lo meno, la prima parte. 507 è il numero del paziente, l’uno sarà riferito al fatto che è la prima volta che lo registrano, o la prima giornata che passa in quel posto. Resta solo CR68, vi dice qualcosa?». Ok lo ammetto, ora mi sento davvero Sherlock Holmes visto che nemmeno Erika aveva notato quel piccolo dettaglio.
«A giudicare dalla qualità e dal tipo di filmato, 68 potrebbe essere l’anno in cui è stato girato.» suggerisce Luca. Bravo amante del cinema.
Così, giusto per fare qualcosa, proviamo a cercare informazioni su internet, senza purtroppo ottenere nessun risultato, il che fa miseramente crollare la mia idea di “google conosce la risposta a tutto”. Discutiamo ancora sul da farsi mentre ceniamo assieme, così per quando è ora di tornare a casa abbiamo elaborato una strategia vincente. Io tornerò in soffitta da sola e cercherò ulteriori eventuali indizi; Luca guarderà il video fino allo sfinimento, trascurando l’università e la sua vita sociale al solo scopo di esaminare ogni singolo frame; Erika controllerà qualche archivio in giro per le biblioteche, visto che le piacciono tanto, magari riuscirà a trovare qualche articolo sui giornali del 1968, se sono stati conservati. Riccardo e Alessio chiederanno in giro, giusto per sentirsi utili alla causa.
Constatato che siamo davvero un team formidabile, che farebbe invidia alla CIA, mi avvio verso casa.




Spazio autrice.

Nonostante il mio computer si stai di nuovo rifiutando di lavorare come deve (mille grazie Windows 10), stavolta sono riuscita ad aggiornare il giovedì. Dal momento che probabilmente lo manderò in assistenza non so se promettervi che ci vediamo regolarmente giovedì prossimo. Io ovviamente ci provo ma a questo punto mi aspetto di tutto ormai: sembra destino che io non possa aggiornare il giovedì.
Nel frattempo ringrazio chi ha letto, recensito, inserito tra i preferiti, votato o messo in biblioteca insomma, chiunque. 
A spero presto.
EdemaRuh.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 - Qualsiasi altra cosa. ***


Decido di addentrarmi di nuovo nei meandri polverosi della soffitta la mattina dopo. Andarci di notte da sola dopo quanto ho visto sarebbe stato davvero troppo cliché per poterlo sopportare, avrei meritato di ritrovarmi davanti un mostro di qualche tipo. E lo ammetto, avevo leggermente paura. Chi va in giro da solo di notte a fare cose inquietanti cerca guai, è risaputo.
L’atmosfera che mi accoglie stavolta è molto più pesante e minacciosa, ma forse è tutto nella mia testa, visto quello che ho scoperto ieri sera. In fondo mi aspetto ancora la chiamata che mi annuncia che morirò tra una settimana, che ovviamente non arriverà.
Mi ritrovo davanti una soffitta leggermente diversa da quella che ricordavo. Probabilmente si tratta di dettagli che non ho notato la prima volta che sono venuta qui. Sto per avere l’inquietante impressione di non essere sola, che ci sia qualcuno proprio qui con me che mi sta osservando, magari dietro la macchina da cucire o dietro l’armadio e già maledico i dannati cliché, quando mi ricordo che probabilmente siamo stati proprio noi qualche giorno prima a cambiare quel poco che ora mi sembra fuori posto. Non può esserci nessun mostro visto che non è notte. Nonostante questo, rimane qualcosa che mi turba, c’è qualcosa di strano.
In verità, tutte le soffitte, per definizione, hanno qualcosa di strano. Sono luoghi abbandonati esattamente come i vecchi manicomi o le vecchie ville signorili dove ormai non abita più nessuno. Sono posti che non servono più a nessuno, ricordi che non appartengono più a nessuno, che si vendicano così su chi per caso ha la sfortuna di averci a che fare. Saranno i ragni che mi guardano in realtà, non di certo i fantasmi di secoli fa che stanno ancora cercando la pace e che di certo non potranno mai trovarla tra queste mura. O almeno spero.
 
Mi faccio coraggio suggerendomi che prima trovo quello che cerco prima posso andarmene di qua e mi lascio la porta alle spalle desiderando ardentemente di avere occhi anche sulla schiena. Così, per sicurezza.
Basta una qualsiasi cosa, qualsiasi altra cosa che riguarda la videocassetta paranormale, poi potrò finalmente tornare nel mio bellissimo appartamento al secondo piano a bere the caldo mentre spreco ore preziose della mia vita guardando serie tv che il resto dell’umanità nemmeno ha mai sentito nominare.  Ma per trovare qualsiasi altra cosa, che io lo voglia o no, devo lasciarmi alle spalle il rifugio sicuro che è la porta ed entrare in territorio nemico, spiata da chissà quanti ragnetti pronti ad infilarsi tra i miei capelli. Probabilmente è questo che mi terrorizza.
La cosa più vicina a me è un vecchio armadio quindi mi dirigo verso di esso, osservando le due ante di legno scuro lavorato. Davanti ad esso ci sono diverse impronte di piedi che sicuramente abbiamo lasciato noi. Per sdrammatizzare penso che magari è la volta buona che finisco a Narnia e comincio a fantasticare su quanto mi piacerebbe conoscere Aslan. Ok, ora lo apro, giuro lo apro. Aslan. Ce la faccio. Non ho paura.
Scosto leggermente una delle due ante e faccio un passo indietro, per dare ad eventuali mostri la possibilità di uscire allo scoperto così che io possa rintanarmi dietro la porta e non tornare mai più indietro. Ovviamente non succede nulla perché come scopro subito dopo l’armadio è praticamente vuoto, se non fosse per alcuni cappotti di pessimo gusto appesi. Non ho nessuna difficoltà a capire per quale motivo siano finiti qui.
Prima tappa della ricerca: infruttuosa.
Mi sposto verso la macchina da cucire che sicuramente ha poco da offrirmi. Ad ogni modo ha un’aura straordinariamente inquietante. Sul tavolo di legno che la sostiene ci sono alcune impronte, come avevo già notato, ma ormai nella mia testa sto cercando di convincermi che è opera di qualcuno dei miei amici quindi non mi spaventano più così tanto. Anche se sinceramente non ricordo che qualcuno si sia avvicinato ad essa. Pulisco un po’ di polvere dalla macchina vera e propria che si rivela essere nera con una scritta dorata. Doveva essere veramente stupenda ai tempi d’oro, che purtroppo sono passati da un bel po’. Mi lascio un appunto mentale per ricordarmi che la polvere stavolta l’ho tolta io, nel malaugurato caso in cui io sia costretta a tornare qui e senza esitazioni apro il piccolo cassettino sotto al tavolo. Sicuramente non può contenere quello che cerco ma tanto vale provare a vedere se c’è qualcosa.
Non resto delusa, perché al suo interno trovo una una matassa di filo rosso conciata piuttosto male, alcuni pezzi di quest’ultimo tagliuzzati e sparsi nel cassetto, un paio di vecchie forbici arrugginite e..capelli? Non voglio assolutamente sapere se lo sono veramente o come diavolo sono finiti qui ma hanno tutta l’aria di essere capelli castani. Con dei bellissimi boccoli, questo devo ammetterlo, ma è pur sempre una scoperta non troppo piacevole.
Seconda tappa: infruttuosa.
Richiudo il cassetto disgustata e passo alla tv, dandomi della stupida per non aver controllato prima il mobiletto. Al suo interno ci sono un paio di film, che decido di portare a Luca comunque e un’altra videocassetta anonima. Forse è quello che sto cercando, forse è solo l’ennesimo video di un matrimonio o di un compleanno della mia famiglia. Abbiamo la bruttissima abitudine di filmare qualsiasi momento. O meglio, qualcuno la aveva perché qualsiasi ritrovo familiare pare essere stato accuratamente registrato.
Terza tappa: forse buona.
Supero il passeggino poiché è evidentemente solo un misero passeggino che non ha niente a che vedere con tutta questa storia misteriosissima e decido di dedicare qualche minuto ad una cassettiera poco lontana. Stesso legno che è stato usato per l’armadio, il che mi fa supporre che si trovassero nella stessa stanza, una volta. Mi riprometto di cercare altri eventuali mobili simili e comincio ad aprire i cassetti uno ad uno, dall’alto verso il basso. Con mio grandissimo disappunto constato che sono tutti vuoti.
Quarta tappa: buco nell’acqua, esattamente quello in cui speravo.
Curiosando in giro mi accorgo che sono presenti anche oggetti di cui ignoravo l’esistenza fino ad oggi, per esempio un letto ad una piazza con una testiera in ferro lavorato che è davvero adorabile e non sembra affatto messo male come la maggior parte delle cose in questa soffitta. Davanti ad esso ci sono parecchie impronte, come se diverse persone si fossero fermate davanti ad esso recentemente. Ora sono terrorizzata perché sono sicura che nessuno di noi è arrivato fin qui. Chi diavolo è salito in soffitta? Come se non bastasse, sembra che qualcuno si sia inginocchiato davanti ad esso per vedere cosa c’è sotto il materasso. Cosa che io non farò assolutamente, mi rifiuto. Anzi, me ne vado proprio.
Manca soltanto una cosa ormai, ovvero la peggiore. Tre immensi scatoloni di cartone tutti da esplorare. Per farlo dovrò tagliare lo scotch di carta che li tiene chiusi, motivo per cui ne ho portato dell’altro così da non destare sospetti in caso qualcuno dei piani bassi li trovasse aperti.
Nel primo trovo soltanto album di famiglia che ritraggono i più disparati eventi: tre matrimoni, due battesimi di cui uno mio (avevo un faccino così tenero da piccola?), addirittura quattro pranzi di Natale tutti assieme (rubo la foto di mia madre bambina che tutta felice scarta i regali sotto l’albero) e numerose gite in montagna. Negli altri due ci sono oggetti inutili o vestiti che ormai nessuno metterà più. Niente di quello che stavo cercando.
Prendo comunque con me qualche album, vinta dalla curiosità, poi richiudo le scatole e finalmente abbandono a se stesso quel posto abbandonato da tutti. Tiro un sospiro di sollievo quando la porta si chiude alle mie spalle lasciandomi nell’oscurità delle scale. E quasi muoio d’infarto quando dall’altra parte, a occhio e croce vicino al letto, qualcosa cade e comincia a rotolare.
 
 
Ci vogliono quattro giorni prima che possiamo nuovamente trovarci per aggiornarci, stavolta a casa mia. Non ho detto a nessuno del rumore in soffitta ma Erika ha dormito da me tutte le notti dopo quella mattina. Sono scappata terrorizzata, talmente terrorizzata che sono uscita di casa dopo cinque minuti per andare a portare la videocassetta nuova a Luca e sono tornata soltanto la sera, portando con me compagnia.
Siamo tutti curiosi di sapere ma purtroppo il video che ho trovato si è rivelato essere soltanto l’ennesimo filmato idiota, quindi niente Tizio che urla in manicomio stavolta.
Nemmeno Alessio o Erika sono riusciti a trovare qualcosa, ma questo lo sapevo già visto che con loro parlo circa 25 ore al giorno. 
Sembrano tutti abbastanza delusi quindi credo sia il momento di raccontare la mia incredibile avventura.
«Facciamola breve.» esordisco. Alle persone piace quando la gente non ci mette troppi giri di parole per spiegare qualcosa. «Sono andata in soffitta venerdì mattina. C’erano impronte a terra ma ho dato per scontato che fossero le nostre. Quindi se qualcuno di voi le ha lasciate e ora osa negarlo solo per rendere le cose inquietanti sappiate che non è divertente. Ad ogni modo, nell’armadio non c’era niente e nemmeno nella cassettiera. Ho trovato anche un letto fantastico, non capisco perché lo abbiano messo lì. Nel cassetto del tavolo su cui è appoggiata la macchina da cucire ho trovato dei capelli ma non voglio sapere di chi siano. Nel mobile della tv invece c’era la cassetta che però non era quello che speravamo. Per finire negli scatoloni ho trovato solo cianfrusaglie e vecchi album di famiglia.»
Pausa d’effetto mentre penso a come introdurre la mia unica scoperta degna di nota. Nel frattempo si fa avanti Riccardo, interrompendo il mio discorso che sembra ormai concluso.
«Io ho fatto qualche ricerca su CR, la sigla all’inizio del video. Casualmente ho trovato un archivio online e credo di aver scoperto che in realtà sta per Casa delle Rose. È stato uno degli ultimi manicomi a chiudere in Italia, non è troppo lontano da qui. Se ve la sentite possiamo andarci una sera.».
No. Ovvio che no. Non siamo così stupidi da seguire i cliché e andare in un posto come quello di notte perché no, non sono salita di notte nella soffitta di casa mia, figuriamoci che me ne vado in giro per posti in rovina che non ho mai visto prima. Se va bene ci vivono i senzatetto adesso, se va male..non oso immaginare. Per me è chiaramente no.
Grazie al cielo anche gli altri mi danno ragione quindi decidiamo di farci un salto un giorno ma se possibile non di notte. Ci aggiorneremo più avanti, magari per un week end quando tutti avremo un giorno libero. Nessuno di noi sembra particolarmente morire dalla voglia di andare a vedere cosa c’è in quel manicomio, a parte Riccardo. D’altra parte lo conosciamo abbastanza bene per sapere che gli piace il macabro, motivo per cui lo accontenteremo.
Dal momento che sta scendendo un silenzio imbarazzante nella stanza, mi faccio avanti.
«C’è un’altra cosa che dovreste sapere.» sussurro con tono misterioso. Pausa. Suspense. Curiosità negli occhi dei miei amici, esattamente quello che volevo.
«Stavo sfogliando gli album che ho trovato in soffitta, ne ho presi alcuni per curiosità. E in uno, parecchio vecchio, ho trovato questa.».
Mostro a tutti una fotografia in bianco e nero che ritrae quelli che suppongo siano i nonni paterni di mio cugino, seduti sul divano con quello che è suo padre, all’epoca ancora bambino. La mamma è giovane, con i capelli scuri e i lineamenti delicati ma ciò che  ha attirato la mia attenzione e che sta attirando quella degli altri è il padre: la versione giovane e sana di mente del paziente 507.



E' giovedì e io sto riuscendo a pubblicare senza contrattempi, mi sembra quasi incredibile, ho controllato tre volte che fosse davvero giovedì prima di dirlo.
Voglio ringraziare la mamma, il papà e l'assistente della Mediaword per questo miracolo della tecnologia.

Ad ogni modo, siccome stiamo entrando nel vivo della faccenda , mi farebbe piacere ricevere vostri commenti; se c'è qualcosa di sbagliato fatemelo notare insomma oppure semplicemente ditemi che come storia fa schifo e che devo andare a zappare la terra, insomma, ditemi come sta andando.
A giovedì prossimo,
EdemaRuh.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 - Documenti rubati. ***


Di nuovo domenica, stavolta mattina. È passata appena una settimana da quando per la prima volta siamo saliti in soffitta e tutto questo è iniziato. E ora, chi l’avrebbe mai immaginato, siamo in macchina diretti verso un manicomio con un nome discutibile, abbandonato da chissà quanti anni, con lo scopo di saperne di più su una misteriosa cassetta paranormale, una fotografia rinvenuta nella suddetta soffitta e un ancora più misterioso paziente 507 che ha tutta l’aria di essere un mio parente.
È una mattina straordinariamente limpida, vista la nebbia dei giorni passati, probabilmente grazie al vento gelido di ieri notte. Il sole splende indisturbato, cercando di far alzare di qualche grado la temperatura e la pianura scorre tutta uguale a se stessa fuori dai finestrini. Alessio è alla guida, affiancato da Riccardo che gli indica la strada con il navigatore del cellulare. Erika e Luca parlano di non so cosa mentre io mi distraggo come al solito. Alla radio i presentatori  ridono di qualche stronzata appena detta per risollevare il morale di chi, come noi, si è svegliato all’alba per uscire di casa. L’atmosfera, tutto sommato, è tranquilla, forse troppo considerando il fatto che stiamo andando in un postaccio.
 
La statale lascia spazio ad una stradina piena di buche che come tante altre stradine piene di buche porta in un posto abbandonato da tempo. Tipico degli esseri umani riempire la natura di schifezze e poi dimenticarsene da un giorno all’altro, quando smettono di avere un’utilità.
La guida di Alessio si fa più cauta, mentre procediamo tra i cipressi che una volta dovevano essere allineati perfettamente, tutti uguali tra loro ma che in mancanza di attenzione umana stanno finalmente riuscendo a prendere la forma che vogliono. La struttura compare dietro l’angolo poco dopo.
Si tratta di un immenso edificio in cemento, ormai coperto dai rampicanti. Esattamente come me lo immaginavo, anche se speravo fosse più piccolo; non sarà affatto facile trovare qualche indizio lì dentro. Molte delle finestre hanno i vetri rotti, probabilmente a causa di qualche ragazzino che per sembrare impavido agli occhi dei suoi amici ha deciso bene di entrare lì dentro. Spero per lui che ne sia anche uscito vivo, non voglio trovare cadaveri.
Parcheggiamo tra gli alberi, poco lontani, di modo che la macchina sia invisibile ad eventuali altri visitatori che si avvicinano alla struttura. Anche se qualcosa mi dice che saremo più che soli. Il portone è semiaperto, soltanto alcune assi di legno bloccano l’accesso all’interno. Non serve toglierle, dato che la finestra a pochi metri da noi è rotta.
Dal momento che io ho già dato prova del mio coraggio avventurandomi in soffitta da sola, non sta certo a me entrare per prima. È Riccardo ad assumersi il gravoso compito, lasciando per un attimo lo zaino nelle mie mani mentre scavalca il davanzale e si ritrova dall’altra parte. Subito comincia a guardarsi in giro, senza però fare commenti, lasciandoci il gusto della sorpresa. Mi faccio avanti, passandogli la borsa e seguendo il suo esempio.
Una volta atterrata sul pavimento dopo un salto di addirittura settanta centimetri, mi prendo il lusso di guardarmi intorno. L’entrata è abbastanza spoglia, polverosa almeno quanto la mia soffitta, piena di cartacce e graffiti. Tipico di un posto abbandonato. In un angolo, appoggiata al muro, c’è una vecchia sedia di legno a cui manca una gamba, poco lontano quella che ha tutta l’aria di essere stata una scrivania. Niente di particolarmente inquietante insomma.
Dal momento che siamo qui per cercare informazioni non aspetto nemmeno di vedere gli altri arrivare e mi dirigo verso di essa, cominciando ad aprire i cassetti cercando di non fare troppo rumore. Prima troviamo qualcosa prima possiamo andarcene, stesso principio della soffitta.
Posso quasi sentire le maledizioni che Riccardo mi sta rivolgendo nella sua testa mentre gli infilo nello zaino tutto quello che ho trovato, ovvero probabilmente un mucchio di scartoffie inutili ma che comunque ci prenderemo il lusso di rubare, tanto sicuramente qui non servono più a nessuno. Vedo le espressioni confuse degli altri tre che mentre rovistavo sono riusciti ad entrare e non so perché me ne compiaccio.
Cerchiamo di fare il punto della situazione per capire come muoverci. Abbiamo due possibilità: un corridoio a destra e uno a sinistra. Visto che dividersi è troppo cliché, dopo qualche scrollata di spalle da parte degli altri prendo in mano le redini della situazione e scelgo la prima opzione. Varcata la soglia ci ritroviamo davanti ad un corridoio piuttosto lungo, costeggiato da ampie vetrate che danno sul viale all’esterno su un lato e da stanze chiuse o quasi sull’altro. A circa metà mi sembra di vedere delle scale ma difficile dirlo da qui.
Non ci sono cartelli che segnano i numeri o che danno un qualsiasi tipo di indicazione quindi l’unica strategia è quella di aprire tutte le porte, dalla prima all’ultima, cercando di non perdersi. All’improvviso sono assalita dalla sgradevole sensazione che ci perderemo eccome, ma cerco di scacciarla e mi faccio coraggio, andando ad aprire la prima porta che trovo.
All’interno è buio, se ci sono delle finestre sono state sbarrate. Prima di essere così stupida da entrare estraggo il cellulare dalla borsa e attivo la torcia. Alessio mi affianca filmando tutto quello che succede, ma sono troppo impegnata a pensare a quello che potrebbe esserci nella stanza per fargli notare che sembra un perfetto idiota.
 
 
Il più assoluto nulla. Quando il manicomio è stato chiuso è stato anche evidentemente svuotato di tutto, perché dopo ore non abbiamo ancora trovato niente di interessante se non qualche materasso e tanti rifiuti arrivati qui dentro chissà come. Stiamo tutti perdendo la pazienza e l’entusiasmo iniziale si è spento da un bel po’.  Una volta che abbiamo deciso che abbiamo esaminato tutta questa parte dell’edificio decidiamo di tornare all’entrata per esplorare anche l’ala sinistra. Erika finisce di disegnare la cartina delle parti della struttura che ora conosciamo e poi possiamo finalmente muoverci.
Attraverso le finestre si vede chiaramente che il sole è alto nel cielo, segno che abbiamo ancora qualche ora di luce prima di dover battere in ritirata. Nessuno di noi vuole restare qui al buio, anche se è tutto vuoto è abbastanza chiaro che questo posto ci inquieta tutti.
Destra, sinistra, giù dalle scale, sinistra, di nuovo giù. Percorriamo tutto il corridoio già esplorato e finalmente sbuchiamo nell’ingresso principale. Non ci siamo persi.
Sento chiaramente Riccardo tirare un sospiro di sollievo, anche se cerca di dimostrarsi temerario anche lui un po’ d’ansia ce l’ha. Proseguiamo decisi verso il corridoio a sinistra ma una volta giunta sulla porta ho l’illuminazione e mi blocco. Mi giro di scatto, prima che il cervello mi dica di non farlo.
È esattamente come mi era parso di vedere, anche se non ci ho fatto caso subito. E sinceramente speravo proprio di sbagliarmi. La finestra con il vetro rotto dalla quale siamo entrati ora è sbarrata dall’interno.
«Aspettate.» sussurro. Cerco di non urlare ma non corro rischi, la voce a momenti non mi esce nemmeno dalle labbra. Ammetto che in questo momento ho davvero paura. Mi giro per controllare se gli altri mi hanno sentita o se almeno esistono ancora, anche se mi costa un enorme sacrificio dare le spalle a quanto ho appena visto. In qualche modo sento che sto lasciando al nemico la possibilità di pugnalarmi alle spalle. Fortunatamente i miei amici sono ancora qui e mi guardano con aria interrogativa. Chiaramente non si sono ancora accorti di nulla ma hanno capito dal mio sguardo terrorizzato che non sto scherzando.
«La finestra dalla quale siamo entrati è stata chiusa dall’interno, non l’avete notato?» chiedo esasperata. Ora le loro occhiate sono confuse. Io sono nel panico più totale e loro continuano a non capire.
«Veramente è esattamente come l’abbiamo lasciata, è tutto normale.» mi fa notare Riccardo con calma glaciale.
No. Non è possibile. Mi giro di nuovo. Ha ragione lui, ovviamente, non c’è niente ad ostruire il passaggio davanti alla finestra. Se prima avevo paura ora voglio uscire di qui. Immediatamente.
«Ale, magari l’hai filmato. Sono sicurissima di quello che ho visto.» aggiungo quasi volessi giustificarmi. Ma non voglio che gli altri mi diano ragione, voglio solo sapere che non sto impazzendo. Ho la certezza di aver visto quella finestra chiusa allo stesso modo di come ora sono sicura di vederla aperta, esattamente com’era quando siamo entrati. Non era solo un’allucinazione, non può esserlo stata. D’altra parte però sono contenta di aver evitato il terribile cliché di essere intrappolati da qualche parte.
E va bene, proseguiamo, troviamo quello che cerchiamo e usciamo di qui. Per favore.
 
La parte a sinistra si rivela essere molto più interessante di quella che abbiamo già visto. Quasi subito troviamo una stanza piena di archivi che non sono stati completamenti distrutti quando questo posto è caduto in disuso. Ci sono decine, forse centinaia di cartelle, una per paziente, così dopo qualche minuto di ricerca troviamo finalmente la cartella clinica del paziente 507. Sfortunatamente vuota. Ad attenuare la nostra delusione è un intero reparto dedicato alle videocassette, anche se ormai ne sono rimaste ben poche. Ed è proprio qui che troviamo la cassetta CR68-507.3. Nonostante svariate decine di minuti di ricerca, purtroppo, non c’è altro. Alessio si infila il prezioso ritrovamento nello zaino e procediamo.
Ancora stanze vuote, letti abbandonati a se stessi, cumuli di sporcizia ovunque, prima che circa un’ora dopo troviamo una stanza diversa dalle altre. Anche in questa è buio ma non appena apriamo la porta ci accoglie un odore non esattamente piacevole. Vedo Erika costretta ad allontanarsi per non vomitare e io stessa mi obbligo a soffocare i conati mentre mi faccio avanti ed entro tappandomi il naso con le dita. La stanza è completamente vuota, come quasi tutte le altre, nonostante questo però deve esserci qualcosa che non va, solo che non sono in grado di trovarlo. Indirizzo la luce della torcia verso le pareti, cercando qualsiasi indizio, poi esco di lì per riuscire a pensare più lucidamente.
Gli altri stanno già pensando di proseguire quando realizzo. Riapro la porta già chiusa e mi guardo nuovamente intorno. Questa stanza è perfetta. Le pareti sono immacolate come se fossero appena state verniciate, non si vede una sola crepa nel colore. Anche il pavimento è pulito e ha tutte le piastrelle, come se qualcuno se ne fosse preso cura per tutto questo tempo. Il che è abbastanza strano, se non impossibile.
Mi faccio passare il cellulare da Alessio e riprendo tutto cercando di non lasciare fuori nemmeno un centimetro di questa camera, poi finalmente esco e mi chiudo la porta alle spalle definitivamente.
«So che sembrerà difficile da credere ma lì dentro era tutto immacolato, come se quella stanza non fosse mai stata abbandonata. Dovremmo segnarla sulla mappa per ricordarci dov’è.».
Gli altri, che non sono riusciti ad entrare, si limitano ad annuire, poi proseguiamo.
 
Alle cinque di pomeriggio ci arrendiamo e torniamo verso l’entrata. Abbiamo visto praticamente tutto senza fare ulteriori scoperte agghiaccianti, per fortuna. La finestra dalla quale siamo entrati è ovviamente ancora aperta, così possiamo uscire senza problemi, recuperare la  macchina e tornare a casa.
Affidiamo la videocassetta a Luca, decidendo di incontrarci due giorni dopo per vederla tutti insieme. Stavolta sarà una sorpresa per tutti. Oltre a quella vedremo anche i video  di Alessio, così potremo finalmente stabilire se quello che ho visto era reale o no e gli altri avranno occasione di vedere anche la camera che ho visto soltanto io. Non voglio correre il rischio di portare con me tutti i documenti che abbiamo rubato, ovvero quelli che ho trovato all’ingresso e la cartella clinica del paziente 507. Si tratta semplicemente di un foglio, con numero di camera, alcune indicazioni sui suoi tratti fisici e poco altro: il suo nome e la sua data di nascita. Che, giusto per toglierci ogni minimo dubbio rimasto, corrispondono a quelli del nonno di mio cugino.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 - Change Sides. ***


Il giorno tanto atteso arriva subito. Il che è abbastanza ovvio visto che ci siamo salutati domenica sera con l’intenzione di vederci martedì. Questo non mi ha impedito di morire di ansia ieri, ma la mia ansia è un’altra storia.

Siamo di nuovo a casa di Luca, la videocassetta è già pronta per essere vista e anche i video di Alessio sono caricati sulla chiavetta USB già collegata al computer di turno. Resta solo da decidere da dove iniziare. Dal momento che non riesco più a vivere, chiedo (o meglio quasi supplico in ginocchio) di partire dai secondi e fortunatamente vengo accontentata.

E così eccoci lì, mentre entriamo nella prima stanza, nella seconda, nella terza. Avanti e indietro per ore. Guardiamo solo alcuni pezzi che ci bastano per renderci conto che alcune cose non sono esattamente come ce le ricordavamo e non è solo l’impressione di alcuni. Concordiamo tutti. Finalmente arriva il fatidico momento in cui ci avviamo per tornare all’entrata. Eccola comparire in fondo al corridoio. Quando la videocamera è abbastanza vicina è evidente che la finestra è esattamente come l’avevo vista io: sbarrata dall’interno. Con tanto impegno. Alessio con il telefono prosegue, poi sento la mia stessa voce fermare tutto per far notare quello che ho visto. La videocamera inquadra la finestra, senza più assi di legno ad ostruirla, proprio come l’abbiamo trovata quando siamo entrati all’inizio. Ora ho finalmente la prova che non ero io il problema, anche se forse avrei preferito continuare a pensare che fosse solo un’illusione della mia mente dovuta al luogo inquietante in cui mi trovavo o alla necessità di cliché.

Ringrazio di non trovarmi più lì e giuro solennemente a me stessa che mai più metterò piede in quell’edificio, ne andasse della mia stessa vita. Il solo pensiero di quanto ci è successo mi terrorizza anche a distanza di due giorni e di parecchi chilometri.

Per quanto mi riguarda ho ottenuto quello che volevo e smetterei immediatamente di guardare il filmato e di mettere il naso in storie che, è evidente, non mi riguardano. Gli altri purtroppo non sono della stessa idea, quindi mi tocca subirmi tutto il tempo passato nella stanza degli archivi, le facce gioiose quando troviamo documenti che possono svelarci qualcosa di più sul paziente 507, la stanza in cui solo io sono entrata. Mi rendo conto che sono piuttosto curiosi di sapere cosa c’era lì dentro, dal momento che loro non hanno avuto occasione di vederla.

Erika che quasi vomita, io che mi faccio coraggio e sparisco oltre la porta, per poi tornare a prendere il cellulare ed entrare di nuovo. Non è per niente come l’avevo vista. Le pareti immacolate hanno lasciato spazio a mura che non hanno niente da diverso da quelle di tutto il resto dell’edificio, anzi sono se possibile ancora peggio. Ci sono scritte ovunque, parole che sembrano essere senza senso. Luca ha la brillante idea di mettere in pausa per leggere e realizziamo: ovunque sempre e solo la stessa scritta, a volte in nero, a volte in un rosso inquietante. Change sides. Ovvio.
Non ci sono molti dubbi a riguardo ma cerco ugualmente la cartella clinica del nostro amato paziente per scoprire quale sia la sua camera. Un rapido controllo sulla cartina che abbiamo disegnato mentre eravamo lì e ne ho la conferma assoluta: quella è la sua stanza.

«No.» non trovo la forza di dire altro, anzi, non so nemmeno se sono riuscita a dirlo o se l’ho solo pensato finché non vedo gli altri che mi guardano. «Non era affatto così. Vi giuro che era perfetta e dovreste credermi visto che la finestra era sbarrata davvero. Le mura erano bianche. Bianche.». Stavolta mi credono, non potrebbero fare altrimenti. E anche se dubitano non è il momento migliore per dirmelo.

Come sempre, visto che sono dell’idea che tolto il dente tolto il dolore, chiedo di continuare. Prima finisce meglio sto. Purtroppo per la mia sanità mentale però le sorprese della stanza del paziente 507 non sono finite. La me dell’altro ieri inquadra il pavimento, ai suoi occhi così perfettamente pulito e quasi muoio quando al centro vedo un cadavere. Il che se non altro spiega l’odore infernale. Non contenta, dall’alto della sua ingenuità, la me dell’altro ieri ci si avvicina, così possiamo notare i dettagli. La pelle pallida, gli occhi vuoti che fissano proprio la videocamera, non si sa per quale scherzo del destino, una mano stretta attorno al nulla, quasi nel disperato tentativo di aggrapparsi alla vita. Devo sedermi per non svenire.

«Non avevo idea. Non avevo minimamente idea.».

Ora mi credono al mille per cento. Non avrei mai potuto uscire da quella stanza come se niente fosse se davvero avessi visto quella scena fin da subito. C’è qualcosa che non va, qualcosa di profondamente sbagliato in quel posto.

«Dovremmo cercare di capire da quanto il cadavere era lì.» suggerisce Riccardo.

«Non capiremo mai da quanto era lì, al massimo possiamo dedurre che era morto solo da pochi giorni visto che non era ancora decomposto.».

Comincio veramente a sentirmi male ma non ho la forza di chiedere loro di smettere. Vorrei solo non essere mai entrata lì dentro. Di fatto, però, ci sono entrata e queste non sono altro che le conseguenze, non posso scamparci.

«Che facciamo, lo denunciamo alla polizia?» chiede Erika, pratica come al solito.

«Non so se è una buona idea, potrebbero chiederci cosa ci facevamo lì. Magari nemmeno il cadavere era reale, come la finestra sbarrata.».

Wow, magnifico davvero riuscire a pensare che c’è un cadavere solo nelle nostre teste. Guardo lo schermo un’ultima volta, anche se contro la mia volontà. Devo memorizzare qualche dettaglio che potrebbe essere importante, che mi piaccia o no. Capelli corti. Jeans scuri. Camicia. Cartellino. Eccolo, esatto. Il cartellino. Lo faccio notare agli altri, che non sanno comunque cosa farsene di un’informazione secondaria come questa.

Mi alzo ed esco dalla stanza mentre gli altri ancora discutono; ho bisogno di staccare, di non pensare a quanto ho appena visto, ma è impossibile farlo con quelle immagini ancora davanti agli occhi. E c’è una domanda che mi ossessiona, una domanda alla quale sento di dover trovare una risposta: perché?

 
 
Ci prendiamo una lunga pausa durante la quale ci sforziamo di mangiare qualcosa, prima di dedicarci alla videocassetta che abbiamo trovato nella stanza degli archivi. È abbastanza chiaro vedendo le facce sconvolte degli altri, che nemmeno loro riescono a togliersi quei due occhi vuoti dalla testa. Probabilmente il cadavere senza nome resterà negli incubi di noi tutti per un po’ di tempo. Mi dispiace solo di essere stata in qualche modo la causa di tutto questo, vorrei non essere mai entrata lì dentro, tantomeno con un cellulare in mano pronta a filmare tutto. Ho quasi calpestato un cadavere senza nemmeno saperlo.

Come la prima, la cassetta inizia con il nero totale. Stavolta la data è 27 luglio, nel solito angolo. Nell’altro, come già immaginavamo, CR68-507.3. Non posso non chiedermi quante altre volte il paziente sia stato filmato o dove sia finita la videocassetta numero due.

Stavolta il paziente sembra più rilassato e consapevole, come se nelle due settimane trascorse tra il primo video e questo fosse riuscito a fare davvero qualche progresso. Stavolta è il medico a parlare per primo ma è una voce diversa da quella che abbiamo sentito la prima volta.

«Allora, siamo qui per registrare la terza cassetta, non è così? Ed è stato lei a chiederci di farlo, vero?»

«Sì, sono stato io.» risponde prontamente il paziente.

«Se la sente di dirci il perché?»

«C’è qualcosa che mi guarda.»

«Che cosa, di preciso?»

«Non lo so, so solo che c’è. E mi ha detto di cambiare lato, change sides.»

«Da quanto tempo si sente osservato da questo qualcosa?»

Il paziente 507 prende un lungo respiro.

«Credo sia iniziato tutto qualche anno fa quando mi sono trasferito nella casa nuova che ho comprato. Una villa poco fuori dalla città. Ci vivevo con la mia famiglia, ovvero mia moglie e mio figlio.
Ma c’era qualcosa. In soffitta. Ho cominciato a passarci le notti. Quella casa, la mia casa, è maledetta.». Una villa poco fuori città, la soffitta. Se ha cominciato a passarci il suo tempo è possibile che quel letto fosse proprio suo?

«E poi?» lo incalza il medico.

«Sono diventato ossessionato dalla cosa. Era sempre lì con me a studiarmi e io studiavo lei. Ho cominciato a dormire in soffitta, mia moglie non voleva più saperne niente di tutta questa storia, mio figlio per fortuna era ancora piccolo per capire o almeno lo spero.»

«Ha mai visto questa cosa?»

«No. Ma mi aiutava. Quando ero in soffitta sembrava prendersi cura di me.»

C’è un momento di silenzio. Il medico sta dimostrando una calma glaciale davanti ad una storia che ha sentito per chissà quante volte mentre il paziente 507 probabilmente riflette su quanto sta raccontando. Riflette un po’ troppo e perde di nuovo il senno perché all’improvviso ricomincia a sussurrare “Change sides”, dimostrando di non aver ancora recuperato la ragione. Nonostante questo, il medico insiste.

«Mi racconti altro.»

«Ho ripreso tutto, volevo avere le prove che non era solo una mia invenzione. E avevo le prove ma la cosa continuava a dirmi di cambiare lato. Non potevo farlo, non c’erano altri lati. Non c’erano lati. Non potevo cambiare lato. Sono morto?»

«Certo che non è morto.»

«Sono in un manicomio come ho chiesto a mia moglie?»

«Sì, è in un manicomio come ha chiesto a sua moglie. Lei sostiene di avere le prove registrate dell’esistenza di questa cosa, dove sono?»

«Non ci sono.». Stavolta il medico resta chiaramente interdetto e il paziente 507 nonostante il suo stato di totale confusione mentale riesce ad intuirlo perché aggiunge «Mia moglie ha registrato video di famiglia sopra a quelle cassette per cancellare tutto. Ha cambiato lato. Lei c’è riuscita. Io no. Non ho cambiato lato. Sono morto.».
 

Il video si ferma così, lasciandoci perplessi.

«Parlava di casa tua? Di quella soffitta?» mi chiede all’improvviso Luca.

«Sì, credo che il letto che ho trovato fosse suo, come tutte le altre cose. E ora si spiegano le infinità di video di famiglia che ci sono lassù. Poverino, deve aver lavorato ore, è impazzito per poter riprendere quella cosa e poi sua moglie ha cancellato tutto.». No, forse non tutto. Forse alla fine dei filmati sono rimasti alcuni secondi di quello che era stato prima.

Improvvisamente provo un’immensa pena per lui, finito rinchiuso in un manicomio per sua volontà, convinto di essere morto per aver fallito la sua missione, la strana missione di cambiare lato che tanto l’ha ossessionato per chissà quanti anni. Probabilmente non è mai uscito da lì e non ha mai avuto la gioia di vedere suo figlio crescere o dire la prima parola. Tutto per delle stupide videocassette. Spero che almeno sua moglie abbia avuto la decenza di guardarle prima di cancellare per sempre il loro contenuto, anche se, dal momento che era donna, ne dubito ampiamente. Quei filmati rappresentavano la follia di un marito che probabilmente era arrivata a detestare a causa della sua presunta pazzia e si sa, le donne cancellano tutto ciò che odiano. Il più in fretta possibile.

«Credo che sia arrivato il momento di andare ai piani bassi a chiedere udienza al padre di mio cugino per vedere se si ricorda qualcosa.» propongo. Lui è l’unico che può darci un minimo indizio. Non che io voglia andare avanti con questa storia.

«Pensavo fossi sconvolta da quello che abbiamo trovato e che volessi chiuderla qui.» mi fa notare Riccardo. È così, in effetti. Non ne voglio più sapere niente di tutto questo ma allo stesso tempo ora che conosco la sua storia sento di dovere qualcosa a quel pover’uomo. Per esempio cercare di scoprire che cosa l’ha portato ad essere rinchiuso in una stanza dove poi io ho quasi calpestato un cadavere. Ok, lo ammetto, non è una bella idea, non mi entusiasma, ma ormai ci sono dentro, che altro posso fare?

«Sono sconvolta ma voglio sapere cosa diavolo è la cosa che c’è nella soffitta di casa mia se permetti.». In realtà non lo voglio assolutamente, preferisco continuare ad illudermi che sia tutto normale, perché a tutti gli esseri umani in fin dei conti piace credere che vada tutto bene.

«Sei davvero convinta che quella cosa non fosse solo nella sua testa? Come fai a sapere che non era veramente così pazzo da percepirla solo lui?» mi chiede Erika.
Effettivamente è una bella domanda. La risposta arriva da sé non appena ripenso alla mattina che ho passato in soffitta da sola a cercare altre videocassette paranormali. Mi tornano in mente tutte le sensazioni strane e quel maledetto rumore che ho sentito una volta uscita.

«Perché ha osservato anche me.».

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 - L'ennesimo matrimonio. ***


È di nuovo giovedì quando ci incontriamo a casa mia dopo aver cenato. Non dobbiamo attendere molto prima che il padre di mio cugino suoni il campanello. Mi sono assunta personalmente l’onorevole compito di scendere ai piani bassi per chiedere di potergli parlare oggi, così l’ho convinto a salire al secondo piano, dove avrò il supporto della mia squadra. Se gli avessi fatto certe domande davanti a sua moglie mi avrebbero presa per stupida ed infilata in un manicomio a mia volta. Nel senso, avrebbero proprio aperto un manicomio solo per me.

Lo faccio accomodare in cucina dove, attorno al tavolo, tutti gli altri ci aspettano. La sua espressione si fa improvvisamente confusa. Effettivamente forse avrei potuto accennare al fatto che non sarei stata la sola, che c’erano anche altri che avevano bisogno di questa amichevole chiacchierata. Prima di cominciare gli offro una birra, poi mi siedo.

«Ti abbiamo chiesto di venire per un motivo un po’ particolare.» gli spiego. «Qualche tempo fa siamo saliti in soffitta per cercare degli sci, come ti avevo già spiegato e abbiamo trovato alcune videocassette. Sai anche che Luca le ha prese per vederle, essendo appassionato di cinema. Ha trovato alcuni vecchi film, video della nostra famiglia e poi una cassetta particolare, diversa da tutte le altre, dove si vedeva un uomo probabilmente in un manicomio.»

Faccio una pausa per esaminare la sua reazione.
«Quindi esiste ancora.» sussurra senza rivolgersi a nessuno in particolare, come se fosse perso nei ricordi.
«Sapevi già dell’esistenza della cassetta?»
«Mia madre ne era ossessionata, ha passato anni a cercare di liberarsi di quei video. Posso vederla?».

Prima di continuare decidiamo di accontentarlo. In fin dei conti si tratta di suo padre, chissà da quanto tempo non lo vede, chissà se almeno si ricorda com’era la sua faccia. Rovisto tra le cartelle del mio computer, che è già strategicamente acceso, e faccio partire il video che Luca mi ha passato. Invece del familiare manicomio che abbiamo visto un centinaio di volte alla ricerca di particolari, però, ci ritroviamo davanti l’ennesimo banalissimo matrimonio e rimaniamo tutti interdetti. Il titolo del video è inequivocabile: CR68-507.1, sono certa di non aver sbagliato.
L’ennesimo cliché insomma.

«Permettimi di andare avanti con la spiegazione e capirai. Spero di capirlo anche io in effetti.» dico, prima che chiunque altro cerchi di spiegare quanto è appena successo.
«Quindi, troviamo questa cassetta e visto il contenuto, ben diverso da questo, decidiamo che vogliamo saperne di più, perché probabilmente siamo degli incurabili ficcanaso. Così sono tornata in soffitta a cercare e ho scoperto che l’uomo del video era tuo padre.» nessuna reazione particolare. La conferma che ne era già al corrente. Continuo. «Nel frattempo abbiamo trovato il nome del manicomio e abbiamo deciso di visitarlo. Sempre perché siamo leggermente ficcanaso.». La sua espressione si fa più curiosa.

Faccio partire il video della finestra sbarrata e della stanza del nostro paziente che Luca ha accuratamente ritagliato da ore di filmato inutili. Poi gli mostro la mappa che abbiamo disegnato. «Quella camera piena di scritte che hai appena visto era quella di tuo padre, a quanto risulta da alcuni archivi che erano ancora all’interno della struttura. Quando ci sono entrata mi era sembrata perfettamente bianca, pulita, come nuova. Invece nel video risulta essere tutt’altro. Suppongo sia la stessa cosa che è appena successa con la videocassetta, si tratta di qualche sorta di illusione.». Ometto la parte del cadavere, ma è decisamente meglio così per tutti quanti. Aspetteremo di sapere cosa ha da dirci prima di svelargli altro.

«Non so davvero cosa dire. Ho sempre pensato che mio padre fosse pazzo, invece scopro che potrebbe aver avuto ragione. Dopo tutto questo tempo. C’è una cosa che devo dirvi, che forse può aiutarvi. Dovete però promettermi che niente di tutto questo uscirà mai da questa casa, per nessun motivo.»

Ovviamente promettiamo che non succederà, nemmeno sotto tortura. In realtà stiamo registrando tutto con un cellulare.
«Mio padre non era veramente pazzo. Diceva di vedere “qualcosa in soffitta”, l’ha anche filmata un paio di volte ma mia madre ha cancellato tutto. Lo odiava.»
«Lo sappiamo.» ribatte Luca senza pensarci, quasi stizzito per non aver avuto informazioni nuove. Maledizione.
«Come fate a saperlo?» avevo sperato inutilmente che non se ne accorgesse. Mi concentro per trovare una scusa valida mentre gli altri temporeggiano ma sono costretta a dire la verità.
«Durante la nostra felice escursione abbiamo trovato un’altra videocassetta.»
«Posso vederla?»
«Non uscirà da questa stanza.».
Patto accettato, facciamo partire il secondo filmato in nostro possesso. Stavolta niente matrimoni, il paziente 507 è lì per raccontare qualcosa di sé a suo figlio.
 
Anche dopo che il video è finito rimaniamo in silenzio, aspettando che sia lui a parlare.
«Sapevo già tutto, mia madre me ne parlava spesso. Lo odiava per la sua ossessione per quella cosa ma ora che ho visto tutto questo posso dirvi con certezza che mio padre non si sbagliava.»
«Come fai a saperlo? C’è qualcosa che ci sta sfuggendo? Abbiamo analizzato tutto, ogni dettaglio.»
«No, non tutti i dettagli. Forse non avete mai notato che a volte, per poche frazioni di secondo, nel video compare un volto su sfondo nero.» Certo che l’abbiamo notato, già dalla prima volta che abbiamo visto la cassetta. Non ci siamo più posti il problema, non avendo nessuna pista che ci potesse portare a capire di cosa si trattava.
«L’abbiamo visto ma cos’è?»
«Dopo aver visto tutto questo pensavo fosse abbastanza facile da capire: quella è la faccia della cosa.»
«Come fai ad averlo visto senza dover fermare il video? Quei frame sono praticamente invisibili.» osserva Luca.
«Anche io ho visto la cosa. La prima volta è successo perché mio padre mi ha portato in soffitta con lui e non ho potuto fare a meno di vederlo. Poi, quando lui si è fatto rinchiudere in quel manicomio sono tornato lassù da solo, a cercare risposte, a volte lo faccio ancora. La cosa è sempre lì ad aspettarmi.»

Questo cambia le carte in tavola.
«Quindi dopo averlo visto riusciremo a vedere quello che al momento non vediamo?» chiedo. È folle.
«Sì, riuscireste a vedere qualcosa di più vicino alla verità in tutta questa storia. Ma non ve lo consiglio assolutamente.» tipico cliché anche questo. Lasciatemi indovinare, nonostante tutte le raccomandazioni e nonostante sembri davvero un’idea di merda saliremo in soffitta proprio questa notte per vedere quella cosa.
«Vogliamo vederla.» dice Riccardo risoluto. Ecco, appunto. Aggiungi che vuoi vederla stanotte, su.
«Vi ripeto che non vi conviene farlo, ma non sono nessuno per impedirlo. Avete più possibilità di incontrarla la notte, sempre che voglia essere vista.».
Lo sapevo. E preferivo non saperlo, sia chiaro.
 
 
Sono le 22 passate da un po' quando, armati delle sole torce dei cellulari, saliamo in soffitta.
Chiaramente ora sembra tutto ancora più tetro di quel pomeriggio quando ci sono venuta da sola. Le impronte, le stesse di allora potrei quasi giurare, sono ancora lì, come se non fosse passato che un attimo. Devo levarmi questa cosa dalla testa subito, non mi servono altre paranoie per oggi. Grazie.
Chiudiamo la porta alle nostre spalle e ci prepariamo a quella che, sono pronta a scommetterci, sarà una lunga notte. Ci sediamo in cerchio, schiena contro schiena per guardarci le spalle (mica scemi), le torce puntate dritto davanti a noi, perse nel buio. Ok, bene, due domande. Primo, cosa stiamo cercando? Secondo, dobbiamo davvero passare tutta la notte così?
Aspetto una mezz'oretta prima di prendere coraggio e parlare.

«Ho un'idea. Potremmo farci un giro per la soffitta, vedere se troviamo qualcosa. Se non sono morta cercando da sola non moriremo di certo in cinque.»
Mi guardano come se fossi impazzita, poi realizzano che l'alternativa è restare seduti a guardare il nulla per tutta la notte e mi danno ragione. Anche perché, non so loro, ma io inizio già ad avere mal di schiena.
Ci alziamo, facendo del nostro meglio per rimanere vicini, aspettandoci di vedere questa "cosa" da un momento all'altro. Ci avviciniamo al letto, nell'angolo più remoto della soffitta, senza sapere perché. Sembra tutto più facile ora che siamo in cinque. Erika e Luca ci guardano le spalle mentre noi tre fissiamo il letto, aspettando che qualche coraggioso si faccia avanti per controllare cosa c'è sotto di esso. Non saprei dire per quale assurdo motivo sentiamo il bisogno di dare un'occhiata è come se avessimo la certezza che c'è qualcosa che può darci un indizio.
Alla fine Riccardo si decide e fa il lavoro sporco per noi; si china e osserva lo spazio tra il pavimento e il materasso, aiutato da una torcia. Già il semplice fatto che niente lo sta uccidendo ci fa sospirare di sollievo. All'improvviso infila un braccio lì sotto, lontano dal nostro sguardo, dritto nella bocca del mostro. Non si fa. Proprio no.
Fortunatamente, però, il braccio riemerge poco dopo con la mano ancora attaccata ad esso e nessuna ferita. Mi do mentalmente della stupida per aver avuto paura.

«Ho trovato qualcosa.» dice. Ed eccolo lì, proprio davanti ai miei occhi, il mostro: una pallina colorata rotola verso di noi. Sì, sono stata decisamente molto stupida. Allungo le mani verso l'oggetto per fermare la sua corsa, lo spolvero. É una normale palla di gomma, del diametro di una decina di centimetri appena, rossa e blu. Niente di spaventoso.
Senza un motivo, la tiro. Rimbalza a terra facendo sussultare gli altri. Rimbalza di nuovo, allontanandosi, come tutte le palle del mondo fanno. Va verso la porta ma la sua corsa si ferma quando va a sbattere contro il guardaroba. Mi guardo intorno confusa, certa di aver già sentito il rumore che la palla ha appena prodotto. Proprio quel preciso rumore.

«Andiamo a controllare l'armadio» dico. Ho un sospetto. Gli altri si allontanano dal letto prima di me, senza alcuna esitazione, mentre io mi fermo cercando di raccogliere nella mia memoria quanti più dettagli possibili. Niente di strano. Come al solito mi convinco che era solo una mia impressione ma allo stesso tempo mi chiedo se è possibile che io abbia tutte queste impressioni. Scuoto la testa cercando di allontanare i pensieri stupidi e mi avvio anche io verso la luce delle torce degli altri ma mi blocco subito quando vedo Erika e Luca fermi davanti alla macchina da cucire.

«Che sta succedendo?» chiedo, leggermente in ansia. Non li vedo in faccia, non capisco se sono spaventati o se sono loro che stanno cercando di spaventare me.
«Ho nascosto qui un mio ricordo.» mi spiega Erika con voce tranquilla, chiudendo il cassettino del tavolo davanti a lei, che ricordo di aver esaminato l'ultima volta che sono venuta qui. Quando lei si volta verso di me, il suo sorriso mi gela il sangue. Non l'ho mai vista così.
«Quale ricordo?»
«Ho tagliato una ciocca di capelli a Luca. C'era un filo rosso qui nel cassetto così ho fatto un fiocco.»
«Perché?»
Improvvisamente sembra ritornare in sé.
«Non lo so, sentivo che dovevo farlo.».

Faccio allontanare entrambi e apro il cassetto. Filo rosso tagliuzzato, una forbice arrugginita e la stessa ciocca di capelli che ho trovato quel pomeriggio.
«Non dire puttanate cercando di spaventarmi, idiota.». Stasera ci sto prendendo gusto a darmi della stupida ripetutamente, ma stavolta stavo davvero per cascarci. Bello scherzo.
«Cosa intendi scusa? I capelli sono lì, come dovrei prenderti per il culo?»
«Vorresti dirmi che quelli sono i capelli di Luca?» bella recita, ma non mi fregano, sono stata qui una settimana fa e li ho visti.
«E di chi altro dovrebbero essere?»
«Lascia perdere. E complimenti, ci ho quasi creduto.» la lascio lì, confusa, e raggiungo gli altri due che, credo, sono ignari di tutto.
«Erika sta meglio?» mi chiede Alessio visibilmente preoccupato. Come non detto.
«Sta meglio, ma che è successo?»
«Stavamo venendo verso l'armadio e si è come bloccata. Ha iniziato a dire cose senza senso, tipo che voleva lasciare un ricordo. Non siamo riusciti a farla muovere, quindi noi abbiamo proseguito.»
«Speravo che almeno tu non amassi prendere per il culo. E fammi indovinare, già che ci siamo, c'è qualcosa di veramente inquietante dentro l'armadio.»
«Che ti prende? Ho le prove filmate di quanto successo. E comunque sì, mi dispiace dirtelo ma c'è qualcosa.»

Bene, fantastico. Se quello che dicono è vero voglio andarmene di qui subito, invece mi tocca pure vedere che altro è successo. Non riesco a spiegarmi come in così poco tempo possano aver architettato tutto, sono stata lontana solo pochi istanti. Non so nemmeno come facessero a sapere che c'erano davvero delle forbici e dei capelli nel cassetto della macchina da cucire visto che nessuno di loro l'ha mai aperto. A meno che qualcuno non l'abbia fatto la prima volta che siamo saliti per cercare gli sci. Troppe ipotesi mentre devo concentrarmi su altro.
Apro l'armadio senza esitare, tanto ormai di sorprese ne ho già avute. I cappotti sono ancora lì e non c'è niente di particolare che catturi la mia attenzione, finché non mi accorgo di una piccola scritta rossa su una delle ante. Riconosco quasi subito la calligrafia e non ho difficoltà a leggerla: change sides.
 
 
É la goccia che fa traboccare il vaso. Abbandono quella maledetta soffitta a se stessa, seguita dagli altri, promettendo ad alta voce di non tornarci mai più per nessun motivo per tutto il tragitto fino alla cucina di casa.
«Dobbiamo tornare al manicomio, ci sta dicendo che dobbiamo tornare lì, ne sono sicuro.» suggerisce Riccardo. Non esiste. Ovviamente però agli altri sembra una bellissima idea. Maledettissimi cliché.
«Magari di notte, magari la cosa è lì, magari scopriremo finalmente la verità.».

Oh esatto, la verità. Fulmino Erika e Alessio con lo sguardo, abbastanza eloquente perché capiscano che è venuto il momento di rivedere il video della serata.
Arriviamo subito al punto dove decidiamo di vedere cosa c'è nell'armadio, gli altri si allontanano mentre io, non inquadrata, sono ferma accanto al letto a pensare. Come mi è già stato spiegato Erika si ferma e inizia a ripetere parole senza senso, sconnesse tra loro. Poi si ferma davanti alla macchina da cucire, la guarda come se essa le stesse parlando e senza esitare estrae le forbici dicendo che deve lasciare un ricordo. Quindi è tutto vero.
Non è possibile che io abbia trovato i capelli di Fabio prima che essi fossero effettivamente nascosti in quel cassetto. Poi improvvisamente ricordo il suono della palla che rimbalza e rotola verso la porta. Illuminazione.

«L'ho sentito quel pomeriggio..» sussurro rivolta soltanto a me stessa, anche se ovviamente gli altri mi sentono e subito vogliono sapere.
«Quando sono salita in soffitta da sola quel pomeriggio ho trovato la ciocca di capelli. E uscendo ho sentito il suono della palla che cadeva, la stessa palla che ho lanciato io questa notte. Suppongo che anche tutte le impronte che ho trovato in giro fossero nostre. Per questo non riuscivo a credere a questa storia.»
«Non è possibile.»
«Lo credevo anche io. Evidentemente qualcuno o qualcosa vuole davvero che torniamo nel manicomio quindi lo faremo.»
«Non sappiamo nemmeno se quella cosa esiste davvero o se è solo un'invenzione. Non l'abbiamo vista.».
«Scopriamolo.»

Prendo il computer, spinta dalla curiosità ma terrorizzata allo stesso tempo. Faccio partire il video del paziente 507 che abbiamo trovato durante la nostra esplorazione al manicomio e obbligo anche gli altri a guardarlo. Quando la registrazione finisce ci guardiamo terrorizzati.
Per la prima volta siamo riusciti a distinguere i frame nominati dal padre di mio cugino. Abbiamo visto la cosa.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 - Change Sides. ***


Troviamo un po' di tempo libero soltanto la domenica dopo.

Arriviamo davanti all'edificio incriminato poco prima del tramonto. Niente assomiglia a quello che abbiamo visto la prima volta che siamo venuti qui; le mura grigie hanno assunto un colore diverso per via delle ultime luci del giorno, i rampicanti su di esse, con le foglie già arrossate dall'autunno inoltrato, ora sembrano scie di sangue che sfidando la forza di gravità salgono lungo le pareti. Dalle finestre sporche di povere esce l'oscurità più totale. É già inquietante così, non voglio immaginare con cosa avremo a che fare tra qualche ora.

Ci avviciniamo alla solita finestra fermandoci esitanti, nessuno vuole davvero entrare. Per qualche strano motivo, però, qualcuno ci ha detto di farlo attraverso l’armadio in soffitta. Pensandoci bene sembra una via di mezzo tra le Cronache di Narnia e l’ennesimo cliché da film horror. Insomma, questa storia mi piace sempre meno e sono convinta che sia la stessa cosa anche per i miei compagni. Prima di fare un passo verso la finestra, facendo capire loro che almeno io ho intenzione di entrare, mi prometto mentalmente che dopo stasera, qualsiasi cosa scopriamo, lascerò perdere questa brutta faccenda per sempre. Non esiste che io torni qui o in quella maledetta soffitta e non esiste che io guardi un’altra videocassetta.
Stavolta sono più agile ed entro con meno difficoltà, ritrovandomi nel familiare atrio che ho già visto, ma che non immaginavo così tetro senza la luce del sole. L’aria abbandonata di questo posto, al buio, risalta ancora di più, donando a questa struttura altri superflui dettagli inquietanti, quali zone d’ombra completamente nere, impressione che ci sia qualcuno proprio alle tue spalle che ti guarda e tante altre belle cose. Non possiamo proprio tornare a casa? Sono fermamente convinta che siamo ancora in tempo.

Non ho nemmeno il coraggio di voltarmi verso la finestra per controllare se gli altri quattro hanno deciso di seguire il mio esempio, perché sono fermamente convinta che ci sia qualcosa che mi sta studiando e non ho nessuna intenzione di voltarle le spalle. Sarebbe estremamente stupido. Anche se forse, in effetti, è ancora più stupido essere entrata qua dentro per prima, da sola, giusto per dare un’inutile prova di quanto sono trasgressiva e coraggiosa. Magari gli altri adesso scappano e tornano alla macchina senza di me e io non potrò fare un bel niente perché c’è qualcosa nel buio e non posso voltargli le spalle. Oh, giusto, ora mi ricordo che c’è anche una finestra aperta dietro di me, sono esposta su tutti i fronti e maledizione dovevo aspettare che qualcuno entrasse prima di me.

Qualcosa mi sfiora la spalla. Infarto. Ovviamente è solo Riccardo, che non può farsi battere da una donna, anche se sono pronta a scommettere che ha paura anche lui in questo momento. Proprio come me, anche lui comincia a guardarsi in giro circospetto, sorpreso da tutta questa oscurità che ci circonda, forse anche lui si sente osservato. Per quanto mi riguarda, ora che so che non sarò la sola a morire nella triste eventualità che sia stato un serial killer a portarci fin qui, mi sento molto più sicura.
Un rumore alle nostre spalle e anche Alessio è dei nostri. Nessuno ha il coraggio di fiatare e nel silenzio assoluto sentiamo Luca che sussurra parole di conforto ad Erika per convincerla ad entrare. Ovviamente lei è la meno stupida del gruppo quindi ha ragionevolmente deciso di starne fuori. Per un attimo ho la brillante idea di propormi per restare qui con lei a farle compagnia mentre gli altri fanno il lavoro sporco, poi ricordo che comunque sia non posso dare le spalle al qualcosa che mi sta osservando.

Alla fine, anche i due rimasti fuori si decidono e si uniscono a noi. Per qualche interminabile minuto regna il silenzio più totale, sentiamo soltanto i nostri respiri. Il sole è ormai scomparso con tutta la sua luce, non ci è rimasto niente a proteggerci dalle ombre minacciose che incombono su di noi. All’improvviso realizzo per quale motivo mi sto sentendo osservata. È come se tutta la struttura, le mura, le finestre, ogni singola porta, avesse occhi per guardarmi, per aspettare un mio errore e poi colpirmi in qualche modo. Voglio credere che sia solo un’impressione per colpa dei troppi film horror che ho visto. D’altra parte, non si è mai sentito parlare di un manicomio con gli occhi.

«Allora, parliamoci chiaro. Prima cosa: non ci dividiamo, qualsiasi cosa succeda. Seconda cosa: se succede qualcosa per cui veniamo divisi, ci spaventiamo a morte o non voglio immaginare che altro, ci troviamo tutti qui. Terza cosa: niente stronzate. Di nessun tipo; non cercate di fare scherzoni o giuro su me stessa che vi faccio male. Molto male. Restiamo qui dentro il tempo necessario per vedere quello che c’è da vedere e poi leviamo le tende, meno infarti rischio meglio sto.»
Per fortuna sono tutti d’accordo.
C’è un tacito accordo che ci impone di evitare la stanza del paziente 507 quindi ci dirigiamo dalla parte opposta, pur sapendo che probabilmente non troveremo niente e che prima o poi dovremo affrontare anche la parte a sinistra.
I nostri passi rimbombano nel corridoio vuoto proprio come l’ultima volta che siamo stati qui, con la differenza che allora non mi ero nemmeno degnata di notare quanto rumore stessimo facendo mentre ora sì. Siamo qui per esplorare quindi ricominciamo il tour delle stanze alla ricerca di quello che potrebbe esserci sfuggito la prima volta e per un po’ va tutto bene così, finché non comincia il disastro.
 
 
Tre cose avevo detto. Restiamo uniti, se succede qualcosa ci troviamo all’ingresso e niente stronzate. Tre maledette cose dovevamo fare.
Invece no. Ovviamente no. Sarebbe stato troppo semplice uscirne vivi. Non so nemmeno come, non lo voglio sapere, Riccardo, Erika e Alessio sono spariti nel nulla mentre io e Luca eravamo concentrati su un suono che sembrava provenire dall’ala sinistra dell’edificio. Gira, rigira, chiama, cerca. Niente. Nessuna traccia di quei tre imbecilli. Regola numero uno, andata a puttane. Panico.
C’è venuta quindi la brillante idea di tornare all’ingresso nella speranza che almeno su questo punto avessero deciso di darmi ascolto. Non solo loro non ci sono ma qualcuno ha sbarrato la finestra dall’interno. Stavolta lo vediamo benissimo sia io che Luca e per quanto ci giriamo, aspettiamo, preghiamo, la finestra resta maledettamente sbagliata. Sono sbbastanza convinta che siamo gli unici ad essere qua dentro quindi grazie a qualcuno anche la seconda e la terza regola sono da buttare.
Un altro rumore dall’ala sinistra, quella che stiamo evitando come la peste.

«Che facciamo? Andiamo a vedere?» chiedo a Luca, sperando che mi supplichi di non farlo.
«Gli altri potrebbero essere lì.»
Certo, come potrebbero essere da qualsiasi altra parte quindi perché andare proprio lì? Quel rumore l’abbiamo già sentito quindi direi che non siamo stati noi. D’altra parte, restare nell’atrio a maledire la finestra sbarrata non è una buona idea; magari se ci spostiamo al nostro ritorno la troveremo normale, come è successo l’ultima volta. Alla finestra piace scherzare.
«E va bene, andiamo.»
Prima di fare qualsiasi cosa, però, mi avvicino alla sedia di legno che ho trovato anche l’altra volta. Strano, ricordavo che le mancasse una gamba, invece ora noto che tutte e quattro sono intatte.
«Dammi una mano.» ordino a Luca. Il ragazzo mi si avvicina per tenere la sedia mentre, con qualche fatica, riesco a staccarle una delle gambe. Certo, detta così l’azione sembra molto più cruenta di quanto non sia in realtà, ma è quello che faccio. È l’unica arma che ho trovato nei paraggi.
 
 
 
Io e Luca arriviamo alla stanza del paziente 507. La porta è aperta. La luce dentro è accesa. Il che non è possibile, non può esserci ancora corrente elettrica qui. Non voglio guardare dentro. Devo guardare dentro.
Il cadavere è sempre lì a terra nella stessa posizione in cui l’abbiamo lasciato. No. Il sangue è fresco. Eppure potrei giurare che è lo stesso cadavere. Non voglio avvicinarmi. Mi avvicino. È Alessio. Non è possibile, Alessio era vivo fino a poco fa, il cadavere era già qui la settimana scorsa. Il telefono è a terra, a pochi metri da lui. Lo raccolgo e lo infilo nel mio fedele zaino, una volta finita questa bruttissima avventura guarderò il video e capirò cosa sia successo. Sono sicura che ci sia un video che può spiegare tutto.
Esco di lì cercando conforto nello sguardo del mio unico compagno, che è sparito.
 
 
Ho corso per ore. Sono sicura di aver corso per ore. Non trovo l’ingresso. Devo tornare all’ingresso.
Improvvisamente sento qualcuno singhiozzare. O almeno credo. Qualcuno è ancora qui. Mi dirigo nella direzione del rumore, ritrovo Luca che sta abbracciando Erika.
«Che è successo?» chiedo con un filo di voce; mi stupisce il fatto che io riesca ancora a parlare.
«Luca, perché te ne sei andato? Perché non hai aspettato che uscissi dalla stanza per venire a cercarla?» ancora non risponde. Si limita a guardarmi, gli occhi pieni di lacrime e un’espressione stupefatta dipinta in volto, con qualche sfumatura di dolore.
«Non ero con te, te ne sei andata mentre salivamo le scale nell’ala destra. Ti abbiamo cercata per ore. Ci siamo divisi. E poi Erika è..»
No. Non lei. È un incubo oppure sto impazzendo.
Ci guardiamo un’ultima volta, confusi dalle nostre stesse parole, poi ricomincio a correre. Non mi importa essere sola, ora come ora, devo tornare all’ingresso.
 
 
Salgo le scale. So benissimo che salire le scale non mi porterà all’uscita ma io salgo le scale. Devo salire le scale.
Riccardo è sul pianerottolo, studia il paesaggio attraverso una finestra aperta, incurante dell’aria fredda. Ha qualcosa tra le mani, qualcosa che non voglio riconoscere. Evito di parlargli, tanto so che probabilmente nulla di quanto ho da dirgli avrebbe senso ai suoi occhi.
«Come mai non parli?» chiede lui non appena lo nota. Silenzio. Ancora silenzio.
«Va bene, lo ammetto. Sono stato io.»
«A fare cosa per la precisione?» non che io voglia sentire la risposta.
«Ad ucciderli. E a sbarrare la finestra dall’interno.»
Perché? Ecco, vorrei davvero riuscire a chiederglielo in questo momento ma finalmente le parole mi si bloccano in gola. Sto impazzendo, è definitivo.
«Change sides. Dovevo cambiare squadra. Sono sicuro che puoi capire cosa intendo.»
Veramente no, non lo capisco. Non voglio nemmeno capirlo, voglio solo uscire di qui.
«Vedi, ognuno di noi ha il suo prezzo da pagare per uscire di qui stasera. Gli altri non hanno voluto pagarlo. Tu sai qual è il tuo prezzo da pagare?»
No, non lo so e no, non voglio saperlo.
«Io ho capito quale sia il mio. Credo che questa spetti a voi, anche se nessuno vi obbligherà a guardarla, in caso voi usciate vivi di qui.» mi porge una videocassetta. So benissimo di cosa si tratta. La stringo tra le mani, rivolgendogli uno sguardo interrogativo sperando che mi dica almeno dove diavolo l’ha trovata. Non trovo nessuno a rispondere alle mie domande, tutto ciò che mi resta è la solita scritta, stavolta nera, sul lato della cassetta: change sides. Deve essere un incubo.
 
 
 
Change Sides. Devo cambiare lato. O squadra. O qualcosa, qualsiasi cosa.
Non so quale fosse il prezzo da pagare per gli altri, ma il mio dev’essere avere la videocassetta, perché finalmente ritrovo l’ingresso. Non c’è modo di uscire, quindi mi faccio coraggio e con la gamba della sedia che per qualche strano motivo ancora mi porto appresso rompo la prima vetrata del corridoio a destra. C’è qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo, ma senza curarmi di cosa stia succedendo ai miei amici, esco finalmente all’aria aperta.
Il freddo mi colpisce come uno schiaffo dritto in faccia. Improvvisamente incapace di reggermi sulle mie gambe mi inginocchio a terra, senza nemmeno avere la forza di allontanarmi da quel posto maledetto. E piango, prego di svegliarmi, piango ancora, ma non succede niente. Sono sempre lì, inginocchiata sull’erba secca davanti alle rovine di un manicomio, come una cretina. Non so nemmeno se ci sia ancora qualcuno a sentirmi piangere.
Poi all’improvviso, sento una voce familiare alle mie spalle.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 - Lontano. ***


Mi sveglio nel mio letto senza ricordare più niente. Il calendario segna lunedì 30 novembre, tutto regolare. Per un attimo riesco a convincermi che era davvero soltanto un brutto sogno troppo realistico. All’improvviso capisco che è stato il suono insistente del campanello a svegliarmi, così mi alzo e vado ad aprire la porta, maledicendo chiunque si sia attaccato al citofono.
Dall’altra parte della porta trovo Luca. Improvvisamente ricordo gli ultimi dettagli della sera prima, la sua voce che mi chiama, poi tutto nero. Che mi abbia riportata a casa lui? Mi faccio da parte per lasciarlo entrare, seguendolo in cucina. Spero che decida di parlare per primo perché non saprei proprio da dove iniziare.

«Sono morti davvero. Erika e Alessio. Li hanno trovati morti nel loro letto stamattina, come se non si fossero mai spostati da casa.»
Non so se essere felice del fatto che ha rotto il silenzio o se andare in panico per quello che ha appena detto.
«Quindi eravamo lì davvero? Mi hai riportata a casa tu? Che diavolo è successo?»
«Sinceramente non lo so, ricordo solo di averti sentita piangere e ripetere cose senza senso, sono uscito per vedere dov’eri, poi non ricordo nulla.». Meraviglioso.
«Ok, mettiamo in ordine le cose. Ho ancora il cellulare di Alessio, probabilmente ha ripreso tutto, possiamo guardare il video per capire, se te la senti.»
«Tu te la senti?» chiede. Non lo so, non capisco che emozioni sto provando in questo momento. Non sono ancora riuscita a mettere insieme tutti i pezzi nella mia testa, a rendermi conto di quello che è successo. Forse se non vedo il video non avrò mai la conferma che ho appena perso due persone a cui tenevo e potrò fingere per sempre di non averle mai perse. No, non funziona così. Alla fine, decidiamo di guardarlo.

All’inizio sembra tutto tranquillo, proprio come ricordo. Visto attraverso uno schermo sembra tutto meno inquietante, meno reale. Ad un certo punto, senza dire nulla, mi allontano dal gruppo e me ne vado. Gli altri provano a chiamarmi, poi a seguirmi, ma falliscono. Questo non lo ricordavo assolutamente. Si dirigono quindi verso l’atrio dove Riccardo, senza motivo, con assi e martello comparsi da non si capisce bene dove, sbarra la finestra. La cosa peggiore è che mentre lo fa continua a borbottare frasi sconnesse tra sé e sé, come se stesse rispondendo a qualcuno.
«Mi ha detto la cosa di farlo.» si giustifica quando Erika, nel panico più totale, gli chiede cosa diavolo abbia appena fatto. Chiaramente. Non posso fare a meno di pensare che mi piacerebbe proprio avere il suo collo tra le mani, ora come ora, per farmi spiegare per filo e per segno quale “cosa” precisamente gli ha detto di chiuderci l’unica via di fuga. E se potessi mi arrabbierei con gli altri per averglielo permesso ma temo sia tardi anche per arrabbiarsi ormai.
Dal video risultano tutti abbastanza in panico, in un angolo scorgo la stessa sedia a cui poco dopo ho, se non ricordo male, staccato una gamba per usarla come arma di difesa. Col senno di poi, direi che è stata un’idea davvero brillante, complimenti a me.
L’intenzione del resto del gruppo sembra quella di aspettarmi lì, sono sicuri che arriverò. Mando avanti il video velocemente per arrivare al punto in cui qualcosa cambia: Riccardo decide di essere la causa di tutti i problemi per l’ennesima volta e convince gli altri a spostarsi nell’ala sinistra dell’edificio, convincendoli che probabilmente mi troveranno lì quando sono chiaramente da tutt’altra parte. Luca si offre volontario per rimanere ad aspettarmi in caso tornassi. Coraggioso da parte sua.

«Tu questa cosa te la ricordi?» gli chiedo dopo aver messo in pausa.
«Sinceramente no.» esattamente come sospettavo. Ormai non mi stupisco più. Faccio ripartire.
Nulla di interessante fino a quando Riccardo non comincia a parlare, suppongo rivolto a Erika.
«Sai, non dovevamo entrare qui di notte. Ora, se vogliamo uscire, abbiamo un prezzo da pagare. Me l’ha detto la cosa.» fa una pausa, aspettando una risposta che non arriva. «Il tuo prezzo, mi dispiace dirtelo, è quello di uccidere Luca. Altrimenti puoi sempre morire per lui.»
A questo punto gli altri due rimasti in sua compagnia cominciano a pensare che qualcosa gli abbia dato alla testa e cercano di farlo ragionare, spiegandogli che non c’è nessuna cosa, che è tutto nella sua testa. Non la prende bene.
In quello che suppongo sia un tentativo di aiutare Erika a scappare, è Alessio stesso ad attirare Riccardo nella camera del paziente 507, dove lo abbiamo trovato morto. All’interno, ovviamente, non c’è il cadavere, cosa che non stupisce più di tanto i due, troppo presi dall’oggetto che li aspetta al centro della stanza: una videocassetta.
«E questa?»
«Lascia stare, questa è il destino di un’altra persona» la voce di Riccardo si fa sempre più minacciosa.
«Ma cosa stai facendo? Sei impazzito? È tutta la sera che ti comporti in modo assurdo con gli altri. Stai bene?»
«Ha detto di cambiare squadra. Anche tu devi cambiare squadra. Se lo fai possiamo pagare il prezzo e andare a casa, ma se non lo fai devi morire.»
«Ma quale squadra? Quale prezzo? Guarda che a casa ci torniamo comunque, non appena troviamo gli altri. Anzi, dovremmo andarcene da qui.»
A queste parole Riccardo sorride.
«Se dici così è solo perché non puoi vederla.»
«Vedere cosa? Per Dio, smettila di cercare di spaventarmi con queste frasi idiote.»
«Come, non hai ancora capito? Non riesci a vedere la cosa. Ma io sì. E adesso la faccio vedere anche a te.»

Con queste parole gli si avventa contro, cercando il suo collo con mani rabbiose. È abbastanza chiaro dall’espressione sul suo volto che quello non sia più Riccardo, ma una marionetta nelle mani di qualcun altro. Il cellulare cade a terra, evidentemente dal lato della fotocamera perché il video diventa nero ma i suoni rimangono. Più ascolto più sono felice di non poter e di non dover vedere. Qualcuno cade, delle ossa si spezzano. Alessio ansima e geme di dolore.
«No! Mettilo giù! Riccardo ma cosa diavolo stai..NO!» il grido di Alessio si spezza con un rantolo soffocato. Sento le lacrime affiorare, anche se pensavo di non riuscire a piangere di nuovo.
«Il vostro prezzo da pagare era di due anime» spiega una voce fredda e spettrale che assomiglia ben poco a quella del Riccardo che conosciamo «Ora in due sono morti e gli altri sono liberi. Se mi avessi dato ascolto saresti uno di loro. Addio.»

Passi che si allontanano e il video prosegue nero finché non arriviamo io e Luca a raccogliere il cellulare. Mi chiedo se Riccardo lo abbia lasciato apposta perché noi lo trovassimo o se fosse troppo distante da se stesso per ricordarsi di portare con sé le prove del suo omicidio.
«E adesso? Vogliamo guardare l’ultima videocassetta?» mi chiede Luca a video terminato. Non c’è stato molto altro da vedere, dopo la morte di Alessio. Soltanto io che vago, senza nemmeno il sostegno di Luca, fino a che non lo ritrovo con la mia migliore amica morta. Ripenso anche alle terribili parole di Riccarso. “Il vostro prezzo da pagare era di due anime”. Eppure Erika doveva essere ancora viva quando Alessio e Riccardo si sono allontanati, quindi in che modo quest’ultimo sapeva che il prezzo era stato pagato? Significherebbe che Riccardo non l’ha uccisa e che quindi qualcun altro l’ha fatto. Dovrei parlarne con Luca, lo so, ma so anche che è troppo sconvolto dai fatti per reggere una discussione simile ora.
«No. Secondo Riccardo questa videocassetta è il nostro destino, dobbiamo guardarla assolutamente. E allora sai che ti dico? Non la guarderemo. Nè ora, nè mai. Però c’è un’altra cosa che dobbiamo fare. Sai, adesso credo di aver capito.»

Lui mi guarda stralunato, perché evidentemente si aspettava di vedere cosa ci fosse di tanto importante in quell’ultima maledetta videocassetta che è costata la vita alla sua ragazza e al mio migliore amico. E chissà, magari anche a Riccardo. Eppure, sento che non sarebbe giusto vederla ora, anzi non credo ci sarà mai un momento veramente giusto per guardarla, perché sia io che lui lo sentiamo nel cuore da quando l’abbiamo vista: contiene la verità. E io, personalmente, ne ho abbastanza di cercare la verità in questa storia e non ho intenzione di andare avanti.
Così mi metto a frugare tra tutte le altre cassette finché non trovo quella che ha fatto iniziare tutto. Quella con il video del paziente 507 che abbiamo cercato di mostrare a suo figlio. La faccio partire e ovviamente il video del matrimonio non esiste più. C’è ancora il nonno di mio cugino in manicomio.
«Cerca una cassetta che contenga veramente il video di un matrimonio, per favore.»
Luca lo fa, anche se ancora non ha capito. Non appena ne trova uno, gli spiego.

«Siamo stati noi per tutto il tempo. Non so come quella cosa abbia il potere di farti vedere cose passate e future, o se sia veramente questo quello che fa. Però lo fa. La prima volta che sono salita in soffitta da sola ho sentito il rumore della pallina che abbiamo tirato quando ci siamo tornati insieme. E a terra c’erano le impronte che abbiamo lasciato quella sera. Così come vicino alla macchina da cucire c’erano i capelli  che Erika poi si è tagliata. Anche nel manicomio abbiamo visto la finestra che Riccardo avrebbe poi chiuso e il corpo di Alessio che però era ancora vivo insieme a noi quel giorno. E su questa cassetta, quando abbiamo cercato di farla vedere al padre di mio cugino, c’era un matrimonio. Dovremo mettercelo noi. Adesso. Sai farlo?»
Lui annuisce silenzioso e dopo poco stiamo di nuovo salendo verso la mia soffitta.
«Non voglio sembrare un codardo ma...ti dispiace se aspetto qui? Ne ho avuto abbastanza di tutto quanto.»
«Ma certo, non ti preoccupare. Lascio la porta aperta così mi guardi le spalle?»
Entrare da sola non era esattamente quello che volevo ma non è nemmeno un problema. Per qualche strana ragione, non ho più paura. Lascio la cassetta proprio sul tavolo della macchina da cucire, dove come mi aspettavo, mi attende un pennarello rosso. Questo sarà ben più difficile. Devo essere io a mandarci in quel manicomio, io a consegnare alla morte le persone a cui tengo di più. Ma non ho nemmeno scelta.
Mi avvicino all’armadio, lo spalanco senza esitazione e ovviamente trovo le ante pulite. Il profumo del pennarello mi piace, mi aiuta a non pensare, mentre risoluta traccio le lettere che ci hanno condannati. Change Sides.
Quando esco, per qualche strano motivo sto sorridendo. Luca invece è pallido come un cadavere.
«Tutto ok? Pensavo avessi capito che dovevo scrivercelo io, non volevo farti sentire male.»
«No no, non è quello. Cioè non l’avevo capito finché non hai preso il pennarello ma quello è ok. È..cioè..come hai fatto a rimanerle accanto tutto il tempo senza scappare?»
Oh no. No no e ancora no. Decisamente no.
«Che intendi?»
«La cosa. È stata al tuo fianco per tutto il tempo. Più di una volta ho pensato che stesse per sfiorarti ma poi si fermava. Oddio non dirmi che non l’hai vista.»
«No, non l’ho vista. Grazie al cielo.»
«Si, davvero. Ha sorriso per tutto il tempo.»
 
 
E così eccomi qui, seduta su un treno che sta riportando me e Luca a casa dopo i funerali. Non è stato facile. Abbiamo dovuto mentire alla polizia, dicendo che sapevamo che Alessio, Erika e Riccardo avevano intenzione di andare a esplorare la Casa delle Rose e che non sono più tornati. Abbiamo dovuto recitare la parte degli amici tristi quando la madre di Riccardo è venuta a chiederci qualche informazione in più, ricacciando indietro parole di odio e vendetta.
In questo buio e freddo pomeriggio di dicembre, però, sembra che siano rimasti solo il dolore e tante domande. Alla fine, dopo un viaggio per la maggior parte silenzioso, Luca si decide a rivolgermi parola per chiedergli quello che suppongo lo tormenti da tutto il giorno.
«E adesso che faremo?»
«Beh, suppongo niente.»
«Non vuoi..scoprire la verità? Sicura?»
«A volte purtroppo non rimane niente a cui aggrapparsi, puoi solo lasciare andare, anzi devi lasciare andare. Per esempio ora. Abbiamo avuto la nostra avventura da film horror ma non siamo riusciti a gestirla e abbiamo perso. Che altro ci resta da fare, a parte arrenderci all’evidenza? Quali parole ci restano da dire dopo i discorsi ai funerali di due nostri cari amici? Persone che credevo avrei avuto al mio fianco per tutta la vita.»
Luca non può che darmi ragione  e cercare di trattenere altre lacrime.
«Questa storia ci è costata fin troppo, molto più di quanto avrebbe dovuto. Non lo dobbiamo a nessuno di continuare a indagare, nessuno di loro ci avrebbe ritenuti egoisti o menefreghisti se avessimo detto loro di non avere intenzione di guardare l’ultima cassetta. Penso che piuttosto ci avrebbero chiesto di lasciar perdere e viverci la nostra vita. Motivo per cui questa storia, per quanto mi riguarda, si è chiusa assieme alle loro bare.»
Cala nuovamente il silenzio su questo vagone occupato solo da noi. Rimaniamo entrambi soli con noi stessi e con il nostro dolore, così uguale, mentre cerchiamo di superarlo in modi completamente diversi. Lascio che almeno lui si consumi, che si lasci offuscare la mente dalla rabbia e dalla voglia di vendetta: passeranno. Per quanto mi riguarda non mi interessa altro che trovarmi un nuovo, piccolo e accogliente appartamento in un condominio dove non esistano soffitte.





Nota dell'autrice.
Eccoci qua, arrivati alla fine di questa strana cosa che ho iniziato a scrivere tanto tempo fa un po' per caso, un po' per colpa del NaNoWriMo. Beh, vi sarei grata se, arrivati fino a questo punto, voleste lasciare una recensione o comunque contattarmi per farmi sapere cosa vi è piaciuto e cosa invece poteva essere migliorato.
A presto!

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