Cappotto giallo lungo

di Milla Nafira
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Cappotto giallo lungo ***
Capitolo 3: *** Segreti ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


1. Prologo



-Mentre vi illustro quello che sarà  il programma della gita a Parigi, appoggiate pure le autorizzazioni sulla cattedra- esordì, senza nemmeno salutare, Invernizzi, il mio professore di francese. -Se riusciste ad alzarvi uno alla volta sarebbe perfetto- aggiunse con aria sconsolata di fronte al putiferio di passi e voci che si era creato.

Non era particolarmente affettuoso, Invernizzi, ma voleva bene ai suoi studenti e sapeva farsi amare, forse per l'aria innocua conferitagli da quei capelli grigi sulla testa stempiata e dagli occhiali piccoli portati in punta di naso o forse perché era uno tra i migliori insegnanti nel nostro liceo linguistico. In fondo lui e Cardano, l'insegnante di storia e filosofia, erano stati gli unici professori a prendersi la briga -e l'iniziativa- di portare in gita la nostra classe.

Dopo il turno dei miei compagni -precisamente erano in prevalenza compagne- della prima e seconda fila e dopo aver apposto la mia firma accanto a quella di mia madre, mi alzai anche io, mentre Invernizzi cominciava a parlare.

-Ci sono due novità riguardanti la gita- disse il prof inforcando gli occhiali da vista -La prima è che, a causa di problemi con gli insegnanti accompagnatori, non sarà più la 5^B a venire a Parigi con noi, bensì la 5^A-.

Mi immobilizzai a mezzo metro dalla cattedra, con il foglio ancora in mano. -Qualcosa non va, Giorgia?- mi domandò Invernizzi squadrandomi, gli occhi scuri tagliati dalle lenti a mezzaluna.

-Tutto bene- risposi io sorridendo velocemente prima di far cadere il foglio sulla cattedra e tornare al mio posto tra la finestra e Simona.

-Dicevo- riprese Invernizzi mentre continuava la processione verso il suo tavolo -Che nessuno dei professori della 5^B si è detto disposto a fare da accompagnatore, motivo per cui la 5^A ha sfruttato l'occasione per incastrare le professoresse di francese e arte e prendere il posto dell'altra classe-.

-E chi sarebbe la prof di arte della 5^A?- domandò Tiziano, uno dei quattro ragazzi della nostra classe e certamente il più stupido.

-La professoressa Fusara- rispose sbrigativamente Invernizzi -È arrivata il mese scorso, all'inizio di settembre-.

La seconda novità era qualcosa che concerneva la sistemazione nella stanze, ma io non ascoltai. Non me importava un accidente di quanti saremmo stati per camera così come non me ne importava un accidente della nuova prof di arte, che poi era la mia materia preferita, nonostante la mia insegnante fosse una mezza depressa. Ciò che mi stava seriamente preoccupando era la consapevolezza che la A era la sezione di Jacopo Marzi e quindi, con ogni probabilità, escludendo un incidente che comunque il karma avrebbe potuto provvedere a procurargli, ci sarebbe stato anche lui a Parigi.

Il personaggio in questione era colui con cui avevo incoscientemente deciso di perdere la verginità a giugno e che, dopo un orgasmo che solo lui aveva avuto, mi aveva confessato con innocente naturalezza di essere, da circa due settimane, il ragazzo di Clara Mantegazza, una mia compagna di classe che faceva la modella per Abercrombie. Da allora non avevo più incontrato né sentito Jacopo, riuscendo con innata abilità a evitare di incrociarlo a scuola durante gli intervalli e solo una volta l'avevo intravisto, fuori dalla nostra aula, baciare Clara prima del suono della campanella. Probabilmente aveva più interesse di me a mantenere nascosta la nostra insoddisfacente, per quanto mi riguarda, nottata estiva e dunque mi avrebbe ignorata a sua volta durante la settimana a Parigi, ma dovetti ammettere che la prospettiva mi trasmetteva comunque una certa inquietudine.

Simona mi guardò e alzò un angolo della bocca in un sorriso malizioso: se la cosa la faceva sorridere, significava che non era nulla di grave, mi dissi, di conseguenza non avevo motivo di preoccuparmi. In fondo, era stato solo un incidente. Sì, un incidente accaduto da ormai quattro mesi e, inoltre, la gita sarebbe stata a marzo, dunque avevo altri cinque mesi per rimuovere dalla mia memoria quello spiacevole errore. E per fare del sesso, possibilmente più soddisfacente, con qualcun altro: magari così sarebbe stato più facile non imbambolarmi a fissare Jacopo camminando per Parigi.

Non che mi piacesse, sia chiaro. Era carino, moro, abbronzato, con gli occhi chiari e un fisico decente, sempre ben vestito. Ma era il classico spaccone vanitoso e non capivo proprio cosa una come Clara, desiderata da ogni uomo eterosessuale sulla faccia della Terra, potesse trovare in lui, visto e considerato che, come avevo potuto constatare personalmente, le sue discutibili abilità sessuali non compensavano il suo irritante carattere.

La verità è che io, terminata la quarta superiore, mi ero resa conto che mancavano sei mesi alla mia maggiore età e, chiedendomi se non dovessi iniziare a considerare la mia verginità come un peso, me ne ero alleggerita ancor prima di dare una risposta a questo quesito interiore. Il fatto che fosse successo con Jacopo è stato casuale: una sua compagna di classe aveva invitato tutte le quarte nella sua villa fuori Milano per festeggiare la fine della scuola, lui ci ha provato con me e io l'ho erroneamente giudicato un buon partito per una piacevole prima esperienza. La verità è che quella sera, sul letto matrimoniale di Giulia Motta, ho sentito solo l'alito alcolico di Jacopo e un intenso dolore in mezzo alle gambe prima che lui gemesse sopra di me guardandomi con occhi spalancati da pesce lesso per poi accasciarsi sul materasso.

Quanto a Clara Mantegazza, che quella sera, come avevo saputo dal suo devoto fidanzato, era a casa con la mononucleosi, sono convinta che stesse con lui per senso di solitudine e per una ingiustificata bassa autostima che l'aveva spinta a cercare nel suo partner una personalità estroversa e sicura di sé, l'opposto della sua.

Ovviamente queste erano solo mie supposizioni, ma probabilmente azzeccate. Sono sempre stata brava a interpretare le persone, per questo pensavo di iscrivermi a psicologia dopo la maturità. Psicologia o beni culturali che, se non mi avesse dato da mangiare una volta laureata, avrebbe se non altro appagato il mio amore per la storia dell'arte.

Come ogni giovedì, finite le lezioni, mi aspettava una coda infinita alla piadineria di fronte al liceo se volevo consumare un pranzo rapido prima di rientrare a scuola, ma questa volta per il corso pomeridiano di ginnastica ritmica che da ormai otto anni frequentavo e al quale da quattro si era unita Anna. In effetti, si può dire che avessi scelto quel liceo per essere comoda con il corso di ginnastica piuttosto che il contrario.

-Come ci organizziamo in hotel a Parigi?- domandai con la bocca piena ad Anna mentre a passo svelto ci allontanavamo dal bancone per accaparrarci un tavolo appena liberato.

-Tu, io e Simo saremo nella stessa stanza, ovviamente- replicò Anna.

-Ah, ci sono le stanze da tre? Credevo che avremmo dovuto dividerci in coppie-.

-Le camere sono tutte da quattro- bofonchiò Anna masticando un boccone della sua piadina e guardandomi storto -l'ha detto Invernizzi stamattina, poco dopo che ti sei immobilizzata davanti a lui. A proposito, cosa avevi?-.

-Lascia stare- tagliai corto, sedendomi sulla sedia di ferro e vimini -chi è la nostra numero quattro?-

-Be', siamo in ventitré in classe. Diciannove femmine. Quindi dovrà esserci una stanza con una in meno- calcolò Anna mentre io riflettevo su quanto fosse rilevante la sfumatura semantica nel definirsi 'ragazzi e ragazze', 'bambini e bambine', 'uomini e donne' oppure 'maschi e femmine'. Una volta, alle elementari, una maestra aveva rimproverato un mio compagno per aver utilizzato la parola 'femmine' e l'aveva invitato a sostituire il termine con 'bambine'. Non so se la cosa la turbasse perché non considerava le bambine come effettivamente femmine o se ritenesse la definizione offensiva in quanto non esclusiva della specie umana. Ciò che so è che quell'intervento mi aveva colpito profondamente e che col tempo ero giunta alla conclusione che quello della maestra era, in ogni caso, un ragionamento sbagliato, dato che bambine e bambini non sono esenti, pur nella loro inconsapevolezza, al richiamo sessuale e che noi esseri umani siamo a tutti gli effetti animali. E in ogni occasione in cui ci ho ripensato, da bambina, ragazzina, ragazza e quasi donna, non ho mai trovato nulla di offensivo nell'essere e nel definirmi femmina.

Ero immersa in questo genere di riflessioni quando replicai con un neutro -Ah-. Mi capitava spesso di perdermi nella matassa dei miei pensieri e, naturalmente, di perderne dopo un po' anche il bandolo. Da una parola, un oggetto, un dettaglio mi si apriva un modo. Avevo l'occhio dell'artista, della critica d'arte o perlomeno ne condividevo le velleità.

Anna invece detestava le mie momentanee estraneazioni dalla realtà e in sette anni non ci aveva ancora fatto il callo -A meno che tu non voglia Manzi come quarto-.

Anna ottenne l'effetto desiderato, ovvero riportarmi bruscamente e non tanto gentilmente all'hic et nunc. -Eh?- esclamai sollevando lo sguardo e incontrando il suo sorrisetto di scherno e le sue sopracciglia scure sollevate. Realizzai che queste vocali esclamate erano esattamente i segnali che la mia amica tanto odiava e riparai con un bel -ma che cazzo dici Anna?-.

In quel momento, Clara Mantegazza passò di fianco al nostro tavolo, sola, con una bottiglia d'acqua in mano. La squadrai arrossendo violentemente e mi voltai di nuovo verso Anna con gli occhi sbarrati e le narici dilatate. Non si può certo dire che io non abbia un viso espressivo. Forse avrei dovuto fare recitazione.

Colta di sorpresa più di me, Anna alzò le spalle e scosse la testa, come a scusarsi. -Non credo che abbia sentito- buttò lì con la voce che le tremava dall'imbarazzo -non ci stava neanche guardando-.

-Lo spero per te- sibilai addentando con foga ciò che rimaneva del mio pasto.

Anna mi precedeva di qualche passo mentre uscivamo dal bar. Era bassa, un po' in carne, aveva gli occhi azzurri, i capelli neri e molto corti e l'apparecchio ai denti. Mia madre l'aveva sempre definita 'poco femminile' e io ogni volta mi chiedevo con quale pretesa giudicasse l'identità sessuale di una persona che conosceva così superficialmente.

-Giorgia!-. Lentamente e non senza una certa riluttanza mi voltai verso colei che mi aveva chiamata. Clara e Jacopo erano in piedi uno accanto all'altra, davanti alla vetrina del bar. Bene, mi dissi. Lei ha sentito la nostra conversazione, ha chiesto spiegazioni a lui che le ha confessato tutto e adesso io sono spacciata. E tutto per colpa di quell'idiota di Anna.

Mentre la parte creativa del mio cervello già si dedicava all'abbozzo di scuse elaboratissime, notai che la mia compagna mi stava sorridendo. Mi girai e vidi che Anna proseguiva imperterrita nella sua marcia verso la palestra. Si era almeno accorta che ero rimasta indietro? Così, se Clara avesse voluto ammazzarmi, avrei dovuto vedermela da sola con lei. Non che avesse un aspetto minaccioso, con le gambe lunghissime e magre, gli occhi verdi allungati, i boccoli biondi, il naso alla francese e il sorriso perfetto. Per dirla tutta, questa combinazione perfetta di tratti era considerata minacciosa da molte mie coetanee, ma non nel senso in cui la intendevo io.

Tentai il sorriso più falso che avevo da dedicarle e attesi la mia fine. -Scusa, sei di fretta?- mi chiese Clara gentilmente. Lei era sempre gentile, ma in quel momento il mio istinto suggeriva che fosse solo una tattica per cogliermi di sorpresa nel momento in cui mi avesse azzannata.

-No, no- risposi con voce tremante -dimmi pure-. Qualche passo dietro di lei, con la schiena appoggiata alla vetrina, Jacopo mi guardava sogghignando e fumava una sigaretta aspirando lentamente.

-Allora- iniziò Clara. La sua voce era così languida e il suo fare talmente innocente che stentavo a credere che stesse per compiere un omicidio. -Quando andremo in gita a Parigi, dividerai la stanza con Anna e Simona?-. Annuii, senza capire il punto. -Be', le camere sono da quattro, quindi mi chiedevo...- Clara gesticolava con fare nervoso e il suo viso si profondeva in smorfie nel lasciare in sospeso la frase.

-Ma certo!- esclamai, sentendomi improvvisamente molto più leggera, non appena capii la richiesta. -Puoi stare in camera con noi, sei la benvenuta- aggiunsi con un sorriso un po' più ampio del necessario.

-Se alle altre va bene, naturalmente- disse precipitosamente Clara.

-Ma va benissimo anche per loro- replicai continuando a sorridere come un'ebete. Decisi di strafare -te l'avremmo chiesto noi, ma pensavamo che...- e anche io non terminai la frase, ammiccando in direzione del suo ragazzo.

Clara voltò la testa verso di lui e scoppiò a ridere, tornando a guardare me. -Non si accettano stanze miste- ammiccò e continuò a ridere. Risi anch'io, forzatamente e senza uno straccio di motivo.

La salutai frettolosamente e con un'ottima scusa, visto che mancavano cinque minuti all'inizio della mia lezione, grata per la mia vita salva. In fondo, avrei dovuto immaginarmi una richiesta del genere. Nonostante fosse gentile, Clara non aveva amiche a scuola. Sarà  stato perché era timida, oppure perché in prima superiore aveva declinato l'invito al quattordicesimo compleanno di quella che sarebbe diventata 'miss popolarità' -ma era stata colpa dei suoi genitori, che non volevano mandarla in discoteca-, o più probabilmente perché le ragazze sono educate a odiarsi tra di loro per i motivi più disparati e a competere per l'attenzione maschile e Clara, con il suo fisico da modella e un viso d'angelo, ne attirava parecchia.

Sì, probabilmente psicologia sarebbe stata una decisione accurata.

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Capitolo 2
*** Cappotto giallo lungo ***


Ciao a tutti!

Mi scuso in anticipo per eventuali e molto probabili errori di battitura ma non ho il tempo di rileggere il capitolo, lo farò al mio ritorno.

L'ho finito or ora solo perché avevo promesso che avrei aggiornato presto la storia e l'alternativa sarebbe stata aspettare altri nove o dieci giorni. Purtroppo negli ultimi giorno sono stata molto impegnata con la sessione estiva e domani partirò per Amsterdam, quindi questo è tutto ciò che sono riuscita a produrre.

Il capitolo era stato pensato come più lungo ma, per pubblicarlo in tempo, ho deciso di dividerlo in due parti, oppure accorperò la seconda parte a un altro capitolo.

Spero che vi piaccia e che anche i lettori 'silenziosi' decidano di lasciare una recensione.

Buone vacanze :)



2. Cappotto giallo lungo


Era l'ultima settimana di ottobre e diluviava da giorni. Fino a poco tempo prima uscivo in pantaloncini, ma quel venerdì era una di quelle giornate in cui, alle 7.40, quando uscivo di casa per precipitarmi alla fermata dell'autobus che mi portava a scuola, il sole non era ancora sorto completamente. Sembrava inverno inoltrato.

Inoltre pioveva e io amavo la pioggia solo quando non ero costretta a fare nulla che implicasse varcare la soglia di casa. Mi piaceva guardarla dalla finestra o sentirne il rumore mentre leggevo, studiavo, guardavo la televisione o comunque non dovevo percepire l'acqua con il tatto. Trovavo i temporali pittoreschi e romantici nel senso più letterario del termine, ma li apprezzavo maggiormente da un punto di osservazione caldo e asciutto.

Nelle mattine piovose, se potevo, evitavo di andare a scuola e ne approfittavo per appagare il mio bisogno di romanticismo da sotto le coperte. Ciò non accadeva mai in inverno quando mia madre, resasi conto dell'andazzo dopo svariati temporali, prima di andare a lavorare faceva una tappa in camera mia, privandomi così del sacrosanto diritto di ogni figlia a mentire spudoratamente imputando l'assenza a un qualche misterioso malfunzionamento della sveglia.

Quel lunedì, nonostante la mancata visita materna, avevo avuto la malsana idea di fare uno sforzo e andare a scuola. Così mi ero ritrovata a correre per non perdere l'autobus agitando convulsamente l'ombrello, sembrando una malata mentale e bagnandomi più che se non lo avessi avuto. Sull'autobus, più affollato del solito, le persone continuavano ad urtarmi con i loro ombrelli, borse e indumenti bagnati. Per questi motivi odiavo muovermi con la pioggia: la giornata ancora non era iniziata e io arrivavo a scuola con i vestiti bagnati, i capelli rossi crespi e con volume triplicato, gentile omaggio dell'umidità, scarpe e calzini spesso zuppi per qualche inaspettato tuffo nelle pozzanghere.

Un'altra cosa che detestavo era appunto la reazione dei miei capelli a quel clima. Rossicci, lunghi fino alle spalle, con una frangia ormai lunga che si apriva lasciando parzialmente libera la fronte, sottili e senza una forma precisa, disordinati naturalmente, sembravano fatti apposta per trasformarsi in criniera con l'umidità. Non ero una di quelle ragazze il cui umore è strettamente legato alla forma dei propri capelli, come Simona, ma tutto ciò risultava comunque piuttosto irritante.

Feci le scale di corsa, non tanto per la fretta di iniziare la lezione di inglese quanto per entrare in classe con un minimo di fiatone che dimostrasse che avevo fatto di tutto per ridurre al minimo il ritardo. La maggior parte degli insegnanti si faceva impietosire da questa tecnica oppure anche loro la avevano utilizzata a loro tempo e collaboravano con la farsa per solidarietà, non l'ho mai capito.

Nell'avvicinarmi alla mia aula percepii il vociare dei miei compagni, nel quale ogni tanto spiccava qualche grido chiaramente distinguibile.

La 5^C era una classe strana. A nessuno stava antipatico nessuno, almeno non apertamente, fatta eccezione per la generale ostilità nei confronti di Clara ma, nonostante andassimo tutti d'accordo, non eravamo effettivamente una classe unita; la maggior parte delle conoscenze lì dentro erano superficiali.

Trovai la porta spalancata ed entrando vidi i miei compagni intenti a chiacchierare, per lo più in piedi o seduti sui banchi. Seduta sul banco più vicino all'entrata, Martina, una ragazza che non mi stava simpatica né antipatica, alzò lo sguardo per salutarmi.

-Dov'è la Procopio?- domandai, lasciando perdere il finto fiato corto.

-Non è ancora arrivata- rispose lei -Mi sa che oggi è assente-.

Tutti sembravano esultare dell'eventualità, ma io ero solo infuriata per essermi svegliata, essere uscita con la pioggia e avere corso per nulla. La Procopio avrebbe almeno potuto avvisare. Sbattei con poca grazia il mio ombrellino a terra, nell'angolo dove stavano quelli di tutti gli altri e in cui si era ormai formata una pozza d'acqua, e mi diressi in fondo all'aula, verso il banco di Anna su cui erano stravaccate lei e Simona.

Ebbi appena il tempo di salutarle che il brusio diminuì improvvisamente per cessare quasi del tutto nel giro di qualche secondo, mentre ognuno tornava al proprio banco. Vidi che sulla porta, in piedi, c'era una donna, che supposi essere la supplente, e mi sedetti anche io al mio posto.

Da lì alzai di nuovo lo sguardo e guardai meglio la presunta supplente. La prima cosa che notai era che indossava un cappotto giallo canarino, lungo fino alle ginocchia, con i bottoni neri e un cinturino slacciato in vita. Nella mano sinistra teneva un ombrello lungo e trasparente, portava una gonna a pieghe color grigio scuro, collants neri e stivaletti neri con un po' di tacco che slanciavano una figura alta e snella. La mia attenzione passò al suo viso. Aveva la pelle chiara, ma non pallida, gli occhi scuri e leggermente allungati, il naso a punta. Aveva un po' di trucco sia sugli occhi che sulle labbra e i capelli castani, raccolti in uno chignon morbido, sembravano essere immuni all'umidità. Non doveva avere più di trent'anni.

Ancora prima che rivolgesse alla classe un caloroso -Buongiorno- ero già stregata.

La donna avanzò e, dopo aver poggiato una borsa sulla cattedra, vi si sedette e tolse il cappotto giallo lungo. Era difficile risultare eleganti indossando un colore così azzardato, eppure lei ci riusciva perfettamente; la sua doveva essere una classe innata. La mia attenzione, normalmente condannata ad una soglia piuttosto bassa, era totalmente catturata dalla sua persona. Notavo ogni dettaglio: le perle che portava come orecchini, il cardigan grigio, abbottonato davanti, che pareva morbidissimo seppur leggermente teso nella zona del seno, le unghie lunghe e non smaltate, una piccolissima ciocca di capelli scuri sfuggiti che, sfuggiti all'acconciatura, le scivolavano leggeri sulla fronte. Abbassò gli occhi per guardare il registro e, dalla terza fila, vidi che sulle sue ciglia c'era del mascara. Io non mi truccavo quasi mai e imparare a farlo non mi era mai interessato, ma in quel momento avrei voluto chiederle di insegnarmi.

-Buongiorno- ripeté la supplente dopo essersi sistemata. Sorrise in direzione di tutti ma di nessuno in particolare, aveva i denti piccoli e bianchi. -Mi chiamo Cecilia Fusara e sono la nuova insegnante di storia dell'arte in 5^A-. I suoi occhi si assottigliavano leggermente mentre parlava, mettendo in risalto la sottile linea di matita nera che li contornava. -Sarò tra i vostri accompagnatori a Parigi e quindi pensavo di sfruttare quest'ora in cui sostituisco la vostra prof per conoscerci un po'-. Era cordiale, il suo tono di voce pacato avrebbe dovuto trasmettermi calma, ma non mi sentivo per niente tranquilla. Non avevo battiti accelerati né nulla del genere ero solo totalmente assorta, concentrata su di lei.

-In realtà- Martina si schiarì la voce con un po' di imbarazzo -In realtà, prof, abbiamo una verifica di matematica alla terza ora-.

-Oh- notai una nota di disappunto sul fine viso della Fusara, la quale cercò di tuttavia di mascherarlo. -Certo, non c'è nessun problema, usate pure questo tempo per ripassare. Io correggerò i compiti in classe. Ovviamente, se aveste qualsiasi domanda inerente la storia dell'arte, sono a vostra disposizione-.

Storia dell'arte. La mia materia preferita. Ero già stata a Parigi, a tredici anni, con i miei genitori. Ma pensare di tornarci a diciotto anni e passare una settimana immersa nelle bellezza della città, in quel tripudio di arte e di storia, con questa donna così affascinante a farmi da guida, era un'idea irresistibilmente attraente.

Tutto sommato, ero contenta che non stesse cercando di conoscerci meglio e che non avesse nemmeno fatto l'appello. Non avrei saputo cosa dire per presentarmi a Cecilia Fusara senza mettermi in ridicolo e non avrei proprio saputo come risultare anche solo presentabile, inzuppata e con i capelli gonfi, di fronte a lei, così impeccabile.

Non sentivo minimamente il senso di competizione che qualche volta -non molte, a dire il vero- avevo avvertito nei confronti di miei coetanee più attraenti o semplicemente più curate di me. Era solo un'inspiegabile, irrazionale quando irresistibile attrazione. Una forza magnetica che emanava da quella donna e sembrava avere un effetto così incredibile solo su di me. Mi resi conto che non era così quando Tiziano Cerbari si voltò verso di noi per sussurrare -Che figa- mentre con la testa accennava alla Fusara.

Ma no, non era questo. Cerbari era un adolescente pervertito in perpetua tempesta ormonale che non sapeva resistere con dignità alla vista di una donna avvenente e più matura di lui. Non era questo ciò che stavo provando, ne ero sicura, pensai mentre ignoravo Tiziano, che trovò un miglior sostegno nel suo compagno di banco, con il quale lo vedevo ridere e darsi di gomito.

Certo, il fascino di Cecilia Fusara era fuori di dubbio, ma non si trattava di un fatto prettamente estetico. Mi godevo l'immagine di lei che, con le schiena leggermente ricurva, teneva lo sguardo abbassato sulla cattedra e faceva scorrere la penna sui fogli dei compiti in classe, facendosi sfuggire solo di tanto in tanto qualche smorfia.

Non sapevo se fosse il suo aspetto elegante, la sua voce vellutata, il fatto che fosse così giovane in un ambiente in cui gli unici under quaranta erano gli studenti, il fatto che insegnasse la mia materia preferita o se fosse un insieme di tutti questi fattori. O forse non era nessuno di questi, forse era il suo cappotto color giallo canarino, la licenza artistica che illuminava la sua figura longilinea e vestita di scuro. Comunque continuai a pensare alla Fusara per tutta la mattina, durante la verifica di matematica e durante le successive lezioni, mentre tornavo a casa e pranzando da sola in cucina. Pensavo ai suoi occhi un po' a mandorla, al suo morbido cardigan, al suo grande ombrello, di quelli non pieghevoli, al suo cappotto. Cercavo di immaginarmi chi era, qual era la sua storia, se fosse sposata, cosa avrebbe fatto uscita da scuola, dove stesse pranzando in quel momento. Mi chiedevo quali fossero i suoi artisti preferiti, come avesse deciso di diventare insegnante, che paesi avesse visitato e quali avrebbe voluto vedere, come fosse con i suoi studenti. Era un pensiero martellante che dopo ore non mi aveva ancora abbandonata.

Mangiai in fretta una pastasciutta, lasciai il piatto nel lavandino e corsi nella mia stanza. Chiusi la porta anche se ero sola in casa, mi buttai sul letto e accesi il portatile; dopodiché aprii Internet e digitai Cecilia Fusara.

Una serie di rimandi al sito del Museo del Novecento di Milano apparì sullo schermo. Evidentemente la prof doveva aver sempre vissuto qui o esserci stata per parecchio tempo, perché risultava aver curato parecchie esposizioni. I risultati comprendevano anche la Biennale di Venezia e una mostra interamente dedicata a Van Gogh che si sarebbe tenuta a gennaio a Firenze. Van Gogh era uno dei miei pittori preferiti.

Un altro sito mi saltò all'occhio. Si trattava di un locale milanese che non avevo mai sentito nominare prima, '2X-Ville'. Si parlava di un evento nella sera di venerdì, dalle nove di sera. La PR scriveva di un ricco buffet, musica ambient, discoteca da mezzanotte e "presentazione ed esposizione delle opere di Fiona Gorietti, curata e presentata da Cecilia Fusara".

Senza cercare di sapere di più sul locale e sulle clientela, copiai in fretta giorno, orario e indirizzo. Dopo aver spento il computer riguardai il post-it su cui avevo fatto le mia annotazioni e mi chiesi come avessi intenzione di comportarmi a quel punto. Volevo davvero andare, da sola, in un locale che non avevo mai sentito nominare, per una donna che non sapeva della mia esistenza e probabilmente non ne era affatto interessata e che io stessa non conoscevo solo perché ero rimasta irretita dal suo aspetto e dai suoi modi? Decisi che non avevo fretta di dare risposta a questa domanda e misi il biglietto nel cassetto del comodino, che chiusi con forza.

Aprii il libro di spagnolo e provai a concentrarmi sulla vita di José Zorilla. Dopo mezz'ora che leggevo, mi resi conto che tutto ciò che avevo ottenuto in quei trenta minuti erano altre domande: Cecilia Fusara aveva bambini? Se sì, come avrebbero reagito al fatto che sarebbe andata in gita passando una settimana lontana da casa? Era già stata molte volte a Parigi? Cosa avrebbe prediletto al Louvre?

Per non impazzire, chiusi il libro di letteratura spagnola, mi girai su un fianco e mi addormentai.


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Capitolo 3
*** Segreti ***


ANGOLO AUTRICE

So benissimo che sono passati quasi sei mesi dall'ultima volta che ho aggiornato, che questo capitolo è corto e fa pena e che se qualcuno mai mi avesse seguita ora sicuramente mi avete mandata tutti a quel paese quindi posso dirvi solo: SCUSATEEEEE NON VOLEVOOOOOO :'''''(

No, a parte gli scherzi, sono stata impegnatissima e priva di ispirazione (ma direi più che altro priva di voglia).

Ora sono tornata, PIÙ AGGUERRITA CHE MAI (ridicola!) quindi pleaaaaase lasciatemi un commentino :3


La camera di Tia non è mai stata pulita né ordinata, almeno non nei miei ricordi, ed esiste un'ottima probabilità che essi corrispondano alla realtà. Non che io fossi una maniaca dell'ordine: da quando ho ricordi mia madre ha sempre sprecato il suo prezioso -a suo parere- tempo per criticare il pietoso -sempre a sua detta- stato della mia stanza, ma almeno il mio parquet non era costellato di fazzoletti sporchi e cenere.

L'anno precedente, durante i mesi in cui Tia aveva avuto una relazione con Simona, mi ero rifiutata di andare a casa sua, non per rispetto di una eventuale gelosia da parte della mia migliore amica quanto per il timore di imbattermi in preservativi usati. Questi, nell'eventualità alquanto verosimile in cui l'avere una relazione non avesse spinto Tia a rendere la sua cameretta un ambiente più confortevole, dovevano comunque essere ormai sotterrati dagli strati di sporcizia dei sei mesi da cui i miei due migliori amici si erano lasciati.

Anche se durante i quasi otto mesi in cui Simona e Tia si erano amati follemente io ero stata una delle maggiori sostenitrici della loro storia, sapevo che sarebbe finita. Non sono ironica quando dicono che si erano amati follemente: credo di non aver mai visto qualcuno innamorato quanto loro due e, in cuor mio, speravo davvero che durasse, se non per sempre, almeno a lungo, non solo perché si trattava di due persone a cui tenevo ma anche e soprattutto perché rappresentavano per me l'unico esempio di vero amore in un mondo liceale straripante di ormoni, relazioni vuote e baci con la lingua all'entrata del bagno. Ma Simona aveva diciassette anni e Tia ne aveva sedici ed era stato più facile per entrambi lasciarsi piuttosto che accettare il fatto di essere fidanzati con una persona reale e non con la sua immagine idealizzata. Era andata così e io credevo che mi sarei sentita una bambina all'indomani del divorzio dei genitori; invece entrambi si avevano affrontato la rottura in modo sorprendente maturo senza parlare male a me dell'altro, senza scenate né particolari fontane di lacrime, cercando di evitarsi il più possibile ma comunque interagendo civilmente all'occorrenza.

Il lato indiscutibilmente positivo della camera di Tia era l'enorme letto matrimoniale che troneggiava al centro, pieno di cuscini e adatto a ospitare un numero indefinito di persone, che di giorno vi si sedevano sopra e la sera collassavano ubriache tra i suddetti cuscini.

-Com'è possibile che il tuo letto sia sempre fatto?- domandò Giacomo, osservando con un certo implicito disgusto il pavimento sotto di noi.

-Tu sei sempre fatto- risposta Tia con un sorriso ebete, passando una canna accesa al suo amico. Mi sfuggì una risata mentre finivo di rispondere su whatsapp a Simona dicendole di non preoccuparsi, che sarei stata da lei per cena.

Forse la cosa che mi mancava di più dei vecchi tempi era il non poterci più ritrovare tutti insieme: io, Anna, Simona, Mattia e Giacomo. Adesso se c'era Tia non c'era Simona e viceversa; le uniche occasioni in cui erano presenti entrambi erano feste di amici in comune e, per quanto loro due si salutassero e si scambiassero qualche parola, noi dovevamo fondamentalmente dividerci tra una e l'altro.

Ora noi quattro eravamo sul lettone di Tia ma il posto di Simona era occupato da Denise, una ragazza alquanto insipida, compagna di classe di Giacomo e Tia, con cui solo negli ultimi mesi questi avevano fatto amicizia. Ero gentile con lei perché non creava problemi e il mio migliore amico la apprezzava ma c'era qualcosa in lei che la rendeva antipatica ai miei occhi. Forse il fatto che fosse comparsa poco dopo la rottura tra Simo e Mattia -anche se quest'ultimo sosteneva che Denise non gli piacesse in quel senso-, forse il suo modo di fare da santarellina, forse la sua voce infantile e un po' acuta. Non mi piaceva ma cercavo di non fargliene una colpa, e a Tia non l'avevo mai detto.

-Il mio letto è sempre fatto perché è l'unica cosa nella mia stanza che la signora delle pulizie sistema- rispose Tia a rallentatore, buttando indietro la testa, che rimbalzò tra i soffici cuscini.

-Come non capirla- esclamò Anna facendo velocemente un paio di tiri e passando a me la canna. Denise rise nervosamente per mezzo secondo e cominciò a rosicchiarsi le unghie.

-È la stessa cosa che dice mia madre- replicò Tia con una risata inconfondibile, fissando il soffitto. -Infatti non ha il coraggio di chiederle di pulire la mia stanza nemmeno con la promessa di un aumento-.

Aspirai lentamente e buttai fuori. Avevo provato a fumare una sigaretta una volta sola nella vita, in prima superiore, durante l'intervallo: mi aveva fatto schifo ma quando avevo smesso di tossire i miei amici mi avevano incitata a riprovare, così avevo fatto qualche altro tiro. Una volta arrivata a casa era stato un sollievo per la mia bocca, che avevo sentito sporca e impastata per tutte le ore successive, precipitarmi a lavarmi i denti. Senza spiegazioni introduttive, avevo urlato a mia madre qualcosa sul non sapere come trovasse piacevole respirare quella merda più volte al giorno e lei si era limitata a un sorrisetto compiaciuto. Penso che avesse capito e che fosse felice che probabilmente sua figlia non sarebbe diventata una fumatrice. Fine della mia esperienza con il tabacco.

Le canne le avevo provate più tardi e apprezzate maggiormente. La prima me l'aveva offerta Tia al mio diciassettesimo compleanno e io, inizialmente diffidente, avevo aspirato controvoglia ed ero rimasta sorpresa nel trovare piacevole il sapore dell'erba e, dopo qualche tiro, la sensazione che regalava. Poi avevo tossito lo stesso e, a distanza di mesi in cui ero stata una fumatrice occasionale di sole canne, continuavo a farlo pressoché ogni volta.

-Dove andiamo per Halloween?- chiese Giacomo.

Io, Simona e Anna avevamo sempre festeggiato Halloween insieme e, per quanto il mondo obiettasse che non fosse una festa facente parte della tradizione italiana, ormai era diventata parte della nostra tradizione.

Alle medie, io e Anna organizzavamo a casa sua un pigiama party per ogni 31 ottobre. Le ragazze della nostra classe erano dieci in quegli anni, e sua madre invitava sempre anche le due che non avremmo voluto tra i piedi dicendo che non è bello escludere delle bambine da un gruppo. Quasi sempre queste due si pentivano di aver accettato l'invito quando, al fatidico momento del dolcetto o scherzetto, il porta a porta passava in secondo piano dopo aver fatto razzia in qualche casa e loro diventavano irrimediabilmente vittime di scherzi. Poi, in seconda media, avevamo usato un finto coltello per fare spaventare Flavia, una delle due. Questa si era messa a correre all'impazzata senza rendersi conto di essere in mezzo alla strada e una moto l'aveva presa di striscio. La motociclista si era fermata e aveva insistito perché la aspettassimo mentre lasciava giù la moto e prendeva la macchina per accompagnare Flavia in ospedale. Doveva sentirsi parecchio in colpa. Tutte rispondemmo di sì ma, appena si allontanò, ce ne andammo più velocemente possibile verso casa di Anna sorreggendo Flavia che piangeva per la caviglia dolorante. Ai genitori di Anna spiegammo che era caduta dalle scale di un palazzo e Flavia non obiettò. Il padre di Anna, infermiere, decretò che non era nulla di grave ma noi tutte eravamo comunque nel panico. Io dissi addirittura che volevo chiamare mia mamma perché venisse a prendermi e credo che Anna si arrabbiò con me per questo. Alla fine dormii con le altre nove nel salotto di Anna. Né i nostri genitori né altri amici scoprirono mai nulla su questo episodio e Flavia non fece mai la spia, ma l'anno dopo preferimmo andare al cinema in cinque ragazze e tre ragazzi.

In prima superiore avevamo conosciuto Simona e, senza neanche che ce ne rendessimo conto, dai primi giorni di scuola eravamo già a fine ottobre. Non avevamo organizzato nulla per la notte di Halloween e, all'ultimo momento, avevamo ripiegato su un film horror al cinema, solo noi tre. Per arrivare al cinema Colosseo in piazza Cinque Giornate avevamo dovuto attraversare a piedi tutto Viale Montenero e un certo punto dei ragazzi fuori da un locale ci avevano fatto segno di avvicinarci. Simona era titubante ma io avevo voglia di qualcosa di più avventuroso di un po' di sangue su uno schermo e andai da loro, seguita ruota da Anna. Alla fine anche Simona si avvicinò, sbuffando, e i ragazzi si presentarono. Non ricordo nemmeno i loro nomi, solo che erano in tre, fumavano sigarette e, a giudicare dalla barba che due di loro avevano, dovevano avere qualche anno più di noi. Io dichiarai di avere quindici anni: probabilmente neanche così avrei raggiunto la loro età, ma mi erano sembrati comunque meglio dei miei non ancora quattordici. Entrammo nel locale con loro e ci offrirono da bere; Simona rifiutò, continuava a toccarsi nervosamente i capelli biondi senza parlare con nessuno e si intuiva facilmente che avrebbe voluto essere al cinema. Io e Anna prendemmo un drink ma ci ostinammo a pagarlo e, per quanto mi riguarda, lo mandai giù a forza cercando disperatamente di concentrarmi sul sapore di frutta anziché su quello dell'alcool. Ripensandoci ora, fu una serata abbastanza squallida. Alla fine mi feci baciare dal più carino dei tre e mi sentivo davvero lusingata delle sue attenzioni ma poi gli lasciai un numero falso. I ragazzi ci chiesero di continuare la serata con loro offrendosi di riportarci a casa in macchina più tardi. Non feci in tempo a trovare una scusa perché Simona rifilò loro una risposta acida su quanto odiasse coloro che guidano dopo aver bevuto e si precipitò fuori dal locale. Io e Anna la seguimmo scusandoci, ma lei tirò dritta senza rivolgerci la parola. A mezzanotte, quando la mamma di Simona arrivò in macchina, eravamo sotto il Colosseo pronte per andare a dormire da Simo che non ci tenne il muso ancora per molto.

La notte di Halloween della seconda superiore l'avevamo trascorsa nella villa di Giulia Motta. Probabilmente c'era anche Jacopo Marzi ma forse ancora non lo conoscevo anche se, da quanto ricordi, è sempre stato conosciuto da tutti. Forse semplicemente lui non conosceva me. In ogni caso, di quella serata ricordo assai poco perché ero ubriaca come mai nella vita. Mi sono svegliata verso le nove di mattina nel letto in cui anni dopo avrei consumato la mia prima volta con un mal di testa incredibile. Simona, seduta accanto a me, giocava con il cellulare. In giro per la casa c'erano decine di persone addormentate o messe non meglio di me. Dopo aver ascoltato per qualche minuto l'entusiasmante racconto di come avessi cercato di buttarmi nel laghetto delle anatre e Simona me lo avesse impedito, mi catapultai in un bagno ridotto in condizioni pietose per farmi una doccia. Poi mi accorsi che i miei vestiti erano visibilmente macchiati di vomito e, vergognandomene, li buttai e decisi di prenderne in prestito alcuni di Giulia. Aprendo il suo armadio e trovandomi davanti una varietà di vestiti Abercrombie decisi di prorogare a tempo indeterminato il prestito di un paio di jeans, una t-shirt e una felpa bianche e dimenticai addirittura di accennare il fatto alla proprietaria. Mesi dopo iniziai a vergognarmi di aver rubato dei vestiti a una ragazza che era sempre stata gentile con me, ma non ebbi mai il coraggio di confessarglielo e restituirle i suoi indumenti.

Quando ero in terza superiore né io né le mie due migliori amiche avevamo idea di cosa fare per il 31 ottobre. Dopo giorni di indecisione avevamo optato per una serata tra noi a casa di Anna ma, all'ultimo momento e senza preavviso, mi era piombata in casa mia cugina Ada, direttamente da Roma. Di cinque anni più vecchia di me, con un fisico da modella e una passione per gli uomini avvenenti di una certa età -passione più che ricambiata-, Ada era il mio idolo sin da quando ero piccola. Aveva piazzato una valigia in camera mia e mi aveva invitata a una festa a casa di un suo amico che non viveva troppo lontano da me. Chiamai Anna e Simona in una telefonata a tre, simulando una voce raffreddata e fingendomi dispiaciuta per la dannata febbre che mi avrebbe impedito di passare la serata con loro, mentre mia cugina sghignazzava fumando erba alla finestra. Ogni persona presente a quella festa, uomo o donna che fosse, era assurdamente attraente e poco vestita e la maggior parte di loro sniffava cocaina sui tavolini di vetro. Ebbi l'impressione che fossero tutti ricchi sfondati. Ada era scomparsa già da un po' quando un palestrato a torso nudo si avvicinò a me chiedendomi se volessi seguirlo in camera e mostrandomi una bustina di polvere bianca. Apprezzai il modo in cui me la leccava ma la coca non la provai.

L'ultimo Halloween l'avevo passato a casa di Simona, con lei che si contorceva nel letto per quanto stava male dopo aver preso la pillola del giorno dopo. A parte me, che l'avevo accompagnata in consultorio e poi in farmacia, non l'aveva detto a nessuno e nessuno lo seppe mai. Nemmeno sua mamma, Mattia o Anna.

Un segreto per ogni Halloween, quindi. Ed ero preoccupata da ciò che sarebbe potuto accedere adesso che eravamo più grandi, fumavamo ed eravamo invitati alle feste.

-C'è una festa- rispose Mattia, che nel frattempo aveva riacquistato il possesso della sua canna. -A casa dei gemelli, hanno invitato tutta la scuola-.

I gemelli erano Maria e Alessio Gregorao. In realtà solo Maria frequentava la nostra scuola, nella 5^B, ma tutti conoscevano anche suo fratello. Maria era incredibilmente popolare e intelligente e può essere che un paio di volte io mi sia masturbata pensando a lei ma, alla realtà dei fatti, tra noi non c'è mai stato nulla di più di gentilezza e amicizia.

La casa dei gemelli era enorme e i loro genitori sempre in viaggio, quindi era capitato spesso che si organizzasse qualche party selvaggio da loro. Alla fine dei conti, comunque, in quelle feste non era mai stato rotto nulle di prezioso, nessuno era mai stato così male da finire in ospedale e non avevamo mai ricevuto denunce dai vicini. Ma bisogna dire che nessuna di queste feste era mai caduta il giorno di Halloween, quindi c'è sempre una prima volta, mi dissi. Inutile dire che tutti accettammo l'invito, compresa Denise, che aveva già rifiutato la canna un paio di volte.

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