Tutto quel che resta di LaraPink777 (/viewuser.php?uid=646593)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Perdere un braccio ***
Capitolo 2: *** Perdere un fratello ***
Capitolo 3: *** Perdere il sorriso ***
Capitolo 4: *** Perdere la testa ***
Capitolo 5: *** Perdere la pazienza ***
Capitolo 6: *** Non perdere la strada ***
Capitolo 7: *** Non perdere la speranza ***
Capitolo 1 *** Perdere un braccio ***
1 Perdere un braccio
N/A Ciao
tartapopolo!
“Vicino
futuro apocalittico”: ennesimo challenge con la mia amica Cartoonkeeper, al
quale con mia immensa gioia si è unita questa volta anche la cara Quisquilia
Radioattiva. Il racconto, in sette capitoli, è al solito finito, anche se
alcune parti sono ancora da sistemare. Cercherò di correggerne e pubblicarne un
capitolo ogni settimana, se il lavoro è d’accordo ^^’
È un’altra fanfiction adulta, realistica quanto
basta, con tante cose brutte per le nostre tartarughine belle. Contiene
menzioni a danni fisici e morte. Hai meno di tredici, quattordici anni? Allora
forse è meglio se ripassi dopo…
Ancora, come
nella migliore tradizione LaraPink, ogni capitolo ha nella testolina
dell’autrice la propria colonna sonora. Vivamente consigliato l’ascolto per
un’esperienza angst multisensoriale! XD
E se l’ angst
delle fanfiction non vi basta, andate a guardarvi, per chi non l’avesse fatto,
lo stupendo finale di stagione della serie 2k12 o a leggervi il numero 50 dei
comics IDW. Io non mi ci sono ancora ripresa.
Ma torniamo
a noi. Grazie di essere qui e buona lettura!
“And we will
wait,
till the rising of the river,
when the summer monsoon rain,
comes to wash the old remains”
Crooked Fingers, Luisa's Bones
No, non
l’avevano seguito. Il mutante sbirciò nuovamente dietro l’angolo, mentre
riprendeva fiato, stanco ed ansimante. Una pattuglia di bot passava dall’altro
lato della strada, procedendo a passo marziale, con le armi in mano, le divise nere
a coprire i corpi sintetici; ma non erano quelli che pedinavano lui.
Una raffica
di vento alzò la polvere delle macerie; Leonardo riprese ad avanzare, radente
al muro. Il cuore batteva forte dentro al suo piastrone e la respirazione era
ancora accelerata. Era riuscito a scappare anche questa volta, ma era stata
dura. I soldati meccanici di Shredder che lo avevano avvistato erano tanti. Non
si era certo fermati a contarli, mentre con le sue katana aveva tranciato
ferro, plastica e tessuto, ma adesso avrebbe giurato di averne fatti fuori
almeno una ventina. Ad ogni respiro, mischiato a quello del suo stesso sudore e
della sporcizia della strada, sentiva ancora l’odore dell’olio e degli altri
liquidi dei circuiti androidi, che gli impregnava acre i fori di respirazione.
Si appiattì
contro il muro, quando sentì il rumore stridente del cingolato in
avvicinamento, ma non smise di andare avanti. Contro manifesti strappati e
scritte spray, attento a non calpestare le lattine ed i vetri rotti, strinse a sé
il prezioso pacchetto che aveva legato con una cinta intorno al guscio; non si
poteva fermare, non aveva più tempo.
Suo fratello
non aveva più tempo.
L’idea che potrebbe
già essere troppo tardi lo strinse alla gola come un artiglio e strisciò gelida
sulle sue membra indolenzite con un brivido. Scacciò il pensiero, in un angolo
della sua mente, incapace di credere che, forse, stesse facendo tutto questo
per niente, e che avrebbe potuto essersi perso, in uno dei momenti della lotta
con la pattuglia che lo aveva avvistato, l’ultimo respiro su questa terra del
suo fratello più giovane.
C’erano
volute ore per reperire queste forniture, e quando aveva lasciato i suoi fratelli,
Mikey era già svenuto.
No. Mikey
era finalmente svenuto.
…
(il giorno
prima)
“Mhmm… mhmm… Mhh…ahh! Aahh!”
Michelangelo
aveva cercato di divincolarsi dall’abbraccio di ferro di suo fratello, che lo
teneva fermo, tappandogli la bocca; la giovane tartaruga scalciava, si
contorceva, lottava ferocemente tra gli spasimi.
“Fallo stare
zitto!”
Raffaello si
era limitato ad annuire, pallido, con gli occhi dilatati dall’angoscia, ed
aveva stretto con forza la sua mano sulla bocca di Michelangelo, fin quasi a soffocarlo.
L’arancione si era dimenato selvaggiamente, in sofferenza, con i grandi occhi
azzurri che si serravano forte, rilasciando calde lacrime che sfuggivano alla
maschera a striare il viso sporco, e cercando invano, nella furia del tormento,
di strappare la mano che lo soffocava lontano da lui, graffiando il braccio con
le dita contratte fino a striare la pelle verde di linee rosa: ma Raffaello ci aveva
fatto caso appena, sfruttando la sua forza per frenare i movimenti convulsi,
avvolgere il corpo del fratello sofferente tra le sue braccia, mantenendo una
presa decisa sulla bocca che urlava.
L’ordine di
Leonardo era suonato quasi crudele. Ma il blu, appoggiato contro la parete
sotto la finestra, a cercare di capire se al di fuori qualcuno li avesse rintracciati,
in quel momento era semplicemente terrorizzato. Tratteneva il fiato, tutto il
corpo teso, in ascolto. Se la pattuglia fuori li avesse sentiti, sarebbero
morti. Non potevano combatterli, i nemici erano troppi, e lui e Raph erano stanchi
e lievemente feriti. E non potevano scappare: Mikey non poteva più essere
mosso.
…
(tempo
presente)
Leonardo si
scrutò intorno ancora una volta, poi entrò nel vicolo scavalcando le macerie.
Si arrampicò veloce sul muro mezzo franato e si lasciò cadere dall’altra parte.
Si chinò, carponi, e strisciò nell’intercapedine tra due lastre di cemento crollate
l’una sull’altra. Raggiunta la bassa finestrella che dava nel seminterrato,
coperta da una serie di tavole di legno inchiodate tra di loro in modo
impreciso e sbilenco, spostò una delle assi che era già allentata e si
intrufolò nella fessura. Una volta all’interno, in piedi sulle casse di legno
dello scantinato, il mutante rimise a posto la tavola, balzò giù dalle casse e
si spostò verso la stanza adiacente. Guardando a terra, imprecò a bassa voce:
una striscia di sangue, ormai secco dal giorno prima, era visibile anche nella
penombra sul pavimento polveroso. Si chiese se avesse potuto essercene
dell’altro, fuori. Non ci aveva fatto caso; eppure ormai la luce dell’alba avrebbe
mostrato eventuali segni. Quando avevano trascinato il fratello fin qui,
evidentemente sanguinava ancora copiosamente. Si maledisse per questa sua svista,
ma decise che il rischio di uscire nuovamente fuori a controllare fosse troppo
alto: si udiva adesso fuori dal vicolo un carro armato che avanzava, coprendo col
rumore dei suoi cingolati i suoni lontani di ordini urlati al megafono.
“Sono tornato”
disse piano il giovane mutante mascherato in blu, per avvisare della sua
presenza, girando l’angolo ed entrando nella stanza.
Raffaello
era già in piedi, sai alle mani, davanti al corpo riverso del fratello minore.
“Hai trovato
qualcosa?” chiese, riponendo le armi, al fratello appena giunto che adesso si
stava inginocchiando accanto a Michelangelo. Per tutta risposta, Leonardo si
sfilò il pacchetto legato a tracolla con dello spago e glielo porse.
“Come sta?” domandò
a sua volta il maggiore, posando una mano sulla fronte del fratello privo di
sensi.
“Come l’hai
lasciato. Nessun cambiamento. Non si è svegliato” mormorò Raffaello, e la voce
uscì più incerta e spaventata di quanto avesse voluto; le mani, livide e
sporche di sangue secco, faticarono un po’ a sciogliere il nodo del pacchetto,
poi aprirono l’involucro, formato da diversi sacchetti di plastica soprapposti,
e tirarono fuori tre bottiglie d’acqua, alcune confezioni di bende e
medicinali. Svitarono velocemente una bottiglia e la tesero al blu.
Leonardo sfiorò
la spalla di Michelangelo, quindi lo scosse piano e lo chiamò dolcemente.
“Mikey?
Mikey, mi senti?”
L’arancione
si limitò a mugugnare, ma non aprì gli occhi. Leonardo alzò lo sguardo verso il
viso di Raffaello, stanco e tirato sotto la sporcizia e la polvere, e vi lesse
riflessa la sua stessa paura. Michelangelo aveva perso molto sangue.
Leonardo continuò
a chiamare per un paio di volte, poi prese la bottiglia d’acqua che Raffaello
gli porgeva e l’avvicinò alla bocca della tartaruga incosciente.
“Mikey, devi
bere” ordinò dolcemente mettendogli una mano sotto la testa e sollevandolo un
po’. L’acqua si riversò in parte sul viso lentigginoso e pallidissimo del
ferito, e solo un piccolo sorso entrò in bocca; Leonardo sospirò di sollievo
quando il fratellino deglutì, più per istinto che per altro, e ripeté un paio
di volte l’operazione. Poggiò delicatamente giù la testa del mutante più giovane e
restituì la bottiglia di plastica a Raffaello; il rosso la tappò e la poggiò ai
sui piedi.
Leonardo alzò
lo sguardo verso di lui, severo.
“Tu non
bevi?”
“Uhm? Io…
non ho sete.”
Il leader in
blu si limitò a fissarlo, innervosito. Raffaello grugnì una maledizione tra i
denti, afferrò la bottiglia, la riaprì e ne bevve un lungo sorso.
Leonardo
riportò l’attenzione al fratellino svenuto. Gli passò delicatamente una mano
sulla fronte, imperlata di minuscole goccioline di sudore; Michelangelo si
mosse al contatto, mormorando qualcosa. Il blu avvertì chiaramente che il
fratello era caldo, troppo caldo.
“Ha la
febbre?” chiese a Raffaello, in piedi accanto a lui. Questi aveva tenuto tra le
braccia il fratello nelle ultime ore, vegliandolo mentre Leonardo era fuori in
cerca di forniture.
“Credo di
sì.”
Leonardo sospirò,
e strinse un attimo gli occhi; poi, prese tra le mani il braccio ferito del
giovane mutante in arancio, ed iniziò a scartare la rudimentale fasciatura che
aveva fatto ormai quasi un giorno prima. Il tessuto, ricavato da un indumento
umano, era rigido di sangue coagulato. Raffaello cominciò ad aprire la
confezione di bende che Leonardo aveva portato, per poi fermarsi a metà
operazione per contemplare sconfortato le proprie mani: erano luride. Tutto
l’ambiente era sporco. Non erano proprio le condizioni igieniche ideali per una
medicazione. Afferrò il flaconcino di disinfettante, sperando con tutto sé
stesso che potesse essere d’aiuto più di quanto sembrasse.
Leonardo
finì di aprire la bendatura. Rimosso l’ultimo strato di tessuto, appiccicato
alla ferita, avvertì un leggero odore sgradevole. La vista della lacerazione
gli fece accapponare la pelle, e il suo cuore prese nuovamente a correre forte sotto
il piastrone.
Il profondo
squarcio che saliva dal polso al gomito aveva smesso di sanguinare, ma era
gonfio e scuro; una parte delle ossa del gomito era visibilmente staccata dal
resto dell’articolazione, tranciata di netto dal fendente. La carne e l’osso
erano esposti, vivi, ricoperti di scuro sangue secco; le pelle in quei punti si
era come ritirata su sé stessa. La mano, troncati i nervi, pendeva inutile; le
punte delle dita erano già segnate di nero.
Leonardo
sentì salire le lacrime agli occhi, quasi sopraffatto dalla realizzazione di
ciò che stava vedendo. Non serviva essere esperti come Donnie, per capire che
la ferita era troppo grave per guarire senza lunghe e complesse operazioni
chirurgiche.
Ed iniziava
a manifestare i segni di un’infezione.
Nel silenzio
della stanza, il cuoio delle ginocchiere schioccò contro il pavimento quando Raffaello
si buttò anche lui in ginocchio, imprecando ancora; la tartaruga mascherata in
rosso avvicinò una mano tremante all’arto maciullato del fratello minore, ma
non lo toccò. Cercò di nuovo gli occhi blu di Leonardo, e questi ancora una
volta si alzarono ad incontrarlo, poi scesero ai medicamenti poggiati lì
accanto: entrambi i fratelli avevano capito che disinfettante da banco ed un
antibiotico in compresse sarebbero serviti a poco. E che quando Michelangelo avrebbe
ripreso conoscenza, per il dolore ci sarebbe voluto bel altro che il
paracetamolo.
Raffaello provò
un senso di costrizione al petto, al pensiero. Se avesse ripreso conoscenza.
…
Il giorno,
caldissimo e greve, era trascorso lentamente. Raffaello aveva cercato invano di
dormire, ed aveva camminato come un automa avanti ed indietro per la stanza,
per ore ed ore. Aveva sussultato, ad ogni rumore proveniente da fuori, ad ogni
sparo nelle vicinanze, girandosi a guardare Leonardo, che gli restituiva ogni
volta uno sguardo allarmato nel quale si rifletteva, speculare, la stessa
costante paura. Un intero esercito era in cerca di loro, e solo il destino
avrebbe deciso se il nascondiglio provvisorio li avrebbe potuti salvare.
Le ore non
passavano mai. Il suo stomaco aveva brontolato forte. La fame, dopo più di due
giorni che non toccavano cibo, iniziava a farsi sentire con insistenza. Ed ad
ogni fastidiosa contrazione dello stomaco Raffaello non aveva potuto fare a
meno di pensare che anche Michelangelo, nelle sue condizioni, era per di più
digiuno.
Il fratello
minore, durante la giornata, si era svegliato due volte. La prima, mentre Leonardo
gli stava cacciando a forza le compresse giù in gola. Michelangelo aveva
tossito, e Raffaello aveva pregato il cielo e l’inferno che nessuno lo avesse
sentito da fuori. I droni di ricerca, quei maledetti robottini volanti,
riuscivano a percepire il minimo suono da lunghe distanze. Era stato Leonardo,
questa volta, che tenendo la testa e le spalle del fratello tra le sue braccia,
gli aveva tappato la bocca; Michelangelo l’aveva guardato spaventato e confuso,
stravolto dal dolore, per poi perdere nuovamente i sensi e crollare tra le
braccia del fratello come un fantoccio di pezza.
La seconda
volta, era stato un po’ più lucido. Aveva chiesto dove fossero e Leonardo gli
aveva spiegato pazientemente la situazione, carezzandogli il viso sudato.
Michelangelo si era guardato un po’ intorno, gli occhi azzurri velati dal
tormento e dalla febbre, aveva perfino regalato un mezzo sorriso a Raffaello,
quando questi gli si era seduto accanto, prendendogli la mano sana. Poi aveva
chiesto di Donatello, e di Splinter. Raffaello si era sentito stringere il
cuore: la febbre si era fatta pericolosamente alta, portando Michelangelo a delirare.
Dopo un paio
d’ore di sofferenza, nonostante gli antidolorifici, di respiri tra i denti e acute
fitte di dolore leggibili sui giovani lineamenti contratti, tra la tormentata
impotenza dei fratelli al suo fianco, l'arancione era finalmente tornato a dormire.
Raffaello aveva potuto rilasciare i pugni, stretti fino a piantare le unghie
nei palmi, disegnando due mezzelune rosse.
Al tramonto,
aveva aiutato Leonardo a rifare la fasciatura.
La ferita
era ancora più gonfia. Un liquido bianco e giallastro trasudava adesso in
alcuni punti. L’odore era sgradevole, di zolfo e carne marcia.
Le due
tartarughe mutanti rimasero in silenzio, osservando la ferita. Leonardo poteva
sentire chiaramente il proprio respiro, nell’aria immobile dello scantinato.
Ancora, il respiro, irregolare e morbido, di Michelangelo svenuto. Quello,
veloce e duro, di Raffaello davanti a lui. E la voce, stranamente flebile, di
quest’ultimo.
“Leo?”
Appena un bisbiglio.
Leonardo
strinse gli occhi. Inalò l’aria, lentamente, dal naso, e la espulse altrettanto
lentamente dalla bocca. Si riscosse ed iniziò a riavvolgere l’arto nelle bende
pulite.
“Stanotte
dovrò uscire ancora. Serve qualcosa di più forte… Forse, forse troverò qualcosa
in ospedale… Forse iniezioni…”
“In
ospedale?” Raffaello s’infervori, ma sempre sottovoce. “Ma sei pazzo? L’unico
rimasto è presidio e-“
Leonardo
scosse la testa.
“In uno
abbandonato, come il Bellevue… Con un po’
di fortuna posso andare e tornare in due, tre ore al massimo.”
“E poi? Credi che sia rimasto qualcosa? Cosa vorresti
trovare?”
“Non lo so!” sbottò, alzando un po’ la voce. I due
fratelli si girarono istintivamente a guardare verso la finestrella che dava
sulle macerie del vicolo, ed attesero qualche secondo.
“Non lo so, Raph – ripeté, più piano, passandosi
una mano sulla testa. – Non ho idea di cosa serva, non so cosa cercare… Io non
lo so…”
Il silenzio che tornò quando si spensero le parole sommesse
era pesante e doloroso. Raffaello strinse i pugni e ci abbassò contro il viso, chiudendo
gli occhi. Leo, Leo non sapeva cosa fare. E se non lo sapeva lui, chi l’avrebbe
saputo? Senza Donnie con loro, non avevano idea di come curare il fratello. Non
potevano chiedere aiuto, non c’era più nessuno che potesse assisterli. Cosa
potevano fare? Rapire qualche medico e costringerlo a curare Mikey? Ma di
questi tempi, dove l’avrebbero trovato? Il senso d’impotenza lo rendeva
furioso: Mikey era gravemente ferito, peggiorava di ora in ora, e loro da due
giorni non stavano facendo altro che restare lì, ad aspettare.
“Raph…”
Il mutante mascherato in rosso rialzò la testa.
“Credo… Dovremmo… Il suo braccio…”cominciò il blu.
Raffaello strinse gli occhi a due fessure, due
gelidi spicchi di giada.
“Cosa stai dicendo?”
“Noi non sappiamo curarlo, Raph, e credo che comunque
nessuno potrebbe più fare niente, a questo punto, per il suo braccio.”
Con un movimento rapido Raffaello si alzò in piedi.
“Stai suggerendo di tagliargli il braccio?” chiese
tra i denti, inorridito.
Leonardo distolse lo sguardo. Sempre inginocchiato
davanti a Michelangelo, gli sfiorò per l’ennesima volta il volto con le dita.
Rimase in silenzio; Raffaello sapeva già la risposta. Il rosso imprecò e si
mise a camminare furiosamente per la stanza.
“No, Leo. Noi non possiamo. Non il suo braccio. Oh,
cristo…”
Leonardo passò il retro della mano sulla guancia
pallida del mutante ferito; Michelangelo mugugnò, strinse gli occhi, ma non si
svegliò.
“Raph, uscirò per procurarmi qualcosa. Se non
migliora, non avremo scelta.”
Raffaello si fermò, si coprì gli occhi con una mano
e rilasciò un paio di respiri rumorosi come gemiti. L’aria polverosa nella
stanza sembrava ad un tratto vischiosa come melassa. Nella penombra, le forme
massicce delle casse accatastate incombevano come demoni neri pronti a
staccarsi dalle tenebre delle pareti per avventarsi su di loro.
“Come… come faremo…”
La risposta del leader fu un sussurro stanco e mesto.
Abbassò la sua testa su quella di Michelangelo, fronte contro fronte.
“Lo farò io.”
…
Era tornato all’alba. Aveva portato altra acqua, e
cibo. Bende, decine di flaconcini di medicine, iniezioni e strumenti medici
vari.
Almeno quel poco che riconosceva. Si era introdotto nel vecchio ospedale,
rischiando la vita, ma la maggior parte dei flaconi di medicinali, che
sarebbero potuti servire, a lui non dicevano niente. Aveva avuto conferma, con sgomento, che senza
conoscenze mediche, ciò che poteva somministrare al fratello era solo blando e
limitato.
Inoltre l’avevano avvistato ed aveva dovuto fare un
giro lunghissimo per depistare i soldati e restare nascosto a lungo prima di poter tornare al rifugio provvisorio.
Era mancato tutta la notte, il giorno successivo e
di nuovo la notte.
In questo tempo, era stato tormentato dall’ansia
crudele data dalla consapevolezza che i suoi fratelli erano rintanati in quello
scantinato, con questo caldo infernale, e senza viveri. E che ogni ora era
importante, per Mikey.
Gli avevano nuovamente sparato addosso. Le lievi
ferite ricevute nei giorni passati appesantivano il corpo sfiancato, tirando e
dolendo, ed inevitabilmente le sue mosse erano state meno fluide del solito, i
suoi movimenti meno veloci. Ancora una volta, solo un colpo di fortuna gli
aveva permesso di sottrarsi ai numerosi inseguitori. Ma per sfuggire alle
raffiche, si era contuso un piede, saltando da un’altezza che andava ben oltre
le sue possibilità. Adesso, quando era rientrato nella stanza dove giaceva
Michelangelo, Leonardo era scosso, esausto, e zoppicava vistosamente.
Per prima cosa, corse a dare da bere a
Michelangelo. L’arancione aveva adesso la febbre molto alta, e nel sonno mugugnava
parole incomprensibili, ansimava con la bocca aperta, si muoveva, agitato. Raffaello,
seduto per terra, gli teneva la testa in grembo.
Il rosso alzò lo sguardo esausto, quasi allucinato.
“Dove sei stato?”
“Mi hanno visto. Non potevo tornare.”
“Cos’hai alla gamba?” domandò ancora Raffaello dopo
aver bevuto bramosamente da una bottiglia d’acqua, quindi aprì una lattina con
la punta del suo sai.
“Niente. – Il blu prese a scartare ancora la
fasciatura del fratello. – Credo solo una slogatura alla caviglia. Ha ripreso
conoscenza?”
“No.”
Raffaello trangugiò il contenuto della lattina di
conserve, senza neanche capire di cosa si trattasse; forse piselli.
Leonardo gettò con stizza di lato le bende sporche
che aveva appallottolato; esposta, la ferita mostrava il suo peggioramento.
L’infezione era avanzata. Pus trasudava dal profondo squarcio.
“Mio dio…”
Si premette un attimo la fronte con i palmi delle
mani.
Forse era tardi, era troppo tardi.
Non c’era altro tempo da perdere.
Si alzò in piedi, ed iniziò ad impartire ordini.
“Raph, prendi il flacone di alcol, e disinfettati
le mani. Poi apri quel telo e stendilo per terra.”
Si tolse di dosso le cinghie con le custodie delle
katana, che poggiò ai suoi piedi, si sfasciò le mani e i polsi e sfilò i pad di
protezione ai gomiti, quindi, aperta la confezione di salviette disinfettanti,
iniziò a sfregarsi braccia e piastrone. Spostò il fratello, sollevandolo
delicatamente da sotto le ascelle, fino a portare la parte sinistra del suo
corpo sul telo. Si accosciò nuovamente per terra, aprì la confezione del laccio
emostatico, lo avvolse e strinse al braccio ferito del fratellino esamine, un
palmo sotto la spalla. Michelangelo gemette più forte, inarcando il collo e le
spalle. Leonardo gli passò un’abbondate dose di tintura di iodio su tutto il
braccio, dall’ascella in giù.
Quindi scartò una siringa, la riempì con la fiala
di ketamina che aveva preso in ospedale. Era l’unico narcotico che aveva saputo
individuare, e tra l’altro non conosceva l’esatta quantità che andava somministrata.
Cercò una vena nel braccio sano, disinfettò il punto ed iniziò a iniettare
piano il liquido chiaro: non poté fare niente contro il tremore che prese ad
agitare la sua stessa mano che spingeva il pistone della siringa. Se la
quantità fosse stata troppo poco, c’era il rischio che Michelangelo, seppur al
momento svenuto, potesse svegliarsi al momento dell’amputazione; se ne avesse
iniettato troppo… Donatello una volta gli aveva spiegato molto chiaramente i
rischi di questa droga: danni irreversibili al sistema nervoso e al cervello,
collasso cardiocircolatorio.
Lasciò cadere la siringa sul pavimento, prese infine
un panno, e lo inzuppò d’alcol. Sfilò lentamente una katana dalla guaina poggiata
per terra, e la strofinò con vigore. Non bastava, sapeva che non bastava; ma
non poteva fare nient’altro.
I battiti del suo cuore risuonavano adesso forti nei
suoi padiglioni auricolari. Le mani tremavano ancora. Per un lunghissimo,
tremendo attimo, temette di non trovare la forza per fare ciò che andava fatto.
“Raph…”mormorò in un fiato.
Gli occhi verdi, davanti a lui, lo guardavano in
attesa, dilatati. Le pupille di smeraldo erano opache di stanchezza. Raffaello
gli diede un piccolo cenno del capo, incitandolo ad andare avanti. Leonardo
notò che il fratello mascherato in rosso era pallidissimo; si chiese se lo
fosse anche lui.
“Lui… Potrebbe non farcela. Non abbiamo sangue, e
ne ha già perso tanto. Qui dentro è tutto sporco e lui ha già un’infezione…”
“Fallo, maledizione, Leo. Adesso.”
Le parole di Raffaello erano dure e taglienti, ma i
suoi occhi erano persi e disperati. Giovani e spaventati. Anche se aveva ormai
ventun’anni, era un ninja, era un guerriero, aveva già visto il mondo andare in
frantumi, la gente perdere libertà e dignità.
Aveva già visto morire il loro padre ed aveva perso
un fratello, fatto prigioniero dalle milizie di Shredder; troppe notti, Raffaello si
era svegliato col viso bagnato di lacrime, negli ultimi mesi, inveendo contro
qualsiasi crudele divinità che lo stesse ascoltando, pregando che il gentile e
geniale fratello in viola fosse morto subito, dopo la cattura, e non avesse
invece scontato a lungo sulla propria pelle la folle ira del loro nemico. Tra la cattura e la macabra esposizione del
trofeo fuori dal quartier generale di Shredder erano passate settimane. Incubi
rossi e crudeli, di sangue e catene, di occhi rosso nocciola che urlano, rubavano
ancora il suo sonno; sotto le sue palpebre, appena le chiudeva, la vista di
quel vuoto guscio mutante, nero di sangue rappreso, inchiodato al muro, si
riproponeva più e più volte, orribile e vivida.
Adesso, era
convinto che se avesse perso anche quest’altro fratello, non avrebbe potuto
continuare a camminare lui stesso su questa terra. Perdere anche Mikey era
un’idea talmente terrificante che il suo cervello si rifiutò di prenderla in
considerazione, temendo che avrebbe potuto impazzire. Mikey sarebbe rimasto con
loro, stop. Leo avrebbe tagliato via quel braccio e Mikey sarebbe stato bene.
Si strinse
il lato della bocca fino ad assaggiare il gusto salato e ferroso del sangue, ed
a sentir palpitare la carne delicata al ritmo dei suoi battiti. No. In ogni caso,
nella migliore delle ipotesi, Mikey sarebbe stato mutilato a vita. Invalido,
rotto. Ma non lo erano tutti, in fondo, ormai? Cosa restava loro, che avevano
perso tutto?
Gli occhi di
Leonardo ricambiarono lo sguardo del fratello, spaventati e lucidi, con le
iridi dilatate dall’adrenalina e dalla scarsa luce dello scantinato. Una mosca
ronzava nella luminescenza dorata che entrava dalla finestrella, tra i puntini
luminosi dei granelli di polvere sospesi nei raggi.
Raffaello
diede ancora un lievissimo cenno del capo. Leonardo rispose, lentamente, poi
strinse gli occhi, deglutì, e li riaprì, adesso profondi laghi blu di
determinazione.
La lama,
scendendo, balenò una gelida luce.
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Capitolo 2 *** Perdere un fratello ***
Perdere un fratello
N/A
Buona domenica, tartapopolo!
Poiché una mia carissima amica, dopo aver letto il primo capitolo, mi ha detto
di finirla di essere così zuccherosa, con tutti quegli arcobaleni unicorni pace
e amore, in questo capitolo sarò un tantinello angst… XD XD XD
Ringrazio di cuore tutti quelli che stanno leggendo la mia storia, mi fa
piacere che ci siano tanti tartafan nel giro, ogni volta siamo sempre di più:
vai! Turtle Power!!!
Ringraziamento speciale per le loro gentilissime recensioni alla carinissima Piwy (il tutto diventa ancora un po’
più scuro ed amaro, spero di non deluderti! ^^’) ed a NightWatcher96 e Helen_TheDarkLady,
due delle colonne portanti del fandom, scrittrici prolifere e
persone squisite. Cara Helen_TheDarkLady, averti come giostrante nelle nostre
sfide sarebbe per me una gioia ed un onore: anche se tu non “fossi all’altezza”
(cosa assolutamente non vera, sei bravissima, nonostante tu sia ancora una
bambina!!!), chi se ne frega? Come vedi nessuno qui è uno scrittore patentato,
siamo tutti solo gente che tra gli impegni delle vita si diverte a tartarugare
un po’ ;)
Infine, al solito ringrazio le mie fantastiche amiche Cartoonkeeper e Quisquilia
Radioattiva per il semplice fatto di esistere. Vi lovvo!!! Unicorni,
arcobaleni e tanto amore! <3 XD
Un abbraccio grande quanto le lune di Thalos 3!
P.S. Visto la prima puntata della quarta serie? WOW!!! Solo una domanda: ma
nello spazio con il guscio di fuori, ai nostri non ghiacciano le chiappette?
“Now its
time to move to the next level
Sore wet
eyes that look at the devil
Tell me
please that it’s time to leave”
Hooverphonic,
Sad Song
Una voce.
“… sei
sveglio?”
Un’ombra,
senza volto, sopra di lui.
Caldo. Molto
caldo. Sudore e brividi.
Dolore, soprattutto
dolore. Alla sua sinistra. Alla sua mano, al suo braccio.
“… mi sent…”
La voce
rimbombava deformata e lontana, appena un po’ aldilà del regno della coscienza.
“…bere.
D’accordo?”
Liquido
fresco nella sua bocca, nella sua gola. Era bello, in mezzo a quel fuoco, un
po’ di fresco.
“…mangiare un
po’…”
Chi parlava?
Cosa diceva? Lui aveva solo dolore, dolore e caldo. Ed era così stanco…
Gli avevano
spinto in bocca qualcosa di morbido. No, no. Fuori dalla bocca. Via, spingerlo
fuori con la lingua. Il sapore gli fece salire in gola un conato di vomito. Qualcuno
era lì, vicino a lui. Ma il suo universo era solo un caos nero e rosso, di
fuoco e ombra. Perché non lo lasciavano in pace?
Lui aveva
tanto dolore. Troppo. Non poteva resistere. Lui era dolore. Il braccio era
fiamma viva, che lo consumava…
Aprì la
bocca, ed urlò. Ma venne fuori solo un gemito debole.
…
“Dannazione!”
Raffaello
sentì l’impulso di lanciare la lattina contro il muro. Ma per fortuna, riuscì a
fermarsi in tempo: quel cibo era prezioso. Leo aveva rischiato la vita, per
procurarlo.
Michelangelo
aveva richiuso gli occhi, ma non dormiva completamente. Emetteva flebili
lamenti, e muoveva la testa da una parte e dall’altra. Continuava a non
riconoscerli, a non essere pienamente cosciente, ma aveva superato le prime
terribili ore dopo l’amputazione e sembrava che il moncherino suppurasse di
meno. Dopo due lunghissimi giorni di snervante attesa, i due fratelli maggiori
avevano potuto concedersi almeno un barlume di speranza. Leonardo si era
sdraiato per terra, ed era crollato addormentato; Raffaello aveva deciso di
restare lui a vegliare fino a che il leader in blu non si fosse riposato un po’.
Adesso, la tartaruga mutante mascherata in rosso stava faticando per far
ingoiare al fratello minore solo pochi bocconi; parte del prezioso cibo
imbrattava le mani di Raffaello ed il viso pallido e sudato di Michelangelo.
Raffaello
sospirò, e riposò al suo fianco la lattina. Cambiò posizione, dispiegando le
gambe, che aveva tenuto incrociate, ma continuando e tenere la testa di
Michelangelo sulla propria coscia, sorreggendola a mo’ di cuscino. Pulì col
dorso della mano il viso del malato, soffermando il gesto in una carezza.
Chiuse gli occhi, e sentì pungere le lacrime nelle caruncole. L’ansia costante,
la stanchezza, la paura per la vita del fratello rischiavano di sopraffarlo; si
sentiva gli occhi gonfi e bollenti, ma rifiutò di lasciar cadere una sola
lacrima. Nella visione appannata, nella sua mente assonnata, al viso sofferente
del mutante con le lentiggini se ne sovrappose un altro. Un altro fratello
minore, al quale non aveva mai più potuto dare nessun gesto d’affetto. Strinse
gli occhi più forte.
Nei suoi
ricordi, Donatello era stranamente più giovane dei vent’anni che aveva quando
era stato catturato da Shredder. In essi era ancora un ragazzino magro ed
acerbo, che tenendo la punta della lingua fuori dalla bocca, in concentrazione,
alzava gli occhi dal suo lavoro a guardarlo; e poi diceva qualche battuta, o
qualche frase ad effetto delle sue, o dava qualche spiegazione che Raffaello
non avrebbe capito appieno, qualcosa nel suo linguaggio tecnico nerd verso il
quale Raffaello si era sempre espresso in modo sprezzante ed ironico, quando,
invece, provava solo un pizzico d’invidia ed una sconfinata ammirazione.
L’orgoglio
che sentiva, nell’avere un genio per fratello, nonostante tutto, nonostante il
loro stato, la loro vita, ebbene, lui non l’aveva mai manifestato. Non glielo
aveva mai detto, a Donnie, quanto fosse fiero di lui, quanto lo apprezzasse e
lo stimasse.
Quanto gli
volesse bene.
Ed adesso,
non glielo avrebbe mai più potuto dire.
Raffaello si
piegò in avanti, verso Michelangelo, e gli tirò le spalle verso di sé, per
stringerlo: il calore che irradiava superava quello della notte. Con un
ringhio, deviò tutta la propria tristezza, tutta la disperazione, verso
qualcosa di più noto e confortante: lasciò scorrere dentro il cuore la sua
rabbia, giurando a sé stesso che un giorno avrebbe fatto pagare tutto questo al
responsabile, avrebbe ucciso Shredder con le proprie mani, costi quel che
costi, ad iniziare dalla propria vita.
Quando
rialzò la testa e riaprì gli occhi, percepì qualcosa di stonato. Nel silenzio,
nell’aria stantia, qualcosa non quadrava. Trattenne il respiro, sbatté un paio
di volte le palpebre, a scacciare un po’ di fastidiosa umidità, abbassò un
attimo lo sguardo ancora a Michelangelo, che respirava gemendo flebilmente ed
era lucido di sudore, quindi lo rialzò a squadrarsi intorno e comprese la
discordanza.
C’era
nell’aria una strana luminosità rosata; eppure, mancava ancora un po’ all’alba.
Spalancò gli
occhi di colpo quando capì di cosa si trattasse: era la luminescenza di un
rilevatore a raggio laser di un drone di ricerca. A giudicare dalla luce,
doveva essere in volo sul vicolo.
Si spostò, allarmato,
prendendo con delicatezza la testa di Michelangelo e poggiandola a terra; si
alzò velocemente in piedi e si avvicinò verso la finestrella in alto. Questa, a
differenza della finestra della stanza accanto, dalla quale erano entrati per
nascondersi in questi seminterrati, presentava ancora lo sporco vetro che di
giorno faceva entrare un po’ di luce da fuori. Il mutante la raggiunse con un agile
balzo, e restò aggrappato per un paio di secondi al davanzale interno, giusto
il tempo di vedere che la sua supposizione era purtroppo esatta: un raggio rosa
scansionava dall’alto le macerie dei muri crollati nel vicolo.
Raffaello
ricadde giù senza il minimo suono, e mentre il cuore gli martellava nel petto
gettò lo sguardo ai suoi due fratelli sdraiati per terra.
Non fece
neanche in tempo ad avvicinarsi a Leonardo per svegliarlo, che il raggio di
luce entrò dalla finestrella ad irradiare la stanza. Si proiettò delineandosi
in una sottile quadrettatura, e corse veloce sul pavimento, fino a trovare il
corpo disteso del leader in blu.
Raffaello
vide i fasci luminosi fermarsi su Leonardo. Il fratello, ignaro, sdraiato di
fianco, dormiva profondamente: le spalle ed il piastrone si alzarono e si
abbassarono una volta nel respiro sotto il reticolato di luce rosa.
Poi
Raffaello scattò.
D’istinto,
si gettò sul corpo del fratello maggiore, travolgendolo. Con la spinta, lo
spostò di qualche piede.
Il fascio di
proiettili infranse il vetro della finestra e si conficcò nel pavimento dove un
secondo prima era distesa la tartaruga con le katana, proiettando in aria una
miriade di schegge.
Gli occhi blu
di Leonardo si aprirono di scatto, a pochi pollici da quelli verdi di
Raffaello, il quale ancora lo stringeva, mentre una cascata di frammenti cadeva
su di loro. In un secondo Raffaello lesse negli occhi blu, nell’ordine, la
mancanza di coscienza del sonno, poi intontimento, stupore, paura, ed infine
gli occhi erano completamente svegli.
I due
fratelli balzarono in piedi.
“Ci hanno
trovati!” gridò il rosso, tornando da Michelangelo e afferrandolo da sotto le
spalle per avvicinarlo al muro; Leonardo fece lo stesso alzandolo dai piedi,
mentre una seconda scarica di proiettili attraversò tutta la stanza, fino a
salire sulla parete opposta alla finestra.
Il drone
tondeggiante, volando silenzioso, entrò dalla finestra; ruotando su sé stesso,
inquadrò i tre fratelli. Raffaello mollò Michelangelo a terra e con un
movimento fulmineo estrasse una manciata di shuriken e li scagliò contro la
macchina; questa si mosse a velocità impressionante e fu solo sfiorata da una
delle stelle da lancio, che proiettò una scintilla nello stridere di metallo
contro metallo.
Il drone
ruotò la canna del mitra nella feritoia della sua struttura di acciaio lucido,
e puntò al ninja in rosso: inseguì con un’altra raffica di proiettili Raffaello
che corse verso l’altro lato della stanza, mentre Leonardo si gettava su
Michelangelo per proteggerlo col proprio corpo. Raffaello con una capriola
rotolò a terra, per evitare gli ultimi colpi; il drone si avvicinò al rosso,
rigirò l’arma, e riprese la mira: l’ottica meccanica inquadrò il mutante
ansimante, che si spinse indietro con i talloni, fino a toccare il muro col
guscio, ed alzò istintivamente una mano davanti a sè, contro i colpi mortali
che l’avrebbero inevitabilmente investito.
“Yaaah!”
Il kiai di Leonardo riecheggiò tra le
pareti. Con un balzo, il mutante in blu si lanciò al volo contro la macchina,
che in una frazione di secondo si era girata verso questo nuovo aggressore ed
aveva preparato le armi: ma due riflessi incrociati di luce segnarono l’aria e
le lame gemelle distrussero il drone che ricadde al suolo subito dopo Leonardo.
Al fragore di metallo seguì uno strepitio elettrico, poi più nulla.
Raffaello si
alzò in piedi, prima che Leonardo, che aveva riposto le katana e gli stava
zoppicando incontro, avesse anche il coraggio di porgergli una mano per
aiutarlo; si diressero quindi verso Michelangelo.
“Dobbiamo
andarcene subito da qui.”
Raffaello
annuì in risposta, iniziando a sollevare il fratello ferito: anche lui sapeva
benissimo che un drone distrutto richiamava sul punto uno squadrone di bot. Si rese
conto che non poteva più caricarsi Michelangelo sul guscio, tenendolo dalle
braccia, come aveva fatto quando erano fuggiti e si erano nascosti in questo
vicolo. La tartaruga mascherata in rosso iniziò a svolgere le fasce che teneva
ai polsi.
“Facciamo
un’imbracatura” rispose semplicemente allo sguardo interrogativo del blu, che
subito iniziò a srotolare anche le proprie protezioni. I due fratelli li
avvolsero rapidamente insieme, passarono la specie di corda che avevano creato
intorno al guscio ed alla spalla sinistra del mutante privo di sensi, e
Raffaello se lo issò sulle spalle. Salirono sulle casse, lo sollevarono insieme
attraverso la finestra, poi tra le macerie del vicolo, il più delicatamente ma
velocemente possibile. Poi iniziarono ad allontanarsi via da lì, tra le strade
buie.
All’esterno,
la prima luminescenza dell’alba s’intravedeva nel cielo tra i palazzi. L’aria,
calda e brumosa, era pesante ed appiccicosa, puzzolente di asfalto e macerie,
dei cumuli di immondizia disseminati ai bordi delle strade. I due fratelli si
fermarono ad un incrocio, dove un’autovettura capovolta ed incendiata fumava
ancora, e si guardarono velocemente intorno. Da una parte già s’intravedevano,
in volo in lontananza tra i tetti, un paio di squadroni di bot volanti, rapidi
flash scuri tra le alte ombre di cemento. Un’altra direzione portava verso uno
dei quartieri generali degli squadristi di Shredder. Delle altre due strade, i
fratelli imboccarono quella più buia e tranquilla.
Entrambi i
mutanti arrancavano faticosamente, già ansimanti ed affaticati, l’uno per il
peso sul guscio, l’altro per l’infortunio alla caviglia, che lo costringeva a
zoppicare stringendo i denti ad ogni passo.
Avevano
percorso appena pochi isolati, quando Leonardo, accanto al fratello, lo bloccò
mettendogli una mano sulla spalla: a Raffaello che si voltò verso di lui, si
limitò ad indicare con un cenno lo spazio in alto tra gli edifici nella
direzione verso la quale si stavano dirigendo.
L’inconfondibile
ed odiosa luce rosata dei droni di ricerca illuminava il cielo.
I due
fratelli si guardarono per un paio di secondo, in dubbio sul da farsi: negli
occhi smeraldo di Raffaello era chiara la richiesta di un’indicazione; in
quelli oltremare del leader l’angoscia dell’incertezza si tramutò in risolutezza
un attimo prima di voltarsi verso uno dei portoni che affiancavano la strada
del vecchio quartiere vittoriano.
“Entriamo
qui!” comandò al mutante in rosso dirigendosi verso il portone.
Leonardo,
come tutti, sapeva che ormai la città aveva perso più di un terzo dei suoi otto
milioni di abitanti: in numero di abitazioni abbandonate cresceva di giorno in
giorno. Tra fughe e rastrellamenti, anche la città più importante al mondo
stava facendo i conti con questa nuova, violenta, assurda situazione. Il mondo
era impazzito in pochi mesi, e la perdita della libertà in America aveva il
nome di un feroce dittatore giapponese, il Distruttore, lo Shredder.
Il nuovo
padrone di tutto, l’incubo incarnato. Il nemico che aveva strappato a pezzi la
loro vita e la loro famiglia, che aveva distrutto la loro nazione, la loro
città, tutto ciò che di buono e sano poteva esserci ancora nella loro
esistenza.
Presa una
breve rincorsa, il mutante mascherato in blu arrivò duramente di spalla e di
guscio contro il portone, per sfondarlo: aveva quindi una possibilità su tre
che l’abitazione fosse libera. In ogni caso, avevano bisogno di togliersi dalla
strada immediatamente.
Il portone
di legno cigolò al colpo, ma non si aprì: carico di adrenalina, incurante di
questo nuovo dolore alla spalla che veniva adesso a sommarsi a quello alla
caviglia, Leonardo fece nuovamente un paio di zoppicanti passi all’indietro per
tentare nuovamente di abbattere la porta.
Raffaello lo
fermò bruscamente, alzando una mano, e scaricato il fratello che aveva sulle
spalle, lo porse a Leonardo, che lo afferrò a fatica, passandogli le braccia
intorno al guscio, mentre il rosso caricava a sua volta la porta: questa volta,
il legno cedette con uno schiocco, scassinando la serratura. Raffaello aiutò
quindi Leonardo a trascinare dentro Michelangelo ed i fratelli si chiusero
velocemente l’uscio alle spalle.
Dentro, era
quasi buio. Come ad un segnale, Raffaello riprese tutto il peso del fratello esamine
mentre Leonardo, sguainando le katana, si avventurò nella penombra alla ricerca
di eventuali occupanti. Silenzioso e rapido quanto l’infortunio lo permettesse,
s’intrufolò prima nelle camere al piano terra, poi salì le scale interne per
controllare al piano superiore; sebbene molte case fossero ormai state abbandonate,
i newyorkesi rimasti non avrebbero esitato, nel terrore costante nel quale
vivevano negli ultimi mesi, a sparare contro ogni ombra in movimento.
Dopo appena
un minuto, ridiscese piano le scale e si avvicinò a Raffaello, che aveva adesso
poggiato provvisoriamente a terra il fratello svenuto.
“Non c’è
nessuno. Voi due potete restare qui.”
Raffaello si
irrigidì. “E tu?” chiese, aggrottando la fronte, irritato.
“Se non ci
vedono più, perlustreranno tutta questa zona casa per casa. Ho intenzione di
farmi seguire lontano da questo posto.”
Il mutante
in rosso scosse la testa ed alzò una mano, afferrando il fratello dal braccio
ed avvicinandosi a lui.
“Assolutamente
no. Tu non ci lasci” quasi gli urlò in faccia.
Leonardo
abbassò un attimo lo sguardo verso la mano che lo stringeva, poi piantò i suoi
occhi in quelli del fratello, serio e determinato.
“Mikey non
può muoversi, e noi siamo troppo lenti. Dovete restare nascosti in questa casa.
Io tornerò presto.”
“No, tu-“
“Raph, -
continuò, più dolcemente, ma con urgenza – tornerò appena possibile.
Aspettatemi qui.”
Raffaello
scosse ancora la testa, poi strinse forte gli occhi e rilasciò un profondo
respiro.
“Allora
andrò io. Tu con quella caviglia non puoi farcela.”
“Io non ce
la farei a spostare Mikey, nel caso dovessimo muoverci. Devi restare tu, con
lui.”
“No, non se
ne parla. Cammini a malapena, non ti lascio uscire lì fuori. Resteremo insieme
e… noi…”
“Raph, Raph,
ascoltami. Per una volta in vita tua, ascoltami. Non c’è altra soluzione. Non
possiamo lasciare Mikey. Tu e lui dovete restare qui. Io li semino e torno. Non
c’è tempo, Raph, ti prego.”
Gli occhi
zaffiro tradivano la sua fretta, e l’ansia, mentre si sforzava di mantenersi
freddo e controllato. Di essere il leader che la situazione richiedeva. Il capo
clan che suo padre avrebbe voluto.
“Andrà tutto
bene. Fidati di me” disse ancora, stringendo a sua volta la spalla del fratello
mascherato di rosso.
Raffaello
distolse lo sguardo e gli lasciò andare il braccio: Leonardo aveva ragione. Ma cedere,
questa volta, non era facile. Un fratello infortunato voleva andare incontro all’esercito
di Shredder, un altro giaceva gravemente ferito, ai suoi piedi. Un fiume di
rabbia e disperazione lo investì: doveva davvero fare una scelta su qualcosa
del genere? Stava permettendo a Leonardo di mettere seriamente in pericolo la
sua vita, lo stava lasciando uscire da quella porta, nelle sue condizioni? Stava
anteponendo un fratello ad un altro? Era vero, Mikey aveva bisogno di lui… Ma
Leo ce l’avrebbe fatta, questa volta? E se avesse perso anche Leo, come Donnie?
Il pensiero era atroce. E che ne sarebbe stato di lui e Mikey? Sempre che Mikey
si fosse ripreso… Respirare divenne stranamente difficile, un sudore freddo
scorse sulla pelle sul suo viso, i pochi secondi che passarono sembrarono
lunghi una vita: sapeva anche lui che bisognava fare in fretta.
Quando alla
fine annuì, lentamente, già si odiava.
Il sollievo
fu visibile nel giovane volto di Leonardo, che annuì a sua volta, stringendo la
bocca nella sua tipica espressione determinata; senza ulteriore indugi, aprì
nuovamente il portone e, dopo essersi squadrato intorno, diede un ultimo veloce
sguardo prima al fratello svenuto per terra, poi a quello in piedi accanto a
lui. Gli occhi blu, determinati, regalarono un ultimo cenno incoraggiante, si
ammorbidirono nell’accenno di un sorriso di conforto, prima di rivolgersi alla
strada. Quindi la tartaruga mascherata in blu si mosse più velocemente
possibile e, zoppicando, si trascinò a fatica verso il fondo della via.
L’alba aveva
ormai rischiarato il cielo.
Mentre
richiudeva il portone, Raffaello poteva già vedere l’esiziale luce di un drone
che si stagliava in alto. Restò col guscio appoggiato al legno, chiudendo gli
occhi, per un paio di minuti, respirando rumorosamente, cercando di calmarsi,
come la situazione richiederebbe ad ogni ninja che si rispetti.
Ma da quando
era morto suo padre, non sapeva più se avesse ancora il diritto di chiamarsi in
questo modo, dalle innumerevoli volte che si era allontanato dal suo
insegnamento, in battaglia come nella vita. Il mondo era cambiato e le vecchie
regole, se mai avessero avuto valore per Raffaello, adesso non ne avevano
sicuramente alcuno. Combatti, con ogni mezzo, o muori. Questa era ormai l’unica
legge che governava la sua vita.
Spalancò di botto
gli occhi, quando avvertì una raffica di mitra, in lontananza. Per un attimo,
fu tentato di aprire quel maledetto portone e di correre fuori, a controllare.
Poi, abbassò ancora lo sguardo per terra.
Michelangelo,
immobile, sembrava respirare appena. Mollemente sdraiato sul pavimento, di
fianco, così come Raffaello l’aveva messo giù, appariva misero e fragile come un
burattino rotto. Sul volto pallidissimo le poche lentiggini che avevano
superato l’adolescenza spiccavano quasi grigie.
Raffaello si
inginocchiò accanto a lui e gli mise una mano sulla fronte: la febbre era
ancora alta. Si alzò in piedi e si avvicinò verso la prima stanza che si apriva
nello stretto ingresso nel quale si trovavano. Vide che si trattava di una
specie di soggiorno, con tanto di poltrone e divano, televisore e librerie, un
tavolo da pranzo e un camino: la classica abitazione umana che ci si sarebbe
aspettati in quella zona. Un cavallo a dondolo di legno giaceva riverso in
mezzo alla stanza. Tende coprivano le grandi finestre che davano sulla strada,
dalle quali già iniziava ad entrare la debole luce da fuori. Il mutante tornò
dal fratello, lo sollevò, non senza una certa fatica, nonostante la propria
forza, e lo portò sul divano, tirando un calcio al dondolo che gli intralciava la
strada. Adagiò Michelangelo sul divano, gli sistemò un cuscino sotto la testa,
quindi si drizzò e si guardò intorno.
La stanza,
nonostante un certo disordine, alcune sedie rovesciate ed un vaso rotto,
sembrava pulita, senza polvere. Come se fosse stata abitata fino a pochi giorni
prima. Raffaello decise di fare un giro dell’abitazione per cercare qualcosa di
utile, e possibilmente dell’acqua e del cibo.
Ormai, era prevedibile
che avrebbe dovuto aspettare lì tutta la giornata fino alla prossima notte, perché
era improbabile che Leonardo tornasse mentre era ancora giorno. Adesso che a
causa dei tombini e dei canali fognari minati non era più possibile accedere al
sottosuolo, e che i tetti erano costantemente monitorati da sciami di droni,
solo le strade di notte potevano essere ancora percorse, seppur con altissimo
rischio, sfruttando tutta la loro formazione, la loro abilità e furtività.
Quindi,
pensò Raffaello, Leonardo sarebbe tornato la notte successiva.
Perché sì,
sarebbe tornato. Lui era il migliore di tutti loro. Se c’era qualcuno che
poteva mettere nel sacco gli squadroni di Shredder anche con una caviglia
slogata, questo era Leo. Suo fratello Leo. Che a volte era una spina nel
fianco, un rompicoglioni a cui avrebbe mollato volentieri un paio di pugni, un
sedicente e saccente capo pieno di boria,
con quella sua calma da santone anche quando infuriava la battaglia.
Ma era il
migliore. Era sempre stato lì, per loro, per lui. Sì, era il loro leader,
l’unica guida che gli fosse rimasta. Era la persona che sentiva più vicina al
mondo, era tutto ciò che gli restava, oltre Mikey. Era dotato di un coraggio,
di una nobiltà d’animo, di una forza interiore che Raffaello non avrebbe mai
potuto sperare di possedere.
Era suo
fratello, suo fratello maggiore, il suo migliore amico, e gli voleva un bene
dell’anima.
Leo, Leo
sarebbe tornato quella notte.
Raffaello
allontanò i pensieri e si diede da fare. Al piano terra, oltre che ad uno
sgabuzzino, una lavanderia ed un piccolo bagno, trovò una cucina ancora
abbastanza rifornita. Se aprire il frigorifero gli procurò solo una zaffata leggermente
maleodorante, negli armadietti e nei pensili trovò invece abbondanti
approvvigionamenti. Bottiglie d’acqua e tetrapak di latte e succhi di frutta
giacevano anche nello sgabuzzino che fungeva da dispensa.
La casa era
stata davvero abbandonata solo da pochi giorni, una settimana al massimo.
Ed era stata
lasciata di fretta e non in modo pacifico. Suppellettili e sedie
rovesciate, oggetti rotti e indumenti
per terra narravano una storia di violento rastrellamento.
Gli
oppositori, in questa Nuova America, semplicemente sparivano, con tutta la loro
famiglia.
Le famiglie
O’Neil e Jones non erano state che le prime.
I grossi
piedi a tre dita non fecero rumore, salendo le scale interne, in legno, listate
da una striscia di moquette colorata. Raffaello si fermò a raccogliere un
orsetto di peluche, nel corridoio tra le camere da letto. In una stanza,
giocattoli per due età diverse giacevano vicino a due letti disfatti, con le
lenzuola per terra; la sorella adolescente dei due bambini aveva occupato la
cameretta adiacente, dove poster scuri di band metal si sommavano ancora alla
lampada di Hello Kitty.
Giunto nella
camera matrimoniale, Raffaello, senza troppo convinzione, cliccò
sull’interruttore, e fu stupito di vedere la stanza irradiata dalla luce della
plafoniera, segno che non era stata ancora staccata l’elettricità; anche qui,
vestiti sul pavimento e confusione.
Una macchia
di sangue per terra; alcuni piccoli schizzi sulla parete, vicino all’interruttore.
Il solito
rigurgito di rabbia investi Raffaello allo stomaco.
Entrò in
bagno e scoprì che come per miracolo anche l’acqua corrente era ancora presente
in quest’abitazione. Posò l’orsetto su uno sgabello, e lasciò scorrere un po’
il prezioso liquido freddo tra le dita della mano, ormai prive di fasce di
protezione: sporcizia bruna e sangue secco si dilavarono e vorticarono nello
scarico. Raffaello si sfilò la maschera, lasciandola intorno al collo, premette
un po’ di sapone dal dosatore e si insaponò le mani, quindi salì a sfregare il
viso, che poi sciacquò con vigore. L’odore fiorito gli riempì i fori di
respirazione, riportando memorie di una vita passata, di rituali bambini di
pulizia e di prezioso sapone, da centellinare con attenzione, ma che non era
mai mancato, fino a poco tempo fa, nella sua strana vita.
L’immagine
che lo specchio svelò, quando l’asciugamano finì di strofinare la pelle verde,
era quella di un viso mutante ancor giovane seppur precocemente invecchiato
nell’espressione stanca, negli occhi rossi, nelle borse scure che li cerchiavano.
Il peluche
con i suoi occhi stupidi e sbarrati giaceva insolente sullo sgabello. Il
mutante l’afferrò, ridiscese le scale, rientrò in soggiorno, si sedette per
terra, a gambe incrociate, vicino al divano.
Michelangelo
non si era neanche mosso.
Raffaello si
rigirò per un po’ l’orsetto tra le grosse mani, accarezzò lo scuro pelo
sintetico, sfiorò il naso di stoffa; quindi lo poggiò sul bracciolo del divano,
accanto alla testa di suo fratello.
Michelangelo
ne aveva avuto uno simile, da bambino. Raffaello ricordava come il fratello se
lo trascinasse sempre dietro. Già adolescente, aveva ancora voluto portarlo con
sé, nonostante fosse ormai logoro ed incollato con il nastro adesivo, quando
anni fa avevano dovuto lasciare New York per qualche mese.
Per tutta la
giornata, Michelangelo non riprese conoscenza. Raffaello riuscì a fargli
ingoiare ancora gli antibiotici con un po’ d’acqua, nella quale questa volta aveva
disciolto dello zucchero, poi un po’ di succo d’arancia. Il mutante ferito
aveva mugugnato un paio di volte durante tutte quelle ore, e si era urinato
addosso. Raffaello non ne era stato disgustato, quanto piuttosto sollevato.
Anzi, quel liquido puzzolente che aveva impregnato i cuscini del divano era
stato per lui un regalo di Natale in pieno luglio.
Le ore
passarono lentissime. Raffaello non lasciò il fianco del fratello che per pochi
minuti in tutta la giornata. Un orologio alla parete segnò l’arrivo della sera,
poi della notte. Alla mezzanotte, il mutante mascherato in rosso avvertì
chiaramente un forte bruciore allo stomaco ed un intenso senso di nausea.
La lancetta
dei minuti era percepibile anche nella penombra; non sarebbe stato sicuro
accendere la luce. Ogni minuto, un piccolo movimento. Finché giunse, nuovamente
la luce dell’alba.
Il giorno
successivo, Michelangelo continuò a dormire. Nel primo pomeriggio il caldo
divenne insopportabile, e Raffaello effettuò delle spugnature al fratello incosciente.
La febbre c’era ancora, ancora Michelangelo non si svegliava.
La sera
Raffaello vomitò nel water le gallette che si era sforzato di mangiare.
Quando
giunse anche la seconda alba, era ancora seduto per terra accanto al fratello.
Guscio
contro il divano e ginocchia al piastrone, Raffaello abbassò il volto tra le
braccia incrociate.
E pianse.
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Capitolo 3 *** Perdere il sorriso ***
Perdere il sorriso
N/A
Oh beh, sì. Sono perfettamente consapevole che una settimana è composta da
sette giorni e non nove ^^’ Ma riguardo alle mie intenzioni di postare un
capitolo a settimana il lavoro non era per niente per niente d’accordo. Cattivone
lui. Chiedo scusa, pietà e misericordia!
Mi scuso anche con le amiche che hanno
aggiornato, leggerò presto le loro storie, tanto qui magari ci vengo poco ma ci
vengo: non vi libererete di me, croce sul piastrone.
Grazie ancora alle carinissime _Abyss_ (ovvero la cara vecchia Helen ^_^), NightWatcher96, Piwy e _Bara no Yami_ per le loro recensioni, ed ai lettori per la loro pazienza. Ecco continuare la storia
dei nostri poveri fratelli superstiti: capitolo fluff ed angst, l’azione
arriverà la prossima settimana (ehm… otto, nove giorni XD )
Un abbraccio grande quanto la bocca di Wyrm! Enjoy!
“Hello darkness my old friend,
I've come to
talk with you again”
Vains Of Jenna, Sound of silence
Finito di lavare
Michelangelo, che aveva strofinato delicatamente con una spugna bagnata,
Raffaello decise che era giunto il momento di sistemarlo in un posto più comodo
e più pulito. L’odore pungente di urina che impregnava il divano non era affatto
piacevole.
Medicata la
ferita con una pomata antibiotica e cambiata per l’ennesima volta la fasciatura,
il mutante mascherato in rosso si caricò addosso il fratello e salì le scale
fino al piano superiore.
Era adesso
il terzo giorno che li vedeva nascosti in questa casa.
Nella camera
matrimoniale aveva cambiato le lenzuola che erano nel letto con un set pulito
trovato nei cassetti. Quelle sporche giacevano ora in un mucchio in un angolo,
insieme agli indumenti raccolti da terra in giro per la camera. Un piccolo
tappeto preso dal bagno copriva la macchia di sangue.
Raffaello,
piegandosi all’indietro, depositò lentamente Michelangelo sul letto, poi lo
sistemò per bene, poggiandogli la testa su dei morbidi cuscini. Il fratello
minore, privo della sua maschera, si mosse un po’e si lamentò piano, ma
continuò a dormire.
Dalle tende
entrava la luce del giorno. Del fumo s’irradiava da un edificio in fiamme
ammorbando tutto il quartiere; elicotteri, droni e bot volanti continuavano a
sorvolare la zona, ed ogni tanto qualche pattuglia di umani in fuoristrada neri
sfrecciava per la via sotto la finestra.
I pochi
civili che si arrischiavano a circolare per la strada, spinti dalla necessità
di recarsi al posto di lavoro che Shredder ritenesse ancora utile o di reperire
qualcosa per il pranzo e la cena, camminavano velocemente, tenendo il volto
basso, senza parlare, senza guardarsi intorno.
Il mutante, sbirciando
da dietro la tenda, vide una donna magra, con i capelli biondi raccolti in una
crocchia disordinata, trascinarsi dietro, tenendola per la mano, una bimbetta
di forse cinque, sei anni. La donna si affrettava verso qualsiasi posto dovesse
andare. La piccola osservava affascinata gli scheletri delle automobili
bruciate, i manifesti rossi e neri che inneggiavano al dittatore; quindi alzò
gli occhi verso la finestra. Raffaello si ritrasse.
La tartaruga
mutante diede un’ultima occhiata al fratello sul letto, quindi scese in cucina,
dove presi una confezione di cereali, aperta ma ancora commestibile, ed un brick
di latte, si preparò una fugace colazione. Evitò deliberatamente di guardare la
macchinetta per il caffè che spiccava in un angolo del piano di lavoro: era
quasi uguale a quella che avevano avuto nella loro tana. Quando l’aveva notata,
il primo giorno, non aveva potuto fare a meno di ricordare quelle mani verdi
che la mattina, per anni, avevano riempito veloci i filtri di caffè, avevano
versato il liquido fumante nella tazza e l’avevano portato alla bocca
soddisfatta, quella bocca dalla dentatura imperfetta, con quel ridicolo diastema,
che sorrideva sotto la maschera viola. Quelle colazioni insieme, adesso preziosi
ricordi confusi nei giorni mischiati tra loro, quando lui era sempre ancora
troppo assonnato e Mikey troppo loquace, e Donatello si svegliava alla seconda
tazza di caffè e Leonardo era già pronto e perfetto appena entrava in cucina. E
Sensei, sì, a pensarci bene era ancora meglio quando c’era Sensei, e non era in
camera sua o nel dojo a meditare su qualsiasi dannato pensiero che lo aveva
raggiunto la notte; quando era lì e sorrideva dietro la tazza di tè ai loro
scambi di battute, sforzandosi di restare serio alle buffonate di Mikey. E poi,
Splinter non preparava forse a lui la colazione, e gli porgeva la tazza? La
tazza che era troppo grande, nelle sue piccole mani verdi… Latte! Papà si era
procurato del latte! E la macchinetta del caffè non c’era ancora…
Raffaello si
sforzò di ingoiare ogni cucchiaiata di cibo, che aveva nella sua bocca il
sapore del fiele, e che sembrava non volesse scendere lungo l’esofago, quasi
che una nuova legge fisica lo spingesse adesso verso su; ma doveva mantenersi
in forze, per poter accudire suo fratello. Dopo la disperazione che l’aveva
travolto alle prime luci dell’alba, quando aveva singhiozzato fuori tutta la
sua anima, maledetto il mondo e l’universo intero, pianto per tutti quelli che
si era lasciato alle spalle, adesso si sentiva svuotato ed inutile, tremante di
rabbia ad ogni movimento, con la testa dolorante ed il cuore vuoto.
L’unica
ragione che gli aveva evitato di crollare e di mandare la sua inutile vita al
diavolo giaceva, immobile e indifesa, sul letto al piano di sopra.
Avrebbe
protetto suo fratello, l’avrebbe portato al sicuro, l’avrebbe fatto rimettere
in forze. E un giorno, quando si sarebbe preso la sua vendetta contro Shredder,
quando gli avrebbe affondato lentamente i suoi sai nello stomaco, suo fratello sarebbe
stato al suo fianco.
Con questi
pensieri, finì la ciotola di cereali, e tornò nella camera da letto, per
continuare a vegliare sul malato.
Entrato in
camera, due occhi azzurri si voltarono lentamente a guardarlo.
Raffaello
sussultò, sorpreso, poi un sorriso idiota di gioia gli si stampò in faccia
mentre correva a sedersi sul letto.
“Mikey!”
Gli occhi
azzurri sbatterono più volte, poi si guardarono intorno, intontiti; tornarono quindi
a fissare il fratello, a malapena coscienti.
“Mikey, mi
senti?”
Michelangelo
per un altro paio di secondi lo guardò istupidito, come se non riuscisse a
capire quello che succedeva intorno a lui; poi lo mise a fuoco e mormorò piano,
con una voce roca che non sembrava la sua.
“R… Raph…”
Il mutante
più giovane accennò ad un sorriso, che però si tramutò subito in una smorfia di
dolore. Strinse un attimo gli occhi, e tornò a guardarsi intorno; Raffaello
stava continuando a parlare con lui, Michelangelo se ne rendeva conto, ma non
capiva quello che volesse dire: probabilmente, gli stava chiedendo come si
sentisse. Ma non lo sapeva proprio, come si sentiva: sapeva a malapena chi
fosse, e nient’altro. Non sapeva dove fosse, non ricordava cosa fosse successo,
non capiva niente. Si sentiva fluttuare in una dimensione strana e nemica, di
sensazioni ovattate e luci stordenti, dove il dolore regnava sovrano, nella sua
testa, in tutto il suo corpo, soprattutto nella parte sinistra, nel suo
braccio.
La sua mano,
la sua mano sinistra, era come se qualcuno gliela stesse strappando via con una
tenaglia infuocata. Michelangelo gemette dal dolore e si ritrovò
improvvisamente così debole che anche girare la testa sembrava uno sforzo
troppo grande, aldilà delle proprie possibilità. Nausea e vertigini lo
rimescolavano dentro, mentre Raffaello continuava a rivolgersi a lui, a
guardarlo con quei suoi occhi verdi… spaventati? Sollevati?
Cos’era
successo?
Chiudendo
ancora una volta le palpebre alla luce assassina, prese un profondo respiro e
lottò per rimettere a posto i suoi sensi. Cercando d’ignorare il dolore, si
concentrò sulle altre sensazioni. Capì di essere sdraiato su un letto. Sentiva
caldo, ed era sudato. Aveva sete, una sete tremenda. Provava un malessere
generale, forse una febbre alta.
Ma ciò che
superava tutto, che lo avvolgeva ed intontiva, era il dolore al braccio
sinistro. Aprì gli occhi.
Raffaello
era ancora seduto accanto a lui, sul letto, non parlava più ma lo guardava. Per
adesso Michelangelo decise di non pensare al fratello. Certo, era bello, averlo
accanto a sé, questo almeno lo faceva sentire in un posto sicuro.
Ma questo
tremendo dolore…
La giovane
tartaruga mutante abbassò lo sguardo al proprio piastrone, e poi lo girò verso
il braccio, che tentò di sollevare.
A questo
punto, qualcosa di strano accadde.
Michelangelo
sentiva il suo braccio, sentiva che doleva come l’inferno. Eppure… non lo
sentiva. E non lo vedeva.
Il suo
braccio si fermava sopra il gomito, in una fasciatura bianca.
Improvvisamente
fu spaventato a morte. Qualcosa non andava. Non era possibile. Questo era un
incubo, sicuramente. Un corpo, un oggetto, o c’è o non c’è, non è possibile che
sia entrambe le cose. Il suo cervello confuso non riusciva a capire. Ed aveva
paura. E dolore. Ed improvvisamente mancava l’aria…
“Mikey!”
Raffaello
vide suo fratello allargare gli occhi, sconvolto, poi fare uno strano suono con
la bocca, come un lamento, ed iniziare ad ansimare, allucinato.
“Mikey, calmati,
va tutto bene. Sei al sicuro.”
Lo afferrò
per le spalle, e Michelangelo gli piantò in volto gli occhi terrorizzati,
continuando ad iperventilare.
“Mikey!
Mikey mi senti? Sono qui, calmati!”
Raffaello si
allarmò a sua volta, non sapendo bene come fare a tranquillizzare suo fratello,
che sembrava stesse iniziando ad avere una crisi di panico. Continuò a parlargli
e gli accarezzò il volto.
“Mikey? È tutto a posto, fratello. Guardami. Va tutto bene.
Mikey?”
A sentire la
voce di Raffaello che lo chiamava, ed a vedere il suo volto preoccupato che
adesso incombeva su di lui, il mutante più giovane iniziò a calmarsi. Si
costrinse a ricomporsi, avvertendo che aveva fatto spaventare suo fratello.
Completamente sveglio dalla scarica di adrenalina, comprese tutto d’un colpo la
sua situazione.
Doveva aver
avuto un incidente, un terribile incidente. Questo spiegava tutto: il fatto di
essere a letto, con suo fratello a vegliare su di lui, la sua debolezza, il
dolore, e… e…
Si voltò
ancora a guardare verso il suo lato sinistro.
Raffaello vide
l’angoscia riempire gli occhi della giovane tartaruga che si osservava il
moncherino. Gli lesse in viso la comprensione e lo smarrimento. Una lacrima
scorse dagli occhi azzurri fino al cuscino, poi gli occhi tornarono a
Raffaello, e Michelangelo, coraggiosamente, sorrise.
Raffaello si
sentì strappare il cuore fuori dal petto.
“Ehi…”
gracchiò debole Michelangelo.
“Ehi, Mikey.
Come ti senti?”
“Sete…”
La tartaruga
mascherata in rosso afferrò il bicchiere con l’acqua che teneva sul comodino e
glielo porse, sorreggendogli la testa per aiutarlo ad inghiottire. Michelangelo
bevve un paio di sorsi, poi allontanò la bocca.
Il silenzio
aleggiò nella stanza per qualche secondo. Il mutante più piccolo aprì e chiuse
più volte la bocca, come per cercare di formulare le parole per dire qualcosa.
“Raph…”
Raffaello lo
invitò con un cenno a proseguire, con un’espressione morbida ed affabile, quasi
inconsueta per i suoi lineamenti, ormai da mesi sempre più duri.
“Io… – Michelangelo si voltò ancora verso il
moncherino, lo sollevò leggermente, sussultò per il dolore, poi guardò di nuovo
a Raffaello. – Il mio braccio… Raph, ho perso… un braccio…”
La voce era
così ingenua, infantile, così carica di doloroso stupore. I grandi occhi celesti
si riempirono di lacrime. Il mutante in rosso sentì un nodo formarsi in gola, un
groviglio nero e pungente.
Michelangelo aprì il volto in un sorriso triste.
“Mi perdo…
sempre tutto…”
Alle battuta,
mormorata piano, seguì una risatina nervosa, che si trasformò subito in
singhiozzi. Il mutante giovane prese a piangere come se ridesse, in modo
soffocato e lieve, stringendo stretti gli occhi. Raffaello si chinò su di lui,
l’abbracciò delicatamente; Michelangelo piegò il viso nell’incavo del suo collo
e si mise a singhiozzare, prima piano poi via via più forte. Disperato e
tremante, lasciò uscire paura e dolore. Il fratello maggiore gli carezzò la
testa, aspettando che si calmasse.
Quando dopo
qualche minuto il respiro del minore tornò tranquillo, Raffaello si staccò da
lui e indicò il suo moncherino con un cenno del capo.
“Ricordi quello
che è successo?”chiese.
Il fratello tirò
su col naso ed annuì. Adesso ricordava la battaglia, ricordava di essere stato
ferito, ricordava il sangue, il dolore. Ricordava di aver capito, subito,
sentendo i suoi muscoli e le sue ossa fatte a brandelli, che per il suo braccio
non ci sarebbe stato più niente da fare. Ricordava di essere andato in shock, e
poi più niente di chiaro. Poi nella sua testa solo una confusione di ombre e
sofferenza.
“Fa male?”
Michelangelo
annuì ancora.
“Quanto?”
“Per non
esserci… – Il mutante con le lentiggini si asciugò il viso con l’unica mano
rimasta. – Direi che fa… parecchio male.”
“Ti darò un
antidolorifico. Riesci a buttar giù qualcosa?” gli chiese. “Non mangi da
giorni.”
“C’è una
pizza all’Advil… con un bicchiere di morfina on the rock?” si sforzò di
scherzare ancora il più giovane, storcendo suo malgrado ancora un po’ il viso nell’evidente patimento.
Raffaello
gli strinse una spalla, fiero di lui.
“Spiacente,
solo una minestra in lattina. Ma abbiamo le Advil.”
“Vada per
l’Advil, allora, magari una libbra…”
Raffaello si
alzò in piedi, per andare a prendere il flacone di ibuprofene che aveva lasciato
al piano inferiore, ma il fratello lo fermò prima che uscisse dalla stanza.
“Raph…”
“Sì?”
“Dove… Dov’è
Leo?”
Il rosso
congelò, alla domanda, ma si riprese subito, senza darlo a vedere. Sfoggiando
un talento all’inganno che non aveva mai creduto di possedere, degno della
miglior tradizione ninja, rispose tranquillamente al fratello, come se questi gli
avesse chiesto che ore fossero.
“Era qui
fino a poco fa. È andato a
prendere dei rifornimenti. Tornerà presto.”
Il fratello
minore gli credette, e annuì, tranquillizzato. Quindi chiuse gli occhi.
…
Nei due
giorni seguenti, Michelangelo continuò a dormire quasi sempre. La febbre scese
ed il mutante riuscì a mangiare qualcosa ed ad alzarsi in piedi, sorretto dal
fratello, per essere portato in bagno. Si sentiva ancora molto debole, e
nonostante la dose massima di analgesico, estremamente dolorante.
La ferita si
stava chiudendo bene e non suppurava quasi più; i punti che aveva dato Leonardo
stavano facendo saldare la pelle verde intorno al bicipite troncato a metà.
Era la sera
del secondo giorno da quando si era svegliato, e Michelangelo era adesso ormai pienamente
vigile da alcune ore. Con il braccio superstite piegato dietro la testa, l’espressione
mortalmente seria, teneva lo sguardo fisso in alto. Dei sorrisi che aveva
regalato a Raffaello quarantotto ore prima non era rimasto che il ricordo.
Raffaello
rientrò in camera da letto, portando sul vassoio un piatto fumante di salsa di
pomodoro che aveva appena preparato in cucina, dei crostini di pane ed una
ciotola di frutta sciroppata. Si avvicinò al letto del fratello, che continuava
a fissare il soffitto, e posò il vassoio sul comodino.
“Ho
preparato una zuppa di pomodoro -
iniziò, sedendosi sulla sedia accanto al letto. – Ho seguito le indicazioni sulla scatola, ma sai che
io-”
“Raph.”
Raffaello bloccò di colpo il suo cianciare
falsamente allegro all’intonazione seria di Michelangelo.
Questi girò lentamente la testa a guardarlo, con i
movimenti rigidi di un automa. I suoi occhi avevano un riflesso, adulto e
doloroso, che Raffaello non aveva mai visto prima. Aveva sì letto negli occhi
del giovane fratello, nei mesi scorsi, il dolore e la disperazione per l’uccisione
del loro padre, la scomparsa di Donatello e la notizia della morte di
quest’ultimo; ma mai, mai li aveva visti così stanchi, svigoriti, consapevoli.
Era come se suo fratello si fosse svegliato invecchiato di parecchi anni in un
solo colpo. Come se alla fine tutta la sua gioia di vivere e la sua esuberanza
si fossero esaurite, e stessero languendo tremolanti come una fiamma morente. Sembrava
strano che sotto quello sguardo ci fosse stato fino a poco tempo fa
un’espressione ingenua ed infantile ed un sorriso bambino. Raffaello e Leonardo
avevano tentato invano di proteggere l’ultimo barlume di innocenza che si
rifletteva ancora in quegli occhi cielo: avevano tenuto nascosto a lui i
particolari della scoperta dell’esecuzione di Donatello; non gli avevano mai
raccontato della macabra esposizione al pubblico del guscio seviziato. Ma alla
fine, questi ultimi giorni sembravano essere arrivati con il colpo d’ascia finale
per abbattere l’albero colpito più e più volte: la luce si era spenta, così
come la speranza in questo mondo martoriato.
“Raph, dov’è Leo?”
Raffaello sospirò, e si passò una mano sul retro
della testa. Temeva questo momento da due giorni. Non aveva senso continuare a
mentire ed in ogni caso Mikey non gli avrebbe più creduto. Aprì la bocca per
parlare, trovandola improvvisamente secca come se fosse piena di sabbia.
“Lui…- Si fermò, e sospirò. - Io non so dove sia.”
Distolse lo sguardo, consapevole dei dolorosi raggi
azzurri che lo stavano trafiggendo. Proseguì, a voce bassa, quasi un mormorio
roco.
“Quando sei stato ferito, ci siamo rifugiati per
qualche giorno in uno scantinato qui vicino. Ma un drone ci ha rintracciati e ci
siamo dovuti spostare ancora. Abbiamo trovato quest’abitazione vuota, tu non
potevi muoverti… Leo avrebbe dovuto attirarli lontano da qui, per tenerci al
sicuro, e poi tornare…”
Strinse gli occhi ed inalò profondamente,
rilasciando poi l’aria con una specie di lamento, in fondo alla gola. Non aveva
più niente da dire; questo era tutto. Leonardo non era tornato.
“Da quanto manca?” chiese ancora Michelangelo, dopo
qualche secondo.
“Quattro giorni.”
Raffaello senti il fratello minore gemere. Poi, ancora
una volta, il silenzio invase la stanza. Quando Raffaello si decise a girarsi
verso il fratello, questi stava fissando nuovamente il soffitto.
“Perché mi hai mentito?”
Raffaello si alzò in piedi, si avvicinò alla
finestra. Un’altra notte iniziava a coprire la città. Le sirene del coprifuoco
risuonavano per le strade scure.
Non gli rispose. Sapeva che Mikey conosceva già il
perché avesse dovuto mentirgli: si era appena svegliato, ed aveva quasi avuto
una crisi di nervi, non era nelle condizioni di sopportare ulteriore stress.
Forse aveva fatto bene, forse no. Forse Mikey lo avrebbe capito, o forse non
glielo avrebbe perdonato mai.
Non aveva importanza.
Niente più aveva importanza. La loro vita si era in
pochi mesi sgretolata in mucchietti di macerie, di ricordi dolorosi. L’unica
cosa che ancora importava alla tartaruga mutante, era portare il più
velocemente possibile il fratello lontano dalla città. In salvo. Tenerlo al
sicuro, almeno per un altro po’. Prendersi cura di tutto quel che restava nella
sua vita.
Prima di uscire dalla stanza, rivolse l’ultimo
sguardo al degente.
Michelangelo stava zitto, tranquillo, serio.
Suo fratello non era mai stato tranquillo e serio. Non
lo era mai stato, nella loro vecchia vita.
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Capitolo 4 *** Perdere la testa ***
Perdere la testa
N/A Eccomi! No, non ho
tardato la pubblicazione in modo vergognoso, io non l’ho fatto… *tentativo di
ipnotizzazione numero uno*
Ma
adesso siamo qui ^_^
Altro capitolo in arrivo, gente! Valanghe di grazie ai tanti lettori (manderei
a tutti una scatola di cioccolatini, ma non so i vostri indirizzi, ah ah ah!),
alle mie muse Cartoonkeeper e Quisquilia Radioattiva ed alle sempre
fantastiche _Abyss_ e NightWatcher96.
Un
abbraccio grande stavolta quanto la bocca squalesca di Armaggon! Enjoy!
“I'm gonna go far I have to be faster
Maybe I'll get there before the pain
Won't leave anything
Won't take anything”
Elisa, It Is What It Is
Naturalmente, l’acqua finì quando Raffaello era
sotto la doccia. Insaponato da capo a piedi, dopo le ore di allenamento a corpo
libero alle quali si era sottoposto questa mattina, tirò verso di sé il
miscelatore solo per sentir decrescere rapidamente il getto d’acqua in faccia fino
ad estinguersi.
In quel momento, piuttosto che considerare la
fortuna di aver potuto usufruire, di questi tempi, di quasi cinque settimane
d’acqua corrente, e qualche giorno in meno di energia elettrica, inveì tutte le
maledizioni che conosceva prima di uscire dalla doccia e strofinarsi via di
dosso con l’asciugamano la schiuma superstite.
Passando davanti alla camera, vide con la coda
dell’occhio che suo fratello era ancora disteso sul letto.
Si bloccò di colpo ed entrò nella stanza.
Michelangelo non si girò a guardarlo. Continuò a osservare
le dita della propria mano, a pochi pollici dal suo volto, muovendole piano,
ondeggiandole tutte e tre avanti ed indietro.
Il rosso gettò l’asciugamano a terra, accanto agli
altri sporchi che si erano accatastati in queste settimane.
“Non ti sei alzato affatto?”
L’arancione a questo punto si voltò piano verso di
lui, gli rivolse un’occhiata distratta, e poi tornò a fissarsi le dita, come se
non avesse parlato nessuno.
Raffaello grugnì un’altra maledizione e si avventò
sul fratello.
“Alza il tuo culo da lì!” Lo tirò dal braccio, fino
al bordo del letto. “Smuoviti, maledizione!”
Strattonando via il braccio, il mutante più giovane
borbottò qualcosa d’incomprensibile, poi si alzò in piedi.
Le movenze erano ancora stanche e goffe, il suo
corpo si era fatto un po’ più esile. Nel tripudio multicolori del lenzuolo
fatto a strisce ed utilizzato a mo’ di benda, ora che la ferita si era chiusa, il
braccio mozzato sfoggiava una fasciatura più leggera , che non copriva più
l’articolazione della spalla. Adesso quel che restava del bicipite si vedeva
chiaramente, già un po’ più sottile della muscolatura dell’altro braccio.
Michelangelo passò accanto al fratello, senza
guardarlo, urtandolo di proposito, e fece per uscire dalla camera.
Raffaello strinse i pugni e si costrinse a non corrergli
dietro.
“Domani lasciamo, che tu sia pronto o meno”
sbraitò.
L’arancione si bloccò un attimo sulla porta, senza
voltarsi, poi proseguì verso il corridoio. Raffaello mollò un calcio alla sedia
davanti a lui, mandandola a sbattere malamente contro una cassettiera. Era
troppo furioso per fregarsene di non fare rumore.
…
Stipò quel poco che era restato delle scorte nello
zaino che aveva trovato nella stanza della ragazza: le poche lattine di cibo
rimasto, medicine e strumenti medici, altre lenzuola pulite per cambiare ancora
la fasciatura e qualche piccolo utensile; perfino due pacchi di farina, anche
se non sapeva se si potesse mangiare così, senza cucinarla in qualche modo: in
ultima analisi, però, non voleva pentirsi di non averla portata, quando nei
prossimi giorni avrebbero finto tutto il resto.
Il problema principale sarebbe stata l’acqua. Ma
adesso preferiva non pensarci. Avrebbe magari razziato qualcosa in giro e, se
la fortuna li avesse voluti aiutare, avrebbe piovuto, anche per lavar via un po’
di questa maledetta calura di agosto. Non ricordava mai un anno più torrido di
questo, nei suoi ventun anni di vita. Loro erano stati addestrati a sopportare
il caldo ed il freddo, ma nei giorni chiuso in questa casa aveva sudato via
pure l’anima.
Raffaello strinse i lacci dello zaino e se lo
caricò in spalla.
Il fratello, seduto su una sedia e con le gambe sul
tavolo, faceva oscillare pigramente uno dei suoi nunchaku.
L’altra arma, ormai inutile, era agganciata al suo
solito posto nella parte sinistra della cintura.
“Sei pronto?”
Michelangelo annuì e si alzò in piedi.
Raffaello sapeva che non era pronto, che suo
fratello era ancora troppo debole, troppo dolorante, per mettersi in marcia. Solo
salire e scendere le scale lo affaticava. Il cammino sarebbe stato lento e
difficoltoso e se fossero stati attaccati se la sarebbero ancora vista brutta.
Ma erano stati nascosti qui anche troppo a lungo.
Ogni giorno che passava, il rischio di essere scoperti aumentava. Le pattuglie
circolavano avanti ed indietro nella strada davanti al portone, e la notte i
suoni delle sirene echeggiavano a volte troppo vicini. Dormivano a turno, lui e
Mikey, sempre con l’ansia che i soldati avrebbero prima o poi sfondato quella
porta. La maggior parte delle sue giornate Raffaello le aveva trascorse nascosto
dietro le tende, a controllare la strada, nel timore di essere scoperti prima
che Michelangelo si fosse rimesso abbastanza in forze da potersi muovere.
E nella disperata speranza di vedere, notte dopo notte,
sotto la debole luce della luna, tornare qualcuno. Qualcuno che probabilmente
non sarebbe ormai più tornato.
Dovevano lasciare la città. Adesso che non potevano
più nascondersi nel sottosuolo, non avevano altra scelta. Raffaello aveva già
annunciato la sua decisione a Michelangelo qualche giorno prima.
La tartaruga mutante mascherata in rosso fece
strada dalla cucina fino all’anticamera, quindi aprì il portone. La via era buia,
i lampioni in questa zona della città erano fuori uso. Michelangelo seguì il
fratello oltre la soglia, e si richiuse il portone alle spalle. Restò per
qualche secondo immobile, davanti al legno scuro.
“Allora?” bisbigliò il rosso al suo fianco, notata
la titubanza.
“Niente. Andiamo.”
Iniziarono a muoversi, nell’oscurità, tra gli
edifici.
Raffaello immaginava cosa stesse pensando Mikey;
ricordò la domanda che gli aveva rivolto il fratello qualche giorno prima.
“Se
Leonardo torna dopo che ce ne siamo andati, come farà a trovarci?”
Le due tartarughe mutanti, adesso un po’ chine, passarono
davanti una bassa cancellata. Due ombre tra le ombre.
“Leonardo
sa che dobbiamo lasciare la città e che l’unico posto in cui possiamo
rifugiarci è la fattoria. Non trovandoci, verrà lì.”
Raffaello sbirciò dietro un angolo, quindi fece
cenno al fratello che la strada era libera. Continuarono ad avanzare veloci.
“Certo.
Giusto. Magari arriverà a Northampton prima di noi.” Michelangelo
aveva guardato in basso. Raffaello si era limitato ad annuire.
Mentire a sé stessi non avrebbe potuto fare più
male.
Cercando di stare nascosti il più possibile e
facendo lunghi giri al minimo rumore che potesse indicare una pattuglia di bot
o squadroni umani, i due giovani mutanti procedettero fino al ponte che
collegava Manhattan al Bronx. Si fermarono per osservare la zona. Raffaello
sentiva chiaramente che il fratello dietro di lui iniziava ad arrancare.
Michelangelo si appoggiava al muro, respirando rumorosamente. Il sudore già gli
impregnava la maschera arancione.
Davanti alla zona di accesso del ponte, un posto di
blocco formato da una dozzina di soldati umani, da alcuni bot e da varie vetture
rendeva impossibile il passaggio. Un secondo sbarramento, più massiccio, si
intravedeva sul ponte. Fasci di luce dei fari correvano e ricorrevano ad
illuminare la strada, le auto abbandonate, i cumuli di rifiuti. I soldati degli
squadroni di Shredder indossavano le loro consuete divise nere, con il simbolo
del Piede al braccio, alcuni di loro tenevano al guinzaglio coppie di grossi mastini
che annusavano l’aria, con gli occhi neri resi feroci dall’addestramento
crudele. Raffaello imprecò sotto voce. Sapeva che le strade erano controllate,
ma aveva sperato che la situazione fosse un po’ più facile. Da qui non si
passava, non con Mikey in queste condizioni.
La tartaruga mutante mascherata in rosso fece dei
segnali al fratello e tornarono sui loro passi. Dopo aver fatto un lungo giro, tentarono
di avvicinarsi al ponte dalla parte di un piccolo parco ormai ridotto ad un
cumulo di erbacce, accostandosi al posto di blocco più lateralmente, ma la zona
era decisamente off limits. Neanche lontanamente immaginabile solo arrivargli a
tiro, a quel dannato ponte. Inoltre Michelangelo cominciava ed essere davvero
troppo stanco, e non avevano neanche lasciato Manhattan. Dopo aver esaminato la
situazione, Raffaello si ritrasse nell’ombra e si sedette per terra, nella
stradina buia. Michelangelo lo imitò e si sedette al suo fianco, spalla contro
spalla.
Raffaello si portò una mano alla fronte e strinse
gli occhi, cercando di riordinare le idee. Da questo ponte non si poteva passare.
Aveva fatto fare la strada fin qui a Mikey per niente. Perché non ci aveva
pensato prima? Ecco, pensò, l’ennesima prova di come lui fosse un perfetto
incapace in ogni tentativo di pianificazione. Era Leo, quello che decideva il
da farsi. E Donnie quello che sviluppava con lui le strategie…
Allontanò il flusso di pensieri deleteri, dandosi
dell’idiota, e tornò al problema in corso. Non da questo ponte, quindi, e per
quel che ne sapeva tutti gli altri erano stati fatti saltare. Restava il
tunnel, a sud, ma li avrebbe costretti ad un lunghissimo giro, nel centro
abitato, e poi avrebbero dovuto riattraversare l’Hudson molto più a nord… No,
no, troppo lontano, non ce l’avrebbero fatta e lui non conosceva bene quelle
zone, rischiavano di dover restare allo scoperto, e poi è ancor più facile che
fosse controllato anche il tunnel… Sbuffò, spazientito. Non sapeva che fare!
“Posso farcela…”
Si girò a guardare Michelangelo, che aveva
sussurrato piano.
“Cosa?”
“Possiamo attraversare a nuoto l’Harlem, se
troviamo un punto d’accesso. In estate c’è meno acqua. Posso farcela.”
Raffaello soppesò l’idea per meno di un secondo.
“No. Non puoi, le correnti sono troppo forti. E poi
non ci sono altri punti per avvicinarsi al canale.”
“Possiamo superare il primo posto di blocco e poi
tuffarci dal ponte prima dello sbarramento.”
“Cosa? Tu sei pazzo. Anche se fossi nelle
condizioni di correre e nuotare, e non lo sei, le mitragliatrici ci farebbero a
pezzi prima di avvicinarci al ponte.”
“Invece sono sicuro che-“
“No!” gli sputò in faccia, a bassa voce ma con
rabbia.
Pur nella penombra si vedeva chiaramente l’aria
ferita di Michelangelo, che strinse per un attimo gli occhi a due fessure
fiammeggianti e stava per rispondergli a tono, ma poi prese un profondo respiro
e chiese, calmo:
“Quindi? Cosa proponi di fare?”
“Io…”
Si alzò lentamente in piedi e tornò ad avvicinarsi
verso l’uscita del vicolo sulla strada che portava al ponte; Michelangelo lo
seguì, fermandosi dietro di lui. Raffaello scosse la testa.
“Torniamo indietro”ordinò.
Aveva deciso. Non potevano rischiare di avvicinarsi
da lì. Gli sarebbe poi venuto in mente qualcosa…
“No. Passiamo da qui.”
Il rosso per un secondo restò talmente interdetto
da non riuscire a muoversi: Michelangelo, appena pronunciate queste parole, si
era messo al suo fianco, aveva tirato fuori dalla cintura uno dei suoi
nunchaku, e si era lanciato verso la strada. Si era messo a correre, chinato,
verso il posto di blocco.
Raffaello non riusciva a crederci. Non fece in
tempo neanche ad arrabbiarsi, da quanto fu travolto da sgomento e paura: suo
fratello si sarebbe fatto ammazzare!
A questo punto, non poteva fare altro che seguirlo;
si gettò dietro di lui, verso lo squadrone di soldati.
Per un fortuito caso del destino, correndo radenti alla
recinzione del parchetto che costeggiava la strada verso il ponte, riuscirono
quasi ad arrivare al posto di blocco senza che nessuno dei soldati guardasse
verso di loro. Ma giunti a poche decine di piedi dagli uomini, correndo ormai ben
illuminati dai fari, naturalmente furono avvistati. Un soldato si girò di
scatto, ne avvisò un altro, si alzarono le voci, si puntarono le armi.
Poi scoppiò l’inferno.
Raffaello vide la scena con assoluta chiarezza di
particolari, come se l’adrenalina avesse dilatato il tempo, schiarito la visuale,
focalizzato la sua attenzione su ogni cosa. Vide uomini imbracciare i fucili,
altri prendere la mira. Bot si aggiungevano veloci, iniziando a correre verso
di loro. Un primo soldato aprì il fuoco col suo mitra. Gli scoppi dei colpi,
nelle bocche dell’arma, erano lampi di fuoco nella notte. Pallottole
fischiavano nell’aria, s’infrangevano nell’asfalto, sollevando sbuffi di
detriti in frantumi a pochi pollici dai piedi di suo fratello, che era ormai a
portata di tiro.
Raffaello urlò tutta la sua rabbia, continuando a
correre, più veloce. La seconda raffica si conficcò nella strada di un soffio accanto
a Michelangelo, che correva pochi passi davanti a lui, con l’andatura sgraziata
e traballante per l’evidente sfinimento.
Era un suicidio. Solo grazie alla cattiva mira dei
soldati le prime raffiche non li avevano ancora falciati. Perché, perché
Michelangelo l’aveva fatto? Perché? Raffaello giurò a sé stesso che, nella
speranza, remota, di riuscire a farcela, avrebbe fatto pagare a suo fratello
questa follia con gli interessi; ferito o non ferito, non gli interessava, una
volta al sicuro l’avrebbe preso a pugni fino a fargli passare per sempre la
voglia di riprovarci.
Sempre correndo in direzione del fuoco, il rosso
tirò fuori due shuriken, uno per ogni mano, e li lanciò in avanti: gli ultimi
due shuriken del clan Hamato lasciarono in quel momento le sue mani. Delle
centinaia che gli aveva lasciato il suo maestro, non ne avrebbe avuti mai più
alcuno. Le stelle d’acciaio segnate dallo stemma pentalobato volarono per
l’ultima volta nella notte; ma in quel momento, Raffaello non ci pensò affatto.
Era troppo concentrato ad osservare come questi due lanci fossero andati a
segno: uno dei tre uomini che stava sparando loro addosso mollò il mitra e si
accasciò, a premere con le mani le gambe trafitte; i due soldati accanto a lui
si girarono a guardarlo, a capire cosa fosse successo, ed in quell’attimo di
esitazione Michelangelo, con una mossa disperata ed assolutamente non canonica,
lanciò contro di loro il suo nunchaku, che turbinò nell’aria come un disco
scuro ed arrivò ad abbattere insieme i due uomini vicini colpendoli forte in
testa.
I due fratelli erano arrivati nella fila dei
soldati che insieme a quattro veicoli formavano il primo sbarramento,
all’inizio del ponte. A questo punto, il combattimento si fece un corpo a
corpo: nessuno dei soldati sparò più, per evitare nella confusione il fuoco
amico, e Raffaello poté aprirsi la strada con i suoi sai, trafiggendo tessuto
nero, macchine senz’anima e carne viva, atterrando bot ed umani.
Michelangelo con lo slancio scivolò col guscio sul
cofano di uno dei fuoristrada neri che formavano lo sbarramento, arrivando a
mettere giù i due soldati dall’altra parte dei veicoli, semplicemente
balzandogli sopra: la massa dei tre corpi rotolò a terra, la tartaruga mutante
gridò, di furia e di dolore, ed assestò, potenti, una gomitata ed una testata, strattonò
via il mitra da uno degli uomini, e mentre si rialzava in piedi, barcollante, alzò
l’arma verso un gruppo di sei soldati che stava accorrendo dal secondo
sbarramento, posizionato parecchi piedi più avanti.
Sotto le luci che illuminavano il ponte,
Michelangelo avanzò lentamente, lottando per mettere a fuoco la visione, che
iniziava a farsi doppia. Il dolore per aver appena sbattuto il moncherino si
era sommato all’estrema astenia per questa corsa e la lotta, nelle sue
condizioni di debolezza. Vide i soldati bloccarsi alla vista dell’arma, poi
tornare indietro, disperdendosi verso i lati del ponte. Alzò ulteriormente l’arma
contro le ombre sfocate, prese la mira, infilò la punta del suo grosso dito nel
grilletto, sentendo la cedevolezza del tasto di metallo. Sparò.
Non aveva mai sparato con un mitra. Il rinculo
della prima breve raffica gli sbatté dolorosamente il calcio contro la spalla.
Mollò il dito dal grilletto, stava per lasciar cadere l’arma invece mirò
ancora. Adesso sapeva cosa aspettarsi. Vide con la coda dell’occhio un’ombra al
suo fianco, ma la riconobbe subito come quella di suo fratello. Sparò di nuovo
verso gli uomini.
Il frastuono dei colpi gli riecheggiò in testa. Il
fuoco, il lampo della raffica di denotazione lo affascinarono. Una strana
sensazione di potenza, nei proiettili che schizzavano via dall’arma guidata
dalla sua mano, gli travolse i sensi ormai sull’orlo dello svenimento. Terribili
ed ammiccanti messaggeri di morte, le pallottole segnavano l’aria, impercettibili,
come raggi di una forza potente e letale, orribile e seducente nello stesso
tempo. L’effimero confine tra la vita e la morte, tra l’esistere ed il non
esistere, balenava assordante in uno strumento così semplice che anche un
braccio solo poteva gestirlo.
Le sei forme in fuga, sdoppiate e ondeggianti,
cambiarono bruscamente direzione, come bloccate nel movimento da un filo
invisibile teso nell’aria. E caddero a terra.
Il giovane mutante abbassò l’arma. I suoni intorno
a lui divennero echi vibranti, le immagini informi visioni oniriche. Respiro. Si girò lentamente verso i
fratello, che lo guardava con gli occhi sbarrati, l’espressione cristallizzata
in una smorfia d’angoscia, lo sguardo incredulo, le iridi verdi più grandi, con
le pupille ristrette ad un puntino. Respiro.
Si girò ancora, per osservare i nemici alle sue spalle: un paio degli uomini
atterrati prima si stavano già rialzando. La vernice nera delle vetture
rifletteva le luci del ponte, piccole stelle e grandi soli nello spazio,
tremolanti. Respiro: ed era un rimbombo stordente, l’aria stessa
era dura contro il suo palato, nella sua bocca ansimante, e prendeva a pugni i
polmoni che sembravano adesso troppo stretti, troppo piccoli.
Tornò infine a voltarsi avanti, verso il secondo
sbarramento, quasi al centro del ponte, dove uomini si stavano già mettendo in
posizione, barricandosi dietro gli sportelli dei veicoli, le armi lucenti nelle
mani, e due bot si alzavano in volo.
Questo secondo blocco aveva più uomini, più mezzi.
Non potevano farcela. Non capiva perché fosse
arrivato a questo punto. Proprio non capiva per quale motivo avesse fatto
qualcosa di così stupido. Perché aveva perso la testa così? Forse perché era
debole e stanco e l’ipotesi di dover tornare indietro per cercare
un’altra strada gli era sembrata in quel momento peggiore che correre in avanti
verso il posto di blocco. No, no, chi cercava di ingannare. In verità, non ci
aveva pensato affatto su, era solo stato stupido. Alla fine, anni a cercare di
dimostrare il contrario, ma avevano sempre avuto ragione i suoi fratelli: era
uno stupido. Stupido, stupido, a buttarsi tra i nemici in quel modo. Stupido ad
aver gettato via l’unica cosa bella che gli fosse rimasta: la vita di suo
fratello.
Raph l’aveva seguito, e Raph sarebbe morto a causa
sua.
Michelangelo sentì il petto stringersi d’angoscia, le
gambe farsi deboli. Mollò l’arma, adesso troppo pesante da tenere.
Aveva rovinato tutto, per l’ultima volta. Ma forse…
forse… Beh, sì, forse, in fondo, sarebbe stato meglio così. Adesso avrebbero
potuto rincontrarsi con la loro famiglia ed i loro amici. Che bello, rivedere
Sensei e Donnie! Ed April, e Casey, e Leatherhead e tutti gli altri… E Leo? Non
anche Leo?
Era per questo che aveva fatto quest’ultima pazzia?
Voleva morire? Lui? Che idea ridicola! No, sicuramente no. No?
Bene, ormai, in ogni caso, non poteva più farci
niente.
Si girò l’ultima volta verso Raph, per chiedergli
scusa.
Ma le forze gli vennero meno e si accasciò contro
di lui.
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Capitolo 5 *** Perdere la pazienza ***
Perdere la pazienza
N/A Hi, dudes and dudettes!
Scusate ancora il ritardo! L’unica promessa sensata che posso fare è quella di
non azzardare più previsioni riguardo alla pubblicazione degli ultimi capitoli
*si nasconde dalla vergogna*
Chiedo venia, il capitolo era lungo ed incasinato e la vita vera altrettanto
incasinata. Comunque, torniamo ai nostri poveri Raph e Mikey. E Leo? Beh, sapete
che mi piacciono le storie a lieto fine. Ma anche i finali tragici. Quindi… Se
ve lo dico ora che gusto c’è? XD
Adesso, fatemi andare a crogiolarmi ancora per le fantastiche recensioni di SaraJane92 e fiore_d_estate: prima o poi mi avrete sulla coscienza, vi avverto,
causa morte per troppo crogiola mento… Ragazze! Grazie!!! Leggo e rileggo le
vostre parole e mi chiedo: “Ma stanno parlando con me?” O.o Ma cosa c’è di più
bello che divertirsi insieme? *le esplode la testa di felicità come Mikey nel
delizioso “Half-Shell Heroes: Blast to the Past”*
Ebbene no, grazie, cara fiore, per
adesso sono impegnata, poi ti faccio sapere per quel contratto alla Nickelodeon
(Non è vero! Non è vero! Sono bravissima anche a lavare scale, se loro sono
interessati!)
Infine,
altro che offendermi, manco per scherzo, grazie doppiamente poiché niente mi fa
più felice di una bella riflessione grammaticale (tranne forse la pizza ed il
tiramisù): sono da sempre fautrice del “sé stesso”, a discapito del più comune
“se stesso”, in quanto non vedo perché il povero piccolo pronome debba
travestirsi da congiunzione togliendosi l’accento davanti a “stesso” e “medesimo”…
Piccole fissazioni di una minuscola prof-tarta-nerd, assecondatemi, abbiate
pietà… ^^’
Ehm…
tutti gli altri che trovi (nel caso ti prego fammelo sapere!) sono invece
errori da asinaccia che ha corretto male XD
Ok,
scusate le chiacchiere, vi lascio alla storia!
Enjoy!!!
“I look
inside myself and see my heart is black
I see my
red door I must have it painted black”
Vanessa
Carlton, Paint It Black
Un incubo. Questo era sicuramente un incubo.
Raffaello iniziò a pensare che tutto ciò che stava
succedendo intorno a lui non fosse altro che uno scherzo della sua mente.
Di notte, su un ponte, circondato da nemici pesantemente armati. Suo fratello, molto
probabilmente il suo ultimo fratello rimasto, che gravemente debilitato e
menomato si era appena lanciato in un’azione suicida e che adesso gli stava
cadendo addosso, stremato.
Un incubo che Raffaello non avrebbe saputo dire se
fosse iniziato solo pochi minuti prima, o se non durasse piuttosto da mesi.
Tutta la sua vita era diventata un inferno, ed i ricordi di un’esistenza
passata, felice, erano ormai talmente
lontani da confondersi come ombre nell’oscurità.
Afferrò Michelangelo, per evitare che cadesse a
terra.
Nella sua giovane vita si era già trovato più volte
in posizioni difficili, ma non ricordava mai una situazione più disperata di
quella nella quale si trovava in questo momento. Sembrava che ogni scelta
avrebbe portato al loro inevitabile annientamento. Non potevano più avanzare,
né tornare indietro.
Forse era così, che sarebbe finito tutto.
L’unica certezza, chiara ed assoluta, che aveva,
era che non avrebbe lasciato Michelangelo per tentare di fuggire e salvarsi
almeno lui: il suo cervello si rifiutava anche solo di prendere in
considerazione questa ipotesi assurda. Non avrebbe mai più lasciato andare un
fratello, mai più.
Afferrò Michelangelo da sotto il braccio, tirandolo
in piedi.
“Raph…”
Il mormorio debole del mutante in arancione si
perse nel rumore di una sirena che iniziò ad urlare; un altro faro illuminò il
ponte, puntando dritto su di loro, proiettando le loro ombre nere lungo la
strada.
Adesso erano perfettamente visibili; le loro forme,
l’uno che sorreggeva l’altro, si distinguevano da lontano. I bot in volo li
avevano quasi raggiunti; i soldati dietro di loro si erano avvicinati. Un paio
di veicoli dello sbarramento al centro del ponte mise in moto e si mosse contro
i due mutanti.
E’ finita.
Raffaello sbatté più volte le palpebre, accecato
dalla potente luce. Si voltò verso Michelangelo, incontrò i suoi occhi azzurri,
che sfarfallavano per chiudersi, al limite della coscienza. Grandi e non umani
occhi mutanti che l’avevano accompagnato, fratelli, amici, da una vita. Che
avevano saputo innumerevoli volte cambiare la sua giornata in meglio, portare
giù la sua rabbia. Beh, a volte alimentarla.
Ma è questo che sono, i fratelli.
Il suo ultimo fratello. Il suo ultimo, stupido,
irresponsabile fratello che li aveva condannati. Era finita.
No.
Raffaello inspirò profondamente, tra i battiti
assordanti del suo cuore.
No, non è questo che gli aveva insegnato il suo
maestro. Lottare, lottare sempre. Lottare fino all’ultimo respiro, non darsi
mai per vinti. Soprattutto non quando un'altra vita dipende da te, come avrebbe
fatto Leo. Ed anche una possibilità su mille è pur sempre una possibilità, gli
avrebbe detto Donnie.
Arrendersi non era un’opzione. Se dovevano morire,
dovevano farlo subito. L’idea di consegnare Michelangelo vivo nelle mani di
Shredder non era concepibile. E se la fortuna per una volta non l’avesse preso
a calci in faccia, quella possibilità su mille…
Con
un gesto improvviso, Raffaello si piegò. Infilò
una mano nella tasca della cintura e lanciò per terra il guscio
duovo ripieno
di fertilizzante, zucchero e bicarbonato che aveva preparato nella
casa dove si erano rifugiati. Non aveva avuto i componenti giusti, per
fare un fumogeno come gli aveva insegnato Donnie a quindici anni, ma
sarebbe
bastato per alzare una piccola nuvola bianca. Con lo stesso movimento
si spinse
contro il fratello minore e lo caricò completamente sul proprio
guscio, grugnendo
per lo sforzo, quindi si lanciò, più rapido che poteva,
non in avanti, bensì
verso la sua destra, verso l’argine del ponte sul quale si
trovavano.
I due soldati dietro di loro al movimento imbracciarono
ancora una volta le armi ed iniziarono a sparare alla cieca contro il fumo, che
si dissipò prima che i fuggiaschi arrivassero alla ringhiera del ponte.
Raffaello afferrò la ringhiera con la mano libera e
ci balzò di sopra. Colpi esplosero, assordanti, intorno a lui. Si arrampicò, veloce come mai si era mosso in vita
sua. Con tutta la
forza che aveva in corpo, tendendosi in uno sforzo disumano alzò di peso il
fratello, con un ruggito rabbioso, portandolo oltre la rientranza all’interno dell’alta
inferriata, e senza pensarci un attimo lo gettò di sotto. Le raffiche tintinnarono
sul ferro della barriera. I proiettili balenavano di scintille e si scheggiavano in una pioggia di
ferro, ruggine e scaglie di vecchia vernice bianca. Un colpo di dolore esplose nel
suo polpaccio, un altro nel guscio, vicino alla spalla destra.
Si tuffò dall’altra parte. Cadde nel vuoto, al
buio.
Negli interminabili secondi nei quali il suo corpo
veniva tirato giù dalla forza di gravità, non gli restò che sperare che sotto
di loro ci fosse già il canale e non ancora il duro cemento dell’argine, e che il
canale eventuale fosse abbastanza profondo.
Uno spruzzo davanti a lui, e poi l’impatto con
l’acqua.
Non se l’era aspettata così fredda. Né così dura.
Sprofondò per diversi piedi, prima di sbattere contro il fondo limaccioso.
Per qualche secondo, stordito, si ritrovò a non
capire nulla. Non vedeva niente, non aveva alcun riferimento. Fango, freddo,
acqua turbinante che lo strattonava. Mosse convulsamente le braccia, nel
panico. Sbatté una mano contro qualcosa di duro, forse un grosso detrito sul
fondo, poi la sbatté ancora, contro qualcosa… che si muoveva.
Qualcosa che lo toccò. E poi l’afferrò.
Raffaello strinse la presa a sua volta. Capì, e
strinse. Strinse così forte la mano di suo fratello come se non la potesse mai
più lasciare andare.
Si sentì trascinare dalla corrente e sbatacchiare
contro i rifiuti, sul fondo. Con il braccio libero, si diede un paio di spinte
verso l’alto, tirando con l’altro braccio il fratello a sé, ed emerse tra i
flutti. Riuscì a distinguere il ponte, illuminato dai fari, tra gli schizzi; sì
sforzò di continuare a muoversi, di nuotare per allontanarsi, anche se un forte
dolore alla gamba gli incendiava i nervi ad ogni movimento. Avvinghiò a sé il
fratello, preoccupato che questi tenesse la testa riversa e non potesse
respirare; quando una raffica di mitra dal ponte infranse l’acqua ad un palmo
da loro in una linea di spruzzi, si reimmerse, trascinando ancor giù il
fratello, non potendo far altro che sperare che Michelangelo fosse abbastanza
cosciente da trattenere il respiro e non riempirsi invece i polmoni delle
gelide acque del canale.
Anche sotto la superficie, poteva udire chiaramente
lo scoppio degli spari, tra il fragore della corrente. Dopo un altro paio di
bracciate, si lasciò trascinare dall’acqua; strinse Michelangelo, spaventato
che potesse scivolargli via. L’acqua, nonostante la stagione, era fredda da
intorpidire i sensi; tenere gli occhi aperti o chiusi cambiava poco la
situazione, non si vedeva nient’altro che buio. La corrente era abbastanza
forte da farlo sbattere ripetutamente contro qualcosa di duro: probabilmente le
macerie di uno degli altri ponti. L’ultimo colpo, più forte e doloroso degli
altri, si ripercosse sul suo guscio, ed istintivamente fece per allargare le
braccia, rischiando di far scivolare via il fratello; lo strinse con più forza
mentre il turbinare dell’acqua lo faceva battere ancora contro i detriti, prima
con un gomito e poi col polpaccio ferito: perse conoscenza per qualche istante
e questa volta lasciò davvero andare il fratello, salvo poi riagguantarlo
subito, tornato in sé, prima che gli fosse sfuggito completamente.
Ormai quasi a corto di fiato, e temendo per
Michelangelo, lottò ormai allo stremo delle forze e riemerse ancora: rotto il
ciglio dell’acqua annaspò l’aria affannosamente, sollevato di sentire il
fratello, avviluppato a lui, ansimare e muoversi piano per stringersi meglio
con l’unico braccio. La corrente li stava avvicinando verso l’argine, in prossimità
di una piccola curva: i detriti di cemento dei ponti fatti saltare più a monte,
insieme a cumuli si spazzatura ed alghe, avevano ristretto in quel punto il
corso dell’acqua. Raffaello sentì che adesso i piedi sfioravano i cumuli di
detriti, ricoperti qui di morbida e viscida fanghiglia. Cercò di spostarsi
ancora più verso il bordo, spingendo anche con le punte dei piedi contro il
fondo, ed al limite delle energie si allontanò dalla corrente. Con la mano
libera, ed adesso le ginocchia, si
trascinò sull’argine, tra il putrido liquame e l’immondizia. Si tirò fuori
dall’acqua, a fatica, ansimando dallo sforzo, sempre tenendo abbracciato il
fratello a sé, finché non furono distesi, l’uno accanto all’altro, su una
piccola ansa terrosa. Michelangelo giaceva supino sul suo guscio respirando
pesantemente, con gli occhi chiusi; Raffaello gli si appoggiò di sopra,
portando il viso sopra il suo, a controllare; Michelangelo aprì gli occhi un
attimo, li fissò, opachi e sfiniti, in
quelli del fratello e li richiuse.
Raffaello si poté allora gettare disteso anche lui,
con le braccia aperte, boccheggiando contro il cielo nero.
Non erano ancora al sicuro, neanche lontanamente.
Lo sapeva. Non si erano allontanati molto e sicuramente i soldati stavano già
setacciando gli argini del canale. Ma si concesse due minuti di riposo, per il
semplice motivo che non ce la faceva più a muoversi. Anche così, riprendere a
spostarsi fu un’impresa. Si rotolò su un fianco, e poi lentamente si tirò su. Calato
il livello di adrenalina nel suo sangue, il dolore in tutto il corpo
rivendicava la sua attenzione. Sentiva la pelle delle braccia e delle gambe in
fiamme, escoriata dall’attrito contro i detriti, e sicuramente i colpi
l’avrebbero reso il giorno dopo un pasticcio di lividi neri. Alzò una mano,
pesante come il piombo, a toccare il bordo del suo guscio, tra la spalla ed il
collo: tracciò il bordo con i polpastrelli fino a dover tirare via la mano, con
un sibilo di dolore: una parte del guscio era saltata, infranta dal proiettile.
Un paio di pollici, e sarebbe stato un pezzo del suo cranio.
Infine fece un passo, malfermo, per provare la
gamba ferita, che irradiava dolore in tutto il suo corpo: quando appoggiò
lentamente il peso su di essa, dovette mordersi il lato della bocca per soffocare
un urlo. Dal pungere feroce contro la carne, capì che molto probabilmente la
pallottola era ancora conficcata dentro; era troppo buio per darci una buona
occhiata, ma il liquido caldo che sentiva riversarsi sulla pelle indicava che
stesse ancora sanguinando. Un motivo in più per muoversi subito.
Iniziò a sollevare Michelangelo, che arrancando a
fatica si mise in piedi, senza una parola, barcollando intontito, e si appoggiò
al fratello, per farsi guidare e portare in salvo, troppo stordito per pensare,
per capire che in realtà era il fratello maggiore che si stava aggrappando a
lui per camminare.
Subito ai limiti dell’argine sabbioso, dietro
cespugli incolti e cumuli di rifiuti, si apriva una zona di vecchi magazzini
abbandonati. I fratelli si introdussero nell’oscurità, fino a non percepire
nient’altro che ombre, avanzando con l’unico intento di allontanarsi senza
neanche una direzione e incespicando sui propri passi più volte. Sotto i piedi,
alla sabbia ed al cemento si intervallavano a volte vecchi binari: forme di
vagoni s’intravedevano nel buio, decine e decine di vagoni abbandonati. Le
erbacce erano a volte alte quanto un uomo, sterpi, spini e spazzatura varia
avevano reso la zona ormai inaccessibile.
All’ennesima caduta a terra di entrambi, Raffaello
capì che non sarebbe stato possibile proseguire oltre. Non si erano allontanati
molto dal canale, ma non poteva farci niente. Prima di svenire tutti e due per la
strada, decise che era meglio nascondersi: guidò il fratello ad accostarsi ad
uno dei vecchi convogli, che ispezionò più a tentoni che altro, dato il buio
quasi totale della zona; quando gli sembrò di toccare la porta scorrevole,
spinse di lato. Non successe nulla. Spinse ancora, con tutto il proprio peso.
Il metallo cigolò e si spostò lievemente svelando
una fessura. Facendo forza oltre il suo limite, riuscì ad aprire la porta del
vecchio vagone merci abbastanza da passarci attraverso. Come un automa,
Michelangelo dietro di lui lo seguì e si arrampicò nel vagone. Raffaello con le
ultime forze rimaste richiuse lo sportello, quindi crollò per terra, con il
guscio allo sportello stesso.
Dentro, il buio divenne assoluto. Solo dopo che gli
occhi si furono abituati all’oscurità, fu possibile intravedere appena
lievissimi barlumi di luce, solo variazioni di grigio nell’oscurità, tra le
dissestate assi di legno del vecchio vagone merci. Avvertì che il fratello era
sdraiato e che iniziò subito a respirare in modo più profondo e più lento: si
era addormentato all’istante.
Raffaello fu tentato di lasciarsi andare anche lui,
ma capì di non potersi concedere questo lusso; non subito, almeno. Prima doveva
prendersi cura della ferita che iniziava a pulsare in modo sempre più doloroso.
Sfilò lo zaino della ragazza, inzuppato d’acqua, da
dietro il suo guscio, e cercò a tentoni la torcia. Per fortuna, l’aveva riposta
insieme ad altro materiale dentro ad un sacchetto di plastica. Quando cliccò
sull’interruttore, il fascio di luce che investì la parete fu accecante.
Il giovane mutante poté adesso guardare l’interno
del vagone, che a parte alcune casse rotte e una montagnola di vecchi sacchi,
era vuoto. Osservò il fratello, che dormiva profondamente.
Doveva fare in fretta. Temeva che dal di fuori, se
qualcuno si fosse avvicinato al vagone, si potesse vedere tra le assi la luce
della torcia. Rimescolò nel sacchetto che aveva tirato fuori dallo zaino e, tra
i pochi medicinali rimasti, tirò fuori un involucro di stoffa che aveva portato
Leonardo dall’ospedale. Lo srotolò, sul polveroso fondo del vagone, rilevando
il suo contenuto.
Tutta una serie di bisturi, pinze e strumenti
chirurgici rilucevano nel loro gelido acciaio. Ancora, estrasse dal sacchetto
dei medicinali una scatoletta con ago e filo da sutura, ed un flaconcino di
alcol.
Prese un profondo respiro, inalando forte dalle
narici. Non sarebbe stato divertente.
Piegò verso l’esterno la gamba ferita: il foro di
proiettile, sul lato del polpaccio, non rendeva la posizione molto comoda. Il
sangue imbrattava tutta la gamba e stava formando una piccola pozza sul fondo
del vagone. Premette con delicatezza la carne indolenzita: come aveva intuito,
non vi era alcun foro d’uscita. Il proiettile era ancora dentro. Il dolore era
troppo intenso e generalizzato per capire se fosse arrivato o meno all’osso. La
ferita, in ogni caso, sembrava già per fortuna sanguinare di meno.
Si strofinò le mani con l’alcol, poi prese delle
lunghe e sottili pinze chirurgiche e irrogò di alcol anche esse.
Contò mentalmente fino a tre, per prepararsi, e
versò l’alcol sulla ferita.
Lo shock gelido e doloroso fu molto peggiore di
quanto si aspettasse. Sbatté inavvertitamente la testa contro il metallo del
vagone al quale era appoggiato, grugnì e sbuffò, digrignando i denti, mentre un
fuoco liquido s’irradiò in tutta la zona, straziandogli i nervi. Ed ancora aveva
solo disinfettato la parte.
Adesso che l’alcol aveva dilavato il sangue, il
foro scuro spiccava visibile nella pelle verde. Il bordo era abbastanza nitido,
rosso e sanguinolento, appena un po’ frastagliato. Avvicinò le punte delle pinze
alla carne viva. La mano gli tremava. Forzando ogni sua difesa, lottando contro
l’istinto e preparandosi a soffrire come un cane, affondò le punte dello
strumento dentro la ferita.
Soffocò un urlo tra i denti, inarcando la schiena, e
lasciò cadere le pinze.
Il dolore era insopportabile. Tutta l’aria fu
gettata fuori dai suoi polmoni come se avesse preso un pugno sul piastrone e lampi
bianchi balenarono davanti agli occhi; aprì e chiuse convulsamente le mani, in
attesa che lo strazio passasse.
Ci volle quasi un minuto, solo per ritornare a
capire qualcosa. Si voltò a guardare Mikey, che non si era neanche svegliato .Poi
lasciò sfuggire un gemito disperato e si prese la testa tra le mani. Non ce la
faceva. Non era un’operazione che poteva fare da solo, su sé stesso. Sapeva che
se non avesse tolto la pallottola, la ferita non sarebbe guarita, e lui non
avrebbe potuto portare in salvo Mikey fuori da New York, ma non vedeva alcuna
soluzione. Rimescolare con delle pinze di ferro all’interno della propria carne
per cercare un proiettile non era possibile; un altro tentativo e sarebbe probabilmente
svenuto dal dolore. Non aveva, d’altronde, alcun anestetico…
D’improvviso, s’illuminò al pensiero. Frugò ancora
nel sacchetto con i medicinali e trovò il ghiaccio spray che aveva preso Leonardo.
Dio benedica suo fratello.
Sapeva, ancora per merito delle vecchie e noiose
digressioni di Donnie, che il ghiaccio spray non andava mai e poi mai usato
sulle ferite aperte. Avrebbe potuto peggiorare la situazione, e provocare
ancora più dolore. Ma il dolore che aveva provato era stato tanto che non
credeva proprio che potesse esistere un livello successivo. Cercare di
anestetizzare un po’ la parte con il freddo era l’unico tentativo che poteva
fare.
Sperando di non danneggiare i tessuti più di quanto
non lo fossero già, diresse contro il foro nella pelle il beccuccio del
flaconcino e spruzzò. Anche in questo caso il dolore fu lancinante, al limite
della sopportazione. Nonostante questo continuò a spruzzare, fino a che non
temette di essersi completamente congelato tutto il muscolo. Quindi,
rapidamente, prima di poterci anche pensare, affondò nuovamente le pinze. Si
morse il lato della bocca, a sangue. Mugolò, ma continuò ad immergere il ferro
nella ferita per diversi pollici, fino ad incontrare il proiettile. Strinse, e
tirò fuori.
Un rivolo di sangue scuro sgorgò dalla ferita. Lasciò
cadere le braccia a terra, mollando pinze e proiettile sul fondo del vagone.
Ansimò pesantemente, tra i denti. Si sentiva sull’orlo del collasso. Soffocò un
paio di singhiozzi, muovendo la testa da una parte e dall’altra. Le lacrime
scendevano ad inzuppare il tessuto della maschera, senza che neanche se ne
rendesse conto.
Non aveva ancora finito. Quando si calmò ancora,
versò nuovamente dell’alcol sulla ferita, quindi applicò tre punti di sutura, ed
avvolse la gamba con le bende. Tutto il vagone girava intorno a lui.
Con le sue ultime forze, guidò una mano tremante a
cliccare l’interruttore della torcia. Si adagiò sul fondo duro, scosso dai
brividi, e finalmente poté perdere conoscenza.
…
“Raph?”
Raffaello aprì a fatica gli occhi. In controluce
contro un raggio di sole che entrava dalla fessura tra due assi, c’era la forma
di suo fratello, chino su di lui.
“Fratello, mi senti?”
La voce di Michelangelo era esitante, un po’ roca.
“Mhm… sì, Mikey…”
Il rosso distolse lo sguardo dalla striscia di
luce, piegando la testa. Un forte senso di nausea lo travolse: aveva la bocca
amara come il fiele.
Cercò di alzarsi a sedere, ma un dolore pungente si
propagò dalla gamba ferita. Involontariamente, emise un forte gemito;
Michelangelo, sbatté le palpebre, guardò per un attimo la gamba del fratello e
poi tornò a puntargli in volto i grandi occhi azzurri carichi di rimorso e
preoccupazione.
“Come stai, Raph?”
Raffaello strinse i denti e muovendosi piano si costrinse
a sedersi. Guardò a sua volta il fratello, inclinando un po’ la testa di lato;
lo scrutò con attenzione, per vedere se stesse bene. Notò che respirava
normalmente, con calma, e la sua postura era normale. A parte qualche livido e
delle escoriazioni un po’ dappertutto, sembrava a posto. Quindi, invece di
rispondergli, gli molò un rumoroso ceffone in faccia.
Sock!
Michelangelo, che era inginocchiato, proteso verso
di lui, poggiando l’unica mano per terra, fu sbilanciato dal colpo fino a
cadere di lato, fortunatamente non sul moncone.
Si rialzò a sedere, a gambe incrociate, e si
massaggiò la guancia che già iniziava ad arrossire, movendo la mandibola
dolorante.
“Uhm… beh, credo di essermelo meritato…”
Raffaello sentì crescere nelle tempie una rabbia
pulsante e calda.
“Tu… – sbuffò
come un toro. – TU!” Scuro d’ira, alzò un pugno ed iniziò ad inveirgli contro.
“Idiota! Cosa ti è passato per la testa! Stupido
bastardo! Argh!”
Fece per muoversi verso di lui, strisciando di
lato; Michelangelo sussultò e facendo leva con la mano a terra indietreggiò di
un po’, sempre restando seduto.
“Raph, io…”
“Tu cosa? TU COSA?” sbraitò, rosso in volto, prima
di darsi una rapida occhiata intorno. Come se si fosse appena reso conto che
gridare non era la migliore delle idee, prese un profondo respiro e si sforzò
di calmarsi. Michelangelo abbassò lo sguardo e prese a fissarsi le dita.
“Scusa…”
“Scusa? Pensi che basti dirmi ‘scusa’?” Strinse il
pugno fino a sbiancare le nocche e poi lo sbatté per terra. Sussultò per il
dolore quando lo scossone si ripercosse per il corpo, ma incurante continuò la
sua furiosa invettiva. “È un miracolo se siamo vivi, Mikey! Volevi farci
ammazzare? È questo, che volevi?”
Michelangelo si chinò un po’ di più, si fece ancora
più piccolo. Strinse la mano al pugno, e la portò al piastrone.
“Sei un imbecille, Mikey, un fottuto imbecille! Di
tutte le cazzate che hai fatto, questa è la peggiore! Perché, maledetto stronzo,
PERCHÉ?”
Raffaello si passò una mano sul viso, premendosela
sugli occhi. Rilasciò un profondo sospiro. La gamba ferita palpitava. La testa
girava. La furia stava scivolando in un senso amaro e doloroso di sconforto,
che gli chiudeva il petto e trafiggeva l’animo come un chiodo.
“Se fossimo morti… Leonardo…”
Leonardo si
sarebbe sacrificato per niente.
Il fratello maggiore non finì la frase, che si
pentì subito di aver accennato. Fissò ancora, duro, il fratello che continuava
a guardare in basso. Dalla sua aria contrita e mortificata si capiva
chiaramente la vergogna che provava per sé stesso ed il senso di colpa che gli
danzava nel petto come un folletto impazzito.
Per qualche minuto, i due fratelli mutanti rimasero
in silenzio. Poi Michelangelo parlò.
“Scusa, Raph. Non so cosa mi sia preso. In quel
momento… mi sembrava la cosa giusta da fare.” Alzò lo sguardo ed accennò ad un
sorriso. “Non ho pensato.”
Raffaello stava per rispondergli con un altro paio
di ingiurie, ma poi prese ancora un profondo respiro, per calmare il tumulto
che sentiva dentro.
“Quando mai hai pensato in vita tua, Mikey.”
Contento che il fratello avesse accettato il suo
invito ad alleggerire i toni, Michelangelo allargò ancora di più il suo
sorriso.
"A volte è capitato. Per sbaglio.”
“Sei un idiota” sbuffò il rosso, scuotendo
leggermente la testa.
“Quindi, non si perdona un fratellino idiota?”
chiese l’arancione con tono volutamente infantile.
Raffaello emise una specie di ringhio.
“Prova a rifarlo ancora, e ti mollo tanti pugni sui
denti da costringerti a mangiare zuppa d’avena per il resto della tua vita,
stronzo.” Ma la rabbia aveva lasciato i suoi lineamenti.
Il fratello minore annuì, col suo sorriso sciocco
appena un po’ amaro. Poi tornò più serio. L’accenno al fratello in blu gli
aveva riportato un nodo in gola. Spostò lo sguardo, a disagio, deglutì, e si
trovò a chiedere, ancor prima di pensarci.
“Leo… Lui credi che ci troverà, Raph? Lo credi
davvero?”
Fuori, il rumore di un’esplosione risuonò, lontano.
I due fratelli si girarono entrambi verso quella direzione. Quindi Michelangelo
tornò a guardare Raffaello, che ancora fissava nel vuoto, lo sguardo perso
oltre la parete.
“Sì, Mikey. Lui tornerà.”
Il mutante con le lentiggini si trovò a doversi
asciugare gli angoli degli occhi, che iniziavano, impertinenti, a farsi umidi.
“Non come Donnie.”
“No, non come Donnie.” Raffaello sospirò.
L’aria dentro il capannone era molto calda. Il sole
aveva ormai compiuto il suo percorso nel cielo e volgeva al tramonto. Raffaello
iniziò ad aprire lo zaino, per tirare fuori le strisce di tessuto che aveva
portato: voleva controllare la fasciatura di Michelangelo, e poi rifare la propria.
Le strisce erano inzuppate d’acqua, ma per fortuna aveva ancora un paio di
garze sigillate.
Michelangelo si avvicinò e cominciò ad aiutarlo a
tirar fuori le fasce di tessuto per poi accumularle in mucchietti bagnati sul
pavimento.
“Mi mancano, tutti” mormorò in un soffio, svelando
i suoi pensieri. Gli occhi azzurri tremolavano lucidi. Lo stress della sera
prima, l’aver visto in faccia così da vicino la morte, dopo il mese di dolore e
convalescenza, stavano alla fine richiedendo il loro scotto al suo animo.
Un’ondata di tristezza lo avvolse, travolgendolo.
Desiderava che Leo fosse lì con loro. Leonardo
avrebbe preso in pugno la situazione, li avrebbe portati rapidamente al sicuro.
Non che non avesse assoluta e completa fiducia in Raph, nella sua forza, nel
suo coraggio, ma Leonardo era sempre stato per lui quel faro verso il quale si
era diretto ogni volta che le situazioni si facevano più complicate, sia per i
problemi grandi, che per i piccoli.
Anche Donnie lo aveva sempre aiutato, in ogni
circostanza. Donnie lo ascoltava, lo incoraggiava, magari a volte si arrabbiava
ed a volte lo prendeva un po’ in giro, ma alla fine risolveva tutto. Donnie riusciva
a capirlo come nessun altro.
Infine, voleva suo padre. Voleva i suoi consigli,
voleva abbracciarlo e sentire il tocco della sua pelliccia contro la propria
faccia. Voleva provare ancora una volta, solo una nella vita, quel conforto
caldo nel sentirsi protetto, al sicuro, nel potersi lasciare andare
completamente in qualcuno più grande, più forte di lui. Voleva quella
sensazione di gioia assoluta che provava quando era bambino, quando non aveva
niente eppure aveva tutto, quando viveva felice con suo padre ed i suoi
fratelli.
Dopo ormai quasi un anno dalla scomparsa di metà
della sua famiglia, la mancanza si era fatta intensa, feroce. Quando aveva
saputo che Donnie era stato catturato dalle milizie di Shredder, aveva sentito
per la prima volta in vita sua una paura così grande che non credeva fosse possibile
provare qualcosa di simile. Era stato spaventato
dalla propria paura. Poi aveva visto morire suo padre, davanti ai propri occhi.
Il fotogramma di quell’istante tremendo non aveva mai più lasciato il suo
cervello, era rimasto congelato lì, immobile, perfetto. Col sangue, il proprio
urlo e tutto. Ricordava bene quella notte; avevano cercato di liberare Donnie.
La battaglia era stata spaventosamente impari: un pugno di mutanti, contro un
esercito di centinaia di robot ed umani. Avevano rischiato di morire tutti. Ed
alla fine, Splinter si era sacrificato, per salvarli.
Le notti abbracciato ai suoi fratelli,
riprendendosi dalle ferite di quella tremenda battaglia, piangendo fino allo
sfinimento, erano rimaste nella sua memoria come ricordi diafani e torbidi,
sfumati ed incoerenti. Poi, un giorno, Leonardo, tornando da una sua
ricognizione con Raffaello, lo aveva guardato dritto in faccia, serio, troppo
serio, e freddo, paurosamente freddo, e gli aveva comunicato che Donnie era
morto, che ne aveva una prova sicura, ma che non poteva dirgli quale.
Michelangelo non aveva mai saputo come i suoi
fratelli avessero saputo la notizia; nonostante le sue scenate, la sua rabbia, le
sue preghiere, non glielo avevano mai voluto dire. Ma dallo sguardo di Raph,
dal viso tetro di Leo, aveva capito che loro ne erano sicuri.
E lui aveva pregato tante, tante volte che i suoi
fratelli si fossero sbagliati. Alla fine, aveva smesso di chiedere, perché, in
fondo, aveva deciso di non sapere: per lui, forse, tutto poteva essere solo uno
sbaglio. Forse Donnie era ancora vivo, rinchiuso in qualcuna delle innumerevoli
prigioni del nuovo regime, o no, meglio ancora, era riuscito a scappare, ed era
come loro nascosto da qualche parte, che pensava a lui, a loro, e, sicuramente,
ad April. E forse anche April era ancora viva!
Michelangelo tirò su il moccio che si era formato
nei fori di respirazione.
Sì, era bello, pensare così.
“Li vendicheremo.” La voce roca di Raffaello ruppe
i suoi pensieri, e lo riportò sulla terra. Il fratello stava finendo di
svuotare lo zaino intriso d’acqua. Aveva impilato le lattine accanto a sé ed
adesso stava tirando fuori due sacchetti di farina. Impiastrati e mollicci, li
gettò contro la parete.
Guardò fissò verso Michelangelo, con i due occhi
smeraldo duri come l’acciaio, e continuò.
“Staremo nascosti alla fattoria fino a quando non ci
saremo rimessi in forze, poi uccideremo Shredder e tutti quelli che sono dalla
sua parte. Ideeremo un piano e distruggeremo quel maledetto porco una volta per
tutte. Magari ci vorrà un po’ di tempo, ma torneremo. Non stiamo scappando,
Mikey, Shredder non ha vinto.”
Michelangelo strinse le labbra in un’espressione
decisa, annuendo serio al fratello.
“Li vendicheremo tutti, Mikey. Io e te, insieme, li
vendicheremo.”
Michelangelo annuì ancora.
“Io, te e Leo” corresse al fratello.
“Io, te e Leo… certo.”
Raffaello distolse troppo presto lo sguardo.
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Capitolo 6 *** Non perdere la strada ***
Non perdere la strada
N/A Ciao, tartamici.
Siamo
quasi agli sgoccioli di questa piccola storia apocalittica. Ancora una volta un
abbraccio fluffoso a chi si diverte con me, a tutti i lettori, alle care NightWatcher96, Cartoonkeeper e Quisquilia
Radioattiva.
Sono
di nuovo in ritardo, ma per farmi perdonare almeno in parte vi presento un
capitolo bello corposo, credo il più lungo che abbia mai scritto, spero vi
piaccia ^_^
Rieccoci
di nuovo insieme anche per il mio secondo Natale su EFP: tanti auguri a tutti i
lettori e scrittori di questo delizioso tartamondo!
Oh oh oh, Merry Christmas!
Con affetto, da LaraPink :)
“The sun is
out
And it's
callous and stout”
Yann
Tiersen & Shannon Wright, Callous Sun
La strada fino alla fattoria in Massachusetts non
era poi così lontana. Quando l’avevano percorsa con il vecchio furgoncino Volkswagen
del signor O’Neil, ci avevano impiegato solo alcune ore.
Ma nelle loro condizioni, il viaggio divenne molto,
molto più lungo.
Erano passate già tre settimane ed ancora erano
appena entrati nel Connecticut.
Raffaello, semplicemente, non poteva camminare.
Scoprì subito che mettere il peso su di una gamba con un muscolo traforato non
solo era decisamente doloroso, ma rendeva interminabile il processo di
guarigione. Inoltre utilizzare una tavola di legno come stampella non era
propriamente ergonomico; anche spostarsi di poche miglia, la notte, diventava
un’impresa. Finite le bende, quasi esauriti i medicinali, la ferita, costantemente
sollecitata, ancora era lontana dal chiudersi. Era un miracolo che i blandi
antibiotici che aveva preso gli avessero fino al momento allontanato
un’infezione, eventualità che poteva adesso facilmente presentarsi, dal momento
che né lui né Mikey erano in condizioni per avventurarsi più vicino agli umani e
tentare di procurarsi altre medicine, magari setacciando vecchi ospedali e
farmacie o razziando abitazioni.
Le loro avanzate si riducevano a lunghi giri per
cercare strade nascoste, lontane il più possibile dai sempre più decadenti
centri abitati, e cercare dei rifugi sicuri dove rintanarsi per dormire, nei
giorni di un settembre ancora insolitamente caldo.
I due fratelli mutanti non avevano mai viaggiato,
non si erano mai dovuti affidare alle loro scarse conoscenze stradali. Ogni
bivio, ogni cittadina, la paura era sempre quella di perdere la strada, di
imboccare direzioni che li avrebbero portati per miglia fuori dal loro
percorso, e nelle loro condizioni ogni giorno perduto poteva essere un giorno
di troppo.
Inoltre, miglio dopo miglio, prendevano sempre più
coscienza che l’idea di raggiungere Northampton non fosse altro che una meta
che si erano autoimposti solo per avere un posto dove andare, un luogo, in
questo mondo sempre più in rovina, che potessero in un certo senso ancora
chiamare casa. L’immagine della fattoria, sicura ed accogliente, vicino al
bosco che avevano imparato a conoscere, era forse più che altro un richiamo per
i loro animi sfiancati, una terra promessa dove poter sperare di dare un po’ di
riposo ai loro giovani corpi portati ormai allo stremo.
Michelangelo era ancora molto debole, lontanissimo
dalla perfetta forma fisica di un tempo. Il dolore all’arto fantasma tornava a
fargli visita con frequenza, in pungenti crampi che si propagavano da una mano
che ormai non c’era più; si sommava all’ansia costante che sentiva nel dover
camminare in posti sconosciuti verso una direzione non del tutto certa. Il
mutante con la maschera arancione intonacava sul viso un sorriso stanco per il
fratello maggiore, quando questi lo guardava, che non riusciva però a
nascondere del tutto l’aria sempre più tirata e nervosa. Entrambe le tartarughe
erano inoltre vessate da una persistente febbriciattola ed avrebbero avuto
bisogno di un sano periodo di riposo e di una buona alimentazione per
rimettersi in forze, e non di dormire nascosti tra rifiuti ed erbacce sotto i
ponti, o dentro edifici pericolanti, o vecchi capannoni industriali
abbandonati.
Acqua e cibo, poi, erano diventati in poco tempo il
loro principale problema. Le scorte si erano esaurite quasi subito e la fame e
la sete si presentarono come costanti compagne di viaggio.
Mancava ancora un po’ al tramonto, quando i due
fratelli lasciarono il loro ultimo rifugio del giorno, una vecchia costruzione
che era servita da magazzino di qualche tipo, relativamente distante dalla
strada ed ormai circondata da una jungla di sterpaglia; avevano inoltre per il
momento placato la loro sete con l’acqua che avevano raccolto nelle loro
vecchie bottiglie di plastica da un rigagnolo di una tubatura rotta, scovata
nella cittadina attraversata il giorno prima, ma poiché non mettevano niente
sotto i denti da ormai un paio di giorni, la fame stava iniziando ad aggredirli
con ferocia.
Si misero nuovamente in marcia, Raffaello
zoppicante sulla sua stampella improvvisata, Michelangelo mesto e silenzioso
qualche passo dietro di lui; si avviarono per di una vecchia strada interrotta
da un ponte di una carreggiata più grande, forse un’autostrada, caduto su di
essa; lungo la via, come vecchie carcasse, giacevano, per diverse miglia in
entrambe le direzioni, decine di auto, aperte ed impolverate, evidentemente
lasciate di fretta per motivi che non sarebbero mai stati conosciuti. La strada
era completamente isolata; ai lati si aprivano campi ormai abbandonati. Le
abitazioni umane erano lontane; solo alcune costruzioni distrutte dal fuoco
facevano capolino un paio di miglia più avanti.
Sotto un sole basso nel cielo, ma che ancora
maligno e crudele sembrava incurante del disagio dei loro corpi accaldati, i
due mutanti arrancavano passo dopo passo sull’asfalto caldo, nell’aria
increspata dall’afa in vibrazioni quasi liquide. Nella desolazione della strada
abbandonata, ispezionavano con cura le automobili che incontravano, con i loro
sportelli spalancati, grotteschi cimeli di ferro. Il grido di gioia di
Michelangelo, quando trovò nello sportellino di un cruscotto un pacchetto di
cracker, strappò a Raffaello un sorriso amaro.
Il mutante più giovane, ancora seduto nel sedile
dell’auto evacuata, aprì il pacchetto tenendolo con la mano superstite e strappandolo
tra i denti quasi con ferocia: ne trangugiò metà del contenuto in pochi secondi
e poi lo passò al fratello in piedi fuori dall’abitacolo, seguendolo ancora con
gli occhi affamati di un cucciolo di cane; si rimise a rovistare nel cruscotto,
acceso di speranza, e tirò fuori una fiaschetta di metallo. Svitata anch’essa
con i denti, la portò voracemente alla bocca, solo per sputare disgustato il
sorso appena bevuto e gettare con stizza la fiaschetta a terra, sull’asfalto.
Raffaello la raccolse prima che il liquido si disperdesse completamente, la
tappò con cura e se la mise nello zaino, senza una parola.
Proseguirono il cammino per diverse ore, ed il sole
era ormai tramontato da un pezzo quando arrivarono ad un complesso di
capannoni, che si ergevano neri e fumanti da un recente incendio. Decisero di
inoltrarsi tra gli scheletri scuri dei fabbricati e proseguire poi dalla
boscaglia che si scorgeva in lontananza dietro il complesso. Una luce rosastra
si irradiava ancora da una zona delle costruzioni, ad indicare un piccolo rogo
ancora in corso. Come falene attratte dalla luce, i due fratelli vi si
avvicinarono, l’uno zoppicando tra la cenere ed i detriti neri, l’altro che lo
seguiva, guardandosi intorno. Brunito dal fuoco, su di una parete si
intravedeva ancora il disegno di una ruota scarlatta, con tanto di raggi gocciolanti
vernice, ormai asciutta, come sangue.
Raffaello aveva bisogno di riposare la gamba
dolente qualche ora, prima di proseguire; la tavola che usava da stampella
aveva inoltre piagato la tenera carne dell’ascella, ad aggiungere ulteriore
disagio al suo cammino. Si sedette su un blocco di cemento annerito, a poca
distanza da un piccolo fuocherello che innalzava al cielo una spirale grigia;
il cielo, in alto, era ormai completamente nero. Michelangelo si avvicinò ad un
cumulo di macerie ed iniziò a spostarne alcune, con l’intenzione di sedersi
anche lui; una lastra di cemento cadde dal suo precario equilibrio, provocando
un piccolo crollo: un gruppetto di ratti spaventati schizzò fuori dai detriti.
Raffaello, fulmineo, estrasse uno dei suoi sai e lo
lanciò.
Lo squittio agonizzante fece sussultare
Michelangelo.
“Cosa… perché?” chiese sgomento al fratello che,
alzato in piedi, zoppicò verso la piccola vittima.
“Tu cosa pensi?”
Il rosso si chinò sull’animale infilzato, lo
ispezionò e tirò fuori l’arma. L’arancione gli fu subito sopra, sconcertato, osservò
con dispiacere la bestiola morta e rivolse uno sguardo di assoluto stupore al
fratello. Poi, quando questi iniziò ad incidere la pelliccia dell’animale con
la punta acuminata del suo sai, unì i puntini.
“Non vorrai… No Raph, non possiamo! No!”
Gli occhi azzurri si ingigantirono, inorriditi.
Raffaello iniziò a scuoiare il grosso topo.
“Perché?” La fame faceva lavorare velocemente le
mani verdi.
“Raph! Perché… Perché è un ratto!”
“Con gli
intrugli che ci preparavi, non ti facevo schizzinoso.” Il rosso strinse le
spalle, continuando a lavorare.
“No, Raph, non capisci! È… è un ratto, come…”
Raffaello alzò di scatto la testa verso il
fratello, sventolando l’arma insanguinata.
“Basta. Non aggiungere altro.”
Si rimise al lavoro. Michelangelo fece un passo
indietro, quasi per scappare dalla piccola profanazione che stava avvenendo ai
suoi piedi.
“Dobbiamo mangiare, Mikey” aggiunse il fratello
maggiore dopo un po’, infilzando a mo’ di spiedo il piccolo animale su un’asticella
metallica trovata lì in terra. Rinvigorì il fuocherello morente con alcune
tavolette sfilate dai detriti. Le fiamme avvolsero i legni sporchi serpeggiando
fulgide, e l’aureola di luce intorno al fuoco si ingrandì.
Michelangelo si buttò a sedere sul blocco di
cemento.
“Io non ne mangio.”
Raffaello alzò di nuovo le spalle.
“Fa come credi.”
La carne avvicinata al fuoco iniziò a sfrigolare.
…
Michelangelo si leccò con cura le dita della mano e
poi sospirò rumorosamente, osservando sconsolato il mucchietto di ossicini di
topo ai suoi piedi.
“Pensi che potremmo cercare di catturarne altri?”
Raffaello storse il viso in un sorriso e si alzò in
piedi, gettando l’osso che aveva in mano sul piccolo fuoco morente.
“Poi vedremo. Per adesso cerchiamo un posto dove
dormire qualche ora prima di proseguire, testa di legno.”
Il mutante con le lentiggini emise un altro sospiro
sconsolato. La sua fame era ancora lontana dall’essersi calmata con quel po’ di
carne. Si alzò in piedi anche lui, sbilanciandosi appena un po’: il suo corpo
non si era ancora del tutto abituato alla nuova condizione, e la debolezza per
la denutrizione non aiutava.
Improvvisamente, i due fratelli si tesero e, veloci,
si misero con i gusci l’uno contro l’altro: nonostante il loro stato, i loro
sensi allenati lungamente avevano percepito un lieve rumore nelle sterpaglie a
fianco dello spiazzale bruciacchiato dove si trovavano. Raffaello, mollata la
rudimentale stampella, aveva tirato fuori i suoi sai, Michelangelo l’unico
nunchaku che gli fosse rimasto: entrambi però erano fin troppo consapevoli di
non essere in condizioni per ingaggiare una lotta.
Diverse forme scure si intravidero dietro i
cespugli. I due mutanti si scrutarono intorno, ogni muscolo del corpo teso come
una corda, girando la testa da una parte e dall’altra.
Quando una delle figure si mostrò chiaramente,
Raffaello poté rilasciare il respiro che aveva in gola.
“Cani. Sono solo cani” borbottò riponendo le armi.
Anche Michelangelo si rilassò vistosamente. Qualche
randagio, richiamato probabilmente dall’odore della carne, non rappresentava
una minaccia; ne avevano incontrati a decine, tremanti e scheletrici, in
macilenti branchi, a rovistare tra i rifiuti, o semplicemente a lasciarsi
morire d’inerzia lungo i bordi delle strade, lacrimando dai grandi occhi vuoti,
relitti anch’essi di un passato tempo felice.
Raffaello si abbassò per riprendere da terra la
tavola che fungeva da stampella.
In quell’istante ci fu l’attacco.
Si rialzò di scatto, girandosi verso il fratello:
Michelangelo era stato gettato a terra da una veloce ombra nera. Non fece in
tempo a capire bene la situazione che si trovò a schivare, istintivamente,
qualcosa che si era scagliato anche contro di lui. Si chinò, fece una capriola,
e quando si rialzò in piedi teneva stretti nei pugni i suoi sai.
Erano circondati dai cani.
Una ventina, almeno. Ma non erano semplici bastardi
randagi. Grossi, simili a lupi ma più alti e massicci, col manto nero ed ispido
e gli occhi due tizzoni scuri, le cui enormi pupille d’ebano riflettevano i
barlumi del falò. Dalle bocche ringhianti sporgevano come lame affilate i canini
lunghi un palmo.
Erano i cani delle milizie di Shredder. O meglio,
un branco inselvatichito di questi feroci mastini geneticamente modificati da
Baxter Stockman. I due fratelli comunque non persero tempo a postulare ipotesi
sulle circostanze che avevano portato un gruppo di questi cani assassini ad
organizzarsi in branco ed ad attaccare i viandanti, per giunta vicino ad un
fuoco.
Raffaello schivò un altro attacco: la gamba ferita,
dopo la capriola, lanciava fiamme lungo tutti i nervi, la testa girava per la
debolezza; il mutante capì subito che non sarebbe stato facile fronteggiare le
bestie che aveva davanti.
“Ahh! Raph!”
Michelangelo a terra si sforzò con l’unico braccio
di allontanare dal suo viso la bestia ringhiante che, afferrata dal collo, cercava
di scattare in avanti ed affondare i lunghi denti nella gola verde, esposta; un
secondo cane si gettò sulla tartaruga, cercando, senza successo, di mordere la
sua preda nel duro carapace. Il giovane mutante si dibatté sul terreno, alzando
una nuvola di polvere, quando un terzo mastino lo afferrò alla gamba,
affondando i denti nel polpaccio. La tartaruga urlò di nuovo, questa volta di
dolore, scalciando per divincolarsi.
“Mikey!” Raffaello vedeva con la coda dell’occhio
il fratello in difficoltà, assalito, ma non poteva fare altro che difendersi
lui stesso dall’attacco costante delle bestie che lo avevano circondato da ogni
lato. Dopo i primi colpi, con i quali aveva battuto gli animali solo con il
manico dei suoi sai, la sua stessa difesa divenne più feroce. Pur nella
confusione delle ombre scure che lo attaccavano, poteva vedere chiaramente che
il fratello non si era ancora rialzato da terra e cercava di scuotersi di dosso
i cani dimenandosi come un ossesso.
Raffaello girò i sai di punta ed urlando tutta la
sua ferocia, egli stesso belva tra le belve, iniziò a trafiggere pelliccia,
carne, muscoli degli animali; guaiti si alzarono nella notte, alcuni cani si
ritrassero, altri, seppur feriti, continuarono ad attaccare, folli dalla fame.
Appena vide uno spazio, la tartaruga in rosso si volse verso il fratello, infilzando
i due animali che gli erano di sopra e, scostandoli con un ruggito dal mutante
caduto, li gettò lontano.
I mastini pugnalati caddero con un tonfo tra la
polvere; gli altri, ormai lontani di qualche passo dal feroce mutante,
continuarono a muoversi per un po’ avanti ed indietro, rapidi e guardinghi, ringhiando
e girando ancora intorno ai due ninja; le bestie ferite per terra mugolavano
pietosamente e Raffaello poteva chiaramente sentire, nei suoi respiri
affannosi, l’odore ramato del sangue caldo che gli imbrattava le mani e gli era
schizzato su viso e piastrone. Quando si lanciò lui stesso, con un urlo, all’attacco
dei cani, questi finalmente fuggirono e si dileguarono nella notte.
Raffaello si piegò sulle ginocchia, a riprendere
fiato, poi si asciugò il sudore sulla fronte col retro di una mano, impugnando
ancora i sai. Michelangelo si rialzò lentamente in piedi e claudicante gli si
avvicinò.
“Stai bene?” chiese il rosso, drizzandosi.
L’arancione si limitò ad annuire, con gli occhi ancora dilatati
dall’adrenalina, e si squadrò intorno, soffermando lo sguardo sulle bestie per
terra.
Una decina di cani giacevano sul terreno, alcuni
immobili, altri feriti, forme brune illuminate dal fuoco morente. Uno guaiva
forte, scuotendo il corpo nelle convulsioni, riversando da una profonda ferita
tra le costole il suo sangue scuro ad imbrattare il suolo.
Raffaello fece alcuni passi nella direzione
dell’animale in agonia; Michelangelo chiuse gli occhi, e li strinse ancor più
forte quando udì l’affondo bagnato ed i guaiti cessarono di colpo. Continuò a
tenerli serrati, ascoltando i battiti del proprio cuore martellare nei fori
auricolari e pulsare dolorosamente nelle piccole ferite alle gambe ed alla
mano, fino a che il fratello tornò accanto a lui: quando li aprì, nessuna
bestia ormai si muoveva più.
“Andiamocene da qui.”
Anche questa volta Michelangelo si limitò ad
annuire e lasciò che il fratello aprisse la strada. Si introdussero tra i
capannoni, adesso alla luce della torcia, fino a raggiungere una zona
risparmiata dal fuoco. Un pick up era parcheggiato al limitare di uno spiazzo:
Raffaello provò la serratura e, trovandola chiusa, la colpì col suo sai. Aprì
lo sportello, salì sul sedile dal lato del guidatore, si allungò e tirò su il pulsante
sotto il finestrino dal lato passeggero; Michelangelo si sedette ed i due
fratelli richiusero gli sportelli.
Raffaello poggiò la torcia sul cruscotto. Dentro,
l’aria calda e stantia puzzava un po’ di fumo. Spinse dietro il sedile, poi si
voltò verso Michelangelo.
“Fa’ vedere.” Gli fece cenno con le mani alle
gambe.
Il mutante più giovane spostò anche lui indietro il
sedile, agendo sulla levetta sotto la seduta, poi lo reclinò al massimo e, muovendosi
di lato, mise le gambe sulle ginocchia del fratello.
“Non è niente…” mormorò, mentre Raffaello le controllava
tenendole con delicatezza. Diverse piccole ferite da morsi segnavano di rosso
la pelle verde; un morso profondo al polpaccio sanguinava ancora. Michelangelo
porse quindi al fratello la mano, anch’essa leggermente ferita, e Raffaello la
rigirò tra le sue, accigliato.
“Servirebbe un’antitetanica… un’antirabbica… o dio
sa cosa, maledizione…” mugugnò il rosso tra i denti. Non avevano niente di
tutto questo, e sapevano entrambi che non li avrebbero certo trovati per
strada. Lasciò la mano del fratello, si sfilò lo zaino e tirò fuori la
fiaschetta di liquore.
“Raph, cos…ahh!”
Raffaello versò l’alcol sulle ferite di una delle
due gambe, bloccando con tutta la forza il piede che Michelangelo
istintivamente cercò di ritirare a sé.
“Mghh… okay, fratello, stop, stop…” piagnucolò
Michelangelo, stringendo i denti e dimenandosi leggermente.
“Non fare il bambino.” Raffaello irrorò l’altra
gamba, provocando un’altra escalation di lamenti, poi fece cenno per la mano, insistendo
con un colpo sulla ginocchiera del fratello minore quando questo nascose la
mano sotto l’ascella del braccio mozzato.
Quando il fuoco liquido sulle ferite si spense e
Michelangelo tornò a respirare normalmente, Raffaello, dopo essersi
disinfettato con quel sistema di fortuna anche lui qualche piccolo graffio, reclinò
pure il suo sedile e spense la torcia.
Il buio della notte invase tutto, prima che gli
occhi si abituassero al lieve riverbero della luna per poter distinguere le
forme dell’abitacolo e quelle, nere e imponenti, dei vecchi capannoni
abbandonati, cattedrali in rovina di un mondo attivo e fiorente ormai passato.
I due fratelli si sistemarono sui sedili, cercando una posizione più comoda
possibile per i loro corpi, per i quali le sedute umane non erano mai del tutto
ergonomiche, e rimasero in silenzio, ad accezione del rumore lieve dei loro respiri
stanchi.
Dopo qualche minuto, quando Raffaello era quasi
addormentato, la voce di suo fratello lo riportò indietro dal confortante mondo
dell’incoscienza.
“Raph?”
“Uh?”
“Dovevi proprio ucciderli?”
“Uhm… – Raffaello si sistemò meglio, provocando un
cigolare lamentoso dalle molle del sedile. – Dormi, ché voglio proseguire prima
che faccia giorno.”
“Sì, però… voglio dire… bastava tramortirli…”
Raffaello si spostò ancora. “Cristo, Mikey, dormi.
Li ho uccisi, allora? Ti stavano sbranando vivo o sbaglio? Non ci pensare.
Dormi.”
Michelangelo si assestò a sua volta sul sedile. Ma
dopo un minuto, parlò ancora.
“Ne hai uccisi parecchi… Erano solo affamati…
Insomma, non era colpa loro…”
Raffaello si alzò a sedere.
“La finisci? Ma che ti prende? Erano solo cani! I
cani assassini di Shredder, per giunta. Ci hanno assalito, ci siamo difesi.
Stop. Adesso basta. Dormi, maledizione, che tra poche ore dobbiamo riprendere
il viaggio, va bene?”
“Va bene, va bene, calmati. Capito. Hai ragione.”
Michelangelo alzò la mano a far segno di resa. “Ci hanno attaccato, ci siamo
difesi. Come sempre. O noi o loro. Lo diceva pure Splinter: ‘Non esitare mai
nella difesa’.”
Girò la testa a guardare fuori. In alto, forse, a osservare
bene, si potevano vedere le stelle.
Proseguì, a voce più bassa.
“O noi o loro. Così deve andare. Okay, basta. Non
pensiamoci; non serve a niente, pensarci. Sono andati, giusto? Certo, non era
colpa loro, erano costretti ad attaccarci, ma è colpa nostra? Dimmi, Raph, è
colpa nostra? Che possiamo fare noi?”
La voce si fece ancora più flebile, quasi rotta.
“Non è che uno in quei momenti ci pensa. Dopo,
magari, ci pensa, ma in quei momenti… Lo fai e basta…”
Raffaello lo ascoltava, in silenzio. L’angoscia delle
parole permeava lo stretto abitacolo. Nonostante il caldo, rabbrividì. Suo
fratello non stava parlando più dei cani, non più. Il fantasma che li seguiva,
silenzioso ed ignorato, da quella notte sul ponte, prese corpo, strisciando
gelido sulla sua pelle, a spazzar via con un colpo l’assurda illusione che
qualcosa di puro ed innocente potesse ancora esistere su questa terra, che
almeno l’anima più candida che conoscesse fosse rimasta tale, che fosse stato solo
un incubo, un ricordo distorto.
“Il fatto è che, Raph, a volte… a volte non capisco
più qual è la cosa giusta da fare. Era tutto più semplice, prima. Tutto era al
suo posto. Sensei ci aveva spiegato cos’è bene, cos’è male, ci aveva indicato
la strada giusta da seguire, ed era tutto okay. Tutto era facile… Io ero quello
carino, tu eri il duro, Donnie era il genio, Leo era il leader. Ci difendevamo da
chi voleva farci la pelle, cercavamo di rendere il mondo un posto migliore,
sistemavamo un po’ le cose. Facile. – Deglutì – Io non sparavo alle persone, tu
non cucinavi ratti per mangiare, e Donnie e Leo…”
Un singhiozzo incrinò la voce, che si fece sempre
più flebile, quasi che parlasse ormai solo a sé stesso, in un mormorio mesto.
“Il mondo era a posto. Tutto era a posto. Ma
adesso, adesso che io e te dobbiamo cercare di portare il guscio in salvo e poi,
poi, io monco e tu zoppo, sconfiggere un impero, beh, adesso, sembra così
difficile non perdere la strada, così difficile…”
Sì, erano proprio stelle, lì in alto, oltre il
parabrezza sporco, su, a trapuntare il cielo, punture di luce contro la volta
nera.
Anche con gli occhi appannati, Raffaello le poteva
vedere.
…
Era ancora notte inoltrata, quando ripresero il
cammino. Ancora più lenti, ancora più doloranti. Si trascinarono per tutto il
giorno, facendo frequenti pause, senza incontrare costruzioni umane se non
poche case disabitate. A mano a mano, la vegetazione si fece più rigogliosa. Ai
campi abbandonati subentrarono arbusti ed alberi. La calura anomala dei giorni
scorsi si era placata, ed un vento tiepido accarezzava le piante facendo
frusciare le foglie.
Nonostante non fossero del tutto sicuri se la
direzione fosse ancora quella giusta, fu con enorme sollievo che, calate
nuovamente le tenebre, poterono ascoltare il mormorio lento e rassicurante di
un fiume. Raffaello suppose che potesse trattarsi del fiume che scorreva non
molto distante dalla tenuta O’Neil, nel quale più volte avevano fatto il bagno
durante il loro soggiorno forzato in fattoria, anni prima. In ogni caso, il
fiume portava più in profondità nella foresta che si estendeva davanti a loro,
e foresta voleva dire nascondiglio dagli umani. Inoltre un fiume era una
potenziale risorsa di alghe e vermi e per i loro stomaci vuoti non esisteva
niente di più allettante.
Nei giorni successivi, l’estate finalmente si vestì
d’autunno. La pioggia fresca lavava alberi e tartarughe, increspava le acque
del fiume in infiniti cerchietti. I due fratelli camminavano, cercavano sotto
le pietre, scavavano. Si fermavano a riposare sotto le fronde, stretti vicini, nelle
notti silenziose e scure.
Forse, erano nella direzione giusta. Forse, era
proprio la zona dove Mikey si era spinto quella volta, anni fa, durante il loro
allenamento in solitario, per ritemprare gli spiriti prima del ritorno a New
York. Sì, gli alberi potevano essere quelli. O forse semplicemente la foresta
era tutta uguale, con i suoi fusti centenari e le sue farfalle effimere, sempre
muta ed immutabile, sacrario verde benigno eppur indifferente, così lontano
dalla follia dell’uomo.
…
“Svegliati, Mikey.”
Michelangelo aprì gli occhi a fatica. I deboli
raggi di luce tra le fronde degli alberi gli rivelarono che dopo l’ennesima
notte nella foresta, un altro giorno era arrivato. L’ombreggiatura si
proiettava tremula sul piastrone del fratello, dove la propria testa era
appoggiata; il collo non era contento.
Il fratello lo stava scuotendo dalla spalla e
mormorava sottovoce.
“Svegliati, c’è qualcuno.”
La tartaruga in arancione costrinse le membra
doloranti a muoversi, nel modo più silenzioso e rapido possibile. Ma si sentiva
goffo, lento, ingessato dalla debolezza, ed il solito dolore al moncherino gli
rubò l’ennesimo sibilo tra i denti quando lo mosse troppo velocemente.
Si mise in piedi, accanto a Raffaello, scrutando
tra gli alberi. Non vedeva niente, non sentiva niente… No, vero, c’era
qualcosa. Chiuse gli occhi, si concentrò. I suoi sensi da ninja, non del tutto
disabilitati dalla spossatezza, avvertirono tanti piccoli spostamenti nel
fogliame del sottobosco… tutt’intorno a loro.
Cercò per un secondo gli occhi smeraldo di
Raffaello, che silenziosamente gli diedero conferma della propria deduzione:
erano circondati.
Sfilò piano il nunchaku. La catena cigolò, perfettamente
udibile; ma tanto chi li circondava li teneva sott’occhio. Per l’ennesima
volta, Michelangelo sentì il proprio cuore sbattere ferocemente contro le
costole; per l’ennesima volta, cercava di prepararsi, con la forza della
disperazione, ad una battaglia che sapeva di non essere in grado di gestire.
“Chi c’è?”
La voce di Raffaello era dura e feroce; ma
Michelangelo lo conosceva troppo bene per non sentirci anche un lieve tremore.
Il cerchio si strinse ancora intorno a loro:
adesso, tra i cespugli, s’intravedevano forme umane.
Qualche decina di piedi davanti a loro due figure,
le più vicine, si fecero avanti, da dietro un albero.
Avanzando piano, con due archi di legno impugnati
nelle loro braccia tese, corde vibranti e freccia incoccata, due ragazzini, un
maschio ed una femmina, si stagliarono nettamente in una chiazza di luce del
bosco. Capelli tagliati corti, vestiti logori, espressioni troppo dure per la
loro età: forse dodici o tredici anni.
Come ad un segnale, tutte le figure avanzarono
verso i due mutanti, tutte mirando ai due fratelli Hamato con i loro archi
rudimentali; si fermarono, immobili, ad una distanza di sicurezza. Michelangelo
e Raffaello li squadrarono velocemente: erano una dozzina, maschi e femmine, maculati
dalle ombre della foresta.
Tutti ragazzini. Alcuni, proprio bambini.
Michelangelo sbatté le palpebre, sorpreso,
osservando una bambina alla sua sinistra: sembrava la più piccola del gruppo,
dimostrava appena sei anni, forse sette; eppure, anche lei teneva tra le
piccole mani sporche un arco di legno. Il giovane mutante lampeggiò i suoi
grandi occhi azzurri e cercò ancora quelli del fratello.
Raffaello valutò in pochi secondi il da farsi.
Mettendo da parte l’ipotesi, seppure non del tutto inverosimile, che si
trattasse di qualche visione indotta dalla fame e dalla stanchezza, stava
cercando di capire se queste armi puntate verso di loro rappresentassero
effettivamente una minaccia, se le piccole braccia che le impugnavano sapevano
effettivamente usarle, o se non potesse lui metterli tutti velocemente fuori
gioco, pur nelle sue condizioni, poiché in fondo non si trattava che di
bambini. Ma poi, ancora, capì che non poteva combatterli proprio perché si trattava di bambini.
Con un sospiro, ripose i sai che aveva tirato
fuori.
“Chi siete?” chiese.
“Siamo cacciatori!” cinguettò la bambina più
piccola.
Michelangelo non poté fare a meno di sorridere.
“Zitta!” la rimproverò la ragazza che si era
mostrata per prima.
“Chi siete voi,
e cosa fate qui?” chiese a sua volta il ragazzo al suo fianco, invece di
rispondere. Sembrava che lui e la ragazza fossero gli anziani del gruppo e
probabilmente erano alla guida.
“Non vogliamo farvi del male” iniziò Raffaello, alzando
le mani in modo conciliante. “Non dovete avere paura.”
“Non abbiamo paura.”
Alle parole della ragazza, stavolta fu Raffaello a
sorridere. In gamba, questi ragazzini.
Ma cosa ci facevano qui, da soli?
“Guardate, dobbiamo solo arrivare a… a casa di
un’amica. Cerchiamo riparo.”
“E cibo” aggiunge Michelangelo.
“E cibo.” Raffaello lanciò al fratello
un’occhiataccia, poi proseguì. “Voi… cacciatori,
siete da soli? Non ci sono i vostri genitori o qualcuno?”
“Siamo soli” rispose rude il ragazzo. Continuava a
tenergli l’arco puntato contro e Raffaello iniziava ad esserne seriamente
infastidito.
“Bene. Senti, non sono affari nostri. Perché non ci
lasciate passare e proseguite la vostra caccia? Come vedi, noi non siamo
selvaggina” grugnì, facendo un passo avanti.
I bambini tutt’intorno si ritrassero di un passo.
Il ragazzo e la ragazza al comando si guardarono,
scambiarono alcune parole sottovoce e poi abbassarono gli archi.
Raffaello non si aspettava questo. A dire il vero,
non si aspettava neanche un gruppo di bambini armati in mezzo al bosco di
mattina presto, che per giunta non sembravano per niente intimoriti di trovarsi
davanti due tartarughe mutanti. Ma Raffaello ormai non sapeva veramente più
cosa aspettarsi, da questo mondo sempre più assurdo.
“Venite con noi. Vi porteremo dal nostro capo”
disse il ragazzo, con un cenno della testa; tutti i bambini abbassarono gli
archi.
Raffaello sbuffò. Era troppo stanco e troppo snervato
per farsi “prendere prigioniero” da un manipolo di bambini.
“Senti, ragazzo. Non mi hai capito. Noi stiamo
andando a casa. Tornate ai vostri giochi e lasciat-“
“Il nostro capo è come te” disse ancora la bambina
più piccola, alzando un braccio ad indicare Michelangelo; non aveva staccato
gli occhi dalla tartaruga più giovane, fissando sfacciatamente il suo moncone per
tutto il tempo.
“Vuoi dire, con un braccio solo?” Il mutante
sorrise amaro verso la piccola.
“No, vuol dire una tartaruga” disse la ragazza più
grande.
Raffaello sentì l’equivalente di una doccia di
diversi galloni d’acqua gelata sulla pelle. Si voltò di scatto verso
Michelangelo, che lo guardò a sua volta con la bocca aperta ed un’espressione
che in un’altra situazione avrebbe trovato comica.
“Cosa… cosa hai detto?” articolò il rosso a fatica.
“Il nostro capo è una tartaruga gigante, come voi
due. Vi porteremo da lui. Se volete” si affrettò ad aggiungere il ragazzo più
grande, improvvisamente spaventato dall’espressione di Raffaello.
Nella mente del mutante come una vertigine turbinarono
mille domande. Questi ragazzi stavano dicendo la verità? Possibile… possibile
che ci fosse qualche altra tartaruga mutante in circolazione oltre a loro due
e… Leonardo? Quindi, Leo era vivo? Era qui? Una parte del suo cervello voleva
credere, un’altra gli intimava di non cadere in facili inganni, di non prestare
fede a ciò che il cuore voleva, poiché era improbabile, sì, dannatamente
improbabile, che Leonardo si trovasse qui, sano e salvo, vivo, e per di più a capo di un gruppo di ragazzini umani che
vagavano nei boschi come cacciatori! Tutto era troppo assurdo, troppo irreale…
Si avventò verso il ragazzino, incurante del fatto
che tutti i bambini, spaventati, avessero rialzato le loro armi. Con un paio di
balzi, gli fu addosso e lo prese dalle braccia.
“Stai dicendo la verità? C’è un’altra tartaruga
mutante come noi?”
Il ragazzo allargò gli occhi, spaventato; la
ragazza al suo fianco, atterrita, puntò l’arco contro il mutante.
“Sì, sì, è vero, lo giuro!” ansimò il ragazzo. “È
come te!”
“Indossa una maschera, come noi? Come si chiama?”
Raffaello strattonò piano il ragazzo. La ragazza tese ancora di più il suo
arco, che adesso tremava a pochi pollici dal piastrone del mutante.
“Lui… No,
non indossa nessuna maschera… Si chiama Wheel [Ruota], o almeno, tutti lo chiamano così” farneticò il ragazzino,
di fretta, con la voce stridula. Raffaello strinse di più le mani sulle braccia
del giovane umano.
“Raph…” Michelangelo mise a sua volta la mano sulla
spalla del fratello.
La tartaruga mascherata in rosso lasciò andare il
ragazzo.
“Va bene.” Guardò Michelangelo, che in questo
momento aveva gli occhi più grandi che avesse mai visto, talmente carichi di
speranza da fare male. “Portateci da lui.”
Senza altre parole, s’incamminarono nella foresta,
i ragazzi avanti, i due mutanti a chiudere la fila. Ogni tanto, qualcuno dei
bambini si girava a guardarli, con un misto tra timore e curiosità.
“Raph… Il ragazzo, lui non mentiva” sussurrò Michelangelo, in fermento. Irradiava
un senso di eccitata aspettativa. A Raffaello quasi sembrava di guardare il
fratellino di qualche anno fa, tanto il suo viso era luminoso.
Raffaello annuì piano. Sì, anche a lui il ragazzo
era sembrato sincero. Ma non voleva illudersi. Tutto sembrava troppo bello per
essere vero. Che Leonardo avesse raggiunto Northampton prima di loro dopo tutto
era un’ipotesi, seppure poco probabile, non impossibile. Certo, ancora meno
probabile era il fatto che si fosse messo improvvisamente a capo di un gruppo
di ragazzini. D’altronde, poteva ancora trattarsi di un’altra tartaruga
mutante. Anche se Spike, no, Slash era morto ormai da qualche anno, non era
detto che non esistesse qualche altro mutante in circolazione, magari frutto
degli esperimenti di Stockman e degli altri scienziati del Piede. Quindi, non
voleva farsi illusioni. Ma era difficile non lasciarsi cullare almeno da una
piccola speranza.
“Se mentiva, era dannatamente bravo - rispose al fratello, a bassa voce. - Staremo a
vedere. Ma restiamo in guardia.”
Camminarono nella foresta, faticando a tenere il
passo con i ragazzini. Erano sì sfiancati, ma questa situazione sembrava aver
tirato fuori dell’energia residua che non sapevano di possedere. Le due
tartarughe mutanti si guardarono in viso più volte, a mano a mano che avvistavano
qualche posto noto. Adesso, iniziavano a riconoscere con sicurezza alcune zone
della foresta: si stavano avvicinando alla fattoria O’Neil.
La speranza si rinvigorì e infiammò i cuori delle
due tartarughe: se questo fantomatico capo di ragazzini si trovava nella
fattoria di April, la possibilità che si trattasse del loro fratello divenne
improvvisamente talmente concreta da far salire le lacrime agli occhi. In
qualche modo, il loro fratellone si era salvato, e lo avrebbero incontrato a
breve.
Lo strano convoglio di ragazzini e mutanti proseguì
in silenzio tra gli alberi, con i giovani umani che si scambiavano sottovoce
dei commenti e continuavano a lanciare di tanto in tanto occhiate incuriosite
ai mutanti, e questi ultimi ormai allo stremo delle forze ma sempre più
eccitati. Infine, la casa colonica appartenuta alla famiglia O’Neil, si
stagliò, bianca, nella radura alla fine degli alberi.
Il ragazzo al comando corse avanti, salì i gradini
del portico ed entrò per primo nella casa colonica, mentre l’altra ragazza più
grande raccoglieva intorno a sé i bambini. All’interno della casa, si sentirono
delle voci concitate: due adulti, uomini di mezza età, si stagliarono sulla
porta. Entrambi imbracciavano un mitra.
Raffaello e Michelangelo si bloccarono un attimo, a
pochi passi dal portico. Improvvisamente, l’ipotesi che potesse trattarsi di
una trappola riprese vigore tutta d’un colpo. Altre voci e confusione si
percepivano dentro la casa. Alcuni bambini entrarono, mentre i due adulti si
facevano la parte, fissando le tartarughe; altri ragazzini rimasero fuori. Il
ragazzino a capo, che li aveva condotti lì ed era entrato subito nella casa,
uscì nuovamente fuori. Un’altra donna, armata, uscì anche lei sulla porta.
I due mutanti si strinsero, alzando piano le mani
alle loro armi. La situazione era strana, non sapevano cosa pensare.
La donna si tolse dalla porta, spostandosi di lato
sul portico, per fare spazio ad un’altra ragazza ancora, che spingeva qualcuno
su una sedia a rotelle.
Raffaello sussultò, imprecando ad alta voce.
Michelangelo portò la mano alla bocca, e dimenticò per qualche secondo come si
facesse a respirare.
Sul portico, seduto su una sedia a rotelle, che si
riparava con una mano la luce dal viso, c’era, vivo e vegeto, il loro fratello.
Donatello.
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Capitolo 7 *** Non perdere la speranza ***
7 Non perdere la speranza
“I wanna
let go of the pain I’ve felt so long”
Linkin
Park, Somewhere I Belong
Improvvisamente, Raffaello sentì di essere troppo
pesante per le proprie gambe e spostò meglio il peso sui piedi malconci per non
cadere a terra.
Aprì la bocca ed ingoiò avidamente l’aria. Una forte
vertigine lo avvolse e la realtà divenne qualcosa di vago e distante. Una
sensazione intensa avviluppò ogni altra percezione; era felicità, o turbamento,
o entrambi. O paura. Paura che questo potesse essere solo un frutto della sua
mente, paura di essere alla fine impazzito.
Davanti ai suoi occhi, a pochi passi da lui, sopra
il portico della fattoria O’Neil, c’era Donatello.
Suo fratello. Suo fratello Donatello.
Donnie.
Che era morto da mesi. Del quale aveva visto il
guscio vuoto ed insanguinato.
Non poteva essere vero. Non poteva. Non c’era una
spiegazione logica a ciò che i suoi sensi stavano cercando di persuaderlo.
Come in un sogno, annebbiato e distorto, vide
Michelangelo, accanto a lui, iniziare a correre verso il portico, salire le
scale, traballante, urlare i nome del fratello, Donnie, e gettarsi in ginocchio ad abbracciare con l’unico arto il mutante
sulla sedia. Vide i propri piedi farsi forza contro il terreno, sentì il suo
corpo vacillare dei passi incerti e farsi avanti, mentre il suo cuore batteva
talmente forte da sbattere contro il piastrone. Salì i gradini del portico, percependo
come in una nebbia la presenza di umani intorno a lui, che lo guardavano; ma
stranamente, al momento, non gli importava.
Poi, senza quasi rendersene conto, si inginocchiò
anche lui, perso a contemplare il volto verde che aveva davanti, noto eppur
diverso, senza maschera, smunto e segnato, che stringeva forte gli occhi abbracciando
al petto la testa di Michelangelo.
Quindi, gli occhi nel volto verde si aprirono e si
fissarono nei suoi. Uno era estraneo, bianco ed opaco, con la pupilla quasi
invisibile sotto una brina lattiginosa. Ma l’altro era l’occhio nocciola e
ciliegia, vispo ed intelligente, di suo fratello.
In quel momento Raffaello avvertì che qualcosa
dentro di lui si ruppe. Fu invaso da una gioia talmente intensa da fargli male.
Smise di chiedersi perché e come, e semplicemente si lasciò invadere dalla
marea, che distrusse la diga e allagò il cuore. Si gettò contro il piastrone
del fratello e lo strinse, forte, avvolgendo lui e Michelangelo in un unico
abbraccio.
Una paio di singhiozzi salirono alla gola, alcune
lacrime sfuggirono agli occhi, ma non gliene poteva importare di meno. Ogni
altra emozione che non fosse la sensazione di suo fratello stretto fa lui fu
annichilita e dispersa in polvere. Era circondato da umani, era assolutamente
ignaro di quello che stesse succedendo o che fosse successo, ma neanche di
questo gliene fregava niente.
Questo era Donnie, era suo fratello, ed era vivo.
Era vivo!
Michelangelo piangeva come un bambino, accanto a
lui; Raffaello strinse più forte l’abbraccio. Una parte del suo cuore gli
diceva che mancava ancora qualcosa, qualcuno, una scheggia dolorosa s’insinuava
sotto questo momento perfetto, ma al momento decise di non pensarci. Era troppo
stordito.
Dopo qualche minuto, o una vita intera, Raffaello
si staccò dall’abbraccio, e l’unica cosa che riuscì a dire fu il nome di suo
fratello, mormorato come una domanda stupida.
“Donnie…?”
Donatello annuì, sorridendo, la gioia presente
chiaramente anche sul suo volto sfigurato, guardò a turno i due fratelli che si
rialzavano in piedi, e trasalì fissando il moncherino di Michelangelo.
“Mikey, il tuo…”
“Nah, non è niente, era solo uno stupido braccio,
ne ho un altro” scherzò l’arancione, pulendosi lacrime e moccio dal viso col
dorso della mano polverosa e sorridendo. “Cosa ti è successo?” chiese a sua
volta, più serio, indicando la sedia con un cenno della testa.
Donatello distolse lo sguardo.
“È una lunga storia.”
Rialzò il volto verso Michelangelo e Raffaello, e guardò
intorno e dietro di loro.
“Dov’è Leo?”
La felicità si infranse come un vetro e cadde a
pezzi.
Michelangelo abbassò gli occhi; Raffaello sospirò. Il
volto di Donatello si oscurò.
“Non lo sappiamo.” Il rosso si squadrò intorno,
improvvisamente scomodo in mezzo a tutti questi umani. Aveva capito che non
rappresentavano una minaccia, ma neanche l’adulto più forte poteva mai
lasciarsi alle spalle un terrore instillato nell’infanzia: per una piccola
parte di lui, gli umani sarebbero sempre stati il nemico, il pericolo, il
mostro rapisci e seziona bambini. Rivolse un’occhiata nervosa all’uomo che
imbracciava il mitra, a pochi passi da lui.
“Tranquillo, Raph. Sono tutti dalla nostra parte” disse
il mutante una volta mascherato in viola, notando il disagio del fratello. “Abbiamo
tanto da raccontare. Entriamo.”
Alzò lo sguardo alla ragazza che guidava la sua
sedia.
“Amelie, ti dispiace…”
La ragazza annuì con un sorriso e girando la
carrozzella riportò all’interno della casa il mutante. I due fratelli lo
seguirono, guardandosi intorno. La bambina più piccola, quella che aveva
parlato nel bosco, si mise accanto a Michelangelo. Lui le rivolse un sorriso; la
bambina abbassò la testa, intimidita.
Naturalmente anche a Michelangelo sembrava strano
essere circondato da tanti umani. Sentiva come fastidiose punture d’insetto tutti
quegli occhi puntati su di lui, mentre seguiva la ragazza che stava spingendo
la carrozzina di suo fratello. Deglutì a disagio e cercò con lo sguardo
Raffaello.
Il rosso gli fece appena un piccolo cenno, poi squadrò
in modo poco amichevole l’uomo che li seguiva, indugiando con lo sguardo sull’arma
che teneva appesa in spalla.
“Chi sono queste persone, Donnie?” bofonchiò
infastidito. In fondo, si aspettava che rispondesse qualcun altro – egli
l’avrebbe fatto, se qualcuno avesse parlato di lui come se non fosse presente –
invece tutti si stesero zitti, gli umani nello stretto corridoio che stavano
percorrendo, quelli che vedeva spuntare dalle stanze. Quanta gente c’era, in
questa casa? Ne stava contando adesso diverse decine.
Rispose Donatello. “Sono la Resistenza.”
La ragazza si era fermata ed un ragazzino stava
aprendo la botola che portava al piano inferiore. Uno degli uomini, molto alto
e robusto, si chinò verso Donatello e, afferrandolo da sotto le braccia, lo
strinse intorno al guscio.
“Siamo la
Resistenza” aggiunse la tartaruga, cingendo a sua volta dietro il collo l’uomo
che lo issò in braccio.
Raffaello si bloccò, irrigidito, alla scena. Fece
per lanciarsi a prendere lui il fratello, quasi inorridito che un estraneo lo
toccasse, osasse sollevarlo, ma Michelangelo lo fermò, poggiandogli piano una
mano sulla spalla.
“Seguitemi” ordinò ancora Donatello, mentre
scendeva le scale in braccio all’umano. Raffaello e Michelangelo si scambiarono
un’altra occhiata, poi si incamminarono nella botola.
Raffaello scese per primo, subito dopo l’uomo che
sorreggeva Donatello. Il rosso si sostenne dal corrimano: sotto il suo peso, i
vecchi gradini di legno scricchiolavano; la ferita di proiettile pungeva ad
ogni appoggio, ma il mutante era troppo frastornato da quel che vedeva intorno
a lui per farci caso.
Conosceva bene lo scantinato di questa vecchia casa
di April: insieme ai suoi amici umani ed i suoi fratelli aveva scoperto, ormai
più di cinque anni prima, l’astronave Kraang che si nascondeva al suo interno,
semi interrata sotto le fondamenta stessa della fattoria. Ma ai suoi occhi si
apriva adesso un ambiente completamente diverso da quello che ricordava. Parte
dell’astronave era stata rimossa, e due serie di rudimentali scale di legno
portavano giù nella struttura del velivolo alieno. Due serie di scale ed una
rampa fatta di tavole, per l’esattezza.
Lo scantinato stesso era ora molto più grande. Luci
artificiali illuminavano le mura in cemento e le travi di puntello in legno. Tutta
una serie di corridoi si aprivano a raggiera dalla grande stanza sotterranea;
le pareti erano costellate di schermi e consolle, di diversi stili e più o meno
nuovi, e cablaggi ed apparecchiature elettroniche si snodavano dappertutto.
E poi, c’erano gli umani. Altri umani. Uomini e
donne, di tutte le età. Seduti ai tavoli, intorno alle apparecchiature
elettroniche. In piedi, vicino ad una cartina luminosa. Ai computer ed alle
consolle. Che smontavano e pulivano delle armi. Almeno una trentina di persone,
in un brulicare affaccendato, che si girarono tutti a squadrare curiosi i nuovi
arrivati. Altri entravano da uno dei corridoi, trasportando dei fucili. Una
ragazzina portava da un piccolo tunnel un avvolgimento di cavi.
L’uomo che teneva in braccio Donatello si abbassò e
depositò il mutante su una sedia in fondo alle scale che avevano disceso.
Donatello ci si sistemò ed iniziò a muovere la sedia digitando su dei comandi nel
pannello di controllo del bracciolo. A differenza della sedia a rotelle che
avevano visto al piano superiore, che era una vecchia sedia pieghevole come
quelle che si vedono negli ospedali, questa era qualcosa di decisamente
diverso. Era costruita con pezzi di recupero, a partire anch’essa da una
carrozzella umana ; ma aveva uno schienale incurvato, ad ospitare comodamente
il guscio convesso, e l’intera struttura era accessoriata da gadget elettronici
e spie luminose.
Donatello fece un cenno all’uomo che lo aveva
portato giù, il quale ricambiò abbassando la testa quasi in un saluto reverente
e si allontanò con gli altri umani armati, mentre il mutante in carrozzina fece
strada ai suoi fratelli verso una piccola stanza in uno dei corridori laterali.
Scostò la tenda pesante e logora ed entrò nella
stanza, illuminata dalla luminescenza di decine di monitor. Molti inquadravano
l’esterno della casa; altri mostravano visuali di vari centri abitati non
facilmente identificabili; altri ancora presentavano coordinate geografiche,
diagrammi e finestre di applicazioni varie. Il risultato era una luce
tremolante e violacea, che si sommava a quella altrettanto fredda della lampada
a neon appesa al soffitto di assi di legno.
Raffaello scostò anche lui la tenda ed entrò
seguito a sua volta da Michelangelo, che si squadrava ancora intorno quasi
intontito. Si sedette in una delle sedie posizionate accanto ad una specie di
tavolo ricoperto di fogli e cartine, formato da due cavalletti di ferro
sormontati da assi di legno; Donatello con la propria sedia a rotelle si era
posizionato dall’altra parte del tavolo. Il mutante in rosso, appena seduto,
placata un po’ l’euforia per la nuova situazione, avvertì nuovamente tutta la propria
stanchezza; sapeva che adesso sarebbe toccato a lui il penoso compito di
raccontare al fratello cosa ne fosse stato del resto della loro famiglia.
Infatti, appena anche Michelangelo si sedette, Donatello
senza preamboli chiese subito come fossero arrivati lì e perché fossero solo in
due; Raffaello prese un profondo respiro, chiuse un attimo gli occhi, si concesse
appena un paio di momenti di silenzio per riordinare i ricordi che avrebbe
voluto cancellare via per sempre, quindi iniziò a raccontare dei terribili
primi giorni dopo la cattura dello stesso Donatello, della sua ricerca,
dell’assalto al luogo di detenzione e della morte del loro sensei. La tartaruga
mutante sulla sedia a rotelle ascoltò il racconto annuendo piano, come in
automatico.
“Sì, sapevo di Splinter. Alcuni dei miei uomini
facevano parte delle milizie di Shredder.”
“I tuoi
uomini? Gli umani che sono qui?”
“Poi ti spiego. Continua.”
Michelangelo seguiva in silenzio, con lo sguardo
fisso sul tavolo, perso nei propri pensieri; aveva il respiro un po’
accelerato, gli occhi un po’ troppo brillanti, che riflettevano lucidi i
minuscoli riflessi dei monitor. Il viso di Donatello era una statua di marmo,
ma nell’occhio nocciola le emozioni guizzavano evidenti. Quando Raffaello gli
raccontò del sacrificio di Leonardo, il dolore infiammò l’iride di un tremore
umido, ma l’espressione si mantenne forzatamente calma e stoica, e non una
parola accompagnò la dolorosa comprensione.
“Alla fine abbiamo incontrato questi ragazzini, che
ci hanno portato da te. Dio, Donnie… Eravamo convinti che fossi morto. Shredder
ha fatto esporre un guscio… il tuo guscio! Era uguale al tuo, ed era… insomma…”
Raffaello si passò una mano sul viso.
“Il… guscio?” Michelangelo inorridito spalancò gli
occhi, in realizzazione.
Donatello annuì ancora un paio di volte, infine
parlò.
“Certo. Adesso capisco. Mi hanno preso il calco, un
giorno.”
“Ma perché?”
Donatello sorrise senza allegria. Senza pensarci,
tracciò con un dito la linea tra le piastre superiori del suo piastrone, poi
prese ad accarezzarsi una frastagliata cicatrice sul bordo superiore.
“Penso che Shredder voleva che voi la smetteste di
cercarmi. Quando iniziai a lavorare per lui mi trasferirono dalla prigione ad
un centro di ricerca. Lì le misure di sicurezza erano inferiori, non c’erano
che pochi uomini di guardia ad ogni piano. E non dimentichiamo che stiamo
parlando di un bastardo sadico, che probabilmente godeva nel sapere che vi
stava facendo cadere a pezzi.”
“Noi… Oh, maledetto.” Raffaello sbatté un pugno
contro il tavolo, e poi guardò Michelangelo,con i suoi occhi azzurri dolorosi nel ricordo; la
sofferenza che Shredder gli aveva crudelmente donato negli ultimi mesi li aveva
sì sfiancati, nel corpo e nello spirito.
Il silenzio seguì greve e opprimente. Sotto le
forti luci artificiali, Michelangelo poté squadrare bene i segni impressi sul
corpo del fratello.
Donatello era completamente privo di maschera e
protezioni; portava solo una cintura con delle tasche in vita, contenente
gadget vari. Tutto il corpo, magro e nodoso, era segnato da cicatrici più o
meno visibili. Segni indelebili di vecchi tagli ed ustioni macchiavano ogni
centimetro della sue pelle; alcune cicatrici più profonde, biancastre ed in
rilievo, correvano sulle braccia, sulle spalle, ai lati del viso. Pezzetti del suo
carapace, ai bordi, erano saltati via: guscio e piastrone erano rigati e
frastagliati. La falange di un dito mancava. Un occhio era lattiginoso e opaco,
chiaramente cieco, rosso di capillari agli angoli e con la pupilla quasi di un
azzurro diafano. Dalla caruncola, la cicatrice di una goccia di acido correva
lungo il viso fino al bordo della mascella, trascinandosi un po’ in rilievo
sulla pelle come la scia bianca e lucida di una lacrima. Michelangelo
involontariamente si portò lui stesso la mano a toccare la propria palpebra e
deglutì.
“Cosa ti hanno fatto?” chiese con la voce rotta.
“Beh, penso che hai capito cosa mi abbiano fatto,
Mikey” rispose laconicamente Donatello sollevando un lato della bocca nella triste
parodia di un sorriso.
Raffaello strinse i denti fino a sentirli
scricchiolare.
“Per quanto… Per quanto tempo?” ringhiò.
“Non tantissimo, in realtà. Solo due settimane, o
tre. Sai, in certe situazioni non è facile tener conto del tempo.” Emise una
breve e secca risata nervosa, bassa e sgradevole.
“Dopo i primi giorni, ho risposto a tutto quello
che volevano sapere; ma in verità, dal momento che avevate lasciato il covo,
non c’era più niente di utile che potessi dirgli. Mi hanno perfino chiesto cosa
mangiavamo a colazione, o che programmi guardavamo in tv, o se avevamo un bagno
funzionante. A volte, anche se rispondevo subito, mi torturavano lo stesso. A
volte mi torturavano e non mi chiedevano niente.”
Lo sguardo si perse nel vuoto, la voce si fece
meccanica.
“Alla fine, ho capito che non ero più di nessuna
utilità per Shredder ed i suoi uomini. Mi avrebbero ucciso. Voi non mi avevate
trovato, ed era solo una questione di tempo prima che si fossero stancati di me.
Ho cercato quindi un modo per vivere.”
Il tono calmo, freddo e distaccato di Donatello
fece quasi accapponare la pelle ai suoi fratelli. La luce livida che si
diffondeva nella stanza rendeva tutto gelido, asettico, quasi irreale. Ai
fratelli che ascoltavano col respiro accelerato, il cuore in gola, lo stomaco
stretto dall’angoscia, era stato almeno risparmiato ciò che Donatello aveva
omesso dal suo racconto, vale a dire la seconda opzione che aveva preso a volte
in considerazione, durante la sua orribile prigionia, quella che non aveva mai
potuto mettere in pratica, semplicemente perché i suoi carnefici erano stati
abbastanza accorti da non lasciare nelle sue vicinanze niente con cui avesse
potuto suicidarsi.
“Sapevo che mi stavano filmando e mi sono rivolto
direttamente a Shredder, indovinando che la mia sofferenza fosse uno spettacolo
a suo beneficio. Ho enumerato le mie conoscenze scientifiche. Ho cercato di
convincerlo che uccidere una mente come la mia sarebbe stato un grosso errore.
Ho giurato di servirlo, se mi avesse lasciato in vita. Mentre ero incatenato,
ho elencato ad alta voce delle formule per nuovi supermateriali e tutte le
stringhe per implementare il suo sistema di difesa. Gli ho descritto decine di
modi con cui avrebbe potuto migliorare il suo esercito ed ottimizzare la sua
organizzazione militare.
“Ho parlato, e parlato, in continuazione. Nessuno è
venuto da me, in quei due giorni, ed ho capito che il mio piano stava funzionando.
“Alla fine, Shredder stesso è entrato nella mia
cella. Mi disse che finché l’avessi servito e gli fossi stato utile, mi avrebbe
lasciato in vita. Appena se ne andò, fui liberato dalle catene e trascinato in
un’infermeria, dove venni medicato e nutrito.”
Si fermò un attimo ed abbassò lo sguardo alla
sedia; accarezzò piano il bordo di ferro della ruota. Quando rincontrò lo
sguardo di Michelangelo, si accorse che questi lo stava scrutando, apprensivo.
Il mutante più giovane mostrava chiaramente sul
viso il suo dispiacere e raccapriccio, sembrava che stesse lottando per
trattenere le lacrime; fissò le ginocchia magre del fratello.
“Cos’hai alle gambe? - mormorò in un soffio, allo
stesso tempo spaventato ed obbligato a chiedere. - Sei paraliz-”
“Non sono paralizzato - lo fermò Donatello. - Vedi?” aggiunse muovendo un po’ i piedi sul
supporto di ferro della sedia.
“Mi hanno reciso i nervi delle gambe, per evitare
che scappassi.” Rialzò lo sguardo ai fratelli. L’occhio nocciola fremeva di
risoluzione. “Come se questo avesse potuto fermarmi” concluse, a voce bassa, quasi
parlando a sé stesso, arricciando appena il lato della bocca in un’espressione
allo stesso tempo dolorosa ed orgogliosa.
Raffaello si sentiva ribollire di rabbia. Avrebbe fatto
di tutto per avere Shredder tra le sue mani, lì, in quell’istante. Dovette
ricorrere alle tecniche che gli aveva insegnato suo padre per calmare il
respiro, che stava crescendo quasi ad un ansimare furioso. Il pensiero che
avessero menomato suo fratello per sempre, che lo avessero privato della
facoltà di poter essere un ninja, per il quale si era allenato fin da bambino,
lo riempiva di un senso d’ingiustizia talmente feroce da procurargli la nausea.
Poi, quasi cinicamente, si ritrovò a pensare che se fosse capitato a lui,
ebbene sì che sarebbe stato per il resto della vita un essere completamente
inutile; a Donnie, invece, restava sempre la sua mente eccezionale.
“Come hai fatto a scappare?” gli chiese.
Donatello strinse la mano che aveva portato al
viso, stropicciandosi un po’ la bocca; con l’altra, fece un gesto vago verso
l’ambiente circostante.
“Diciamo che mi sono fatto… degli alleati. Ma parleremo
di questo un'altra volta.”
Sbatté la mani contro i braccioli della sedia e
iniziò ad allontanarsi dal tavolo, a sancire la fine della conversazione.
“Prima voglio dare un’occhiata alle vostre ferite.”
Guardò Michelangelo, nei suo grandi occhi azzurri, stanchi e cerchiati, e gli
regalò l’abbozzo di un sorriso. “Poi dovete riposarvi e rifocillarvi. Avremo
tempo per parlare.”
Alle parole del fratello Michelangelo si rese conto
di quanto debole e dolorante fosse ancora: improvvisamente l’idea di un pasto
caldo e di un vero letto gli apparve davanti luminosa e magnifica.
…
I primi colori autunnali iniziavano a fare capolino
tra il verde intenso delle foglie. La foresta si stagliava intorno alla casa
colonica, l’avvolgeva come in un abbraccio.
Era bello,
qui.
A Michelangelo piaceva molto. Era stranamente
calmante restare ad ammirare il fitto tappeto verde degli alberi, che saliva ad
adagiarsi piano sulle montagne lì in fondo. Era piacevole gustare l’odore buono
e fresco della vegetazione, ascoltare i trilli e le melodie degli uccelli, i
loro richiami reciproci che si intrecciavano e sfumavano tra i rami.
Riusciva a sentirsi un poco meglio, ad allontanare
i pensieri dolorosi dai quali cercava di sfuggire da una vita, qui, da solo, appoggiato
al parapetto di legno del portico. Aveva ormai imparato ad appoggiarsi con una
mano sola, bastava stare più dritti, ed allargare le gambe un po’; ormai, non
gli mancava quasi più non potersi sostenere con i gomiti. Ci si era abituato.
Alzò il viso al cielo. Ieri aveva piovuto ancora,
ma oggi era tornato il sereno. L’azzurro luminoso era ammantato di tante nuvole
candide. Diverse tonalità di un bianco brillante si allungavano e striavano
l’etere, volteggiavano e si ammassavano in forme fantastiche. Sarebbe potuto
restare qui ore ed ore, semplicemente a guardare le nuvole. Sorrise, al
pensiero. Solo un paio di anni prima, l’idea stessa di stare fermo per più di cinque
minuti da qualche parte gli sarebbe sembrata una tortura; adesso, si sarebbe
potuto perdere in quelle nuvole per sempre, a guardare le forme mutevoli farsi
e disfarsi in mille figure. Come quella grande, lì in alto, candore soffice,
che si plasmava nel vento nella vaga forma di un animale ruggente.
Quando Donatello lo raggiunse sul portico,
Michelangelo guardava ancora in su, la fascia arancione luminosa sopra le sue
lentiggini sfacciate, che si ostinavano a restare su un viso in cui le guance
paffute dell’infanzia stavano ormai lasciato il posto ai lineamenti duri
dell’età adulta. La nuvola adesso assomigliava ad un enorme drago, come quelli
che abbellivano la copertina di un libro di leggende giapponesi che Splinter
aveva letto loro tanti anni fa.
“Siamo al sicuro, in questo posto?”
Donatello spinse avanti la sedia, girando con le
mani le grandi ruote di ferro. Alzò anche lui lo sguardo al cielo.
“Sì, abbastanza al sicuro. Quando ho ricalibrato il
sistema satellitare per Shredder ho creato dei buchi nella griglia: noi ci
siamo dentro. Ancora non si sono accorti di questa mia modifica.”
L’arancione annuì. Le ali del drago si stavano assottigliando
e sfaldando al vento.
Il fratello gli si avvicinò ancora, le ruote della
carrozzella adesso a sfiorargli le gambe. Michelangelo si irrigidì. Erano ormai
trascorsi tre giorni dal loro arrivo alla fattoria, ma il senso di irrealtà che
l’aveva avvolto non si era ancora del tutto dissipato. Suo fratello era lì, con
lui. Lo aveva creduto morto, aveva pianto per mesi, aveva prosciugato il suo
cuore nel dolore, aveva convinto tutto il suo animo a tirare avanti, a non
lasciarsi andare, ed adesso l’idea che Donatello fosse ancora vivo lo stordiva
come una lieve ebbrezza. Donatello era
vivo. Aveva passato delle sofferenze indicibili ed adesso coordinava la prima
cellula della Resistenza nel Nord America, a capo di un gruppo di umani che lo
consideravano il loro leader.
Non era più solo un doloroso ricordo, ma era carne,
sangue e guscio.
Era lì, con lui, accanto a lui.
Beh, tecnicamente, più giù, rispetto a lui.
Michelangelo si chiese se avesse dovuto sedersi per terra, per non sovrastarlo,
restando in piedi. Ma facendo così, non l’avrebbe messo ancora di più in
imbarazzo? D’un tratto si rese conto, con sgomento, di non sapere come
comportarsi.
Per la prima volta in vita sua, si sentiva a
disagio accanto a suo fratello.
Suo
fratello… Si stupì al pensiero di dover
ricordare al suo cuore che questo accanto a lui era il fratello con cui era
cresciuto, con cui aveva dormito abbracciato sul tappeto da bambino, giocato
ore ai videogiochi, mangiato nello stesso piatto. Si chiese, vergognandosene al
contempo, quanto nel mutante al suo fianco fosse rimasto di suo fratello,
quanto del suo animo gentile in quello sguardo freddo e sicuro di sé, in
quell’espressione severa e dolorosa che gli induriva i lineamenti deturpati
dalle cicatrici. Se nell’occhio nocciola e rubino restava l’impronta di un
acume e di un’intelligenza fuori dal comune, non vi era più traccia,
Michelangelo l’aveva notato bene, della gioiosa curiosità intellettuale che
aveva sempre distinto suo fratello. Nei giorni passati, la tartaruga in arancio
si era trovato via via più impacciato davanti a questo Donatello che impartiva
ordini, parlava calmo e deciso, con distaccata cordialità, e non lasciava
trasparire la minima emozione.
A questo efficiente robot che indossava le fattezze
del fratello, Michelangelo stranamente non sapeva che dire.
“Come va il braccio?” Fu Donatello allora a rompere
il pesante silenzio.
L’arancione si guardò il moncherino, ancora
fasciato, e lo mosse ruotandolo leggermente.
“Uh… bene. Sempre meglio, ormai. Grazie, Don…
atello.”
Se Donatello si accorse del fatto che il fratello,
che si era sempre rivolto a lui col suo nomignolo infantile o chiamandolo
semplicemente “D”, avesse sentito il bisogno di completare il suo nome, non lo
diede a vedere.
Entrambi tornarono a guardare il cielo. Del drago
ormai restava solo una forma distorta.
Il vento lo stava cambiando in qualcos’altro.
Michelangelo si ritrovò a chiedersi se anche nella
sua vita, come il drago di nuvola, non dovesse ormai rassegnarsi a seguire il
vento, adeguarsi ai cambiamenti, cercare di non perdere la speranza nel futuro
pur sapendo che non sarebbe mai più stato paragonabile al passato. Accettare di
non poter mai più fare quello che faceva prima, sia spianare la pizza o giocare
a flipper o arrampicarsi sui muri. Amare i suoi fratelli per quello che erano
diventati, abituarsi alla zoppia di Raph e alle gravi menomazioni di Donnie,
soprattutto a quelle del suo animo. Rassegnarsi al soffocante senso di
incompletezza che lo tormentava poiché, appena trovato un fratello, la mancanza
di quello che era ancora assente si faceva sentire ogni giorno più forte.
Michelangelo sospirò. Adesso nell’aria si poteva
sentire anche un lontano gracidare di rane.
Il silenzio che scese nuovamente tra i fratelli era
solo l’ombra distorta del silenzio amico che unisce le anime vicine, che
riescono a stare bene senza bisogno di parlare. Non era il silenzio che scaldava
il cuore, quando Michelangelo andava da suo fratello in laboratorio, da
ragazzi, e dopo averlo infastidito un po’, dopo aver scherzato un po’, ed aver
detto magari alla fine pure qualcosa di serio, sapeva restare fermo a guardarlo
lavorare, senza dire niente. Almeno cinque minuti.
No, questo era ormai il silenzio di chi non trovava
più niente da dire, perché ricordare sarebbe stato doloroso, programmare era
diventato un lavoro, commentare aveva perso la sua piacevolezza, dopo tanti
mesi di ricordi e momenti non condivisi. Un silenzio pieno di sensi di colpa, pensando
a quante volte avrebbe voluto parlare a questo fratello e credeva di non
poterlo fare mai più.
Il silenzio adulto di chi adesso non pensava ad
altro che a prepararsi alla battaglia.
La porta cigolò, aprendosi. La bambina più piccola
del gruppo di umani si presentò sul portico.
“Signor Wheel, signor Michelangelo! Il signor
Raffaello vi sta cercando.”
Donatello si girò a guardarla e le sorrise. La
bambina era alla sua stessa altezza.
“Sì, Georgine? Perché?”
“Non lo so. È con i grandi. Ha urlato ‘Dove diavolo
sono quei due deficienti -’”
“Ho capito, ho capito, cara. Arriviamo.” Donatello
si lasciò sfuggire un sorriso divertito. Uno dei rari sorrisi che Michelangelo avesse
visto sul volto del suo fratello ritrovato; a vederlo così, il mutante con un
braccio solo pensò che in fondo, forse, qualcosa di suo fratello fosse rimasto
in quel sorriso, e non fosse solo il diastema.
La bambina annuì compiaciuta, con l’aria fiera di
chi aveva compiuto una grande missione. Aveva portato un messaggio a Wheel! Poi
si piegò verso la tartaruga, con fare cospiratorio.
“E ha detto un sacco di parolacce” bisbigliò.
Michelangelo si mise a ridere, mentre spingeva
dentro la sedia del fratello.
Georgine stava rientrando anche lei, quando alzò
gli occhi al cielo. Vide le sagome bianche contro l’azzurro luminoso. Candido
di fulgida luce c’era anche un grande… drago? No, no, era… era una tartaruga!
Una tartaruga mutante, come il signor Wheel ed i suoi fratelli! Aveva delle ali?
O erano delle spade?
La bambina sorrise. I suoi occhi castani
riflettevano le nuvole.
Più avanti, molti anni nel futuro, le tartarughe
mutanti non le sarebbero sembrate così strane. E lei sarebbe stata fiera di
essere stata lì, con loro, fin dall’inizio. Di aver vissuto con loro, dormito
sotto lo stesso tetto. Di aver guardato quello mascherato in rosso allenarsi
con le sue armi appuntite contro un fantoccio di paglia appeso nel granaio. Di
aver sbirciato quello mascherato in arancio mentre imparava ad usare le armi da
fuoco, fino a diventare uno dei miglior tiratori della Resistenza; di aver
sentito le sue barzellette, raccontate intorno al fuoco ai fuggiaschi spaventati
per strappar loro un sorriso, una risata.
Di aver ascoltato le indicazioni, gli ordini del
loro capo, Wheel, la tartaruga sulla
sedia a rotelle.
Sì, Georgine non lo sapeva ancora, di quanto
sarebbe stata grata, come il resto dell’umanità, a questi mutanti che un giorno
avrebbero sconfitto Shredder, lottando contro l’oppressione, per tutto quel che
restava di buono nel mondo; tre eroi mutanti che l’umanità non avrebbe mai più
dimenticato. Ed avrebbe raccontato ai suoi figli la loro storia, e la storia,
che col tempo era diventata leggenda, della quarta tartaruga, la tartaruga mascherata
di blu, che si era sacrificata in giovane età per proteggere i suoi fratelli; l’eroe
che era scomparso, per sempre, nella luce dell’alba.
Sì, avrebbe raccontato tutto questo. Avrebbe
raccontato loro di quei giorni bui e gloriosi, della Resistenza, della loro battaglia
per la vittoria e della loro ritrovata libertà.
Ma questa è un’altra storia.
N/A Signori viaggiatori, siamo
atterrati.
Grazie
per aver scelto ancora una volta la LaraPink airlines!
Spero
che il volo sia stato di vostro gradimento. La pilota al solito si è divertita
un sacco, a volteggiare tra le nuvole… Bella quella, a forma di tartaruga…
Bene.
Doveva essere una piccola storia ed invece è venuto fuori il mio terzo racconto
più lungo sulle Turtles. Forse la mia storia più triste, con tanto di finale
agrodolce. Mi auguro che vi sia piaciuta *si rosicchia le unghie* Sempre pronta
a giudizi e critiche per migliorarmi il più possibile :)
Ringrazio
ancora una volta la gente stupenda che bazzica questo piccolo grande fandom. Un
abbraccio grande grandissimo a _Abyss_
, NightWatcher96 e piwy per le loro parole <3
Un
ringraziamento speciale alle mie Cartoonkeeper
e Quisquilia Radioattiva che ormai
fanno parte anche della mia “vita vera” in maniera più forte di quanto avessi
mai potuto immaginare.
Queste
sono solo storie… Ma se ci mettiamo cuore, passione e quel poco di tempo libero
che riusciamo a lesinare, diventano un posto speciale, tutto nostro.
Anche
se con qualche giorno di ritardo, auguro a tutti un 2016 più tartarugoso che
mai. A presto!
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