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di eliseCS
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO - And then you've seen me ***
Capitolo 2: *** 1. Serendipity ***



Capitolo 1
*** PROLOGO - And then you've seen me ***


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(© elyxyz)

 
 
Il fantasma (dal greco φάντασμα, phàntasma, "apparizione"), chiamato anche spettro, è un’entità delle leggende e del folclore al quale ci si riferisce come una presenza incorporea.
Un fantasma è lo spirito di una persona deceduta che per qualche motivo non è stato in grado di passare oltre.
 
 
Si dice che fondamentalmente i fantasmi non sono né buoni né cattivi: il loro comportamento rispecchia semplicemente quello  che avevano quando erano in vita.
Si dice che all’inizio per un fantasma è normale essere confuso e disorientato prima di rendersi conto di essere morto.
Si dice che in alcuni casi il fantasma potrebbe addirittura essere così disorientato da pensare di essere ancora vivo e continuare così la routine della propria vita, ignaro della propria morte.
 
Si dice che i fantasmi possiedano alcuni poteri:
-teletrasporto = capacità di muoversi da un posto ad un altro in pochi secondi. Parrebbe che alcuni fantasmi siano in grado di portare con loro anche oggetti.
-telecinesi = capacità di muoversi virtualmente qualcosa con la forza della mente se si riesce a prestare abbastanza concentrazione sull’oggetto in questione.
-forza (maggiore) = i fantasmi sono più forti degli esseri umani. Questo potere può essere visto come un “prolungamento” dell’abilità telecinetica.
-invisibilità = i fantasmi sono generalmente invisibili ai vivi: mostrarsi è severamente vietato ma comunque non impossibile. Le leggende narrano però di persone speciali in grado di vedere i fantasmi anche se questi non si sono mostrati volontariamente.
-intangibilità = i fantasmi possono toccare qualsiasi oggetto inanimato, ma possono anche passarci attraverso a loro discrezione. Al contrario, invece, non si è mai sentito di un fantasma toccato da un vivo: in questo caso ci passerà sempre attraverso.
-ultimo ma non meno importante e sicuramente molto particolare, è il potere di riportare gli oggetti rotti, rovinati e invecchiati dal tempo al loro stato originario…
 
 
 
…o almeno, questo è quello che si dice
 

 
 
 
 

 
 
 
 
PROLOGO – And then you’ve seen me
 
 
 
Il rombo sordo di un tuono lo riscosse dai suoi pensieri: un bel temporale era pronto a rovesciarsi su quella piccola e isolata cittadina.
 
Quando era morto, una trentina di anni prima, all’età di diciotto anni, Daniel era fermamente convito che fantasmi e similari semplicemente non esistessero, figuriamoci pensare di diventare uno di essi.
Quando poi aveva finalmente accettato la sua nuova condizione, gli era stato spiegato che, proprio come alcune persone credevano, dopo la morte si diventava fantasmi se si erano lasciate delle faccende in sospeso, e per anni era rimasto fermamente convinto di non averne alcuna, nonostante i suoi amici, fantasmi anche loro, ovviamente, insistessero nel dire che qualcosa doveva pur esserci.
Si stava annoiando terribilmente: gli umani non potevano né vederlo né sentirlo (a meno che lui non avesse avuto l’intenzione di mostrarsi, ma era espressamente proibito) e non potevano nemmeno essere toccati: gli sarebbe semplicemente passato attraverso.
Le uniche cose con cui poteva interagire erano gli oggetti inanimati, ma per ovvie ragioni non poteva farlo davanti a nessun vivente, e così non c’era gusto.
 
Come sempre quando si annoiava era finito a ripensare di nuovo alla sua morte, e in quel momento gli era venuta l’idea, idea che aveva preso definitivamente forma nel momento in cui era tornato nel luogo della sua morte.
 
 
Gli altri fantasmi lo chiamavano “il Guardiano”, in quanto quel fantasma era colui che si occupava del passaggio dei vari spiriti dal mondo dei vivi a quello dei morti decidendo chi poteva “andare avanti” e chi invece no.
Lo aveva già incontrato - se vedere di sfuggita il suo profilo sfocato poteva essere considerato tale - appena dopo la sua morte, e lo aveva supplicato di lasciarlo andare oltre, ma non era stato accontentato.
Quella volta però la sua richiesta era stata diversa: se non poteva andare avanti lui, allora voleva che una persona in particolare venisse fatta tornare indietro.
Sapeva, da racconti bisbigliata e segreti sussurrati, che il Guardiano poteva fare anche quello, e che in passato lo aveva già fatto.
Perché non farlo di nuovo? Aveva pensato Daniel.
All’inizio il Guardiano non era stato molto contento della sua richiesta: diceva che se quella persona non era diventata un fantasma mentre lui sì un motivo c’era, che lui aveva le sue buone ragioni e che non avrebbe accolto la sua richiesta.
Dopo svariati tentativi Daniel era però riuscito a ottenere di sapere almeno cosa fosse necessario per il rito, e il suo entusiasmo si era improvvisamente spento: avrebbe dovuto trovare una persona, un vivente, capace di vederlo senza che lui si fosse manifestato volontariamente.
In un vivente tale capacità corrispondeva ad un grande potere, che il Guardiano avrebbe poi potuto usare per fare quello che Daniel gli aveva chiesto.
Ma una qualità simile era più unica che rara.
In decenni di ricerche non era riuscito a trovare nessuno che dimostrasse di avere un potere simile, nessuno che avrebbe potuto aiutarlo.
Ed era per quel motivo che, sconsolato, era tornato nel luogo in cui tutto aveva avuto inizio: avrebbe accettato la sua condizione, con rassegnazione, ma l’avrebbe fatto.
 
Sorrise tristemente guardandosi intorno al pensiero di quanto la sua città fosse cambiata da com’era una volta: di certo non quanto le grandi metropoli che aveva visitato durante tutti quegli anni di ricerca, ma anche quella cittadina si era notevolmente modernizzata da com’era un tempo, e con lei i suoi abitanti.
 
Come aveva previsto cominciò a piovere e dopo essere rimasto sotto l’acqua per un paio di minuti decise di ripararsi sotto la tettoia di una fermata dell’autobus che sorgeva lì vicino sul marciapiede.
Se c’era una cosa che gli piaceva del mondo dei vivi era proprio quella: la pioggia.
Non poteva essere visto, sentito o toccato, ma la pioggia, per qualche strano e inspiegabile motivo, non gli passava attraverso.
Si godette il tragitto fino alla fermata, beandosi di ogni goccia che gli toccava il viso bagnandogli i capelli e le guance. Se avesse potuto piangere sarebbero state le sue lacrime.
Quando anche i vestiti furono zuppi (dopotutto avrebbe potuto asciugarli solo pensandolo) si sedette sulla panchina di ferro della fermata aspettando che il temporale passasse: di tempo da perdere ne aveva eccome, e quello non era altro che un classico acquazzone estivo passeggero e non ci avrebbe messo molto a finire.
Con un po’ di fortuna quella sera si sarebbe goduto un bell’arcobaleno.
 
 
Il rumore dei passi di qualcuno che correva si insinuò nel ticchettio deciso e insistente della pioggia.
Daniel alzò il visto incuriosito notando una ragazza che si stava dirigendo il più velocemente possibile nella sua direzione.
No… si corresse mentalmente.
La ragazza stava correndo verso il riparo offerto dalla fermata dell’autobus: lui era invisibile, come dimenticarlo!
La osservò prendere posto sulla panca di metallo a poca distanza da lui.
Avrà avuto più o meno diciotto anni e se fosse stato ancora vivo probabilmente avrebbe pensato che era proprio una bella ragazza; ma era un fantasma, e pensieri del genere non lo sfioravano più… o no?
La pioggia aveva bagnato i suoi vestiti, un paio di shorts di jeans e una camicia a quadri sopra una canottiera bianca, che si erano incollati al corpo snello della ragazza.
Anche i lunghi capelli rossi stretti in una coda di cavallo avevano subito la stessa sorte, e alcuni ciuffi più corti sfuggiti dall’elastico le incorniciavano il viso mettendo in risalto i grandi occhi di un colore indefinito.
Tra l’azzurro e il verde, decise Daniel dopo qualche attimo di riflessione.
Notò che l’attenzione della ragazza era completamente assorbita dal contenuto di una borsetta di perline che, anche durante la corsa, aveva gelosamente tentato di tenere al riparo dall’acqua.
Chissà cosa c’era dentro?
Osservò la rossa mentre si metteva la borsetta a tracolla per strizzarsi subito dopo la coda.
 
Poi però la ragazza fece una cosa che non si sarebbe mai aspettato: parlò.
“Certo che questo tempo fa proprio schifo! Doveva esserci il sole tutto il giorno e invece…”
 
Daniel restò impietrito: probabilmente la ragazza stava solo parlando tra sé e sé.
Era semplicemente impossibile, non poteva essere che…
 
“Io personalmente odio la pioggia, e tu?” continuò la rossa rivolendosi inequivocabilmente a lui e voltandosi a guardarlo negli occhi.
Deglutì.
Poteva vederlo… quella ragazza poteva vederlo!
 
“Sinceramente a me non dispiace poi così tanto” si affrettò a rispondere prima che la ragazza pensasse che fosse pazzo. “Senza pioggia non potrebbe esserci l’arcobaleno” concluse poi.
La ragazza sorrise alla sua risposta: “Forse non hai tutti i torti, non l’avevo mai pensata sotto questo punto di vista” convenne.
“Comunque io sono Kate” si presentò poi. “E tu? Sei nuovo da queste parti… non ti ho mai visto in giro”
“Ehm… sì, mi sono appena trasferito” rispose subito assecondandola, maledicendosi l’istante successivo: cosa diavolo gli saltava in mente?
“Mi chiamo Daniel” si presentò poi a sua volta notando che Kate lo stava ancora guardando aspettando che concludesse.
“E dove…?” la domanda della ragazza fu interrotta dall’arrivo dell’autobus che si fermò proprio lì davanti.
Daniel sospirò di sollievo: sapeva benissimo cosa stava per chiedergli, e lui come avrebbe fatto a dirle che non abitava da nessuna parte?
“Oh, devo andare” la voce della ragazza interruppe le sue riflessioni.
“Comunque è stato un piacere conoscerti Daniel. Ci si vede in giro!” lo salutò, e poi salì sull’autobus che partì pochi secondi dopo.
 
Il fantasma rimase per qualche secondo come incantato, poi si riscosse all’improvviso sorridendo al sole che stava già facendo capolino da dietro le nuvole mentre la pioggia mano a mano diminuiva.
Eh già, ci sarebbe stato proprio un bell’arcobaleno.














Non chiedetemi da dove sia saltata fuori questa... cosa.
Ho cominciato a scribacchiarla questa estate, ma una volta finite le vacanze è rimasta letteralmente chiusa nel cassetto della scrivania fino ad oggi.
Non so quando aggiornerò perchè tra lezioni ed esami sono piusttosto impegnata e poi perchè, al contrario delle altre volte, NON ho i capitoli già pronti (in realtà i primi li ho, ma non avendo ancora deciso bene la trama della storia è come se non ci fossero u.u)
Diciamo che sentire qualche parere -anche di quanto io sia pazza ovviamente- potrebbe, e dico potrebbe, motivarmi a pensare seriamente a come andare avanti, ecco.
Quindi non abbiate paura di farmi sapere cosa ne pensate, non mordo.
I miei più sentiti complimenti per chi è arrivato a leggere fin qui
E.



 

 


 

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Capitolo 2
*** 1. Serendipity ***


Campagna di Promozione Sociale - Messaggio No Profit.
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Farai felice milioni di scrittori!
Chiunque voglia aderire a tale iniziativa, può copia-incollare questo messaggio dove meglio crede.
(© elyxyz)






1. Serendipity
 
 
 
Un dispettoso raggio di sole riuscì a penetrare all’interno della camera da letto nonostante la persiana abbassata, finendo senza troppi complimenti sugli occhi chiusi della –ancora per poco- addormentata occupante della stanza.
Kete si rigirò nel letto infastidita, maledicendosi per non essersi ricordata di chiudere bene l’imposta la sera prima: bastava il minimo spiraglio di luce per farle perdere il sonno.
Inveendo mentalmente contro il sole (non poteva essere un po’ meno luminoso di mattina?) si bloccò nell’atto di mettere la testa sotto il cuscino nel momento in cui il pensiero di quello che avrebbe fatto quella giornata le attraversò la mente.
Si sentì subito sveglia –cosa che succedeva assai di rado- e lasciò che un sorriso le si dipingesse in viso mentre scalciava via il lenzuolo che le si era attorcigliato intorno alle gambe, pronta a scendere al piano di sotto per fare colazione.
I suoi genitori e sua sorella Alyssa, più piccola di lei di dieci anni, erano già a tavola e avevano quasi finito di mangiare.
“Già sveglia Katy?” la salutò suo padre mentre prendeva posto al suo lato del tavolo della cucina.
“Ci puoi scommettere!” rispose la ragazza entusiasta mentre si apprestava a versarsi il latte nella sua tazza e ad inzuppare il primo di una lunga serie di biscotti.
 
Evenville era una piccola e calma cittadina, distava trenta minuti di macchina dal più vicino centro abitato dotato di centro commerciale e viverci era una noia mortale.
Non succedeva mai niente di nuovo, e quando capitava la notizia riusciva a fare il giro della città in così poco tempo (probabilmente complici la parrucchiera, le donne del mercato delle sei del mattino e delle comari che passavano tutto il giorno a chiacchierare nella piazza principale) da perdere a tempo di record l’appellativo di “novità” per tramutarsi quasi subito in ordinaria quotidianità.
Nonostante ci fosse nata Kate non ci aveva ancora fatto l’abitudine, e forse era per quello che quel giorno era così elettrizzata.
Ogni anno, l’ultima settimana di agosto, alla periferia della città veniva allestito per tre giorni una sorta di mercatino delle pulci. Di certo non era come fare un giro al centro commerciale, ma Kate aspettava sempre con ansia quei giorni: a differenza di quanto si potesse pensare quel mercato era pieno di cose interessanti –o cianfrusaglie, come avrebbe detto sua madre- per cui Kate andava letteralmente pazza.
Il suo interesse principale verteva sui gioielli: bracciali, collane, anelli e orecchini dal sapore anticheggiante che sembravano supplicarla “Comprami!” ogni volta che si avvicinava ad una bancarella.
E poi, essendo il mercato proprio lì in città, da ben più di qualche anno aveva ormai ricevuto il permesso di stare fuori tutta la giornata con la sua migliore amica in modo da potersi godere il giro.
Sarebbe volentieri andata a dare un’occhiata anche i giorni precedenti, ma quando sua madre aveva scoperto che non aveva ancora finito di fare i compiti delle vacanze (“Stiamo scherzando vero? Hai quasi diciotto anni, e quest’anno hai anche gli esami!”) l’aveva letteralmente chiusa in camera, minacciandola dicendo che non sarebbe potuta uscire finchè non li avesse finiti. Per fortuna aveva fatto in tempo: non si sarebbe persa quella annuale ricorrenza per nulla al mondo.
 
Quando ebbe finito di mangiare ritornò veloce in camera sua, pronta per affrontare la sfida più difficile: scegliere cosa indossare.
Si liberò rapidamente della camicia da notte prendendo poi con fare deciso i suoi shorts di jeans preferiti dall’armadio. Da un cassetto recuperò una canotta bianca con le spalline sottili alla quale sovrappose una camicia a quadri con le maniche arrotolate in diverse sfumature di blu e azzurro che chiuse con un nodo all’altezza della vita.
Rinunciò a pettinarsi decentemente perdendo l’ennesimo round contro la sua indomabile chioma di fuoco e finendo per imbrigliarla in una coda di cavallo che potesse essere quanto meno passabile.
Dalla sedia della scrivania agguantò la sua borsetta di perline, quella che usava sempre in quell’occasione, controllando che al suo interno ci fossero chiavi, portafoglio e telefono e se la mise in spalla.
Le vecchie scarpe di tela bianca completarono il quadro.
Prima di uscire non potè fare a meno di guardarsi un’ultima volta allo specchio che occupava le ante esterne del suo armadio: una ragazza non troppo alta e magra con la pelle chiara, una chioma di capelli rossi che cercava di ribellarsi alla sua prigionia, gli occhi di un colore non ben definito a metà tra l’azzurro e il verde, il naso piccolo e dritto e un bel sorriso sulle labbra piene le restituiva lo sguardo.
Era un po’ la “pecora rossa” della famiglia.
Diversa da sua madre, Lidya, con i capelli biondi lisci lunghi fino alle spalle con una messa in piega sempre impeccabile e gli occhi azzurri; ma anche da suo padre, Colin, che invece aveva i capelli color cioccolato e gli occhi dello stesso colore. Neppure sua sorella le assomigliava: bionda come la madre con gli occhi scuri come quelli del padre.
 
Katelyn Anne Hunt, avrebbe compiuto diciotto anni il ventitré settembre e a partire dall’inizio di quello stesso mese avrebbe cominciato a frequentare il suo quinto e ultimo anno presso la scuola superiore della citta, la EvenHigh.
Era una delle migliori della sua classe, riuscendo comunque a risparmiarsi la nomea di secchiona grazie agli amici che frequentava; anche se questi ultimi li si poteva contare sulle dita di una mano visto che, a parte qualche eccezione, preferiva passare il tempo da sola. Non era particolarmente portata per lo sport eccetto che per la corsa e l’unica cosa che, a suo modesto parere, le riusciva alquanto bene era disegnare e sognare ad occhi aperti.
Non era particolarmente spigliata con i ragazzi –a differenza di certe sue conoscenze…- e forse era per quello che ancora non aveva mai baciato nessuno. La cosa non la preoccupava comunque più di tanto: al momento aveva altre cose ben più importati di cui preoccuparsi, come per esempio capire cosa avrebbe voluto fare dopo la scuola, visto che ancora non ne aveva la più pallida idea.
 
La ragazza in questione smise di fissare lo specchio, scese le scale salutando i suoi con un “Io esco, ci vediamo stasera!” e senza aspettare risposta si richiuse la porta dell’ingresso alle spalle.
Camminando a passo spedito si diresse verso la casa della sua migliore amica, Simonne, che abitava un paio di vie più avanti.
Erano amiche da sempre, nonché compagne di classe, e la visita al mercatino era diventata un vero e proprio rito per loro. Dall’inizio delle superiori avevano infatti deciso di inaugurare una nuova tradizione tutta loro: a Serendipity avrebbero comprato qualcosa che avrebbero tenuto sempre con sé durante tutto l’anno come portafortuna, e così avevano fatto.
Arrivata davanti alla porta dei Fain, Kate suonò il campanello vicino alla porta d’ingresso, distogliendo quasi subito lo sguardo dopo che quella si fu aperta: un ragazzo con indosso solo una canottiera di cotone e i pantaloni del pigiama –entrambi che lasciavano davvero poco all’immaginazione- le stava sorridendo affabile.
“Kate come va?” domandò il ragazzo.
“Non c’è male, grazie Lucas” rispose lei educatamente guardando in alto.
Lucas era il fratello di Simonne, aveva venticinque anni e faceva il poliziotto lì in città. Kate aveva sempre pensato che uno come lui fosse sprecato per fare un lavoro del genere quando avrebbe potuto benissimo diventare un modello e, soprattutto, lasciare Evenville, ma a lui stranamente piaceva quella città.
“Starei cercando Simonne…” continuò la rossa per evitare di perdersi in fantasie poco opportune sul fratello della sua migliore amica.
“Immaginavo” rispose lui. “Non son però se vuoi passare più tardi, credo che quella pigrona di mia sorella non si sia ancora… ehi!” si interruppe quando una ballerina di vernice nera gli arrivò in testa seguita dalla voce della proprietaria: “Qui mi risulta che l’unico ad essere ancora in pigiama sia tu, fratellino” commentò Simonne con voce angelica mentre si rimetteva la ballerina che aveva lanciato.
Kate osservò l’amica sorridendo, lieta di avere finalmente qualcos’altro su cui concentrare la sua attenzione che non fosse Lucas.
 
Se lei era quella tutta acqua e sapone con i capelli rossi e l’incarnato da fantasma, Simonne era la tipica ragazza abbronzata, un po’ tenebrosa forse, con i capelli color mogano che le arrivavano lisci quasi fino alla vita e la frangia perennemente sugli occhi color nocciola.
Indossava una semplice camicetta bianca abbinata ad una minigonna nera che la sciava scoperte le sue game chilometriche. Ballerine ai piedi, una borsa bianca al braccio, sarebbe stata perfetta per una gita in città più che al mercatino delle pulci, ma Kate sapeva che l’amica era fatta così: non importava dove sarebbero andate, lei sarebbe sempre stata impeccabile.
Notò che si era anche truccata, mentre lei uscendo di casa di fretta non ci aveva neanche pensato.
 
Salutò Lucas mentre la mora chiudeva la porta di casa.
“Quando avevi detto che saresti passata presto non pensavo così presto” commentò Simonne mentre si dirigevano vero la fermata dell’autobus più vicina.
“Non sono neanche le nove, cosa faremo tutta la giornata?”
“Parli così perché tu sei già stata a dare un’occhiata i giorni scorsi. Io invece ho dovuto fare tutti i compiti di fisica in questi due giorni, altrimenti non sarei potuta venire neanche oggi… quest’anno non ho intenzione di saltare nemmeno una bancarella!”
E chiacchierando del più e del meno si diressero verso la fermata dell’autobus per aspettare il mezzo che le avrebbe portate a destinazione.
 
 
 
Come ogni anno l’insegna che veniva posta all’ingresso della zona riservata ai venditori la fece sorridere: “Benvenuti a Serendipity” diceva.
Quella strana parola l’aveva affascinata fin dalla prima volta che l’aveva sentita, e non avrebbe potuto trovare nome più opportuno per quel mercato.
Il termine significava infatti “felice coincidenza” e Kate pensava fosse particolarmente appropriato per quel posto in cui avresti potuto trovare qualsiasi cosa.
Lei e Simonne passarono tutta la mattinata a girovagare tra le bancarelle guardando affascinate la merce esposta, e in una delle tante bancarelle la mora scelse come suo portafortuna per quell’anno un braccialetto sottile impreziosite da pietre color smeraldo.
Si fermarono solo verso l’ora di pranzo, prendendo un panino da uno dei loro stand gastronomici preferiti per poi ricominciare la visita.
Stavano osservando alcuni anelli dall’aria antica esposti in una bancarella che Simonne aveva già addocchiato nella sua precedente visita il giorno prima.
Kate stava giusto per dire al venditore che avrebbe preso quel bell’anello con una grande pietra verde incastonata sopra che sembrava quasi abbinato al bracciale dell’amica, quando qualcuno la fermò strappandoglielo di mano.
“Mi dispiace Kitty, ma quell’anello l’avevo già visto io”
 
Kate diventò rossa quasi quanto i suoi capelli: odiava quel nomignolo e ancora di più il fatto che venisse usato in pubblico.
“Be’, dispiace a me Cordelia” provò a ribattere. “La prossima volta dovresti deciderti più in fretta: quell’anello lo stavo già comprando io!”
 
 
Cordelia Buckley, figlia del preside della scuola, sfortunatamente sua compagna di classe in più lezioni di quante potesse desiderare, aveva i capelli neri tagliati in un geometrico caschetto, occhi azzurri come il ghiaccio, vestiti sempre firmati e, nel complesso, una presenza insopportabile.
Non aveva mai capito perché, ma da quando si erano conosciute –alle elementari- Cordelia sembrava essere sempre felice di potersela prendere con le per qualsiasi cosa, anche la più stupida.
 
Come quell’anello.
 
Mentre la rossa era intenta a incenerirla con lo sguardo Cordelia aveva infatti pagato il commerciante mettendosi subito l’anello al dito.
Riservò un sorriso di scherno alle due amiche e girò sui tacchi per raggiungere il gruppo di oche bionde (che per fortuna non erano tutte in classe sua) da cui era costantemente circondata che la stavano aspettando poco distante.
 
“Giuro che quest’anno riuscirò a cancellarle quel ghigno dalla faccia” brontolò Kate mentre si dirigeva verso un’altra bancarella.
“Oh andiamo, lo sai com’è fatta: pensa che tutto le sia dovuto. Era solo un anello…”
“Lo so, ma mi piaceva. Molto. E poi non ho ancora comprato niente…!”
Gli anni passati doveva sempre stare attenta e controllarsi per non rischiare di spendere tutto subito, invece quell’anno non aveva ancora trovato nulla che la ispirasse –a parte quell’anello, ovviamente.
 
“Senti” cominciò Simonne dopo un po’ che passeggiavano. Aveva il cellulare in mano e stava controllando l’ora.
“Mi dispiace mollarti così, ma tra poco i miei mi vengono a prendere: siccome domani i miei finiscono le ferie e anche Lucas riprende a lavorare stasera andiamo tutti fuori a cena, quindi…”
Kate la rassicurò con un cenno: “Non ti preoccupare, vai pure. Tanto mi sa che tra poco vado via anch’io, ormai abbiamo visto tutto…”
In effetti erano già le cinque e mezza, e a dirla tutta il cielo stava anche cominciando ad annuvolarsi.
Simonne la salutò facendosi promettere che non avrebbe più pensato a quello stupido anello e che la sera si sarebbero sentite per farsi raccontare cosa aveva trovato di bello.
 
 
Rimasta sola Kate riprese a girovagare per Serendipity: la felicità che l’aveva pervasa quella mattina sembrava quasi un ricordo.
Probabilmente era tutta colpa di Cordelia: non era abbastanza doverla sopportare in classe, no, doveva trovare il modo per infastidirla anche durante le vacanze.
Stava giusto pensando di cominciare a incamminarsi verso la fermata dell’autobus, visto che la fermata per il ritorno non era la stessa che per l’andata ed era decisamente più lontana, quando il suo sguardo cadde su una piccola bancarella vicino alle transenne che delimitavano l’area del mercato, e alla quale prima con Simonne non aveva fatto caso.
 
Si avvicinò incuriosita salutando con un cenno il vecchietto dal viso gentile che era seduto dietro il banco e cominciò a dare un’occhiata alla merce esposta.
Sua madre avrebbe di sicuro definito il tutto come un insieme di inutili cianfrusaglie, ma Kate ne rimase subito affascinata: quelle erano proprio le cose che piacevano a lei!
Prese in mano un braccialetto d’argento sottile e decorato da una serie di pietruzze nere disposte in cerchio su un punto di slargo della montatura a formare una spirale. Era molto semplice, ma non per questo meno bello.
Diede una sbirciata al cartellino del prezzo, sorridendo subito dopo nel constatare che non era esagerato e che avrebbe benissimo potuto permetterselo.
Addocchiò anche una collana a più fili con un pendente costituito da una pietra che sembrava la gemella di quelle del braccialetto, solo molto più grande.
Quando fu sicura di non aver tralasciato nulla annunciò al vecchietto quello che aveva intenzione di comprare.
Quello annuì sempre sorridendo, ma dopo che ebbe finito di incassare i soldi che Kate gli aveva dato fece segno alla ragazza di aspettare un attimo.
 
Dopo qualche secondo di ricerca estrasse da una borsa una scatolina di velluto nero e gliela porse.
“Ho visto che la signorina ha davvero buon gusto, e vorrei che prendesse anche questa” disse mettendole la scatolina tra le mani.
“La apra con calma quando sarà arrivata a casa e mi raccomando: non è particolarmente fragile, ma bisogno comunque trattarla con cura. La tenga sempre con se e vedrà che quando avrà bisogno le indicherà la via giusta da seguire… tutti hanno bisogno di una guida ad un certo punto…”
 
In quella il rombo sordo di un tuono squarciò l’aria, preannunciando un temporale che di certo non si sarebbe fatto aspettare visto il gran numero di nuvole che ormai avevano oscurato il sole.
A quel rumore Kate si era girata di scatto, rendendosi poi conto di quanto il suo gesto potesse sembrare infantile e ridicolo.
Fece per rivolgersi di nuovo al signore della bancarella per dirgli che non poteva accettare qualunque cosa ci fosse in quella scatola, ma le parole le rimasero incastrate in gola: l’uomo, insieme alla bancarella, era scomparso.
 
Kate sbattè più volte le palpebre, incredula.
Com’era possibile?
Che avesse avuto un’allucinazione?
 
Eppure in mano aveva ancora sia il pacchetto con bracciale e collana sia la scatolina misteriosa.
 
Una goccia di pioggia le cadde sulla fronte distogliendola dai suoi confusi pensieri.
Si affrettò a riporre i suoi acquisti nella borsa e si diresse verso l’uscita.
Aveva appena salutato il cartello dell’ingresso di Serendipity con sguardo nostalgico quando cominciò a piovere: nel giro di pochi secondi la pioggia dapprima leggera si era trasformata in un classico acquazzone estivo.
 
Stringendosi la borsetta al petto per cercare di bagnarla il meno possibile Kate cominciò a correre.
 
A differenza delle sue aspettative quella giornata non era stata affatto bella come aveva pensato, e prometteva di finire anche peggio (soprattutto quando sua madre avrebbe scoperto quanto aveva speso per la collana –che non era stata affatto economica come il braccialetto).
 
 
Finalmente in lontananza apparve la tanto agognata fermata dell’autobus.
Felice di potersi mettere al riparo dalla pioggia Kate rimase piuttosto sorpresa nel notare che sotto la tettoia, seduto sulla panchina di metallo della fermata, c’era già qualcuno.
 
Era un ragazzo, evidentemente colto a sua volta di sorpresa da quell’improvviso acquazzone.
Aveva i capelli castano chiaro –probabilmente mossi a giudicare dal modo in cui gli ricadevano bagnati sul viso- e gli occhi verdi, dall’aria pensierosa persi nel vuoto a guardare il cielo momentaneamente oscurato delle nuvole di passaggio.
La ragazza notò che era addirittura più pallido di lei (che al sole si scottava e basta) e trovò alquanto inusuale il suo abbigliamento: pantaloni neri –che però non sembravano affatto jeans- e camicia bianca con le maniche lunghe arrotolate a tre quarti. Chi diavolo andava in giro d’estate conciato così?
 
Senza dire niente Kate gli passò davanti per prendere posto a sua volta sulla panchina, stando ben attenta a non incrociare il suo sguardo: le per prima sapeva con quale facilità si imbarazzava quando c’era di mezzo un ragazzo, meglio evitare di fare da subito una brutta figura.
Preferì concentrarsi sulla sua borsetta, controllando che i suoi acquisti e il cellulare non si fossero bagnati.
Dopo aver constatato che tutto era in ordine si strizzò velocemente la coda, spostandosi alcuni ciuffi di capelli che le erano rimasti incollati al viso.
 
Per tutto il tempo aveva cercato di ignorare il ragazzo, dopotutto non l’aveva mai visto da quelle parti, ma non si poteva dire che lui avesse fatto altrettanto: non si era mai sentita così osservata in vita sua, e il bello era che il ragazzo non sembrava dare perso al fatto che lei avrebbe benissimo potuto accorgersi che la stava studiando così apertamente.
Decise quindi che non c’era nulla di male nel cercare di rompere il ghiaccio.
“Certo che questo tempo fa proprio schifo! Doveva esserci il sole tutto il giorno e invece…” commentò guardando il cielo.
 
Il ragazzo sembrò irrigidirsi.
 
Ecco, lo sapeva, avrebbe dovuto restare zitta.
 
Visto che però ormai aveva cominciato –altrimenti il ragazzo avrebbe probabilmente pensato che stesse parlando da sola- decise di continuare, stavolta rivolgendosi al diretto interessato e guardandolo negli occhi: “Io personalmente odio la pioggia, e tu?”
Finalmente il ragazzo rispose: “Sinceramente a me non dispiace poi così tanto” disse, sembrando più rilassato. “Senza pioggia non potrebbe esserci l’arcobaleno” concluse, lasciando Kate abbastanza colpita dalla risposta.
 
“Forse hai ragione, non l’avevo mai pensata sotto questo punto di vista” convenne alla fine sorridendo.
“Comunque io sono Kate” si presentò. “E tu? Sei nuovo da queste parti… non ti ho mai visto in giro” e di sicuro a scuola tutti lo avrebbero notato, soprattutto le ragazze…
“Ehm, sì, mi sono appena trasferito” confermò lui nonostante il suo tono sembrasse un po’ indeciso.
Ma Kate non ci badò troppo… stava ancora aspettando di sentire come si chiamava.
“… mi chiamo Daniel”
Che bel nome… pensò subito Kate, cercando poi di cambiare subito discorso per non arrossire.
“E dove…” abiti?
La sua domanda venne interrotta dall’arrivo dell’autobus.
“Oh, devo andare” disse banalmente lei alzandosi, notando con una punta di delusione che Daniel non si era mosso. Forse non era l’autobus che doveva prendere lui.
 
… o forse non vuole prendere l’autobus insieme a te…
 
“Comunque è stato un piacere conoscerti. Ci si vede in giro!” lo salutò alla fine salendo sul mezzo.
Prese posto vicino al finestrino e mentre l’autobus si allontanava rimase ad osservare il ragazzo, ancora seduto sulla panchina.
Uno starnuto le fece perdere il contatto, e quado rialzò lo sguardo la fermata dell’autobus era già sparita.
 
Quella sera lei e Simonne avrebbero decisamente avuto qualcosa di cui parlare.













Che dire?
Boh, fatemi sapere cosa ne pensate, giusto per sapermi regolare se andare avanti a scrivere la storia.
Alla prossima
E.

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