Cinders

di stereohearts
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue. ***
Capitolo 2: *** 1. I found her. ***



Capitolo 1
*** Prologue. ***


 



Prologo.


 
Carter
 





 
[Diciannove mesi dopo.]
 
 
 
 
 
Reggendo quattro contenitori di caffè in una piccola scatola di cartone, e con la tracolla stracolma di libri che mi gravava sulla spalla sinistra, terminai – seppur molto lentamente – di scendere l’infinità di scale che portavano al parcheggio sotterraneo. Lì mi aspettavano da una buona quindicina di minuti Neal e Shepley; sedevano a gambe aperte su una sporgenza in pietra attaccata ad uno dei muri portanti della struttura, e nessuno dei due sembrava minimamente intenzionato ad alzarsi per darmi una mano. Anche un cane si sarebbe probabilmente accorto che il mio già precario equilibrio era messo a dura prova; se poi ci aggiungevamo che erano a malapena le sette del mattino, e che quel degenerato di Shep mi aveva svegliata gettandomi addosso una bottiglia intera di Belvedere, allora il quadro generale della giornata non si prospettava essere esattamente uno dei più floridi.
L’area del parcheggio sarebbe stata completamente deserta, se non per la presenza di due o tre macchine parcheggiate malamente negli appositi spazi; l’aria era appesantita dalla polvere che si mischiava, ad ogni folata di vento, con i residui di cemento sparsi qua e là.
Al contrario, il cielo limpido all’esterno sembrava promettere una giornata soleggiata, senza rischio piogge – ciò che avevano detto anche al servizio meteo della scorsa sera.
Ormai a pochi passi dai due ragazzi, lanciai la borsa contro i piedi di Shepley, con la chiara intenzione di fargli male; tirai fuori la mia miglior faccia innocente, allungando la mano con i bicchieri fumanti verso entrambi. “Caffè?”
Neal allungò subito la mano, afferrando con gentilezza quello con su scritto il suo nome – senza zucchero. “Grazie tesoro” mi sorrise, schiacciandomi uno dei suoi soliti occhiolini ammiccanti.
Roteai gli occhi, voltandomi così verso Shep; inarcai le sopracciglia, prendendo il mio caffè nero zuccherato. “Hai bisogno di qualcosa, Wilson?”
Il moretto sbuffo rozzamente, allungando pretenzioso il braccio verso di me. “I miei cappuccini.”
“Non credo d’aver capito ..”
Al limite dell’irritazione, il ragazzone si sollevò in piedi, in tutto il suo magnifico metro e ottantacinque di muscoli e testosterone; mi bloccò il braccio destro in alto, prendendosi l’intero cartone – da quanto mi era stato possibile osservare, quella di ingurgitare cibo e bevande super zuccherate come delle macchine tritarifiuti, e non mettere ovviamente su nemmeno un grammo, era una caratteristica di tutti i giocatori di football dell’Università. Non per niente, però, i Florida Gators erano una delle squadre più celebri e  vincenti della nazione - e con più incontri di football universitario vinti in tutti gli Stati Uniti dal ’90.
“La prossima volta ti immergerò con la testa nell’acquario di Bailee” mi avvisò non appena si fu riseduto, sorridendomi trionfante. “Altro che Belvedere …”
“Provaci Wilson, e la tua maglietta autografata da Rihanna finirà direttamente nel bidone della spazzatura” lo minacciai a mia volta, sollevando un sopracciglio da dietro il bicchiere di caffè.
“Osa fare una cosa del genere Harvey, e nessuno ti leverà il piacere di risvegliarti nel bel mezzo del campus con il tuo adorabile pigiamino ad orsetti” ribatté pronto il ragazzone, sorseggiando tranquillamente la sua bevanda.
“Non ti prenderesti mai la briga di svegliarti presto per caricarmi in macchina e portarmi all’Università, Shep” lo presi in giro. “Nonostante sia a soli cinque minuti di distanza da casa, e lo sappiamo entrambi.”
“Be’, allora rimane sempre l’opzione B” continuò temerario, senza la minima intenzione di farsi mettere a tacere da me. Abbandonò le braccia sulle sue cosce, lanciando una veloce occhiata a Neal, prima di ritornare a concentrarsi completamente su di me.
Passò agli scanner che erano i suoi occhi la mia figura, per intero: partì dalle scarpe nere, salendo per i pantaloni da basket di Neal, e la felpa extra large che indossavo sopra un reggiseno sportivo bianco; si soffermò per un attimo sulle punte grigie dei miei capelli – che ormai mi erano arrivati quasi alle spalle -, e poi proseguì fino ad incontrare i miei occhi scuri.
Dal canto mio, non mi tirai indietro dal fare la stessa cosa. “E quale sarebbe l’opzione B?” gli domandai divertita, inarcando le sopracciglia; indossava semplici jeans chiari ed una canottiera bianca che gli aderiva perfettamente al torace. Shepley era così: una persona semplice, alla mano, e maledettamente divertente.
Forse erano proprio quelle caratteristiche che lo rendevano uno dei ragazzi più sexy e desiderati della facoltà di storia - se non di tutta la UF. Certo, sempre dopo il suo aspetto fisico: con i capelli corti e scurissimi, due occhioni color cioccolato,  il volto leggermente squadrato e le labbra piene che facevano da contorno ad un sorriso mozzafiato, di certo Shep faceva già così il suo gran figurone. Il carattere tranquillo e aperto a tutti era solo un bonus extra che madre natura gli aveva gentilmente donato – come se non fosse stata già abbastanza generosa con il resto.
Non per niente, anche io ero caduta nella trappola per donne che si era dimostrato essere quel ragazzo – anche se involontariamente.
Insomma, andare al letto con lui, ubriaca tra l’altro, non era certo stata una delle mie scelte più sensate – soprattutto perché era stata la prima volta in vita mia, ed io non ricordavo neanche quasi niente.
“Appendere una gigantografia di te nel tuo bel piagiamino all’entrata dello stadio” riuscì per un soffio ad udire la sua risposta, così tornai a prestargli attenzione; legai la felpa in vita e mi misi a sedere vicino a Neal, appoggiandogli la testa su una spalla.
“Neal non te lo lascerebbe fare” ribattei, sorridendogli già trionfante.
“Neal?” lo chiamò in causa, guardandolo.
Il biondo di fianco a me chiuse gli occhi, prendendo ad accarezzarmi il collo mentre le labbra gli si increspavano in un sorrisino colpevole. “Scusa fratello.”
“Mi stai davvero pugnalando alle spalle per un bel faccino e uno stupendo paio di tette?” gracchiò Shep teatralmente, portandosi fintamente indignato una mano sul petto. “Che razza di …”
Gli occhi color ghiaccio di Neal luccicarono di puro divertimento, prima che scoppiasse a ridere di gusto; si piegò sulla pancia, e quando si rialzò i capelli gli andarono a finire sulla faccia. “Tanto quel bel faccino sceglierebbe sempre me, lo sappiamo tutti.”
“Voltati” gli ordinai, afferrando una molla nera che avevo al polso. “E smettetela di parlare di me, o delle mie tette, come se non fossi presente!”
Gli raccolsi tutti i capelli sulla nuca, cercando di non farmi sfuggire nessuna ciocca, stringendoglieli poi in una coda bassa.
Mi piaceva toccarglieli, di tanto in tanto; un po’ perché erano morbidi e lucidi, e un po’ perché i miei non erano ancora ricresciuti abbastanza da poterci giocare come facevo prima – li avevo tagliati appena arrivati a Seattle, per vedere il concerto di quei suoi amici. Avevo appena dato un taglio netto alla mia vecchia vita, tanto valeva farlo anche con il mio aspetto – d’altronde, come si soleva dire, quando una donna vuole cambiare, inizia proprio dai capelli.
“Ti stavamo facendo dei complimenti, se non ci avessi fatto caso” sbuffò Shepley, alle mie spalle.
“Oh, sicuramente” bofonchiai. “Ma so che potete fare di meglio, ragazzi.”
Sentii il frusciare dei suoi jeans mentre si alzava, ed un secondo dopo il suo braccio si ancorò alla mia vita, sollevandomi; fece un giro su se stesso, giusto per darmi fastidio, e poi mi mollò a terra. “Metterai il mio numero Giovedì, vero?”
“Lo metto sempre, Shep” ridacchiai, sollevandomi in punta di piedi per scompigliargli i capelli.
Era una tradizione che la maggior parte degli studenti universitari che giocavano a football avevano: facevano indossare un maglietta con il proprio numero alla loro persona ‘portafortuna’. La fidanzata, la sorella, qualche amico o addirittura la mamma; una persona a cui tenevano particolarmente. O, nel caso di Shepley, l’unica il cui scopo principale non era rimorchiarlo – o in alcuni casi, usarlo per arrivare a Neal e ai suoi soldi.
“Vai a casa adesso?” intervenne il biondo, sistemandosi il cellulare nella tasca del jeans scuro.
“No, devo incontrarmi con Bailee al parco” mormorai, iniziando ad infilarmi le cuffiette nelle orecchie. “Ne approfitto per farmi una corsetta.”
“Va bene. Allora ci vediamo dopo a casa.”
“Si” annuì, salutando entrambi con la mano mentre imboccavo le scale per tornare in strada; aspettai che il semaforo si illuminasse di verde, azionando la riproduzione casuale sul cellulare.
La musica dei Fall Out Boy mi perforò da subito i timpani, escludendo fuori il resto del mondo; attraversai la strada ed iniziai a correre, ad un ritmo non troppo veloce, tenendo sempre la strada dritta.
Erano ormai quasi due anni che stavo a Gainesville, e continuava a piacermi sin dal primo giorno in cui ci avevo messo piede: era tranquilla e mai troppo rumorosa, inoltre abbastanza distante da San Diego e non troppo conosciuta perché a qualcuno venisse in mente la brillante idea di cercarmi proprio in quella città universitaria.
Inizialmente, quando avevo accettato di seguire Neal a Seattle per il concerto dei Chasing Safety, quella città mi era sembrata proprio il luogo ideale dove poter sfuggire al passato, dove lasciar perdere le mie tracce; poi però Neal mi aveva parlato della sua borsa di studio per la UF, di Gainesville e dell’appartamento che lì avrebbe diviso con il suo amico newyorkese Shepley, e così mi ero ritrovata catapultata anch’io lì.
Non sapevo se avevo accettato di seguirlo perché anche lui stava disperatamente cercando di scappare dalla sua vita o semplicemente perché in quel preciso momento non m’importava particolarmente della fine che avrei fatto partendo con quello sconosciuto terribilmente carino, ma stava di fatto che non me ne ero ancora pentita.
Neal era dolce, gentile e sulle sue; in più, aveva accettato tranquillamente il mio rifiuto nello svelargli qualsiasi dettaglio della mia vecchia vita.
Ormai la Carter di San Diego non faceva più parte di me, e non avrei quindi permesso che il ricordo del mio passato potesse farla tornare; raccontare tutti i drammi e le stronzate che avevano caratterizzato le mie giornate avrebbe significato riporre nuova fiducia in qualcuno. Ma, per quanto potessi essermi affezionata a quel ragazzo, non mi ritenevo in grado di fare quel passo; non volevo rovinare di nuovo tutto. E non volevo soprattutto dipendere da nessuno. Avevo avuto troppo bisogno delle persone in passato,ed il risultato … be’, era quello che era.
La Carter di Gainesville era decisamente un’altra persona, una versione migliore; bastava a se stessa, era indipendente e reggeva saldamente in mano le redini della sua quotidianità. Non avrebbe permesso a nessuno di distruggerle anche quella realtà.
Avevo un lavoro, ero riuscita a comprarmi una macchina, e pagavo la mia parte d’affitto dell’appartamento che io, Neal, Shep e Bailee dividevamo. Il prossimo passo era riuscire a trovare un appartamentino a poco prezzo dove poter vivere da sola; non necessariamente nell’immediato futuro – perché sì, mi trovavo troppo bene con i ragazzi al momento -, ma era comunque una cosa che avevo in mente di fare.
All’inizio avevo accettato di prendere la camera libera in attesa di trovarmi un lavoro ed una sistemazione adatta; poi avevo conosciuto Shep e Bailee. E non mi avevano voluta più lasciar andare.
Improvvisamente, la voce di Patrick Stump sparì, riportandomi bruscamente alla realtà; continuando a correre, accettai la chiamata in arrivo senza nemmeno controllare chi fosse il mittente. Il primo passo che avevo fatto, appena salita sull’aereo per Seattle, era stato quello di togliere batteria e scheda dal cellulare e gettarli nella spazzatura. Senza preoccuparmi di salvare qualche contatto.
Dopo diciotto mesi, erano davvero poche le persone che avrebbero mai potuto chiamarmi – si potevano contare sulle dita di una mano. E nessuno di loro era di San Diego.
“Pronto?” mormorai con un accenno di affanno, facendo un altro nodo alle maniche della felpa per non rischiare cadesse; infilai il cellulare tra l’elastico dei pantaloni, in modo da non avere nessun impedimento tra le mani.
“Dove sei?” mi domandò immediatamente Bailee, con voce squillante.
Girato l’angolo della strada, iniziai a rallentare l’andamento dei miei passi; controllando le insegne sopra la mia testa, notai finalmente quella piccola e anonima del Mini Market in cui mi fermavo sempre.
“Sei già al parco?” le domandai a mia volta; entrando nel piccolo negozio, salutai l’anziana signora alla cassa con un sorriso cordiale, imboccando direttamente la corsia delle bevande.
“Si.”
“Mi sono fermata un attimo a prendere una bottiglietta d’acqua” mormorai, constatando delusa che le uniche bottiglie rimaste erano quelle da un litro. “Se attraversi la strada e giri all’angolo dove c’è quel negozio di bigiotteria,  ti troverai proprio di fronte il market dove sono adesso.”
Mi passai le dita sul collo, asciugando una goccia di sudore che mi solleticava la pelle; con lo sguardo ispezionai allora le varie tipologie di sport drink che mi si presentavano dinanzi: c’è n’erano di diverse marche, colori, denominazioni e componenti, così per non perdere la testa mi limitai ad afferrare una bottiglia blu di Powerade.
“Okay. Ci sono. Ti aspetto qui fuori allora” parlò di nuovo Bailee, ricordandomi della chiamata in corso.
“Si, pago e ti raggiungo” confermai, lasciandole attaccare.
Cacciai le mani nelle tasche dei pantaloni, e come mi aspettavo trovai degli spiccioli che Neal doveva essersi dimenticato – come al solito. Li appoggiai sulla cassa e uscì fuori, trovandomi esattamente di fronte la figura snella della mia bellissima amica.
Riparava la faccia dal sole dietro ad un enorme cappello da spiaggia, mentre batteva ritmicamente il piede a terra; non appena si accorse della mia presenza mi afferrò sottobraccio ed iniziò a trascinarmi nella direzione dalla quale era venuta. “Finalmente! Stavo iniziando a sentirmi un po’ strana a stare immobile di fronte ad un Mini Market alle otto di mattina.”
Ridacchiai, appoggiandomi le cuffie attorno al collo per poterla sentire meglio.
Con i capelli scuri che le arrivavano al mento, la pelle di un’invidiabile tonalità nocciola e il prendisole a fantasia floreale, Bailee era l’incarnazione dell’estate e della voglia di vivere.
L’avevo conosciuta nove mesi prima, quando mi avevano assunta come barista al Viros.
Inizialmente, appena approdata a Gainesville, quello era l’ultimo tipo di lavoro che mi ero ripromessa di cercare; troppi brutti ricordi, e la stessa quantità di brutte esperienze fisiche.
Se volevo essere una nuova e diversa Carter, dovevo puntare a qualcosa di più tranquillo e anonimo.
Non avevo però preso in considerazione che Gainesville era una città universitaria, e che quindi lavori come bibliotecaria, babysitter, dog sitter o aiutante in una scuola di danza non erano esattamente il tipo di incarico della quale rendita si poteva vivere.
Avevo pur sempre bollette, assicurazioni, viveri e benzina da pagare alla fine di ogni mese.
Così avevo dovuto dare un taglio al mio orgoglio ferito e recarmi al Viros, dove sapevo stessero cercando una nuova barista – e mi ero ben accertata, in precedenza, che la paga fosse buona.
Un lavoro ben retribuito era pur sempre un lavoro ben retribuito; e comunque ciò non definiva la mia persona. Solo perché ero tornata a fare la barista, non significava che ero pronta a lasciare il via libera alla vecchia me di tornare. Di quella ragazza piena d’amore e fiducia da dare non c’era più nessuna traccia, ormai. L’avevo strappata via da me non appena Keaton mi aveva tradita.
Quando Dante aveva deciso di rovinarmi di nuovo la vita.
Avevo deciso che li avrei odiati tutti, per il resto dei miei giorni, quando Justin mi aveva spezzata; lo avevo lasciato avvicinare al mio cuore un po’, ma quel po’ gli era bastato per tirarmelo con forza fuori dal petto e giocarci a suo piacimento, riempiendolo di bugie. Si era divertito, fin quando non gli era scivolata la presa e lo aveva ridotto in cocci talmente piccoli da non poter essere rimessi insieme.
Dentro di me era rimasta solo la forma, del cuore ammaccato ma funzionante che avevo avuto una volta - non avrei permesso a nessuno di provare a rimetterlo in vita.
Ed era una cosa definitiva. Permanente. Immutabile.
“Ci sei?” mi sentì domandare da Bailee al orecchio. Mi sventolò divertita una mano di fronte alla faccia, ormai abituata a quei miei momenti di estraniamento dalla realtà.
Mi passai una mano sulla pelle sudaticcia dello stomaco, sospirando. “Scusa. Dicevi?”
“Tutto apposto?” mi chiese ancora, prendendomi a braccetto così che la seguissi.
Bailee - così come Neal e Shepley – era anche lei all’oscuro da ogni tipo di dettaglio riguardante la mia vita prima della Florida. Lei ed il ragazzone newyorkese non erano a conoscenza neanche del fatto che a nemmeno diciotto anni ero praticamente scappata di casa, rifugiandomi in un altro stato per scappare dalla mia ‘famiglia’. Quello era un dettaglio del quale eravamo a conoscenza unicamente io e Neal.
“Certo, nessun problema” la tranquillizzai, sorridendole. “Cosa stavi dicendo?”
Lei mi osservò attentamente qualche altro istante, in religioso silenzio; poi, scuotendo la testa, ricominciò a camminare come se nulla fosse. Adoravo Bailee anche per quello: non era quel tipo di persona che pressava per sapere cosa non andasse. E ciò non significava che non si preoccupasse; semplicemente sapeva che quando sarei stata pronta, gliene avrei parlato di mia spontanea volontà.
Che io non mi sarei mai sentita pronta a parlarle di San Diego, quella era decisamente  un’altra lunga e complicata storia.
“Oggi il turno inizierà un po’ prima. Beckah è malata, e Thomas non è riuscito a trovare un rimpiazzo. Quindi dobbiamo trovare i vestiti per Sabato entro oggi” mi ripeté tranquilla, sistemandosi meglio la borsa sulla spalla. “Sono solo le nove meno venti, ma quel negozietto carino dove sono passata la scorsa volta dovrebbe essere già aperto. In più c’era un vestito che ti starebbe d’incanto!”
“Aspetta. Ferma un secondo. Cosa ci sarebbe Sabato sera?”
“Sei seria?” Mi guardò, senza riuscire a trattenersi dal ridacchiare. “Il compleanno di Neal, Carter. Sabato è il suo compleanno.”
Strabuzzai gli occhi, sbattendomi una mano sulla fronte. “Porca misera! Ecco cosa mi sembrava di aver dimenticato!”
Neal me ne aveva parlato proprio la settimana scorsa; voleva passare l’weekend a Palm Beach, nella casetta sul mare di proprietà della nonna paterna.
Da quel poco che si era lasciato sfuggire Neal, il padre era uno dei broker migliori di New York – e anche uno dei più avidi -, mentre la madre era un’avvocatessa che dedicava  ventiquattro ore su ventiquattro al suo lavoro d’ufficio.
Lui, suo fratello maggiore e la sorella minore erano cresciuti in un clima talmente rigido e privo d’affetto che, ad un certo punto, era scoppiato. Un giorno, dopo l’ennesima lite con il padre che pretendeva per lui la sua stessa carriera, Neal aveva preso il suo borsone e se n’era andato. Con l’intenzione di non rimettere mai più piede tra quelle quattro mura impregnate di bramosia e disinteresse verso qualunque cosa al di fuori del lavoro.
E allora ci eravamo incontrati, ed avevamo ricominciato le nostre nuove vite in compagnia.
Non riuscivo davvero a credere d’essermi fatta passare di mente una cosa così importante.
Ero pronta a scommettere che i sensi di colpa sarebbero arrivati a breve per tormentarmi. 
A quel punto, notando forse la mia faccia disperata, la brunetta al mio fianco scoppiò a ridere senza più censurarsi; mollò il mio braccio e si strinse la pancia, ridendo in quel suo modo strano che la faceva sembrare un cagnolino.
Le picchiai la schiena, incrociando le braccia al petto. “Andiamo! Non è divertente! Sono pessima!”
“Oh, no, questo è assolutamente … fantastico” mormorò, tra una risata e l’altra. Tornò in posizione eretta, sistemandosi la bretellina del prendisole sulla spalla. “Quando lo verrà a sapere Shepley ti prenderà in giro a vita!”
“Ma Shep non lo verrà mai a sapere, Bailee” sbuffai, puntandole minacciosa un dito contro. “Mai! Intese?”
Sollevò le braccia all’aria, sorridendo innocentemente. I suoi occhioni scuri luccicarono di puro divertimento, mentre mi osservava. “Sissignora!”
“Sarà meglio per te” bofonchiai, pizzicandole la guancia. “E poi, non si sa mai! Shep potrebbe sempre venire a sapere che sei stata tu a strappare la manica della sua maglietta autografata dai Giants ..”
Bailee sgranò gli occhi, boccheggiando sorpresa. “Sei una stronza! Lo sai che è stato un incidente!”
“Certo, tesoro” la presi in giro, battendole la mano sulla spalla. “Allora, questo vestito ..?”
Mettendo su un broncio da bimbetta, Bailee mi trascinò esattamente dinanzi ad un negozietto dagli interni color grigio perla che avevamo di fronte. Dal suo interno proveniva una leggera musichetta estiva – in voga nel duemila, se ricordavo bene. “Odio quando sei così stronza! Ti viene così maledettamente bene!”
“Ma smettila, cretina!” risi, spintonandola attraverso la porta. “E vediamo di trovare in fretta questo vestito, che dopo devo andare a ritirare il suo regalo!”

 








 
________________________

SO YES, IM HERE AGAIN.
Non ci credo che l'ho pubblicato.
Non pensavo nemmeno che avrei terminato mai Ablaze, quindi mi ritengo abbastanza soddisfatta per aver portato a termine qualcosa nella mia vita.
E non lo so, sarete scocciate, annoiate che io sia ancora qua, deluse del capitolo. Non ne ho proprio idea.
Comunque questa vuole essere solo una sottospecie di prologo.
C'è stato un salto temporale di diciotto mesi, che sono quasi due anni, quidni sono voluta partire un pò tranquilla. Fare vedere Carter, che fine ha fatto, e come sta. Visto che con Abalze vi avevo lasciate con la sua fuga.
Et voilà, ecco qui di nuovo Carter.  E vi ripropongo il personaggio di Neal, che sarà uno dei fulcri della vita di Carter ormai.
La nostra protagonista è ive con tin Florida, vre persone, e lavora ancora in un bar.
Per il resto, non vi posso anticipare nulla. Vi resta da aspettare il primo capitolo dal punto di vista di Justin - nel prossimoc apitolo comunque le cose inizieranno a farsi interessanti.
Il titolo, Cinders, letteralmente significa cenere.
Cenere è un pò quello che è rimasto di Carter dopo la fuga da San Diego.
A San Diego dove stava bruciando, dove era fiammeggiante, dove il fuoco era alla base della sua vita - ad un certo punto anche letteralmente.
Poi però il vaso di Pandora della famiglia è stato aperto, ed il fuoco è stato sommerso, è morto. E ne sono rimaste solo le ceneri.
E dalle ceneri è dovuta ripartire lei, per ricostruire la sua nuova vita.
Poi starà a lei vedere cosa ne nascerà da queste ceneri.
Per il momento, vi ho presentato un pò la sua nuova vita.
Ma, comunque ho molte novità per questo sequel - apparte le verità che sono rimaste in sospeso in Ablaze -, soprattutto per quanto riguarda Justin.
Detto qesto, spero di trovare qualche lettrice (magari qualcuna di quelle dolcissime che mi ha seguita in Ablaze), e spero che il capitolo non vi abbia annoiato troppo.
Ringrazio comunque chi mi ha seguita fino ad ora, lasciandomi sempre con belle parole - che hanno significato molto per me. Vi sono grata, e spero di non deludervi - più di quanto non abbia fatto con gli ultimi capitoli di Ablaze.
Detto questo, adesso vi lascio delle immagini di riferimento per i nostri nuovi personaggi.
Man mano che si andrà avanti con i capitli metterò gli altri, e forse riproporrò alle volte anche quelli vecchi per rinfrescarvi la memoria - a me in primis lol.
Baci.



Demi Lovato sempre come la nostra Carter


Questo ignoto ragazzo di cui sono innamorata come Neal Turner


Theo James come Shepley Wilson


E Vanessa Hudgens come Bailee Parker

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Capitolo 2
*** 1. I found her. ***


1.



 
 
Carter.
 
 
 
 






Uscì dal bagno delle donne stringendomi la pochette color cipria contro il fianco. Mi feci spazio tra due ragazze che stavano in fila, sentendo la pelle scoperta rabbrividire al cambio di temperatura.
L’unica pecca del Kaiser era proprio quella dell’avere i bagni in una piccola costruzione in pietra che affiancava il locale; certo, in quanto pulizia, fila ridotta e spazio amplificato tanto di guadagnato. Ma il dover uscire dalla discoteca per arrivarci era una tortura.
Un po’ perché, essendo il locale più in voga nel periodo estivo di Palm Beach, era pieno zeppo di gente.
E un po’ perché quella sera indossavo i tacchi a spillo più sottili che avessi mai visto in vita mia – che, in parte, Bailee mi aveva costretta a mettere.
Mi fermai esattamente di fronte all’entrata del locale, sotto ad un lato dell’insegna bianca al neon; sollevai il polso, cercando di scorgere l’ora che puntavano le lancette.
Avevo dimenticato il mio cellulare in macchina, quindi in quel momento dovevo rifarmi per forza all’orologio da polso che Neal mi aveva regalato per il mio diciottesimo compleanno, l’anno prima. Solitamente non tendevo a portarne; l’ultimo che ricordavo d’aver avuto era probabilmente quello elettronico di Barbie regalatomi a otto anni.
Li trovavo un impedimento, fastidiosi e poco utili; ma quello che mi aveva regalato il biondo mi era sorprendentemente piaciuto. Aveva il cinturino molto sottile, dello spessore di un normale braccialetto, ed il quadro altrettanto piccolo - non ne ero certa, ma credevo potesse anche essere d’oro. Inoltre la larghezza sembrava essere stata fatta su misura per me, così potevo camminare tranquillamente senza la paura di poterlo perdere da qualche parte.
E poi, Neal era stato l’unico a ricordarsi del mio compleanno; letteralmente.
I primi mesi successivi alla fuga da San Diego erano volati via senza che nemmeno me ne accorgessi; troppo impegnata a sistemarmi, prendere confidenza con le strade e – soprattutto – dimenticare, anche io avevo finito col dimenticarmi tale data. Solo quando la mattina mi ero svegliata con quel pacchetto candido vicino al cuscino, me ne ero ricordata.
Non che me ne importasse particolarmente, ma dentro di me avevo sentito una strana sensazione di tenerezza nel realizzare che Neal se n’era ricordato – malgrado ci conoscessimo da pochissimo.
Quello era stato il primo gesto carino che qualcuno avesse fatto per me negli ultimi anni, senza alcun secondo fine almeno. E ne ero rimasta segretamente felice.
Dopo qualche attimo, riuscì a scorgere l’ora: mezzanotte meno venti.
Avevo ancora venti minuti prima che scattasse la mezzanotte, e che quindi il biondo compisse venticinque anni.
Infilai la mano nella pochette che mi aveva prestato Bailee, tirando fuori il pacco di sigarette e l’accendino. Ne portai una tra le labbra, avvicinando la fiammella alla sua estremità per poterla accendere.
La fila formata dalle persone in attesa per entrare era ancora abbastanza lunga, anche se comunque notevolmente meno agitata di quando eravamo arrivati noi.
Fortunatamente Neal conosceva il buttafuori di turno quella sera, quindi eravamo riusciti tutti e quattro ad evitare la ressa iniziale.
Il Kaiser era una discoteca che si sviluppava su due piani: il primo fungeva come pista da ballo. L’intera sala era affollata da un’infinità di corpi che lottavano fra loro per guadagnare spazio, e sulla parete laterale correva il lato bar, il quale bancone era occupato da quattro baristi.
Il piano superiore era invece una sottospecie di privè aperto per il quale accesso si doveva prenotare; lo spazio era cosparso per intero da divanetti scuri e tavolini bassi in vetro. Il lato bar sulla parete in fondo era più piccolo rispetto a quello di sotto, ma sicuramente più fornito.
Il clima rilassato e l’aria fresca grazie ai balconi socchiusi permettevano di sopportare molto meglio la confusione proveniente dalla sala ballo.
Sollevai il volto al cielo, lasciandomi accarezzare dalla brezza che affrescava la serata, altrimenti soffocante.
Palm Beach era il posto adatto dove trascorrere le vacanze; che fossero tre giorni o tre mesi.
Avrei potuto passarci il resto dei miei giorni, se il costo della vita non fosse stato così alto; da piccola mi sarebbe bastato passarci anche un giorno.
In effetti mi ero spesso chiesta perché Neal non avesse scelto di vivere lì; il luogo gli piaceva, lo conosceva come le sue tasche, ed inoltre aveva una casa enorme e bellissima che dava sul mare a sua completa disposizione.
Però, come mi aveva fatto notare lui stesso, arrivare fino all’Università tutte le mattine sarebbe stato solo stancante e dispendioso.
Ed inoltre, il posto sembrava essere meta di visite da parte della famiglia almeno una volta ogni sei mesi – quando trovavano la forza di staccarsi dal lavoro, e tornare alla realtà.
Il fratello maggiore, Gregg, a quanto avevo capito amava alla follia quella casa.
Gregg era cresciuto come la perfetta copia del padre, ugualmente privo di sentimenti e coscienza, quindi non sapevo con certezza quanto un uomo del genere potesse davvero ‘amare’ un luogo bello come quello.
Comunque, quando la nostalgia si faceva sentire, e voleva fare un salto a Palm Beach, Neal si preoccupava di chiamare la nonna per accertarsi che nessuna persona indesiderata lo avesse preceduto nel occupare la villetta.
Quel fine settimana eravamo stati fortunati.
Certo, il dover comunque prendere alcune decisioni in base alle possibili azioni della sua famiglia lo scocciava; in fondo, era proprio per avere la sua indipendenza che se n’era andato via senza dire niente a nessuno.
Se al posto mio ci fosse stato qualcun altro, probabilmente quella persona avrebbe fatto di tutto pur di riappacificare Neal con la sua famiglia.
Ma io non lo avrei mai fatto. Per quanto crudele potesse risultare, non avrei mai incoraggiato quel ragazzo a tornare indietro sui suoi passi, sulle sue decisioni.
Non sapevo cosa significasse esattamente avere una ‘famiglia felice’, ma conoscevo ogni sfumatura dell’altro lato della vita familiare.
Sapevo cosa significava avere una famiglia a metà.
Avevo sentito sulla mia pelle cosa si provava nel nascere senza un padre affianco, e cosa  nel crescere con un uomo violento e senza sentimenti; poi mia madre era morta per mano di mio fratello maggiore, e avevo provato in contemporanea il dolore del continuare la vita senza entrambi.
Alla fine mi era stato sbattuto in faccia che quello che ne era avanzato della mia ‘famiglia’ era solo una bugia, e avevo capito cosa si prova a ritrovarsi senza. Senza più niente a cui aggrapparsi; senza niente e nessuno da usare come appiglio nelle difficoltà quotidiane.
Con il passare del tempo mi ero infine resa conto che mi trovavo meglio senza nessuno di loro; forse, se avessi saputo cosa la vita aveva in serbo per me, mi sarei distaccata molto prima da tutti quanti.
Avrei scelto mille volte ancora la solitudine ad un’esistenza basata su bugie e sotterfugi; al dolore e allo smarrimento provato nel realizzare che ero rimasta senza più niente.
E speravo davvero che Neal non mi chiedesse mai consigli in merito, perché nulla m’avrebbe trattenuta dal ribadirgli quanto giusta fosse stata la sua decisione di scappare.
Forse, avevo anche un po’ paura di rimanere senza di lui - forse.
Ma quella era un’emozione che non avevo voglia di provare; mai più, ma soprattutto in quel preciso momento.
Scossi la testa, tornando alla realtà, nello stesso istante in cui sentì chiamare il mio nome.
Voltai la testa alle mie spalle, trovandoci la figura snella di Neal; le luci al neon dell’insegna lo illuminavano strategicamente, mettendo il risalto il pezzo di pelle del petto che si intravedeva dalla camicia sbottonata.
Alcuni punti sul collo e sulle guance luccicavano, probabilmente a causa della crema illuminante che avevamo usato io e Bailee, e che dovevamo avergli lasciato addosso quando lo avevamo abbracciato.
Potevo però giurare, dalle occhiatine che gli lanciavano le ragazze, che quel effetto luminoso gli donasse particolarmente.
“Ti ho trovata!” Il biondino mi sorrise, socchiudendo gli occhi per guardarmi.
Gettai a terra la sigaretta, infilando l’accendino di nuovo nella borsa, tentando di non dar troppo peso al suo sguardo.
Sapevo stesse osservando quello che avevo addosso, ciò che non sapevo era quello che ne pensava – magari era troppo.
Shepley non aveva commentato – cosa che di solito faceva, anche per il pigiama -, e Bailee era di parte ovviamente.
Certo, io mi piacevo; il top color corallo, che avvolgeva il collo e si staccava in due fasce sul petto - lasciando leggermente scoperto un lembo di pelle centrale - era il mio pezzo preferito. La gonna lunga, a vita alta che partiva dopo una striscia di pelle libera lasciata dal top, con due spacchi lungo le gambe e dello stesso colore del top non mi dispiaceva. Le scarpe beige, a sandalo, erano un pò scomode, ma per un serata credevo di riuscire a sopportare il tacco alto e sottilissimo.
Vedendo il completo sul manichino mi ero inizialmente aspettata un risultato peggiore, ma indossato era tutto un altro effetto, e mi piaceva da morire – stranamente.
Solo per quello non mi ero presentata con addosso jeans strappati e canottiera nera.
Lo sguardo di Neal si ammorbidì, mentre allungava gentilmente una mano verso di me, invitandomi a raggiungerlo sulle scale. “Sei stupenda, credo di non avertelo ancora detto” mormorò, sorridendomi. “Adesso però credo che dovremmo entrare, se non vogliamo che Shep si scoli tutte le bottiglie.”
“E svuoti il conto a tutti noi” aggiunsi ridacchiando, iniziando a seguirlo su per le scale.
Sollevai di poco l’orlo della gonna, per non rischiare d’inciampare, fare una figuraccia e rovinare la serata a tutti.
Un fascio di luce, preceduto da un quasi inudibile click, mi investì di schiena, facendomi sobbalzare; voltai la testa di scatto, fermandomi in mezzo alle scale con un piede a mezz’aria sul gradino.
Tra un paio di ragazzi che fumavano sotto la frescura di un albero, e un bodyguard che perlustrava i dintorni, l’unica figura che intravidi fu quella di un ragazzo il cui volto era nascosto da una macchina fotografia professionale, puntata verso di noi.
Dopo un altro flash che mi accecò per un momento, abbassò l’aggeggio e la sua testa contemporaneamente, impedendomi di vedergli il volto.
“Tutto bene?” mi domandò Neal, accarezzandomi una spalla.
“Si,si. Tranquillo.” Mi offrì di nuovo la mano, aiutandomi a saltare un pezzo di gradino sollevato che mi avrebbe sicuramente mandata gambe all’aria.
Nello stesso istante in cui afferrai la mano di Neal, un’altra sequenza di flash mi fece sobbalzare sul posto; automaticamente, spaventata e inquietata per chissà quale motivo, mi voltai nuovamente vero il punto in cui avevo notato il ragazzo.
Scattò un’altra foto, l’ennesima, sempre in nostra direzione, e poi finalmente si decise ad abbassare quella macchina.
Con la stessa velocità con cui faceva foto, di nuovo abbassò la testa. Quella volta però, per un brevissimo istante, un paio di occhi color cielo incontrarono i miei; talmente in fretta che magari con le luci del neon i suoi occhi potevano essere apparsi di un altro colore, ma il necessario perché il cuore mi si fermasse in petto.
Neal mi richiamò un paio di volte, trascinandomi all’interno del locale e facendomi perdere di vista il ragazzo. “Fanno sempre un sacco di foto a questo posto” mi urlò al orecchio il biondo, stringendosi a me per non perderci nella folla che ballava.
Magari erano state le luci. Poteva essere stata la velocità. O il flash della macchina fotografica.
Ma io quegli occhi li conoscevo, e non era possibile che fossero arrivati fino a Palm Beach per trovarmi.
Non poteva davvero essere così.
 
 
 
 
Justin.
 





Gancio. Frontale. Gancio. Montante. Diretto.
Il suono scaturito dai colpi che si scontravano contro la pelle del mio avversario mi arrivava alle orecchie netto e ben distinto, riuscendo a coprire ogni altro possibile suono intorno a me. Come se avessi rinchiuso me stesso in una bolla dove nessuno poteva entrare; dove l’unica altra fonte di rumore era il mio cuore. Percepivo chiaramente ogni singolo battito schiantarsi contro la cassa toracica, ad un ritmo tutto suo; si ripercuoteva per tutto il corpo, come una pallina impazzita, fino ad arrivare al collo.
Riuscì ad assestare altri due ganci ed un frontale prima che Bob, quarant’anni per cento chili di massa muscolare, crollasse a terra: esanime, con le labbra spaccate ed un rivolo di sangue brillante che gli colava lungo il mento, annidandosi sull’orlo della canottiera blu.
Imbranato.
“Non dovrei farti combattere contro i veterani, Bieber” esclamò esaltato Brody, l’allenatore,
battendo le mani sul materassino rosso. Si appoggiò con le braccia al cordone, nell’angolo del ring, osservando soddisfatto la scena che gli avevo regalato. “Me li rovini tutti!”
Lanciai a terra la canottiera nera, inzuppata fradicia del sudore di quattro ore di allenamento, voltandomi vincente verso il pelato.
M’infilai tra le corde rosse che delimitavano la mia area di combattimento, trovandomi di fronte al suo abbondante metro e novantuno; la maglietta rossa che gli fasciava le spalle enormi sembrava sul punto strapparsi, tanto era tesa.
“Ottimo lavoro ragazzino, come sempre” si complimentò fiero, battendomi qualche pacca ben assestata sulla schiena umidiccia. “E tu, Bob, alzati e vatti a dare una pulita. Mi stai sporcando tutto, fratello!”
Afferrai la bottiglia d’acqua da terra, versandomene una gran quantità su testa e petto, sentendomi già più fresco e meno appiccicaticcio; sentivo la guancia destra formicolarmi, a causa del destro che avevo incassato pochi minuti prima.
La palestra – o meglio: un rudere fatiscente ottocentesco dimenticato da Dio nella periferia di Salt Lake City – pullulava di uomini, e raramente di qualche donna più coraggiosa delle altre.
Tra la massa di corpi sudati, lucidi e mezzi nudi riuscì a scorgere – nell’angolo più buio ed isolato – la testolina scura di Blake.
Stava di fronte ad un sacco blu, con i piedi ben saldi a terra, sferrando colpi mirati e di una precisione millimetrica.
Piano, iniziai ad avvicinarmi alla sua postazione, instancabile e pronto alla mia ultima sessione giornaliera.
Il sacco era fermo, immobile. Non si muoveva, era lì ad aspettarmi.
Di solito io preferivo quello rosso; ma c’era anche quello blu, quello nero, quello bianco e quello giallo.
Preferivo quello rosso perché le mani - quelle che almeno una volta alla settimana si spaccavano e lasciavano colare rivoli di sangue, anch’essi rossi - si confondevano con il sacco e non le vedevo più.
Rosso come la rabbia.
Il dolore, la paura, la rabbia, il disprezzo, l’amore.
Riuscivo a racchiudere tutto nei colpi, nella precisione con cui attaccavo, nei ganci diretti che smuovevano il sacco.
Era l’unico modo che avevo a disposizione per combattere i mostri, le ossessioni, le paure e i ricordi di lei.
Erano passati quasi due anni, da quando era scomparsa nel nulla senza lasciare alcuna traccia dietro di se.
Diciannove mesi in cui non avevo mai smesso di cercarla; avevo girato ogni angolo della California, mi ero spinto fino a New York, superandola ed arrivando nel Maine.
Avevo cercato nei posti più scontati e quelli più improbabili; mi ero addirittura fatto un giro a Las Vegas, pur sapendo quanto odiasse quel posto.
Avevamo escluso la maggior parte delle grandi città sapendo che il rischio d’incontrare Rick l’aveva tenuta alla larga; così avevamo fatto anche per le piccole cittadine periferiche, troppo piccole per essere invisibile come probabilmente voleva.
Ci eravamo concentrati maggiormente sulle località che costeggiavano il mare, sapendo quanto le piacesse quell’ambiente. Nonostante il campo leggermente ristretto, trovarla rimaneva comunque un’impresa impossibile. E dopo i primi dodici mesi, avevano quasi tutti gettato la spugna.
Elia si era rinchiuso nel suo dolore, senza lasciarvi entrare nessuno - nemmeno la sua fidanzata storica, Riley, tornata dall’Australia solo per lui.
Da quello che sapevo, non rivolgeva più la parola a nessuno. Avevamo la certezza che fosse ancora vivo solo perché continuava ad andare regolarmente al lavoro.
Dante stava ancora cercando – in vano – di riprendere in mano la sua vita; ma il ricordo di sua sorella lo tormentava, anche nel sonno. E il silenzio spettrale del fratello maggiore gli ricordava costantemente ciò che era successo a causa sua – o meglio, nostra.
Sembrava destinato a non trovare pace, come un dannato; perlomeno fino a quando la piccola Harvey non avrebbe deciso di fare ritorno nelle nostre vite – idea alquanto improbabile, se non assurda.
Quel poco che era avanzato della famiglia Harvey si era sgretolato quando la piccola di casa aveva deciso di averne abbastanza di tutte quelle bugie.
Aveva sempre messo tutti di fronte ad una scelta: o lei, o i nostri sporchi segreti.
E non importava che quei segreti, quelle menzogne, fossero nati – in buona parte - per tenerla lontano da altro dolore e sofferenza. Avevamo avuto una possibilità di scelta, e avevamo fatto quella sbagliata.
Dopo diciannove mesi ne stavamo ancora subendo le conseguenze, ognuno a modo suo.
Io ero spaventato.
Semplicemente e sinceramente spaventato, come mai lo ero stato negli ultimi anni.
Mi turbava l’intensità con cui ne avvertivo la mancanza - e non solo fisicamente.
Ero terrorizzato all’idea di non rivederla mai più, e mi terrorizzava ancora di più sentire quella paura farmi vibrare le viscere.
Mi faceva una paura assurda l’dea che si fosse rifatta una vita, - chissà quanti chilometri da San Diego - magari con qualche ragazzo. E di nuovo, mi spaventava ancora di più che il mio stomaco protestasse sempre a quell’ultima ipotesi.
Tutta quell’angoscia, quello spavento, quello smarrimento, convertivano tutte in un sentimento che mi infuocava da capo a piedi – al quale raramente riuscivo a resistere: rabbia.
Era stato proprio per quello che avevo iniziato con la boxe. E proprio così ero riuscito a sopravvivere per quasi due anni a tutte quelle emozioni – decisamente troppe, solo per me. Avevo trovato una sorta di equilibrio. E l’unica cosa che mi preoccupava era il momento in cui quell’equilibrio sarebbe sparito, liberando il mostro verde che si annidava dentro di me.
A quello però cercavo di pensarci il meno possibile.
“Bieber, Fay! Andate a farvi una doccia e poi smammate!”
Bloccai il sacco con le mani, ricambiando l’occhiata smarrita di Blake, ancora al mio fianco; la palestra era ormai vuota, se non per noi due e Brody. E, da quello che segnavano le lancette dell’orologio appeso al muro, era arrivato il momento di chiudere la baracca.
L’omaccione mi lanciò al volo un mazzo di chiavi, infilandosi una giacca di pelle – ormai consumata – mentre si avviava verso l’uscita. “Chiudete voi. Lasciami le chiavi al solito posto Bieber. E ci vediamo domani alla stessa ora. Ottimo lavoro ragazzi.”
Blake lo salutò non un cenno del capo, dirigendosi con tranquillità verso le docce; si spogliò dei pochi vestiti che aveva addosso – pantaloncini e boxer – e s’infilò in uno dei box doccia liberi. “Per quanto ancora hai intenzione di stare qui, Justin?” mi domandò, alzando di poco il tono di voce perché riuscissi a sentirlo sopra il getto dell’acqua. “Non fraintendermi, puoi stare tutto il tempo che vuoi. Mia madre e mio padre ti adorano, e le mie sorelle ti muoiono dietro. Ma continuare ad evitare San Diego ogni volta che litighi con Dante non serve a niente, se non a peggiorare i vostri rapporti.”
Mi passai una mano tra i capelli, indeciso se fare subito la doccia o aspettare di tornare a casa Fay; dopo qualche istante optai per la prima soluzione. Preferivo evitare di avere addosso gli occhietti indiscreti delle sorelle anche in quell’occasione.
Azionai il getto e chiusi gli occhi; lasciai i miei muscoli indolenziti godersi la sensazione dell’acqua che mi scivolava addosso, come un massaggio ristoratore. “Sabato me ne vado” risposi allora alla domanda di Blake, frizionandomi i capelli con un po’ di shampoo. “Ho degli appuntamenti in negozio che non posso più rimandare. E Billy e Isaac non riescono più a mandare avanti tutto da soli.”
“Non potrai comunque continuare ad evitare Dante. Lavorate nello stesso posto, ti sarà praticamente impossibile” continuò il moro affianco a me, uscendo dalla doccia due secondi dopo. “E non potrete di certo continuare a litigare in questo modo.”
Legandomi un asciugamano in vita uscì a mia volta dal box. “Sai che non è una cosa che mi fa impazzire. Essere preso a pugni da Dante ogni volta non è la cosa che preferisco fare, Blake.”
“Lo sai che è la scomparsa di Carter a fargli questo effetto. E sapere che stavate insieme, dopo tutto quello che è successo, non può di certo fargli piacere” mi rispose subito lui, sollevando la testa verso di me. “E’ sempre suo fratello. Ed essere geloso come una bestia è sempre stato nella sua natura. Anche io ti prenderei a pugni se venissi a sapere che esci con mia sorella.”
“Io non uscivo …”
“Non importa, Justin. Qualunque cosa eravate, è comunque un qualcosa che è andato oltre l’idea che Dante poteva avere e accettare del vostro rapporto.” Afferrò una sigaretta dal suo pacco e me ne offrì un’altra in silenzio, sedendosi sulla panca attaccata al muro. “Quel che è fatto è fatto. Ora devi solo assumerti le tue responsabilità con lui. Lo devi fronteggiare, dirgli tutto quello che è successo con la sua sorellina, e cercare di aggiustare al meglio il vostro rapporto. Almeno sotto questo punto di vista.”
Sbuffai, portando il mozzicone della sigaretta sotto il rubinetto, gettandolo poi nel cestino della spazzatura. “Sarà un’impresa. Lo sai.”
Mi infilai un paio di pantaloncini, piegandomi sul mio borsone alla ricerca di una maglietta pulita.
Io e Dante eravamo sempre andati d’accordo facilmente; un po’ per la somiglianza caratteriale, un po’ per il passato che ci accomunava. Ma da quando avevo baciato sua sorella davanti ai suoi occhi – cioè prima della sua scomparsa nel nulla – non riusciva a rivolgermi parola per più di un’ora senza rivedersi dinanzi agli occhi quella scena. E quindi attaccarmi e prendermi – in alcune occasioni – a pugni.
La rabbia e la frustrazione per il non riuscire a ritrovare la piccola Harvey, allora, si mischiava alla gelosia cieca che da fratello provava nel sapere che più volte l’avevo toccata in un modo ‘inappropriato’ – a suo dire.
Ed io riuscivo anche a capirlo, davvero.
Ma dopo un paio di mesi che continuava a rinfacciarmi d’averla fatta innamorare di me, quelle sue accuse avevano iniziato ad infastidirmi particolarmente – e il mio caratteraccio non mi permetteva di rimanere fermo ad ascoltarlo. Così eravamo arrivati a non poterci vedere per una giornata intera senza litigare e prenderci a pugni.
Sembrava non accorgersi di quanto il senso di colpa mi logorava dentro.
Dirmi che sua sorella era innamorata di me non faceva che peggiorare la situazione.
Lei non era mai stata innamorata di me.
Me lo aveva detto chiaramente.
“Provaci. Non limitarti a rispondere ai suoi pugni con altri pugni” mi consigliò il moretto dietro di me, già pronto ad andarsene, con il borsone sulle spalle.
“Se questo metodo non funzionerà tornerò a quello precedente, sappilo.” Afferrai una canottiera bianca dal fondo del borsone, facendo così rotolare a terra il mio cellulare.
“Fanculo!” bofonchiai, allungando il braccio per riprenderlo. Me lo rigirai tra le mani, e sbloccai lo schermo per accertarmi che non si fosse rotto.
Solo allora notai una ventina di messaggi da parte di Ian. Se la memoria non mi ingannava doveva essere appena tornato dal viaggio fatto a Palm Beach con la sua matrigna.
Indossai in fretta la maglietta e mi caricai in spalla il borsone , seguendo Blake fuori dalla palestra e lasciando a lui il compito di abbassare la saracinesca.
Mi appoggiai allo sportello della macchina, aprendo i messaggi di Ian e scoprendo che la maggior parte erano delle foto.
L’ultimo messaggio portava scritta unicamente una parola: ‘trovata’.
Il mio cuore iniziò a fremere.
Speravo di non sbagliarmi.
Con foga e mani tremolanti aprì una delle ultime fotografie; per sbaglio schiacciai troppe volte sullo schermo del telefono, finendo per zoomare su un paio di gambe abbronzate, avvolte da una gonna lunga.
Con il dito risalì sulla foto, ignorando la fitta che mi colpì lo stomaco nello scovare un paio di mani intrecciate alle sue; continuai a salire, ansioso come mai nella vita, finendo per scontrarmi con ciò che speravo – e temevo.
Un paio di occhi scuri – quegli occhi scuri - fissavano spaventati l’obiettivo del telefono – o della macchina fotografica. Poco m’importava.
“L’ha trovata” mormorai a bassa voce, più a me stesso che a Blake, restio a crederci.
“Come?” mi chiese Blake ad alta voce, chiudendo a chiave la serratura della scatoletta che conteneva i pulsanti per azionare la saracinesca.
“Carter. L’ha trovata.”









 
Sono viva. Si.
In un ritardo mostruoso. Si
Con un capitolo merdoso.Si.
Ho fatte pure rima.
Direi che si trova tutto, quindi sono proprio.
Non sto neanche a darvi le solite motivazioni per cui non ho aggiornato fino ad ora, perchè si, sono sempre le solite.
Scuola, mancanza di ispirazione, tempo.
Mi dispiace davvero, per chi voleva il secondo capitolo della storia - che in effetti sarebbe il primo, ero e proprio.
Ma niente, in realtà avrei aggiornato anche ieri, ma sono stata ad un concerto. Quindi il tempo di arrivare a casa, mangiare, riposare una mezz'oretta ed ero già fuori casa - cosa non si fa perchè le amiche lacrimino per il loro idolo.
E niente, eccomi qua.
Carter vuole festeggiare in serenità, ma si trova dinanzi a questo paio d'occhi azzurri che la spiazzano.
Poi c'è Justin, finalmente.
Arrabbiato, stronzo, violento come sempre. Con però una sana dose di paura addosso.
La vita è stata complicata per tutti, da quando la piccola Harvey è scomparsa nel nulla.
Adesso sembrano averla trovata, ma non crederete che sarà così facile rintracciarla, vero?
Vi ricordo che l'hanno vista a Palm Beach, e non dove vive realmente adesso.
Poi, traete voi le conclusioni.
Spero che vi sia piaciuto almeno un pochino il capitolo(?)
Non voglio dilungarmi troppo, quindi vi lascio con delle immagini dei ragazzi (per rinfrescarvi un pò la memoria), e con la promessa di aggiornare più assiuamente adesso che la scuola è quasi praticamente finita.
Grazie per chi ha dato un'occhiata anche a questo sequel, e spero con tutto il cuore che vi iacerà quel che scriverò in seguito.
Grazie.
Un bacio 




 
Justin

Blake

Elia

Dante

Ian
 

 

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