Just a Kid

di Irina_89
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** When You Less Expect It ***
Capitolo 2: *** Lies, Lies, Lies ***
Capitolo 3: *** A New Little Presence In Their Life ***
Capitolo 4: *** Are You Ready To Be Father? ***
Capitolo 5: *** The Sound Of A Whisper ***
Capitolo 6: *** Kids Just Wanna Have Fun! ***
Capitolo 7: *** Does Reality Hurt? Yes, It Does ***
Capitolo 8: *** Inside The Broken Hearts ***
Capitolo 9: *** She Is Coming From The Past ***
Capitolo 10: *** ‘Cause I Still Love You ***
Capitolo 11: *** Can’t Stand Her Anymore ***
Capitolo 12: *** Revenge Is A Dish Best Served Cold ***
Capitolo 13: *** The Long Goodbye ***
Capitolo 14: *** Wishing You Were Somehow Here Again ***



Capitolo 1
*** When You Less Expect It ***


I

Just a kid

 

When You Less Expect It

“Tom! Muoviti!” era la terza volta che chiamava. “È tardi! Esci subito da quella camera!”

Un paio di occhi si aprirono a fatica nell’oscurità della grande stanza.

Che palle…

“Tom! Mi hai sentito?” ecco la quarta, accompagnata da un frenetico bussare alla porta da parte del tanto amato fratello. Avrebbe tanto voluto aprirla e sbattergliela in faccia nel giro di due nanosecondi, ma ancora ai muscoli del suo corpo non arrivavano segnali dal cervello, anch’esso tutt’ora lontano dal connettersi.

“Tom! C’è anche Inge? Alzatevi subito!” la quinta. Ma il bussare, questa volta, si presentò come un minacciare la porta di un’imminente distruzione, dovuta al vigore dei colpi del moro.

Il ragazzo – ancora steso sul letto – grugnì e cercò di alzarsi, ma qualcosa lo fermò. Cercò di mettere a fuoco, ma prima di riuscirci, si ricordò.

La ragazza era sdraiata accanto a lui, con la testa sul suo braccio. I capelli rossicci cadevano dolcemente sul suo viso e le coperte lasciavano intravedere le fattezze del suo candido corpo, illuminato dalla fioca luce della luna che splendeva nel buio di quella sera di settembre.

Si ricordava bene, ora, quello che era successo.

Posò una mano sulla spalla di lei, che ancora dormiva.

“Svegliati…” le sussurrò all’orecchio. “Dai, prima che Bill rompa la porta…”

La ragazza si rannicchiò, per poi abbracciarlo. Ma dal suo movimento, Tom avvertì un fastidio insopportabile e doloroso al braccio.

“Cazzo!” si agitò, allontanando la ragazza con la forza, che rotolò sul letto, fino a cadere per terra, dalla parte opposta alla sua.

“Ehi!” Bill da dietro la porta continuava a sbraitare.

“Ma che diavolo…?” farfugliò lei, alzandosi a stento e premendosi una mano sulla fronte che aveva appena battuto.

“Accidenti a te!” berciò lui, stringendosi il braccio contro il petto e ripiegandosi su se stesso.

“Ma sei scemo?” lo accusò lei, una volta in piedi, tirando le lenzuola del letto per coprirsi, per poi accendere la luce della stanza – che in un primo momento abbagliò entrambi.

“TOM! INGE!”

“No! Sei tu la scema!” ribatté lui, guardandola minaccioso.

“E perché mai?” fece lei, superiore, incrociando le braccia per sorreggere le coperte e guardandolo con aria di sfida.

“Hai dormito tutta la sera sul mio braccio!” ringhiò lui.

Lei alzò un sopracciglio interrogativa, per poi capire all’improvviso. Subito uno sguardo malizioso le comparve sul viso. Montò di nuovo sul letto e si avvicinò a lui a quattro zampe, lasciando che il lenzuolo le cadesse di dosso.

Il ragazzo cercò di tranquillizzarsi – braccio permettendo – e la guardò malizioso a sua volta.

“Guarda che Bill non accetterà scuse, se gli facciamo fare un altro ritardo…”

“Lo so…” sussurrò lei. “Ma mi piace il pericolo…” e lo provocò con i suoi occhi verdi.

Lui le sorrise, accettando la sfida, ma non fece in tempo ad accorgersi della pericolosa intensità di quello sguardo, perché Inge gli afferrò il braccio addormentato, facendolo urlare.

“Tom! Che cazzo succede?” sbraitò Bill da dietro la porta, senza smettere di colpire il legno.

“Ma sei impazzita?” gridò lui, lasciando che il braccio dolorante cascasse inerme al suo fianco.

“Per vendicarmi della botta…” sbuffò lei, coprendosi di nuovo con il lenzuolo.

“La pagherai…” soffiò Tom, tentando inutilmente di afferrare il braccio senza sentire quell’acutissimo formicolio che gli devastava la sensibilità dalla spalla alla mano.

Lei lo guardò superiore.

“Certo…” si alzò, quindi, dal letto e prese le sue mutandine dal pavimento. Si mise poi a cercare il reggiseno e tutto il resto degli indumenti – consistenti in una delle magliette di Tom.

Lui li trovò vicino a sé e glieli lanciò addosso.

“Tieni” disse lui con un velo di irritazione nel tono.

“Grazie” sorrise lei beffarda, buttandogli addosso il lenzuolo. Si vestì e poi uscì dalla stanza, lasciando Tom sofferente sul letto.

Bill si affacciò e lo guardò curioso.

“Cosa è successo?” chiese innocente, avvicinandosi al fratello, che solo ora stava tornando in possesso del suo braccio.

“Niente…” tagliò corto lui.

Il moro lo guardò per niente convinto, per poi accorgersi di un particolare. Un particolare decisamente rilevante.

“Porca miseria, Tom! Sei ancora nudo! Vestiti immediatamente!” urlò a pieni polmoni.

“Guarda che ho capito!” ribatté il rasta.

“E allora muoviti!” lo spronò il fratello, iniziando a battere le mani.

“Se tu uscissi da questa stanza, forse…” ed indicò la porta con un gesto della testa.

Bill sbuffò furente e fece come gli era stato detto, per poi sbuffare ancora fuori dalla camera ed avviarsi lungo le scale, sbuffando per la terza volta, con volume abbastanza alto perché Tom potesse sentirlo.

Il ragazzo si tolse le coperte di dosso e si alzò, infilandosi i boxer che trovò per terra solo per arrivare fino al bagno.  Aveva bisogno di una rinfrescata. Una volta dentro sentì lo scorrere dell’acqua della doccia e vide attraverso il vetro appannato la figura di un corpo a lui ben noto.

Si avvicinò, quindi, alla cabina, togliendosi i boxer e lanciandoli nella cesta dei panni sporchi, ed aprì.

“Tanto lo sapevo che eri tu…” fece la ragazza, osservandolo da sotto gli schizzi della doccia.

Lui ridusse gli occhi a due fessure e la guardò torvo.

“E dai, non dirmi che sei ancora arrabbiato per prima!”

Ma lui non rispose.

“Stavo solo scherzando!” si difese lei, sorridendogli.

Il ragazzo girò il soffione della doccia nella sua direzione e non la considerò.

Lei sorrise dolcemente. Per quanto potesse essere insopportabile quando la ignorava, Inge sapeva che questa volta non era niente di serio. Quindi, si avvicinò a lui e lo abbracciò, iniziando a baciarlo sulla schiena, per poi sfiorarlo con la punta del naso.

“Sei più tranquillo, ora?” gli chiese sussurrando.

Lui si girò, prendendo le braccia della ragazza tra le sue mani e la guardò negli occhi inespressivo.

Lei schioccò la lingua.

“Ok, cosa vuoi che faccia?” chiese scocciata, roteando gli occhi.

Tom sorrise sghembo e superiore. Ora era lui a comandare.

La portò con la schiena contro il muro e le sollevò le braccia – ancora tra le sue mani –, appoggiandosi con i gomiti alla parete della cabina.

La baciò appassionatamente, per poi lasciarla libera, permettendo alle sue mani esperte di muoversi su di lei.

Ma qualcuno bussò alla porta violentemente.

“Non starete di nuovo facendo oscenità in bagno, vero?” urlò schifata la voce di Bill.

Inge rise.

“Mi sa che questa volta dobbiamo lasciare perdere…”

“Mi state ascoltando?” batté rumorosamente alla porta. “Ehi! Voi! Razza di animali in calore ventiquattr’ore su ventiquattro!”

“Che palle…” biascicò Tom.

“Per colpa vostra, arriverò in ritardo!” gridò ancora il moro, colpendo la porta sempre più pericolosamente. Prima o poi l’avrebbe buttata giù.

“Ma se stiamo solo andando in un locale a bere qualcosa con Gustav e Georg!” rispose a tono Tom, chiudendo il getto d’acqua ed uscendo dalla doccia, seguito da Inge.

“Sì, ma arriveremo tardi lo stesso!” berciò Bill indignato.

La ragazza rise sotto i baffi e Tom sospirò esasperato. Quindi si coprirono con degli asciugamani ed uscirono dal bagno.

“Finalmente vi siete decisi!” gli fece notare Bill, battendo freneticamente il piede per terra, le braccia incrociate al petto. “Credevo che voleste battere il record di orgasmi al minuto…”

“Di certo, tu non ti stai nemmeno impegnando per battere il record di rompicoglioni…” lo guardò strafottente Tom. Questa era la solita scena di routine.

“Vaffanculo, allora!” e voltò loro le spalle. “Ma muovetevi, porca miseria!”

Inge si allontanò dal rasta per andare in camera sua a prendere dei nuovi vestiti, ma venne trattenuta da lui, che la prese per un braccio.

Lei lo guardò inarcando un sopracciglio.

“Dobbiamo finire…” disse lui con voce calda e bassa, tirando la ragazza a sé.

“Già. Non si lasciano le cose a metà…” ribadì lei, alzandosi in punta dei piedi e baciandolo. Lui l’afferrò per la vita e la sollevò da terra, mentre Inge intrecciava le mani intorno al collo del ragazzo per non cadere.

Tom prese a baciarla sul collo e sul petto, che l’asciugamano copriva sempre meno, visto che stava scivolando verso terra.

“MUOVETEVI!” ruggì Bill dal piano di sotto.

Inge e Tom risero ognuno sotto le labbra dell’altro, per poi dividersi e andarsi a vestire.

Intanto Bill continuava a girare per l’ingresso senza una meta, aspettando che quei teneri piccioncini in calore avessero finito di fare i loro comodi e si degnassero di scendere.

“A che punto siete?” gridò ancora.

“Al punto che ora vengo giù e ti chiudo quella dannata bocca!” rispose Tom dal piano superiore.

Bill sbuffò per l’ennesima volta quella sera. Perché nessuno in quella casa lo capiva? Chiedeva tanto, se voleva essere puntuale? L’ultima volta che era successo una cosa del genere erano arrivati mezz’ora dopo. Peccato, che l’appuntamento fosse stato posticipato di un’ora… Quella volta suo fratello si vendicò piombando in camera sua alle tre di notte e saltando sul suo letto.

Per Bill fu un vero trauma.

Ma questa volta, gliel’avrebbe fatto passare lui un trauma, se non si fosse presentato davanti ai suoi occhi entro cinque minuti.

Che palle…

 

***

 

Tom si portò alla bocca il terzo boccale di birra e ne finì il contenuto, proprio mentre una cameriera ne portava un’altra grande scorta al loro tavolo circolare.

“Dai, Bill!” rise sguaiatamente Georg. “Non sarai ancora arrabbiato per questa sera!”

Il cantante incrociò le braccia al petto e sbuffò.

“Calmati!” fece Gustav, sorseggiando la sua birra.

Bill roteò gli occhi. Era un’ora che non facevano altro che sfotterlo. E gli giravano come non mai.

“Possibile che tu sia così permaloso?” infierì suo fratello, biascicando.

“Non è colpa mia se voi siete tutti dei cretini!” proferì lui, incazzato, ma con aria superiore.

“No, ma è colpa tua se te la prendi tanto!” rincarò Tom.

“Dai, era solo uno scherzo!” rise Inge, anche lei svuotando il suo boccale di birra.

“Stronzi…” mormorò Bill.

Gli altri risero allegri e divertiti. Programmare l’uscita al pub un’ora dopo l’ora stabilita con Bill, era decisamente la cosa più idiota potessero fargli per farlo incazzare. Bill amava essere in orario, e odiava chiunque potesse fargli fare solo un minuto di ritardo – ovviamente solo quando il motivo del ritardo non fosse lui stesso.

Quella sera i ragazzi si erano messi tutti d’accordo per giocare questo scherzo al moro, facendogli credere di essere in ritardo, proprio come l’altra volta. Tom ed Inge vennero ringraziati per il loro sostanziale contributo.

Bill afferrò la sua birra e la bevve tutta d’un sorso, battendo, poi, il boccale rumorosamente sul tavolo, ribadendo il concetto che fosse incazzato come pochi l’avevano mai visto.

Per calmarlo servì tutta la pazienza di Tom – sempre più difficile da trovare, in questi casi – e una bella dose di schiaffi al proprio orgoglio, assecondando il fratello di essere uno stronzo che si divertiva a rovinare la vita altrui con scherzi di poco gusto.

“Bill, tranquillo” intervenne ad un certo punto Inge. “Si sa, tanto, che Tom è un idiota…” rise biascicando qualche parola.

“Ehi! Passi al nemico?” ribatté il chitarrista stizzito.

Lei annuì, prendendo uno dei boccali davanti a lei e rovesciandone un po’ il contenuto nel suo – e sul tavolo.

“Ehi! È mio!” protestò Georg, notando quanto drasticamente si era svuotato.

“Che ti ha fatto, Inge?” chiese Bill, afflitto, sfoderando dei teneri occhioni dolci alla ragazza, dicendole implicitamente quanto fosse dispiaciuto che un tale cretino se la potesse prendere con una come lei.

Lei iniziò, quindi, a fare la parte della vittima, appoggiando le accuse di Bill, per poi ridere delle espressioni sdegnate di Tom.

“Pensa che mi ha persino buttato giù dal letto!”

“Ti ha buttato giù dal letto?” ripeté Bill sbalordito.

 Lei annuì, mentre Tom le sbuffava in faccia per la sesta volta, guardandola minaccioso.

Georg e Gustav, intanto, ridevano per quella scenetta che veniva loro proposta – come al solito – dalla esordiente compagnia teatrale Kaulitz-Träne.

“Ma lei aveva dormito tutta la sera sul mio braccio!” replicò il rasta.

“Non è un motivo sufficiente per scaraventarla a terra!” la difese il moro, ingerendo altro liquido dorato.

“Ma mi faceva male, cazzo!” si lamentò l’altro, afferrando a sua volta un altro boccale e portandoselo alla bocca.

I due Kaulitz si squadrarono tenendo saldamente le loro birre in mano, quasi come se volessero fronteggiarsi a chi ne beveva di più.

“Vabbè, comunque ti capisco, Tom…” fece Georg, rendendosi, così, partecipe dell’opera.

“Oh! Finalmente!” declamò arcigno contro il fratello, allargando le braccia.

“Ma Georg non fa testo!” rispose a tono Bill.

“E perché, scusa?” alzò un sopracciglio infastidito il bassista.

“Perché tu dormi sempre con la testa sul braccio! È ovvio che ti si addormenti ogni volta!”

“Proprio per questo capisco come ci si sente!”

“No, tu non capisci mai niente!” lo diffamò Bill, puntando il dito indice della mano, che reggeva ancora il boccale, contro di lui.

Georg lo guardò torvo.

“Ma sì! Vuoi che ti ricordi cosa hai fatto l’ultima volta sul tuorbus?” fece Bill, lanciandogli uno sguardo superiore.

Georg sospirò.

“Che palle…”

“Cosa è successo?” chiese Inge, tornando alla rimonta nella classifica delle comparse di quella scena.

“Praticamente, una notte – mentre tutti dormivamo beatamente,” sottolineò il cantante. “questo deficiente inizia ad urlare come un forsennato e -”

“Ehi, ma se la racconti così, faccio solo la parte del cretino!” gli fece notare il ragazzo.

“Era proprio quello il mio intento, sai?” ridacchiò Bill.

Dopo aver sbuffato un’altra volta, Georg prese parola, raccontando uno dei tanti aneddoti accaduti sul quel mega bus.

“Praticamente… stavo dormendo, poi ad un certo punto – evidentemente – mi girai nel letto e portai il mio braccio sopra la testa. Siccome non mi sentivo più il braccio, ma avevo la sensazione di una mano inerme sul mio viso mi svegliai di soprassalto, prendendo la mano insensibile con l’altra e scaraventandola contro la parete del bus con tutta la forza che avevo.”

“Non dimenticarti che urlavi come se ti avessero appena aggredito…” lo interruppe Bill, sorseggiando altra birra. Tom lo imitò.

“Ma ne avevo tutto il diritto!” berciò lui. “Comunque, quando il mio braccio iniziò a svegliarsi, iniziai a sentire un dolore allucinante alle nocche…”

“Se sei cretino…” commentò Tom.

“Ehi! Guarda che ti stavo difendendo!” lo riprese l’amico.

“Sì, ma questo non cambia che tu sia cretino…”

“Fottiti…” sibilò l’altro, afferrando il suo boccale praticamente vuoto e bevendole la birra restante.

La risata di Inge si fece pian piano sempre più rumorosa, sovrastando le parole degli altri tre ragazzi – Gustav se ne stava buono a sorseggiare la sua birra.

“Ok, tu hai bevuto decisamente troppo…” commentò Tom, togliendole il boccale di mano e posandolo sul tavolo.

“No! Dammelo! È mio!” piagnucolò lei, ridendo.

“Non se ne parla nemmeno…” convenne Bill, puntandole un indice contro ed assumendo un’espressione di rimprovero – non del tutto soddisfacente.

“Ma quella è la mia birra!” si lamentò lei.

“No, era la mia…” puntualizzò Georg.

“Non è vero!” ribatté lei, incrociando le braccia al petto e mettendo il muso come i bambini piccoli.

“Sì, invece!” replicò lui.

“Georg, non ti ci mettere pure tu…” sospirò Tom, per poi alzarsi e prendere Inge per un braccio, facendola alzare a sua volta.

“Dove andiamo?” chiese lei, seguendolo barcollando.

“A casa…” rispose lui, salutando gli altri con un cenno della testa. Ora bastava solo chiamare Saki e convincere Inge.

“No, io voglio restare con loro!” si impuntò, infatti, lei.

“No, tu ora vieni a casa.”

“No!”

“Sì!”

La ragazza si intestardì nel cercare di rimanere nel locale, ma Tom era ancora abbastanza sveglio da non cedere. La prese per la vita e se la caricò in spalla.

“Mettimi giù!” gridò lei, iniziando a scalciare.

“Nemmeno morto…” rise lui divertito, cercando di fermarle le gambe con la mano libera.

“Uffa!”

I tre ragazzi si misero a ridere, per poi decidere di andare anche loro a casa. Dopotutto erano le tre…

Gustav chiamò Saki, che in poco tempo arrivò davanti all’Irish e li caricò in macchina, visto che non era pensabile che solo uno di loro potesse guidare in quelle condizioni. Gustav compreso.

I ragazzi salirono in macchina e solo a quel punto, Tom mise giù Inge, che nel frattempo si era addormentata. L’omone passò prima da casa di Gustav, poi scaricò Georg, per giungere, infine, a quella dei gemelli.

Bill scese, aspettando che il fratello prendesse Inge – questa volta in maniera più civile e comoda – e la portasse dentro, le braccia della ragazza penzolanti inermi verso il basso.

Una volta dentro, Tom la portò sul suo letto, la spogliò e le mise la sua maglietta, per poi coprirla con le coperte, mentre lei si rannicchiava contro il cuscino e farfugliava parole incomprensibili. Quindi, anche lui si spogliò, rimanendo in boxer, e si mise vicino a lei, allungando un braccio intorno alla vita della ragazza.

L’unica sua preoccupazione, ora, era che lei non vomitasse nel bel mezzo della notte…

 

***

 

Dischiuse un occhio. Poi l’altro.

Si girò a guardare la sveglia digitale sul comodino, oltre la spalla di Tom, sdraiato prono accanto a lei.

Cazzo! Le otto e un quarto!

Subito si alzò di scatto, ma una dolorosa fitta alla testa la fece ricadere sul letto, gli occhi serrati e le mani premute sulla fronte. Sembrava che mille chiodi cercassero di perforarle la testa.

Ma quanto aveva bevuto ieri sera?

Poi, si ricordò di un dettaglio. Quel giorno entrava a lavorare più tardi. Sospirò di sollievo. Aveva almeno due ore a disposizione per farsi passare quel terribile mal di testa. Non era possibile presentarsi in quello stato.

Allungò una mano verso il comodino e cercò le aspirine all’interno del cassetto. Ne prese una e la buttò giù insieme ad un sorso d’acqua dalla bottiglia che teneva vicino al letto.

Poi si stese di nuovo e chiuse gli occhi, mentre Tom si rigirava, mormorando qualcosa che lei non capì.

Dopo poco, si costrinse ad aprire gli occhi. Si sarebbe addormentata di nuovo, altrimenti.

Un braccio, di colpo, le cadde sulla pancia e lei per poco non reagì tirando un pugno in faccia all’innegabile colpevole di fianco a lei, ancora preso a rigirarsi nel letto.

Lei lo osservò con la testa girata verso di lui, finché non si mise di nuovo comodo, pancia sotto, e stravaccato come era solito dormire ogni volta.

Sorrise.

Era davvero bello.

La ragazza, poi, si girò sul fianco e gli tolse i rasta che gli coprivano scompostamente il viso. Non ne aveva mai abbastanza di guardarlo dormire. Più volte lui, al suo risveglio, l’aveva trovata a fissarlo, e più volte le aveva detto che odiava essere fissato da lei in quel modo; ma Inge sapeva che non era vero. Tom Kaulitz amava essere fissato, solo che lo metteva in imbarazzo quando lo faceva lei. E questo le piaceva, perché soltanto lei poteva vedere il vero Tom, un Tom sconosciuto a tutti gli altri. Per questo continuava.

Quando, però, le sembrò che i mille chiodi che tentavano di attraversarle il cranio da parte a parte, avessero rinunciato all’impresa, si alzò e si vestì, lasciando che i suoi occhi si soffermassero ancora sul quel Tom addormentato, prima di uscire e chiudere la porta dietro di sé.

 

***

 

Era sera.

Tom stava suonando la chitarra in camera sua, provando a buttare giù una melodia per una prossima canzone. Quelle note gli giravano in testa da tutta una giornata – forse era dovuto alla sbronza presa il giorno prima – per questo ora aveva preso la chitarra e stava cercando di renderle nel migliore modo possibile, visto che si adattavano perfettamente al significato del nuovo testo scritto da suo fratello.

Gli spartiti erano sul letto, pieni di scarabocchi e cancellature, ma alla fine di due ore di lavoro, contenevano anche una melodia che sarebbe stata molto apprezzata da Bill e gli altri due. E poi l’avrebbe fatta sentire pure ad Inge. Non l’avrebbe mai detto, ma la ragazza aveva un buon orecchio in fatto di musica e certe volte – benché non sapesse niente in materia – riusciva anche a dargli una mano.

Improvvisamente il campanello suonò, facendogli perdere la concentrazione e quelle note che gli erano appena balenate in mente.

“Bill! Vai tu ad aprire!” urlò dalla camera. Poi si ricordò. “Ah, già… lui è ancora al servizio fotografico…” mormorò tra sé e sé.

Si alzò, quindi, e posò la chitarra sul suo sostegno, accompagnando ogni gesto con un’imprecazione a chiunque avesse suonato. Chi cazzo poteva essere a quell’ora?

A proposito…

Tom si girò verso la sveglia digitale sul comodino ed adocchiò l’ora.

Le otto. Chi cazzo è a quest’ora?

Scese le scale velocemente e premette il pulsante per azionare lo schermo del citofono, ma non vide nessuno. Quindi, ancora più irritato, chiuse la visualizzazione e tornò in camera sua.

Riprese in mano la chitarra e si rimise seduto sul letto con gli spariti davanti.

Dove cazzo ero arrivato?

Si rigirò quei fogli un po’ tra le mani per poi concludere – ancora più furioso – che avrebbe dovuto riprendere tutta la melodia da capo. Sistemò gli spariti sul letto in modo da poter vedere tutte le note scritte e cominciò a far vibrare le corde della sua nuova Gibson, mentre con la sinistra premeva le corde con movimenti veloci ed esperti, creando una melodia allo stesso tempo dolce, ma anche energetica.

Arrivato di nuovo al punto in cui aveva lasciato, provò a suonare qualche altra nota per continuare la sua composizione. Dopo aver scartato la ripetizione di qualche accordo già preso in considerazione e dopo aver decretato che l’arpeggio rendeva il tutto troppo diabetico, decise di attaccare la chitarra all’amplificatore, aumentando gli effetti con il pedale e provando a fare qualche power – tecnica diametralmente opposta all’arpeggio, ma che si intrecciava alla perfezione con le note già trovate.

Si fermò, poi, un attimo per prendere la tracolla della chitarra che teneva in una borsa lì vicino e l’agganciò allo strumento, per poi chiudere gli occhi e iniziare a suonare come se fosse sopra un palco. Si scatenò per qualche minuto, improvvisando brani già scritti da lui o altri chitarristi, ma poi fu costretto a fermarsi per un ronzio che sentiva provenire dal piano inferiore.

Spense l’amplificatore e cercò di capire cosa potesse essere.

Subito il campanello suonò di nuovo.

Con un nuovo sospiro ed una nuova ed elaborata imprecazione, Tom si affrettò a posare ancora una volta la chitarra sul suo sostegno ed a scendere nell’ingresso. Riattivò lo schermo del citofono, maledicendo chiunque avesse voglia di fargli uno scherzo come quello di poco tempo fa. Ma fortunatamente, questa volta c’era davvero qualcuno fuori, anche se l’espressione sul viso del fratello non significava niente di buono.

Tom gli aprì il cancello e si affacciò alla porta di casa.

“Vieni qui, Tom…” fece Bill – carico di borse contenenti i suoi vestiti per il servizio – con tono titubante.

Suo fratello corse verso di lui senza capire cosa volesse, ma tutto gli fu chiaro non appena vide un piccolo, ma enorme piumino che copriva un bambino sdraiato vicino al cancello, addormentato. Aveva una sciarpa nera intorno al collo e un borsone al suo fianco.

Forse era stato lui a suonare prima, rifletté Tom, notando che anche se fosse stato in piedi non l’avrebbe potuto vedere dallo schermo, posizionato troppo in alto.

“Chi è?” fece lui, indicando il piccolo esserino avvolto in quel giacchetto troppo grande.

“Cosa vuoi che ne sappia!” rispose Bill, guardando torvo il fratello. “Sono arrivato ora!”

“Forse è meglio portarlo in casa…” constatò Tom, avvicinandosi al bambino e toccandolo con la mano sulla fronte.

“Già, fa anche freddo, visto che siamo in autunno…” convenne Bill.

Cosa voleva dire tutto questo? Perché un bambino stava dormendo ai piedi del loro cancello? Era una trovata di David – per quanto assurda fosse – o roba del genere?

Non sapeva darsi una risposta, come d’altronde anche suo fratello.

Tom, quindi, prese la sua borsa e se la portò su una spalla, per poi chinarsi nuovamente e prendere il bambino tra le braccia, mentre Bill lo anticipò per aprirgli le porte che il chitarrista si era chiuso dietro nell’uscire, per poi aspettare che lui fosse passato prima di richiuderle.

Il moro posò le borse nell’ingresso e seguì Tom che stava salendo le scale per mettere il bambino in un letto. La prima camera che si presentò loro fu quella di Inge, ma visto che lei si era praticamente trasferita in quella di Tom, non sarebbe stato un problema lasciare quell’inatteso ospite là finché non si fosse ripreso.

Bill corse, invece, in camera sua e prese il termometro e lo portò a Tom, che tolse il giacchetto al bambino, per verificare se avesse la febbre o meno.

“Non ti pare una scena già vista?” rise Bill.

“Già…” rispose Tom, non molto conquistato dall’allegria del fratello.

“Ehi! Non è che è suo parente?” ipotizzò il moro.

Tom lo guardò alzando un sopracciglio.

“Sennò l’altra possibilità che mi era venuta in mente,” disse Bill, portandosi un dito sotto il mento ed assumendo un’aria pensierosa. “era che questo bambino sia tuo figlio…” e mostrò un sorrisino sornione.

“Cosa?” fece Tom, altamente stizzito. “Ma vuoi scherzare?”

“Bè, conoscendoti, potrebbe essere il frutto di una delle tue tante notti…” continuò con il solito atteggiamento.

“Stai cercando guai…” lo minacciò Tom con un dito.

“No” negò deciso lui. “Sono solo realista.”

“Bill…” la pazienza stava pian piano esaurendo.

“Ma dai! Come nei film! Te lo immagini? Ora troveremo un pezzo di carta con su scritto che la madre non può tenerlo e…” Bill si bloccò.

Poi i gemelli si guardarono, per spostare, quindi, lo sguardo sulla borsa del bambino, ma i significati che si potevano leggere sui loro volti, erano decisamente differenti.

Bill era curioso. Tom era intimorito. C’erano sul serio delle possibilità che quello fosse suo figlio. Ed anche relativamente alte.

Entrambi si avvicinarono alla borsa e l’aprirono. Dentro vi trovarono vestiti – non proprio ben tenuti – dei giochi…

Ed un biglietto.

Deglutirono tutti e due. Sembrava che tutto ciò che stava dicendo Bill, si stesse avverando.

“Secondo me, dovresti leggerlo tu…”

“Bill, non scherzare…” rispose Tom, leggermente preoccupato. “E poi anche tu non sei da meno, certe volte! Potrebbe essere anche tuo!”

Bill non rispose, limitandosi ad adocchiare il piccolo pezzo di carta. Suo fratello, quindi, deglutì un’altra volta e l’aprì.

Non appena finì di leggere le poche righe, sentì la testa girargli per qualche secondo.

“Che dice?” chiese curioso il cantante, allungando gli occhi sul biglietto.

Il rasta glielo passò senza fiatare ed il moro lesse ad alta voce:

“Tom, questo è tuo figlio. È nato quattro anni fa. Non riesco a mantenerlo con il lavoro che faccio. Ti prego, prenditene cura.”

Seguirono attimi di pesante silenzio, in cui nessuno dei due osava parlare.

“Oddio…” fece Bill in un sussurro, poco dopo. “Proprio come avevo detto…” ed alzò lo sguardo su suo fratello. “Ehi, Tom, lo giuro, io non sapevo niente…”

“Bill, stai zitto.” Sibilò lui. “Non richiedo le tue battute ora. La questione è seria.”

“Guarda che lo so. Cercavo solo di sdrammatizzare…” si difese Bill, leggermente offeso dalle parole di Tom. Non era così ottuso da non capire che questa situazione era più grave dell’avere solamente un ospite inaspettato in casa.

“Non hai capito: non si può sdrammatizzare una situazione del genere.”

Bill si zittì, sentendosi ferito in pieno dal fratello, ma capendo come potesse sentirsi lui in quel momento.

“Non c’è nemmeno un nome…” disse, quindi, rigirandosi il foglio tra le mani.

“Già. Nessun nome.” Ripeté Tom.

Merda…

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Continua...

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ATTENZIONE: I Tokio Hotel non mi appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera della loro personalità. No scopo di lucro.

***

Ed eccomi di nuovo qui.

Prima di salutarvi, devo assolutamente chiarire una cosa: questa fan fiction non riprende quasi per niente la storia che l'ha preceduta, ho solo usato i medesimi personaggi perché mi sembrava troppo triste abbandonarli (e qui potete pure ridere). Mi ero talmente affezionata ad Inge ed al suo rapporto con Tom, che non ho potuto fare a meno di inserirla di nuovo.

Proprio per questo non è necessario che voi tutti, oh carissimi e santissimi lettori che mi seguite, abbiate letto 'Sopravvivere'. Non ci saranno - credo - riferimenti sostanziosi alla vita di Inge. Solo una buona dose di guai. ^^

Ah! Non aspettatevi frequenti aggiornamenti - vi avverto subito - perché non è ancora conclusa. Al momento ho scritto solo questo capitolo ed il prossimo. Certamente, vedrò di essere il più veloce possibile, ma non garantisco. Chiedo venia in anticipo per tutti i ritardi che farò.

Bè, ora non mi resta che ringraziare chiunque avesse avuto la voglia di leggere questo capitolo (oltre che a tutte le 15 persone che hanno commentato l'ultimo capitolo di 'Sopravvivere').

Mi aspetto qualche recensione! Mi raccomando! XD

Un'ultima cosa: visto che oggi è il primo Settembre, fare gli auguri a quei due ragazzi mi sembra d'obbligo.

Auguri, Kaulitz!

_irina_

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Capitolo 2
*** Lies, Lies, Lies ***


Just a kid

Just a kid

 

Lies, Lies, Lies

Prese le chiavi dalla tasca del giacchetto, facendo attenzione a non far cascare la grossa busta che stava cercando di reggere con una sola mano, e le inserì nella toppa, puntellando la busta sull’anca destra. Aprì, dunque, la porta con un piede, in modo da usare la mano ormai libera per sorreggere la busta con più facilità. Entrò e chiuse la porta con lo stesso piede, facendola sbattere un po’ troppo forte.

Attraversò l’ingresso, notando la luce dello studio accesa e due figure all’interno oltre la porta a vetri chiusa. I gemelli erano là.

Salì le scale e si diresse in camera sua per posare tutto l’occorrente per il suo lavoro che fu costretta a portare a casa per mancanza di tempo. Ma non appena aprì la porta della stanza, vi notò all’interno un piccolo particolare che quella mattina non c’era: un bambino.

Cercò di guardare meglio, forse se l’era immaginato – troppo lavoro, ultimamente – ma anche una volta che ebbe chiuso gli occhi, per poi riaprirli, quel bambino era sempre sul suo letto, addormentato. Si avvicinò al piccolo e lo osservò. Era davvero strano: sembrava la copia esatta dei gemelli.

Posò, poi, più delicatamente e silenziosamente possibile la busta per terra e si affrettò a chiudere la porta. Scese le scale, saltando gli ultimi tre scalini, e si diresse verso lo studio, che trovò vuoto e con luce spenta. Si girò e notò, quindi, che i due gemelli si erano spostati in cucina.

“Allora?” la voce di Tom.

“Non lo so…” la risposta di Bill.

Silenzio.

Strano che ci fosse silenzio, commentò Inge tra di sé. La loro conversazione, inoltre, presentava un tono piuttosto insolito. Sembravano preoccupati e nervosi.

Si incamminò verso di loro e si affacciò in cucina.

“Chi è il bambino in camera mia?” chiese appoggiandosi al muro dell’immensa stanza.

Tom, di spalle, trasalì, ed Inge lo vide portarsi una mano al petto, per poi girarsi verso di lei e guardarla con occhi sgranati.

“Mi hai fatto prendere un colpo!” farfugliò, sospirando.

“Ciao, Inge.” La salutò con la mano Bill, seduto di fronte al fratello. “Non ti avevamo sentito arrivare…”

“Ciao.” Ricambiò il saluto al moro, per poi avvicinarsi a Tom e lasciargli un bacio sulle labbra. Si sedette, quindi, anche lei su una sedia intorno al tavolo.

“Come è andata oggi?” chiese Bill.

Lei sospirò, stravaccandosi sulla sedia e mostrando una smorfia di stanchezza infinita.

“Hanno anticipato ancora una volta la scadenza del progetto…” mormorò, per poi stendersi sul tavolo con le braccia e nascondere la testa tra esse.

Il cantante rise, mentre Tom si limitò ad un sorrisetto.

“A voi come è andata la giornata?”

“Cosa?” fece Tom, con un tono leggermente nervoso.

“La giornata… cosa avete fatto…?” fece la ragazza alzando la testa e guardandolo perplessa. Non era il solito Tom.

“Ah…” e il chitarrista rise isterico.

No, non era decisamente il solito Tom.

“Io ho fatto il servizio fotografico.” Rispose Bill. “Potrai vedere le mie magnifiche foto sulla rivista – com’è che si chiama? Non è molto famosa… - vabbè, su una rivista, la prossima settimana.”

“E tu?” chiese Inge al rasta.

Tom iniziò a dondolarsi sulla sedia.

“Ho… ho cercato di comporre una melodia per il nuovo testo di Bill.” rispose con un gesto della mano molto vago.

“È anche molto bella!” lo elogiò il fratello. “In questi giorni, quando dovremmo andare a fare le prove, la faremo sentire anche a Georg e Gustav – sai, per completarla – e poi la proporremo a David.”

“Allora, in bocca al lupo!” sorrise Inge.

“Ehi, perché non gliela fai sentire?” fece Bill a suo fratello.

Lui sbuffò. “Ma devo andare a prendere la chitarra in camera e -”

“Ah!” lo interruppe Inge, ricordandosi solo ora di un fatto decisamente curioso. “Chi è il bambino in camera mia?”

Un tonfo annunciò a tutti i presenti la caduta di Tom dalla sedia.

Bill si alzò per appurare che suo fratello fosse ancora tutto intero. Una volta, poi, sentita la serie infinita di imprecazioni che Tom non si risparmiò di farfugliare, si rimise seduto. Stava anche troppo bene.

Il rasta si alzò e raccolse la sedia, per poi sistemarla di nuovo intorno al tavolo e sedercisi di nuovo sopra.

“Dicevamo…?” disse, poi, sorridendo tirato.

“Che c’è un bambino addormentato in camera mia…” rispose Inge sospettosa. Cosa diavolo era preso a Tom?

“Ah…” fece lui. “Sì, ecco… lui è… nostro cugino.” Tossì, poi.

Bill strabuzzò gli occhi. Fortuna che Inge era rivolta verso Tom e non l’aveva visto.

“Vostro cugino?”

“Nostro cugino?”

Ripeterono Inge e Bill all’unisono.

“Sì…” e fulminò il fratello con lo sguardo. “L’hanno portato qui perché…”

“Perché i suoi genitori andavano in vacanza con i nostri.” Lo salvò in tempo Bill, subito maledicendosi per il grande casino a cui stava andando ad immischiarsi sempre più pericolosamente ogni secondo che passava.

“Ah…” fece Inge. “E come si chiama?” chiese lei innocente e curiosa.

“Ehm, fattelo dire da lui quando si sveglia…” suggerì Tom, cercando di sottrarsi a quella domanda.

Lei alzò un sopracciglio scettica. Non le pareva che Simone avesse fratelli o sorelle… ma forse Gordon sì. Tuttavia, Gordon non era il vero padre dei ragazzi, come si spiegava, quindi, tutta quella somiglianza?

Forse era figlio di un fratello – o sorella che fosse – od addirittura del padre naturale di Tom e Bill con un’altra donna, anche se non le sembrava avesse molto senso che i genitori attuali dei due gemelli facessero una vacanza con lui… o forse sì?

C’era qualcosa che non le tornava, ma si convinse a non badarci più di tanto.

“Userà sempre la mia stanza?” chiese, quindi, lei.

“Se a te dà fastidio, no.” Rispose Bill, alzandosi e prendendo una bottiglia di succo d’arancia dal frigorifero. “Volete?” Tom negò, mentre Inge ne prese volentieri un bicchiere.

“Vuoi che si porti in un’altra stanza? Che ne so… in quella degli ospiti, ad esempio….” Continuò il moro, tornando a sedere vicino a loro.

“No, no, figurati! Era per sapere… perché se lui usasse quella stanza, dovrei portare da un’altra parte tutto ciò che mi serve per il lavoro. Sai, non mi piacerebbe piombargli in camera ogni volta che mi serve qualcosa…” sorrise.

“Potresti, allora, portare la tua roba nella stanza degli ospiti, tanto non la usa nessuno.” Propose Tom, ricordando a tutti della sua presenza.

“Ok, allora userò la tua,” lo guardò beffarda lei.

“La mia? Ma se non ci sta nemmeno tutta la mia roba!” ribatté lui.

“Questo perché sei disordinato ogni oltre limite.”

“E allora? Mi piace il caos!”

“A me non più di tanto…” commentò lei con aria esageratamente afflitta.

“Allora prenditi la stanza degli ospiti, scusa!” brontolò lui, lasciando che un piccolo sorriso trapelasse sulle sue labbra.

“No, proprio perché lo dici tu, credo che invaderò la tua.”

Tom non rispose, lasciando che il suo sguardo torvo parlasse per lui. Il sorriso sulle labbra, però, lo tradiva.

“Lo sapevo che avresti detto di sì…” sorrise la ragazza, sporgendosi verso di lui e baciandolo sulle labbra. “Comunque, stai pure tranquillo…” fece, tornano seduta. “Scherzavo. Metterò tutte le mie cose nell’altra camera. Sai, non vorrei rendermi colpevole di distruggere il tuo armonico caos, conquistato con tanto sudore della fronte.” Fece lei magnanima.

“Ah, quanto sei comprensiva…” sospirò lui, eccessivamente colpito da tanta generosità, per poi darle un buffetto sulla guancia, sorridendole sornione.

Lei rise.

“Lo so.”

 

***

 

Inge si alzò per posare nell’acquaio piatti e bicchieri. Poi avrebbe caricato tutto nella lavastoviglie. Bill e Tom, intanto, stavano rispettivamente riponendo nel frigo la roba avanzata e scuotendo la tovaglia sul terrazzo.

All’inizio della loro convivenza, era Inge a sistemare la cucina – tra uno sbuffo e l’altro per renderli partecipi di quanto a lei non stesse bene tutto ciò. Ma dopo aver indotto uno sciopero delle sue mansioni per una settimana abbondante, ed aver assistito ad una crescita esponenziale delle stoviglie sporche – che nessuno osava più toccare – la ragazza riuscì a far capire ai due Kaulitz che avrebbero dovuto collaborare. E da quel giorno, con grande soddisfazione di Inge, che – credendo impossibile che questi due fossero andati avanti senza governante per tutto quel tempo – aveva smesso di criticarli, Tom abbandonò la strategia di difendersi con il suo solito discorso menefreghista: che senso ha fare ciò che già qualcuno fa al posto nostro?

“Ehi, ma non è che si è svegliato?” chiese Inge, finendo di portare le posate nell’acquaio, alludendo al bambino che ancora sembrava dormisse.

“Ma scusa, se si fosse svegliato, sarebbe venuto giù, no?” rispose il rasta, piegando al tovaglia.

“Tom, è un bambino di quattro anni che è qui per la prima volta…” gli fece notare Bill, fermandosi a guardare il fratello esasperato.

“Ah, non è mai venuto in casa vostra?” domandò la ragazza.

“Bè, no… di solito… di solito andavamo noi a trovarlo…” ripose titubante il rasta.

“Ah, capito…” ed aprì l’acqua per bagnare piatti bicchieri e quant’altro, evitando così che lo sporco si attaccasse.

“Io vado a vedere come sta…” annunciò Bill, che aveva finito i suoi compiti di quella sera, uscendo dalla cucina.

“Aspetta, vengo anch’io.” Lo rincorse Inge.

Tom non poté far altro che seguirli. Non era ammesso che restasse solo in cucina.

Arrivati davanti alla porta della camera in cui dormiva, bussarono. L’educazione prima di tutto, soprattutto con gli ospiti.

“Bah…” mormorò Tom, per niente d’accordo. Era un bambino, non occorreva bussare.

In tutta risposta, suo fratello gli diede una gomitata ed Inge una pacca sulla spalla.

Malgrado il loro tentativo di buona educazione, non sentirono risposta, quindi, aprirono la porta.

“Cioè, prima bussate e poi entrate senza che abbia risposto? Magari dorme ancora…” commentò scettico il chitarrista, ricevendo la stesa risposta di pochi secondi prima.

“È un bambino! Non possiamo lasciarlo solo!” lo riprese la ragazza.

Tom sbuffò, incrociando le braccia al petto, mentre Inge e Bill entravano nella camera. Ma, contrariamente a quanto sosteneva il rasta, il bambino non stava dormendo. Era, invece, seduto sul letto che li guardava leggermente impaurito, la schiena contro la spalliera e tra le mani una riproduzione di Spiderman.

“Ehi, ciao…” lo salutò dolcemente Inge, avvicinandosi. “Posso sedermi qui?” chiese lei, indicando il letto.

Lui annuì silenziosamente.

“Io mi chiamo Inge, tu?” e si sedette, allungando una mano verso di lui.

Il piccolo ospite guardò la mano della ragazza, ma non rispose. Si limitò a rannicchiarsi – come se stesse cercando di difendersi – portando le gambe contro il petto e stringendo il suo giocattolo tra le braccia.

“Non aver paura…” sussurrò lei. “Non ti faccio male.” Gli sorrise ancora.

Si vedeva proprio che era parente dei Kaulitz. Aveva lunghi capelli biondo scuro, che gli scendevano sul viso disordinatamente. Gli occhi erano dello stesso colore dei gemelli e, benché sembrassero timorosi, vi si poteva vedere la vivacità risplenderci dentro.

Inge cercò si avvicinare la mano verso di lui, per cercare di avere la sua fiducia (un po’ come quando cercava di avvicinare un cane. Non che lo stesse paragonando ad un animale, ma era un sistema che di solito funzionava).

Il bambino, infatti, dopo aver spostato lo sguardo da lei alla sua mano per un paio di volte, alla fine si avvicinò a lei, gattonando sul letto e gliela stringe, per poi sorridere timidamente.

“Allora, come di chiami?” domandò di nuovo la rossa con un dolce sorriso sulle labbra.

“Alex.” Rispose il bambino, guardandola negli occhi. Poi girò la testa ed osservò quegli altri due strani individui che stavano osservando la scena appoggiati allo stipite della porta.

“Alex…” fece Inge. “Che bel nome! È l’abbreviazione di Alexander?”

Lui si voltò nuovamente verso di lei ed alzò le spalle.

“Non lo so…”

A quel punto anche Bill si avvicinò, sorridendo.

“Ciao, Alex. Io sono lo zio Bill.” e gli porse una mano smaltata.

Subito Tom sgranò gli occhi, sentendo un vuoto allo stomaco.

“Zio?” chiese Inge, inarcando le sopracciglia.

“Ehm, sì… sai, le persone più grandi sono tutti zii per i bambini… no?” e rise forzato. Poteva già sentire le mani di Tom intorno al suo collo, pronte per strozzarlo.

“Ah, giusto…” convenne lei. Non era molto esperta in materia ‘bambini’, ma dopotutto era ovvio, visto che l’unico contatto con la loro specie, era dovuto al figlio di una sua collega di lavoro.

Alex, intanto, aveva preso la mano di Bill e gli sorrise un po’ più convinto. Stava iniziando ad avere un po’ di fiducia.

“Io sono Tom.” disse secco il rasta, avvicinandosi a lui e porgendogli la mano come tutti. Ma quella mossa, un po’ troppo scontrosa, fece ritrarre il bambino, che lo guardò intimorito.

“Tom! È un bambino!” lo riprese Inge. “Non puoi essere così duro!” ed accarezzò Alex sui capelli.

“Ah, scusa…” fece Tom, portandosi una mano sul collo, imbarazzato. Quindi, cercò di rimediare, mostrando un sorriso un po’ troppo tirato.

Alex lo guardò ancora leggermente timoroso, ma gli diede la mano.

“Gli sto già sul culo…” rise sottovoce con qualche nota non del tutto convincente, una volta finite le presentazioni e tornato ad appoggiarsi allo stipite della porta, vicino a Bill.

“Bè, dopo tutto ciò che gli hai fatto, sarebbe il minimo!” sghignazzò il fratello.

“Perché? Cosa gli ha fatto?” chiese Inge, non cogliendo il doppio senso di quell’affermazione.

“Ehm…” Tom guardò suo fratello truce. Possibile che non sapesse mai tenere quella sua dannata boccaccia chiusa?

“No, è che… quando andavamo a trovarlo, lui gli faceva sempre gli scherzi…” lo difese il moro, cercando così di scontare le future pene dell’inferno che suo fratello gli avrebbe fatto patire.

“Non ti smentisci mai, eh?” lo riprese Inge, guardando il rasta con un’espressione tra lo scocciato ed il divertito. Poi sorrise. Era ovvio che Tom, qualunque scherzo avesse mai fatto al bambino, non l’avesse mai fatto apposta. Quello era il suo carattere.

“Eh, già…” concordò lui, esitante.

“Cosa ti faceva questo troglodita, eh, Alex?” chiese divertita Inge, indicando Tom.

Il bambino la guardò interrogativo, senza – ovviamente – rispondere.

“Ehm, è passato un sacco di tempo dall’ultima volta che l’abbiamo visto, quindi è normale che non ricordi…” rispose Tom per salvarsi.

“Ah…” fece Inge, pensando ad un altro modo per far parlare Alex. Non le piaceva che venisse escluso. Soprattutto ora che era la prima volta in quella casa.

“Quanti anni hai, Alex?” gli chiese, quindi.

Lui si guardò una mano e la chiuse a pugno, per poi tirare su quattro dita. Mostrò la quantità alla ragazza e sorrise.

“Quattro!”

“Accidenti! Ma allora sei grande!” si complimentò lei. “Da dove vieni?”

Alex ci pensò qualche secondo.

“Da una casa piccola.” Rispose, infine.

Inge rise. Poi si girò verso i gemelli per ricevere una risposta più dettagliata.

“Uhm… vive nella stessa città di nostra madre…” spiegò Tom.

“Capito…” e si voltò di nuovo verso Alex. “Hai fatto un bel viaggio, allora!” e gli spettinò i capelli, già disordinati.

Il bambino rise e prese la mano della rossa per fermarla, ma lei cominciò a fargli il solletico. Alex iniziò a scalciare per allontanarla da sé, mentre urlava divertito.

Presto, anche Bill si unì a loro, prendendo il bambino per le mani, permettendo, così, ad Inge di divertirsi a torturarlo.

Tom, invece, rimase appoggiato allo stipite della porta a guardare. Vedendo Inge e Bill giocare con quel bambino, subito sentì qualcosa di strano dentro di sé. Sembravano proprio una famiglia. Avrebbe dovuto fare anche lui così? Bè, dopotutto era solo un bambino, quindi giocare era l’unico approccio che riteneva appropriato, ma proprio non ci riusciva.

C’era un piccolo particolare che lo frenava, qualunque fossero le sue intenzioni. Anche quando gli aveva offerto la mano, si era sentito irrigidire all’improvviso. Che dipendesse dal fatto che quel bambino fosse il suo bambino?

Decisamente sì.

Era preoccupato ed anche spaventato allo stesso tempo. Non aveva mai pensato a questa possibilità. Non aveva mai pensato al fatto che da un giorno all’altro un marmocchio avrebbe potuto piombargli in casa in quanto suo figlio. Come doveva comportarsi, quindi?

Non si sentiva per niente pronto a prendere il ruolo del padre. Cazzo! Aveva solo vent’anni! Senza pensare che questo bambino, forse, nemmeno l’aveva mai visto!

Era normale sentirsi così? Non sentiva alcun legame con quel bambino. Era convinto che, essendo suo figlio, provare un affetto nei suoi confronti – praticamente equivalente a quello che nutriva per Bill – dovesse essere un effetto immediato.

Eppure, non sentiva niente.

Avrebbe mai potuto instaurare un tale rapporto con il tempo? Forse, ma quanto tempo ci sarebbe voluto? Non lo sapeva, come molte altre cose.

Quel bambino sarebbe rimasto da loro per sempre? Qualcuno sarebbe tornato a prenderlo?

Erano tutte domande senza risposta.

“Ehi, Tom!” lo chiamò Inge allegra, permettendogli di abbandonare quei pensieri decisamente troppo complessi per uno come lui.

Lui la guardò aspettando che continuasse.

“Vieni a giocare pure tu!” gli sorrise.

Il ragazzo sorrise di rimando e si avvicinò a loro, ma non si unì alla loro lotta. Preferì osservarli, braccia incrociate al petto, e pensare ad altro.

“Hai fame?” chiese, poi, Bill al bambino.

Lui si fermò e tolse il piede scalzo dalla faccia del cantante. Subito, quasi come risposta fisiologica a quella domanda, il suo stomaco brontolò.

Alex arrossì e abbassò la testa.

“Ehi, non devi vergognarti se hai fame!” lo riprese Bill sorridente.

Il piccolo ospite alzò lo sguardo su di lui ed annuì.

“Dai, allora! Vieni!” e si alzò dal letto, porgendogli una mano. “Scendiamo in cucina ed andiamo a mangiare.”

Il bambino afferrò la mano e saltò giù dal letto, trotterellando vicino a Bill per stare al suo passo. Uscirono dalla stanza e scesero le scale, mentre Inge e Tom rimasero dentro.

Lei indugiò seduta sul letto a guardare il ragazzo, che non capiva il motivo dello sguardo che lei gli stava mostrando.

“Perché non mi avevate mai detto di avere un cugino?” chiese innocente Inge.

“Bè, non c’è l’hai mai chiesto…” sviò lui, grattandosi la testa e distogliendo gli occhi da lei.

“Vi assomiglia proprio. Si vede che siete cugini…” sorrise lei, alzandosi e raggiungendo Tom.

“Eh, già…” convenne lui.

Lei lo abbracciò e si alzò in punta di piedi per baciarlo, ma per la prima volta, Tom si sentì indegno di riceverne uno.

 

***

 

“È pronto!” annunciò Inge, spengendo il fuoco sotto la grande pentola.

“Aspetta! Dobbiamo finire questo combattimento!” ribatté Bill, seduto sul pavimento a gambe incrociate insieme ad Alex, intenti a far combattere Spiderman e Batman.

Per tutto il tempo in cui la pasta cuoceva, i due avevano dato sfoggio delle loro capacità di imitazione dei rumori e delle grida di dolore, per ogni qualvolta che uno dei loro personaggi veniva colpito dall’avversario. Tom, invece, stava a fissare la battaglia, stravaccato su una sedia, posizione degna di lui.

“Ma poi si raffredda la pasta…” gli fece notare la ragazza, scolandola, per poi metterla in un piatto, che posizionò sulla tavola.

“Ma tanto ora è bollente!” intervenne Tom, curioso di vedere chi avrebbe vinto tra i due supereroi. Spiderman/Alex con i suoi voli acrobatici o Batman/Bill con le sue grida di battaglia fuori dal comune?

Lei sospirò. Mai una volta che Tom l’aiutasse… Ma sorrise, mettendosi seduta su una sedia ad osservare quell’inusuale quadro che in casa Kaulitz era paragonabile ad una tempesta di neve ad Agosto; non tanto per il fatto che il moro si fosse messo a giocare con un bambino – quello le sembrava una cosa normale, visto il carattere del cantante – quanto per il fatto di avere Alex in casa.

Chissà per quanto ci sarebbe rimasto… ma nonostante questo, Inge sentiva che quel periodo sarebbe stato decisamente uno dei più speciali.

L’unica cosa che non la convinceva molto, era il comportamento di Tom nei confronti del bambino. Da quando lo conosceva, non aveva mai pensato che la presenza di una piccola creatura di soli quattro anni potesse metterlo così a disagio.

Inge alzò lo sguardo su di lui, che sentendosi osservato la guardò torvo.

“Che vuoi?” le chiese scocciato.

“Romperti i coglioni…” gli sorrise beffarda lei.

Lui sospirò.

“Come al solito, eh?”

Lei annuì, ridendo, ed il ragazzo schioccò la lingua roteando gli occhi, per poi darle un piccolo buffetto sulla guancia.

“Vuoi la guerra?” lo minacciò Inge, con aria superiore.

“Se dicessi di sì, cosa faresti?” la provocò lui.

“Tante cose…” ripose lei maliziosa.

Lui si portò le mani alla bocca in un’espressione decisamente troppo spaventata per sembrare solo un minimo reale. Lei, ridusse gli occhi a due fessure e lo guardò torva. Non le piaceva quando le parti si invertivano.

“E dai, scherzavo!” la derise lui.

“Certo…” fece lei, appoggiandosi allo schienale della sedia, in modo da allontanarsi da lui.

Tom, quindi, si girò verso di lei ed avvicinò il viso al suo.

“Possiamo fare pace?” sussurrò lui, con voce bassa e suadente.

Lei si calmò e rise.

“Guarda che c’è un minorenne…”

“Tanto è impegnato a giocare…” e si avvicinò sempre di più alle labbra della ragazza con le sue. Ma prima che potesse toccarle, avvertì qualcosa di freddo rovesciarsi sulla sua testa.

Si allontanò lentamente e con gli occhi chiusi, le mani strette in pugni.

“Inge…” sussurrò furioso, aprendo lentamente gli occhi e notando lo sguardo ed il sorriso strafottente sul viso della rossa.

“Ti ho detto che c’è un minorenne. Non voglio dare spettacolo…” ripeté lei, posando la bottiglia d’acqua ormai vuota sul tavolo ed alzandosi, per poi dirigersi su per le scale.

Ad occhio e croce aveva ancora dieci secondi di vantaggio, al termine dei quali Tom, puntualmente, si alzò e corse per raggiungerla, urlando il suo nome, incazzato. In risposta la ragazza gridò divertita. L’aveva catturata.

“Perché strillano?” chiese Alex a Bill, sospendendo il loro combattimento.

Il moro lo guardò perplesso, poi sorrise.

“Perché si vogliono bene…” e gli scarruffò i capelli.

Alex rise, cercando di fermare il cantante, che continuava imperterrito a dargli fastidio.

“A proposito!” urlò riferendosi ai due cretini al piano di sopra. “Stasera cercate di fare piano!” e subito si affrettò a tappare le orecchie al bambino – precauzione obbligatoria in quell’occasione – che aveva preso in mano entrambi i guerrieri per continuare a farli scontrare.

La fine replica del fratello, infatti, non tardò ad arrivare.

“Fatti i cazzi tuoi!”

Bill rise.

Era sempre la solita storia.

E poi dicevano che era lui il bambino…

 

¤°.¸¸.·´¯`»  «´¯`·.¸¸.°¤

Continua...

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ATTENZIONE: I Tokio Hotel non mi appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera della loro personalità. No scopo di lucro.

***

Ed eccomi con il secondo capitolo!

Bè, il titolo dice tutto. Spero che grazie ai casini che Tom sembra non possa far a meno di creare, la storia vi possa appassionare.

Ringrazio, quindi, le sei persone che hanno recensito il primo capitolo, aspettandomi di trovare altre recensioni per questo. Un grazie a: elli_kaulitz, la mitica kit2007, scrizzoth_95, BigAknge_Dark, layla the punkprincess ed Antonellina.

Ora scappo. Al prossimo capitolo! E, come già detto, lasciate tanti commentini!^^

_irina_

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Capitolo 3
*** A New Little Presence In Their Life ***


A New Little Presence In Their L

Just a kid

A New Little Presence In Their Life

“Inge…” si lamentò Alex, trotterellando verso di lei.

“Cosa c’è?” chiese la ragazza, lasciando perdere il progetto che stava concludendo.

“Mi annoio…” ammise lui. Si sedette per terra e cominciò a fissare Inge con gli occhi dolci e supplicanti. O quel bambino era stato troppo tempo con Bill, oppure i geni dei Kaulitz avevano trovato un degno alleato.

“Cosa ti andrebbe di fare?” chiese lei, sedendosi di fronte ad Alex, gambe incrociate.

Il bambino si portò un dito sotto il mento, proprio come Bill – sì, era stato troppo tempo con lui – ed emise il suo verdetto.

“Mi fai dei disegni?” gli occhi gli si illuminarono e un sorriso apparve sul suo viso.

Come poteva dire di no?

E poi, tanto, cosa mai le sarebbe costato? Dopotutto da sempre aveva avuto una buona manualità con la matita. Proprio per questo aveva cercato lavoro come grafica ed era riuscita a farsi strada nel mondo del lavoro, svolgendo anche incarichi per conto di importanti agenzie.

Quel giorno, infatti, si stava dedicando proprio all’impostazione del progetto affidatole da una grande casa editrice – fortunatamente non quella per cui lavorava tempo fa, altrimenti gliel’avrebbe tirato dietro senza troppi complimenti – per l’uscita di un libro dall’autore ancora alle prime armi.

Non erano compiti che richiedevano troppo impegno, vista la sua predisposizione all’arte, e lei, dal canto suo, si divertiva a dare sfogo alla sua illimitata immaginazione. Fu questo il motivo del suo cambio di sede. Aveva portato tutti i suoi strumenti nell’altra camera degli ospiti – che aveva adibito alla funzione di studio – in modo da poter rimanere a casa con Alex quando i ragazzi erano fuori.

Si alzò, quindi, da terra ed afferrò uno dei tanti fogli dalla ‘torre degli scarti’ (come l’aveva chiamata Alex, dopo aver capito cosa rappresentasse). Prese una penna dalla scrivania e si rimise davanti al bambino.

“Allora, cosa vuoi che ti disegni?” e si mise il tappino della penna in bocca, suo grande vizio.

“Un bambino!” esclamò lui, battendo le mani.

“Sorridente?” si informò, prima di posare la punta della penna sul foglio leggermente già scarabocchiato dalle sue bozze. Lui annuì con energia.

“Ok…” e si chinò sul foglio per adempiere al suo nuovo incarico.

Non era decisamente un ritratto, ma più una caricatura di un bambino, come se fosse stato un cartone animato. E forse, proprio questo particolare, rendeva il risultato più allegro.

“Ne voglio anche uno arrabbiato!” si apprestò ad aggiungere Alex.

Inge, quindi, lasciò in sospeso il primo ordine, per mettersi a pensare a come avrebbe potuto fare un bambino arrabbiato. Una volta che vide apparire la lampadina accesa sopra la propria testa, si rimise all’opera, questa volta sorprendendo persino se stessa per ciò che la sua mano aveva appena tirato fuori. Accanto al viso del bambino sorridente, era apparso un bambino – sempre versione animata – che indossava una tuta con cappuccio di qualche animale sconosciuto. La sua espressione poteva far capire molto bene i suoi pensieri: ‘perché mi tocca indossare una roba del genere?’

Alex applaudì soddisfatto.

“Ora voglio un drago!”

Ecco, gli animali le riuscivano un po’ peggio. Non c’era un motivo preciso, forse dipendeva solo dal fatto che non ne aveva mai disegnati molti, rendendo quindi la sua immaginazione piuttosto limitata al riguardo. Provò lo stesso a far scorrere la punta della sua penna sul foglio, ripassando qualche punto per dare un minimo di profondità, che, anche se non era richiesta, era un dettaglio che il più delle volte le piaceva aggiungere. Concluse il tutto disegnando un po’ di fumo che usciva dalle grosse narici del maestoso essere.

“Che ne dici?” chiese lei per un parere.

Il bambino prese il foglio tra le mani e osservò quel drago, miseramente spaventoso. Poi storse il naso.

“Ma non fa paura…” proferì, quindi.

“Lo so… ma non mi riescono molto gli animali,” confessò lei.

“Allora fai ora una bambina impaurita!”

“Una bambina impaurita?”

“Sì. Se c’è una bambina impaurita vicino al drago, vuol dire che poi fa paura!” sorrise raggiante.

Il suo semplice ragionamento non faceva una piega, per quanto potesse essere stato concepito da un bambino di soli quattro anni.

“Va bene,” ed allungò una mano verso Alex, perché le rendesse il foglio.

Provò a disegnare una faccia dello stesso stile delle altre, aggiungendoci poi dei lunghi capelli raccolti in una coda, in modo da dare un po’ di femminilità alla figura. Aggiunse, infine, le lacrime agli occhi e le mani vicino al petto, in segno di terrore.

“Contento?” gli sorrise, porgendogli il foglio, affinché Alex lo esaminasse.

“Ma è brutta, la bambina!” commentò lui, guardando triste Inge.

In effetti, quel personaggio non era nato sotto le migliori stelle, ma proprio brutta brutta non lo era. O forse pareva solo a lei?

“Bè, non tutte le persone sono belle di aspetto.” Cercò di difendersi da quegli occhioni, la ragazza.

“Ma le principesse sono sempre belle!” ribatté lui. “Sennò come fanno i principi ad innamorarsi di loro?” sembrava quasi offeso ed Inge non poté far a meno di ridere divertita per quel discorso.

Gli posò, quindi, una mano sui capelli e glieli scompigliò, mentre lui cercava di difendersi, lanciando delle piccole urla acute.

Se lo sentisse Tom

Quel bambino aveva proprio i geni Kaulitz.

Tuttavia, quel momento di ilarità tra i due, venne interrotto dallo squillare del cellulare di Inge. La ragazza, quindi, si alzò per andare a rispondere ed impallidì vedendo sul display il numero dell’agenzia in cui lavorava. Di solito la chiamavano solo per le urgenze.

“Pronto?” rispose titubante, sedendosi sul letto della stanza, mentre Alex andava a prendere le matite colorate da un cassetto della scrivania e si metteva a colorare i disegni che lei gli aveva appena fatto.

“Signorina Träne?” si informò una voce bassa e un po’ roca.

Lei mormorò un assenso. Era il capo in persona! Di solito, veniva chiamata dai suoi assistenti o qualcun altro che ne facesse le veci.

“Bene. Senta, mi devo complimentare per il buon lavoro che ha svolto fin’ora,”

ma la voglio licenziare. Quelle erano le parole che Inge già si aspettava di sentire.

“Il suo lavoro è stato eccellente,”

Quanto ci mettere per arrivare al punto?

“Grazie a lei, abbiamo anche guadagnato degli agganci con le più grandi case editrici. Per questo, volevo farle sapere di persona che ho in programma di affidarle il nuovo progetto.”

“Un nuovo progetto?” ripeté incredula lei.

“Esattamente. Conosce la Universal Music Group?”

“Certo!” è la casa discografica dei ragazzi!

“Bene. Vorrei tutta la sua disponibilità per mettere in pratica questo progetto, ma deve passare dall’ufficio perché glielo possa illustrare.”

“Ah, va bene. Posso passare domani? Oggi non posso proprio allontanarmi da casa.”

“Perfetto. Domani alle nove nel mio ufficio.” Dall’altro capo del telefono, il capo chiuse la chiamata.

“Chi era?” chiese Alex, sdraiato sul pavimento ed intento a colorare il drago.

“Il mio capo.” Spiegò lei. “Domani non sarò a casa, quindi dovrai stare con i ragazzi.”

“Sì!” esclamò contento il bambino, sedendosi ed applaudendo. “Ma poi torni, vero?” aggiunse, poi, piegando la testa di lato.

“Ma certo! Mica scappo!” e gli fece una linguaccia. “Ah! Devo chiamarli, se voglio che loro stiano con te…”

Riaprì, quindi, il cellulare – regalo di Tom – per cercare proprio il suo numero nella rubrica. Premette il tasto verde ed avviò la chiamata. Non sentì nemmeno tre squilli, che Tom rispose.

“Grazie…” mormorò. Sembrava esausto.

“Per cosa?”

“Mi hai salvato!” dal tono sembrava che potesse mettersi a piangere di gioia da un momento all’altro.

“Che è successo?”

“Sono tre ore che non facciamo altro che ripetere la melodia che abbiamo proposto per la nuova canzone. La sto odiando.” Ringhiò.

Inge soffiò una risata dall’altro capo del telefono.

“Non è divertente…” sottolineò lui. Il tono della sua voce poteva permettere alla ragazza di vedere il suo sguardo truce. “Comunque, non credo che tu abbia chiamato perché sapevi cosa avremmo passato…” tossì. “Che c’è?”

“Mi hanno appena fatto sapere dall’ufficio che domani dovrò andare laggiù per vedere del nuovo progetto…”

“Ah, ok…”

“Sì, ma Alex?” gli ricordò la rossa. “Non posso portarlo con me…”

“Perché no?”

“Tom, chissà quanto devo stare laggiù! Si annoierà di sicuro!”

“Sì, mi annoierò di sicuro!” la emulò Alex, colorando di arancione la tuta imbarazzante del bambino che aveva disegnato Inge.

“Sentito? Lo dice pure lui!” sogghignò lei.

“Quindi? Che si deve fare?”

“E se qualcuno di voi restasse a casa, domani?” propose la ragazza, sdraiandosi sul letto, fissando il soffitto.

Tom sembrò pensarci su. “Ok, ci metteremo d’accordo io e Bill. Ti facciamo sapere.”

“Contate che io non potrò esserci fino ad un’ora indefinita…”

“Cosa vuol dire indesimita?” chiese Alex, alzandosi e buttandosi sul letto vicino ad Inge.

“Che non so quando finirò…” spiegò lei, girandosi verso il piccolo e dandogli un buffetto. Lui rise sonoramente e cercò di contrattaccare, ma lei iniziò a fargli il solletico, mentre teneva il cellulare tra la spalla e l’orecchio.

“Vi divertite?” chiese Tom. La sua voce pareva seria. Più seria di quel che Inge si potesse aspettare da una domanda talmente semplice.

“Sì, molto…” gli sorrise da dietro l’apparecchio.

“Bene…” sussurrò. La ragazza poté cogliere una sfumatura di paura nelle note della sua bassa risposta.

“Cosa hai, Tom?” chiese, quindi.

“Chi? Io?” fece lui, ritornando al suo solito tono strafottente.

“E chi, sennò?” lo canzonò lei.

Inge lo sentì sbuffare. “Non ho niente…” poi deglutì. “Sono solo stanco per le ore che ho passato a suonare. Tutto qui…”

“Ah, ok… riposati, allora.” Si raccomandò.

“E certo, sennò come potremmo poi -”

“Tom!” lo riprese la ragazza in tempo, con voce stizzita.

Tom rise dall’altra parte del telefono.

“D’accordo. Dai, ti chiamo tra poco, non appena Bill avrà tempo per respirare…” ridacchiò, infine, chiudendo la telefonata con una pernacchia ed una risata soddisfatta.

Lei sospirò divertita. “Sì, anch’io ti voglio tanto bene, cretino!” le rispose lei, prima di salutarlo definitivamente.

“Mamma diceva che cretino non si deve dire!” la accusò il bambino, puntandole un piccolo dito contro, un’espressione arrabbiata sul viso. “Anche se poi, lo urlava sempre quando c’era quell’uomo!” e sbuffò come se fosse stato offeso.

“Quale uomo?”

“Quello che viveva con noi!”

Inge sorrise. Non sapeva che tipo fosse la madre di Alex, ma pensava che qualche volta, per quanto fossero buone le intenzioni degli adulti, se erano arrabbiati, il linguaggio non era proprio la cosa a cui prestavano maggiore attenzione. Poteva essere che quella donna, semplicemente avesse avuto più volte un periodo stressante.

“Sicuramente non voleva dirlo apposta.” Le disse, quindi, lei.

Ad Alex sembrò bastare quella spiegazione, perché rotolò giù dal grande letto a due piazze, divertito, e riprese in mano la matita arancione, in modo da rimettersi a colorare da dove aveva interrotto.

Inge si alzò dal letto e tornò alla scrivania, ma non aveva voglia di rimettersi a studiare quel foglio con le indicazioni per il suo progetto. E poi aveva voglia di divertirsi…

“Ehi,” si girò sulla sedia, per guardare Alex negli occhi. Il bambino le rispose con un’aria interrogativa. “Che ne dici se si va a preparare una torta?”

Alex posò la matita per terra e iniziò ad applaudire, un grande sorriso raggiante sulle labbra.

Inge si alzò dalla sedia, sorridente, ed offrì una mano al piccolo demonio, che l’afferrò saldamente, iniziando a saltellare. Scesero giù in cucina e la ragazza sistemò tutti gli strumenti necessari per preparare un dolce. Aprì il frigo e prese burro, uova e tutto il resto dell’occorrente.

Una volta che tutti gli ingredienti furono disposti in ordine sul grande tavolo della stanza, non rimase altro da fare che mescolarli tutti insieme.

Alex la guardò bramoso di mettersi all’opera, visione che fece ridere la ragazza. A quale bambino non sarebbe piaciuto intrugolare tutta la cucina in meno di qualche ora?

A nessuno.

Ed Alex non faceva eccezione.

 

***

 

“Ehi! Ma che diavolo è successo qui?” esclamò Tom. Non era nemmeno entrato in casa che venne colpito da un dolce odore. Si era diretto, quindi, in cucina, ma quello che vide lo traumatizzò alquanto.

Sopra il grande tavolo era sparsa un’infinita quantità di farina, come se avesse nevicato proprio lì. Sul pavimento si potevano notare schizzi di impasto giallognolo, accompagnati da una buona dose di liquidi, che il ragazzo non provò nemmeno ad identificare. Il grembiule che indossava Inge – intenta a pulire almeno una piccola parte di quel campo di battaglia – era macchiato in più punti con cioccolata e chissà cos’altro, proprio come il suo viso.

“Oh, ciao!” lo salutò lei con un sorriso soddisfatto, togliendosi dal viso una ciocca rossa – e bianca per la farina – con il dorso della mano sporca di impasto.

Tom la guardò interrogativo. Gli sfuggiva il motivo per il quale quella stanza, prima lui che uscisse di casa, sembrava nuova, e ora fosse una sorta di campo reduce dalla terza guerra mondiale, combattuta a colpi di frusta da cucina, con anche l’utilizzo di bombe alla farina e molto altro, su cui continuò a non voler indagare.

Lei rise, sedendosi su una sedia.

“Ho proposto ad Alex di fare una torta…”

“E che trattamento prevedeva quel povero impasto? Come minimo è più quello sparso per tutta la cucina che quello che avete infornato…”

“Bè, più o meno…” glissò lei con un vago cenno della mano, senza poter nascondere un sorriso.

“E l’altro cuoco?” chiese il ragazzo, posando il suo borsone per terra ed avvicinandosi alla ragazza.

“Si era addormentato sulla sedia mentre aspettavamo che la torta cuocesse. L’ho portato sul divano.” Rispose, pulendosi le mani al grembiule. “E invece, Bill?”

“Arriverà tra poco. Doveva sistemare un po’ il testo della canzone.”

“La musica andava bene, alla fine?”

“Certo che sì! Chi credi di avere davanti? Io sono un professionista! Faccio tutto alla perfezione.” Proclamò modesto il ragazzo, conquistandosi un pugno di farina sul viso.

“Che cretino, che sei…” gli sorrise Inge.

Tom tossì e poi si pulì sprezzante quella polvere bianca dal viso. “Se vuoi la guerra, basta chiedere…” la sfidò.

“E credi di potermi battere?” ribatté lei, sporgendosi sul tavolo.

“Certo che sì.” Si avvicinò anche lui.

Come al solito, si stavano fronteggiando, pochi centimetri a dividere i loro volti.

“Ma chi ti credi di essere?” lo provocò lei, mostrandogli un sorriso beffardo.

Tom si alzò completamente e portò le proprie mani sul collo di lei, avvicinandola a sé e baciandola.

“Tom Kaulitz.” Rispose sopra le sue labbra. “Questa volta ho vinto io, mi dispiace…” sorrise.

“Ci sarà tempo per una rivincita. Stai in guardia…” replicò la ragazza, appoggiandosi con una mano sul tavolo, e posando l’altra libera sul viso di lui. Sfiorò il suo naso con il proprio e lasciò che le sue labbra si chiudessero in un bacio su di esso.

“Cosa state facendo?” una vocina assonnata li interruppe, facendoli dividere velocemente – così velocemente che Tom rischiò di cadere dalla sedia.

“Oh,” Inge rise isterica, il cuore iniziò a battere velocemente nel petto, riacquistando quel battito che aveva all’inizio perso. “Niente di importante…”

“Ma eravate vicini vicini!” e piegò la testa di lato.

“Ciao, gente!” urlò Bill dall’ingresso, chiudendosi la porta alle spalle rumorosamente. Si avvicinò in cucina, attirato dall’odore della torta e non appena vide Alex attento ad esaminare gli altri due, non poté trattenere la domanda.

“Che succede?”

Il bambino si girò, gli sorrise e corse verso di lui. “Inge e Tom erano quasi sdraiati sul tavolo!” e li indicò.

Tom poté sentire la sua mascella toccare terra, come anche la ragazza. Stessa reazione, per diverso motivo, successe a Bill.

“Cosa diamine stavate facendo, razza di animali in calore?” li minacciò, puntando un dito dall’unghia perfettamente smaltata, verso di loro, lo sguardo minaccioso.

“Niente! È lui che ha frainteso!” si difese Tom.

“Già, ci siamo solo dati un bacio…” sorrise tirata la ragazza.

“Appunto! Ma siccome so come sono i vostri baci, vedete di andare a fare scena da un’altra parte che non sia davanti ai bambini!” li ammonì Bill, abbracciando il bambino, come se volesse proteggerlo da due aggressori.

“Ehi!” ribatté Tom. Non era da lui, ovviamente, non replicare. “Lui stava dormendo!”

“Non stava dormendo,” lo interruppe il fratello. “Sennò come ha fatto a vedervi?”

“Si è svegliato nel momento sbagliato!”

“Ma piantala, Tom!” sospirò Bill, esasperato. “E poi non dovresti trattare così questo bambino.” Gli fece notare Bill. Il suo tono era decisamente serio, anche se poteva non sembrare alle orecchie di Inge.

Già, lui avrebbe dovuto avere tutt’altro atteggiamento con Alex. Ma, purtroppo, non riusciva a vedere quel bambino sotto un’altra luce. E questo lo faceva stare male.

“Scusate, allora.” Mormorò atono. “Me ne vado in camera.” E si alzò, lasciando gli altri tre decisamente spiazzati.

 

***

 

Si stese sul letto supino e fissò il vuoto sopra di sé.

Era colpa sua, se non sentiva nessun legame con quel bambino? Dopotutto non l’aveva mai visto, se non da tre giorni. Era normale non sentire nessun genere di sentimento nei suoi confronti? Certo, era un bambino, ed era giusto che Bill l’avesse ripreso per come si era espresso, visto che lui era presente, ma quel messaggio subliminale che Tom aveva colto nelle sue parole, l’aveva decisamente ferito.

Un leggero bussare alla porta lo distolse dai suoi pensieri.

“Chi è?” chiese svogliato. Non aveva voglia di parlare con nessuno. Voleva solo stare da solo. Forse quel momento deprimente sarebbe passato da sé in pochi minuti.

“Alex…” rispose una vocina flebile al di là della porta.

“Cosa vuoi?” il suo tono era atono. Perché cazzo si comportava così con lui? Non voleva, eppure…

“Chiedere scusa…” mormorò il bambino. Sembrava sull’orlo del pianto.

Una fitta al petto, costrinse Tom a sedersi sul letto e a rispondere al bambino con un tono più dolce.

“Dai, entra…”

La porta si aprì goffamente, ed il bambino entrò, per poi chiuderla alle spalle. Rimase, poi, immobile in fondo alla stanza, le mani dietro la schiena, in segno di colpa e imbarazzo.

“Che fai lì fermo?” gli disse Tom. “Dai, vieni a sederti sul letto…” e batté una mano sul materasso.

Alex sorrise impacciato e fece come gli era stato detto.

“Cosa volevi dirmi?” chiese Tom, cercando di mantenere una voce calda e bassa. Non voleva metterlo ancora a disagio. L’unica cosa che ancora non riusciva a fare, era guardarlo in viso.

“Volevo chiederti scusa…” sussurrò il bambino, rivolgendo il suo sguardo al pavimento.

“Perché?”

“Perché sei arrabbiato con me…”

Il ragazzo rimase disorientato da quella risposta. Davvero Alex pensava che fosse arrabbiato con lui?

“Ma io non sono arrabbiato con te.” Lo confortò Tom, riuscendo a guardarlo.

“Davvero?” lo guardò a sua volta il bambino.

Occhi negli occhi. Stesso colore. Stesso sguardo. Erano proprio uguali.

Qualcosa dentro Tom gli provocò uno strano insieme di sentimenti. Per la prima volta, stava guardando quel bambino – il suo bambino – negli occhi. Fu una sensazione che lo confuse. Non capiva più cosa stesse provando. Felicità? Dubbio? Sorpresa? Paura? Non riusciva ad individuare le varie emozioni.

Si scoprì esitante.

“Certo.” E gli sorrise. Il primo sorriso spontaneo per quel bambino.

“Allora perché sei andato via?” piegò la testa di lato, sempre titubante.

“Perché volevo stare solo.” Soffiò flebilmente, distogliendo lo sguardo dal bambino. “Non ti spiego il motivo perché tanto non lo capiresti, ma non è colpa tua. Tranquillo.”

“Ah, allora vado via.” E scese dal letto.

Tom non riuscì a capire se l’avesse offeso o meno, con il suo comportamento. Avrebbe quasi voluto fermarlo e chiederglielo, ma Alex era già uscito, chiudendosi la porta alle spalle.

 

***

 

“Tom, posso entrare?”

Il ragazzo aprì ancora una volta gli occhi e smise che i suoi pensieri autolesionisti riguardanti la precedente visita di Alex gli riempissero la testa. Si rimise seduto sul letto e rispose senza troppo entusiasmo. Possibile che nessuno capisse il significato di quelle semplici parole: voglio stare solo. Come se il suo comportamento non fosse già abbastanza chiaro.

“Che vuoi?”

“Parlare.”

Certo. Sempre parlare. Era incredibile come le ragazze volessero sempre parlare quando lui non le richiedeva.

“E di cosa, scusa?”

“Bè, sei praticamente scappato dalla cucina. Volevo capire il perché.” spiegò Inge da dietro la porta.

“Che palle,” soffiò lui. “Entra, forza.”

La ragazza aprì la porta, per poi richiuderla dietro di sé, e si sedette sul letto accanto a Tom.

“Mi dici che ti prende?” gli chiese preoccupata.

“Non sono affari tuoi.” Sviò lui, leggermente irritato.

“Non ti stai comportando molto bene, però…” disse lei, delusa dalla sua risposta.

Ecco dove vuole andare a parare!, pensò Tom. Ovvio, voleva fargli la ramanzina. Ma cosa cazzo ne sapeva lei per parlargli così?

“Alex è pur sempre un bambino. Non dovresti trattarlo così.” Proseguì lei, triste. “Dovresti chiedergli scusa. Si è quasi messo a piangere per quello che hai detto… ed il modo in cui l’hai detto.”

La rabbia si faceva sentire sempre di più dentro di lui. Come poteva lei credere di capire cosa stesse provando? Lei non aveva la più pallida idea di quello che lui stava passando! Lei non aveva ricevuto un misero biglietto che gli aveva stravolto la vita!

“Stai zitta!” ruggì Tom, guardando furente la ragazza. “Stai zitta.” ripeté minaccioso, puntandole un dito contro. I lineamenti del viso di Inge si trasformarono in paura, per niente pronta a quella reazione da parte sua, e Tom poté sentire la sua parte razionale dargli del cretino per il suo comportamento, ma non riuscì a rilassarsi.

Rimase a fissarla negli occhi spaventati. Lui era rigido. Non accennava a calmarsi.

“Cosa?” fece lei, una volta che riacquistò un minimo di controllo ed il suo cuore riprendesse a battere normalmente.

“Hai capito. Non voglio più sentire questi discorsi.”

“Io cercavo solo di farti capire che ti sei comportato da vero stronzo!” ribatté lei, alzando a sua volta la voce.

“Grazie del disturbo! Non era necessario!” urlò lui.

“Figurati! Comunque, proprio perché ti rimanga in testa: sei uno stronzo! Alex stava per piangere!”

“L’hai già detto! Ma ti senti quando parli? Sei ripetitiva! Basta!” ringhiò lui.

“Ma ti senti tu? Cosa ti è preso?”

Cosa mi è preso? Ma saranno cazzi miei? Sai, delle volte anche io ho bisogno di stare solo!”

“Perfetto, allora stacci!” e si alzò dal letto, dirigendosi con passi pesanti verso la porta.

“Ci sarei stato anche prima, se tu non fossi venuta a rompere i coglioni come al solito!” abbaiò Tom, alzandosi a sua volta.

“Sono venuta a romperti i coglioni perché volevo capire cosa ti era successo!” La ragazza si fermò e lo guardò, riducendo gli occhi a due fessure.

“No, sei venuta qui per dirmi che sono uno stronzo!”

“Ho forse torto?”

“Vaffanculo!” si stavano fronteggiando, ma questa volta non era uno scherzo. Erano vicini, ed una singola parola di troppo avrebbe rischiato che uno dei due si scagliasse sull’altro senza troppi problemi.

“La cosa è reciproca!”

“Vattene!”

“Ci mancherebbe che restassi! Stronzo!” ed uscì sbattendo la porta violentemente dietro di sé.

Tom rimase fermo per qualche minuto, affaticato. Poi, si passò una mano sul viso e respirando più profondamente cercò di riprendere il controllo. Era proprio vero. Era uno stronzo. Perché aveva risposto così ad Inge? Certo, lei aveva esagerato, però non aveva cattive intenzioni.

Tornò a stendersi sul letto e si coprì il viso con le mani.

Che cazzo gli era preso per risponderle così?

 

¤°.¸¸.·´¯`»  «´¯`·.¸¸.°¤

Continua...

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ATTENZIONE: I Tokio Hotel non mi appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera della loro personalità. No scopo di lucro.

***

Eccomi qua con il nuovo capitolo! Lo ammetto, la prima parte è un po' noiosa da leggere, visto che ha più che altro lo scopo di allacciare le varie parti della vicenda, ma spero comunque che possa essere (in un modo o nell'altro) di vostro gradimento.

Passo, ora, a ringraziare le 9 anime pie che hanno commentato lo scorso capitolo. Grazie a: mixy88 (davvero grazie per il commento!XD), niky94, elli_kaulitz, angeli neri (spero continuerai a seguirmi, allora!^^), scrizzoth_95, la mitica kit2007 (ripeto mitica ancora una volta!XD Ma tanto sei mitica, quindi... =P), layla the punkprincess, BigAngel_Dark ed Antonellina.

Rileggendo il capitolo in questione, mi sono messa a ridere, trovando una piccola somiglianza con la nuova one shot di Lady Vibeke (per chi non l'avesse letta, consiglio vivamente di farlo..^^). Diciamo che i nostri ragazzi non sono proprio dei gran pasticcieri... =P (salvo Gustav, ovviamente!)

Aggiungo, cercando di mettere un link per mostrarvi i disegni di Inge - fatti da me in un piccolo momento di pura follia. Non garantisco che mi riesca, vista la mia avanzata conoscenza dell'html, ma vedrò di farmi valere!XD

Ed ovviamente non possiamo di certo dimenticarci di un compleanno molto importante!

Buon compleanno, Gustav!

Ok, ora posso anche ritenermi soddisfatta. ^^

Mi raccomando, fatevi sentire con i vostri commenti, ok? Vedo che siete in tanti a leggere...XD

Un bacio!

_irina_

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Capitolo 4
*** Are You Ready To Be Father? ***


Are You Ready To Be Father

Just a kid

 

Are You Ready To Be Father?

“Tom!”

Il ragazzo si rigirò tra le coperte, grugnendo parole non ben distinte tra di loro.

“Tom!”

Aprì un occhio per niente convinto e sbadigliò egregiamente.

“Tom…”

Alex aveva smesso di picchiare alla porta della camera del ragazzo e la sua voce si era fatta lamentosa. Il rasta decise, quindi, di alzarsi ed andare a vedere cosa fosse successo. Durante il tragitto letto-porta si maledì per aver accettato di occuparsi del bambino per tutto quel giorno. Certo, Inge aveva un impegno importante, ma la canzone di Bill poteva aspettare benissimo.

“Che c’è?” chiese svogliato, mentre apriva la porta.

Quella piccola peste, appena lo vide abbassò lo sguardo sul pavimento ed afferrò i lembi della propria maglietta con le mani, imbarazzato.

“Allora?” insistette Tom.

Il bambino lo prese per mano e lo condusse verso la ex camera di Inge. Una volta sulla porta, si fermò, indicando il letto senza proferire una parola.

Il ragazzo guardò il materasso, vedendo una grande chiazza bagnata nel centro e rise.

“Ah, ti sei pisciato addosso, eh?” lo canzonò.

Alex non lo guardava negli occhi.

“Ehi, mica ti devi preoccupare!” fece lui. “Hai quattro anni, giusto? C’è sempre qualche anno per migliorare…” e gli scarruffò i capelli. “Ora torna a letto che è sempre presto.”

“Ma è bagnato… e poi io ho fame…” farfugliò il bambino, trattenendolo per la stoffa dei boxer, visto che Tom aveva sciolto la presa dalla sua mano.

“Perché che ore sono?” si fermò il ragazzo.

“Non lo so, ma…”

“Hai fame…” concluse lui. “Ok, ho capito. Dai, andiamo a mangiare, allora.”

Insieme scesero le scale ed andarono in cucina. Tom non poté evitare di dare un’occhiata all’orologio per rendersi conto dell’ora.

Quasi gli prese un colpo vedendo che erano solo le nove. Come minimo gli altri erano appena usciti di casa! Guardò, poi, Alex e sospirò. Tanto lo sapeva che sarebbe andata a finire così…

“Cosa mangi di solito?” gli chiese, grattandosi la testa e sbadigliando. Era troppo presto per lui. Di solito si alzava alle undici inoltrate, se non mezzogiorno. Una volta aveva pesino fatto le quattro – vista l’ora a cui era andato a letto, però, era più che giusto! Il suo fabbisogno giornaliero di ore di sonno si aggirava intorno alle undici, delle volte dodici ore, quindi era decisamente sconvolgente ritrovarsi in piedi a quell’ora mattutina.

“Dei biscotti e il latte.” Sorrise il bambino, arrampicandosi sulla sedia. Subito Tom gli fu vicino per aiutarlo: la sedia si stava pericolosamente ribaltando.

“Quali biscotti?” si informò, poi, avvicinandosi allo sportello dell’armadietto contenente tutti quelli che potevano esserci in casa.

“Quelli che mangia anche Bill! Me li dà Inge.”

Tom guardò Alex perplesso. Premesso che Bill mangiava tutti i biscotti lì presenti, e che Inge si alzava troppo presto per i suoi gusti, come avrebbe fatto a capire quali fossero quelli che voleva?

Sospirò, per poi prendere tutti i pacchetti che trovò e glieli mise sul tavolo.

“Scegli.”

Il bambino lo guardò interrogativo.

“Cosa c’è?” chiese Tom, guardandolo dubbioso a sua volta.

“Inge me li mette in un piatto…”

Promemoria: ricordare ad Inge di non viziarlo… sempre che fosse riuscito a parlarci normalmente. Dopo la litigata della sera precedente, sarebbe stata dura riavvicinarsi…

“Ma se non mi dici prima quali sono, come faccio a metterteli in un piatto?” disse accigliato. E poi erano solo tre giorni che viveva in casa loro, come poteva già essersi abituato a certe cose?

Il bambino si rattristì per il tono usato dal ragazzo, e si raggomitolò sulla sedia, guardandolo con aria afflitta e dispiaciuta.

“Ehi ehi ehi! Non volevo offenderti!” si affrettò ad aggiungere Tom, avvicinandosi a lui, che aveva distolto lo sguardo per fissare il pavimento. “È che non so davvero quali siano i tuoi biscotti!”

Cosa diavolo doveva fare con lui? Sembrava che come gli rivolgesse parola, Alex prendesse tutto come una critica… in questo modo sarebbe stato ancora più difficile cercare di instaurare un rapporto.

Il bambino alzò di nuovo gli occhi su Tom e con un dito incerto indicò una confezione di biscotti al cioccolato aperta.

“Sono questi i biscotti?” domandò Tom. Si sforzò di usare un tono dolce e rassicurante, visto che una parte di colpa per le reazioni di quella peste se la riconosceva.

Alex annuì timido ed il ragazzo gli scompigliò i capelli con un sorriso.

“Ok, ora te li metto in un piatto come fa Inge, va bene?” il bambino sorrise titubante. “Hai pure delle preferenze sul piatto?” Il suo tono mostrava un sarcasmo che Alex, negando, non comprese.

Una volta che il chitarrista ebbe preparato tutto l’occorrente per soddisfare le esigenze del bambino, si preparò un po’ di caffè – ce ne sarebbe stato bisogno, ed anche più di uno –, per poi sedersi accanto a lui ed osservarlo mentre divorava i biscotti e sorseggiava il latte.

“Cosa fai di solito la mattina?” chiese Tom. Il proprio programma era molto semplice: tornare a letto. Ma con un bambino in casa da seguire in tutto e per tutto, forse non sarebbe stato così facile.

Alex assunse un’espressione pensierosa, quasi stesse imitando Bill, ed il ragazzo non poté far a meno di soffiare una risata. Sembrava proprio suo fratello da piccolo.

“Inge mi fa i disegni!” annunciò sorridente.

“I disegni?” ripeté con una smorfia.

Lui confermò deciso.

“Cioè, io ti dovrei fare dei disegni?” l’espressione non cambiava. Certo, a Tom piaceva disegnare, ma era su tutt’altro stile! Fare dei disegni per un bambino era tutto un altro paio di maniche.

“Non li vuoi fare?” domandò Alex, piegando la testa di lato.

“Non è che non te li voglia fare,” farfugliò lui. “Semplicemente non ne sono capace…”

“Allora te li faccio io! E tu li colori!” sorrise il bambino, contento della soluzione trovata.

Tom si ritrovò a confrontare le sue opportunità. Era decisamente meglio disegnare che colorare…

“E se, invece, si tornasse a dormire per qualche oretta?” osò proporre il ragazzo. Se Alex avesse accettato, sarebbe stata una vittoria decisamente appagante.

Alex, però, non rispose.

“Non vuoi dormire, eh?” mormorò, quindi. Poi sospirò e si stravaccò sulla sedia. Chissà quando avrebbe potuto rimediare alle ore perse…

“Tom…” lo chiamò il bambino titubante.

Lui si rimise composto e portò i gomiti sul tavolo per appoggiarsi.

“Ma io ti sto antipatico?”

Il rasta rimase sorpreso per qualche secondo, prima di rispondere.

“Perché mi dovresti stare antipatico, scusa?”

Alex alzò le spalle, con noncuranza. “Perché non vuoi mai giocare con me… e ti arrabbi…”

Visto e considerato che i già esistenti sensi di colpa sembravano non bastargli per sentirsi uno schifo per come si comportava con quel bambino, ora era giusto che anche il diretto interessato rigirasse il coltello nella piaga e vi spargesse quantità inaudite di sale, tanto per ricordargli che si stava comportando – per riprendere le parole che Inge gli aveva urlato addosso la sera prima – come un vero stronzo.

“No… no, no. Non mi stai antipatico…” farfugliò, quindi, Tom. “Figuriamoci,” schioccò la lingua. “Perché mai dovresti starmi antipatico?”

“Davvero, non ti sto antipatico?” il chitarrista annuì. “Allora, oggi giochiamo insieme?”

Ecco dove voleva andare a finire. Che fosse una tattica per farlo sottostare alle sue esigenze o meno, Tom non lo sapeva, ma era certo che ormai non poteva sottrarsi a questa domanda. Non che gli facesse schifo giocare con lui, ma voleva dormire. La sera prima non era riuscito a chiudere occhio a causa della sfuriata con Inge, per non parlare del fatto che una volta riuscito ad addormentarsi, suo fratello bussò alla sua porta – ovviamente svegliandolo – per informarlo che il giorno dopo avrebbe dovuto occuparsi della piccola peste.

Per l’esitazione di Tom, il bambino iniziò a rattristarsi.

“Non è vero che non ti sto antipatico…” mormorò.

“Cosa?” il rasta si risvegliò dalla momentanea dispersione dei suoi pensieri e subito comprese che, se avesse voluto arrivare alla fine di quella giornata, avrebbe dovuto immediatamente mettere da parte le sue prerogative ed assecondare ogni frase del bambino. “No, no! Davvero! Dai, hai finito di mangiare? Che ne dici di andare a giocare alla play station?” sorrise tirato.

Non sapeva proprio da che parte cominciare per instaurare un rapporto che potesse minimamente avvicinarsi a quello già solido tra il bambino, Inge e Bill. Che fosse lui che non ci si impegnava? Ma cosa avrebbe dovuto fare? Sembrava che niente potesse unirli…

Alex sorrise lievemente, mentre beveva il latte rimanente e si puliva la bocca con la mano, sotto lo sguardo schifato di Tom.

“Ehm, forse è meglio che prima ci laviamo, che ne dici?” ed aiutò il bambino a scendere.

Si fece seguire nel bagno e lo prese in braccio per permettergli di sciacquarsi nel lavandino.

“Ce l’hai uno spazzolino?” chiese, poi.

“Nel bagno sopra” rispose Alex, divincolandosi per scendere, visto che aveva finito le sue abluzioni.

Entrambi, quindi, salirono al piano superiore ed entrarono nel bagno.

Tom non fece in tempo a prendere gli spazzolini, che vide Alex intento a curiosare in tutti i cassetti del mobile.

“Cosa è questo?” chiese innocente il bambino, mostrando a Tom un vasetto che il ragazzo conosceva bene.

“Ehi! Non aprire i miei cassetti!” lo ammonì.

“Sì, ma che cos’è?” non si scompose.

Ah, ma allora tu fai gli occhioni tristi solo quando ti torna comodo, eh?

“Niente che ti riguardi… quando sarai più grande forse capirai…” sviò Tom.

“Ma io lo voglio sapere ora!” protestò il bambino.

“Ascolta, non sono cose da bambini. Dammelo!” ordinò con tono più duro, porgendogli la mano.

Alex lo guardò truce – doveva aver osservato molto bene gli sguardi di Inge quando era arrabbiata, perché era una copia molto realistica – e glielo diede bruscamente.

“Grazie!” sorrise pago Tom, riponendo il contenitore nel cassetto. “Non l’aprire più, chiaro?”

“Uffa!” ed incrociò le braccia.

“Ehi! Non accetto certi comportamenti.” Fece Tom, superiore. “Lavati i denti, ora.” E gli diede lo spazzolino.

Il bambino sospirò e prese il piccolo oggetto, aspettando che Tom, spazzolino in bocca, lo prendesse sotto le ascelle per sollevarlo.

Quando lo rimise a terra, lasciò che Alex corresse verso la sua camera per cambiarsi, in modo da andare a sua volta nella propria stanza e fare altrettanto, visto che si trovava ancora con solo i boxer addosso. Entrò in camera e prese da un cassetto una tuta pulita, ma fece in tempo ad indossare solo i pantaloni che Alex bussò alla sua porta.

“Tom…”

“Che c’è ora?” chiese, andandogli ad aprire.

“Non hai cambiato il letto…” lo guardò crucciato.

“Ah, già…” sospirò lui. “Dai, andiamo a cambiarlo…” e lo prese per mano.

Entrarono nella ex camera di Inge e Tom iniziò a togliere le lenzuola ancora bagnate. La chiazza era decisamente grande, ma forse solo per il fatto che si era espansa. Non credeva possibile che un solo bambino di quattro anni potesse pisciare quanto un cavallo.

“Hai bagnato pure il materasso…” constatò Tom, storcendo il naso.

Alex abbassò lo sguardo ed annuì timidamente.

“Ok, non importa…” e andò in bagno per bagnare una spugna che trovò nel mobile sotto il lavandino. Quando tornò, la passò sulla macchia, cercando di pulirla in qualche modo. Poi, sollevò il marasso a due piazze senza risparmiarsi di biascicare notevoli imprecazioni del suo vasto e ricco repertorio. Lo portò, quindi, vicino alla finestra – che aprì – e lo posizionò in modo che potesse asciugare.

“Dai, mentre si aspetta andiamo a fare una partita alla play…” ed uscì dalla camera, facendosi seguire dal bambino, che trotterellava per stare al suo passo.

Arrivati nella sala, Tom prese i due joystick, passandone uno ad Alex, che lo guardò dubbioso.

“Come funziona?” chiese, mostrandogli l’apparecchio.

“Ora te lo faccio vedere…” disse, scegliendo un semplice gioco di corse automobilistiche, in cui – ovviamente – aveva battuto ogni record. Era il vincitore indiscusso, tanto che presto Bill si era stancato di sfidarlo.

Una volta che azionò la play, si sistemò sul divano vicino ad Alex e gli mostrò i tasti principali.

La prima corsa, indubbiamente, la vinse Tom – proprio come la seconda, la terza e la quarta. Alla quinta, il ragazzo ritenne opportuno sbandare e causare un game over, in modo da evitare che Alex si mettesse a piangere per le sconfitte totalizzate.

Quando, verso mezzogiorno, lo stomaco del chitarrista iniziò a richiedere cibo con rumori decisamente fuori dal comune (visto che non aveva mangiato niente a colazione), entrambi tornarono in cucina.

“Cosa vuoi mangiare?” si informò Tom, dopo che il suo stomaco ribadì il suo bisogno. Alex rise divertito.

“Tu cosa mangi?”

“Un panino,” rispose, affacciandosi dentro il frigorifero. “Con prosciutto e tutto quello che posso trovare qua dentro…”

“Anch’io, allora!” decretò Alex.

Tom si girò  guardare il bambino ed alzò un sopracciglio scettico. Poi sorrise.

“Va bene, prepariamoci il famigerato panino alla Kaulitz!”

Alex applaudì contento.

“Sì!”

“Forza, che ho una fame che potrei mangiare persino te!” ridacchiò. “Anche se non mi sazieresti molto…” aggiunse sorridendo.

Improvvisamente, Tom sentì la piccola mano del bambino premere sulla sua pancia nuda. Lo guardò interrogativo e leggermente perplesso.

“Che diavolo fai?”

“Non si dicono le parolacce!” lo ammonì lui, puntandogli l’indice dell’altra mano contro.

“Ok,” sbuffò il rasta. “Cosa fai?” ripeté, quindi, roteando gli occhi, le mani piene di affettato e tutto ciò che poteva contenere il panino.

“Voglio sentire la tua fame!” rispose semplicemente Alex, alzando le spalle.

Il chitarrista rimase spiazzato da quella risposta, ma ciò che aspettava quella piccola peste non tardò ad arrivare. Lo stomaco di Tom, infatti, brontolò sonoramente, permettendo al bambino – che si mise a ridere isterico – di sentire i suoi strani movimenti.

“Bè? Che hai da ridere tanto? Ho fame!” ribatté stizzito il ragazzo.

“Sì…” ridacchiò ancora il piccolo diavolo.

Tom si avvicinò a lui e lo fece salire sulla sedia, per poi mettergli sotto il naso un panino già tagliato e pronto per essere imbottito, e un po’ di affettato.

“Me lo prepari tu?” lo supplicò Alex.

“Va bene…” sospirò rassegnato. Tanto se non l’avesse fatto, si sarebbe messo a piangere.

Aprì la confezione di prosciutto e ne prese tre belle fette, che poi ripiegò nel panino. Una volta finita l’opera, glielo passò e aspettò che il verdetto del bambino gli permettesse di dedicarsi al proprio.

“Com’è?” chiese Tom, dopo che lui ebbe ingoiato il primo morso.

“Buono!” sorrise Alex. “Me lo fai anche domani?”

“Vedremo…” rispose, alzando un sopracciglio ed iniziando a mettere tutto ciò che aveva trovato nel frigorifero, dentro il panino.

Domani avrebbe decisamente preferito rimanere a letto e dormire fino alle due, in modo da recuperare le ore perse… e poi ci sarebbe stata Inge. Quasi sicuramente, quindi, lui non sarebbe nemmeno uscito da camera sua per non incontrarla.

Finché non si fossero chiariti, non poteva aspettarsi altro.

 

***

 

“Tom!”

Il ragazzo si tappò le orecchie con le mani.

“Tom!”

Serrò gli occhi ed iniziò ad imprecare sommessamente.

“Tom! Apri la porta!”

Infine, sospirò esasperato. Non ce la faceva più. Dopo aver mangiato era tornato a cambiare il letto del bambino. In seguito, Alex l’aveva catturato, facendogli disegnare tutta la fauna mondiale ed universale, per poi passare a colorarla. Quando il ragazzo, però, chiese un attimo di tregua, quel diavolo in miniatura iniziò ad urlare perché voleva giocare a palla. L’aveva accontentato, ed alla fine era pure riuscito a scappare con la scusa di andare in bagno.

Ma ora se lo trovava pure lì.

“Cosa c’è? Sono in bagno!” rispose seccato, alla fine.

“Ma io mi annoio mentre sei in bagno! Fai veloce!” rispose con voce flebile e triste.

“Se ancora non sono uscito, vuol dire che mi ci vorrà altro tempo!”

“Ma io mi annoio!”

“Vai a guardare la televisione, allora!”

“Ma io non voglio guardare la televisione!” biascicò con voce lamentosa.

“E cosa vuoi fare?”

“Non lo so.”

Se continua così, non arrivo a stasera…

Come aveva fatto Inge a stare con lui per tutto un giorno? Che l’avesse drogato? O semplicemente dato del sonnifero? Possibile che lui non riuscisse ad avere un po’ di pace? Chiedeva così tanto? Sembrava quasi che Alex lo facesse apposta! Era instancabile! Aveva sempre qualcosa da dire e fare!

No, non arrivo a stasera, si ripeteva.

Alla fine non resistette più. Estrasse il cellulare dalla tasca della tuta e, sedendosi sul bordo della vasca, cercò in rubrica il numero del fratello. Avrebbe fatto venire Bill a casa. Forse, se ci fosse stato suo fratello, quel demonio avrebbe smesso di tartassarlo.

“Tom!” continuò a chiamarlo il bambino da oltre la porta.

Avviò la chiamata e si portò il telefono all’orecchio.

Uno squillo. Un secondo. Pure un terzo. Arrivati al quarto, Tom buttò giù e riprovò.

“L’utente da lei chiamato potrebbe essere spento o irraggiungibile. La proviamo di riprovare più tardi.”

Imprecò. Come era possibile che improvvisamente non fosse raggiungibile? Che avesse spento il cellulare apposta?

“Tom! Apri!”

Imprecò ancora.

Scorse ancora la rubrica telefonica. Di certo non poteva chiamare Gustav e Georg, anche se la tentazione era forte. Loro ancora non sapevano del bambino…

Poi, si soffermò a contemplare il numero che gli capitò sotto gli occhi.

Sospirò. Non aveva alternative. Se voleva una mano, quella era l’unica che poteva chiedere.

Premette il pulsante verde e chiamò.

 

***

 

“Pronto?” rispose con voce distratta senza guardare chi fosse.

“Inge…” la chiamò lui. Era un sussurro flebile che faceva capire quando il ragazzo potesse essere esaurito.

“Che c’è?” chiese scontrosa lei, spostando il suo peso da una gamba all’altra. Era ovvio cosa c’era che non andava. Aveva sicuramente dei problemi con Alex, ma lei non era disposta ad aiutarlo tanto facilmente, soprattutto dopo come l’aveva trattata. Avrebbe dovuto strisciare ai suoi piedi  e chiedere venia. Poi, forse, avrebbe provato ad aiutarlo.

“Ho bisogno di aiuto…” ammise.

“Per cosa?”

“Alex.”

“Cosa gli hai fatto?” sospirò.

“Cosa gli ho fatto? Cosa ha fatto lui a me!” replicò lui alzando la voce.

“Ok, cosa ti ha fatto?”

“Non mi dà un attimo di tregua.”

“Bè, sai, è un bambino…” alzò un sopracciglio.

“No, non è un bambino! È un diavolo in miniatura!”

“Perché, tu credi di essere un angelo?”

“Questo che c’entra?” domandò stizzito.

“Lascai perdere…” sospirò, girando intorno alla scrivania e mettendosi seduta.

“Senti, lo so che sei arrabbiata…” sussurrò Tom. La ragazza ancora non capiva se il suo tono fosse sincero o fosse solo dovuto alle circostanze. “Ma, sul serio, ho bisogno di una mano…”

“È tuo cugino, è affar tuo.” Tagliò corto lei.

“Cosa? Oh, sì, certo… è mio cugino, sì, lo so… ma…” e si interruppe. “Ascolta.” Ora il suo tono era determinato. “Ho ripensato tutta la notte a ciò che è successo. Mi rendo perfettamente conto di essere stato un prefetto stronzo ieri sera, non solo con te, ma anche con gli altri. Ti chiedo scusa. È che è stata una giornata piena di ogni cosa…”

“No, ascolta tu: perché tutte le volte che cerchiamo di chiarire, dici che hai avuto una giornata piena e pesante?”

Lui si zittì e lasciò passare qualche secondo prima di rispondere.

“Cosa vuoi che ti dica?”

“La verità. Cosa avevi ieri sera? È il bambino la causa? Non lo so, ti senti trascurato?” tentò, con un vago gesto della mano in aria.

“Cosa? Trascurato?”

“Sì…”

“Io non mi sento trascurato!” rispose acido.

“E allora?”

“Non lo so.” Poi silenzio. “È che non mi sento a mio agio con lui…” sussurrò flebile.

Per quanto potesse pensare il contrario, Inge sentiva la sincerità nelle sue parole. Non che si fosse sprecato con scuse e spiegazioni varie, ma la ragazza non riuscì più a trovare una ragione per negargli l’aiuto.

“Dai, vuoi che venga a casa?” propose.

“Cosa? Ma non hai la riunione?”

“L’avevo stamattina. Ora non ho da fare niente di così importante.”

“Ok, allora vieni…”

“Ok.”

 

***

 

Rimise il cellulare in tasca con un movimento stanco.

Sospirò e tirò indietro la testa, serrando gli occhi. Cosa diavolo gli era venuto in mente, costruendo tutta questa farsa del cugino? Aveva quasi rischiato di farsi scoprire!

Ma come faceva a dirle la verità? Era impossibile. Lei si sarebbe arrabbiata. Ulteriormente.

“Tom…” supplicava Alex oltre la porta chiusa a chiave. “Sei cattivo…”

Inoltre, ora che le aveva raccontato questa cazzata, non poteva nemmeno dirle la verità sul suo comportamento, non che questo avesse bisogno di spiegazioni, ma, cazzo!

No, non poteva essere sincero, perché essere sincero avrebbe voluto dire allontanarla. E lui non voleva assolutamente allontanarla. Eppure, sembrava che nonostante tutto c’era andato vicino anche ieri sera.

Ma come faceva a dirle che non riusciva a relazionarsi con Alex perché era suo figlio? Una frase del genere aveva lo stesso valore che dirle di essere andato a letto con un’altra! Cosa che in effetti era successa, ma che Inge non aveva il diritto di vedersela sbattuta in faccia! Era come dirle di averla tradita – nonostante fosse stata una notte risalente a qualche anno fa.

Si portò le mani sul viso e mormorò una ricca dose di imprecazioni a se stesso. Poi appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si fissò le mani, le dita intrecciate tra loro.

Dove sarebbe arrivato? Fin quando sarebbe durato tutto questo? Era certo che Inge lo sarebbe venuto a sapere…

“Tom…” piagnucolava Alex.

“Gesù, Alex, sto uscendo!” esclamò, alzandosi e andando verso la porta. Girò la chiave nella toppa e la aprì. Si guardò davanti, dove aveva pensato che fosse il bambino, ma dovette abbassare ulteriormente lo sguardo per individuarlo. Era seduto a terra, le gambe divaricate, con gli occhi lucidi, decisamente molto propensi al pianto.

“Dai, alzati…” e gli offrì una mano.

Il bambino non l’afferrò come al solito, ma continuò a guardarlo triste e leggermente arrabbiato.

“Cosa c’è?” chiese seccato, mettendosi le mani sui fianchi e guardandolo dall’alto in basso.

“Mi hai lasciato solo…” farfugliò lui.

“Non ti ho lasciato solo!” schioccò la lingua. “Ero in bagno!”

“Ma parlavi. Ti stavi nascondendo!”

“No, io parlo sempre in bagno!” replicò con tono serio.

“Davvero?” chiese innocente Alex.

“Certo! Bill ci canta pure, quando fa la doccia!”

“Davvero?”

“Sì, stasera forse lo potrai sentire…” sorrise. Se l’era cavata. E per questo doveva ringraziare soltanto l’ingenuità dei bambini. Chissà quanto ci sarebbe voluto, se Alex si fosse messo a piangere come una fontana…

Meglio non pensarci.

 

***

 

“Eccomi!” sospirò sollevato Bill, varcando la soglia di casa.

“Bill!” gli corse incontro Alex, aggrappandosi ai suoi pantaloni per farlo abbassare e dirgli una cosa all’orecchio. Il moro, quindi, si inginocchiò e si concentrò sulle parole biascicate del bambino.

“Voglio sentirti cantare sotto la doccia!”

Il cantante, in tutta risposta, si mise a ridere allegro, attirando l’attenzione di Tom ed Inge che erano seduti sul divano. I ragazzi lo salutarono ed Bill, dopo essersi tolto il giacchetto, li raggiunse, sedendosi sulla poltrona di pelle nera accanto a loro.

“Accidenti! Non vi state scannando!” notò Bill sorpreso.

“Diciamo che ci siamo chiariti…” sorrise beffardo Tom, passando un braccio intorno alle spalle della ragazza. Inge rispose tirandogli una gomitata alle costole ed il ragazzo si piegò in avanti, tossendo.

“Delicata come sempre, eh?”

“Certo.” Sorrise lei, avvicinandosi a Tom ed appoggiando la testa contro la sua spalla, dopo che lui si tirò nuovamente su e si rimise comodo sul divano. Lui la strinse, scarruffandole i capelli, per poi lasciarle un piccolo bacio sulla fronte.

“Bene,” sorrise il fratello, facendo salire sulle proprie gambe Alex. “E tu, peste, hai fatto arrabbiare Tom come ti avevo detto?”

“Sì!” annuì il bambino contento. “Ho anche versato l’acqua sul letto e gli ho detto che avevo fatto la pipì!” rise, portandosi le piccole mani davanti alla bocca.

“Cosa?” fece Tom, sgranando gli occhi al suono di quelle parole. “Tu… Tu l’hai fatto apposta?” ringhiò, puntandogli l’indice contro. “E io che ti ho anche cambiato il letto!”

“Oh, dai! Mica ti è venuta un’ernia nel farlo!” lo riprese Bill, sghignazzando.

“Tu taci, che dopo facciamo i conti. Ora voglio dedicare tutte le mie forze a questo qui!” e sorrise malefico, mentre Alex urlava divertito, scalciando perché il cantante lo mettesse per terra.

“Sai, Alex, dicono che i leoni impieghino tutte le loro energie anche per cacciare una piccola preda.” Tom si alzò in piedi, avvicinandosi al bambino, che cominciò a correre, nascondendosi dietro il divano, il sorriso sulle labbra. “Preparati, perché io, Tom Kaulitz, ci metterò anima e corpo per catturarti e torturarti!” ruggì, iniziando a rincorrere quel piccolo diavolo che, per scappare, trotterellava goffamente per la sala.

I due si rincorsero per qualche minuto, saltando sui divani e addosso a Bill (piccola rivincita personale da parte di suo fratello), e quando il ragazzo catturò Alex, lo prese per la vita e se lo mise in spalla come se fosse un sacco di patate, facendogli il solletico sotto i piedi scalzi con la mano libera. Quella piccola peste gridava di lasciarlo stare, ma più si dimenava, più Tom era restio all’idea di accontentarlo.

Questa era la sua vendetta.

“Che coppia.” Commentò Bill, osservando quel quadretto comico.

“Già.” Convenne Inge. “Pensa che quando sono arrivata, Tom era in coma sul divano e quasi non dava segni di vita…” rise.

“Tutta scena,” sorrise Bill. “In realtà si diverte pure lui.”

 

¤°.¸¸.·´¯`»  «´¯`·.¸¸.°¤

Continua...

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ATTENZIONE: I Tokio Hotel non mi appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera della loro personalità. No scopo di lucro.

***

Ed anche il quarto capitolo è stato pubblicato!XD Solo per questo mi sento soddisfatta! Eheh, mi è piaciuto molto scriverlo, sia perché le scene leggermente idiote che mi sono venute in mente, sia perché si inizia a vedere un piccolo spiraglio di un rapporto tra Tom e Alex, benché ancora sconosciuto ad entrambi - o almeno, più al ragazzo, che al bambino. ^^" Senza contare che la coppia Inge-Tom sembra aver chiarito la sfuriata della sera precedente!XD

Comunque, lascio a voi giudicare.

Ps: sono finalmente riuscita a far funzionare il link con i disegni di Inge relativo al terzo capitolo. Per chi non avesse potuto vederlo e muore dalla voglia di guardarli (vi avverto, non vi perdete niente...^^") ora può farlo!

Ora mi dedico a ringraziare le 8 generosissime anime che hanno voluto commentare il capitolo scorso. Grazie a: niky94, angeli neri, scrizzoth_95, Zickie (Grazie infinite dei complimenti!! Davvero te li sei pure sognati? XDD Mi fa davvero piacere!), layla the punkprincess, BigAngel_Dark, kit2007 (Oh, cosa farei senza di te??? ç__ç Tu, che mi sopporti nei miei momenti di crisi profonda, che mi aiuti con i titoli - cosa estremamente importante!XD - e con le sensazioni che certe volte non so come esprimere... Bè, che altro dire, se non: grazie. Grazie, grazie!! Ps: stavolta non ti ho chiamato mitica, ma tanto è sottointeso..=P) e pandina_kaulitz.

Orsuvvia, vi saluto, gente! Ricordatevi di commentare!XD

Un bacio!

_irina_

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Capitolo 5
*** The Sound Of A Whisper ***


Just a kid

Just a kid

The Sound Of A Whisper

“Bill!”

Risate.

“Bill, lasciami andare!”

Urla.

“Bill! No!”

Altre risate, seguite da altre urla.

Tom girò la testa e dischiuse un occhio per guardare la sveglia con espressione schifata. Il suo orologio biologico diceva che era troppo presto. E non ebbe dubbi nel dargli ragione, quando vide quei numeri lampeggiare sull’oggetto elettronico. Le nove e venti.

Grugnì delle imprecazioni. Non era possibile svegliarsi sempre presto! Era una settimana che andava avanti così! Lui aveva bisogno di dormire. Perché non lo capivano?

Si rigirò dall’altra parte, ma non poté far altro che aprire anche l’altro occhio, quando vide che Inge, appoggiata sui gomiti, lo fissava.

“Ti ho detto di non farlo più.” Brontolò con voce ancora impastata dal sonno, chiudendo gli occhi e rimettendosi comodo sul cuscino.

Lei mormorò un assenso.

Silenzio. Troppo silenzio. A parte il continuo strillare di Alex, inseguito da un Bill decisamente divertito, in quella camera c’era troppo silenzio.

Aprì di nuovo gli occhi, sospetto.

“Che cazzo, Inge!” farfugliò, mettendosi un braccio sugli occhi. “Ti ho detto che non voglio essere fissato!”

“No, tu non vuoi essere fissato da me.” Precisò lei.

“Ok, se lo sai, perché diavolo continui?” borbottò, sospirando.

“Perché mi piace guardarti.”

Il ragazzo biascicò un lamento, per poi girarsi e dare la schiena alla rossa, che sorrise nella penombra della stanza. Inge, quindi, si avvicinò lentamente a lui e gli passò un braccio intorno alla vita nuda, lasciando un piccolo bacio sulla spalla del ragazzo.

Tom girò la testa verso di lei e la guardò torvo.

“Sai che sei insopportabile, quando fai così?”

“Ma so anche che ti piace…” aggiunse lei maliziosa.

Lui sospirò con finta esasperazione e si voltò verso di lei. Era davvero assurdo sentirsi dire certe cose da una ragazza. Di solito era lui a parlare con una tale cadenza seducente… ma dopotutto, da Inge poteva aspettarsi di tutto. Per questo l’amava.

“Vieni qui, scema…” e l’abbracciò.

Lei non oppose resistenza e si lasciò tranquillamente cullare dal respiro del ragazzo.

“Alex!” e un tonfo sordo contro la porta della camera.

“Che cazzo stanno facendo quei due cretini?” mormorò Tom con voce rauca.

“Vuoi andare a vedere?” chiese Inge, alzando lo sguardo su di lui. Era semplicemente bello. Gli occhi chiusi, le labbra morbide ed umide, il piercing quasi invisibile a causa dell’oscurità, quei lineamenti fini, i rasta che gli cadevano scomposti sul viso.

“No, vorrei semplicemente che la smettessero.” Sbadigliò.

La ragazza soffiò una risata e si strinse maggiormente contro il petto di lui, che continuava ad abbracciarla.

“No, ho detto lasciami! Dai, Bill!”

Tom sospirò ancora. Si sarebbe messo a piangere volentieri. Possibile che da quando quella peste era arrivata a casa loro, non fosse più in grado di dormire fino all’ora che voleva? Persino Bill si alzava presto, ma sembrava che a lui non importasse. Prima o poi avrebbe dovuto chiedergli come facesse.

“Forse è meglio alzarci.” Suggerì Inge.

Tom soffiò un rantolo di disapprovazione, mentre si rigirava nel letto, per poi afferrare la sveglia dal comodino.

“Ma hai visto che ore sono?” farfugliò, mettendo l’oggetto davanti agli occhi della ragazza.

“Guarda che lo so,” e gli tolse la sveglia dalle mani per rimetterla al suo posto, oltrepassando il ragazzo ancora in stato di semi-apatia. “Ma tanto è inutile rimanere qui. O almeno, io non riesco più a dormire, preferisco alzarmi.”

“Ah, e quindi preferisci stare alzata, invece che rimanere con me?” chiese quasi offeso lui, mentre si sollevava sui gomiti, gli occhi pesanti per il sonno.

“Esatto.” Sorrise superiore Inge.

“Va bene, fai come ti pare.” E si sdraiò di nuovo, dandole le spalle. “Ricordati che non sarai più la benvenuta in questa camera, d’ora in poi.”

“Ok, vorrà dire che verrò appositamente per romperti i coglioni.”

“Lo stai già facendo.”

“Bè, visto che non mi richiedi, me ne vado sul serio, allora!” Sorrise nel buio, fingendosi oltraggiata.

“D’accordo. Ciao. Chiudi la porta quando esci, che non voglio sentire casino.”

“Stronzo!” lo accusò lei con troppa enfasi. “Mi vuoi buttare fuori!”

“Finalmente l’hai capito!” esultò Tom, rigirandosi verso di lei per guardarla beffardo.

“Lo sai che ti aspetta la mia vendetta, ora?” lo minacciò Inge, sedendosi sul letto e coprendosi con le coperte.

“Resisterò.”

“Vedremo.”

I due si guardarono nell’ombra della stanza, per poi avvicinarsi e baciarsi. Dapprima delicatamente, poi Tom la prese per le spalle e la fece stendere sul letto, imprigionandola sotto il suo peso. Le accarezzò il viso, il collo, le spalle.

“Stai cercando di farti perdonare?” sorrise lei sotto le sue labbra.

“Forse…” rispose lui, abbracciandola.

“Lo sai che sei un pessimo ruffiano?”

“Ma so anche che ti piace.” E la zittì con un bacio intriso di passione.

 

***

 

“No, Bill!”

Ma venne catturato. Aveva corso per tutta la casa per sfuggire alla risata malefica di Bill, ma alla fine, era stato tutto inutile. Il suo nemico aveva vinto e ora lo stava riportando – trascinandolo – nel grande bagno della casa.

“Dai, ti sistemo i capelli!” ridacchiò il ragazzo, raggiante.

“No, non voglio!” si lamentò ancora Alex.

“Ma sì! Questa volta ti piaceranno!” lo tranquillizzò, posizionandolo di nuovo sulla sedia che aveva preso da camera sua e aveva portato appositamente in quella stanza.

“Non è vero!” brontolò il bambino, che subito mise il broncio ed incrociò le braccia al petto.

“Io ti dico di sì!” ribatté il moro.

“No, perché mi rifai le codine!” borbottò Alex. “Io non sono una femminuccia!”

“Certo che no! Per questo ora voglio farti dei capelli bellissimi!” e sorrise, posizionando sul ripiano davanti a loro un barattolo di lacca.

“A cosa serve?” chiese il piccolo demonio, prendendo il contenitore in mano e cominciando ad agitarlo.

“A farti più bello!”

“Ma non voglio diventare una femmina!”

“No, sarai degno di tuo padre.”

“Cosa vuol dire degno?”

“Che lui sarà felice di te.” Sorrise Bill, accorgendosi solo troppo tardi della situazione in cui si era appena cacciato.

“Conosci mio padre?” chiese, infatti, Alex con voce innocente, voltandosi verso di lui.

“Bè, un po’…” mentì. Si stava impelagando decisamente troppo. Anche se era un bambino, non poteva essere così leggero su certi argomenti, anche perché le sue domande da piccolo ingenuo avrebbero potuto provocare serie complicazioni, non tanto Alex, quanto per se stesso. Dopotutto Alex era molto più sveglio di quanto potesse sembrare, e una parola di troppo avrebbe fatto scoppiare un vero casino in quella casa.

“Comunque,” cambiò, quindi, discorso. “Ora gira la testa che iniziamo.”

 

***

 

“Tom! Inge!”

La porta della camera si aprì rumorosamente e l’ombra di un bambino apparve sulla soglia.

“A-Alex!” esclamò Inge, agguantando le coperte per coprirsi, mentre Tom trasalì e si portò una mano al petto nudo.

“Si bussa prima di entrare!” lo rimproverò Tom, ripromettendosi di chiudere la porta a chiave la prossima volta.

“Scusa.”  Mormorò lui, abbassando la testa e tutto ciò che viera sopra. Sembrava portasse uno strano cappello o…

“BILL!” urlarono i due ragazzi all’unisono.

Un’esile figura apparve dietro Alex.

“Sì?” chiese innocente.

“Che cazzo hai fatto?” farfugliò Tom, ricevendo un pizzicotto da Inge per il linguaggio usato, mentre indicava i capelli del bambino con la mano. Erano sparati in aria, esattamente come li portava quel pazzo del fratello ogni qualvolta dovesse uscire.

“Non ti piacciono?” chiese Alex, piegando la testa di lato, il tono strozzato.

“No, no. Aspetta!” cercò di rimediare. “Non intendevo questo!” gesticolò freneticamente con le mani in aria.

“Comunque è bellissimo, vero?” disse Bill, inginocchiandosi dietro Alex e posandogli le mani sulle piccole spalle del bambino, che al tocco sembrò riprendere energia.

“Bè…” mormorò il chitarrista, incapace di dare un giudizio. Pareva che Alex avesse appena infilato un dito nella presa della corrente.

“Sì, decisamente particolare.” Rispose Inge al suo posto, un dolce sorriso sulle labbra, mentre tirava una gomitata alle costole del ragazzo. Tom si piegò in due e tossì un’imprecazione, portandosi le mani sul punto colpito.

“Dice Bill che con i capelli così, avrò tante ragazze!” sorrise il bambino, allargando le braccia per emulare l’immensa quantità.

“Eh, sì…” concordò la rossa. Con quei lineamenti e quei capelli – seppure di un altro colore – era la fotocopia di Bill in miniatura.

“E ha pure detto che così sarò degno figlio del mio papà!” sorrise ancora più raggiante.

Tom sentì il suo stomaco fare dei movimenti strani. Gli mancò il fiato e il suo cervello andò in black out, incapace di elaborare una frase che gli permettesse di ribattere.

“Sì, un bambino bello come te, in che modo non potrebbe rendere felice suo padre?” fece Inge, mostrando al bambino un sorriso sincero e particolarmente caldo. Alex ridacchiò e corse verso la ragazza, che – tenendosi le coperte sul petto con una mano – lo abbracciò a gli diede un bacio sulla fronte.

Ancora una volta, Tom si ritrovò a non sapere cosa dire. Stava immobile, quasi in stato apatico, ad osservare quella scena. Si sentiva fuori luogo. Si sentiva la persona sbagliata al momento sbagliato. Lui non sarebbe mai stato in grado di parlare ed abbracciare quel bambino come Inge. Lui, suo padre, non sarebbe mai stato in grado di essere tale.

Si girò verso suo fratello e non appena vide Bill mormorare delle scuse con aria crucciata per ciò che si era lasciato sfuggire, si sentì ancora peggio. Era davvero uno stronzo. Stava mentendo ad Inge ed al proprio figlio.

Con un gesto veloce della mano, Tom fece capire al moro di non preoccuparsi. Il cantante, quindi, entrò e si sedette sulla sedia vicino al letto, mentre lui tornò a guardare Alex, attirato dalle risate di Inge. Alla visione del bambino che cercava di emulare un chitarrista, mettendo nei suoi movimenti tutta la foga che un gesto del genere avrebbe richiesto, non poté trattenere un sorriso.

“Guarda!” esclamò Alex, iniziando a muovere la testa e facendo sventolare tutti quei ciuffi sparati in aria. “Sembro un uomo che suona la chitarra!”

Inge rise ancora, poi si girò verso Tom. “Avrai un bell’avversario nella tua famiglia…” sogghignò divertita. “Ha più energia lui di te!”

“Perché?” chiese Alex, smettendo di divincolarsi come un ossesso. “Lui sa suonare la chitarra?” ed indicò Tom, quasi con una nota di sfida nel suo tono.

“Certo!” rispose il ragazzo, come se fosse stato ferito nell’orgoglio. Lui non sapeva suonare la chitarra. Saper suonare la chitarra era un'espressione usata da coloro che credevano di suonarla. Lui la viveva.

“Non ci credo!” ribatté Alex, facendogli una linguaccia.

“Ah sì?” fece Tom, non resistendo dall’accettare la sfida. “E quella, secondo te, a che mi serve?” ed indicò lo strumento posizionato vicino al letto.

“Per bellezza!” si impuntò Alex, mani ai fianchi.

“Bene, allora ti faccio vedere!” e si sporse verso il sostegno della chitarra. Inge si buttò su di lui appena in tempo per coprirlo ed evitare che Alex potesse vedere le sue future fattezza da uomo.

“Ti vorrei ricordare che sei nudo.” Sibilò la ragazza, tirandosi su.

“Anche tu.” Rispose malizioso il ragazzo, tornando seduto, la sua Gibson tra le braccia. La ragazza sospirò, roteando gli occhi, per poi appoggiarsi nuovamente alla spalliera del letto.

Tom sistemò le coperte sopra di sé ed impugnò la chitarra saldamente tra le mani. Iniziò a muovere le dita della mano sinistra sul manico con gesti fluidi e precisi, mentre l’altra faceva vibrare le corde, creando una dolce melodia già sentita.

Bill non riuscì a frenare oltre il suo desiderio ed alla fine, si mise a cantare il nuovo testo sulle note di quella musica. La stanza si riempì, così, di un’atmosfera leggera, limpida, ma anche profonda e leggermente malinconica, ma subito l’energia che Tom riversò sulle corde dello strumento fece cambiare quelle emozioni, rivelandone altre ben più complesse ed energetiche. La voce del fratello accompagnò egregiamente ogni sfumatura di quelle sensazioni, facendo nascere dei brividi lungo la schiena dei due ascoltatori.

Inge osservò Tom mentre suonava. Benché avesse gli occhi chiusi, muoveva la testa come se seguisse ogni spostamento delle sue dita. Dischiuse, poi, gli occhi lentamente, guardando un punto vuoto davanti a lui ed un sorriso gli apparve sulle labbra. Un sorriso un po’ beffardo e un po’ sincero. Un misto di tutti i sentimenti che provava in quel momento.

E la melodia finì, lasciando Alex sbalordito e smarrito per qualche secondo.

“Ehi, capello,” Lo chiamò Tom, guardandolo soddisfatto. “Sei ancora dell’idea che io non sappia suonare?” ed inarcò un sopracciglio.

Il bambino sembrò svegliarsi e fissò Tom, boccheggiando, prima di riuscire a rispondere.

“Bè, sì, sei bravo…” ammise. “Ma io sono più bravo!” aggiunse strafottente.

Questo bambino è proprio il parente indiscutibile di questi due ragazzi, pensò Inge, riflettendo sull’atteggiamento e il suo modo di parlare. Era un Kaulitz sotto tutti i punti di vista.

“Sei più bravo?” ripeté scettico.

“Sì.” Ed incrociò le braccia al petto.

“Fammi sentire.” E gli porse la chitarra, che Alex rifiutò prontamente, mettendo una mano avanti.

“No, perché poi ti arrabbi.”

“Mi arrabbio? E per cosa?”

“Se ti faccio sentire come suono!” rispose ovvio il bambino. “Se sono troppo bravo tu, poi, ti arrabbi!”

Inge e Bill risero calorosamente, mentre Tom rimuginò sulle parole di quel piccolo diavolo. Lo stava per caso sfottendo? Decisamente sì.

“Preparati, capello…” mormorò Tom, guardando il bambino minaccioso.

Alex lanciò un urlo divertito e corse da Bill.

“Salvami! Salvami!” rideva, mentre zampettava intorno al ragazzo. “Tom mi vuole prendere!”

Il moro rise e prese il bambino per una mano. “Allora corriamo a nasconderci! Presto!” e insieme uscirono dalla stanza saltellando, quasi come per aizzarsi contro Tom.

“Non vai?” chiese Inge, guardando Tom che non sapeva se dimostrarsi vagamente divertito o sinceramente preoccupato per la sanità mentale di quei due.

Tom la guardò sconcertato.

“E dai! Alex non aspetta altro! Hai visto pure tu come si diverte quando lo rincorri!” sorrise raggiante.

Colpito dall’espressione ilare di Inge e dalle sue parole, il ragazzo si alzò e si infilò i suoi boxer, per poi indossare i pantaloni della tuta che giacevano sul pavimento.

Salì nuovamente sul letto e diede un bacio in fronte alla ragazza, mormorando un “grazie” caldo e sincero di cui lei non comprese il motivo. Si affacciò, quindi, alla porta ed uscì.

“Tenetevi pronti, perché se vi trovo vi faccio neri! Tu per primo, capello!” urlò il chitarrista, scendendo le scale a corsa.

Inge rimase ancora un po’ nel letto.

C’era qualcosa che non le tornava. Qualcosa che le pareva sempre più lontano e fugace ogni qualvolta che provasse ad avvicinarsi ed afferrarlo. Era frustrante non riuscire a capire cosa fosse, ma ad ogni modo, era inutile provare a far chiarezza. Prima o poi sarebbe riuscita a catturare quel particolare ed a capire la ragione di tanta preoccupazione, proprio quando meno se lo sarebbe aspettato.

Quindi, si alzò, recuperò i suoi vestiti e una volta indossati, scese pure lei al piano di sotto.

 

***

 

“Spengete la play e venite a mangiare! È pronto!” urlò Inge dalla cucina.

Alex sbuffò. “Ma dobbiamo finire la partita!”

“La finirete dopo! Si raffredda tutto, sennò!” rispose la ragazza, sistemando i piatti di pasta sul grande tavolo della cucina.

“Arriviamo.” Disse, quindi, Tom, mettendo la corsa in pausa.

“Uffa!” borbottò Alex, incrociando le braccia al petto.

“Dai, capello, ci si torna dopo.” E gli scompigliò la criniera che nel frattempo si era leggermente affievolita.

“Ok, ma tu smettila!” e cercò di fermare la mano si Tom, il quale continuava ad arruffargli le ciocche sparate in aria.

“Certo che no.” sorrise lui, per poi darla vinta al bambino e offrendogli una mano per andare in cucina. Alex, dunque, saltò giù dal divano e trotterellò verso Tom, afferrando la sua grande mano.

Bill sorrise. Alla fine suo fratello era riuscito a stabilire un minimo di rapporto con Alex.

“Cosa si mangia?” chiese il rasta, sollevando da terra il diavolo in miniatura e facendolo sedere sulla sedia con un grande cuscino arancione.

“Pasta,” indicò i piatti la ragazza, sistemandosi al suo posto, accanto ad Alex. “E stufato.”

“Perfetto.” Proclamò Tom, strusciandosi le mani. “Ah, Bill, quando dobbiamo andare allo studio di registrazione questa settimana?”

Il moro si portò un dito sotto il mento e meditò. David gli aveva detto – tra le tante cose – anche questa. “Mi pare domani alle quattro, possibile?”

“Guarda che ci sei rimasto tu con lui, non io. Se non lo sai tu…”

Bill roteò gli occhi, per poi prendere la forchetta e portarsi il primo boccone alla bocca.

“Ah!” si ricordò Inge. “Io domani ho una riunione alle cinque.” Disse biascicando le parole.

“Non si parla con la roba in bocca!” la rimproverò Alex.

La ragazza deglutì e gli sorrise. “Giusto, hai ragione. Scusa.” E gli diede un buffetto.

“Quindi?” domandò Tom, sorseggiando un bicchiere di birra.

“Bè, dovreste portarlo con voi…”

“Cosa?” fece Tom, tossendo per il liquido dorato che si era dimostrato praticamente letale. Se avesse portato Alex laggiù, sarebbe scoppiata la terza guerra mondiale! Per di più, non avevano ancora detto né a Gustav né a Georg – e né tantomeno a David – della presenza di quella peste! Non riusciva nemmeno ad immaginare le loro possibili reazioni! E poi c’era il rischio che se avesse raccontato loro la verità, era molto probabile che in poco tempo, anche Inge ne venisse a conoscenza.

“Tom?” lo guardò sospettosa, la ragazza.

“Sì?” farfugliò, colpendosi il petto con qualche pugno per evitare di morire soffocato alla misera età di vent’anni.

“Tutto ok?” chiese preoccupata.

“Forse…” farfugliò dopo aver ripreso un minimo il controllo. “Dicevi?”

“Che lo dovete portare con voi.”

“Per me si può fare.” Intervenne Bill, una volta ingoiata un’altra forchettata.

“Ok, grazie.” Sorrise Inge, per poi accorgersi di Alex. C’era più sugo sul suo viso che sulla pasta davanti a lui. E lo stesso rapporto poteva essere sentenziato per la quantità di pasta sparsa sulla tovaglia vicino a lui e quella presente nel piatto.

Si apprestò, quindi, a prendere un tovagliolo e a passarglielo sulla bocca, mentre lui si dimenava energicamente.

“Dai, sei tutto sporco!” lo supplicava Inge. “Guarda che se ti agiti così, potrei farti male.” Lo ammonì con aria lievemente più autoritaria.

Il bambino sbuffò e lasciò che la ragazza lo pulisse, mentre Tom e Bill ridevano del casino che aveva combinato. Alex ridusse gli occhi a due fessure e li squadrò truce. Tom non poté far altro che paragonarlo ad Inge.

Sta decisamente troppo tempo con lei. Diventerà pericoloso, sogghignò tra sé e sé.

 

***

 

“Non ci provare.” Lo minacciò Tom. “È mia.”

Il moro posò la bottiglia della birra che aveva in mano e si sedette di nuovo sbuffando.

“Me ne prendi una, allora?” chiese con tono offeso.

“No, te la prendi!” gli rispose il fratello.

“Ma mi dovrei alzare!” piagnucolò Bill.

“Sembrerebbe. Sai, a meno che il frigo non venga da te…”

“Ma tu sei più vicino!”

“Non me ne frega un -”

Un calcio ben assestato da parte di Inge contro la sua gamba lo fece zittire. Tom si piegò per massaggiare lo stinco e Alex ridacchiò.

“Cosa ridi tu?”

“Sei buffo!” sorrise il bambino.

Il ragazzo sospirò. Era buffo. Cioè, si faceva male, ed era buffo. I bambini avevano proprio tutt’altra concezione del mondo.

“Tom…” lo richiamò lamentoso Bill.

“Che -” mente roteava gli occhi, lo sguardo inceneritore di Inge lo trafisse, facendogli cambiare idea sul termine che stava per usare. “… pizza!” e si alzò.

Di colpo, Alex si alzò in piedi sulla sedia e rovesciò il latte rimanente nel suo bicchiere, dentro la bottiglia della birra di Tom, facendo sgocciolare quel liquido bianco per tutta la bottiglia e sul tavolo.

Proprio pochi attimi prima che Tom si voltasse per tornare a tavola, il bambino si rimise seduto, un’espressione innocente sul viso.

Ma per Tom, quell’espressione era troppo innocente e non gli ci volle molto per capire cosa nascondessero quegli occhi sereni.

Il ragazzo prese la sua bottiglia con due dita e se la portò davanti agli occhi, guardandola schifato. Poi alzò lentamente lo sguardo sul bambino, che sorrideva soddisfatto.

“È per avermi tirato giù i pantaloni prima!” rispose, capendo l’implicita domanda del ragazzo.

“Era perché te lo meritavi.” Ribatté Tom.

Quindi, poi, l’aveva preso, sorrise Inge.

“Sei arrabbiato?” chiese titubante Alex, dopo un po’.

“Molto.” Rispose Tom, posando la bottiglia sul tavolo e tenendo per sé quella di Bill, che mugolò un lamento.

“Ehm, allora devo correre?”

“Ti do dieci secondi.” Ringhiò.

Alex lanciò un urlo acuto e saltò giù dalla sedia, correndo su per le scale. Subito dopo Tom gli corse dietro.

Gli altri due si scambiarono un’occhiata di intesa e presto anche loro salirono al piano superiore, appena in tempo per assistere all’ennesima ed indubitabile cattura del povero Alex, che venne portato nel bagno.

“Tom! Lasciami!”

“Nemmeno morto!”

Inge e Bill si avvicinarono cautamente alla porta della stanza e si misero ad osservare la scena. Alex era – come al solito – sulle spalle di Tom, che lo reggeva per la vita con braccio, mentre con l’altro frugava nella cesta dei panni sporchi.

Quando si tirò su, aveva in mano un paio di suoi calzini, che iniziò a sventolare in aria con sguardo malefico. Fece, quindi, scendere il bambino senza lasciare la presa sulla sua maglietta, e gli mise quelle fetide ed appestanti armi fai-da-te sotto il naso.

Il volto di Alex assunse una strana tonalità verdastra, mentre sembrava che tutto ciò che aveva appena mangiato gli tornasse in bocca.

“Se devi vomitare fallo nel cesso.” Lo avvertì il ragazzo, mentre allontanava la sorgente del malessere del bambino e la rimetteva nella cesta dei panni sporchi. “Ho vinto io.” Dichiarò, infine, sorridendo beffardo e superiore.

Alex, dopo aver deglutito e aver ripreso un colore rosato, lo guardò imbronciato, il labbro inferiore leggermente tremante.

“Che hai?” chiese Tom, lasciandolo libero dalla sua stretta sulla maglietta, che parve ancora più grande di quello che già era.

“Sei cattivo.” Mormorò. Le prime lacrime iniziarono a scendergli lungo le guance.

“No, aspetta! Non piangere!” farfugliò allarmato, inginocchiandosi davanti a lui. Ecco, perfetto. L’aveva fatto piangere. E ora?

“Sei cattivo!” e iniziò stropicciarsi gli occhi con una mano, mentre con l’altra afferrava il lembo della sua maglietta, stringendola forte.

“Sì, hai ragione. Sono cattivo, ma non piangere! Dai, Alex…” ma i singhiozzi del bambino coprirono le sue parole.

Bill ed Inge si guardarono preoccupati. Non sapevano se intervenire o meno. Ma prima che riuscissero a trovare una soluzione, Alex corse goffamente fuori dal bagno, dirigendosi verso camera sua. Entrò e sbatté violentemente la porta. I due, quindi, guardarono Tom.

“Sì, lo so. Sono uno stronzo.” Ammise, alzandosi ed uscendo dalla stanza a sua volta.

“Se vuoi ci parlo io…” si propose Inge, raggiungendolo.

“No. Tu e Bill tornate in cucina.” E si avvicinò alla porta del bambino. Bussò, quindi, un po’ imbarazzato, aspettando che Alex rispondesse. Ma così non fu.

“Allora, ti lasciamo solo?” mormorò Bill, capendo più della ragazza ciò che Tom stava provando in quel preciso momento.

Suo fratello annuì e il moro prese Inge per un braccio, allontanandosi silenziosamente per le scale.

Una volta rimasto solo al piano superiore, Tom bussò ancora e, dal momento che non ricevette nuovamente risposta, aprì lentamente la porta.

“Posso entrare?” chiese impicciato.

Alex non disse niente. Lo fissava soltanto dal letto, le ginocchia al petto e le mani intorno ad esse, in posizione di difesa.

Quella visione provocò a Tom una fitta inaspettata. Aveva fatto piangere Alex. Aveva fatto piangere suo figlio. E ora lui era impaurito. Aveva paura di suo padre. Per quanto potesse essere paradossale, era una situazione davvero spiacevole e triste, e ovviamente lui non sapeva come reagire. Cosa avrebbe dovuto dirgli?

“Ehi, Alex… posso sedermi?” ed indicò il letto, proprio come aveva fatto Inge la prima volta che l’aveva visto.

Il bambino annuì timidamente, tirando su con il naso.

Tom si sedette ed il silenzio li avvolse. Si sentiva davvero un perfetto stronzo. Aveva esagerato. Dopotutto, Alex era un bambino. Non poteva comportarsi normalmente, o almeno, non poteva comportarsi come avrebbe fatto se fossero stati suo fratello o Georg. Cazzo! Avrebbe dovuto saperlo che i bambini non reagiscono come loro!

“Ehi…” provò a rompere il silenzio. “Sei arrabbiato?”

Alex lo guardò, lasciando che un’altra silenziosa lacrima gli rigasse il viso. Il ragazzo, quindi, si avvicinò a lui e cercò di asciugargliela con la mano, ma il bambino si ritrasse.

“Tranquillo…” lo rassicurò, mostrandogli un sorriso. Alex lo guardò impaurito, ma lasciò che Tom gli accarezzasse la guancia dolcemente e gli asciugasse quella piccola goccia. Ma quel gesto, scatenò in lui tutta un’altra serie di emozioni che lo fece singhiozzare di nuovo.

“Ehi, che hai ora?” chiese agitato Tom.

Alex non rispose, ma gattonò verso di lui e lo abbracciò, portando le piccole braccia intorno al suo collo.

Subito, il ragazzo sentì qualcosa di strano. Mai provato prima. Ricambiò l’abbraccio senza pensarci troppo, stringendolo forte a sé, mentre Alex piangeva e gli stropicciava la maglia che aveva preso tra le mani.

“Dai…” gli sussurrò Tom all’orecchio, accarezzandolo sulla schiena. Ma sembrava che più Tom continuava a dire parole dolci e confortanti, più Alex era restio dal calmarsi realmente.

“Ma sei ancora arrabbiato?” chiese con cautela.

Il bambino scosse la testa in segno di negazione.

“E allora cosa ti prende?”

Bastò un sussurro.

“Ti voglio bene…”

Ti voglio bene.

Tre semplici parole che mai Tom si sarebbe aspettato di sentire da lui. Tre semplici parole che nemmeno si aspettava che quel bambino pensasse. Tre semplici parole che gli fecero avvertire una fitta al petto, molto più potente e imprevista delle altre.

Lo strinse forte a sé.

“Anch’io ti voglio bene.”

¤°.¸¸.·´¯`»  «´¯`·.¸¸.°¤

Continua...

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ATTENZIONE: I Tokio Hotel non mi appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera della loro personalità. No scopo di lucro.

***

Cari lettori, dovete sapere che l'ultima parte di questo capitolo si è completamente modificato man mano che la scrivevo. All'inizio non volevo che Alex arrivasse a tanto, ma mentre descrivevo la scena nel bagno, mi sono lasciata prendere un po' troppo la mano... e alla fine, questo è il risultato. Che ne dite? Troppo diabetico? Forse un po', ma tutto sommato mi piace, cioè, mettendo in risalto questi piccoli momenti, si può vedere come il rapporto di Tom ed Alex si rafforzi sempre di più!XD

Senza contare che questo episodio contiene una parte fondamentale che verrà - ovviamente - ripresa anche più avanti. Chissà se troverete questo particolare, anche se non credo, visto che è solo il quinto capitolo... La storia deve ancora entrare nel vivo!^^

Bè, quindi ora passo ai ringraziamenti!

Grazie a tutte quelle personcine brave brave che hanno recensito lo scorso capitolo, come: niky94, angeli neri, mixy88 (Eccoti!!! Questa volta mi sono ricordata di te!!!XD), kit2007 (Dai, dai, che i tag li hai usati bene!XD Eheh, grazie per l'intervento con le citazioni!XD), tokiohotel4e, scrizzoth_95 (Non preoccuparti! Tanto io sono sempre qui..=P Quando vuoi, chiedi pure!XD), pandina_kaulitz, Zickie (Accidenti! Due volte?! Ahahah!! Mi fai davvero felice! E grazie, sia per i complimenti sulla storia, che sui disegni!^^), BigAngel_Dark e ladydarkprincess.

E ora vado via, ma voi lasciate tanti commenti!!

Ah, prima che dimentichi! Vi avverto che con l'inizio della scuola, purtroppo, non avrò più molto tempo libero per scrivere, quindi gli aggiornamenti potrebbero ritardare di molto. Mi scuso da subito... V_V

_irina_

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Capitolo 6
*** Kids Just Wanna Have Fun! ***


Kids Just Wanna Have Fun

Just a kid

Kids Just Wanna Have Fun!

Alex era di un colore purpureo, molto propenso al viola. E Inge c’era molto vicina.

Il cronometro continuava a far scorrere il tempo, mentre i due Kaulitz sembravano a loro agio.

Ancora due secondi, poi Alex rinunciò e prese finalmente una boccata d’aria, tornando a respirare – oltre che al suo colore naturale.

Non passarono altri cinque secondi, che anche Inge rinunciò all’impresa, mentre i due ragazzi, seduti sul divano – Bill con le gambe incrociate, Tom stravaccato come al solito – continuavano a guardarsi in truci con le guance gonfie. Era ovvio che non avrebbero ceduto la vittoria, ma erano in apnea da ormai trenta secondi… che presto divennero quaranta.

Un minuto.

Alex li fissava rapito.

Dopo un minuto e mezzo Inge si alzò per andare in cucina, chiedendo ad Alex di accompagnarla, lasciando Tom e Bill a guardarsi negli occhi con espressione torva.

“Alex,” sussurrò la ragazza al bambino, una volta lontani. “Senti, ora si torna di là e…”

Il bambino annuì divertito e soffocò una risata, portandosi le piccole mani davanti alla bocca. Poi, entrambi ritornarono in sala, avvicinandosi di soppiatto ed arrivando alle spalle dei gemelli.

Inge fece l’occhiolino ad Alex e tutti e due tapparono il naso ai ragazzi, che sgranarono gli occhi ed aprirono di colpo la bocca per respirare.

“Ma che cazzo…?” farfugliò Tom, seguito da un Bill annaspante, che si portava una mano sul petto per riprendere fiato.

“Ma tu guarda che campioni!” sogghignò Inge, canzonandoli palesemente.

“Mi volevi far soffocare?” la guardò truce Tom, girandosi.

Lei annuì beffarda, appoggiandosi con i gomiti alla spalliera del divano, e il chitarrista non tardò a mandarla in culo con un semplice gesto. Lei, dopo essersi assicurata che il bambino non li stesse guardando, rispose con altrettanta eleganza.

“Questa partita l’ho vinta io!” affermò, quindi, scavalcando la spalliera e scivolando tra essa ed il ragazzo, che non mancò di stendersi su di lei.

“Tom! Stai schiacciando Inge!” protestò Alex, vedendo il ragazzo stravaccato su di lei, che intanto rideva divertita.

“È vero! Guarda che mi fai male!” si lamentò con voce infantile la rossa.

“Dovresti saperlo che sono sadico.” Ribatté lui, sistemandosi meglio su di lei, che iniziò a tirargli dei piccoli e deboli pugni sulla schiena, il sorriso sulle labbra.

“Alex!” lo chiamò Bill. Il bambino si girò interrogativo verso di lui. “Aiutiamo Inge!” e per dare un esempio concreto, si buttò addosso al fratello.

La piccola peste li guardò bramoso di unirsi al gruppo e non si fece scrupoli a saltare sul divano, per poi iniziare a tirare un dread al ragazzo, che iniziò a farfugliare delle minacce incoerenti contro di lui.

“Mi fai male! Guarda che ora ti prendo e ti metto con la testa nel cesso! E tiro lo sciacquone!”

Ma Alex si divertiva troppo e non sembrava intenzionato ad ascoltarlo. Fu Inge che, liberandosi dalla presa di Tom nella quale era caduta, riuscì ad allontanarlo dai capelli del ragazzo. Si sedette, quindi, composta sul divano e lo fece sedere sulle proprie gambe, mentre lui continuava a ridere divertito, stuzzicato dalle dita di Bill che gli facevano il solletico sotto i piedi scalzi.

Poco dopo, pure Tom si unì a loro.

“Questa è la mia vendetta, Alex.” Ghignò, e prontamente il bambino iniziò ad urlare allegro.

Improvvisamente, il cellulare di Bill – usato come cronometro – iniziò a suonare sul piccolo tavolo davanti a loro.

“Ah! Siamo in ritardo!” esclamò il moro, alzandosi in piedi come una molla.

“Cosa?” biascicò Tom, togliendosi una mano di Alex dalla bocca.

“Dobbiamo essere allo studio alle quattro!” gli ricordò Bill, tra il preoccupato e l’isterico.

“Merda…” borbottò, quindi, suo fratello, ricevendo uno sguardo ad alto potenziale omicida da parte di Inge.

Tom roteò gli occhi e sbuffò, per poi ricambiare lo sguardo, facendole capire che tanto Alex non aveva sentito.

Lei sospirò e lui le sorrise sghembo, ricevendo una linguaccia come risposta.

Bill, intanto, porse una mano ad Alex, che l’afferrò saldamente e lo portò con sé al piano superiore per vestirlo, visto che sarebbe dovuto andare con loro.

“Sei un cretino.” Affermò lei, una volta che i due sparirono al piano superiore.

“Lo so.” Ammise con fare modesto. “È una delle mie tante qualità.”

“Stupido.” Rise lei, alzando gli occhi al cielo con aria esasperata.

“Accidenti, con tutti questi complimenti, potrei montarmi la testa!” replicò Tom, sedendosi accanto a lei, un braccio intorno alle spalle della ragazza. Inge inarcò un sopracciglio scettica e lui le mostrò il suo solito sorriso sghembo, contornato da una bella dose di malizia, sapendo bene quanto lei potesse resistergli in quelle situazioni.

Molto poco.

Le guance della ragazza, infatti, si colorarono lievemente, ma non gli negò il piacere della sfida, iniziando a fissarlo intensamente con i suoi occhi verdi, perché sapeva altrettanto bene quanto lui potesse resistergli.

Molto poco.

I due si guardarono negli occhi, avvicinandosi sempre di più, finché lui non posò una mano sulla nuca della ragazza, permettendo, così, alle loro labbra si fondersi in un bacio ardente.

Inge lo allontanò leggermente, tanto per poterlo guardare negli occhi.

“Farai tardi.” Sussurrò.

“Non importa.” Rispose lui, chiudendo gli occhi e sfiorandole il naso con il suo, la voce calda e suadente.

Inge sapeva benissimo che lo faceva per farle perdere i controllo. Lo faceva sempre. Ma quello non era il momento, nonostante lei non facesse niente per fermarlo. Tom, infatti, la intrappolò sotto di sé, facendola stendere sul divano, e riprese a baciarla, mentre le accarezzava un braccio con una mano. Semplici movimenti delicati, ma sensuali, che le davano alla testa.

“TOM! INGE!” tuonò la voce di Bill dall’ingresso.

I due ragazzi trasalirono. Poi lei allontanò Tom da sé bruscamente, facendolo cadere per terra, mentre lei si metteva seduta e guardava Bill, cercando di apparire più innocente possibile, un sorriso tirato sulle labbra, accompagnato da una risatina nervosa.

“Siete incorreggibili! Siete… due animali in calore perenne!” li accusò di nuovo.

Tom si alzò, massaggiandosi un gomito ed imprecando a denti stretti gli apici del suo già noto repertorio.

“Ed Alex?” chiese, non vedendo il diavolo in miniatura accanto a lui.

“Ora scende. Era in bagno.” Rispose con un vago gesto della mano. “Tom!” ruggì, poi, cambiando totalmente espressione. “Non ti sei ancora cambiato!”

Il ragazzo si guardò. Bè, in effetti non poteva andare allo studio con addosso quella maglia sgualcita – e sporca del sugo che Alex gli aveva casualmente tirato addosso con una forchettata di pasta – e quel paio di pantaloni di una vecchia tuta, che per altro, avevano un grande buco all’altezza del ginocchio.

“Sì, ora vado.” Mormorò Tom.

“Non ora. Ora è già troppo tardi!” abbaiò Bill, indicandogli il piano di sopra con un dito dall’unghia – ovviamente – perfettamente smaltata di nero.

Il ragazzo sbuffò e salì le scale svogliatamente, le mani affondate nelle tasche. Lui non aveva bisogno di tutto il tempo che impiegava suo fratello per vestirsi. A lui servivano solo due magliette e un paio di pantaloni. Punto. Che bisogno c’era di sbraitargli contro?

“MUOVITI!” urlò ancora Bill, sulla buona via per uno dei suoi attacchi isterici.

Tom sollevò una mano e gli mostrò il suo elegante dito, fischiettando, per poi sparire al piano superiore.

 

***

 

“E lui chi è?” chiese dubbioso Georg, indicando il bambino che si nascondeva dietro le gambe del moro.

“Si chiama Alex.” Rispose Bill.

“Alex?” ripeté e si chinò in avanti, appoggiando i gomiti sulle ginocchia.

I Kaulitz annuirono.

“Cazzo! È uguale a voi due!” constatò stupito, ricevendo un’apparente ingiustificata gomitata alle costole da Gustav, seduto sul divano vicino a lui. “Ma che -” ma venne interrotto da un’occhiata più che eloquente.

“Georg! C’è un bambino! Modera un po’ il linguaggio!” lo ammonì il batterista.

Il ragazzo guardò il piccolo essere che non accennava minimamente ad allontanarsi da Bill.

“Ma è vostro parente?” chiese incredulo. Era identico a loro. Stessi occhi, stessi capelli. Sia lui che Gustav avevano conosciuti i gemelli quando erano decisamente più grandi rispetto al bambino, ma quei lineamenti erano inconfondibili.

“Bè, sì…” farfugliò Tom, stravaccandosi maggiormente sul divanetto di fronte a quello su cui erano seduto i due amici. “È nostro cugino.”

“Vostro cugino?” ripeterono all’unisono i due amici.

“Voi avete un cugino?” aggiunse Gustav, facendo vagare lo sguardo da Tom a Bill e viceversa.

“Sì… è così strano?” replicò stizzito Tom.

“No, è che non lo sapevamo… e ormai sono anni che siamo amici.” Gli fece notare il batterista, mostrando un espressione perplessa.

“Bè, non ce l’avete mai chiesto…” ribatté Tom.

“E perché è con voi?” domandò Georg.

“I suoi genitori sono in viaggio con i nostri, quindi hanno chiesto a noi di stare con lui.” rispose Tom distratto, accompagnando il tutto con un vago gesto della mano, mentre teneva l’altra sotto la testa, abbandonata sullo schienale del divano.

“E quando tornano?” lo interrogò Gustav.

“Non lo sappiamo.”

“Come non lo sapete?” fece indignato. “Cioè, vi viene affidato un bambino – di quanto? Tre anni?”

“Quattro.” Precisò Bill, spostando il suo peso da una gamba all’altra, le mani incrociate al petto. Alex era ancora dietro si lui, che sbirciava furtivo i due nuovi ragazzi.

“Ecco, quattro anni, e voi non vi preoccupate minimamente di quando tornino?”

“Bè, mica sono scappati!”

“Certo che no! Ma avete idea delle responsabilità che porta, prendersi cura di un bambino?” fece loro notare il batterista.

Tom chiuse gli occhi. Sì, aveva decisamente idea di quello che dovevano fare.

“Ehi, Alex,” lo chiamò Georg, un sorriso rassicurante sulle labbra. Allungò una mano nella sua direzione, sperando che il bambino l’afferrasse e uscisse dal suo nascondiglio. “Come ti trovi con questi due?”

Il piccolo guardò la mano, leggermente impaurito, poi guardò Georg. Quel sorriso gli fece capire quanto fosse sincero e prese la mano del ragazzo, per poi oltrepassare Bill e avvicinarsi al bassista.

“Bene.” Biascicò.

“Ti diverti?”

Lui annuì titubante.

Sia Tom che Bill osservarono la scena. Era decisamente curiosa. Non avevano mai visto Georg alla presa con un bambino, e non si aspettavano minimamente che potesse essere così sciolto e capace di farsi capire.

O forse questo fatto, pensò Tom, era dovuto solo al fatto che Alex era suo figlio, e non un semplice cugino.

Bè, cosa poteva giustificare tutto questo, altrimenti?

Anche Gustav iniziò a parlare, imitando i piccoli e delicati gesti di Georg, per ottenere la fiducia di Alex, e in poco tempo, il bambino si aprì anche con loro, mostrando dei sorrisi divertiti e giocosi.

Di colpo, però, la porta del camerino si aprì violentemente, facendo sobbalzare tutti i presenti e mettendo fine a quell’allegra atmosfera.

“Ecco dove eravate, disgraziati!” tuonò David, scuro in viso.

“Scusa, ma -” iniziò Bill, gesticolando per aria.

“Non voglio sentire scuse. Voglio sentirvi suonare! Dovevate iniziare dieci minuti fa!”

Poi si zittì. C’era qualcosa che non gli tornava. Contò i ragazzi. Sì, c’erano tutti. Poi posò lo sguardo sul bambino che stava cercando di nascondersi dietro le gambe di Gustav, la mano nella sua come per avere un sostegno.

“E lui chi è?”

“Alex.” rispose il batterista.

“Alex?” ripeté con una smorfia.

Com’è che questa scena non è per niente nuova?, ghignò Tom, rendendosi, però, subito conto di ciò che stava succedendo. David Jost stava chiedendo informazioni su un bambino. E il bambino in questione, altri non era che suo figlio.

Iniziò a sudare freddo. David sarebbe persino stato capace di controllare l’albero genealogico della sua famiglia, se ne avesse avuto la voglia. Non gli ci sarebbe voluto molto per capire che quello non era suo cugino. E la sua estrema somiglianza con lui era la prova di chi fosse in realtà.

“Ah, è vostro cugino?” fece il produttore, guardando Bill e poi Tom, rispondendo, evidentemente ad una precisazione di qualcuno.

Bill annuì, mentre Tom era ancora immerso fino al collo nelle sue seghe mentali che aumentavano di secondo in secondo a causa degli occhi di Jost che lo fissavano come se stessero cercando di leggergli l’anima, soffermandosi su di lui più del necessario. O almeno, così parve a lui.

Annuì, quindi, impercettibilmente, cercando di mantenere una parvenza di controllo, quando questo, invece, era ormai andato a farsi fottere.

“Perché è qui?” chiese David. Alex cercò di nascondersi maggiormente. Sembrava che il bambino cercasse di diventare tutt’uno con il divano e scomparire dal campo visivo di quell’uomo per niente rassicurante.

“I suoi genitori sono in vacanza.” Rispose Georg, sdraiandosi sul divano.

Ok, se l’era cercata. Se il produttore fosse venuto a conoscenza della verità, come minimo si sarebbe dovuto aspettare che lo scuoiasse vivo.

“Ma, scusa. Non poteva andare dai vostri genitori? Mica siete in vacanza, voi!” fece notare.

Bè, abbiamo fatto trenta, facciamo trent’uno…

“No, anche i nostri sono via.” Spiegò Tom. Tanto ormai non c’era più niente da fare. Forse, la cosa migliore era dare a tutti la stessa versione dei fatti, almeno questa farsa avrebbe potuto continuare un po’ di più, prima di essere scoperta. Perché sarebbe stata scoperta. Non c’erano dubbi al riguardo. Poteva durare di più, o di meno, ma non l’avrebbe fatta franca. Tutti avrebbero saputo chi Alex fosse in realtà.

Alzò gli occhi sul fratello, come per avere conferma, ma l’unica cosa che ottenne da Bill fu uno sguardo tra la disapprovazione e la rassegnazione. Poi il moro annuì, mostrando un sorriso. Tom capì perfettamente cosa gli stava dicendo. Le parole non erano necessarie. Sì, lo sapeva. Si stava impelagando sempre di più. Così tanto che a stento ci sarebbe uscito indenne. Ma gli voleva anche dire che lui era dalla sua parte, che avrebbe potuto contare su di lui.

David sospirò, passandosi una mano sul viso.

“Perfetto. E ora dove lo mettiamo?”

“Guarda che non è un oggetto.” Replicò Tom.

“Lo so.” Roteò gli occhi l’altro. “Era per dire che dovete lavorare e lui non può stare con voi.” Assunse poi un’aria concentrata. “Chiamo Saki. Se ne occuperà con lui.”

I ragazzi si guardarono stupiti. Saki ed Alex? Il gigante e il bambino? Gulliver ed il lillipuziano?

Soffiarono una risata. Questa era da vedere!

 

***

 

“Alex!” urlò Saki, correndo per il corridoio.

Si fermò, poi, improvvisamente, guardando a destra e sinistra. Un bivio. Dove era andato?

“Alex! Dove sei?”

Nessuna risposta.

L’omone sospirò. Era la terza volta che scappava. La prima perché aveva visto Tom passare vicino a loro e aveva cercato di raggiungerlo, ma Saki l’aveva bloccato in tempo. La seconda perché era arrabbiato con lui e non voleva più stargli vicino. La terza… perché si era divertito a farsi catturare da lui la seconda volta.

“Alex! Guarda che chiamo David!” se c’era una cosa che aveva capito, era che il bambino aveva una paura folle di Jost.

Ma il bambino non rispose.

“Alex, per piacere… non ce la faccio più a correre per i corridoi.” Si lamentò Saki, appoggiandosi con la schiena al muro.

Una risatina sottile lo fece, però, voltare.

Dietro ad una delle grandi piante che ornavano quel piano, Alex stava ridendo, le mani sulla bocca. Ma il fatto che una foglia gli tappasse gli occhi, facendo sì che lui non potesse vedere l’omone, non significava che lui era diventato invisibile.

Il sederino del bambino sporgeva da oltre il grosso vado della pianta, e Saki quasi rise per quella scena.

“Ti ho trovato, fuggiasco!” esclamò, puntando verso di lui.

Alex, quindi, si alzò e provò a scappare, ma il bodyguard lo acchiappò per la maglietta, fermandolo. Per una delle tanti leggi della natura, il più forte – e grosso – vince.

Lo prese tra le braccia e sogghignò allegro.

“Ora ti lego.”

Alex rise davanti alla minaccia, come se volesse vedere se Saki fosse davvero arrivato al punto di legarlo. Da quella reazione, l’omone non poté far a meno di associarlo a Tom. Si vedeva proprio che erano parenti. Per di più avevano anche lo stesso carattere. Sempre a disobbedire ed a ribattere.

Tornò nella sala d’attesa e si sedette su una delle sedie, il bambino sulle gambe.

Non passarono cinque minuti che Alex iniziò a dimenarsi per scendere.

“Ti ho detto che non puoi andare dove vuoi, qua dentro.” Gli ricordò Saki, il tono leggermente autoritario.

“Ma io mi annoio!” si lamentò il piccolo diavolo.

“E cosa vorresti fare?” sospirò.

Il bambino si mise un dito sotto il mento e meditò qualche secondo.

“Voglio stare con Tom e Bill!”

“Ma loro sono impegnati.”

“Ma io voglio stare con loro…” gli occhi divennero lucidi.

“Non ti mettere a piangere, eh!” lo ammonì l’omone, che non aveva la minima idea di cosa fare in tale eventualità.

“Se mi metto a piangere, mi porti da loro?”

“Cosa?” alzò un sopracciglio scettico.

“Se piango,” ripeté con voce strozzata. “Mi porti da loro?”

“Mi vuoi ricattare?” lo guardò torvo, con il velo di un sorriso sulle labbra. Era decisamente un bambino fuori dal comune. Nonostante sembrasse ingenuo, in fondo era davvero sveglio.

“Io voglio andare da loro…” piagnucolò ancora, tirando su con il naso.

Saki sospirò ancora, rassegnato.

“E va bene. Hai vinto. Andiamo dai ragazzi…”

Alex mostrò un sorriso raggiante e l’ombra del pianto si volatilizzò in meno di un secondo.

Appunto. Sapeva proprio come ottenere ciò che voleva.

Entrambi si alzarono e mano nella mano si diressero lungo i grandi corridoi dell’edificio. Girarono a destra, poi a sinistra, poi ancora destra… e dopo qualche altro incrocio di strade in miniatura, si ritrovarono davanti ad una porta di legno nero.

Saki l’aprì ed entrarono. La stanza in cui si ritrovarono era buia, illuminata solo da una luce sopra la consolle dei comandi, sistemata davanti ad un grande vetro che mostrava un’altra stanza adiacente in cui i quattro ragazzi stavano suonando.

“Cosa fanno?” sussurrò Alex, indicandoli.

“Stanno suonando.” Spiegò Saki, chinandosi verso il bambino.

“Ma io non sento niente!”

“Perché la stanza è insonorizzata.”

“Cosa vuol dire?” piegò la testa da un lato.

Saki lo guardò perplesso. Come faceva a spiegarglielo? Trovò, poi, la soluzione guardando sulla consolle e notando delle cuffie. Le afferrò per poi collegarle ad un filo e le fece indossare ad Alex, che subito sorrise, sentendo le note di ciò che proveniva dall’altra stanza.

“Sento la musica!” urlò felice il bambino.

Saki sorrise divertito. Lo prese poi in braccio, in modo da fargli avere una visuale migliore ed insieme rimasero ad osservare Bill, Tom, Georg e Gustav che suonavano una dolce melodia, talmente concentrati che non si accorsero dei due spettatori.

Solo una volta conclusa la prova, i ragazzi notarono il bodyguard e Alex oltre il vetro.

Bill subito sorrise e iniziò a salutare, agitando la mano. Il bambino rispose al saluto allo stesso modo. Poi, il moro gli fece segno di andare da loro e Saki lo accontentò, mettendolo per terra ed accompagnandolo nell’altra stanza.

“Ciao!” fece Bill raggiante, correndo incontro al bambino e abbracciandolo. “Come mai sei qui?”

“Mi annoiavo!” rispose lui, cercando di allontanare il ragazzo, che lo stava quasi stritolando.

“Bè, ora non ti annoierai più, visto che potrai vedere dal vivo come lavorano le grandi star!” esclamò con enfasi il cantante.

“Delle star?” chiese Alex.

“Sì, delle persone famose.” Spiegò Gustav, alzandosi dalla sua postazione ed asciugandosi le gocce di sudore che gli imperlavano la fronte, con un asciugamano.

“Siete famosi?” ripeté tra l’incredulo e l’emozionato, il bambino.

“Certo!” sorrise Georg.

“Davvero?”

“Davvero.” Annuì il ragazzo.

Alex sorrise contento ed elettrizzato.

“Ehi, vuoi provare a dare qualche colpo alla batteria?” chiese Gustav, indicandogliela con un dito.

Lui non se lo fece ripetere due volte e corse verso quei grossi tamburi.

Il biondo si mise seduto sul suo sgabello e prese Alex sulle gambe. Gli diede le bacchette e posò le sue mani sopra quelle del bambino, guidando i suoi movimenti con delicatezza.

Alex rideva divertito, iniziando a sgambettare – e colpendo più volte il grande tamburo davanti a lui, stonando sul tempo dettato da Gustav.

Gli altri quattro li guardarono, commentando con risate e sorrisi ciò che vedevano, ma solo Tom e Bill poterono apprezzare veramente quella scena. Loro più di tutti si stavano affezionando a quel bambino come se fosse sempre stato con loro. Chissà per quanto ancora ci sarebbe rimasto…

 

***

 

Quella sera, Georg e Gustav furono invitati a casa Kaulitz per festeggiare la presenza di Alex – motivo come un altro per sottintendere una serata dedita all’alcol… ovviamente solo quando il bambino sarebbe stato a letto.

Mangiarono una pizza ordinata all’ultimo momento e iniziarono con il bere della semplice birra, ma dovettero andarci piuttosto piano,visto che Alex era seriamente intenzionato a rimanere sveglio per ancora molto tempo.

Inge provò a stare un po’ con lui, permettendo così ai ragazzi di divertirsi per conto loro, ma il piccolo diavolo non era d’accordo. Infatti, più volte aveva mostrato un broncio, sempre più solido e difficile da abbattere, così che la ragazza fu costretta a riportarlo in sala con i ragazzi, che intanto avevano iniziato a versare nei propri bicchieri liquidi decisamente più potenti della birra.

“Tom, perché ridi?” chiese Alex, notando che il rasta stava fissando il vuoto, prima di mettersi a ridere come un ossesso di punto in bianco.

“Cosa?” fece lui, cercando di calmarsi.

“Ridevi, prima!”

“Sì, perché sono contento.” Spiegò vagamente, seguito da una risata rumorosa di Georg.

“Anche Georg è contento?”

“Certo! Lui più di tutti!” commentò Gustav, divertito.

“Perché?”

“Perché… perché si diverte!” rispose Bill, che – come Gustav – era quello che sembrava più sobrio. Tom e Georg erano sempre più ubriachi. Sembrava si ubriacassero solo ad osservare l’alcol, una volta arrivati a certi livelli.

“Dai, ora devi andare a letto…” lo prese per mano Inge.

“Ma io voglio rimanere con loro!” replicò lui.

“Ci starai domani.”

“Ma io voglio starci ora!”

“Alex, guarda, ora anche Georg e Tom vanno a nanna, vero?” intervenne Gustav, dando una gomitata al bassista.

Il ragazzo, quindi, annuì goffamente e si stese sul divano su cui prima era seduto, lasciando il suo bicchiere sul tavolo davanti a sé, mentre Tom osservava la scena allegro a causa dell’alcol dentro di sé.

“Sì, guarda ora dormo pure io.” E chiuse gli occhi, lasciando che le mani gli cadessero inermi lungo i fianchi e poi per terra, oltre i cuscini del divano di pelle.

“Sei stanco?” chiese innocente Alex, avvicinandosi a lui.

“Molto.” Rispose per lui Bill.

“Perché?”

“Ha lavorato molto, oggi!” fece Tom, soffocando una risata insensata.

“Davvero?”

“Davvero.” Ripeté Gustav, osservando l’amico che sembrava proprio addormentato.

“Ehi, Georg, hai lavorato tanto?” domandò il bambino, tirando una manica della maglia del ragazzo, ma questi non rispose. “Georg!”

Ma non ricevette di nuovo risposta.

Ok, si è addormentato sul serio… commentò il batterista tra sé e sé.

“Ehi, Alex! Ho un’idea!” esclamò Bill, offrendogli una mano. Lui, quindi, trotterellò verso di lui curioso. “Trucchiamolo!” sorrise malefico.

“Sì!”  il bambino applaudì contento, per poi prendere la mano di Bill ed andare al piano superiore con lui per prendere i trucchi che il moro teneva nei cestini sul mobile in camera sua.

Inge guardò Tom per chiedere conferma delle intenzioni di suo fratello. Lui alzò le spalle, bevve un altro sorso di vodka e si mise a ridere. La ragazza, quindi, sospirò rassegnata e diresse il suo sguardo su Gustav che rispecchiava la sua curiosità mista a perplessità.

In pochi minuti, Bill ed Alex tornarono in sala con due cestini colmi uno di trucchi e uno di pennarelli colorati. Li misero a terra vicino al bassista ed iniziarono la loro opera. Bill prese una matita nera e iniziò a tracciare il contorno della palpebra chiusa, mentre Alex lo osservava. Poi, anche il bambino si armò di un pennarello nero e iniziò a disegnare girigogoli su una guancia del povero Georg, che non mostrava minimamente dei cenni di risveglio.

Il moro, poi, prese il mascara e lo passò sulle ciglia del bassista, mentre il piccolo diavolo cambiò colore e con il pennarello rosso iniziò a fare dei puntini sull’altra guancia.

Tom rideva istericamente, contagiando Inge e Gustav, che osservavano la buffissima ed esilarante scena davanti a loro.

Chissà come avrebbe reagito Georg, una volta che si fosse ripreso e avesse capito cosa gli avevano fatto…

 

¤°.¸¸.·´¯`»  «´¯`·.¸¸.°¤

Continua...

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ATTENZIONE: I Tokio Hotel non mi appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera della loro personalità. No scopo di lucro.

***

Non ci speravate più, eh? x°D

Spero di non avervi fatto aspettare troppo. Nel frattempo ho dovuto studiare e mi sono persa nella preparazione di una nuova fan fiction ('Urlando contro il cielo', di cui ho già postato il primo capitolo...^^"), quindi, vi prego di non massacrarmi...ç__ç

Comunque, bè, ora ho aggiornato e vi posso dare una piccola anticipazione sul prossimo capitolo: sarà molto diverso rispetto a questo...!

Ok, ora passo ai ringraziamenti! vedo che siete tantissimi! Continuate così! E anche voi, o lettori silenziosi, fatevi sentire! Di certo non mi arrabbio!XD

Allora, grazie a:

sbadata93, Zickie (lo sai che sto ingrassando per i tuoi complimenti?XD Grazie infinite! Per rispondere alla tua domanda: bè, sei acuta! Ma pensa al fatto che Alex abbia solo quattro anni. Ha trovato tre persone che lo coccolano e non gli fanno mancare niente... potrebbe essere sufficiente, no? Per avere ulteriore informazioni, comuqnue, devi solo aspettare il seguito. ^^), angeli neri, pandina_kaulitz, kit2007 (ma tu non sei rincoglionita!!! ç___ç e poi come potresti esserlo, visto tutto ciò che mi scrivi??? Grazie!!!XD Cogli sempre tutto!), layla the punkprincess, ladydarkprincess, tokiohotel4e e pIkKoLa_EmO (mi devo assolutamente soffermare a dire quattro parole pure a te!XD Ho visto tutte le recensioni che hai lasciato sulle altre mie storie. Grazie! Davvero! Mi fa piacere che ti piacciano le mie ff!^^ Spero che anche questa ti possa appassionare allo stesso modo!)

E detto questo, mi eclisso di nuovo. Lettori carissimi, che ne dite di deliziarmi con un vostro commentino anche questa volta? XD Ci conto!!^^

_irina_

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Capitolo 7
*** Does Reality Hurt? Yes, It Does ***


Just a kid

Just a kid

 

Does Reality Hurt? Yes, It Does

“Alex!” chiamò Inge dalla stanza in cui lavorava al piano superiore. “Alex, puoi venire qui?” il tono era leggermente irritato. Gliel’aveva già detto tante volte di non toccare nessun foglio che era sulla scrivania, ma era ovvio che la cosa gli era entrata in testa da un orecchio ed uscita subito dall’altro.

Il bambino si affacciò alla porta della stanza con aria innocente.

“Sì?”

“L’hai preso tu il foglio con il progetto su cui devo lavorare?” e si mise le mani ai fianchi, mostrando al bambino un’espressione arrabbiata.

“Sì.” Confermò soddisfatto, sorridendo.

La ragazza sospirò.

“Quante volte te lo devo dire di non prendere quei fogli? Mi servono per lavorare, capisci?” gli spiegò, ammorbidendo il tono.

“Ma tu lavori sempre…” fece lui, assumendo un’aria triste, mentre si avvicinava ad Inge.

“Non è vero. Gioco anche con te…”

“Allora gioca ora!” la interruppe, prendendola per una mano e tirandola verso il corridoio.

“Non posso, Alex,” spiegò esasperata, opponendo una lieve resistenza. “Devo assolutamente trovare quel foglio e -”

“Allora fai la caccia al tesoro!”

“Cosa?”

“Sì! Tu cerchi il foglio per la casa e io ti dico quando ci sei vicina!” e sorrise raggiante, lasciando la presa.

“Ma, Alex, io…” la frase per ribattere le morì in gola, quando gli occhi del bambino divennero lucidi. Che fosse solo una tattica o meno, questo lei non lo sapeva – anche se lo sospettava –, quindi, l’unica cosa che poté fare, fu annuire, anche se leggermente contrariata.

Inoltre, accettare sarebbe stato l’unico modo per riavere indietro quel dannatissimo foglio. Alex non gliel’avrebbe mai restituito. O almeno, non fino a che lei non avesse passato del tempo con lui a partire da quel preciso momento.

Ma, dopotutto, poteva anche fare quella pausa per stare con il bambino. Quella mattina era stata, infatti, rinchiusa in camera a studiare il progetto, mentre Alex colorava gli ennesimi disegni che la ragazza gli aveva fatto, per poi andare a giocare alla play. Era normale che ora volesse stare un po’ con lei…

“Va bene. Dai, da dove inizio?” Chiese, uscendo dalla stanza con il bambino che trotterellava al suo fianco.

“Da dove vuoi!” sorrise innocente.

Scesero le scale e Inge si diresse verso la cucina.

“È qui?”

“Ma non devi chiedermelo subito, sennò poi è troppo facile il gioco!” si lamentò Alex, piegando la testa di lato con un piccolo broncio disegnato sul viso.

“Ok, allora vorrà dire che cercherò senza il tuo aiuto.” E si finse offesa, mentre Alex – che aveva imparato a distinguere la finzione di quelle espressioni, dalla realtà – rideva contento.

La ragazza si avvicinò agli sportelli bassi della cucina, visto che Alex non avrebbe potuto nascondere quel foglio troppo in alto, anche perché i gemelli erano impegnati in una giornata di interviste. Li aprì tutti, ma in nessuno di essi trovò il famigerato foglio.

Si spostò, quindi, verso la sala. Alex le correva dietro.

“Quante possibilità ci sono che sia in sala?” chiese, chinandosi per terra per vedere se quel progetto fosse sotto il grande divano nero.

“Non te lo dico!” sorrise lui in risposta, arrampicandosi sulla poltrona.

“Ok, ok…” e controllò tra i cuscini.

Niente.

Dove era quel foglio?

Inge sospirò divertita.

Passò, poi, a rovistare nei cassetti dello studio – cosa che si rivelò più complicata del previsto, dato che quella stanza era satura di fogli di ogni tipo. Era quasi come cercare un ago in un pagliaio. Solo dopo un quarto d’ora, appurò che il suo obbiettivo non era là dentro.

Offrì quindi la mano ad Alex ed insieme salirono al piano superiore.

“Non l’hai messo nel bagno o nello stanzino, giù, vero?” chiese lei, entrando nella sua vecchia camera.

“Non te lo dico!” ripeté il bambino.

“E dai! Guarda che sennò ti faccio il solletico!” lo minacciò, iniziando a muovere le dita davanti a lui con aria sadica.

“Non te lo dico!” canticchiò ancora Alex.

“Allora vuoi essere torturato, eh?” e lo fece salire sul letto, per poi mettere in atto la sua tattica.

“Inge!” gridava lui, ridendo. “Basta!”

“Non mi fermo finché non mi rispondi.” Ribatté lei, alzandogli la maglietta e iniziando a fargli il solletico sulla pancia.

“Sì!” rispose lui, cercando di allontanare le mani della ragazza da sé.

“Sì, cosa?” fece lei, riuscendo in tempo ad evitare un calcio del bambino, che sgambettava freneticamente.

“Non è giù!”

Inge smise di torturarlo e gli scarruffò i capelli.

“Bravo, vedi che se le cose le dici subito, è meglio?”

“Ma mi piace quando mi fai il solletico!” sorrise lui, tirandosi giù la maglietta e sedendosi sul letto.

“Dai, dove è il foglio?” chiese dolcemente, sperando di arrivare presto al nascondiglio. Certo, Alex si sarebbe annoiato se lei avesse ripreso a lavorare, ma era anche vero che la scadenza si avvicinava.

“Non lo cerchi più?” e piegò ancora una volta la testa di lato. Inge sospirò. Perché non riusciva mai contrariarlo quando faceva così?

“No, va bene, continuo. Ma tu aiutami, ok?”

“Perché? Se io ti aiuto, poi lo trovi subito!”

“Allora facciamo così: dimmi la stanza in cui si trova, poi ci penso io a cercarlo.”

Alex ci pensò un po’, mettendosi un piccolo dito sotto il mento. Poi, acconsentì.

“Però dopo giochi ancora con me!”

“Certo!”

Alex sorrise soddisfatto, quindi, scese goffamente dal letto e trotterellò per il corridoio. Inge si apprestò a seguirlo, per poi vederlo entrare nella stanza di Tom.

“È qui?”

Lui annuì, sedendosi sul letto – indubbiamente sfatto – del legittimo proprietario di quella camera.

“Ora , però, lo devi cercare!”

“Ok. Mi metto al lavoro.” E si avvicinò a quella che un tempo era una scrivania – visto che ora quasi non si vedeva più nemmeno un pezzo della superficie, ricoperta com’era da tutti gli spartiti del ragazzo.

Dopo averli scartati tutti, optò per affacciarsi sotto il letto, ma nemmeno lì trovò ciò che cercava – perché di altre cose ce n’erano… e anche molte!

Scartò l’ipotesi che il foglio fosse tra i vari libri di Tom, visto che gli scaffali della libreria erano troppo in alto, e si concentrò sull’armadio. Aprì le ante, ma le richiuse subito, notando il casino all’interno. Passò, quindi, al mobile che conteneva qualunque cosa potesse occupare spazio ed aprì il primo cassetto.

Niente foglio. Solo boxer.

Passò al secondo. Fogli.

Perfetto! Se si trovava qui, era stato decisamente sadico da parte di Alex. Per controllarli tutti ci sarebbe voluta metà giornata! Lo chiuse e passò al terzo.

C’era di tutto. Da oggetti elettronici come I-pod, lettori CD ormai vecchi, caricabatterie… e altri fogli.

Tra tutti, però, ce n’era uno isolato dal mucchio, che stava nella parte più profonda del cassetto. Lo prese. Era piegato in quattro, quindi, lo aprì.

Ma ciò che vi trovò scritto le fece mancare il fiato.

No, quello non era per niente il suo progetto!

“Tom, questo è tuo figlio. È nato quattro anni fa. Non riesco a mantenerlo con solo il lavoro che faccio. Mi dispiace, ma devi prendertene cura tu.”

Gli occhi della ragazza si posarono automaticamente sul bambino seduto sul letto, che la guardava stranito e leggermente preoccupato.

“Inge, perché fai quella faccia?”

Non rispose. Sentiva la bocca asciutta. Tutte le parole le morirono in gola, forse ancora prima che lei sapesse cosa dire. Il cuore quasi le si fermò. I battiti si erano fatti sempre più sommessi, sempre più silenziosi. Inesistenti.

Quei lineamenti. Quegli occhi. L’iniziale titubanza di Tom verso il bambino.

La testa iniziò a girarle ed un’ondata di freddo la invase.

Non è possibile…

Ora capiva tutto. Tutti i tasselli che malamente combaciavano tra di loro, ora avevano trovato la loro giusta collocazione.

Si portò una mano sulla fronte, per poi farla calare sugli occhi.

Si sentiva strana. Tutte quelle emozioni – frustrazione, tristezza, delusione e molte altre che Inge non riuscì a distinguere – sembravano avvolgerla nella maniera più dolorosa avesse mai provato.

Alex era il figlio di Tom.

 

***

 

Aprì la porta di casa con sollievo. Era riuscito a sopravvivere ancora una volta a tutte quelle interminabili interviste. Ora niente e nessuno gli avrebbe impedito di buttarsi sul letto e rimanerci fino a mattina inoltrata. Nemmeno Alex.

Bè, forse Inge, pensò malizioso, mentre entrava in casa, lasciando che suo fratello chiudesse la porta dietro di sé.

Era tardi. L’ultima volta che aveva guardato l’ora, erano le undici passate. Decisamente tardi… Alex doveva essere già a letto. Come Inge, del resto… Sarebbe stata questione di pochi minuti, e lui l’avrebbe raggiunta.

Ma la luce accesa in cucina lo fece riemergere dai propri pensieri.

“Ehi, la luce è accesa.” Disse Bill.

“Lo so, l’ho vista.”

Entrambi, quindi, si diressero verso quella stanza e non poterono fare a meno di trasalire, vedendo Inge seduta su una sedia che li guardava truci.

“Inge, come mai sei ancora sveglia?” chiese Tom, raggiungendola per baciarle la fronte, proprio come faceva ogni volta che tornava e lei era alzata.

Ma questa volta, non era come tutte le altre.

“Già. Perché sono ancora sveglia? Dimmelo tu.” Rispose lei con voce atona, gli occhi fissi sul ragazzo.

“Ehi, cosa hai?”

“Non lo so. Tu lo sai?” i suoi occhi suscitarono una paurosa inquietudine nel ragazzo.

“Ehm, dovrei?” cercò di sdrammatizzare.

Inge non rispose. Rimase immobile, rigida. Tom capì che la questione era decisamente grave. Molto grave. Ed il suo tentativo di minimizzare il problema, non si era rivelato per niente una buona idea.

“Sì. Dovresti.” Rispose dura.

Improvvisamente, lui capì.

Lei sapeva. L’aveva scoperto.

Ma il momento impegnato dal ragazzo per comprendere la situazione, era decisamente fuori tempo massimo, ed Inge sbatté con tutta la sua forza il foglio che aveva trovato sul tavolo.

Tom si sentì mancare e la testa sembrò girargli improvvisamente.

Merda…

E ora? Cosa poteva dirle? Come poteva farle capire che non era come poteva sembrare? Che lui era innocente? Che in questa situazione lui era una vittima – per quanto paradossale potesse sembrare?

Purtroppo, l’orgoglio non gli permise di scusarsi, e dalle sue labbra uscirono le parole sbagliate.

“Sei andata a frugare tra le mie cose!” ruggì.

“Chi cazzo se ne frega!” urlò lei in risposta, alzandosi di scatto e facendo cadere la sedia per terra.

“Come chi se ne frega?” ripeté Tom.

“Sì, chi se ne frega!”

“Ehm, Tom…” intervenne Bill, che era rimasto per tutto quel tempo sulla soglia della cucina senza poter far niente. Avrebbe tanto voluto spiegare, ma la situazione stava peggiorando di secondo in secondo ed il suo intervento, infatti, si rivelò inutile.

“Stai zitto!” tuonò il fratello.

“Sì, ma -” cercò di farsi valere, seppur fosse leggermente intimorito dalla piega che quella discussione stava prendendo.

“Bill! Ho detto: stai zitto!” ripeté alzando ulteriormente la voce.

“Ma -”

“Vattene, porca puttana!” si girò verso di lui, guardandolo minaccioso ed incazzato.

Erano state pochissime le volte in cui Tom aveva reagito così contro di lui, ed ogni volta mettevano sempre più paura. Per questo ritenne opportuno fare come il fratello gli aveva urlato addosso. Sì, avrebbe voluto evitare che continuassero a gridarsi l’uno contro l’altro, ma era anche vero che ormai non era più possibile evitarlo.

Il moro, quindi, si allontanò, lasciando i due ragazzi da soli in cucina.

Il silenzio era l’unica presenza intorno a loro.

“Voglio una spiegazione, Tom.” Sussurrò Inge dopo un po’. La sua voce era fredda, ma lasciava trapelare qualche nota strozzata e flebile. Nonostante non sembrasse, la sua era una supplica.

Una spiegazione? Cosa c’era da spiegare? Anche lui avrebbe voluto chiedere una spiegazione. Perché gli stava facendo tutto questo? Non era già tanto per lui aver vissuto due settimane con un bambino? Non era già tanto per lui aver vissuto due settimane con il suo bambino?

Sembrava proprio che Inge questo non lo capisse.

Il ragazzo provò a cercare le parole migliori per farle capire quanto fosse stato difficile per lui tutto questo, per farle capire che lei non era la sola a doversela prendere, perché, ora come ora, anche lui aveva tutto il diritto di essere incazzato. Lei lo stava accusando senza sapere cosa stesse provando e cosa, soprattutto, aveva provato.

Ma Tom non fece in tempo a tradurre tutti questi pensieri a parole, che la ragazza lo anticipò.

“La verità, Tom. Non cazzate, anche se sembra che tu non sappia dire altro.”

Il ragazzo si sentì ferito, ma cercò lo stesso di mantenere un minimo di controllo. Solo il giusto indispensabile per non far ulteriormente degenerare la situazione.

“Ascolta,” iniziò. “Non è come credi…”

Purtroppo, quelle furono di nuovo parole sbagliate.

“E certo!” gridò Inge. “E questo l’ho scritto io solo per poterti attaccare senza motivo!” ed indicò con violenza il pezzo di carta sul tavolo.

Tom chiuse gli occhi e respirò profondamente.

“Non era quello che intendevo dire e tu lo sai.” Disse, quindi, tornando a fissare la ragazza negli occhi.

“E allora…” la voce si ruppe, le labbra tremanti. “Allora, dimmi la verità su quel foglio.”

La ragazza stava per piangere e Tom, per quanto non riuscisse a mandare giù il fatto di venire accusato senza possibilità di difesa – o almeno di chiarimento –, non poté evitare di pronunciare quelle parole che Inge sembrava volesse sentire più di tutto, anche se le avrebbero fatto male.

Voleva la verità? Bene, gliel’avrebbe detta.

“È vero. Alex è mio figlio.”

La ragazza provò la sensazione di cadere in un baratro oscuro e senza ritorno. Aveva sperato che tutto questo fosse solo frutto della sua fantasia. Aveva sperato che tutto questo non fosse vero.

Ciò che, però, non aveva contato, era come avrebbe dovuto reagire se quel timore fosse diventato realtà.

“Cosa…?” sussurrò flebilmente. E subito, il naso iniziò a pizzicarle. Era da tantissimo tempo che non provava più quella sensazione – e non ne aveva mai avuto nostalgia – ma ora che poteva sentirlo di nuovo, si sentì persa.

Tom le aveva mentito.

“Hai sentito. Alex è mio figlio.” rincarò. “Contenta?” aggiunse con un velo d’ira nel tono. Perché Inge non capiva che anche lui era si sentiva come lei? Dannatamente perso.

“No!” urlò lei e la prima lacrima scese lungo il suo viso. “Mi hai solo raccontato cazzate!”

“Ecco!” sbottò il ragazzo. “Lo vedi? Ti stai incazzando comunque! Anche se te l’avessi detto all’inizio, ti saresti incazzata!” tuonò.

“Non è vero!”

“Ah, no?” schioccò la lingua irritato. “Non avresti sopportato l’idea che io avessi un figlio!” la accusò.

“Non capisci un cazzo!” ribatté lei, serrando le mani a pugni. Le lacrime scendevano silenziose sulle sue guancie. “Sono incazzata perché tu non me l’hai detto! Non perché è tuo figlio!” deglutì a fatica. Il naso già non le pizzicava più. La voglia di piangere ormai non trovava più ostacoli, impedendo, però, alla voce di risuonare stabile. Era, infatti, flebile, costantemente interrotta dai singhiozzi che la ragazza cercava di reprimere. “Lo so come sei, come eri…” aggiunse con tono sommesso, rinunciando a mantenere un tono di voce alto. “C’era da aspettarsi una cosa simile…”

“E come sarei, visto che tu sai sempre tutto?” fece sarcastico, ma al tempo stesso incazzato. Inutile, non capiva.

“Uno stronzo.” E lo superò. Passi lenti, ma rapidi. Insicuri, ma decisi. Salì le scale ed entrò nella propria camera, facendo attenzione a non svegliare Alex, che dormiva già da qualche ora.

Prese una grande borsa dall’armadio, vi infilò alcuni vestiti presi a caso e un paio di scarpe. Poi si mise in tasca cellulare, chiavi e soldi e si spostò nell’altra stanza degli ospiti, dove afferrò bruscamente i fogli sparsi sulla scrivania. Non erano tutti, ma non le importava. Voleva andarsene il più in fretta possibile.

Ma proprio quando usciva dalla stanza, Bill si affacciò nel corridoio.

“Sei proprio sicura?” chiese flebilmente.

Lei lo guardò con uno sguardo che conteneva in sé molte emozioni. Determinazione, dolore, paura…

“Capisco. Mi dispiace, Inge.” Mormorò triste, abbassando gli occhi sul pavimento.

“Lo so. Ma questo non cambia niente.” Rispose secca la ragazza.

“Scusa…” ripeté afflitto il moro.

Ed Inge capì.

“Tu lo sapevi!” lo accusò, urlando sommessamente e indicandolo con un dito, mentre i suoi occhi si riducevano in minacciose fessure.

Lui annuì impercettibilmente, ma la rossa lo notò. Respirò, quindi, profondamente sull’orlo di un nuovo pianto. Non voleva versare altre lacrime. Poi, se ne andò verso le scale senza più dire niente.

Passò la cucina e diede solamente una sfuggente occhiata all’interno. Tom era ancora in piedi che le dava le spalle. Non si era mosso da quando lei l’aveva lasciato da solo. Era sempre lì, immobile. Le mani lungo i fianchi, quasi fossero inermi. Poteva vederlo respirare profondamente.

Sì, molto probabilmente, anche lui era rimasto ferito da tutto ciò che era successo. Ma non era possibile paragonare le due diverse ferite. Lui le aveva mentito. L’aveva ingannata.

Posò la mano sulla maniglia della porta. Per un attimo, le sembrò di rivivere quella volta in cui lei se ne andò dopo aver ammesso di essere stata complice – benché in minima parte – del furto. Tuttavia, le cose ora erano ben diverse. Quella volta lei era la colpevole, mentre ora era la vittima.

Aprì la porta ed uscì, chiudendola alle sue spalle. Salì in macchina – quella macchina che gli aveva comprato Tom contro la propria volontà –, buttando il borsone sull’altro sedile anteriore ed accese il motore. Quasi odiò quell’auto.

Aprì il cancello automatico con il dispositivo installato nel veicolo ed uscì.

Non sapeva dove sarebbe andata. Forse, avrebbe chiesto ospitalità ad una sua collega di lavoro, altrimenti, sarebbe volentieri tornata in quel magazzino di tanto tempo fa.

Già sapeva che sarebbe dovuta tornare in quella casa almeno per prendere altri vestiti. Non aveva preso che il minimo indispensabile per qualche giorno. Ma sarebbe tornata solo quando sarebbe stata sicura che Tom e Bill non fossero in casa.

Questo era poco, ma sicuro.

 

***

 

La sentì scendere le scale. La sentì dietro di sé. La sentì mentre lo fissava – forse – per l’ultima volta. Ma non si mosse. Rimase fermo in quella posizione.

Non aveva più niente da dirle. Lei non voleva capire. Era, quindi, inutile cercare di farla ragionare.

Ma che cazzo credeva? Era incazzato anche lui.

Inge gli aveva dato dello stronzo, ma lei non aveva la più pallida idea di cosa stesse provando lui. Di cosa aveva provato.

Non era stato facile vivere con un bambino – il suo bambino – a cui, inizialmente, aveva quasi paura ad avvicinarsi. Non era stato facile per niente! Aveva raccontato quella cazzata pensando fosse il modo migliore per mantenere quella perfezione che si era creata in quel periodo.

Tuttavia, sembrava che avesse ottenuto tutt’altro. E questo perché? Perché lei non capiva un cazzo! Perché era andata a frugare tra le sue cose? Ma soprattutto, come poteva solo lontanamente credere di sapere tutto ciò che lui stava passando? Non poteva!

E allora, che se ne andasse pure! Non aveva senso continuare a vivere insieme. Se non riuscivano più a capirsi, era meglio non stare più insieme…

Strinse le mani a pugno e sospirò profondamente. Poi si voltò e andò al piano superiore. Si sarebbe rinchiuso in camera. Non aveva più voglia di vedere nessuno.

Purtroppo, proprio mentre superava la camera del fratello, questi si affacciò e lo osservò con uno sguardo comprensivo.

“Ehi, come ti senti?” chiese. Sapeva già la risposta. Il suo era solo un modo come un altro per fargli sentire la sua vicinanza. Se Tom avesse avuto bisogno di qualsiasi cosa, lui sarebbe stato lì.

“Come vuoi che stia?” rispose atono, senza degnarlo di uno sguardo.

“Scusa…” fece il moro, abbassando la testa. Non doveva finire così.

“Niente. Non è colpa tua.” E con un gesto della mano lo salutò, chiudendosi in camera sua.

Bill rimase sulla soglia della porta della sua stanza. Avrebbe voluto fare qualcosa perché Inge e Tom non litigassero. Entrambi erano orgogliosi in maniera spropositata… come minimo non si sarebbero parlati per mesi – ammesso che sarebbero tornati a parlarsi. Ma soprattutto, ammesso che si sarebbero rivisti.

 

¤°.¸¸.·´¯`»  «´¯`·.¸¸.°¤

Continua...

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ATTENZIONE: I Tokio Hotel non mi appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera della loro personalità. No scopo di lucro.

***

Ecco il nuovo capitolo. Bene, posso finalmente accontentare tutte coloro che mi chiedevano - quasi supplicandomi - cosa fosse successo se Inge fosse venuta a sapere del segreto. Ora lo avete letto.^^"

Purtroppo, non si è risolto tutto nel migliore dei modi - anzi... praticamente non si è risolto niente. Questi due sono troppo uguali. Entrambi hanno un orgoglio decisamente profondo, difficile da combattere. Sarà altrettanto difficile che possano chiarirsi, "ammesso che sarebbero tornati a parlarsi. Ma soprattutto, ammesso che si sarebbero rivisti"... per citare Bill..^^"

Bè, che ne dite? Era come ve l'aspettavate? O credevate in qualcosa di più 'soft'?

Ringrazio, comunque, tutti coloro che hanno recensito - solo quattro?? ç___ç Guardate che ci rimango male...

Scherzo! Comunque, fatevi sentire, che vedo siete numerosi, o voi carissimi lettori - anche silenziosi!

Un grazie a: kit2007, pIkKoLa_EmO, angeli neri e sbadata93.

Ah! Prima che dimentichi: tutte voi - o quasi - mi avete chiesto la reazione di Georg riguardo ciò che quei due 'angioletti' gli hanno fatto... Bè, non l'ho scritto perchè era un modo come un altro per sottolineare come loro possono essere 'pericolosi'...^^" Vi posso solo dire che gli ci è voluto un bel po' solo per capire dove era... figuriamoci per capire cosa gli avevano fatto..XD (me l'ha detto lui in persona..=P)

Ora vi lascio. Adios!! Al prossimo capitolo (che non so quando sarà..^^")! E voi lasciate tante recensioni, mi raccomando!!XD

_irina_

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Capitolo 8
*** Inside The Broken Hearts ***


Just a kid

Just a kid

 

Inside The Broken Hearts

“Vaffanculo! Io mi sono rotto i coglioni!” e posò la sua chitarra sul sostegno. Aprì violentemente la porta ed uscì, sbattendola alle sue spalle.

I tre ragazzi rimasti nella stanza si guardarono perplessi e rassegnati.

“Mi sembra di avere un dejà vu.” Commentò Georg, combattuto tra il pianto e la risata.

“Già, anche a me.” Convenne Bill, sistemandosi sul suo sgabello.

“Cosa è successo questa volta?” si informò Gustav, asciugandosi il sudore con l’asciugamano vicino al panchetto. “Ha litigato con Inge?”

“Sì, e lei se n’è andata di casa.” fece vago il moro.

Se n’è andata?!” ripeterono stupiti. “Che è successo?” domandarono allarmati. Sapevano che, visto il carattere della ragazza, poteva accadere che lei e Tom litigassero, ma che lei arrivasse al punto di andarsene… era sicuramente successo qualcosa di grave.

“È una questione un po’ privata…” glissò Bill. I due amici lo guardarono interrogativi. Doveva dirglielo o no? Bè, dopotutto erano amici da anni, non aveva senso lasciarli all’oscuro. Tanto poi l’avrebbero scoperto pure loro. “Venite a casa nostra dopo le prove,” propose. “Vi spiegherò la situazione… sempre che Tom non mi uccida prima.”

“Potrebbe arrivare a tanto?” scherzò Georg.

“Bè, se ci si mette, sì. Hanno litigato di brutto.”

“Ma da cosa è partito tutto? La solita cazzata come quando lui aveva preso il foglio di un progetto di Inge dalla sua scrivania per appuntarsi qualche accordo?” Ricordò Gustav. Quella volta, il massimo che raggiunsero fu di ignorarsi a vicenda. Dopo una settimana, però, chiarirono. Da quando c’era Alex, tuttavia, queste situazioni non si erano più presentate.

“No, è leggermente più complicato.” Sorrise tirato il cantante, rigirandosi le cuffie tra le mani.

“Ma il bambino…?” lasciò in sospeso il batterista.

“Bè, dobbiamo portarlo con noi. Ora dovrebbe essere con Saki e -”

La frase di Bill venne bruscamente interrotta dalla porta che si aprì di colpo.

“Cosa cazzo ha Tom?” tuonò David, entrando con passi pesanti nella stanza.

“Ehm, c’è stato un disguido sulla melodia…” rispose Bill, cercando di mantenere un tono più naturale possibile.

“Guarda che se ne è andato perché ha detto che stonavi.” Lo corresse Gustav.

“Non me ne frega di cosa è stato il casus belli! Per reagire così è successo anche altro! L’ho fermato in corridoio e per poco non mi uccide con lo sguardo!”

“Sì, ecco…” cominciò Bill. “Ha litigato con Inge… e quindi…” cazzo cazzo cazzo cazzo!

“Fateli chiarire!” ruggì. E detto questo uscì chiudendosi la porta alle spalle con quasi la stessa violenza usata da Tom.

Il moro sospirò.

“Perfetto. Ora sì, che siamo nei guai.”

 

***

 

Tom ha un figlio?!” ripeterono quasi spaventati Georg e Gustav. I loro occhi avrebbero potuto uscire fuori dalle orbite da un momento all’altro.

Bill annuì, intimando loro di fare più piano. Tom era al piano di sopra, e loro sapevano bene quanto lui che suo fratello avrebbe potuto minacciarli di morte istantanea, se li avesse sentiti parlare dei suoi problemi.

“Alex è suo figlio?!” continuò, però, Georg, appoggiandosi privo di forze allo schienale del divano. “Incredibile…” farfugliò senza accorgersene.

“Io, comunque, me lo sarei aspettato…” fece Bill realista.

“Ma sei suo fratello! Come puoi dire certe cose?” ribatté Gustav. Bill lo guardò ed alzò un sopracciglio con eloquenza.

“Ok, forse hai ragione…” concordò, quindi, il ragazzo. “Però, ammettilo! Non credevi che succedesse sul serio.”

“Già, Tom non è pronto ad affrontare una realtà come questa. Cioè, lo conoscete anche voi, no?”

“Secondo me, nessuno di noi sarebbe stato pronto.” Fece notare Gustav.

“Già, hai ragione. Nessuno di noi sarebbe stato pronto.” ripeté Georg. “Ma ora dove è?” chiese, notando l’assenza del rasta.

“È in camera sua. Da quando Inge se n’è andata, non fa altro che starsene rinchiuso in camera. E quando scende, ha sempre qualcosa su cui lamentarsi e brontolare.”

“Ed Alex?”

Bill si alzò e si guardò intorno, proprio come gli altri due.

“Era qui fino a due minuti fa!” esclamò, poi, il moro.

“Forse è andato da Tom.” Ipotizzò Gustav. “A proposito, lui lo sa?”

“Cosa?”

“Che Tom è suo padre.”

“Non credo. Noi non gliel’abbiamo mai detto e ogni volta che l’abbiamo presentato a qualcuno, abbiamo sempre sostenuto che era nostro cugino. Forse pensa sul serio di essere nostro cugino…”

“Non credi che dovreste dirglielo?” fece Gustav.

“Vuoi che ti risponda sinceramente?” domandò serio.

Lui annuì.

“Credo che sia meglio lui non lo sappia.” Sospirò. “Noi non sappiamo niente di lui. Potrebbe accadere che da un giorno all’altro qualcuno arrivi per portarlo via. Non voglio che si affezioni troppo a noi. A suo padre. Sarebbe più difficile per lui, se dovesse andarsene…”

“Secondo me dovreste dirglielo.”

“Anche se fosse vero, non sono io a dover decidere. È una questione tra lui e Tom.”

“Scusate, ma non credete che dopo tutto questo tempo, anche se lui non sa la verità, ormai si è affezionato a voi abbastanza da rendere, poi, difficile la separazione?” intervenne Georg.

Per qualche attimo, nessuno rispose. Bill dovette riconoscere che il bassista aveva ragione. In effetti, Alex era un bambino di quattro anni. A quell’età sono molto manovrabili e si legano facilmente alle persone.

Non ci aveva mai pensato. Ma una parte di lui continuava a sostenere che il fatto di non sapere esplicitamente certe cose, avrebbe reso la situazione almeno un po’ più semplice. Tuttavia, ciò poteva valere per un adulto – forse. Per un bambino, tutti questi discorsi filosofici non valevano.

Il moro sospirò. La questione era veramente seria. Innanzitutto, c’era da affrontare il problema tra Inge e Tom. Era inutile pensare a cosa sarebbe potuto succedere in caso qualcuno venisse a riprendere Alex.

Evitiamo di fasciarci la testa prima di essercela rotta…

 

***

 

Erano passati quattro giorni. Li aveva contati. Come si sentiva?

Non lo sapeva nemmeno lui.

Gli mancava? Non gli mancava?

Non era in grado di rispondersi.

Ogni tanto avrebbe voluto che da un momento all’altro lei tornasse in quella casa, ma altrettante volte pensava che era un bene che non fosse più tornata.

Dopotutto, cazzo!, se lei non lo capiva, era un motivo più che valido per non tornare insieme.

Come poteva essere stato così stupido da innamorarsi di lei a tal punto? Certo, l’amava ancora, ma sentiva che ora c’era qualcosa che stava mettendo in serio dubbio tutto ciò che avevano passato insieme.

Continuò a suonare la chitarra. La melodia era semplice, un po’ troppo tendente al triste, per i suoi gusti, ma non riusciva a fare di meglio. Quella era l’unica melodia che era stato in grado di comporre in quei giorni. Era patetica. Ma non riusciva a smettere di far vibrare quelle corde, perché inconsciamente sapeva che quella musica lo rappresentava.

Con la coda dell’occhio vide la porta aprirsi lentamente, accompagnata da un leggero cigolio che Tom finse di non sentire, e la piccola testa di Alex si sporse oltre di essa. Non voleva essere visto.

Il bambino guardò il ragazzo seduto sul letto che abbracciava la chitarra come se fosse un oggetto delicatissimo. La stava accarezzando. Avrebbe voluto andare più vicino a lui per osservarlo meglio. Gli piaceva quel suono. Ma restò fermo sulla soglia perché non voleva interromperlo. Se Tom l’avesse visto, si sarebbe arrabbiato ancora di più di quello che era già, e non voleva che Tom si arrabbiasse con lui.

“Lo so che mi stai fissando.” Lo informò Tom con voce atona, chiudendo gli occhi.

“Scusa…” biascicò Alex, ritraendosi. Aveva paura quando Tom gli parlava con quel tono.

“Non importa.” Soffiò il ragazzo, mentre con la testa continuava a seguire le sue mani come se potesse vederle.

Poi, silenzio. Alex non sapeva cosa dire. Poteva entrare, o doveva andarsene?

“Vuoi restare lì ancora per molto?” chiese Tom, la voce sempre inespressiva.

Alex non capì il significato di quella domanda. Cosa doveva rispondere? Tom era già arrabbiato con lui?

“Posso restare?” azzardò titubante, afferrando un lembo della sua maglietta e stropicciandolo.

Tom sospirò fingendosi rassegnato, fermando il movimento delle sue mani sullo strumento.

“Va bene, entra. Ma chiudi la porta e siediti.” E riprese a suonare.

Alex fece come gli era stato detto, e una volta chiusa la porta, trotterellò verso il ragazzo, sedendosi di fronte a lui per osservare i gesti sicuri ed esperti del chitarrista sulle corde.

“Ti piace?” chiese Tom, il tono più dolce.

“Cosa?” piegò la testa di lato.

“La chitarra. La musica.”

Alex annuì, sorridendo e Tom sorrise per la prima volta in quel periodo.

Sapere che a quel bambino piaceva il suono della sua chitarra era una strana sensazione. Ma soprattutto, sapere che al suo bambino piaceva il suono della sua chitarra era una strana sensazione.

“Mi insegni?” chiese determinato Alex.

“Vuoi imparare a suonarla?”

Il bambino annuì convinto. Tom lo guardò alzando un sopracciglio, per poi spostare il suo sguardo sullo strumento. Era praticamente più grande quello di lui! E Alex voleva lo stesso imparare a suonarlo?

Il ragazzo soffiò una risata.

“Va bene, ti insegnerò qualcosa.”

“Davvero?” gli occhi di Alex brillarono.

“Che c’è? Non mi credi?” sorrise con un velo di sfida nella voce.

Quel piccolo diavolo assunse un’aria pensierosa, per poi guardare Tom negli occhi e sorridere beffardo.

“Non sempre…” confessò.

Il rasta rimase spiazzato dalla sua risposta. Quella non era una risposta da un bambino di quattro anni! Quella era una risposta da Inge!

Alex è stato troppo tempo con lei…

 

***

 

“Lukas! No!” lo fermò Inge.

Il bambino la guardò dispiaciuto, tappando il pennarello e rinunciando, quindi, a fare un bel disegno sul muro bianco della casa.

“Perché?” chiese triste, trotterellando verso la ragazza.

“Perché mamma non vuole…” gli spiegò dolcemente, togliendogli il pennarello di mano e scompigliandogli i capelli biondi.

Subito quella fitta al cuore la fece trasalire. Ancora una volta, quel bambino le aveva ricordato Alex.

Le mancava.

Cazzo! Anche se era figlio di quell’idiota, era pur sempre un bambino! Chissà come stava in quel momento… Chissà cosa stava facendo…

“Ma era un regalo per lei!” protestò il piccolo, facendola tornare al presente.

“Credo che sarà altrettanto felice se tu glielo facessi su un foglio…” gli sorrise leggermente malinconica. Poi lo prese per mano e andarono entrambi nel salotto dell’appartamento, dove Sofie stava sistemando lo scaffale di un mobile.

“Mamma, mi dai un foglio?” chiese Lukas correndo verso di lei.

“Prendilo da quel tavolino.” E gli indicò la scrivania nell’angolo della stanza. “Però dopo vai subito a letto. È tardi! I bambini a quest’ora devono dormire!” e gli diede un bacio sulla fronte.

Il bambino fece una smorfia, per poi sospirare e mettere un piccolo broncio.

“Allora vado subito. Non voglio più disegnare.” E si diresse verso camera sua.

Inge si sedette sul divano, osservando la sua collega sistemare gli ultimi libri su quello scaffale – azione che le aveva già visto fare tre volte nel giro di due ore.

“Sofie, grazie ancora per l’ospitalità…” mormorò timida.

“Ma scherzi? Per te, questo ed altro! Mi hai salvato il culo con il direttore!” le rispose. Era sempre la solita risposta, ormai Inge l’aveva imparata a memoria, visto che ogni giorno si scusava per il fastidio che avrebbe potuto darle. Lei era sola in casa con un figlio da badare e il marito sempre in giro per lavoro, in quanto pilota di aerei.

“Sì, lo so, però… cioè, non mi permetti nemmeno di pagare le spese…”

“Ehi, sei qui da quanto? Tre giorni?”

“Quattro.”

“Ecco, quattro. Vuoi per caso farmi credere che potresti portarmi in bancarotta in nemmeno una settimana?”

Inge sorrise imbarazzata.

“Lo so, ma io non posso non pensare di essere stata troppo superficiale a chiederti ospitalità.”

Sofie sbuffò e si allontanò dal mobile per sedersi sul divano insieme alla ragazza.

“Ascolta, Inge. Stai passando un brutto periodo. Ti capsico. Quindi, cerca di tranquillizzarti! Non cercare ulteriori preoccupazioni!” e l’abbracciò. “E poi, non è vero che non ti rendi utile!”

La rossa alzò un sopracciglio, interrogativa, e guardò l’amica negli occhi azzurri.

“Badare a Lukas non è molto facile, sai?” le sorrise.

“Bè, credo di esserci abituata. Dopotutto, Alex ha la sua età.” Confessò.

“Sì, me l’avevi già detto…”

E la conversazione si affievolì, lasciando che il silenzio le avvolgesse. Entrambe presero, quindi, tra le mani una rivista e iniziarono a sfogliarla, proprio come quando succedevano momenti simili a questi, in cui nessuna delle due aveva il coraggio di continuare a parlare – sia per non sembrare troppo invadente, sia per evitare di sembrare una vittima.

“Inge…” la chiamò Sofie, dopo un po’.

La ragazza si girò verso di lei.

“Lo ami ancora, vero?” finalmente l’aveva detto.

Inge sentì come un vuoto dentro di sé e il suo cuore perse un battito. Abbassò, quindi, la testa sulla rivista e sospirò triste.

“Sì…” sussurrò flebile. Il naso le pizzicava. “Ma non posso tornare da lui…”

“Perché?” chiese dolcemente.

“Come perché? Ti ho raccontato cosa mi ha fatto, no?” gli occhi quasi bruciavano. “Cioè, mi ha nascosto che Alex fosse suo figlio!”

“Sei più passata da casa?”

“Solo una volta per prendere altri vestiti.”

“Non sei più andata a trovare Alex?”

Inge negò mesta.

“Se ti manca, almeno per lui potresti andare di nuovo laggiù…”

“Lo so che ciò che sto facendo è stupido ed infantile, ma credimi: io non ce la faccio a tornare…”

“Ma perché?” insistette Sofie.

“Perché se tornassi e vedessi ancora una volta T-” si interruppe di colpo. “Philipp, non so se sarei in grado di mantenere i miei propositi. Lui ha quella forza in grado di trattenermi. Basta un suo sguardo e io mi sento persa nei suoi occhi…” la sua voce era strozzata. “E io non voglio che questo accada. Cazzo!” esclamò alla fine. “Deve capire che questa volta sono sul serio incazzata con lui!” e batté la rivista contro il piccolo tavolo di legno davanti al divano.

“Capisco…” mormorò in risposta Sofie.

“Scusa, non volevo alzare la voce…”

“No, tranquilla. Non preoccuparti. È normale reagire così… ti sei sentita presa in giro e lui non ha fatto niente per rimediare…”

“Scusa lo stesso…”

“Inge!” la riprese lei, il tono più autoritario e le mani puntate ai fianchi. “Se ripeti scusa un’altra volta, ti giuro che ti butto fuori di casa immediatamente!”

La ragazza rise.

“Bè, allora grazie…”

 

***

 

Aprì gli occhi di colpo.

Un incubo. Lei che correva per tentare di raggiungere una metà ignota, ma necessaria. Non seppe come successe, ma arrivata a destinazione, vi trovò solo buio e dolore. Più che da ciò che aveva visto, si sentì spaventata da ciò che aveva provato.

Si rigirò nel letto, nell’oscurità della stanza. Era notte fonda.

Tastò il materasso vicino a lei, in cerca di qualcosa che ormai non c’era più. Ma più che qualcosa, cercava qualcuno.

Gli occhi iniziarono a bruciare e le lacrime scesero da essi senza che Inge potesse fermarle. Nemmeno se ne accorse, finché la vista non le si appannò.

Si sentiva sola. Ma più che altro, sentiva la mancanza di quel cretino. Di Tom.

Da quando se n’era andata, non aveva nemmeno più pronunciato il suo nome. L’aveva sempre chiamato Philipp per evitare che Sofie potesse scoprire che il Tom in questione fosse proprio Tom Kaulitz. Quella fu una decisione che i due ragazzi presero insieme tempo fa, in modo da poter avere una vita privata senza che la stampa ne facesse parte.

Strinse a sé il cuscino e serrò gli occhi per impedire a quelle calde gocce di continuare a scorrere sul suo viso.

“Tom…” sussurrò. Era tanto, tantissimo – troppo – tempo che non sentiva più il suono di quel nome. Le mancava. Le mancava davvero tanto. Le mancava il calore del suo corpo, i suoi respiri, le sue parole. Le mancava lui.

Perché si sentiva così? Dopotutto era stata ingannata! Non poteva tornare da lui! Era lui che doveva andare da lei! Lui che doveva farsi perdonare! Lei non aveva fatto niente, se non fidarsi troppo delle sue parole!

Era tutta colpa di Tom, se tutto questo era successo! Si era comportato come un vero stronzo! Aveva distrutto tutto ciò che c’era stato tra loro! Aveva distrutto in nemmeno un mese ciò che avevano costruito in quasi un anno!

Doveva odiarlo!

Però…

Però non ci riusciva. Non riusciva ad odiarlo.

Forse… anche Tom aveva avuto i suoi motivi per arrivare a tanto… In fondo, Alex era giunto nella sua vita inaspettatamente. Tom non sapeva del suo arrivo… altrimenti, come poteva spiegarsi quel misero bigliettino?

Già, forse, Tom non l’aveva previsto…

Era giusto, dunque, essersi comportata così con lui? Forse… forse, lui non aveva detto niente per il semplice fatto che non voleva perderla… forse, credeva che tenendo nascosta la verità su Alex, avrebbe lasciato che la tranquillità regnasse tra di loro…

Eppure, non era così semplice…

Nonostante tutto, si sentiva tradita.

 

***

 

“Bill…” lo chiamò Alex, tirandogli una ciocca di capelli corvini.

Il cantante distolse lo sguardo dallo schermo e si voltò verso il bambino, sdraiato sul divano con la testa sulle sue gambe.

“Che c’è? Non ti piace ‘Il Re Leone’?”

“No, mi piace,” rispose Alex. “Però io lo volevo vedere anche con Inge…” mormorò. “È tanto che non la vedo. Dove è?”

Bill si rabbuiò. Cosa doveva rispondere?

Doveva dirgli che Tom ed Inge avevano litigato? Se gliel’avesse detto, però, avrebbe dovuto pure raccontargli la verità… o forse no… non stava a lui decidere. Anche se Alex era suo nipote, Bill non aveva parola in capitolo.

Cercò, quindi, di trovare una risposta adatta a quella situazione. Una risposta che potesse andare bene ad un bambino di quattro anni.

“Bè, ora è in un’altra casa…”

“Perché?”

“Perché, sai, ci sono momenti – nella vita dei grandi – in cui due persone devono stare un po’ lontane per poi voler stare di nuovo insieme.”

“E da chi deve stare lontana? Da me?” domandò triste.

“No, tranquillo…” gli sorrise, arruffandogli i capelli. “Vuole stare un po’ lontana da Tom.”

“Perché?”

“Perché…” ecco, ogni parola, ora, doveva essere misurata accuratamente. “Perché hanno litigato…”

“Perché?”

“Non lo so. Non me l’hanno detto.” Mentì. Era la soluzione migliore.

“Ma se Inge è andata via, poi, allora ritorna!”

“Ehm, sì…” sorrise, forse troppo tirato. Conoscendola, poteva anche non tornare. Però, era anche vero che quei due cretini si amavano. Tuttavia, anche se lei fosse tornata, non era detto che l’avrebbe fatto a distanza di qualche giorno…

“Allora, poi tornerà tutto come prima?” chiese contento Alex.

“Bè, anche se Inge tornasse, lei e Tom si dovranno prima chiarire…” gli fece notare.

“Chiarire?” lo guardò confuso il bambino.

“Sì, dovranno parlare e fare pace. Poi si accorgeranno pure di quanto si vogliono ancora bene…”

“E cosa si deve fare per farli ciarire?

Chiarire.” Lo corresse il moro, sorridendogli. “Te l’ho detto. Prima devono incontrarsi.”

Alex annuì.

Aveva capito.

 

¤°.¸¸.·´¯`»  «´¯`·.¸¸.°¤

Continua...

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ATTENZIONE: I Tokio Hotel non mi appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera della loro personalità. No scopo di lucro.

***

Finalmente, permettetemi di presentarvi il nuovo capitolo!!XD

E' stata dura scriverlo: la scuola è massacrante...ç__ç Non ho quasi più tempo per scrivere!

Purtroppo, non succede molto in questo aggiornamento, ma era necessario per spiegare lo stato d'animo dei vari personaggi. Spero, comunque che l'abbiate apprezzato.^^

Passo subito ai ringraziamenti, che ho visto sono stati molti. Vi ringrazio di non avermi abbandonato malgrado tutti i miei incredibili ritardi...ç___ç

Grazie a:

kit2007: Hai ragione, e in questo capitolo, puoi vedere benissimo cosa provano. Cioè, malgrado abbiano litigato, in fondo, questi due non riescono a stare lontani. Reagiscono in modo diverso, ma entrambi vogliono la stessa cosa. Chissà se il loro orgoglio permetterà loro di far sì che tutto questo si avveri...

niky94: Bè, come hai potuto vedere tu stessa, 'presto' è una parola troppo grande per me..X°D Comunque, spero ti sia piaciuto il capitolo! Grazie per il commento!^^

Antonellina: Rieccoti!! Eh già... la scuola è dura...V_V Ma si fa pure questo... Comunque, grazie anche a te per il commento!^^ E grazie per aver continuato a seguirmi!

PiKkOlA_EmO: A che punto è il naso?? Pizzica ancora???X°D Spero di no, perché a questo punto chissà cosa stai facendo per evitare che continui... Spero non ti sia messa a piangere, però!! X°D Per sapere cosa succederà, bè, non dovrai far altro che continuare a seguire la storia..=P

angeli neri: Scusa per il ritardo...V_V Purtroppo, come ho già detto, quest'anno la scuola è un inferno... Spero comunque, che tu abbia trovato qualche 'risposta' ai tuoi pensieri. Per sapere come continuerà tutto, ovviamente dovrai continuare a leggere, di certo io non ti svelo niente..=P

Zickie: Purtroppo, per far sì che loro si spieghino a vicenda, dovrebbero mettere da parte il loro orgoglio... il che non è facile per quei due. Ora, poi, che sono anche lontani... Prima che si possano chiarire, dovranno incontrarsi... e chissà quando succederà (per riprendere ciò che dice Bill)...

layla the punkprincess: Grazie per il commento! Bè, Bill può dargli una mano, certo, ma nei limiti del possibile. Dopotutto, questa è una faccenda tra Tom ed Inge. Bill c'entra il giusto. Comunque è ovvio che farà il possibile per farli ritrovare. Forse, tra tutti, quel ragazzo è l'unico che abbia capito quanto loro siano indispensabili l'uno per l'altro.^^

ladydarkprincess: Eheh, tutti se l'aspettano...^^ Comunque, siamo in due. La scuola distrugge... ç__ç E' per questo che non posso aggiornare così spesso...

rakith: Wow!! Il tuo primo commento in assoluto ce l'ho io?? XDD Grazie! Ps: tranquilla per le recensioni...^^

E ora, vi saluto carissimi!^^ (Devo andare a studiare...V_V)

Però, non mi dimentico di intimarvi a lasciare commenti, che tanto sono sempre ben accetti!^^

Un bacio a tutti voi!

_irina_

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Capitolo 9
*** She Is Coming From The Past ***


Just a kid

Just a kid

 

She Is Coming From The Past

“Sembra tu ti sia fumato una canna.” Soffiò una risata Tom, osservando l’espressione rapita di Alex, davanti a lui, che osservava le sue dita esperte scorrere sulla chitarra che teneva tra le braccia.

“Cosa vuol dire?” chiese lui, piegando la testa di lato.

“Niente. Era una battuta da grandi.”

“Dai! Dimmelo!” protestò lui.

“Vuol dire che sembrava tu avessi un’allucinazione.” Spiegò, quindi, Tom, fermando quella melodia che riempiva la sua camera.

“Alluchi…” provò a ripetere il bambino.

“Allucinazione.”

“Allu…” provò nuovamente il bambino, osservando il movimento delle labbra di Tom, che cercava di scandire ogni sillaba.

“… cina…” continuò il ragazzo.

“Cina…” ripeté Alex.

“… zione.”

“Zione.” Concluse il piccolo. “Alluchinatione.”

“No, è allucinazione.” Lo corresse ancora. “Al-lu-ci-na-zio-ne.”

“Allucinazione.” Biascicò.

“Giusto.” Sorrise sghembo Tom.

Alex si illuminò contento.

“Ma cosa vuol dire?” chiese, poi, interrogativo.

“Che sembrava tu avessi visto qualcosa.”

“E cosa avevo visto?”

Tom rise per l’ingenuità di Alex e lo lasciò nel dubbio. Come gli faceva a spiegare una cosa astratta?

“Non importa, lasciamo perdere.” E si chinò per scompigliargli i capelli, per poi ritornare a suonare lo strumento.

Improvvisamente, il dolce ed energetico suono della chitarra venne interrotto dal ronzio del campanello al piano di sopra.

“BILL! Vai ad aprire!” urlò Tom al fratello.

“Sono sotto la doccia!” urlò a sua volta lui.

Il ragazzo, quindi, sbuffò e si alzò dal letto, posando la chitarra sull’apposito sostegno.

“Tu resta qui, vado a vedere chi è e torno.” Disse ad Alex, uscendo dalla stanza.

Scese le scale in fretta, rischiando di cadere a causa dei pantaloni che gli stavano pericolosamente cadendo sempre più verso terra e corse nell’ingresso. Attivò lo schermo del citofono e si meravigliò di ciò che vide.

Una donna con lunghi capelli scuri e un viso sfiorito stava osservando la telecamera con uno sguardo quasi spento.

“Chi sei?” chiese Tom alla donna tramite il microfono.

“Sono venuta a prendere Alex.”

A quelle parole, Tom provò una strana sensazione di vuoto. La testa per un attimo sembrò scollegarsi da tutto il resto del corpo, per poi sentire un gelo improvviso attraversarlo completamente.

Il campanello trillò di nuovo, accompagnato dal solito ronzio.

“Fatemi entrare.” Supplicò la donna. “Sono sua madre.”

Una fitta colpì il ragazzo in pieno petto.

Cosa? Dopo tutto ciò che era successo, questa donna tornava per prendersi il bambino? No. Doveva trattarsi di uno scherzo.

Il campanello suonò una terza volta.

“Per piacere, aprite! Voglio riprendere mio figlio!” la sua voce era quasi strozzata. Stava per piangere.

Tom fece come la donna gli aveva chiesto con la sua voce flebile ed implorante. I suoi gesti si dimostrarono, tuttavia, lenti e senza alcuna volontà dietro di essi. Senza rendersene conto, aveva persino aperto la porta di casa, lasciando che la donna si avvicinasse ed entrasse dentro.

Gli occhi del ragazzo la guardarono per qualche attimo, senza osservarla sul serio.

Solo quando la donna l’abbracciò forte, riuscì a tornare al presente, in modo da allontanarla da sé.

Il suo viso portava i segni di una giovinezza ormai passata. Si poteva vedere benissimo che in passato doveva essere stata una bella ragazza, ma ora profonde occhiaie circondavano i suoi occhi e il viso era decisamente troppo magro. Gli occhi erano piccoli e di un azzurro intenso, ma spenti, senza alcun segno di vita all’interno. Le labbra erano carnose, ma pallide. Così come la sua pelle. Un tempo forse, era stata candida, ora, invece, il pallore aveva preso il sopravvento. Un pallore di malato, di assenza di vita.

Quella donna sembrava essere molto più grande di lui, ma in realtà doveva avere quasi la sua stessa età.

Tom la guardò assente, mentre le lacrime iniziarono a rigare quel pallido viso davanti a lui.

“Tom,” mormorò lei. “Mi sei mancato tanto…” e sorrise triste.

Il ragazzo non poté far altro che abbassare lo sguardo. Si sentiva decisamente a disagio. Nemmeno si ricordava di questa donna.

E lei lo capì dal suo gesto.

“Non ti ricordi di me, vero?”

Lui annuì, sentendo un vago senso di colpa dentro di sé.

“Mi dispiace.” Sussurrò debolmente, alzando gli occhi di nuovo su di lei.

La donna sorrise con il solito velo di tristezza negli occhi.

“Sono Melanie…” disse speranzosa.

No. Nemmeno il nome gli diceva qualcosa.

“Mi hai incontrata poco più di quattro anni fa dopo un concerto che avete tenuto a Monaco.” Spiegò.

“Tu sei di monaco?” chiese Tom.

“No, sono di Essen. Ero a Monaco solo per il vostro concerto.”

Il ragazzo si sorprese per il lungo viaggio fatto dalla ragazza solo per un loro concerto. Non se lo ricordava bene, ma era quasi sicuro di averne fatti molti pure laggiù. Non era necessario fare tutta quella strada per vederlo.

“Mi sono trasferita ad Amburgo due anni fa, sperando di trovare un lavoro per andare avanti.” Continuò la donna. “Ad Essen, la mia famiglia è andata in bancarotta a causa di alcuni investimenti sbagliati. Qui ho trovato un lavoro, ma l’orario non mi permetteva di stare con Alex.”

“Ma non hai qualcuno con te?”

“Intendi un ragazzo?” sorrise ancora una volta con tristezza.

Tom annuì.

“Chi mai vorrebbe una ragazza-madre?”

Lui abbassò nuovamente lo sguardo. Si sentiva quasi colpevole. In parte, era colpa sua.

“Soltanto dopo un po’ di tempo ho saputo che voi Kaulitz abitavate in questa città. È stata una scoperta bellissima. Avrei tanto voluto rivederti,” gli prese le mani nelle sue, stringendole, quasi per non lasciarlo più. “Ma non potevo. Dovevo trovare il modo per trovare dei soldi e rifarmi una vita.” Si zittì per un attimo, come se stesse cercando di trattenere le lacrime. “Per questo ho deciso di affidarti nostro figlio.”

Nostro figlio.

Due semplici parole che per Tom stonavano troppo. Lui non sapeva niente di questa ragazza… e malgrado tutto, avevano un figlio.

Improvvisamente, il goffo correre di Alex per le scale li fece voltare entrambi.

“Mamma!” esclamò sorridente, mentre trotterellava verso la donna.

“Alex!” lo abbracciò lei, gli occhi lucidi. “Amore, come sei stato con papà?” chiese, indicando Tom con lo sguardo.

Alex seguì gli occhi di sua madre e guardò il ragazzo con un’espressione confusa.

“Ma lui ha detto che sono suo cugino.” Rispose, come se volesse far capire alla madre che si era sbagliata.

Melanie guardò Tom con occhi lucidi. Abbracciò Alex ancora più forte e nascose il viso sulla sua piccola spalla.

“Capisco.” Mormorò, quasi impercettibilmente.

“Cosa, mamma?” chiese Alex.

“Ma forse è stato meglio così.” Continuò la donna, senza rispondere all’innocente domanda del bambino. “Se si fosse affezionato a te vedendoti come un padre, forse sarebbe stato più difficile portarlo via e -”

“Lo vuoi portare via?” la interruppe Tom, sorprendendo persino se stesso a causa del tono con cui aveva posto la domanda. Era un misto tra paura, colpa e tristezza.

“Sì, ho trovato un altro lavoro. Certo, non farà più la vita agiata che avrà fatto qui, ma potrò averlo vicino a me.”

“Ma… ma… aspetta!” non sapeva cosa ribattere. Non voleva che Alex se ne andasse. Ormai… ormai si era abituato alla sua presenza. Si era abituato a vederlo sempre correre per la casa. Si era abituato ai suoi scherzi. Si era abituato a sorridergli.

Non era convinto che ciò che provava per quella piccola peste fosse quello che un padre provava per un figlio, ma non metteva in dubbio che tra loro si era formato un forte legame. Più forte di quel che avesse mai potuto immaginare. Lasciarlo andare si era rivelato più difficile del previsto. Un tempo, forse, non avrebbe voluto altro che qualcuno fosse venuto a prenderlo, ma ora…

“Tom, chi è?” chiese Bill, scendendo le scale. Aveva finito di fare la doccia ed il farfugliare nell’ingresso aveva attirato la sua attenzione.

Il ragazzo sospirò di sollievo per la presenza del fratello. Aveva decisamente bisogno di un sostegno in quel momento.

“La madre di Alex.” rispose, senza poter evitare di esprimere la sua angoscia per quella situazione.

“Cosa?!” ripeté il moro agitato, scendendo a corsa gli ultimi scalini che mancavano per arrivare da loro.

“Bill!” urlò contento Alex, andandogli incontro.

Il cantante prese il bambino in braccio, ma non riuscì a concedergli tutte le attenzioni che avrebbe voluto. Cosa ci faceva la madre di Alex in casa loro? Cosa era venuta a fare?

Sapeva che l’ultima era ovvia come domanda. Di sicuro voleva riprenderselo, ma prima di dover accettare quella notizia, Bill avrebbe voluto esserne totalmente certo.

“Cosa è venuta a fare qui?” chiese titubante il moro.

“È venuta a riprendersi Alex.” La risposta di Tom giunse piatta alle orecchie del moro.

“Cosa?” esclamò ancora una volta, abbracciando Alex ancora più forte senza rendersene conto. “Perché vuoi portarlo via?” domandò con un velo di rabbia nascosto in quelle parole.

Melanie rise.

“È mio figlio.” rispose semplicemente.

“Ma è anche mio…” sussurrò Tom.

Bill non riuscì a credere a ciò che aveva appena sentito. Pensava che sarebbe stato più probabile che un asino passasse in volo sulle loro teste proprio in quel preciso momento, che sentire suo fratello pronunciare quelle parole. Eppure, Tom le aveva dette. E Bill non era stato l’unico ad averle sentite come se gli fossero state urlate nelle orecchie.

“Cosa?” disse flebilmente la donna. Gli occhi le erano diventati ancora più lucidi.

Bill subito capì. Lei aveva frainteso.

“Vorresti che rimanessimo entrambi qui?” continuò Melanie.

Appunto.

Tom alzò subito lo sguardo, che fino a quel momento era stato fisso sui propri piedi, sul volto della donna. I suoi occhi traducevano l’incredulità di ciò che provava.

Lui non aveva mai proposto niente del genere. Lui voleva solo che Alex rimanesse con loro. Non voleva che rimanesse pure Melanie, per quanto egoista potesse essere il suo ragionamento.

Non voleva che quella donna entrasse nella sua vita più di quello che aveva già fatto. Lui amava un’altra persona – malgrado il brutto periodo che stavano passando. Pensare di vivere tutto il resto della sua vita con una persona che neppure conosceva, legati solo dal fatto di aver fatto sesso una sera di così tanto tempo fa che aveva completamente rimosso, era veramente assurdo.

Improvvisamente un’immagine di un lentigginoso viso dai fini lineamenti si impose su tutti gli altri pensieri.

Inge.

Era lei che conosceva. Lei che voleva. Lei che amava.

“Dici sul serio?” rincarò Melanie, notando l’assenza di una risposta da parte del ragazzo. “Possiamo veramente rimanere qui?” la sua voce risuonava come una sorta di supplica.

Tom avrebbe volentieri voluto dirle che aveva stravolto il significato delle sue parole, ma se le avesse detto una cosa del genere, ci sarebbe stato il rischio che lei se ne andasse seduta stante con Alex. E lui non voleva questo.

“Solo per un po’.” Tagliò corto Tom. La sua voce era inespressiva, proprio come il suo viso. Voltò le spalle alla donna e salì le scale senza più dire una sola parola.

“Aspetta!” lo chiamò Melanie, senza, però, ottenere una risposta. Si rivolse, quindi, a Bill, che teneva ancora Alex in braccio. “Ehm, ciao, non credo tu mi conosca.” Farfugliò.

Bill grugnì un assenso. Sapeva fin troppo bene chi fosse. Lei era la donna che aveva distrutto la tranquillità in quella casa, che aveva distrutto il rapporto tra Tom ed Inge, che aveva complicato la vita a tutti loro e che ora si aspettava inviti generosi da parte loro, quando l’unico invito che avrebbe dovuto ricevere – da Bill in primis –  sarebbe stato quello di andarsene al più presto da quella casa. Possibilmente da sola.

“Piacere, mi chiamo Melanie.” E gli porse una mano, imbarazzata.

Il moro di proposito non fece altrettanto, lasciando solo che il suo sguardo quasi disprezzante parlasse per lui. Quella donna aveva improvvisamente assunto un atteggiamento infantile. Sembrava regredita ad un’età compresa tra i sedici e i diciott’anni, invece di dimostrare una certa maturità che avrebbero dovuto avere le donne di vent’anni.

Sembrava quasi che volesse passare per la vittima della situazione e che solo per il fatto che fosse stata a letto con suo fratello – come molte altre – avesse il diritto di piombare nelle loro vite e incasinarle come più le piaceva.

Tutto questo era solo una piccola parte di ciò che pensava della donna. Non sapeva come spiegare bene l’intera impressione che lei gli dava, ma di certo non era positiva.

“Ehm,” Melanie ritrasse la mano, sempre imbarazzata. “Immagino che dovrò andare a prendere la mia roba, visto che mi trasferisco -”

“No.” La fermò Bill, sistemandosi meglio Alex in braccio, che giocava con i suoi lunghi capelli corvini. Non riusciva proprio a farsela piacere. Il fatto che quella donna si trasferisse – momentaneamente – da loro, gli dava molto fastidio. L’unica persona di sesso femminile che poteva vivere sotto il loro stesso tetto era Inge.

“Tanto devi stare qui solo per un po’.” Aggiunse il moro. “Quindi non credo che per questo po’ tu abbia bisogno di tornare a casa per fare le valigie.”

“Bill,” lo chiamò Alex, tirandolo per una ciocca di capelli. “Dove è Tom?”

“In camera sua.”

“Suona?” chiese il bambino.

“Non lo so. Andiamo a vedere, se vuoi.” Propose, sperando che Alex gli rispondesse affermativamente. Non riusciva a stare con quella donna.

Il bambino annuì contento e Bill sorrise soddisfatto. Diede le spalle a Melanie e salì le scale, lasciando la donna da sola nell’ingresso.

Ma il moro non fece nemmeno due metri, che lei lo raggiunse.

“Senti, ma dove dormiamo?” domandò nervosa. Forse si era accorta del comportamento distaccato di Bill nei suoi confronti.

“Alex può continuare a dormire dove ha sempre dormito. Tu sul divano.”

“Come? Sul divano? Separati?” replicò sbalordita. “E se lui avesse bisogno di me?”

Bill si fermò e la guardò truce. Quella era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.

“Ti vorrei ricordare che per un mese Alex è rimasto in questa casa e non ha mai avuto bisogno di te.”

La donna annuì leggermente impaurita dal tono usato dal cantante ed indietreggiò di qualche passo, lasciando che Bill sparisse al piano di sopra, dove fece scendere Alex per lasciarlo trotterellare verso la camera di suo fratello, mentre lui entrò nella propria stanza.

Si sedette sul letto come se fosse stato privato delle sue forze.

Ci mancava altro che quella donna venisse per riprendersi Alex…

Era già abbastanza difficile convivere con un fratello in piena crisi a causa del casino con Inge. Sembrava quasi che la madre di Alex fosse venuta apposta nel momento sbagliato. Tom era decisamente perso. Era palese che non sapeva più cosa fare. Tutta questa situazione lo aveva stremato e per di più, era anche testardo: non voleva nemmeno provare a chiarirsi con Inge.

Bill sapeva che entrambi stavano male per la reciproca lontananza, ma il pessimo carattere di quei due cretini era d’intralcio ai loro veri sentimenti. Non potevano andare avanti così. Soprattutto in un momento così delicato come quello che stava nascendo dall’arrivo di quella donna! Loro due si dovevano fare forza a vicenda, perché era chiaro come il sole che Tom aveva bisogno di sentirsi vicino qualcuno che gli desse forza, e malgrado ci fosse ancora lui – suo fratello – a Tom mancava il sostegno di Inge.

Il moro sospirò e si lasciò cadere supino sul letto.

Che situazione assurda…

Poi, improvvisamente, un pensiero si fece spazio nella sua testa.

Perché non ci aveva pensato prima? Aveva praticamente trovato una soluzione a tutti i problemi. O almeno, a quasi tutti.

Si alzò e si avvicinò al comodino dove aveva appoggiato il cellulare quella mattina. Scorse la rubrica e una volta trovato il numero che cercava, avviò la chiamata.

 

***

 

Il cellulare squillò da qualche parte.

Inge riemerse dal mare di fogli in cui era momentaneamente affogata e cercò di trovare il piccolo oggetto dal suono così fastidioso. Si avvicinò al letto e sollevò le coperte.

Niente. Eppure era convinta di averlo lanciato proprio lì, quando era tornata.

La melodia continuò a riempire la stanza con note sempre più acute. Inge si spostò verso il comodino, ma né sulla parte superiore, né nei cassetti c’era il cellulare.

Sbuffò rumorosamente, mettendosi le mani ai fianchi, decisa a lasciar perdere quella inutile ricerca. Se fosse stata una cosa importante avrebbe richiamato in seguito.

Tuttavia, la melodia non accennava a fermarsi.

La ragazza roteò gli occhi esasperata. Odiava i cellulari. Senza si sentiva più libera, perché ogni momento era buono per squillare e distrarla da qualunque cosa stesse facendo. Era una palla al piede.

Improvvisamente, notò qualcosa che sporgeva da sotto il letto, parzialmente coperto dalle lenzuola che aveva completamente sfatto nel tentativo di trovare quel coso.

Si chinò e sollevò il lembo, trovando proprio ciò che non dava pace alle sue orecchie.

Raccolse il cellulare da terra, senza indagare di come ci fosse finito, e guardò il display.

Le venne quasi un colpo, dopo aver osservato quel nome che lampeggiava isterico quasi come la melodia.

Cosa poteva volere lui da lei? Cosa poteva volere ora? In tutto questo tempo non l’aveva mai chiamata. Le aveva mandato solo un messaggio per sapere come stesse, niente di più.

Si portò il cellulare all’orecchio con mano tremante, ed accettò la chiamata.

“Pronto…?” chiese flebilmente.

“Inge, torna a casa.” Disse senza mezzi termini la voce dall’altra parte dell’apparecchio.

“Cosa?” fece la ragazza, non riuscendo a capire il motivo di tale ordine.

“Torna a casa.” Ripeté Bill. La sua voce era seria. Doveva essere successo qualcosa di grave. Che Alex…? O peggio. Che Tom…?

No, non doveva pensare a quel cretino. Per Alex avrebbe fatto di tutto, ma per Tom… prima di fare tutto – perché avrebbe lo stesso fatto tutto per lui – ci avrebbe dovuto pensare almeno un po’ prima.

“E perché, scusa?” domandò minacciosa. Era forse un misero tentativo di farli chiarire? Che fosse stato Tom ad architettare tutto?

“È arrivata la madre di Alex.” Spiegò atono.

“Cosa…?” per un attimo pensò di aver capito male. La madre di Alex? Cosa c’era andata a fare la madre di Alex a casa loro?

“Vuole riprenderselo.” Continuò Bill.

“Vuole portarlo via?”

“Sì. Per questo voglio che tu torni.”

Mille pensieri iniziarono a vorticare nella mente della ragazza.

Alex. La madre di Alex. Bill. Tom. Se fosse tornata avrebbe dovuto affrontare Tom. Ma se non fosse tornata, Alex avrebbe potuto andarsene e lei, forse, non avrebbe più avuto la possibilità di vederlo. Ma più che altro, lei non voleva che Alex se ne andasse. Si era affezionata troppo a quella piccola peste.

Però…

Come avrebbe dovuto fare con Tom? Era ovvio che una volta tornata in quella casa, come minimo ci avrebbe trovato pure lui. Dopotutto era casa sua!

Solo dopo aver sentito Bill schiarirsi la voce per attirare la sua attenzione, Inge si rese conto di essersi irrigidita, lasciando la mente libera di partorire i più paranoici pensieri, fino a quel momento rimasti nascosti.

“Inge, ti pre-”

“Vengo subito.” Si affrettò a confermare lei, e chiuse la chiamata.

Afferrò la borsa ai piedi del letto e vi infilò il cellulare ed il suo mazzo di chiavi. Il portafogli era già dentro. Poi, si tolse la tuta che indossava e prese dall’armadio un paio di pantaloni ed una felpa, che si mise in tempo da record.

Corse per il corridoio con la borsa in mano e scese le scale, facendo battere la grande tracolla contro ogni scalino che superava, per arrivare alla cucina. Lanciò la povera borsa davanti alla porta e cercò più velocemente possibile il blocchetto di fogli che Sofie usava sempre per scrivere gli avvisi.

Quando lo ebbe trovato dentro un cassetto insieme a tutto ciò che di inutile poteva esserci in quella stanza – palline di plastica, un pacchetto di pile, un librino di Lukas e altro che non volle sapere cosa fosse –, prese anche la penna e strappò una pagina al blocchetto.

‘Sofia, sono tornata a casa. È una questione urgente. Non ho tempo di spiegare. Non ti preoccupare troppo, ti chiamerò per spiegarti. Non so quando ritornerò (se ritornerò). Inge.’

Non rilesse nemmeno il misero telegramma che lasciò in mezzo alla tavola. Corse verso l’ingresso, agguantò al volo la borsa ed uscì, chiudendo la porta a chiave. Salì in macchina e partì.

Chi se ne frega di Tom! Ora c’è solo Alex! E se ci sarà anche Tom… bè…

Già, che fare? Se ci fosse stato anche Tom, avrebbe dovuto ignorarlo o provare almeno a parlarci?

La colpa di questa separazione, in fondo – molto in fondo – non era solo sua. Un po’ – molto poco – era anche colpa di Inge. Forse, aveva reagito troppo drasticamente.

Avrebbe dovuto fare qualcosa anche per risolvere quella situazione.

Nonostante volesse farsi vedere forte, lei non sopportava più l’idea di stare così lontana da lui. E sapeva che anche per Tom era lo stesso.

Erano così uguali che non potevano stare lontani.

Anche per questo stava tornando.

 

¤°.¸¸.·´¯`»  «´¯`·.¸¸.°¤

Continua...

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ATTENZIONE: I Tokio Hotel non mi appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera della loro personalità. No scopo di lucro.

***

Non credevo di riuscire a pubblicare dopo così tanto tempo, anche se in fondo avrei dovuto aspettarmelo. Non faccio più vita con la scuola. Compiti su compiti. Interrogazioni su interrogazioni. Una tragedia.

Questo capitolo è stato il frutto di miseri ritagli di tempo. Non so se pare solo a me, ma mi sembra che non sempre le parti di questo capitolo siano tra loro perfettamente collegate. Non lo so. Mi piace il capitolo in sé, perché - come avrete potuto vedere leggendo - tratta un punto fondamentale, ma mi sembra scritto da cani. Forse dipende proprio dal fatto che l'ho scritto un po' a pezzi e bocconi, boh. Rileggendolo mi sembra che vada bene, ma delle volte mi fisso su dei punti, e a forza di ragionarci, non arrivo a niente di meglio.

Se qualcuno trovasse degli errori o punti in cui il discorso non torna, me lo faccia sapere. Vedrò di correggere.

Passando ai ringraziamenti... Come al solito, siete numerosi a commentare. Grazie! Mi dispiace solo di non avere tempo per rispondere a tutti. Cito le persone che hanno lasciato anche una piccola recensione, sperando che questo possa gratificarli - oltre al capitolo in sé, ovviamente! Chissà se tutti voi ve lo sareste aspettato o meno...

Comunque, grazie a: angeli neri, pIkKoLa_EmO, pandina_kaulitz, Antonellina, tokiohotel4e, kit2007, ladydarkprincess, Zickie e martinaTH4e

Ora vi lascio. Al prossimo capitolo, sperando che l'aggiornamento avvenga in tempi più brevi rispetto a questo - anche se so che tanto non sarà molto fattibile...^^" Un saluto dal mio povero cervellino fumante!

Ps: come al solito, lasciate un commentino! Questo capitolo (e io, per i salti mortali che ho fatto per scriverlo.. =P) lo merita!XD

_irina_

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Capitolo 10
*** ‘Cause I Still Love You ***


Just a kid

Just a kid

 

‘Cause I Still Love You

Il campanello suonò e Bill corse ad aprire. Non era mai stato così contento di andare ad aprire a qualcuno.

“Eccomi.” Disse Inge. Il suo tono era stravolto.

“Ciao.” La salutò il moro, indicando subito il salotto con il suo solito dito perfettamente smaltato. “Tutto quello che so te l’ho detto per telefono quando eri in macchina.”

“Ok, grazie.” Rispose la ragazza. Poi si sporse dalla soglia d’ingresso e guardò nella direzione indicata. C’era una donna seduta sul divano che teneva Alex tra le braccia. Il bambino si dimenava, forse perché voleva andarsene, ma lei sembrava lo volesse tenere fermo.

Inge sentì una fitta al petto. Aveva vissuto così tanto tempo con Alex, che ora, vederlo con un’altra donna che lo costringeva a stare fermo – quando quella piccola peste non avrebbe fatto altro che andare a saltellare allegro per la casa – sembrava la cosa più strana potesse esserci al mondo.

Alex si lamentò di qualcosa con la madre. La rossa poté notare l’espressione triste del bambino e si decise ad entrare per andare da lui. Subito lui si accorse della sua presenza e le mostrò un bellissimo sorriso, iniziando ad agitarsi per liberarsi dalle braccia di quella persona che doveva essere la madre.

La donna si voltò, incrociando lo sguardo di Inge e accontentò il figlio, permettendogli di scendere e correre verso la ragazza che stava avanzando verso di loro.

“Inge! Sei tornata!” gridò eccitato Alex, saltandole addosso. Lei sorrise, lo prese in braccio e si lasciò abbracciare, per poi scansargli i capelli con una mano e baciargli la fronte.

Solo ora che lo teneva stretto a sé poté capire quanto le era realmente mancato quel piccolo diavoletto. Nonostante tutto – nonostante fosse figlio di Tom e quella donna – lei gli voleva bene. E come per il bambino, la questione valeva anche per un’altra persona.

La madre di Alex si alzò dal divano e si diresse verso di lei.

“Salve.” Sorrise la donna, porgendole la mano.

“Salve.” Disse atona e inespressiva la ragazza.

“Tu chi sei?” chiese la donna, dopo aver indugiato un attimo, notando che Inge non aveva la benché minima intenzione di ricambiare il gesto.

“Inge Träne.” Rispose. E non aggiunse altro.

“Piacere, io sono Melanie Vedel, la madre di Alex.” Si presentò lei a sua volta.

“Sì, lo sospettavo.” Commentò Inge con un velo di ironia nella voce, mentre Bill si avvicinava a loro.

“Posso darti del tu?” azzardò timidamente.

Se proprio devi… pensò la ragazza.

“Sì.” Non voleva sbilanciarsi troppo con quella donna.

“Senti,” continuò la madre del bambino. “Tu sei quella che pulisce la casa?”

Inge sgranò gli occhi, incredula.

Come? Io la donna delle pulizie? Ma stiamo scherzando?!

“No!” rispose irritata, sistemandosi meglio Alex in braccio, che aveva iniziato a giocare con i suoi capelli rossicci.

“Ah, e chi sei?”

“La ragazza di Tom.” Nel pronunciare quelle parole, Inge non poté far a meno di provare una certa soddisfazione.

La ragazza di Tom? Cioè, ora stai con lui?” balbettò la donna. Era palese che si aspettava tutt’altro.

No, vuol dire che sono la sua balia! Ruggì dentro di sé la ragazza. Ma secondo te che cazzo vuol dire stare con qualcuno?

“Mi… mi dispiace avervi creato tutti questi problemi… ma non sapevo dove altro andare per lasciare mio figlio…”

Non ci credo nemmeno sotto tortura! Ma dovette annuire, fingendosi comprensibile.

“Immagino che Tom non se l’aspettasse…” continuò Melanie.

Ma dai!

“Comunque, mi ha offerto di vivere qui…”

Che razza di… Bugiarda! Ti sei autoinvitata!

“Spero non ti dia alcun disturbo…”

“No, tranquilla.” Rispose atona. Dentro di sé stava esplodendo. Le avrebbe messo volentieri le mani al collo – magari quando Alex fosse stato da un’altra parte… La rabbia era sempre più forte. Si odiava per ciò che le aveva appena detto. Certo che non le andava bene! Ma cosa avrebbe potuto risponderle? Se avesse detto ciò che realmente stava pensando, sarebbe passata dalla parte del torto.

“Inge,” la chiamò Alex, tirandole una ciocca di capelli per attirare la sua attenzione. “Perché eri andata via?”

“Avevo un lavoro da finire.” Gli sorrise la ragazza.

“Ma ora resterai qui?”

“Sì.”

“E giocheremo ancora insieme?”

“Certo!” e gli scarruffò i capelli.

Alex iniziò a ridere divertito ed Inge vide chiaramente l’invidia nello sguardo della madre.

Forse, aveva ragione quella donna. Cioè, se era vero ciò che aveva detto Bill, era giusto provare invidia nei suoi confronti – dopotutto, Alex era suo figlio –, ma nonostante questo piccolo attimo di comprensione, Inge non riusciva lo stesso a farsela piacere. Certo, aveva vissuto una vita complicata – come se Inge stessa non l’avesse fatto – ed ora era venuta a reclamare ciò che per lei era diritto avere.

Ma era proprio qui che si sbagliava: non aveva diritto proprio a niente. E soprattutto non aveva alcun diritto su Tom. A quel pensiero qualcosa la fece calmare. Si sentiva determinata. E avrebbe continuato ad esserlo.

“Inge!” la chiamò ancora una volta Alex.

“Sì?”

“Giochiamo?” chiese, sorridendo.

“Ora?”

Il bambino annuì.

“Va bene. A cosa?”

“A fare scherzi!” e iniziò a battere le mani entusiasta.

“E a chi li vuoi fare? A Bill?”

“Mi dispiace!” si difese il moro. “Io ho già dato ieri, guadagnandoci un mal di testa assurdo.”

“A Tom!” propose, allora, Alex.

“E, ehm, se si facesse impazzire Bill ancora di più?” fece Inge. L’idea di dover rivedere Tom l’aveva colta alla sprovvista. Sapeva se fosse tornata a vivere là, rivederlo sarebbe stato il minimo, ma forse le ci voleva ancora un po’ di tempo.

“No! A Tom! Così, poi, mi diverto con lui!”

“E se andassimo a cucinare?” provò ancora.

“Ma io voglio andare da Tom!” piagnucolò Alex.

Bill capì immediatamente. Quel bambino era, sì, una peste, ma era anche molto sveglio. Alex voleva andare da Tom per far parlare quei due cretini… un modo come un altro per mettere in atto ciò che gli aveva detto lui stesso tempo fa.

Che peste… ridacchiò il moro.

Alla fine, Inge dovette arrendersi. Era impossibile guardarlo con quegli occhioni lucidi ed impedirgli di fare qualcosa. Sospirò rassegnata. Era sempre la stessa storia…

“Va bene.” Accettò Inge, mentre Alex si illuminava e chiedeva di essere messo a terra. Prese poi la mano della ragazza e la trascinò al piano superiore.

Da corridoio Inge poteva benissimo sentire il suono della sua chitarra. Cosa gli avrebbe detto una volta che si fosse trovata davanti a lui?

Non ebbe nemmeno il tempo di trovare una risposta, che Alex era già andato a bussare alla sua porta.

La risposta di Tom fu atona.

“Sono Alex… e c’è anche una sorpresa!” disse raggiante.

“Entra.” Gli diede il permesso il ragazzo oltre la porta, senza smettere di far vibrare le corde del suo strumento prediletto.

Il bambino aprì la porta ed entrò, seguito da Inge, incerta se andare fino in fondo. Dovette arrendersi definitivamente, quando Alex la prese di nuovo per mano e la condusse all’interno della camera.

Tom era seduto sul bordo del letto, la testa china sulla chitarra, mentre studiava qualche accordo in successione. Non appena alzò lo sguardo le sue prove si interruppero di colpo.

“Cosa… cosa ci fai tu qui?” farfugliò, squadrando la ragazza ferma davanti alla porta.

“Sono tornata.” Spiegò semplicemente.

“Perché?” ruggì.

“Come perché?” alzò la voce Inge. “Fino a prova contraria questa è anche casa mia!”

“Bè, di prove contrarie ne avresti tante, a cominciare dal fatto che sei sempre stata nostra ospite.”

“Mi pare di aver cominciato anch’io a pagare le bollette ed a dividere tutte le altre spese.” Si impuntò, mettendo le mani ai fianchi.

Tom sbuffò.

“Vabbè, visto che sei qui… puoi rimanere.” E riprese a suonare la chitarra, distogliendo lo sguardo dalla ragazza.

“Ah, perché? Non avrei nemmeno il permesso di entrare qua dentro?”

“Esatto. Questa camera è oltre i tuoi confini quando siamo incazzati.”

“C’è un bambino, vorrei ricordarti…”

“C’è anche un conto in sospeso, vorrei ricordarti io.”

Alex tirò Inge per la manica della felpa.

“Ma non fate la pace?” chiese triste.

“Bè, ecco…” Ora anche Inge capì. Alex non voleva giocare. Voleva che loro due si parlassero di nuovo. “Per fare la pace, prima dobbiamo chiarire certe cose…”

“Ti correggo: sei tu quella che si deve schiarire un po’ le idee.” La interruppe Tom, sempre chino sulla sua chitarra. Gli occhi chiusi ma attenti ad ogni singolo movimento delle sue mani.

“E tu quello che si deve chiudere la bocca.”

“Allora vi devo lasciare soli?” osò Alex, timoroso. Non gli piaceva quando le persone iniziavano ad usare questi toni.

“No, tranquillo.” E si inginocchiò davanti al bambino, prendendogli le piccole mani nelle proprie. “Non intendevo questo.” Rispose Inge. La situazione si stava dimostrando peggio di quel che aveva pensato. Voleva sapere cosa sarebbe successo se avesse rivisto Tom? Ecco. Questa era la risposta.

“Ma se volete parlare di cose da grandi, io vado via.”

“E portarti pure lei.” concluse Tom.

Inge chiuse gli occhi e respirò profondamente. Si era sentita ferita da quelle parole, ma non aveva la minima intenzione di lasciar perdere tutto questo.

“Tom,” lo chiamò, alzandosi e voltandosi verso di lui. “Io ce la sto mettendo tutta per non far precipitare la situazione.”

“Non mi sembra tu abbia fatto altrettanto, quella sera.” Le rispose atono, senza degnarla di uno sguardo.

La ragazza strinse le mani a pugno per tirare indietro quelle lacrime che avrebbero tanto voluto scivolarle sulle guance.

“Inge, non ti arrabbiare.” La prese per una mano il bambino. “Avete detto che dovete parlare!”

“No, parleremo un altro giorno. Tom ha ancora bisogno di un po’ di tempo per pensarci su.”

“Non sono l’unico.” Commentò ancora una volta, con voce tagliente.

Inge deglutì.

“Ok, ora basta! Alex, vai fuori, per piacere. Stasera gioca con Bill. Io devo parlare con Tom.” E lo accompagnò oltre la porta, mentre il rasta sbuffava.

“Va bene!” sorrise Alex, per poi trotterellare per il corridoio.

Inge chiuse la porta della stanza e si voltò verso il ragazzo.

“Ascolta, hai intenzione di rimanere incazzato ancora per molto?” ed incrociò le braccia al petto.

“Sì.” Rispose lui.

“Tom, sto cercando di trovare una soluzione.” La sua pazienza era al limite.

“Non l’hai trovata. Risparmiati ulteriori fatiche inutili.”

“Tom, non sei d’aiuto.”

“E tu non sei di compagnia, al momento.”

“E certo!” roteò gli occhi. “Io sono di compagnia solo quando siamo a letto, no?”

“Bè, diciamo che a letto sei più interessante.”

“Tom, mi dici cosa cazzo ti prende?” e si avvicinò a lui, per niente intenzionato a lasciar perdere la sua chitarra per considerare la ragazza. “Sei incazzato per il fatto che ti abbia mollato quella sera? O c’è altro?”

“Inge,” e per un attimo il suono dello strumento si interruppe, ma gli occhi del ragazzo non la guardarono nemmeno per un momento. “Non aprire la bocca tanto per darle aria. Non hai capito niente.”

“Gesù!” sospirò. “Proprio per questo sto cercando di farti parlare!”

“Mi dispiace, ma io, invece, non voglio parlare.” E tornò a muovere le sue mani sicure sulla chitarra.

Fu la goccia che fece traboccare il vaso.

“Porca puttana, Tom! Smetti di strimpellare quel coso e guardami negli occhi!” urlò.

“No.”

Inge si mise davanti a lui. Posò una mano sulle corde dello strumento, fermandone il movimento e l’altra sotto il mento del ragazzo, obbligandolo ad alzare la testa per guardarla.

“Che cazzo vuoi?” soffiò lui come un gatto infuriato.

“La tua attenzione.” Rispose seria e determinata la rossa.

“Bene, ora ce l’hai, soddisfatta?”

“No.”

“E che altro vuoi?” ruggì.

Lei avvicinò il suo viso a quello di Tom, posando le proprie labbra sulle sue. Erano calde e morbide come sempre.

Il baciò durò un istante, poi lei si allontanò lentamente.

“Dirti che, nonostante tutto, ti amo ancora, pezzo di cretino.” E lo liberò dalla sua presa, per poi voltarsi ed uscire dalla sua camera, lasciandolo solo.

Scese le scale quasi senza rendersene conto. Come avrebbe reagito Tom? Forse, aveva osato troppo…

Subito si fermò e scosse la testa. Ma che cazzo! Non era da lei fare questi discorsi! Lei avrebbe dovuto pensare cose come: quello che potevo fare l’ho fatto, ora vediamo cosa fa lui.

Riprese a scendere le scale, dandosi della cretina, ma smise non appena vide Bill seduto sul divano con Alex vicino che saltellava sui cuscini e la madre seduta sulla poltrona di pelle nera dalla parte opposta della sala.

Si avvicinò, quindi, al moro, girando intorno al divano e si sedette.

“Bill, tuo fratello è un cretino.” Annunciò.

Bill sorrise. Se conosceva bene quei due, in poco tempo sarebbero riusciti a tornare insieme. L’unica cosa di cui avrebbe potuto preoccuparsi, sarebbe stata la reazione di Tom, che non sempre era domabile in questi casi. Non sapeva cosa si fossero detti, per questo doveva prepararsi ad ogni evenienza.

Inge, intanto, sprofondò sul divano, ma non per molto. Con la coda dell’occhio notò la donna che la fissava intensamente. Si sentiva estremamente a disagio. Sembrava stesse ad una sorta di interrogatorio.

Di colpo si alzò – evitando, così, di tirarle un pugno in faccia – e si rivolse ad Alex.

“Alex, vuoi venire a cucinare?”

“Sì!” esclamò entusiasta il bambino, saltando giù dal divano e prendendo la mano che Inge gli offriva.

“Ma non è presto?” chiese la donna.

“No, abbiamo tante cose da fare.” Le rispose atona, senza considerarla più del dovuto.

“Avete bisogno di una mano?” continuò.

“No, abbiamo sempre fatto da soli.” E dopo quell’allusione, andò in cucina con Alex.

 

***

 

Posò la chitarra sul letto vicino a sé e si portò le mani sul viso.

Cazzo! Era tornata!

Perché questa sensazione? Ma soprattutto, cosa era questa sensazione? Si sentiva sollevato, ma allo stesso tempo frastornato. Felice, ma perplesso. Triste, ma soddisfatto.

Si buttò sul letto supino, le mani ancora sul viso.

Il metodo che Inge aveva usato per chiarire la situazione non era proprio classico. Non c’erano state le solite sfuriate, o le solite parlate che duravano ore, come nelle coppie normali. Tutto sommato, il suo, era stato un metodo più efficace. Aveva reso perfettamente l’idea.

Lei lo amava ancora.

Allora, non era arrabbiata.

Lasciò scivolare le mani sul materasso ed osservò il soffitto nudo sopra di sé.

Che avesse capito che per lui non era stato affatto facile avere avuto a che fare con tutto ciò che era successo? O forse, aveva solo visto Melanie come rivale e voleva riconquistarlo?

No, Inge non sarebbe arrivata a tanto. Lei era diversa dalle altre ragazze. Se avesse visto Melanie come una rivale, piuttosto le avrebbe sputato sul viso…

Non era da lei architettare tutto questo.

E allora?

Gli tornava difficile pensare che lei avesse capito, visto che quando era in camera sembrava esattamente il contrario.

Però, lo amava ancora. Nonostante tutto, l’amava ancora.

E lui?

 

***

 

L’ora di cena tardò ad arrivare, non tanto per la quantità di cibo cucinata, quanto per il tempo necessario per rendere il tavolo presentabile, visto tutta la roba che vi era appiccicata sopra, dopo che Inge e Alex avevano finito di cucinare.

La ragazza mandò Alex a chiamare tutti gli altri, mentre lei toglieva dal forno lo sformato di patate che avevano preparato e lo posava al centro del tavolo quasi pulito (ma ben apparecchiato), insieme ad almeno altre quattro pietanze.

In poco meno di dieci minuti, tutti si radunarono in cucina, pronti per sfamarsi, ma non certo per parlare.

L’aria che ognuno poteva sentire era pesante.

Fastidio, non curanza, imbarazzo, frustrazione, sollievo…

L’unica gioia che univa tutti i presenti era quel piccolo diavoletto che si divertiva a rubare le posate a Tom non appena lui si girava, per poi leccarle e rimetterle al loro posto.

Tutti sghignazzavano – Tom un po’ meno – ma quelle risate non erano ancora in grado di sovrastare quella nube di sentimenti che aleggiava sopra di loro.

Era impossibile non notare gli sguardi delusi e dispiaciuti tra Tom ed Inge.

E questo non passò inosservato a Melanie, che silenziosamente li stava scrutando. Non sapeva esattamente cosa fosse successo tra di loro, ma di una cosa era certa: tra Tom ed Inge le cose non erano perfette come volevano far credere.

Li guardò ancora una volta. Tom stava fissando Inge, ma quando lei alzò i suoi occhi su di lui, il ragazzo distolse lo sguardo come se fosse colpevole, mentre Inge lo imitava amareggiata.

Sorrise.

¤°.¸¸.·´¯`»  «´¯`·.¸¸.°¤

Continua...

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ATTENZIONE: I Tokio Hotel non mi appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera della loro personalità. No scopo di lucro.

***

Ok, lo so: sono in ritardo con l'aggiornamento, e anche di tanto... Ma come ho già detto, quest'anno sono messa piuttosto male con la scuola (possibile studiare così tanto senza notare progressi?? O_o) E poi c'è stato anche il fatto che ho frequentato la scuola guida per la teoria per la patente (che tra le altre cose ho passato!! Ora manca la pratica!XD), quindi questo periodo è stato abbastanza impegnativo.

Purtroppo, il tempo da dedicare alla scrittura era poco, e non sempre, quando avevo tempo libero, scrivevo, perché mi ero messa a leggere Breaking Dawn (potete biasimarmi??XD) ed altri libri per la scuola... Quindi il risultato di tutti questi mesi è questo capitolo, che non mi piace per niente per lo stesso motivo di quello precedente. Quando scrivo qualcosa, mi viene meglio se la scrivo tutta insieme, così sono sicura di non perdere il filo! Peccato che poi non mi riesca farlo... V_V

Spero che leggendo questo aggiornamento non vi faccia schifo il modo in cui sono stati legati i vari pezzi scritti in vari periodi diversi. ^^" Ho cercato comunque di mantenere una certa fluidità, ma non sempre credo di esserci riuscita.

Bene, dopo questo monologo infinito, passo ai ringraziamenti:

angeli neri: Sono davvero felice che ti appassioni così tanto questa storia!^^ Come vedi, alla fine Inge ha detto a Tom ciò che pensa, ma lui? Per lui sarà la stessa cosa? Chissà... Ha una tale confusione in testa che non lo sa nemmeno quel povero ragazzo.

martinaTH4e: Bè, conta che Bill vuole molto bene ad Inge, senza contare che la presenza di Melanie preavvisa per tutti ulteriori guai, quindi la reazione di Bill tutto sommato può essere capita. Comunque, ora che mi ci fai pensare, è vero: la sua reazione era degna di suo fratello..^^"

Antonellina: Contenta di questo 'colpo di scena' che c'è nel capitolo tra Inge e Tom? Spero di sì. =P Mi scuso anche con te per il mostruoso ritardo, ma come ho già detto (e come mi hai detto nella recensione), sai che sono piuttosto impegnata... X°D (Voglio andare alle Maldive per un mese interooooo!!!!!)

kit2007: Grazie!!! Sai, vero, quanto ti adoro??? ç__ç Eh, già, su msn non ci sono praticamente mai... (Ho visto che mi hai contattato l'altro giorno, ma avevo gente in casa e ho dovuto allontanarmi subito dal pc.) Comunque, bè, devo essere sincera: nemmeno a me piace Melanie, ma da una parte - sarà perchè l'ho creata io e so quale psicologia abbia questo personaggio - non riesco a farmela stare del tutto antipatica. Dopotutto, anche lei ha i suoi motivi per volersi riprendere Alex. E poi, una volta rivisto Tom, mi verrebbe da dire che è quasi ovvio che lei cerchi di 'riprenderselo', nonostante in fondo sappia che non è mai stato suo. ^^"

Ladysimple: Wow! Una nuova lettrice!XD Scusa per l'imperdonabile ritardo, spero comunque che continuerai a seguirmi!XD

rakith: Grazie per il telegramma! =P Mi fa tantissimo piacere che tu, nonostante non abbia tempo, mi lasci un commentino!!XD Spero che questo capitolo ti abbia ripagato per le sofferenze subìte.

pandina_kaulitz: Eheh, visto?? Chissà come procederà ora la situazione in casa Kaulitz...

vivihotel: Grazie! E non hai ancora visto (o meglio: letto) tutto! ^^ Nonostante non abbia ancora scritto i capitoli, ho una scaletta con tutto ciò che deve ancora accadere, quindi le idee non svaniranno!XD

Moony Magic: Grazie anche a te! Continua a seguirmi, che mi fa sempre piacere sapere che questa storia piace!XD

ladydarkprincess: Tranquilla per il ritardo, tanto non mi batterai mai... =P Ma certo che corre in macchina per tornare da loro! Per la via ha quasi messo sotto due vecchiette! =P (Scherzo!XD)

Bè, che dire di più? Ho già detto tutto prima... Mmm, credo che manchi solo un saluto per tutti voi! Ho visto che siete in molti a leggere questa ff, e spero che continuerete ad esserlo!^^

Ah, prima che mi dimentichi: irina_89@hotmail.it

Questo è il mio indirizzo di msn, per chiunque volesse contattarmi... purtroppo in questo periodo non ci sono mai, e qualcuno può pure confermare..=P, ma appena mi collego sarò felice di fare quattro chiacchiere con voi!XD

E poi, un'ultima cosa, visto che ormai è il 24 Dicembre, e visto anche che non penso proprio di riuscire ad aggiornare entro il 25, vi faccio gli auguri di Natale!XD

Buon Natale e felice Anno Nuovo!

Detto questo, vi saluto!

Un bacio e alla prossima (che non ho la più pallida idea di quando sarà...=P)!

Ps: come al solito, se lasciate dei commentini non mi offendo! E poi siamo a Natale, fatemi tanti regalini!!XD

_irina_

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Capitolo 11
*** Can’t Stand Her Anymore ***


Just a kid

Just a kid

 

Can’t Stand Her Anymore

Alex trotterellò verso la madre con il disegno di Inge colorato. Glielo sventolò davanti contento per il risultato ottenuto e la tirò per la maglia in modo da distogliere la sua attenzione dallo schermo ed essere considerato.

“Cosa c’è, Alex? Stavo guardando un film.” Chiese lei.

“Guarda!” e le porse il disegno.

La donna se lo rigirò tra le mani e cercò di capirne il senso, visto che i colori coprivano i lineamenti delle forme.

“Cosa è?”

“Un dinosauro!” sorrise il bambino.

“Bello, l’hai fatto tu?”

“No, Inge. Io l’ho solo colorato.”

“Ah. Però assomiglia più ad un cane che ad un dinosauro.” Commentò, storcendo il naso.

Inge sentì tutto, dalla prima all’ultima parola, cogliendo pure tutti i messaggi subliminali che la madre di Alex le mandava. Il primo tra tutti: vattene.

Incrociò le braccia al petto e si stravaccò ancora di più sul divano, fingendosi troppo concentrata a seguire il film, per ascoltare ciò che Melanie aveva detto.

Se solo avesse potuto buttarla fuori di casa con un calcio in culo…

La donna ridiede il foglio ad Alex e tornò a guardare il film, ma Inge non si fece scappare l’occhiata che Melanie lanciò a Tom, seduto tra le due. Il ragazzo sembrava impassibile, per niente toccato dalle sue parole. Che lo facesse apposta? O forse, semplicemente non gli importava più niente di lei…

A quel pensiero, Inge sentì una fitta al petto. Chiuse gli occhi e cercò di pensare ad altro. Magari il film avrebbe aiutato…

“Mamma,” la chiamò Alex, tornando da lei. La prese per la maglia e si arrampicò sul divano, per poi sedersi sulle sue gambe e guardarla dritta negli occhi. “Rimarrai in questa casa con me?” chiese innocente.

“No, credo che prima o poi noi due dovremmo andarcene.” Sorrise malinconica. “Sempre che Tom non voglia il contrario.” Aggiunse, guardando il ragazzo.

Inge si irrigidì, afferrando tra le mani la propria felpa. Lentamente girò la testa verso Tom e Melanie. Guardò il ragazzo – che per un attimo sembrò ricambiare lo sguardo – con occhi supplicanti.

Ma al contrario di quel che si aspettavano tutti, lui non rispose, continuando a fissare il grande schermo della sala con aria concentrata. Ma più che concentrato, sembrava… irrigidito.

“Ehi, Tom.” lo chiamò Melanie, posandogli una mano sul braccio.

Lui si girò verso di lei, fingendo di non aver sentito, ma Inge avrebbe giurato che, invece, Tom aveva sentito proprio tutto, dalla prima all’ultima parola. Ciò che, però, non riusciva a capire era la sua risposta. Cosa avrebbe risposto? Cioè, era ovvio che non poteva liquidarla con un ‘no’, ma l’idea che lui le permettesse di vivere con loro, le dava fastidio. E anche tanto.

“Mamma può rimanere qui con noi?” domandò Alex, innocente. Lui di certo non poteva capire la complessità della situazione e tutto ciò che si celava dietro ad ogni minimo gesto.

Fu una risposta immediata. Tom annuì e subito si voltò nuovamente verso lo schermo. Inge poté notare perfettamente i suoi lineamenti del viso contratti. Si domandò immediatamente se Melanie se ne fosse accorta, ma era convinta che se anche l’avesse visto così, avrebbe fatto come se niente fosse successo.

Inge guardò Tom nel buio della stanza, illuminata solo dalla luce proveniente dal grande plasma, e – nonostante lui non la degnasse di uno sguardo – capì che quell’assenso fu come una rassegnazione. Non era riuscito a negare al bambino la presenza della madre. Ma cosa avrebbe potuto fare, altrimenti? Il fatto che proprio Alex avesse formulato la domanda era stata sicuramente una fortuna per Melanie. Tom non era capace di negare qualcosa a quella piccola peste. O meglio: non era capace di negare qualcosa come la madre. Alex aveva bisogno di lei, era naturale, e proprio per questo la sua risposta fu istantanea.

Si dovette rassegnare pure lei. Non poteva certo chiedere che quella donna venisse buttata fuori di casa. Poi guardò Bill. In effetti lui l’avrebbe fatto volentieri, tirandole pure due calci dietro. A conferma di tutto questo, Inge vide il moro rannicchiato nella poltrona di pelle nera, accanto a lei, che fissava Melanie incessantemente chissà da quanto. Il suo sguardo truce era un chiaro segno di ostilità per quella donna.

Sebbene la situazione fosse quasi tragica, le venne da ridere nell’osservare come il cantante era attento a non perdersi alcun singolo movimento di Melanie. I suoi occhi la seguivano ogni volta che si girava per considerare il figlio, o quando guardava Tom, o quando guardava proprio lui, fissandolo torva, forse cercando di fargli capire che non lo sopportava più per il suo comportamento infantile nei suoi confronti. Ciò, però, che non sapeva, era che Bill, pur di mantenere la sua posizione – visto che era una delle persone più testarde mai esistite sulla faccia della Terra – non si faceva problemi a sembrare sfacciato ed sfrontato.

“Allora non si torna nella vecchia casa!” stava, intanto, dicendo Alex, felice, ancora seduto sulle gambe della madre.

Lei annuì, sorridendogli.

“E non si torna nemmeno più dall’uomo cattivo!” esclamò ancora più entusiasta.

L’uomo cattivo?

Ma Inge non fece in tempo a capire cosa significasse quell’appellativo, che Bill, arrogantemente, chiese spiegazioni, notando come si fosse irrigidita la donna.

“No, niente.” Farfugliò lei.

Risposta sbagliata. Canticchiò tra sé e sé, Inge. Melanie aveva appena dato pane per i denti del famelico Bill.

“È l’uomo che vive con mamma.” Spiegò, quindi, Alex. “È sempre arrabbiato e puzza!”

Inge e Bill si guardarono – e Tom accennò un’espressione interrogativa nel sentire quelle poche parole. C’era qualcosa che non tornava. E di sicuro era qualcosa che Melanie non voleva far sapere.

 

***

 

Alex lo stava fissando con aria rapita, proprio come ogni altra volta che lo osservava mentre suonava la chitarra. Ormai era diventata una cosa quotidiana: tutti i giorni dopo pranzo – quando i ragazzi erano a casa – Tom andava in camera sua per stare da solo. Immancabilmente, Alex lo raggiungeva. Entrava ormai senza più che Tom gli desse il permesso – che ovviamente non gli negava mai – e si sedeva di fronte a lui, osservando i rapidi movimenti delle mani sulle corde della chitarra.

“Voglio imparare a suonare la chitarra come te!” diceva ogni volta.

“Ma se è più grande di te!” gli rispondeva Tom, sorridendo.

La conversazione, però, quel giorno fu diversa. Prese una strada che Tom non si sarebbe mai aspettato. Una strada che Tom non avrebbe mai voluto.

“Sai, tu sei meglio dell’uomo cattivo.” Mormorò il bambino, senza staccare gli occhi dalle mani di Tom.

L’uomo cattivo. Ecco che ritorna. Sapeva solo che era il compagno di Melanie, ma il fatto che Alex lo considerasse cattivo, non era positivo.

“Sì?” fece il ragazzo, aprendo gli occhi per guardarlo. Voleva scoprire cosa ci fosse di così cattivo in quell’uomo. Per quel che ne sapeva, poteva immaginarsi ogni cosa.

“Sì.” Confermò Alex, guardando Tom negli occhi a sua volta e sorridendo. “Io voglio vivere con te per sempre!” esclamò.

Il chitarrista ridacchiò divertito per quell’affermazione. Chi mai si sarebbe immaginato che lui – Tom Kaulitz – potesse ricevere una richiesta così? Certo, ce n’erano molte di ragazze che glielo urlavano ogni volta che lo vedevano, ma sentirselo dire da un bambino faceva uno strano effetto. Soprattutto se a dirlo era quel bambino.

“Senti,” iniziò cauto. “Ma cosa faceva quest’uomo cattivo?” Se pensava inoltre che Melanie gliel’aveva tenuto nascosto, la cosa sembrava sempre più grave.

“Si arrabbia sempre.” Fece spallucce Alex, ill tono ovvio, come se fosse una cosa di routine. “Quando parlava con me, urlava!” esclamò poi. “Mi fa paura…” aggiunse in un sussurro.

Tom smise di suonare la chitarra e posò lo strumento sul letto, accanto a sé, potendo così appoggiare le mani alle ginocchia ed avvicinarsi ad Alex.

“Perché?” chiese dolcemente.

“Una volta mi ha pure spinto contro il tavolo della cucina.”

Tom sgranò gli occhi.

Cosa?

“Guarda!” si alzò e si avvicinò al ragazzo, tirandosi su un ciuffo di capelli biondi sul lato destro della fronte, svelando una piccola cicatrice.

Subito Tom ricordò la reazione del bambino, quando l’aveva abbracciato per la prima volta. Inizialmente, infatti, Alex si era allontanato impaurito, forse proprio perché temeva una reazione simile a quella di quell’uomo. Non ne era sicuro, forse era solo dovuto al fatto che il bambino era impaurito dal ragazzo per quel che gli aveva fatto, ma non riusciva a lasciar perdere quell’idea.

Qualcosa iniziò ad agitarsi dentro di Tom. Allungò una mano tremante e gli accarezzò quella piccola strisciolina bianca sulla fronte.

Come poteva un uomo fare una cosa del genere ad un bambino?

“Ti… ti ha fatto male?” chiese. Domanda ovvia, ma la prima che gli venne in mente.

“Non lo so. Ero piccolo e non ricordo.” Disse semplicemente Alex, alzando le spalle ancora una volta e guardando il ragazzo dritto negli occhi, quegli occhi così simili ai suoi.

Tom, prima di rendersene effettivamente conto, abbracciò il bambino, stringendolo forte al petto, e gli diede un bacio sulla fronte, proprio sulla piccola cicatrice.

Se c’era una cosa che non doveva assolutamente accadere, era che Alex tornasse con Melanie da quell’uomo.

 

***

 

“Davvero non ti ricordi di me?” chiese in un sussurro malinconico la donna seduta al fianco di Tom, concentrato sul film pur di non dover essere concentrato su di lei. “Di quella notte?”

Il ragazzo sapeva che non avrebbe dovuto accettare l’invito di guardare un film in sua compagnia, ora che erano soli in casa, visto che Inge si era fatta accompagnare da Bill – Cazzo! Fa di tutto per evitarmi! – allo studio per prendere un progetto che si era dimenticata.

“Sì.” Rispose atono. “Davvero.” Rincarò, prendendo il telecomando ed alzando il volume.

“Io, invece, ricordo tutto.” Mormorò lei, il tono abbastanza sostenuto per farsi sentire nonostante l’audio alto.

Si sentiva in colpa a detestarla, eppure non poteva farne a meno.

“Bene: d’ora in avanti cercherò di prendere delle pasticche di fosforo, allora…” borbottò, incurante del fatto che lei l’avesse sentito.

“Tom!” lo riprese lei, autoritaria. “Perché sei così scontroso verso di me? Sono la madre di tuo figlio!”

“E nient’altro.” Puntualizzò il ragazzo, senza distogliere gli occhi dallo schermo.

“Come nient’altro? Ma non ti rendi conto?” fece lei tra l’indignato ed il supplicante. “Noi abbiamo un figlio.”

“Sì che me ne rendo conto, Melanie.” E si girò verso di lei, inespressivo. “Certo, ormai non mi è più indifferente come all’inizio, ho imparato a conviverci e mi piace. Non so se saprei stare senza di lui, ora; ma questo è tutto.”

“Ma sei suo padre!” urlò sommessa, posando una mano tremante sulla gamba di Tom.

“Ti ricordo che, anche se sono suo padre, l’ho visto per la prima volta un mese fa. E lui ha quattro anni!” replicò a tono, il ragazzo.

“Ma è successo perché non sapevo dove andare…” farfugliò lei, gli occhi sempre più lucidi.

“E certo!” esclamò tom. “Vieni a cercarmi solo nel momento del bisogno. Per toglierti dai guai, no?”

“No…”

“E allora che vuoi da me? Soldi? Te li darò. Quelli non mi mancano. E d’ora in avanti non mancheranno nemmeno ad Alex, stai tranquilla.”

“No, ti sbagli! Non è questo quello che voglio!” urlò.

“Fai silenzio, Alex è sopra che dorme.” Commentò lui, girandosi a guardare il film, evitando così di considerarla più del dovuto.

“Non dovrei urlare, se tu abbassassi il volume!” replicò lei.

Tom abbassò l’audio ed incrociò le braccia al petto, stravaccandosi ancora di più sul divano, costringendo la donna a togliere la mano dalla sua gamba.

“Tom, non vuoi sapere cosa voglio?” chiese con voce più bassa e suadente.

Lui si voltò ancora verso di lei, guardandola dritto negli occhi. Poi, lei si alzò e si avvicinò maggiormente a lui, sbattendo gli occhi lentamente. Tom sentì nuovamente la sua mano sulla gamba ed ebbe la conferma di ciò che già da tempo pensava.

“Ah, no!” e le prese la mano con la sua per allontanarla da sé. “Questo no. Sto con Inge.”

“Ma tanto lo so che il vostro rapporto è in crisi!” obbiettò Melanie. “Vi ho sentito urlare l’altra sera, senza contare che non vi parlate praticamente mai!”

“Non mi importa, ma non provare ad avvicinarti.” La minacciò, indicandola con l’indice.

“E perché?” chiese con falsa innocenza la donna. Portò i piedi sul divano e gattonò verso di lui. “Non avrai mica paura di me…” sorrise maliziosa. “E poi pensa: saremo una famiglia felice. Tu, io ed Alex.” E si mise a cavalcioni sopra di Tom.

Lui l’afferrò per i fianchi e cercò di togliersela di dosso.

“Credo ti sfugga un particolare.” Mormorò nervoso il ragazzo. “In una famiglia ci deve essere anche amore. Non puoi mettere insieme tre persone e dire che sono una famiglia. Non c’è niente che ci lega!”

“Ma io ti amo, Tom!” lo supplicò lei, mettendo le mani intorno al suo collo e appoggiandosi con il petto a lui. “E poi c’è Alex che ci lega!”

“Sì, ma io non amo te.” Le rispose diretto. Avrebbe voluto prenderla di peso e buttarla a terra per liberarsi di lei, ma avrebbe rischiato di farle male, e non era nella sua natura maltrattare le donne. Si portò una mano dietro la nuca e cercò di slegare il noto di dita delle mani di Melanie.

“Come?” sussurrò, impallidendo. “E… e quando sei venuto a letto con me?”

“Era un dopo-concerto, Melanie!” rispose esasperato, togliendo pure l’altra mano dalla vita della donna per liberarsi da quella sorta di abbraccio forzato. “Cosa vuoi che me ne importasse della ragazza con cui andavo?”

“Vuol dire che non hai mai provato niente per me?” la sua espressione era sconvolta.

“Esattamente.”

“Ma io -” si interruppe prima di continuare la frase. Tom non la stava più tenendo lontana con le mani, quindi si avvicinò a lui, arrivando ad un soffio dalle labbra del ragazzo.

Proprio in quel momento la porta di casa si aprì ed Inge e Bill entrarono, guardando verso la sala perché attirati dalla luce dello schermo. Subito tutti i presenti si irrigidirono.

Tom si girò lentamente. Poté vedere gli occhi di Bill iniziare a lanciare fiamme rivolte a quella donna che ancora stava sopra di Tom. Poi, guardò Inge, che stranamente non aveva sfoderato il suo sguardo assassino, al contrario: era ferma, immobile anche lei. Nessuna traccia di una qualsiasi espressione sul suo viso. Solo dopo qualche attimo i suoi occhi iniziarono a farsi lucidi. Li serrò immediatamente e si sfregò con violenza una mano sul viso, iniziando a correre verso il piano superiore.

Tom si voltò di nuovo verso Melanie.

Che puttana.

Le afferrò le braccia e con uno strattone – questa volta incurante del fatto che avrebbe potuto farle male – si liberò dalla sua stretta. Si alzò si scatto, facendola cadere a terra e corse anche lui al piano di sopra.

L’unica porta che trovò chiusa era la sua. Inge era proprio là dentro, come quando ancora tutto andava bene.

Si avvicinò alla porta e bussò.

“Posso entrare?”

“No.” rispose schietta lei. La sua voce era flebile, come se stesse piangendo.

“Perché?” chiese, cercando di mantenere una voce calma e dolce.

“Perché voglio stare da sola.”

“E se volessi venire a dormire?” fece  lui, incrociando le braccia al petto. Dopotutto, quella era camera sua.

“Vai sul divano.” Rispose lei.

“Ma quella è camera mia!” si impuntò. Nonostante bastasse girare la maniglia per aprire, rimase fermo, aspettando una sua risposta.

Nostra.” Precisò lei.

“Un tempo, forse.” Precisò lui a sua volta. “Io lì ci dormo.”

“E che palle, entra, allora!” e lanciò qualcosa contro la porta. Tom sorrise trionfante ed entrò, raccogliendo il cuscino che lei aveva tirato. Alzò, poi, la testa verso il letto e la trovò rannicchiata lì sopra, la schiena contro il muro, le gambe al petto e un cuscino tra le mani, dove nascondeva il viso.

“Sei arrabbiata con me?” chiese, chiudendosi la porta alle spalle ed avvicinandosi al letto.

“No.” rispose lei, senza alzare il viso dal cuscino.

“Sicura?” e si sedette accanto a lei.

“No.” Ripeté in un sussurro flebile.

“Perché?”

“E c’è da chiederlo?” urlò sommessa lei, alzando di scatto la testa per guardarlo con aria furente negli occhi lucidi.

“No, hai ragione.” Ammise Tom, abbassando lo sguardo. “Sappi solo che è stata lei a fare tutto. Io non c’entro niente.”

Lei tornò nella sua posizione a riccio e lasciò passare qualche secondo prima di rispondere.

“Lo so.”

“E se lo sai, perché fai così?”

“Perché non è questo il motivo.” Spiegò lei, senza però dargli indizi sufficienti per capire cosa volesse dire realmente.

“E quale sarebbe, allora?” chiese lui, leggermente irritato.

“Lo sai.”

Lui si alzò sbuffando e si spogliò, per poi sdraiarsi sul letto, dandole la schiena.

Inge rimase a guardarlo con la coda dell’occhio. Era davvero bello. Per tutto questo tempo non si era dimenticata di tutto ciò che c’era stato tra di loro, ma da come si erano evolute le cose, pareva proprio che per Tom la questione fosse diversa. Sembrava che lui non si ricordasse più niente di loro.

Lasciò i suoi occhi indugiare sulla schiena del ragazzo, ricordandosi di quante volte lui le aveva voltato le spalle, ma mai per più di qualche minuto, perché subito lei lo abbracciava da dietro e lui si girava per baciarla.

Chiuse gli occhi, maledicendosi. Perché diavolo stava pensando a tutte queste cose? Tanto ormai era tutto finito, e se ancora la loro storia non era giunta al termine, grazie a Melanie ci sarebbe arrivata molto presto.

“Non sopporto più quella donna…” disse, quindi, quasi senza accorgersene. Aveva gli occhi rossi. E il naso le pizzicava da morire. Aveva voglia di piangere, ma si stava trattenendo. Non voleva piangere. Non per ciò che faceva quella donna! Ma sembrava proprio che lei non volesse altro che farla sentire uno schifo. Era palese che ci stava provando con Tom, e quella sera ne era stata la perfetta conferma.

La questione era se c’era da preoccuparsi o meno. Il rapporto tra loro due era in crisi, era innegabile. Ma non era vero che lei non l’amava più. Lei lo amava, anche questo era innegabile. Gliel’aveva detto e dimostrato. L’unico ostacolo invalicabile era lui.

Questi sentimenti la logoravano. Avrebbe sul serio voluto stringersi a lui e tornare come prima, ma la paura della sua reazione la fermava ancor prima che fosse sinceramente convinta di ciò che voleva.

Tornò a guardarlo ancora un po’, ma subito si costrinse a tornare con gli occhi nascosti dal cuscino.

“Nemmeno io,” disse il ragazzo, dopo aver lasciato passare del tempo. “Ma non posso buttarla fuori di casa.” Aggiunse, consapevole della fragilità della situazione.

“Posso farlo io, se vuoi.” Commentò ironica Inge, sbuffando, il viso ancora nascosto.

Tom si alzò lentamente, appoggiandosi su un gomito, e si girò verso di lei. La guardò stupito ed alzò un sopracciglio scettico. Sapeva troppo bene quanto Inge fosse davvero capace di farlo, ma sapeva anche che lei non l’avrebbe mai fatto a causa di Alex.

Inge si accorse di essere osservata e timidamente guardò nella direzione del ragazzo con la coda dell’occhio.

“Che c’è?” farfugliò.

Lui le sorrise, mostrandole proprio quel sorriso che più di tutti lei adorava. Il sorriso sghembo e malizioso.

“Niente,” rispose Tom, “Mi stupivo per il fatto che sei sempre la solita.”

Doveva essere un complimento, o un’accusa? Doveva essere cambiata per ciò che era successo?

Si odiò per i caotici pensieri che le vorticavano instancabilmente in testa. Lei non era mai stato il tipo da farsi tali problemi per ogni cosa.

Riflettendoci, però, era cambiata. Un tempo nemmeno pensava a certe cose, quando voleva abbracciarlo, baciarlo, o semplicemente parlargli, rispondergli a tono, fronteggiarlo… Ora, invece, le sembrava di affogare in un mare di possibili reazioni da parte sua. Come avrebbe reagito se ora si fosse avvicinata a lui per farsi abbracciare? Come avrebbe reagito se avesse iniziato a imprecare verso quella donna? Come avrebbe reagito se gli avesse tirato un cuscino per evitare che lui la fissasse ancora in quel modo?

Basta. Non voleva più pensarci. Più ci pensava più le pizzicava il naso – come se non le pizzicasse già abbastanza…

Nascose nuovamente la testa nel cuscino che teneva ancora sulle ginocchia.

“Allora voglio vendicarmi.” Disse in un sibilo soffocato. Se proprio non poteva sfidarla apertamente, sarebbe ricorsa ad armi più subdole. Ormai non le importava più.

“E come?” chiese Tom, leggermente incuriosito. Quando Inge si metteva in testa qualcosa, sapeva per esperienza che era difficile farle cambiare idea, e questa volta era decisamente determinata. Sorrise divertito per l’atteggiamento deciso che aveva mostrato la ragazza.

Lei alzò per l’ennesima volta il viso verso di lui, domandandosi se lui notasse i suoi occhi rossi per le lacrime troppo orgogliose per osare scivolare sulle sue guance.

“Con il tuo aiuto.”

 

***

 

“Diciamo che è una tregua temporanea.” Specificò lei. Sarebbe stato troppo da parte sua pretendere che dopo l’attuazione del piano, tutto fosse tornato come prima. Certo, avrebbero collaborato, ma solo per una sera. Niente di più.

E proprio per questo, guardò di sfuggita l’ora luminosa della sveglia digitale sul comodino. Era tardi e quella non era più la sua stanza. Si alzò, quindi, per andare nella sua camera. Mentre camminava verso la porta, si accorse di avere ancora il cuscino stretto tra le braccia – l’alternativa dell’abbraccio di cui aveva bisogno.

“Ah, questo è tuo.” Mormorò, allungando un braccio per passarglielo.

Tom lo guardò facendo una smorfia molto eloquente.

“No, tienilo tu.” Disse. “Sarà sporco della tua bava e quant’altro…” commentò, sdraiandosi nuovamente sul letto a torso nudo. Un sorriso gli apparve sulle labbra senza che lui se ne accorgesse.

A quelle parole, Inge ridusse gli occhi a due fessure e decise di osare ciò che avrebbe fatto in un qualunque altro momento, senza pensare alle possibili e infinite reazioni. Caricò il braccio e tirò il cuscino addosso al ragazzo, colpendolo sul petto, per poi uscire dalla stanza a grandi passi.

Chiuse la porta alle sue spalle e andò in camera sua.

Anche lei sorrise inconsciamente.

¤°.¸¸.·´¯`»  «´¯`·.¸¸.°¤

Continua...

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ATTENZIONE: I Tokio Hotel non mi appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera della loro personalità. No scopo di lucro.

***

Wow! Anche questa volta sono riuscita ad aggiornare! Chissà per quanto ancora riuscirò a farlo! =P (Spero almeno fino alla fine della storia... ^^)

Ok, che dire? La storia sta andando sempre più verso la fine, ovviamente, e man mano che ci avviciniamo, le cose si faranno sempre più complesse e - come dire? - rapide? Boh, forse... Sta di fatto che in questi altri capitoli, ne potrete vedere delle belle, a partire già dal prossimo!XD

Passo quindi ai ringraziamenti, ma purtroppo dovrò essere molto veloce per motivi di tempi.

Un grazie a: layla the punkprincess, angeli neri (Accidenti che ragionamento che mi hai lasciato! Grazie, l'ho apprezzato davvero tanto!^^), kit2007 (La mitica ed immancabile! Proprio come ad ogni capitolo, sempre pronta per lasciarmi un meraviglioso commento!^^ Concordo su tutto ciò che hai detto, e - per quanto riguarda Bill - bè, un po' mi dispiace che sia così trascurato dalla sottoscritta nella stesura della storia, ma deve provare ad essere messo in secondo piano per qualche capitolo... anche se per lui sarà difficile!=P), Antonellina (Grazie anche a te per il commento! Appoggio la tua risposta sulle Maldive... V_V In pieno!! xD), Ladysimple e BigAngel_Dark.

Grazie anche a tutti coloro che hanno solo letto, e ovviamente coloro che hanno aggiunto la storia tra i preferiti, visto che era da un po' che non li ringraziavo!^^

Ora devo scappare, innanzitutto a mangiare, e poi a dormire, che ho qualche ora di sonno arretrata. =P

Ps: come al solito ricordo che il link per lasciare commenti è attivo e che io li apprezzo molto... XD

Un bacio!

_irina_

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Capitolo 12
*** Revenge Is A Dish Best Served Cold ***


Just a kid

Just a kid

 

Revenge Is A Dish Best Served Cold

“Ehi, Alex!” lo chiamò eccitato Bill. Era tanto che non sorrideva divertito e soddisfatto, con la sua solita aria infantile ed innocente.

Il bambino lo guardò, smettendo di giocare con i suoi supereroi.

“Che ne dici se andiamo a cena a casa di Gustav con Georg?” propose il moro.

“Sì!” accettò Alex, posando i suoi personaggi sul divano e saltando addosso al ragazzo. “Quando ci andiamo?”

“Bè, sono le otto, che ne dici se andiamo a prepararci?” gli sorrise. “Se vuoi ti aiuto a farti bello.” ridacchiò.

Il bambino annuì.

“Però, non devi farmi le codine, va bene?” si raccomandò la piccola peste, indicandolo con l’indice come per brontolarlo. “Non voglio diventare una femmina!”

“Ok, tranquillo.” E lo fece scendere, per poi offrirgli una mano che il bambino afferrò senza farselo ripetere. “Però, prima, dobbiamo chiedere il permesso alla mamma.”

Alex, allora, lasciò la mano del cantante e raggiunse la madre, che aveva assistito a tutta la scena.

“Mamma!” la chiamò lui, tirandola per una maglia per avere la sua completa attenzione. “Posso andare con Bill?”

La donna chiuse la rivista che stava fingendo di leggere, e fissò il moro sospetta. Lui la guardò sostenendo lo sguardo. Doveva solo provarci a dire di no. Le avrebbe reso quei pochi giorni che le restavano in quella casa, impossibili!

Melanie tornò a guardare il figlio, che la fissava con occhi lucidi e supplicanti.

“D’accordo.” Sospirò rassegnata. “Ma non fate troppo tardi.”

“Veramente, io avevo intenzione di rimanerci pure a dormire…” commentò Bill, come se fosse stata una cosa scontata.

“Ah.”

“Dai, mamma!” la supplicò ancora Alex. “Farò il bravo!”

Bill sorrise soddisfatto e leggermente maligno. Nemmeno sua madre poteva resistere a quello sguardo.

“Va bene.” Sospirò di nuovo. Poi si voltò verso Bill, che sorrise innocente, e lo fulminò con lo sguardo.

Alex saltò per il salotto e tornò dal ragazzo, che lo prese in braccio. Salutarono Melanie e salirono al piano superiore per prepararsi.

 

***

 

“Ciao!” salutò Alex con il sorriso sulle labbra.

“Ciao!” lo salutarono Tom ed Inge, seduti agli estremi opposti del divano, mente Melanie si limitò ad un cenno della mano, fissando i due ragazzi dalla poltrona di pelle nera a loro vicina.

La porta si chiuse e il silenzio cadde tra le tre persone rimaste nella sala.

“Perché non siete andati anche voi?” chiese, dopo un po’, Melanie.

“Perché io devo finire un progetto che mi hanno assegnato in ufficio.” Spiegò tranquilla Inge. “E Tom mi deve aiutare.” Si affrettò ad aggiungere.

Tom non mancò dallo sbuffare.

“E allora perché siete ancora qui a non fare niente?” domandò sospetta la donna, accavallando le gambe e senza staccare gli occhi da loro. Occhi decisamente poco amichevoli.

“Hai ragione. Ora dobbiamo andare.” Rispose lei, alzandosi. “Tom, muoviti.”

“Guarda che non sono il tuo cane.” Disse il ragazzo, seguendola suo malgrado.

“E non mangiate?” domandò Melanie, alzandosi a sua volta.

“Giusto.” Fece Inge. “Tom, vai a prendere qualcosa nel frigo, mangeremo in camera.”

“E il biscottino, dopo, me lo dai?” ribatté sarcastico il rasta, infilandosi le mani in tasca e dirigendosi verso la cucina per eseguire l’ordine.

Lei lo guardò maliziosa ed ironica, sottolineando il suo stato d’animo al riguardo. Le cose tra loro non erano ancora tornate come un tempo – e chissà se mai ci sarebbero tornate – ed era quindi inevitabile mettere sul piano sarcastico ogni riferimento sessuale tra di loro.

“Ah, Melanie.” Si girò improvvisamente Inge. “Se vuoi puoi usare la mia stanza per dormire. Sai, credo sia leggermente meglio del divano.” Le sorrise. Un sorriso così falso, che paradossalmente avrebbe potuto parere sincero.

“Oh, grazie!” sorrise di rimando la donna. “Ma scusa,” fece dopo, assumendo un’espressione sospettosa. “Tu dove dormi?”

Inge ridacchiò, fingendosi imbarazzata.

“Da Tom.” rispose semplicemente.

“Da Tom?” ripeté sorpresa, sgranando gli occhi.

“Bè, che c’è?” si fece superiore Inge. “Dopotutto stiamo insieme, no?”

“Sì, ma…” iniziò Melanie, palesemente contrariata. “Ma comunque non importa. Posso benissimo dormire ancora sul divano.” Sorrise forzata. “C’ho passato così tanto tempo che ormai non mi dà più fastidio.”

Inge sorrise a sua volta, la soddisfazione le si leggeva sul volto.

“Ma no! Sei troppo modesta.” Le rispose. “Vai in camera mia. Ho anche già tolto tutta la mia roba, in modo che tu possa stare più comoda.”

Melanie guardò il pavimento, mordendosi il labbro inferiore. Le sue mani si stavano torcendo dalla rabbia che voleva sopprimere. Per un momento, Inge si domandò se fosse possibile che quella donna si avventasse su di lei con istinti omicidi. Tuttavia, indipendentemente dal fatto che lo facesse o meno, la volontà c’era tutta.

“Ok, grazie…” mormorò, tra la rabbia e la rassegnazione.

Perfetto. La prima battaglia l’aveva vinta Inge.

La ragazza sorrise soddisfatta all’idea ed aspettò che Tom tornasse dalla cucina. Poi, insieme salirono le scale senza toccarsi e a distanza di cinque scalini l’uno dall’altro.

 

***

 

Inge si girò, dando le spalle a Tom. Si strinse nella maglietta che gli aveva rubato – come sempre – per dormire e serrò gli occhi.

Erano in silenzio da almeno un quarto d’ora. Sperava che questa volta – con la scusa della vendetta – lui provasse a parlare, tanto per chiarirsi una volta per tutte, ma sembrava proprio che lui non ne avesse la benché minima intenzione.

Iniziava a sentirsi rassegnata.

Non solo aveva fatto la prima mossa per provare a sistemare il loro rapporto, ma si era spinta anche più di quel che avrebbe mai fatto.

Cazzo! Lui la conosceva! Possibile che non capisse quanto le era costato baciarlo, dopo tutto ciò che era successo? Lui sapeva quanto orgogliosa fosse! E allora perché non arrivava a capire che lei, pur di chiarirsi con lui, aveva pestato il suo maledetto orgoglio e gli aveva detto ciò che lui era ancora per lei?

Lei lo amava.

Con lui, lei aveva trovato un posto tutto suo. Si era sentita a casa. Aveva trovato un ragazzo meraviglioso – infantile, certe volte, ma meraviglioso in quanto persona.

Tom riusciva a farla piangere e sorridere. A farla sentire serena e a farla incazzare – proprio come ora. E, soprattutto questo ultimo intento, ci riusciva sempre alla perfezione.

Sembrava lo facesse apposta! Non era possibile che dopo tutto quel tempo passato insieme, lui ancora non capisse i suoi sentimenti.

Tra loro le cose non si potevano definire normali, ma proprio per questo il loro amore era unico. Loro riuscivano ad amarsi, odiandosi. Era una situazione assurda, ma stupenda.

Loro erano uguali. Entrambi orgogliosi e – dovette ammetterlo – entrambi eterni bambini.

Una sorta di Peter Pan. Ma lei aveva provato ad evadere dall’Isola Che Non C’è. Aveva provato a superare quell’atteggiamento puerile per crescere. Ma Tom, il Peter Pan per eccellenza, sembrava proprio ostinato a non voler crescere.

Ciò che era successo tra di loro, quella scoperta che lei nemmeno si sarebbe aspettata di fare, le loro reazioni… erano tutti componenti micidiali, capaci di mettere fine ad un rapporto tra due persone. Nonostante questo, lei stava cercando di evitare questo triste destino.

Era questo il momento di abbandonare l’Isola Che Non C’è per diventare adulti.

Certo, lei si era comportata male con lui. L’aveva accusato pesantemente. Non era stata in grado di comprenderlo.

Ma ora aveva capito: anche lui aveva sofferto. Nemmeno per Tom doveva essere stato facile accettare tutto questo, soprattutto in quanto diretto interessato dell’intera faccenda. Più che lei, era lui che aveva visto la sua vita stravolgersi. E lei l’aveva solamente attaccato.

Però, ora stava cercando di riparare i pezzi rotti. Stava cercando di riparare le crepe che si erano create tra loro.

Purtroppo, era lui che invece ne stava creando di nuove, rendendo vano ogni suo tentativo al riguardo.

Non riusciva nemmeno più a sentirsi incazzata con lui. Si sentiva, invece, rassegnata.

Lei aveva fatto tutto il possibile per farglielo capire. E non era possibile negarlo. Questo doveva averlo capito pure lui.

Ora stava a Tom fare il secondo passo.

Il terzo, l’avrebbero fatto insieme.

 

***

 

La sentì dargli le spalle.

Lui fece altrettanto, distogliendo lo sguardo dall’attraente soffitto bianco sopra di lui.

Perché diamine aveva accettato questa cazzata?

E poi – doveva proprio dirlo – era una vendetta del cazzo. Assurda e molto probabilmente anche inconcludente. Cosa avrebbero guadagnato dal far morire la madre di Alex di gelosia?

Però, aveva accettato. Si meravigliava per averle concesso di mettere in atto tutto questo.

Sospirò impercettibilmente. Ci sarebbe mancato che lui avesse espresso il suo parere al riguardo. Come minimo lei gli sarebbe saltata addosso e iniziato a prenderlo a botte.

A quel pensiero, subito ne seguì un altro per niente richiesto.

Si ricordò di quando litigavano. Gli oggetti volavano, si punzecchiavano con battute – certe volte anche pesanti – e le botte non mancavano. Era sempre lei ad arrivare alle mani per prima, salendo sopra di lui, ma non faceva mai sul serio. Scherzava. E puntualmente, ogni volta, lui l’abbracciava e la faceva rotolare sul letto, torreggiando su di lei soddisfatto.

Così finivano tutte le loro liti. Prima passavano momenti in cui non si parlavano e non si guardavano. Ma alla fine scoppiavano e tornavano come prima.

Un rapporto decisamente strano e movimentato. Ma gli piaceva. Non tanto perché era masochista, quanto perché si divertiva con lei. Con lei, lui si sentiva normale. Non un Dio sceso sulla terra.

Questa volta, però, era diverso. Anche se avevano ripreso a parlare, non c’era entusiasmo tra di loro. Le parole che si scambiavano, erano atone, prive di quel sentimento profondo che li aveva uniti – in tutti i sensi.

O almeno, le proprie parole lo erano.

Quelle di Inge spesso contenevano note di tristezza, rassegnazione.

Era strano – e ancora più strano era il fatto che lui si stava facendo delle seghe mentali al riguardo –, ma non gli piaceva sentire quelle note. Stonavano.

Era anche vero, però, che non aveva la più pallida idea di cosa fare. Prima si era incazzata e se n’era andata di casa. Poi era tornata e l’aveva baciato.

Ora sembrava ancora malinconicamente incazzata.

Non capiva più niente. Un tempo Inge non era così complicata. Era come lui. Le emozioni le si potevano leggere sul viso, proprio come ai bambini.

Evidentemente questa situazione aveva cambiato tutti. Anche lui si trovava diverso. Ma era ovvio, no? Aveva scoperto che aveva un bambino. Un bambino che per di più era andato a vivere in casa sua.

Certo, aveva fatto una grandissima cazzata a non dire niente ad Inge. L’aveva capito. Di sicuro le aveva dimostrato quanto non fosse degno di fiducia.

Era ovvio che lei si fosse incazzata.

Si sentiva in dovere di fare qualcosa, ma non sapeva esattamente perché. Dopo tutto quel tempo passato insieme, possibile che lei non avesse capito la ragione della sua cazzata? Perché era una cazzata, ma aveva un motivo.

Quando l’aveva baciato, quasi avrebbe voluto abbracciarla e baciarla con la stessa passione di un tempo. Le era mancata. Ma i suoi muscoli non avevano nemmeno sentito quella piccola scarica elettrica provocata da quella misera forza di volontà.

Non aveva fatto niente. E forse era stato un bene. Ma sentiva che da un lato, aveva fatto l’ennesima cazzata.

E ora si sentiva perso. Non capiva più cosa avrebbe dovuto fare. La sensazione di mettere fine alla sua storia con lei era sempre lì. Flebilmente accesa, ma lì.

Non riusciva a togliersi dalla testa l’idea che se non si erano capiti in una situazione così delicata, forse era meglio che tra loro non ci fosse più niente. O almeno, non ci fosse più ciò che c’era stato prima.

Avrebbero potuto rimanere amici, ma già sapeva che lei gli avrebbe tirato qualcosa, perché era questo che le altre donne facevano con lui. Loro non amavano sentirsi dire la parola amicizia dopo che lui le aveva lasciate.

Ma era altrettanto vero che Inge non era come le altre. Lei era diversa.

Era per questo che l’aveva amata.

Ed era per questo che…

La porta di fronte alla loro sbatté rumorosamente, proprio come Inge aveva previsto.

“È ora.”

La ragazza si rigirò verso di lui, supina, lasciando che Tom prendesse posizione sopra di lei, reggendosi con le mani sul materasso e le braccia tese per lasciare distanza tra di loro.

“Dimmi quando iniziare.” Mormorò Tom.

Oh, sì! Tom!” gridò lei, fingendo piacere, gli occhi serrati e la testa tirata indietro.

“Ma che cazzo urli, se non ho ancora fatto niente?” urlò sommesso il ragazzo.

“È questo il punto, idiota.” Lo guardò irritata. “Sì! Sì!” e tirò di nuovo la testa indietro.

“Potevi avvertirmi…” commentò lui, sbuffando. “Ah!” ed iniziò a muoversi, flettendo le braccia, per emulare il rumore del letto soggetto ad una notte di passione.

“Guarda che non è necessario fare tutto questo casino.” Lo riprese lei. “Ah! Tom! Ancora!

“Non sarebbe credibile, fidati: sono un esperto – Inge! – E poi regolati. Non hai mai fatto questi gridolini.”

Lei lo colpì con una mano sul braccio.

“Ma sei scema?” fece Tom, guardandola truce.

“Fottiti.” Ringhiò lei. “E poi, nemmeno tu hai mai fatto così.”

“Cosa?”

“Sì, quindi cerca di essere più convincente – Sì!

“Senti chi parla… - Ah! Continua!

Inge incrociò le braccia al petto e guardò Tom riducendo gli occhi a due fessure.

“Tom. Sì.” Fece con tono piatto.

“Perfetto, così non si sente che stai fingendo.” commentò sarcastico. “Ah!

“Cretino – Tom!

“Ehi, senti. Sono alla trentesima flessione. Non ti conviene criticare tanto, capito? – Vai! Inge!

“Mica ti ho chiesto io di farle.”

“Infatti io le facevo per far reggere questa stupida messinscena.”

“Perfetto.” Fece lei. “Allora facciamola finita con questa stupida messinscena. Tanto non credo si arrivi da qualche parte così.” E posò le sua mani sul petto nudo del ragazzo per allontanarlo da sé e rigirarsi verso il suo lato del letto. Si appallottolò con il cuscino tra le braccia e gli diede la schiena.

Non c’era proprio verso di tornare ad avere un rapporto come prima.

C’era qualcosa che si stava pian piano distruggendo sempre più.

Una distruzione lenta e dolorosa.

Anche Tom se ne rese conto. E non poteva sopportarlo.

Era impazzito per lei, prima di riuscire a farla sua.

L’aveva amata con tutto se stesso. E continuava ad amarla.

Voleva sul serio lasciare tutto così? Voleva sul serio che la situazione continuasse a peggiorare senza fare niente? Voleva veramente tutto questo?

Voleva veramente lasciarla?

No. Proprio per questo ora doveva fare tutto il possibile per rifarla sua.

Sapeva che tra loro due le cose non sarebbero mai state rosa e fiori. Avevano caratteri troppo simili. Era ovvio che si scontrassero.

Era arrivato il momento di mettere da parte quel cazzo di orgoglio. Ok, lei non l’aveva capito? Bene, lui le avrebbe spiegato il motivo.

“Ehi, Inge…” la chiamò dolcemente, posando una mano sulla spalla della ragazza.

“Che cazzo vuoi?” fece lei, allontanandosi dal suo tocco.

Tom ritrasse la mano.

“Parlare.” Rispose.

“E certo!” urlò lei. Al diavolo quella cazzo di messinscena! “Solo quando pare a te, però! Mi sembra giusto! Invece, quando te lo chiedo io, di chiarire, sei sempre pronto a rispondermi a culo!”

“Scusa.” Mormorò mesto il ragazzo, sentendosi totalmente in colpa. Aveva appena capito ciò che voleva – certo, un po’ in ritardo per credere che tutto si potesse sistemato in poco tempo, ma non per questo era meno determinato – e già sentiva addosso il greve peso della colpa. Per tutto questo tempo non aveva fatto niente. Si sentiva uno schifo.

“Non me ne faccio niente delle tue scuse.” Ringhiò, cercando di nascondere una piccola nota tremante nella sua voce. “Io volevo essere ascoltata.”

“Ti ascolto ora e -”

“Non mi importa se mi ascolti ora!” lo interruppe, lasciando che poi il silenzio regnasse su di loro. Ma subito si pentì di quelle parole. Perché diavolo gli aveva risposto così?

Finalmente, lui stava cercando di trovare un modo per superare questa situazione, o almeno per affrontarla.

Certo, Tom si era dimostrato un vero pezzo di merda, ma ora…!

Si sarebbe data due schiaffi sul viso molto volentieri, ma preferì parlare.

“Scusa…” sussurrò.

“Ti sei sfogata?” chiese lui, una punta di ironia nella voce per cercare di alleggerire la pesante atmosfera che si era creata.

“Un po’.” Ammise.

“Vuoi parlare?” e si avvicinò a lei, stendendosi sul letto dietro la ragazza. Posò una mano sul suo braccio e l’accarezzò dolcemente come avrebbe fatto ogni altra volta.

Lei annuì, deglutendo. Le pizzicava il naso, ma non aveva la benché minima voglia di scoppiare a piangere proprio ora.

“Sei arrabbiata con me perché non ti ho detto di avere un figlio?” chiese, quindi, Tom.

“Diciamo di sì.” Fece lei, cercando di mantenere un tono sicuro.

Lui non rispose. Per quanto stupido potesse sembrargli, non riusciva a trovare parole adatte per spiegargli il motivo.

“Perché non me l’hai detto, Tom?” chiese lei. La voce sembrava non ubbidirle più. Si era fatta flebile e il tono sembrava quello di una supplica.

“Avevo paura.” Confessò lui.

“Paura?” ripeté Inge, girandosi verso di lui per poterlo guardare negli occhi.

“Sì.”

“E di cosa, scusa?” Nessuno avrebbe mai potuto sapere quanto le fossero mancati quei momenti in cui poteva perdersi nel suo sguardo.

“Di perderti.” Mormorò quasi impercettibilmente.

Subito abbassò lo sguardo, sembrava imbarazzato. Era la prima volta che lei lo vedeva così. Il massimo imbarazzo che provava era quando lei lo osservava dormire, ma lui si limitava a mandarla in culo e a voltarsi. Questa volta, invece, era un imbarazzo molto più sincero.

“Perdermi?” ripeté la ragazza. Era spiazzata e le venne paradossalmente quasi da ridere. Si sarebbe aspettata di tutto – paura di subire le sue urla, paura di morire massacrato, o in alternativa investito da lei in macchina – ma mai aveva pensato che lui avesse paura di perderla.

Non che stesse minimizzando tutto ciò, semplicemente trovava questa sua risposta una conferma dei suoi sentimenti.

Aveva finalmente capito che anche lui l’amava ancora.

“Sì,” cercò di spiegarsi lui, alzando di nuovo lo sguardo su di lei. Quasi avrebbe pensato che, dopo aver sentito quelle parole, si fosse messa a ridere. Non era da lui pronunciare parole talmente sincere e delicate. No, assolutamente.

“Se io ti avessi detto che Alex era mio figlio, tu ti saresti comunque arrabbiata. Ti saresti allontanata.” Continuò il ragazzo, fissando Inge negli occhi.

“Non è vero.” Tentò di obbiettare lei.

Lui alzò un sopracciglio saccente.

“Ok. Sì, forse hai ragione.” Sospirò la ragazza.

“Ecco perché non te l’ho detto.”

Inge distolse lo sguardo da Tom. In fondo era anche colpa sua. Era vero: anche se l’avesse saputo dall’inizio la situazione non sarebbe stata molto diversa. Forse, l’unica differenza sarebbe stata che non avrebbe lasciato casa.

Il naso pizzicava ancora.

“Mi dispiace.” E una lacrima solitaria scese lungo il suo viso. Subito l’asciugò e cercò di respirare profondamente per evitare di piangere come avrebbero fatto tutte le altre donne nella sua situazione.

“Tranquilla.” Cercò di consolarla lui, vedendo che malgrado i suoi tentativi di tamponare le lacrime con la sua maglietta, queste non accennavano a cessare di rigarle il viso. Lei sembrava incazzarsi per questo, perché mugolava irritata e si copriva gli occhi per non essere vista.

Tom soffiò una mezza risata. Era proprio la Inge che amava.

“No, non sto tranquilla.” Fece lei, con voce nasale. “Sono stata una stupida. L’ho capito che per te, questo periodo non è stato facile.” Gli occhi chiusi continuavano a versare sempre più lacrime. “Però, non sono riuscita a capirlo subito. È colpa mia se siamo arrivati a questo punto.”

Fu più forte di lui. Non ce la faceva più a starle così vicino, ma allo stesso tempo, così lontano. Gli mancava il calore del suo corpo contro il suo. Gli mancava di sentirla contro il suo petto. Per questo l’abbracciò e la strinse forse a sé.

“Così non mi aiuti, stupido.” Farfugliò lei, piangendo.

“Cosa?” e appoggiò la testa sulla fronte della ragazza.

“Se prima volevo smettere, ormai è inutile!”

Lui rise.

“E non ridere!” si lamentò, abbracciandolo a sua volta.

“Mi sei mancata.” E la baciò sulla fronte.

“Anche tu…” disse tra le lacrime, nascondendo la testa sul suo petto.

Poteva sentire i suoi battiti, proprio come un tempo.

“Inge,” la chiamò lui con voce bassa. La ragazza riprovò la sensazione di poter sentire quelle calde vibrazioni della sua voce. Tuttavia, nel tono usato da lui vi colse una sfumatura di malizia – degna di Tom – e un velo di ironia. “Non vorrei dirtelo, ma mi stai appiccicando lacrime, bava e moccio sul petto.”

Appunto.

Inge si allontanò subito da lui, squadrandolo minacciosa. Aveva gli occhi ridotti a due fessure – e gonfi. Afferrò, quindi, il cuscino che prima teneva tra le braccia e lo tirò addosso al ragazzo, per poi girarsi dall’altra parte.

“Stronzo.”

Lui rise divertito e si avvicinò nuovamente a lei, abbracciandola da dietro.

“Stavo scherzando.” Le soffiò all’orecchio. “Accidenti quanto sei permalosa!”

“Accidenti quanto sei rompicoglioni.” ribatté lei irritata, ma anche nostalgica di quelle battute che da sempre c’erano tra di loro. Quindi, si girò e l’abbracciò a sua volta.

“Senti,” indugiò Tom, accarezzandola sulla spalla, alzando la manica della sua maglietta. “Possiamo rimandare la questione più complicata di Melanie a domani?” e le mise una mano sotto il mento, per poi baciarla sulle labbra.

“Odi proprio le responsabilità, eh?” lo riprese lei, allontanandosi leggermente da lui per guardarlo saccente.

“E tu odi tenere la bocca chiusa.” Fece lui, mettendo in atto il suo modo di chiuderle la bocca.

“E tu odi che ti si dica in faccia la verità.” Sorrise lei, sotto le sue labbra.

“Sai,” disse Tom, guardandola perplesso. “Questa conversazione non mi è nuova.”

Inge rise, ricordandosi di tanto tempo fa, e lo baciò.

“Allora, modifichiamola.” Sussurrò maliziosa.

“E come?” chiese il ragazzo, accettando la sfida.

Lei lo baciò ancora e lui la prese per i fianchi, portandola sopra di sé.

Si guardarono negli occhi, per poi avvicinarsi e fondere ancora una volta le loro labbra in un bacio incandescente. Un desiderio da tempo represso.

Quella notte sarebbero tornati insieme come un tempo.

¤°.¸¸.·´¯`»  «´¯`·.¸¸.°¤

Continua...

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ATTENZIONE: I Tokio Hotel non mi appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera della loro personalità. No scopo di lucro.

***

Ci credete? Finalmente ho finito pure questo capitolo! xD

Che ne dite? A mio parere è uno dei capitoli più belli, per ora.

Purtroppo, come ormai vi ripeto ad ogni aggiornamento, il tempo a mia disposizione per scrivere è poco - e non sempre lo impiego in questa storia. Quindi, gli aggiornamenti saranno sempre lenti. (La cosa assurda, è che anche se passo intere giornate a studiare, i risultati non si vedono! Ho il morale a terra! X°D)

Vabbè, problemi di studio a parte, che dire? Bè, ovviamente, devo ringraziare le quattro persone che hanno commentato (forza, gente! Ho visto che siete in molti a leggere, potete anche lasciare un commentino, no? ç__ç Se non altro mi date una scusa per allontanarmi dal libro di storia - materia che oggi mi tocca studiare - per leggere qualcos'altro! ^^)

Comunque, grazie a kit2007 (Come al solito, sei fantastica! XD Ti adoro! Prima o poi tornerò anche su msn e chiacchiereremo un po', ok??), Ladysimple (Bè, questo capitolo risponde perfettamente alla tua domanda... ^^), Antonellina (Piaciuto questo capitolo? Bè, che dire? Avevi ragione su tutto! XD Mmm, non è che sto diventando troppo prevedibile? x°D) e angeli neri (Forse con questo capitolo ti ho fatto aspettare un po' di più, rispetto all'altro, ma ciò che contiene è un pagamento abbastanza proporzionato all'attesa, no?^^ Dal prossimo capitolo, la situazione diventerà più seria, e ci saranno dei risvolti che forse nemmeno ti aspetti... Quindi, sperando di aggiornare abbastanza in fretta, ti lasciò al momento con la suspance!)

Ora che mi è venuto in mente - per quanto, forse, sia inutile - vi lascio di nuovo il mio indirizzo di msn:

irina_89@hotmail.it

Se volete chiacchierare, mi potete contattare lì. Purtroppo le mie apparizioni sono rare e molto brevi (a meno che non mi dimentichi il computer acceso... =P).

Come ultima cosa, se mi riesce, metto un link per un disegno che ho fatto di Tom e Inge. (Inge sembra una bambina, in confronto a lui... Anche se nella mia immaginazione è giusto che sia molto esile e piccola - tipo folletto, delle volte pure malefico... =P).

Ok, ora non mi resta che salutarvi tutti!

Un bacio!

E ricordatevi di lasciare un commentino!^^

_irina_

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Capitolo 13
*** The Long Goodbye ***


Just a kid

Just a kid

The Long Goodbye

Aprì gli occhi lentamente. Aveva ancora sonno, ma sentiva il bisogno di svegliarsi.

Provò a girarsi per poi scendere dal letto ed andare in bagno, come faceva ogni mattina, ma qualcosa glielo impedì. Nel buio della camera cercò di capire, e subito si ricordò.

Non era in camera sua.

E non era sola nel letto.

Qualcosa si agitò dentro di lei. Ciò che stava provando era una sensazione che mai avrebbe pensato di poter risentire. Il pensiero di trovarsi accanto a Tom. Abbracciata da Tom. E di nuovo amata da Tom.

Portò la sua mano al suo fianco, toccando l’ostacolo che aveva sentito prima. Era il braccio del ragazzo. Era caldo. Un calore di cui aveva avuto nostalgia per così tanto tempo, che ora le sembrava quasi impossibile provarlo di nuovo.

Strinse le dita alle sue e si strinse a lui, facendo aderire la sua schiena al suo petto.

Quella notte erano tornati insieme.

Tutte le emozioni che aveva provato a dimenticare inutilmente, ora la stavano invadendo. E per la prima volta, il suo naso pizzicò per la felicità.

Poteva sentire il caldo respiro di Tom sul suo collo. Poteva sentire il suo petto premere contro la sua schiena. Poteva sentirlo vicino.

Lentamente, la mano del ragazzo contraccambiò la stretta.

“Buongiorno…” mugolò Tom con voce bassa, ancora impastata dal sonno.

Portò le loro mani sul petto di lei e la strinse a sé.

Inge perse un battito, per poi sorridere.

Accidenti quanto le era mancato tutto questo!

“Buongiorno.” Ricambiò lei, girandosi verso di lui. Aveva ancora gli occhi chiusi. Lo accarezzò delicatamente e gli tolse i rasta disordinati dal viso.

“Te l’ho già detto che mi sei mancata?” la strinse ancora più forte, lui.

“Sì, ma mi piace sentirtelo dire.” Ammise lei, lasciandosi stringere tra le sue braccia senza opporre la minima resistenza.

“Che carina.” Commentò lui, sorridendo. “Sei diventata più femminile.” Ed aprì gli occhi assonnati.

Lei lo guardò torvo.

“E tu sei diventato più stronzo.” Borbottò.

Tom rise e le baciò la punta del naso. Lei ne approfittò per slegare le sue mani dalle sue, e portarle intorno al suo collo. Montò sopra di lui e si stese. Petto contro petto. Lo baciò appassionatamente e lasciò che lui continuasse ciò che entrambi bramavano.

Erano stati lontani troppo a lungo. Erano magnetici. Non potevano più fare a meno dell’altro.

Tuttavia, Tom si fermò e l’allontano dolcemente da sé.

Lei lo guardò perplessa. Poi capì e assunse un’aria colpevole, distogliendo lo sguardo dal ragazzo.

La sua voglia di Tom era passata sopra la questione più importante.

Alex e Melanie.

“Ehi…” sussurrò lui, prendendole il mento tra le dita e facendola voltare di nuovo verso di lui. Si guardarono negli occhi. “Tranquilla.” La capì.

Lei annuì e scese da sopra il ragazzo, per stendersi al suo fianco.

“Che facciamo?” chiese, quindi, Inge.

“Se devo essere sincero, non lo so.” Confessò dispiaciuto.

Si guardarono ancora una volta negli occhi. E si capirono come non mai.

Melanie – per quanto fosse brutto solo pensarlo – doveva andarsene. Quella donna stava rischiando di mettere in crisi tutti loro. E non era un’inezia, dire che nessuno la sopportava.

Ma come comportarsi con Alex? Dopotutto, lui non aveva nessuna colpa.

Al contrario della madre, tutti si erano affezionati a lui.

Poi, Tom si ricordò improvvisamente di un fatto decisamente importante.

“Inge,” iniziò. “Cosa sai dell’uomo cattivo di cui parla Alex?” chiese.

“Penso ciò che sai pure tu. Glielo volevo chiedere per saperne di più, ma non l’ho fatto perché mi è sembrato che non gli piaccia.” Spiegò la ragazza.

“Già.” Convenne Tom. “Ma io so più di te. Scusa, non te l’ho mai detto perché non ci sono state molte occasioni per farlo.” Spiegò con un velo di sarcasmo.

“E cosa?”

“Non mi piace.” Disse preoccupato.

“Perché? Cosa fa?”

“Cosa faccia non lo so. So, però, cosa ha fatto.”

Inge alzò un sopracciglio interrogativa.

“Ha picchiato Alex.”

La ragazza si portò le mani alla bocca e sgranò gli occhi.

“Cazzo!”

“E non so se si è limitato ad una sola volta.” Ammise con riluttanza.

“Se mandiamo via Melanie…” iniziò lei.

“Alex andrebbe con lei. E tornerebbero tutti e due da quell’uomo.” Finì il ragazzo. “Temo proprio di sì.”

“Non possiamo lasciarlo tornare laggiù.” E questo non era possibile metterlo in discussione. “Dobbiamo, quindi, far rimanere anche lei…” sospirò rassegnata.

Rimasero in silenzio per un po’, cercando una possibile soluzione. Ma sembrava proprio che non ci fosse; per questo entrambi avrebbero sopportato. Pur di aiutare Alex, avrebbero sopportato.

Improvvisamente, Tom si rese conto di un particolare.

“Un’alternativa, forse, ci sarebbe…” mormorò pensieroso.

“E quale?”

Tom la guardò e sorrise.

“Bè, io sono il padre di Alex, giusto?”

Inge annuì.

Lui l’abbracciò forte e posò le labbra sulla fronte della ragazza.

“Posso chiedere che lo lasci a me.”

 

***

 

“Ehi, ciao.” La salutò Tom, stravaccandosi sul divano accanto a lei e cercando di apparire tranquillo e stranamente felice di fare quattro chiacchiere con lei.

“Ciao.” Ricambia Melanie, senza guardarlo, intenta a sfogliare una rivista. “Sai che voi quattro comparite in praticamente tutti i giornali?” e gli mostrò una pagina con le loro foto, seguita da un’intervista.

“Più o meno.” Rispose, adocchiando quelle pagine. Nemmeno si ricordava quell’intervista.

“Volevi qualcosa?” chiese la donna, voltando la pagina di quel giornale.

“Sì,” deglutì il ragazzo. “Volevo parlarti di Alex.”

“Ah!” e chiuse la rivista per guardare Tom negli occhi. “Ne ha combinata un’altra delle sue? Ora gliene dico quattro!” e si alzò, pronta per andarlo a cercare.

“No, aspetta.” E la prese per un braccio per farla tornare seduta. “Non è per quello. Lui non ha fatto niente.”

“E allora?” lo fissò interrogativa.

“Volevo dirti ciò che mi ha detto qualche giorno fa.”

“E cosa ti ha detto per farti correre da me?” fece sarcastica.

“Del tuo compagno.”

“Di Ben?” sgranò gli occhi.

“Se si chiama così, sì.” Disse Tom serio, fissandola a sua volta.

“Cosa ti ha detto?” si affrettò a chiedere la donna.

“Ho visto la cicatrice, Melanie.” E appoggiò i gomiti alle ginocchia per avvicinarsi a lei.

“Ma… Ma quella… è caduto dalle scale!” farfugliò, guardando altrove.

“Sicura?” alzò un sopracciglio.

“S… Sì.” E portò il suo sguardo sul pavimento.

“Mi dispiace, ma non ti credo.”

“Perché non dovresti? Lui è solo un bambino!” ruggì lei, tornando con gli occhi su di lui. Erano lucidi. Il ragazzo aveva proprio toccato il tasto dolente che lei cercava disperatamente di nascondere.

“Per questo.”

“Ma… Ma si è inventato tutto!”

“No, secondo me dice la verità.” Continuò imperterrito Tom.

“No. No!” gli occhi diventavano sempre più lucidi e la sua espressione sempre più triste e supplicante.

“Melanie…” cercò di farla parlare. Voleva sentire da lei come stavano le cose. La verità.

Ma l’unica cosa che ottenne furono le sue lacrime. La donna iniziò a piangere silenziosamente, portandosi le mani sul viso per non essere vista. Il suo corpo tremava e Tom sentì che nonostante tutto, lei era sincera. Il suo pianto era un pianto vero.

E questo diede conferma ai suoi pensieri riguardo quell’uomo.

“Perché stai con una persona come lui?”

“È l’unico che mi possa aiutare…” mormorò tra le lacrime.

“Aiutare?” tentò di capire.

“Sì,” singhiozzò. “Mi passa dei soldi.”

“Che lavoro fa?”

“Non lavora.” Disse Melanie. “Spaccia.” Aggiunse in un sussurrò strozzato e quasi impercettibile.

“Spaccia droga?” ripeté Tom incredulo. “E tu vivi con un tipo del genere?” la accusò. Non era sua intenzione farla sentire ancora più colpevole di quello che già sembrava sentirsi da sola, ma il pensiero che anche Alex avesse potuto vivere con un individuo come quello, gli faceva ribollire il sangue nelle vene. “Ma ti rendi conto che è un uomo pericoloso?”

Lei annuì.

“È pericoloso per Alex!” continuò lui.

“E di me non ti preoccupi?” urlò lei, guardandolo negli occhi.

“Melanie…” farfugliò. “Alex è un bambino.” Le fece notare.

“E allora?”

“Melanie,” e le mise una mano sulla spalla. “Alex non può vivere con lui.”

“E allora permettici di vivere qui!” si aggrappò a lui, disperata.

“Melanie…” provò ad allontanarla.

“Che c’è? Perché non posso? Ora che ci siamo anche ritrovati!”

Il ragazzo poteva sentire il dolore nelle parole della donna, ma purtroppo le cose erano complicate. Anche Bill era d’accordo con Inge e Tom. Melanie sarebbe rimasta solo se non ci fossero state altre alternative. Purtroppo, lei aveva fatto la sua scelta. Era stata lei a decidere di vivere con un tipo del genere. Melanie era adulta. Avrebbe potuto uscirne.

Ma Alex no. Alex era un bambino. Era pericoloso farlo tornare in un ambiente come quello.

Tutti erano convinti che avrebbero potuto sopportare la presenza di Melanie, pur di tenere Alex lontano da quel posto, ma sembrava che Melanie volesse sfruttare la situazione che si era creata a suo vantaggio.

Lei voleva, sì, togliersi dai guai – e Alex con lei –, ma voleva anche un’altra cosa. Una cosa che però non era corrisposta.

Lei voleva Tom.

“Te l’ho già detto, Melanie.” Disse Tom, sorreggendola, mentre le forze della ragazza sembravano venir meno. “Non possiamo stare insieme.”

“E perché?” lo supplicò lei. “Tuo figlio non ti basta come motivo?”

“Ascolta, Melanie: io non provo niente per te.” Le disse, cercando di contenersi e trattare l’argomento più delicatamente possibile. Non voleva che questo discorso portasse a finali non previsti.

“Ma… Ma nostro figlio?”

“Melanie,” ripeté ancora, forse sperando in una vaga possibilità di calmarla pronunciando sempre il suo nome con dolcezza. “Alex è un bambino bellissimo.” Le disse, accarezzandole i capelli. “Ti ringrazio per averlo cresciuto per tutto questo tempo. Ti ringrazio per averlo portato qui. Per avermelo fatto conoscere. Ma noi tre non potremo mai essere una famiglia.”

“E io dove andrò, allora?” lo guardò implorante.

Tom abbassò lo sguardo e tolse la mano dalla testa della ragazza.

“Mi dispiace.” Mormorò addolorato.

Quella era senza dubbio la conversazione più difficile avesse mai fatto in tutta la sua vita. Se avesse detto una parola – anche una sola – sbagliata, avrebbe potuto mandare in fumo i suoi miseri tentativi di farsi lasciare Alex. Si ritrovò, per questo, a non sapere nemmeno cosa dire.

“D’accordo.” Respirò profondamente Melanie, appoggiandosi a Tom per alzarsi.

Si mise davanti a lui e tirò su con il naso, mentre con le mani si asciugava gli occhi.

“Allora ce ne andremo.” Annunciò flebile.

“Cosa?” fece Tom, sgranando gli occhi.

“Hai sentito bene. Io e Alex ce ne andremo.”

“E dove?”

“Questi non sono affari tuoi. Io non lascerò mio figlio. Non lo voglio più allontanare da me.”

“Ma, Melanie…” boccheggiò. Non sapeva come ribattere. Cosa aveva detto per essere giunto a questa conclusione?

“No, Tom. Hai ragione.” Lo fermò lei, mettendogli una mano davanti alla bocca. “Qui siamo di troppo. Non possiamo vivere con voi. Siamo un peso.”

“Non… Non ho detto questo!” protestò lui. Non aveva mai detto niente di simile! Non poteva mettergli in bocca parole mai pronunciate! E soprattutto, non poteva mettergli in bocca il fatto che considerasse Alex un peso. All’inizio, forse, ma ora era tutto diverso!

“Sì, invece.” Replicò lei. “Ma hai ragione. Domani ce ne andremo.”

“Ma -”

“No.” Lo interruppe ancora una volta. “Non dire altro. Hai già detto troppo.” E si voltò. Girò intorno al divano e salì le scale.

Tom non ebbe le forze per seguirla. Avrebbe voluto prenderla per le spalle. Scuoterla. Urlarle addosso che non era vero niente. Farle capire che a questo punto avrebbe anche accettato di ospitarla, pur di non allontanarsi da Alex.

Strinse i denti e si portò le mani al viso, coprendosi gli occhi. Bruciavano. I suoi occhi non avevano mai bruciato tanto come in quel momento. Non c’era mai stata una sola volta in cui i suoi occhi chiedessero così tanto di piangere. Non c’era mai stata una sola volta in cui i suoi occhi lo implorassero di piangere. Volevano far uscire quelle gocce salate che lui aveva sempre cercato di reprimere per atteggiarsi a ragazzo forte.

Ma questa volta non aveva nemmeno le forze per impedir loro di far come più desideravano.

E così, dotate di volontà propria, le lacrime iniziarono a scendergli lungo le guance, bagnandogli le mani che premeva violentemente sugli occhi, mentre il suo respiro si faceva sempre più rapido, quasi come se volesse rincorrere l’aria che non riusciva più a respirare.

Si sentiva una merda. Non era stato capace di tenersi suo figlio.

Proprio in quel momento delle dolci mani lo accarezzarono sulle braccia, per poi abbracciarlo stretto, mentre la persona a cui appartenevano si sedeva sul divano accanto a lui.

“Inge,” mugolò. “Non ci sono riuscito.” E soffocò un singhiozzo che sarebbe stato troppo rumoroso.

“Tom…” sussurrò tristemente lei, baciandogli la guancia scoperta e inumidita dalla scia delle lacrime.

Lui si abbandonò tra le braccia della ragazza, senza scoprirsi il viso, e nella disperazione, si lasciò sfuggire quei singhiozzi per tutto quel tempo repressi.

 

***

 

Nessuno pensava di trovarsi davanti una scena simile.

In tutto questo tempo, nemmeno ci avevano mai pensato. Era diventata una cosa quotidiana, avere Alex in casa. Le sue urla, la sua voce, i suoi scherzi… tutto sarebbe mancato a loro.

Ora, tutto era finito e tutto ciò che rimaneva di quel mese passato insieme al bambino sarebbe diventato presto un ricordo. Un ricordo accompagnato dalla nostalgia e dalla tristezza.

Tutti si erano affezionati a quella piccola peste. Soprattutto Tom. Con lui il legame creatosi aveva richiesto un periodo di tempo più lungo. Cosa comprensibile. Ma ora che si era creato, non poteva finire così.

Così, in un semplice saluto.

Melanie era sulla soglia dell’ingresso con due borse in mano, mentre con l’altra teneva Alex, che si dimenava tentando di liberarsi.

“Ma dove stiamo andando?” si lamentava, gli occhi lucidi.

“Te l’ho detto. A casa.” Lo strattonò, cercando di farlo avvicinare alla porta aperta.

“Ma mi avevi detto che questa ora era casa mia!” urlò lui, iniziando a piangere. Puntò i piedi per terra e tentò di fare resistenza.

“Mi sbagliavo. Andiamo.” E lo tirò ancora di più.

“Ma non voglio venire!” piangeva il bambino. “Voglio rimanere con Tom, Inge e Bill!”

“Alex, li hai già salutati. Li rivedrai tra qualche tempo. Ora andiamo!”

La rossa, che stava assistendo alla scena con il naso che pizzicava sempre di più, iniziò a piangere silenziosamente. Bill le appoggiò una mano sulla spalla e abbassò la testa.

“Ma voglio rimanere!” urlava ancora.

“Non puoi! Questa non è casa tua!” urlò Melanie a sua volta.

Il piccolo si zittì impaurito, senza smettere di versare quelle calde lacrime che gli rigavano il viso.

“Alex.” lo chiamò Tom con voce fragile.

Lui si girò, mostrando una smorfia di tristezza sul viso. Allungò una mano verso il ragazzo e tentò di opporsi nuovamente alla forza della madre.

“Tom, io voglio rimanere con te!” piagnucolò, tirando su con il naso.

Il rasta si avvicinò a lui e l’abbracciò di nuovo, ma più forte di quanto aveva fatto pochi minuti prima. Non voleva che se ne andasse. Ormai lo sentiva parte della sua famiglia! Come poteva separarsene?

“Ti prometto che tornerai.” Lo strinse a sé, imponendosi perché la donna gli lasciasse la mano e gli permettesse di abbracciare suo figlio nella maniera più paterna potesse fare. “Te lo prometto, Alex.” E gli baciò la fronte.

Inge non riuscì più a trattenere i singhiozzi e si portò una mano sugli occhi, mentre con l’altra si asciugava il naso.

“Ma io non voglio andare via!”

Tom si allontanò lentamente da lui. Si alzò di nuovo in piedi, tenendolo per mano. Melanie lo prese per l’altra e lo tirò verso la porta.

“Mi dispiace.” Sussurrò flebile il ragazzo, lasciando la piccola mano del bambino.

La donna uscì dalla casa e si diresse verso il taxi – parcheggiato davanti al cancello – che aveva chiamato.

Tom li seguì fino alla porta e li guardò allontanarsi, cercando di non pensare al bruciore degli occhi.

Vide Alex oltrepassare il cancello. Il bambino girava la testa guardando il ragazzo. Piangeva e tendeva la mano verso di lui.

Tom alzò la sua e la sventolò in segno di saluto, avvertendo una dolorosa fitta al petto.

Alex fece altrettanto, ma, invece che il suo nome, urlò una parola che mai aveva urlato prima.

Papà!”

Tom serrò gli occhi lucidi.

Melanie fece salire il bambino sul taxi, per poi salire a sua volta. Chiuse la portiera e si asciugò le lacrime che le scivolavano sul viso.

E il taxi partì.

Il ragazzo rimase immobile per qualche istante sulla soglia, poi tornò in sé e serrò i pugni in un sentimento di rabbia e frustrazione.

Colpì con un pugno il muro della casa e pensò bene di essersi ferito qualche nocca.

Ma non gli importava. Doveva solo sfogarsi. Ne aveva bisogno.

Si voltò e chiuse la porta dietro di sé violentemente. Andò in sala e sferrò un calcio al divano, per poi caderci sopra privo di forze, coprendosi il viso con le mani.

Ora se ne erano andati. Avrebbe mai potuto rivederlo? O la loro era una partenza definitiva?

Non riusciva a piangere. Si sentiva colpevole. Ebbe soltanto la forza di chiudere gli occhi, cercando di reprimere quella sensazione di perdita che lo attanagliava nel petto.

Quell’ultima parola pronunciata dal bambino era stata come una pugnalata letale.

Alex sapeva, mentre lui non aveva fatto altro che mentirgli, arrivando persino ad allontanarlo ancora di più da sé.

No.

Lui non era degno di essere chiamato papà.

 

¤°.¸¸.·´¯`»  «´¯`·.¸¸.°¤

Continua...

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ATTENZIONE: I Tokio Hotel non mi appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera della loro personalità. No scopo di lucro.

***

Ok, vi avverto: questo dovrebbe essere praticamente il penultimo capitolo. Se tutto va nel verso previsto, il prossimo sarà, quindi, l'ultimo. (Darvi questa notizia mi mette tristezza...ç___ç)

Prima di iniziare con i ringraziamenti, volevo proporvi una cosuccia. Parlando con Zickie, mi è venuto in mente di chiedervi come voi vi immaginate Inge. Nel senso: vorrei - se voi volete - che provaste a cercare un'immagine che per voi la rappresenti, tanto per sapere come voi ve la siete immaginata leggendo questa storia e Sopravvivere. Mettete, poi, un link nel commento, o mi mandate il file per msn (l'indirizzo è segnato sul capitolo precedente, ma comunque ve lo riscrivo: irina_89@hotmail.it) in modo che poi possa metterli nel prossimo capitolo. So che è una cosa particolarmente pazzoide, ma se ne avete voglia, fatevi avanti!!^^

Io ho già trovato quella che per me le assomiglia di più, ma la pubblicherò nel prossimo capitolo. xD

Aspetto numerose immagini!

Ps: vi conviene - se me le volete inviare per msn - mandarmele per mail, perché tra qualche ora partirò per Monaco e ci starò una settimana!!XD (E questo giustifica anche il perché di questo aggiornamento, che per me avrebbe richiesto un po' più di tempo per riguardare il capitolo... spero, infatti, non ci siano troppi errori, perché ho avuto voglia di pubblicarlo prima di partire per non farvi aspettare troppo tempo.)

Un'ultima cosa e poi ringrazio: Ho fatto un altro disegno di Tom ed Inge. Lo feci molto molto molto tempo fa - come potete vedere dalla data - e non vedevo l'ora di pubblicarlo!^^

Ora ringrazio, finalmente, le quattro anime che hanno commentato lo scorso capitolo: marty sweet princess, Ladysimple, pandina_kaulitz e kit2007. Purtroppo non ho tempo per ringraziarvi personalmente una ad una perché tra mezz'ora ho l'autobus..^^"

Comunque ho visto che siete ancora tanti a leggere la fan fiction: allora commentate!! XD

E detto tutto questo, vi saluto, sperando che il capitolo vi sia piaciuto e che non vi sia risultato troppo diabetico (per me ha una leggera tendenza verso la carie..^^").

Un bacio a tutti!

_irina_

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Capitolo 14
*** Wishing You Were Somehow Here Again ***


Just a kid

Just a kid

 

Wishing You Were Somehow Here Again

“You are never given a wish without being given the power to make it true. You may have to work for it, however.” Richard Bach

 

Ancora una volta, giunse il nuovo anno.

Ed ancora una volta, giunse dopo giorni e giorni di malinconia.

Certo, aveva partecipato ad una delle feste più prestigiose – come al solito – e si era anche divertito, rischiando di mandare Inge su tutte le furie per ogni volta che, senza rendersene pienamente conto, andava a flirtare con una qualsiasi ragazza – o donna che fosse. Era, quindi, stato minacciato di un’improvvisa rottura del collo, di avvelenamento, di squarciamento e qualcos’altro che non ricordava, ma niente di tutto questo (fortunatamente) si era avverato.

Eppure, sapeva – esattamente come un anno fa – che non c’era molto di cui essere felice.

Ma sentiva che c’era una differenza. Ecco, se avesse dovuto trovarla, avrebbe detto che questa volta era come se gli mancasse una parte di sé. Sì, perché gli mancava Alex, suo figlio.

Se n’era andato ormai da un mese.

Un mese.

Un mese passato nella speranza di ricevere sue notizie. Un mese passato a soffrire per la sua colpa. Un mese passato a tentare di dimenticare qualcosa di indelebile dentro di sé.

Tutti gli erano stati vicini. Avevano provato a tirarlo su di morale, a distrarlo… e ci erano riusciti. Si sentiva in colpa anche per questo.

Ma si era convinto di una cosa, in tutto questo tempo: le cose erano andate così. Ormai, lui non poteva farci più niente. Ci fu il momento in cui lui avrebbe potuto mostrarsi all’altezza del suo ruolo di padre, ma non era stato in grado di dimostrarsi tale.

Quindi, forse era stato un bene che tutto fosse andato come era andato.

Lui non era stato capace di essere un padre, quindi era giusto che Alex si fosse allontanato da lui.

L’unica cosa che non riusciva a dargli pace, riguardava l’ambiente in cui ora poteva trovarsi. E soprattutto le persone.

Sperò con tutto il cuore che Melanie avesse capito. Sperò che lei avesse provato a rifarsi una vita, magari chiedendo un aiuto più giusto per se stessa e per il bambino.

Per il resto, era tempo che la sua vita ritornasse quella di sempre.

Gli ci era voluta una sbronza senza eguali e una settimana di martellante mal di testa per capirlo.

“Tom!”

Il ragazzo mugolò qualcosa e si girò dall’altra parte, per poi tirare le coperte tutte sopra di sé.

“Sei uno stronzo!” si offese la ragazza dai lunghi capelli rossicci, di fianco a lui, rimanendo scoperta.

“Sì, lo so. Me l’hai ripetuto non so quante volte nel giro di un quarto d’ora.” Mormorò lui.

“Allora continuerò per il resto del giorno, visto che non sembra tu abbia afferrato!” urlò lei, togliendogli le coperte.

“Sei impazzita?” si lamentò Tom, rannicchiandosi su se stesso. “È gennaio! Fa freddo!”

“E allora tu non dormire nudo!”

“Ma si può sapere cosa hai da berciare alle sette del mattino?” fece lui stizzito per cambiare discorso.

“Veramente sono le dieci,” precisò Inge. “E poi oggi ti dovevo svegliare alle nove – un’ora fa! – perché avevi un’importante servizio!”

Tom sgranò gli occhi.

“Cazzo!” e saltò giù dal letto. “Potevi svegliarmi prima!”

La ragazza sentì la sua mandibola toccare il letto. Tentò di replicare ma non trovò nemmeno le parole adatte, così ci rinunciò, sbuffando.

Tom raccolse da terra qualche vestito e corse in bagno nel girò di trenta secondi.

Inge guardò il letto rimasto vuoto e non riuscì a reprimere una risatina. Scese, poi, dal letto e si incamminò verso il bagno.

Il ragazzo era già entrato dentro la cabina della doccia e nella fretta vi sbatté più volte contro, borbottando tutto il suo ricco repertorio di imprecazioni, senza tralasciare niente.

La rossa rise ancora.

“Che ridi?” la riprese lui. “È colpa tua se sono in ritardo.”

“Certo,” annuì lei per niente convincente. “È colpa mia che durante la notte ti ho dato del potente sonnifero.”

“No,” ribatté lui. “È colpa tua perché durante la notte hai fatto – e mi hai fatto fare – molte cose che mi hanno tolto energia.”

“Però ti sono piaciute.” Concluse lei, con tono malizioso, mentre si toglieva l’enorme maglietta del ragazzo e la buttava per terra.

“Bè, ero anche stanco, quindi non saprei dirlo con esattezza…” disse vago, un velo della sua solita ironia nella voce.

La ragazza si spogliò totalmente e si avvicinò alla cabina della doccia. L’aprì ed entrò.

“Vuoi allora che ti rinfreschi la memoria?” lo sfidò, abbracciandolo da dietro.

Lui le afferrò le mani con le sue insaponate, per poi girarsi e guardarla negli occhi.

“Non sai quanto mi piacerebbe…”

“Sì, che lo so.” Sorrise maliziosa.

“Peccato che sia in ritardo.” Roteò gli occhi. Il suo sguardo poteva far intendere tutto, tranne che gli importasse del ritardo. Inge lo conosceva abbastanza bene da sapere che davanti ad una proposta del genere, quel dannato pervertito che ora torreggiava su di lei, avrebbe volentieri mandato al diavolo ogni impegno.

Ma Inge sapeva anche che Jost si sarebbe arrabbiato oltre ogni limite, se Tom avesse fatto tardi: per questo l’aveva svegliato con due ore di anticipo.

“Non direi. Hai ancora del tempo a disposizione.” Trattenne a stento una risata.

Ed il ragazzo capì.

“Quanto tempo?” la interrogò, appoggiandosi a lei, che arretrò finché non toccò la parete della cabina con la schiena.

“Diciamo qualche oretta.” Sorrise soddisfatta.

Tom sembrò pensarci su.

“Pensi che siano sufficienti?”

“Ti garantisco che in qualche oretta ti farò rimpiangere di non avermi fatto dormire.” Sorrise strafottente, mentre posava le labbra sul collo della ragazza.

Lei lo strinse con più forza a sé e si abbandonò completamente al suo volere.

 

***

 

“Quindi?”

“Quindi?” ripeté il bassista sconcertato.

Bill annuì.

“Quindi dobbiamo sottostare ai suoi ordini.” Sospirò Tom, stravaccandosi sul divano.

“Ma non è giusto!” si lamentò il moro, incrociando le braccia al petto.

“Ti pago dieci euro se glielo vai a dire.” Schioccò la lingua il fratello.

“Che misero.” Commentò Gustav, sorseggiando la sua birra.

“Tanto non funziona. Mi sono già lamentato io,” disse Georg, “E l’unica cosa che ho ricevuto è stato un ruggito per niente rassicurante.”

“Meglio non stuzzicarlo troppo, allora.” Concluse Inge, sedendosi anche lei sul divano di casa Kaulitz.

“Sì, ok, ma ti rendi conto?”

Lei alzò un sopracciglio.

“Vuole costringerci a fare un concerto a Monaco in nemmeno due settimane!” esclamò terrorizzato il cantante.

“Non siamo pronti!” lo sostenne Georg.

“Ma cosa c’è da preparare, scusa? Avete già e vostre canzoni!” sorrise ironica.

Tom e gli altri ragazzi si lanciarono occhiate eloquenti.

“Allora ho il permesso di metterle le mani al collo?”

“Fai pure, tanto è la tua donna…” mormorò Georg. “Ma non so se riuscirai nel tuo intento.” Ridacchiò.

La rossa lo guardò soddisfatta. Aveva la sua reputazione da mantenere, lei! E tutti avevano una vaga idea delle sue capacità di difendersi da eventuali attacchi.

“Ma a me vuole bene,” sorrise strafottente Tom, girandosi verso di lei. “Non mi farà mai del male,” le mise una ciocca di capelli dietro l’orecchio. “Vero?”

“Vuoi una dimostrazione?” lo sfidò lei, iniziando ad accumulare la saliva con palesi movimenti della bocca.

“Accidenti quanto sei permalosa!” biascicò Tom, roteando gli occhi, per poi afferrare il telecomando sul divano vicino a lui.

“Accidenti quanto sei permaloso!” lo emulò lei.

“Rincominci a farmi il verso?” la riprese stizzito.

“Io non ti faccio il verso!” fece lei, stizzita come Tom.

“Quanto siete infantili…” borbottò Bill tra sé e sé, alzando gli occhi al cielo.

Il rasta sbuffò esasperato, mentre gli altri due ragazzi soffiavano le risate.

Inge si avvicinò a lui e gli posò una mano sul viso, per farlo voltare nella sua direzione.

“Dai, lo sai che scherzo.” Sorrise. “Ma cosa puoi farci se con me non hai speranze?”

Il ragazzo, allora, posò lentamente la bottiglia di birra che teneva in mano e sospirò. Poi, di scatto, si girò verso la ragazza e la prese per le spalle, facendola cadere stesa sul divano, mentre lei cercava di allontanarlo invano. Posò le sue labbra sulle sue e le rubò un bacio.

“Ehi! Non vogliamo assistere ad uno spettacolo porno!” commentò Georg. “E poi, ci sono pure dei bambini in questa stanza.” Ridacchiò, indicando Bill, che alzò un dito per niente nobile nella sua direzione.

Tom si incupì: per un momento, quelle parole appena sentite lo fecero pensare ad un altro bambino.

“Scusa.” Farfugliò il bassista, rendendosi conto del gioco di parole involontario.

“No, non ti preoccupare.” Si affrettò a dire Tom, ricomponendosi sul divano e prestando maggiore attenzione al telegiornale della sera che proprio in quel momento stava andando in onda.

Inge si alzò a sua volta e si appoggiò alla spalla del ragazzo, facendosi abbracciare da Tom. Ebbe un fremito quando gli toccò la pancia.

“E dopo le notizie politiche, passiamo ai fatti di cronaca.” Disse la bionda giornalista. “Arrestati per spaccio.” Lesse sui fogli che teneva in mano.

Iniziò un servizio che presentava le periferie di Amburgo, per poi fermarsi su una piccola casa malridotta – molto simile a quella in cui viveva Inge.

Mentre la giornalista parlava, la telecamera inquadrò i colpevoli al momento della cattura, che tentavano di coprirsi dai flash che come avvoltoi, li assalivano.

“… un uomo di trentanove anni e una donna di venticinque.” Disse bionda alla tv.

Vennero, poi, mostrate le foto delle due persone: lui era un uomo anonimo. Capelli neri, occhi cupi ed incavati, naso grosso e una bocca praticamente priva di labbra.

La donna era…

Tutti i presenti nella grande sala sgranarono gli occhi.

Era Melanie!

Tom afferrò violentemente il telecomando e alzò il volume per ascoltare meglio ogni parola.

“Melanie Vedel e Benjamin Hoffmann. Il bambino che viveva con loro, Alexander Vedel, è stato affidato ai servizi sociali.”

Sullo schermo apparve una foto del bambino. Ma, contrariamente ai ricordi che i ragazzi avevano di lui, quella foto presentava Alex triste e spaventato.

“Merda…” imprecò Tom, spengendo il televisore.

“Cazzo…” si unì Bill.

“Cosa possiamo fare?” chiese Inge.

“Non lo so.” Rispose il ragazzo accanto a lei.

“Potremmo andare ai servizi sociali.” Propose Gustav.

Ma nessuno rispose. Tom non avrebbe voluto far altro. Andare laggiù dimostrare il suo legame con il bambino e riportarlo a casa. Purtroppo, sapeva che non era così facile fare una cosa del genere. Innanzitutto, ci sarebbe stato da provare la loro parentela. Magari con test del DNA che avrebbe preso chissà quanto tempo: non per tutti questa faccenda aveva importanza.

Tom stese la testa sullo schienale del divano e si coprì il viso con le mani, serrando gli occhi.

Possibile che non ci fossero possibilità di riaverlo?

Certo, era preoccupato anche per Melanie, ma lei era adulta e aveva fatto la sua scelta. Ora avrebbe dovuto accettare le conseguenze.

Ma Alex era un bambino! Era la vittima principale in tutto questo! Lui non meritava di passare la sua infanzia in un edificio dei servizi sociali! Lui aveva una famiglia! Per questo doveva tornare da loro!

Il ragazzo sospirò profondamente per mantenere il controllo.

Doveva trovare una soluzione.

Alex sarebbe tornato da loro.

 

***

 

Il campanello suonò.

“Bill, puoi andare tu?” chiese al fratello, mentre sorseggiava un succo di frutta rubato al fratello.

Il moro alzò la testa dal tavolo e lo guardò torvo.

“Non vedi cosa sto facendo?” domandò, mostrandogli una mano con due dita smaltate e una terza pronta per il servizio.

Tom sospirò.

“Che palle.” E si alzò per raggiungere l’ingresso. Attivò il piccolo schermo per vedere chi fosse ed azionò il microfono alla vista di una donna tutta in tiro davanti alla porta.

“Chi è?”

“Sono dei servizi sociali.” Si presentò lei.

Tom aprì subito il cancello, facendo altrettanto con la porta d’ingresso per farla accomodare in casa.

“Buonasera.” Salutò educatamente. “Sono Anna Berger,” e gli porse una mano. Tom contraccambiò la stretta. “Sono qui per un fatto alquanto curioso.” E si chinò per poter aprire la valigia che teneva nell’altra mano.

“Ah, aspetti.” La fermò il ragazzo. “Venga in cucina.” E l’accompagnò nella stanza accanto.

La donna ringraziò e posò la borsa sul tavolo, tirando fuori numerosi documenti.

Bill tolse tutti i suoi strumenti per fare spazio e rimase a guardare silenzioso.

Quando la signora Berger ebbe trovato i fogli che le interessavano, ripose tutto nuovamente nella borsa e chiese il permesso di sedersi.

Tom, quasi, la incoraggiò. Il fatto che una dei servizi sociali fosse a casa loro, significava solo che era una cosa legata ad Alex. L’unico dubbio che aveva riguardava il modo in cui era arrivata a casa loro.

“Allora,” tossì per iniziare. “Vengo per parlare di Alexander Vedel.”

“Di Alex?” fece una voce femminile dalla soglia della cucina.

Tom si girò a guardare Inge, che si strusciò velocemente una mano sugli occhi. Che fossero lacrime o stanchezza, non seppe dirlo.

“Sì.” Rispose la donna, sorridendo. Il fatto che tutti in quella casa fossero attenti a questa faccenda, doveva averle fatto una buona impressione delle persone che vi vivevano.

La ragazza entrò nella stanza e si sedette su una delle sedie, le mani sulla pancia, mentre Tom la raggiunse e si mise dietro di lei, le mani sulle sue spalle. Erano tese.

“La signora Vedel ha fatto il vostro nome.” Annunciò. “Voleva che suo figlio venisse affidato a persone che sapeva lo avrebbero accudito e fatto crescere nel migliore dei modi.”

“Cosa?” balbettò Tom.

“Se non vuole, è libero di non accettare.”

“No!” replicò subito il ragazzo. “Accetto.”

“Prima di essere troppo precipitosi, è meglio che vi informi delle grandi responsabilità che comporta il suo affidamento, per non parlare delle spese…”

“I soldi non ci mancano.” Puntualizzò Bill.

“E per le responsabilità?”

“Non si preoccupi. Ci prenderemo cura noi di Alex.” Rispose deciso Tom.

“Perfetto.” Sorrise la donna. “Allora, ho bisogno di una firma qui,” e gli mostrò dei documenti. “E qui.” Voltò la pagina del fascicoletto, per poi offrirgli una penna.

Tom la prese determinato e non si fece ripetere niente. Firmò.

“Per le altre pratiche, vi aspetto nel mio ufficio domani.” E posò sul tavolo il suo biglietto da visita.

“D’accordo.”

La signora Berger sorrise e ripose i documenti nella sua borsa. Tom l’accompagnò alla porta di casa, seguito da Bill ed Inge e le aprì la porta, come segno di galanteria e ringraziamento.

“Ah,” si fermò la donna, imbarazzata. “Scusi, lo so che non è proprio il momento, ma…” tirò fuori dalla borsa un blocchetto ed una penna. “Non è che potreste dare un autografo a mia figlia?”

I gemelli si guardarono e soffiarono una risata, per poi accettare volentieri. Una volta ottenuto il regalo per la figlia, la donna li salutò e se ne andò.

Tom chiuse la porta e guardò gli altri due. Sentiva dentro una voglia immensa di gridare, di piangere, di ridere e chissà quant’altro. Era felice. Tanto felice.

Così felice che afferrò Inge per la vita e la strinse forte a sé.

“Ehi, calmati!” lo allontanò lei, sorridendo. “Mi fai male alla pancia.” E se la massaggiò.

“Ops.” Si grattò la testa lui. “Cazzo! Sono troppo esaltato!” urlò. “Finalmente riesco a fare una cosa buona per mio figlio.”

“Guarda che stai diventando patetico.” Lo riprese Bill, incrociando le braccia al petto. “Già mi è bastato il periodo prima del nuovo anno.”

“Fottiti!” e gli mostrò il famoso dito, sorridendo strafottente.

“Ehi, tu.” Lo indicò Inge. “Sappi che se Alex ritorna, il tuo linguaggio dovrà adattarsi.”

“Sarà molto difficile.” Commentò ironico Bill.

“Grazie, eh!” si finse offeso Tom, avvicinandosi al fratello e scarruffandogli i capelli, che solo mezz’ora prima si era sistemato, dopo averci impiegato poco più di due ore.

Bill sbiancò, per poi assumere tonalità rossastre.

“Brutto cretino con il cervello di un’ameba cerebrolesa!” gridò Bill, rivoltandosi verso Tom, che iniziò a correre per la casa, tentando di fuggire dalla prossima ira funesta del moro.

“Mentre voi vi uccidete, chiamo Gustav e Georg per avvertirli, ok?”

Un urlo di Bill – chissà dovuto a cosa – fu l’unica risposta che ricevette. Lo prese per un sì.

 

***

 

“Papà!”

Un mormorio soffocato cercò di esprimergli il suo disappunto.

“Dai, papà!” e iniziò a battere alla porta.

“Alex, ti prego…” si lamentò il ragazzo.

“Ma è tardi!” obbiettò. “Avevi promesso che stamattina si giocava!”

“Sì, la mattina, non all’alba…”

“Ma Inge si è già alzata da tanto tempo…” piagnucolò, battendo debolmente ancora una volta la mano sulla porta.

Tom si rigirò tra le coperte.

“Ok, va bene. Forza, entra.”

La porta non tardò ad aprirsi e subito Alex saltò sopra le coperte. Peccato che sotto ci fosse lo stomaco del ragazzo, che si ritrovò a tossire per il dolore.

“Scusa, ti ho fatto male?” piegò la testa di lato, dispiaciuto.

“No,” diede un colpo di tosse. “Tranquillo.” Tossicchiò ancora. “Mi hai fatto solo ritornare in bocca la cena di ieri.”

“Come le mucche?” sorrise.

“Vuoi dire che sono una mucca?” lo minacciò scherzosamente Tom.

“No, tu sei un uomo, ma quando fai: ‘mmmgh’,” imitò il verso di quando mugola la mattina, chiudendo gli occhi e facendo una smorfia. “Sembri davvero una mucca!”

“Ehi, piccola peste!” lo prese per la vita per non farlo scappare. “Sai chi stai offendendo?”

“Una brutta mucca con i capelli sporchi!” ridacchiò lui, cercando di liberarsi dalla presa.

“I miei capelli non sono sporchi!”

“Sì, invece! Sono molto più grossi dei miei.”

“E allora?” alzò un sopracciglio scettico.

“Vuol dire che c’è tanto sporco attaccato!” disse come se fosse la cosa più ovvia al mondo.

Tom lo guardò perplesso, poi, ripensando alla sua frase, non poté trattenersi dal ridere.

“Perché ridi?”

“Perché hai detto una cosa davvero strana.” Lo liberò dalla presa, per poi alzarsi. Tanto ormai, rimanere a letto non aveva senso.

“Non è vero!”

“Sì, che è vero!”

“Cosa è vero?” chiese Inge, sulla soglia della camera.

“Inge!” la salutò Alex. “Vieni a giocare anche tu!” e le fece gesto di avvicinarsi.

“Ok, ma fate attenzione. Sono stanca.” Si preoccupò.

“Certo, se ti svegli così presto…” fece Tom ironico.

“Qualcuno deve pur lavorare per portare i soldi in questa casa, no?” scherzo la ragazza, sedendosi sul letto.

“Inge, papà ha detto che dico cose strane!” la tirò per la maglietta per riavere la sua attenzione.

“Cosa?” sorrise, fingendosi arrabbiata con il ragazzo. “Ma come osa questo…” e tentò di cercare una parola che potesse offenderlo delicatamente per accontentare Alex.

“Questa mucca!” rise il bambino.

“Mucca?” ripeté perplessa la rossa.

“Lasciamo perdere…” sviò Tom, sospirando.

“Sì, è una mucca! Quando fa quei versi buffi nel letto, sai?”

Inge capì e rise di gusto.

“Sai che non ci avevo mai fatto caso, Alex? Già, Tom è una mucca!” ridacchiò.

“Eh no!” ribatté lui. “Ora la pagate!” e montò di nuovo sul letto. Inge afferrò Alex e lo imprigionò in un abbraccio, mentre Tom avanzava lentamente a quattro zampe verso di lui, che si dimenava divertito.

“Prima lui!” diceva Inge. “È stato lui ad offenderti per primo!”

“Non l’ho fatto apposta!” strillava quella piccola peste, scalciando e ridendo.

“Non mi importa.” Decretò Tom, sorridendo sadico.

Si buttò su di loro e li schiacciò.

“Papà! Soffoco!” si lamentò Alex. “Sei pesante!”

“Tom, accidenti! Mi fai male alla pancia!” piagnucolò Inge.

“Vedi a mangiare troppo?” sorrise lui, allungando il collo per poterla baciare sulla fronte.

“Bleah!” fece Alex. “Ci sono io nel mezzo! Non fate le cose da grandi, dai!” e sgusciò dall’insolito abbraccio, lasciando che Tom rimanesse sopra Inge. “Io vado a giocare con Bill!” annunciò, prima di correre per il corridoio contento.

“Che dici, continuiamo a fare le cose da grandi?” la provocò, strusciando il naso contro il suo collo.

“Tom…” sospirò lei. “Sei insaziabile!” rise.

“Ti dispiace?”

“A me tanto.” Rispose una voce impastata dal sonno fuori dalla stanza.

I due ragazzi guardarono verso la porta e videro Bill, appena svegliato con Alex per mano. Sembrava gli fosse esplosa una bomba in testa, per il modo in cui erano i suoi capelli corvini.

“Se volete fare cose sconce, almeno chiudete la porta – magari anche a chiave. C’è un bambino, vorrei ricordarvi… sembrerebbe, sennò che voleste fargli vedere una prova pratica di come nascono.”

“Perché? Come nascono i bambini?” chiese Alex, tirandolo per il braccio.

Bill sgranò gli occhi, spaventato.

“Ora te lo tieni!” lo canzonò Inge.

“Hai voluto fare la battuta? Ora spiegaglielo!” rincarò Tom.

Il moro assunse un’aria disperata alla continua insistenza Alex, chiedendo aiuto, ma Tom gli fece segno di andarsene. Bill, quindi, sospirò e chiuse la porta, per poi dirigersi verso il piano inferiore con Alex, curioso di sapere la risposta alla sua imbarazzante domanda.

Il ragazzo, rimasto solo con Inge nel buio della stanza, scivolò accanto a lei e l’abbracciò.

“E tu che dici?” le sussurrò all’orecchio. “Lo vorresti un bambino?”

“Perché?” chiese subito lei. “Tu lo vorresti?”

Lui ci pensò un attimo.

“Bè, diciamo che tanto sono già allenato.” E la baciò sul collo, mentre con le mani l’accarezzava sui fianchi.

Inge lo baciò a sua volta, prendendo le mani del ragazzo tra le sue e facendole scivolare per il proprio corpo, fino a posarle sulla pancia.

“Ma questo sarà più piccolo.” Sorrise lei sotto le sue labbra.

“Vorrà dire che impareremo.” Mormorò, abbassandosi. Le sollevò la maglietta, scoprendole il ventre e le lasciò un bacio, per poi alzarsi nuovamente ed abbracciarla.

Improvvisamente un rumore per niente rassicurante giunse alle loro orecchie.

“Secondo te, cos’era?” domandò preoccupata Inge.

“Non ne ho la più pallida idea.” Rispose altrettanto preoccupato. “Ci crollerà la casa addosso, ora?”

“Esagerato!” gli diede una leggera spinta sulla spalla.

“Forse è meglio andare a vedere.” Propose Tom, alzandosi. Si infilò i pantaloni di una tuta che trovò sul pavimento e aspettò che Inge lo raggiungesse. Le mise, poi, un braccio intorno alle spalle ed insieme uscirono, dirigendosi verso il luogo del delitto.

Lei gli passò un braccio intorno alla vita nuda e si preparò ad assistere al peggio.

Questo era l’inizio di una nuova giornata. Una delle tante in cui i problemi forse sarebbero diminuiti, o – molto più probabilmente – sarebbero aumentati. Casa Kaulitz, dopotutto, non era mai stato un posto tranquillo, e ora che ad abitarvi erano più numerosi, non potevano minimamente pensare che la tranquillità potesse regnare. Per persone con il loro carattere, la tranquillità non era proponibile.

Certo, ci sarebbero stati momenti di conflitto, di tensione, forse di rabbia. Però, tutto si sarebbe risolto, in un modo o in un altro. Sarebbe bastato desiderarlo, perché mai è concesso un desiderio senza che sia dato anche il potere di farlo avverare. Può darsi, tuttavia, che si debba faticare per esso.

 

¤°.¸¸.·´¯`»  «´¯`·.¸¸.°¤

Ende

____________________________________________

Chi l'avrebbe mai detto? Anche questa fan fiction è finita. Questo era l'ultimo capitolo del sequel di 'Sopravvivere', l'ultima avventura di Tom, Inge, Bill, Georg, Gustav (per loro due, mi scuso per averli trascurati per praticamente tutta la durata della storia) e Alex.

Bè, che dire, se non che mi dispiace tantissimo - proprio come scrissi nell'ultimo capitolo della ff precedente...

Ok, svelerò una cosa: ho volontariamente lasciato una certa cosa in sospeso, seminando qualche dettaglio qua e là per il capitolo. Chissà... se mi verrà l'ennesimo colpo di pazzia, potrei anche vedere di creare ancora qualcosa al riguardo, ma come al solito, non garantisco niente. Prima di tutto, perché ho intenzione di portare avanti le altre ff iniziate e mai concluse - fatto che mi infastidisce parecchio..^^" - e poi perché tra praticamente 100 giorni (104 per l'esattezza) iniziano gli esami e io dovrei seriamente mettermi sotto con lo studio. V_V

Quindi, boh, vedremo... forse il prossimo anno!^^

Per cambiare argomento, ora voglio mostrarvi la foto che io ho trovato per Inge - aggiungendone anche un'altra come alternativa, perché mi sembrava abbastanza somigliante a come me la immagino io.

Inoltre, sono stata felice di aver ricevuto le vostre opinioni al riguardo:

Zickie ha pensato a lei, come Inge.

Antonellina, Lindsay Lohan.

fliegen88 ha trovato quest'altra.

Infine, Devilgirl89 mi ha mandato una mail con la descrizione: bè, non è proprio come me l'ero immaginata io - se hai visto le immagini, capisci - però non mi dispiacerebbe fosse anche come l'hai descritta tu.^^

Mmm, spero di aver citato tutti... E se ho dimenticato qualcuno, bè, fatemelo sapere che lo aggiungerò!

Ed arrivata a questo punto, penso non mi manchi altro che ringraziare tutti coloro che mi hanno seguita, sia commentando, che aggiungendo la storia tra i preferiti:

GELI93
AkatsukiGirl
AlYzScHrEiBy
angel1992
angeli neri
Antonellina
babakaulitz

Berlin__ED

BigAngel_Dark
billa483

carla_10

CrazyLalla
cris94
Devilgirl89
ElianaTitti
elisuccia22
elli_kaulitz
ellyk92
erikucciola
FabyVampire

fliegen88
Freiheit
fuckin_princess
Ihateyou
joey_ms_86
Kheth_el
kit2007
Kvery12

ladydarkprincess
Ladysimple

layla the punkprincess
martinaTH4e
marty sweet princess
meris
Moony Magic
nikkei

niky94
noirfabi
outsider

pandina_kaulitz
picchia
pIkKoLa_EmO
Raffuz
rakith
sbadata93
scella90
scrizzoth_95
selina89
sole a mezzanotte
TH Susy TH
tokio94
tokiohotel4e
tokiohotellina95
valevalethebest
vivihotel
xoxo_valy
ylime
Zarah
Zickie
_AngelikaTH_
_Ellie_
 

Anche in questo caso, spero di avervi citato tutti...^^"

Bè, che altro resta, ora?

Sinceramente non so, forse... solo il saluto finale.

Eh già.  Siamo arrivati sul serio alla fine. Come ho già detto, mi dispiace tantissimo, ma è anche vero che non poteva durare in eterno, questa storia: le mie idee rischiavano di cadere sulla banalità (e diciamolo, ad un certo punto mi sa proprio che un bel tonfo in quel campo ce l'hanno fatto...^^"), ma bene o male, a me è piaciuto come si sono svolte le cose. Certe volte, forse, la vicenda ha preso una piega un po' troppo dolciastra, quando avrei preferito rimanesse sul tono frizzante, ma giustifico parzialmente questo fatto, dicendo che in effetti, per certi eventi che ho trattato, forse l'insulina non era poi così inappropriata. x°D

Voi che dite? Vi è piaciuta? Spero di sì, anche perché se mi avete continuato a seguire senza che vi siate sentiti parte della storia, bè, siete parecchio masochisti!=P

Ok, ora è giunta sul serio la fine. La zona dell'autore non può diventare più lunga del già chilometrico capitolo che vi ho propinato! Quindi è bene che concluda.

Mmm, forse, l'unica cosa che mi dispiace di questo capitolo, è che è particolarmente frammentato. Inizialmente, volevo che fosse più lineare, ma alla fine ha preso questa strada. Ma forse anche così fa il suo effetto... dopotutto è un epilogo...^^" e gli epiloghi sono un po' particolari, no? (Sorridete ed annuite. x°D)

Via, ora un grandissimo bacio a tutti voi! Io vi saluto!

Alla prossima ff, o ad una delle tante che ho in programma di concludere - forse.

E questa volta, forza, un commentino lasciatelo, eh!! Che dite? Me lo merito, no?=P

Ps: vi lascio il mio indirizzo msn (anche se non capita molto spesso che sia in linea...^^"): irina_89@hotmail.it

Ah, prima che dimentichi: la frase che ho inserito all'inizio del capitolo è tradotta nella parte finale. A mio parere è la frase che rappresenta meglio il capitolo (e se vogliamo anche tutto il resto della storia). L'ho trovata per caso, e subito ci ho visto una perfetta corrispondenza con 'Just a Kid'...^^

Ora sparisco sul serio. xD

_irina_

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