Just a Kid di Irina_89 (/viewuser.php?uid=32402)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** When You Less Expect It ***
Capitolo 2: *** Lies, Lies, Lies ***
Capitolo 3: *** A New Little Presence In Their Life ***
Capitolo 4: *** Are You Ready To Be Father? ***
Capitolo 5: *** The Sound Of A Whisper ***
Capitolo 6: *** Kids Just Wanna Have Fun! ***
Capitolo 7: *** Does Reality Hurt? Yes, It Does ***
Capitolo 8: *** Inside The Broken Hearts ***
Capitolo 9: *** She Is Coming From The Past ***
Capitolo 10: *** ‘Cause I Still Love You ***
Capitolo 11: *** Can’t Stand Her Anymore ***
Capitolo 12: *** Revenge Is A Dish Best Served Cold ***
Capitolo 13: *** The Long Goodbye ***
Capitolo 14: *** Wishing You Were Somehow Here Again ***
Capitolo 1 *** When You Less Expect It ***
I
Just a kid
When You
Less Expect It
“Tom!
Muoviti!” era la terza
volta che chiamava. “È tardi! Esci subito da quella camera!”
Un paio di occhi si
aprirono a fatica nell’oscurità della grande stanza.
Che palle…
“Tom! Mi hai sentito?” ecco
la quarta, accompagnata da un frenetico bussare alla porta da parte del tanto
amato fratello. Avrebbe tanto voluto aprirla e sbattergliela in faccia nel giro
di due nanosecondi, ma ancora ai muscoli del suo corpo non arrivavano segnali
dal cervello, anch’esso tutt’ora lontano dal connettersi.
“Tom! C’è anche Inge?
Alzatevi subito!” la quinta. Ma il bussare, questa volta, si presentò come un
minacciare la porta di un’imminente distruzione, dovuta al vigore dei colpi del
moro.
Il ragazzo – ancora steso
sul letto – grugnì e cercò di alzarsi, ma qualcosa lo fermò. Cercò di mettere a
fuoco, ma prima di riuscirci, si ricordò.
La ragazza era sdraiata
accanto a lui, con la testa sul suo braccio. I capelli rossicci cadevano
dolcemente sul suo viso e le coperte lasciavano intravedere le fattezze del suo
candido corpo, illuminato dalla fioca luce della luna che splendeva nel buio di
quella sera di settembre.
Si ricordava bene, ora,
quello che era successo.
Posò una mano sulla spalla
di lei, che ancora dormiva.
“Svegliati…” le sussurrò
all’orecchio. “Dai, prima che Bill rompa la porta…”
La ragazza si rannicchiò,
per poi abbracciarlo. Ma dal suo movimento, Tom avvertì un fastidio
insopportabile e doloroso al braccio.
“Cazzo!” si agitò,
allontanando la ragazza con la forza, che rotolò sul letto, fino a cadere per
terra, dalla parte opposta alla sua.
“Ehi!” Bill da dietro la
porta continuava a sbraitare.
“Ma che diavolo…?”
farfugliò lei, alzandosi a stento e premendosi una mano sulla fronte che aveva
appena battuto.
“Accidenti a te!” berciò
lui, stringendosi il braccio contro il petto e ripiegandosi su se stesso.
“Ma sei scemo?” lo accusò
lei, una volta in piedi, tirando le lenzuola del letto per coprirsi, per poi
accendere la luce della stanza – che in un primo momento abbagliò entrambi.
“TOM! INGE!”
“No! Sei tu la scema!”
ribatté lui, guardandola minaccioso.
“E perché mai?” fece lei,
superiore, incrociando le braccia per sorreggere le coperte e guardandolo con
aria di sfida.
“Hai dormito tutta la sera
sul mio braccio!” ringhiò lui.
Lei alzò un sopracciglio
interrogativa, per poi capire all’improvviso. Subito uno sguardo malizioso le
comparve sul viso. Montò di nuovo sul letto e si avvicinò a lui a quattro zampe,
lasciando che il lenzuolo le cadesse di dosso.
Il ragazzo cercò di
tranquillizzarsi – braccio permettendo – e la guardò malizioso a sua volta.
“Guarda che Bill non
accetterà scuse, se gli facciamo fare un altro ritardo…”
“Lo so…” sussurrò lei. “Ma
mi piace il pericolo…” e lo provocò con i suoi occhi verdi.
Lui le sorrise, accettando
la sfida, ma non fece in tempo ad accorgersi della pericolosa intensità di
quello sguardo, perché Inge gli afferrò il braccio addormentato, facendolo
urlare.
“Tom! Che cazzo succede?”
sbraitò Bill da dietro la porta, senza smettere di colpire il legno.
“Ma sei impazzita?” gridò
lui, lasciando che il braccio dolorante cascasse inerme al suo fianco.
“Per vendicarmi della
botta…” sbuffò lei, coprendosi di nuovo con il lenzuolo.
“La pagherai…” soffiò Tom,
tentando inutilmente di afferrare il braccio senza sentire quell’acutissimo
formicolio che gli devastava la sensibilità dalla spalla alla mano.
Lei lo guardò superiore.
“Certo…” si alzò, quindi,
dal letto e prese le sue mutandine dal pavimento. Si mise poi a cercare il
reggiseno e tutto il resto degli indumenti – consistenti in una delle magliette
di Tom.
Lui li trovò vicino a sé e
glieli lanciò addosso.
“Tieni” disse lui con un
velo di irritazione nel tono.
“Grazie” sorrise lei
beffarda, buttandogli addosso il lenzuolo. Si vestì e poi uscì dalla stanza,
lasciando Tom sofferente sul letto.
Bill si affacciò e lo
guardò curioso.
“Cosa è successo?” chiese
innocente, avvicinandosi al fratello, che solo ora stava tornando in possesso
del suo braccio.
“Niente…” tagliò corto lui.
Il moro lo guardò per
niente convinto, per poi accorgersi di un particolare. Un particolare
decisamente rilevante.
“Porca miseria, Tom! Sei
ancora nudo! Vestiti immediatamente!” urlò a pieni polmoni.
“Guarda che ho capito!”
ribatté il rasta.
“E allora muoviti!” lo
spronò il fratello, iniziando a battere le mani.
“Se tu uscissi da questa
stanza, forse…” ed indicò la porta con un gesto della testa.
Bill sbuffò furente e fece
come gli era stato detto, per poi sbuffare ancora fuori dalla camera ed avviarsi
lungo le scale, sbuffando per la terza volta, con volume abbastanza alto perché
Tom potesse sentirlo.
Il ragazzo si tolse le
coperte di dosso e si alzò, infilandosi i boxer che trovò per terra solo per
arrivare fino al bagno. Aveva bisogno di una rinfrescata. Una volta dentro
sentì lo scorrere dell’acqua della doccia e vide attraverso il vetro appannato
la figura di un corpo a lui ben noto.
Si avvicinò, quindi, alla
cabina, togliendosi i boxer e lanciandoli nella cesta dei panni sporchi, ed
aprì.
“Tanto lo sapevo che eri
tu…” fece la ragazza, osservandolo da sotto gli schizzi della doccia.
Lui ridusse gli occhi a due
fessure e la guardò torvo.
“E dai, non dirmi che sei
ancora arrabbiato per prima!”
Ma lui non rispose.
“Stavo solo scherzando!” si
difese lei, sorridendogli.
Il ragazzo girò il soffione
della doccia nella sua direzione e non la considerò.
Lei sorrise dolcemente. Per
quanto potesse essere insopportabile quando la ignorava, Inge sapeva che questa
volta non era niente di serio. Quindi, si avvicinò a lui e lo abbracciò,
iniziando a baciarlo sulla schiena, per poi sfiorarlo con la punta del naso.
“Sei più tranquillo, ora?”
gli chiese sussurrando.
Lui si girò, prendendo le
braccia della ragazza tra le sue mani e la guardò negli occhi inespressivo.
Lei schioccò la lingua.
“Ok, cosa vuoi che faccia?”
chiese scocciata, roteando gli occhi.
Tom sorrise sghembo e
superiore. Ora era lui a comandare.
La portò con la schiena
contro il muro e le sollevò le braccia – ancora tra le sue mani –, appoggiandosi
con i gomiti alla parete della cabina.
La baciò appassionatamente,
per poi lasciarla libera, permettendo alle sue mani esperte di muoversi su di
lei.
Ma qualcuno bussò alla
porta violentemente.
“Non starete di nuovo
facendo oscenità in bagno, vero?” urlò schifata la voce di Bill.
Inge rise.
“Mi sa che questa volta
dobbiamo lasciare perdere…”
“Mi state ascoltando?”
batté rumorosamente alla porta. “Ehi! Voi! Razza di animali in calore
ventiquattr’ore su ventiquattro!”
“Che palle…” biascicò Tom.
“Per colpa vostra, arriverò
in ritardo!” gridò ancora il moro, colpendo la porta sempre più pericolosamente.
Prima o poi l’avrebbe buttata giù.
“Ma se stiamo solo andando
in un locale a bere qualcosa con Gustav e Georg!” rispose a tono Tom, chiudendo
il getto d’acqua ed uscendo dalla doccia, seguito da Inge.
“Sì, ma arriveremo tardi lo
stesso!” berciò Bill indignato.
La ragazza rise sotto i
baffi e Tom sospirò esasperato. Quindi si coprirono con degli asciugamani ed
uscirono dal bagno.
“Finalmente vi siete
decisi!” gli fece notare Bill, battendo freneticamente il piede per terra, le
braccia incrociate al petto. “Credevo che voleste battere il record di orgasmi
al minuto…”
“Di certo, tu non ti stai
nemmeno impegnando per battere il record di rompicoglioni…” lo guardò
strafottente Tom. Questa era la solita scena di routine.
“Vaffanculo, allora!” e
voltò loro le spalle. “Ma muovetevi, porca miseria!”
Inge si allontanò dal rasta
per andare in camera sua a prendere dei nuovi vestiti, ma venne trattenuta da
lui, che la prese per un braccio.
Lei lo guardò inarcando un
sopracciglio.
“Dobbiamo finire…” disse
lui con voce calda e bassa, tirando la ragazza a sé.
“Già. Non si lasciano le
cose a metà…” ribadì lei, alzandosi in punta dei piedi e baciandolo. Lui
l’afferrò per la vita e la sollevò da terra, mentre Inge intrecciava le mani
intorno al collo del ragazzo per non cadere.
Tom prese a baciarla sul
collo e sul petto, che l’asciugamano copriva sempre meno, visto che stava
scivolando verso terra.
“MUOVETEVI!” ruggì Bill dal
piano di sotto.
Inge e Tom risero ognuno
sotto le labbra dell’altro, per poi dividersi e andarsi a vestire.
Intanto Bill continuava a
girare per l’ingresso senza una meta, aspettando che quei teneri piccioncini
in calore avessero finito di fare i loro comodi e si degnassero di scendere.
“A che punto siete?” gridò
ancora.
“Al punto che ora vengo giù
e ti chiudo quella dannata bocca!” rispose Tom dal piano superiore.
Bill sbuffò per l’ennesima
volta quella sera. Perché nessuno in quella casa lo capiva? Chiedeva tanto, se
voleva essere puntuale? L’ultima volta che era successo una cosa del genere
erano arrivati mezz’ora dopo. Peccato, che l’appuntamento fosse stato
posticipato di un’ora… Quella volta suo fratello si vendicò piombando in camera
sua alle tre di notte e saltando sul suo letto.
Per Bill fu un vero trauma.
Ma questa volta,
gliel’avrebbe fatto passare lui un trauma, se non si fosse presentato
davanti ai suoi occhi entro cinque minuti.
Che palle…
***
Tom si portò alla bocca il
terzo boccale di birra e ne finì il contenuto, proprio mentre una cameriera ne
portava un’altra grande scorta al loro tavolo circolare.
“Dai, Bill!” rise
sguaiatamente Georg. “Non sarai ancora arrabbiato per questa sera!”
Il cantante incrociò le
braccia al petto e sbuffò.
“Calmati!” fece Gustav,
sorseggiando la sua birra.
Bill roteò gli occhi. Era
un’ora che non facevano altro che sfotterlo. E gli giravano come non mai.
“Possibile che tu sia così
permaloso?” infierì suo fratello, biascicando.
“Non è colpa mia se voi
siete tutti dei cretini!” proferì lui, incazzato, ma con aria superiore.
“No, ma è colpa tua se te
la prendi tanto!” rincarò Tom.
“Dai, era solo uno
scherzo!” rise Inge, anche lei svuotando il suo boccale di birra.
“Stronzi…” mormorò Bill.
Gli altri risero allegri e
divertiti. Programmare l’uscita al pub un’ora dopo l’ora stabilita con Bill, era
decisamente la cosa più idiota potessero fargli per farlo incazzare. Bill amava
essere in orario, e odiava chiunque potesse fargli fare solo un minuto di
ritardo – ovviamente solo quando il motivo del ritardo non fosse lui stesso.
Quella sera i ragazzi si
erano messi tutti d’accordo per giocare questo scherzo al moro, facendogli
credere di essere in ritardo, proprio come l’altra volta. Tom ed Inge vennero
ringraziati per il loro sostanziale contributo.
Bill afferrò la sua birra e
la bevve tutta d’un sorso, battendo, poi, il boccale rumorosamente sul tavolo,
ribadendo il concetto che fosse incazzato come pochi l’avevano mai visto.
Per calmarlo servì tutta la
pazienza di Tom – sempre più difficile da trovare, in questi casi – e una bella
dose di schiaffi al proprio orgoglio, assecondando il fratello di essere uno
stronzo che si divertiva a rovinare la vita altrui con scherzi di poco gusto.
“Bill, tranquillo”
intervenne ad un certo punto Inge. “Si sa, tanto, che Tom è un idiota…” rise
biascicando qualche parola.
“Ehi! Passi al
nemico?” ribatté il chitarrista stizzito.
Lei annuì, prendendo uno
dei boccali davanti a lei e rovesciandone un po’ il contenuto nel suo – e sul
tavolo.
“Ehi! È mio!” protestò
Georg, notando quanto drasticamente si era svuotato.
“Che ti ha fatto, Inge?”
chiese Bill, afflitto, sfoderando dei teneri occhioni dolci alla ragazza,
dicendole implicitamente quanto fosse dispiaciuto che un tale cretino se la
potesse prendere con una come lei.
Lei iniziò, quindi, a fare
la parte della vittima, appoggiando le accuse di Bill, per poi ridere delle
espressioni sdegnate di Tom.
“Pensa che mi ha persino
buttato giù dal letto!”
“Ti ha buttato giù dal
letto?” ripeté Bill sbalordito.
Lei annuì, mentre Tom le sbuffava in faccia per la sesta volta, guardandola minaccioso.
Georg e Gustav, intanto,
ridevano per quella scenetta che veniva loro proposta – come al solito – dalla
esordiente compagnia teatrale Kaulitz-Träne.
“Ma lei aveva dormito tutta
la sera sul mio braccio!” replicò il rasta.
“Non è un motivo
sufficiente per scaraventarla a terra!” la difese il moro, ingerendo altro
liquido dorato.
“Ma mi faceva male, cazzo!”
si lamentò l’altro, afferrando a sua volta un altro boccale e portandoselo alla
bocca.
I due Kaulitz si
squadrarono tenendo saldamente le loro birre in mano, quasi come se volessero
fronteggiarsi a chi ne beveva di più.
“Vabbè, comunque ti
capisco, Tom…” fece Georg, rendendosi, così, partecipe dell’opera.
“Oh! Finalmente!” declamò
arcigno contro il fratello, allargando le braccia.
“Ma Georg non fa testo!”
rispose a tono Bill.
“E perché, scusa?” alzò un
sopracciglio infastidito il bassista.
“Perché tu dormi sempre con
la testa sul braccio! È ovvio che ti si addormenti ogni volta!”
“Proprio per questo capisco
come ci si sente!”
“No, tu non capisci mai
niente!” lo diffamò Bill, puntando il dito indice della mano, che reggeva ancora
il boccale, contro di lui.
Georg lo guardò torvo.
“Ma sì! Vuoi che ti ricordi
cosa hai fatto l’ultima volta sul tuorbus?” fece Bill, lanciandogli uno sguardo
superiore.
Georg sospirò.
“Che palle…”
“Cosa è successo?” chiese
Inge, tornando alla rimonta nella classifica delle comparse di quella scena.
“Praticamente, una notte –
mentre tutti dormivamo beatamente,” sottolineò il cantante. “questo deficiente
inizia ad urlare come un forsennato e -”
“Ehi, ma se la racconti
così, faccio solo la parte del cretino!” gli fece notare il ragazzo.
“Era proprio quello il mio
intento, sai?” ridacchiò Bill.
Dopo aver sbuffato un’altra
volta, Georg prese parola, raccontando uno dei tanti aneddoti accaduti sul quel
mega bus.
“Praticamente… stavo
dormendo, poi ad un certo punto – evidentemente – mi girai nel letto e portai il
mio braccio sopra la testa. Siccome non mi sentivo più il braccio, ma avevo la
sensazione di una mano inerme sul mio viso mi svegliai di soprassalto, prendendo
la mano insensibile con l’altra e scaraventandola contro la parete del bus con
tutta la forza che avevo.”
“Non dimenticarti che
urlavi come se ti avessero appena aggredito…” lo interruppe Bill, sorseggiando
altra birra. Tom lo imitò.
“Ma ne avevo tutto il
diritto!” berciò lui. “Comunque, quando il mio braccio iniziò a svegliarsi,
iniziai a sentire un dolore allucinante alle nocche…”
“Se sei cretino…” commentò
Tom.
“Ehi! Guarda che ti stavo
difendendo!” lo riprese l’amico.
“Sì, ma questo non cambia
che tu sia cretino…”
“Fottiti…” sibilò l’altro,
afferrando il suo boccale praticamente vuoto e bevendole la birra restante.
La risata di Inge si fece
pian piano sempre più rumorosa, sovrastando le parole degli altri tre ragazzi –
Gustav se ne stava buono a sorseggiare la sua birra.
“Ok, tu hai bevuto
decisamente troppo…” commentò Tom, togliendole il boccale di mano e posandolo
sul tavolo.
“No! Dammelo! È mio!”
piagnucolò lei, ridendo.
“Non se ne parla nemmeno…”
convenne Bill, puntandole un indice contro ed assumendo un’espressione di
rimprovero – non del tutto soddisfacente.
“Ma quella è la mia birra!”
si lamentò lei.
“No, era la mia…”
puntualizzò Georg.
“Non è vero!” ribatté lei,
incrociando le braccia al petto e mettendo il muso come i bambini piccoli.
“Sì, invece!” replicò lui.
“Georg, non ti ci mettere
pure tu…” sospirò Tom, per poi alzarsi e prendere Inge per un braccio, facendola
alzare a sua volta.
“Dove andiamo?” chiese lei,
seguendolo barcollando.
“A casa…” rispose lui,
salutando gli altri con un cenno della testa. Ora bastava solo chiamare Saki e
convincere Inge.
“No, io voglio restare con
loro!” si impuntò, infatti, lei.
“No, tu ora vieni a casa.”
“No!”
“Sì!”
La ragazza si intestardì
nel cercare di rimanere nel locale, ma Tom era ancora abbastanza sveglio da non
cedere. La prese per la vita e se la caricò in spalla.
“Mettimi giù!” gridò lei,
iniziando a scalciare.
“Nemmeno morto…” rise lui
divertito, cercando di fermarle le gambe con la mano libera.
“Uffa!”
I tre ragazzi si misero a
ridere, per poi decidere di andare anche loro a casa. Dopotutto erano le tre…
Gustav chiamò Saki, che in
poco tempo arrivò davanti all’Irish e li caricò in macchina, visto che non era
pensabile che solo uno di loro potesse guidare in quelle condizioni. Gustav
compreso.
I ragazzi salirono in
macchina e solo a quel punto, Tom mise giù Inge, che nel frattempo si era
addormentata. L’omone passò prima da casa di Gustav, poi scaricò Georg, per
giungere, infine, a quella dei gemelli.
Bill scese, aspettando che
il fratello prendesse Inge – questa volta in maniera più civile e comoda – e la
portasse dentro, le braccia della ragazza penzolanti inermi verso il basso.
Una volta dentro, Tom la
portò sul suo letto, la spogliò e le mise la sua maglietta, per poi coprirla con
le coperte, mentre lei si rannicchiava contro il cuscino e farfugliava parole
incomprensibili. Quindi, anche lui si spogliò, rimanendo in boxer, e si mise
vicino a lei, allungando un braccio intorno alla vita della ragazza.
L’unica sua preoccupazione,
ora, era che lei non vomitasse nel bel mezzo della notte…
***
Dischiuse un occhio. Poi
l’altro.
Si girò a guardare la
sveglia digitale sul comodino, oltre la spalla di Tom, sdraiato prono accanto a
lei.
Cazzo! Le otto e un quarto!
Subito si alzò di scatto,
ma una dolorosa fitta alla testa la fece ricadere sul letto, gli occhi serrati e
le mani premute sulla fronte. Sembrava che mille chiodi cercassero di perforarle
la testa.
Ma quanto aveva bevuto ieri
sera?
Poi, si ricordò di un
dettaglio. Quel giorno entrava a lavorare più tardi. Sospirò di sollievo. Aveva
almeno due ore a disposizione per farsi passare quel terribile mal di testa. Non
era possibile presentarsi in quello stato.
Allungò una mano verso il
comodino e cercò le aspirine all’interno del cassetto. Ne prese una e la buttò
giù insieme ad un sorso d’acqua dalla bottiglia che teneva vicino al letto.
Poi si stese di nuovo e
chiuse gli occhi, mentre Tom si rigirava, mormorando qualcosa che lei non capì.
Dopo poco, si costrinse ad
aprire gli occhi. Si sarebbe addormentata di nuovo, altrimenti.
Un braccio, di colpo, le
cadde sulla pancia e lei per poco non reagì tirando un pugno in faccia
all’innegabile colpevole di fianco a lei, ancora preso a rigirarsi nel letto.
Lei lo osservò con la testa
girata verso di lui, finché non si mise di nuovo comodo, pancia sotto, e
stravaccato come era solito dormire ogni volta.
Sorrise.
Era davvero bello.
La ragazza, poi, si girò
sul fianco e gli tolse i rasta che gli coprivano scompostamente il viso. Non ne
aveva mai abbastanza di guardarlo dormire. Più volte lui, al suo risveglio,
l’aveva trovata a fissarlo, e più volte le aveva detto che odiava essere
fissato da lei in quel modo; ma Inge sapeva che non era vero. Tom Kaulitz amava
essere fissato, solo che lo metteva in imbarazzo quando lo faceva lei. E questo
le piaceva, perché soltanto lei poteva vedere il vero Tom, un Tom sconosciuto a
tutti gli altri. Per questo continuava.
Quando, però, le sembrò che
i mille chiodi che tentavano di attraversarle il cranio da parte a parte,
avessero rinunciato all’impresa, si alzò e si vestì, lasciando che i suoi occhi
si soffermassero ancora sul quel Tom addormentato, prima di uscire e chiudere la
porta dietro di sé.
***
Era sera.
Tom stava suonando la
chitarra in camera sua, provando a buttare giù una melodia per una prossima
canzone. Quelle note gli giravano in testa da tutta una giornata – forse era
dovuto alla sbronza presa il giorno prima – per questo ora aveva preso la
chitarra e stava cercando di renderle nel migliore modo possibile, visto che si
adattavano perfettamente al significato del nuovo testo scritto da suo fratello.
Gli spartiti erano sul
letto, pieni di scarabocchi e cancellature, ma alla fine di due ore di lavoro,
contenevano anche una melodia che sarebbe stata molto apprezzata da Bill e gli
altri due. E poi l’avrebbe fatta sentire pure ad Inge. Non l’avrebbe mai
detto, ma la ragazza aveva un buon orecchio in fatto di musica e certe volte –
benché non sapesse niente in materia – riusciva anche a dargli una mano.
Improvvisamente il
campanello suonò, facendogli perdere la concentrazione e quelle note che gli
erano appena balenate in mente.
“Bill! Vai tu ad aprire!”
urlò dalla camera. Poi si ricordò. “Ah, già… lui è ancora al servizio
fotografico…” mormorò tra sé e sé.
Si alzò, quindi, e posò la
chitarra sul suo sostegno, accompagnando ogni gesto con un’imprecazione a
chiunque avesse suonato. Chi cazzo poteva essere a quell’ora?
A proposito…
Tom si girò verso la
sveglia digitale sul comodino ed adocchiò l’ora.
Le otto. Chi cazzo è a
quest’ora?
Scese le scale velocemente
e premette il pulsante per azionare lo schermo del citofono, ma non vide
nessuno. Quindi, ancora più irritato, chiuse la visualizzazione e tornò in
camera sua.
Riprese in mano la chitarra
e si rimise seduto sul letto con gli spariti davanti.
Dove cazzo ero arrivato?
Si rigirò quei fogli un po’
tra le mani per poi concludere – ancora più furioso – che avrebbe dovuto
riprendere tutta la melodia da capo. Sistemò gli spariti sul letto in modo da
poter vedere tutte le note scritte e cominciò a far vibrare le corde della sua
nuova Gibson, mentre con la sinistra premeva le corde con movimenti veloci ed
esperti, creando una melodia allo stesso tempo dolce, ma anche energetica.
Arrivato di nuovo al punto
in cui aveva lasciato, provò a suonare qualche altra nota per continuare la sua
composizione. Dopo aver scartato la ripetizione di qualche accordo già preso in
considerazione e dopo aver decretato che l’arpeggio rendeva il tutto troppo
diabetico, decise di attaccare la chitarra all’amplificatore, aumentando gli
effetti con il pedale e provando a fare qualche power – tecnica diametralmente
opposta all’arpeggio, ma che si intrecciava alla perfezione con le note già
trovate.
Si fermò, poi, un attimo
per prendere la tracolla della chitarra che teneva in una borsa lì vicino e
l’agganciò allo strumento, per poi chiudere gli occhi e iniziare a suonare come
se fosse sopra un palco. Si scatenò per qualche minuto, improvvisando brani già
scritti da lui o altri chitarristi, ma poi fu costretto a fermarsi per un ronzio
che sentiva provenire dal piano inferiore.
Spense l’amplificatore e
cercò di capire cosa potesse essere.
Subito il campanello suonò
di nuovo.
Con un nuovo sospiro ed una
nuova ed elaborata imprecazione, Tom si affrettò a posare ancora una volta la
chitarra sul suo sostegno ed a scendere nell’ingresso. Riattivò lo schermo del
citofono, maledicendo chiunque avesse voglia di fargli uno scherzo come quello
di poco tempo fa. Ma fortunatamente, questa volta c’era davvero qualcuno fuori,
anche se l’espressione sul viso del fratello non significava niente di buono.
Tom gli aprì il cancello e
si affacciò alla porta di casa.
“Vieni qui, Tom…” fece Bill
– carico di borse contenenti i suoi vestiti per il servizio – con tono
titubante.
Suo fratello corse verso di
lui senza capire cosa volesse, ma tutto gli fu chiaro non appena vide un
piccolo, ma enorme piumino che copriva un bambino sdraiato vicino al cancello,
addormentato. Aveva una sciarpa nera intorno al collo e un borsone al suo
fianco.
Forse era stato lui a
suonare prima, rifletté Tom, notando che anche se fosse stato in piedi non
l’avrebbe potuto vedere dallo schermo, posizionato troppo in alto.
“Chi è?” fece lui,
indicando il piccolo esserino avvolto in quel giacchetto troppo grande.
“Cosa vuoi che ne sappia!”
rispose Bill, guardando torvo il fratello. “Sono arrivato ora!”
“Forse è meglio portarlo in
casa…” constatò Tom, avvicinandosi al bambino e toccandolo con la mano sulla
fronte.
“Già, fa anche freddo,
visto che siamo in autunno…” convenne Bill.
Cosa voleva dire tutto
questo? Perché un bambino stava dormendo ai piedi del loro cancello? Era una
trovata di David – per quanto assurda fosse – o roba del genere?
Non sapeva darsi una
risposta, come d’altronde anche suo fratello.
Tom, quindi, prese la sua
borsa e se la portò su una spalla, per poi chinarsi nuovamente e prendere il
bambino tra le braccia, mentre Bill lo anticipò per aprirgli le porte che il
chitarrista si era chiuso dietro nell’uscire, per poi aspettare che lui fosse
passato prima di richiuderle.
Il moro posò le borse
nell’ingresso e seguì Tom che stava salendo le scale per mettere il bambino in
un letto. La prima camera che si presentò loro fu quella di Inge, ma visto che
lei si era praticamente trasferita in quella di Tom, non sarebbe stato un
problema lasciare quell’inatteso ospite là finché non si fosse ripreso.
Bill corse, invece, in
camera sua e prese il termometro e lo portò a Tom, che tolse il giacchetto al
bambino, per verificare se avesse la febbre o meno.
“Non ti pare una scena già
vista?” rise Bill.
“Già…” rispose Tom, non
molto conquistato dall’allegria del fratello.
“Ehi! Non è che è suo
parente?” ipotizzò il moro.
Tom lo guardò alzando un
sopracciglio.
“Sennò l’altra possibilità
che mi era venuta in mente,” disse Bill, portandosi un dito sotto il mento ed
assumendo un’aria pensierosa. “era che questo bambino sia tuo figlio…” e mostrò
un sorrisino sornione.
“Cosa?” fece Tom, altamente
stizzito. “Ma vuoi scherzare?”
“Bè, conoscendoti, potrebbe
essere il frutto di una delle tue tante notti…” continuò con il solito
atteggiamento.
“Stai cercando guai…” lo
minacciò Tom con un dito.
“No” negò deciso lui. “Sono
solo realista.”
“Bill…” la pazienza stava
pian piano esaurendo.
“Ma dai! Come nei film! Te
lo immagini? Ora troveremo un pezzo di carta con su scritto che la madre non può
tenerlo e…” Bill si bloccò.
Poi i gemelli si
guardarono, per spostare, quindi, lo sguardo sulla borsa del bambino, ma i
significati che si potevano leggere sui loro volti, erano decisamente
differenti.
Bill era curioso. Tom era
intimorito. C’erano sul serio delle possibilità che quello fosse suo figlio. Ed
anche relativamente alte.
Entrambi si avvicinarono
alla borsa e l’aprirono. Dentro vi trovarono vestiti – non proprio ben tenuti –
dei giochi…
Ed un biglietto.
Deglutirono tutti e due.
Sembrava che tutto ciò che stava dicendo Bill, si stesse avverando.
“Secondo me, dovresti
leggerlo tu…”
“Bill, non scherzare…”
rispose Tom, leggermente preoccupato. “E poi anche tu non sei da meno, certe
volte! Potrebbe essere anche tuo!”
Bill non rispose,
limitandosi ad adocchiare il piccolo pezzo di carta. Suo fratello, quindi,
deglutì un’altra volta e l’aprì.
Non appena finì di leggere
le poche righe, sentì la testa girargli per qualche secondo.
“Che dice?” chiese curioso
il cantante, allungando gli occhi sul biglietto.
Il rasta glielo passò senza
fiatare ed il moro lesse ad alta voce:
“Tom, questo è tuo figlio.
È nato quattro anni fa. Non riesco a mantenerlo con il lavoro che faccio. Ti
prego, prenditene cura.”
Seguirono attimi di pesante
silenzio, in cui
nessuno dei due osava parlare.
“Oddio…” fece Bill in un
sussurro, poco dopo. “Proprio come avevo detto…” ed alzò lo sguardo su suo
fratello. “Ehi, Tom, lo giuro, io non sapevo niente…”
“Bill, stai zitto.” Sibilò
lui. “Non richiedo le tue battute ora. La questione è seria.”
“Guarda che lo so. Cercavo
solo di sdrammatizzare…” si difese Bill, leggermente offeso dalle parole di Tom.
Non era così ottuso da non capire che questa situazione era più grave dell’avere
solamente un ospite inaspettato in casa.
“Non hai capito: non si può
sdrammatizzare una situazione del genere.”
Bill si zittì, sentendosi
ferito in pieno dal fratello, ma capendo come potesse sentirsi lui
in quel momento.
“Non c’è nemmeno un nome…”
disse, quindi, rigirandosi il foglio tra le mani.
“Già. Nessun nome.” Ripeté
Tom.
Merda…
¤°.¸¸.·´¯`» «´¯`·.¸¸.°¤
Continua...
_____________________________________________________________________________________
ATTENZIONE:
I Tokio Hotel non mi
appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera
della loro personalità. No scopo di lucro.
***
Ed eccomi di nuovo qui.
Prima di salutarvi, devo
assolutamente chiarire una cosa: questa fan fiction non riprende quasi per
niente la storia che l'ha preceduta, ho solo usato i medesimi personaggi
perché mi sembrava troppo triste abbandonarli (e qui potete pure ridere). Mi ero
talmente affezionata ad Inge ed al suo rapporto con Tom, che non ho potuto fare
a meno di inserirla di nuovo.
Proprio per questo non è
necessario che voi tutti, oh carissimi e santissimi lettori che mi seguite,
abbiate letto 'Sopravvivere'. Non ci saranno - credo - riferimenti sostanziosi
alla vita di Inge. Solo una buona dose di guai. ^^
Ah! Non aspettatevi frequenti
aggiornamenti - vi avverto subito - perché non è ancora conclusa. Al momento ho
scritto solo questo capitolo ed il prossimo. Certamente, vedrò di essere il più
veloce possibile, ma non garantisco. Chiedo venia in anticipo per tutti i
ritardi che farò.
Bè, ora non mi resta che
ringraziare chiunque avesse avuto la voglia di leggere questo capitolo (oltre
che a tutte le 15 persone che hanno commentato l'ultimo capitolo di
'Sopravvivere').
Mi aspetto qualche
recensione! Mi raccomando! XD
Un'ultima cosa: visto che
oggi è il primo Settembre, fare gli auguri a quei due ragazzi mi sembra
d'obbligo.
Auguri,
Kaulitz!
_irina_
|
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Capitolo 2 *** Lies, Lies, Lies ***
Just a kid
Just a kid
Lies, Lies,
Lies
Prese le chiavi dalla tasca
del giacchetto, facendo attenzione a non far cascare la grossa busta che stava
cercando di reggere con una sola mano, e le inserì nella toppa, puntellando la
busta sull’anca destra. Aprì, dunque, la porta con un piede, in modo da usare la
mano ormai libera per sorreggere la busta con più facilità. Entrò e chiuse la
porta con lo stesso piede, facendola sbattere un po’ troppo forte.
Attraversò l’ingresso,
notando la luce dello studio accesa e due figure all’interno oltre la porta a
vetri chiusa. I gemelli erano là.
Salì le scale e si diresse
in camera sua per posare tutto l’occorrente per il suo lavoro che fu costretta a
portare a casa per mancanza di tempo. Ma non appena aprì la porta della stanza,
vi notò all’interno un piccolo particolare che quella mattina non c’era:
un bambino.
Cercò di guardare meglio,
forse se l’era immaginato – troppo lavoro, ultimamente – ma anche una
volta che ebbe chiuso gli occhi, per poi riaprirli, quel bambino era sempre sul
suo letto, addormentato. Si avvicinò al piccolo e lo osservò. Era davvero
strano: sembrava la copia esatta dei gemelli.
Posò, poi, più
delicatamente e silenziosamente possibile la busta per terra e si affrettò a
chiudere la porta. Scese le scale, saltando gli ultimi tre scalini, e si diresse
verso lo studio, che trovò vuoto e con luce spenta. Si girò e notò, quindi, che
i due gemelli si erano spostati in cucina.
“Allora?” la voce di Tom.
“Non lo so…” la risposta di
Bill.
Silenzio.
Strano che ci fosse
silenzio, commentò Inge tra di sé. La loro conversazione, inoltre, presentava un
tono piuttosto insolito. Sembravano preoccupati e nervosi.
Si incamminò verso di loro
e si affacciò in cucina.
“Chi è il bambino in camera
mia?” chiese appoggiandosi al muro dell’immensa stanza.
Tom, di spalle, trasalì, ed
Inge lo vide portarsi una mano al petto, per poi girarsi verso di lei e
guardarla con occhi sgranati.
“Mi hai fatto prendere un
colpo!” farfugliò, sospirando.
“Ciao, Inge.” La salutò con
la mano Bill, seduto di fronte al fratello. “Non ti avevamo sentito arrivare…”
“Ciao.” Ricambiò il saluto
al moro, per poi avvicinarsi a Tom e lasciargli un bacio sulle labbra. Si
sedette, quindi, anche lei su una sedia intorno al tavolo.
“Come è andata oggi?”
chiese Bill.
Lei sospirò, stravaccandosi
sulla sedia e mostrando una smorfia di stanchezza infinita.
“Hanno anticipato ancora
una volta la scadenza del progetto…” mormorò, per poi stendersi sul tavolo con
le braccia e nascondere la testa tra esse.
Il cantante rise, mentre
Tom si limitò ad un sorrisetto.
“A voi come è andata la
giornata?”
“Cosa?” fece Tom, con un
tono leggermente nervoso.
“La giornata… cosa avete
fatto…?” fece la ragazza alzando la testa e guardandolo perplessa. Non era il
solito Tom.
“Ah…” e il chitarrista rise
isterico.
No, non era decisamente il
solito Tom.
“Io ho fatto il servizio
fotografico.” Rispose Bill. “Potrai vedere le mie magnifiche foto sulla rivista
– com’è che si chiama? Non è molto famosa… - vabbè, su una rivista, la prossima
settimana.”
“E tu?” chiese Inge al
rasta.
Tom iniziò a dondolarsi
sulla sedia.
“Ho… ho cercato di comporre
una melodia per il nuovo testo di Bill.” rispose con un gesto della mano molto
vago.
“È anche molto bella!” lo
elogiò il fratello. “In questi giorni, quando dovremmo andare a fare le prove,
la faremo sentire anche a Georg e Gustav – sai, per completarla – e poi la
proporremo a David.”
“Allora, in bocca al lupo!”
sorrise Inge.
“Ehi, perché non gliela fai
sentire?” fece Bill a suo fratello.
Lui sbuffò. “Ma devo andare
a prendere la chitarra in camera e -”
“Ah!” lo interruppe Inge,
ricordandosi solo ora di un fatto decisamente curioso. “Chi è il bambino in
camera mia?”
Un tonfo annunciò a tutti i
presenti la caduta di Tom dalla sedia.
Bill si alzò per appurare
che suo fratello fosse ancora tutto intero. Una volta, poi, sentita la serie
infinita di imprecazioni che Tom non si risparmiò di farfugliare, si rimise
seduto. Stava anche troppo bene.
Il rasta si alzò e raccolse
la sedia, per poi sistemarla di nuovo intorno al tavolo e sedercisi di nuovo
sopra.
“Dicevamo…?” disse, poi,
sorridendo tirato.
“Che c’è un bambino
addormentato in camera mia…” rispose Inge sospettosa. Cosa diavolo era preso a
Tom?
“Ah…” fece lui. “Sì, ecco…
lui è… nostro cugino.” Tossì, poi.
Bill strabuzzò gli occhi.
Fortuna che Inge era rivolta verso Tom e non l’aveva visto.
“Vostro cugino?”
“Nostro cugino?”
Ripeterono Inge e Bill
all’unisono.
“Sì…” e fulminò il fratello
con lo sguardo. “L’hanno portato qui perché…”
“Perché i suoi genitori
andavano in vacanza con i nostri.” Lo salvò in tempo Bill, subito maledicendosi
per il grande casino a cui stava andando ad immischiarsi sempre più
pericolosamente ogni secondo che passava.
“Ah…” fece Inge. “E come si
chiama?” chiese lei innocente e curiosa.
“Ehm, fattelo dire da lui
quando si sveglia…” suggerì Tom, cercando di sottrarsi a quella domanda.
Lei alzò un sopracciglio
scettica. Non le pareva che Simone avesse fratelli o sorelle… ma forse Gordon
sì. Tuttavia, Gordon non era il vero padre dei ragazzi, come si spiegava,
quindi, tutta quella somiglianza?
Forse era figlio di un
fratello – o sorella che fosse – od addirittura del padre naturale di Tom e Bill
con un’altra donna, anche se non le sembrava avesse molto senso che i genitori
attuali dei due gemelli facessero una vacanza con lui… o forse sì?
C’era qualcosa che non le
tornava, ma si convinse a non badarci più di tanto.
“Userà sempre la mia
stanza?” chiese, quindi, lei.
“Se a te dà fastidio, no.”
Rispose Bill, alzandosi e prendendo una bottiglia di succo d’arancia dal
frigorifero. “Volete?” Tom negò, mentre Inge ne prese volentieri un bicchiere.
“Vuoi che si porti in
un’altra stanza? Che ne so… in quella degli ospiti, ad esempio….” Continuò il
moro, tornando a sedere vicino a loro.
“No, no, figurati! Era per
sapere… perché se lui usasse quella stanza, dovrei portare da un’altra parte
tutto ciò che mi serve per il lavoro. Sai, non mi piacerebbe piombargli in
camera ogni volta che mi serve qualcosa…” sorrise.
“Potresti, allora, portare
la tua roba nella stanza degli ospiti, tanto non la usa nessuno.” Propose Tom,
ricordando a tutti della sua presenza.
“Ok, allora userò la tua,”
lo guardò beffarda lei.
“La mia? Ma se non ci sta
nemmeno tutta la mia roba!” ribatté lui.
“Questo perché sei
disordinato ogni oltre limite.”
“E allora? Mi piace il
caos!”
“A me non più di tanto…”
commentò lei con aria esageratamente afflitta.
“Allora prenditi la stanza
degli ospiti, scusa!” brontolò lui, lasciando che un piccolo sorriso trapelasse
sulle sue labbra.
“No, proprio perché lo dici
tu, credo che invaderò la tua.”
Tom non rispose, lasciando
che il suo sguardo torvo parlasse per lui. Il sorriso sulle labbra, però, lo
tradiva.
“Lo sapevo che avresti
detto di sì…” sorrise la ragazza, sporgendosi verso di lui e baciandolo sulle
labbra. “Comunque, stai pure tranquillo…” fece, tornano seduta. “Scherzavo.
Metterò tutte le mie cose nell’altra camera. Sai, non vorrei rendermi colpevole
di distruggere il tuo armonico caos, conquistato con tanto sudore della fronte.”
Fece lei magnanima.
“Ah, quanto sei
comprensiva…” sospirò lui, eccessivamente colpito da tanta generosità, per poi
darle un buffetto sulla guancia, sorridendole sornione.
Lei rise.
“Lo so.”
***
Inge si alzò per posare
nell’acquaio piatti e bicchieri. Poi avrebbe caricato tutto nella lavastoviglie.
Bill e Tom, intanto, stavano rispettivamente riponendo nel frigo la roba
avanzata e scuotendo la tovaglia sul terrazzo.
All’inizio della loro
convivenza, era Inge a sistemare la cucina – tra uno sbuffo e l’altro per
renderli partecipi di quanto a lei non stesse bene tutto ciò. Ma dopo aver
indotto uno sciopero delle sue mansioni per una settimana abbondante, ed aver
assistito ad una crescita esponenziale delle stoviglie sporche – che nessuno
osava più toccare – la ragazza riuscì a far capire ai due Kaulitz che avrebbero
dovuto collaborare. E da quel giorno, con grande soddisfazione di Inge, che –
credendo impossibile che questi due fossero andati avanti senza governante per
tutto quel tempo – aveva smesso di criticarli, Tom abbandonò la strategia di
difendersi con il suo solito discorso menefreghista: che senso ha fare ciò
che già qualcuno fa al posto nostro?
“Ehi, ma non è che si è
svegliato?” chiese Inge, finendo di portare le posate nell’acquaio, alludendo al
bambino che ancora sembrava dormisse.
“Ma scusa, se si fosse
svegliato, sarebbe venuto giù, no?” rispose il rasta, piegando al tovaglia.
“Tom, è un bambino di
quattro anni che è qui per la prima volta…” gli fece notare Bill, fermandosi a
guardare il fratello esasperato.
“Ah, non è mai venuto in
casa vostra?” domandò la ragazza.
“Bè, no… di solito… di
solito andavamo noi a trovarlo…” ripose titubante il rasta.
“Ah, capito…” ed aprì
l’acqua per bagnare piatti bicchieri e quant’altro, evitando così che lo sporco
si attaccasse.
“Io vado a vedere come
sta…” annunciò Bill, che aveva finito i suoi compiti di quella sera, uscendo
dalla cucina.
“Aspetta, vengo anch’io.”
Lo rincorse Inge.
Tom non poté far altro che
seguirli. Non era ammesso che restasse solo in cucina.
Arrivati davanti alla porta
della camera in cui dormiva, bussarono. L’educazione prima di tutto, soprattutto
con gli ospiti.
“Bah…” mormorò Tom, per
niente d’accordo. Era un bambino, non occorreva bussare.
In tutta risposta, suo
fratello gli diede una gomitata ed Inge una pacca sulla spalla.
Malgrado il loro tentativo
di buona educazione, non sentirono risposta, quindi, aprirono la porta.
“Cioè, prima bussate e poi
entrate senza che abbia risposto? Magari dorme ancora…” commentò scettico il
chitarrista, ricevendo la stesa risposta di pochi secondi prima.
“È un bambino! Non possiamo
lasciarlo solo!” lo riprese la ragazza.
Tom sbuffò, incrociando le
braccia al petto, mentre Inge e Bill entravano nella camera. Ma, contrariamente
a quanto sosteneva il rasta, il bambino non stava dormendo. Era, invece, seduto
sul letto che li guardava leggermente impaurito, la schiena contro la spalliera
e tra le mani una riproduzione di Spiderman.
“Ehi, ciao…” lo salutò
dolcemente Inge, avvicinandosi. “Posso sedermi qui?” chiese lei, indicando il
letto.
Lui annuì silenziosamente.
“Io mi chiamo Inge, tu?” e
si sedette, allungando una mano verso di lui.
Il piccolo ospite guardò la
mano della ragazza, ma non rispose. Si limitò a rannicchiarsi – come se stesse
cercando di difendersi – portando le gambe contro il petto e stringendo il suo
giocattolo tra le braccia.
“Non aver paura…” sussurrò
lei. “Non ti faccio male.” Gli sorrise ancora.
Si vedeva proprio che era
parente dei Kaulitz. Aveva lunghi capelli biondo scuro, che gli scendevano sul
viso disordinatamente. Gli occhi erano dello stesso colore dei gemelli e, benché
sembrassero timorosi, vi si poteva vedere la vivacità risplenderci dentro.
Inge cercò si avvicinare la
mano verso di lui, per cercare di avere la sua fiducia (un po’ come quando
cercava di avvicinare un cane. Non che lo stesse paragonando ad un animale, ma
era un sistema che di solito funzionava).
Il bambino, infatti, dopo
aver spostato lo sguardo da lei alla sua mano per un paio di volte, alla fine si
avvicinò a lei, gattonando sul letto e gliela stringe, per poi sorridere
timidamente.
“Allora, come di chiami?”
domandò di nuovo la rossa con un dolce sorriso sulle labbra.
“Alex.” Rispose il bambino,
guardandola negli occhi. Poi girò la testa ed osservò quegli altri due strani
individui che stavano osservando la scena appoggiati allo stipite della porta.
“Alex…” fece Inge. “Che bel
nome! È l’abbreviazione di Alexander?”
Lui si voltò nuovamente
verso di lei ed alzò le spalle.
“Non lo so…”
A quel punto anche Bill si
avvicinò, sorridendo.
“Ciao, Alex. Io sono lo zio
Bill.” e gli porse una mano smaltata.
Subito Tom sgranò gli
occhi, sentendo un vuoto allo stomaco.
“Zio?” chiese Inge,
inarcando le sopracciglia.
“Ehm, sì… sai, le persone
più grandi sono tutti zii per i bambini… no?” e rise forzato. Poteva già sentire
le mani di Tom intorno al suo collo, pronte per strozzarlo.
“Ah, giusto…” convenne lei.
Non era molto esperta in materia ‘bambini’, ma dopotutto era ovvio, visto che
l’unico contatto con la loro specie, era dovuto al figlio di una sua
collega di lavoro.
Alex, intanto, aveva preso
la mano di Bill e gli sorrise un po’ più convinto. Stava iniziando ad avere un
po’ di fiducia.
“Io sono Tom.” disse secco
il rasta, avvicinandosi a lui e porgendogli la mano come tutti. Ma quella mossa,
un po’ troppo scontrosa, fece ritrarre il bambino, che lo guardò intimorito.
“Tom! È un bambino!” lo
riprese Inge. “Non puoi essere così duro!” ed accarezzò Alex sui capelli.
“Ah, scusa…” fece Tom,
portandosi una mano sul collo, imbarazzato. Quindi, cercò di rimediare,
mostrando un sorriso un po’ troppo tirato.
Alex lo guardò ancora
leggermente timoroso, ma gli diede la mano.
“Gli sto già sul culo…”
rise sottovoce con qualche nota non del tutto convincente, una volta finite le
presentazioni e tornato ad appoggiarsi allo stipite della porta, vicino a Bill.
“Bè, dopo tutto ciò che gli
hai fatto, sarebbe il minimo!” sghignazzò il fratello.
“Perché? Cosa gli ha
fatto?” chiese Inge, non cogliendo il doppio senso di quell’affermazione.
“Ehm…” Tom guardò suo
fratello truce. Possibile che non sapesse mai tenere quella sua dannata
boccaccia chiusa?
“No, è che… quando andavamo
a trovarlo, lui gli faceva sempre gli scherzi…” lo difese il moro, cercando così
di scontare le future pene dell’inferno che suo fratello gli avrebbe fatto
patire.
“Non ti smentisci mai, eh?”
lo riprese Inge, guardando il rasta con un’espressione tra lo scocciato ed il
divertito. Poi sorrise. Era ovvio che Tom, qualunque scherzo avesse mai fatto al
bambino, non l’avesse mai fatto apposta. Quello era il suo carattere.
“Eh, già…” concordò lui,
esitante.
“Cosa ti faceva questo
troglodita, eh, Alex?” chiese divertita Inge, indicando Tom.
Il bambino la guardò
interrogativo, senza – ovviamente – rispondere.
“Ehm, è passato un sacco di
tempo dall’ultima volta che l’abbiamo visto, quindi è normale che non ricordi…”
rispose Tom per salvarsi.
“Ah…” fece Inge, pensando
ad un altro modo per far parlare Alex. Non le piaceva che venisse escluso.
Soprattutto ora che era la prima volta in quella casa.
“Quanti anni hai, Alex?”
gli chiese, quindi.
Lui si guardò una mano e la
chiuse a pugno, per poi tirare su quattro dita. Mostrò la quantità alla ragazza
e sorrise.
“Quattro!”
“Accidenti! Ma allora sei
grande!” si complimentò lei. “Da dove vieni?”
Alex ci pensò qualche
secondo.
“Da una casa piccola.”
Rispose, infine.
Inge rise. Poi si girò
verso i gemelli per ricevere una risposta più dettagliata.
“Uhm… vive nella stessa
città di nostra madre…” spiegò Tom.
“Capito…” e si voltò di
nuovo verso Alex. “Hai fatto un bel viaggio, allora!” e gli spettinò i capelli,
già disordinati.
Il bambino rise e prese la
mano della rossa per fermarla, ma lei cominciò a fargli il solletico. Alex
iniziò a scalciare per allontanarla da sé, mentre urlava divertito.
Presto, anche Bill si unì a
loro, prendendo il bambino per le mani, permettendo, così, ad Inge di divertirsi
a torturarlo.
Tom, invece, rimase
appoggiato allo stipite della porta a guardare. Vedendo Inge e Bill giocare con
quel bambino, subito sentì qualcosa di strano dentro di sé. Sembravano proprio
una famiglia. Avrebbe dovuto fare anche lui così? Bè, dopotutto era solo un
bambino, quindi giocare era l’unico approccio che riteneva appropriato, ma
proprio non ci riusciva.
C’era un piccolo
particolare che lo frenava, qualunque fossero le sue intenzioni. Anche quando
gli aveva offerto la mano, si era sentito irrigidire all’improvviso. Che
dipendesse dal fatto che quel bambino fosse il suo bambino?
Decisamente sì.
Era preoccupato ed anche
spaventato allo stesso tempo. Non aveva mai pensato a questa possibilità. Non
aveva mai pensato al fatto che da un giorno all’altro un marmocchio avrebbe
potuto piombargli in casa in quanto suo figlio. Come doveva comportarsi, quindi?
Non si sentiva per niente
pronto a prendere il ruolo del padre. Cazzo! Aveva solo vent’anni! Senza pensare
che questo bambino, forse, nemmeno l’aveva mai visto!
Era normale sentirsi così?
Non sentiva alcun legame con quel bambino. Era convinto che, essendo suo figlio,
provare un affetto nei suoi confronti – praticamente equivalente a quello che
nutriva per Bill – dovesse essere un effetto immediato.
Eppure, non sentiva niente.
Avrebbe mai potuto
instaurare un tale rapporto con il tempo? Forse, ma quanto tempo ci sarebbe
voluto? Non lo sapeva, come molte altre cose.
Quel bambino sarebbe
rimasto da loro per sempre? Qualcuno sarebbe tornato a prenderlo?
Erano tutte domande senza
risposta.
“Ehi, Tom!” lo chiamò Inge
allegra, permettendogli di abbandonare quei pensieri decisamente troppo
complessi per uno come lui.
Lui la guardò aspettando
che continuasse.
“Vieni a giocare pure tu!”
gli sorrise.
Il ragazzo sorrise di
rimando e si avvicinò a loro, ma non si unì alla loro lotta. Preferì osservarli,
braccia incrociate al petto, e pensare ad altro.
“Hai fame?” chiese, poi,
Bill al bambino.
Lui si fermò e tolse il
piede scalzo dalla faccia del cantante. Subito, quasi come risposta fisiologica
a quella domanda, il suo stomaco brontolò.
Alex arrossì e abbassò la
testa.
“Ehi, non devi vergognarti
se hai fame!” lo riprese Bill sorridente.
Il piccolo ospite alzò lo
sguardo su di lui ed annuì.
“Dai, allora! Vieni!” e si
alzò dal letto, porgendogli una mano. “Scendiamo in cucina ed andiamo a
mangiare.”
Il bambino afferrò la mano
e saltò giù dal letto, trotterellando vicino a Bill per stare al suo passo.
Uscirono dalla stanza e scesero le scale, mentre Inge e Tom rimasero dentro.
Lei indugiò seduta sul
letto a guardare il ragazzo, che non capiva il motivo dello sguardo che lei gli
stava mostrando.
“Perché non mi avevate mai
detto di avere un cugino?” chiese innocente Inge.
“Bè, non c’è l’hai mai
chiesto…” sviò lui, grattandosi la testa e distogliendo gli occhi da lei.
“Vi assomiglia proprio. Si
vede che siete cugini…” sorrise lei, alzandosi e raggiungendo Tom.
“Eh, già…” convenne lui.
Lei lo abbracciò e si alzò
in punta di piedi per baciarlo, ma per la prima volta, Tom si sentì indegno di
riceverne uno.
***
“È pronto!” annunciò Inge,
spengendo il fuoco sotto la grande pentola.
“Aspetta! Dobbiamo finire
questo combattimento!” ribatté Bill, seduto sul pavimento a gambe incrociate
insieme ad Alex, intenti a far combattere Spiderman e Batman.
Per tutto il tempo in cui
la pasta cuoceva, i due avevano dato sfoggio delle loro capacità di imitazione
dei rumori e delle grida di dolore, per ogni qualvolta che uno dei loro
personaggi veniva colpito dall’avversario. Tom, invece, stava a fissare la
battaglia, stravaccato su una sedia, posizione degna di lui.
“Ma poi si raffredda la
pasta…” gli fece notare la ragazza, scolandola, per poi metterla in un piatto,
che posizionò sulla tavola.
“Ma tanto ora è bollente!”
intervenne Tom, curioso di vedere chi avrebbe vinto tra i due supereroi.
Spiderman/Alex con i suoi voli acrobatici o Batman/Bill con le sue grida di
battaglia fuori dal comune?
Lei sospirò. Mai una volta
che Tom l’aiutasse… Ma sorrise, mettendosi seduta su una sedia ad osservare
quell’inusuale quadro che in casa Kaulitz era paragonabile ad una tempesta di
neve ad Agosto; non tanto per il fatto che il moro si fosse messo a giocare con
un bambino – quello le sembrava una cosa normale, visto il carattere del
cantante – quanto per il fatto di avere Alex in casa.
Chissà per quanto ci
sarebbe rimasto… ma nonostante questo, Inge sentiva che quel periodo sarebbe
stato decisamente uno dei più speciali.
L’unica cosa che non la
convinceva molto, era il comportamento di Tom nei confronti del bambino. Da
quando lo conosceva, non aveva mai pensato che la presenza di una piccola
creatura di soli quattro anni potesse metterlo così a disagio.
Inge alzò lo sguardo su di
lui, che sentendosi osservato la guardò torvo.
“Che vuoi?” le chiese
scocciato.
“Romperti i coglioni…” gli
sorrise beffarda lei.
Lui sospirò.
“Come al solito, eh?”
Lei annuì, ridendo, ed il
ragazzo schioccò la lingua roteando gli occhi, per poi darle un piccolo buffetto
sulla guancia.
“Vuoi la guerra?” lo
minacciò Inge, con aria superiore.
“Se dicessi di sì, cosa
faresti?” la provocò lui.
“Tante cose…” ripose lei
maliziosa.
Lui si portò le mani alla
bocca in un’espressione decisamente troppo spaventata per sembrare solo un
minimo reale. Lei, ridusse gli occhi a due fessure e lo guardò torva. Non le
piaceva quando le parti si invertivano.
“E dai, scherzavo!” la
derise lui.
“Certo…” fece lei,
appoggiandosi allo schienale della sedia, in modo da allontanarsi da lui.
Tom, quindi, si girò verso
di lei ed avvicinò il viso al suo.
“Possiamo fare pace?”
sussurrò lui, con voce bassa e suadente.
Lei si calmò e rise.
“Guarda che c’è un
minorenne…”
“Tanto è impegnato a
giocare…” e si avvicinò sempre di più alle labbra della ragazza con le sue. Ma
prima che potesse toccarle, avvertì qualcosa di freddo rovesciarsi sulla sua
testa.
Si allontanò lentamente e
con gli occhi chiusi, le mani strette in pugni.
“Inge…” sussurrò furioso,
aprendo lentamente gli occhi e notando lo sguardo ed il sorriso strafottente sul
viso della rossa.
“Ti ho detto che c’è un
minorenne. Non voglio dare spettacolo…” ripeté lei, posando la bottiglia d’acqua
ormai vuota sul tavolo ed alzandosi, per poi dirigersi su per le scale.
Ad occhio e croce aveva
ancora dieci secondi di vantaggio, al termine dei quali Tom, puntualmente, si
alzò e corse per raggiungerla, urlando il suo nome, incazzato. In risposta la
ragazza gridò divertita. L’aveva catturata.
“Perché strillano?” chiese
Alex a Bill, sospendendo il loro combattimento.
Il moro lo guardò
perplesso, poi sorrise.
“Perché si vogliono bene…”
e gli scarruffò i capelli.
Alex rise, cercando di
fermare il cantante, che continuava imperterrito a dargli fastidio.
“A proposito!” urlò
riferendosi ai due cretini al piano di sopra. “Stasera cercate di fare piano!” e
subito si affrettò a tappare le orecchie al bambino – precauzione obbligatoria
in quell’occasione – che aveva preso in mano entrambi i guerrieri per continuare
a farli scontrare.
La fine replica del
fratello, infatti, non tardò ad arrivare.
“Fatti i cazzi tuoi!”
Bill rise.
Era sempre la solita
storia.
E poi dicevano che era lui
il bambino…
¤°.¸¸.·´¯`» «´¯`·.¸¸.°¤
Continua...
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ATTENZIONE:
I Tokio Hotel non mi
appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera
della loro personalità. No scopo di lucro.
***
Ed eccomi con il secondo
capitolo!
Bè, il titolo dice tutto.
Spero che grazie ai casini che Tom sembra non possa far a meno di creare, la
storia vi possa appassionare.
Ringrazio, quindi, le sei
persone che hanno recensito il primo capitolo, aspettandomi di trovare altre
recensioni per questo. Un grazie a: elli_kaulitz, la mitica
kit2007, scrizzoth_95, BigAknge_Dark, layla the
punkprincess ed Antonellina.
Ora scappo. Al prossimo
capitolo! E, come già detto, lasciate tanti commentini!^^
_irina_
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Capitolo 3 *** A New Little Presence In Their Life ***
A New Little Presence In Their L
Just a kid
A New
Little Presence In Their Life
“Inge…” si lamentò Alex,
trotterellando verso di lei.
“Cosa c’è?” chiese la
ragazza, lasciando perdere il progetto che stava concludendo.
“Mi annoio…” ammise lui. Si
sedette per terra e cominciò a fissare Inge con gli occhi dolci e supplicanti. O
quel bambino era stato troppo tempo con Bill, oppure i geni dei Kaulitz avevano
trovato un degno alleato.
“Cosa ti andrebbe di fare?”
chiese lei, sedendosi di fronte ad Alex, gambe incrociate.
Il bambino si portò un dito
sotto il mento, proprio come Bill – sì, era stato troppo tempo con lui –
ed emise il suo verdetto.
“Mi fai dei disegni?” gli
occhi gli si illuminarono e un sorriso apparve sul suo viso.
Come poteva dire di no?
E poi, tanto, cosa mai le
sarebbe costato? Dopotutto da sempre aveva avuto una buona manualità con la
matita. Proprio per questo aveva cercato lavoro come grafica ed era riuscita a
farsi strada nel mondo del lavoro, svolgendo anche incarichi per conto di
importanti agenzie.
Quel giorno, infatti, si
stava dedicando proprio all’impostazione del progetto affidatole da una grande
casa editrice – fortunatamente non quella per cui lavorava tempo fa, altrimenti
gliel’avrebbe tirato dietro senza troppi complimenti – per l’uscita di un libro
dall’autore ancora alle prime armi.
Non erano compiti che
richiedevano troppo impegno, vista la sua predisposizione all’arte, e lei, dal
canto suo, si divertiva a dare sfogo alla sua illimitata immaginazione. Fu
questo il motivo del suo cambio di sede. Aveva portato tutti i suoi strumenti
nell’altra camera degli ospiti – che aveva adibito alla funzione di studio
– in modo da poter rimanere a casa con Alex quando i ragazzi erano fuori.
Si alzò, quindi, da terra
ed afferrò uno dei tanti fogli dalla ‘torre degli scarti’ (come l’aveva chiamata
Alex, dopo aver capito cosa rappresentasse). Prese una penna dalla scrivania e
si rimise davanti al bambino.
“Allora, cosa vuoi che ti
disegni?” e si mise il tappino della penna in bocca, suo grande vizio.
“Un bambino!” esclamò lui,
battendo le mani.
“Sorridente?” si informò,
prima di posare la punta della penna sul foglio leggermente già scarabocchiato
dalle sue bozze. Lui annuì con energia.
“Ok…” e si chinò sul foglio
per adempiere al suo nuovo incarico.
Non era decisamente un
ritratto, ma più una caricatura di un bambino, come se fosse stato un cartone
animato. E forse, proprio questo particolare, rendeva il risultato più allegro.
“Ne voglio anche uno
arrabbiato!” si apprestò ad aggiungere Alex.
Inge, quindi, lasciò in
sospeso il primo ordine, per mettersi a pensare a come avrebbe potuto fare un
bambino arrabbiato. Una volta che vide apparire la lampadina accesa sopra la
propria testa, si rimise all’opera, questa volta sorprendendo persino se stessa
per ciò che la sua mano aveva appena tirato fuori. Accanto al viso del bambino
sorridente, era apparso un bambino – sempre versione animata – che indossava una
tuta con cappuccio di qualche animale sconosciuto. La sua espressione poteva far
capire molto bene i suoi pensieri: ‘perché mi tocca indossare una roba del
genere?’
Alex applaudì soddisfatto.
“Ora voglio un drago!”
Ecco, gli animali le
riuscivano un po’ peggio. Non c’era un motivo preciso, forse dipendeva solo dal
fatto che non ne aveva mai disegnati molti, rendendo quindi la sua immaginazione
piuttosto limitata al riguardo. Provò lo stesso a far scorrere la punta della
sua penna sul foglio, ripassando qualche punto per dare un minimo di profondità,
che, anche se non era richiesta, era un dettaglio che il più delle volte le
piaceva aggiungere. Concluse il tutto disegnando un po’ di fumo che usciva dalle
grosse narici del maestoso essere.
“Che ne dici?” chiese lei
per un parere.
Il bambino prese il foglio
tra le mani e osservò quel drago, miseramente spaventoso. Poi storse il naso.
“Ma non fa paura…” proferì,
quindi.
“Lo so… ma non mi riescono
molto gli animali,” confessò lei.
“Allora fai ora una bambina
impaurita!”
“Una bambina impaurita?”
“Sì. Se c’è una bambina
impaurita vicino al drago, vuol dire che poi fa paura!” sorrise raggiante.
Il suo semplice
ragionamento non faceva una piega, per quanto potesse essere stato concepito da
un bambino di soli quattro anni.
“Va bene,” ed allungò una
mano verso Alex, perché le rendesse il foglio.
Provò a disegnare una
faccia dello stesso stile delle altre, aggiungendoci poi dei lunghi capelli
raccolti in una coda, in modo da dare un po’ di femminilità alla figura.
Aggiunse, infine, le lacrime agli occhi e le mani vicino al petto, in segno di
terrore.
“Contento?” gli sorrise,
porgendogli il foglio, affinché Alex lo esaminasse.
“Ma è brutta, la bambina!”
commentò lui, guardando triste Inge.
In effetti, quel
personaggio non era nato sotto le migliori stelle, ma proprio brutta brutta non
lo era. O forse pareva solo a lei?
“Bè, non tutte le persone
sono belle di aspetto.” Cercò di difendersi da quegli occhioni, la ragazza.
“Ma le principesse sono
sempre belle!” ribatté lui. “Sennò come fanno i principi ad innamorarsi di
loro?” sembrava quasi offeso ed Inge non poté far a meno di ridere divertita per
quel discorso.
Gli posò, quindi, una mano
sui capelli e glieli scompigliò, mentre lui cercava di difendersi, lanciando
delle piccole urla acute.
Se lo sentisse Tom…
Quel bambino aveva proprio
i geni Kaulitz.
Tuttavia, quel momento di
ilarità tra i due, venne interrotto dallo squillare del cellulare di Inge. La
ragazza, quindi, si alzò per andare a rispondere ed impallidì vedendo sul
display il numero dell’agenzia in cui lavorava. Di solito la chiamavano solo per
le urgenze.
“Pronto?” rispose
titubante, sedendosi sul letto della stanza, mentre Alex andava a prendere le
matite colorate da un cassetto della scrivania e si metteva a colorare i disegni
che lei gli aveva appena fatto.
“Signorina Träne?” si
informò una voce bassa e un po’ roca.
Lei mormorò un assenso. Era
il capo in persona! Di solito, veniva chiamata dai suoi assistenti o qualcun
altro che ne facesse le veci.
“Bene. Senta, mi devo
complimentare per il buon lavoro che ha svolto fin’ora,”
… ma la voglio
licenziare. Quelle erano le parole che Inge già si aspettava di sentire.
“Il suo lavoro è stato
eccellente,”
Quanto ci mettere per
arrivare al punto?
“Grazie a lei, abbiamo
anche guadagnato degli agganci con le più grandi case editrici. Per questo,
volevo farle sapere di persona che ho in programma di affidarle il nuovo
progetto.”
“Un nuovo progetto?” ripeté
incredula lei.
“Esattamente. Conosce la
Universal Music Group?”
“Certo!” è la casa
discografica dei ragazzi!
“Bene. Vorrei tutta la sua
disponibilità per mettere in pratica questo progetto, ma deve passare
dall’ufficio perché glielo possa illustrare.”
“Ah, va bene. Posso passare
domani? Oggi non posso proprio allontanarmi da casa.”
“Perfetto. Domani alle nove
nel mio ufficio.” Dall’altro capo del telefono, il capo chiuse la chiamata.
“Chi era?” chiese Alex,
sdraiato sul pavimento ed intento a colorare il drago.
“Il mio capo.” Spiegò lei.
“Domani non sarò a casa, quindi dovrai stare con i ragazzi.”
“Sì!” esclamò contento il
bambino, sedendosi ed applaudendo. “Ma poi torni, vero?” aggiunse, poi, piegando
la testa di lato.
“Ma certo! Mica scappo!” e
gli fece una linguaccia. “Ah! Devo chiamarli, se voglio che loro stiano con te…”
Riaprì, quindi, il
cellulare – regalo di Tom – per cercare proprio il suo numero nella rubrica.
Premette il tasto verde ed avviò la chiamata. Non sentì nemmeno tre squilli, che
Tom rispose.
“Grazie…” mormorò. Sembrava
esausto.
“Per cosa?”
“Mi hai salvato!” dal tono
sembrava che potesse mettersi a piangere di gioia da un momento all’altro.
“Che è successo?”
“Sono tre ore che non
facciamo altro che ripetere la melodia che abbiamo proposto per la nuova
canzone. La sto odiando.” Ringhiò.
Inge soffiò una risata
dall’altro capo del telefono.
“Non è divertente…”
sottolineò lui. Il tono della sua voce poteva permettere alla ragazza di vedere
il suo sguardo truce. “Comunque, non credo che tu abbia chiamato perché sapevi
cosa avremmo passato…” tossì. “Che c’è?”
“Mi hanno appena fatto
sapere dall’ufficio che domani dovrò andare laggiù per vedere del nuovo
progetto…”
“Ah, ok…”
“Sì, ma Alex?” gli ricordò
la rossa. “Non posso portarlo con me…”
“Perché no?”
“Tom, chissà quanto devo
stare laggiù! Si annoierà di sicuro!”
“Sì, mi annoierò di
sicuro!” la emulò Alex, colorando di arancione la tuta imbarazzante del bambino
che aveva disegnato Inge.
“Sentito? Lo dice pure
lui!” sogghignò lei.
“Quindi? Che si deve fare?”
“E se qualcuno di voi
restasse a casa, domani?” propose la ragazza, sdraiandosi sul letto, fissando il
soffitto.
Tom sembrò pensarci su.
“Ok, ci metteremo d’accordo io e Bill. Ti facciamo sapere.”
“Contate che io non potrò
esserci fino ad un’ora indefinita…”
“Cosa vuol dire
indesimita?” chiese Alex, alzandosi e buttandosi sul letto vicino ad Inge.
“Che non so quando finirò…”
spiegò lei, girandosi verso il piccolo e dandogli un buffetto. Lui rise
sonoramente e cercò di contrattaccare, ma lei iniziò a fargli il solletico,
mentre teneva il cellulare tra la spalla e l’orecchio.
“Vi divertite?” chiese Tom.
La sua voce pareva seria. Più seria di quel che Inge si potesse aspettare da una
domanda talmente semplice.
“Sì, molto…” gli sorrise da
dietro l’apparecchio.
“Bene…” sussurrò. La
ragazza poté cogliere una sfumatura di paura nelle note della sua bassa
risposta.
“Cosa hai, Tom?” chiese,
quindi.
“Chi? Io?” fece lui,
ritornando al suo solito tono strafottente.
“E chi, sennò?” lo canzonò
lei.
Inge lo sentì sbuffare.
“Non ho niente…” poi deglutì. “Sono solo stanco per le ore che ho passato a
suonare. Tutto qui…”
“Ah, ok… riposati, allora.”
Si raccomandò.
“E certo, sennò come
potremmo poi -”
“Tom!” lo riprese la
ragazza in tempo, con voce stizzita.
Tom rise dall’altra parte
del telefono.
“D’accordo. Dai, ti chiamo
tra poco, non appena Bill avrà tempo per respirare…” ridacchiò, infine,
chiudendo la telefonata con una pernacchia ed una risata soddisfatta.
Lei sospirò divertita. “Sì,
anch’io ti voglio tanto bene, cretino!” le rispose lei, prima di salutarlo
definitivamente.
“Mamma diceva che
cretino non si deve dire!” la accusò il bambino, puntandole un piccolo dito
contro, un’espressione arrabbiata sul viso. “Anche se poi, lo urlava sempre
quando c’era quell’uomo!” e sbuffò come se fosse stato offeso.
“Quale uomo?”
“Quello che viveva con
noi!”
Inge sorrise. Non sapeva
che tipo fosse la madre di Alex, ma pensava che qualche volta, per quanto
fossero buone le intenzioni degli adulti, se erano arrabbiati, il linguaggio non
era proprio la cosa a cui prestavano maggiore attenzione. Poteva essere che
quella donna, semplicemente avesse avuto più volte un periodo stressante.
“Sicuramente non voleva
dirlo apposta.” Le disse, quindi, lei.
Ad Alex sembrò bastare
quella spiegazione, perché rotolò giù dal grande letto a due piazze, divertito,
e riprese in mano la matita arancione, in modo da rimettersi a colorare da dove
aveva interrotto.
Inge si alzò dal letto e
tornò alla scrivania, ma non aveva voglia di rimettersi a studiare quel foglio
con le indicazioni per il suo progetto. E poi aveva voglia di divertirsi…
“Ehi,” si girò sulla sedia,
per guardare Alex negli occhi. Il bambino le rispose con un’aria interrogativa.
“Che ne dici se si va a preparare una torta?”
Alex posò la matita per
terra e iniziò ad applaudire, un grande sorriso raggiante sulle labbra.
Inge si alzò dalla sedia,
sorridente, ed offrì una mano al piccolo demonio, che l’afferrò saldamente,
iniziando a saltellare. Scesero giù in cucina e la ragazza sistemò tutti gli
strumenti necessari per preparare un dolce. Aprì il frigo e prese burro, uova e
tutto il resto dell’occorrente.
Una volta che tutti gli
ingredienti furono disposti in ordine sul grande tavolo della stanza, non rimase
altro da fare che mescolarli tutti insieme.
Alex la guardò bramoso di
mettersi all’opera, visione che fece ridere la ragazza. A quale bambino non
sarebbe piaciuto intrugolare tutta la cucina in meno di qualche ora?
A nessuno.
Ed Alex non faceva
eccezione.
***
“Ehi! Ma che diavolo è
successo qui?” esclamò Tom. Non era nemmeno entrato in casa che venne colpito da
un dolce odore. Si era diretto, quindi, in cucina, ma quello che vide lo
traumatizzò alquanto.
Sopra il grande tavolo era
sparsa un’infinita quantità di farina, come se avesse nevicato proprio lì. Sul
pavimento si potevano notare schizzi di impasto giallognolo, accompagnati da una
buona dose di liquidi, che il ragazzo non provò nemmeno ad identificare. Il
grembiule che indossava Inge – intenta a pulire almeno una piccola parte di quel
campo di battaglia – era macchiato in più punti con cioccolata e chissà
cos’altro, proprio come il suo viso.
“Oh, ciao!” lo salutò lei
con un sorriso soddisfatto, togliendosi dal viso una ciocca rossa – e bianca per
la farina – con il dorso della mano sporca di impasto.
Tom la guardò
interrogativo. Gli sfuggiva il motivo per il quale quella stanza, prima lui che
uscisse di casa, sembrava nuova, e ora fosse una sorta di campo reduce dalla
terza guerra mondiale, combattuta a colpi di frusta da cucina, con anche
l’utilizzo di bombe alla farina e molto altro, su cui continuò a non voler
indagare.
Lei rise, sedendosi su una
sedia.
“Ho proposto ad Alex di
fare una torta…”
“E che trattamento
prevedeva quel povero impasto? Come minimo è più quello sparso per tutta la
cucina che quello che avete infornato…”
“Bè, più o meno…” glissò
lei con un vago cenno della mano, senza poter nascondere un sorriso.
“E l’altro cuoco?” chiese
il ragazzo, posando il suo borsone per terra ed avvicinandosi alla ragazza.
“Si era addormentato sulla
sedia mentre aspettavamo che la torta cuocesse. L’ho portato sul divano.”
Rispose, pulendosi le mani al grembiule. “E invece, Bill?”
“Arriverà tra poco. Doveva
sistemare un po’ il testo della canzone.”
“La musica andava bene,
alla fine?”
“Certo che sì! Chi credi di
avere davanti? Io sono un professionista! Faccio tutto alla perfezione.”
Proclamò modesto il ragazzo, conquistandosi un pugno di farina sul viso.
“Che cretino, che sei…” gli
sorrise Inge.
Tom tossì e poi si pulì
sprezzante quella polvere bianca dal viso. “Se vuoi la guerra, basta chiedere…”
la sfidò.
“E credi di potermi
battere?” ribatté lei, sporgendosi sul tavolo.
“Certo che sì.” Si avvicinò
anche lui.
Come al solito, si stavano
fronteggiando, pochi centimetri a dividere i loro volti.
“Ma chi ti credi di
essere?” lo provocò lei, mostrandogli un sorriso beffardo.
Tom si alzò completamente e
portò le proprie mani sul collo di lei, avvicinandola a sé e baciandola.
“Tom Kaulitz.” Rispose
sopra le sue labbra. “Questa volta ho vinto io, mi dispiace…” sorrise.
“Ci
sarà tempo per una rivincita. Stai in guardia…” replicò la ragazza,
appoggiandosi con una mano sul tavolo, e posando l’altra libera sul viso di lui.
Sfiorò il suo naso con il proprio e lasciò che le sue labbra si chiudessero in
un bacio su di esso.
“Cosa state facendo?” una
vocina assonnata li interruppe, facendoli dividere velocemente – così
velocemente che Tom rischiò di cadere dalla sedia.
“Oh,” Inge rise isterica,
il cuore iniziò a battere velocemente nel petto, riacquistando quel battito che
aveva all’inizio perso. “Niente di importante…”
“Ma eravate vicini vicini!”
e piegò la testa di lato.
“Ciao, gente!” urlò Bill
dall’ingresso, chiudendosi la porta alle spalle rumorosamente. Si avvicinò in
cucina, attirato dall’odore della torta e non appena vide Alex attento ad
esaminare gli altri due, non poté trattenere la domanda.
“Che succede?”
Il bambino si girò, gli
sorrise e corse verso di lui. “Inge e Tom erano quasi sdraiati sul tavolo!” e li
indicò.
Tom poté sentire la sua
mascella toccare terra, come anche la ragazza. Stessa reazione, per diverso
motivo, successe a Bill.
“Cosa diamine stavate
facendo, razza di animali in calore?” li minacciò, puntando un dito dall’unghia
perfettamente smaltata, verso di loro, lo sguardo minaccioso.
“Niente! È lui che ha
frainteso!” si difese Tom.
“Già, ci siamo solo dati un
bacio…” sorrise tirata la ragazza.
“Appunto! Ma siccome so
come sono i vostri baci, vedete di andare a fare scena da un’altra parte
che non sia davanti ai bambini!” li ammonì Bill, abbracciando il bambino, come
se volesse proteggerlo da due aggressori.
“Ehi!” ribatté Tom. Non era
da lui, ovviamente, non replicare. “Lui stava dormendo!”
“Non stava dormendo,” lo
interruppe il fratello. “Sennò come ha fatto a vedervi?”
“Si è svegliato nel momento
sbagliato!”
“Ma piantala, Tom!” sospirò
Bill, esasperato. “E poi non dovresti trattare così questo bambino.” Gli fece
notare Bill. Il suo tono era decisamente serio, anche se poteva non sembrare
alle orecchie di Inge.
Già, lui avrebbe dovuto
avere tutt’altro atteggiamento con Alex. Ma, purtroppo, non riusciva a vedere
quel bambino sotto un’altra luce. E questo lo faceva stare male.
“Scusate, allora.” Mormorò
atono. “Me ne vado in camera.” E si alzò, lasciando gli altri tre decisamente
spiazzati.
***
Si stese sul letto supino e
fissò il vuoto sopra di sé.
Era colpa sua, se non
sentiva nessun legame con quel bambino? Dopotutto non l’aveva mai visto, se non
da tre giorni. Era normale non sentire nessun genere di sentimento nei suoi
confronti? Certo, era un bambino, ed era giusto che Bill l’avesse ripreso per
come si era espresso, visto che lui era presente, ma quel messaggio subliminale
che Tom aveva colto nelle sue parole, l’aveva decisamente ferito.
Un leggero bussare alla
porta lo distolse dai suoi pensieri.
“Chi è?” chiese svogliato.
Non aveva voglia di parlare con nessuno. Voleva solo stare da solo. Forse quel
momento deprimente sarebbe passato da sé in pochi minuti.
“Alex…” rispose una vocina
flebile al di là della porta.
“Cosa vuoi?” il suo tono
era atono. Perché cazzo si comportava così con lui? Non voleva, eppure…
“Chiedere scusa…” mormorò
il bambino. Sembrava sull’orlo del pianto.
Una fitta al petto,
costrinse Tom a sedersi sul letto e a rispondere al bambino con un tono più
dolce.
“Dai, entra…”
La porta si aprì
goffamente, ed il bambino entrò, per poi chiuderla alle spalle. Rimase, poi,
immobile in fondo alla stanza, le mani dietro la schiena, in segno di colpa e
imbarazzo.
“Che fai lì fermo?” gli
disse Tom. “Dai, vieni a sederti sul letto…” e batté una mano sul materasso.
Alex sorrise impacciato e
fece come gli era stato detto.
“Cosa volevi dirmi?” chiese
Tom, cercando di mantenere una voce calda e bassa. Non voleva metterlo ancora a
disagio. L’unica cosa che ancora non riusciva a fare, era guardarlo in viso.
“Volevo chiederti scusa…”
sussurrò il bambino, rivolgendo il suo sguardo al pavimento.
“Perché?”
“Perché sei arrabbiato con
me…”
Il ragazzo rimase
disorientato da quella risposta. Davvero Alex pensava che fosse arrabbiato con
lui?
“Ma io non sono arrabbiato
con te.” Lo confortò Tom, riuscendo a guardarlo.
“Davvero?” lo guardò a sua
volta il bambino.
Occhi negli occhi. Stesso
colore. Stesso sguardo. Erano proprio uguali.
Qualcosa dentro Tom gli
provocò uno strano insieme di sentimenti. Per la prima volta, stava guardando
quel bambino – il suo bambino – negli occhi. Fu una sensazione che lo
confuse. Non capiva più cosa stesse provando. Felicità? Dubbio? Sorpresa? Paura?
Non riusciva ad individuare le varie emozioni.
Si scoprì esitante.
“Certo.” E gli sorrise. Il
primo sorriso spontaneo per quel bambino.
“Allora perché sei andato
via?” piegò la testa di lato, sempre titubante.
“Perché volevo stare solo.”
Soffiò flebilmente, distogliendo lo sguardo dal bambino. “Non ti spiego il
motivo perché tanto non lo capiresti, ma non è colpa tua. Tranquillo.”
“Ah, allora vado via.” E
scese dal letto.
Tom non riuscì a capire se
l’avesse offeso o meno, con il suo comportamento. Avrebbe quasi voluto fermarlo
e chiederglielo, ma Alex era già uscito, chiudendosi la porta alle spalle.
***
“Tom, posso entrare?”
Il ragazzo aprì ancora una
volta gli occhi e smise che i suoi pensieri autolesionisti riguardanti la
precedente visita di Alex gli riempissero la testa. Si rimise seduto sul letto e
rispose senza troppo entusiasmo. Possibile che nessuno capisse il significato di
quelle semplici parole: voglio stare solo. Come se il suo comportamento
non fosse già abbastanza chiaro.
“Che vuoi?”
“Parlare.”
Certo. Sempre parlare. Era
incredibile come le ragazze volessero sempre parlare quando lui non le
richiedeva.
“E di cosa, scusa?”
“Bè, sei praticamente
scappato dalla cucina. Volevo capire il perché.” spiegò Inge da dietro la porta.
“Che palle,” soffiò lui.
“Entra, forza.”
La ragazza aprì la porta,
per poi richiuderla dietro di sé, e si sedette sul letto accanto a Tom.
“Mi dici che ti prende?”
gli chiese preoccupata.
“Non sono affari tuoi.”
Sviò lui, leggermente irritato.
“Non ti stai comportando
molto bene, però…” disse lei, delusa dalla sua risposta.
Ecco dove vuole andare a
parare!, pensò
Tom. Ovvio, voleva fargli la ramanzina. Ma cosa cazzo ne sapeva lei per
parlargli così?
“Alex è pur sempre un
bambino. Non dovresti trattarlo così.” Proseguì lei, triste. “Dovresti
chiedergli scusa. Si è quasi messo a piangere per quello che hai detto… ed il
modo in cui l’hai detto.”
La rabbia si faceva sentire
sempre di più dentro di lui. Come poteva lei credere di capire cosa stesse
provando? Lei non aveva la più pallida idea di quello che lui stava passando!
Lei non aveva ricevuto un misero biglietto che gli aveva stravolto la vita!
“Stai zitta!” ruggì Tom,
guardando furente la ragazza. “Stai zitta.” ripeté minaccioso, puntandole un
dito contro. I lineamenti del viso di Inge si trasformarono in paura, per niente
pronta a quella reazione da parte sua, e Tom poté sentire la sua parte razionale
dargli del cretino per il suo comportamento, ma non riuscì a rilassarsi.
Rimase a fissarla negli
occhi spaventati. Lui era rigido. Non accennava a calmarsi.
“Cosa?” fece lei, una volta
che riacquistò un minimo di controllo ed il suo cuore riprendesse a battere
normalmente.
“Hai capito. Non voglio più
sentire questi discorsi.”
“Io cercavo solo di farti
capire che ti sei comportato da vero stronzo!” ribatté lei, alzando a sua volta
la voce.
“Grazie del disturbo! Non
era necessario!” urlò lui.
“Figurati! Comunque,
proprio perché ti rimanga in testa: sei uno stronzo! Alex stava per piangere!”
“L’hai già detto! Ma ti
senti quando parli? Sei ripetitiva! Basta!” ringhiò lui.
“Ma ti senti tu? Cosa ti è
preso?”
“Cosa mi è preso? Ma
saranno cazzi miei? Sai, delle volte anche io ho bisogno di stare solo!”
“Perfetto, allora stacci!”
e si alzò dal letto, dirigendosi con passi pesanti verso la porta.
“Ci sarei stato anche
prima, se tu non fossi venuta a rompere i coglioni come al solito!” abbaiò Tom,
alzandosi a sua volta.
“Sono venuta a romperti i
coglioni perché volevo capire cosa ti era successo!” La ragazza si fermò e lo
guardò, riducendo gli occhi a due fessure.
“No, sei venuta qui per
dirmi che sono uno stronzo!”
“Ho forse torto?”
“Vaffanculo!” si stavano
fronteggiando, ma questa volta non era uno scherzo. Erano vicini, ed una singola
parola di troppo avrebbe rischiato che uno dei due si scagliasse sull’altro
senza troppi problemi.
“La cosa è reciproca!”
“Vattene!”
“Ci mancherebbe che
restassi! Stronzo!” ed uscì sbattendo la porta violentemente dietro di sé.
Tom rimase fermo per
qualche minuto, affaticato. Poi, si passò una mano sul viso e respirando più
profondamente cercò di riprendere il controllo. Era proprio vero. Era uno
stronzo. Perché aveva risposto così ad Inge? Certo, lei aveva esagerato, però
non aveva cattive intenzioni.
Tornò a stendersi sul letto
e si coprì il viso con le mani.
Che cazzo gli era preso per
risponderle così?
¤°.¸¸.·´¯`» «´¯`·.¸¸.°¤
Continua...
________________________________________________________________________________________________________________________________________________
ATTENZIONE:
I Tokio Hotel non mi
appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera
della loro personalità. No scopo di lucro.
***
Eccomi qua con il nuovo capitolo! Lo
ammetto, la prima parte è un po' noiosa da leggere, visto che ha più che altro
lo scopo di allacciare le varie parti della vicenda, ma spero comunque che possa
essere (in un modo o nell'altro) di vostro gradimento.
Passo, ora, a ringraziare le 9 anime
pie che hanno commentato lo scorso capitolo. Grazie a: mixy88
(davvero grazie per il commento!XD), niky94, elli_kaulitz,
angeli neri (spero continuerai a seguirmi, allora!^^),
scrizzoth_95, la mitica kit2007 (ripeto mitica ancora una volta!XD Ma
tanto sei mitica, quindi... =P), layla the punkprincess,
BigAngel_Dark ed Antonellina.
Rileggendo il capitolo in questione,
mi sono messa a ridere, trovando una piccola somiglianza con la nuova one shot
di Lady Vibeke (per chi non l'avesse letta, consiglio vivamente di
farlo..^^). Diciamo che i nostri ragazzi non sono proprio dei gran
pasticcieri... =P (salvo Gustav, ovviamente!)
Aggiungo, cercando di mettere un
link per mostrarvi i
disegni di Inge - fatti da me
in un piccolo momento di pura follia. Non garantisco che mi riesca, vista la mia
avanzata conoscenza dell'html, ma vedrò di farmi valere!XD
Ed ovviamente non possiamo di certo
dimenticarci di un compleanno molto importante!
Buon compleanno, Gustav!
Ok, ora posso anche ritenermi
soddisfatta. ^^
Mi raccomando, fatevi sentire con i
vostri commenti, ok? Vedo che siete in tanti a leggere...XD
Un bacio!
_irina_
|
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Capitolo 4 *** Are You Ready To Be Father? ***
Are You Ready To Be Father
Just a kid
Are You Ready
To Be Father?
“Tom!”
Il ragazzo si rigirò tra le
coperte, grugnendo parole non ben distinte tra di loro.
“Tom!”
Aprì un occhio per niente
convinto e sbadigliò egregiamente.
“Tom…”
Alex aveva smesso di
picchiare alla porta della camera del ragazzo e la sua voce si era fatta
lamentosa. Il rasta decise, quindi, di alzarsi ed andare a vedere cosa fosse
successo. Durante il tragitto letto-porta si maledì per aver accettato di
occuparsi del bambino per tutto quel giorno. Certo, Inge aveva un impegno
importante, ma la canzone di Bill poteva aspettare benissimo.
“Che c’è?” chiese
svogliato, mentre apriva la porta.
Quella piccola peste,
appena lo vide abbassò lo sguardo sul pavimento ed afferrò i lembi della propria
maglietta con le mani, imbarazzato.
“Allora?” insistette Tom.
Il bambino lo prese per
mano e lo condusse verso la ex camera di Inge. Una volta sulla porta, si fermò,
indicando il letto senza proferire una parola.
Il ragazzo guardò il
materasso, vedendo una grande chiazza bagnata nel centro e rise.
“Ah, ti sei pisciato
addosso, eh?” lo canzonò.
Alex non lo guardava negli
occhi.
“Ehi, mica ti devi
preoccupare!” fece lui. “Hai quattro anni, giusto? C’è sempre qualche anno per
migliorare…” e gli scarruffò i capelli. “Ora torna a letto che è sempre presto.”
“Ma è bagnato… e poi io ho
fame…” farfugliò il bambino, trattenendolo per la stoffa dei boxer, visto che
Tom aveva sciolto la presa dalla sua mano.
“Perché che ore sono?” si
fermò il ragazzo.
“Non lo so, ma…”
“Hai fame…” concluse lui.
“Ok, ho capito. Dai, andiamo a mangiare, allora.”
Insieme scesero le scale ed
andarono in cucina. Tom non poté evitare di dare un’occhiata all’orologio per
rendersi conto dell’ora.
Quasi gli prese un colpo
vedendo che erano solo le nove. Come minimo gli altri erano appena usciti di
casa! Guardò, poi, Alex e sospirò. Tanto lo sapeva che sarebbe andata a finire
così…
“Cosa mangi di solito?” gli
chiese, grattandosi la testa e sbadigliando. Era troppo presto per lui. Di
solito si alzava alle undici inoltrate, se non mezzogiorno. Una volta aveva
pesino fatto le quattro – vista l’ora a cui era andato a letto, però, era più
che giusto! Il suo fabbisogno giornaliero di ore di sonno si aggirava intorno
alle undici, delle volte dodici ore, quindi era decisamente sconvolgente
ritrovarsi in piedi a quell’ora mattutina.
“Dei biscotti e il latte.”
Sorrise il bambino, arrampicandosi sulla sedia. Subito Tom gli fu vicino per
aiutarlo: la sedia si stava pericolosamente ribaltando.
“Quali biscotti?” si
informò, poi, avvicinandosi allo sportello dell’armadietto contenente tutti
quelli che potevano esserci in casa.
“Quelli che mangia anche
Bill! Me li dà Inge.”
Tom guardò Alex perplesso.
Premesso che Bill mangiava tutti i biscotti lì presenti, e che Inge si alzava
troppo presto per i suoi gusti, come avrebbe fatto a capire quali fossero quelli
che voleva?
Sospirò, per poi prendere
tutti i pacchetti che trovò e glieli mise sul tavolo.
“Scegli.”
Il bambino lo guardò
interrogativo.
“Cosa c’è?” chiese Tom,
guardandolo dubbioso a sua volta.
“Inge me li mette in un
piatto…”
Promemoria: ricordare ad
Inge di non viziarlo…
sempre che fosse riuscito a parlarci normalmente. Dopo la litigata della sera
precedente, sarebbe stata dura riavvicinarsi…
“Ma se non mi dici prima
quali sono, come faccio a metterteli in un piatto?” disse accigliato. E poi
erano solo tre giorni che viveva in casa loro, come poteva già essersi abituato
a certe cose?
Il bambino si rattristì per
il tono usato dal ragazzo, e si raggomitolò sulla sedia, guardandolo con aria
afflitta e dispiaciuta.
“Ehi ehi ehi! Non volevo
offenderti!” si affrettò ad aggiungere Tom, avvicinandosi a lui, che aveva
distolto lo sguardo per fissare il pavimento. “È che non so davvero quali siano
i tuoi biscotti!”
Cosa diavolo doveva fare
con lui? Sembrava che come gli rivolgesse parola, Alex prendesse tutto come una
critica… in questo modo sarebbe stato ancora più difficile cercare di instaurare
un rapporto.
Il bambino alzò di nuovo
gli occhi su Tom e con un dito incerto indicò una confezione di biscotti al
cioccolato aperta.
“Sono questi i biscotti?”
domandò Tom. Si sforzò di usare un tono dolce e rassicurante, visto che una
parte di colpa per le reazioni di quella peste se la riconosceva.
Alex annuì timido ed il
ragazzo gli scompigliò i capelli con un sorriso.
“Ok, ora te li metto in un
piatto come fa Inge, va bene?” il bambino sorrise titubante. “Hai pure delle
preferenze sul piatto?” Il suo tono mostrava un sarcasmo che Alex, negando, non
comprese.
Una volta che il
chitarrista ebbe preparato tutto l’occorrente per soddisfare le esigenze del
bambino, si preparò un po’ di caffè – ce ne sarebbe stato bisogno, ed anche più
di uno –, per poi sedersi accanto a lui ed osservarlo mentre divorava i biscotti
e sorseggiava il latte.
“Cosa fai di solito la
mattina?” chiese Tom. Il proprio programma era molto semplice: tornare a letto.
Ma con un bambino in casa da seguire in tutto e per tutto, forse non sarebbe
stato così facile.
Alex assunse un’espressione
pensierosa, quasi stesse imitando Bill, ed il ragazzo non poté far a meno di
soffiare una risata. Sembrava proprio suo fratello da piccolo.
“Inge mi fa i disegni!”
annunciò sorridente.
“I disegni?” ripeté con una
smorfia.
Lui confermò deciso.
“Cioè, io ti dovrei fare
dei disegni?” l’espressione non cambiava. Certo, a Tom piaceva disegnare, ma era
su tutt’altro stile! Fare dei disegni per un bambino era tutto un altro
paio di maniche.
“Non li vuoi fare?” domandò
Alex, piegando la testa di lato.
“Non è che non te li voglia
fare,” farfugliò lui. “Semplicemente non ne sono capace…”
“Allora te li faccio io! E
tu li colori!” sorrise il bambino, contento della soluzione trovata.
Tom si ritrovò a
confrontare le sue opportunità. Era decisamente meglio disegnare che colorare…
“E se, invece, si tornasse
a dormire per qualche oretta?” osò proporre il ragazzo. Se Alex avesse
accettato, sarebbe stata una vittoria decisamente appagante.
Alex, però, non rispose.
“Non vuoi dormire, eh?”
mormorò, quindi. Poi sospirò e si stravaccò sulla sedia. Chissà quando avrebbe
potuto rimediare alle ore perse…
“Tom…” lo chiamò il bambino
titubante.
Lui si rimise composto
e portò i gomiti sul tavolo per appoggiarsi.
“Ma io ti sto antipatico?”
Il rasta rimase sorpreso
per qualche secondo, prima di rispondere.
“Perché mi dovresti stare
antipatico, scusa?”
Alex alzò le spalle, con
noncuranza. “Perché non vuoi mai giocare con me… e ti arrabbi…”
Visto e considerato che i
già esistenti sensi di colpa sembravano non bastargli per sentirsi uno schifo
per come si comportava con quel bambino, ora era giusto che anche il diretto
interessato rigirasse il coltello nella piaga e vi spargesse quantità inaudite
di sale, tanto per ricordargli che si stava comportando – per riprendere le
parole che Inge gli aveva urlato addosso la sera prima – come un vero stronzo.
“No… no, no. Non mi stai
antipatico…” farfugliò, quindi, Tom. “Figuriamoci,” schioccò la lingua. “Perché
mai dovresti starmi antipatico?”
“Davvero, non ti sto
antipatico?” il chitarrista annuì. “Allora, oggi giochiamo insieme?”
Ecco dove voleva andare a
finire. Che fosse una tattica per farlo sottostare alle sue esigenze o meno, Tom
non lo sapeva, ma era certo che ormai non poteva sottrarsi a questa domanda. Non
che gli facesse schifo giocare con lui, ma voleva dormire. La sera prima non era
riuscito a chiudere occhio a causa della sfuriata con Inge, per non parlare del
fatto che una volta riuscito ad addormentarsi, suo fratello bussò alla sua porta
– ovviamente svegliandolo – per informarlo che il giorno dopo avrebbe dovuto
occuparsi della piccola peste.
Per l’esitazione di Tom, il
bambino iniziò a rattristarsi.
“Non è vero che non ti sto
antipatico…” mormorò.
“Cosa?” il rasta si
risvegliò dalla momentanea dispersione dei suoi pensieri e subito comprese che,
se avesse voluto arrivare alla fine di quella giornata, avrebbe dovuto
immediatamente mettere da parte le sue prerogative ed assecondare ogni frase del
bambino. “No, no! Davvero! Dai, hai finito di mangiare? Che ne dici di andare a
giocare alla play station?” sorrise tirato.
Non sapeva proprio da che
parte cominciare per instaurare un rapporto che potesse minimamente avvicinarsi
a quello già solido tra il bambino, Inge e Bill. Che fosse lui che non ci si
impegnava? Ma cosa avrebbe dovuto fare? Sembrava che niente potesse unirli…
Alex sorrise lievemente,
mentre beveva il latte rimanente e si puliva la bocca con la mano, sotto lo
sguardo schifato di Tom.
“Ehm, forse è meglio che
prima ci laviamo, che ne dici?” ed aiutò il bambino a scendere.
Si fece seguire nel bagno e
lo prese in braccio per permettergli di sciacquarsi nel lavandino.
“Ce l’hai uno spazzolino?”
chiese, poi.
“Nel bagno sopra” rispose
Alex, divincolandosi per scendere, visto che aveva finito le sue abluzioni.
Entrambi, quindi, salirono
al piano superiore ed entrarono nel bagno.
Tom non fece in tempo a
prendere gli spazzolini, che vide Alex intento a curiosare in tutti i cassetti
del mobile.
“Cosa è questo?” chiese
innocente il bambino, mostrando a Tom un vasetto che il ragazzo conosceva bene.
“Ehi! Non aprire i miei
cassetti!” lo ammonì.
“Sì, ma che cos’è?” non si
scompose.
Ah, ma allora tu fai gli
occhioni tristi solo quando ti torna comodo, eh?
“Niente che ti riguardi…
quando sarai più grande forse capirai…” sviò Tom.
“Ma io lo voglio sapere
ora!” protestò il bambino.
“Ascolta, non sono cose da
bambini. Dammelo!” ordinò con tono più duro, porgendogli la mano.
Alex lo guardò truce –
doveva aver osservato molto bene gli sguardi di Inge quando era arrabbiata,
perché era una copia molto realistica – e glielo diede bruscamente.
“Grazie!” sorrise pago Tom,
riponendo il contenitore nel cassetto. “Non l’aprire più, chiaro?”
“Uffa!” ed incrociò le
braccia.
“Ehi! Non accetto certi
comportamenti.” Fece Tom, superiore. “Lavati i denti, ora.” E gli diede lo
spazzolino.
Il bambino sospirò e prese
il piccolo oggetto, aspettando che Tom, spazzolino in bocca, lo prendesse sotto
le ascelle per sollevarlo.
Quando lo rimise a terra,
lasciò che Alex corresse verso la sua camera per cambiarsi, in modo da andare a
sua volta nella propria stanza e fare altrettanto, visto che si trovava ancora
con solo i boxer addosso. Entrò in camera e prese da un cassetto una tuta
pulita, ma fece in tempo ad indossare solo i pantaloni che Alex bussò alla sua
porta.
“Tom…”
“Che c’è ora?” chiese,
andandogli ad aprire.
“Non hai cambiato il
letto…” lo guardò crucciato.
“Ah, già…” sospirò lui.
“Dai, andiamo a cambiarlo…” e lo prese per mano.
Entrarono nella ex camera
di Inge e Tom iniziò a togliere le lenzuola ancora bagnate. La chiazza era
decisamente grande, ma forse solo per il fatto che si era espansa. Non credeva
possibile che un solo bambino di quattro anni potesse pisciare quanto un
cavallo.
“Hai bagnato pure il
materasso…” constatò Tom, storcendo il naso.
Alex abbassò lo sguardo ed
annuì timidamente.
“Ok, non importa…” e andò
in bagno per bagnare una spugna che trovò nel mobile sotto il lavandino. Quando
tornò, la passò sulla macchia, cercando di pulirla in qualche modo. Poi, sollevò
il marasso a due piazze senza risparmiarsi di biascicare notevoli imprecazioni
del suo vasto e ricco repertorio. Lo portò, quindi, vicino alla finestra – che
aprì – e lo posizionò in modo che potesse asciugare.
“Dai, mentre si aspetta
andiamo a fare una partita alla play…” ed uscì dalla camera, facendosi seguire
dal bambino, che trotterellava per stare al suo passo.
Arrivati nella sala, Tom
prese i due joystick, passandone uno ad Alex, che lo guardò dubbioso.
“Come funziona?” chiese,
mostrandogli l’apparecchio.
“Ora te lo faccio vedere…”
disse, scegliendo un semplice gioco di corse automobilistiche, in cui –
ovviamente – aveva battuto ogni record. Era il vincitore indiscusso, tanto che
presto Bill si era stancato di sfidarlo.
Una volta che azionò la
play, si sistemò sul divano vicino ad Alex e gli mostrò i tasti principali.
La prima corsa,
indubbiamente, la vinse Tom – proprio come la seconda, la terza e la quarta.
Alla quinta, il ragazzo ritenne opportuno sbandare e causare un game over,
in modo da evitare che Alex si mettesse a piangere per le sconfitte totalizzate.
Quando, verso mezzogiorno,
lo stomaco del chitarrista iniziò a richiedere cibo con rumori decisamente fuori
dal comune (visto che non aveva mangiato niente a colazione), entrambi tornarono
in cucina.
“Cosa vuoi mangiare?” si
informò Tom, dopo che il suo stomaco ribadì il suo bisogno. Alex rise divertito.
“Tu cosa mangi?”
“Un panino,” rispose,
affacciandosi dentro il frigorifero. “Con prosciutto e tutto quello che posso
trovare qua dentro…”
“Anch’io, allora!” decretò
Alex.
Tom si girò guardare il
bambino ed alzò un sopracciglio scettico. Poi sorrise.
“Va bene, prepariamoci il
famigerato panino alla Kaulitz!”
Alex applaudì contento.
“Sì!”
“Forza, che ho una fame che
potrei mangiare persino te!” ridacchiò. “Anche se non mi sazieresti molto…”
aggiunse sorridendo.
Improvvisamente, Tom sentì
la piccola mano del bambino premere sulla sua pancia nuda. Lo guardò
interrogativo e leggermente perplesso.
“Che diavolo fai?”
“Non si dicono le
parolacce!” lo ammonì lui, puntandogli l’indice dell’altra mano contro.
“Ok,” sbuffò il rasta.
“Cosa fai?” ripeté, quindi, roteando gli occhi, le mani piene di affettato e
tutto ciò che poteva contenere il panino.
“Voglio sentire la tua
fame!” rispose semplicemente Alex, alzando le spalle.
Il chitarrista rimase
spiazzato da quella risposta, ma ciò che aspettava quella piccola peste non
tardò ad arrivare. Lo stomaco di Tom, infatti, brontolò sonoramente, permettendo
al bambino – che si mise a ridere isterico – di sentire i suoi strani movimenti.
“Bè? Che hai da ridere
tanto? Ho fame!” ribatté stizzito il ragazzo.
“Sì…” ridacchiò ancora il
piccolo diavolo.
Tom si avvicinò a lui e lo
fece salire sulla sedia, per poi mettergli sotto il naso un panino già tagliato
e pronto per essere imbottito, e un po’ di affettato.
“Me lo prepari tu?” lo
supplicò Alex.
“Va bene…” sospirò
rassegnato. Tanto se non l’avesse fatto, si sarebbe messo a piangere.
Aprì la confezione di
prosciutto e ne prese tre belle fette, che poi ripiegò nel panino. Una volta
finita l’opera, glielo passò e aspettò che il verdetto del bambino gli
permettesse di dedicarsi al proprio.
“Com’è?” chiese Tom, dopo
che lui ebbe ingoiato il primo morso.
“Buono!” sorrise Alex. “Me
lo fai anche domani?”
“Vedremo…” rispose, alzando
un sopracciglio ed iniziando a mettere tutto ciò che aveva trovato nel
frigorifero, dentro il panino.
Domani avrebbe decisamente
preferito rimanere a letto e dormire fino alle due, in modo da recuperare le ore
perse… e poi ci sarebbe stata Inge. Quasi sicuramente, quindi, lui non sarebbe
nemmeno uscito da camera sua per non incontrarla.
Finché non si fossero
chiariti, non poteva aspettarsi altro.
***
“Tom!”
Il ragazzo si tappò le
orecchie con le mani.
“Tom!”
Serrò gli occhi ed iniziò
ad imprecare sommessamente.
“Tom! Apri la porta!”
Infine, sospirò esasperato.
Non ce la faceva più. Dopo aver mangiato era tornato a cambiare il letto del
bambino. In seguito, Alex l’aveva catturato, facendogli disegnare tutta la fauna
mondiale ed universale, per poi passare a colorarla. Quando il ragazzo, però,
chiese un attimo di tregua, quel diavolo in miniatura iniziò ad urlare perché
voleva giocare a palla. L’aveva accontentato, ed alla fine era pure riuscito a
scappare con la scusa di andare in bagno.
Ma ora se lo trovava pure
lì.
“Cosa c’è? Sono in bagno!”
rispose seccato, alla fine.
“Ma io mi annoio mentre sei
in bagno! Fai veloce!” rispose con voce flebile e triste.
“Se ancora non sono uscito,
vuol dire che mi ci vorrà altro tempo!”
“Ma io mi annoio!”
“Vai a guardare la
televisione, allora!”
“Ma io non voglio guardare
la televisione!” biascicò con voce lamentosa.
“E cosa vuoi fare?”
“Non lo so.”
Se continua così, non
arrivo a stasera…
Come aveva fatto Inge a
stare con lui per tutto un giorno? Che l’avesse drogato? O semplicemente dato
del sonnifero? Possibile che lui non riuscisse ad avere un po’ di pace? Chiedeva
così tanto? Sembrava quasi che Alex lo facesse apposta! Era instancabile! Aveva
sempre qualcosa da dire e fare!
No, non arrivo a stasera,
si ripeteva.
Alla fine non resistette
più. Estrasse il cellulare dalla tasca della tuta e, sedendosi sul bordo della
vasca, cercò in rubrica il numero del fratello. Avrebbe fatto venire Bill a
casa. Forse, se ci fosse stato suo fratello, quel demonio avrebbe smesso di
tartassarlo.
“Tom!” continuò a chiamarlo
il bambino da oltre la porta.
Avviò la chiamata e si
portò il telefono all’orecchio.
Uno squillo. Un secondo.
Pure un terzo. Arrivati al quarto, Tom buttò giù e riprovò.
“L’utente da lei chiamato
potrebbe essere spento o irraggiungibile. La proviamo di riprovare più tardi.”
Imprecò. Come era possibile
che improvvisamente non fosse raggiungibile? Che avesse spento il cellulare
apposta?
“Tom! Apri!”
Imprecò ancora.
Scorse ancora la rubrica
telefonica. Di certo non poteva chiamare Gustav e Georg, anche se la tentazione
era forte. Loro ancora non sapevano del bambino…
Poi, si soffermò a
contemplare il numero che gli capitò sotto gli occhi.
Sospirò. Non aveva
alternative. Se voleva una mano, quella era l’unica che poteva chiedere.
Premette il pulsante verde
e chiamò.
***
“Pronto?” rispose con voce
distratta senza guardare chi fosse.
“Inge…” la chiamò lui. Era
un sussurro flebile che faceva capire quando il ragazzo potesse essere esaurito.
“Che c’è?” chiese scontrosa
lei, spostando il suo peso da una gamba all’altra. Era ovvio cosa c’era che non
andava. Aveva sicuramente dei problemi con Alex, ma lei non era disposta ad
aiutarlo tanto facilmente, soprattutto dopo come l’aveva trattata. Avrebbe
dovuto strisciare ai suoi piedi e chiedere venia. Poi, forse, avrebbe provato
ad aiutarlo.
“Ho bisogno di aiuto…”
ammise.
“Per cosa?”
“Alex.”
“Cosa gli hai fatto?”
sospirò.
“Cosa gli ho fatto? Cosa ha
fatto lui a me!” replicò lui alzando la voce.
“Ok, cosa ti ha fatto?”
“Non mi dà un attimo di
tregua.”
“Bè, sai, è un bambino…”
alzò un sopracciglio.
“No, non è un bambino! È un
diavolo in miniatura!”
“Perché, tu credi di essere
un angelo?”
“Questo che c’entra?”
domandò stizzito.
“Lascai perdere…” sospirò,
girando intorno alla scrivania e mettendosi seduta.
“Senti, lo so che sei
arrabbiata…” sussurrò Tom. La ragazza ancora non capiva se il suo tono fosse
sincero o fosse solo dovuto alle circostanze. “Ma, sul serio, ho bisogno di una
mano…”
“È tuo cugino, è affar
tuo.” Tagliò corto lei.
“Cosa? Oh, sì, certo… è mio
cugino, sì, lo so… ma…” e si interruppe. “Ascolta.” Ora il suo tono era
determinato. “Ho ripensato tutta la notte a ciò che è successo. Mi rendo
perfettamente conto di essere stato un prefetto stronzo ieri sera, non solo con
te, ma anche con gli altri. Ti chiedo scusa. È che è stata una giornata piena di
ogni cosa…”
“No, ascolta tu: perché
tutte le volte che cerchiamo di chiarire, dici che hai avuto una giornata piena
e pesante?”
Lui si zittì e lasciò
passare qualche secondo prima di rispondere.
“Cosa vuoi che ti dica?”
“La verità. Cosa avevi ieri
sera? È il bambino la causa? Non lo so, ti senti trascurato?” tentò, con un vago
gesto della mano in aria.
“Cosa? Trascurato?”
“Sì…”
“Io non mi sento
trascurato!” rispose acido.
“E allora?”
“Non lo so.” Poi silenzio.
“È che non mi sento a mio agio con lui…” sussurrò flebile.
Per quanto potesse pensare
il contrario, Inge sentiva la sincerità nelle sue parole. Non che si fosse
sprecato con scuse e spiegazioni varie, ma la ragazza non riuscì più a trovare
una ragione per negargli l’aiuto.
“Dai, vuoi che venga a
casa?” propose.
“Cosa? Ma non hai la
riunione?”
“L’avevo stamattina. Ora
non ho da fare niente di così importante.”
“Ok, allora vieni…”
“Ok.”
***
Rimise il cellulare in
tasca con un movimento stanco.
Sospirò e tirò indietro la
testa, serrando gli occhi. Cosa diavolo gli era venuto in mente, costruendo
tutta questa farsa del cugino? Aveva quasi rischiato di farsi scoprire!
Ma come faceva a dirle la
verità? Era impossibile. Lei si sarebbe arrabbiata. Ulteriormente.
“Tom…” supplicava Alex
oltre la porta chiusa a chiave. “Sei cattivo…”
Inoltre, ora che le aveva
raccontato questa cazzata, non poteva nemmeno dirle la verità sul suo
comportamento, non che questo avesse bisogno di spiegazioni, ma, cazzo!
No, non poteva essere
sincero, perché essere sincero avrebbe voluto dire allontanarla. E lui non
voleva assolutamente allontanarla. Eppure, sembrava che nonostante tutto c’era
andato vicino anche ieri sera.
Ma come faceva a dirle che
non riusciva a relazionarsi con Alex perché era suo figlio? Una frase del genere
aveva lo stesso valore che dirle di essere andato a letto con un’altra! Cosa che
in effetti era successa, ma che Inge non aveva il diritto di vedersela sbattuta
in faccia! Era come dirle di averla tradita – nonostante fosse stata una notte
risalente a qualche anno fa.
Si portò le mani sul viso e
mormorò una ricca dose di imprecazioni a se stesso. Poi appoggiò i gomiti sulle
ginocchia e si fissò le mani, le dita intrecciate tra loro.
Dove sarebbe arrivato? Fin
quando sarebbe durato tutto questo? Era certo che Inge lo sarebbe venuto a
sapere…
“Tom…” piagnucolava Alex.
“Gesù, Alex, sto uscendo!”
esclamò, alzandosi e andando verso la porta. Girò la chiave nella toppa e la
aprì. Si guardò davanti, dove aveva pensato che fosse il bambino, ma dovette
abbassare ulteriormente lo sguardo per individuarlo. Era seduto a terra, le
gambe divaricate, con gli occhi lucidi, decisamente molto propensi al pianto.
“Dai, alzati…” e gli offrì
una mano.
Il bambino non l’afferrò
come al solito, ma continuò a guardarlo triste e leggermente arrabbiato.
“Cosa c’è?” chiese seccato,
mettendosi le mani sui fianchi e guardandolo dall’alto in basso.
“Mi hai lasciato solo…”
farfugliò lui.
“Non ti ho lasciato solo!”
schioccò la lingua. “Ero in bagno!”
“Ma parlavi. Ti stavi
nascondendo!”
“No, io parlo sempre in
bagno!” replicò con tono serio.
“Davvero?” chiese innocente
Alex.
“Certo! Bill ci canta pure,
quando fa la doccia!”
“Davvero?”
“Sì, stasera forse lo
potrai sentire…” sorrise. Se l’era cavata. E per questo doveva ringraziare
soltanto l’ingenuità dei bambini. Chissà quanto ci sarebbe voluto, se Alex si
fosse messo a piangere come una fontana…
Meglio non pensarci.
***
“Eccomi!” sospirò sollevato
Bill, varcando la soglia di casa.
“Bill!” gli corse incontro
Alex, aggrappandosi ai suoi pantaloni per farlo abbassare e dirgli una cosa
all’orecchio. Il moro, quindi, si inginocchiò e si concentrò sulle parole
biascicate del bambino.
“Voglio sentirti cantare
sotto la doccia!”
Il cantante, in tutta
risposta, si mise a ridere allegro, attirando l’attenzione di Tom ed Inge che
erano seduti sul divano. I ragazzi lo salutarono ed Bill, dopo essersi tolto il
giacchetto, li raggiunse, sedendosi sulla poltrona di pelle nera accanto a loro.
“Accidenti! Non vi state
scannando!” notò Bill sorpreso.
“Diciamo che ci siamo
chiariti…” sorrise beffardo Tom, passando un braccio intorno alle spalle della
ragazza. Inge rispose tirandogli una gomitata alle costole ed il ragazzo si
piegò in avanti, tossendo.
“Delicata come sempre, eh?”
“Certo.” Sorrise lei,
avvicinandosi a Tom ed appoggiando la testa contro la sua spalla, dopo che lui
si tirò nuovamente su e si rimise comodo sul divano. Lui la strinse,
scarruffandole i capelli, per poi lasciarle un piccolo bacio sulla fronte.
“Bene,” sorrise il
fratello, facendo salire sulle proprie gambe Alex. “E tu, peste, hai fatto
arrabbiare Tom come ti avevo detto?”
“Sì!” annuì il bambino
contento. “Ho anche versato l’acqua sul letto e gli ho detto che avevo fatto la
pipì!” rise, portandosi le piccole mani davanti alla bocca.
“Cosa?” fece Tom, sgranando
gli occhi al suono di quelle parole. “Tu… Tu l’hai fatto apposta?” ringhiò,
puntandogli l’indice contro. “E io che ti ho anche cambiato il letto!”
“Oh, dai! Mica ti è venuta
un’ernia nel farlo!” lo riprese Bill, sghignazzando.
“Tu taci, che dopo facciamo
i conti. Ora voglio dedicare tutte le mie forze a questo qui!” e sorrise
malefico, mentre Alex urlava divertito, scalciando perché il cantante lo
mettesse per terra.
“Sai, Alex, dicono che i
leoni impieghino tutte le loro energie anche per cacciare una piccola preda.”
Tom si alzò in piedi, avvicinandosi al bambino, che cominciò a correre,
nascondendosi dietro il divano, il sorriso sulle labbra. “Preparati, perché io,
Tom Kaulitz, ci metterò anima e corpo per catturarti e torturarti!” ruggì,
iniziando a rincorrere quel piccolo diavolo che, per scappare, trotterellava
goffamente per la sala.
I due si rincorsero per
qualche minuto, saltando sui divani e addosso a Bill (piccola rivincita
personale da parte di suo fratello), e quando il ragazzo catturò Alex, lo prese
per la vita e se lo mise in spalla come se fosse un sacco di patate, facendogli
il solletico sotto i piedi scalzi con la mano libera. Quella piccola peste
gridava di lasciarlo stare, ma più si dimenava, più Tom era restio all’idea di
accontentarlo.
Questa era la sua vendetta.
“Che coppia.” Commentò
Bill, osservando quel quadretto comico.
“Già.” Convenne Inge.
“Pensa che quando sono arrivata, Tom era in coma sul divano e quasi non dava
segni di vita…” rise.
“Tutta scena,” sorrise
Bill. “In realtà si diverte pure lui.”
¤°.¸¸.·´¯`» «´¯`·.¸¸.°¤
Continua...
________________________________________________________________________________________________________________________________________________
ATTENZIONE:
I Tokio Hotel non mi
appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera
della loro personalità. No scopo di lucro.
***
Ed anche il quarto capitolo è
stato pubblicato!XD Solo per questo mi sento soddisfatta! Eheh, mi è piaciuto
molto scriverlo, sia perché le scene leggermente idiote che mi sono venute in
mente, sia perché si inizia a vedere un piccolo spiraglio di un rapporto tra Tom
e Alex, benché ancora sconosciuto ad entrambi - o almeno, più al ragazzo, che al
bambino. ^^" Senza contare che la coppia Inge-Tom sembra aver chiarito la
sfuriata della sera precedente!XD
Comunque, lascio a voi
giudicare.
Ps: sono finalmente
riuscita a far funzionare il link con i disegni di Inge relativo al terzo
capitolo. Per chi non avesse potuto vederlo e muore dalla voglia di guardarli
(vi avverto, non vi perdete niente...^^") ora può farlo!
Ora mi dedico a ringraziare
le 8 generosissime anime che hanno voluto commentare il capitolo scorso. Grazie
a: niky94, angeli neri, scrizzoth_95, Zickie
(Grazie infinite dei complimenti!! Davvero te li sei pure sognati? XDD Mi fa
davvero piacere!), layla the punkprincess, BigAngel_Dark,
kit2007 (Oh, cosa farei senza di te??? ç__ç Tu, che mi sopporti nei miei
momenti di crisi profonda, che mi aiuti con i titoli - cosa estremamente
importante!XD - e con le sensazioni che certe volte non so come esprimere... Bè,
che altro dire, se non: grazie. Grazie, grazie!! Ps: stavolta non ti ho
chiamato mitica, ma tanto è sottointeso..=P) e pandina_kaulitz.
Orsuvvia, vi saluto, gente!
Ricordatevi di commentare!XD
Un bacio!
_irina_
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Capitolo 5 *** The Sound Of A Whisper ***
Just a kid
Just a kid
The Sound Of A Whisper
“Bill!”
Risate.
“Bill, lasciami andare!”
Urla.
“Bill! No!”
Altre risate, seguite da
altre urla.
Tom girò la testa e
dischiuse un occhio per guardare la sveglia con espressione schifata. Il suo
orologio biologico diceva che era troppo presto. E non ebbe dubbi nel dargli
ragione, quando vide quei numeri lampeggiare sull’oggetto elettronico. Le nove e
venti.
Grugnì delle imprecazioni.
Non era possibile svegliarsi sempre presto! Era una settimana che andava avanti
così! Lui aveva bisogno di dormire. Perché non lo capivano?
Si rigirò dall’altra parte,
ma non poté far altro che aprire anche l’altro occhio, quando vide che Inge,
appoggiata sui gomiti, lo fissava.
“Ti ho detto di non farlo
più.” Brontolò con voce ancora impastata dal sonno, chiudendo gli occhi e
rimettendosi comodo sul cuscino.
Lei mormorò un assenso.
Silenzio. Troppo silenzio.
A parte il continuo strillare di Alex, inseguito da un Bill decisamente
divertito, in quella camera c’era troppo silenzio.
Aprì di nuovo gli occhi,
sospetto.
“Che cazzo, Inge!”
farfugliò, mettendosi un braccio sugli occhi. “Ti ho detto che non voglio essere
fissato!”
“No, tu non vuoi essere
fissato da me.” Precisò lei.
“Ok, se lo sai, perché
diavolo continui?” borbottò, sospirando.
“Perché mi piace
guardarti.”
Il ragazzo biascicò un
lamento, per poi girarsi e dare la schiena alla rossa, che sorrise nella
penombra della stanza. Inge, quindi, si avvicinò lentamente a lui e gli passò un
braccio intorno alla vita nuda, lasciando un piccolo bacio sulla spalla del
ragazzo.
Tom girò la testa verso di
lei e la guardò torvo.
“Sai che sei
insopportabile, quando fai così?”
“Ma so anche che ti piace…”
aggiunse lei maliziosa.
Lui sospirò con finta
esasperazione e si voltò verso di lei. Era davvero assurdo sentirsi dire certe
cose da una ragazza. Di solito era lui a parlare con una tale cadenza seducente…
ma dopotutto, da Inge poteva aspettarsi di tutto. Per questo l’amava.
“Vieni qui, scema…” e
l’abbracciò.
Lei non oppose resistenza e
si lasciò tranquillamente cullare dal respiro del ragazzo.
“Alex!” e un tonfo sordo
contro la porta della camera.
“Che cazzo stanno facendo
quei due cretini?” mormorò Tom con voce rauca.
“Vuoi andare a vedere?”
chiese Inge, alzando lo sguardo su di lui. Era semplicemente bello. Gli occhi
chiusi, le labbra morbide ed umide, il piercing quasi invisibile a causa
dell’oscurità, quei lineamenti fini, i rasta che gli cadevano scomposti sul
viso.
“No, vorrei semplicemente
che la smettessero.” Sbadigliò.
La ragazza soffiò una
risata e si strinse maggiormente contro il petto di lui, che continuava ad
abbracciarla.
“No, ho detto lasciami!
Dai, Bill!”
Tom sospirò ancora. Si
sarebbe messo a piangere volentieri. Possibile che da quando quella peste era
arrivata a casa loro, non fosse più in grado di dormire fino all’ora che voleva?
Persino Bill si alzava presto, ma sembrava che a lui non importasse. Prima o poi
avrebbe dovuto chiedergli come facesse.
“Forse è meglio alzarci.”
Suggerì Inge.
Tom soffiò un rantolo di
disapprovazione, mentre si rigirava nel letto, per poi afferrare la sveglia dal
comodino.
“Ma hai visto che ore
sono?” farfugliò, mettendo l’oggetto davanti agli occhi della ragazza.
“Guarda che lo so,” e gli
tolse la sveglia dalle mani per rimetterla al suo posto, oltrepassando il
ragazzo ancora in stato di semi-apatia. “Ma tanto è inutile rimanere qui. O
almeno, io non riesco più a dormire, preferisco alzarmi.”
“Ah, e quindi preferisci
stare alzata, invece che rimanere con me?” chiese quasi offeso lui, mentre si
sollevava sui gomiti, gli occhi pesanti per il sonno.
“Esatto.” Sorrise superiore
Inge.
“Va bene, fai come ti
pare.” E si sdraiò di nuovo, dandole le spalle. “Ricordati che non sarai più la
benvenuta in questa camera, d’ora in poi.”
“Ok, vorrà dire che verrò
appositamente per romperti i coglioni.”
“Lo stai già facendo.”
“Bè, visto che non mi
richiedi, me ne vado sul serio, allora!” Sorrise nel buio, fingendosi
oltraggiata.
“D’accordo. Ciao. Chiudi la
porta quando esci, che non voglio sentire casino.”
“Stronzo!” lo accusò lei
con troppa enfasi. “Mi vuoi buttare fuori!”
“Finalmente l’hai capito!”
esultò Tom, rigirandosi verso di lei per guardarla beffardo.
“Lo sai che ti aspetta la
mia vendetta, ora?” lo minacciò Inge, sedendosi sul letto e coprendosi con le
coperte.
“Resisterò.”
“Vedremo.”
I due si guardarono
nell’ombra della stanza, per poi avvicinarsi e baciarsi. Dapprima delicatamente,
poi Tom la prese per le spalle e la fece stendere sul letto, imprigionandola
sotto il suo peso. Le accarezzò il viso, il collo, le spalle.
“Stai cercando di farti
perdonare?” sorrise lei sotto le sue labbra.
“Forse…” rispose lui,
abbracciandola.
“Lo sai che sei un pessimo
ruffiano?”
“Ma so anche che ti piace.”
E la zittì con un bacio intriso di passione.
***
“No, Bill!”
Ma venne catturato. Aveva
corso per tutta la casa per sfuggire alla risata malefica di Bill, ma alla fine,
era stato tutto inutile. Il suo nemico aveva vinto e ora lo stava riportando –
trascinandolo – nel grande bagno della casa.
“Dai, ti sistemo i
capelli!” ridacchiò il ragazzo, raggiante.
“No, non voglio!” si
lamentò ancora Alex.
“Ma sì! Questa volta ti
piaceranno!” lo tranquillizzò, posizionandolo di nuovo sulla sedia che aveva
preso da camera sua e aveva portato appositamente in quella stanza.
“Non è vero!” brontolò il
bambino, che subito mise il broncio ed incrociò le braccia al petto.
“Io ti dico di sì!” ribatté
il moro.
“No, perché mi rifai le
codine!” borbottò Alex. “Io non sono una femminuccia!”
“Certo che no! Per questo
ora voglio farti dei capelli bellissimi!” e sorrise, posizionando sul ripiano
davanti a loro un barattolo di lacca.
“A cosa serve?” chiese il
piccolo demonio, prendendo il contenitore in mano e cominciando ad agitarlo.
“A farti più bello!”
“Ma non voglio diventare
una femmina!”
“No, sarai degno di tuo
padre.”
“Cosa vuol dire degno?”
“Che lui sarà felice di
te.” Sorrise Bill, accorgendosi solo troppo tardi della situazione in cui si era
appena cacciato.
“Conosci mio padre?”
chiese, infatti, Alex con voce innocente, voltandosi verso di lui.
“Bè, un po’…” mentì. Si
stava impelagando decisamente troppo. Anche se era un bambino, non poteva essere
così leggero su certi argomenti, anche perché le sue domande da piccolo ingenuo
avrebbero potuto provocare serie complicazioni, non tanto Alex, quanto per se
stesso. Dopotutto Alex era molto più sveglio di quanto potesse sembrare, e una
parola di troppo avrebbe fatto scoppiare un vero casino in quella casa.
“Comunque,” cambiò, quindi,
discorso. “Ora gira la testa che iniziamo.”
***
“Tom! Inge!”
La porta della camera si
aprì rumorosamente e l’ombra di un bambino apparve sulla soglia.
“A-Alex!” esclamò Inge,
agguantando le coperte per coprirsi, mentre Tom trasalì e si portò una mano al
petto nudo.
“Si bussa prima di
entrare!” lo rimproverò Tom, ripromettendosi di chiudere la porta a chiave la
prossima volta.
“Scusa.” Mormorò lui,
abbassando la testa e tutto ciò che viera sopra. Sembrava portasse uno strano
cappello o…
“BILL!” urlarono i due
ragazzi all’unisono.
Un’esile figura apparve
dietro Alex.
“Sì?” chiese innocente.
“Che cazzo hai fatto?”
farfugliò Tom, ricevendo un pizzicotto da Inge per il linguaggio usato, mentre
indicava i capelli del bambino con la mano. Erano sparati in aria, esattamente
come li portava quel pazzo del fratello ogni qualvolta dovesse uscire.
“Non ti piacciono?” chiese
Alex, piegando la testa di lato, il tono strozzato.
“No, no. Aspetta!” cercò di
rimediare. “Non intendevo questo!” gesticolò freneticamente con le mani in aria.
“Comunque è bellissimo,
vero?” disse Bill, inginocchiandosi dietro Alex e posandogli le mani sulle
piccole spalle del bambino, che al tocco sembrò riprendere energia.
“Bè…” mormorò il
chitarrista, incapace di dare un giudizio. Pareva che Alex avesse appena
infilato un dito nella presa della corrente.
“Sì, decisamente
particolare.” Rispose Inge al suo posto, un dolce sorriso sulle labbra,
mentre tirava una gomitata alle costole del ragazzo. Tom si piegò in due e tossì
un’imprecazione, portandosi le mani sul punto colpito.
“Dice Bill che con i
capelli così, avrò tante ragazze!” sorrise il bambino, allargando le braccia per
emulare l’immensa quantità.
“Eh, sì…” concordò la
rossa. Con quei lineamenti e quei capelli – seppure di un altro colore – era la
fotocopia di Bill in miniatura.
“E ha pure detto che così
sarò degno figlio del mio papà!” sorrise ancora più raggiante.
Tom sentì il suo stomaco
fare dei movimenti strani. Gli mancò il fiato e il suo cervello andò in black
out, incapace di elaborare una frase che gli permettesse di ribattere.
“Sì, un bambino bello come
te, in che modo non potrebbe rendere felice suo padre?” fece Inge, mostrando al
bambino un sorriso sincero e particolarmente caldo. Alex ridacchiò e corse verso
la ragazza, che – tenendosi le coperte sul petto con una mano – lo abbracciò a
gli diede un bacio sulla fronte.
Ancora una volta, Tom si
ritrovò a non sapere cosa dire. Stava immobile, quasi in stato apatico, ad
osservare quella scena. Si sentiva fuori luogo. Si sentiva la persona sbagliata
al momento sbagliato. Lui non sarebbe mai stato in grado di parlare ed
abbracciare quel bambino come Inge. Lui, suo padre, non sarebbe mai stato
in grado di essere tale.
Si girò verso suo fratello
e non appena vide Bill mormorare delle scuse con aria crucciata per ciò che si
era lasciato sfuggire, si sentì ancora peggio. Era davvero uno stronzo. Stava
mentendo ad Inge ed al proprio figlio.
Con un gesto veloce della
mano, Tom fece capire al moro di non preoccuparsi. Il cantante, quindi, entrò e
si sedette sulla sedia vicino al letto, mentre lui tornò a guardare Alex,
attirato dalle risate di Inge. Alla visione del bambino che cercava di emulare
un chitarrista, mettendo nei suoi movimenti tutta la foga che un gesto del
genere avrebbe richiesto, non poté trattenere un sorriso.
“Guarda!” esclamò Alex,
iniziando a muovere la testa e facendo sventolare tutti quei ciuffi sparati in
aria. “Sembro un uomo che suona la chitarra!”
Inge rise ancora, poi si
girò verso Tom. “Avrai un bell’avversario nella tua famiglia…” sogghignò
divertita. “Ha più energia lui di te!”
“Perché?” chiese Alex,
smettendo di divincolarsi come un ossesso. “Lui sa suonare la chitarra?” ed
indicò Tom, quasi con una nota di sfida nel suo tono.
“Certo!” rispose il
ragazzo, come se fosse stato ferito nell’orgoglio. Lui non sapeva suonare la
chitarra.
Saper suonare la chitarra era un'espressione usata da coloro che
credevano di suonarla. Lui la viveva.
“Non ci credo!” ribatté
Alex, facendogli una linguaccia.
“Ah sì?” fece Tom, non
resistendo dall’accettare la sfida. “E quella, secondo te, a che mi serve?” ed
indicò lo strumento posizionato vicino al letto.
“Per bellezza!” si impuntò
Alex, mani ai fianchi.
“Bene, allora ti faccio
vedere!” e si sporse verso il sostegno della chitarra. Inge si buttò su di lui
appena in tempo per coprirlo ed evitare che Alex potesse vedere le sue future
fattezza da uomo.
“Ti vorrei ricordare che
sei nudo.” Sibilò la ragazza, tirandosi su.
“Anche tu.” Rispose
malizioso il ragazzo, tornando seduto, la sua Gibson tra le braccia. La ragazza
sospirò, roteando gli occhi, per poi appoggiarsi nuovamente alla spalliera del
letto.
Tom sistemò le coperte
sopra di sé ed impugnò la chitarra saldamente tra le mani. Iniziò a muovere le
dita della mano sinistra sul manico con gesti fluidi e precisi, mentre l’altra
faceva vibrare le corde, creando una dolce melodia già sentita.
Bill non riuscì a frenare
oltre il suo desiderio ed alla fine, si mise a cantare il nuovo testo sulle note
di quella musica. La stanza si riempì, così, di un’atmosfera leggera, limpida,
ma anche profonda e leggermente malinconica, ma subito l’energia che Tom riversò
sulle corde dello strumento fece cambiare quelle emozioni, rivelandone altre ben
più complesse ed energetiche. La voce del fratello accompagnò egregiamente ogni
sfumatura di quelle sensazioni, facendo nascere dei brividi lungo la schiena dei
due ascoltatori.
Inge osservò Tom mentre
suonava. Benché avesse gli occhi chiusi, muoveva la testa come se seguisse ogni
spostamento delle sue dita. Dischiuse, poi, gli occhi lentamente, guardando un
punto vuoto davanti a lui ed un sorriso gli apparve sulle labbra. Un sorriso un
po’ beffardo e un po’ sincero. Un misto di tutti i sentimenti che provava in
quel momento.
E la melodia finì,
lasciando Alex sbalordito e smarrito per qualche secondo.
“Ehi, capello,” Lo chiamò
Tom, guardandolo soddisfatto. “Sei ancora dell’idea che io non sappia
suonare?” ed inarcò un sopracciglio.
Il bambino sembrò
svegliarsi e fissò Tom, boccheggiando, prima di riuscire a rispondere.
“Bè, sì, sei bravo…”
ammise. “Ma io sono più bravo!” aggiunse strafottente.
Questo bambino è proprio il
parente indiscutibile di questi due ragazzi,
pensò Inge, riflettendo sull’atteggiamento e il suo modo di parlare. Era un
Kaulitz sotto tutti i punti di vista.
“Sei più bravo?” ripeté
scettico.
“Sì.” Ed incrociò le
braccia al petto.
“Fammi sentire.” E gli
porse la chitarra, che Alex rifiutò prontamente, mettendo una mano avanti.
“No, perché poi ti
arrabbi.”
“Mi arrabbio? E per cosa?”
“Se ti faccio sentire come
suono!” rispose ovvio il bambino. “Se sono troppo bravo tu, poi, ti arrabbi!”
Inge e Bill risero
calorosamente, mentre Tom rimuginò sulle parole di quel piccolo diavolo. Lo
stava per caso sfottendo? Decisamente sì.
“Preparati, capello…”
mormorò Tom, guardando il bambino minaccioso.
Alex lanciò un urlo
divertito e corse da Bill.
“Salvami! Salvami!” rideva,
mentre zampettava intorno al ragazzo. “Tom mi vuole prendere!”
Il moro rise e prese il
bambino per una mano. “Allora corriamo a nasconderci! Presto!” e insieme
uscirono dalla stanza saltellando, quasi come per aizzarsi contro Tom.
“Non vai?” chiese Inge,
guardando Tom che non sapeva se dimostrarsi vagamente divertito o sinceramente
preoccupato per la sanità mentale di quei due.
Tom la guardò sconcertato.
“E dai! Alex non aspetta
altro! Hai visto pure tu come si diverte quando lo rincorri!” sorrise raggiante.
Colpito dall’espressione
ilare di Inge e dalle sue parole, il ragazzo si alzò e si infilò i suoi boxer,
per poi indossare i pantaloni della tuta che giacevano sul pavimento.
Salì nuovamente sul letto e
diede un bacio in fronte alla ragazza, mormorando un “grazie” caldo e sincero di
cui lei non comprese il motivo. Si affacciò, quindi, alla porta ed uscì.
“Tenetevi pronti, perché se
vi trovo vi faccio neri! Tu per primo, capello!” urlò il chitarrista, scendendo
le scale a corsa.
Inge rimase ancora un po’
nel letto.
C’era qualcosa che non le
tornava. Qualcosa che le pareva sempre più lontano e fugace ogni qualvolta che
provasse ad avvicinarsi ed afferrarlo. Era frustrante non riuscire a capire cosa
fosse, ma ad ogni modo, era inutile provare a far chiarezza. Prima o poi sarebbe
riuscita a catturare quel particolare ed a capire la ragione di tanta
preoccupazione, proprio quando meno se lo sarebbe aspettato.
Quindi, si alzò, recuperò i
suoi vestiti e una volta indossati, scese pure lei al piano di sotto.
***
“Spengete la play e venite
a mangiare! È pronto!” urlò Inge dalla cucina.
Alex sbuffò. “Ma dobbiamo
finire la partita!”
“La finirete dopo! Si
raffredda tutto, sennò!” rispose la ragazza, sistemando i piatti di pasta sul
grande tavolo della cucina.
“Arriviamo.” Disse, quindi,
Tom, mettendo la corsa in pausa.
“Uffa!” borbottò Alex,
incrociando le braccia al petto.
“Dai, capello, ci si torna
dopo.” E gli scompigliò la criniera che nel frattempo si era leggermente
affievolita.
“Ok, ma tu smettila!” e
cercò di fermare la mano si Tom, il quale continuava ad arruffargli le ciocche
sparate in aria.
“Certo che no.” sorrise
lui, per poi darla vinta al bambino e offrendogli una mano per andare in cucina.
Alex, dunque, saltò giù dal divano e trotterellò verso Tom, afferrando la sua
grande mano.
Bill sorrise. Alla fine suo
fratello era riuscito a stabilire un minimo di rapporto con Alex.
“Cosa si mangia?” chiese il
rasta, sollevando da terra il diavolo in miniatura e facendolo sedere sulla
sedia con un grande cuscino arancione.
“Pasta,” indicò i piatti la
ragazza, sistemandosi al suo posto, accanto ad Alex. “E stufato.”
“Perfetto.” Proclamò Tom,
strusciandosi le mani. “Ah, Bill, quando dobbiamo andare allo studio di
registrazione questa settimana?”
Il moro si portò un dito
sotto il mento e meditò. David gli aveva detto – tra le tante cose – anche
questa. “Mi pare domani alle quattro, possibile?”
“Guarda che ci sei rimasto
tu con lui, non io. Se non lo sai tu…”
Bill roteò gli occhi, per
poi prendere la forchetta e portarsi il primo boccone alla bocca.
“Ah!” si ricordò Inge. “Io
domani ho una riunione alle cinque.” Disse biascicando le parole.
“Non si parla con la roba
in bocca!” la rimproverò Alex.
La ragazza deglutì e gli
sorrise. “Giusto, hai ragione. Scusa.” E gli diede un buffetto.
“Quindi?” domandò Tom,
sorseggiando un bicchiere di birra.
“Bè, dovreste portarlo con
voi…”
“Cosa?” fece Tom, tossendo
per il liquido dorato che si era dimostrato praticamente letale. Se avesse
portato Alex laggiù, sarebbe scoppiata la terza guerra mondiale! Per di più, non
avevano ancora detto né a Gustav né a Georg – e né tantomeno a David – della
presenza di quella peste! Non riusciva nemmeno ad immaginare le loro possibili
reazioni! E poi c’era il rischio che se avesse raccontato loro la verità, era
molto probabile che in poco tempo, anche Inge ne venisse a conoscenza.
“Tom?” lo guardò
sospettosa, la ragazza.
“Sì?” farfugliò, colpendosi
il petto con qualche pugno per evitare di morire soffocato alla misera età di
vent’anni.
“Tutto ok?” chiese
preoccupata.
“Forse…” farfugliò dopo
aver ripreso un minimo il controllo. “Dicevi?”
“Che lo dovete portare con
voi.”
“Per me si può fare.”
Intervenne Bill, una volta ingoiata un’altra forchettata.
“Ok, grazie.” Sorrise Inge,
per poi accorgersi di Alex. C’era più sugo sul suo viso che sulla pasta davanti
a lui. E lo stesso rapporto poteva essere sentenziato per la quantità di pasta
sparsa sulla tovaglia vicino a lui e quella presente nel piatto.
Si apprestò, quindi, a
prendere un tovagliolo e a passarglielo sulla bocca, mentre lui si dimenava
energicamente.
“Dai, sei tutto sporco!” lo
supplicava Inge. “Guarda che se ti agiti così, potrei farti male.” Lo ammonì con
aria lievemente più autoritaria.
Il bambino sbuffò e lasciò
che la ragazza lo pulisse, mentre Tom e Bill ridevano del casino che aveva
combinato. Alex ridusse gli occhi a due fessure e li squadrò truce. Tom non poté
far altro che paragonarlo ad Inge.
Sta decisamente troppo
tempo con lei. Diventerà pericoloso,
sogghignò tra sé e sé.
***
“Non ci provare.” Lo
minacciò Tom. “È mia.”
Il moro posò la bottiglia
della birra che aveva in mano e si sedette di nuovo sbuffando.
“Me ne prendi una, allora?”
chiese con tono offeso.
“No, te la prendi!” gli
rispose il fratello.
“Ma mi dovrei alzare!”
piagnucolò Bill.
“Sembrerebbe. Sai, a meno
che il frigo non venga da te…”
“Ma tu sei più vicino!”
“Non me ne frega un -”
Un calcio ben assestato da
parte di Inge contro la sua gamba lo fece zittire. Tom si piegò per massaggiare
lo stinco e Alex ridacchiò.
“Cosa ridi tu?”
“Sei buffo!” sorrise il
bambino.
Il ragazzo sospirò. Era
buffo. Cioè, si faceva male, ed era buffo. I bambini avevano proprio tutt’altra
concezione del mondo.
“Tom…” lo richiamò
lamentoso Bill.
“Che -” mente roteava gli
occhi, lo sguardo inceneritore di Inge lo trafisse, facendogli cambiare idea sul
termine che stava per usare. “… pizza!” e si alzò.
Di colpo, Alex si alzò in
piedi sulla sedia e rovesciò il latte rimanente nel suo bicchiere, dentro la
bottiglia della birra di Tom, facendo sgocciolare quel liquido bianco per tutta
la bottiglia e sul tavolo.
Proprio pochi attimi prima
che Tom si voltasse per tornare a tavola, il bambino si rimise seduto,
un’espressione innocente sul viso.
Ma per Tom,
quell’espressione era troppo innocente e non gli ci volle molto per
capire cosa nascondessero quegli occhi sereni.
Il ragazzo prese la sua
bottiglia con due dita e se la portò davanti agli occhi, guardandola schifato.
Poi alzò lentamente lo sguardo sul bambino, che sorrideva soddisfatto.
“È per avermi tirato giù i
pantaloni prima!” rispose, capendo l’implicita domanda del ragazzo.
“Era perché te lo
meritavi.” Ribatté Tom.
Quindi, poi, l’aveva preso,
sorrise Inge.
“Sei arrabbiato?” chiese
titubante Alex, dopo un po’.
“Molto.” Rispose Tom,
posando la bottiglia sul tavolo e tenendo per sé quella di Bill, che mugolò un
lamento.
“Ehm, allora devo correre?”
“Ti do dieci secondi.”
Ringhiò.
Alex lanciò un urlo acuto e
saltò giù dalla sedia, correndo su per le scale. Subito dopo Tom gli corse
dietro.
Gli altri due si
scambiarono un’occhiata di intesa e presto anche loro salirono al piano
superiore, appena in tempo per assistere all’ennesima ed indubitabile cattura
del povero Alex, che venne portato nel bagno.
“Tom! Lasciami!”
“Nemmeno morto!”
Inge e Bill si avvicinarono
cautamente alla porta della stanza e si misero ad osservare la scena. Alex era –
come al solito – sulle spalle di Tom, che lo reggeva per la vita con braccio,
mentre con l’altro frugava nella cesta dei panni sporchi.
Quando si tirò su, aveva in
mano un paio di suoi calzini, che iniziò a sventolare in aria con sguardo
malefico. Fece, quindi, scendere il bambino senza lasciare la presa sulla sua
maglietta, e gli mise quelle fetide ed appestanti armi fai-da-te sotto il
naso.
Il volto di Alex assunse
una strana tonalità verdastra, mentre sembrava che tutto ciò che aveva appena
mangiato gli tornasse in bocca.
“Se devi vomitare fallo nel
cesso.” Lo avvertì il ragazzo, mentre allontanava la sorgente del malessere del
bambino e la rimetteva nella cesta dei panni sporchi. “Ho vinto io.” Dichiarò,
infine, sorridendo beffardo e superiore.
Alex, dopo aver deglutito e
aver ripreso un colore rosato, lo guardò imbronciato, il labbro inferiore
leggermente tremante.
“Che hai?” chiese Tom,
lasciandolo libero dalla sua stretta sulla maglietta, che parve ancora più
grande di quello che già era.
“Sei cattivo.” Mormorò. Le
prime lacrime iniziarono a scendergli lungo le guance.
“No, aspetta! Non
piangere!” farfugliò allarmato, inginocchiandosi davanti a lui. Ecco, perfetto.
L’aveva fatto piangere. E ora?
“Sei cattivo!” e iniziò
stropicciarsi gli occhi con una mano, mentre con l’altra afferrava il lembo
della sua maglietta, stringendola forte.
“Sì, hai ragione. Sono
cattivo, ma non piangere! Dai, Alex…” ma i singhiozzi del bambino coprirono le
sue parole.
Bill ed Inge si guardarono
preoccupati. Non sapevano se intervenire o meno. Ma prima che riuscissero a
trovare una soluzione, Alex corse goffamente fuori dal bagno, dirigendosi verso
camera sua. Entrò e sbatté violentemente la porta. I due, quindi, guardarono
Tom.
“Sì, lo so. Sono uno
stronzo.” Ammise, alzandosi ed uscendo dalla stanza a sua volta.
“Se vuoi ci parlo io…” si
propose Inge, raggiungendolo.
“No. Tu e Bill tornate in
cucina.” E si avvicinò alla porta del bambino. Bussò, quindi, un po’
imbarazzato, aspettando che Alex rispondesse. Ma così non fu.
“Allora, ti lasciamo solo?”
mormorò Bill, capendo più della ragazza ciò che Tom stava provando in quel
preciso momento.
Suo fratello annuì e il
moro prese Inge per un braccio, allontanandosi silenziosamente per le scale.
Una volta rimasto solo al
piano superiore, Tom bussò ancora e, dal momento che non ricevette nuovamente
risposta, aprì lentamente la porta.
“Posso entrare?” chiese
impicciato.
Alex non disse niente. Lo
fissava soltanto dal letto, le ginocchia al petto e le mani intorno ad esse, in
posizione di difesa.
Quella visione provocò a
Tom una fitta inaspettata. Aveva fatto piangere Alex. Aveva fatto piangere suo
figlio. E ora lui era impaurito. Aveva paura di suo padre. Per quanto potesse
essere paradossale, era una situazione davvero spiacevole e triste, e ovviamente
lui non sapeva come reagire. Cosa avrebbe dovuto dirgli?
“Ehi, Alex… posso sedermi?”
ed indicò il letto, proprio come aveva fatto Inge la prima volta che l’aveva
visto.
Il bambino annuì
timidamente, tirando su con il naso.
Tom si sedette ed il
silenzio li avvolse. Si sentiva davvero un perfetto stronzo. Aveva esagerato.
Dopotutto, Alex era un bambino. Non poteva comportarsi normalmente, o almeno,
non poteva comportarsi come avrebbe fatto se fossero stati suo fratello o Georg.
Cazzo! Avrebbe dovuto saperlo che i bambini non reagiscono come loro!
“Ehi…” provò a rompere il
silenzio. “Sei arrabbiato?”
Alex lo guardò, lasciando
che un’altra silenziosa lacrima gli rigasse il viso. Il ragazzo, quindi, si
avvicinò a lui e cercò di asciugargliela con la mano, ma il bambino si ritrasse.
“Tranquillo…” lo rassicurò,
mostrandogli un sorriso. Alex lo guardò impaurito, ma lasciò che Tom gli
accarezzasse la guancia dolcemente e gli asciugasse quella piccola goccia. Ma
quel gesto, scatenò in lui tutta un’altra serie di emozioni che lo fece
singhiozzare di nuovo.
“Ehi, che hai ora?” chiese
agitato Tom.
Alex non rispose, ma
gattonò verso di lui e lo abbracciò, portando le piccole braccia intorno al suo
collo.
Subito, il ragazzo sentì
qualcosa di strano. Mai provato prima. Ricambiò l’abbraccio senza pensarci
troppo, stringendolo forte a sé, mentre Alex piangeva e gli stropicciava la
maglia che aveva preso tra le mani.
“Dai…” gli sussurrò Tom
all’orecchio, accarezzandolo sulla schiena. Ma sembrava che più Tom continuava a
dire parole dolci e confortanti, più Alex era restio dal calmarsi realmente.
“Ma sei ancora arrabbiato?”
chiese con cautela.
Il bambino scosse la testa
in segno di negazione.
“E allora cosa ti prende?”
Bastò un sussurro.
“Ti voglio bene…”
Ti voglio bene.
Tre semplici parole che mai
Tom si sarebbe aspettato di sentire da lui. Tre semplici parole che nemmeno si
aspettava che quel bambino pensasse. Tre semplici parole che gli fecero
avvertire una fitta al petto, molto più potente e imprevista delle altre.
Lo strinse forte a sé.
“Anch’io ti voglio bene.”
¤°.¸¸.·´¯`» «´¯`·.¸¸.°¤
Continua...
________________________________________________________________________________________________________________________________________________
ATTENZIONE:
I Tokio Hotel non mi
appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera
della loro personalità. No scopo di lucro.
***
Cari lettori, dovete sapere
che l'ultima parte di questo capitolo si è completamente modificato man mano che
la scrivevo. All'inizio non volevo che Alex arrivasse a tanto, ma mentre
descrivevo la scena nel bagno, mi sono lasciata prendere un po' troppo la
mano... e alla fine, questo è il risultato. Che ne dite? Troppo diabetico? Forse
un po', ma tutto sommato mi piace, cioè, mettendo in risalto questi piccoli
momenti, si può vedere come il rapporto di Tom ed Alex si rafforzi sempre di
più!XD
Senza contare che questo
episodio contiene una parte fondamentale che verrà - ovviamente - ripresa anche
più avanti. Chissà se troverete questo particolare, anche se non credo, visto
che è solo il quinto capitolo... La storia deve ancora entrare nel vivo!^^
Bè, quindi ora passo ai
ringraziamenti!
Grazie a tutte quelle
personcine brave brave che hanno recensito lo scorso capitolo, come:
niky94, angeli neri, mixy88 (Eccoti!!! Questa volta mi
sono ricordata di te!!!XD), kit2007 (Dai, dai, che i tag li hai usati
bene!XD Eheh, grazie per l'intervento con le citazioni!XD), tokiohotel4e,
scrizzoth_95 (Non preoccuparti! Tanto io sono sempre qui..=P Quando vuoi,
chiedi pure!XD), pandina_kaulitz, Zickie (Accidenti! Due volte?!
Ahahah!! Mi fai davvero felice! E grazie, sia per i complimenti sulla storia,
che sui disegni!^^), BigAngel_Dark e ladydarkprincess.
E ora vado via, ma voi
lasciate tanti commenti!!
Ah, prima che dimentichi! Vi
avverto che con l'inizio della scuola, purtroppo, non avrò più molto tempo
libero per scrivere, quindi gli aggiornamenti potrebbero ritardare di molto. Mi
scuso da subito... V_V
_irina_
|
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Capitolo 6 *** Kids Just Wanna Have Fun! ***
Kids Just Wanna Have Fun
Just a kid
Kids Just Wanna Have Fun!
Alex era di un colore
purpureo, molto propenso al viola. E Inge c’era molto vicina.
Il cronometro continuava a
far scorrere il tempo, mentre i due Kaulitz sembravano a loro agio.
Ancora due secondi, poi
Alex rinunciò e prese finalmente una boccata d’aria, tornando a respirare –
oltre che al suo colore naturale.
Non passarono altri cinque
secondi, che anche Inge rinunciò all’impresa, mentre i due ragazzi, seduti sul
divano – Bill con le gambe incrociate, Tom stravaccato come al solito –
continuavano a guardarsi in truci con le guance gonfie. Era ovvio che non
avrebbero ceduto la vittoria, ma erano in apnea da ormai trenta secondi… che
presto divennero quaranta.
Un minuto.
Alex li fissava rapito.
Dopo un minuto e mezzo Inge
si alzò per andare in cucina, chiedendo ad Alex di accompagnarla, lasciando Tom
e Bill a guardarsi negli occhi con espressione torva.
“Alex,” sussurrò la ragazza
al bambino, una volta lontani. “Senti, ora si torna di là e…”
Il bambino annuì divertito
e soffocò una risata, portandosi le piccole mani davanti alla bocca. Poi,
entrambi ritornarono in sala, avvicinandosi di soppiatto ed arrivando alle
spalle dei gemelli.
Inge fece l’occhiolino ad
Alex e tutti e due tapparono il naso ai ragazzi, che sgranarono gli occhi ed
aprirono di colpo la bocca per respirare.
“Ma che cazzo…?” farfugliò
Tom, seguito da un Bill annaspante, che si portava una mano sul petto per
riprendere fiato.
“Ma tu guarda che
campioni!” sogghignò Inge, canzonandoli palesemente.
“Mi volevi far soffocare?”
la guardò truce Tom, girandosi.
Lei annuì beffarda,
appoggiandosi con i gomiti alla spalliera del divano, e il chitarrista non tardò
a mandarla in culo con un semplice gesto. Lei, dopo essersi assicurata che il
bambino non li stesse guardando, rispose con altrettanta eleganza.
“Questa partita l’ho vinta
io!” affermò, quindi, scavalcando la spalliera e scivolando tra essa ed il
ragazzo, che non mancò di stendersi su di lei.
“Tom! Stai schiacciando
Inge!” protestò Alex, vedendo il ragazzo stravaccato su di lei, che intanto
rideva divertita.
“È vero! Guarda che mi fai
male!” si lamentò con voce infantile la rossa.
“Dovresti saperlo che sono
sadico.” Ribatté lui, sistemandosi meglio su di lei, che iniziò a tirargli dei
piccoli e deboli pugni sulla schiena, il sorriso sulle labbra.
“Alex!” lo chiamò Bill. Il
bambino si girò interrogativo verso di lui. “Aiutiamo Inge!” e per dare un
esempio concreto, si buttò addosso al fratello.
La piccola peste li guardò
bramoso di unirsi al gruppo e non si fece scrupoli a saltare sul divano, per poi
iniziare a tirare un dread al ragazzo, che iniziò a farfugliare delle minacce
incoerenti contro di lui.
“Mi fai male! Guarda che
ora ti prendo e ti metto con la testa nel cesso! E tiro lo sciacquone!”
Ma Alex si divertiva troppo
e non sembrava intenzionato ad ascoltarlo. Fu Inge che, liberandosi dalla presa
di Tom nella quale era caduta, riuscì ad allontanarlo dai capelli del ragazzo.
Si sedette, quindi, composta sul divano e lo fece sedere sulle proprie gambe,
mentre lui continuava a ridere divertito, stuzzicato dalle dita di Bill che gli
facevano il solletico sotto i piedi scalzi.
Poco dopo, pure Tom si unì
a loro.
“Questa è la mia vendetta,
Alex.” Ghignò, e prontamente il bambino iniziò ad urlare allegro.
Improvvisamente, il
cellulare di Bill – usato come cronometro – iniziò a suonare sul piccolo tavolo
davanti a loro.
“Ah! Siamo in ritardo!”
esclamò il moro, alzandosi in piedi come una molla.
“Cosa?” biascicò Tom,
togliendosi una mano di Alex dalla bocca.
“Dobbiamo essere allo
studio alle quattro!” gli ricordò Bill, tra il preoccupato e l’isterico.
“Merda…” borbottò, quindi,
suo fratello, ricevendo uno sguardo ad alto potenziale omicida da parte di Inge.
Tom roteò gli occhi e
sbuffò, per poi ricambiare lo sguardo, facendole capire che tanto Alex non aveva
sentito.
Lei sospirò e lui le
sorrise sghembo, ricevendo una linguaccia come risposta.
Bill, intanto, porse una
mano ad Alex, che l’afferrò saldamente e lo portò con sé al piano superiore per
vestirlo, visto che sarebbe dovuto andare con loro.
“Sei un cretino.” Affermò
lei, una volta che i due sparirono al piano superiore.
“Lo so.” Ammise con fare
modesto. “È una delle mie tante qualità.”
“Stupido.” Rise lei,
alzando gli occhi al cielo con aria esasperata.
“Accidenti, con tutti
questi complimenti, potrei montarmi la testa!” replicò Tom, sedendosi accanto a
lei, un braccio intorno alle spalle della ragazza. Inge inarcò un sopracciglio
scettica e lui le mostrò il suo solito sorriso sghembo, contornato da una bella
dose di malizia, sapendo bene quanto lei potesse resistergli in quelle
situazioni.
Molto poco.
Le guance della ragazza,
infatti, si colorarono lievemente, ma non gli negò il piacere della sfida,
iniziando a fissarlo intensamente con i suoi occhi verdi, perché sapeva
altrettanto bene quanto lui potesse resistergli.
Molto poco.
I due si guardarono negli
occhi, avvicinandosi sempre di più, finché lui non posò una mano sulla nuca
della ragazza, permettendo, così, alle loro labbra si fondersi in un bacio
ardente.
Inge lo allontanò
leggermente, tanto per poterlo guardare negli occhi.
“Farai tardi.” Sussurrò.
“Non importa.” Rispose lui,
chiudendo gli occhi e sfiorandole il naso con il suo, la voce calda e suadente.
Inge sapeva benissimo che
lo faceva per farle perdere i controllo. Lo faceva sempre. Ma quello non era il
momento, nonostante lei non facesse niente per fermarlo. Tom, infatti, la
intrappolò sotto di sé, facendola stendere sul divano, e riprese a baciarla,
mentre le accarezzava un braccio con una mano. Semplici movimenti delicati, ma
sensuali, che le davano alla testa.
“TOM! INGE!” tuonò la voce
di Bill dall’ingresso.
I due ragazzi trasalirono.
Poi lei allontanò Tom da sé bruscamente, facendolo cadere per terra, mentre lei
si metteva seduta e guardava Bill, cercando di apparire più innocente possibile,
un sorriso tirato sulle labbra, accompagnato da una risatina nervosa.
“Siete incorreggibili!
Siete… due animali in calore perenne!” li accusò di nuovo.
Tom si alzò, massaggiandosi
un gomito ed imprecando a denti stretti gli apici del suo già noto repertorio.
“Ed Alex?” chiese, non
vedendo il diavolo in miniatura accanto a lui.
“Ora scende. Era in bagno.”
Rispose con un vago gesto della mano. “Tom!” ruggì, poi, cambiando totalmente
espressione. “Non ti sei ancora cambiato!”
Il ragazzo si guardò. Bè,
in effetti non poteva andare allo studio con addosso quella maglia sgualcita – e
sporca del sugo che Alex gli aveva casualmente tirato addosso con una
forchettata di pasta – e quel paio di pantaloni di una vecchia tuta, che per
altro, avevano un grande buco all’altezza del ginocchio.
“Sì, ora vado.” Mormorò
Tom.
“Non ora. Ora
è già troppo tardi!” abbaiò Bill, indicandogli il piano di sopra con un dito
dall’unghia – ovviamente – perfettamente smaltata di nero.
Il ragazzo sbuffò e salì le
scale svogliatamente, le mani affondate nelle tasche. Lui non aveva bisogno di
tutto il tempo che impiegava suo fratello per vestirsi. A lui servivano solo due
magliette e un paio di pantaloni. Punto. Che bisogno c’era di sbraitargli
contro?
“MUOVITI!” urlò ancora
Bill, sulla buona via per uno dei suoi attacchi isterici.
Tom sollevò una mano e gli
mostrò il suo elegante dito, fischiettando, per poi sparire al piano superiore.
***
“E lui chi è?” chiese
dubbioso Georg, indicando il bambino che si nascondeva dietro le gambe del moro.
“Si chiama Alex.” Rispose
Bill.
“Alex?” ripeté e si chinò
in avanti, appoggiando i gomiti sulle ginocchia.
I Kaulitz annuirono.
“Cazzo! È uguale a voi
due!” constatò stupito, ricevendo un’apparente ingiustificata gomitata alle
costole da Gustav, seduto sul divano vicino a lui. “Ma che -” ma venne
interrotto da un’occhiata più che eloquente.
“Georg! C’è un bambino!
Modera un po’ il linguaggio!” lo ammonì il batterista.
Il ragazzo guardò il
piccolo essere che non accennava minimamente ad allontanarsi da Bill.
“Ma è vostro parente?”
chiese incredulo. Era identico a loro. Stessi occhi, stessi capelli. Sia lui che
Gustav avevano conosciuti i gemelli quando erano decisamente più grandi rispetto
al bambino, ma quei lineamenti erano inconfondibili.
“Bè, sì…” farfugliò Tom,
stravaccandosi maggiormente sul divanetto di fronte a quello su cui erano seduto
i due amici. “È nostro cugino.”
“Vostro cugino?” ripeterono
all’unisono i due amici.
“Voi avete un cugino?”
aggiunse Gustav, facendo vagare lo sguardo da Tom a Bill e viceversa.
“Sì… è così strano?”
replicò stizzito Tom.
“No, è che non lo sapevamo…
e ormai sono anni che siamo amici.” Gli fece notare il batterista, mostrando un
espressione perplessa.
“Bè, non ce l’avete mai
chiesto…” ribatté Tom.
“E perché è con voi?”
domandò Georg.
“I suoi genitori sono in
viaggio con i nostri, quindi hanno chiesto a noi di stare con lui.” rispose Tom
distratto, accompagnando il tutto con un vago gesto della mano, mentre teneva
l’altra sotto la testa, abbandonata sullo schienale del divano.
“E quando tornano?” lo
interrogò Gustav.
“Non lo sappiamo.”
“Come non lo sapete?” fece
indignato. “Cioè, vi viene affidato un bambino – di quanto? Tre anni?”
“Quattro.” Precisò Bill,
spostando il suo peso da una gamba all’altra, le mani incrociate al petto. Alex
era ancora dietro si lui, che sbirciava furtivo i due nuovi ragazzi.
“Ecco, quattro anni, e voi
non vi preoccupate minimamente di quando tornino?”
“Bè, mica sono scappati!”
“Certo che no! Ma avete
idea delle responsabilità che porta, prendersi cura di un bambino?” fece loro
notare il batterista.
Tom chiuse gli occhi. Sì,
aveva decisamente idea di quello che dovevano fare.
“Ehi, Alex,” lo chiamò
Georg, un sorriso rassicurante sulle labbra. Allungò una mano nella sua
direzione, sperando che il bambino l’afferrasse e uscisse dal suo
nascondiglio. “Come ti trovi con questi due?”
Il piccolo guardò la mano,
leggermente impaurito, poi guardò Georg. Quel sorriso gli fece capire quanto
fosse sincero e prese la mano del ragazzo, per poi oltrepassare Bill e
avvicinarsi al bassista.
“Bene.” Biascicò.
“Ti diverti?”
Lui annuì titubante.
Sia Tom che Bill
osservarono la scena. Era decisamente curiosa. Non avevano mai visto Georg alla
presa con un bambino, e non si aspettavano minimamente che potesse essere così
sciolto e capace di farsi capire.
O forse questo fatto, pensò
Tom, era dovuto solo al fatto che Alex era suo figlio, e non un semplice cugino.
Bè, cosa poteva
giustificare tutto questo, altrimenti?
Anche Gustav iniziò a
parlare, imitando i piccoli e delicati gesti di Georg, per ottenere la fiducia
di Alex, e in poco tempo, il bambino si aprì anche con loro, mostrando dei
sorrisi divertiti e giocosi.
Di colpo, però, la porta
del camerino si aprì violentemente, facendo sobbalzare tutti i presenti e
mettendo fine a quell’allegra atmosfera.
“Ecco dove eravate,
disgraziati!” tuonò David, scuro in viso.
“Scusa, ma -” iniziò Bill,
gesticolando per aria.
“Non voglio sentire scuse.
Voglio sentirvi suonare! Dovevate iniziare dieci minuti fa!”
Poi si zittì. C’era
qualcosa che non gli tornava. Contò i ragazzi. Sì, c’erano tutti. Poi posò lo
sguardo sul bambino che stava cercando di nascondersi dietro le gambe di Gustav,
la mano nella sua come per avere un sostegno.
“E lui chi è?”
“Alex.” rispose il
batterista.
“Alex?” ripeté con una
smorfia.
Com’è che questa scena non
è per niente nuova?,
ghignò Tom, rendendosi, però, subito conto di ciò che stava succedendo. David
Jost stava chiedendo informazioni su un bambino. E il bambino in questione,
altri non era che suo figlio.
Iniziò a sudare freddo.
David sarebbe persino stato capace di controllare l’albero genealogico della sua
famiglia, se ne avesse avuto la voglia. Non gli ci sarebbe voluto molto per
capire che quello non era suo cugino. E la sua estrema somiglianza con lui era
la prova di chi fosse in realtà.
“Ah, è vostro cugino?” fece
il produttore, guardando Bill e poi Tom, rispondendo, evidentemente ad una
precisazione di qualcuno.
Bill annuì, mentre Tom era
ancora immerso fino al collo nelle sue seghe mentali che aumentavano di secondo
in secondo a causa degli occhi di Jost che lo fissavano come se stessero
cercando di leggergli l’anima, soffermandosi su di lui più del necessario. O
almeno, così parve a lui.
Annuì, quindi,
impercettibilmente, cercando di mantenere una parvenza di controllo, quando
questo, invece, era ormai andato a farsi fottere.
“Perché è qui?” chiese
David. Alex cercò di nascondersi maggiormente. Sembrava che il bambino cercasse
di diventare tutt’uno con il divano e scomparire dal campo visivo di quell’uomo
per niente rassicurante.
“I suoi genitori sono in
vacanza.” Rispose Georg, sdraiandosi sul divano.
Ok, se l’era cercata. Se il
produttore fosse venuto a conoscenza della verità, come minimo si sarebbe dovuto
aspettare che lo scuoiasse vivo.
“Ma, scusa. Non poteva
andare dai vostri genitori? Mica siete in vacanza, voi!” fece notare.
Bè, abbiamo fatto trenta,
facciamo trent’uno…
“No, anche i nostri sono
via.” Spiegò Tom. Tanto ormai non c’era più niente da fare. Forse, la cosa
migliore era dare a tutti la stessa versione dei fatti, almeno questa farsa
avrebbe potuto continuare un po’ di più, prima di essere scoperta. Perché
sarebbe stata scoperta. Non c’erano dubbi al riguardo. Poteva durare di più, o
di meno, ma non l’avrebbe fatta franca. Tutti avrebbero saputo chi Alex fosse in
realtà.
Alzò gli occhi sul
fratello, come per avere conferma, ma l’unica cosa che ottenne da Bill fu uno
sguardo tra la disapprovazione e la rassegnazione. Poi il moro annuì, mostrando
un sorriso. Tom capì perfettamente cosa gli stava dicendo. Le parole non erano
necessarie. Sì, lo sapeva. Si stava impelagando sempre di più. Così tanto che a
stento ci sarebbe uscito indenne. Ma gli voleva anche dire che lui era dalla sua
parte, che avrebbe potuto contare su di lui.
David sospirò, passandosi
una mano sul viso.
“Perfetto. E ora dove lo
mettiamo?”
“Guarda che non è un
oggetto.” Replicò Tom.
“Lo so.” Roteò gli occhi
l’altro. “Era per dire che dovete lavorare e lui non può stare con voi.” Assunse
poi un’aria concentrata. “Chiamo Saki. Se ne occuperà con lui.”
I ragazzi si guardarono
stupiti. Saki ed Alex? Il gigante e il bambino? Gulliver ed il lillipuziano?
Soffiarono una risata.
Questa era da vedere!
***
“Alex!” urlò Saki, correndo
per il corridoio.
Si fermò, poi,
improvvisamente, guardando a destra e sinistra. Un bivio. Dove era andato?
“Alex! Dove sei?”
Nessuna risposta.
L’omone sospirò. Era la
terza volta che scappava. La prima perché aveva visto Tom passare vicino a loro
e aveva cercato di raggiungerlo, ma Saki l’aveva bloccato in tempo. La seconda
perché era arrabbiato con lui e non voleva più stargli vicino. La terza… perché
si era divertito a farsi catturare da lui la seconda volta.
“Alex! Guarda che chiamo
David!” se c’era una cosa che aveva capito, era che il bambino aveva una paura
folle di Jost.
Ma il bambino non rispose.
“Alex, per piacere… non ce
la faccio più a correre per i corridoi.” Si lamentò Saki, appoggiandosi con la
schiena al muro.
Una risatina sottile lo
fece, però, voltare.
Dietro ad una delle grandi
piante che ornavano quel piano, Alex stava ridendo, le mani sulla bocca. Ma il
fatto che una foglia gli tappasse gli occhi, facendo sì che lui non potesse
vedere l’omone, non significava che lui era diventato invisibile.
Il sederino del bambino
sporgeva da oltre il grosso vado della pianta, e Saki quasi rise per quella
scena.
“Ti ho trovato, fuggiasco!”
esclamò, puntando verso di lui.
Alex, quindi, si alzò e
provò a scappare, ma il bodyguard lo acchiappò per la maglietta, fermandolo. Per
una delle tanti leggi della natura, il più forte – e grosso – vince.
Lo prese tra le braccia e
sogghignò allegro.
“Ora ti lego.”
Alex rise davanti alla
minaccia, come se volesse vedere se Saki fosse davvero arrivato al punto di
legarlo. Da quella reazione, l’omone non poté far a meno di associarlo a Tom. Si
vedeva proprio che erano parenti. Per di più avevano anche lo stesso carattere.
Sempre a disobbedire ed a ribattere.
Tornò nella sala d’attesa e
si sedette su una delle sedie, il bambino sulle gambe.
Non passarono cinque minuti
che Alex iniziò a dimenarsi per scendere.
“Ti ho detto che non puoi
andare dove vuoi, qua dentro.” Gli ricordò Saki, il tono leggermente
autoritario.
“Ma io mi annoio!” si
lamentò il piccolo diavolo.
“E cosa vorresti fare?”
sospirò.
Il bambino si mise un dito
sotto il mento e meditò qualche secondo.
“Voglio stare con Tom e
Bill!”
“Ma loro sono impegnati.”
“Ma io voglio stare con
loro…” gli occhi divennero lucidi.
“Non ti mettere a piangere,
eh!” lo ammonì l’omone, che non aveva la minima idea di cosa fare in tale
eventualità.
“Se mi metto a piangere, mi
porti da loro?”
“Cosa?” alzò un
sopracciglio scettico.
“Se piango,” ripeté con
voce strozzata. “Mi porti da loro?”
“Mi vuoi ricattare?” lo
guardò torvo, con il velo di un sorriso sulle labbra. Era decisamente un bambino
fuori dal comune. Nonostante sembrasse ingenuo, in fondo era davvero sveglio.
“Io voglio andare da loro…”
piagnucolò ancora, tirando su con il naso.
Saki sospirò ancora,
rassegnato.
“E va bene. Hai vinto.
Andiamo dai ragazzi…”
Alex mostrò un sorriso
raggiante e l’ombra del pianto si volatilizzò in meno di un secondo.
Appunto.
Sapeva proprio come ottenere ciò che voleva.
Entrambi si alzarono e mano
nella mano si diressero lungo i grandi corridoi dell’edificio. Girarono a
destra, poi a sinistra, poi ancora destra… e dopo qualche altro incrocio di
strade in miniatura, si ritrovarono davanti ad una porta di legno nero.
Saki l’aprì ed entrarono.
La stanza in cui si ritrovarono era buia, illuminata solo da una luce sopra la
consolle dei comandi, sistemata davanti ad un grande vetro che mostrava un’altra
stanza adiacente in cui i quattro ragazzi stavano suonando.
“Cosa fanno?” sussurrò
Alex, indicandoli.
“Stanno suonando.” Spiegò
Saki, chinandosi verso il bambino.
“Ma io non sento niente!”
“Perché la stanza è
insonorizzata.”
“Cosa vuol dire?” piegò la
testa da un lato.
Saki lo guardò perplesso.
Come faceva a spiegarglielo? Trovò, poi, la soluzione guardando sulla consolle e
notando delle cuffie. Le afferrò per poi collegarle ad un filo e le fece
indossare ad Alex, che subito sorrise, sentendo le note di ciò che proveniva
dall’altra stanza.
“Sento la musica!” urlò
felice il bambino.
Saki sorrise divertito. Lo
prese poi in braccio, in modo da fargli avere una visuale migliore ed insieme
rimasero ad osservare Bill, Tom, Georg e Gustav che suonavano una dolce melodia,
talmente concentrati che non si accorsero dei due spettatori.
Solo una volta conclusa la
prova, i ragazzi notarono il bodyguard e Alex oltre il vetro.
Bill subito sorrise e
iniziò a salutare, agitando la mano. Il bambino rispose al saluto allo stesso
modo. Poi, il moro gli fece segno di andare da loro e Saki lo accontentò,
mettendolo per terra ed accompagnandolo nell’altra stanza.
“Ciao!” fece Bill
raggiante, correndo incontro al bambino e abbracciandolo. “Come mai sei qui?”
“Mi annoiavo!” rispose lui,
cercando di allontanare il ragazzo, che lo stava quasi stritolando.
“Bè, ora non ti annoierai
più, visto che potrai vedere dal vivo come lavorano le grandi star!” esclamò con
enfasi il cantante.
“Delle star?” chiese Alex.
“Sì, delle persone famose.”
Spiegò Gustav, alzandosi dalla sua postazione ed asciugandosi le gocce di sudore
che gli imperlavano la fronte, con un asciugamano.
“Siete famosi?” ripeté tra
l’incredulo e l’emozionato, il bambino.
“Certo!” sorrise Georg.
“Davvero?”
“Davvero.” Annuì il
ragazzo.
Alex sorrise contento ed
elettrizzato.
“Ehi, vuoi provare a dare
qualche colpo alla batteria?” chiese Gustav, indicandogliela con un dito.
Lui non se lo fece ripetere
due volte e corse verso quei grossi tamburi.
Il biondo si mise seduto
sul suo sgabello e prese Alex sulle gambe. Gli diede le bacchette e posò le sue
mani sopra quelle del bambino, guidando i suoi movimenti con delicatezza.
Alex rideva divertito,
iniziando a sgambettare – e colpendo più volte il grande tamburo davanti a lui,
stonando sul tempo dettato da Gustav.
Gli altri quattro li
guardarono, commentando con risate e sorrisi ciò che vedevano, ma solo Tom e
Bill poterono apprezzare veramente quella scena. Loro più di tutti si stavano
affezionando a quel bambino come se fosse sempre stato con loro. Chissà per
quanto ancora ci sarebbe rimasto…
***
Quella sera, Georg e Gustav
furono invitati a casa Kaulitz per festeggiare la presenza di Alex – motivo come
un altro per sottintendere una serata dedita all’alcol… ovviamente solo quando
il bambino sarebbe stato a letto.
Mangiarono una pizza
ordinata all’ultimo momento e iniziarono con il bere della semplice birra, ma
dovettero andarci piuttosto piano,visto che Alex era seriamente intenzionato a
rimanere sveglio per ancora molto tempo.
Inge provò a stare un po’
con lui, permettendo così ai ragazzi di divertirsi per conto loro, ma il piccolo
diavolo non era d’accordo. Infatti, più volte aveva mostrato un broncio, sempre
più solido e difficile da abbattere, così che la ragazza fu costretta a
riportarlo in sala con i ragazzi, che intanto avevano iniziato a versare nei
propri bicchieri liquidi decisamente più potenti della birra.
“Tom, perché ridi?” chiese
Alex, notando che il rasta stava fissando il vuoto, prima di mettersi a ridere
come un ossesso di punto in bianco.
“Cosa?” fece lui, cercando
di calmarsi.
“Ridevi, prima!”
“Sì, perché sono contento.”
Spiegò vagamente, seguito da una risata rumorosa di Georg.
“Anche Georg è contento?”
“Certo! Lui più di tutti!”
commentò Gustav, divertito.
“Perché?”
“Perché… perché si
diverte!” rispose Bill, che – come Gustav – era quello che sembrava più sobrio.
Tom e Georg erano sempre più ubriachi. Sembrava si ubriacassero solo ad
osservare l’alcol, una volta arrivati a certi livelli.
“Dai, ora devi andare a
letto…” lo prese per mano Inge.
“Ma io voglio rimanere con
loro!” replicò lui.
“Ci starai domani.”
“Ma io voglio starci ora!”
“Alex, guarda, ora anche
Georg e Tom vanno a nanna, vero?” intervenne Gustav, dando una gomitata
al bassista.
Il ragazzo, quindi, annuì
goffamente e si stese sul divano su cui prima era seduto, lasciando il suo
bicchiere sul tavolo davanti a sé, mentre Tom osservava la scena allegro a causa
dell’alcol dentro di sé.
“Sì, guarda ora dormo pure
io.” E chiuse gli occhi, lasciando che le mani gli cadessero inermi lungo i
fianchi e poi per terra, oltre i cuscini del divano di pelle.
“Sei stanco?” chiese
innocente Alex, avvicinandosi a lui.
“Molto.” Rispose per lui
Bill.
“Perché?”
“Ha lavorato molto, oggi!”
fece Tom, soffocando una risata insensata.
“Davvero?”
“Davvero.” Ripeté Gustav,
osservando l’amico che sembrava proprio addormentato.
“Ehi, Georg, hai lavorato
tanto?” domandò il bambino, tirando una manica della maglia del ragazzo, ma
questi non rispose. “Georg!”
Ma non ricevette di nuovo
risposta.
Ok, si è addormentato sul
serio… commentò
il batterista tra sé e sé.
“Ehi, Alex! Ho un’idea!”
esclamò Bill, offrendogli una mano. Lui, quindi, trotterellò verso di lui
curioso. “Trucchiamolo!” sorrise malefico.
“Sì!” il bambino applaudì
contento, per poi prendere la mano di Bill ed andare al piano superiore con lui
per prendere i trucchi che il moro teneva nei cestini sul mobile in camera sua.
Inge guardò Tom per
chiedere conferma delle intenzioni di suo fratello. Lui alzò le spalle, bevve un
altro sorso di vodka e si mise a ridere. La ragazza, quindi, sospirò rassegnata
e diresse il suo sguardo su Gustav che rispecchiava la sua curiosità mista a
perplessità.
In pochi minuti, Bill ed
Alex tornarono in sala con due cestini colmi uno di trucchi e uno di pennarelli
colorati. Li misero a terra vicino al bassista ed iniziarono la loro opera. Bill
prese una matita nera e iniziò a tracciare il contorno della palpebra chiusa,
mentre Alex lo osservava. Poi, anche il bambino si armò di un pennarello nero e
iniziò a disegnare girigogoli su una guancia del povero Georg, che non mostrava
minimamente dei cenni di risveglio.
Il moro, poi, prese il
mascara e lo passò sulle ciglia del bassista, mentre il piccolo diavolo cambiò
colore e con il pennarello rosso iniziò a fare dei puntini sull’altra guancia.
Tom rideva istericamente,
contagiando Inge e Gustav, che osservavano la buffissima ed esilarante scena
davanti a loro.
Chissà come avrebbe reagito
Georg, una volta che si fosse ripreso e avesse capito cosa gli avevano fatto…
¤°.¸¸.·´¯`» «´¯`·.¸¸.°¤
Continua...
________________________________________________________________________________________________________________________________________________
ATTENZIONE:
I Tokio Hotel non mi
appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera
della loro personalità. No scopo di lucro.
***
Non ci speravate più, eh? x°D
Spero di non avervi fatto
aspettare troppo. Nel frattempo ho dovuto studiare e mi sono persa nella
preparazione di una nuova fan fiction ('Urlando contro il cielo', di cui
ho già postato il primo capitolo...^^"), quindi, vi prego di non
massacrarmi...ç__ç
Comunque, bè, ora ho
aggiornato e vi posso dare una piccola anticipazione sul prossimo
capitolo: sarà molto diverso rispetto a questo...!
Ok, ora passo ai
ringraziamenti! vedo che siete tantissimi! Continuate così! E anche voi, o
lettori silenziosi, fatevi sentire! Di certo non mi arrabbio!XD
Allora, grazie a:
sbadata93, Zickie
(lo sai che sto ingrassando per i tuoi complimenti?XD Grazie infinite! Per
rispondere alla tua domanda: bè, sei acuta! Ma pensa al fatto che Alex abbia
solo quattro anni. Ha trovato tre persone che lo coccolano e non gli fanno
mancare niente... potrebbe essere sufficiente, no? Per avere ulteriore
informazioni, comuqnue, devi solo aspettare il seguito. ^^), angeli
neri, pandina_kaulitz, kit2007 (ma tu non sei rincoglionita!!!
ç___ç e poi come potresti esserlo, visto tutto ciò che mi scrivi??? Grazie!!!XD
Cogli sempre tutto!), layla the punkprincess,
ladydarkprincess, tokiohotel4e e pIkKoLa_EmO (mi devo
assolutamente soffermare a dire quattro parole pure a te!XD Ho visto tutte le
recensioni che hai lasciato sulle altre mie storie. Grazie! Davvero! Mi fa
piacere che ti piacciano le mie ff!^^ Spero che anche questa ti possa
appassionare allo stesso modo!)
E detto questo, mi eclisso di
nuovo. Lettori carissimi, che ne dite di deliziarmi con un vostro commentino
anche questa volta? XD Ci conto!!^^
_irina_
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Capitolo 7 *** Does Reality Hurt? Yes, It Does ***
Just a kid
Just a kid
Does
Reality Hurt? Yes, It Does
“Alex!” chiamò Inge dalla
stanza in cui lavorava al piano superiore. “Alex, puoi venire qui?” il tono era
leggermente irritato. Gliel’aveva già detto tante volte di non toccare nessun
foglio che era sulla scrivania, ma era ovvio che la cosa gli era entrata in
testa da un orecchio ed uscita subito dall’altro.
Il bambino si affacciò alla
porta della stanza con aria innocente.
“Sì?”
“L’hai preso tu il foglio
con il progetto su cui devo lavorare?” e si mise le mani ai fianchi, mostrando
al bambino un’espressione arrabbiata.
“Sì.” Confermò soddisfatto,
sorridendo.
La ragazza sospirò.
“Quante volte te lo devo
dire di non prendere quei fogli? Mi servono per lavorare, capisci?” gli spiegò,
ammorbidendo il tono.
“Ma tu lavori sempre…” fece
lui, assumendo un’aria triste, mentre si avvicinava ad Inge.
“Non è vero. Gioco anche
con te…”
“Allora gioca ora!” la
interruppe, prendendola per una mano e tirandola verso il corridoio.
“Non posso, Alex,” spiegò
esasperata, opponendo una lieve resistenza. “Devo assolutamente trovare quel
foglio e -”
“Allora fai la caccia al
tesoro!”
“Cosa?”
“Sì! Tu cerchi il foglio
per la casa e io ti dico quando ci sei vicina!” e sorrise raggiante, lasciando
la presa.
“Ma, Alex, io…” la frase
per ribattere le morì in gola, quando gli occhi del bambino divennero lucidi.
Che fosse solo una tattica o meno, questo lei non lo sapeva – anche se lo
sospettava –, quindi, l’unica cosa che poté fare, fu annuire, anche se
leggermente contrariata.
Inoltre, accettare sarebbe
stato l’unico modo per riavere indietro quel dannatissimo foglio. Alex non
gliel’avrebbe mai restituito. O almeno, non fino a che lei non avesse passato
del tempo con lui a partire da quel preciso momento.
Ma, dopotutto, poteva anche
fare quella pausa per stare con il bambino. Quella mattina era stata, infatti,
rinchiusa in camera a studiare il progetto, mentre Alex colorava gli ennesimi
disegni che la ragazza gli aveva fatto, per poi andare a giocare alla play. Era
normale che ora volesse stare un po’ con lei…
“Va bene. Dai, da dove
inizio?” Chiese, uscendo dalla stanza con il bambino che trotterellava al suo
fianco.
“Da dove vuoi!” sorrise
innocente.
Scesero le scale e Inge si
diresse verso la cucina.
“È qui?”
“Ma non devi chiedermelo
subito, sennò poi è troppo facile il gioco!” si lamentò Alex, piegando la testa
di lato con un piccolo broncio disegnato sul viso.
“Ok, allora vorrà dire che
cercherò senza il tuo aiuto.” E si finse offesa, mentre Alex – che aveva
imparato a distinguere la finzione di quelle espressioni, dalla realtà – rideva
contento.
La ragazza si avvicinò agli
sportelli bassi della cucina, visto che Alex non avrebbe potuto nascondere quel
foglio troppo in alto, anche perché i gemelli erano impegnati in una giornata di
interviste. Li aprì tutti, ma in nessuno di essi trovò il famigerato foglio.
Si spostò, quindi, verso la
sala. Alex le correva dietro.
“Quante possibilità ci sono
che sia in sala?” chiese, chinandosi per terra per vedere se quel progetto fosse
sotto il grande divano nero.
“Non te lo dico!” sorrise
lui in risposta, arrampicandosi sulla poltrona.
“Ok, ok…” e controllò tra i
cuscini.
Niente.
Dove era quel foglio?
Inge sospirò divertita.
Passò, poi, a rovistare nei
cassetti dello studio – cosa che si rivelò più complicata del previsto, dato che
quella stanza era satura di fogli di ogni tipo. Era quasi come cercare un ago in
un pagliaio. Solo dopo un quarto d’ora, appurò che il suo obbiettivo non era là
dentro.
Offrì quindi la mano ad
Alex ed insieme salirono al piano superiore.
“Non l’hai messo nel bagno
o nello stanzino, giù, vero?” chiese lei, entrando nella sua vecchia camera.
“Non te lo dico!” ripeté il
bambino.
“E dai! Guarda che sennò ti
faccio il solletico!” lo minacciò, iniziando a muovere le dita davanti a lui con
aria sadica.
“Non te lo dico!”
canticchiò ancora Alex.
“Allora vuoi essere
torturato, eh?” e lo fece salire sul letto, per poi mettere in atto la sua
tattica.
“Inge!” gridava lui,
ridendo. “Basta!”
“Non mi fermo finché non mi
rispondi.” Ribatté lei, alzandogli la maglietta e iniziando a fargli il
solletico sulla pancia.
“Sì!” rispose lui, cercando
di allontanare le mani della ragazza da sé.
“Sì, cosa?” fece lei,
riuscendo in tempo ad evitare un calcio del bambino, che sgambettava
freneticamente.
“Non è giù!”
Inge smise di torturarlo e
gli scarruffò i capelli.
“Bravo, vedi che se le cose
le dici subito, è meglio?”
“Ma mi piace quando mi fai
il solletico!” sorrise lui, tirandosi giù la maglietta e sedendosi sul letto.
“Dai, dove è il foglio?”
chiese dolcemente, sperando di arrivare presto al nascondiglio. Certo, Alex si
sarebbe annoiato se lei avesse ripreso a lavorare, ma era anche vero che la
scadenza si avvicinava.
“Non lo cerchi più?” e
piegò ancora una volta la testa di lato. Inge sospirò. Perché non riusciva mai
contrariarlo quando faceva così?
“No, va bene, continuo. Ma
tu aiutami, ok?”
“Perché? Se io ti aiuto,
poi lo trovi subito!”
“Allora facciamo così:
dimmi la stanza in cui si trova, poi ci penso io a cercarlo.”
Alex ci pensò un po’,
mettendosi un piccolo dito sotto il mento. Poi, acconsentì.
“Però dopo giochi ancora
con me!”
“Certo!”
Alex sorrise soddisfatto,
quindi, scese goffamente dal letto e trotterellò per il corridoio. Inge si
apprestò a seguirlo, per poi vederlo entrare nella stanza di Tom.
“È qui?”
Lui annuì, sedendosi sul
letto – indubbiamente sfatto – del legittimo proprietario di quella camera.
“Ora , però, lo devi
cercare!”
“Ok. Mi metto al lavoro.” E
si avvicinò a quella che un tempo era una scrivania – visto che ora quasi non si
vedeva più nemmeno un pezzo della superficie, ricoperta com’era da tutti gli
spartiti del ragazzo.
Dopo averli scartati tutti,
optò per affacciarsi sotto il letto, ma nemmeno lì trovò ciò che cercava –
perché di altre cose ce n’erano… e anche molte!
Scartò l’ipotesi che il
foglio fosse tra i vari libri di Tom, visto che gli scaffali della libreria
erano troppo in alto, e si concentrò sull’armadio. Aprì le ante, ma le richiuse
subito, notando il casino all’interno. Passò, quindi, al mobile che conteneva
qualunque cosa potesse occupare spazio ed aprì il primo cassetto.
Niente foglio. Solo boxer.
Passò al secondo. Fogli.
Perfetto! Se si trovava
qui, era stato decisamente sadico da parte di Alex. Per controllarli tutti ci
sarebbe voluta metà giornata! Lo chiuse e passò al terzo.
C’era di tutto. Da oggetti
elettronici come I-pod, lettori CD ormai vecchi, caricabatterie… e altri fogli.
Tra tutti, però, ce n’era
uno isolato dal mucchio, che stava nella parte più profonda del cassetto. Lo
prese. Era piegato in quattro, quindi, lo aprì.
Ma ciò che vi trovò scritto
le fece mancare il fiato.
No, quello non era per
niente il suo progetto!
“Tom, questo è tuo figlio.
È nato quattro anni fa. Non riesco a mantenerlo con solo il lavoro che faccio.
Mi dispiace, ma devi prendertene cura tu.”
Gli occhi della ragazza si
posarono automaticamente sul bambino seduto sul letto, che la guardava stranito
e leggermente preoccupato.
“Inge, perché fai quella
faccia?”
Non rispose. Sentiva la
bocca asciutta. Tutte le parole le morirono in gola, forse ancora prima che lei
sapesse cosa dire. Il cuore quasi le si fermò. I battiti si erano fatti sempre
più sommessi, sempre più silenziosi. Inesistenti.
Quei lineamenti. Quegli
occhi. L’iniziale titubanza di Tom verso il bambino.
La testa iniziò a girarle
ed un’ondata di freddo la invase.
Non è possibile…
Ora capiva tutto. Tutti i
tasselli che malamente combaciavano tra di loro, ora avevano trovato la loro
giusta collocazione.
Si portò una mano sulla
fronte, per poi farla calare sugli occhi.
Si sentiva strana. Tutte
quelle emozioni – frustrazione, tristezza, delusione e molte altre che Inge non
riuscì a distinguere – sembravano avvolgerla nella maniera più dolorosa avesse
mai provato.
Alex era il figlio di Tom.
***
Aprì la porta di casa con
sollievo. Era riuscito a sopravvivere ancora una volta a tutte quelle
interminabili interviste. Ora niente e nessuno gli avrebbe impedito di buttarsi
sul letto e rimanerci fino a mattina inoltrata. Nemmeno Alex.
Bè, forse Inge,
pensò malizioso, mentre entrava in casa, lasciando che suo fratello chiudesse la
porta dietro di sé.
Era tardi. L’ultima volta
che aveva guardato l’ora, erano le undici passate. Decisamente tardi… Alex
doveva essere già a letto. Come Inge, del resto… Sarebbe stata questione di
pochi minuti, e lui l’avrebbe raggiunta.
Ma la luce accesa in cucina
lo fece riemergere dai propri pensieri.
“Ehi, la luce è accesa.”
Disse Bill.
“Lo so, l’ho vista.”
Entrambi, quindi, si
diressero verso quella stanza e non poterono fare a meno di trasalire, vedendo
Inge seduta su una sedia che li guardava truci.
“Inge, come mai sei ancora
sveglia?” chiese Tom, raggiungendola per baciarle la fronte, proprio come faceva
ogni volta che tornava e lei era alzata.
Ma questa volta, non era
come tutte le altre.
“Già. Perché sono ancora
sveglia? Dimmelo tu.” Rispose lei con voce atona, gli occhi fissi sul ragazzo.
“Ehi, cosa hai?”
“Non lo so. Tu lo sai?” i
suoi occhi suscitarono una paurosa inquietudine nel ragazzo.
“Ehm, dovrei?” cercò di
sdrammatizzare.
Inge non rispose. Rimase
immobile, rigida. Tom capì che la questione era decisamente grave. Molto grave.
Ed il suo tentativo di minimizzare il problema, non si era rivelato per niente
una buona idea.
“Sì. Dovresti.” Rispose
dura.
Improvvisamente, lui capì.
Lei sapeva. L’aveva
scoperto.
Ma il momento impegnato dal
ragazzo per comprendere la situazione, era decisamente fuori tempo massimo, ed
Inge sbatté con tutta la sua forza il foglio che aveva trovato sul tavolo.
Tom si sentì mancare e la
testa sembrò girargli improvvisamente.
Merda…
E ora? Cosa poteva dirle?
Come poteva farle capire che non era come poteva sembrare? Che lui era
innocente? Che in questa situazione lui era una vittima – per quanto
paradossale potesse sembrare?
Purtroppo, l’orgoglio non
gli permise di scusarsi, e dalle sue labbra uscirono le parole sbagliate.
“Sei andata a frugare tra
le mie cose!” ruggì.
“Chi cazzo se ne frega!”
urlò lei in risposta, alzandosi di scatto e facendo cadere la sedia per terra.
“Come chi se ne frega?”
ripeté Tom.
“Sì, chi se ne frega!”
“Ehm, Tom…” intervenne
Bill, che era rimasto per tutto quel tempo sulla soglia della cucina senza poter
far niente. Avrebbe tanto voluto spiegare, ma la situazione stava peggiorando di
secondo in secondo ed il suo intervento, infatti, si rivelò inutile.
“Stai zitto!” tuonò il
fratello.
“Sì, ma -” cercò di farsi
valere, seppur fosse leggermente intimorito dalla piega che quella discussione
stava prendendo.
“Bill! Ho detto: stai
zitto!” ripeté alzando ulteriormente la voce.
“Ma -”
“Vattene, porca puttana!”
si girò verso di lui, guardandolo minaccioso ed incazzato.
Erano state pochissime le
volte in cui Tom aveva reagito così contro di lui, ed ogni volta mettevano
sempre più paura. Per questo ritenne opportuno fare come il fratello gli aveva
urlato addosso. Sì, avrebbe voluto evitare che continuassero a gridarsi l’uno
contro l’altro, ma era anche vero che ormai non era più possibile evitarlo.
Il moro, quindi, si
allontanò, lasciando i due ragazzi da soli in cucina.
Il silenzio era l’unica
presenza intorno a loro.
“Voglio una spiegazione,
Tom.” Sussurrò Inge dopo un po’. La sua voce era fredda, ma lasciava trapelare
qualche nota strozzata e flebile. Nonostante non sembrasse, la sua era una
supplica.
Una spiegazione? Cosa c’era
da spiegare? Anche lui avrebbe voluto chiedere una spiegazione. Perché gli stava
facendo tutto questo? Non era già tanto per lui aver vissuto due settimane con
un bambino? Non era già tanto per lui aver vissuto due settimane con il suo
bambino?
Sembrava proprio che Inge
questo non lo capisse.
Il ragazzo provò a cercare
le parole migliori per farle capire quanto fosse stato difficile per lui tutto
questo, per farle capire che lei non era la sola a doversela prendere, perché,
ora come ora, anche lui aveva tutto il diritto di essere incazzato. Lei lo stava
accusando senza sapere cosa stesse provando e cosa, soprattutto, aveva provato.
Ma Tom non fece in tempo a
tradurre tutti questi pensieri a parole, che la ragazza lo anticipò.
“La verità, Tom. Non
cazzate, anche se sembra che tu non sappia dire altro.”
Il ragazzo si sentì ferito,
ma cercò lo stesso di mantenere un minimo di controllo. Solo il giusto
indispensabile per non far ulteriormente degenerare la situazione.
“Ascolta,” iniziò. “Non è
come credi…”
Purtroppo, quelle furono di
nuovo parole sbagliate.
“E certo!” gridò Inge. “E
questo l’ho scritto io solo per poterti attaccare senza motivo!” ed indicò con
violenza il pezzo di carta sul tavolo.
Tom chiuse gli occhi e
respirò profondamente.
“Non era quello che
intendevo dire e tu lo sai.” Disse, quindi, tornando a fissare la ragazza negli
occhi.
“E allora…” la voce si
ruppe, le labbra tremanti. “Allora, dimmi la verità su quel foglio.”
La ragazza stava per
piangere e Tom, per quanto non riuscisse a mandare giù il fatto di venire
accusato senza possibilità di difesa – o almeno di chiarimento –, non poté
evitare di pronunciare quelle parole che Inge sembrava volesse sentire più di
tutto, anche se le avrebbero fatto male.
Voleva la verità? Bene,
gliel’avrebbe detta.
“È vero. Alex è mio
figlio.”
La ragazza provò la
sensazione di cadere in un baratro oscuro e senza ritorno. Aveva sperato che
tutto questo fosse solo frutto della sua fantasia. Aveva sperato che tutto
questo non fosse vero.
Ciò che, però, non aveva
contato, era come avrebbe dovuto reagire se quel timore fosse diventato realtà.
“Cosa…?” sussurrò
flebilmente. E subito, il naso iniziò a pizzicarle. Era da tantissimo tempo che
non provava più quella sensazione – e non ne aveva mai avuto nostalgia – ma ora
che poteva sentirlo di nuovo, si sentì persa.
Tom le aveva mentito.
“Hai sentito. Alex è mio
figlio.” rincarò. “Contenta?” aggiunse con un velo d’ira nel tono. Perché Inge
non capiva che anche lui era si sentiva come lei? Dannatamente perso.
“No!” urlò lei e la prima
lacrima scese lungo il suo viso. “Mi hai solo raccontato cazzate!”
“Ecco!” sbottò il ragazzo.
“Lo vedi? Ti stai incazzando comunque! Anche se te l’avessi detto all’inizio, ti
saresti incazzata!” tuonò.
“Non è vero!”
“Ah, no?” schioccò la
lingua irritato. “Non avresti sopportato l’idea che io avessi un figlio!” la
accusò.
“Non capisci un cazzo!”
ribatté lei, serrando le mani a pugni. Le lacrime scendevano silenziose sulle
sue guancie. “Sono incazzata perché tu non me l’hai detto! Non perché è tuo
figlio!” deglutì a fatica. Il naso già non le pizzicava più. La voglia di
piangere ormai non trovava più ostacoli, impedendo, però, alla voce di risuonare
stabile. Era, infatti, flebile, costantemente interrotta dai singhiozzi che la
ragazza cercava di reprimere. “Lo so come sei, come eri…” aggiunse con tono
sommesso, rinunciando a mantenere un tono di voce alto. “C’era da aspettarsi una
cosa simile…”
“E come sarei, visto che tu
sai sempre tutto?” fece sarcastico, ma al tempo stesso incazzato. Inutile, non
capiva.
“Uno stronzo.” E lo superò.
Passi lenti, ma rapidi. Insicuri, ma decisi. Salì le scale ed entrò nella
propria camera, facendo attenzione a non svegliare Alex, che dormiva già da
qualche ora.
Prese una grande borsa
dall’armadio, vi infilò alcuni vestiti presi a caso e un paio di scarpe. Poi si
mise in tasca cellulare, chiavi e soldi e si spostò nell’altra stanza degli
ospiti, dove afferrò bruscamente i fogli sparsi sulla scrivania. Non erano
tutti, ma non le importava. Voleva andarsene il più in fretta possibile.
Ma proprio quando usciva
dalla stanza, Bill si affacciò nel corridoio.
“Sei proprio sicura?”
chiese flebilmente.
Lei lo guardò con uno
sguardo che conteneva in sé molte emozioni. Determinazione, dolore, paura…
“Capisco. Mi dispiace,
Inge.” Mormorò triste, abbassando gli occhi sul pavimento.
“Lo so. Ma questo non
cambia niente.” Rispose secca la ragazza.
“Scusa…” ripeté afflitto il
moro.
Ed Inge capì.
“Tu lo sapevi!” lo accusò,
urlando sommessamente e indicandolo con un dito, mentre i suoi occhi si
riducevano in minacciose fessure.
Lui annuì
impercettibilmente, ma la rossa lo notò. Respirò, quindi, profondamente
sull’orlo di un nuovo pianto. Non voleva versare altre lacrime. Poi, se ne andò
verso le scale senza più dire niente.
Passò la cucina e diede
solamente una sfuggente occhiata all’interno. Tom era ancora in piedi che le
dava le spalle. Non si era mosso da quando lei l’aveva lasciato da solo. Era
sempre lì, immobile. Le mani lungo i fianchi, quasi fossero inermi. Poteva
vederlo respirare profondamente.
Sì, molto probabilmente,
anche lui era rimasto ferito da tutto ciò che era successo. Ma non era possibile
paragonare le due diverse ferite. Lui le aveva mentito. L’aveva ingannata.
Posò la mano sulla maniglia
della porta. Per un attimo, le sembrò di rivivere quella volta in cui lei se ne
andò dopo aver ammesso di essere stata complice – benché in minima parte
– del furto. Tuttavia, le cose ora erano ben diverse. Quella volta lei era la
colpevole, mentre ora era la vittima.
Aprì la porta ed uscì,
chiudendola alle sue spalle. Salì in macchina – quella macchina che gli aveva
comprato Tom contro la propria volontà –, buttando il borsone sull’altro sedile
anteriore ed accese il motore. Quasi odiò quell’auto.
Aprì il cancello automatico
con il dispositivo installato nel veicolo ed uscì.
Non sapeva dove sarebbe
andata. Forse, avrebbe chiesto ospitalità ad una sua collega di lavoro,
altrimenti, sarebbe volentieri tornata in quel magazzino di tanto tempo fa.
Già sapeva che sarebbe
dovuta tornare in quella casa almeno per prendere altri vestiti. Non aveva preso
che il minimo indispensabile per qualche giorno. Ma sarebbe tornata solo quando
sarebbe stata sicura che Tom e Bill non fossero in casa.
Questo era poco, ma sicuro.
***
La sentì scendere le scale.
La sentì dietro di sé. La sentì mentre lo fissava – forse – per l’ultima volta.
Ma non si mosse. Rimase fermo in quella posizione.
Non aveva più niente da
dirle. Lei non voleva capire. Era, quindi, inutile cercare di farla ragionare.
Ma che cazzo credeva? Era
incazzato anche lui.
Inge gli aveva dato dello
stronzo, ma lei non aveva la più pallida idea di cosa stesse provando lui. Di
cosa aveva provato.
Non era stato facile vivere
con un bambino – il suo bambino – a cui, inizialmente, aveva quasi paura
ad avvicinarsi. Non era stato facile per niente! Aveva raccontato quella cazzata
pensando fosse il modo migliore per mantenere quella perfezione che si era
creata in quel periodo.
Tuttavia, sembrava che
avesse ottenuto tutt’altro. E questo perché? Perché lei non capiva un cazzo!
Perché era andata a frugare tra le sue cose? Ma soprattutto, come poteva solo
lontanamente credere di sapere tutto ciò che lui stava passando? Non poteva!
E allora, che se ne andasse
pure! Non aveva senso continuare a vivere insieme. Se non riuscivano più a
capirsi, era meglio non stare più insieme…
Strinse le mani a pugno e
sospirò profondamente. Poi si voltò e andò al piano superiore. Si sarebbe
rinchiuso in camera. Non aveva più voglia di vedere nessuno.
Purtroppo, proprio mentre
superava la camera del fratello, questi si affacciò e lo osservò con uno sguardo
comprensivo.
“Ehi, come ti senti?”
chiese. Sapeva già la risposta. Il suo era solo un modo come un altro per fargli
sentire la sua vicinanza. Se Tom avesse avuto bisogno di qualsiasi cosa, lui
sarebbe stato lì.
“Come vuoi che stia?”
rispose atono, senza degnarlo di uno sguardo.
“Scusa…” fece il moro,
abbassando la testa. Non doveva finire così.
“Niente. Non è colpa tua.”
E con un gesto della mano lo salutò, chiudendosi in camera sua.
Bill rimase sulla soglia
della porta della sua stanza. Avrebbe voluto fare qualcosa perché Inge e Tom non
litigassero. Entrambi erano orgogliosi in maniera spropositata… come minimo non
si sarebbero parlati per mesi – ammesso che sarebbero tornati a parlarsi. Ma
soprattutto, ammesso che si sarebbero rivisti.
¤°.¸¸.·´¯`» «´¯`·.¸¸.°¤
Continua...
________________________________________________________________________________________________________________________________________________
ATTENZIONE:
I Tokio Hotel non mi
appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera
della loro personalità. No scopo di lucro.
***
Ecco il nuovo capitolo. Bene,
posso finalmente accontentare tutte coloro che mi chiedevano - quasi
supplicandomi - cosa fosse successo se Inge fosse venuta a sapere del segreto.
Ora lo avete letto.^^"
Purtroppo, non si è risolto
tutto nel migliore dei modi - anzi... praticamente non si è risolto niente.
Questi due sono troppo uguali. Entrambi hanno un orgoglio decisamente profondo,
difficile da combattere. Sarà altrettanto difficile che possano chiarirsi, "ammesso
che sarebbero tornati a parlarsi. Ma soprattutto, ammesso che si sarebbero
rivisti"... per citare
Bill..^^"
Bè, che ne dite? Era come ve
l'aspettavate? O credevate in qualcosa di più 'soft'?
Ringrazio, comunque, tutti
coloro che hanno recensito - solo quattro?? ç___ç Guardate che ci rimango
male...
Scherzo! Comunque, fatevi
sentire, che vedo siete numerosi, o voi carissimi lettori - anche silenziosi!
Un grazie a:
kit2007, pIkKoLa_EmO, angeli neri e sbadata93.
Ah! Prima che dimentichi:
tutte voi - o quasi - mi avete chiesto la reazione di Georg riguardo ciò che
quei due 'angioletti' gli hanno fatto... Bè, non l'ho scritto perchè era
un modo come un altro per sottolineare come loro possono essere
'pericolosi'...^^" Vi posso solo dire che gli ci è voluto un bel po' solo per
capire dove era... figuriamoci per capire cosa gli avevano fatto..XD (me l'ha
detto lui in persona..=P)
Ora vi lascio. Adios!! Al
prossimo capitolo (che non so quando sarà..^^")! E voi lasciate tante
recensioni, mi raccomando!!XD
_irina_
|
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Capitolo 8 *** Inside The Broken Hearts ***
Just a kid
Just a kid
Inside The
Broken Hearts
“Vaffanculo! Io mi sono
rotto i coglioni!” e posò la sua chitarra sul sostegno. Aprì violentemente la
porta ed uscì, sbattendola alle sue spalle.
I tre ragazzi rimasti nella
stanza si guardarono perplessi e rassegnati.
“Mi sembra di avere un
dejà vu.” Commentò Georg, combattuto tra il pianto e la risata.
“Già, anche a me.” Convenne
Bill, sistemandosi sul suo sgabello.
“Cosa è successo questa
volta?” si informò Gustav, asciugandosi il sudore con l’asciugamano vicino al
panchetto. “Ha litigato con Inge?”
“Sì, e lei se n’è andata di
casa.” fece vago il moro.
“Se n’è andata?!”
ripeterono stupiti. “Che è successo?” domandarono allarmati. Sapevano che, visto
il carattere della ragazza, poteva accadere che lei e Tom litigassero, ma che
lei arrivasse al punto di andarsene… era sicuramente successo qualcosa di grave.
“È una questione un po’
privata…” glissò Bill. I due amici lo guardarono interrogativi. Doveva dirglielo
o no? Bè, dopotutto erano amici da anni, non aveva senso lasciarli all’oscuro.
Tanto poi l’avrebbero scoperto pure loro. “Venite a casa nostra dopo le prove,”
propose. “Vi spiegherò la situazione… sempre che Tom non mi uccida prima.”
“Potrebbe arrivare a
tanto?” scherzò Georg.
“Bè, se ci si mette, sì.
Hanno litigato di brutto.”
“Ma da cosa è partito
tutto? La solita cazzata come quando lui aveva preso il foglio di un progetto di
Inge dalla sua scrivania per appuntarsi qualche accordo?” Ricordò Gustav. Quella
volta, il massimo che raggiunsero fu di ignorarsi a vicenda. Dopo una settimana,
però, chiarirono. Da quando c’era Alex, tuttavia, queste situazioni non si erano
più presentate.
“No, è leggermente
più complicato.” Sorrise tirato il cantante, rigirandosi le cuffie tra le mani.
“Ma il bambino…?” lasciò in
sospeso il batterista.
“Bè, dobbiamo portarlo con
noi. Ora dovrebbe essere con Saki e -”
La frase di Bill venne
bruscamente interrotta dalla porta che si aprì di colpo.
“Cosa cazzo ha Tom?” tuonò
David, entrando con passi pesanti nella stanza.
“Ehm, c’è stato un disguido
sulla melodia…” rispose Bill, cercando di mantenere un tono più naturale
possibile.
“Guarda che se ne è andato
perché ha detto che stonavi.” Lo corresse Gustav.
“Non me ne frega di cosa è
stato il casus belli! Per reagire così è successo anche altro! L’ho
fermato in corridoio e per poco non mi uccide con lo sguardo!”
“Sì, ecco…” cominciò Bill.
“Ha litigato con Inge… e quindi…” cazzo cazzo cazzo cazzo!
“Fateli chiarire!” ruggì. E
detto questo uscì chiudendosi la porta alle spalle con quasi la stessa violenza
usata da Tom.
Il moro sospirò.
“Perfetto. Ora sì, che
siamo nei guai.”
***
“Tom ha un figlio?!”
ripeterono quasi spaventati Georg e Gustav. I loro occhi avrebbero potuto uscire
fuori dalle orbite da un momento all’altro.
Bill annuì, intimando loro
di fare più piano. Tom era al piano di sopra, e loro sapevano bene quanto lui
che suo fratello avrebbe potuto minacciarli di morte istantanea, se li avesse
sentiti parlare dei suoi problemi.
“Alex è suo figlio?!”
continuò, però, Georg, appoggiandosi privo di forze allo schienale del divano.
“Incredibile…” farfugliò senza accorgersene.
“Io, comunque, me lo sarei
aspettato…” fece Bill realista.
“Ma sei suo fratello! Come
puoi dire certe cose?” ribatté Gustav. Bill lo guardò ed alzò un sopracciglio
con eloquenza.
“Ok, forse hai ragione…”
concordò, quindi, il ragazzo. “Però, ammettilo! Non credevi che succedesse sul
serio.”
“Già, Tom non è pronto ad
affrontare una realtà come questa. Cioè, lo conoscete anche voi, no?”
“Secondo me, nessuno di noi
sarebbe stato pronto.” Fece notare Gustav.
“Già, hai ragione. Nessuno
di noi sarebbe stato pronto.” ripeté Georg. “Ma ora dove è?” chiese, notando
l’assenza del rasta.
“È in camera sua. Da quando
Inge se n’è andata, non fa altro che starsene rinchiuso in camera. E quando
scende, ha sempre qualcosa su cui lamentarsi e brontolare.”
“Ed Alex?”
Bill si alzò e si guardò
intorno, proprio come gli altri due.
“Era qui fino a due minuti
fa!” esclamò, poi, il moro.
“Forse è andato da Tom.”
Ipotizzò Gustav. “A proposito, lui lo sa?”
“Cosa?”
“Che Tom è suo padre.”
“Non credo. Noi non
gliel’abbiamo mai detto e ogni volta che l’abbiamo presentato a qualcuno,
abbiamo sempre sostenuto che era nostro cugino. Forse pensa sul serio di essere
nostro cugino…”
“Non credi che dovreste
dirglielo?” fece Gustav.
“Vuoi che ti risponda
sinceramente?” domandò serio.
Lui annuì.
“Credo che sia meglio lui
non lo sappia.” Sospirò. “Noi non sappiamo niente di lui. Potrebbe accadere che
da un giorno all’altro qualcuno arrivi per portarlo via. Non voglio che si
affezioni troppo a noi. A suo padre. Sarebbe più difficile per lui, se dovesse
andarsene…”
“Secondo me dovreste
dirglielo.”
“Anche se fosse vero, non
sono io a dover decidere. È una questione tra lui e Tom.”
“Scusate, ma non credete
che dopo tutto questo tempo, anche se lui non sa la verità, ormai si è
affezionato a voi abbastanza da rendere, poi, difficile la separazione?”
intervenne Georg.
Per qualche attimo, nessuno
rispose. Bill dovette riconoscere che il bassista aveva ragione. In effetti,
Alex era un bambino di quattro anni. A quell’età sono molto manovrabili e si
legano facilmente alle persone.
Non ci aveva mai pensato.
Ma una parte di lui continuava a sostenere che il fatto di non sapere
esplicitamente certe cose, avrebbe reso la situazione almeno un po’ più
semplice. Tuttavia, ciò poteva valere per un adulto – forse. Per un bambino,
tutti questi discorsi filosofici non valevano.
Il moro sospirò. La
questione era veramente seria. Innanzitutto, c’era da affrontare il problema tra
Inge e Tom. Era inutile pensare a cosa sarebbe potuto succedere in caso qualcuno
venisse a riprendere Alex.
Evitiamo di fasciarci la
testa prima di essercela rotta…
***
Erano passati quattro
giorni. Li aveva contati. Come si sentiva?
Non lo sapeva nemmeno lui.
Gli mancava? Non gli
mancava?
Non era in grado di
rispondersi.
Ogni tanto avrebbe voluto
che da un momento all’altro lei tornasse in quella casa, ma altrettante volte
pensava che era un bene che non fosse più tornata.
Dopotutto, cazzo!,
se lei non lo capiva, era un motivo più che valido per non tornare insieme.
Come poteva essere stato
così stupido da innamorarsi di lei a tal punto? Certo, l’amava ancora, ma
sentiva che ora c’era qualcosa che stava mettendo in serio dubbio tutto ciò che
avevano passato insieme.
Continuò a suonare la
chitarra. La melodia era semplice, un po’ troppo tendente al triste, per i suoi
gusti, ma non riusciva a fare di meglio. Quella era l’unica melodia che era
stato in grado di comporre in quei giorni. Era patetica. Ma non riusciva a
smettere di far vibrare quelle corde, perché inconsciamente sapeva che quella
musica lo rappresentava.
Con la coda dell’occhio
vide la porta aprirsi lentamente, accompagnata da un leggero cigolio che Tom
finse di non sentire, e la piccola testa di Alex si sporse oltre di essa. Non
voleva essere visto.
Il bambino guardò il
ragazzo seduto sul letto che abbracciava la chitarra come se fosse un oggetto
delicatissimo. La stava accarezzando. Avrebbe voluto andare più vicino a lui per
osservarlo meglio. Gli piaceva quel suono. Ma restò fermo sulla soglia perché
non voleva interromperlo. Se Tom l’avesse visto, si sarebbe arrabbiato ancora di
più di quello che era già, e non voleva che Tom si arrabbiasse con lui.
“Lo so che mi stai
fissando.” Lo informò Tom con voce atona, chiudendo gli occhi.
“Scusa…” biascicò Alex,
ritraendosi. Aveva paura quando Tom gli parlava con quel tono.
“Non importa.” Soffiò il
ragazzo, mentre con la testa continuava a seguire le sue mani come se potesse
vederle.
Poi, silenzio. Alex non
sapeva cosa dire. Poteva entrare, o doveva andarsene?
“Vuoi restare lì ancora per
molto?” chiese Tom, la voce sempre inespressiva.
Alex non capì il
significato di quella domanda. Cosa doveva rispondere? Tom era già arrabbiato
con lui?
“Posso restare?” azzardò
titubante, afferrando un lembo della sua maglietta e stropicciandolo.
Tom sospirò fingendosi
rassegnato, fermando il movimento delle sue mani sullo strumento.
“Va bene, entra. Ma chiudi
la porta e siediti.” E riprese a suonare.
Alex fece come gli era
stato detto, e una volta chiusa la porta, trotterellò verso il ragazzo,
sedendosi di fronte a lui per osservare i gesti sicuri ed esperti del
chitarrista sulle corde.
“Ti piace?” chiese Tom, il
tono più dolce.
“Cosa?” piegò la testa di
lato.
“La chitarra. La musica.”
Alex annuì, sorridendo e
Tom sorrise per la prima volta in quel periodo.
Sapere che a quel bambino
piaceva il suono della sua chitarra era una strana sensazione. Ma soprattutto,
sapere che al suo bambino piaceva il suono della sua chitarra era una
strana sensazione.
“Mi insegni?” chiese
determinato Alex.
“Vuoi imparare a suonarla?”
Il bambino annuì convinto.
Tom lo guardò alzando un sopracciglio, per poi spostare il suo sguardo sullo
strumento. Era praticamente più grande quello di lui! E Alex voleva lo stesso
imparare a suonarlo?
Il ragazzo soffiò una
risata.
“Va bene, ti insegnerò
qualcosa.”
“Davvero?” gli occhi di
Alex brillarono.
“Che c’è? Non mi credi?”
sorrise con un velo di sfida nella voce.
Quel piccolo diavolo
assunse un’aria pensierosa, per poi guardare Tom negli occhi e sorridere
beffardo.
“Non sempre…” confessò.
Il rasta rimase spiazzato
dalla sua risposta. Quella non era una risposta da un bambino di quattro anni!
Quella era una risposta da Inge!
Alex è stato troppo tempo
con lei…
***
“Lukas! No!” lo fermò Inge.
Il bambino la guardò
dispiaciuto, tappando il pennarello e rinunciando, quindi, a fare un bel disegno
sul muro bianco della casa.
“Perché?” chiese triste,
trotterellando verso la ragazza.
“Perché mamma non vuole…”
gli spiegò dolcemente, togliendogli il pennarello di mano e scompigliandogli i
capelli biondi.
Subito quella fitta al
cuore la fece trasalire. Ancora una volta, quel bambino le aveva ricordato Alex.
Le mancava.
Cazzo! Anche se era figlio
di quell’idiota, era pur sempre un bambino! Chissà come stava in quel momento…
Chissà cosa stava facendo…
“Ma era un regalo per lei!”
protestò il piccolo, facendola tornare al presente.
“Credo che sarà altrettanto
felice se tu glielo facessi su un foglio…” gli sorrise leggermente malinconica.
Poi lo prese per mano e andarono entrambi nel salotto dell’appartamento, dove
Sofie stava sistemando lo scaffale di un mobile.
“Mamma, mi dai un foglio?”
chiese Lukas correndo verso di lei.
“Prendilo da quel
tavolino.” E gli indicò la scrivania nell’angolo della stanza. “Però dopo vai
subito a letto. È tardi! I bambini a quest’ora devono dormire!” e gli diede un
bacio sulla fronte.
Il bambino fece una
smorfia, per poi sospirare e mettere un piccolo broncio.
“Allora vado subito. Non
voglio più disegnare.” E si diresse verso camera sua.
Inge si sedette sul divano,
osservando la sua collega sistemare gli ultimi libri su quello scaffale – azione
che le aveva già visto fare tre volte nel giro di due ore.
“Sofie, grazie ancora per
l’ospitalità…” mormorò timida.
“Ma scherzi? Per te, questo
ed altro! Mi hai salvato il culo con il direttore!” le rispose. Era sempre la
solita risposta, ormai Inge l’aveva imparata a memoria, visto che ogni giorno si
scusava per il fastidio che avrebbe potuto darle. Lei era sola in casa con un
figlio da badare e il marito sempre in giro per lavoro, in quanto pilota di
aerei.
“Sì, lo so, però… cioè, non
mi permetti nemmeno di pagare le spese…”
“Ehi, sei qui da quanto?
Tre giorni?”
“Quattro.”
“Ecco, quattro. Vuoi per
caso farmi credere che potresti portarmi in bancarotta in nemmeno una
settimana?”
Inge sorrise imbarazzata.
“Lo so, ma io non posso non
pensare di essere stata troppo superficiale a chiederti ospitalità.”
Sofie sbuffò e si allontanò
dal mobile per sedersi sul divano insieme alla ragazza.
“Ascolta, Inge. Stai
passando un brutto periodo. Ti capsico. Quindi, cerca di tranquillizzarti! Non
cercare ulteriori preoccupazioni!” e l’abbracciò. “E poi, non è vero che non ti
rendi utile!”
La rossa alzò un
sopracciglio, interrogativa, e guardò l’amica negli occhi azzurri.
“Badare a Lukas non è molto
facile, sai?” le sorrise.
“Bè, credo di esserci
abituata. Dopotutto, Alex ha la sua età.” Confessò.
“Sì, me l’avevi già detto…”
E la conversazione si
affievolì, lasciando che il silenzio le avvolgesse. Entrambe presero, quindi,
tra le mani una rivista e iniziarono a sfogliarla, proprio come quando
succedevano momenti simili a questi, in cui nessuna delle due aveva il coraggio
di continuare a parlare – sia per non sembrare troppo invadente, sia per evitare
di sembrare una vittima.
“Inge…” la chiamò Sofie,
dopo un po’.
La ragazza si girò verso di
lei.
“Lo ami ancora, vero?”
finalmente l’aveva detto.
Inge sentì come un vuoto
dentro di sé e il suo cuore perse un battito. Abbassò, quindi, la testa sulla
rivista e sospirò triste.
“Sì…” sussurrò flebile. Il
naso le pizzicava. “Ma non posso tornare da lui…”
“Perché?” chiese
dolcemente.
“Come perché? Ti ho
raccontato cosa mi ha fatto, no?” gli occhi quasi bruciavano. “Cioè, mi ha
nascosto che Alex fosse suo figlio!”
“Sei più passata da casa?”
“Solo una volta per
prendere altri vestiti.”
“Non sei più andata a
trovare Alex?”
Inge negò mesta.
“Se ti manca, almeno per
lui potresti andare di nuovo laggiù…”
“Lo so che ciò che sto
facendo è stupido ed infantile, ma credimi: io non ce la faccio a tornare…”
“Ma perché?” insistette
Sofie.
“Perché se tornassi e
vedessi ancora una volta T-” si interruppe di colpo. “Philipp, non so se sarei
in grado di mantenere i miei propositi. Lui ha quella forza in grado di
trattenermi. Basta un suo sguardo e io mi sento persa nei suoi occhi…” la sua
voce era strozzata. “E io non voglio che questo accada. Cazzo!” esclamò alla
fine. “Deve capire che questa volta sono sul serio incazzata con lui!” e batté
la rivista contro il piccolo tavolo di legno davanti al divano.
“Capisco…” mormorò in
risposta Sofie.
“Scusa, non volevo alzare
la voce…”
“No, tranquilla. Non
preoccuparti. È normale reagire così… ti sei sentita presa in giro e lui non ha
fatto niente per rimediare…”
“Scusa lo stesso…”
“Inge!” la riprese lei, il
tono più autoritario e le mani puntate ai fianchi. “Se ripeti scusa
un’altra volta, ti giuro che ti butto fuori di casa immediatamente!”
La ragazza rise.
“Bè, allora grazie…”
***
Aprì gli occhi di colpo.
Un incubo. Lei che correva
per tentare di raggiungere una metà ignota, ma necessaria. Non seppe come
successe, ma arrivata a destinazione, vi trovò solo buio e dolore. Più che da
ciò che aveva visto, si sentì spaventata da ciò che aveva provato.
Si rigirò nel letto,
nell’oscurità della stanza. Era notte fonda.
Tastò il materasso vicino a
lei, in cerca di qualcosa che ormai non c’era più. Ma più che qualcosa,
cercava qualcuno.
Gli occhi iniziarono a
bruciare e le lacrime scesero da essi senza che Inge potesse fermarle. Nemmeno
se ne accorse, finché la vista non le si appannò.
Si sentiva sola. Ma più che
altro, sentiva la mancanza di quel cretino. Di Tom.
Da quando se n’era andata,
non aveva nemmeno più pronunciato il suo nome. L’aveva sempre chiamato Philipp
per evitare che Sofie potesse scoprire che il Tom in questione fosse proprio Tom
Kaulitz. Quella fu una decisione che i due ragazzi presero insieme tempo fa, in
modo da poter avere una vita privata senza che la stampa ne facesse parte.
Strinse a sé il cuscino e
serrò gli occhi per impedire a quelle calde gocce di continuare a scorrere sul
suo viso.
“Tom…” sussurrò. Era tanto,
tantissimo – troppo – tempo che non sentiva più il suono di quel nome. Le
mancava. Le mancava davvero tanto. Le mancava il calore del suo corpo, i suoi
respiri, le sue parole. Le mancava lui.
Perché si sentiva così?
Dopotutto era stata ingannata! Non poteva tornare da lui! Era lui che doveva
andare da lei! Lui che doveva farsi perdonare! Lei non aveva fatto niente, se
non fidarsi troppo delle sue parole!
Era tutta colpa di Tom, se
tutto questo era successo! Si era comportato come un vero stronzo! Aveva
distrutto tutto ciò che c’era stato tra loro! Aveva distrutto in nemmeno un mese
ciò che avevano costruito in quasi un anno!
Doveva odiarlo!
Però…
Però non ci riusciva. Non
riusciva ad odiarlo.
Forse… anche Tom aveva
avuto i suoi motivi per arrivare a tanto… In fondo, Alex era giunto nella sua
vita inaspettatamente. Tom non sapeva del suo arrivo… altrimenti, come poteva
spiegarsi quel misero bigliettino?
Già, forse, Tom non l’aveva
previsto…
Era giusto, dunque, essersi
comportata così con lui? Forse… forse, lui non aveva detto niente per il
semplice fatto che non voleva perderla… forse, credeva che tenendo nascosta la
verità su Alex, avrebbe lasciato che la tranquillità regnasse tra di loro…
Eppure, non era così
semplice…
Nonostante tutto, si
sentiva tradita.
***
“Bill…” lo chiamò Alex,
tirandogli una ciocca di capelli corvini.
Il cantante distolse lo
sguardo dallo schermo e si voltò verso il bambino, sdraiato sul divano con la
testa sulle sue gambe.
“Che c’è? Non ti piace ‘Il
Re Leone’?”
“No, mi piace,” rispose
Alex. “Però io lo volevo vedere anche con Inge…” mormorò. “È tanto che non la
vedo. Dove è?”
Bill si rabbuiò. Cosa
doveva rispondere?
Doveva dirgli che Tom ed
Inge avevano litigato? Se gliel’avesse detto, però, avrebbe dovuto pure
raccontargli la verità… o forse no… non stava a lui decidere. Anche se Alex era
suo nipote, Bill non aveva parola in capitolo.
Cercò, quindi, di trovare
una risposta adatta a quella situazione. Una risposta che potesse andare bene ad
un bambino di quattro anni.
“Bè, ora è in un’altra
casa…”
“Perché?”
“Perché, sai, ci sono
momenti – nella vita dei grandi – in cui due persone devono stare un po’ lontane
per poi voler stare di nuovo insieme.”
“E da chi deve stare
lontana? Da me?” domandò triste.
“No, tranquillo…” gli
sorrise, arruffandogli i capelli. “Vuole stare un po’ lontana da Tom.”
“Perché?”
“Perché…” ecco, ogni
parola, ora, doveva essere misurata accuratamente. “Perché hanno litigato…”
“Perché?”
“Non lo so. Non me l’hanno
detto.” Mentì. Era la soluzione migliore.
“Ma se Inge è andata via,
poi, allora ritorna!”
“Ehm, sì…” sorrise, forse
troppo tirato. Conoscendola, poteva anche non tornare. Però, era anche vero che
quei due cretini si amavano. Tuttavia, anche se lei fosse tornata, non era detto
che l’avrebbe fatto a distanza di qualche giorno…
“Allora, poi tornerà tutto
come prima?” chiese contento Alex.
“Bè, anche se Inge
tornasse, lei e Tom si dovranno prima chiarire…” gli fece notare.
“Chiarire?” lo guardò
confuso il bambino.
“Sì, dovranno parlare e
fare pace. Poi si accorgeranno pure di quanto si vogliono ancora bene…”
“E cosa si deve fare per
farli ciarire?”
“Chiarire.” Lo
corresse il moro, sorridendogli. “Te l’ho detto. Prima devono incontrarsi.”
Alex annuì.
Aveva capito.
¤°.¸¸.·´¯`» «´¯`·.¸¸.°¤
Continua...
________________________________________________________________________________________________________________________________________________
ATTENZIONE:
I Tokio Hotel non mi
appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera
della loro personalità. No scopo di lucro.
***
Finalmente, permettetemi di
presentarvi il nuovo capitolo!!XD
E' stata dura scriverlo: la
scuola è massacrante...ç__ç Non ho quasi più tempo per scrivere!
Purtroppo, non succede molto
in questo aggiornamento, ma era necessario per spiegare lo stato d'animo dei
vari personaggi. Spero, comunque che l'abbiate apprezzato.^^
Passo subito ai
ringraziamenti, che ho visto sono stati molti. Vi ringrazio di non avermi
abbandonato malgrado tutti i miei incredibili ritardi...ç___ç
Grazie a:
kit2007: Hai ragione,
e in questo capitolo, puoi vedere benissimo cosa provano. Cioè, malgrado abbiano
litigato, in fondo, questi due non riescono a stare lontani. Reagiscono in modo
diverso, ma entrambi vogliono la stessa cosa. Chissà se il loro orgoglio
permetterà loro di far sì che tutto questo si avveri...
niky94: Bè, come hai
potuto vedere tu stessa, 'presto' è una parola troppo grande per me..X°D
Comunque, spero ti sia piaciuto il capitolo! Grazie per il commento!^^
Antonellina: Rieccoti!!
Eh già... la scuola è dura...V_V Ma si fa pure questo... Comunque, grazie anche
a te per il commento!^^ E grazie per aver continuato a seguirmi!
PiKkOlA_EmO: A che
punto è il naso?? Pizzica ancora???X°D Spero di no, perché a questo punto chissà
cosa stai facendo per evitare che continui... Spero non ti sia messa a piangere,
però!! X°D Per sapere cosa succederà, bè, non dovrai far altro che continuare a
seguire la storia..=P
angeli neri:
Scusa per il ritardo...V_V Purtroppo, come ho già detto, quest'anno la scuola è
un inferno... Spero comunque, che tu abbia trovato qualche 'risposta' ai tuoi
pensieri. Per sapere come continuerà tutto, ovviamente dovrai continuare a
leggere, di certo io non ti svelo niente..=P
Zickie: Purtroppo, per
far sì che loro si spieghino a vicenda, dovrebbero mettere da parte il loro
orgoglio... il che non è facile per quei due. Ora, poi, che sono anche
lontani... Prima che si possano chiarire, dovranno incontrarsi... e chissà
quando succederà (per riprendere ciò che dice Bill)...
layla the punkprincess:
Grazie per il commento! Bè, Bill può dargli una mano, certo, ma nei limiti del
possibile. Dopotutto, questa è una faccenda tra Tom ed Inge. Bill c'entra il
giusto. Comunque è ovvio che farà il possibile per farli ritrovare. Forse, tra
tutti, quel ragazzo è l'unico che abbia capito quanto loro siano indispensabili
l'uno per l'altro.^^
ladydarkprincess: Eheh,
tutti se l'aspettano...^^ Comunque, siamo in due. La scuola distrugge... ç__ç E'
per questo che non posso aggiornare così spesso...
rakith: Wow!! Il tuo
primo commento in assoluto ce l'ho io?? XDD Grazie! Ps: tranquilla per le
recensioni...^^
E ora, vi saluto carissimi!^^
(Devo andare a studiare...V_V)
Però, non mi dimentico di
intimarvi a lasciare commenti, che tanto sono sempre ben
accetti!^^
Un bacio a tutti voi!
_irina_
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Capitolo 9 *** She Is Coming From The Past ***
Just a kid
Just a kid
She Is
Coming From The Past
“Sembra tu ti sia fumato
una canna.” Soffiò una risata Tom, osservando l’espressione rapita di Alex,
davanti a lui, che osservava le sue dita esperte scorrere sulla chitarra che
teneva tra le braccia.
“Cosa vuol dire?” chiese
lui, piegando la testa di lato.
“Niente. Era una battuta da
grandi.”
“Dai! Dimmelo!” protestò
lui.
“Vuol dire che sembrava tu
avessi un’allucinazione.” Spiegò, quindi, Tom, fermando quella melodia che
riempiva la sua camera.
“Alluchi…” provò a ripetere
il bambino.
“Allucinazione.”
“Allu…” provò nuovamente il
bambino, osservando il movimento delle labbra di Tom, che cercava di scandire
ogni sillaba.
“… cina…” continuò il
ragazzo.
“Cina…” ripeté Alex.
“… zione.”
“Zione.” Concluse il
piccolo. “Alluchinatione.”
“No, è allucinazione.”
Lo corresse ancora. “Al-lu-ci-na-zio-ne.”
“Allucinazione.” Biascicò.
“Giusto.” Sorrise sghembo
Tom.
Alex si illuminò contento.
“Ma cosa vuol dire?”
chiese, poi, interrogativo.
“Che sembrava tu avessi
visto qualcosa.”
“E cosa avevo visto?”
Tom rise per l’ingenuità di
Alex e lo lasciò nel dubbio. Come gli faceva a spiegare una cosa astratta?
“Non importa, lasciamo
perdere.” E si chinò per scompigliargli i capelli, per poi ritornare a suonare
lo strumento.
Improvvisamente, il dolce
ed energetico suono della chitarra venne interrotto dal ronzio del campanello al
piano di sopra.
“BILL! Vai ad aprire!” urlò
Tom al fratello.
“Sono sotto la doccia!”
urlò a sua volta lui.
Il ragazzo, quindi, sbuffò
e si alzò dal letto, posando la chitarra sull’apposito sostegno.
“Tu resta qui, vado a
vedere chi è e torno.” Disse ad Alex, uscendo dalla stanza.
Scese le scale in fretta,
rischiando di cadere a causa dei pantaloni che gli stavano pericolosamente
cadendo sempre più verso terra e corse nell’ingresso. Attivò lo schermo del
citofono e si meravigliò di ciò che vide.
Una donna con lunghi
capelli scuri e un viso sfiorito stava osservando la telecamera con uno sguardo
quasi spento.
“Chi sei?” chiese Tom alla
donna tramite il microfono.
“Sono venuta a prendere
Alex.”
A quelle parole, Tom provò
una strana sensazione di vuoto. La testa per un attimo sembrò scollegarsi da
tutto il resto del corpo, per poi sentire un gelo improvviso attraversarlo
completamente.
Il campanello trillò di
nuovo, accompagnato dal solito ronzio.
“Fatemi entrare.” Supplicò
la donna. “Sono sua madre.”
Una fitta colpì il ragazzo
in pieno petto.
Cosa? Dopo tutto ciò che
era successo, questa donna tornava per prendersi il bambino? No. Doveva
trattarsi di uno scherzo.
Il campanello suonò una
terza volta.
“Per piacere, aprite!
Voglio riprendere mio figlio!” la sua voce era quasi strozzata. Stava per
piangere.
Tom fece come la donna gli
aveva chiesto con la sua voce flebile ed implorante. I suoi gesti si
dimostrarono, tuttavia, lenti e senza alcuna volontà dietro di essi. Senza
rendersene conto, aveva persino aperto la porta di casa, lasciando che la donna
si avvicinasse ed entrasse dentro.
Gli occhi del ragazzo la
guardarono per qualche attimo, senza osservarla sul serio.
Solo quando la donna
l’abbracciò forte, riuscì a tornare al presente, in modo da allontanarla da sé.
Il suo viso portava i segni
di una giovinezza ormai passata. Si poteva vedere benissimo che in passato
doveva essere stata una bella ragazza, ma ora profonde occhiaie circondavano i
suoi occhi e il viso era decisamente troppo magro. Gli occhi erano piccoli e di
un azzurro intenso, ma spenti, senza alcun segno di vita all’interno. Le labbra
erano carnose, ma pallide. Così come la sua pelle. Un tempo forse, era stata
candida, ora, invece, il pallore aveva preso il sopravvento. Un pallore di
malato, di assenza di vita.
Quella donna sembrava
essere molto più grande di lui, ma in realtà doveva avere quasi la sua stessa
età.
Tom la guardò assente,
mentre le lacrime iniziarono a rigare quel pallido viso davanti a lui.
“Tom,” mormorò lei. “Mi sei
mancato tanto…” e sorrise triste.
Il ragazzo non poté far
altro che abbassare lo sguardo. Si sentiva decisamente a disagio. Nemmeno si
ricordava di questa donna.
E lei lo capì dal suo
gesto.
“Non ti ricordi di me,
vero?”
Lui annuì, sentendo un vago
senso di colpa dentro di sé.
“Mi dispiace.” Sussurrò
debolmente, alzando gli occhi di nuovo su di lei.
La donna sorrise con il
solito velo di tristezza negli occhi.
“Sono Melanie…” disse
speranzosa.
No. Nemmeno il nome gli
diceva qualcosa.
“Mi hai incontrata poco più
di quattro anni fa dopo un concerto che avete tenuto a Monaco.” Spiegò.
“Tu sei di monaco?” chiese
Tom.
“No, sono di Essen. Ero a
Monaco solo per il vostro concerto.”
Il ragazzo si sorprese per
il lungo viaggio fatto dalla ragazza solo per un loro concerto. Non se lo
ricordava bene, ma era quasi sicuro di averne fatti molti pure laggiù. Non era
necessario fare tutta quella strada per vederlo.
“Mi sono trasferita ad
Amburgo due anni fa, sperando di trovare un lavoro per andare avanti.” Continuò
la donna. “Ad Essen, la mia famiglia è andata in bancarotta a causa di alcuni
investimenti sbagliati. Qui ho trovato un lavoro, ma l’orario non mi permetteva
di stare con Alex.”
“Ma non hai qualcuno con
te?”
“Intendi un ragazzo?”
sorrise ancora una volta con tristezza.
Tom annuì.
“Chi mai vorrebbe una
ragazza-madre?”
Lui abbassò nuovamente lo
sguardo. Si sentiva quasi colpevole. In parte, era colpa sua.
“Soltanto dopo un po’ di
tempo ho saputo che voi Kaulitz abitavate in questa città. È stata una scoperta
bellissima. Avrei tanto voluto rivederti,” gli prese le mani nelle sue,
stringendole, quasi per non lasciarlo più. “Ma non potevo. Dovevo trovare il
modo per trovare dei soldi e rifarmi una vita.” Si zittì per un attimo, come se
stesse cercando di trattenere le lacrime. “Per questo ho deciso di affidarti
nostro figlio.”
Nostro figlio.
Due semplici parole che per
Tom stonavano troppo. Lui non sapeva niente di questa ragazza… e malgrado tutto,
avevano un figlio.
Improvvisamente, il goffo
correre di Alex per le scale li fece voltare entrambi.
“Mamma!” esclamò
sorridente, mentre trotterellava verso la donna.
“Alex!” lo abbracciò lei,
gli occhi lucidi. “Amore, come sei stato con papà?” chiese, indicando Tom con lo
sguardo.
Alex seguì gli occhi di sua
madre e guardò il ragazzo con un’espressione confusa.
“Ma lui ha detto che sono
suo cugino.” Rispose, come se volesse far capire alla madre che si era
sbagliata.
Melanie guardò Tom con
occhi lucidi. Abbracciò Alex ancora più forte e nascose il viso sulla sua
piccola spalla.
“Capisco.” Mormorò, quasi
impercettibilmente.
“Cosa, mamma?” chiese Alex.
“Ma forse è stato meglio
così.” Continuò la donna, senza rispondere all’innocente domanda del bambino.
“Se si fosse affezionato a te vedendoti come un padre, forse sarebbe stato più
difficile portarlo via e -”
“Lo vuoi portare via?” la
interruppe Tom, sorprendendo persino se stesso a causa del tono con cui aveva
posto la domanda. Era un misto tra paura, colpa e tristezza.
“Sì, ho trovato un altro
lavoro. Certo, non farà più la vita agiata che avrà fatto qui, ma potrò averlo
vicino a me.”
“Ma… ma… aspetta!” non
sapeva cosa ribattere. Non voleva che Alex se ne andasse. Ormai… ormai si era
abituato alla sua presenza. Si era abituato a vederlo sempre correre per la
casa. Si era abituato ai suoi scherzi. Si era abituato a sorridergli.
Non era convinto che ciò
che provava per quella piccola peste fosse quello che un padre provava per un
figlio, ma non metteva in dubbio che tra loro si era formato un forte legame.
Più forte di quel che avesse mai potuto immaginare. Lasciarlo andare si era
rivelato più difficile del previsto. Un tempo, forse, non avrebbe voluto altro
che qualcuno fosse venuto a prenderlo, ma ora…
“Tom, chi è?” chiese Bill,
scendendo le scale. Aveva finito di fare la doccia ed il farfugliare
nell’ingresso aveva attirato la sua attenzione.
Il ragazzo sospirò di
sollievo per la presenza del fratello. Aveva decisamente bisogno di un sostegno
in quel momento.
“La madre di Alex.”
rispose, senza poter evitare di esprimere la sua angoscia per quella situazione.
“Cosa?!” ripeté il moro
agitato, scendendo a corsa gli ultimi scalini che mancavano per arrivare da
loro.
“Bill!” urlò contento Alex,
andandogli incontro.
Il cantante prese il
bambino in braccio, ma non riuscì a concedergli tutte le attenzioni che avrebbe
voluto. Cosa ci faceva la madre di Alex in casa loro? Cosa era venuta a fare?
Sapeva che l’ultima era
ovvia come domanda. Di sicuro voleva riprenderselo, ma prima di dover accettare
quella notizia, Bill avrebbe voluto esserne totalmente certo.
“Cosa è venuta a fare qui?”
chiese titubante il moro.
“È venuta a riprendersi
Alex.” La risposta di Tom giunse piatta alle orecchie del moro.
“Cosa?” esclamò ancora una
volta, abbracciando Alex ancora più forte senza rendersene conto. “Perché vuoi
portarlo via?” domandò con un velo di rabbia nascosto in quelle parole.
Melanie rise.
“È mio figlio.” rispose
semplicemente.
“Ma è anche mio…” sussurrò
Tom.
Bill non riuscì a credere a
ciò che aveva appena sentito. Pensava che sarebbe stato più probabile che un
asino passasse in volo sulle loro teste proprio in quel preciso momento, che
sentire suo fratello pronunciare quelle parole. Eppure, Tom le aveva dette. E
Bill non era stato l’unico ad averle sentite come se gli fossero state urlate
nelle orecchie.
“Cosa?” disse flebilmente
la donna. Gli occhi le erano diventati ancora più lucidi.
Bill subito capì. Lei aveva
frainteso.
“Vorresti che rimanessimo
entrambi qui?” continuò Melanie.
Appunto.
Tom alzò subito lo sguardo,
che fino a quel momento era stato fisso sui propri piedi, sul volto della donna.
I suoi occhi traducevano l’incredulità di ciò che provava.
Lui non aveva mai proposto
niente del genere. Lui voleva solo che Alex rimanesse con loro. Non voleva che
rimanesse pure Melanie, per quanto egoista potesse essere il suo ragionamento.
Non voleva che quella donna
entrasse nella sua vita più di quello che aveva già fatto. Lui amava un’altra
persona – malgrado il brutto periodo che stavano passando. Pensare di vivere
tutto il resto della sua vita con una persona che neppure conosceva, legati solo
dal fatto di aver fatto sesso una sera di così tanto tempo fa che aveva
completamente rimosso, era veramente assurdo.
Improvvisamente un’immagine
di un lentigginoso viso dai fini lineamenti si impose su tutti gli altri
pensieri.
Inge.
Era lei che conosceva. Lei
che voleva. Lei che amava.
“Dici sul serio?” rincarò
Melanie, notando l’assenza di una risposta da parte del ragazzo. “Possiamo
veramente rimanere qui?” la sua voce risuonava come una sorta di supplica.
Tom avrebbe volentieri
voluto dirle che aveva stravolto il significato delle sue parole, ma se le
avesse detto una cosa del genere, ci sarebbe stato il rischio che lei se ne
andasse seduta stante con Alex. E lui non voleva questo.
“Solo per un po’.” Tagliò
corto Tom. La sua voce era inespressiva, proprio come il suo viso. Voltò le
spalle alla donna e salì le scale senza più dire una sola parola.
“Aspetta!” lo chiamò
Melanie, senza, però, ottenere una risposta. Si rivolse, quindi, a Bill, che
teneva ancora Alex in braccio. “Ehm, ciao, non credo tu mi conosca.” Farfugliò.
Bill grugnì un assenso.
Sapeva fin troppo bene chi fosse. Lei era la donna che aveva distrutto la
tranquillità in quella casa, che aveva distrutto il rapporto tra Tom ed Inge,
che aveva complicato la vita a tutti loro e che ora si aspettava inviti generosi
da parte loro, quando l’unico invito che avrebbe dovuto ricevere – da Bill in
primis – sarebbe stato quello di andarsene al più presto da quella casa.
Possibilmente da sola.
“Piacere, mi chiamo
Melanie.” E gli porse una mano, imbarazzata.
Il moro di proposito non
fece altrettanto, lasciando solo che il suo sguardo quasi disprezzante parlasse
per lui. Quella donna aveva improvvisamente assunto un atteggiamento infantile.
Sembrava regredita ad un’età compresa tra i sedici e i diciott’anni, invece di
dimostrare una certa maturità che avrebbero dovuto avere le donne di vent’anni.
Sembrava quasi che volesse
passare per la vittima della situazione e che solo per il fatto che fosse stata
a letto con suo fratello – come molte altre – avesse il diritto di piombare
nelle loro vite e incasinarle come più le piaceva.
Tutto questo era solo una
piccola parte di ciò che pensava della donna. Non sapeva come spiegare bene l’intera
impressione che lei gli dava, ma di certo non era positiva.
“Ehm,” Melanie ritrasse la
mano, sempre imbarazzata. “Immagino che dovrò andare a prendere la mia roba,
visto che mi trasferisco -”
“No.” La fermò Bill,
sistemandosi meglio Alex in braccio, che giocava con i suoi lunghi capelli
corvini. Non riusciva proprio a farsela piacere. Il fatto che quella donna si
trasferisse – momentaneamente – da loro, gli dava molto fastidio. L’unica
persona di sesso femminile che poteva vivere sotto il loro stesso tetto era
Inge.
“Tanto devi stare qui
solo per un po’.” Aggiunse il moro. “Quindi non credo che per questo po’
tu abbia bisogno di tornare a casa per fare le valigie.”
“Bill,” lo chiamò Alex,
tirandolo per una ciocca di capelli. “Dove è Tom?”
“In camera sua.”
“Suona?” chiese il bambino.
“Non lo so. Andiamo a
vedere, se vuoi.” Propose, sperando che Alex gli rispondesse affermativamente.
Non riusciva a stare con quella donna.
Il bambino annuì contento e
Bill sorrise soddisfatto. Diede le spalle a Melanie e salì le scale, lasciando
la donna da sola nell’ingresso.
Ma il moro non fece nemmeno
due metri, che lei lo raggiunse.
“Senti, ma dove dormiamo?”
domandò nervosa. Forse si era accorta del comportamento distaccato di Bill nei
suoi confronti.
“Alex può continuare a
dormire dove ha sempre dormito. Tu sul divano.”
“Come? Sul divano?
Separati?” replicò sbalordita. “E se lui avesse bisogno di me?”
Bill si fermò e la guardò
truce. Quella era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
“Ti vorrei ricordare che
per un mese Alex è rimasto in questa casa e non ha mai avuto bisogno di
te.”
La donna annuì leggermente
impaurita dal tono usato dal cantante ed indietreggiò di qualche passo,
lasciando che Bill sparisse al piano di sopra, dove fece scendere Alex per
lasciarlo trotterellare verso la camera di suo fratello, mentre lui entrò nella
propria stanza.
Si sedette sul letto come
se fosse stato privato delle sue forze.
Ci mancava altro che quella
donna venisse per riprendersi Alex…
Era già abbastanza
difficile convivere con un fratello in piena crisi a causa del casino con Inge.
Sembrava quasi che la madre di Alex fosse venuta apposta nel momento sbagliato.
Tom era decisamente perso. Era palese che non sapeva più cosa fare. Tutta questa
situazione lo aveva stremato e per di più, era anche testardo: non voleva
nemmeno provare a chiarirsi con Inge.
Bill sapeva che entrambi
stavano male per la reciproca lontananza, ma il pessimo carattere di quei due
cretini era d’intralcio ai loro veri sentimenti. Non potevano andare avanti
così. Soprattutto in un momento così delicato come quello che stava nascendo
dall’arrivo di quella donna! Loro due si dovevano fare forza a vicenda, perché
era chiaro come il sole che Tom aveva bisogno di sentirsi vicino qualcuno che
gli desse forza, e malgrado ci fosse ancora lui – suo fratello – a Tom mancava
il sostegno di Inge.
Il moro sospirò e si lasciò
cadere supino sul letto.
Che situazione assurda…
Poi, improvvisamente, un
pensiero si fece spazio nella sua testa.
Perché non ci aveva pensato
prima? Aveva praticamente trovato una soluzione a tutti i problemi. O almeno, a
quasi tutti.
Si alzò e si avvicinò al
comodino dove aveva appoggiato il cellulare quella mattina. Scorse la rubrica e
una volta trovato il numero che cercava, avviò la chiamata.
***
Il cellulare squillò da
qualche parte.
Inge riemerse dal mare di
fogli in cui era momentaneamente affogata e cercò di trovare il piccolo oggetto
dal suono così fastidioso. Si avvicinò al letto e sollevò le coperte.
Niente. Eppure era convinta
di averlo lanciato proprio lì, quando era tornata.
La melodia continuò a
riempire la stanza con note sempre più acute. Inge si spostò verso il comodino,
ma né sulla parte superiore, né nei cassetti c’era il cellulare.
Sbuffò rumorosamente,
mettendosi le mani ai fianchi, decisa a lasciar perdere quella inutile ricerca.
Se fosse stata una cosa importante avrebbe richiamato in seguito.
Tuttavia, la melodia non
accennava a fermarsi.
La ragazza roteò gli occhi
esasperata. Odiava i cellulari. Senza si sentiva più libera, perché ogni momento
era buono per squillare e distrarla da qualunque cosa stesse facendo. Era una
palla al piede.
Improvvisamente, notò
qualcosa che sporgeva da sotto il letto, parzialmente coperto dalle lenzuola che
aveva completamente sfatto nel tentativo di trovare quel coso.
Si chinò e sollevò il
lembo, trovando proprio ciò che non dava pace alle sue orecchie.
Raccolse il cellulare da
terra, senza indagare di come ci fosse finito, e guardò il display.
Le venne quasi un colpo,
dopo aver osservato quel nome che lampeggiava isterico quasi come la melodia.
Cosa poteva volere lui da
lei? Cosa poteva volere ora? In tutto questo tempo non l’aveva mai
chiamata. Le aveva mandato solo un messaggio per sapere come stesse, niente di
più.
Si portò il cellulare
all’orecchio con mano tremante, ed accettò la chiamata.
“Pronto…?” chiese
flebilmente.
“Inge, torna a casa.” Disse
senza mezzi termini la voce dall’altra parte dell’apparecchio.
“Cosa?” fece la ragazza,
non riuscendo a capire il motivo di tale ordine.
“Torna a casa.” Ripeté
Bill. La sua voce era seria. Doveva essere successo qualcosa di grave. Che
Alex…? O peggio. Che Tom…?
No, non doveva pensare a
quel cretino. Per Alex avrebbe fatto di tutto, ma per Tom… prima di fare tutto –
perché avrebbe lo stesso fatto tutto per lui – ci avrebbe dovuto pensare almeno
un po’ prima.
“E perché, scusa?” domandò
minacciosa. Era forse un misero tentativo di farli chiarire? Che fosse stato Tom
ad architettare tutto?
“È arrivata la madre di
Alex.” Spiegò atono.
“Cosa…?” per un attimo
pensò di aver capito male. La madre di Alex? Cosa c’era andata a fare la madre
di Alex a casa loro?
“Vuole riprenderselo.”
Continuò Bill.
“Vuole portarlo via?”
“Sì. Per questo voglio che
tu torni.”
Mille pensieri iniziarono a
vorticare nella mente della ragazza.
Alex. La madre di Alex.
Bill. Tom. Se fosse tornata avrebbe dovuto affrontare Tom. Ma se non fosse
tornata, Alex avrebbe potuto andarsene e lei, forse, non avrebbe più avuto la
possibilità di vederlo. Ma più che altro, lei non voleva che Alex se ne andasse.
Si era affezionata troppo a quella piccola peste.
Però…
Come avrebbe dovuto fare
con Tom? Era ovvio che una volta tornata in quella casa, come minimo ci avrebbe
trovato pure lui. Dopotutto era casa sua!
Solo dopo aver sentito Bill
schiarirsi la voce per attirare la sua attenzione, Inge si rese conto di essersi
irrigidita, lasciando la mente libera di partorire i più paranoici pensieri,
fino a quel momento rimasti nascosti.
“Inge, ti pre-”
“Vengo subito.” Si affrettò
a confermare lei, e chiuse la chiamata.
Afferrò la borsa ai piedi
del letto e vi infilò il cellulare ed il suo mazzo di chiavi. Il portafogli era
già dentro. Poi, si tolse la tuta che indossava e prese dall’armadio un paio di
pantaloni ed una felpa, che si mise in tempo da record.
Corse per il corridoio con
la borsa in mano e scese le scale, facendo battere la grande tracolla contro
ogni scalino che superava, per arrivare alla cucina. Lanciò la povera borsa
davanti alla porta e cercò più velocemente possibile il blocchetto di fogli che
Sofie usava sempre per scrivere gli avvisi.
Quando lo ebbe trovato
dentro un cassetto insieme a tutto ciò che di inutile poteva esserci in quella
stanza – palline di plastica, un pacchetto di pile, un librino di Lukas e altro
che non volle sapere cosa fosse –, prese anche la penna e strappò una pagina al
blocchetto.
‘Sofia, sono tornata a
casa. È una questione urgente. Non ho tempo di spiegare. Non ti preoccupare
troppo, ti chiamerò per spiegarti. Non so quando ritornerò (se ritornerò).
Inge.’
Non rilesse nemmeno il
misero telegramma che lasciò in mezzo alla tavola. Corse verso l’ingresso,
agguantò al volo la borsa ed uscì, chiudendo la porta a chiave. Salì in macchina
e partì.
Chi se ne frega di Tom! Ora
c’è solo Alex! E se ci sarà anche Tom… bè…
Già, che fare? Se ci fosse
stato anche Tom, avrebbe dovuto ignorarlo o provare almeno a parlarci?
La colpa di questa
separazione, in fondo – molto in fondo – non era solo sua. Un po’ –
molto poco – era anche colpa di Inge. Forse, aveva reagito troppo
drasticamente.
Avrebbe dovuto fare
qualcosa anche per risolvere quella situazione.
Nonostante volesse farsi
vedere forte, lei non sopportava più l’idea di stare così lontana da lui. E
sapeva che anche per Tom era lo stesso.
Erano così uguali che non
potevano stare lontani.
Anche per questo stava
tornando.
¤°.¸¸.·´¯`» «´¯`·.¸¸.°¤
Continua...
________________________________________________________________________________________________________________________________________________
ATTENZIONE:
I Tokio Hotel non mi
appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera
della loro personalità. No scopo di lucro.
***
Non credevo di riuscire a
pubblicare dopo così tanto tempo, anche se in fondo avrei dovuto aspettarmelo.
Non faccio più vita con la scuola. Compiti su compiti. Interrogazioni su
interrogazioni. Una tragedia.
Questo capitolo è stato il
frutto di miseri ritagli di tempo. Non so se pare solo a me, ma mi sembra che
non sempre le parti di questo capitolo siano tra loro perfettamente collegate.
Non lo so. Mi piace il capitolo in sé, perché - come avrete potuto vedere
leggendo - tratta un punto fondamentale, ma mi sembra scritto da cani. Forse
dipende proprio dal fatto che l'ho scritto un po' a pezzi e bocconi, boh.
Rileggendolo mi sembra che vada bene, ma delle volte mi fisso su dei punti, e a
forza di ragionarci, non arrivo a niente di meglio.
Se qualcuno trovasse degli
errori o punti in cui il discorso non torna, me lo faccia sapere. Vedrò di
correggere.
Passando ai ringraziamenti...
Come al solito, siete numerosi a commentare. Grazie! Mi dispiace solo di
non avere tempo per rispondere a tutti. Cito le persone che hanno lasciato anche
una piccola recensione, sperando che questo possa gratificarli - oltre al
capitolo in sé, ovviamente! Chissà se tutti voi ve lo sareste aspettato o
meno...
Comunque, grazie a:
angeli neri, pIkKoLa_EmO, pandina_kaulitz,
Antonellina, tokiohotel4e, kit2007, ladydarkprincess,
Zickie e martinaTH4e
Ora vi lascio. Al prossimo
capitolo, sperando che l'aggiornamento avvenga in tempi più brevi rispetto a
questo - anche se so che tanto non sarà molto fattibile...^^" Un saluto dal mio
povero cervellino fumante!
Ps: come al solito,
lasciate un commentino! Questo capitolo (e io, per i salti mortali che ho
fatto per scriverlo.. =P) lo merita!XD
_irina_
|
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Capitolo 10 *** ‘Cause I Still Love You ***
Just a kid
Just a kid
‘Cause I
Still Love You
Il campanello suonò e Bill
corse ad aprire. Non era mai stato così contento di andare ad aprire a qualcuno.
“Eccomi.” Disse Inge. Il
suo tono era stravolto.
“Ciao.” La salutò il moro,
indicando subito il salotto con il suo solito dito perfettamente smaltato.
“Tutto quello che so te l’ho detto per telefono quando eri in macchina.”
“Ok, grazie.” Rispose la
ragazza. Poi si sporse dalla soglia d’ingresso e guardò nella direzione
indicata. C’era una donna seduta sul divano che teneva Alex tra le braccia. Il
bambino si dimenava, forse perché voleva andarsene, ma lei sembrava lo volesse
tenere fermo.
Inge sentì una fitta al
petto. Aveva vissuto così tanto tempo con Alex, che ora, vederlo con un’altra
donna che lo costringeva a stare fermo – quando quella piccola peste non avrebbe
fatto altro che andare a saltellare allegro per la casa – sembrava la cosa più
strana potesse esserci al mondo.
Alex si lamentò di qualcosa
con la madre. La rossa poté notare l’espressione triste del bambino e si decise
ad entrare per andare da lui. Subito lui si accorse della sua presenza e le
mostrò un bellissimo sorriso, iniziando ad agitarsi per liberarsi dalle braccia
di quella persona che doveva essere la madre.
La donna si voltò,
incrociando lo sguardo di Inge e accontentò il figlio, permettendogli di
scendere e correre verso la ragazza che stava avanzando verso di loro.
“Inge! Sei tornata!” gridò
eccitato Alex, saltandole addosso. Lei sorrise, lo prese in braccio e si lasciò
abbracciare, per poi scansargli i capelli con una mano e baciargli la fronte.
Solo ora che lo teneva
stretto a sé poté capire quanto le era realmente mancato quel piccolo
diavoletto. Nonostante tutto – nonostante fosse figlio di Tom e quella donna –
lei gli voleva bene. E come per il bambino, la questione valeva anche per
un’altra persona.
La madre di Alex si alzò
dal divano e si diresse verso di lei.
“Salve.” Sorrise la donna,
porgendole la mano.
“Salve.” Disse atona e
inespressiva la ragazza.
“Tu chi sei?” chiese la
donna, dopo aver indugiato un attimo, notando che Inge non aveva la benché
minima intenzione di ricambiare il gesto.
“Inge Träne.” Rispose. E
non aggiunse altro.
“Piacere, io sono Melanie
Vedel, la madre di Alex.” Si presentò lei a sua volta.
“Sì, lo sospettavo.”
Commentò Inge con un velo di ironia nella voce, mentre Bill si avvicinava a
loro.
“Posso darti del tu?”
azzardò timidamente.
Se proprio devi…
pensò la ragazza.
“Sì.” Non voleva
sbilanciarsi troppo con quella donna.
“Senti,” continuò la madre
del bambino. “Tu sei quella che pulisce la casa?”
Inge sgranò gli occhi,
incredula.
Come? Io la donna delle
pulizie? Ma stiamo scherzando?!
“No!” rispose irritata,
sistemandosi meglio Alex in braccio, che aveva iniziato a giocare con i suoi
capelli rossicci.
“Ah, e chi sei?”
“La ragazza di Tom.” Nel
pronunciare quelle parole, Inge non poté far a meno di provare una certa
soddisfazione.
“La ragazza di Tom?
Cioè, ora stai con lui?” balbettò la donna. Era palese che si aspettava
tutt’altro.
No, vuol dire che sono la
sua balia! Ruggì
dentro di sé la ragazza. Ma secondo te che cazzo vuol dire stare con
qualcuno?
“Mi… mi dispiace avervi
creato tutti questi problemi… ma non sapevo dove altro andare per lasciare mio
figlio…”
Non ci credo nemmeno sotto
tortura! Ma
dovette annuire, fingendosi comprensibile.
“Immagino che Tom non se
l’aspettasse…” continuò Melanie.
Ma dai!
“Comunque, mi ha offerto di
vivere qui…”
Che razza di… Bugiarda! Ti
sei autoinvitata!
“Spero non ti dia alcun
disturbo…”
“No, tranquilla.” Rispose
atona. Dentro di sé stava esplodendo. Le avrebbe messo volentieri le mani al
collo – magari quando Alex fosse stato da un’altra parte… La rabbia era sempre
più forte. Si odiava per ciò che le aveva appena detto. Certo che non le andava
bene! Ma cosa avrebbe potuto risponderle? Se avesse detto ciò che realmente
stava pensando, sarebbe passata dalla parte del torto.
“Inge,” la chiamò Alex,
tirandole una ciocca di capelli per attirare la sua attenzione. “Perché eri
andata via?”
“Avevo un lavoro da
finire.” Gli sorrise la ragazza.
“Ma ora resterai qui?”
“Sì.”
“E giocheremo ancora
insieme?”
“Certo!” e gli scarruffò i
capelli.
Alex iniziò a ridere
divertito ed Inge vide chiaramente l’invidia nello sguardo della madre.
Forse, aveva ragione quella
donna. Cioè, se era vero ciò che aveva detto Bill, era giusto provare invidia
nei suoi confronti – dopotutto, Alex era suo figlio –, ma nonostante questo
piccolo attimo di comprensione, Inge non riusciva lo stesso a farsela piacere.
Certo, aveva vissuto una vita complicata – come se Inge stessa non l’avesse
fatto – ed ora era venuta a reclamare ciò che per lei era diritto avere.
Ma era proprio qui che si
sbagliava: non aveva diritto proprio a niente. E soprattutto non aveva alcun
diritto su Tom. A quel pensiero qualcosa la fece calmare. Si sentiva
determinata. E avrebbe continuato ad esserlo.
“Inge!” la chiamò ancora
una volta Alex.
“Sì?”
“Giochiamo?” chiese,
sorridendo.
“Ora?”
Il bambino annuì.
“Va bene. A cosa?”
“A fare scherzi!” e iniziò
a battere le mani entusiasta.
“E a chi li vuoi fare? A
Bill?”
“Mi dispiace!” si difese il
moro. “Io ho già dato ieri, guadagnandoci un mal di testa assurdo.”
“A Tom!” propose, allora,
Alex.
“E, ehm, se si facesse
impazzire Bill ancora di più?” fece Inge. L’idea di dover rivedere Tom l’aveva
colta alla sprovvista. Sapeva se fosse tornata a vivere là, rivederlo sarebbe
stato il minimo, ma forse le ci voleva ancora un po’ di tempo.
“No! A Tom! Così, poi, mi
diverto con lui!”
“E se andassimo a
cucinare?” provò ancora.
“Ma io voglio andare da
Tom!” piagnucolò Alex.
Bill capì immediatamente.
Quel bambino era, sì, una peste, ma era anche molto sveglio. Alex voleva andare
da Tom per far parlare quei due cretini… un modo come un altro per mettere in
atto ciò che gli aveva detto lui stesso tempo fa.
Che peste…
ridacchiò il moro.
Alla fine, Inge dovette
arrendersi. Era impossibile guardarlo con quegli occhioni lucidi ed impedirgli
di fare qualcosa. Sospirò rassegnata. Era sempre la stessa storia…
“Va bene.” Accettò Inge,
mentre Alex si illuminava e chiedeva di essere messo a terra. Prese poi la mano
della ragazza e la trascinò al piano superiore.
Da corridoio Inge poteva
benissimo sentire il suono della sua chitarra. Cosa gli avrebbe detto una
volta che si fosse trovata davanti a lui?
Non ebbe nemmeno il tempo
di trovare una risposta, che Alex era già andato a bussare alla sua porta.
La risposta di Tom fu
atona.
“Sono Alex… e c’è anche una
sorpresa!” disse raggiante.
“Entra.” Gli diede il
permesso il ragazzo oltre la porta, senza smettere di far vibrare le corde del
suo strumento prediletto.
Il bambino aprì la porta ed
entrò, seguito da Inge, incerta se andare fino in fondo. Dovette arrendersi
definitivamente, quando Alex la prese di nuovo per mano e la condusse
all’interno della camera.
Tom era seduto sul bordo
del letto, la testa china sulla chitarra, mentre studiava qualche accordo in
successione. Non appena alzò lo sguardo le sue prove si interruppero di colpo.
“Cosa… cosa ci fai tu qui?”
farfugliò, squadrando la ragazza ferma davanti alla porta.
“Sono tornata.” Spiegò
semplicemente.
“Perché?” ruggì.
“Come perché?” alzò
la voce Inge. “Fino a prova contraria questa è anche casa mia!”
“Bè, di prove contrarie ne
avresti tante, a cominciare dal fatto che sei sempre stata nostra ospite.”
“Mi pare di aver cominciato
anch’io a pagare le bollette ed a dividere tutte le altre spese.” Si impuntò,
mettendo le mani ai fianchi.
Tom sbuffò.
“Vabbè, visto che sei qui…
puoi rimanere.” E riprese a suonare la chitarra, distogliendo lo sguardo dalla
ragazza.
“Ah, perché? Non avrei
nemmeno il permesso di entrare qua dentro?”
“Esatto. Questa camera è
oltre i tuoi confini quando siamo incazzati.”
“C’è un bambino, vorrei
ricordarti…”
“C’è anche un conto in
sospeso, vorrei ricordarti io.”
Alex tirò Inge per la
manica della felpa.
“Ma non fate la pace?”
chiese triste.
“Bè, ecco…” Ora anche Inge
capì. Alex non voleva giocare. Voleva che loro due si parlassero di nuovo. “Per
fare la pace, prima dobbiamo chiarire certe cose…”
“Ti correggo: sei tu quella
che si deve schiarire un po’ le idee.” La interruppe Tom, sempre chino
sulla sua chitarra. Gli occhi chiusi ma attenti ad ogni singolo movimento delle
sue mani.
“E tu quello che si deve
chiudere la bocca.”
“Allora vi devo lasciare
soli?” osò Alex, timoroso. Non gli piaceva quando le persone iniziavano ad usare
questi toni.
“No, tranquillo.” E si
inginocchiò davanti al bambino, prendendogli le piccole mani nelle proprie. “Non
intendevo questo.” Rispose Inge. La situazione si stava dimostrando peggio di
quel che aveva pensato. Voleva sapere cosa sarebbe successo se avesse rivisto
Tom? Ecco. Questa era la risposta.
“Ma se volete parlare di
cose da grandi, io vado via.”
“E portarti pure lei.”
concluse Tom.
Inge chiuse gli occhi e
respirò profondamente. Si era sentita ferita da quelle parole, ma non aveva la
minima intenzione di lasciar perdere tutto questo.
“Tom,” lo chiamò, alzandosi
e voltandosi verso di lui. “Io ce la sto mettendo tutta per non far precipitare
la situazione.”
“Non mi sembra tu abbia
fatto altrettanto, quella sera.” Le rispose atono, senza degnarla di uno
sguardo.
La ragazza strinse le mani
a pugno per tirare indietro quelle lacrime che avrebbero tanto voluto scivolarle
sulle guance.
“Inge, non ti arrabbiare.”
La prese per una mano il bambino. “Avete detto che dovete parlare!”
“No, parleremo un altro
giorno. Tom ha ancora bisogno di un po’ di tempo per pensarci su.”
“Non sono l’unico.”
Commentò ancora una volta, con voce tagliente.
Inge deglutì.
“Ok, ora basta! Alex, vai
fuori, per piacere. Stasera gioca con Bill. Io devo parlare con Tom.” E lo
accompagnò oltre la porta, mentre il rasta sbuffava.
“Va bene!” sorrise Alex,
per poi trotterellare per il corridoio.
Inge chiuse la porta della
stanza e si voltò verso il ragazzo.
“Ascolta, hai intenzione di
rimanere incazzato ancora per molto?” ed incrociò le braccia al petto.
“Sì.” Rispose lui.
“Tom, sto cercando di
trovare una soluzione.” La sua pazienza era al limite.
“Non l’hai trovata.
Risparmiati ulteriori fatiche inutili.”
“Tom, non sei d’aiuto.”
“E tu non sei di compagnia,
al momento.”
“E certo!” roteò gli occhi.
“Io sono di compagnia solo quando siamo a letto, no?”
“Bè, diciamo che a letto
sei più interessante.”
“Tom, mi dici cosa cazzo ti
prende?” e si avvicinò a lui, per niente intenzionato a lasciar perdere la sua
chitarra per considerare la ragazza. “Sei incazzato per il fatto che ti abbia
mollato quella sera? O c’è altro?”
“Inge,” e per un attimo il
suono dello strumento si interruppe, ma gli occhi del ragazzo non la guardarono
nemmeno per un momento. “Non aprire la bocca tanto per darle aria. Non hai
capito niente.”
“Gesù!” sospirò. “Proprio
per questo sto cercando di farti parlare!”
“Mi dispiace, ma io,
invece, non voglio parlare.” E tornò a muovere le sue mani sicure sulla
chitarra.
Fu la goccia che fece
traboccare il vaso.
“Porca puttana, Tom! Smetti
di strimpellare quel coso e guardami negli occhi!” urlò.
“No.”
Inge si mise davanti a lui.
Posò una mano sulle corde dello strumento, fermandone il movimento e l’altra
sotto il mento del ragazzo, obbligandolo ad alzare la testa per guardarla.
“Che cazzo vuoi?” soffiò
lui come un gatto infuriato.
“La tua attenzione.”
Rispose seria e determinata la rossa.
“Bene, ora ce l’hai,
soddisfatta?”
“No.”
“E che altro vuoi?” ruggì.
Lei avvicinò il suo viso a
quello di Tom, posando le proprie labbra sulle sue. Erano calde e morbide come
sempre.
Il baciò durò un istante,
poi lei si allontanò lentamente.
“Dirti che, nonostante
tutto, ti amo ancora, pezzo di cretino.” E lo liberò dalla sua presa, per poi
voltarsi ed uscire dalla sua camera, lasciandolo solo.
Scese le scale quasi senza
rendersene conto. Come avrebbe reagito Tom? Forse, aveva osato troppo…
Subito si fermò e scosse la
testa. Ma che cazzo! Non era da lei fare questi discorsi! Lei avrebbe dovuto
pensare cose come: quello che potevo fare l’ho fatto, ora vediamo cosa fa
lui.
Riprese a scendere le
scale, dandosi della cretina, ma smise non appena vide Bill seduto sul divano
con Alex vicino che saltellava sui cuscini e la madre seduta sulla poltrona di
pelle nera dalla parte opposta della sala.
Si avvicinò, quindi, al
moro, girando intorno al divano e si sedette.
“Bill, tuo fratello è un
cretino.” Annunciò.
Bill sorrise. Se conosceva
bene quei due, in poco tempo sarebbero riusciti a tornare insieme. L’unica cosa
di cui avrebbe potuto preoccuparsi, sarebbe stata la reazione di Tom, che non
sempre era domabile in questi casi. Non sapeva cosa si fossero detti, per questo
doveva prepararsi ad ogni evenienza.
Inge, intanto, sprofondò
sul divano, ma non per molto. Con la coda dell’occhio notò la donna che la
fissava intensamente. Si sentiva estremamente a disagio. Sembrava stesse ad una
sorta di interrogatorio.
Di colpo si alzò –
evitando, così, di tirarle un pugno in faccia – e si rivolse ad Alex.
“Alex, vuoi venire a
cucinare?”
“Sì!” esclamò entusiasta il
bambino, saltando giù dal divano e prendendo la mano che Inge gli offriva.
“Ma non è presto?” chiese
la donna.
“No, abbiamo tante cose da
fare.” Le rispose atona, senza considerarla più del dovuto.
“Avete bisogno di una
mano?” continuò.
“No, abbiamo sempre
fatto da soli.” E dopo quell’allusione, andò in cucina con Alex.
***
Posò la chitarra sul letto
vicino a sé e si portò le mani sul viso.
Cazzo! Era tornata!
Perché questa sensazione?
Ma soprattutto, cosa era questa sensazione? Si sentiva sollevato, ma allo
stesso tempo frastornato. Felice, ma perplesso. Triste, ma soddisfatto.
Si buttò sul letto supino,
le mani ancora sul viso.
Il metodo che Inge aveva
usato per chiarire la situazione non era proprio classico. Non c’erano
state le solite sfuriate, o le solite parlate che duravano ore, come nelle
coppie normali. Tutto sommato, il suo, era stato un metodo più efficace. Aveva
reso perfettamente l’idea.
Lei lo amava ancora.
Allora, non era arrabbiata.
Lasciò scivolare le mani
sul materasso ed osservò il soffitto nudo sopra di sé.
Che avesse capito che per
lui non era stato affatto facile avere avuto a che fare con tutto ciò che era
successo? O forse, aveva solo visto Melanie come rivale e voleva riconquistarlo?
No, Inge non sarebbe
arrivata a tanto. Lei era diversa dalle altre ragazze. Se avesse visto Melanie
come una rivale, piuttosto le avrebbe sputato sul viso…
Non era da lei architettare
tutto questo.
E allora?
Gli tornava difficile
pensare che lei avesse capito, visto che quando era in camera sembrava
esattamente il contrario.
Però, lo amava ancora.
Nonostante tutto, l’amava ancora.
E lui?
***
L’ora di cena tardò ad
arrivare, non tanto per la quantità di cibo cucinata, quanto per il tempo
necessario per rendere il tavolo presentabile, visto tutta la roba che vi era
appiccicata sopra, dopo che Inge e Alex avevano finito di cucinare.
La ragazza mandò Alex a
chiamare tutti gli altri, mentre lei toglieva dal forno lo sformato di patate
che avevano preparato e lo posava al centro del tavolo quasi pulito (ma ben
apparecchiato), insieme ad almeno altre quattro pietanze.
In poco meno di dieci
minuti, tutti si radunarono in cucina, pronti per sfamarsi, ma non certo per
parlare.
L’aria che ognuno poteva
sentire era pesante.
Fastidio, non curanza,
imbarazzo, frustrazione, sollievo…
L’unica gioia che univa
tutti i presenti era quel piccolo diavoletto che si divertiva a rubare le posate
a Tom non appena lui si girava, per poi leccarle e rimetterle al loro posto.
Tutti sghignazzavano – Tom
un po’ meno – ma quelle risate non erano ancora in grado di sovrastare quella
nube di sentimenti che aleggiava sopra di loro.
Era impossibile non notare
gli sguardi delusi e dispiaciuti tra Tom ed Inge.
E questo non passò
inosservato a Melanie, che silenziosamente li stava scrutando. Non sapeva
esattamente cosa fosse successo tra di loro, ma di una cosa era certa: tra Tom
ed Inge le cose non erano perfette come volevano far credere.
Li guardò ancora una volta.
Tom stava fissando Inge, ma quando lei alzò i suoi occhi su di lui, il ragazzo
distolse lo sguardo come se fosse colpevole, mentre Inge lo imitava amareggiata.
Sorrise.
¤°.¸¸.·´¯`» «´¯`·.¸¸.°¤
Continua...
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ATTENZIONE:
I Tokio Hotel non mi
appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera
della loro personalità. No scopo di lucro.
***
Ok, lo so: sono in ritardo
con l'aggiornamento, e anche di tanto... Ma come ho già detto, quest'anno sono
messa piuttosto male con la scuola (possibile studiare così tanto senza notare
progressi?? O_o) E poi c'è stato anche il fatto che ho frequentato
la scuola guida per la teoria per la patente (che tra le altre cose ho passato!!
Ora manca la pratica!XD), quindi questo periodo è stato abbastanza impegnativo.
Purtroppo, il tempo da
dedicare alla scrittura era poco, e non sempre, quando avevo tempo libero,
scrivevo, perché mi ero messa a leggere Breaking Dawn (potete
biasimarmi??XD) ed altri libri per la scuola... Quindi il risultato di tutti
questi mesi è questo capitolo, che non mi piace per niente per lo stesso motivo
di quello precedente. Quando scrivo qualcosa, mi viene meglio se la scrivo
tutta insieme, così sono sicura di non perdere il filo! Peccato che poi non mi
riesca farlo... V_V
Spero che
leggendo questo aggiornamento non vi faccia schifo il modo in cui sono stati legati i vari pezzi
scritti in vari periodi diversi. ^^" Ho cercato comunque di mantenere una certa fluidità, ma non sempre credo di esserci riuscita.
Bene, dopo questo monologo
infinito, passo ai ringraziamenti:
angeli neri:
Sono davvero felice che ti appassioni così tanto questa storia!^^ Come vedi,
alla fine Inge ha detto a Tom ciò che pensa, ma lui? Per lui sarà la stessa
cosa? Chissà... Ha una tale confusione in testa che non lo sa nemmeno quel
povero ragazzo.
martinaTH4e: Bè, conta
che Bill vuole molto bene ad Inge, senza contare che la presenza di Melanie
preavvisa per tutti ulteriori guai, quindi la reazione di Bill tutto sommato può
essere capita. Comunque, ora che mi ci fai pensare, è vero: la sua reazione era
degna di suo fratello..^^"
Antonellina: Contenta
di questo 'colpo di scena' che c'è nel capitolo tra Inge e Tom? Spero di sì. =P
Mi scuso anche con te per il mostruoso ritardo, ma come ho già detto (e come mi
hai detto nella recensione), sai che sono piuttosto impegnata... X°D (Voglio
andare alle Maldive per un mese interooooo!!!!!)
kit2007: Grazie!!!
Sai, vero, quanto ti adoro??? ç__ç Eh, già, su msn non ci sono praticamente
mai... (Ho visto che mi hai contattato l'altro giorno, ma avevo gente in casa e
ho dovuto allontanarmi subito dal pc.) Comunque, bè, devo essere sincera:
nemmeno a me piace Melanie, ma da una parte - sarà perchè l'ho creata io e so
quale psicologia abbia questo personaggio - non riesco a farmela stare del tutto
antipatica. Dopotutto, anche lei ha i suoi motivi per volersi riprendere Alex. E
poi, una volta rivisto Tom, mi verrebbe da dire che è quasi ovvio che lei cerchi
di 'riprenderselo', nonostante in fondo sappia che non è mai stato suo. ^^"
Ladysimple: Wow! Una
nuova lettrice!XD Scusa per l'imperdonabile ritardo, spero comunque che
continuerai a seguirmi!XD
rakith: Grazie per il
telegramma! =P Mi fa tantissimo piacere che tu, nonostante non abbia tempo, mi
lasci un commentino!!XD Spero che questo capitolo ti abbia ripagato per le
sofferenze subìte.
pandina_kaulitz: Eheh,
visto?? Chissà come procederà ora la situazione in casa Kaulitz...
vivihotel: Grazie! E
non hai ancora visto (o meglio: letto) tutto! ^^ Nonostante non abbia ancora
scritto i capitoli, ho una scaletta con tutto ciò che deve ancora accadere,
quindi le idee non svaniranno!XD
Moony Magic:
Grazie anche a te! Continua a seguirmi, che mi fa sempre piacere sapere che
questa storia piace!XD
ladydarkprincess:
Tranquilla per il ritardo, tanto non mi batterai mai... =P Ma certo che corre in
macchina per tornare da loro! Per la via ha quasi messo sotto due vecchiette! =P
(Scherzo!XD)
Bè, che dire di più? Ho già
detto tutto prima... Mmm, credo che manchi solo un saluto per tutti voi! Ho
visto che siete in molti a leggere questa ff, e spero che continuerete ad
esserlo!^^
Ah, prima che mi dimentichi:
irina_89@hotmail.it
Questo è il mio indirizzo di
msn, per chiunque volesse contattarmi... purtroppo in questo periodo non ci sono
mai, e qualcuno può pure confermare..=P, ma appena mi collego sarò felice di
fare quattro chiacchiere con voi!XD
E poi, un'ultima cosa, visto
che ormai è il 24 Dicembre, e visto anche che non penso proprio di
riuscire ad aggiornare entro il 25, vi faccio gli auguri di Natale!XD
Buon
Natale e felice Anno Nuovo!
Detto questo, vi saluto!
Un bacio e alla
prossima (che non ho la più pallida idea di quando sarà...=P)!
Ps: come al solito, se
lasciate dei commentini non mi offendo! E poi siamo a Natale, fatemi tanti
regalini!!XD
_irina_
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Capitolo 11 *** Can’t Stand Her Anymore ***
Just a kid
Just a kid
Can’t
Stand Her Anymore
Alex trotterellò verso la
madre con il disegno di Inge colorato. Glielo sventolò davanti contento per il
risultato ottenuto e la tirò per la maglia in modo da distogliere la sua
attenzione dallo schermo ed essere considerato.
“Cosa c’è, Alex? Stavo
guardando un film.” Chiese lei.
“Guarda!” e le porse il
disegno.
La donna se lo rigirò tra
le mani e cercò di capirne il senso, visto che i colori coprivano i lineamenti
delle forme.
“Cosa è?”
“Un dinosauro!” sorrise il
bambino.
“Bello, l’hai fatto tu?”
“No, Inge. Io l’ho solo
colorato.”
“Ah. Però assomiglia più ad
un cane che ad un dinosauro.” Commentò, storcendo il naso.
Inge sentì tutto, dalla
prima all’ultima parola, cogliendo pure tutti i messaggi subliminali che la
madre di Alex le mandava. Il primo tra tutti: vattene.
Incrociò le braccia al
petto e si stravaccò ancora di più sul divano, fingendosi troppo concentrata a
seguire il film, per ascoltare ciò che Melanie aveva detto.
Se solo avesse potuto
buttarla fuori di casa con un calcio in culo…
La donna ridiede il foglio
ad Alex e tornò a guardare il film, ma Inge non si fece scappare l’occhiata che
Melanie lanciò a Tom, seduto tra le due. Il ragazzo sembrava impassibile, per
niente toccato dalle sue parole. Che lo facesse apposta? O forse, semplicemente
non gli importava più niente di lei…
A quel pensiero, Inge sentì
una fitta al petto. Chiuse gli occhi e cercò di pensare ad altro. Magari il film
avrebbe aiutato…
“Mamma,” la chiamò Alex,
tornando da lei. La prese per la maglia e si arrampicò sul divano, per poi
sedersi sulle sue gambe e guardarla dritta negli occhi. “Rimarrai in questa casa
con me?” chiese innocente.
“No, credo che prima o poi
noi due dovremmo andarcene.” Sorrise malinconica. “Sempre che Tom non voglia il
contrario.” Aggiunse, guardando il ragazzo.
Inge si irrigidì,
afferrando tra le mani la propria felpa. Lentamente girò la testa verso Tom e
Melanie. Guardò il ragazzo – che per un attimo sembrò ricambiare lo sguardo –
con occhi supplicanti.
Ma al contrario di quel che
si aspettavano tutti, lui non rispose, continuando a fissare il grande schermo
della sala con aria concentrata. Ma più che concentrato, sembrava… irrigidito.
“Ehi, Tom.” lo chiamò
Melanie, posandogli una mano sul braccio.
Lui si girò verso di lei,
fingendo di non aver sentito, ma Inge avrebbe giurato che, invece, Tom aveva
sentito proprio tutto, dalla prima all’ultima parola. Ciò che, però, non
riusciva a capire era la sua risposta. Cosa avrebbe risposto? Cioè, era ovvio
che non poteva liquidarla con un ‘no’, ma l’idea che lui le permettesse di
vivere con loro, le dava fastidio. E anche tanto.
“Mamma può rimanere qui con
noi?” domandò Alex, innocente. Lui di certo non poteva capire la complessità
della situazione e tutto ciò che si celava dietro ad ogni minimo gesto.
Fu una risposta immediata.
Tom annuì e subito si voltò nuovamente verso lo schermo. Inge poté notare
perfettamente i suoi lineamenti del viso contratti. Si domandò immediatamente se
Melanie se ne fosse accorta, ma era convinta che se anche l’avesse visto così,
avrebbe fatto come se niente fosse successo.
Inge guardò Tom nel buio
della stanza, illuminata solo dalla luce proveniente dal grande plasma, e –
nonostante lui non la degnasse di uno sguardo – capì che quell’assenso fu come
una rassegnazione. Non era riuscito a negare al bambino la presenza della madre.
Ma cosa avrebbe potuto fare, altrimenti? Il fatto che proprio Alex avesse
formulato la domanda era stata sicuramente una fortuna per Melanie. Tom non era
capace di negare qualcosa a quella piccola peste. O meglio: non era capace di
negare qualcosa come la madre. Alex aveva bisogno di lei, era naturale, e
proprio per questo la sua risposta fu istantanea.
Si dovette rassegnare pure
lei. Non poteva certo chiedere che quella donna venisse buttata fuori di casa.
Poi guardò Bill. In effetti lui l’avrebbe fatto volentieri, tirandole pure due
calci dietro. A conferma di tutto questo, Inge vide il moro rannicchiato nella
poltrona di pelle nera, accanto a lei, che fissava Melanie incessantemente
chissà da quanto. Il suo sguardo truce era un chiaro segno di ostilità per
quella donna.
Sebbene la situazione fosse
quasi tragica, le venne da ridere nell’osservare come il cantante era attento a
non perdersi alcun singolo movimento di Melanie. I suoi occhi la seguivano ogni
volta che si girava per considerare il figlio, o quando guardava Tom, o quando
guardava proprio lui, fissandolo torva, forse cercando di fargli capire che non
lo sopportava più per il suo comportamento infantile nei suoi confronti. Ciò,
però, che non sapeva, era che Bill, pur di mantenere la sua posizione – visto
che era una delle persone più testarde mai esistite sulla faccia della Terra –
non si faceva problemi a sembrare sfacciato ed sfrontato.
“Allora non si torna nella
vecchia casa!” stava, intanto, dicendo Alex, felice, ancora seduto sulle gambe
della madre.
Lei annuì, sorridendogli.
“E non si torna nemmeno più
dall’uomo cattivo!” esclamò ancora più entusiasta.
L’uomo cattivo?
Ma Inge non fece in tempo a
capire cosa significasse quell’appellativo, che Bill, arrogantemente, chiese
spiegazioni, notando come si fosse irrigidita la donna.
“No, niente.” Farfugliò
lei.
Risposta sbagliata.
Canticchiò tra sé e sé, Inge. Melanie aveva appena dato pane per i denti del
famelico Bill.
“È l’uomo che vive con
mamma.” Spiegò, quindi, Alex. “È sempre arrabbiato e puzza!”
Inge e Bill si guardarono –
e Tom accennò un’espressione interrogativa nel sentire quelle poche parole.
C’era qualcosa che non tornava. E di sicuro era qualcosa che Melanie non voleva
far sapere.
***
Alex lo stava fissando con
aria rapita, proprio come ogni altra volta che lo osservava mentre suonava la
chitarra. Ormai era diventata una cosa quotidiana: tutti i giorni dopo pranzo –
quando i ragazzi erano a casa – Tom andava in camera sua per stare da solo.
Immancabilmente, Alex lo raggiungeva. Entrava ormai senza più che Tom gli desse
il permesso – che ovviamente non gli negava mai – e si sedeva di fronte a lui,
osservando i rapidi movimenti delle mani sulle corde della chitarra.
“Voglio imparare a suonare
la chitarra come te!” diceva ogni volta.
“Ma se è più grande di te!”
gli rispondeva Tom, sorridendo.
La conversazione, però,
quel giorno fu diversa. Prese una strada che Tom non si sarebbe mai aspettato.
Una strada che Tom non avrebbe mai voluto.
“Sai, tu sei meglio
dell’uomo cattivo.” Mormorò il bambino, senza staccare gli occhi dalle mani di
Tom.
L’uomo cattivo. Ecco che
ritorna. Sapeva
solo che era il compagno di Melanie, ma il fatto che Alex lo considerasse
cattivo, non era positivo.
“Sì?” fece il ragazzo,
aprendo gli occhi per guardarlo. Voleva scoprire cosa ci fosse di così cattivo
in quell’uomo. Per quel che ne sapeva, poteva immaginarsi ogni cosa.
“Sì.” Confermò Alex,
guardando Tom negli occhi a sua volta e sorridendo. “Io voglio vivere con te per
sempre!” esclamò.
Il chitarrista ridacchiò
divertito per quell’affermazione. Chi mai si sarebbe immaginato che lui – Tom
Kaulitz – potesse ricevere una richiesta così? Certo, ce n’erano molte di
ragazze che glielo urlavano ogni volta che lo vedevano, ma sentirselo dire da un
bambino faceva uno strano effetto. Soprattutto se a dirlo era quel
bambino.
“Senti,” iniziò cauto. “Ma
cosa faceva quest’uomo cattivo?” Se pensava inoltre che Melanie
gliel’aveva tenuto nascosto, la cosa sembrava sempre più grave.
“Si arrabbia sempre.” Fece
spallucce Alex, ill tono ovvio, come se fosse una cosa di routine. “Quando
parlava con me, urlava!” esclamò poi. “Mi fa paura…” aggiunse in un sussurro.
Tom smise di suonare la
chitarra e posò lo strumento sul letto, accanto a sé, potendo così appoggiare le
mani alle ginocchia ed avvicinarsi ad Alex.
“Perché?” chiese
dolcemente.
“Una volta mi ha pure
spinto contro il tavolo della cucina.”
Tom sgranò gli occhi.
Cosa?
“Guarda!” si alzò e si
avvicinò al ragazzo, tirandosi su un ciuffo di capelli biondi sul lato destro
della fronte, svelando una piccola cicatrice.
Subito Tom ricordò la
reazione del bambino, quando l’aveva abbracciato per la prima volta.
Inizialmente, infatti, Alex si era allontanato impaurito, forse proprio perché
temeva una reazione simile a quella di quell’uomo. Non ne era sicuro, forse era
solo dovuto al fatto che il bambino era impaurito dal ragazzo per quel che gli
aveva fatto, ma non riusciva a lasciar perdere quell’idea.
Qualcosa iniziò ad agitarsi
dentro di Tom. Allungò una mano tremante e gli accarezzò quella piccola
strisciolina bianca sulla fronte.
Come poteva un uomo fare
una cosa del genere ad un bambino?
“Ti… ti ha fatto male?”
chiese. Domanda ovvia, ma la prima che gli venne in mente.
“Non lo so. Ero piccolo e
non ricordo.” Disse semplicemente Alex, alzando le spalle ancora una volta e
guardando il ragazzo dritto negli occhi, quegli occhi così simili ai suoi.
Tom, prima di rendersene
effettivamente conto, abbracciò il bambino, stringendolo forte al petto, e gli
diede un bacio sulla fronte, proprio sulla piccola cicatrice.
Se c’era una cosa che non
doveva assolutamente accadere, era che Alex tornasse con Melanie da quell’uomo.
***
“Davvero non ti ricordi di
me?” chiese in un sussurro malinconico la donna seduta al fianco di Tom,
concentrato sul film pur di non dover essere concentrato su di lei. “Di quella
notte?”
Il ragazzo sapeva che non
avrebbe dovuto accettare l’invito di guardare un film in sua compagnia, ora che
erano soli in casa, visto che Inge si era fatta accompagnare da Bill – Cazzo!
Fa di tutto per evitarmi! – allo studio per prendere un progetto che si era
dimenticata.
“Sì.” Rispose atono.
“Davvero.” Rincarò, prendendo il telecomando ed alzando il volume.
“Io, invece, ricordo
tutto.” Mormorò lei, il tono abbastanza sostenuto per farsi sentire nonostante
l’audio alto.
Si sentiva in colpa a
detestarla, eppure non poteva farne a meno.
“Bene: d’ora in avanti
cercherò di prendere delle pasticche di fosforo, allora…” borbottò, incurante
del fatto che lei l’avesse sentito.
“Tom!” lo riprese lei,
autoritaria. “Perché sei così scontroso verso di me? Sono la madre di tuo
figlio!”
“E nient’altro.”
Puntualizzò il ragazzo, senza distogliere gli occhi dallo schermo.
“Come nient’altro?
Ma non ti rendi conto?” fece lei tra l’indignato ed il supplicante. “Noi abbiamo
un figlio.”
“Sì che me ne rendo conto,
Melanie.” E si girò verso di lei, inespressivo. “Certo, ormai non mi è più
indifferente come all’inizio, ho imparato a conviverci e mi piace. Non so se
saprei stare senza di lui, ora; ma questo è tutto.”
“Ma sei suo padre!” urlò
sommessa, posando una mano tremante sulla gamba di Tom.
“Ti ricordo che, anche se
sono suo padre, l’ho visto per la prima volta un mese fa. E lui ha
quattro anni!” replicò a tono, il ragazzo.
“Ma è successo perché non
sapevo dove andare…” farfugliò lei, gli occhi sempre più lucidi.
“E certo!” esclamò tom.
“Vieni a cercarmi solo nel momento del bisogno. Per toglierti dai guai, no?”
“No…”
“E allora che vuoi da me?
Soldi? Te li darò. Quelli non mi mancano. E d’ora in avanti non mancheranno
nemmeno ad Alex, stai tranquilla.”
“No, ti sbagli! Non è
questo quello che voglio!” urlò.
“Fai silenzio, Alex è sopra
che dorme.” Commentò lui, girandosi a guardare il film, evitando così di
considerarla più del dovuto.
“Non dovrei urlare, se tu
abbassassi il volume!” replicò lei.
Tom abbassò l’audio ed
incrociò le braccia al petto, stravaccandosi ancora di più sul divano,
costringendo la donna a togliere la mano dalla sua gamba.
“Tom, non vuoi sapere cosa
voglio?” chiese con voce più bassa e suadente.
Lui si voltò ancora verso
di lei, guardandola dritto negli occhi. Poi, lei si alzò e si avvicinò
maggiormente a lui, sbattendo gli occhi lentamente. Tom sentì nuovamente la sua
mano sulla gamba ed ebbe la conferma di ciò che già da tempo pensava.
“Ah, no!” e le prese la
mano con la sua per allontanarla da sé. “Questo no. Sto con Inge.”
“Ma tanto lo so che il
vostro rapporto è in crisi!” obbiettò Melanie. “Vi ho sentito urlare l’altra
sera, senza contare che non vi parlate praticamente mai!”
“Non mi importa, ma non
provare ad avvicinarti.” La minacciò, indicandola con l’indice.
“E perché?” chiese con
falsa innocenza la donna. Portò i piedi sul divano e gattonò verso di lui. “Non
avrai mica paura di me…” sorrise maliziosa. “E poi pensa: saremo una famiglia
felice. Tu, io ed Alex.” E si mise a cavalcioni sopra di Tom.
Lui l’afferrò per i fianchi
e cercò di togliersela di dosso.
“Credo ti sfugga un
particolare.” Mormorò nervoso il ragazzo. “In una famiglia ci deve essere anche
amore. Non puoi mettere insieme tre persone e dire che sono una famiglia.
Non c’è niente che ci lega!”
“Ma io ti amo, Tom!” lo
supplicò lei, mettendo le mani intorno al suo collo e appoggiandosi con il petto
a lui. “E poi c’è Alex che ci lega!”
“Sì, ma io non amo te.” Le
rispose diretto. Avrebbe voluto prenderla di peso e buttarla a terra per
liberarsi di lei, ma avrebbe rischiato di farle male, e non era nella sua natura
maltrattare le donne. Si portò una mano dietro la nuca e cercò di slegare il
noto di dita delle mani di Melanie.
“Come?” sussurrò,
impallidendo. “E… e quando sei venuto a letto con me?”
“Era un dopo-concerto,
Melanie!” rispose esasperato, togliendo pure l’altra mano dalla vita della donna
per liberarsi da quella sorta di abbraccio forzato. “Cosa vuoi che me ne
importasse della ragazza con cui andavo?”
“Vuol dire che non hai mai
provato niente per me?” la sua espressione era sconvolta.
“Esattamente.”
“Ma io -” si interruppe
prima di continuare la frase. Tom non la stava più tenendo lontana con le mani,
quindi si avvicinò a lui, arrivando ad un soffio dalle labbra del ragazzo.
Proprio in quel momento la
porta di casa si aprì ed Inge e Bill entrarono, guardando verso la sala perché
attirati dalla luce dello schermo. Subito tutti i presenti si irrigidirono.
Tom si girò lentamente.
Poté vedere gli occhi di Bill iniziare a lanciare fiamme rivolte a quella donna
che ancora stava sopra di Tom. Poi, guardò Inge, che stranamente non aveva
sfoderato il suo sguardo assassino, al contrario: era ferma, immobile anche lei.
Nessuna traccia di una qualsiasi espressione sul suo viso. Solo dopo qualche
attimo i suoi occhi iniziarono a farsi lucidi. Li serrò immediatamente e si
sfregò con violenza una mano sul viso, iniziando a correre verso il piano
superiore.
Tom si voltò di nuovo verso
Melanie.
Che puttana.
Le afferrò le braccia e con
uno strattone – questa volta incurante del fatto che avrebbe potuto farle male –
si liberò dalla sua stretta. Si alzò si scatto, facendola cadere a terra e corse
anche lui al piano di sopra.
L’unica porta che trovò
chiusa era la sua. Inge era proprio là dentro, come quando ancora tutto andava
bene.
Si avvicinò alla porta e
bussò.
“Posso entrare?”
“No.” rispose schietta lei.
La sua voce era flebile, come se stesse piangendo.
“Perché?” chiese, cercando
di mantenere una voce calma e dolce.
“Perché voglio stare da
sola.”
“E se volessi venire a
dormire?” fece lui, incrociando le braccia al petto. Dopotutto, quella era
camera sua.
“Vai sul divano.” Rispose
lei.
“Ma quella è camera mia!”
si impuntò. Nonostante bastasse girare la maniglia per aprire, rimase fermo,
aspettando una sua risposta.
“Nostra.” Precisò
lei.
“Un tempo, forse.” Precisò
lui a sua volta. “Io lì ci dormo.”
“E che palle, entra,
allora!” e lanciò qualcosa contro la porta. Tom sorrise trionfante ed entrò,
raccogliendo il cuscino che lei aveva tirato. Alzò, poi, la testa verso il letto
e la trovò rannicchiata lì sopra, la schiena contro il muro, le gambe al petto e
un cuscino tra le mani, dove nascondeva il viso.
“Sei arrabbiata con me?”
chiese, chiudendosi la porta alle spalle ed avvicinandosi al letto.
“No.” rispose lei, senza
alzare il viso dal cuscino.
“Sicura?” e si sedette
accanto a lei.
“No.” Ripeté in un sussurro
flebile.
“Perché?”
“E c’è da chiederlo?” urlò
sommessa lei, alzando di scatto la testa per guardarlo con aria furente negli
occhi lucidi.
“No, hai ragione.” Ammise
Tom, abbassando lo sguardo. “Sappi solo che è stata lei a fare tutto. Io non
c’entro niente.”
Lei tornò nella sua
posizione a riccio e lasciò passare qualche secondo prima di rispondere.
“Lo so.”
“E se lo sai, perché fai
così?”
“Perché non è questo il
motivo.” Spiegò lei, senza però dargli indizi sufficienti per capire cosa
volesse dire realmente.
“E quale sarebbe, allora?”
chiese lui, leggermente irritato.
“Lo sai.”
Lui si alzò sbuffando e si
spogliò, per poi sdraiarsi sul letto, dandole la schiena.
Inge rimase a guardarlo con
la coda dell’occhio. Era davvero bello. Per tutto questo tempo non si era
dimenticata di tutto ciò che c’era stato tra di loro, ma da come si erano
evolute le cose, pareva proprio che per Tom la questione fosse diversa. Sembrava
che lui non si ricordasse più niente di loro.
Lasciò i suoi occhi
indugiare sulla schiena del ragazzo, ricordandosi di quante volte lui le aveva
voltato le spalle, ma mai per più di qualche minuto, perché subito lei lo
abbracciava da dietro e lui si girava per baciarla.
Chiuse gli occhi,
maledicendosi. Perché diavolo stava pensando a tutte queste cose? Tanto ormai
era tutto finito, e se ancora la loro storia non era giunta al termine, grazie a
Melanie ci sarebbe arrivata molto presto.
“Non sopporto più quella
donna…” disse, quindi, quasi senza accorgersene. Aveva gli occhi rossi. E il
naso le pizzicava da morire. Aveva voglia di piangere, ma si stava trattenendo.
Non voleva piangere. Non per ciò che faceva quella donna! Ma sembrava proprio
che lei non volesse altro che farla sentire uno schifo. Era palese che ci stava
provando con Tom, e quella sera ne era stata la perfetta conferma.
La questione era se c’era
da preoccuparsi o meno. Il rapporto tra loro due era in crisi, era innegabile.
Ma non era vero che lei non l’amava più. Lei lo amava, anche questo era
innegabile. Gliel’aveva detto e dimostrato. L’unico ostacolo invalicabile era
lui.
Questi sentimenti la
logoravano. Avrebbe sul serio voluto stringersi a lui e tornare come prima, ma
la paura della sua reazione la fermava ancor prima che fosse sinceramente
convinta di ciò che voleva.
Tornò a guardarlo ancora un
po’, ma subito si costrinse a tornare con gli occhi nascosti dal cuscino.
“Nemmeno io,” disse il
ragazzo, dopo aver lasciato passare del tempo. “Ma non posso buttarla fuori di
casa.” Aggiunse, consapevole della fragilità della situazione.
“Posso farlo io, se vuoi.”
Commentò ironica Inge, sbuffando, il viso ancora nascosto.
Tom si alzò lentamente,
appoggiandosi su un gomito, e si girò verso di lei. La guardò stupito ed alzò un
sopracciglio scettico. Sapeva troppo bene quanto Inge fosse davvero capace di
farlo, ma sapeva anche che lei non l’avrebbe mai fatto a causa di Alex.
Inge si accorse di essere
osservata e timidamente guardò nella direzione del ragazzo con la coda
dell’occhio.
“Che c’è?” farfugliò.
Lui le sorrise, mostrandole
proprio quel sorriso che più di tutti lei adorava. Il sorriso sghembo e
malizioso.
“Niente,” rispose Tom, “Mi
stupivo per il fatto che sei sempre la solita.”
Doveva essere un
complimento, o un’accusa? Doveva essere cambiata per ciò che era successo?
Si odiò per i caotici
pensieri che le vorticavano instancabilmente in testa. Lei non era mai stato il
tipo da farsi tali problemi per ogni cosa.
Riflettendoci, però, era
cambiata. Un tempo nemmeno pensava a certe cose, quando voleva abbracciarlo,
baciarlo, o semplicemente parlargli, rispondergli a tono, fronteggiarlo… Ora,
invece, le sembrava di affogare in un mare di possibili reazioni da parte sua.
Come avrebbe reagito se ora si fosse avvicinata a lui per farsi abbracciare?
Come avrebbe reagito se avesse iniziato a imprecare verso quella donna? Come
avrebbe reagito se gli avesse tirato un cuscino per evitare che lui la fissasse
ancora in quel modo?
Basta. Non voleva più
pensarci. Più ci pensava più le pizzicava il naso – come se non le pizzicasse
già abbastanza…
Nascose nuovamente la testa
nel cuscino che teneva ancora sulle ginocchia.
“Allora voglio vendicarmi.”
Disse in un sibilo soffocato. Se proprio non poteva sfidarla apertamente,
sarebbe ricorsa ad armi più subdole. Ormai non le importava più.
“E come?” chiese Tom,
leggermente incuriosito. Quando Inge si metteva in testa qualcosa, sapeva per
esperienza che era difficile farle cambiare idea, e questa volta era decisamente
determinata. Sorrise divertito per l’atteggiamento deciso che aveva mostrato la
ragazza.
Lei alzò per l’ennesima
volta il viso verso di lui, domandandosi se lui notasse i suoi occhi rossi per
le lacrime troppo orgogliose per osare scivolare sulle sue guance.
“Con il tuo aiuto.”
***
“Diciamo che è una tregua
temporanea.” Specificò lei. Sarebbe stato troppo da parte sua pretendere che
dopo l’attuazione del piano, tutto fosse tornato come prima. Certo, avrebbero
collaborato, ma solo per una sera. Niente di più.
E proprio per questo,
guardò di sfuggita l’ora luminosa della sveglia digitale sul comodino. Era tardi
e quella non era più la sua stanza. Si alzò, quindi, per andare nella sua
camera. Mentre camminava verso la porta, si accorse di avere ancora il cuscino
stretto tra le braccia – l’alternativa dell’abbraccio di cui aveva bisogno.
“Ah, questo è tuo.”
Mormorò, allungando un braccio per passarglielo.
Tom lo guardò facendo una
smorfia molto eloquente.
“No, tienilo tu.” Disse.
“Sarà sporco della tua bava e quant’altro…” commentò, sdraiandosi nuovamente sul
letto a torso nudo. Un sorriso gli apparve sulle labbra senza che lui se ne
accorgesse.
A quelle parole, Inge
ridusse gli occhi a due fessure e decise di osare ciò che avrebbe fatto in un
qualunque altro momento, senza pensare alle possibili e infinite reazioni.
Caricò il braccio e tirò il cuscino addosso al ragazzo, colpendolo sul petto,
per poi uscire dalla stanza a grandi passi.
Chiuse la porta alle sue
spalle e andò in camera sua.
Anche lei sorrise
inconsciamente.
¤°.¸¸.·´¯`» «´¯`·.¸¸.°¤
Continua...
________________________________________________________________________________________________________________________________________________
ATTENZIONE:
I Tokio Hotel non mi
appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera
della loro personalità. No scopo di lucro.
***
Wow! Anche questa volta sono
riuscita ad aggiornare! Chissà per quanto ancora riuscirò a farlo! =P (Spero
almeno fino alla fine della storia... ^^)
Ok, che dire? La storia sta
andando sempre più verso la fine, ovviamente, e man mano che ci avviciniamo, le
cose si faranno sempre più complesse e - come dire? - rapide? Boh, forse... Sta
di fatto che in questi altri capitoli, ne potrete vedere delle belle, a partire
già dal prossimo!XD
Passo quindi ai
ringraziamenti, ma purtroppo dovrò essere molto veloce per motivi di tempi.
Un grazie a: layla
the punkprincess, angeli neri (Accidenti che ragionamento che mi hai
lasciato! Grazie, l'ho apprezzato davvero tanto!^^), kit2007 (La mitica
ed immancabile! Proprio come ad ogni capitolo, sempre pronta per lasciarmi un
meraviglioso commento!^^ Concordo su tutto ciò che hai detto, e - per quanto
riguarda Bill - bè, un po' mi dispiace che sia così trascurato dalla
sottoscritta nella stesura della storia, ma deve provare ad essere messo in
secondo piano per qualche capitolo... anche se per lui sarà difficile!=P),
Antonellina (Grazie anche a te per il commento! Appoggio la tua risposta
sulle Maldive... V_V In pieno!! xD), Ladysimple e BigAngel_Dark.
Grazie anche a tutti
coloro che hanno solo letto, e ovviamente coloro che hanno aggiunto la storia
tra i preferiti, visto che era da un po' che non li ringraziavo!^^
Ora devo scappare,
innanzitutto a mangiare, e poi a dormire, che ho qualche ora di sonno arretrata.
=P
Ps: come al solito
ricordo che il link per lasciare commenti è attivo e che io li apprezzo
molto... XD
Un bacio!
_irina_
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Capitolo 12 *** Revenge Is A Dish Best Served Cold ***
Just a kid
Just a kid
Revenge Is
A Dish Best Served Cold
“Ehi, Alex!” lo chiamò
eccitato Bill. Era tanto che non sorrideva divertito e soddisfatto, con la sua
solita aria infantile ed innocente.
Il bambino lo guardò,
smettendo di giocare con i suoi supereroi.
“Che ne dici se andiamo a
cena a casa di Gustav con Georg?” propose il moro.
“Sì!” accettò Alex, posando
i suoi personaggi sul divano e saltando addosso al ragazzo. “Quando ci andiamo?”
“Bè, sono le otto, che ne
dici se andiamo a prepararci?” gli sorrise. “Se vuoi ti aiuto a farti bello.”
ridacchiò.
Il bambino annuì.
“Però, non devi farmi le
codine, va bene?” si raccomandò la piccola peste, indicandolo con l’indice come
per brontolarlo. “Non voglio diventare una femmina!”
“Ok, tranquillo.” E lo fece
scendere, per poi offrirgli una mano che il bambino afferrò senza farselo
ripetere. “Però, prima, dobbiamo chiedere il permesso alla mamma.”
Alex, allora, lasciò la
mano del cantante e raggiunse la madre, che aveva assistito a tutta la scena.
“Mamma!” la chiamò lui,
tirandola per una maglia per avere la sua completa attenzione. “Posso andare con
Bill?”
La donna chiuse la rivista
che stava fingendo di leggere, e fissò il moro sospetta. Lui la guardò
sostenendo lo sguardo. Doveva solo provarci a dire di no. Le avrebbe reso quei
pochi giorni che le restavano in quella casa, impossibili!
Melanie tornò a guardare il
figlio, che la fissava con occhi lucidi e supplicanti.
“D’accordo.” Sospirò
rassegnata. “Ma non fate troppo tardi.”
“Veramente, io avevo
intenzione di rimanerci pure a dormire…” commentò Bill, come se fosse stata una
cosa scontata.
“Ah.”
“Dai, mamma!” la supplicò
ancora Alex. “Farò il bravo!”
Bill sorrise soddisfatto e
leggermente maligno. Nemmeno sua madre poteva resistere a quello sguardo.
“Va bene.” Sospirò di
nuovo. Poi si voltò verso Bill, che sorrise innocente, e lo fulminò con lo
sguardo.
Alex saltò per il salotto e
tornò dal ragazzo, che lo prese in braccio. Salutarono Melanie e salirono al
piano superiore per prepararsi.
***
“Ciao!” salutò Alex con il
sorriso sulle labbra.
“Ciao!” lo salutarono Tom
ed Inge, seduti agli estremi opposti del divano, mente Melanie si limitò ad un
cenno della mano, fissando i due ragazzi dalla poltrona di pelle nera a loro
vicina.
La porta si chiuse e il
silenzio cadde tra le tre persone rimaste nella sala.
“Perché non siete andati
anche voi?” chiese, dopo un po’, Melanie.
“Perché io devo finire un
progetto che mi hanno assegnato in ufficio.” Spiegò tranquilla Inge. “E Tom mi
deve aiutare.” Si affrettò ad aggiungere.
Tom non mancò dallo
sbuffare.
“E allora perché siete
ancora qui a non fare niente?” domandò sospetta la donna, accavallando le gambe
e senza staccare gli occhi da loro. Occhi decisamente poco amichevoli.
“Hai ragione. Ora dobbiamo
andare.” Rispose lei, alzandosi. “Tom, muoviti.”
“Guarda che non sono il tuo
cane.” Disse il ragazzo, seguendola suo malgrado.
“E non mangiate?” domandò
Melanie, alzandosi a sua volta.
“Giusto.” Fece Inge. “Tom,
vai a prendere qualcosa nel frigo, mangeremo in camera.”
“E il biscottino, dopo, me
lo dai?” ribatté sarcastico il rasta, infilandosi le mani in tasca e dirigendosi
verso la cucina per eseguire l’ordine.
Lei lo guardò maliziosa ed
ironica, sottolineando il suo stato d’animo al riguardo. Le cose tra loro non
erano ancora tornate come un tempo – e chissà se mai ci sarebbero tornate – ed
era quindi inevitabile mettere sul piano sarcastico ogni riferimento sessuale
tra di loro.
“Ah, Melanie.” Si girò
improvvisamente Inge. “Se vuoi puoi usare la mia stanza per dormire. Sai, credo
sia leggermente meglio del divano.” Le sorrise. Un sorriso così falso,
che paradossalmente avrebbe potuto parere sincero.
“Oh, grazie!” sorrise di
rimando la donna. “Ma scusa,” fece dopo, assumendo un’espressione sospettosa.
“Tu dove dormi?”
Inge ridacchiò, fingendosi
imbarazzata.
“Da Tom.” rispose
semplicemente.
“Da Tom?” ripeté sorpresa,
sgranando gli occhi.
“Bè, che c’è?” si fece
superiore Inge. “Dopotutto stiamo insieme, no?”
“Sì, ma…” iniziò Melanie,
palesemente contrariata. “Ma comunque non importa. Posso benissimo dormire
ancora sul divano.” Sorrise forzata. “C’ho passato così tanto tempo che ormai
non mi dà più fastidio.”
Inge sorrise a sua volta,
la soddisfazione le si leggeva sul volto.
“Ma no! Sei troppo
modesta.” Le rispose. “Vai in camera mia. Ho anche già tolto tutta la mia roba,
in modo che tu possa stare più comoda.”
Melanie guardò il
pavimento, mordendosi il labbro inferiore. Le sue mani si stavano torcendo dalla
rabbia che voleva sopprimere. Per un momento, Inge si domandò se fosse possibile
che quella donna si avventasse su di lei con istinti omicidi. Tuttavia,
indipendentemente dal fatto che lo facesse o meno, la volontà c’era tutta.
“Ok, grazie…” mormorò, tra
la rabbia e la rassegnazione.
Perfetto. La prima
battaglia l’aveva vinta Inge.
La ragazza sorrise
soddisfatta all’idea ed aspettò che Tom tornasse dalla cucina. Poi, insieme
salirono le scale senza toccarsi e a distanza di cinque scalini l’uno
dall’altro.
***
Inge si girò, dando le
spalle a Tom. Si strinse nella maglietta che gli aveva rubato – come sempre –
per dormire e serrò gli occhi.
Erano in silenzio da almeno
un quarto d’ora. Sperava che questa volta – con la scusa della vendetta –
lui provasse a parlare, tanto per chiarirsi una volta per tutte, ma sembrava
proprio che lui non ne avesse la benché minima intenzione.
Iniziava a sentirsi
rassegnata.
Non solo aveva fatto la
prima mossa per provare a sistemare il loro rapporto, ma si era spinta anche più
di quel che avrebbe mai fatto.
Cazzo! Lui la conosceva!
Possibile che non capisse quanto le era costato baciarlo, dopo tutto ciò che era
successo? Lui sapeva quanto orgogliosa fosse! E allora perché non arrivava a
capire che lei, pur di chiarirsi con lui, aveva pestato il suo maledetto
orgoglio e gli aveva detto ciò che lui era ancora per lei?
Lei lo amava.
Con lui, lei aveva trovato
un posto tutto suo. Si era sentita a casa. Aveva trovato un ragazzo meraviglioso
– infantile, certe volte, ma meraviglioso in quanto persona.
Tom riusciva a farla
piangere e sorridere. A farla sentire serena e a farla incazzare – proprio come
ora. E, soprattutto questo ultimo intento, ci riusciva sempre alla perfezione.
Sembrava lo facesse
apposta! Non era possibile che dopo tutto quel tempo passato insieme, lui ancora
non capisse i suoi sentimenti.
Tra loro le cose non si
potevano definire normali, ma proprio per questo il loro amore era
unico. Loro riuscivano ad amarsi, odiandosi. Era una situazione assurda, ma
stupenda.
Loro erano uguali. Entrambi
orgogliosi e – dovette ammetterlo – entrambi eterni bambini.
Una sorta di Peter Pan.
Ma lei aveva provato ad evadere dall’Isola Che Non C’è. Aveva provato a superare
quell’atteggiamento puerile per crescere. Ma Tom, il Peter Pan per eccellenza,
sembrava proprio ostinato a non voler crescere.
Ciò che era successo tra di
loro, quella scoperta che lei nemmeno si sarebbe aspettata di fare, le loro
reazioni… erano tutti componenti micidiali, capaci di mettere fine ad un
rapporto tra due persone. Nonostante questo, lei stava cercando di evitare
questo triste destino.
Era questo il momento di
abbandonare l’Isola Che Non C’è per diventare adulti.
Certo, lei si era
comportata male con lui. L’aveva accusato pesantemente. Non era stata in grado
di comprenderlo.
Ma ora aveva capito: anche
lui aveva sofferto. Nemmeno per Tom doveva essere stato facile accettare tutto
questo, soprattutto in quanto diretto interessato dell’intera faccenda. Più che
lei, era lui che aveva visto la sua vita stravolgersi. E lei l’aveva solamente
attaccato.
Però, ora stava cercando di
riparare i pezzi rotti. Stava cercando di riparare le crepe che si erano create
tra loro.
Purtroppo, era lui che
invece ne stava creando di nuove, rendendo vano ogni suo tentativo al riguardo.
Non riusciva nemmeno più a
sentirsi incazzata con lui. Si sentiva, invece, rassegnata.
Lei aveva fatto tutto il
possibile per farglielo capire. E non era possibile negarlo. Questo doveva
averlo capito pure lui.
Ora stava a Tom fare il
secondo passo.
Il terzo, l’avrebbero fatto
insieme.
***
La sentì dargli le spalle.
Lui fece altrettanto,
distogliendo lo sguardo dall’attraente soffitto bianco sopra di lui.
Perché diamine aveva
accettato questa cazzata?
E poi – doveva proprio
dirlo – era una vendetta del cazzo. Assurda e molto probabilmente anche
inconcludente. Cosa avrebbero guadagnato dal far morire la madre di Alex di
gelosia?
Però, aveva accettato. Si
meravigliava per averle concesso di mettere in atto tutto questo.
Sospirò impercettibilmente.
Ci sarebbe mancato che lui avesse espresso il suo parere al riguardo. Come
minimo lei gli sarebbe saltata addosso e iniziato a prenderlo a botte.
A quel pensiero, subito ne
seguì un altro per niente richiesto.
Si ricordò di quando
litigavano. Gli oggetti volavano, si punzecchiavano con battute – certe volte
anche pesanti – e le botte non mancavano. Era sempre lei ad arrivare alle mani
per prima, salendo sopra di lui, ma non faceva mai sul serio. Scherzava. E
puntualmente, ogni volta, lui l’abbracciava e la faceva rotolare sul letto,
torreggiando su di lei soddisfatto.
Così finivano tutte le loro
liti. Prima passavano momenti in cui non si parlavano e non si guardavano. Ma
alla fine scoppiavano e tornavano come prima.
Un rapporto decisamente
strano e movimentato. Ma gli piaceva. Non tanto perché era masochista, quanto
perché si divertiva con lei. Con lei, lui si sentiva normale. Non un Dio sceso
sulla terra.
Questa volta, però, era
diverso. Anche se avevano ripreso a parlare, non c’era entusiasmo tra di loro.
Le parole che si scambiavano, erano atone, prive di quel sentimento profondo che
li aveva uniti – in tutti i sensi.
O almeno, le proprie parole
lo erano.
Quelle di Inge spesso
contenevano note di tristezza, rassegnazione.
Era strano – e ancora più
strano era il fatto che lui si stava facendo delle seghe mentali al riguardo –,
ma non gli piaceva sentire quelle note. Stonavano.
Era anche vero, però, che
non aveva la più pallida idea di cosa fare. Prima si era incazzata e se n’era
andata di casa. Poi era tornata e l’aveva baciato.
Ora sembrava ancora
malinconicamente incazzata.
Non capiva più niente. Un
tempo Inge non era così complicata. Era come lui. Le emozioni le si potevano
leggere sul viso, proprio come ai bambini.
Evidentemente questa
situazione aveva cambiato tutti. Anche lui si trovava diverso. Ma era ovvio, no?
Aveva scoperto che aveva un bambino. Un bambino che per di più era andato a
vivere in casa sua.
Certo, aveva fatto una
grandissima cazzata a non dire niente ad Inge. L’aveva capito. Di sicuro le
aveva dimostrato quanto non fosse degno di fiducia.
Era ovvio che lei si fosse
incazzata.
Si sentiva in dovere di
fare qualcosa, ma non sapeva esattamente perché. Dopo tutto quel tempo passato
insieme, possibile che lei non avesse capito la ragione della sua cazzata?
Perché era una cazzata, ma aveva un motivo.
Quando l’aveva baciato,
quasi avrebbe voluto abbracciarla e baciarla con la stessa passione di un tempo.
Le era mancata. Ma i suoi muscoli non avevano nemmeno sentito quella piccola
scarica elettrica provocata da quella misera forza di volontà.
Non aveva fatto niente. E
forse era stato un bene. Ma sentiva che da un lato, aveva fatto l’ennesima
cazzata.
E ora si sentiva perso. Non
capiva più cosa avrebbe dovuto fare. La sensazione di mettere fine alla sua
storia con lei era sempre lì. Flebilmente accesa, ma lì.
Non riusciva a togliersi
dalla testa l’idea che se non si erano capiti in una situazione così delicata,
forse era meglio che tra loro non ci fosse più niente. O almeno, non ci fosse
più ciò che c’era stato prima.
Avrebbero potuto rimanere
amici, ma già sapeva che lei gli avrebbe tirato qualcosa, perché era questo che
le altre donne facevano con lui. Loro non amavano sentirsi dire la parola
amicizia dopo che lui le aveva lasciate.
Ma era altrettanto vero che
Inge non era come le altre. Lei era diversa.
Era per questo che l’aveva
amata.
Ed era per questo che…
La porta di fronte alla
loro sbatté rumorosamente, proprio come Inge aveva previsto.
“È ora.”
La ragazza si rigirò verso
di lui, supina, lasciando che Tom prendesse posizione sopra di lei, reggendosi
con le mani sul materasso e le braccia tese per lasciare distanza tra di loro.
“Dimmi quando iniziare.”
Mormorò Tom.
“Oh, sì! Tom!” gridò
lei, fingendo piacere, gli occhi serrati e la testa tirata indietro.
“Ma che cazzo urli, se non
ho ancora fatto niente?” urlò sommesso il ragazzo.
“È questo il punto,
idiota.” Lo guardò irritata. “Sì! Sì!” e tirò di nuovo la testa indietro.
“Potevi avvertirmi…”
commentò lui, sbuffando. “Ah!” ed iniziò a muoversi, flettendo le
braccia, per emulare il rumore del letto soggetto ad una notte di passione.
“Guarda che non è
necessario fare tutto questo casino.” Lo riprese lei. “Ah! Tom! Ancora!”
“Non sarebbe credibile,
fidati: sono un esperto – Inge! – E poi regolati. Non hai mai fatto
questi gridolini.”
Lei lo colpì con una mano
sul braccio.
“Ma sei scema?” fece Tom,
guardandola truce.
“Fottiti.” Ringhiò lei. “E
poi, nemmeno tu hai mai fatto così.”
“Cosa?”
“Sì, quindi cerca di essere
più convincente – Sì!”
“Senti chi parla… - Ah!
Continua!”
Inge incrociò le braccia al
petto e guardò Tom riducendo gli occhi a due fessure.
“Tom. Sì.” Fece con tono
piatto.
“Perfetto, così non si
sente che stai fingendo.” commentò sarcastico. “Ah!”
“Cretino – Tom!”
“Ehi, senti. Sono alla
trentesima flessione. Non ti conviene criticare tanto, capito? – Vai! Inge!”
“Mica ti ho chiesto io di
farle.”
“Infatti io le facevo per
far reggere questa stupida messinscena.”
“Perfetto.” Fece lei.
“Allora facciamola finita con questa stupida messinscena. Tanto non credo
si arrivi da qualche parte così.” E posò le sua mani sul petto nudo del ragazzo
per allontanarlo da sé e rigirarsi verso il suo lato del letto. Si appallottolò
con il cuscino tra le braccia e gli diede la schiena.
Non c’era proprio verso di
tornare ad avere un rapporto come prima.
C’era qualcosa che si stava
pian piano distruggendo sempre più.
Una distruzione lenta e
dolorosa.
Anche Tom se ne rese conto.
E non poteva sopportarlo.
Era impazzito per lei,
prima di riuscire a farla sua.
L’aveva amata con tutto se
stesso. E continuava ad amarla.
Voleva sul serio lasciare
tutto così? Voleva sul serio che la situazione continuasse a peggiorare senza
fare niente? Voleva veramente tutto questo?
Voleva veramente lasciarla?
No. Proprio per questo ora
doveva fare tutto il possibile per rifarla sua.
Sapeva che tra loro due le
cose non sarebbero mai state rosa e fiori. Avevano caratteri troppo simili. Era
ovvio che si scontrassero.
Era arrivato il momento di
mettere da parte quel cazzo di orgoglio. Ok, lei non l’aveva capito? Bene, lui
le avrebbe spiegato il motivo.
“Ehi, Inge…” la chiamò
dolcemente, posando una mano sulla spalla della ragazza.
“Che cazzo vuoi?” fece lei,
allontanandosi dal suo tocco.
Tom ritrasse la mano.
“Parlare.” Rispose.
“E certo!” urlò lei. Al
diavolo quella cazzo di messinscena! “Solo quando pare a te, però! Mi sembra
giusto! Invece, quando te lo chiedo io, di chiarire, sei sempre pronto a
rispondermi a culo!”
“Scusa.” Mormorò mesto il
ragazzo, sentendosi totalmente in colpa. Aveva appena capito ciò che voleva –
certo, un po’ in ritardo per credere che tutto si potesse sistemato in poco
tempo, ma non per questo era meno determinato – e già sentiva addosso il greve
peso della colpa. Per tutto questo tempo non aveva fatto niente. Si sentiva uno
schifo.
“Non me ne faccio niente
delle tue scuse.” Ringhiò, cercando di nascondere una piccola nota tremante
nella sua voce. “Io volevo essere ascoltata.”
“Ti ascolto ora e -”
“Non mi importa se mi
ascolti ora!” lo interruppe, lasciando che poi il silenzio regnasse su di loro.
Ma subito si pentì di quelle parole. Perché diavolo gli aveva risposto così?
Finalmente, lui stava
cercando di trovare un modo per superare questa situazione, o almeno per
affrontarla.
Certo, Tom si era
dimostrato un vero pezzo di merda, ma ora…!
Si sarebbe data due
schiaffi sul viso molto volentieri, ma preferì parlare.
“Scusa…” sussurrò.
“Ti sei sfogata?” chiese
lui, una punta di ironia nella voce per cercare di alleggerire la pesante
atmosfera che si era creata.
“Un po’.” Ammise.
“Vuoi parlare?” e si
avvicinò a lei, stendendosi sul letto dietro la ragazza. Posò una mano sul suo
braccio e l’accarezzò dolcemente come avrebbe fatto ogni altra volta.
Lei annuì, deglutendo. Le
pizzicava il naso, ma non aveva la benché minima voglia di scoppiare a piangere
proprio ora.
“Sei arrabbiata con me
perché non ti ho detto di avere un figlio?” chiese, quindi, Tom.
“Diciamo di sì.” Fece lei,
cercando di mantenere un tono sicuro.
Lui non rispose. Per quanto
stupido potesse sembrargli, non riusciva a trovare parole adatte per spiegargli
il motivo.
“Perché non me l’hai detto,
Tom?” chiese lei. La voce sembrava non ubbidirle più. Si era fatta flebile e il
tono sembrava quello di una supplica.
“Avevo paura.” Confessò
lui.
“Paura?” ripeté Inge,
girandosi verso di lui per poterlo guardare negli occhi.
“Sì.”
“E di cosa, scusa?” Nessuno
avrebbe mai potuto sapere quanto le fossero mancati quei momenti in cui poteva
perdersi nel suo sguardo.
“Di perderti.” Mormorò
quasi impercettibilmente.
Subito abbassò lo sguardo,
sembrava imbarazzato. Era la prima volta che lei lo vedeva così. Il massimo
imbarazzo che provava era quando lei lo osservava dormire, ma lui si limitava a
mandarla in culo e a voltarsi. Questa volta, invece, era un imbarazzo molto più
sincero.
“Perdermi?” ripeté la
ragazza. Era spiazzata e le venne paradossalmente quasi da ridere. Si sarebbe
aspettata di tutto – paura di subire le sue urla, paura di morire massacrato, o
in alternativa investito da lei in macchina – ma mai aveva pensato che lui
avesse paura di perderla.
Non che stesse minimizzando
tutto ciò, semplicemente trovava questa sua risposta una conferma dei suoi
sentimenti.
Aveva finalmente capito che
anche lui l’amava ancora.
“Sì,” cercò di spiegarsi
lui, alzando di nuovo lo sguardo su di lei. Quasi avrebbe pensato che, dopo aver
sentito quelle parole, si fosse messa a ridere. Non era da lui pronunciare
parole talmente sincere e delicate. No, assolutamente.
“Se io ti avessi detto che
Alex era mio figlio, tu ti saresti comunque arrabbiata. Ti saresti allontanata.”
Continuò il ragazzo, fissando Inge negli occhi.
“Non è vero.” Tentò di
obbiettare lei.
Lui alzò un sopracciglio
saccente.
“Ok. Sì, forse hai
ragione.” Sospirò la ragazza.
“Ecco perché non te l’ho
detto.”
Inge distolse lo sguardo da
Tom. In fondo era anche colpa sua. Era vero: anche se l’avesse saputo
dall’inizio la situazione non sarebbe stata molto diversa. Forse, l’unica
differenza sarebbe stata che non avrebbe lasciato casa.
Il naso pizzicava ancora.
“Mi dispiace.” E una
lacrima solitaria scese lungo il suo viso. Subito l’asciugò e cercò di respirare
profondamente per evitare di piangere come avrebbero fatto tutte le altre donne
nella sua situazione.
“Tranquilla.” Cercò di
consolarla lui, vedendo che malgrado i suoi tentativi di tamponare le lacrime
con la sua maglietta, queste non accennavano a cessare di rigarle il viso. Lei
sembrava incazzarsi per questo, perché mugolava irritata e si copriva gli occhi
per non essere vista.
Tom soffiò una mezza
risata. Era proprio la Inge che amava.
“No, non sto tranquilla.”
Fece lei, con voce nasale. “Sono stata una stupida. L’ho capito che per te,
questo periodo non è stato facile.” Gli occhi chiusi continuavano a versare
sempre più lacrime. “Però, non sono riuscita a capirlo subito. È colpa mia se
siamo arrivati a questo punto.”
Fu più forte di lui. Non ce
la faceva più a starle così vicino, ma allo stesso tempo, così lontano. Gli
mancava il calore del suo corpo contro il suo. Gli mancava di sentirla contro il
suo petto. Per questo l’abbracciò e la strinse forse a sé.
“Così non mi aiuti,
stupido.” Farfugliò lei, piangendo.
“Cosa?” e appoggiò la testa
sulla fronte della ragazza.
“Se prima volevo smettere,
ormai è inutile!”
Lui rise.
“E non ridere!” si lamentò,
abbracciandolo a sua volta.
“Mi sei mancata.” E la
baciò sulla fronte.
“Anche tu…” disse tra le
lacrime, nascondendo la testa sul suo petto.
Poteva sentire i suoi
battiti, proprio come un tempo.
“Inge,” la chiamò lui con
voce bassa. La ragazza riprovò la sensazione di poter sentire quelle calde
vibrazioni della sua voce. Tuttavia, nel tono usato da lui vi colse una
sfumatura di malizia – degna di Tom – e un velo di ironia. “Non vorrei dirtelo,
ma mi stai appiccicando lacrime, bava e moccio sul petto.”
Appunto.
Inge si allontanò subito da
lui, squadrandolo minacciosa. Aveva gli occhi ridotti a due fessure – e gonfi.
Afferrò, quindi, il cuscino che prima teneva tra le braccia e lo tirò addosso al
ragazzo, per poi girarsi dall’altra parte.
“Stronzo.”
Lui rise divertito e si
avvicinò nuovamente a lei, abbracciandola da dietro.
“Stavo scherzando.” Le
soffiò all’orecchio. “Accidenti quanto sei permalosa!”
“Accidenti quanto sei
rompicoglioni.” ribatté lei irritata, ma anche nostalgica di quelle battute che
da sempre c’erano tra di loro. Quindi, si girò e l’abbracciò a sua volta.
“Senti,” indugiò Tom,
accarezzandola sulla spalla, alzando la manica della sua maglietta. “Possiamo
rimandare la questione più complicata di Melanie a domani?” e le mise una mano
sotto il mento, per poi baciarla sulle labbra.
“Odi proprio le
responsabilità, eh?” lo riprese lei, allontanandosi leggermente da lui per
guardarlo saccente.
“E tu odi tenere la bocca
chiusa.” Fece lui, mettendo in atto il suo modo di chiuderle la bocca.
“E tu odi che ti si dica in
faccia la verità.” Sorrise lei, sotto le sue labbra.
“Sai,” disse Tom,
guardandola perplesso. “Questa conversazione non mi è nuova.”
Inge rise, ricordandosi di
tanto tempo fa, e lo baciò.
“Allora, modifichiamola.”
Sussurrò maliziosa.
“E come?” chiese il
ragazzo, accettando la sfida.
Lei lo baciò ancora e lui
la prese per i fianchi, portandola sopra di sé.
Si guardarono negli occhi,
per poi avvicinarsi e fondere ancora una volta le loro labbra in un bacio
incandescente. Un desiderio da tempo represso.
Quella notte sarebbero
tornati insieme come un tempo.
¤°.¸¸.·´¯`» «´¯`·.¸¸.°¤
Continua...
________________________________________________________________________________________________________________________________________________
ATTENZIONE:
I Tokio Hotel non mi
appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera
della loro personalità. No scopo di lucro.
***
Ci credete? Finalmente ho
finito pure questo capitolo! xD
Che ne dite? A mio parere è
uno dei capitoli più belli, per ora.
Purtroppo, come ormai vi
ripeto ad ogni aggiornamento, il tempo a mia disposizione per scrivere è poco -
e non sempre lo impiego in questa storia. Quindi, gli aggiornamenti saranno
sempre lenti. (La cosa assurda, è che anche se passo intere giornate a studiare,
i risultati non si vedono! Ho il morale a terra! X°D)
Vabbè, problemi di studio a
parte, che dire? Bè, ovviamente, devo ringraziare le quattro persone che
hanno commentato (forza, gente! Ho visto che siete in molti a leggere, potete
anche lasciare un commentino, no? ç__ç Se non altro mi date una scusa per
allontanarmi dal libro di storia - materia che oggi mi tocca studiare - per
leggere qualcos'altro! ^^)
Comunque, grazie a
kit2007 (Come al solito, sei fantastica! XD Ti adoro! Prima o poi tornerò
anche su msn e chiacchiereremo un po', ok??), Ladysimple (Bè, questo
capitolo risponde perfettamente alla tua domanda... ^^), Antonellina
(Piaciuto questo capitolo? Bè, che dire? Avevi ragione su tutto! XD Mmm, non è
che sto diventando troppo prevedibile? x°D) e angeli neri (Forse
con questo capitolo ti ho fatto aspettare un po' di più, rispetto all'altro, ma
ciò che contiene è un pagamento abbastanza proporzionato all'attesa, no?^^ Dal
prossimo capitolo, la situazione diventerà più seria, e ci saranno dei risvolti
che forse nemmeno ti aspetti... Quindi, sperando di aggiornare abbastanza in
fretta, ti lasciò al momento con la suspance!)
Ora che mi è venuto in mente
- per quanto, forse, sia inutile - vi lascio di nuovo il mio indirizzo di msn:
irina_89@hotmail.it
Se volete chiacchierare, mi
potete contattare lì. Purtroppo le mie apparizioni sono rare e molto brevi
(a meno che non mi dimentichi il computer acceso... =P).
Come ultima cosa, se mi
riesce, metto un link per un disegno che ho fatto di
Tom e Inge.
(Inge sembra una bambina, in confronto a lui... Anche se nella mia immaginazione
è giusto che sia molto esile e piccola - tipo folletto, delle volte pure
malefico... =P).
Ok, ora non mi resta che
salutarvi tutti!
Un bacio!
E ricordatevi di lasciare un
commentino!^^
_irina_
|
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Capitolo 13 *** The Long Goodbye ***
Just a kid
Just a kid
The Long Goodbye
Aprì gli occhi lentamente.
Aveva ancora sonno, ma sentiva il bisogno di svegliarsi.
Provò a girarsi per poi
scendere dal letto ed andare in bagno, come faceva ogni mattina, ma qualcosa
glielo impedì. Nel buio della camera cercò di capire, e subito si ricordò.
Non era in camera sua.
E non era sola nel letto.
Qualcosa si agitò dentro di
lei. Ciò che stava provando era una sensazione che mai avrebbe pensato di poter
risentire. Il pensiero di trovarsi accanto a Tom. Abbracciata da Tom. E di nuovo
amata da Tom.
Portò la sua mano al suo
fianco, toccando l’ostacolo che aveva sentito prima. Era il braccio del ragazzo.
Era caldo. Un calore di cui aveva avuto nostalgia per così tanto tempo, che ora
le sembrava quasi impossibile provarlo di nuovo.
Strinse le dita alle sue e
si strinse a lui, facendo aderire la sua schiena al suo petto.
Quella notte erano tornati
insieme.
Tutte le emozioni che aveva
provato a dimenticare inutilmente, ora la stavano invadendo. E per la prima
volta, il suo naso pizzicò per la felicità.
Poteva sentire il caldo
respiro di Tom sul suo collo. Poteva sentire il suo petto premere contro la sua
schiena. Poteva sentirlo vicino.
Lentamente, la mano del
ragazzo contraccambiò la stretta.
“Buongiorno…” mugolò Tom
con voce bassa, ancora impastata dal sonno.
Portò le loro mani sul
petto di lei e la strinse a sé.
Inge perse un battito, per
poi sorridere.
Accidenti quanto le era
mancato tutto questo!
“Buongiorno.” Ricambiò lei,
girandosi verso di lui. Aveva ancora gli occhi chiusi. Lo accarezzò
delicatamente e gli tolse i rasta disordinati dal viso.
“Te l’ho già detto che mi
sei mancata?” la strinse ancora più forte, lui.
“Sì, ma mi piace sentirtelo
dire.” Ammise lei, lasciandosi stringere tra le sue braccia senza opporre la
minima resistenza.
“Che carina.” Commentò lui,
sorridendo. “Sei diventata più femminile.” Ed aprì gli occhi assonnati.
Lei lo guardò torvo.
“E tu sei diventato più
stronzo.” Borbottò.
Tom rise e le baciò la
punta del naso. Lei ne approfittò per slegare le sue mani dalle sue, e portarle
intorno al suo collo. Montò sopra di lui e si stese. Petto contro petto. Lo
baciò appassionatamente e lasciò che lui continuasse ciò che entrambi bramavano.
Erano stati lontani troppo
a lungo. Erano magnetici. Non potevano più fare a meno dell’altro.
Tuttavia, Tom si fermò e
l’allontano dolcemente da sé.
Lei lo guardò perplessa.
Poi capì e assunse un’aria colpevole, distogliendo lo sguardo dal ragazzo.
La sua voglia di Tom era
passata sopra la questione più importante.
Alex e Melanie.
“Ehi…” sussurrò lui,
prendendole il mento tra le dita e facendola voltare di nuovo verso di lui. Si
guardarono negli occhi. “Tranquilla.” La capì.
Lei annuì e scese da sopra
il ragazzo, per stendersi al suo fianco.
“Che facciamo?” chiese,
quindi, Inge.
“Se devo essere sincero,
non lo so.” Confessò dispiaciuto.
Si guardarono ancora una
volta negli occhi. E si capirono come non mai.
Melanie – per quanto fosse
brutto solo pensarlo – doveva andarsene. Quella donna stava rischiando di
mettere in crisi tutti loro. E non era un’inezia, dire che nessuno la
sopportava.
Ma come comportarsi con
Alex? Dopotutto, lui non aveva nessuna colpa.
Al contrario della madre,
tutti si erano affezionati a lui.
Poi, Tom si ricordò
improvvisamente di un fatto decisamente importante.
“Inge,” iniziò. “Cosa sai
dell’uomo cattivo di cui parla Alex?” chiese.
“Penso ciò che sai pure tu.
Glielo volevo chiedere per saperne di più, ma non l’ho fatto perché mi è
sembrato che non gli piaccia.” Spiegò la ragazza.
“Già.” Convenne Tom. “Ma io
so più di te. Scusa, non te l’ho mai detto perché non ci sono state molte
occasioni per farlo.” Spiegò con un velo di sarcasmo.
“E cosa?”
“Non mi piace.” Disse
preoccupato.
“Perché? Cosa fa?”
“Cosa faccia non lo so. So,
però, cosa ha fatto.”
Inge alzò un sopracciglio
interrogativa.
“Ha picchiato Alex.”
La ragazza si portò le mani
alla bocca e sgranò gli occhi.
“Cazzo!”
“E non so se si è limitato
ad una sola volta.” Ammise con riluttanza.
“Se mandiamo via Melanie…”
iniziò lei.
“Alex andrebbe con lei. E
tornerebbero tutti e due da quell’uomo.” Finì il ragazzo. “Temo proprio di sì.”
“Non possiamo lasciarlo
tornare laggiù.” E questo non era possibile metterlo in discussione. “Dobbiamo,
quindi, far rimanere anche lei…” sospirò rassegnata.
Rimasero in silenzio per un
po’, cercando una possibile soluzione. Ma sembrava proprio che non ci fosse; per
questo entrambi avrebbero sopportato. Pur di aiutare Alex, avrebbero sopportato.
Improvvisamente, Tom si
rese conto di un particolare.
“Un’alternativa, forse, ci
sarebbe…” mormorò pensieroso.
“E quale?”
Tom la guardò e sorrise.
“Bè, io sono il padre di
Alex, giusto?”
Inge annuì.
Lui l’abbracciò forte e
posò le labbra sulla fronte della ragazza.
“Posso chiedere che lo
lasci a me.”
***
“Ehi, ciao.” La salutò Tom,
stravaccandosi sul divano accanto a lei e cercando di apparire tranquillo e
stranamente felice di fare quattro chiacchiere con lei.
“Ciao.” Ricambia Melanie,
senza guardarlo, intenta a sfogliare una rivista. “Sai che voi quattro comparite
in praticamente tutti i giornali?” e gli mostrò una pagina con le loro foto,
seguita da un’intervista.
“Più o meno.” Rispose,
adocchiando quelle pagine. Nemmeno si ricordava quell’intervista.
“Volevi qualcosa?” chiese
la donna, voltando la pagina di quel giornale.
“Sì,” deglutì il ragazzo.
“Volevo parlarti di Alex.”
“Ah!” e chiuse la rivista
per guardare Tom negli occhi. “Ne ha combinata un’altra delle sue? Ora gliene
dico quattro!” e si alzò, pronta per andarlo a cercare.
“No, aspetta.” E la prese
per un braccio per farla tornare seduta. “Non è per quello. Lui non ha fatto
niente.”
“E allora?” lo fissò
interrogativa.
“Volevo dirti ciò che mi ha
detto qualche giorno fa.”
“E cosa ti ha detto per
farti correre da me?” fece sarcastica.
“Del tuo compagno.”
“Di Ben?” sgranò gli occhi.
“Se si chiama così, sì.”
Disse Tom serio, fissandola a sua volta.
“Cosa ti ha detto?” si
affrettò a chiedere la donna.
“Ho visto la cicatrice,
Melanie.” E appoggiò i gomiti alle ginocchia per avvicinarsi a lei.
“Ma… Ma quella… è caduto
dalle scale!” farfugliò, guardando altrove.
“Sicura?” alzò un
sopracciglio.
“S… Sì.” E portò il suo
sguardo sul pavimento.
“Mi dispiace, ma non ti
credo.”
“Perché non dovresti? Lui è
solo un bambino!” ruggì lei, tornando con gli occhi su di lui. Erano lucidi. Il
ragazzo aveva proprio toccato il tasto dolente che lei cercava disperatamente di
nascondere.
“Per questo.”
“Ma… Ma si è inventato
tutto!”
“No, secondo me dice la
verità.” Continuò imperterrito Tom.
“No. No!” gli occhi
diventavano sempre più lucidi e la sua espressione sempre più triste e
supplicante.
“Melanie…” cercò di farla
parlare. Voleva sentire da lei come stavano le cose. La verità.
Ma l’unica cosa che ottenne
furono le sue lacrime. La donna iniziò a piangere silenziosamente, portandosi le
mani sul viso per non essere vista. Il suo corpo tremava e Tom sentì che
nonostante tutto, lei era sincera. Il suo pianto era un pianto vero.
E questo diede conferma ai
suoi pensieri riguardo quell’uomo.
“Perché stai con una
persona come lui?”
“È l’unico che mi possa
aiutare…” mormorò tra le lacrime.
“Aiutare?” tentò di capire.
“Sì,” singhiozzò. “Mi passa
dei soldi.”
“Che lavoro fa?”
“Non lavora.” Disse
Melanie. “Spaccia.” Aggiunse in un sussurrò strozzato e quasi
impercettibile.
“Spaccia droga?” ripeté Tom
incredulo. “E tu vivi con un tipo del genere?” la accusò. Non era sua intenzione
farla sentire ancora più colpevole di quello che già sembrava sentirsi da sola,
ma il pensiero che anche Alex avesse potuto vivere con un individuo come quello,
gli faceva ribollire il sangue nelle vene. “Ma ti rendi conto che è un uomo
pericoloso?”
Lei annuì.
“È pericoloso per Alex!”
continuò lui.
“E di me non ti preoccupi?”
urlò lei, guardandolo negli occhi.
“Melanie…” farfugliò. “Alex
è un bambino.” Le fece notare.
“E allora?”
“Melanie,” e le mise una
mano sulla spalla. “Alex non può vivere con lui.”
“E allora permettici di
vivere qui!” si aggrappò a lui, disperata.
“Melanie…” provò ad
allontanarla.
“Che c’è? Perché non posso?
Ora che ci siamo anche ritrovati!”
Il ragazzo poteva sentire
il dolore nelle parole della donna, ma purtroppo le cose erano complicate. Anche
Bill era d’accordo con Inge e Tom. Melanie sarebbe rimasta solo se non ci
fossero state altre alternative. Purtroppo, lei aveva fatto la sua scelta. Era
stata lei a decidere di vivere con un tipo del genere. Melanie era adulta.
Avrebbe potuto uscirne.
Ma Alex no. Alex era un
bambino. Era pericoloso farlo tornare in un ambiente come quello.
Tutti erano convinti che
avrebbero potuto sopportare la presenza di Melanie, pur di tenere Alex lontano
da quel posto, ma sembrava che Melanie volesse sfruttare la situazione che si
era creata a suo vantaggio.
Lei voleva, sì, togliersi
dai guai – e Alex con lei –, ma voleva anche un’altra cosa. Una cosa che però
non era corrisposta.
Lei voleva Tom.
“Te l’ho già detto,
Melanie.” Disse Tom, sorreggendola, mentre le forze della ragazza sembravano
venir meno. “Non possiamo stare insieme.”
“E perché?” lo supplicò
lei. “Tuo figlio non ti basta come motivo?”
“Ascolta, Melanie: io non
provo niente per te.” Le disse, cercando di contenersi e trattare l’argomento
più delicatamente possibile. Non voleva che questo discorso portasse a finali
non previsti.
“Ma… Ma nostro figlio?”
“Melanie,” ripeté ancora,
forse sperando in una vaga possibilità di calmarla pronunciando sempre il suo
nome con dolcezza. “Alex è un bambino bellissimo.” Le disse, accarezzandole i
capelli. “Ti ringrazio per averlo cresciuto per tutto questo tempo. Ti ringrazio
per averlo portato qui. Per avermelo fatto conoscere. Ma noi tre non potremo mai
essere una famiglia.”
“E io dove andrò, allora?”
lo guardò implorante.
Tom abbassò lo sguardo e
tolse la mano dalla testa della ragazza.
“Mi dispiace.” Mormorò
addolorato.
Quella era senza dubbio la
conversazione più difficile avesse mai fatto in tutta la sua vita. Se avesse
detto una parola – anche una sola – sbagliata, avrebbe potuto mandare in fumo i
suoi miseri tentativi di farsi lasciare Alex. Si ritrovò, per questo, a non
sapere nemmeno cosa dire.
“D’accordo.” Respirò
profondamente Melanie, appoggiandosi a Tom per alzarsi.
Si mise davanti a lui e
tirò su con il naso, mentre con le mani si asciugava gli occhi.
“Allora ce ne andremo.”
Annunciò flebile.
“Cosa?” fece Tom, sgranando
gli occhi.
“Hai sentito bene. Io e
Alex ce ne andremo.”
“E dove?”
“Questi non sono affari
tuoi. Io non lascerò mio figlio. Non lo voglio più allontanare da me.”
“Ma, Melanie…” boccheggiò.
Non sapeva come ribattere. Cosa aveva detto per essere giunto a questa
conclusione?
“No, Tom. Hai ragione.” Lo
fermò lei, mettendogli una mano davanti alla bocca. “Qui siamo di troppo. Non
possiamo vivere con voi. Siamo un peso.”
“Non… Non ho detto questo!”
protestò lui. Non aveva mai detto niente di simile! Non poteva mettergli in
bocca parole mai pronunciate! E soprattutto, non poteva mettergli in bocca il
fatto che considerasse Alex un peso. All’inizio, forse, ma ora era tutto
diverso!
“Sì, invece.” Replicò lei.
“Ma hai ragione. Domani ce ne andremo.”
“Ma -”
“No.” Lo interruppe ancora
una volta. “Non dire altro. Hai già detto troppo.” E si voltò. Girò intorno al
divano e salì le scale.
Tom non ebbe le forze per
seguirla. Avrebbe voluto prenderla per le spalle. Scuoterla. Urlarle addosso che
non era vero niente. Farle capire che a questo punto avrebbe anche accettato di
ospitarla, pur di non allontanarsi da Alex.
Strinse i denti e si portò
le mani al viso, coprendosi gli occhi. Bruciavano. I suoi occhi non avevano mai
bruciato tanto come in quel momento. Non c’era mai stata una sola volta in cui i
suoi occhi chiedessero così tanto di piangere. Non c’era mai stata una sola
volta in cui i suoi occhi lo implorassero di piangere. Volevano far
uscire quelle gocce salate che lui aveva sempre cercato di reprimere per
atteggiarsi a ragazzo forte.
Ma questa volta non aveva
nemmeno le forze per impedir loro di far come più desideravano.
E così, dotate di volontà
propria, le lacrime iniziarono a scendergli lungo le guance, bagnandogli le mani
che premeva violentemente sugli occhi, mentre il suo respiro si faceva sempre
più rapido, quasi come se volesse rincorrere l’aria che non riusciva più a
respirare.
Si sentiva una merda. Non
era stato capace di tenersi suo figlio.
Proprio in quel momento
delle dolci mani lo accarezzarono sulle braccia, per poi abbracciarlo stretto,
mentre la persona a cui appartenevano si sedeva sul divano accanto a lui.
“Inge,” mugolò. “Non ci
sono riuscito.” E soffocò un singhiozzo che sarebbe stato troppo rumoroso.
“Tom…” sussurrò tristemente
lei, baciandogli la guancia scoperta e inumidita dalla scia delle lacrime.
Lui si abbandonò tra le
braccia della ragazza, senza scoprirsi il viso, e nella disperazione, si lasciò
sfuggire quei singhiozzi per tutto quel tempo repressi.
***
Nessuno pensava di trovarsi
davanti una scena simile.
In tutto questo tempo,
nemmeno ci avevano mai pensato. Era diventata una cosa quotidiana, avere Alex in
casa. Le sue urla, la sua voce, i suoi scherzi… tutto sarebbe mancato a loro.
Ora, tutto era finito e
tutto ciò che rimaneva di quel mese passato insieme al bambino sarebbe diventato
presto un ricordo. Un ricordo accompagnato dalla nostalgia e dalla tristezza.
Tutti si erano affezionati
a quella piccola peste. Soprattutto Tom. Con lui il legame creatosi aveva
richiesto un periodo di tempo più lungo. Cosa comprensibile. Ma ora che si era
creato, non poteva finire così.
Così, in un semplice
saluto.
Melanie era sulla soglia
dell’ingresso con due borse in mano, mentre con l’altra teneva Alex, che si
dimenava tentando di liberarsi.
“Ma dove stiamo andando?”
si lamentava, gli occhi lucidi.
“Te l’ho detto. A casa.” Lo
strattonò, cercando di farlo avvicinare alla porta aperta.
“Ma mi avevi detto che
questa ora era casa mia!” urlò lui, iniziando a piangere. Puntò i piedi per
terra e tentò di fare resistenza.
“Mi sbagliavo. Andiamo.” E
lo tirò ancora di più.
“Ma non voglio venire!”
piangeva il bambino. “Voglio rimanere con Tom, Inge e Bill!”
“Alex, li hai già salutati.
Li rivedrai tra qualche tempo. Ora andiamo!”
La rossa, che stava
assistendo alla scena con il naso che pizzicava sempre di più, iniziò a piangere
silenziosamente. Bill le appoggiò una mano sulla spalla e abbassò la testa.
“Ma voglio rimanere!”
urlava ancora.
“Non puoi! Questa non è
casa tua!” urlò Melanie a sua volta.
Il piccolo si zittì
impaurito, senza smettere di versare quelle calde lacrime che gli rigavano il
viso.
“Alex.” lo chiamò Tom con
voce fragile.
Lui si girò, mostrando una
smorfia di tristezza sul viso. Allungò una mano verso il ragazzo e tentò di
opporsi nuovamente alla forza della madre.
“Tom, io voglio rimanere
con te!” piagnucolò, tirando su con il naso.
Il rasta si avvicinò a lui
e l’abbracciò di nuovo, ma più forte di quanto aveva fatto pochi minuti prima.
Non voleva che se ne andasse. Ormai lo sentiva parte della sua famiglia! Come
poteva separarsene?
“Ti prometto che tornerai.”
Lo strinse a sé, imponendosi perché la donna gli lasciasse la mano e gli
permettesse di abbracciare suo figlio nella maniera più paterna potesse fare.
“Te lo prometto, Alex.” E gli baciò la fronte.
Inge non riuscì più a
trattenere i singhiozzi e si portò una mano sugli occhi, mentre con l’altra si
asciugava il naso.
“Ma io non voglio andare
via!”
Tom si allontanò lentamente
da lui. Si alzò di nuovo in piedi, tenendolo per mano. Melanie lo prese per
l’altra e lo tirò verso la porta.
“Mi dispiace.” Sussurrò
flebile il ragazzo, lasciando la piccola mano del bambino.
La donna uscì dalla casa e
si diresse verso il taxi – parcheggiato davanti al cancello – che aveva
chiamato.
Tom li seguì fino alla
porta e li guardò allontanarsi, cercando di non pensare al bruciore degli occhi.
Vide Alex oltrepassare il
cancello. Il bambino girava la testa guardando il ragazzo. Piangeva e tendeva la
mano verso di lui.
Tom alzò la sua e la
sventolò in segno di saluto, avvertendo una dolorosa fitta al petto.
Alex fece altrettanto, ma,
invece che il suo nome, urlò una parola che mai aveva urlato prima.
“Papà!”
Tom serrò gli occhi lucidi.
Melanie fece salire il
bambino sul taxi, per poi salire a sua volta. Chiuse la portiera e si asciugò le
lacrime che le scivolavano sul viso.
E il taxi partì.
Il ragazzo rimase immobile
per qualche istante sulla soglia, poi tornò in sé e serrò i pugni in un
sentimento di rabbia e frustrazione.
Colpì con un pugno il muro
della casa e pensò bene di essersi ferito qualche nocca.
Ma non gli importava.
Doveva solo sfogarsi. Ne aveva bisogno.
Si voltò e chiuse la porta
dietro di sé violentemente. Andò in sala e sferrò un calcio al divano, per poi
caderci sopra privo di forze, coprendosi il viso con le mani.
Ora se ne erano andati.
Avrebbe mai potuto rivederlo? O la loro era una partenza definitiva?
Non riusciva a piangere. Si
sentiva colpevole. Ebbe soltanto la forza di chiudere gli occhi, cercando di
reprimere quella sensazione di perdita che lo attanagliava nel petto.
Quell’ultima parola
pronunciata dal bambino era stata come una pugnalata letale.
Alex sapeva, mentre lui non
aveva fatto altro che mentirgli, arrivando persino ad allontanarlo ancora di più
da sé.
No.
Lui non era degno di essere
chiamato papà.
¤°.¸¸.·´¯`» «´¯`·.¸¸.°¤
Continua...
________________________________________________________________________________________________________________________________________________
ATTENZIONE:
I Tokio Hotel non mi
appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera
della loro personalità. No scopo di lucro.
***
Ok, vi avverto: questo
dovrebbe essere praticamente il penultimo capitolo. Se tutto va nel verso
previsto, il prossimo sarà, quindi, l'ultimo. (Darvi questa notizia mi
mette tristezza...ç___ç)
Prima di iniziare con i
ringraziamenti, volevo proporvi una cosuccia. Parlando con Zickie, mi è
venuto in mente di chiedervi come voi vi immaginate Inge. Nel senso:
vorrei - se voi volete - che provaste a cercare un'immagine che per voi la
rappresenti, tanto per sapere come voi ve la siete immaginata leggendo questa
storia e Sopravvivere. Mettete, poi, un link nel commento, o mi mandate
il file per msn (l'indirizzo è
segnato sul capitolo precedente, ma comunque ve lo riscrivo: irina_89@hotmail.it)
in modo che poi possa metterli nel prossimo capitolo. So che è una cosa
particolarmente pazzoide, ma se ne avete voglia, fatevi avanti!!^^
Io ho già trovato quella che
per me le assomiglia di più, ma la pubblicherò nel prossimo capitolo. xD
Aspetto numerose immagini!
Ps: vi conviene - se me le
volete inviare per msn - mandarmele per mail, perché tra qualche ora partirò per
Monaco e ci starò una settimana!!XD (E questo giustifica anche il perché di
questo aggiornamento, che per me avrebbe richiesto un po' più di tempo per
riguardare il capitolo... spero, infatti, non ci siano troppi errori, perché ho
avuto voglia di pubblicarlo prima di partire per non farvi aspettare troppo
tempo.)
Un'ultima cosa e poi
ringrazio: Ho fatto un altro disegno di
Tom
ed Inge. Lo feci molto molto molto tempo fa - come potete vedere dalla data
- e non vedevo l'ora di pubblicarlo!^^
Ora ringrazio, finalmente, le
quattro anime che hanno commentato lo scorso capitolo: marty sweet
princess, Ladysimple, pandina_kaulitz e kit2007.
Purtroppo non ho tempo per ringraziarvi personalmente una ad una perché tra
mezz'ora ho l'autobus..^^"
Comunque ho visto che siete
ancora tanti a leggere la fan fiction: allora commentate!! XD
E detto tutto questo, vi
saluto, sperando che il capitolo vi sia piaciuto e che non vi sia risultato
troppo diabetico (per me ha una leggera tendenza verso la carie..^^").
Un bacio a tutti!
_irina_
|
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Capitolo 14 *** Wishing You Were Somehow Here Again ***
Just a kid
Just a kid
Wishing You
Were Somehow Here Again
“You are
never given a wish without being given the power to make it true. You may have
to work for it, however.”
Richard Bach
Ancora una volta, giunse il
nuovo anno.
Ed ancora una volta, giunse
dopo giorni e giorni di malinconia.
Certo, aveva partecipato ad
una delle feste più prestigiose – come al solito – e si era anche divertito,
rischiando di mandare Inge su tutte le furie per ogni volta che, senza
rendersene pienamente conto, andava a flirtare con una qualsiasi ragazza – o
donna che fosse. Era, quindi, stato minacciato di un’improvvisa rottura del
collo, di avvelenamento, di squarciamento e qualcos’altro che non ricordava, ma
niente di tutto questo (fortunatamente) si era avverato.
Eppure, sapeva –
esattamente come un anno fa – che non c’era molto di cui essere felice.
Ma sentiva che c’era una
differenza. Ecco, se avesse dovuto trovarla, avrebbe detto che questa volta era
come se gli mancasse una parte di sé. Sì, perché gli mancava Alex, suo figlio.
Se n’era andato ormai da un
mese.
Un mese.
Un mese passato nella
speranza di ricevere sue notizie. Un mese passato a soffrire per la sua colpa.
Un mese passato a tentare di dimenticare qualcosa di indelebile dentro di sé.
Tutti gli erano stati
vicini. Avevano provato a tirarlo su di morale, a distrarlo… e ci erano
riusciti. Si sentiva in colpa anche per questo.
Ma si era convinto di una
cosa, in tutto questo tempo: le cose erano andate così. Ormai, lui non poteva
farci più niente. Ci fu il momento in cui lui avrebbe potuto mostrarsi
all’altezza del suo ruolo di padre, ma non era stato in grado di dimostrarsi
tale.
Quindi, forse era stato un
bene che tutto fosse andato come era andato.
Lui non era stato capace di
essere un padre, quindi era giusto che Alex si fosse allontanato da lui.
L’unica cosa che non
riusciva a dargli pace, riguardava l’ambiente in cui ora poteva trovarsi. E
soprattutto le persone.
Sperò con tutto il cuore
che Melanie avesse capito. Sperò che lei avesse provato a rifarsi una vita,
magari chiedendo un aiuto più giusto per se stessa e per il bambino.
Per il resto, era tempo che
la sua vita ritornasse quella di sempre.
Gli ci era voluta una
sbronza senza eguali e una settimana di martellante mal di testa per capirlo.
“Tom!”
Il ragazzo mugolò qualcosa
e si girò dall’altra parte, per poi tirare le coperte tutte sopra di sé.
“Sei uno stronzo!” si
offese la ragazza dai lunghi capelli rossicci, di fianco a lui, rimanendo
scoperta.
“Sì, lo so. Me l’hai
ripetuto non so quante volte nel giro di un quarto d’ora.” Mormorò lui.
“Allora continuerò per il
resto del giorno, visto che non sembra tu abbia afferrato!” urlò lei,
togliendogli le coperte.
“Sei impazzita?” si lamentò
Tom, rannicchiandosi su se stesso. “È gennaio! Fa freddo!”
“E allora tu non dormire
nudo!”
“Ma si può sapere cosa hai
da berciare alle sette del mattino?” fece lui stizzito per cambiare discorso.
“Veramente sono le dieci,”
precisò Inge. “E poi oggi ti dovevo svegliare alle nove – un’ora fa! – perché
avevi un’importante servizio!”
Tom sgranò gli occhi.
“Cazzo!” e saltò giù dal
letto. “Potevi svegliarmi prima!”
La ragazza sentì la sua
mandibola toccare il letto. Tentò di replicare ma non trovò nemmeno le parole
adatte, così ci rinunciò, sbuffando.
Tom raccolse da terra
qualche vestito e corse in bagno nel girò di trenta secondi.
Inge guardò il letto
rimasto vuoto e non riuscì a reprimere una risatina. Scese, poi, dal letto e si
incamminò verso il bagno.
Il ragazzo era già entrato
dentro la cabina della doccia e nella fretta vi sbatté più volte contro,
borbottando tutto il suo ricco repertorio di imprecazioni, senza tralasciare
niente.
La rossa rise ancora.
“Che ridi?” la riprese lui.
“È colpa tua se sono in ritardo.”
“Certo,” annuì lei per
niente convincente. “È colpa mia che durante la notte ti ho dato del potente
sonnifero.”
“No,” ribatté lui. “È colpa
tua perché durante la notte hai fatto – e mi hai fatto fare – molte cose che mi
hanno tolto energia.”
“Però ti sono piaciute.”
Concluse lei, con tono malizioso, mentre si toglieva l’enorme maglietta del
ragazzo e la buttava per terra.
“Bè, ero anche stanco,
quindi non saprei dirlo con esattezza…” disse vago, un velo della sua solita
ironia nella voce.
La ragazza si spogliò
totalmente e si avvicinò alla cabina della doccia. L’aprì ed entrò.
“Vuoi allora che ti
rinfreschi la memoria?” lo sfidò, abbracciandolo da dietro.
Lui le afferrò le mani con
le sue insaponate, per poi girarsi e guardarla negli occhi.
“Non sai quanto mi
piacerebbe…”
“Sì, che lo so.” Sorrise
maliziosa.
“Peccato che sia in
ritardo.” Roteò gli occhi. Il suo sguardo poteva far intendere tutto, tranne che
gli importasse del ritardo. Inge lo conosceva abbastanza bene da sapere che
davanti ad una proposta del genere, quel dannato pervertito che ora torreggiava
su di lei, avrebbe volentieri mandato al diavolo ogni impegno.
Ma Inge sapeva anche che
Jost si sarebbe arrabbiato oltre ogni limite, se Tom avesse fatto tardi: per
questo l’aveva svegliato con due ore di anticipo.
“Non direi. Hai ancora del
tempo a disposizione.” Trattenne a stento una risata.
Ed il ragazzo capì.
“Quanto tempo?” la
interrogò, appoggiandosi a lei, che arretrò finché non toccò la parete della
cabina con la schiena.
“Diciamo qualche oretta.”
Sorrise soddisfatta.
Tom sembrò pensarci su.
“Pensi che siano
sufficienti?”
“Ti garantisco che in
qualche oretta ti farò rimpiangere di non avermi fatto dormire.” Sorrise
strafottente, mentre posava le labbra sul collo della ragazza.
Lei lo strinse con più
forza a sé e si abbandonò completamente al suo volere.
***
“Quindi?”
“Quindi?” ripeté il
bassista sconcertato.
Bill annuì.
“Quindi dobbiamo sottostare
ai suoi ordini.” Sospirò Tom, stravaccandosi sul divano.
“Ma non è giusto!” si
lamentò il moro, incrociando le braccia al petto.
“Ti pago dieci euro se
glielo vai a dire.” Schioccò la lingua il fratello.
“Che misero.” Commentò
Gustav, sorseggiando la sua birra.
“Tanto non funziona. Mi
sono già lamentato io,” disse Georg, “E l’unica cosa che ho ricevuto è stato un
ruggito per niente rassicurante.”
“Meglio non stuzzicarlo
troppo, allora.” Concluse Inge, sedendosi anche lei sul divano di casa Kaulitz.
“Sì, ok, ma ti rendi
conto?”
Lei alzò un sopracciglio.
“Vuole costringerci a fare
un concerto a Monaco in nemmeno due settimane!” esclamò terrorizzato il
cantante.
“Non siamo pronti!” lo
sostenne Georg.
“Ma cosa c’è da preparare,
scusa? Avete già e vostre canzoni!” sorrise ironica.
Tom e gli altri ragazzi si
lanciarono occhiate eloquenti.
“Allora ho il permesso di
metterle le mani al collo?”
“Fai pure, tanto è la tua
donna…” mormorò Georg. “Ma non so se riuscirai nel tuo intento.” Ridacchiò.
La rossa lo guardò
soddisfatta. Aveva la sua reputazione da mantenere, lei! E tutti avevano una
vaga idea delle sue capacità di difendersi da eventuali attacchi.
“Ma a me vuole bene,”
sorrise strafottente Tom, girandosi verso di lei. “Non mi farà mai del male,” le
mise una ciocca di capelli dietro l’orecchio. “Vero?”
“Vuoi una dimostrazione?”
lo sfidò lei, iniziando ad accumulare la saliva con palesi movimenti della
bocca.
“Accidenti quanto sei
permalosa!” biascicò Tom, roteando gli occhi, per poi afferrare il telecomando
sul divano vicino a lui.
“Accidenti quanto sei
permaloso!” lo emulò lei.
“Rincominci a farmi il
verso?” la riprese stizzito.
“Io non ti faccio il
verso!” fece lei, stizzita come Tom.
“Quanto siete infantili…”
borbottò Bill tra sé e sé, alzando gli occhi al cielo.
Il rasta sbuffò esasperato,
mentre gli altri due ragazzi soffiavano le risate.
Inge si avvicinò a lui e
gli posò una mano sul viso, per farlo voltare nella sua direzione.
“Dai, lo sai che scherzo.”
Sorrise. “Ma cosa puoi farci se con me non hai speranze?”
Il ragazzo, allora, posò
lentamente la bottiglia di birra che teneva in mano e sospirò. Poi, di scatto,
si girò verso la ragazza e la prese per le spalle, facendola cadere stesa sul
divano, mentre lei cercava di allontanarlo invano. Posò le sue labbra sulle sue
e le rubò un bacio.
“Ehi! Non vogliamo
assistere ad uno spettacolo porno!” commentò Georg. “E poi, ci sono pure dei
bambini in questa stanza.” Ridacchiò, indicando Bill, che alzò un dito per
niente nobile nella sua direzione.
Tom si incupì: per un
momento, quelle parole appena sentite lo fecero pensare ad un altro bambino.
“Scusa.” Farfugliò il
bassista, rendendosi conto del gioco di parole involontario.
“No, non ti preoccupare.”
Si affrettò a dire Tom, ricomponendosi sul divano e prestando maggiore
attenzione al telegiornale della sera che proprio in quel momento stava andando
in onda.
Inge si alzò a sua volta e
si appoggiò alla spalla del ragazzo, facendosi abbracciare da Tom. Ebbe un
fremito quando gli toccò la pancia.
“E dopo le notizie
politiche, passiamo ai fatti di cronaca.” Disse la bionda giornalista.
“Arrestati per spaccio.” Lesse sui fogli che teneva in mano.
Iniziò un servizio che
presentava le periferie di Amburgo, per poi fermarsi su una piccola casa
malridotta – molto simile a quella in cui viveva Inge.
Mentre la giornalista
parlava, la telecamera inquadrò i colpevoli al momento della cattura, che
tentavano di coprirsi dai flash che come avvoltoi, li assalivano.
“… un uomo di trentanove
anni e una donna di venticinque.” Disse bionda alla tv.
Vennero, poi, mostrate le
foto delle due persone: lui era un uomo anonimo. Capelli neri, occhi cupi ed
incavati, naso grosso e una bocca praticamente priva di labbra.
La donna era…
Tutti i presenti nella
grande sala sgranarono gli occhi.
Era Melanie!
Tom afferrò violentemente
il telecomando e alzò il volume per ascoltare meglio ogni parola.
“Melanie Vedel e
Benjamin Hoffmann.
Il bambino che viveva con loro, Alexander Vedel, è stato affidato ai servizi
sociali.”
Sullo schermo apparve una
foto del bambino. Ma, contrariamente ai ricordi che i ragazzi avevano di lui,
quella foto presentava Alex triste e spaventato.
“Merda…” imprecò Tom,
spengendo il televisore.
“Cazzo…” si unì Bill.
“Cosa possiamo fare?”
chiese Inge.
“Non lo so.” Rispose il
ragazzo accanto a lei.
“Potremmo andare ai servizi
sociali.” Propose Gustav.
Ma nessuno rispose. Tom non
avrebbe voluto far altro. Andare laggiù dimostrare il suo legame con il bambino
e riportarlo a casa. Purtroppo, sapeva che non era così facile fare una cosa del
genere. Innanzitutto, ci sarebbe stato da provare la loro parentela. Magari con
test del DNA che avrebbe preso chissà quanto tempo: non per tutti questa
faccenda aveva importanza.
Tom stese la testa sullo
schienale del divano e si coprì il viso con le mani, serrando gli occhi.
Possibile che non ci
fossero possibilità di riaverlo?
Certo, era preoccupato
anche per Melanie, ma lei era adulta e aveva fatto la sua scelta. Ora avrebbe
dovuto accettare le conseguenze.
Ma Alex era un bambino! Era
la vittima principale in tutto questo! Lui non meritava di passare la sua
infanzia in un edificio dei servizi sociali! Lui aveva una famiglia! Per questo
doveva tornare da loro!
Il ragazzo sospirò
profondamente per mantenere il controllo.
Doveva trovare una
soluzione.
Alex sarebbe tornato da
loro.
***
Il campanello suonò.
“Bill, puoi andare tu?”
chiese al fratello, mentre sorseggiava un succo di frutta rubato al fratello.
Il moro alzò la testa dal
tavolo e lo guardò torvo.
“Non vedi cosa sto
facendo?” domandò, mostrandogli una mano con due dita smaltate e una terza
pronta per il servizio.
Tom sospirò.
“Che palle.” E si alzò per
raggiungere l’ingresso. Attivò il piccolo schermo per vedere chi fosse ed azionò
il microfono alla vista di una donna tutta in tiro davanti alla porta.
“Chi è?”
“Sono dei servizi sociali.”
Si presentò lei.
Tom aprì subito il
cancello, facendo altrettanto con la porta d’ingresso per farla accomodare in
casa.
“Buonasera.” Salutò
educatamente. “Sono Anna Berger,” e gli porse una mano. Tom contraccambiò la
stretta. “Sono qui per un fatto alquanto curioso.” E si chinò per poter aprire
la valigia che teneva nell’altra mano.
“Ah, aspetti.” La fermò il
ragazzo. “Venga in cucina.” E l’accompagnò nella stanza accanto.
La donna ringraziò e posò
la borsa sul tavolo, tirando fuori numerosi documenti.
Bill tolse tutti i suoi
strumenti per fare spazio e rimase a guardare silenzioso.
Quando la signora Berger
ebbe trovato i fogli che le interessavano, ripose tutto nuovamente nella borsa e
chiese il permesso di sedersi.
Tom, quasi, la incoraggiò.
Il fatto che una dei servizi sociali fosse a casa loro, significava solo che era
una cosa legata ad Alex. L’unico dubbio che aveva riguardava il modo in cui era
arrivata a casa loro.
“Allora,” tossì per
iniziare. “Vengo per parlare di Alexander Vedel.”
“Di Alex?” fece una voce
femminile dalla soglia della cucina.
Tom si girò a guardare
Inge, che si strusciò velocemente una mano sugli occhi. Che fossero lacrime o
stanchezza, non seppe dirlo.
“Sì.” Rispose la donna,
sorridendo. Il fatto che tutti in quella casa fossero attenti a questa faccenda,
doveva averle fatto una buona impressione delle persone che vi vivevano.
La ragazza entrò nella
stanza e si sedette su una delle sedie, le mani sulla pancia, mentre Tom la
raggiunse e si mise dietro di lei, le mani sulle sue spalle. Erano tese.
“La signora Vedel ha fatto
il vostro nome.” Annunciò. “Voleva che suo figlio venisse affidato a persone che
sapeva lo avrebbero accudito e fatto crescere nel migliore dei modi.”
“Cosa?” balbettò Tom.
“Se non vuole, è libero di
non accettare.”
“No!” replicò subito il
ragazzo. “Accetto.”
“Prima di essere troppo
precipitosi, è meglio che vi informi delle grandi responsabilità che comporta il
suo affidamento, per non parlare delle spese…”
“I soldi non ci mancano.”
Puntualizzò Bill.
“E per le responsabilità?”
“Non si preoccupi. Ci
prenderemo cura noi di Alex.” Rispose deciso Tom.
“Perfetto.” Sorrise la
donna. “Allora, ho bisogno di una firma qui,” e gli mostrò dei documenti. “E
qui.” Voltò la pagina del fascicoletto, per poi offrirgli una penna.
Tom la prese determinato e
non si fece ripetere niente. Firmò.
“Per le altre pratiche, vi
aspetto nel mio ufficio domani.” E posò sul tavolo il suo biglietto da visita.
“D’accordo.”
La signora Berger sorrise e
ripose i documenti nella sua borsa. Tom l’accompagnò alla porta di casa, seguito
da Bill ed Inge e le aprì la porta, come segno di galanteria e ringraziamento.
“Ah,” si fermò la donna,
imbarazzata. “Scusi, lo so che non è proprio il momento, ma…” tirò fuori dalla
borsa un blocchetto ed una penna. “Non è che potreste dare un autografo a mia
figlia?”
I gemelli si guardarono e
soffiarono una risata, per poi accettare volentieri. Una volta ottenuto il
regalo per la figlia, la donna li salutò e se ne andò.
Tom chiuse la porta e
guardò gli altri due. Sentiva dentro una voglia immensa di gridare, di piangere,
di ridere e chissà quant’altro. Era felice. Tanto felice.
Così felice che afferrò
Inge per la vita e la strinse forte a sé.
“Ehi, calmati!” lo
allontanò lei, sorridendo. “Mi fai male alla pancia.” E se la massaggiò.
“Ops.” Si grattò la testa
lui. “Cazzo! Sono troppo esaltato!” urlò. “Finalmente riesco a fare una cosa
buona per mio figlio.”
“Guarda che stai diventando
patetico.” Lo riprese Bill, incrociando le braccia al petto. “Già mi è bastato
il periodo prima del nuovo anno.”
“Fottiti!” e gli mostrò il
famoso dito, sorridendo strafottente.
“Ehi, tu.” Lo indicò Inge.
“Sappi che se Alex ritorna, il tuo linguaggio dovrà adattarsi.”
“Sarà molto difficile.”
Commentò ironico Bill.
“Grazie, eh!” si finse
offeso Tom, avvicinandosi al fratello e scarruffandogli i capelli, che solo
mezz’ora prima si era sistemato, dopo averci impiegato poco più di due ore.
Bill sbiancò, per poi
assumere tonalità rossastre.
“Brutto cretino con il
cervello di un’ameba cerebrolesa!” gridò Bill, rivoltandosi verso Tom, che
iniziò a correre per la casa, tentando di fuggire dalla prossima ira funesta del
moro.
“Mentre voi vi uccidete,
chiamo Gustav e Georg per avvertirli, ok?”
Un urlo di Bill – chissà
dovuto a cosa – fu l’unica risposta che ricevette. Lo prese per un sì.
***
“Papà!”
Un mormorio soffocato cercò
di esprimergli il suo disappunto.
“Dai, papà!” e iniziò a
battere alla porta.
“Alex, ti prego…” si
lamentò il ragazzo.
“Ma è tardi!” obbiettò.
“Avevi promesso che stamattina si giocava!”
“Sì, la mattina, non
all’alba…”
“Ma Inge si è già alzata da
tanto tempo…” piagnucolò, battendo debolmente ancora una volta la mano sulla
porta.
Tom si rigirò tra le
coperte.
“Ok, va bene. Forza,
entra.”
La porta non tardò ad
aprirsi e subito Alex saltò sopra le coperte. Peccato che sotto ci fosse lo
stomaco del ragazzo, che si ritrovò a tossire per il dolore.
“Scusa, ti ho fatto male?”
piegò la testa di lato, dispiaciuto.
“No,” diede un colpo di
tosse. “Tranquillo.” Tossicchiò ancora. “Mi hai fatto solo ritornare in bocca la
cena di ieri.”
“Come le mucche?” sorrise.
“Vuoi dire che sono una
mucca?” lo minacciò scherzosamente Tom.
“No, tu sei un uomo, ma
quando fai: ‘mmmgh’,” imitò il verso di quando mugola la mattina,
chiudendo gli occhi e facendo una smorfia. “Sembri davvero una mucca!”
“Ehi, piccola peste!” lo
prese per la vita per non farlo scappare. “Sai chi stai offendendo?”
“Una brutta mucca con i
capelli sporchi!” ridacchiò lui, cercando di liberarsi dalla presa.
“I miei capelli non sono
sporchi!”
“Sì, invece! Sono molto più
grossi dei miei.”
“E allora?” alzò un
sopracciglio scettico.
“Vuol dire che c’è tanto
sporco attaccato!” disse come se fosse la cosa più ovvia al mondo.
Tom lo guardò perplesso,
poi, ripensando alla sua frase, non poté trattenersi dal ridere.
“Perché ridi?”
“Perché hai detto una cosa
davvero strana.” Lo liberò dalla presa, per poi alzarsi. Tanto ormai, rimanere a
letto non aveva senso.
“Non è vero!”
“Sì, che è vero!”
“Cosa è vero?” chiese Inge,
sulla soglia della camera.
“Inge!” la salutò Alex.
“Vieni a giocare anche tu!” e le fece gesto di avvicinarsi.
“Ok, ma fate attenzione.
Sono stanca.” Si preoccupò.
“Certo, se ti svegli così
presto…” fece Tom ironico.
“Qualcuno deve pur lavorare
per portare i soldi in questa casa, no?” scherzo la ragazza, sedendosi sul
letto.
“Inge, papà ha detto che
dico cose strane!” la tirò per la maglietta per riavere la sua attenzione.
“Cosa?” sorrise, fingendosi
arrabbiata con il ragazzo. “Ma come osa questo…” e tentò di cercare una parola
che potesse offenderlo delicatamente per accontentare Alex.
“Questa mucca!” rise il
bambino.
“Mucca?” ripeté perplessa
la rossa.
“Lasciamo perdere…” sviò
Tom, sospirando.
“Sì, è una mucca! Quando fa
quei versi buffi nel letto, sai?”
Inge capì e rise di gusto.
“Sai che non ci avevo mai
fatto caso, Alex? Già, Tom è una mucca!” ridacchiò.
“Eh no!” ribatté lui. “Ora
la pagate!” e montò di nuovo sul letto. Inge afferrò Alex e lo imprigionò in un
abbraccio, mentre Tom avanzava lentamente a quattro zampe verso di lui, che si
dimenava divertito.
“Prima lui!” diceva Inge.
“È stato lui ad offenderti per primo!”
“Non l’ho fatto apposta!”
strillava quella piccola peste, scalciando e ridendo.
“Non mi importa.” Decretò
Tom, sorridendo sadico.
Si buttò su di loro e li
schiacciò.
“Papà! Soffoco!” si lamentò
Alex. “Sei pesante!”
“Tom, accidenti! Mi fai
male alla pancia!” piagnucolò Inge.
“Vedi a mangiare troppo?”
sorrise lui, allungando il collo per poterla baciare sulla fronte.
“Bleah!” fece Alex. “Ci
sono io nel mezzo! Non fate le cose da grandi, dai!” e sgusciò dall’insolito
abbraccio, lasciando che Tom rimanesse sopra Inge. “Io vado a giocare con Bill!”
annunciò, prima di correre per il corridoio contento.
“Che dici, continuiamo a
fare le cose da grandi?” la provocò, strusciando il naso contro il suo
collo.
“Tom…” sospirò lei. “Sei
insaziabile!” rise.
“Ti dispiace?”
“A me tanto.” Rispose una
voce impastata dal sonno fuori dalla stanza.
I due ragazzi guardarono
verso la porta e videro Bill, appena svegliato con Alex per mano. Sembrava gli
fosse esplosa una bomba in testa, per il modo in cui erano i suoi capelli
corvini.
“Se volete fare cose
sconce, almeno chiudete la porta – magari anche a chiave. C’è un bambino, vorrei
ricordarvi… sembrerebbe, sennò che voleste fargli vedere una prova pratica di
come nascono.”
“Perché? Come nascono i
bambini?” chiese Alex, tirandolo per il braccio.
Bill sgranò gli occhi,
spaventato.
“Ora te lo tieni!” lo
canzonò Inge.
“Hai voluto fare la
battuta? Ora spiegaglielo!” rincarò Tom.
Il moro assunse un’aria
disperata alla continua insistenza Alex, chiedendo aiuto, ma Tom gli fece segno
di andarsene. Bill, quindi, sospirò e chiuse la porta, per poi dirigersi verso
il piano inferiore con Alex, curioso di sapere la risposta alla sua imbarazzante
domanda.
Il ragazzo, rimasto solo
con Inge nel buio della stanza, scivolò accanto a lei e l’abbracciò.
“E tu che dici?” le
sussurrò all’orecchio. “Lo vorresti un bambino?”
“Perché?” chiese subito
lei. “Tu lo vorresti?”
Lui ci pensò un attimo.
“Bè, diciamo che tanto sono
già allenato.” E la baciò sul collo, mentre con le mani l’accarezzava sui
fianchi.
Inge lo baciò a sua volta,
prendendo le mani del ragazzo tra le sue e facendole scivolare per il proprio
corpo, fino a posarle sulla pancia.
“Ma questo sarà più
piccolo.” Sorrise lei sotto le sue labbra.
“Vorrà dire che
impareremo.” Mormorò, abbassandosi. Le sollevò la maglietta, scoprendole il
ventre e le lasciò un bacio, per poi alzarsi nuovamente ed abbracciarla.
Improvvisamente un rumore
per niente rassicurante giunse alle loro orecchie.
“Secondo te, cos’era?”
domandò preoccupata Inge.
“Non ne ho la più pallida
idea.” Rispose altrettanto preoccupato. “Ci crollerà la casa addosso,
ora?”
“Esagerato!” gli diede una
leggera spinta sulla spalla.
“Forse è meglio andare a
vedere.” Propose Tom, alzandosi. Si infilò i pantaloni di una tuta che trovò sul
pavimento e aspettò che Inge lo raggiungesse. Le mise, poi, un braccio intorno
alle spalle ed insieme uscirono, dirigendosi verso il luogo del delitto.
Lei gli passò un braccio
intorno alla vita nuda e si preparò ad assistere al peggio.
Questo era l’inizio di una
nuova giornata. Una delle tante in cui i problemi forse sarebbero diminuiti, o –
molto più probabilmente – sarebbero aumentati. Casa Kaulitz, dopotutto, non era
mai stato un posto tranquillo, e ora che ad abitarvi erano più numerosi, non
potevano minimamente pensare che la tranquillità potesse regnare. Per persone
con il loro carattere, la tranquillità non era proponibile.
Certo, ci sarebbero stati
momenti di conflitto, di tensione, forse di rabbia. Però, tutto si sarebbe
risolto, in un modo o in un altro. Sarebbe bastato desiderarlo, perché mai è
concesso un desiderio senza che sia dato anche il potere di farlo avverare. Può
darsi, tuttavia, che si debba faticare per esso.
¤°.¸¸.·´¯`» «´¯`·.¸¸.°¤
Ende
____________________________________________
Chi l'avrebbe mai detto? Anche
questa fan fiction è finita. Questo era l'ultimo capitolo del sequel di 'Sopravvivere',
l'ultima avventura di Tom, Inge, Bill, Georg, Gustav (per loro due, mi scuso per
averli trascurati per praticamente tutta la durata della storia) e Alex.
Bè, che dire, se non che mi dispiace
tantissimo - proprio come scrissi nell'ultimo capitolo della ff precedente...
Ok, svelerò una cosa: ho
volontariamente lasciato una certa cosa in sospeso, seminando qualche
dettaglio qua e là per il capitolo. Chissà... se mi verrà l'ennesimo colpo di
pazzia, potrei anche vedere di creare ancora qualcosa al riguardo, ma come al
solito, non garantisco niente. Prima di tutto, perché ho intenzione di portare
avanti le altre ff iniziate e mai concluse - fatto che mi infastidisce
parecchio..^^" - e poi perché tra praticamente 100 giorni (104 per l'esattezza)
iniziano gli esami e io dovrei seriamente mettermi sotto con lo studio. V_V
Quindi, boh, vedremo... forse il
prossimo anno!^^
Per cambiare argomento, ora voglio
mostrarvi la foto che io ho trovato per
Inge
- aggiungendone anche un'altra come
alternativa, perché mi sembrava abbastanza somigliante a come me la immagino
io.
Inoltre, sono stata felice di aver
ricevuto le vostre opinioni al riguardo:
Zickie ha pensato a
lei, come Inge.
Antonellina,
Lindsay Lohan.
fliegen88 ha trovato
quest'altra.
Infine, Devilgirl89 mi ha
mandato una mail con la descrizione: bè, non è proprio come me l'ero immaginata
io - se hai visto le immagini, capisci - però non mi dispiacerebbe fosse anche
come l'hai descritta tu.^^
Mmm, spero di aver citato tutti... E
se ho dimenticato qualcuno, bè, fatemelo sapere che lo aggiungerò!
Ed arrivata a questo punto, penso
non mi manchi altro che ringraziare tutti coloro che mi hanno seguita,
sia commentando, che aggiungendo la storia tra i preferiti:
GELI93
AkatsukiGirl
AlYzScHrEiBy
angel1992
angeli neri
Antonellina
babakaulitz
Berlin__ED
BigAngel_Dark
billa483
carla_10
CrazyLalla
cris94
Devilgirl89
ElianaTitti
elisuccia22
elli_kaulitz
ellyk92
erikucciola
FabyVampire
fliegen88
Freiheit
fuckin_princess
Ihateyou
joey_ms_86
Kheth_el
kit2007
Kvery12
ladydarkprincess
Ladysimple
layla the punkprincess
martinaTH4e
marty sweet princess
meris
Moony Magic
nikkei
niky94
noirfabi
outsider
pandina_kaulitz
picchia
pIkKoLa_EmO
Raffuz
rakith
sbadata93
scella90
scrizzoth_95
selina89
sole a mezzanotte
TH Susy TH
tokio94
tokiohotel4e
tokiohotellina95
valevalethebest
vivihotel
xoxo_valy
ylime
Zarah
Zickie
_AngelikaTH_
_Ellie_
Anche in questo caso, spero di
avervi citato tutti...^^"
Bè, che altro resta, ora?
Sinceramente non so, forse... solo
il saluto finale.
Eh già. Siamo arrivati sul
serio alla fine. Come ho già detto, mi dispiace tantissimo, ma è anche vero che
non poteva durare in eterno, questa storia: le mie idee rischiavano di cadere
sulla banalità (e diciamolo, ad un certo punto mi sa proprio che un bel tonfo in
quel campo ce l'hanno fatto...^^"), ma bene o male, a me è piaciuto come si sono
svolte le cose. Certe volte, forse, la vicenda ha preso una piega un po' troppo
dolciastra, quando avrei preferito rimanesse sul tono frizzante, ma giustifico
parzialmente questo fatto, dicendo che in effetti, per certi eventi che ho
trattato, forse l'insulina non era poi così inappropriata. x°D
Voi che dite? Vi è piaciuta? Spero
di sì, anche perché se mi avete continuato a seguire senza che vi siate sentiti
parte della storia, bè, siete parecchio masochisti!=P
Ok, ora è giunta sul serio la fine.
La zona dell'autore non può diventare più lunga del già chilometrico capitolo
che vi ho propinato! Quindi è bene che concluda.
Mmm, forse, l'unica cosa che mi
dispiace di questo capitolo, è che è particolarmente frammentato. Inizialmente,
volevo che fosse più lineare, ma alla fine ha preso questa strada. Ma forse
anche così fa il suo effetto... dopotutto è un epilogo...^^" e gli epiloghi sono
un po' particolari, no? (Sorridete ed annuite. x°D)
Via, ora un grandissimo bacio
a tutti voi! Io vi saluto!
Alla prossima ff, o ad una delle
tante che ho in programma di concludere - forse.
E questa volta, forza, un
commentino lasciatelo, eh!! Che dite? Me lo merito, no?=P
Ps: vi lascio il mio indirizzo msn
(anche se non capita molto spesso che sia in linea...^^"):
irina_89@hotmail.it
Ah, prima che dimentichi: la frase
che ho inserito all'inizio del capitolo è tradotta nella parte finale. A mio
parere è la frase che rappresenta meglio il capitolo (e se vogliamo anche tutto
il resto della storia). L'ho trovata per caso, e subito ci ho visto una perfetta
corrispondenza con 'Just a Kid'...^^
Ora sparisco sul serio. xD
_irina_
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