The stray ones

di Kind_of_Magic
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sapore di miele ***
Capitolo 2: *** Primo intermezzo ***
Capitolo 3: *** L'uomo pallido ***
Capitolo 4: *** Ti sento ***
Capitolo 5: *** Da solo ***
Capitolo 6: *** Fiabe da un'altra vita ***
Capitolo 7: *** Noi e voi ***
Capitolo 8: *** K ***
Capitolo 9: *** Gelo d'Inverno ***
Capitolo 10: *** La vita ***
Capitolo 11: *** Ritornare ***
Capitolo 12: *** Secondo intermezzo ***
Capitolo 13: *** Non berrò ***
Capitolo 14: *** Adesso ***
Capitolo 15: *** Gli uomini incuranti ***
Capitolo 16: *** La testa piena di menzogne ***
Capitolo 17: *** Sommesse e senza senso ***
Capitolo 18: *** Terzo intermezzo ***
Capitolo 19: *** Nel nostro minaccioso sotterraneo ***
Capitolo 20: *** Nella tua mente ***



Capitolo 1
*** Sapore di miele ***


Sapore di miele


Parte I Gli uomini incuranti

Sapore di miele

Una luce mi tormenta.
Il suo ostinato spirito mi consuma
come lo stoppino di una candela,
ma non sono io la candela,
io sono solo una clessidra capovolta
senza più sabbia da offrire
al tempo tiranno,
senza più sabbia come tributo
al dio tempo
per un sorriso, un’ultima parola.

Me li hanno concessi, ho pagato l’ultima moneta,
mi sono votato al sonno
e desidero dormire.
Ma allora come può essere
questa luce che mi acceca?
Forse che non dormo?
Il tempo mi ha disdegnato la pena capitale
e ora giaccio qui in ergastolo
nel limbo degli insolventi debitori di sabbia
che se la contendono
come bambini al parco giochi.

Questa luce è la vita,
una nuova possibilità,
qualcuno ha garantito per me a quello strozzino,
oppure è la morte che accorre,
con la lentezza di colui che sa cosa accade,
con la fretta di chi vorrebbe essere altrove?

Sia respiro o apnea,
stasi o velocità
qualunque cosa mi si stia accostando,
giunga presto a liberarmi
da questa impietosa luce
che mi tormenta mentre qui giaccio in prigionia,
con in bocca soltanto
il sapore di miele della vita.

Aprì gli occhi. Li richiuse immediatamente perché la luce era troppo forte. Le sue orecchie erano tormentate da un rombo simile a quello delle cascate. Pietro ricordava quel suono: avevano fatto una piccola escursione per vedere delle cascate una volta, quando ancora andava tutto bene. Quando ancora non c’era la guerra. Quando erano loro quattro e non loro due. Non ricordava molto di quei tempi, ma ogni volta che ci ripensava gli tornava in bocca un sapore di miele. Sua madre adorava il miele, lo metteva in qualunque dolce facesse. Poteva ancora sentire i denti appiccicati come quando addentava il croccante di sesamo che la mamma faceva ogni anno per il loro compleanno. La sensazione era terribile, ma il gusto ne valeva davvero la pena.
Tentò di nuovo di aprire gli occhi, ma la luce era ancora insopportabile. Era così bianca. Una luce di un altro colore forse non gli avrebbe dato così fastidio, ma così bianca era l’essenza stessa della luce. I suoi occhi non erano decisamente pronti a tutto ciò. Nel frattempo, il rombo nelle sue orecchie si era attenuato al livello di un ronzio che non portava con sé nessun dolce ricordo ma era in compenso assai meno fastidioso. L’attutirsi di quel rumore di fondo gli permise di sentire un altro suono: il bip-bip di un macchinario. Si assopì per qualche minuto, cullato dal suo ritmo.
Quando si risvegliò, non era cambiato nulla: la luce non era meno bianca, il ronzio non era tornato un rombo, il macchinario non aveva cambiato ritmo. Il ricordo del suo sogno lo colpì più accecante della luce che stava appostata dietro alle sue palpebre. Vedeva un jet che sparava, Occhio di Falco con un bambino in braccio e la sua mente che come al solito pensava più veloce delle sue gambe. Spostare la macchina, coprire i due, salvare delle vite. Ma come al solito per pensare in fretta aveva dimenticato qualcosa: non aveva pensato che tra quelle vite non c’era la sua. L’ultimo saluto a Barton, Wanda che urlava nella sua testa e poi solo il buio.
E ora questa insopportabile luce bianca e questo bip-bip che da soporifero si stava lentamente trasformando in fastidioso. Pietro non dubitava che sarebbe poi diventato irritante e così via, fino a farlo impazzire completamente. Ma d’altra parte, forse era già pazzo, se era lì, convinto di essere morto. O magari era morto. Non che si sentisse morto, ma c’era da dire che, dato che non era mai morto, non poteva esserne certo. Quello di cui era sicuro era che non riusciva a muoversi. Poteva battere le palpebre, respirare e inumidirsi le labbra –cosa che fece più volte– ma i suoi muscoli del corpo, quelli che aveva imparato a usare alla massima velocità, erano completamente separati dalla sua volontà. Poteva ordinarsi di correre, di strofinarsi le palpebre, anche solo di piegare leggermente il ginocchio, ma non poteva fare fisicamente nessuna di queste cose. In effetti era una cosa che avvalorava l’ipotesi della morte.
Ma se era davvero morto, allora dov’era? In un qualche tipo di aldilà? E se era vivo, che gli era successo? E perché quella maledetta luce bianca?
Prima di cadere di nuovo in uno stato di incoscienza più profonda del sonno, pensò che aveva voglia di miele. E più precisamente di croccante al sesamo.
 
Dall'altra parte dell'oceano Atlantico, Wanda spalancò gli occhi nell'oscurità e si mise a sedere sul letto. Si voltò verso il proprio comodino: erano le tre e dodici. Era ormai abituata a svegliarsi per gli incubi che la tormentavano, ma era certa che non fosse colpa dell'incubo, quella volta. Sentiva l'assurdo bisogno di sorridere, cosa che non le era più successa da dopo la battaglia in Sokovia, da dopo la morte di Pietro. Le era capitato di sorridere, questo è vero. Tutti si erano impegnati moltissimo per riuscire a farle fare anche un mezzo sorriso, Visione per primo, ma quel bisogno impellente di sorridere senza motivo non era mai più tornato. E ora eccola lì, seduta nel proprio letto, perfettamente sveglia alle tre e dodici del mattino, sorridente come nessuno dei Vendicatori l'aveva mai vista.
Si alzò, uscì dalla propria camera e andò in cucina, ignorando il pavimento freddo a contatto con i propri piedi scalzi. Aveva chiesto a Stark di farle vedere dove fosse il miele solo qualche giorno prima, perciò lo ricordava bene. Quello che non aveva calcolato era che Stark era salito su una sedia per arrivare all'altezza della mensola dove si trovava il barattolo, e perciò lei la sfiorava solo con le unghie. Fissò per qualche secondo il miele, poi decise che se avesse seguito l'esempio del padrone di casa avrebbe fatto troppo rumore e perciò i suoi poteri erano la scelta migliore. Cominciò a spostare con la telecinesi il barattolo sempre più vicino al bordo della mensola, poi si fermò un attimo, temendo di star disturbando gli altri. Non sentendo nulla, continuò: aveva appena cominciato a far fluttuare il barattolo e stava per farlo scendere verso di sé, quando una mano lo afferrò.
Wanda si spaventò terribilmente, perché non aveva sentito Clint entrare. «Così è più facile, no?» sorrise l'uomo porgendole il barattolo. La ragazza non riusciva proprio ad arrabbiarsi, a causa della felicità immotivata che continuava a sentire dentro di sé. Prese il miele e ricambiò il sorriso di Clint, in silenzio. Poi gli indicò il tavolo e si sedette, rigirandosi il barattolo tra le mani.
«Hai fatto di nuovo un incubo?» le domandò Barton con un sospiro.
«Al contrario» rispose criptica Wanda, non smettendo di sorridere.
«Un bel sogno, allora?»
«Diciamo di sì, uno di quelli che a raccontarli si rovinano»
Clint aveva proprio intenzione di chiederle cosa avesse sognato e fece un lieve cenno con la testa per farle capire che il messaggio era arrivato.
«Ma perché il miele?» domandò invece
«Mi piace, mi fa tornare alla mente dei bei ricordi. E poi il sogno mi ha fatta svegliare con una voglia incredibile di prenderne almeno un cucchiaino» glielo offrì, ma l'uomo rifiutò e restò a guardarla mentre assaporava lentamente il miele, un cucchiaino per volta. Solo dopo un po' capì: «Si tratta di tuo fratello, vero?»
«Avevo detto che era uno di quelli che si rovinano a parlarne»
«No, se non è davvero un sogno. Wanda, è uno di quei vostri sogni?»
«Non lo so» confessò «lo spero, questo è ovvio, ma non ne sono certa. È la prima volta che lo sogno così, così... Come quando eravamo piccoli e facevamo i sogni insieme e poi ce li ricordavamo tutti e due. Ho sognato quello che sogno ogni notte, ma stavolta era diverso. Io credo che forse...»
«Wanda, io credo che forse tu stia cominciando ad accettare quello che è successo. Devi lasciarlo andare, ormai è passato abbastanza tempo perché tu lo capisca»
«No» sembrava una bambina impaurita, ma aveva la determinazione di un'adulta «No, non capisci. Pietro è vivo, io lo so e basta. Se lo lasciassi andare, lo abbandonerei proprio ora che forse ha bisogno di me»
«Non avrà più bisogno di te, Wanda, perché non mi ascolti?»
«Perché non mi ascolti tu? Tu lo sai cosa sento dentro? No, ed è per questo che non capisci. Tu credi di sapere cos'è la vita, l'amore, la morte, ma non sai e non saprai mai cosa c'è tra due fratelli come noi. Non puoi giudicare» richiuse il barattolo del miele e lo lasciò sul tavolo. Se ne andò, dopo avergli chiesto di rimetterlo a posto, augurando sottovoce una buonanotte, per quel che rimaneva della notte. Neanche quella breve discussione era comunque riuscita a spegnere la sua serenità e fu solo quando tornò nel letto che si accorse di non avere la minima idea del perché Clint fosse sveglio.
 
La dottoressa Helena Mazur entrò nella stanza senza preoccuparsi di non fare rumore, come invece faceva per altri pazienti: tanto il ragazzo non si accorgeva di nulla. Appena lo vide, però, si pentì dei propri pensieri, come faceva sempre. Il ragazzo dormiva, se si poteva chiamare dormire quello stato che era appena sopra quello comatoso. Il suo volto, incorniciato dai capelli biondi spettinati sempre allo stesso modo, aveva la solita espressione angelica di un bambino che sogna. Per la prima volta, però, la donna notò che sulle sue labbra era dipinto, incorniciato dai baffi e dal pizzetto, un lieve sorriso. Non se n’era mai accorta prima, eppure erano mesi che andava da lui ogni giorno per controllare la situazione. Si avvicinò al computer che era sul tavolo di fronte al letto e premette un tasto, con la sicurezza di chi ripete un gesto ormai abitudinario: sul video comparve il rapporto dei parametri vitali del ragazzo, insieme a tutto ciò che era successo durante l’assenza della dottoressa. Diede dapprima un’occhiata veloce: quella pagina era la stessa da mesi, ormai. Poi però qualcosa attrasse la sua attenzione e riprese a leggere dall'inizio. Si strofinò gli occhi e controllò ancora: era proprio così, non se l’era immaginato. Con pochi, rapidi comandi stampò cosa stava leggendo tramite la stampante di una sala non distante.
Pietro Maximoff si era svegliato alle nove in punto del mattino, appena qualche ora prima del suo arrivo. Aveva aperto gli occhi solo due volte e per brevissimo tempo, ma non c’era dubbio che fosse sveglio. Si era addormentato per qualche minuto e poi si era svegliato di nuovo. Circa dieci minuti dopo, alle nove e dodici, era piombato di nuovo in quello stato semi-comatoso in cui l’aveva trovato quel giorno, come tutti quelli prima. Helena non riusciva a crederci.
 
Il colonnello Fury non aveva mai ricevuto molte mail neanche quando era direttore dello S.H.I.E.L.D., perché c’erano un migliaio di controlli e uffici che si occupavano di tutte le faccende che non avevano bisogno di lui in persona. Ora ne riceveva meno che mai, in fondo per il mondo era morto. Fu perciò sorpreso quando vide arrivare una mail. Fu molto sorpreso quando vide il mittente. Fu estremamente sorpreso quando lesse l’oggetto. Inoltrò immediatamente alla signorina Mazur tutto il dossier che richiedeva e rimase a fissare lo schermo anche dopo averlo spento. Pietro Maximoff vivo? Era possibile? Era vero, lo aveva fatto portare in quella clinica in Polonia perché era d’accordo con Scarlet Witch che ci fosse una possibilità di sopravvivenza, ma non aveva mai davvero creduto che il ragazzo potesse uscire dal coma.
Non era veramente uscito dal coma, lo sapeva bene, Wanda lo aveva avvertito che le istruzioni che aveva lasciato prevedevano che venisse avvertito ben prima che si sapesse con certezza come stesse il ragazzo. Non doveva però trascurare il fatto che se già si erano verificate le condizioni perché la dottoressa lo contattasse voleva dire che le possibilità di un risveglio completo erano aumentate drasticamente. Come avrebbe gestito la situazione se fosse successo davvero? Per fortuna, pensò, Scarlet Witch si era preoccupata di lasciare quelle istruzioni. Inizialmente l’aveva lasciata fare perché la cosa la aiutasse a superare la perdita, ma poi leggendola si era reso conto che la lista era stata stilata con cognizione di causa e che sarebbe stata davvero applicabile nella possibilità che Quick Silver si svegliasse. E ora mancava pochissimo che succedesse davvero.
 
La dottoressa Helena Mazur leggeva la lista con gli occhi spalancati e le sopracciglia inarcate in uno sguardo scettico: la signorina Maximoff aveva indicato di chiamarla molto tempo dopo l’inizio dei miglioramenti di suo fratello e dava una serie di istruzioni che non avevano nulla di medico. Perché del miele spalmato regolarmente sulle labbra avrebbe dovuto aiutare il paziente a guarire? Che cosa pensava quella ragazzina, di essere un medico? Helena si irritò parecchio e stava per smettere di leggere, ma poi pensò che in fondo gli ordini del colonnello erano quelli e cambiò idea. Al fondo, dopo ringraziamenti e firma, c’era una nota:
“Per il medico che leggerà questo: lo so che non si tratta di indicazioni per trattamento medico e non pretendo di essere in grado di dirle cosa deve fare. D’altra parte, se Fury ha dato a lei l’incarico di occuparsi di mio fratello vuol dire che si fida delle sue capacità e così faccio anch’io. Non se ne abbia a male, quindi, se mi sono permessa di scrivere questa lista. Si occupi pure di tutti i trattamenti medici del caso, questo sarà qualcosa in più. Non ha bisogno di informazioni su Pietro perché ha già la sua scheda, che ho contribuito personalmente a compilare. Questo è qualcosa che le consiglierei io se fossi lì adesso che si è svegliato, ma per alcuni motivi è meglio che io non sia lì finché, come ho scritto, le sue condizioni non saranno migliori. La prego di fidarsi e fare ciò che ho scritto anche se dovesse sembrarle stupido o inutile. Ancora grazie perché si sta occupando di mio fratello.”
La donna sorrise leggendo le parole di quella ragazza e l’affetto viscerale che traspariva da quelle parole in apparenza così formali. Decise che, senza averla mai conosciuta (Wanda non aveva voluto), la signorina Maximoff le piaceva. Cercò quello che le serviva e poi rientrò nella camera di Pietro con più attenzione di quanta ne avesse mai fatta. Il paziente non si era mosso di un millimetro, il sorriso sul suo volto non aveva subìto il minimo cambiamento. La dottoressa si avvicinò e gli tolse i capelli da davanti al viso, poi gli spalmò le labbra di miele come indicato dalla signorina Maximoff e se ne andò.
 
Quella notte, alle tre e dodici Wanda Maximoff non si svegliò, ma sorrise inconsapevolmente nel sonno quando il suo incubo si tranquillizzò e tutto assunse una tinta argentea. Al mattino non ricordava nulla, ma era sempre più certa della sua sensazione: suo fratello era vivo, ormai era solo questione di aspettare che stesse abbastanza bene da richiedere la sua presenza. Spalmò il miele di acacia sulla sua fetta di pane e sorrise mentre faceva colazione: Visione la guardava di sottecchi.
«Vuoi finirlo in fretta quel barattolo!» scherzò l’androide.
«Mi piace» fu la semplice e serena risposta che ricevette. Visione le fece l’occhiolino, allegro. Wanda evitava sempre di pensarci, ma lo sapeva che qualcosa stava succedendo.
 
Il giorno dopo, la dottoressa Helena Mazur controllò i rapporti: il ragazzo si era svegliato alle nove e si era addormentato alle nove e dodici, di nuovo.
E il miele era sparito.




The Magic Corner:
Ehilà! Grazie per aver dedicato un po’ di tempo a questa fic che sinceramente non so proprio come mi sia venuta in mente. Lo so, in questo capitolo non si vedono gli Avengers e non si nota l’AU, ma date tempo al tempo! Vorrei dedicare questo capitolo alle mie sorelle, perché non so cosa farei io al posto di Wanda. L’intera fic, invece è dedicata a GreekComedy, perché è un po’ anche colpa sua se l’ho scritta (ma lei non lo sa) e perché finalmente può leggere qualche fic tra le mie sul Marvel Cinematic Universe senza spoilerarsi tutto. Un grazie infinito al mio consulente di fiducia sulla Marvel, che come al solito si dimostra fondamentale.

Inoltre, visto che mi piacerebbe mettere qualche altra ship oltre alla ScarletVision, vorrei sapere qual è quella che preferireste (se non avete tempo per una recensione, mandatemi anche solo un messaggio privato con il nome della/e ship). Metto solo qualche limite: le ship non possono coinvolgere Wanda o Visione (evidentemente), gli Avengers del primo film (Hulk, Capitan America, Iron Man, Thor, Vedova Nera, Occhio di Falco) si possono shippare solo tra di loro, tutti gli altri personaggi come vi pare. Se vi chiedete se un personaggio ci sarà oppure no, date per scontato che ci sarà. Potete scegliere anche una ship tra gli Avengers del primo film e una tra gli altri personaggi. Tenete presente che c’è anche un OC (Kim è il cognome, non ho ancora deciso se sarà un uomo o una donna) libero per le ship con tutti tranne gli Avengers. Non vorrei esagerare, quindi ne sceglierò due, al massimo tre.

Vi invito a farmi sapere cosa pensate di questo primo capitolo, anche perché (come tendiamo tutti a dimenticarci) le recensioni sono un sorriso regalato all’autore e non costano nulla!

Che gli dèi siano con voi!

-Magic

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Capitolo 2
*** Primo intermezzo ***


Primo intermezzo

Primo intermezzo



Alla sua sinistra, una donna leggeva una serie di fogli e di tanto in tanto alzava lo sguardo per rivolgergli un'espressione tristemente rassegnata.

Indossava un camice da ospedale che le dava un'aria da medico.
L'uomo era perfettamente cosciente del fatto che non l'aveva mai vista, ma aveva la sensazione di sapere esattamente chi fosse.
Qualcosa che si prova solo nei sogni.
All'improvviso la donna gli voltò le spalle.
L'uomo si sentiva in pericolo e pensò di attaccarla, ma non poteva muovere un muscolo e il solo provarci gli procurava dolori terribili e fitte acute alla testa.
Quando la donna scomparve dal suo campo visivo, l'uomo smise di tentare.
Poi, però, ricomparve alla sua destra e poco dopo di lei giunse il dolore.
Fin dall'inizio era particolarmente acuto e si mantenne costantemente forte.
I muscoli gli si contrassero e cercò di nuovo di muoversi, ma l'unico risultato fu l'aumentare a dismisura il proprio dolore.
Poteva solo gridare con tutto il fiato che aveva in corpo.





Clint si svegliò madido di sudore, trattenendo a stento un urlo. Sperava che la chiacchierata notturna con Wanda lo avesse aiutato a rilassarsi e distrarsi un minimo, abbastanza da riuscire a dormire almeno qualche ora, ma purtroppo si sbagliava. Si passò una mano sul braccio destro, poteva ancora sentire distintamente gli aghi che lo pungevano nel sogno, il dolore che lo torturava, le proprie urla che gli rimbombavano nelle orecchie.


Maledizione, perché non riusciva a dormire?

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Capitolo 3
*** L'uomo pallido ***


L'uomo pallido

L’uomo pallido

L'uomo pallido batte le palpebre,
l'immagine non cambia.
L'uomo pallido distoglie lo sguardo,
la realtà si accartoccia,
si scioglie come cera
e si raccoglie si suoi piedi.

L'uomo pallido sa
cosa sta succedendo,
l'uomo pallido vorrebbe
non saperlo.
L'uomo pallido riesce
a distinguere il reale
dall'immaginario,
ma non sa più tra questi
quale sia il vero e quale il falso.

L'uomo pallido è speciale
perché capisce cosa sta succedendo,
ma da solo è inutile,
perché da solo non può fermarlo.
L'uomo pallido sa
cosa fare,
non ha dubbi, come
nessun altro ne avrebbe al suo posto.

L'uomo pallido sa
che quando la realtà trema
e il mondo gli volta le spalle
può chiedere aiuto soltanto
a chi trema davanti alla realtà
e ha voltato le spalle al mondo.


Due settimane dopo
L’uomo una volta noto come il Soldato d’Inverno trovò un biglietto infilato sotto la porta. Abitava oltre la periferia nord di Los Angeles, in quella zona magica in cui la città improvvisamente sparisce e se non vedessi all’orizzonte potresti pensare che non sia mai esistita. Il Soldato d’Inverno non trovava molto magica la sua abitazione, sapeva che quelli che lo cercavano sarebbero potuti arrivare in ogni momento. Fino a quel momento non l’aveva trovato nessuno. D’altra parte, con il crollo dello S.H.I.E.L.D. e quello che era successo a Sokovia, ci sarebbe stato da stupirsi se qualcuno ci fosse riuscito, a meno che non si trattasse di chi pensava lui. Quando vide il biglietto, capì subito che l’avevano trovato: in fondo, stava solo aspettando che succedesse. Non aveva idea di come fosse arrivato lì, ma era sempre stato convinto che non sarebbe andata così. Si era immaginato un gruppo di uomini pesantemente armati e, chissà, magari anche Capitan America o la Vedova Nera. Di certo l’ultima cosa alla quale avrebbe pensato era un foglietto infilato sotto la porta. Forse era qualcuno che gli era amico e voleva avvertirlo di scappare. Ma lui, pensò amaramente, non aveva più nessuno così: Steve, l’unico che potesse fare una cosa simile, con ogni probabilità sarebbe stato nella squadra in arrivo, non in chi lo aiutava a evitarla. Forse qualcuno dell’Hydra? Magari pensavano che stesse ancora con loro e lo volevano per qualche altra missione. Non sarebbe stato più il loro burattino, voleva dirglielo chiaro e tondo. Piuttosto si sarebbe fatto arrestare.
Raccolse il foglietto da terra: era scritto in una grafia ordinata, sembrava femminile perché era tondeggiante e lo fece pensare subito a Natasha, poteva essere stata lei a cercare di avvertirlo. Non era opera della russa, però: il testo non lasciava dubbi. Diceva "Al Passato alle Spalle, tra una settimana, alle nove in punto. Mi riconoscerai. Fai in modo di esserci, a meno che tu non voglia rendere pubblica la tua residenza. Loki". Non poté fare altro che accettare, ovviamente: era preparato all’evenienza che lo trovassero, ma non avrebbe certo aiutato le loro ricerche. Avrebbe incontrato il dio degli inganni, qualunque cosa volesse.


Erano le nove di sera, era passata una settimana. Quello che una volta era il sergente James Barnes era seduto al bancone di un pub della bassa periferia di Los Angeles. Il locale si chiamava “Il Passato alle Spalle”, cosa che Barnes trovava molto ironica, visto ciò che stava passando e la persona che gli aveva dato appuntamento lì. Ci era già stato un paio di volte e il posto non gli dispiaceva, in fondo: Daniel "The Roi" Mammen, proprietario e barman, era uno che aveva sempre una storia da raccontarti se avevi bisogno di non pensare a niente prima di aver bevuto abbastanza e, soprattutto, si accorgeva molto in fretta di quando qualcuno non aveva voglia di rispondere a domande diverse da "ne vuoi un altro?".
Per gli amici, l’uomo seduto nel pub sarebbe stato Bucky, ma ormai non aveva più amici. Indossava un lungo cappotto le cui maniche coprivano anche il braccio sinistro, che l’avrebbe reso un po’ troppo riconoscibile. Si scostò una ciocca dei capelli bruni da davanti agli occhi, fissando il proprio bicchiere quasi vuoto. Avrebbe proprio dovuto tagliare i capelli, si disse, era troppo appariscente così. Il dio degli inganni l'aveva trovato senza la minima difficoltà, o così sembrava, e l'uomo temeva che altri potessero farlo. O forse si chiedeva perché altri non l’avessero ancora fatto.
Non diede il minimo segno di aver notato l'uomo ben vestito che era appena entrato nel locale. Aspettò che si sedesse lì accanto per lanciargli una veloce occhiata ben mascherata: non aveva dubbi che si trattasse della persona che stava aspettando, perché nessun altro sarebbe mai entrato in un posto simile vestito in quel modo, ma c'era qualcosa che gli pareva diverso. Il rapido sguardo confermò la prima impressione. L'uomo aveva, è vero, la pelle tanto chiara da parere bianca che James ricordava dai telegiornali, ma i lunghi capelli corvini pettinati all'indietro con l'aiuto di moltissimo gel erano stati tagliati molto corti ed erano castano chiaro, quasi biondo. Gli occhi risaltavano come sempre a causa dei lineamenti affilati del volto pallido e asciutto, ma erano azzurri e non verdi. Senza degnare Barnes della minima attenzione, il nuovo arrivato ordinò un whisky e prese a sorseggiarlo con noncuranza.
«Soldato d'Inverno» lo salutò in un bisbiglio portando il bicchiere alle labbra esangui. James pensò di correggerlo, dicendo che non lo era più, ma considerò amaramente che ormai per il mondo lui era solo quello. Si guardò intorno: alcuni clienti si erano voltati, incuriositi dall'abito elegante che l'altro portava, ma nessuno aveva notato che questi gli aveva rivolto la parola. Decise di imitarlo e tornò a fissare il proprio bicchiere, parlando a voce quasi inudibile anche per se stesso. «Signore degli Inganni» disse, rispondendo al saluto «Hai cambiato aspetto ma il tuo abito è comunque appariscente in questo locale»
«Non darò nell'occhio»
«Sarà meglio»
Tacquero entrambi. Barnes lasciò trascorrere qualche minuto, riflettendo, poi decise di risolvere il proprio dubbio: «Mi hai trovato con facilità» osservò.
«Ti ho cercato con attenzione»
«Non mi ha trovato nessun altro»
«Perché le persone giuste non ti stanno cercando» James sentì la bocca dello stomaco contrarsi violentemente. Se Steve l'avesse cercato, sarebbe senza dubbio riuscito a trovarlo: Loki era molto, troppo, diretto, ma diceva la verità. Il suo migliore amico di un tempo non l'aveva trovato, quindi non lo stava cercando. Annuì lentamente, tentando invano di accettare il fatto. Attese qualche minuto ancora, poi domandò: «Che cosa vuoi da me, asgardiano?»
«Mi serve il tuo aiuto, umano» fu la risposta «Mi devo rivolgere a te, perché siamo due esseri rimasti da soli. Altri avrebbero qualcuno con cui mantenere segreti, tu puoi agire liberamente»
James accusò il colpo: Loki diceva di nuovo il vero, ormai era rimasto da solo. Steve lo aveva probabilmente dato per morto e nessun altro sarebbe stato contento di vederlo vivo, dopo ciò che aveva fatto. Stava ancora raccogliendo informazioni su cosa avesse effettivamente fatto per tutti quegli anni, su tutti quei crimini di cui non ricordava nulla. Un pensiero lo colpì: se il Signore degli Inganni gli stava chiedendo aiuto, non poteva trattarsi di nulla di buono.
«Non sono più quel Soldato d’Inverno»
«Lo so»
«Allora di che si tratta?»
Il dio finì il proprio whisky in un sorso: «Non qui»
«Allora perché mi hai fatto venire fin qui, Signore degli Inganni?»
«Volevo sapere cosa fossi disposto a fare»
Barnes sorrise amaramente: «Avevo scelta?» Pagò e uscì, poi attraversò la strada si mise ad aspettare l’altro. Circa dieci minuti dopo lo vide uscire dal locale e guardarsi intorno. Aveva qualcosa di diverso: gli occhi erano tornati verdi. Appena notò la sua presenza, Loki cominciò a camminare, rimanendo dall’altro lato della strada. James lo imitò e proseguirono camminando paralleli per qualche tempo, poi il Signore degli Inganni attraversò e cominciò a camminare al suo fianco. Dopo qualche minuto, cominciò a raccontare, tenendo lo sguardo fisso a terra:
«Ero tranquillo e mi facevo i fatti miei, non stavo neppure manipolando la magia o niente di simile, quando all’improvviso mi sono girato e mio fratello era lì. Mi aveva creduto morto, ma non sembrava arrabbiato che avessi finto o stupito di vedermi. Ha cominciato a parlare: mi ha chiesto aiuto, ma non mi ha spiegato il problema. Diceva che se qualcuno poteva sentirlo o aiutarlo ero io»
Si interruppe vedendo che una donna stava arrivando sul marciapiede nella direzione opposta alla loro. I due si allontanarono quel tanto che bastava a lasciarla passare.
Loki contò sessanta secondi da quando lei li aveva superati e poi riprese il discorso: «Continuava a ripetere che aveva bisogno di me, che dovevo trovare il buono che c’era in me e risolvere la situazione. Gli ho chiesto cosa stesse succedendo, di spiegarmi, ma è stato come se non avessi detto nulla. Come se Thor non fosse stato davvero lì, non mi guardava neppure. Ho provato a girargli intorno e lui non se n’è accorto.
A un certo punto mi sono reso conto che non mi stava parlando con la sicurezza che l’avrei ascoltato. Ha detto “Se tu sei morto, il mondo è spacciato”, vuol dire che non sapeva se fossi vivo, capisci? Mi stava parlando, ma probabilmente la sua intenzione era di parlare da solo. Poi si è zittito ed è rimasto immobile, fissava un punto. Mi sono convinto che ci fosse qualcosa e ho guardato anch’io, non c’era niente, ma quando mi sono girato verso di lui, cercando di capire, era scomparso»
Il Soldato d’Inverno si fermò a un incrocio e si guardò intorno. Dopo alcuni secondi passati a scrutare il buio, fece segno all’altro di svoltare a destra. Loki annuì e rimase in silenzio per qualche tempo.
«Allora?» chiese Barnes a bassa voce.
L’asgardiano ricominciò a raccontare: «Non so che magia fosse quella, ma ho controllato e non c’erano manipolatori vicino a me. Ho iniziato a informarmi, sia sulla terra sia su Asgard, per capire chi potesse essere stato. È stato allora che sono venuto a sapere della ragazza.
Si è unita da poco ai Vendicatori, adesso gira con loro, ha partecipato alla battaglia di Sokovia, non so se hai presente. I suoi poteri sono principalmente di alterazione della realtà. Può essere che non li controlli ancora bene e potrebbe avermi mandato una qualche immagine per errore. Oppure potrebbe trattarsi di una trappola. Qualcuno che sa che sono vivo e vuole spingermi a confessarlo a Thor. Comunque lui mi crede ancora morto: non posso permettere che mi veda»
Si fermò e si girò verso il Soldato d’Inverno: «Perciò chiedo a te, devi fare in modo che io possa parlare con la ragazza, trovala da sola e portala via, o qualunque altra cosa, come preferisci. Devo sapere se è stata lei»
«Ma non sarà certo l'unica manipolatrice di magia della terra, Signore degli Inganni, come puoi essere certo che sia lei?»
«Non lo sono, ma la strega è l'unica che conosca. Comincerò con lei»
«E io come dovrei fare a sapere che non ti sei inventato tutto e userai la ragazza per chissà quale altro piano? Non voglio più fare niente di male»
«Ti tocca fidarti. Non hai scelta, come hai detto tu stesso. Il mio biglietto era chiaro»
Più chiaro di così, pensò James. Non avrebbe potuto fare altro che accettare anche l'incarico, dopo essere già andato all’appuntamento dove il dio gli aveva chiesto. Loki considerò a bassa voce che in fondo gli stava facendo un favore. Barnes si bloccò e si voltò a guardarlo.
«Che cosa vuoi dire?»
«Ora hai un'occasione per farti vedere vivo dal tuo adorato Capitano. Senza il mio intervento non ti saresti mai deciso a farlo»
James stava per rispondergli male, ma poi cambiò idea. Si fissarono per attimi che parvero interminabili, occhi azzurri negli occhi verdi, rabbia repressa e disperazione mascherata che si specchiavano in quell'incomprensibile ingenua indifferenza. Alla fine quello che qualcuno avrebbe forse chiamato Bucky cedette: abbassò lo sguardo e se ne andò senza più voltarsi indietro. Loki rimase a fissarlo finché la sua figura non fu scomparsa dietro un angolo.
Doveva essere la ragazza, si disse il dio tornando sui propri passi verso l'alloggio, non poteva essere nessun altro, era lei di certo! Barnes gli aveva ripetuto dei dubbi che si era già posto, ma non poteva rischiare di compromettere tutto tralasciando una singola opzione. La realtà tremava e apparivano immagini che non avrebbero dovuto. Loki sapeva, e forse era l'unico, che questo avrebbe portato solo a un grande tonfo una volta che la realtà fosse caduta in pezzi. Ad ogni attimo che passava erano più vicini, doveva trovare il responsabile il prima possibile o sarebbero morti tutti.
All'improvviso si sentì un eroe.



La dottoressa Mazur si sentiva una sacerdotessa di un qualche culto pagano ogni volta che entrava nella stanza di Pietro Maximoff: compiva gesti quasi rituali e leggeva a mezza voce i parametri vitali come una preghiera. Da quando aveva notato il risveglio del ragazzo alle nove di mattina, i parametri non erano mai cambiati. Erano passate ormai tre settimane e le istruzioni di Wanda richiedevano che oscurasse la stanza quasi completamente e cercasse di essere presente quando Pietro si svegliava, parlando per tutto il tempo che lui rimaneva sveglio. Prima di andare via, la ragazza aveva lasciato una piccola pila di libri sul comodino: Helena avrebbe dovuto prenderne uno e leggerlo, affinché il paziente si abituasse alla sua voce, come fanno le madri con i figli quando ancora non sono nati. Erano le nove meno qualche minuto, ora di iniziare per la prima volta una nuova parte del rituale: con un indicatore vicino alla porta regolò la luminosità e accese, abbastanza distante perché non disturbasse il ragazzo, un lampada per leggere. Prese il primo libro della pila: si trattava di fiabe. Lo aprì e scoprì che non era stampato: vergate in ordinata calligrafia, erano riportate decine di fiabe per bambini. Cominciò dalla prima: “Hansel e Gretel”.




The Magic Corner:

Ehilà! Grazie per aver dedicato un po' del vostro tempo a questi due nuovi capitoli. Li ho pubblicati uno dopo l'altro perchè so bene che un intermezzo non sarebbe stato abbastanza per saziare la vostra curiosità, vero? Vero? *silenzio. L'autrice se ne va piangendo, poi torna*

No, dai, io voglio sperarci che mi stia leggendo qualcuno oltre a quella psicopatica di GreekComedy e quindi continuerò a scrivere.

Per le ship, ho tre proposte attuali (solo mie e di GreekComedy perché il resto del fandom mi ignora): WinterFrost (2 voti), Stony (1 voto), Clintasha (1 voto).  Ora, premesso che tanto la WinterFrost ho già deciso che la metterò (evviva gli anacoluti!), per quanto voi possiate opporvi (no, in realtà se siete abbstanza a non volerla faccio fan-service e non la metto, ma dovete essere proprio tanti, perché me la vedo troppo bene), si tratta di decidere tra Stony e Clintasha (o di proporne altre se volete, trovate i limiti alle ship alla fine del primo capitolo).

Sento già GreekComedy lamentarsi che lei non ha proposto Clintasha: ovviamente, come ben sai, l'ho proposta io. Altrettanto ovviamente, non puoi rivotare la Stony, visto che l'hai proposta tu :D
Questa è l'ultima possibilità per decidere, perché poi ho bisogno di sapere cosa scrivere e devo scegliere. Siate l'ago della bilancia e ditemi cosa devo fare!

Ah, piccola postilla: le recensioni sono gratis... Io ve la butto lì, poi fate voi. Mi piacerebbe in particolare sapere se vi piace l'idea degli intermezzi messi così (o come li vorreste altrimenti, visto che in un modo o nell'altro li devo mettere) e delle code che parlano di altro come quella che ho messo qui. Volevo dare un po' l'idea delle scene dopo i titoli di coda dei film Marvel, ma se non vi convince farò in un altro modo (anche se non so ancora come).

Un grazie enorme a GreekComedy perché sì e a Marvelwiki perché mi aiuta e mi guida sempre.

Che gli dèi siano con voi!
-Magic

Edit: grazie tantissimo a dany the writer per i suoi consigli, una revisione ci sta sempre, mi dicono :)

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Capitolo 4
*** Ti sento ***


Ti sento

Ti sento,
la notte,
quando la casa tace,
la città ronza,
solo i nostri respiri
nel buio

Ti sento
Dovresti dormire,
perché non dormi?
Immobile,
non vuoi che lo sappia,
fingi,
ma io so che non dormi
Il tuo respiro,
appena affannato,
nel buio

Ti sento
Cosa affligge la tua mente?
Tante immagini nei miei sogni,
ma tu
mi aiutavi a venirne fuori
come un’ancora di salvezza,
una lanterna luminosa
nel buio

Ti sento,
le palpebre serrate,
la paura nel fiato,
i pensieri un po’ troppo irreali,
o forse un po’ troppo veri
Io lo so,
stai serrando i denti
nel buio


«Clint» chiamò sottovoce Natasha, senza voltarsi verso il proprio compagno, sdraiato a qualche centimetro da lei. Nessuna risposta le giunse.
«Lo so che sei sveglio» disse ancora Natasha.
Clint fece un respiro appena più profondo degli altri, come muta e rassegnata conferma. Natasha era stata via per diverse settimane: era stato in quei giorni che aveva cominciato a fare dei terribili incubi. Sperava che la presenza di lei l’avrebbe aiutato a dormire meglio, ma la sua paura di addormentarsi rimaneva. La sua mente semplicemente gli impediva di prendere sonno, per il terrore di dover rivivere ancora e ancora quelle scene, quel dolore. Erano giorni che non dormiva. Ogni volta che provava a prendere sonno, il ricordo delle orribili visioni lo riscuoteva e gli impediva di dormire. Se capitava che la stanchezza prendesse il sopravvento, cadeva di nuovo preda di quei terribili sogni: dopo qualche ora si risvegliava, le lenzuola bagnate del proprio stesso sudore, i denti stretti per impedirsi di urlare, le mani che stringevano il cuscino fino quasi a strapparlo.
Sperava che Natasha non se ne sarebbe accorta: aveva finto di addormentarsi, aveva gli occhi chiusi e le mani rilassate e cercava di respirare normalmente, ma la paura gli provocava comunque un minuscolo affanno. Avrebbe dovuto immaginarlo, nessuno poteva tenere nascosto qualcosa a Natasha, tantomeno se dormiva al suo fianco.
«Cosa succede? Perché non stai dormendo?»
Nella mente di Clint si accese una disputa. Una metà di lui voleva raccontarle tutto, cercare di trovare in lei un aiuto, qualcuno che potesse anche solo provare a capirlo. Sapeva che Natasha aveva avuto grossi problemi con incubi e brutti ricordi più volte nella sua vita. Di norma, nessuno vorrebbe che le persone a cui tiene siano esperte in questo genere di cose e così era anche per Clint, ma non poteva cambiare lo stato delle cose ed era un fatto che Natasha fosse probabilmente la persona più adatta ad aiutarlo di tutta l’Avengers Facility, forse di tutta New York. D’altra parte, però, Nat aveva già la sua buona dose di problemi cui fare fronte, senza contare le missioni quotidiane e la convivenza con gli altri Avengers. Clint sapeva quanto fosse stressante tutto ciò e vedeva che Natasha era stanca, anche se faceva finta di essere sempre al top delle forze, perciò non voleva caricare con un altro problema le sue spalle. Scelse una soluzione abbastanza diplomatica:
«Non ho sonno»
«Sì, certo» la voce di Natasha esprimeva tutta la convinzione della sua proprietaria, cioè assolutamente nulla. La donna si voltò verso di lui: sentendola muoversi, Clint dischiuse lentamente le palpebre. Appena il suo sguardo poté penetrare un po’ meglio l’oscurità, distinse chiaramente gli occhi verdi di lei che lo fissavano, o, avrebbe detto Clint, lo trafiggevano.
«Clint, hai sbadigliato fino a cinque minuti prima che ci sdraiassimo a letto e spegnessimo la luce» disse Natasha, senza staccargli gli occhi di dosso «quindi non dirmi che non hai sonno. Cosa c’è che non va?»
Quello sguardo lo metteva quasi in soggezione, eppure si trattava solo di Natasha: conosceva quegli occhi e il loro potere magnetico, sapeva quanto potessero essere micidiali. E ora era lui il loro bersaglio. Doveva prendere una decisione.
«Non voglio dormire» rispose
«Non vuoi?» ripeté Natasha, perplessa.
«Già»
«E perché?»
Clint sospirò: «È un po’ lungo da spiegare»
«Io ho tempo» Natasha rotolò nel letto fino ad azzerare lo spazio che li separava e appoggiò la testa sul suo petto, coperto solo da una sottile canottiera bianca. Clint adeguò il proprio respiro a quello di lei per non farla sobbalzare mentre parlava e le circondò le spalle con un braccio. Era strano, pensò, come in quella posizione sembrasse così protettivo nei suoi confronti, quando invece era lui ad avere bisogno di aiuto e conforto. Fece un altro sospiro e cominciò:
«È iniziato tutto qualche giorno dopo che sei partita. Penso che sia dovuto anche al dormire da solo in questo letto che mi fa pensare a te. Quello che ti dirò ti sembrerà assurdo detto da un uomo adulto, che ne ha viste tante nella sua vita, ma ti assicuro che è la cosa più seria che ti abbia mai detto» fece una pausa «Ho paura di addormentarmi»
A Natasha piaceva sentirlo parlare tenendo la testa appoggiata al suo petto, poteva sentire la sua voce rimbombare nella cassa toracica: diventava più profonda. Se non avesse avuto la ferma e determinata intenzione di ascoltare ogni singola parola, avrebbe potuto lasciarsi cullare dal suono della voce di Clint fino ad addormentarsi. Ma in quel momento la priorità era un'altra, aiutarlo, il che comportava capire quale fosse il problema. Non aveva molta esperienza di persone con la paura di dormire e quella che aveva era quasi tutta in prima persona. Ciò che sapeva per certo era che nessuno, neppure i bambini, ha paura di dormire senza un motivo. Lasciò trascorrere qualche minuto di silenzio, attendendo che Clint riprendesse a parlare.
«Ci sarà un motivo» disse infine, per incoraggiarlo a continuare.
«Certo che c'è e puoi anche immaginarlo abbastanza facilmente» Natasha sentì il cuore di Clint accelerare leggermente e gli posò una mano sul petto, davanti al proprio naso, per cercare di calmarlo. Clint coprì la sua mano con la propria e riprese a parlare «Incubi. Un incubo ricorrente, anzi»
Natasha sapeva che Clint faceva fatica a parlargliene e trovava che fosse un grande gesto di fiducia nei suoi confronti il fatto che si stesse aprendo con lei. Ed era per questo, e per il suo perenne autocontrollo, che tollerava con pazienza tutte le pause e le esitazioni di Clint, lasciandogli il tempo per cercare le parole migliori. Trascorsero diversi minuti, che la donna sfruttò per fare qualche respiro profondo e riempirsi così le narici del profumo della pelle di Clint. Trovava che desse leggermente dipendenza, quell'odore unico e perfetto che contraddistingueva il suo compagno.
«Mi trovo in una specie di ospedale. Non vedo mai molto, ma l'odore è quello. Le pareti sono tutte bianche. Sono legato a una sedia, di quelle morbide, proprio come quelle degli ospedali, però non con delle corde. Non so con cosa, in realtà, so solo che ogni volta che provo a muovermi non ci riesco e sento un dolore fortissimo. C'è una donna nella stanza con me, sembra un medico da come è vestita. Non mi ricordo mai molto di lei, ha i capelli neri e credo di non averla mai vista nella vita reale, ma non mi viene in mente altro. Fa cose diverse nei sogni, a volte scrive, a volte mi guarda, a volte mi parla, anche se io non sento cosa dice, ci sono volte che all'inizio non c'è neanche ed entra dopo, ma tutte le volte presto o tardi mi infila un ago nella pelle e mi inietta qualcosa. E fa male, un dolore che tu non… non puoi neanche…» gli si spezzò la voce.
Il suo respiro era ormai pieno di affanno. Contrasse i muscoli del braccio destro, stringendo forte la mano di Natasha. Le faceva quasi male, ma non disse nulla, perché sentiva che non era il momento di lamentarsi. Dopo qualche minuto, Clint riprese a respirare normalmente e allentò la stretta, chiedendole scusa a mezza voce. Natasha disse che non c’era alcun problema, poi spostò la mano da sotto quella di Clint e la avvicinò al suo viso. Clint sussultò leggermente quando si sentì toccare dalle sue mani fresche. Natasha accarezzò la linea del suo mento, poi gli sfiorò le labbra con la punta delle dita. Infine cercò con delicatezza al buio i suoi occhi con le dita e gli sfiorò le palpebre. Clint aveva chiuso gli occhi quando aveva cominciato a raccontare, per ricordare meglio, ma poi il ricordo del dolore glieli aveva fatti strizzare talmente forte che quasi lacrimavano. Natasha accarezzò piano le sue sopracciglia e gli zigomi, cercando di aiutarlo a rilassarsi. Clint si abbandonò al dolce contatto che la sua compagna gli offriva e sentì la tensione lasciare piano piano il suo corpo. Dischiuse leggermente le labbra per fare un respiro più profondo dei precedenti. Natasha accarezzò la sua guancia con il dorso delle dita, poi posò di nuovo la mano sul suo petto, mentre sentiva Clint farsi più calmo. Decise che doveva spingerlo a finire il racconto per permettergli di sfogarsi e magari di riuscire a superare la paura che aveva.
«E poi ti svegli?»
«Sì. Fa troppo male per poter continuare a dormire. È come sentire mille aghi che ti perforano la pelle e non poter fare nulla per fermarli. Posso solo gridare, ma non sento la mia voce, e cercare di contorcermi, ma non posso muovermi e provarci mi fa ancora più male. Sono abituato a resistere al dolore, ma nessuno sarebbe capace di continuare a dormire dopo aver provato… quello»
Il corpo di Clint ebbe un sussulto quando egli disse “quello”: Natasha si disse che doveva aver avuto un brivido e si strinse ancor di più a lui. Il contatto con il corpo della sua compagna lo rincuorò e lo riscaldò un po’.
«Sono giorni che non faccio una dormita come si deve. Ho provato a calmarmi prima di dormire in tutti i modi, cercando un minimo di riposo, ma ormai le poche ore di sonno che riesco a ottenere sono dei sonnellini pomeridiani. Speravo che con il tuo ritorno avrei trovato un po’ di tranquillità, di distrazione, ma è stato tutto inutile: anche con te al mio fianco non riesco a levarmi quelle immagini dalla mente. Speravo anche di riuscire a non disturbarti, pur rimanendo sveglio, ma con te non è mica possibile. Non basta chiudere gli occhi e cercare di mantenere il respiro calmo, tu te ne accorgi comunque. Altro che Occhio di Falco» Natasha sorrise a quella considerazione. Si alzò dal suo petto e gli accostò la bocca all’ orecchio.
«Vediamo di procurarti un po’ di distrazione, allora» gli bisbigliò
«Guarda, Nat, io ci ho provato a pensare ad altro, ma ti giuro che…» fu interrotto dalle labbra di Natasha premute contro le sue.
Rispose avidamente al suo bacio, stringendola forte tra le proprie braccia e svuotando la mente. Scomparvero gli aghi e tutto ciò che poteva aver sognato in quelle lunghissime settimane senza di lei. Importavano solo il qui e l’ora: il qui era il loro letto; l’ora era quell’istante che stavano condividendo. Aprì gli occhi: anche al buio, i capelli rossi di lei risaltavano sul cuscino chiaro su cui erano sparsi. Natasha lo fissava negli occhi, il terribile potere magnetico che aveva visto pochi minuti prima in quello sguardo era scomparso, sostituito da una dolcezza che lo lasciò quasi confuso. Le accarezzò dolcemente il viso con una mano, senza distogliere lo sguardo dai suoi occhi verdi: voleva fissare nella memoria quel sentimento che vi vedeva riflesso. Non che Natasha non fosse mai dolce con lui o non gli dimostrasse il suo amore in tanti modi diversi –come ascoltarlo a notte fonda parlare di incubi ricorrenti, mentre probabilmente era stanca morta– ma non le aveva mai visto quell’espressione.
Natasha gli si avvicinò, baciandolo sul collo, sulle guance, sulle labbra, sugli occhi e su tutto il viso, mentre seppelliva le mani tra i suoi capelli. Clint le accarezzò le braccia e la schiena e le slacciò il reggiseno. Natasha accostò la bocca al suo orecchio e bisbigliò, con una piccola risata, «Sembra che sia riuscita a distrarti». Clint sorrise e la baciò di nuovo. Natasha gli tolse la canottiera e prese a esplorare con le dita ogni centimetro della sua pelle, inebriandosi ancora una volta del suo profumo. Erano settimane che non si vedevano e avevano molto tempo perso da recuperare, anche se erano entrambi molto stanchi. Mentre la stringeva tra le braccia, condividendo il suo respiro, Clint si disse che nessun dolore e nessun incubo gli avrebbero mai fatto dimenticare Natasha e che per quella notte aveva parlato anche troppo di fantasmi dell’oscurità. Doveva lasciarsi andare e scacciarli definitivamente dalla sua mente.

Quando infine si addormentarono, ancora abbracciati, nel letto disfatto, il loro respiri erano regolari come sempre. Clint dormì un lungo sonno senza sogni e il mattino dopo si svegliò al suono della sveglia, ringraziando in cuor proprio Natasha per l’aiuto che aveva saputo dargli.

 
Tre mesi fa

«Lena?»
«Sono qui, K, dimmi»
«Devo chiederti un favore. È molto importante e non fido di nessun altro oltre che di te. Siediti, ti devo spiegare per bene»
Helena era un po’ preoccupata per l’atteggiamento misterioso della sua collega coreana: non aveva ancora fatto l’abitudine a quel modo di fare e pensava che non l’avrebbe mai fatta. Si sedette di fronte a lei, e la fissò, in silenziosa attesa, con una guancia poggiata sulla mano.
«Sai chi sono gli Avengers, immagino» cominciò Ji-eun, che lei chiamava K come facevano più o meno tutti, e Helena annuì «e anche che cosa è successo in Sokovia qualche giorno fa» Helena annuì ancora «Uno di loro è stato colpito. È in coma»
Ji-eun sapeva sempre come attirare la sua attenzione.
«La sorella si è data un sacco da fare, ma da sola non può farci nulla. Solo io e te possiamo»
«K, ne abbiamo già parlato: non ci prenderemo cura di una persona sola. È sbagliato fare preferenze»
«Ma è un Avenger, Lena, chissà quante vite potrebbe salvare se fosse attivo. Forse più di quante potremmo noi con le nostre scoperte. Ti prego»
La dottoressa Mazur sospirò: «Di chi si tratta?»
«Uno dei gemelli: il ragazzo superveloce»
«È giovanissimo!»
«Lo so, è anche per quello che...»
«D'accordo» sospirò «Cosa vuoi che faccia? È praticamente impossibile che si riprenda, qualunque cosa io faccia»
Ji-eun si strinse nelle spalle: «Fai quello che puoi, il destino farà il resto»
«Sì, come no, il destino» rise Helena «questa storia ti darà alla testa!»
Ji-eun non rispose, ma sentiva che quel ragazzo sarebbe guarito. Doveva guarire. In un certo senso, sentiva che da qualche parte, in una realtà parallela o forse solo nei suoi sogni, il velocista era già guarito. E se non era destino quello, non sapeva cosa lo fosse.




The Magic Corner:

Ciao a tutt*! Grazie per aver dedicato un po' di tempo a leggere questo mio nuovo capitolo, che spero sia valso l'attesa :) Due paroline veloci e poi vi lascio in pace perché sto consumando il vostro prezioso tempo e ne ho già abusato a sufficienza...

Le ship (le cose serie, come dice la mia amica GreekComedy): ebbene sì, Clintasha... Non so se si fosse notato, ma comunque Clintasha. Ormai avevo bisogno di fare una scelta definitiva, la Stony mi tentava moltissimo, è vero, ma ho rinunciato, perché mi sarebbe parsa un'esagerazione mettere quattro ship in una sola storia e volevo assolutamente tenere le altre tre. Dopotutto, la trama non è solo un pretesto per inserire ship! (non stavolta, almeno...)

MA (e sottolineo MA) ho una buona notizia per tutti quelli che shippano tutte le coppie non presenti in questa storia: siccome sono sadica, ho già in mente un seguito per questa storia (ebbene sì, vi dovrete sciroppare pure quello) e... *rullo di tamburi* conterrà delle ship che qui non sono presenti! Il che significa che potrei lasciarmi convincere da persone sufficientemente persuasive e inserire la ship più richiesta. Ma questo succederà quando io finirò questa, quindi tra qualche migliaio di anni, perciò non c'è fretta.
Sto sperimentando questo nuovo formato: inserirò sempre, d'ora in poi, alla fine di ogni capitolo una scena come quella che ho messo qui, che segua la stessa trama. Fidatevi che poi avrà senso... Che ve ne pare come idea?

Ok, smetto di rompere: se vi fossero rimasti anche solo cinque minuti, vi sarei estremamente grata se li dedicaste a lasciarmi una recensione, che -come non mi stanco mai di ripetere- è completamente gratuita e migliora immediatamente il mio umore! :D

Che gli dèi siano con voi!
-Magic

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Capitolo 5
*** Da solo ***


Avvertenze, leggere e conservare:
Questo capitolo contiene la distruzione di tre ship (non presenti nell'introduzione), due delle quali molto malamente.
Potrebbero esserci quantità di Angst superiori a quelle consentite a norma di legge.
Maneggiare con cura. Tenere lontano dalla portata e dalla vista dei bambini e delle fangirl troppo irritabili.

Da solo

Di nuovo da solo
Aveva trovato un suo equilibrio,
un modo per tirare avanti,
aveva trovato lei

Lei che si occupava di tutto,
che sorrideva
quando lui dimenticava il suo compleanno
Lei che lo obbligava a portarla al cinema,
ma gli lasciava scegliere il film
Lei che era quella giusta,
perché con lei si sentiva normale

Di nuovo da solo
Dopo ciò che aveva passato,
aveva trovato un nuovo amore,
aveva trovato lei

Lei che aveva fatto il primo passo,
che non lasciava
che lui si dedicasse troppo al lavoro
Lei che si lasciava corteggiare come una volta,
ma lo portava in discoteca il venerdì
Lei che era quella giusta,
perché con lei si sentiva un ragazzino

Di nuovo solo
in un mondo sconosciuto
come unico appiglio
aveva trovato lei

Lei che lo aveva aspettato,
che si impegnava
per non farlo mai sentire fuori posto
Lei che sapeva scegliere un abito elegante,
ma era bellissima anche in pigiama
Lei che era quella giusta,
perché con lei si sentiva a casa

Tony non riusciva a stare fermo: si sedeva su una delle poltroncine della sala d’aspetto per poi rialzarsi immediatamente dopo, camminava nervosamente su e giù per la stanza, cercava di dare un’occhiata oltre la porta dalla quale erano spariti i medici, si sedeva di nuovo e prendeva a torcersi le mani con un’ansia incredibile che sarebbe sembrata esagerata a quanti non conoscessero ciò che stava passando; era una pena da vedere, impossibile non dispiacersi per lui.
Non riusciva a smettere di darsi la colpa di quanto era successo. Si diceva che era stato lui a metterla in pericolo tante di quelle volte che era impossibile che prima o poi le succedesse qualcosa. Era stato il solito narcisista a pensare di poterla proteggere per sempre. Avrebbe dovuto accorgersi del proprio errore fin da quando Killian aveva mandato quegli elicotteri a casa sua, fin da quando era stata rapita e aveva rischiato la morte, invece no, aveva voluto fare di testa propria, come al solito. Solo che di solito quando faceva di testa propria in un modo o nell’altro le cose si risolvevano. Quella volta non era così.
La porta si aprì e a Tony si fermò il respiro. Due medici, un uomo biondo e una donna bassa dai capelli scuri, entrarono nella sala d’aspetto guardandosi intorno: era una giornata abbastanza tranquilla. O almeno, lo stavano pensando tutti e due. Avevano fatto entrambi dei turni nei giorni successivi alle grandi catastrofi che avevano travolto la città e quelle quattro persone che li fissavano con trepidazione erano nulla al confronto del loro ricordo di quelle ore infernali. L’uomo controllò la cartellina che aveva in mano e poi chiamò un nome, che Tony non sentì. Sapeva solo che non aveva chiamato lui. Il suo sguardo si annebbiò leggermente, mentre la donna bruna che era seduta accanto a lui si alzava per seguire i due medici oltre la porta. Si strofinò gli occhi per vedere meglio.
Si costrinse a rimanere seduto, ma doveva assolutamente fare qualcosa: sentiva che altrimenti sarebbe sicuramente impazzito. Infilò una mano in tasca e trovò una carta di caramella. Chissà come c’era finita lì. Dopo qualche minuto perso a guardarla fisso, si ricordò. L’aveva offerta a lei qualche giorno prima, ma lei era di fretta e l’aveva dovuta rifiutare, così l’aveva mangiata al posto suo. Cominciò a lisciare la carta finché non fu perfettamente liscia, poi cominciò a piegarla in triangoli sempre più piccoli.
Era sicuramente colpa sua. Non sapeva perché quegli uomini avessero fatto quello che avevano fatto, ma era certo che fosse colpa sua. Lei era sempre così impegnata perché aveva preso sulle proprie spalle tutte le incombenze che Tony trascurava e l’attività di lui era estremamente pericolosa per coloro che gli stavano intorno. Chissà se avevano voluto colpire le Stark Industries o Tony Stark personalmente. Li avrebbe trovati. Voleva interrogarli, tirare fuori da loro ogni particolare di quello che avevano fatto, scoprire il mandante, se ce n’era uno, e fargliela pagare.
La porta si aprì di nuovo proprio mentre finiva una piega alla carta di caramella. Lo stesso medico di prima accompagnò dentro un collega minuto, dai capelli neri. Si comportavano in modo diverso da prima: i loro sguardi erano rivolti per terra, evitando quelli di tutti i presenti. Le tre persone che erano sedute in attesa si alzarono in piedi nello stesso momento, trattenendo il fiato per la paura.
«Virginia Potts» mormorò il biondo a un volume di voce troppo basso perché qualcuno di loro potesse sentire. I tre chiesero all’unisono di ripetere. L’uomo scosse la testa, come se non avesse potuto, e guardò il collega.
«Virginia Potts» ripeté il moro.
Tony fece un passo avanti come in un sogno. La carta di caramella che aveva in mano gli cadde per terra. Nella sua testa fece un rumore fortissimo, come quello di un palazzo di quindici piani che collassa sulle proprie fondamenta. Nella realtà nessuno la sentì. Le altre due persone si sedettero. Sapeva che erano sollevate, da qualche parte dentro di lui c’era una parte minuscola della sua coscienza che li capiva, ma non poteva impedirsi di odiarli con tutto il cuore, perché non erano loro che stavano seguendo i medici oltre quella porta. Fece qualche passo nel corridoio, poi sentì il mondo girare e si fermò. Cercò di deglutire, ma la sua gola era secca. Si appoggiò al muro e guardò i due medici.
I due uomini conoscevano quello sguardo, l’avevano visto tante volte nel loro lavoro. Era la disperazione più nera, trattenuta appena da un filo sottilissimo di speranza, alla quale Tony si stava aggrappando con tutte le forze. “Contraddite i miei pensieri” imploravano quegli occhi scuri “Contradditemi. Per favore. Voglio avere torto. Non succede mai. Fatemi avere torto”. Promise a se stesso che non avrebbe mai più permesso che succedesse una cosa simile. Se gliel’avessero ridata indietro, avrebbe rinunciato a quella vita, alle armature, a tutto quanto, pur di tenerla al sicuro. Le avrebbe dedicato ogni singolo istante della propria vita. Ora lo sapeva, sentiva in ogni cellula del suo corpo, che gridava di dolore per ciò che stava accadendo, che Pepper era la cosa più importante della sua vita.
Lei che gli era stata accanto in tutti i momenti più difficili, che l’aveva sopportato, che lo aveva aiutato a risollevarsi dai periodi più neri, dallo stress più opprimente. Lei che gli aveva finalmente ridato una sorta di equilibrio, di pace. Lei, alla quale era certo di aver detto troppe poche volte che l’amava. Lei che ormai se l’aspettava che Tony si dimenticasse del suo compleanno, ma poi pretendeva che lui la portasse al cinema per farsi perdonare. Con lei si sentiva così giusto, come se non ci fosse nulla di più normale che essere come lui. Aveva sognato per tutta la vita di trovare qualcuno così. Non potevano portargliela via, doveva dirle che l’amava, almeno altre dodici volte. Guardò prima l’uno, poi l’altro medico.
«Mi dispiace» disse il moro «Non ho potuto fare nulla. Lei…» non aggiunse altro, lasciando in sospeso la frase, ma sapevano tutti che cosa voleva dire. Tony lo guardò fisso negli occhi, come se non avesse capito quello che aveva detto. Come se avesse parlato un’altra lingua. Ma poi fu certo di aver capito anche troppo bene. Vide l’ospedale ruotare intorno alla sua testa. Si sentì cadere e chiuse gli occhi. Il biondo lo sostenne con un braccio.
«No» mormorò Tony. La sua voce era così fioca che i due medici non si sarebbero nemmeno accorti che stava parlando, se non l’avessero visto muovere le labbra.
«No» il biondo lanciò uno sguardo al moro. “Che cosa possiamo fare per lui?” chiese con gli occhi. “Nulla. Lo sai” fu la rassegnata quanto silenziosa risposta del collega.
«No» ripeté ancora Tony.
«No»
 

«Se è questo che pensi, puoi anche andartene. Conosci la strada per casa, la porta è di là» Sharon lo fissava con i suoi occhi azzurri. La rabbia era quasi palpabile nell’aria. Steve si pentì immediatamente di ciò che aveva detto: «Scusa, Sharon, io non intendevo…»
«Invece intendevi» lo interruppe Sharon «E avevi ragione»
«No, Sharon, scusa, è che sono molto stanco in questo periodo e le cose tra noi non stanno andando benissimo, ma non ne parliamo mai e quindi…»
«Sì, è vero, non ne parliamo mai» cominciò Sharon, che evidentemente aveva ragionato a lungo sull’argomento e sapeva cosa dire «Ma cosa vorresti dire? Vorresti dire che non andiamo d’accordo su molte cose? Perché è vero. Vorresti dire che non siamo capaci di ascoltare l’altro e le sue necessità? È verissimo anche questo. Litighiamo, Steve, gridando per il piacere di gridare. Non ci interessa neanche che l’altro senta quello che abbiamo da dire. È sufficiente stare gridando, te ne sei accorto? Quante volte sono, ormai, che ci urliamo addosso per poi accorgerci che eravamo d’accordo? Non siamo capaci di stare attenti all’altra persona, non dico ai suoi bisogni, a quello che potrebbe volere, ma a quello che dice in quel preciso istante. Ci interessiamo così poco che stiamo anche smettendo di faticare per trovare un momento per vederci. E d’altronde, perché dovremmo cercarlo, se poi ogni volta che ci vediamo il risultato è questo?»
Sharon fece una pausa, cercando con gli occhi quelli di Steve per cercare di capire se il suo discorso stesse sortendo un minimo effetto. L’uomo pareva davvero impressionato, così lei riprese: «Non siamo fidanzati perché abbiamo deciso così liberamente, Steve, ma non siamo neanche una coppia. Non siamo niente, solo due persone che si sentono sole e cercano maldestramente di alleviare questo sentimento. Due egoisti che non sanno se stiano cercando qualcuno da ignorare o qualcuno di cui gli importi abbastanza da sforzarsi un minimo. Io ho il nuovo lavoro e non sarei disposta a sacrificare un’ora di lavoro per uscire con te. Tu lo sai e non me l’hai mai chiesto. Ma anche tu non rinunceresti ad alcun incontro con i Vendicatori o missione, se te lo chiedessi» Steve fece per dire qualcosa, forse per protestare, ma cambiò idea, scuotendo la testa.
«Certo» continuò Sharon «abbiamo del tempo per vederci lo stesso, ma è la certezza che ci sia qualcosa che per l’altro conta più di noi che non fa funzionare il tutto. Non ci siamo mai promessi una relazione di dedizione completa, è vero, nessuno di noi voleva annullarsi per l’altro, ma c’è una bella differenza tra il non volersi annullare per l’altro e l’ignorarlo palesemente»
«Io non ti ignoro palesemente, Sharon!» esclamò Steve contrariato «E nemmeno tu e lo sai benissimo»
«D’accordo, d’accordo, ma dimmi sinceramente –sinceramente, ok?» Steve annuì «Davvero non hai mai avuto anche tu la sensazione che ci sia qualcosa che non va tra di noi oltre ai litigi? Davvero non ti è mai sembrato che ci importasse troppo poco l’uno dell’altra?»
«Io…» Steve fece una pausa e respirò profondamente un paio di volte «In effetti, sì. Ma sono sensazioni passeggere, Sharon. Quello che resta è altro. Sono i bei momenti passati insieme, le volte che ci cerchiamo senza aver bisogno di qualcosa, quei pensieri che dedichiamo all’altro durante la nostra giornata perché qualcosa ci fa ricordare un battuta che abbiamo fatto. Le canzoni che ascoltiamo insieme cantando a squarciagola, tu che setacci i locali alla ricerca dell’hamburger più grande del mondo e io che ti vengo dietro come un idiota. Questo è quello che conta. Quando andiamo in moto insieme e sembra che il tempo si fermi, questo è quello che conta!»
Sharon sorrise sentendolo parlare così, ma scosse comunque la testa: «No, Steve, per me non è una sensazione passeggera. E anche se posso sorridere anch’io dei bei momenti che hai descritto adesso, non credo di poter continuare così. Non sento più lo stesso legame tra noi. Da qualche parte, tra i tuoi civili morti e le mie missioni segrete, si è rotto il filo che ci univa più strettamente e io mi sento fluttuare. Non ce la faccio, Steve, mi dispiace. Dai pure tutta la colpa a me, non credo ci sia cosa più giusta»
La donna raccolse la propria borsetta dal divano e la giacca dall’appendiabiti. Si avvicinò a Steve, esitò per un attimo, poi gli diede un bacio all’angolo della bocca. Steve cercò con poca convinzione di trattenerla tra le proprie braccia, ma Sharon scivolò con grazia lontano dalla sua presa: «Ti prego, non cercarmi più. Mi mancherai»
Steve rimase come inebetito a fissare la porta anche molto tempo dopo che lei era andata via, chiudendola alle proprie spalle e seppe senza ombra di dubbio che si trovava un’altra volta da solo. Sentì fortissima la mancanza di Bucky, di Peggy e di tutti gli altri amici che aveva perso. Aveva il presentimento che presto avrebbe sentito anche la mancanza di Sharon.
 

Era l'una e mezza del pomeriggio. Il cielo grigio sembrava voler schiacciare la terra con la propria incombenza. Il cellulare di Thor continuava a squillare. Dopo averlo cercato, invano, per tutta la camera da letto, il dio lo trovò sul tavolo della cucina.
«Pronto?» “Thor, sono Darcy” «Ciao, Darcy, dimmi pure» “Dovresti venire qui. Subito” «È proprio così urgente?» “Si tratta di Jane” «Arrivo, dove siete?» “Sai dov'è il laboratorio?” «Sì. Ma cosa è successo?» “È meglio che tu lo veda di persona. Non voglio che guidi preoccupato” «Perché, credi che non lo sia adesso?» “Fidati, è meglio così.”
Thor avrebbe voluto chiederle altro, ma Darcy riattaccò. Al dio non restò altro da fare che cambiarsi in tutta fretta, uscire di casa e guidare agitatissimo fino al laboratorio di Jane. Fuori piovigginava: stando in casa non se n'era accorto. Non aveva preso alcun ombrello, ma era abituato alla pioggia. Parcheggiò poco distante e percorse a piedi le poche centinaia di metri che rimanevano.
La prima cosa che sentì fu il rumore: voci di gente che discuteva, raccontava, faceva telefonate, commentava e gridava. Di solito con la pioggia e il freddo la gente non si fermava mai, aveva sempre fretta di andare da qualche parte. Invece lì c'era un numero inspiegabilmente alto di persone. Poi vide l’ambulanza. E realizzò che doveva essere successo qualcosa di brutto. Darcy gli corse incontro, sembrava sconvolta: «Thor! Eccoti, finalmente!»
«Cosa è successo, si può sapere?»
«Non lo so esattamente neanche io. Io, noi... Ero con Jane e lo stagista e stavamo andando a pranzo nella tavola calda qui vicino. A un certo punto mi sono girata e… Oddio, quanto mi dispiace… Jane non c'era più. Ho sentito delle urla là fuori… Non sai che spavento… e sono uscita di corsa. E ho visto, lei era... L'autista stava scendendo in quel momento dalla macchina. Quando ha visto che... quello che era successo, ha cominciato a gridare come un ossesso e poi noi, io...»
Thor smise di ascoltarla. "Quello che era successo" aveva detto Darcy. Ma cosa era successo? Fece qualche passo avanti, verso l'ambulanza, e si trovò vicino a quella folla incredibile. C'era davvero troppa gente. Vedendolo, le persone si spostavano: alcuni riconoscevano il dio del tuono, altri erano semplicemente messi in soggezione da quell'uomo biondo imponente che aveva l'aria di chi arriverà dove vuole, senza nessun problema a camminarti sopra, se necessario. Gli infermieri, due donne e un uomo, erano già risaliti a bordo dell'ambulanza e stavano per chiudere le porte per poter partire. Thor intravide una donna distesa, coperta con un telo: «Jane?» disse
I tre si voltarono a guardarlo. Una delle due donne si scese dal veicolo e fece segno agli altri di andare, poi si avvicinò al biondo che fissava confuso le porte ormai chiuse. «È qui per la signorina Foster?» gli chiese. Ricevette come unica risposta un lieve cenno del capo.
«Mi dispiace molto»
Partita l'ambulanza, la folla cominciò a disperdersi, scoraggiata dalla pioggia che si faceva sempre più battente. Darcy contribuì con la sua consueta cordialità a farli andare via: «Su, andate! Razza di avvoltoi, non c'è nulla da vedere!» poi si rifugiò dalla pioggia sotto un balcone. In mezzo alla strada rimaneva soltanto il dio, che continuava a fissare davanti a sé con occhi vitrei, come se ci fosse stata ancora l'ambulanza.
«Jane!» cominciò a gridare Thor, dopo aver realizzato il significato di ciò che aveva visto. L'infermiera, una donna bionda, robusta e dai grandi occhi scuri, gli si avvicinò. Fece un sospiro: le era già capitato molte volte di trovarsi in quella situazione, ma era quel genere di cose al quale non si sarebbe mai abituata, ogni volta era come la prima. Posò una mano sulla spalla dell'uomo, che continuava a gridare.
«Jane, Jane, Jane, Jane...» ripeteva Thor. Quella parola, il cui suono stesso era diventato sinonimo di serenità per lui, cominciava a sembrargli terribilmente odiosa. Jane. Quattro lettere, come casa. Perché era quello che era lei per lui. Casa. Quelle quattro lettere un bel giorno erano passate da non significare nulla a voler dire “casa”. E tutto grazie a lei. Cadde in ginocchio sul marciapiede, mentre la pioggia gli infradiciava i capelli biondi facendoli appiccicare alla sua fronte. La donna di fianco a lui non dava segno di volersi muovere. Thor fu colto dal desiderio di spingerla in terra con tutta la forza che aveva. Quella donna non poteva capire la lacerazione che sentiva dentro di sé. Eppure rimaneva lì, a prendersi la pioggia come lui, per stragli accanto. Per lui. Trattenne il proprio primo impulso e la guardò.
L’uomo alzò lo sguardo verso di lei e la donna ci vide la disperazione più nera e totale. Riconobbe se stessa anni prima. Non sapeva cosa dire. Anzi, sapeva che non c’era nulla da dire che potesse combattere l’abisso scuro che, ne era certa, si stava aprendo dentro di lui. Con un gesto delicato, quasi materno, gli spostò le ciocche appiccicate sulla fronte da davanti agli occhi. Thor si sedette sui talloni e tornò a guardare i segni di pneumatici della frenata che segnalavano il luogo dell’incidente. La donna si sedette di fianco a lui sull’asfalto bagnato per portarsi alla sua altezza, come si fa con i bambini, incurante dei vestiti sempre più inzuppati d’acqua e del freddo che sentiva correrle lungo la schiena. Thor si voltò di nuovo verso di lei, facendole provare il desiderio di distogliere lo sguardo. La donna resistette a quel vuoto negli occhi azzurri di lui che sembrava voler risucchiare qualunque cosa lo circondasse.
«Mi chiamo Natalie» disse
«Thor, figlio di Odino» rispose il dio, senza cambiare espressione, distogliendo lo sguardo per tornare a guardare il luogo dell’incidente «Mentre lei è, era, Jane» pronunciare quel nome gli diede un brivido imprevisto lungo la schiena.
«Fa male» disse Natalie. Non era una domanda. Thor capì. Non era vero che non capiva la sua lacerazione. Doveva averla sentita anche lei, un tempo. Ce n’era ancora una dolorosa sfumatura, nella sua voce.
«Con il tempo migliora. Leggermente. Ma continua sempre a fare male. Sempre. Dopo tanto tempo, a volte puoi distrarti e dimenticare. Ma non potrai mai cancellarlo del tutto. È una parte di te anche questo. Puoi conviverci, ma non puoi cacciarla»
«Perché mi dici questo?»
«Perché quando a me dissero che il tempo avrebbe lenito le ferite, che sarebbe passata, io sentii un terribile istinto omicida. Era una bugia, lo sapevo io e lo sapevano tutti quelli che continuavano a dirmelo, come se ripeterlo avesse potuto renderlo vero. Le bugie non aiutano a sopravvivere a questo genere di cose. E io voglio aiutarti»
«E perché vuoi aiutarmi?» In quegli attimi assurdi, Thor non riusciva a impedirsi di fare domande, come se l’unica cosa importante in quel momento fosse ascoltare Natalie che gli spiegava cosa stesse succedendo. L’unico modo per non sentire l’urlo assordante che c’era nella sua testa e ripeteva “Jane, Jane”. Casa.
«Perché è questo che faccio io nella vita. Sono un’infermiera, aiuto le persone. Lo so cosa stai passando, ok? Lo so come so perfettamente che non ci si passa sopra. Mai. Ma si può sopravvivere comunque. Non da soli. Da soli è quasi impossibile. Per questo ci sono io»
«Tu credi si possa sopravvivere?»
«Lo so. Guardami, sono ancora qui» ci fu una pausa di silenzio, in cui Thor la fissò a lungo, come se avesse voluto davvero sincerarsi che lei fosse viva, che si potesse in qualche modo sopravvivere al buco nero che aveva preso il posto del suo stomaco e lo stava risucchiando da dentro. Natalie si sentì, forse, un po’ in soggezione per quello sguardo così intenso, ma se era così non lo diede a vedere.
«Cos’era lei per te?» domandò dopo qualche minuto. Aveva freddo, ma non era il caso di muoversi da lì. Sapeva che doveva farlo parlare, se si fosse tenuto tutto dentro avrebbe potuto esserne soffocato.
Thor esplorò la propria mente alla ricerca di una risposta adatta, ma poi si disse che era una ricerca inutile, perché c’era una cosa sola che potesse dire: «Casa»
«Casa?» ripeté Natalie
«Casa. Un porto asciutto, un luogo dove mi sentivo sicuro, dove non dovevo combattere. Questo era lei. La persona che mi ha accolto, senza farmi sentire fuori posto. Si impegnava ogni singolo giorno della nostra vita insieme per dimostrarmi che se il mondo mi vedeva diverso allora era il mondo ad avere qualcosa che non andava. Lo sai, sono stato via tanto tempo. Mi ha aspettato. Ha cercato di dimenticarmi, l’ho fatto anche io. Ma in realtà ci stavamo aspettando tutti e due. E tornare da lei è stato come tornare a casa»
La pioggia stava diminuendo. Natalie si scostò i capelli fradici da davanti al viso, asciugandosi gli occhi per riuscire a vedere: «E com’era lei?»
«Bella, bella come il sole. Quei capelli scuri, ogni tanto cominciava ad arrotolarsi una ciocca tra le dita e sembrava ancora più bella. Decisa, anche. Quando mi ha rivisto dopo tutto quel tempo che ero stato via, sai qual è stata la prima cosa che ha fatto?»
«Cosa?»
Thor sorrise ricordandolo: «Mi ha dato uno schiaffo. Anzi, due. Il primo perché aveva avuto delle specie di allucinazioni e voleva sapere se fossi reale. Il secondo perché ero stato via per un’eternità senza dirle niente e lei mi aveva visto in televisione a New York con i Vendicatori»
«Un’eternità?»
«Sì, beh, per gli umani era tanto tempo. Per gli innamorati il tempo non passato insieme è sempre troppo lungo. E per una umana innamorata… Non ne parliamo»
«Puoi dirmi qualcos’altro su di lei?»
«Piaceva a mia madre» Natalie si disse che voleva dire molto, per gli dèi come per gli umani «Sarebbe dovuta rimanere ad Asgard tutta la vita. Mia madre era felice di averla lì, con i nostri abiti era ancora più bella e poi…» si rabbuiò e tacque
«Cosa?»
«Non ci sono automobili ad Asgard»
Aveva smesso di piovere, anche se il cielo era ancora ingombro di nuvole alquanto minacciose. Natalie si alzò in piedi e porse a Thor una mano. Il dio si alzò a propria volta, senza prenderla e la guardò, come aspettando qualcosa. «Vieni, andiamo»
«Dove?»
«Ti accompagno a casa»
«Sono venuto in macchina»
«Allora ti accompagno in macchina. Non sei in condizioni di guidare» gli tese una mano. Thor frugò un po’ nelle tasche, estrasse le chiavi della macchina e le diede alla donna.
«Grazie»



Due mesi e due settimane prima, altrove

Helena era partita da appena una settimana e già Ji-eun ne sentiva la mancanza. La clinica dove veniva accudito il ragazzo doveva rimanere il più segreta possibile e lo stesso valeva per lo studio dove la coreana continuava a portare avanti i suoi studi, così i contatti tra le due sedi erano ridotti al minimo. Ji si trovava praticamente isolata dal mondo, fatta eccezione per Diego, l’universitario che arrotondava facendo le compere al posto suo. Le mancavano le cene silenziose e di fretta a base di panini, quando erano entrambe così concentrate sul loro lavoro da continuare a pensarci anche mentre mangiavano. Le mancavano anche le cene più rilassate, quando una di loro decideva di cucinare, aprivano una bottiglia di vino e si lasciavano andare a chiacchiere e battute. Le mancavano quei momenti speciali in cui sentiva davvero il legame che le univa. Lena era l’amica migliore che avesse. Si conoscevano da poco tempo, ma si intendevano come se avessero sempre vissuto insieme. Eppure erano così diverse: Helena amava parlare, Ji-eun preferiva passare ore ad ascoltarla. La coreana era una sognatrice, un’idealista, mentre la sua collega sapeva riportarla con i piedi per terra ogni volta che Ji si lanciava in dissertazioni su qualche strano concetto astratto. Erano le uniche occasioni in cui Ji-eun parlava e Lena la ascoltava, invece del contrario. Ji sentiva la mancanza anche di quelle: Helena era la sua interlocutrice preferita.
Ma più del contatto umano a Ji-eun mancava il confronto, il dibattito scientifico cui Lena sottoponeva qualunque embrione di idea provasse a proporre. Sul momento lo trovava sempre molto fastidioso, ma doveva riconoscere che la sua utilità era assolutamente non trascurabile. Helena aveva una mente estremamente acuta ed era pragmatica, molto più di Ji. Se la coreana le avesse raccontato del sogno che aveva fatto e delle decisioni che aveva preso in base a quello, avrebbe sicuramente smontato il suo ragionamento in pochi minuti. Avrebbe scacciato quei fantasmi che Ji-eun cominciava a ritrovarsi intorno sempre più spesso. Ma Lena lì non c’era e Ji, benché sapesse che si trattava solo di un sogno, non riusciva a scollarselo dalla testa.
Era ora di cominciare.



The Magic Corner:
Ciao a tutt*! Grazie per aver dedicato un po' del vostro tempo a leggere questa fic e grazie soprattutto alle 5 persone che hanno messo questa storia tra le seguite e alle 2 che l'hanno messa tra le preferite. Non mi aspettavo così tante persone, grazie davvero, gente, siete fantastici <3
Ebbene sì, per una volta sono riuscita ad aggiornare in tempi decenti! (benedette vacanze di Pasqua, ahimè domani è l'ultimo giorno...) Oltretutto, questo è ufficialmente il capitolo più lungo che abbia scritto finora, con 8 pagine Word e oltre 4000 parole. Così, per darvi un po' di numeri casuali :D
Altre cose da dire: non odiatemi. Per favore, seriamente. Lo so, ho appena strappato in mille pezzettini tre ship. Sento già sostenitori della Pepperony, della Staron e della Thor/Jane (come si chiama? Fosterson?) che mi vengono a picchiare sotto casa. Mi piange il cuore. Mi sento molto male per quello che ho fatto. Li shippo anch'io, credetemi. Ma le necessità di trama sono più forti. Non sono le ultime ship che andranno in pezzi in questa storia, ve lo dico da ora. Il tag Angst non è messo a caso.
A proposito di Sharon Carter... Mi preme sottolineare che non avevo progettato di inserirla nella trama. E allora che ci fa qui? Ci fa un bel casino psicologico per Cap. Ci fa che avevo bisogno che anche lui avesse problemi di cuore (nella prima stesura moriva anche lei, questo è già un miglioramento). Ci fa, soprattutto, un tributo alla povera agente Carter. Ho scoperto qualche giorno fa che ci troviamo nel mese di apprezzamento per Sharon Carter. Ho letto dei post su tumblr e affini e mi sono detta che volevo partecipare anch'io. Lo devo ammettere, non la adoro come fa certa gente, ma -che diamine!- l'abbiamo vista a malapena in due scene di The Winter Soldier! Come fate a odiarla così visceralmente? Non distrugge le ship con Cap... Non erano Canon prima e non lo sono ora, cosa cambia? Quindi ecco spiegato il cammeo di Sharon.
Natalie si chiama così in onore della vera Jane Foster (aka Natalie Portman) e *fun fact* la Sharon Carter dei fumetti è davvero ossessionata con la ricerca dell'hamburger più grande del mondo (ah, cosa non si impara da marvel.wiki!)
Mi sembra non ci sia altro da aggiungere, perciò faccio che smettere di scrivere e pubblicare questo capitolo così una commedia greca a caso è contenta.
Come al solito, vi ricordo che lasciare recensioni è completamente gratuito (e mi rende tanto felice) e vi ringrazio di starmi sopportando.
Che gli dèi siano con voi!
-Magic


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Capitolo 6
*** Fiabe da un'altra vita ***


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Salva anche tu una tastiera da pazzoidi che la massacrano scrivendo come disperate! 
Scrivi una recensione!
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Fiabe da un’altra vita

Sono dunque ancora vivo.
Quest’aria che entra nei miei polmoni
è soffio di vita,
il mio spirito ancora risiede in me
e un giorno forse potrò finalmente
tornare alla luce del giorno,
alla vera luce del sole,
e non a questa luce impietosa,
che non ha smesso un attimo di tormentarmi.

Le memorie che permangono
nella mia mente pur annebbiata,
che si ripresentano non invitate,
giorno e notte, in sonno e in veglia,
sono dunque immagini di passato,
non di una vita ormai lontana,
irraggiungibile.

La voce che sento accanto a me
appartiene dunque a qualcuno di vivo,
di reale quanto me,
quanto il mio respiro,
quanto le persone di cui mi ricordo,
ascoltando quella voce.

Le parole che pronuncia
creano in me inquietudine e memoria
di vita vera
e di fiabe di tanto tempo fa,
così lontano che pare fosse
un’altra vita.

Il suo primo pensiero appena si svegliò fu Mamma. C’era qualcuno con lui. Una donna. Stava parlando, ma, nell’incoscienza di chi dormiva fino a un attimo prima, non riusciva a distinguere le parole che stava pronunciando. Però sulla voce non poteva sbagliarsi: era simile, anzi, era identica a quella di sua madre. Non poteva essere altri che lei. Cercò di chiamarla, ma i suoi muscoli continuavano a non rispondere alla sua volontà. Avrebbe tanto voluto riuscire a capire che cosa stava dicendo. Mentre si sforzava di distinguere i suoni e suddividerli in parole di senso compiuto, un pensiero lo colpì con la forza di un terremoto: non poteva essere sua madre. O meglio, sarebbe potuta essere sua madre solo in caso lui fosse stato effettivamente morto, ma in quell’ultimo periodo si era quasi convinto di avercela fatta, di essere vivo o almeno sopravvissuto. Quindi quella non era sua madre, o così voleva sperare. Ma allora chi era? In tutto il tempo che era stato lì era sempre rimasto da solo, e invece ora eccola lì. Chissà, forse era sempre stata lì, ma non si era mai messa a parlare.

Sempre. Ma quanto era sempre?
Era curioso: la gente di solito calcola la durata di tutto basandosi sul tempo che trascorre non dormendo. Lui, invece, rimaneva sveglio per così poco tempo che doveva cercare di misurare il tempo in base ai propri sogni. E pertanto la misurazione risultava estremamente imprecisa. Non era sicuro di quanto tempo fosse passato da quando si era risvegliato la prima volta, non sapeva nemmeno se non fosse successo tutto lo stesso giorno e la sua mente annebbiata dal sonno e indebolita non avesse dilatato i suoi risvegli, facendo sembrare tutto più lento. Anche quando si svegliava non riusciva ad avere una minima idea di che ore fossero o almeno se fosse buio o no. C’era sempre quella letale luce bianca che lo aggrediva come una lama.
Fu allora, pensando a quell’abbagliante biancore, che si rese conto che era sparito. La luce era tornata normale. Poteva di nuovo aprire gli occhi. Li spalancò e vide. Era vero, forse era successo tutto nello stesso giorno, ma a lui sembrava che fossero passati mesi, in cui non aveva visto nulla se non le immagini spaventose dei propri sogni. E perciò si prese tutto il tempo per guardarsi intorno. Si trovava al chiuso, non c'erano dubbi, e la stanza era abbastanza buia da non infastidire i suoi occhi ma non completamente avvolta nell'oscurità. Non riusciva a muoversi come voleva, perciò era costretto a fissare quello che sembrava essere il soffitto. Per quanto poteva vedere, era di un bel colore, lo trovava rilassante. Non riusciva a identificare perfettamente se fosse più grigio o più azzurro, ma era senza dubbio una tinta da posto rassicurante, con le tendine ricamate alle finestre e un mazzo di fiori freschi sul comodino. Era un colore da ospedale. Logico, si disse. In fondo, se non era morto era probabilmente in coma. Un ospedale sembrava il luogo giusto dove portare qualcuno di incosciente che in un futuro non si sa quanto prossimo si sarebbe potuto svegliare.
Quel colore però era davvero rilassante, e poi la scoperta del mondo attorno a lui lo aveva stancato moltissimo. Stava cominciando a perdere il controllo della propria mente, il che voleva dire sonno e perciò cattivi ricordi in agguato. Per la prima volta dopo tanto tempo, però, quella che vide non fu Sokovia. Niente città volanti, niente arcieri, niente corse a perdifiato in mezzo alle macerie. Vide una casa. Piccola ma accogliente, illuminata da un piccolo lampadario al centro della cucina. Come l’aveva sempre ricordata. Casa. Prima che succedessero tutte quelle brutte cose. Prima che i compleanni smettessero di sapere di croccante di sesamo. Prima che smettessero di fare le gite la domenica pomeriggio. Casa. E chissà che da qualche parte non ci fosse la mamma. La cercò verso la camera da letto di quando erano piccoli. Era seduta vicino ai due lettini gemelli, proprio in mezzo tra l’uno e l’altro. Solo che non c’era nessuno sdraiato sopra. La mamma sembrava non essersene accorta e leggeva per loro come aveva fatto tante volte. Aveva un grande libro di fiabe, che aveva scritto riportando quelle che erano state raccontate a lei e a suo marito quando erano piccoli, e ogni sera ne leggeva una per conciliare loro il sonno. Aveva continuato anche quando erano diventati grandi, un piccolo rito che non volevano venisse raccontato in giro perché se ne vergognavano, ma a cui non avrebbero mai rinunciato. E di tutte la loro preferita era sempre stata Hänsel e Gretel, probabilmente perché si identificavano con i protagonisti. Ricordava ancora come cominciava.
Davanti a un gran bosco abitava un povero taglialegna che non aveva di che sfamarsi; riusciva a stento a procurare il pane per sua moglie e i suoi due bambini: Hänsel e Gretel.
Mentre pronunciava nella propria mente i nomi dei due bambini, si risvegliò. Riusciva finalmente a distinguere le parole pronunciate dalla donna che si trovava con lui. Stava leggendo una fiaba anche lei, ma non una fiaba qualunque. Stava leggendo Hänsel e Gretel. Si mise ad ascoltarla, mentre le parole che leggeva gli facevano tornare in mente tanti ricordi che quasi gli girava la testa.
La luna splendeva chiara e i ciottoli bianchi rilucevano come monete nuove di zecca.
Quante volte se n’era uscito la notte sul balcone a guardare le stelle. Era sempre stato un’anima inquieta e gli capitava molto spesso di svegliarsi mentre nella casa tutto era buio e silenzio. Non volendo disturbare nessuno e tantomeno sua sorella, usciva sul piccolo terrazzo che avevano, che aveva spazio a malapena per due persone, ma a lui andava benissimo. Rimaneva lì anche per ore se la notte non era troppo fredda. Aveva tanta di quell’energia che non gli bastava il giorno per sfogarla: doveva rimanere fuori anche di notte, cercando di calmare un po’ l’argento vivo che a detta di tutti gli scorreva nelle vene.
Ah, babbo, guardo il mio gattino bianco che è sul tetto e vuole dirmi addio.
Se l’era dimenticato. Erano passati tanti anni, certo, ma non riusciva a capire come avesse fatto a dimenticarselo. Quando erano piccoli, avevano una gatta. Si chiamava Polvere, perché quando la mamma l’aveva trovata per la prima volta l’aveva scambiata proprio per quello. Si era nascosta in un cassetto e mentre stava spolverando la mamma se l’era trovata davanti. Era completamente grigia, fatta eccezione per la punta delle zampe e della coda, che erano nere. Era una gatta molto indipendente, era sempre stato difficile tenerla a bada. Non voleva stare rinchiusa da nessuna parte e se si sentiva costretta scappava sui tetti, ma era affezionata alla famiglia e alla fine tornava sempre. Un giorno non era più tornata: lui e sua sorella avevano pianto molto.
E quando la luna sorse, prese Gretel per mano.
Una volta, poco prima che scoppiasse la guerra, lui e sua sorella avevano deciso di fuggire di casa. Non era stata una scelta molto ponderata: avevano litigato tutti e due con mamma e papà ed erano arrabbiati con il mondo. Avevano preparato uno zaino a testa ed erano andati via. Erano stati per un giorno intero nella campagna che circondava il loro villaggio, senza sapere esattamente cosa fare, poi avevano ceduto. Sentivano già la mancanza di casa e dei loro genitori e nessuno dei due aveva davvero voglia di passare una notte in mezzo alla campagna deserta. Così erano tornati a casa con la coda tra le gambe, un po’ impauriti, in parte ancora arrabbiati e in crisi come erano partiti, ma in parte anche molto più rilassati.
Ma siccome aveva già ceduto una volta, non poté dire di no.
Papà era costretto a viaggiare molto per lavoro. C’erano stati lunghi periodi della loro vita in cui l’avevano visto così raramente che quasi si erano dimenticati che aspetto avesse. Non che stare con la mamma fosse nulla di male, avrebbero semplicemente preferito stare con tutti e due. Ma, come ripeteva sempre papà, dopo che aveva detto di sì una volta, non poteva più tirarsi indietro. Quella logica non lo aveva mai convinto molto.
Poi si addormentarono per la gran stanchezza.
E così fece anche il ragazzo, non riuscendo a sentire il finale della sua fiaba preferita.
E i tre vissero per sempre felici e contenti.
Helena finì di leggere la fiaba e chiuse il libro. Nelle sue annotazioni, Wanda le aveva scritto che Hänsel e Gretel era la fiaba preferita del fratello. Helena leggeva per circa mezz'ora tutte le mattine e ogni volta arrivava a quella fiaba proprio nel momento in cui il ragazzo era –o sembrava– sveglio. Ancora qualche giorno e l'avrebbe imparata a memoria.
Le ispirava una certa tenerezza il modo in cui il ragazzo aveva spalancato gli occhi sul mondo quella mattina: sembrava un cucciolo appena nato che scopre i colori. Gli spalmò un cucchiaio di miele sulle labbra, che ormai sorridevano sempre in un modo appena accennato, e depose con delicatezza un bacio sulla sua fronte, poi lasciò la stanza facendo meno rumore possibile.

Circa un mese prima, altrove
Ji-eun si svegliò di soprassalto. Era così stanca che si era addormentata sui propri appunti: forse avrebbe fatto meglio ad andare a letto. Si voltò verso la sveglia digitale che teneva sulla scrivania: erano le quattro del mattino. L’ultima volta che aveva guardato l’orologio prima di addormentarsi erano le due e mezza, perciò aveva dormito un po’ più di un’ora, contando che non era la prima volta che si svegliava.
Per forza che non riusciva a dormire bene: nessuno ce l’avrebbe fatta, se il sonno avesse riservato a tutti quello che vedeva lei in sogno. L’orrore di quelle immagini era fissato nella sua mente e la spronava a continuare a lavorare. Era quello che la spingeva a continuare fino a notte fonda a fare calcoli su calcoli, elaborare teorie e mescolare composti che ogni volta rischiavano di esplodere. Una volta si era spinta al massimo, era così stanca che aveva inserito un Ph diverso per l’acqua nei propri calcoli. Non l’avrebbero neanche ammessa all’università in quelle condizioni, figuriamoci proporle di insegnare, come era già successo più volte.
Non poteva proprio continuare così. Si alzò e si strofinò gli occhi. Spense il computer e decise di concedersi una buona dormita, una volta tanto, nella speranza che i sogni le permettessero comunque di dormire. Sembravano ritornare per ricordarle che il lavoro non era stato finito e che non poteva concedersi una pausa. Ma quella notte avrebbe fatto come voleva lei. Si svestì e andò a fare una doccia. Mentre l’acqua calda le scorreva sul corpo, immaginò di lavare via insieme alla polvere anche tutte le responsabilità che sentiva addosso per quel compito. Forse non avrebbe aiutato più di tanto, ma certamente l’aveva rilassata un minimo. Si asciugò velocemente i capelli con il phon – non sarebbe mai andata a dormire con i capelli bagnati, retaggio delle raccomandazioni di sua madre– e tornò in camera. Indosso il pigiama e si coricò. Il suo respiro si fece dapprima più lento, poi sempre più veloce. Di nuovo. Non riusciva proprio a tenerli fuori dalla propria testa.
Se solo Tony Stark non avesse urlato così forte.







The Magic Corner:
Salve a tutt*!
Grazie di aver trovato un po' di tempo per leggere questa fic :) Un grazie speciale alle 6 persone che seguono questa storia e alle 3 che l'hanno messa tra le preferite. Siete sempre più, cosa totalmente inaspettata, vi adoro <3
Lo so, lo so... è circa un mese che non mi faccio sentire... Ma siate allegri! Ci sono storie che aggiorno ogni tre mesi, con questa vado molto più veloce! Ok, lo so, non è un ottimo argomento, ma sto facendo davvero del mio meglio, siate comprensivi. Dopotutto, non è una coincidenza che io pubblichi sempre in coincidenza con ponti o vacanze da scuola... Il che significa che potreste dover aspettare fino al 2 giugno per il prossimo capitolo e mi sento già in colpa. Ma *buona notizia* mentre ho dovuto scrivere questo capitolo totalmente da zero, ho già scritto parti dei prossimi due capitoli e questo dovrebbe (e sottolineo dovrebbe) permettermi di andare un po' più spedita. Ma stiamo per cominciare quell'inferno per gli studenti che è maggio, perciò non posso garantirvi nulla :(
Volevo dire qualcos'altro... Ah, sì: vorrei sottolineare che tutta la parte sull'infanzia-prima adolescenza dei Maximoff è assolutamente priva di fonte e me la sono totalmente inventata. Fatemi sapere se vi sembra plausibile!
Dovrei aver finito, perciò vi saluto e vado a pubblicare per la felicità del pubblico :D
Essendo un'abitudinaria, vi esorto a seguire l'esempio di GreekComedy e di wild_spirit che hanno recensito lo scorso capitolo (che amori *.*), perché come sempre non vi costa un centesimo! Grazie di starmi ancora sopportando :)
Che gli dèi siano con voi!
-Magic

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Capitolo 7
*** Noi e voi ***


Pubblicità Progresso - Campagna No Profit
Ogni giorno una tastiera si sveglia e sa che sarà maltrattata da uno scrittore incapace.
Mentre tu stai comodamente seduto davanti al tuo computer a leggere fan-fiction, c'è una tastiera che soffre.
Ognuno di noi può fare qualcosa per aiutarla.
Puoi dire a quello scrittore che è incapace, o incoraggiarne un altro perchè non lo è.
Scrivi una recensione!
Non restare indifferente, il destino delle tastiere dipende anche da te!

Noi e voi

Ci siamo noi
e ci siete voi.
Noi che veniamo pugnalati,
noi bersagliati dalla sorte,
noi guardati di sbieco,
noi distrutti dal dolore,
noi ossessionati,
deliranti e tormentati,
noi che ci guardiamo l’un l’altro
come fossimo folli.
 
Ci siamo noi e ci siete voi.
Voi che ci vedete piangere,
che cercate di sostenerci,
che vorreste proteggerci,
che ci guardate come dei pazzi
ma non ci scacciate per questo,
che vi date pena per noi,
che desiderate di capire
che cosa ci sta succedendo.

Voi

Qualche giorno dopo il suo incontro con il dio, James si mise al lavoro. Con se stesso non voleva ammetterlo, perché era ancora nero di rabbia verso Loki e il modo in cui l’aveva trattato, ma avere finalmente qualcosa da fare gli faceva bene. Era più difficile perdersi nel vortice nero di alcol e ricordi, se la sua mente era concentrata a esaminare i documenti che gli sarebbero serviti nella sua ricerca. Loki gli aveva fatto arrivare tutte le informazioni raccolte fino a quel momento: spostamenti degli Avengers, appunti biografici sulla ragazza e rapporti di missioni trafugati non si sa bene come. James non avrebbe mai detto che un dio nordico potesse essere un tale esperto di computer, ma ormai stava imparando molto in fretta ad abituarsi a queste incongruenze.
Loki gli aveva anche scritto che avrebbe viaggiato per i mondi in cerca di altri manipolatori di magia che avrebbero potuto mandargli quell’immagine. Diceva che avrebbe seguito una traccia lasciato dall’utilizzo della magia. In quel caso, si era detto James, avrebbe potuto farlo anche con la strega ed evitargli quella faticaccia. Forse, però, era troppo pericoloso. O forse Loki non ne aveva voglia e aveva deciso di scaricare quel lavoro a lui. Entrambe le ipotesi erano altrettanto plausibili. Comunque James non aveva detto nulla per evitare che al dio venisse in testa qualche bella idea come rivelare a tutti dove fosse il suo nascondiglio. Prese qualcosa da bere e si sedette. Non era ancora in grado di affrontare la propria giornata senza un po’ di whisky che gli annebbiasse la mente.
Cominciò a leggere i rapporti e si accorse quasi subito che qualcosa non andava. O Steve non era più nella squadra oppure non era più se stesso: il Capitan America che James conosceva non avrebbe mai permesso un numero così alto di morti e feriti tra i civili. Se si fosse trattato di una volta sola, avrebbe capito che potesse essere stato di un imprevisto, ma lì ogni missione era così. Il numero di vittime, anzi, cresceva invece che diminuire. I rapporti erano spesso incompleti e in molti punti non completamente decrittati, ma sembrava che non ci fosse nessuna motivazione valida per tutte quelle morti. Cosa stava succedendo?

Noi

Steve era lontano da “casa” da quasi una settimana. Il problema era fondamentalmente la definizione di casa. Non voleva tornare nel suo vecchio appartamento, dopo quello che era successo. Non aveva nessuna voglia di dover passare ogni volta davanti a quel campanello con la scritta “Carter” senza poter suonare.
Erano giorni che non dormiva in un letto decente. Aveva preso la motocicletta ed era partito su chissà quale autostrada. Quando era stanco, a notte fonda, si fermava a dormire in qualche motel. All’alba si svegliava e tornava in sella. Normalmente dopo qualche giorno trascorso così si sarebbe stufato, si sarebbe detto per l’ennesima volta che non era quella la vita che faceva per lui e sarebbe tornato a casa. Ma nella sua testa lui non ce l’aveva più una casa, non una dove potesse desiderare di tornare, almeno. La base restava la sua unica possibilità e in fondo era un suo dovere verso la squadra andare ad aiutarli: chissà, magari avevano bisogno di lui. Si disse che il giorno dopo sarebbe ripartito verso l’Avengers Facility.
Si fermò presso un motel, parcheggiò la moto ed entrò. Dopo essere entrato in camera, si sedette sul bordo del letto. Si sentiva sporco per come aveva vissuto in quegli ultimi giorni, ma sapeva che fare una doccia non lo avrebbe aiutato. Si sentiva solo, abbandonato da tutti gli amici ed era certo che tornare tra i Vendicatori, tornare alla vita normale, non sarebbe stato facile: non era quella la compagnia che gli mancava. Si sentiva lontano dalle sole persone che avrebbe voluto vicino: Sharon, Peggy. Bucky. Chissà dov’era in quel momento, chissà se stava ancora fuggendo da lui. Forse avrebbe fatto meglio ad andare a cercarlo, ma se Bucky non si fidava di lui e non voleva farsi trovare, Steve avrebbe rispettato la sua decisione. Per una volta si chiese a che cosa servisse tutto quello che faceva e che era. A che cosa servisse Capitan America. Si disse che se lui rappresentava la sua “grande nazione”, allora doveva trattarsi di un posto vuoto e confuso, perché era quello che sentiva dentro di sé. Vuoto. Confusione. Un sospiro sul punto di spezzarsi arrivato all’altezza della bocca dello stomaco.
Si prese la testa tra le mani e chiuse gli occhi. Dietro le palpebre, continuò a vedere le persone che gli mancavano, insieme alle tante, forse troppe, battaglie che aveva combattuto negli ultimi tempi. Ripensò alla lotta con Bucky. Ricordò le vite che aveva salvato a Sokovia. E quelle che non era riuscito a salvare. Si sentiva così inutile.
Che cosa gli stava succedendo?

Voi

Il colonnello Nick Fury ne aveva viste tante nella sua carriera. Era stato lui a occuparsi di formare quella squadra. In un certo senso era nata come misura di sicurezza: ogni suo componente, a suo modo, aveva creato dei grossi problemi. Averli tutti insieme significava problemi più grossi, questo sì, ma per lo meno anche doverne affrontare uno solo per volta. Di solito. Poi c’era stata quella faccenda di Ultron e se anche il problema era uno solo si era ramificato al punto che sarebbe stato meglio averne tanti ma più semplici. Stark l’aveva fatta proprio grossa quella volta.
Non che fosse l’unico: Banner aveva già fatto abbastanza danni, Thor non poteva completamente essere incolpato del casino creato da suo fratello, ma in effetti tutta quella storia degli Asgardiani che usavano la Terra come centro vacanze a Fury non piaceva per nulla. Rogers mostrava una certa fastidiosa attitudine a non fidarsi di niente di ciò che il colonnello gli diceva e Scarlet Witch, anche se non era anagraficamente una ragazzina, era comunque molto inesperta e Nick Fury temeva sempre che prima o poi questo venisse fuori. Wilson e Rhodes erano ottimi soldati, anche se il primo sembrava seguire le orme di Rogers quanto a sfiducia e disubbidienza, e non aveva di che lamentarsi degli altri due, certo: Vedova Nera era così efficiente che a volte spaventava persino il colonnello e Barton era ineccepibile, se non si contava la questione con Loki, che però davvero non era dipesa da lui. Poi c’era Visione. Fury non aveva pregiudizi nei confronti degli androidi, ma era comunque sempre molto difficile rapportarsi con qualcuno che vedeva il mondo in modo completamente diverso da tutti gli altri, ma aveva il senso dell’umorismo di Stark.
Pensava a quello e a centinaia di altre cose, il colonnello Fury, mentre guardava attraverso gli occhiali scuri la campagna tedesca scorrere di fianco al suo finestrino. Si trovava sul primo dei tre treni che l’avrebbero portato nella clinica polacca dove aveva fatto ricoverare Pietro Maximoff. La dottoressa Mazur gli aveva scritto di nuovo: il ragazzo aveva aperto gli occhi, come Wanda aveva previsto, e sarebbe stato meglio se il colonnello si fosse fatto vedere. Si assopì per qualche ora, quando riaprì gli occhi il treno stava arrivando nella stazione dove lui doveva scendere. Per una volta un po’ di fortuna.
Sul secondo treno non aveva voglia di dormire e per passare il tempo si mise a leggere i rapporti delle missioni dei Vendicatori, faccenda che rimandava ormai da qualche mese. La cosa era abbastanza noiosa e Fury stava per addormentarsi di nuovo, quando arrivò al rapporto della terzultima missione. Accidenti, se erano morti tanti civili. Chissà che cosa era successo per ostacolare i Vendicatori: cercò in tutto il resoconto che cosa potesse essere stato, ma non trovò nulla che facesse al caso suo. Era mai possibile che Rhodes si fosse dimenticato di riportarlo? Eppure solitamente era molto preciso. Fury sospirò, ripromettendosi di chiedere chiarimenti il prima possibile, e passò al rapporto successivo.
La prima cosa che vi notò fu che il numero delle perdite civili era altissimo anche lì. La seconda cosa fu che di nuovo sembrava non esserci stato alcun impedimento alla salvezza di quelle persone. Si ricordava quanta pena si fossero dati gli Avengers a Sokovia per mettere in salvo il numero più alto possibile di civili innocenti e era assolutamente certo che ci dovevano essere almeno tre buoni motivi per cui quella strage -perché di quello si trattava- non era stata evitata. War Machine doveva avere proprio la testa da un'altra parte per averli tralasciati per due volte. Avrebbe dovuto farglielo presente: se ci si assume la responsabilità di stilare dei rapporti bisogna farlo bene. La cosa strana era che non era per nulla tipica di Rhodey una simile dimenticanza e ciò faceva sorgere nel colonnello Fury il dubbio che la realtà fosse un'altra. Era possibile che non ci fossero valide motivazioni per quelle tante, troppe morti? E in quel caso come avrebbero potuto essere spiegate? I sospetti di Fury furono rafforzati dalla lettura dell'ultimo rapporto che gli era stato mandato. Erano a organico ridotto, è vero, perché Tony e Thor non se l'erano sentita di andare in missione dopo quello che era successo, ma ce l'avrebbero benissimo potuta fare a salvare quelle vite. Questo a meno di eventi particolari, ovviamente, ma nel resoconto non ne veniva menzionato nessuno. No, si disse il colonnello scuotendo la testa come per scacciare i dubbi che lo tormentavano come insetti, doveva essersi trattato di un errore. Non c'era altra possibilità. A meno che... No, non era possibile. Eppure il dubbio rimaneva. Fury odiava avere brutti presentimenti.

Noi

Era da giorni che gli frullavano in testa pensieri e progetti che non riuscivano a riunirsi tutti insieme, ma quella mattina Bruce si era finalmente svegliato con un'idea precisa in mente. Per tutto il giorno non aveva potuto pensare ad altro. Aveva mangiato pochissimo, anzi praticamente nulla, a colazione e aveva subito chiesto a Tony se poteva parlargli in privato. Voleva chiedergli di poter utilizzare l'intero laboratorio senza che nessun altro ci lavorasse e non sapeva per quanto tempo gli sarebbe servito, ma era certo che all'altro l'idea non sarebbe andata molto a genio. Da dopo il funerale di Pepper, infatti, Tony passava praticamente tutto il giorno chiuso là dentro. Ne usciva solo per i pasti e a volte neppure per quelli, ma non aveva ancora concluso niente. Bruce sospettava che stesse lavorando senza sapere esattamente cosa volesse ottenere e finisse per montare e smontare vari congegni in modo casuale. In ogni caso, Tony non fu per nulla contento sentendo la richiesta dell’amico, anzi, cominciò ad accampare una scusa dopo l’altra. Bruce ci rifletté per un attimo, estraniandosi dai discorsi di Stark. Era una cosa che si imparava a fare abbastanza in fretta, convivendo e lavorando gomito a gomito con il miliardario. Si disse che forse un accordo si poteva trovare.
«A te andrebbe di aiutarmi?» propose, forse interrompendolo, ma non ci fece troppo caso «In questo modo potresti continuare a passare il tempo in laboratorio e non dovresti lasciarlo tutto a me. Anzi, avresti anche un obiettivo, invece di lavorare del tutto alla rinfusa»
Contrariamente a quanto Bruce si aspettava, Tony non parve minimamente scosso dalla frecciata. Stava quasi per chiedergli scusa: si era già pentito di ciò che aveva detto, ma, visto che quello si comportava come se non l’avesse neanche sentito, lasciò perdere.
«Non so neppure di che si tratti» disse infine Tony, dopo qualche attimo di silenzio. Stava continuando, forse per inerzia, a sollevare obiezioni, ma in realtà sembrava già convinto. Bruce decise quindi di spiegargli nel dettaglio di cosa si trattasse.
Sapeva perfettamente che quel progetto poteva sembrare a prima vista ben più strampalato della maggior parte delle idee di Stark e quindi si aspettava da lui una reazione totalmente diversa. Era preparato a strabuzzamenti di occhi, a sentirsi dire che era completamente pazzo e a categorici rifiuti di collaborazione, ma non ricevette niente di tutto ciò. Si aspettava come minimo una richiesta di spiegazioni più approfondite che convincessero della buona fede dell’idea e della possibilità di tenere sotto controllo un simile potenziale o che fornissero assicurazioni che non sarebbe finita come con Ultron. Invece vide negli occhi di Tony risvegliarsi la curiosità e l’inventiva che Bruce aveva ormai dato per perse dopo la perdita che il miliardario aveva subìto, quelle che mancavano quando in laboratorio perdeva tempo collegando e scollegando circuiti. Tutto ciò che il suo amico disse fu: «Secondo me si può fare»
Bruce rimase immobile a fissarlo, esterrefatto.
«Che c’è?» gli domandò Tony con noncuranza.
Bruce scosse la testa, ancora più incredulo: «Niente»
Aveva già visto Tony comportarsi in modo diverso dal solito e sapeva che il metro della stranezza delle cose per lui funzionava in modo un po’ diverso che per tutti gli altri, ma era certissimo che nessuna persona al mondo avrebbe risposto così a quell’idea. Che cosa stava succedendo?

Voi

Visione vide qualcosa che non capiva: Wanda stava parlando con qualcuno che era identico a lui, ma certamente non era lui. Era seduta sul divano e lo guardava dal basso verso l’alto, Visione era alle sue spalle e non poteva vederla in viso, ma dal tono della sua voce sembrava parecchio perplessa.
«Non so di cosa tu stia parlando, Visione» disse Wanda.
«In fondo, loro si sono fidati di noi e noi che cosa abbiamo fatto?» domandò la Visione che era vicina a Wanda «Li abbiamo traditi, consegnati a una persona che non sappiamo neanche quanto sia affidabile. Abbiamo solo la parola di Fury e i miei calcoli dicono che questo non garantisce un’altissima percentuale di sicurezza»
«Non dire così, io mi fido di Fury» rispose Wanda. Evidentemente non si era accorta che non stava davvero parlando con Visione «Gli affiderei la vita di… la mia vita. Ma poi di chi parli? Chi si è fidato di noi? A chi li abbiamo consegnati?»
«Lo so» disse l’altra Visione, come se non l’avesse sentita «Ma non posso impedirmi di chiedermi quanto fosse reale quel pericolo. Forse così facendo stiamo esponendo il mondo a pericoli ancora più vasti di prima. Ormai è praticamente indifeso, lo sai bene»
Wanda non sapeva più cosa dire e continuò a fissare in silenzio l’altro, forse sperando che lui continuasse. Dopo qualche minuto di silenzio, infatti, egli riprese, come rispondendo a un’obiezione: «Ma lo sai che per quanti sforzi possiamo fare non saremo mai al loro livello. Chissà cosa potrebbe succedere se ci si presentasse un pericolo troppo grande per noi. Le probabilità non sono poi così basse. E allora cosa faremmo, andremmo a richiederli indietro?»
A quel punto la Visione originale si disse che quella farsa era durata abbastanza. Chiamò Wanda per nome e la giovane donna si voltò a guardarlo, spaventata. Quando riportarono lo sguardo al punto dove prima c’era la copia di Visione, era sparito.
«Lo hai visto? Eri tu?» domandò Wanda «Di cosa stavi parlando?»
«L’ho visto, ma non ero io» rispose Visione «Non so chi fosse né di cosa stesse parlando, ma mi ha dato una sensazione strana, come…»
«Come se non fosse completamente parte del nostro mondo» completò la donna. Visione annuì e si sedette vicino a Wanda.
«Tu credi che possa essere stata una proiezione della mia mente o qualcosa del genere?» domandò lei «Magari è qualche mio potere che non conosco e quindi non riesco a controllare. Forse è la stanchezza che mi fa fare queste cose»
«Nella tua mente ci sono cose come queste?»
«No, solo un po’ di malinconia al momento»
«Malinconia?» Visione la guardò negli occhi, cercando di capire.
«Mi manca Pietro»
«Già. Ma mi avevi detto che stava meglio»
«Non ne sono certa, è solo una sensazione. Clint dice che devo mettermi il cuore in pace. Dice che lui non tornerà più e devo accettarlo»
«Ci sono tanti modi per affrontare le perdite. Guarda Thor e il signor Stark: reagiscono in modo completamente diverso. Io dico che non bisognerebbe darsi per vinti finché c’è una speranza. E per quanto ne so io questa speranza c’è. O no?»
«Sì, c’è, è solo che a volte mi sembra che stia passando troppo tempo. Chissà se tornerà e come sarà. Io rivorrei solo mio fratello» Wanda poggiò la testa sulla spalla di Visione e si abbandonò a un sospiro. L’androide le circondò le spalle con un braccio. Sarebbero potuti rimanere in quella posizione in eterno.
All’improvviso davanti a loro si materializzò Nick Fury. Wanda chiese sottovoce a Visione se lo vedesse anche lui e quello rispose di sì, poi rimasero zitti e immobili, aspettando che quella figura parlasse.
«Visione» disse il colonnello «Io lo so che tu desideri salvaguardare il mondo e, credimi, è quello che voglio fare anch’io. Ma ti posso assicurare che se non avessimo agito in questo modo ora la salvaguardia del mondo sarebbe l’ultima cosa che potremmo sperare di ottenere. So che pensi che io agisca in modo sconsiderato. Non ti fidi di quella donna e il fatto che io ti abbia assicurato che le affiderei la mia vita non ha per nulla migliorato la situazione. Anzi, oserei dire il contrario. Lo capisco. Non ci conosciamo bene e dire che vediamo il mondo in modi diversi è un eufemismo. Ma ti chiedo di fidarti almeno quando ti dico che il destino del nostro pianeta è una delle cose che più mi sta a cuore in tutta la mia vita. Sono morto ufficialmente almeno tre volte perché così avrei potuto aiutare ancora a tenere in piedi la baracca. Ora, per una volta, ho dovuto fare un sacrificio più grande che vivere nascosto. È vero: questa situazione è instabile ed estremamente pericolosa, ma era la migliore possibile. Ho visto a cosa stavamo andando incontro con questo mio occhio e posso assicurarti che al confronto ci troviamo nel mondo dei balocchi»
Visione guardò Wanda. Wanda guardò Visione. Come era successo prima, quando lo cercarono di nuovo con gli occhi il colonnello Fury era scomparso. I due si accordarono di non parlarne con nessuno, per il momento, in attesa di capire un po’ meglio che cosa stesse succedendo.

Noi

Tony seguì Bruce nel laboratorio e si fece rispiegare tutto una seconda volta. Poi una terza. Infine chiese al suo amico un attimo di silenzio. Sapeva che fatta da lui si trattava di una richiesta alquanto inusuale, ma aveva bisogno di pensare, di riuscire a concentrarsi. Da quando era rimasto solo, gli riusciva sempre più difficile mantenere il pensiero fisso su qualcosa, anche quando stava lavorando. Era per quello che finiva per fare le cose “alla rinfusa”, come aveva detto Bruce.
Gli serviva del tempo per pensare perché stava cercando di capire come diavolo fosse venuto in mente a Bruce di sviluppare qualcosa che avesse un simile potenziale energetico. Si trattava di qualcosa di tecnicamente impossibile da imbrigliare, oltretutto, anche nel caso in cui fossero riusciti a crearlo, cosa di cui Tony dubitava seriamente. Non espose, però, i propri dubbi all’amico. Prima di tutto, voleva mettersi a lavorare il prima possibile: aveva bisogno di distrarsi e non gli importava di riuscire a realizzare quello che si stavano prefiggendo, bastava non starsene con le mani in mano. In secondo luogo, quelle questioni passavano rapidissime in secondo piano, se si considerava che per la prima volta da anni, forse da quando si erano conosciuti, Bruce andava a cercare Tony per chiedergli un aiuto a sviluppare un progetto, invece che viceversa.
Il comportamento dell’amico era molto strano, Tony se l’era detto fin da quando il fisico gli aveva chiesto di poter avere il laboratorio completamente a disposizione: a Bruce non aveva mai dato fastidio dover lavorare anche in spazi molto piccoli e insieme a tante altre persone, anche quando si trattava di questioni di sicurezza o potenzialmente distruttive. Aveva pensato che l’amico stesse cercando di distrarlo e di tirargli su il morale, ma quando aveva sentito la sua spiegazione si era reso conto che c’era molto altro. Chissà da quanto tempo ci stava pensando, senza avvertirlo di nulla: questa era un’altra cosa strana. Ma che diamine stava succedendo?


Circa due settimane prima, altrove
Kim mordicchiò il retro della penna, nervosa. Non c’era niente che la facesse irritare di più che non riuscire a risolvere problemi di natura scientifica e non c’era dubbio che quello fosse un grosso problema e che si trattasse unicamente di scienza e scienziati. Si alzò di scatto e mise sul fuoco un bollitore per il tè. Magari l’avrebbe aiutata a riflettere meglio sulla questione. O almeno le avrebbe permesso di staccare per qualche minuto la spina e farsi passare un po’ di nervosismo.
Sapeva di star prendendo la cosa troppo sul serio. Sentiva nella propria mente la saggia voce di Helena che le ripeteva con il suo accento polacco che quella era una follia e avrebbe dovuto lasciar perdere. Non solo era improbabile che ce la facesse, ma anche in caso ci fosse riuscita il risultato sarebbe comunque stato di un livello di pericolosità così alto che probabilmente alla fine avrebbe dovuto distruggerlo. No, rispose Kim alla voce nella propria testa, reprimendo un brivido alla prospettiva di dover buttare via tutto, non si distruggerà nulla di tutto questo. Non lo permetterò. La saggia voce dell’amica nella sua testa le ricordò che in fondo neanche lei voleva che qualcuno dovesse mai servirsi di quegli studi. Era vero: Kim sperava con tutte le sue forze che quei fogli ammuffissero e finissero dimenticati perché nessuno li usava. Ma sapeva con certezza che c’era un bisogno terribile che qualcuno li scrivesse e continuassero ad esistere.
Versata l’acqua bollente nella tazza, la coreana mise la bustina in infusione e aspettò che il tè fosse pronto. Forse furono proprio le volute verdi che la miscela nella bustina creava disperdendosi nell’acqua a farle venire quell’idea. Certo, come aveva potuto non pensarci prima? Quella era probabilmente l’unica cosa al mondo che avrebbe potuto funzionare. Chissà se esisteva qualcosa di simile, però.




The Magic Corner:
Ciao a tutt*! Per chi non mi conoscesse, sono la svitata che ha scritto la storia, la quale ha un paio di cosette da dirvi:
Numero uno, grazie a tutti. Grazie a chi ha trovato la voglia di leggere questa fic. Grazie a GreekComedy che è un tesoro e mi recensisce tutti i capitoli anche se potrebbe commentarmeli a voce, grazie alle 11 persone che hanno inserito la storia tra le preferite o tra le seguite (tanto amore <3) e a tutti coloro che mi hanno mandato un messaggio privato di complimenti *.*
Numero due, sto riducendo i tempi! Ci ho messo esattamente tre settimane a pubblicare questo nuovo capitolo, contrariamente al solito mese che mi ci vuole. Ok, è solo una settimana in meno, ma è già un buon miglioramento. E oltretutto non ho neanche aspettato una vacanza scolastica!
Numero tre, qualche programma per il futuro: se ho fatto bene i conti, tra due-tre capitoli finirò la prima parte di questa storia. Vi sento già dire "Ah, perchè era divisa in parti?" Ebbene sì. Questo significa che... la fic potrebbe avere un periodo di pausa più lungo del solito, MA non prendetelo come dato certo, perchè ci stiamo avvicinando all'estate e questo potrebbe aiutare non poco.
Numero quattro, questa è in particolare per wild_spirit (se riemerge dalle profondità dello studio e trova il tempo di leggere), ma un po' per tutti: piccola anticipazione, il prossimo capitolo sarà tutto dedicato a Loki! Non ci sarà solo lui, ma... beh, ci sarà molto.
Numero cinque (per gli dèi quanto sono prolissa!), è in arrivo un nuovo personaggio! Arriva fresco fresco dall'universo dei fumetti, ma a breve entrerà anche nel MCU :) non vi anticipo oltre...
Numero sei, *Trivia*: il capitolo doveva intitolarsi "Che cosa sta succedendo?" ma questo titolo mi piaceva di più! XD
Numero sette, nonché ultimo, vi esorto a lasciarmi una recensione perché è un gesto tanto carino... e poi non vi costa nulla, su, coraggio!
Grazie per la pazienza che mostrate nel sopportarmi, ora la finisco e pubblico questo capitolo, così posso tornare a studiare (maledetto maggio!).
Che gli dèi siano con voi!
-Magic

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Capitolo 8
*** K ***


Pubblicità Progresso - Campagna No Profit 
Ogni giorno  uno scrittore incapace si sveglia e sa che dovrà inseguire una tastiera che fugge.
Ogni giorno una tastiera si sveglia e sa che dovrà correre più veloce di uno scrittore incapace.
Che tu sia scrittore o tastiera, comincia a correre.

Ma se sei un lettore no! Puoi fermare questo scempio!
Scrivi una recensione!
Non restare indifferente, il destino delle tastiere dipende anche da te!

K

K non è storia
K non è una persona
K è soltanto una lettera
 
Ormai è stato dappertutto
in cerca di risposte,
di una frase rassicurante.
Vorrebbe tornare a dormire
sonni senza sogni,
vorrebbe dimenticare ciò che ha visto.
Vorrebbe fidarsi,
ma K è soltanto una lettera
 
K non è storia
K è anche una persona
 
Ha sacrificato la vita
all’altare della salvezza
per sé e per tutti.
Non vede lo stesso mondo degli altri,
non si stupisce per le stesse cose,
non ha gli stessi segreti.
Forse le costerà molto,
ma K è anche una persona
 
K è soprattutto storia
 
Dopo un’attesa lunga anni,
può finalmente tornare ad aspirare
a ciò che è stato negato tante volte.
Non teme il pericolo,
vuole dimostrare al mondo
che cosa può fare.
Ancora nessuno lo può sapere,
ma K è soprattutto storia
 
K è soltanto una lettera,
K è anche una persona,
ma K è soprattutto storia.


Il tempo trascorreva in modo molto diverso dagli altri per Hela, regina di Hel e Niflheim. Figlia di Loki, Hela era stata resa da Odino dea della morte. Il mondo di Hel, situato all'interno di quello di Niflheim, era l'ultimo dei Nove Mondi ed era destinato ad accogliere gli spiriti di tutti i morti cui non era stato concesso di accedere al Valhalla. Da tempo immemorabile, Hela si recava personalmente da ogni asgardiano in punto di morte per liberarne lo spirito, a meno che questi fosse morto in battaglia, ed era perciò comprensibile che ella vedesse il passare dei giorni in un modo tutto suo. Nonostante ciò, era sicura che fosse passato molto tempo dall'ultima volta che aveva visto suo padre. Eppure, era ancora in grado di percepire la sua presenza con assoluta certezza.
Hela scrutava il proprio regno desolato da una delle rocche fortificate che lo proteggevano ed era quasi orgogliosa di ciò che vedeva. Nessun piacere, nessun vano abbellimento era visibile all’orizzonte: la distesa brulla che si stendeva davanti ai suoi occhi aveva fine soltanto al confine con Niflheim, dove tutto diveniva ghiacciato. Gli asgardiani che non morivano in battaglia non avevano diritto a nient’altro che quello. La dea sperava che un giorno sarebbe riuscita anche a conquistare l’anima di Thor o di suo padre, ma sapeva che avrebbe dovuto lottare molto per ottenerla. Per il momento, si sarebbe accontentata di coloro che non avevano meritato il Valhalla. E di accogliere il padre, che era venuto a farle visita. Sapeva che lui era lì, anche se non l’aveva ancora visto perché si trovava alle sue spalle.
«In molti hanno pianto la tua morte, padre» disse, senza voltarsi verso il suo ospite.
«Nessuno meglio di te sa che si sono sbagliati, Hela» rispose Loki, con un mezzo sorriso «Si racconta che tu conosca di persona ogni tuo suddito»
«Talvolta le voci sono esagerate, ma certamente non mi sarebbe sfuggito se tra di loro ci fossi stato tu»
«Sono felice di saperlo, o almeno così credo. Mi fiderò della tua parola al riguardo, comunque. È passato molto tempo dall'ultima volta che ci siamo incontrati»
«Secondo molti sistemi di misura, è così» Hela fece una pausa e si voltò verso il padre. La sua bellezza e la gioventù non erano minimamente mutate, ma questo non stupì Loki, che ne conosceva il motivo. Il manto che sua figlia indossava non le dava solo poteri straordinari, ma modificava anche il suo aspetto, nascondendo a tutti che metà del suo corpo era in stato di putrefazione, quasi un cadavere.
«Non hai portato con te il tuo amico? Credo che avrebbe gradito il clima gelido di Niflheim, visto che è un Uomo d'Inverno»
«Soldato d'Inverno» la corresse Loki a mezza voce. Non sarebbe stato corretto dire che era arrossito, piuttosto il suo volto aveva assunto una tinta leggermente meno pallida. Si chiese, come succedeva sempre, come accidenti facesse sua figlia a sapere sempre tutto.
«Sì, è lo stesso» disse la dea, rendendo il padre leggermente infastidito.
«È meglio tenere gli umani mortali lontani da questi mondi» rispose questi.
«Come preferisci» concesse Hela, chinando appena la testa «Perché sei qui, padre?»
«Ho avuto una visione. Mio fratello, il figlio di Odino, che mi parlava, ma sembrava quasi parlasse da solo. Poi, quando ho distolto lo sguardo è sparito. Ho pensato che, visto che tu sei tra i pochi che sanno che io sono ancora in vita, potrebbe essere stata opera tua. Non sarebbe la prima volta che dimostri di saper fare cose simili»
«E perché avrei dovuto farlo?»
«È ciò che sono venuto a chiederti»
«Non è opera mia. Ma so chi potrebbe essere stato. Immagino tu abbia già seguito molte tracce di magia»
«È così»
«Anche sulla Terra?»
«No, ho tenuto quella nuova strega per ultima. Speravo di non dover arrivare a chiedere a lei. È molto vicina ai Vendicatori, dopotutto»
«È vero, ma non c'è solo lei» Hela parve sorridere quando vide l'espressione di suo padre farsi più attenta e incuriosita.
«Un'altra traccia?» domandò Loki «Non l'ho percepita»
«È molto debole, quasi inesistente, ma credo che valga la pena fare un tentativo»
«Ne conosci la fonte?»
«Ti posso indicare il luogo, ma non so nulla della donna che vi risiede. So solo che si fa chiamare K, per il resto dovrai chiedere a lei di persona. E decidere se fidarti o meno»
«E di te devo fidarmi?»
«Perché sei venuto, se non intendevi fidarti?» Loki non rispose «Sei il Signore degli Inganni, dopotutto, potrei mentirti?»
«Tu sei mia figlia e la dea della morte. Non dubito che tu ne sia capace»
«Non stavolta. Consideralo come uno dei favori che ti devo, padre»
Loki non sembrava del tutto convinto, ma fece un cenno con la testa che somigliava a un assenso e poi se ne andò. Se anche c'era qualcuno di cui si fidava in questo universo, non era certamente Hela, nonostante fosse sua figlia. Anzi, proprio perché era sua figlia.

Qualche giorno dopo, Terra
Il Signore degli Inganni non voleva decidersi a entrare in quella casa. Aveva tenuto la pista sulla Terra per ultima: non era mai molto contento di girare su quel pianetucolo presuntuoso e in quel momento lo era ancora meno visto che stava correndo il rischio di incontrare suo fratello. Purtroppo, però, non gli restavano più altre possibilità e doveva per forza entrare là dentro. Guardò ancora una volta la finestra illuminata e si disse che in fondo non era necessario che entrasse fisicamente. Oltretutto, sarebbe stato ottimo per impressionare la donna, in caso non fosse stata del tutto disposta a collaborare.
La dottoressa Kim stava finendo di battere al computer i risultati di alcuni esperimenti che aveva condotto la settimana precedente. C'era quasi, sentiva che stava per farcela. Il composto che stava cercando era lì, a portata di mano. Le mancava solo l'ultimo ingrediente, lo stabilizzante che impedisse al tutto di esplodere non appena la temperatura avesse superato i dieci gradi. Accidenti, erano mesi che lo cercava, ma le sembrava di star giocando a nascondino. Sapeva che era lì da qualche parte, stava solo guardando nel posto sbagliato. Mise un punto alla frase che aveva appena finito e sbadigliò. Era l'una e mezza e lei era stanca morta. Forse avrebbe fatto meglio ad andare a dormire. Salvò il documento e lo chiuse, poi spense il computer. Si alzò dalla scrivania per spegnere la luce e si trovò faccia a faccia con un uomo. Sobbalzò per lo spavento e pensò subito di mettersi a urlare, ma poi si disse che viveva così isolata che nessuno l'avrebbe sentita. E forse l'intruso avrebbe potuto arrabbiarsi e farle del male. L'uomo si portò un dito davanti alle labbra esangui per chiedere il suo silenzio e la dottoressa annuì. Si sedette di nuovo sulla sedia della scrivania e gli indicò il letto, ma l'intruso non volle muoversi. Kim si sentiva quasi tranquilla, cosa assurda, visto che un uomo si era introdotto in casa sua e lei non poteva in nessun modo chiedere aiuto. Nei minuti di silenzio che seguirono, i due si fissarono, come se ognuno di loro avesse voluto capire se l'altro rappresentasse una minaccia. L'uomo non era molto alto e pareva assai magro. Kim non sapeva se i suoi occhi scuri risaltassero per la pelle color del latte o per i lineamenti affilati del volto, ma era certa che se avesse continuato a guardarla in quel modo non sarebbe mai più riuscita a muoversi. Quello sguardo pareva inchiodarla alla sedia.
«Chi sei?» le domandò l'uomo, con voce acuta.
Kim accennò un sorriso, scoprendo così di essere ancora in grado di muoversi: «Questo dovrei dirlo io»
«E perché?»
«Oh, beh, non sono stata io a introdurmi in casa tua all'una e mezza di notte»
«Questo è vero. Sono Loki, Signore degli Inganni»
«Ehm, direi di no»
«Scusa?»
«Ho visto dei telegiornali: Loki ha i capelli neri lunghi, non biondi, e gli occhi verdi. È vero, hai qualche tratto che gli somiglia, ma non si può certo dire che tu sia lui»
L'uomo fece un sorrisetto di superiorità. Davanti ai propri occhi, la dottoressa vide gli abiti comuni dell'uomo trasformarsi in una regale veste verde e oro, mentre i capelli gli si allungavano e diventavano neri. Quando riportò lo sguardo sul suo viso, l'uomo la fissava con i suoi occhi verdi.
«Sono Loki, Signore degli Inganni» ripeté «E in quanto tale sono perfettamente capace di alterare il mio aspetto. Sembri sorpresa»
Kim si riscosse dal proprio stupore: «Non è qualcosa che mi capiti di vedere ogni giorno»
«Eppure dovresti avere una certa dimestichezza con la magia»
«Io?»
«Dalle mie informazioni, pare che tu sia esperta nell’utilizzarla»
«Ti sembro una strega? Volo su una scopa, sono vestita con un lungo abito scuro e un cappello a punta?»
«Ti assicuro che la vostra immagine umana delle maghe non rende affatto giustizia alle incantatrici di mia conoscenza»
«Ok, forse era un po' stereotipata. Ma il fatto è che io non so assolutamente nulla di magia. Sono una scienziata. Se intendi scienza con magia, allora la conosco»
Loki parve irritato: «Ma certo che no, conosco la differenza! E no, non mi sembri un'incantatrice»
«E allora perché dici che dovrei avere dimestichezza con la magia?»
«Ho seguito una traccia. L'utilizzo di magia lascia sempre qualche traccia per chi sa come cercarla. Quest’ultima era piuttosto debole, ma portava proprio qui e visto che tu sei parecchio isolata non vedo chi altro potrebbe averla lasciata»
La dottoressa lo guardò con un po' di scetticismo, stringendosi nelle spalle: «Guarda, io non so che dirti. Non ho la minima idea di come si faccia un incantesimo o qualunque altra cosa tu creda che io abbia fatto. Se vuoi posso farti un tè e sistemarti il divano per dormire stanotte. Non posso fare nient’altro per aiutarti»
Loki non sembrava convinto e continuava a fissarla. Sembrava che non respirasse, tanto era immobile. Kim non sapeva più come dirgli che non era la persona che stava cercando. Le venne un dubbio: «Ma perché stai cercando qualcuno che sappia usare la magia?»
«Qualcuno ha cercato di mandarmi un messaggio proiettando un'immagine che non era reale. Sto cercando chi possa essere stato seguendo le tracce di magia, ma niente. In tutti i Nove Mondi ogni incantatore mi ha detto di non saperne nulla e nessuno mentiva!»
«E tu come fai a saperlo?»
Di nuovo quel sorrisetto di superiorità, Kim non sapeva se trovarlo divertente o snervante: «Sono il Signore degli Inganni. Bisogna proprio essere degli ottimi bugiardi per convincermi. Conosco ciascuno di loro, nessuno ne sarebbe capace. Ma non conosco te, chissà cosa sai fare»
«Sei testardo, eh? Non so niente di magia, te l'ho detto, no?»
«Magari è qualcosa di inconscio. Ti è successo qualcosa di particolare di recente?»
«Particolare in che senso?»
«Un'emozione molto forte, come uno spavento o qualcosa di simile, oppure dei sogni che non sapevi spiegarti o dei giramenti di testa e mancamenti, ad esempio»
La dottoressa aggrottò le sopracciglia, ricordando: «No, non mi sembra. A meno che...»
Loki la sollecitò a parlare: «A meno che cosa?»
«Probabilmente non c'entra nulla, ma qualche mese fa ho fatto un sogno che... Beh, diciamo che era strano»
Loki rifletté, ormai il fatto risaliva a qualche mese prima, poteva trattarsi di quello: «Cos'hai sognato?»
La dottoressa glielo raccontò. Il Signore degli Inganni pareva molto interessato. Alla fine la rassicurò dicendole che non era quello che stava cercando, ma aggiunse che quel sogno era comunque significativo. Chissà, avrebbe potuto influenzare il futuro. La dottoressa disse ridendo che di certo stava influenzando il suo, ma non volle rivelare altro.
«Bene, non so ancora se crederci del tutto, ma in mancanza d'altro temo di dover riconoscere che mi ero sbagliato. Mi rincresce di averti disturbata»
«Tranquillo, tanto non stavo dormendo. Ah, a proposito, guarda che non scherzavo per il divano, se vuoi fermarti te lo sistemo. È abbastanza tardi, dopotutto»
«No, no, io... Devo andare»
«D'accordo»
«Solo un'ultima cosa» doveva togliersi almeno quel dubbio, chissà se Hela era stata sincera su quello.
«Sì?»
«Come ti chiami?»
«Puoi chiamarmi K, lo fanno in molti»
«Un nome inusuale per una persona altrettanto inusuale» Loki pensò che almeno riguardo a quello sua figlia era stata sincera.
La dottoressa non rispose al suo ultimo commento. Dopo qualche minuto di silenzio, si riscosse: «Beh, addio»
Gli tese la mano, ma Loki la ignorò: «Addio» "Spero" aggiunse mentalmente il dio. Dal cortile, dissolse l'ologramma di sé che aveva fatto entrare in casa della donna e se ne andò. Era stata la donna a mentirgli oppure Hela? Loki sperava che una delle due l’avesse fatto, perché altrimenti avrebbe dovuto rivolgersi alla strega. Ed era l’ultima cosa che avrebbe voluto.
 
Nello stesso tempo, altrove
Il soldato si chiamava Émile. Non era mai stato al cospetto del leader, ma le informazioni che aveva raccolto erano così importanti che era stato ammesso alla sua presenza. La guardia accanto a lui continuava a lanciargli occhiate di sottecchi per vedere se fosse intimorito all’idea di incontrare K, così il soldato si sforzava di mantenere un passo deciso e di guardare fisso davanti a sé, mentre riaffioravano alla sua mente tutte le storie che aveva sentito raccontare riguardo al loro capo. Quando infine arrivarono, la guardia rimase fuori dalla porta e lo lasciò entrare da solo. Émile sentiva le gambe che si facevano sempre più molli. Fece un passo avanti, poi un altro e un altro ancora. Il leader era di schiena: era possibile vedere soltanto il mantello rosa scuro che gli copriva le spalle e l’elmo dello stesso colore che aveva in testa. Non si riusciva a distinguere nulla della figura che si stagliava nella vuota stanza bianca come il marmo: né la sua corporatura, né il suo sesso, né tantomeno il suo umore.
Dopo averlo fatto attendere per diversi minuti, in cui la sua ansia raggiunse livelli incredibili, K si voltò verso di lui. Indossava una casacca verde bordata di rosa con le maniche lunghe, stretta in vita da una cintura dello stesso colore del mantello e dei guanti che gli coprivano le mani quasi fino al gomito. Il suo elmo terminava sul petto con una piastra che teneva fermo sulle spalle il mantello, mentre dei pantaloni dello stesso colore della casacca sparivano in altissimi stivali, anch’essi rosa scuro. Il suo volto era coperto da una maschera azzurra che permetteva di distinguere la sua espressione, ma non i lineamenti. Non si poteva dire che fosse un abbigliamento comune. Émile si sentiva ancora più a disagio, davanti agli occhi penetranti di quell’uomo. O di quella donna, era impossibile distinguere: lo aveva sentito dire, ma aveva sempre pensato che si trattasse di una voce messa in giro per aumentare il mistero, invece era proprio così.
«Sembra che tu abbia qualcosa di importante da riferire» disse K. Anche la sua voce era artificiale, come tutto ciò che il soldato poteva vedere, probabilmente veniva modificata dall’elmo o dalla maschera.
«Sì, signore» rispose Émile.
«Ti ascolto»
«Stark è riuscito a tracciarci. I nostri non sono stati abbastanza scaltri. Non conosce ancora la posizione di questa base, ma ha localizzato la piattaforma operativa e probabilmente non ci vorrà molto prima che i Vendicatori si dirigano lì. Tutti insieme troveranno di sicuro traccia della nostra presenza qui. Sarebbe prudente trasferirci il prima possibile»
«È tutto? Chi è operativo nella squadra?»
«Tutti, signore»
«Stark?»
«Anche. Non siamo riusciti a colpirlo abbastanza nel profondo, pare»
«Oppure lo abbiamo colpito anche troppo. Thor?»
«Non abbiamo notizie certe, ma sembra che si trovi anche lui con gli altri. Sembra improbabile che non parteciperà alla missione»
«Rogers?»
«È ancora in viaggio, ma i nostri dati dicono che si sta dirigendo verso la base dei Vendicatori. Nessuno sarà assente a questa missione, o così sembra. Per questo bisognerebbe accelerare il trasferimento»
«Non ce ne andremo»
«Signore?»
«Restiamo qui, soldato»
«Ma i Vendicatori saranno qui a breve, è questione di settimane, ormai»
«Lascia che vengano. Sperimenteranno chi è K e se ha o no il potere di batterli e conquistare finalmente la Terra. Starò qui ad aspettare che arrivino» La maschera sorrise.
«Sì, signore»
«Hai fatto un buon lavoro di intelligence, soldato»
«Grazie, signore»
«Puoi andare»
Émile chinò leggermente la testa e se ne andò camminando all’indietro, perché non osava voltare le spalle a K. Quando uscì, trovò la guardia che lo stava aspettando. Fece un cenno per dire che potevano andare e quello lo guardò come per chiedergli che cosa fosse successo. Émile si strinse nelle spalle e cominciò a camminare.
«Ma è un uomo o una donna?» domandò, quando furono abbastanza distanti dalla stanza da aver fatto diminuire il suo tremito alle gambe.
«Non ho mai conosciuto nessuno che lo sapesse» fu la risposta che ricevette.



The Magic Corner:
Ciao a tutt* e bentornati nelle grinfie di questa sclerata!
Qualcuno mi impedisca di continuare ad aggiungere personaggi e complicare la trama, vi prego!
E a proposito, diamo il benvenuto a Hela, la nostra graziosa dea infernale! Si tratta del personaggio che avevo anticipato la scorsa volta, farà il suo ingresso nel MCU con Thor 3 e sarà interpretata da Dama Galadriel, AKA Cate Blanchett, ma io ho voluto farle fare capolino qui perché... Sarò sincera: mi serviva qualcuno che desse quell'informazione a Loki e chi meglio di lei?
Un applauso per Kim, invece, che per la prima volta riesce a comparire in un capitolo invece che solo nei paragrafi di chiusura! Ah e cento punti a chi individua chi è K basandosi su come l'ho descritto/a (spero che la descrizione sia decente :D)
Passiamo ai soliti ringraziamenti! Tanto amore per GreekComedy, che mi ha fatto notare come lo scorso capitolo fosse un casino e non si capisse molto, per BishamonYG, che ha finalmente recensito!, per wild_spirit, che si è fatta attendere come una diva, per MC119, che ha recensito nonostante le cause di forza maggiore, per le dodici persone che hanno messo la storia tra le preferite/seguite (io ancora non ci credo) e, last but not least, per tutti voi che avete trovato voglia e tempo di leggere!
Già, ecco, lo scorso capitolo. Mi è stato detto da diverse persone che era molto confuso. Era mia intenzione che lo fosse, ma forse la cosa mi è un po' sfuggita di mano... Quindi credo che aggiungerò un paio di capitoli per ristabilire l'ordine e ritarderò la fine della parte prima, anche se non di molto.
Dovrei aver finito con le comunicazioni di servizio, quindi mi rimane solo un piccolo sondaggio da proporvi: preferite che pubblichi un capitolo bello spesso tutto in una volta, ma magari tra un mese o più, oppure le singole scene (anche se poi sono tutte legate) diciamo... una volta alla settimana? Io sarei più propensa a pubblicare tutto insieme e piuttosto nel frattempo inserisco scene su altri personaggi, per non farvi aspettare troppo senza avere nulla da leggere, ma se mi dite che preferite le scene una per volta io lo faccio anche!
Ok, ora ho davvero finito. Vi chiedo ancora, come sempre, di recensire la storia (è un gesto così carino, anche solo qualche riga, mi fa bene al cuore!) o di mandarmi un messaggio privato per dirmi che ve ne pare, se non vi va di recensire :)
Che gli dèi siano con voi!
-Magic

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Capitolo 9
*** Gelo d'Inverno ***


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Io sono una tastiera.
Il mio proprietario è uno scrittore incapace. Da anni cerca di scrivere qualcosa di decente, ma non ne ha il talento.
Scrivo questo messaggio di aiuto e lo rivolgo a voi lettori.
Potete fare qualcosa, potete incoraggiare scrittori diversi, scrittori capaci.
Potete dire al mio proprietario che non ha un briciolo di talento.
Potete scrivere una recensione.
Voi potete, dovete fare qualcosa. Aiutatemi.

Gelo d’Inverno

Ha ferito,
ha ucciso,
ha creato dolore,
ha imparato una vita
che non è la sua,
che non lo dovrebbe essere,
ha attaccato il mondo.
Ma questo non è lui.
Non più
 
Ha pianto,
ha vomitato
ha sanguinato,
ha attaccato il proprio volto
come la tela di Dorian Gray.
Eppure è ancora qui
 
È stato ferito,
è stato riprogrammato,
ha provato dolore,
ha vissuto una vita
che non è la sua,
che non lo sarà mai,
sa difendersi da un mondo
che non lo attacca.
Non più
 
Ha pianto,
ha vomitato,
ha sanguinato,
ogni notte nel proprio incubo
ha desiderato che fosse finita.
Eppure è ancora qui

 

L’ex-sergente Barnes arrivò davanti all’hotel Montage Beverly Hills e si fermò, senza trovare il coraggio di entrare. Era un posto elegante, di quelli dove si trovano le star di Hollywood, ma non era quello il problema: si era vestito in modo da sembrare un cliente. Guardando attraverso il fumo della sigaretta che stava fumando, si disse che non sapeva se sarebbe stato in grado di agire con la segretezza che il Signore degli Inganni gli aveva chiesto. Era per così dire tornato alla civiltà ed era ancora confuso, anche se dentro di sé sentiva di avere ancora la prontezza e l’addestramento di un Soldato d’Inverno. Scosse la testa come per scacciare quelle insicurezze e ritrovare la lucidità che gli avrebbe permesso di portare a termine il compito, spense la sigaretta sul posacenere di un cestino dell’immondizia ed entrò.
Per prima cosa dovette evitare di farsi confondere dalle luci dell’atrio, che gli facevano quasi male agli occhi dopo la luce debole e grigia del cielo piovoso di Los Angeles, là fuori. Poi individuò l’ascensore e vi si diresse con passo deciso, studiato per non destare il minimo sospetto. Arrivò al secondo piano e non appena il corridoio fu libero si introdusse nello stanzino di servizio accanto alle scale. Dopo aver tolto quegli scomodissimi abiti da persona ricca ed essersi vestito da inserviente con tanto di guanti a nascondere il braccio bionico, caricò di asciugamani un carrello. Prima di uscire, inserì tra due di essi un quadrato di carta bianca, su cui aveva scritto “Stras errag etrti amroc iirlp asrsa toral lersp alrle”. Aveva appena chiuso la porta dello stanzino, quando una cameriera gli finì quasi addosso.
«Scusami, non ti avevo vista» le disse con un sorriso incredibilmente finto, anche se credibile.
«Figurati!» rispose lei con una piccola risata, che James classificò subito come quella tipica di una ragazza stupida e insopportabile «Dove vai?»
«Alla 237, ha chiesto degli altri asciugamani» accennò con la testa al carrello.
La ragazza alzò gli occhi al cielo con aria teatrale: «Ce ne ha sempre una quello lì! Beh, ti lascio allora, se non si fa presto, fa sempre storie»
«Sì, davvero» convenne Barnes senza smettere di sorridere, poi si avviò lungo il corridoio, voltandosi a lanciarle ancora uno sguardo. Lei lo salutò con la mano. Quando poté finalmente smettere di sorridere come un idiota, il Soldato d’Inverno si disse che quanto al passare inosservati evidentemente non aveva perso colpi.
Raggiunse la camera di Loki senza altri intoppi, poggiò per terra davanti alla porta la pila di asciugamani e bussò. Cominciò ad allontanarsi non appena sentì i passi dell’asgardiano nella stanza. Sentì la porta aprirsi alle proprie spalle, ma non si voltò. La leggerissima risatina del dio, probabilmente dovuta all’averlo visto vestito in quel modo, lo raggiunse e gli fece nascere un brivido lungo la spina dorsale, che trattenne a stento. Era fastidioso trattare con quella persona in quel modo. Sentiva gli occhi di Loki puntati sulla sua nuca, ma resistette all’istinto di voltarsi e continuò fino all’angolo del corridoio.
Il dio degli inganni richiuse la porta con un sospiro dopo che James ebbe voltato l’angolo ignorandolo. Trovò il bigliettino tra gli asciugamani e prese da scrivere. Per prima cosa rimosse la lettera “r” che si trovava sempre in terza posizione in ogni gruppo di cinque lettere e riscrisse quello che aveva ottenuto: “Stas erag etti amoc iilp assa toal lesp alle”. Quindi lesse tutto di seguito (“Staseragettiamociilpassatoallespalle”) e inserì gli spazi dove servivano perché le parole avessero un significato: “Stasera gettiamoci il passato alle spalle”. Sorrise tra sé, pensando che per fortuna Barnes aveva voluto rispettare in tutto e per tutto la segretezza che Loki gli aveva imposto. Non potevano rischiare di essere rintracciati. Uscì, portando con sé i due fogli scarabocchiati e appena riuscì a non avere nessuno intorno li fece a pezzetti e poi li bruciò. Qualunque prova doveva essere cancellata. Loki sapeva di trovarsi a un passo dal diventare ossessionato, ma aveva sempre più paura di essere trovato da suo fratello e forse, si disse, anche di scoprire cosa ci fosse sotto ciò che aveva visto.
 
Il Soldato d’Inverno ordinò un altro whisky per ingannare l’attesa. Sentiva crescere dentro di sé l’irritazione per il modo in cui Loki lo trattava. L’asgardiano si comportava come se il mondo girasse intorno a lui: James doveva fare questo, trovare quello, non farsi notare, seguire le sue stupide richieste da agente segreto e aspettarlo nei pub come se non avesse nient’altro da fare. D’altra parte, si disse, non aveva davvero altro da fare. A parte i lavoretti che aveva trovato con un nome falso, il compito che Loki gli aveva imposto gli assorbiva completamente le giornate, ma Bucky non sentiva il bisogno di più tempo libero: non avrebbe saputo come impiegarlo.
Finalmente lo vide entrare. Aveva assunto di nuovo il proprio aspetto originario: i capelli neri pettinati con incredibile cura arrivavano fino alle spalle e gli occhi verdi squadravano il mondo con malcelato disprezzo. Non appena si posarono su James, però, ebbero un guizzo e il loro proprietario parve quasi accennare un sorriso. Si avvicinò al bancone con passi che avrebbero voluto essere molto più rapidi, ma riuscì a trattenere le proprie gambe. Ordinò un grasshopper e attese che il barman lo preparasse e poi si allontanasse.
«Ho ricevuto il tuo messaggio» disse infine.
«Evidentemente» rispose tagliente James.
Loki detestava che la gente gli parlasse in quel modo: era esattamente come lui si comportava con tutti. «L’hai trovata?» domandò
Barnes sospirò e bevve un sorso di whisky: «Sì, ma è complicato»
«Quanto?» chiese il dio degli inganni, alzando gli occhi al soffitto per il fastidio. James non rispose, ma fece un lieve cenno verso la porta, come per dire che la spiegazione avrebbe richiesto meno gente intorno e sarebbe stato meglio uscire. Loki annuì e distolse lo sguardo dal Soldato d’Inverno per riportarlo sul proprio cocktail. Qualche minuto dopo sentì James alzarsi, lasciando i soldi sul bancone: si voltò appena, come chi resta sorpreso da un movimento inaspettato, poi tornò a concentrarsi sul drink. Ammirò a lungo il liquido verde acceso che aveva nel bicchiere, lo fissava tanto che pareva desiderasse di trovarsi al suo posto. Il barista guardandolo si disse che non doveva essere il primo che beveva, per essere così alienato.
Loki si prese tutto il tempo che gli serviva per finire di bere, poi pagò e uscì. Trovò Barnes nella stessa identica posizione dell’ultima volta, pareva che non si fosse mosso di un centimetro lungo il muro e non avesse tolto le mani dalle tasche o spostato il ciuffo ribelle di capelli bruni da davanti al viso neanche una volta. Loki cominciò di nuovo a camminare parallelamente a lui, lasciando però che quella volta fosse James a fare strada. Quando ritenne che fossero sufficientemente lontani dal locale, il Soldato d’Inverno si fermò ad aspettare che attraversasse la strada e nel frattempo si accese una sigaretta.
Loki pareva leggermente infastidito dal fumo che James gli soffiava davanti non molto involontariamente, ma non disse nulla, perciò l’altro fece finta di non essersene accorto. Il dio si chiese se fosse solo lui e trovare ridicolo il modo in cui entrambi si comportavano l’uno con l’altro o se fosse un sentimento condiviso.
Tacquero ancora per qualche tempo mentre camminavano, poi James, rivolgendosi quasi più alle volute di fumo nell’aria davanti a lui che all’uomo che gli camminava di fianco, disse: «Avengers Facility, stato di New York. Si trova lì, con gli altri Vendicatori»
«Questo avrei potuto immaginarlo da solo» commentò Loki, leggermente più acido di quanto avrebbe voluto.
«Prelevarla o parlarle mentre si trova lì è impossibile» continuò il Soldato d’Inverno, ignorando palesemente l’interruzione «Di certo qualcuno ti vedrebbe o cercherebbe di fermarti. I Vendicatori sono al completo, anche Steve e tuo fratello sono tornati alla base»
Loki notò con un certo fastidio la familiarità con cui James aveva pronunciato il nome di Capitan America, ma provò e riuscì a non farlo trasparire dal tono con cui parlò: «Quindi?»
«Sembra che non resteranno lì per molto. Stark si sta dedicando contemporaneamente a uno di quei suoi progetti e a quella che ha tutta l’aria di essere una missione abbastanza impegnativa. Ormai mancherà poco alla partenza»
«Cosa sai di questo progetto?»
James ripose con tutta calma, prendendo prima una boccata di fumo e soffiandola con indolenza nell’aria. Loki era teso come una corda di violino e sapeva perfettamente che l’altro lo stava facendo apposta, ma in fondo non poteva biasimarlo: era una piccola vendetta che poteva ben prendersi, visto che il dio lo stava usando per fare gran parte del lavoro. Si disse che probabilmente il Soldato d’Inverno non trovava ridicolo tutto ciò, anzi sembrava che lo divertisse.
«Quasi nulla» disse infine «Negli archivi è tutto cancellato o crittato in un modo che non ho ancora decifrato. Potrei non riuscirci mai, con un solo server a disposizione e quel livello di segretezza. Dev’essere roba pericolosa. Ci sta lavorando anche Banner, anzi, sembra che l’idea sia sua. Stark ha scritto diverse volte nei suoi appunti che pensa che la realizzazione sia impossibile, ma non ho potuto leggere una sola parola su di cosa si tratti»
«La missione, invece?»
«Come dicevo, dubito che ci vorrà molto. Nessuno ferma Stark in queste condizioni»
«È per la sua ragazza?» Barnes annuì «Allora ho un’idea di quanto deve aver lavorato. Cosa consigli?»
«Mentre sono alla base sono praticamente irraggiungibili, lo sai meglio di me» rispose James «ma durante gli spostamenti potrebbe essere più facile e sembra che questa missione ne richiederà almeno un paio»
«E come li rintraccio?»
James gli porse in silenzio una cartellina nera, che Loki prese mormorando un ringraziamento.
«Non ringraziarmi» disse quello. Il dio annuì appena, senza aggiungere altro e continuarono a camminare in silenzio. Bucky finì la sigaretta che stava fumando e ne accese un’altra. Arrivati davanti al rifugio del Soldato d’Inverno, i due si fermarono.
James rivolse a Loki uno sguardo così penetrante che il Signore degli Inganni sentì il bisogno di voltare la testa da un’altra parte, forse anche di andarsene, ma si trattenne e riuscì a fissarlo di rimando. Quegli occhi azzurri sembravano stargli scavando dentro e allo stesso tempo mandargli un chiaro messaggio: questa è casa mia. Loki poteva aver trovato il suo rifugio, ma farlo entrare in casa era un altro paio di maniche. Si trattava sostanzialmente di una violazione della sua intimità, della sua vita. Lo stava costringendo a farlo entrare nel suo universo, a mostrargli il luogo dove viveva e dove aveva lavorato. Dove si era ubriacato tante volte per dimenticare. Dove aveva pianto, vomitato, sanguinato. Dove si era straziato la pelle con le unghie per il desidero di uscirne e diventare qualcun altro. Dove tante volte aveva tirato fuori la pistola dal cassetto in cui la teneva in caso servisse, si era chiesto che cosa lo trattenesse dall’usarla e si era risposto che non c’era nulla, forse soltanto un po’ di paura di che cosa sarebbe venuto dopo, del giudizio supremo a cui sarebbe stato sottoposto.
Quel posto era la cosa più intima, più vera, che gli fosse rimasta in quel mondo schifoso che non lo riconosceva più e a cui lui non sentiva di appartenere. Era sempre pronto ad andarsene al minimo segnale che qualcuno lo aveva trovato, ma finché non fosse successo quel posto era parte di lui. Era lui.
Loki lesse nei suoi occhi quello che gli stava dicendo e se non capì proprio tutto ne intuì una buona parte. Far entrare chiunque in quella casa sarebbe stato difficile, ma far entrare lui… beh, quello era quasi impossibile. In fondo, chi vorrebbe il proprio ricattatore in casa? Il dio all’improvviso si sentì in colpa: era piombato dal nulla nella vita del Soldato d’Inverno per chiedergli di fare quel lavoro per lui, oltretutto minacciandolo di rivelare a tutti dove si trovasse. James avrebbe potuto semplicemente fingere di accettare e poi sparire. A Loki sarebbero stati necessari almeno altri tre mesi per rintracciarlo, vista l’abilità dell’ex-sergente, e lui nel frattempo si sarebbe potuto spostare ancora. Invece aveva deciso di portare a termine quella storia, di aiutarlo. Forse costringere James a farlo entrare in casa sarebbe stato troppo anche per Loki: gli aveva già rovinato abbastanza la vita.
«Senti» disse, esitante, mettendogli una mano sul braccio «Non c’è bisogno che entri anch’io, se non vuoi. Posso aspettare fuori che tu trovi quello che ci serve»
«Non hai bussato prima di entrare nella mia vita e ora ti fai tanti problemi per un alloggio?» domandò sarcastico, ma senza sorridere, James socchiudendo gli occhi, forse per il fastidio del fumo o forse per l’irritazione, poi si scrollò di dosso la sua mano «Tieni le mani a posto e fatti gli affari tuoi e non ci saranno problemi»
«Chiaro» annuì Loki. James gettò la sigaretta per terra e la calpestò per spegnerla, poi aprì la porta e lo invitò a entrare con un gesto teatrale quanto derisorio. Il dio fece qualche passo al buio, poi Barnes entrò dietro di lui e accese la luce.
«Мой дом - твой дом» (la mia casa è la tua) disse, con un tono ironico. Loki aveva sicuramente sentito e capito, grazie all’Omnilingua asgardiana, ma non rispose, perché era troppo occupato a guardarsi intorno. Non c’era molto, perché in caso l’avessero trovato sarebbe stato più facile fare le valigie con un mobilio scarno, ma il dio stava comunque cercando di capire meglio l’uomo che aveva davanti basandosi sulla sua casa.
James lo superò con una leggera spallata che non aveva nulla di accidentale e si avvicinò alla scrivania. Tirò fuori da un paio di cassetti il loro contenuto di fogli e lo poggiò sul piano, poi estrasse da ogni pila quello che gli serviva e mise via il resto. Solo allora alzò lo sguardo alla ricerca di Loki e non lo vide. Controllò la stanza con gli occhi e intravide una sagoma dietro uno scaffale. Sospirò e andò a vedere: il Signore degli Inganni stava guardando alcune fotografie che erano rimaste lì dall’ultima volta che Bucky le aveva riguardate. In mano ne aveva una in cui lui e Steve ridevano, abbracciati. Era stata scattata prima del Siero, prima che Steve si facesse coinvolgere in quella stupida guerra, prima del treno nella neve.
Per un attimo i ricordi tornarono ad assillarlo come qualche sera prima, poi James fu preso dall’ira: come si permetteva di intromettersi così nella sua vita? Strappò la fotografia di mano a Loki e la rimise insieme alle altre sullo scaffale. Il dio sollevò su di lui uno sguardo triste e colpevole: «Scusa, io non intendevo…»
«Quale parte di “tieni le mani a posto e fatti gli affari tuoi” non è arrivata alla tua elevata mente asgardiana?» domandò tagliente in risposta James. Loki chinò la testa in segno di scusa e lo seguì alla scrivania.
Il Soldato d’Inverno si sedette, finì di spiegare la situazione e gli diede le ultime informazioni, poi rimase a guardarlo, come aspettando che se ne andasse. Loki continuava a rileggere i fogli cercando di capire quale fosse la destinazione giusta tra le tre o quattro che venivano prospettate lì: «Come faremo ad arrivare in tempo sul luogo se non sappiamo neanche quale sia?»
«Come farai, vuoi dire» lo corresse James.
«Oh, andiamo, non dirmi che questa storia non ti incuriosisce neanche un po’!» il dio sembrava quasi divertirsi.
«È la tua storia, Signore degli Inganni, non la mia» considerò cupamente Barnes.
«Posso chiederti una cosa?» chiese allora Loki. Non ottenne risposta, quindi decise di proseguire «Perché mi stai aiutando, se non te ne importa nulla?»
«Ti è sfuggita la parte in cui tu mi ricatti minacciando di rivelare il mio nascondiglio al mondo intero nel caso in cui non ti aiuti?»
«A quanto pare mi è sfuggita anche quella in cui tu te ne vai appena sei lontano da me perché il tuo rifugio è stato compromesso. Nessuno ti tratteneva qui, Soldato d’Inverno, nemmeno io avrei potuto obbligarti a restare contro la tua volontà e aiutarmi. Ma tu l’hai fatto. Ci dev’essere un motivo»
«Forse avevo solo bisogno di distrazione» in fondo era la risposta più comoda e non era neanche del tutto falso «Di certo è stato utile in quel senso, visto che mi ha riempito le giornate»
«La gente non rintraccia supereroi per distrarsi, normalmente» il dio sapeva che c’era qualcos’altro sotto, ma non riusciva a capire di cosa si trattasse.
«La gente non incontra asgardiani che le chiedono di farlo, normalmente»
«Stai eludendo la mia domanda» osservò Loki
«Magari non mi va di risponderti» James riprese il tono tagliente di poco prima «O vuoi ricattarmi anche per questo?»
Loki sembrava interdetto: «Io… Mi dispiace, ero solo curioso» tornò a guardare i fogli in silenzio, dicendosi che stava davvero esagerando.
L’umano lo fissò a lungo, poi con un sospiro decise di spiegare: «Avevi ragione»
«Cosa?»
«Quello che mi hai detto l’altra volta. Che mi stavi facendo un favore. Avevi ragione, si tratta di Steve. Ho bisogno di vederlo, ho bisogno di capire. Non c’è nessun altro a cui mi possa rivolgere tra quelli che non mi vogliono morto e non cercherebbero di prendere il controllo della mia mente. Verrò con te perché devo fargli avere un messaggio»
«Ma tu e Steve…?» aveva quasi paura a completare quella frase.
«Sono passati tanti anni. Eravamo giovani, ci conoscevamo da una vita, ma i tempi erano diversi, non si poteva come si può oggi, era tutto più difficile. Però noi ci sentivamo invincibili, saremmo stati io e lui contro il mondo, se necessario. I ragazzi sono sempre immortali»
Loki annuì, conosceva quella galvanizzante sensazione di potere. Sapeva come tutto poteva venir smontato da un singolo avvenimento, da una frase o una parola non detta che qualcuno stava aspettando. Ci voleva così poco.
«E poi c’è stata la guerra e il progetto con il Siero del Super Soldato. Ci siamo persi di vista. Ci siamo ritrovati. Mi ha ritrovato. E mi ha salvato la vita. Abbiamo scoperto che eravamo di nuovo noi, anzi, lo eravamo sempre stati, non eravamo cambiati per nulla. Poi, beh… È successo quello che è successo e la volta dopo che l’ho visto ero il Soldato d’Inverno. E lui era la mia missione. Se penso che l’ho colpito, l’ho quasi ucciso, io che avevo giurato di proteggerlo sempre…» Bucky si prese la testa tra le mani «A volte, ripensandoci, mi ucciderei se ne avessi il coraggio. Grazie a Dio ho ritrovato la memoria in tempo, prima dell’irreparabile. Ora sarebbe giusto che parlassimo, almeno una volta, ma non lo biasimerei di certo se non ne avesse la minima intenzione, dopo ciò che ho fatto»
«James…» disse Loki avvicinandoglisi. Era la prima volta che lo chiamava per nome: Bucky sentì qualcosa che assomigliava moltissimo a un brivido lungo la schiena, qualcosa di antico, di noto, ma allo stesso tempo di terribilmente insolito. Qualcosa che non ricordava di aver sentito da molto tempo. Ne ebbe paura.
Alzò la testa di colpo e Loki si ritrasse come davanti allo scatto di un felino: «Tu sì che sai come far parlare le persone, asgardiano. Per oggi basta così. Ti avvertirò al solito modo, se dovessi trovare altre informazioni»
Era un congedo e il dio lo sapeva. Senza essere del tutto cosciente di cosa stava facendo, Loki si avvicinò a James e gli sfiorò appena la fronte con le dita. Mormorò un saluto. Bucky allontanò il viso dalla sua mano, chiudendo gli occhi per quello che a Loki parve fastidio, e non rispose al suo saluto.
Il dio se ne andò chiudendo in silenzio la porta alle proprie spalle e tornò al pub in cui si erano incontrati: aveva bisogno di bere qualcos’altro, dopo ciò che era successo.
Dietro quella porta, nella periferia nord di Los Angeles, qualcun altro stava bevendo whisky e non si sarebbe fermato prima di avere la testa completamente separata dal resto del corpo. Quella sera James aveva pensato anche troppo.





The Magic Corner:
Ciao a tutt* e grazie di aver letto anche questo capitolo!
Sto male. Io sto veramente male. Tutto per colpa vostra, che mi costringete a continuare a scrivere questa storia! Ok, no, scherzo, la colpa è tutta mia, anche perchè questa terribile scena one-sided!WinterFrost non l'aveva chiesta nessuno. Neanche io. Solo che è venuta fuori e... vabbè tanto sono ingiustificabile. Non solo sono riuscita a far soffrire e rimanere sulla corda tutte le nostre (vostre) aspettative WinterFrost, ma ho anche colpito la Stucky. Sono davvero una brutta persona. Se dovete sfogarvi vi lascio il mio indirizzo.
Ma un piccolo applauso me lo merito, dai, ho aggiornato dopo neanche una settimana e il capitolo non è neanche striminzito per i miei canoni (dovremmo essere sulle 3500 parole...)
Arrivo ai ringraziamenti e cerco di sbrigarmi. Un grazie a tutti coloro che leggono la storia e in particolare alle tredici persone che l'hanno messa tra le preferite/seguite (continuate ad aumentare, io vi amo <3)! Un grazie speciale a GreekComedy che continua imperterrita a recensire perché lo sa che mi rende tanto tanto felice *.* imparate da lei, gente!
Che dire di questo capitolo, lo so, sto di nuovo parlando di Loki e ad alcuni di voi potrei avere un po' rotto le *ehm* scatole con lui, ma ho bisogno di arrivare a un certo punto con questa ship prima della fine della parte 1, quindi ci sarà almeno un altro capitolo con loro due. C'è una discreta probabilità che non sia il prossimo, però, quindi se vi state annoiando con Loki & Co. la volta prossima potrebbe tirarvi su il morale! :D
Quanto ai prossimi capitoli, ho deciso che pubblicherò il capitolo conclusivo (che dovrebbe venire abbastanza lungo) tutto insieme, ma nel frattempo farò avanzare altre cose che mi servono così non vi faccio aspettare troppo.
Giuro che ho finito davvero. Ribadisco che recensire è gratis nonché molto bello da parte vostra, ma anche un messaggio privato mi basterebbe :)

Che gli dèi siano con voi!
-Magic

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Capitolo 10
*** La vita ***


Pubblicità Progresso - Campagna No Profit
Ogni giorno una tastiera si sveglia e sa che sarà maltrattata da uno scrittore incapace.
Mentre tu stai comodamente seduto davanti al tuo computer a leggere fan-fiction, c'è una tastiera che soffre.
Ognuno di noi può fare qualcosa per aiutarla.
Puoi dire a quello scrittore che è incapace, o incoraggiarne un altro perchè non lo è.
Scrivi una recensione!
Non restare indifferente, il destino delle tastiere dipende anche da te!

La vita

Ti guarda,
sorride, ti scompiglia i capelli,
le prendi la mano,
senti il sangue che pulsa nelle sue vene.
Stringi il suo polso sottile
per non lasciarla più andare
 
La vita non prende nulla,
la vita non dà nulla.
Sei tu che cedi,
sei tu che guadagni,
perché la vita gioca dalla tua parte,
se desideri vivere
 
Ha paura dei tuoi dubbi,
ti guarda incerta.
Avrebbe voluto una risposta,
non cento altre domande.
Nei suoi occhi,
il riflesso della tua confusione
 
La vita non ti giudica,
alla vita non importa.
È a te che deve importare.
Sei tu che devi giudicare
se desideri vivere
e allora la vita giocherà dalla tua parte

 

Era stata una buona serata. La cena non era stata delle migliori, visto che metà della squadra aveva detto che non aveva fame oppure era troppo occupata per mangiare e si erano ritrovati in quattro seduti a un immenso tavolo, ma poco per volta le cose erano andate migliorando. Sam aveva infatti proposto di vedere un film tutti insieme e quando Rhodey aveva scoperto che Wanda non aveva visto Star Wars non c’era stato neanche bisogno di molto tempo per decidere. Due ore dopo, una volta finito il film, Falcon e War Machine avevano salutato gli altri due ed erano andati a dormire, dicendo di essere molto stanchi.
Visione e Wanda erano invece rimasti a sedere sul divano, in silenzio, la donna con la testa poggiata sulla spalla dell’androide. Quando Visione credeva che ormai Wanda dormisse, aveva sentito la sua voce srotolarsi lentamente, come quella di chi fa fatica a parlare perché ha la bocca impastata.
«Facciamo due passi in giardino?» aveva chiesto.
«Perché no?» aveva risposto Visione «La serata è abbastanza tiepida»
Con una lentezza che molti avrebbero trovato esasperante, Wanda aveva raddrizzato la schiena, come se avesse dovuto riprendere il controllo delle sue vertebre una alla volta. Quando infine si era alzata, aveva voltato il viso verso Visione, come per invitarlo a imitarla, con un sorriso in cui lui si era perso per qualche secondo.
E quindi eccoli lì, a passeggiare nel giardino. Visione avrebbe voluto avere il coraggio di prendere la mano di Wanda, ma sentiva un imbarazzo incredibile a compiere un gesto così semplice. Forse è questo l’amore, si disse, facile e difficile che diventano una cosa sola e si scambiano come meglio credono. Infine, con un sospiro, raccolse tutta la propria determinazione e intrecciò le proprie dite con quelle di lei. Ora che l’aveva fatto, non sembrava così complicato, ma gli dava comunque una sensazione di sicurezza sapere che la mano di Wanda aveva accolto la sua come se non aspettasse altro.
«Visione» disse a un certo punto Wanda, quando la loro conversazione su argomenti quotidiani si era ormai interrotta da diversi minuti e regnava il silenzio «Ho un dubbio che mi tormenta»
«Mi domando se posso aiutarti a scioglierlo» fu la risposta. La voce dell’androide suonava stranamente neutra, come se avesse voluto dire qualcosa di diverso, ma la sua lingua non gli avesse obbedito.
«Se non puoi tu, non potrà nessun altro» continuò la donna, senza voltarsi a guardarlo. Sembrava a entrambi di star girando intorno alla questione, quasi stessero conducendo una seconda conversazione fatta di silenzi, respiri leggermente più pesanti e tono della voce. In questo altro dialogo Wanda aveva già posto la propria domanda e sapevano entrambi quale sarebbe stata la risposta, ma continuarono in ogni caso a parlare.
«Coraggio» Visione strinse la mano di Wanda leggermente più forte e si voltò verso di lei mentre parlava, cercando i suoi occhi con i propri.
«Quello che sento è reale?» disse infine Wanda, parlando un po’ più veloce del normale, come se quella domanda avesse potuto scottarle la lingua.
Visione fu preso in contropiede dalla domanda, come se ne avesse aspettata una diversa, ma pensò comunque alla risposta e parlò solo dopo averci riflettuto: «Se non me lo sai dire tu, io non posso rispondere»
«Io lo credo reale, ma non so se sia giusto che io senta queste cose. A volte ti guardo e mi dico che forse ho sbagliato qualcosa, anzi, che ho sicuramente sbagliato tutto. Però non riesco proprio a combattere quello che provo» Visione capì.
Quando parlò di nuovo, la sua voce era piegata dall’amarezza: «È perché sono un androide, non è vero?»
«No!» esclamò Wanda «Non è quello che intendevo, io non volevo…»
«Invece è proprio così. Non devi sentirti in difetto, so che non è un pensiero volontario, ma almeno non mentirmi, perché è quello che senti. È l’istinto, credo. Non ti sembro umano. Non ti sembro vivo»
«No, non è come dici, il fatto è che...» cominciò Wanda, ma poi le mancarono le parole e si arrese: «Sì, è vero. Mi dispiace tantissimo, ma non posso farci nulla, è che non so se fidarmi di quello che provo per te perché non so se puoi ricambiarlo, capisci?»
Visione capiva perfettamente, fece un cenno di assenso come risposta e tacque. Wanda sapeva di averlo ferito, ma quando lui aveva espresso così chiaramente ciò che lei provava non aveva saputo negarlo. Non pretendeva alcuna dimostrazione che lui potesse provare un sentimento. Visione avrebbe solo dovuto aspettare che lei si convincesse. Si sentiva terribilmente in colpa per ciò che aveva detto e si disse che avrebbe sopportato qualunque cosa lui le avesse risposto.
L’androide sapeva che lei l’aveva osservato negli ultimi giorni. Più volte aveva sentito i suoi occhi verdi perforargli la nuca mentre se ne andava tranquillamente in giro per il giardino. A Wanda non poteva essere sfuggito che Visione trascorreva molto tempo in mezzo a quelle piante, più di chiunque altro. Sicuramente si era domandata perché lo facesse. L’aveva anche vista guardarsi intorno come se cercasse qualcosa lì, forse voleva trovare che cosa lo interessasse tanto. Forse se le avesse spiegato il motivo di tutte quelle ore passate in giardino si sarebbe potuta fidare. Almeno un po’ di più.
«Mi hai visto passare molto tempo in giardino, non è così?» cominciò, dopo un sospiro, e poi proseguì senza attendere la risposta «E scommetto che ti sei chiesta che cosa ci trovassi di così speciale da passarci praticamente tutto il mio tempo libero. Ebbene, nel giardino c’è la vita ed è quella che io cerco»
«In che senso?» la voce di Wanda sembrava esitante, come se avesse temuto di offenderlo anche solo ponendo una domanda, aveva già detto anche troppo e le sembrava che ogni parola in più non facesse che peggiorare la situazione.
L’androide fece un gesto che comprendeva tutto ciò che li circondava: alberi e arbusti, piante e insetti, semi che stavano per germogliare e foglie ormai ingiallite pronte a cadere: «Tutto questo! Tutto è così vivo e vibra per l’ansia di dimostrare a tutti che lo è, come una gara a chi esprime più vitalità. Lo senti che cresce, l’instancabile respiro della vita che realizza tutto quanto, che lo rende vero, tangibile. Questo posto è la perfetta sintesi di un mondo che vive, cambia e diventa di continuo qualcosa di più meraviglioso e incredibile dell’attimo precedente! E io…» fece un respiro profondo, mentre la sua voce perdeva il tono estatico che aveva avuto fino a un secondo prima per ritornare alla propria sfumatura di amarezza «Io non ne faccio parte»
Wanda si sentì spaesata dopo quella dichiarazione così netta. Si sarebbe aspettata che lui cercasse di convincerla che i suoi sentimenti erano sinceri e che poteva fidarsi, invece probabilmente aveva risvegliato in lui dei dubbi che non erano mai stati del tutto tacitati. Si rese conto che lui stesso non era certo della risposta alla domanda che lei gli aveva posto. Anzi, era meno sicuro di lei.
«Quindi tu credi che solo perché non sei nato allo stesso nostro modo» cominciò Wanda, ma fu interrotta.
«Io non credo niente. Lo sento e basta. Chi sono io, Wanda? Anzi, che cosa sono? Se tu lo sai, dimmelo, perché io non lo so più. Sono vivo? Sono reale? Merito di poter parlare alle persone come se fossi uno di loro? Provo dei sentimenti o quello che mi agita il cuore e la mente è solo la pallida imitazione artificiale di quello può veramente sentire una persona? Cosa vogliono dire quei sogni che faccio la notte? Sono veri o sono anche quelli creati in fabbrica, come il mio corpo?»
Il volto di Wanda era sconvolto. Non credeva che la confusione che provava potesse essere tanto grande. Probabilmente era da mesi che si tormentava cercando invano una risposta a quegli interrogativi. Chissà perché non ne aveva parlato prima. Cercò di chiamarlo: «Visione…»
«Ecco, vedi?» continuò Visione, ormai deciso a non tenersi più niente dentro «Non ho neanche un nome normale che sia mio, che mi identifichi. Cosa sono io? Se guardi solo la realtà dei fatti, vedrai che alla fine sono soltanto la visione di un genio miliardario con i sensi di colpa che è stata fulminata da una pseudo-divinità aliena. Visione. È questo l’unico nome con cui ha senso che io venga chiamato e devo già ringraziare che siamo arrivati a metterci una maiuscola quando lo scriviamo»
La donna strinse più forte la sua mano, cercando di tirarlo fuori dal suo scoramento, ma egli sembrava sprofondarci sempre di più. Travolta da quel fiume di domande, dubbi e indecisioni, Wanda non trovava le parole che potessero aiutarlo e si sentiva inutile. Si ripeteva, da qualche parte nel fondo della propria coscienza, che alla fine era stata soprattutto colpa sua se quella confusione era tornata a galla tutta insieme, ma non poteva fare altro che cercare di comporre frasi che potessero scuoterlo. Visione sollevò su di lei uno sguardo che le prosciugò la bocca e le fece volare via dalla mente come degli uccelli quei pochi e sparuti gruppi di parole che ancora la popolavano. Sentiva che non sarebbe mai riuscita a rincuorarlo in quelle condizioni. Distolse lo sguardo, incapace di sostenere ancora quegli occhi di un azzurro troppo finto che le scavavano dentro come per sottrarle quella vita che le invidiava tanto. Allentò senza accorgersene la stretta sulla mano di lui fino a lasciarla e l’androide andò via, senza aggiungere una parola.
 
Erano trascorse alcune ore. Ormai era notte, ma nessuno dei due era riuscito a dormire, non dopo ciò che si erano detti. L’androide era tornato in casa e aveva continuato a vagarci, avendo cura di non svegliare gli altri, mentre lei era rimasta in giardino fino a quel momento, a interrogare le stelle su quale risposta avrebbe potuto dare a quei dubbi. Visione avrebbe potuto e voluto andarsene passando attraverso uno dei muri, come faceva sempre, dopo aver sentito Wanda entrare nella stanza, ma lei aveva evidentemente qualcosa da dire e non ebbe il coraggio di lasciarla senza averla ascoltata.
«La vita non sono le tue cellule. La vita non è essere nati o avere dei genitori. La vita non è essere andati a scuola a imparare la matematica. La vita non è semplice riproduzione cellulare» la donna fece una pausa e prese un gran respiro «La vita è vivere. La vita non ti viene data, te la prendi quando e quanto vuoi, perché devi desiderarlo. Non cade dall’alto, non ti svegli un giorno e all’improvviso stai vivendo. Te la costruisci giorno dopo giorno, con i tuoi errori e i tuoi piccoli momenti di rivincita. Quando esci a cena con gli amici, quando aiuti una persona in difficoltà, quando ti prendi un po’ di tempo per pensare a te stesso, fissando il soffitto mentre sei sdraiato sul letto, allora quella è vita»
L’androide si voltò a guardarla e lei capì che stava dicendo le parole giuste, perciò continuò: «Quando prendi la mano di qualcuno e senti il calore della sua pelle sulla tua, quella è vita. Nei momenti di tristezza, di rabbia, di felicità, quella è la vita. Provare dei sentimenti è vita, ma nessuno ti ci può obbligare. Non possono costringerti a vivere, se tu non vuoi, ma tu lo vuoi e lo stai già facendo. Lo si vede nelle piccole cose, nelle battute per tirare su il morale di qualcuno, nella tua voglia irrefrenabile di migliorare, di controllare quella gemma che hai in fronte e farla tua, nel tuo desiderio di imparare a cucinare. Non ho mai sentito per nessuna delle ortensie che abbiamo in giardino un miliardesimo di quello che sento quando sono con te. Non è quella la vita. Le passioni sono vita e tu ne sei preda quanto ciascuno di noi. Non permettere che uno stupido nome ti faccia dimenticare chi sei e perché lo sei»
Wanda aveva il fiatone come se avesse corso una maratona. Aveva sputato fuori quelle frasi così velocemente che le si era spezzato il respiro, ma aveva paura che se avesse atteso troppo le sarebbero di nuovo fuggite di mente. Visione avanzò a passi lenti verso di lei fino a che non ci furono che pochi centimetri a separarli. Il silenzio era quasi tangibile nella stanza e solo il respiro pesante della donna poteva increspare quella calma cristallina.
«Quello che senti è reale?» domandò infine Visione facendo eco alla domanda che Wanda gli aveva posto in giardino, sul volto un'espressione quasi addolorata di dover spezzare il silenzio «Come fai a fidarti dei miei sentimenti? Non ho mai amato nessuno prima. Forse mi sbaglio, forse non so davvero cosa provo per te. Io non voglio che tu soffra per questo. Tu sei sicura di essere disposta a quello che potrebbe succedere? Come…»
Wanda non sopportò oltre quella pioggia di dubbi e domande che lui le stava rovesciando addosso. Chiuse gli occhi e premette le proprie labbra sulle sue. Sentì Visione rispondere al bacio e seppe di aver fatto la cosa giusta, poi smise di pensare.
Nell’elaborato sistema al carbonio che componeva la mente di Visione sparì la concezione dello spazio e del tempo, ma soprattutto quando li cercò non trovò più traccia dei dubbi. Aveva capito. Con quel gesto Wanda gli aveva detto che lei era disposta ad affrontare qualunque cosa fosse successa.
«Scusami, ma già prima ho visto quanti problemi abbia creato l’essere a corto di parole» disse infine lei, con un sorriso «Non volevo che tu capissi qualcosa di sbagliato. Mi dispiace di averci messo tanto a trovare cosa dire»
«Questo era reale?» nella mente di Visione stavano tornando a presentarsi quei dubbi che il gesto di Wanda aveva dissolto «Possiamo fidarci l’uno dell’altro?»
«Beh, spero che tu ti fidi di me» l’androide annuì, convinto «E se tu ti fidi di te stesso, non vedo perché io non dovrei farlo»
«Ma io non so se mi fido di me stesso»
«Qual è la cosa a cui tieni di più al mondo?»
«Te»
Wanda aveva già la domanda successiva pronta, ma quell’affermazione così diretta la lasciò a bocca aperta. Visione aveva già manifestato in molti modi di esserle profondamente affezionato, ma lei fu colpita da quella singola parola più di quanto lo sarebbe stata da chilometri di lettere d’amore.
«Cosa c’è?» le domandò lui allarmato, temendo di aver detto qualcosa di sbagliato.
«Io… non pensavo» chiese a se stessa che cosa avesse voluto dire con quel "non pensavo", ma non seppe rispondersi, perciò decise di continuare come se non fosse successo nulla. Avrebbe custodito quella risposta nella propria mente, per tirarla fuori una volta che fosse stata sola e riesaminarla con calma «Comunque, affideresti la mia custodia a te stesso?»
«Sì, ma…»
«Per me è sufficiente» concluse Wanda interrompendolo «Come ho detto, se tu ti fidi di te stesso, lo faccio anch’io. Quindi mi fido di te»
Visione sorrise per quella specie di test di fiducia che lei aveva creato. Allungò la mano verso il suo viso e ne accarezzò delicatamente il contorno. Wanda chiuse gli occhi e accompagnò la sua carezza con un lieve e sinuoso movimento del collo. Sembrava una gatta che faceva le fusa. Visione sentì la mano di lei che prendeva la sua e si chiese se fosse per fermarlo, ma vide i suoi occhi aprirsi e fissarlo come invitandolo, perciò non interruppe il movimento. Quando le sue dita raggiunsero le labbra di Wanda, ebbe un attimo di esitazione. Sentiva il respiro caldo di lei sulla pelle, ma quasi non osava toccare la sua bocca. Sembrava che temesse di far scomparire tutto come in un sogno.
Infine si fece coraggio e, senza staccare gli occhi da quell’abisso verde che erano quelli di Wanda, avvicinò lentamente il proprio viso al suo. Era preda di un miscuglio di emozioni che avrebbero potuto strapparlo in due. C’erano dubbi, ma anche certezze, una felicità con una punta di paura del futuro. Fu quello che trasmise a Wanda in quel bacio. I loro respiri erano una cosa sola e ci fu un momento preciso, che Visione avrebbe ricordato per sempre, in cui capì davvero cosa aveva voluto dire Wanda e si sentì vivo, come mai prima di allora.
«Wanda» le sue labbra si muovevano a qualche millimetro di distanza da quelle di lei, che si mossero a cercare un altro bacio.
«Credi che amare faccia parte di quello che è la vita?» domandò quando i respiri tornarono di nuovo a essere due cose separate.
Wanda sorrise: «Ma certo. Amare è tutta la vita»





The Magic Corner:
Salve a tutt* e grazie di aver dedicato un po' del vostro tempo alla lettura di questo nuovo capitolo.
Sto scrivendo questa nota dell'autrice a un'ora molto poco decente della notte sul mio cellulare, quindi non so cosa verrà fuori, ma tanto robe normali non ne scrivo comunque.
Vengo subito al dunque perché ho sonno, così domani pubblico il capitolo e voi siete contenti (spero! :D)
ScarletVision is love. Io li amo. Ma visto che non sono capace di scrivere una storia d'amore perfetta, ho dovuto far penare un po' anche loro. Almeno non sono messi male quanto Loki e Bucky! Lo so, la trama è praticamente ferma, ma sto preparando il capitolo finale dove la trama farà un bel salto in avanti.
Ci ho messo un po' di più dell'ultima volta ad aggiornare, ma capitemi... Questa è la terza stesura dello stesso capitolo!
Grazie a tutti voi che leggete, grazie ai dodici che hanno messo tra le preferite/seguite questa storia, grazie a GreekComedy perché recensisce ostinatamente sempre e comunque (e perché gli occhi di Bucky sono azzurri).
Volevo dedicare questo capitolo a MC1119, che a suo tempo mi disse che avrei dovuto analizzare di più la figura di Visione, senza immaginare cosa mi avrebbe spinta a fare.
Lasciatemi una recensione o mandatemi un messaggio se vi va, altrimenti ci vediamo al prossimo capitolo!
Che gli dèi siano con voi!
-Magic

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Capitolo 11
*** Ritornare ***


Pubblicità Progresso - Campagna No Profit 
Ogni giorno uno scrittore incapace si sveglia e sa che dovrà inseguire una tastiera che fugge.
Ogni giorno una tastiera si sveglia e sa che dovrà correre più veloce di uno scrittore incapace.
Che tu sia scrittore o tastiera, comincia a correre.

Ma se sei un lettore no! Puoi fermare questo scempio!
Scrivi una recensione!
Non restare indifferente, il destino delle tastiere dipende anche da te!


Ritornare

Ritornare,
come riemergere
dalle profondità del mare:
prima di schianto,
l’aria spinge nei polmoni,
la luce ti acceca,
il vento freddo sulla pelle,
poi con calma,
l’acqua salata non brucia più in gola,
il sole asciuga la pelle,
il respiro torna regolare.
 
Ritornare,
come accorgersi
che non si sta sognando:
prima lo sconcerto,
il rifiuto,
quasi la rabbia,
poi l’accettazione,
la riflessione,
quasi una felicità,
perché era tutto reale,
perché siamo vivi
io e te.


Pietro spalancò gli occhi non appena si fu svegliato completamente. Non vista dal suo paziente, Helena si concesse un sorriso e una piccola pausa nella lettura, poi riprese da dove si era interrotta come se nulla fosse successo. Appena concluse il paragrafo, chiuse il libro e lo ripose insieme agli altri.
«Ciao, Pietro» disse con dolcezza «Mi chiamo Helena Mazur. Sono il medico che si sta prendendo cura di te. So che non ti puoi muovere e non riesci a parlare, ma possiamo comunque comunicare. Se vuoi dire di sì puoi chiudere gli occhi e poi riaprirli. Se vuoi farmi una domanda batti due volte le palpebre. Se vuoi dire di no oppure non mi riesci a capire, resta fermo. D’accordo?»
Helena trattenne il respiro mentre fissava il ragazzo immobile. Poi, con una lentezza esasperante, Pietro chiuse gli occhi. Dapprima la dottoressa pensò che stesse semplicemente battendo le palpebre, ma mentre passavano i secondi si disse che nessuno poteva farlo in modo così lento. Proprio mentre le stava per sorgere il dubbio che si fosse addormentato, il ragazzo spalancò di nuovo gli occhi. Helena sorrise ancora, annuendo.
«Bene. Oggi arriverà una persona per farti visita. Non è tua sorella. Vuoi vederlo appena arriva?»
Nessun movimento: -No-
«Immaginavo. Lo farò aspettare finché non vorrai vederlo. Ti va bene?»
Pietro chiuse e riaprì gli occhi: -Sì-
«Perfetto. Vuoi che continui a leggere?»
Lui le rispose di nuovo di sì.
«Ti va bene questo libro?»
Nessun movimento: -No-
«Preferisci le fiabe?»
Pietro chiuse e riaprì gli occhi: -Sì-
«D’accordo»
Dopo aver trovato il libro di fiabe nella pila, Helena si schiarì la voce e cominciò a leggere. Smise solo quando fu certa che il suo paziente si fosse addormentato e prima di uscire si voltò a guardarlo. Non era mai stata né madre né sorella maggiore, ma le era già capitato di dover prendersi cura di pazienti molto giovani. In un certo senso quella situazione ci somigliava: Pietro era inerme come un bambino e, si disse con un sorriso, probabilmente altrettanto capriccioso. Tuttavia, considerando il tutto da un altro punto di vista, era completamente diverso da ciò che conosceva.
Innanzitutto c’era quella guarigione, che non sarebbe mai e poi mai dovuta avvenire. Per carità, Helena era felicissima che Ji avesse avuto ragione e il ragazzo fosse vivo e poteva a malapena immaginare con quale gioia avrebbe reagito la sorella una volta che lo fosse venuta a sapere, ma sentiva qualcosa di sbagliato in tutto quello. La gente di solito non si risveglia dal coma mezz'ora al giorno per poi ripiombarci all'improvviso come se fosse suonata una sveglia, tanto per fare un esempio. Le persone paralizzate sono completamente paralizzate, non battono le palpebre né sorridono quando sentono la loro fiaba preferita. Se spalmi del miele sulle loro labbra non sparisce. Era tutto anormale.
E poi c'era il ragazzo. Helena provava nei suoi confronti qualcosa che era sicura di non aver mai sentito per nessun altro. Quando lo guardava si sentiva cogliere da una tenerezza che la disorientava perché era per lei completamente nuova. Alle volte, mentre leggeva e lo sorprendeva a sorridere, le saliva un groppo in gola e aveva quasi voglia di piangere, senza alcuna ragione. Si sentiva confusa perché non capiva cosa volesse dire tutto quello. Forse era così che si sentiva una madre, si disse mentre chiudeva la porta con un sospiro.
 
La dottoressa Mazur non aveva mai visto il colonnello Fury di persona né in fotografia, ma la sua collega Ji le aveva accennato una breve descrizione. In casi normali quelle poche frasi non sarebbero state sufficienti a riconoscere qualcuno, ma le persone scese in quella sconosciuta stazioncina di campagna si riducevano a due e la difficoltà era minima. Esclusa la vecchietta con l’abito a fiori che le rivolse un amabile sorriso passando, Helena concluse che doveva trattarsi dell’uomo di colore che indossava un paio di occhiali da sole, nonostante il cielo minacciasse pioggia, e un lungo cappotto che aveva decisamente visto tempi migliori.
Fece qualche passo verso di lui e quando furono uno di fronte all’altra rimasero in silenzio per qualche minuto, come indecisi su chi dovesse essere il primo a presentarsi.
«Vogliamo andare o aspettiamo che si metta a piovere?» domandò infine il colonnello.
Helena sorrise appena e si diresse verso l’uscita della stazione. Fury la seguì senza aggiungere altro finché non furono saliti in auto. Si trattava di una piccola utilitaria, non un granché, la dottoressa lo riconosceva, ma ottima per non dare nell’occhio. Il colonnello non fece commenti al riguardo ed Helena gliene fu grata. Mentre la donna guidava tranquilla verso la clinica, Fury avviò il discorso:
«Allora si è svegliato?»
«Non solo, ha anche aperto gli occhi. Non riesce ancora a muoversi, a quanto pare, può soltanto battere le palpebre e di tanto in tanto sorride o lecca il miele che gli spalmo sulle labbra. Ha già fatto diversi tentativi di muovere altri muscoli, i macchinari hanno registrato i suoi impulsi nervosi, ma sembra che sia praticamente impossibile. Forse il farmaco che gli è stato somministrato ha inibito qualche comunicazione nervosa, non ne sono ancora certa»
«Potrebbe essere rimasto paralizzato per sempre?» domandò il colonnello, pensando a che reazione avrebbe avuto Wanda Maximoff se fosse venuta a sapere una cosa simile. Quella ragazza era molto emotiva, anche troppo. Forse era meglio che essere un pezzo di ghiaccio come alcuni che Fury aveva conosciuto, ma aveva pensato che le esperienze di guerra, l’addestramento e la vita separata dal fratello avrebbero aiutato a rafforzare il suo carattere. Invece sembrava che non fosse cambiato assolutamente nulla.
«E chi lo può dire?» sospirò Helena in risposta, riscuotendo Fury dai suoi pensieri «Sa bene che questa è una delle cure meno testate che siano mai state usate su una persona»
Dire “una delle cure meno testate” era in realtà un eufemismo bello e buono. Il farmaco, anzi, i farmaci che erano stati usati su Pietro non erano mai stati testati, se si escludevano due o tre prove effettuate da Ji in laboratorio, ma il tempo stringeva e Wanda aveva acconsentito all’utilizzo essendo a conoscenza dei rischi. Aveva detto qualcosa del genere che era meglio essere sicuri che fosse morto in caso non avesse funzionato che non poter mai essere certi che fosse vivo.
«E riesce a sentire se qualcuno gli parla?» domandò ancora Fury, cercando di ricostruire una scheda mentale delle condizioni del ragazzo.
«Sembra di sì. Oggi sono riuscita a stabilire una specie di metodo di comunicazione con lui. Sto seguendo un programma molto rigoroso per aiutare il paziente anche a livello psicologico a riprendere coscienza di sé»
«E come è possibile che lui le risponda?» la voce del colonnello esprimeva una mescolanza di incredula curiosità e scetticismo «Come può comunicare con lei se non si muove?»
«Può aprire e chiudere gli occhi. Se lo fa vuol dire sì, se rimane immobile è perché vuole dire di no oppure non ha capito ciò che ho detto. Per esempio oggi gli ho chiesto se volesse vedere lei non appena fosse arrivato e mi ha detto di no, poi se gli piacesse il libro che stavo leggendo»
«Legge per lui?» Fury sembrava interessato. La dottoressa rimase per qualche momento in silenzio, chiedendosi quante di quelle domande fossero di pura educazione, quante di curiosità e quante di effettiva necessità.
«La sorella mi aveva chiesto così nella lettera che lei mi ha inoltrato» rispose infine «Mi ha lasciato una pila di libri tra gli effetti personali e io leggo da quelli»
«E il libro che stava leggendo oggi gli andava bene?» neanche il colonnello sapeva esattamente perché stesse facendo quelle domande, se fosse per evitare il silenzio, che d’altra parte non gli aveva mai dato troppo fastidio, o soltanto perché era curioso.
«Ha detto di no, allora gliene ho proposto un altro e mi ha detto che quello invece gli piaceva»
«E qual era il libro che gli piaceva?»
La dottoressa scosse la testa: «Non ci crederà»
Fury provava una certa irritazione ogni volta che qualcuno gli diceva una cosa simile: era come se non avessero fiducia nella sua apertura di mente. Eppure sapevano tutti che in quegli anni ne aveva viste davvero di tutti i colori, tra alieni, manipolatori di quella che sembrava magia e supereroi di ogni genere «Le dirò, ne ho viste tante nella mia carriera. Non so quante cose potrebbero ancora lasciarmi incredulo. Faccia un tentativo, comunque»
«Una raccolta di fiabe» Helena gli lanciò un’occhiata senza distrarsi troppo dalla strada: era curiosa di sapere quale sarebbe stata la sua reazione. Rimase però delusa: Fury mantenne un'espressione imperscrutabile, fatta eccezione per un lieve aggrottare di sopracciglia
«Una raccolta di fiabe?» ripeté Fury «Ma come le è saltato in mente di leggergli una cosa simile? Non è un bambino, se n’è accorta?»
«Non è stata una mia idea» si difese la dottoressa, anche se le erano tornati in mente i dubbi che aveva avuto quella mattina su quanto differisse Pietro da un bambino «Era scritto nella lista stilata da Wanda Maximoff che mi ha mandato qualche settimana fa. Io non faccio altro che seguire le sue istruzioni»
«Lascio l’ultima parola all’esperta» concesse Fury e tacque, lasciando che Helena si interrogasse per il resto del viaggio se si stesse riferendo a lei oppure a Wanda.
 
Pietro fu svegliato da un tocco fresco sul viso, come una leggera e timida carezza di un alito di vento. Aprì gli occhi piano, come quando al mattino presto non ci si vorrebbe alzare per andare a scuola. Avrebbe voluto potersi strofinare le palpebre con le dita per risvegliarsi più facilmente, ma non aveva ancora il controllo del proprio corpo. Quel mattino era più luminoso degli altri, notò guardando il soffitto, oppure semplicemente la luce era meno oscurata del solito. Gli fece un’impressione positiva, come fosse stato un augurio di buona giornata.
C’era qualcun altro nella stanza con lui: doveva essere la persona che lo aveva svegliato sfiorandogli il viso. Per un attimo, Pietro fu preso dal panico. Chi era e cosa voleva da lui? Perché era stato portato lì? Ma poi dove si trovava davvero e che cosa gli era successo?
«Ciao, Pietro» disse una voce di donna «Mi chiamo Helena Mazur. Sono il medico che si sta prendendo cura di te. So che non ti puoi muovere e non riesci a parlare, ma possiamo comunque comunicare. Se vuoi dire di sì puoi chiudere gli occhi e poi riaprirli. Se vuoi farmi una domanda batti due volte le palpebre. Se vuoi dire di no oppure non mi riesci a capire, resta fermo. D’accordo?»
Mentre sentiva quelle frasi, tutto gli tornò alla mente. Era la stessa dottoressa del giorno prima, era quella che lui aveva scambiato per la propria madre, era quella che leggeva per lui. Si rilassò, poi si ricordò che stava aspettando da lui una risposta, perciò chiuse gli occhi e li riaprì.
«Molto bene. Come ti avevo detto ieri, è arrivata una persona che vuole vederti»
Pietro si ricordava chiaramente di aver detto che non desiderava incontrare quel visitatore, chiunque fosse, ma avrebbe tanto voluto sapere di chi si trattasse. Prima che Helena continuasse a parlare, batté due volte le palpebre.
«Vuoi farmi una domanda?»
-Sì-
«Sulla persona che vuole vederti?»
-Sì-
«Vuoi sapere chi è?»
-Sì-
«Si chiama Nick Fury. Probabilmente hai già sentito parlare di lui. È, anzi, era il direttore dello S.H.I.E.L.D. Sai cos’è?»
-Sì-
«Bene. Il colonnello Fury, da quello che so, è colui che ha fatto partire l’iniziativa Avengers. In un certo senso, è merito suo ogni volta che i Vendicatori fanno qualcosa di buono. Se non fosse stato per lui, Loki avrebbe conquistato la Terra senza trovare praticamente alcuna resistenza. Però l’Hydra lo voleva morto e ha mandato dei sicari per ucciderlo. Così Nick Fury ha finto di essere morto e ha dovuto lasciare la propria carica di direttore dello S.H.I.E.L.D. Questo non gli impedisce di continuare ad aiutare gli Avengers nelle missioni oppure dando loro dritte su quale debba essere l’obiettivo. A Sokovia, ad esempio, è stato lui a mandarvi i mezzi che vi hanno permesso di mettere in salvo i civili»
-Domanda-
«Su Nick Fury?»
-Sì-
«Vuoi sapere qualcos’altro su quello che ha fatto? Ti avverto che non so molto»
-No-
«Vuoi sapere perché so queste cose?»
-No-
«Accidenti, così potrebbe diventare lunghissimo, però. Perché è qui?»
-Sì-
«Per vederti, non appena tu acconsentirai, naturalmente»
-Domanda-
«Perché gli interessa di vederti?»
-Sì-
«Tua sorella Wanda adesso fa parte degli Avengers. Si fida moltissimo di Nick Fury e quando si è trattato di affidarti a qualcuno ha chiesto aiuto a lui. Il colonnello ha contattato una persona che mi conosce e io ho acconsentito a prendermi cura di te. Wanda ha lasciato un'annotazione su cosa fare in caso tu ti fossi risvegliato dal coma, dove mi chiedeva di contattare Fury e farlo venire qui non appena avessi aperto gli occhi. Così ho fatto. Prima che tu me lo chieda, Wanda non è qui. Ha lasciato istruzioni precise su quando chiamarla, ma mi ha vietato di dirti di che si tratta. Vuoi vedere Nick Fury oggi?»
-No-
Pietro rimase immobile per qualche minuto, mentre Helena fissava il suo viso cercando di capire se avrebbe fatto un’altra domanda o se stesse per addormentarsi.
«Vuoi dormire?» chiese infine la dottoressa.
-No-
«Leggo qualcosa?»
-Sì-
«Le fiabe?»
-No-
«Il libro di ieri?»
-Sì-
«Bene» Helena cercò il libro che Pietro aveva rifiutato il giorno prima e ritrovò il segno. Si schiarì la voce e riprese a leggere. Dopo poco il suo paziente si addormentò, forse tutte quelle informazioni lo avevano stancato.
 
Si trovava a casa sua. Era notte e il lampadario della cucina era acceso, illuminando un tavolo apparecchiato per quattro. La stanza però era vuota e sembrava che qui piatti fossero lì da parecchio tempo. La tinta alle pareti era invecchiata rispetto a come la ricordava e si staccava in piccole scaglie di colore. Il fornello e il lavandino erano ricoperti di polvere e quando spinse la porta la sentì gemere sui cardini. Cercò la camera da letto, forse sua madre era là come la volta scorsa. La porta della stanza sua e di sua sorella era socchiusa: si fermò un attimo prima di entrare e sentì che sicuramente c’era qualcuno dentro e sembrava proprio che stesse leggendo. Fece un profondo respiro ed entrò. La porta cigolò quasi quanto quella della cucina. C’era davvero una persona che leggeva, seduta in mezzo ai due lettini gemelli come era solita fare la loro madre. Ma non si trattava di lei.
«Wanda?» bisbigliò Pietro con la voce rotta dall’emozione. Erano mesi che non vedeva la sorella, escludendo quegli incubi che avevano continuato a tormentare il suo sonno. Ma quelli erano ricordi, invece Wanda poteva essere entrata nel suo sogno tramite la sua mente. Forse avrebbero potuto comunicare come fossero stati vicini. Sua sorella si voltò verso di lui. Non era cambiata di una virgola: lo stesso colorito pallido, gli stessi lunghi capelli scuri, lo stesso modo di vestire, lo stesso rossetto.
Wanda sorrise, sembrava incapace di dire una parola. Chiuse il libro e lo posò sul letto, poi si alzò. Pietro fece qualche passo verso di lei, incerto, finché non si trovarono l’uno di fronte all’altro.
«Sei reale?» domandò il ragazzo. Sua sorella annuì e i due si abbracciarono. Stringendo Wanda tra le proprie braccia, Pietro sentì la sua schiena sobbalzare come per un singhiozzo: stava piangendo.
«Shh…» le disse «Perché piangi?»
«Pensavo di non rivederti mai più» rispose Wanda «Mi sei mancato tanto»

Pietro era vivo. Wanda ricordava ancora lo strappo che aveva sentito nel proprio cuore quando lui era stato colpito, la lacerazione dentro di lei mentre faceva a pezzi tutto ciò che trovava per scaricare tutta quell’energia che il dolore le dava. Pietro era vivo. Poteva parlargli in sogno, poteva toccarlo, poteva sentire di nuovo il suo odore e forse un giorno sarebbe potuta andare di persona a vederlo e lui sarebbe guarito del tutto. Pietro era vivo. Wanda avrebbe ricominciato a sorridere anche senza motivo, soltanto perché era felice, e a fare bei sogni ogni notte e non una volta ogni tanto, avrebbe smesso di sentire continuamente quella nota di malinconia in fondo a ogni proprio pensiero e di trovare sempre un modo per ricordare a se stessa che lui non c’era più. Pietro era vivo. E finalmente era di nuovo viva anche Wanda.







The Magic Corner:
Ciao a tutt*!
Innanzitutto, grazie di aver letto questo nuovo capitolo e mi dispiace un sacco perché ci ho messo un po' ad aggiornare, ma ero bloccatissima con l'ispirazione.
Ho poco da dire, quindi mi limiterò a ringraziare tutti voi che leggete la storia, voi tredici che l'avete messa tra le preferite/seguite e chiunque mi stia dedicando un po' del suo tempo. Grazie a GreekComedy che ogni tanto si ricorda che le het sono pucciose, grazie a Kyem che è uscita dal suo silenzio, grazie a MC1119 che ha riletto tutta la storia da capo.
Lasciatemi una recensione o mandatemi un MP se avete tempo e voglia, sennò a presto con il prossimo capitolo!
Che gli dèi siano con voi!
-Magic

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Capitolo 12
*** Secondo intermezzo ***


Pubblicità Progresso - Campagna No Profit
Io sono una tastiera.
Il mio proprietario è uno scrittore incapace. Da anni cerca di scrivere qualcosa di decente, ma non ne ha il talento.
Scrivo questo messaggio di aiuto e lo rivolgo a voi lettori.
Potete fare qualcosa, potete incoraggiare scrittori diversi, scrittori capaci.
Potete dire al mio proprietario che non ha un briciolo di talento.
Potete scrivere una recensione.
Voi potete, dovete fare qualcosa. Aiutatemi.

Secondo intermezzo

«Stiamo facendo la cosa giusta?»
«Perché me lo chiedi, K?»
«Perché non ne sono certa. E mi fido del tuo giudizio. Vorrei sapere cosa ne pensi»
«Lo sai cosa ne penso, ne abbiamo già discusso moltissime volte. Ci sono occasioni in cui bisogna prendere decisioni disperate, ci sono soluzioni che sembrano peggiori dei problemi. E ci sarà sempre qualcuno pronto a dirti che avresti fatto meglio in un altro modo. Ma loro non sanno. Gli altri non hanno visto. Solo tu puoi sapere dentro di te quanto è necessario quello che stiamo facendo. Se penso che sia stata una decisione disperata? Assolutamente sì, ma sai quanto me che non c'era tempo per nient'altro. Abbiamo commesso degli errori? Moltissimi! Avremmo potuto agire in modo cento volte più organizzato, ma non l'abbiamo fatto. La nostra condotta ha creato problemi? Sì, un'infinità, ma io sono fermamente convinta che se non avessimo fatto nulla le cose sarebbero andate molto peggio. È vero, come ho detto, che esistono soluzioni che sono più catastrofiche del problema che risolvono, ma è anche vero che in questo caso non è così»
«Ma se mi fossi sbagliata?»
«Non è mai successo prima d'ora, si tratterebbe di una terribile coincidenza e allora... Beh, contro il destino non possiamo davvero fare nulla, lo sai meglio di me»
«E se quello che stiamo cercando di evitare fosse il destino? Se non si può davvero fare nulla, tutto questo è inutile»
«Lo so, ma dobbiamo provare. Non voglio arrivare un giorno a dire a me stessa che avremmo potuto fare di più»
«Hai ragione, però...»
«Lui si fida di te, no? Ti ha dato carta bianca e ti ha lasciato fare tutto quello che ti serviva»
«Lui non è infallibile»
«Allora speriamo che non si sia sbagliato proprio stavolta!»
«Già...»

 

 

 

 

 

The Magic Corner:
Ciao a tutt*!
Avrei dovuto pubblicare questo capitolo l'altro ieri, ma stavo scrivendo one-shot come una disperata quindi non ho potuto farlo. Non questa domenica, ma quella dopo, parto per due settimane di vacanza e non potrò pubblicare nulla. Cercherei di pubblicare ancora sicuramente un capitolo prima di partire, magari anche due, vediamo quanto riesco a essere rapida :)
Grazie a tutti voi che leggete, seguite, preferite, recensite ecc...
Piccola anticipazione, il prossimo capitolo sarà su Loki e Bucky :D
Lasciatemi una recensione o mandatemi un MP se avete tempo e voglia, sennò a presto con il prossimo capitolo!
Che gli dèi siano con voi!
-Magic

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Capitolo 13
*** Non berrò ***


Pubblicità Progresso - Campagna No Profit
Ogni giorno una tastiera si sveglia e sa che sarà maltrattata da uno scrittore incapace.
Mentre tu stai comodamente seduto davanti al tuo computer a leggere fan-fiction, c'è una tastiera che soffre.
Ognuno di noi può fare qualcosa per aiutarla.
Puoi dire a quello scrittore che è incapace, o incoraggiarne un altro perchè non lo è.
Scrivi una recensione!
Non restare indifferente, il destino delle tastiere dipende anche da te!

Non berrò

Non posso bere questa sera,
la mia mente è già offuscata,
il mio pensiero non è lucido
e non ho una goccia di alcol in corpo.
 
Perché questa sera sto pensando a te
e sto cercando una risposta.
Non ho dubbi, troppe certezze
che non posso cambiare.
E non posso bere questa sera
e questa sera non berrò
 
Non posso bere questa sera,
sto cercando di ragionare.
provo a pensare a qualcos’altro,
ma è tutto inutile.
 
Perché questa sera sto pensando a te,
anche se cerco di impedirmelo.
Dovrei parlarti, dovrei evitarti,
dovrei ubriacarmi e dimenticare,
ma non posso bere questa sera
e questa sera non berrò.
 
Il Signore degli Inganni non poteva bere quella sera. Avrebbe tanto voluto farlo, concedersi un bicchiere, poi un altro e un altro ancora, finché il mondo là fuori non fosse stato altro che nebbia e un volto dai contorni sfumati da qualche parte nella sua memoria. Eppure sentiva di non potere, come se qualcuno gliel’avesse vietato categoricamente. Perché doveva concludere una cosa, come continuava a ripetere a se stesso da tempo, anche se non aveva ancora trovato il coraggio di farlo. Erano stati lunghi giorni, senza nulla da fare se non aspettare e pensare a ciò che era successo, ciò che aveva detto. A nessuno dovrebbe essere concesso tanto tempo per riflettere sulle proprie azioni quanto ne aveva avuto lui, si disse. Doveva farla finita con quella storia. Aveva altro a cui pensare, non poteva lasciarsi distrarre da una sola persona. Neanche se quella persona era James.
Discese dal Bifrost poco distante dalla porta della casa del Soldato d’Inverno e sentì le gambe cedere appena, mentre il suo corpo scaricava il peso su di loro. Era quasi certo che non si trattasse di alcuna forza esterna, come la gravità, a meno che non si considerasse James come una forza esterna. Loki preferiva considerarla più come una cosa interna, intima.
Mentre cercava di raccogliere il coraggio necessario a percorrere quei pochi metri e bussare alla porta, si ritrovò ancora a pensare a che cosa gli stava succedendo, come se non avesse già sviscerato l’argomento a sufficienza durante i giorni passati. C’era qualcosa in James che lo aveva colpito fin dalla prima volta che gli aveva parlato in quel locale con un nome davvero fuori luogo. Aveva visto in lui una parte di sé, quella che nessuno aveva mai conosciuto. La Terra aveva visto il Signore degli Inganni spietato, invasore e vendicativo, Asgard nei tempi andati poteva raccontare del principe Loki, che lottava assieme a Thor, Sif e i Tre Guerrieri per mantenere l’ordine nei Nove Mondi, ma nessuno aveva mai compreso veramente la sua essenza.
Quella stessa essenza che aveva vista riflessa negli occhi azzurri di quel soldato caduto. Lo aveva colpito fin da subito, perché era la prima volta che vedeva una natura simile trasparire senza maschere. Nella propria vita, aveva sempre cercato di nascondersi allo sguardo degli altri, di dare una qualunque impressione purché fosse diversa da quella reale. A James non importava. Aveva lo sguardo di chi ha perso gli altri e, soprattutto, se stesso a un livello tale che non gli interessa che cosa pensi di lui il mondo circostante.
Loki aveva provato quasi paura, all’inizio. Quando aveva fatto quella battuta su Steve Rogers, che gli era sembrata così innocente, aveva visto negli occhi dell’uomo che aveva di fronte una mescolanza di sentimenti negativi eccessiva perfino per il Signore degli Inganni. Rabbia. Paura. Dolore. Nostalgia. Odio. Aveva temuto che James potesse colpirlo, per un attimo si era detto che l’avrebbe sicuramente ucciso e lasciato lì per strada come una delle tante rapine finite male, invece se n’era semplicemente andato. Era stato in quel momento che si era reso conto che sentiva qualcosa di strano verso di lui. L’aveva capito quando aveva realizzato che nell’istante in cui era certo che il Soldato d’Inverno stesse per ucciderlo non aveva provato paura. No, non era paura quella, era compassione per un uomo spezzato. Compassione e un po’ di fastidio perché era bastato nominare Capitan America per far sprofondare James in quello scuro cocktail di emozioni.
Solo qualche ora dopo si era detto che non avrebbe dovuto provare compassione, non era da lui, eppure in qualche modo gli sembrava l’unica cosa possibile. Quell’uomo era troppo simile alla parte di sé che il Signore degli Inganni continuava a cercare di nascondere anche a se stesso, per non lasciare un segno nella sua memoria. James aveva un disperato bisogno di aiuto, ma si era aggrappato troppe volte a ramoscelli instabili per poter ancora credere che ci fosse qualcuno in grado di tirarlo fuori dal baratro.
Allo stesso modo, anche Loki aveva bisogno di qualcuno. Qualcuno che non fosse perfetto, che non lo facesse sentire diverso, che non lo guardasse come un mostro, che capisse tutto ciò che aveva passato. Aveva bisogno di James. Ma non poteva averlo. James gliel’aveva fatto capire con i gesti più ancora che con le parole. Aveva scostato il viso, fuggendo il suo tocco, aveva chiuso gli occhi come per estraniarsi da quella situazione. Loki voleva comunque parlargli, fargli sapere come si sentiva. Per una volta nella sua vita, voleva essere completamente sincero con qualcuno.
 
Bucky non aveva mai saputo disegnare, non bene quanto Steve, comunque. Guardare Steve disegnare lo aveva sempre fatto pensare a qualcosa di rilassante, quasi di inconscio, come se l’altro non stesse neanche prestando attenzione a ciò che stava facendo. Invece evidentemente ne prestava eccome, visto che poi venivano fuori delle immagini spettacolari. Bucky si era sempre sentito goffo nel disegnare, come se la matita tenuta in mano da lui avesse espresso fermamente la propria disapprovazione nei confronti di ciò che lui aveva intenzione di fare.
In quel momento, l’uomo che ormai non era più Bucky per nessuno avrebbe disperatamente voluto saper disegnare, perché aveva bisogno di qualcosa che potesse comunicare direttamente con la parte non cosciente di lui e dargli un po’ di tregua da quei pensieri che avevano la chiara intenzione di fargli esplodere la testa. Certo, disegnare non era l’unica possibilità, ma era stata la prima cosa che gli era venuta in mente, insieme al ricordo di Steve con la matita in mano, il sorriso appena accennato sulle labbra, come quando si dorme e si sta facendo un bel sogno, gli occhi bassi sul disegno ma con un frammento di azzurro ancora visibile.
Sicuramente non aveva pensato al disegno o a Steve per puro caso, si era trattata di una catena di immagini nella sua testa su cui James non aveva neanche tanta voglia di indagare. Avrebbe voluto bere, maledizione quanto avrebbe voluto bere, ma non poteva. Doveva pensare. Si chiese se non fosse arrivato all’autolesionismo, perché quella catena folle di ricordi e immagini che non sapeva bene da dove venissero era quasi al livello della tortura psicologica. Non c’era niente che gli impedisse di alzarsi da quel tavolo, prendere la bottiglia di whisky e versarsi un bicchiere dopo l’altro fino a dimenticarsi di Steve, dei suoi disegni e di tutto il resto, ma non l’avrebbe fatto.
Tutto il resto. Tutto il resto aveva un volto e un nome. Aveva dei capelli neri, il colorito pallido che lo faceva sembrare sul punto di morte per assideramento e un paio di occhi verdi con dentro tutta la solitudine che James avrebbe mai potuto immaginare, forse anche qualcosa di più. Ecco, stava di nuovo pensando a Loki, accidenti a lui. Non c’era niente che si potesse fare per bloccare i propri pensieri? Con tutte le tecnologie che avevano inventato, non avevano trovato nulla di più efficiente dell’alcol per impedire a se stessi di pensare?
Perché James non aveva nessuna intenzione di pensare a Loki, assolutamente. Aveva deciso di tenerlo fuori dalla propria mente, insieme a quei suoi occhi verdi che continuavano a urlare nella sua testa che avevano bisogno di aiuto. Come se non ci fosse stata già abbastanza gente che gridava, nella testa del Soldato d’Inverno. Aveva stabilito che avrebbe fatto finta di non aver mai sentito quel brivido quando l’asgardiano aveva pronunciato il suo nome, di non aver mai avuto quella sensazione di un sentimento che era rimasto congelato per decine di anni, di non aver mai pensato che forse tutto ciò avrebbe potuto essere reale, avrebbe potuto aiutarlo a ricominciare.
Da un lato, continuava a ripresentarsi nella sua mente l’immagine di Steve. Steve che disegnava, Steve che rideva, Steve che gli diceva di non avere intenzione di combattere contro di lui, Steve anni prima che gli diceva che lo amava. Steve che forse avrebbe potuto amarlo ancora, forse lo stava soltanto aspettando. Dall’altro lato vedeva gli occhi verdi di Loki che lo pregavano ardentemente di non andarsene. Loki che lo aveva ricattato, Loki che ficcava sempre il naso, Loki che lo guardava come si potrebbe guardare uno specchio, quasi James fosse soltanto la sua immagine riflessa. Loki che, però, sembrava capire sempre tutto quanto, forse più di quanto avesse mai fatto nessun altro.
James non voleva pensare a Loki perché non voleva fidarsi di lui. Non aveva nessuna intenzione di concedere ancora una volta la propria più intima fiducia a qualcuno, non voleva commettere ancora quell’errore. Non si trattava di qualcuno che aveva tradito la sua fiducia, ma piuttosto di una persona che aveva perso. Fidarsi di una persona è donargli un pezzo di sé da custodire nel cuore. Può finire tutto male perché l’altro getta via il frammento di te, oppure perché perdi quella persona, insieme alla parte che gli avevi regalato. E rimani lì, senza più un pezzo di te e senza neanche una persona di fiducia ad aiutarti.
Ma anche dopo aver deciso di cancellarlo dalla propria mente, Loki tornava a presentarsi ogni volta che James pensava a Steve e lo stesso succedeva anche al contrario. La Sentinella della Libertà e il Signore degli Inganni. Erano come il giorno e la notte. Tutti i bei ricordi di James, ciò che lo aveva salvato dall’abisso in cui era precipitato, appartenevano a Steve, al giorno, eppure egli si sentiva ormai un uomo della notte, oltre che dell’inverno. Era come se Loki esercitasse un’attrazione su di lui che andava oltre alla logica, oltre al buon senso e a tutto ciò che James aveva conosciuto fino a quel momento. Doveva togliersi quei problemi dalla testa, ma l’alcol rimaneva l’unica soluzione che gli venisse in mente. Infine si decise e si alzò per prendere la bottiglia. Proprio nell’istante in cui qualcuno bussava alla porta.
 
James guardò dallo spioncino e fece un sospiro. Aprì la porta mantenendo la catenella di sicurezza: «Che cosa ci fai qui? Che cosa vuoi?»
«James» lo chiamò Loki, facendogli tornare alla memoria come si era sentito la prima volta che gli aveva sentito pronunciare il proprio nome «Posso entrare?»
«Perché?»
«Capisco che tu possa essere arrabbiato con me e mi dispiace molto per quello che è successo» Loki si fermò un attimo: era lui che stava parlando? Che cosa gli aveva fatto James, quale parte di lui stava facendo emergere per spingerlo a scusarsi in quel modo? In ogni caso, ormai l’aveva detto «Ma ho bisogno di parlarti prima che partiamo per questa missione»
«C’entra con quello che mi hai obbligato a fare?» James aveva sottolineato quella parola per sé, non per lui. Doveva ricordare a se stesso che Loki lo stava usando, ricattando e sfruttando per i propri scopi che probabilmente non erano per nulla puliti. Tendeva a dimenticarlo.
Loki strinse le labbra: «No»
«Allora non è importante»
«Perché, per te c’è qualcosa di importante che potrei dirti?» Loki non avrebbe voluto dirlo, gli era sfuggito perché era nervoso e James non faceva altro che confonderlo e complicargli il compito che si era scelto.
«Hai ragione, non c’è» James richiuse la porta di scatto. Doveva bere. Doveva piangere. Doveva cacciare quell’asgardiano dalla sua vita. Invece non fece nulla. Si sedette per terra con la schiena poggiata contro la porta, cercando di respirare a fondo per scacciare l’agitazione.
Loki non disse nulla. Rimase paralizzato davanti a quella porta chiusa che dava un’idea di definitivo, di un “a mai più rivederci” che lo faceva sentire vuoto. Non riusciva a pensare a niente che potesse fare per reagire a ciò che era successo. Avrebbe potuto gridare o prendere a pugni la porta, ma sembrava tutto esternamente inutile. Nella sua testa, si diceva che aveva rovinato tutto, come suo solito. Era mai possibile che riuscisse a distruggere tutto ciò che toccava? Sentì le gambe cedergli e si sedette sul ruvido asfalto che ricopriva la strada. Si lasciò andare all’indietro e sentì la propria testa poggiarsi contro la porta. Quella maledetta porta. Voleva piangere, ma aveva finito le proprie lacrime tanti anni prima e ora gli rimaneva soltanto l’amara certezza che niente sarebbe mai andato come sperava.
Aveva voluto provare a salvare la realtà, aveva voluto provare a salvare se stesso. Guardando indietro a quei sogni che appena pochi minuti prima sembravano vivi e pieni di speranze, si disse che, per quanti anni passassero, continuava a essere ingenuo come sempre. Ingenuo come un bambino che da grande vuole fare il supereroe.
«James» disse, senza sapere neanche perché lo stesse facendo. Era certo che lui non fosse lì ad ascoltarlo e forse non sarebbe stato a sentirlo neanche se fosse stato a pochi centimetri da lui. Ma, in fondo, ormai aveva rovinato tutto, quindi cosa sarebbe potuto succedere di peggio se avesse finalmente detto ciò per cui era venuto? E cosa importava se non c'era nessuno ad ascoltarlo?
«James» riprese «Mi dispiace. Mi dispiace davvero, per tutto quanto. Per quello che ti è successo, per quello che ti ho fatto, per tutte le battute stupide che non avrei dovuto fare, perché ficco sempre il naso dappertutto, perché dico sempre la cosa sbagliata e distruggo tutto ciò che tocco, mi dispiace. E anche se lo so che non ti interessano le mie scuse o la mia compassione o qualunque cosa questo sia, volevo semplicemente che lo sapessi.
Quello che sono venuto a dirti è che voglio essere sincero con te. Avrai tutta la sincerità che ho conservato e mai usato in tutti questi anni. Ti assicuro che mi servirà tutta per il discorso che sto per farti, perché, dopo una vita trascorsa a nascondere ciò che ero e che sentivo perfino a me stesso, dovrò costringermi a tirare tutto fuori. Giuro che mi potrai sempre chiedere la verità e sempre l’avrai.
Non lo so cosa mi hai fatto. Dalla prima volta che ti ho parlato ho sentito che avevamo tante cose in comune. Mi hai colpito perché ho visto in te alcuni dei sentimenti che io tenevo sempre nascosti, mentre tu li mostravi al mondo come se non ti fosse importato nulla. Probabilmente è davvero così, non lo so, non ti ho ancora capito a fondo, però credo di essere in grado di farlo e non so quante altre persone lo siano.
Volevo soltanto che sapessi che mi hai fatto provare qualcosa di cui avevo sempre riso, dicendo a me stesso che riguardava gli altri, non sarebbe mai stata affar mio. E sì, sto dicendo che mi sono innamorato di te. Ora puoi essere tu a ridere, se vuoi, puoi darmi dell’idiota, puoi dirmi che sono completamente pazzo, mandarmi al diavolo e dirmi di uscire dalla tua vita. Non ho nessun motivo per darti torto se lo farai. Dovevo solo togliermi questo peso che mi stava uccidendo, perché ho dato a me stesso una missione e anche senza il tuo aiuto la porterò a termine, ma ho bisogno di avere la mente lucida e non posso avercela se ho te continuamente in mente»
James ascoltava. Non si perdeva una singola parola dall’altra parte della porta ed era incredulo. Si era accorto che Loki si comportava in modo particolare con lui, ma non avrebbe mai pensato di spingerlo a tanto. Descrivere a cuore aperto i propri sentimenti era difficile per tutti, dire “sono innamorato di te” a qualcuno che si è convinti non ricambi poi, praticamente impossibile, ma essere sincero per il Signore degli Inganni doveva essere la più grande sfida che avesse mai affrontato.
Domandò a se stesso come si sentisse e non seppe rispondere. Non poteva nascondersi che aveva pensato a Loki molto spesso. Aveva riconosciuto di provare quella strana attrazione irrazionale nei suoi confronti. Non poteva semplicemente lasciarlo andare via. Non dopo che Loki aveva fatto quel sacrificio per riuscire a dichiararsi.
D’altra parte, però, sapeva che ciò che sentiva non poteva essere intenso quanto quello che traspariva dalle parole dell’asgardiano. Non riusciva comunque a mettere da parte Steve nel proprio cuore e Loki doveva saperlo, lo aveva certamente immaginato quando gli aveva chiesto di loro due. Non poteva promettergli ciò che cercava, ma qualcosa gli impediva di lasciarlo andare via. Si alzò in piedi e guardò di nuovo dallo spioncino: Loki era in piedi di fronte alla porta. Teneva gli occhi bassi, probabilmente non pensava che James l’avesse sentito.
Agendo d’istinto James sganciò la catenella e aprì la porta. Loki alzò su di lui uno sguardo che gli fece sentire una stretta al cuore. Non poteva proprio scacciarlo, ora lo sapeva.
«Ho sentito tutto» disse, la voce arrochita dal lungo silenzio «Entra»
«Tu?» Loki non sembrava crederci «Come hai…?»
«Ero seduto dietro la porta. Non è tanto spessa quanto sembra»
Loki lo fissava scuotendo la testa. James sentì nascere dentro di sé una specie di felicità, forse era contento di averlo stupito o forse era semplicemente certo di star facendo la cosa giusta. Sorrise e si spostò di lato per permettere all’asgardiano di entrare.
«Accomodati» disse James, indicandogli una delle sedie sparse per la stanza. Loki obbedì come in trance e si sedette, senza staccargli gli occhi di dosso.
James prese fiato e spiegò. Disse che nella sua mente c’era ancora Steve e che per quanto potesse dispiacergli non poteva promettere a Loki la dedizione completa che lui stava dimostrando nei suoi confronti. Disse anche che però non sentiva solo quello. Raccontò dei propri dubbi, di quanto volesse accettare ciò che Loki gli stava offrendo. Spiegò la propria voglia di ricominciare e quella timida speranza di poterlo fare con Loki.
«Non posso dirti che non provo niente per te né che le tue parole sono state vane» concluse «Ma ora mentirei se ti dicessi che ricambio tutto ciò che hai detto. Forse il tempo potrà cambiare le cose»
«Sono disposto ad aspettare» disse Loki, i suoi occhi sembravano più verdi che mai in quel momento «Per quanto tempo ci vorrà»
«Grazie» James sentì il sollievo pervaderlo. Aveva temuto di perdere quell’unica possibilità di salvezza che la sorte gli aveva offerto.
«No» rispose Loki con un sorriso «Grazie a te»
I due si guardarono a lungo in silenzio. Gli occhi azzurri di James rilevarono piano piano tutti i segni della stanchezza e del brutto periodo che Loki aveva attraversato: non aveva modificato il proprio aspetto per incontrarlo e le pieghe degli abiti erano nulla al confronto di quanto sembrava distrutto il suo viso. Chissà quanto sonno arretrato aveva, si chiese James.
«Da quant’è che non dormi?» domandò avvicinandosi e sfiorandogli il viso con le dita. Loki chiuse gli occhi e nella mente di James si ripresentò lo stesso momento vissuto al contrario l’ultima volta che si erano visti, tranne per il fatto che Loki non aveva allontanato il volto dalla sua mano. Sentì di avere, in un certo senso, riequilibrato la bilancia.
«Dall’ultima volta che ci siamo visti» rispose l’asgardiano, tenendo gli occhi chiusi «Il poco sonno che ho avuto è stato molto agitato. Ma adesso dormirò meglio»
«Bene» disse James. Sentì la mano di Loki prendere la sua e stringerla. Era fredda. Lo notò ad alta voce.
«Sì, beh, sono un Gigante di Ghiaccio, cosa ti aspettavi?» domandò Loki aprendo gli occhi. A James sembrò di vedere un riflesso rosso nel verde delle sue iridi, mentre la sua pelle diventava quasi azzurra. Allontanò la mano, confuso.
«Avevo promesso di essere sincero con te» disse Loki, mentre sul suo volto iniziavano a disegnarsi dei segni che sembravano lunghe cicatrici «Ebbene, questa è la mia vera forma. Non sono un asgardiano, sono un Jötunn, un gigante di ghiaccio. Odino mi prese con sé quando non ero che un bambino e fui cresciuto come un asgardiano, ma questo è ciò che sono veramente ed è giusto che tu lo sappia»
«Perché mantieni l’altro aspetto, allora?» domandò James.
«Ho vissuto la mia vita come una menzogna e mi ci sono abituato tanto che mi sembra strano tornare alla mia vera forma. Non sono certo di poterlo sopportare» la carnagione cominciò a schiarirsi, mentre i segni sulla pelle sparivano e gli occhi tornavano verdi «Scusami, non ce la faccio»
«A me vai bene anche così» sorrise James «Anche se sono felice che tu abbia voluto farmi sapere qual è il tuo vero aspetto. Ora più che mai sono certo che sarai davvero sincero con me»
«Anche se sono il Signore degli Inganni?»
«Anche se sei il Signore degli Inganni»
 

Nello stesso tempo, altrove
Finalmente aveva finito. Aveva dedicato gli ultimi tre mesi di lavoro praticamente solo a quel progetto, anche se in realtà era da più tempo che ci pensava e studiava il tutto. L'idea le ronzava nella testa da un'eternità, ma era stato solo dopo la partenza di Helena che aveva preso la decisione di darsi davvero da fare. Dopo la notte in cui i terribili incubi avevano incominciato a farle visita, non aveva più potuto dedicarsi ad altro senza sentire i sensi di colpa dello star trascurando quella faccenda.
Scrisse le ultime annotazioni al fondo della trattazione: non sapeva se, quando o chi avrebbe mai usato quei risultati, perciò aveva spiegato a fondo l'argomento. Avrebbe potuto vincere molti premi scientifici con un saggio di quella portata così approfondito, ma il mondo non sapeva e non avrebbe mai dovuto sapere che quegli studi erano stati fatti e soprattutto i risultati ottenuti. Mise l'ultimo foglio nella cartellina del progetto, che aveva chiamato Quis custodiet ipsos custodes? e poi lo ripose in cassaforte.






The Magic Corner:
Buonasera mondo e grazie a tutt* voi per essere qui!
Dopo aver riletto per l'ennesima volta questo capitolo, mi sono finalmente convinta a pubblicarlo (no, non mi convince per nulla, se ve lo steste chiedendo) e quindi eccomi qui!
Prima di lanciarmi nei ringraziamenti e nelle comunicazioni di servizio, volevo solo rendervi partecipi di un fatti riguardanti la storia:
Numero uno, permettetemi di bearmi di Loki che si autocita in questo capitolo con quel suo "No, grazie a te" direttamente da Thor: The Dark World. *momento di autocelebrazione off*
Numero due, la scena con due persone dai due lati di una porta non credo abbia bisogno di essere segnalata come citazione, visto il numero di volte che è stata usata. Nello specifico, la mia è stata ispirata da un'immagine trovata su Internet (in realtà era Stucky, ma questi sono dettagli).
Numero tre, Quis custodiet ipsos custodes? (Chi custodirà i custodi?) è una frase che è stata scritta originariamente dal buon Giovenale nelle sue Satire. Nel mondo dei fumetti è particolarmente famosa in quanto ricorrente nella mini-serie della DC "Watchmen" (che, guarda caso, è la traduzione di custodes), che da anni mi propongo di leggere. In molti hanno riconosciuto lo stesso concetto anche alla base dell'Atto di registrazione che fa scatenare tutto il casino di Civil War. Tenetela a mente, gente, ci servirà più avanti :)
Numero quattro, ho questa head-canon di Bucky che guarda Steve disegnare, prima o poi ci scriverò una one-shot. Così, per dirvelo.
Passiamo ai ringraziamenti… Ovviamente ringrazio GreekComedy e wild_spirit per le loro fantastiche recensioni e anche Pouring_Rain11 per la sua opera di stalking nei confronti miei e della storia :D
Grazie a quelle 10 persone che hanno messo la storia tra le seguite e 5 che l'hanno messa tra le preferite. Vi voglio bene <3
Comunicazioni di servizio: ci siamo quasi. La prima parte ha le settimane contate. Rimangono due capitoli e poi arriveremo dritti dritti nella seconda parte. Il primo di questi due sarà dedicato a Thor e Bruce, che hanno avuto pochissimo spazio ultimamente, poverini. In quello dopo ancora si parlerà di Tony, ma ci sarà un attimo dedicato a tutti, in quanto capitolo conclusivo della prima parte.
Quando vedranno la luce questi capitoli? Ecco, questo è il problema. Tra una settimana esatta parto per le vacanze e non potrò pubblicare, quindi spero con tutte le mie forze di riuscire a terminare il capitolo su Thor e Bruce prima di quella data. Per l'altro capitolo, invece, non ci sono speranze. Se ne parla dopo la prima settimana di agosto.
Una volta conclusa la prima parte, penso che prenderò una pausa. So già cosa voglio fare nei primi capitoli della seconda parte, ma voglio scriverne almeno un paio prima di riprendere a pubblicare perché non voglio che succeda come prima, con mesi e mesi senza aggiornare. Inoltre ho un'altra long in sospeso che mi distrae da questa e vorrei concluderla per potermi dedicare solamente a questa.
Diciamo che, tra vacanze e tutto, dovrei ricominciare a pubblicare verso metà settembre. So che è molto e cercherò di abbreviare i tempi, ma preferisco farvi aspettare una volta conclusa una parte e poi andare spedita per vari mesi, piuttosto che il contrario.
Che altro dire? Lasciatemi una recensione o mandatemi un MP per dirmi che ve ne pare del capitolo, se vi avanza ancora un po' di tempo dopo i miei sproloqui. Credo di avervi annoiati anche abbastanza, quindi mi dissolverò in aria fine come un personaggio di Shakespeare e ci sentiamo il prima possibile.
Che gli dèi siano con voi!
-Magic

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Capitolo 14
*** Adesso ***


Pubblicità Progresso - Campagna No Profit 
Ogni giorno uno scrittore incapace si sveglia e sa che dovrà inseguire una tastiera che fugge.
Ogni giorno una tastiera si sveglia e sa che dovrà correre più veloce di uno scrittore incapace.
Che tu sia scrittore o tastiera, comincia a correre.
Ma se sei un lettore no! Puoi fermare questo scempio!
Scrivi una recensione!
Non restare indifferente, il destino delle tastiere dipende anche da te!

Adesso

Torna alla realtà,
dove il mondo ti sta guardando,
dove ci sono io per te.
Smetti di vivere nei ricordi
in quei momenti una volta felici,
che ora ti fanno soltanto male.
È qui che abbiamo bisogno di te,
per affrontare le minacce
di ogni maledetto giorno.
 
Torna alla realtà,
smetti di vivere nei ricordi,
è qui che abbiamo bisogno di te
adesso.
 
Torniamo alla realtà,
dove io non sono nessuno,
nessuno di buono.
Smettiamo di sognare ad occhi aperti,
guardiamoci attorno,
accorgiamoci del mondo.
È qui che hanno bisogno di noi,
per salvare un mondo
che cerchiamo di cambiare.
 
Torniamo alla realtà,
smettiamo di sognare ad occhi aperti,
è qui che hanno bisogno di noi,
adesso.

 

«Thor» disse Natalie chiudendo lo sportello del frigorifero «dovresti mangiare qualcosa»
«Ho mangiato» rispose il dio senza alzare lo sguardo dal tavolo.
«No che non hai mangiato. Il frigo è esattamente identico a quando sono venuta qui l’ultima volta e la spazzatura è vuota»
«Sono stato al ristorante»
«Non è vero»
Thor alzò lo sguardo su di lei. Sembrava stupito che lei lo avesse contraddetto con quella tranquillità, o forse ne era infastidito, Natalie non riusciva a definirlo con precisione.
«Come lo sai?» non era la prima volta che Natalie si accorgeva quando Thor mentiva e l’asgardiano non poteva fare a meno di chiedersi come facesse.
«Lo so e basta» rispose Natalie sorridendo «Che ne dici se invece ci andiamo veramente? È un po’ troppo che non mangi nulla»
«Non ho fame»
«Trovo questo fatto irrilevante. Ti sto invitando a cena, Thor. Se vuoi rifiutare l’invito, dovrai farlo esplicitamente e affrontarne le conseguenze»
Thor era perplesso: «Conseguenze?»
«Potrei offendermi e non parlarti mai più» Natalie era terribilmente seria. Thor si spaventò: ormai contava su di lei, era l’unica cosa che gli impedisse di andare completamente a fondo e non poteva pensare che lei se ne andasse.
Si alzò in piedi e le fece cenno verso la porta: «Dopo di te»
 
«Due menù cheeseburger completi» ordinò Natalie, poi notò che Thor la guardava contrariato «Che cosa c’è? Non ti piacciono i cheeseburger? Sono ancora in tempo a cambiare l’ordinazione»
Thor scosse la testa: «No, va bene così»
Ricevettero ciò che avevano ordinato in poco tempo: il locale era quasi vuoto. Natalie scelse velocemente un tavolo e ci portò Thor, che sembrava disorientato.
Natalie stava per cominciare a mangiare, poi notò che il dio fissava il proprio vassoio con indifferenza: «Guarda che se aspetti ancora un po’ si raffredda. Se non lo mangi caldo, non è un granché»
Thor spostò di lato il vassoio con un’espressione nauseata: «Io non ce la faccio, Natalie»
«Non puoi continuare questo digiuno in eterno, Thor» disse l’infermiera posando il proprio panino sul piatto e fissandolo negli occhi «Morire di fame non la riporterà indietro»
«E mangiare, invece? Aiuterà in qualche modo?» scattò l’asgardiano.
«Ascolta, tu ti sei fidato di quello che ho detto dalla prima volta che mi hai vista. Perché lo hai fatto?»
«Perché avevi uno sguardo che… Ho pensato che potessi capirmi. Ma ora non ne sono più tanto sicuro»
«Thor, soltanto perché sto cercando di convincerti a mangiare non vuol dire che non io capisca cosa ti è successo e cosa stai passando, d’accordo? È solo che non riesco a sopportare di vederti in questo modo»
«Allora non guardare»
Natalie lo fissò per qualche attimo, ferita da quella risposta, poi abbassò lo sguardo. Thor si alzò in piedi e fece per andarsene. Non sapeva dove volesse andare. Sapeva soltanto che voleva non rivedere più quella donna che si comportava come se capisse qualcosa che era anni luce fuori dalla sua portata. Fece qualche passo verso la porta, ma fu fermato dalla voce di Natalie. Non sembrava neanche che parlasse con lui, ma non c’era nessun altro a cui potesse rivolgersi.
«Si chiamava Colin. Sono passati cinque anni, ma ogni volta che ci penso le ferite sanguinano come se fossi appena tornata a casa dall’ospedale. Sono rimasta incinta a diciassette anni. Non è stato esattamente volontario. Quello stronzo di suo padre mi ha lasciata non appena ha saputo del bambino, ma la mia famiglia mi è rimasta vicina e io ho deciso di tenerlo.
Quando compì diciotto anni, facemmo tutti una colletta e gli regalammo una motocicletta per il suo compleanno. Ne era entusiasta. Lui e la sua ragazza ci facevano dei giri incredibili, ma non mi sono mai preoccupata troppo. Era un ragazzo responsabile e sapevo che non avrebbe fatto follie. Non beveva mai quando doveva guidare, neanche una birra, nulla. Certo, restavo sveglia finché non lo sentivo rientrare, per quanto tardi facesse, ma quale madre non lo fa?
Passarono alcuni mesi, fu un bel periodo. Finché non arrivò la telefonata. Ovviamente ero sveglia, aspettavo che lui tornasse a casa dopo una serata con gli amici. Un pazzo ubriaco in macchina aveva praticamente schiacciato la sua moto tra la propria carrozzeria e il guard rail. La sua ragazza è morta sul colpo, lui qualche ora dopo in ospedale, con il nome di lei sulle labbra.
Hai mai perso un figlio? Hai mai avuto un figlio? Hai mai stretto tra le braccia qualcosa che era stato una parte di te, giurando a te stesso che saresti andato contro tutto il mondo pur di proteggerlo? E quando te lo portano via senza chiederti nulla, senza darti una spiegazione, senza qualcuno da accusare, tu lo conosci quel dolore? Se ti strappassero tutte le membra una per volta ti farebbe meno male.
E una volta tornata a casa, entrare in camera sua per ritrovare il suo zaino, le sue cose, la vostra foto insieme che tieni sul comodino, come credi che sia stato? Io vivevo per lui, avevo studiato per diventare infermiera mentre lui era piccolo perché volevo aiutare gli altri, ma la cosa più bella della giornata era tornare a casa, dal mio bambino.
Sono passati cinque anni, ma non potrò mai dimenticare. Ho pensato di mollare tutto, di smettere di mangiare o di prendere abbastanza pasticche da non svegliarmi più e poterlo ritrovare. Ma io sono un’infermiera, Thor, il mio lavoro è aiutare la gente. Non potevo e non posso andare via in questo modo. Forse non capirò che cosa senti tu ora, sei libero di crederlo, ma posso dirti che non puoi semplicemente andartene da questo locale e credere di esserti liberato di tutte le responsabilità. Torna alla realtà e smetti di vivere nei ricordi, perché è qui che abbiamo bisogno di te adesso. Ho finito il mio sermone. Fai come credi, adesso, ma almeno io saprò di aver detto quello che potevo per farti restare»
Natalie alzò gli occhi su di lui. Thor vide dipinte in quegli occhi la sofferenza, la nostalgia, la disperazione. Tutti quei sentimenti che aveva creduto lei non potesse comprendere. Tornò verso il tavolo a passi lenti, quasi avesse paura, muovendosi troppo velocemente, di rompere una qualche magia. Si sedette e vide un timido sorriso nascere sul volto della donna che aveva di fronte, sconfiggendo tutti quei sentimenti negativi. Si sentì orgoglioso di aver ottenuto quel risultato.
«Hai fame?» domandò Natalie in un sussurro. Thor interrogò se stesso e si accorse che in effetti aveva davvero fame. Annuì.
«I cheeseburger saranno freddi» disse ancora Natalie, mentre il suo sorriso diveniva sempre più ampio «Ne ordino altri»
Thor mise una mano sulla sua mentre lei si alzava: «Andiamo insieme»
«D’accordo»
Mangiarono in silenzio e poi Natalie portò Thor al supermercato. Fece per lui un po’ di spesa e lo riaccompagnò a casa. Fu solo sulla strada verso casa che l’asgardiano si azzardò a rompere il silenzio. Parlarono di argomenti di tutti i giorni, di cui non importava nulla a nessuno dei due, ma fece loro bene. Sapeva di normalità.
«Dovresti tornare dai tuoi colleghi» buttò lì Natalie, appena finito di riporre in frigo la spesa «Ti farebbe bene»
«Probabile» concordò Thor.
«Bene» disse Natalie, mostrando un briciolo di imbarazzo «Allora io… Magari vado. Buona serata e chiamami se hai bisogno»
«Certo» sorrise lui. Natalie annuì e si voltò per andar via, ma poi Thor la chiamò ancora una volta.
«Cosa?»
«Grazie»
Natalie non disse nulla, sorrise e andò via.

 

«Non è possibile!» sbottò Bruce. Si fermò e fece un respiro profondo cercando di calmarsi, ma l’irritazione di fondo rimase. Rilesse per la cinquantesima volta i calcoli che aveva fatto, tentando disperatamente di trovare un errore, ma gli sembrò tutto corretto.
«Tony» disse allora «Puoi ricontrollare tu? Ci dev’essere per forza che non va, altrimenti funzionerebbe tutto»
Tony prese il quaderno dalle sue mani e controllò le cinque pagine di calcoli. Prese una calcolatrice e rifece alcuni calcoli, seguì con la punta di una matita tutti passaggi e infine disse sospirando che gli sembrava tutto a posto.
«Hai considerato il teorema di Ehrenfest? È l’unica cosa che mi venga in mente» aggiunse.
Bruce sfogliò il quaderno fino a trovare il punto che gli serviva: «Sì, vedi, l’ho incluso qui»
«Allora non lo so»
A Tony costava moltissimo quell’ammissione, Bruce ne era consapevole. Si lasciò cadere pesantemente su una delle sedie del laboratorio. Erano settimane che lavoravano a quel progetto. All’inizio sembrava che tutto andasse per il meglio: il materiale rispondeva ai test esattamente come previsto dai loro calcoli e avevano ottime aspettative per gli sviluppi futuri. Poi, all’improvviso, qualcosa era andato storto. Le reazioni avevano smesso di assecondare le previsioni e tutti i loro calcoli sembravano completamente sbagliati.
«Non lo so, Tony, forse dovremmo lasciar perdere» disse Bruce «Forse questo progetto è troppo ambizioso. Forse ci sono troppe cose che ancora non sappiamo per poter semplicemente calcolare che cosa succederà. E oltretutto non ho mai neanche pensato a come controllare questa energia una volta che l’avremo creata. Potrebbe diventare incontenibile»
Tony aveva temuto fin da subito che sarebbe finita così, ma da un certo punto di vista gli dava fastidio desistere proprio quando aveva pensato che avrebbero potuto farcela. Il suo orgoglio ne usciva un po’ ferito.
«Prendiamoci un attimo di pausa» propose «Magari abbiamo solo bisogno di smettere di pensarci per un po’»
Bruce annuì e uscì a prendere una boccata d’aria. Tony decise di lasciarlo in pace e rimase nel laboratorio a discutere con F.R.I.D.A.Y. di affari della Stark Industries.
 
Bruce cominciò a camminare e lasciò che i suoi piedi lo portassero dove volevano, vagando senza meta. Nonostante il consiglio dato da Tony, non riusciva a smettere di pensare a quei calcoli e a cosa aveva sbagliato.
Sapeva che diversi scienziati avevano già provato a inventare qualcosa di simile, senza risultati soddisfacenti, ma pensava che con l’aiuto di Tony avrebbe potuto farcela. Aveva fatto i propri calcoli, cercato i materiali migliori per costruire un prototipo, considerato tutte le possibili implicazioni della meccanica quantistica e classica, ma non era riuscito a costruire nemmeno l’ombra di ciò che cercava: il teletrasporto.
Non era un progetto da niente, lo sapeva perfettamente, ma era altrettanto cosciente che se fosse riuscito nel proprio intento avrebbe finalmente lasciato la propria impronta nel mondo senza dover diventare un mostro verde. Erano anni che lo sognava. Tutti avrebbero detto di lui “il dottor Banner, colui che cambiò completamente il nostro modo di vivere”. Avrebbe smesso di essere soltanto “Hulk spacca”.
Sarebbe stata la svolta del secolo, se l’era già immaginato: il Novecento aveva visto la nascita del computer, il Duemila avrebbe visto quella del teletrasporto. Era letteralmente l’idea del secolo e nella sua mente poteva riuscirci. Sapeva che un congegno del genere avrebbe avuto bisogno di moduli di contenimento, perché l’energia utilizzata avrebbe potuto facilmente sfuggire al macchinario. Il potenziale necessario era talmente alto che avrebbe potuto radere al suolo delle intere nazioni se non fosse stato imbrigliato correttamente, ma pensava che con l’aiuto di Tony avrebbe potuto farcela.
Invece si erano rivelate speranze totalmente campate in aria. Il sogno di un folle, di un fallito. Come con il siero del supersoldato. Come sempre. Come aveva potuto pensare di poter realizzare qualcosa di buono? Come aveva potuto sognare di poter diventare qualcosa di diverso da un mostro verde buono solo a distruggere? Come aveva potuto credere a quei sogni ad occhi aperti? Li vide dissolversi davanti ai suoi occhi come neve al sole. Fece un sospiro. Era ora di finirla con quelle farneticazioni.
Tornò verso l’Avengers Facility
a passi lenti, appesantito dalla decisione che aveva preso. Cominciò a vagare per le stanze della struttura pensando che prima o poi avrebbe incontrato Tony. Così fu: quasi si scontrarono perché erano entrambi distratti.
«Allora, ti è venuto in mente qualcosa?» domandò il miliardario in tono incoraggiante vedendo lo sguardo determinato che aveva Bruce.
«No. Cioè sì, finiamola con questa storia, Tony» odiava se stesso per ciò che stava dicendo, ma non c’era altro da fare «Mettiamo via tutto, quaderni, progetti e calcoli sbagliati. Tu hai sicuramente di meglio da fare e io troverò qualcosa»
«Ma Bruce» Tony non voleva crederci «Siamo così vicini. Possiamo farcela. Pensa a cosa succederebbe se ci riuscissimo: tutto il mondo che cambia per una singola invenzione, per il lavoro di due persone. Non possiamo mollare ora»
«Ci ho pensato. Se avessimo potuto farcela ce l’avremmo già fatta. So che ti stai dedicando ad altre ricerche. Certamente avrai più successo di noi. Torniamo alla realtà e smettiamo di sognare ad occhi aperti, perché è qui che hanno bisogno di noi adesso»
«Io non credo che…»
«Ti prego, Tony» la voce di Bruce tremò appena «Non rendere le cose più complicate di quanto già non siano. Ti assicuro che non ce n’è assolutamente bisogno»
Tony sospirò, scosse la testa e fece per andar via, ma si fermò dopo pochi passi e si voltò verso l’amico.
«Bruce?»
«Sì?»
«Un giorno ce la faremo. E quel giorno riconoscerai che avevo avuto ragione a crederci»
«Se ci riuscissimo davvero, lo farei volentieri» sorrise Bruce.






The Magic Corner:
Buonaseeeera a tutt*!
Eccomi qui con un capitolo scritto tutto di getto oggi pomeriggio e ricontrollato pochissimo (segnalate eventuali typos e scusate -.-''), che però avevo bisogno di pubblicare as soon as possible perché, come già detto, tra pochissimo parto.
Ed ecco la parte prima che si avvia alla sua devastante fine! Sì, ho detto devastante, avete capito bene. Preparatevi perché avrò molto tempo per scrivere questo capitolo e questo potrebbe rivelarsi molto pericoloso per la mia (e la vostra) stabilità mentale.
Parliamo di questo capitolo... Thor depresso ha quasi ucciso me mentre lo scrivevo e meno male che c'è Natalie. Tra l'altro, volevo informarvi che la nostra infermiera è nata come comparsa che diceva un paio di battute e poi si è trasformata in questa specie di psicologa. Questo perché io ho molto controllo sui miei personaggi e non mi affeziono per nulla ai secondari, per nulla. Ah, avvertimento generale. Non ho intenzione di shippare Thor e Natalie. No. Liberissimi di pensare che starebbero bene insieme (se lo pensate), ma io non sono d'accordo, quindi rimarranno bros. Punto. (*e fu così che si scoprì che nessuno li voleva shippare ed era solo lei che si faceva tanti problemi per nulla*)
Veniamo a Bruce, che -piccolo- mi fa sempre un sacco di tristezza perché è uno sfigato totale. Era l'ultimo che mi mancava da deprimere malamente di tutti gli Avengers del primo film e ho dovuto farlo, ma non volevo. Il poverino ha perso tutto (compresa la fidanzata) senza il mio intervento, non potevo proprio accanirmi! Ho cercato di andarci leggera, infatti, ma temo di aver fallito. Beh, meglio di quello che è successo a Tony!
Il teletrasporto è un'idea che secondo me frulla nella testa degli ScienceBros da un po' e mi sembra che il Bruce Banner dei fumetti abbia un teletrasporto come dotazione, perciò ho unito le due cose! L'idea qui non è andata a buon fine, ma non dimenticatela totalmente perché ho in mente un seguito che... vabbè facciamo che prima finisco questo!
Giusto per farvelo sapere, il teorema di Ehrenfest esiste veramente e fa parte della meccanica quantistica-classica, ma non so esattamente di cosa tratti perché non ho ancora mai studiato fisica.
Ringrazierei prima di tutto Pouring_Rain11 per la sua recensione allo scorso capitolo, le dieci persone che hanno messo la storia tra le seguite e le cinque che l'hanno messa tra le preferite, tutti voi che mi leggete con santa pazienza per seguire le mie trame incasinate, marvel.wiki perché senza quel sito sarei morta, il mitico hargil (AKA il mio consulente Marvel) e mia sorella, che sopportano i miei dubbi esistenziali e infine GreekComedy perché piange dalla gioia quando aggiorno :D
Del prossimo capitolo ho già detto qualcosina. Potrebbe capirsi qualcosa di più su K, ma non ne sono sicura perché ho scritto solo l'inizio. Sicuramente vedremo tutti gli Avengers all'opera in una missione di vendetta (beh, dopotutto sono Vendicatori), ma... no, non vi anticipo troppo! Vi do appuntamento ad agosto (anche se continuerò a recensire e rispondere alle recensioni) e vi invito a farmi sapere che cosa ve ne pare del capitolo con una recensione o un MP :)
Che gli dèi siano con voi!
-Magic

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Capitolo 15
*** Gli uomini incuranti ***


Gli uomini incuranti
Avvertenze, leggere e conservare:
Questo capitolo contiene distruzione di broship, un alto numero di morti e i Vendicatori che tendono pericolosamente all'OOC.
Si avverte il lettore che leggendo il testo afferma di aver preso visione dell'avvertenza e di accettare le possibili conseguenze.
Maneggiare con cura. Tenere lontano dalla portata dei bambini.

Gli uomini incuranti

Noi siamo gli uomini incuranti
Noi siamo i randagi
Che si appoggiano l'uno all'altro,
La testa piena di menzogne. Ahimè!
Le nostre voci fredde, quando
Elaboriamo piani distorti
Sono sommesse e senza senso
Come scossa elettrica nell’acqua
O come zampe di ragno sopra pelle straziata
Nel nostro minaccioso sotterraneo
 
Potere senza ideali, vittoria senza vincitori,
Bandiera priva di colore, forza priva di scopo;
 
Coloro che non sono partiti
Con occhi serrati, verso l'altro Regno della morte
Ci ricordano - se pure lo fanno - non come anime
Coraggiose e altruiste, ma solo
Come gli uomini incuranti
I randagi.


«Clint?» la voce di Natasha era impastata dal sonno e la sua proprietaria non capiva perché lui le avesse improvvisamente afferrato la spalla. Voltandosi verso il suo compagno, si accorse che stava ancora dormendo. Aveva gli occhi serrati così forte che la pelle delle sue guance era tirata sulle ossa. Vedendolo così, Natasha si svegliò completamente. Clint stava avendo un incubo e doveva svegliarlo il prima possibile. Chissà cosa gli stava succedendo in sogno, chissà quanto dolore stava provando.
«Clint!» cominciò a chiamarlo, scuotendolo per un braccio, mentre la sua voce assumeva sempre più una sfumatura di urgenza «Clint, svegliati. Ti prego, svegliati»
La stretta sulla sua spalla si faceva sempre più forte, mentre il respiro del suo compagno continuava ad accelerare, ma Natasha non se ne accorse neanche. L’unica cosa che le importasse in quel momento era di liberare Clint dalla sua sofferenza. Gli passò le mani sul volto, cercando di dargli un po’ di sollievo, ma sapeva che non sarebbe servito a nulla fintanto che non fosse riuscita a svegliarlo.
«Clint!»
Clint spalancò gli occhi nel buio della stanza, il fiato grosso come se avesse appena fatto la corsa più lunga della sua vita. All’inizio non capiva nulla, poi si accorse di essere sdraiato nel proprio letto e di star fissando il soffitto. Iniziò a rilassarsi mentre ricordava quanto tutto ciò che lo circondava fosse familiare e significasse casa e sicurezza. Solo dopo qualche minuto si accorse che Natasha, accanto a lui, era sveglia e aveva una mano posata sul suo viso. Fu allora che realizzò di star stringendo qualcosa. Allentò poco per volta la presa, mentre capiva che era la spalla di Natasha.
«Grazie» disse sottovoce la sua compagna.
«Scusami»
«Non scusarti, stai bene?»
Prima di risponderle, Clint pose quella stessa domanda a se stesso. Stava bene? Sentiva dolore da qualche parte? Esaminò attentamente il proprio corpo, poi la propria mente. Natasha attese con pazienza la sua risposta.
«Sì, credo… credo proprio di sì»
«Vuoi parlarne?»
Voleva parlarne? Parlare di cosa, poi? Di ciò che aveva sognato?
Scosse la testa: «Non mi ricordo nulla»
«No?»
«No» non sapeva se rallegrarsene. In fondo, forse era meglio non sapere cosa avesse sognato «anche se ho la sensazione che stia per succedere qualcosa di importante. A tutti noi»
«A causa del sogno?»
«No. O forse sì. Non ne sono certo, ho soltanto questa sensazione. È diversi giorni che va avanti, ma ora ne sono proprio certo. Tu non senti niente? Come una tensione nell’aria che deve risolversi prima o poi»
Natasha ci pensò per un po’: «In effetti, ora che mi ci fai pensare credo di sì. È come se stessimo tutti aspettando qualcosa senza sapere veramente di cosa si tratti. Speriamo che si affretti a succedere, allora»
«Non lo so, potrebbe non essere del tutto positivo»
«Allora prima succederà e prima ci saremo tolti il problema» Natasha si sforzava di essere ottimista perché si era accorta che l’umore di Clint era nerissimo.
«Sempre che sia un problema che possiamo toglierci» considerò cupamente lui.
«Cosa c’è?» Natasha non poté trattenersi dal chiederlo «Perché ti comporti così?»
«Non lo so, scusami» anche Clint si rendeva conto di star ragionando con estremo pessimismo «Quest’incubo mi ha lasciato l’amaro in bocca. Vorrei proprio sapere di cosa si trattava»
«Forse è meglio di no»
Clint sfiorò con la punta delle dita il punto della spalla di Natasha che aveva stretto con più forza: «No, hai ragione»
«Proviamo a riaddormentarci?» propose lei.
«D’accordo»
Natasha si voltò sul fianco sinistro, dando le spalle a Clint. Lui la abbracciò da dietro e chiuse gli occhi. Al contrario di quanto aveva pensato, si addormentò immediatamente. Era stato davvero un bene non ricordarsi cosa aveva sognato.
Furono invece gli occhi verdi di Natasha a rimanere aperti ancora per molto. La donna era preoccupata. Preoccupata per quei sogni di Clint che ormai si presentavano nei momenti più inaspettati. Non poteva trattarsi di stress: erano più di due settimane che non facevano nulla. Forse era l’inattività. No, non poteva essere neanche quello, perché era cominciato ben prima che le missioni si fermassero.
Ma non era solo il suo compagno a dare pensieri a Natasha. Era preoccupata per Tony. Dalla morte di Pepper era cambiato moltissimo. Aveva qualcosa di più feroce, meno controllato, che si manifestava in tutto, ma raggiungeva il proprio apice quando entrava in laboratorio. Quando lavorava a un progetto, che fosse quello di Bruce o un altro, sembrava che non ci fosse nient’altro di importante al mondo. Non mangiava. Non parlava con nessuno. Diverse volte l’avevano trovato addormentato sui propri calcoli, mentre F.R.I.D.A.Y. cercava invano di svegliarlo. Sam e Rhodey avevano dovuto portarlo a braccia in camera sua in almeno tre occasioni. Natasha non voleva neanche immaginare come sarebbe diventato in missione.
Poi c’era Steve. Nat sentiva che il suo migliore amico aveva bisogno di parlare con qualcuno di ciò che era successo con Sharon. Non aveva voluto chiedergli nulla perché si era detta che sarebbe andato lui da lei una volta che fosse stato dell’umore giusto. Forse quel momento non era ancora arrivato. Il fatto era che passavano i giorni e Steve non era ancora andato da lei per sfogarsi. Né da nessun altro. A Natasha dava sempre più l’impressione che si stesse trattenendo con il mondo, come se non avesse voluto lasciarsi andare con nessuno.
Anche Thor era diverso. Non era solo il suo umorismo che era scomparso proprio come quello di Tony, sembrava che l’asgardiano fosse sempre da un’altra parte anche le poche volte che si trovava davvero all’Avengers Facility. Forse pensava a Jane, forse aveva perso il suo riferimento sulla Terra e desiderava tornare ad Asgard, Natasha non lo conosceva abbastanza bene da poterlo dire. Tutto ciò che sapeva era che il gigante biondo non rideva più e da quando Jane era morta non gli aveva sentito dire più di dieci parole di fila.
Clint aveva ragione: c’era nell’aria una forte tensione, ma forse non si trattava di qualcosa che stava per succedere, bensì di tutto ciò che era già successo. Se esisteva un Dio, doveva essere davvero adirato con gli Avengers, si disse Natasha. Sperava che ci fosse veramente qualcosa che stava per capitare, perché la squadra ne aveva un bisogno matto.


Il dio del tuono percorse con lo sguardo la costruzione che si stagliava davanti a lui. La nuova base degli Avengers era certamente meno imponente di quella vecchia, principalmente perché non si sviluppava in altezza, ma si estendeva in larghezza. La nuova Avengers Facility era di certo più attrezzata ad accogliere la squadra, ma Thor avrebbe preferito mille volte l’Avengers Tower, dove aveva vissuto e si era allenato con i suoi compagni tanto da riuscire a sentirsi a casa.
Era già stato là dopo la morte di Jane, ma era stato come non andarci proprio: non riusciva a interessarsi delle vicende quotidiane, quando il pensiero di lei occupava tutta la sua mente. In un certo senso, gli sembrava di mancare alla sua squadra da parecchio tempo.
Pensando di tornare da loro dopo quella lunga assenza, gli nacque un sorriso sulle labbra: i suoi compagni gli erano mancati molto in quei giorni. Si ricordò, però, che l’atmosfera che avrebbe trovato non era la stessa che persisteva nei suoi ricordi. Tony aveva sicuramente sofferto la perdita di Pepper quanto lui aveva sofferto quella di Jane. Ricordava anche che qualcuno, forse Visione, gli aveva comunicato che buona parte del team aveva il morale a terra.
Non che Thor potesse dire di essere di ottimo umore, a dire il vero, ma Natalie aveva ragione. Tornare dai suoi compagni lo avrebbe di certo aiutato a distrarsi e chissà che non riuscisse a essere anche lui un sostegno per loro.
«Benvenuto, signor Odinson» lo salutò la voce di F.R.I.D.A.Y. aprendogli la porta «Le apro la camera?»
«Sì» rispose Thor, ricordando che aveva una camera anche là, e si sentì rilassato per qualche attimo. Fu come se fosse stato tutto pronto per lui, come se il destino l’avesse voluto lì. Che impressioni dà il tornare in un posto dopo qualche tempo, si disse poi, scuotendo la testa. Si incamminò verso la propria stanza, lasciando che le sue gambe gli insegnassero di nuovo la strada e ringraziò l’intelligenza artificiale appena prima di entrare.


Era ora. Il momento era arrivato. Dopo oltre due settimane di inattività, gli Avengers sarebbero dovuti tornare sul campo. Il Tony di qualche tempo prima avrebbe trovato degno di nota che la prima missione dei Vendicatori dopo quella pausa fosse una vendetta. Avrebbe detto ai propri compagni che avevano l’occasione di rendere onore al proprio nome una volta per tutte. Ma ormai non gli importava più, era tutto uguale. Niente poteva veramente interessarlo.
Una parte di lui ancora rideva per qualche sagace battuta che gli veniva in mente, la stessa parte che avrebbe voluto far notare ai suoi compagni quel divertente gioco di parole sul nome. Ma ormai quella parte di lui se ne stava per lo più in silenzio sepolta sotto una coltre di indifferenza. Forse una volta che avesse ottenuto giustizia e vendicato la morte di Pepper avrebbe potuto cominciare a ritrovare quel vecchio Tony, ma per il momento non ne era in grado. E non lo voleva neppure.
Chiese a F.R.I.D.A.Y. di convocare tutti nella sala centrale per il briefing, poi si avvicinò al piccolo frigo-bar che era integrato nella sua camera. Aprì l’anta e passò in rassegna ciò che conteneva con lo sguardo, poi la richiuse con un sospiro. Proprio non gli andava di bere nulla.


A Wanda piaceva allenarsi con Sam. Normalmente non adorava le persone che facevano battute in continuazione, come Tony prima che succedesse tutto quanto, e alla lunga le davano fastidio. Con Sam, però, si trovava estremamente a proprio agio. Forse la differenza era che lui non aveva la pretesa di essere divertente, non cercava in tutti i modi di farla ridere ogni due secondi.
In quel momento erano nel bel mezzo di uno degli allenamenti che praticavano più spesso, sia perché era utile a entrambi e sia perché ancora non lo padroneggiavano benissimo. Wanda sollevava Sam con i propri poteri il più in alto possibile, mentre lui se ne stava raggomitolato su se stesso in posizione fetale. Al segnale, Wanda interrompeva il controllo telecinetico e Sam cominciava a precipitare verso terra. L’allenamento dell’ex-paracadutista consisteva nel distendere le proprie ali in tempo per non schiantarsi al suolo e poi riprendere quota. Alcune volte Falcon non era abbastanza pronto e allora toccava a Scarlet impedire con uno scudo di energia che si facesse male seriamente.
Sam stava proprio planando con il torace a pochi centimetri da terra quando nel suo ricevitore arrivò la convocazione di F.R.I.D.A.Y. nella sala centrale.
«A quanto pare Tony ha qualcosa da dirci» comunicò a Wanda mentre atterrava al suo fianco «Ci troviamo nella sala centrale appena possibile. Vado a chiamare Steve»
La giovane donna annuì e rispose che lei avrebbe cercato Visione per avvertirlo. Da vero cavaliere, Sam le tenne la porta: «Signorina Maximoff»
«A dopo, signor Wilson» rise lei.
Era bello vedere Wanda allegra, pensò Sam. Da quello che aveva capito, tra lei e Visione era finalmente sbocciato ciò che Sam aveva sperato da parecchio tempo. E d’altronde, non vedeva proprio come si potesse non sperarlo, dopo averli visti insieme.
Forse lei non se n’era accorta, ma da qualche tempo era più solare. Non capitava più che si rabbuiasse improvvisamente come quando si ripensa a qualcosa di brutto. Succedeva piuttosto il contrario: rideva per le battute, ogni tanto ne azzardava timidamente qualcuna e a volte Sam la sorprendeva a sorridere senza un vero motivo. Ripensandoci, però, gli venne in mente che tutto ciò era cominciato dopo che lei e Visione avevano cominciato a frequentarsi di più. Chissà, forse si era trattato di qualcos’altro.


Bruce si trovava già nella sala centrale, quando gli arrivò la convocazione. Gli piaceva la quiete che riempiva quella stanza così grande quando era vuota, quando le voci degli Avengers sembravano distanti anni luce.
A volte si chiedeva che cosa ci facesse insieme a quegli altri. Loro erano dei supereroi, facevano del bene, salvavano la gente, potevano comparire nei telegiornali senza spaventare i bambini. Lui non era un supereroe, era soltanto un superpericolo. Certo, gli faceva piacere sapere che i suoi amici si fidavano di lui tanto da includerlo nella squadra, ma a volte avrebbe tanto voluto liberarsi dell’Altro. Si trattava soltanto della curiosità di come si sarebbero comportati gli altri con lui se fosse stato soltanto Bruce Banner e non anche l’alter ego di Hulk.
Ormai, però, se n’era fatto una ragione: non sarebbe mai riuscito a separarsi dall’Altro se non uccidendo entrambi. Sarebbe stata comunque una valida alternativa, ma aveva ormai provato in tutti i modi, fallendo. L’Altro sembrava immortale e lui non poteva morire finché Hulk sopravviveva. Uccidersi era impossibile quanto inventare il teletrasporto.
Voltò la pagina del proprio quaderno su cui aveva rifatto per la centesima volta i calcoli per quell’invenzione. Aveva detto a Tony che avrebbe lasciato perdere, ma non ce l’aveva fatta. Aveva continuato a tentare, con l’ostinazione di un bambino. Con l’ostinazione di Hulk, si disse. Doveva finirla con quella storia. Aveva bisogno di trovare un altro fine per se stesso. Chissà, forse Tony avrebbe potuto avere la risposta a quei suoi problemi. Avrebbe potuto procurargli uno scopo.


Steve si sentiva incredibilmente bene quando si allenava da solo con il sacco. Ogni colpo che tirava gli faceva tornare in mente quel giorno in cui Fury gli aveva proposto di entrare a far parte degli Avengers. Mille volte si era detto che era stata la scelta peggiore della sua vita. Milleuno volte si era contraddetto. Era quello il suo scopo, si diceva, essere l’eroe di cui l’America aveva bisogno, essere il sogno che l’America aveva bisogno di sognare.
Era anche per quello che aveva rifiutato l’offerta di Wanda e Sam di allenarsi con loro. Ma soprattutto perché aveva bisogno di pensare. Ma non doveva pensare a Sharon. Non doveva ricordarsi di quello sguardo triste con cui l’aveva lasciato. Non doveva ripensare alle parole che aveva pronunciato quella sera, cercando di trovarne di migliori per convincerla che… Non doveva pensare a Sharon, maledizione!
Si fermò per un attimo, annaspando come qualcuno sul punto di annegare. Doveva parlare con qualcuno di tutto ciò che gli stava succedendo. Gli tornarono in mente tutte le occhiate che Natasha gli aveva lanciato in quei giorni. Sapeva che lei si stava trattenendo dal chiedergli di aprirsi. Sapeva che avrebbe dovuto chiederle di andare a bere qualcosa insieme e raccontarle tutto ciò che sentiva. Aveva bisogno di condividere quei pesi con qualcuno e sapeva che Natasha era la persona giusta, eppure esitava.
A se stesso diceva che non voleva caricare la sua migliore amica con più problemi di quanti già ne avesse. Aveva visto le sue occhiaie. Aveva visto che Clint aveva qualcosa che non andava e lei naturalmente se ne preoccupava. Era normale. A se stesso ripeteva che non aveva il diritto di scaricare tutto su di lei.
Ma in realtà sapeva che semplicemente non aveva voglia di parlarne con nessuno, neanche con Natasha. Non gli andava proprio di scavare dentro di sé abbastanza a fondo da trovare parole con cui spiegare cosa gli stava succedendo. Eppure avrebbe dovuto farlo prima o poi, si disse, e meglio prima che poi. Meglio con Natasha che con chiunque altro.
Fu quasi grato a Sam, che comparve alla porta per distoglierlo dai suoi turbinosi pensieri e comunicargli che Tony li aveva convocati nella sala centrale. Finalmente un po’ di distrazione. No, non avrebbe dovuto considerare le missioni come distrazioni, non era da lui. Era una cosa seria, c’erano sicuramente delle persone in pericolo. Ma non poteva impedirsi di ringraziare per quella possibilità di staccare.


«Mi cercavi?» domandò Visione, passando attraverso uno dei muri e comparendo di fronte a Wanda.
«Più che altro ti aspettavo» rispose lei con un sorriso «Immaginavo che non ci avresti messo molto a trovarmi. Suppongo che tu abbia sentito la convocazione di Stark»
«Ecco perché sono qui. Ma tu vuoi dirmi qualcosa, sbaglio?»
«No» Wanda aveva smesso di chiedersi come facesse Visione a sapere sempre in anticipo quando lei doveva parlargli di qualcosa. Aveva semplicemente accettato il fatto così com’era «Non sbagli»
«Puoi parlarmene mentre andiamo?»
«Certo. Non è che ci sia molto da dire. Volevo solo farti sapere che Pietro è vivo»
«Davvero?» la gioia manifestata da Visione era incredibile, ma Wanda era certa che fosse spontanea. Sorrise davanti alla sua reazione e annuì.
«Ne sei certa? Come lo sai?»
«L’ho visto con i miei occhi. Un pomeriggio ero lì che leggevo e pensavo a lui. Mi sono concentrata moltissimo, volevo sapere se fossi capace di vederlo. Invece ho avuto una visione di un sogno. Eravamo nella casa di quando eravamo piccoli. Io leggevo quello stesso libro e a un certo punto è entrato nella stanza. Ci siamo parlati, ci siamo abbracciati. Credo che lui stesse sognando. È stato così bello vederlo vivo. Mi ha detto che ancora non è guarito e non riesce praticamente a muoversi, ma è vivo. Vivo!»
Visione non disse nulla e continuò a sorridere, mentre pensava a quanto era felice di vedere il volto di Wanda illuminato da quella letizia.


«Ancora!» chiese Clint ansimante, rimettendosi in posizione di attesa.
«Non hai già preso abbastanza scosse, Samurai?» lo prese in giro Natasha.
«E tu non sei già sufficientemente tagliuzzata?» rispose con un sorriso il suo partner.
Natasha gli lanciò uno sguardo che voleva dire “E così vuoi la guerra?” e si lanciò contro di lui. Il ritmo della lotta era serratissimo, nonostante i due combattessero con stili completamente diversi. La russa aveva in mano due bastoni, che imitavano i suoi Pungiglioni. Ogni volta che riusciva a trovare una falla nella difesa di Clint, lo colpiva come avrebbe fatto con le armi reali e l’arciere imitava la reazione che avrebbe avuto se avesse ricevuto una vera scossa.
Da parte sua, Clint impugnava una lama lunga e sottile, ispirata nella progettazione a diverse armi orientali. La maneggiava con estrema disinvoltura, ma all’occorrenza la lasciava cadere per estrarre un corto pugnale o combattere a mani nude. Nessuna delle due lame era affilata, ma Natasha simulava di aver ricevuto i tagli ogni volta che lui riusciva a colpirla.
Dopo diversi minuti di combattimento, Natasha riuscì ad afferrare il braccio di Clint che impugnava la spada e a torcerglielo finché lui non la lasciò cadere. Clint utilizzò la forza dell’altro braccio per spingerla indietro. Natasha atterrò con una capriola all’indietro per diminuire l’urto sulla schiena e poi si rialzò mentre lui sfoderava il pugnale. La russa si lanciò contro di lui, ma Clint si abbassò all’ultimo momento e la sbilanciò afferrandole le ginocchia. Dopo averla fatta cadere, si mise a cavalcioni del suo stomaco e le puntò il pugnale alla gola, ma Natasha gli diede una scossa con i due Pungiglioni. Clint abbandonò per un attimo il controllo sui propri muscoli e lei ne approfittò per spingerlo lontano da sé. Stava per lanciarsi su di lui per cercare di togliergli anche il pugnale, quando arrivò la convocazione nella sala centrale.
Gettò a terra i finti Pungiglioni e vide Clint fare lo stesso con il pugnale, poi gli porse la mano per aiutarlo a rialzarsi.
«Io mi faccio una doccia, prima di andare di là» gli annunciò «Temo che questa sessione di allenamento mi abbia fatto sudare giusto un po’»
«Penso che seguirò il tuo saggio esempio» rispose Clint «Ci troviamo in camera?»
«Perfetto»
Natasha gli diede un veloce bacio sulle labbra e poi sparì verso lo spogliatoio delle donne per la palestra di allenamento. Clint la guardò andare via e poi si avviò nella direzione opposta, pensando a quanto era stato maledettamente fortunato.


«Senti, Steve…» cominciò Sam, cercando le parole giuste, mentre si recavano nella sala centrale «Io lo so che stai passando un brutto periodo e magari non ti va di parlare con nessuno…»
«Esattamente» rispose Steve, un po’ più tagliente di quanto non avrebbe voluto «Con nessuno. Visto che lo sai, Sam, forse sarebbe meglio se lasciassi perdere subito l’argomento»
«No, in realtà, non è di questo che volevo parlarti»
Steve si voltò a guardarlo, sorpreso: «No?»
«No, ecco, si tratta di Tony»
«Tony?»
«Sì, lui… Non so, forse te ne sei accorto anche tu o forse hai avuto altro a cui pensare, ma non è più lo stesso. Prima Pepper, poi tu e Thor che siete andati via di colpo, insomma, non è stato facile neanche per lui. Rhodey ha provato a parlarci, ma non ne ha ricavato molto e pensavo che magari, visto che tu sei uno dei suoi migliori amici, con te sarebbe riuscito ad aprirsi un po’ di più, che ne dici?»
Ascoltando Sam, Steve si accorse che aveva ragione. Tony non parlava più con nessuno. Tony stava sempre attaccato ai suoi computer o in laboratorio. Tony quasi non mangiava più. Tony… da quanto tempo non ci faceva una bella chiacchierata come si deve? Era stato così preso dai propri problemi che si era dimenticato di cosa stesse passando Tony.
Si sentì tremendamente in colpa. Sapeva per certo che se la situazione fosse stata invertita Tony non avrebbe esitato a offrirgli il proprio appoggio. Lui, invece, non aveva saputo fare altro che piangersi addosso e andarsene proprio nel momento in cui il suo amico avrebbe avuto più bisogno di lui. Stava succedendo tutto troppo in fretta. Stavano succedendo troppe cose insieme.
«Hai ragione, Sam, devo proprio parlargli» concluse con un sospiro «Magari ora che arriviamo, se non ci sono ancora tutti, provo a dirgli due parole, ti sembra una buona idea?»
«Certo» Sam sembrava soddisfatto della sua risposta «Tanto nessuno vi disturberà, se vedranno che Tony sta parlando con qualcuno»
Erano davvero arrivati a quel punto? Steve si chiese cosa avesse avuto davanti agli occhi fino a quel momento che gli impedisse di vedere come stavano le cose.


Rhodey aveva accettato il compito di scrivere i rapporti delle missioni assegnatogli da Fury di buon grado. Non gli era mai pesato stilare quel tipo di resoconti e in quel modo aveva la possibilità di rifornirsi di aneddoti da raccontare alle feste. Non gli era sembrato niente di complicato e pareva destinato a rimanere semplice e lineare. Cosa poteva esserci di strano in una missione dei Vendicatori?
E invece ora era là, a cercare le parole per spiegare a Nick Fury che cosa era successo. Ma come poteva trovarle, se neanche lui sapeva esattamente che cosa aveva causato quelle morti? Rimaneva lì, a fissare quei numeri che lo incolpavano silenziosamente di una negligenza che non capiva. Era sempre andato tutto bene: seguivano il piano, minimizzando le perdite civili, e portavano a termine la missione.
Il fatto era, anche se Rhodey non lo avrebbe mai voluto ammettere con se stesso, figurarsi con Nick Fury, che il piano non comprendeva più il numero più basso possibile di perdite civili. Era una cosa accessoria e irrilevante, di cui potevano occuparsi se volevano finché questo non danneggiava la missione. Rhodey, Sam, Wanda e Visione -gli unici a cui importava ancora qualcosa, a quanto pareva- avevano cercato di organizzarsi per fare il possibile, ma in quattro non potevano certo sostituire l'intera squadra. E i numeri salivano.
Aveva cercato di parlarne con Steve, visto che lui e Natasha si occupavano dell’organizzazione tattica delle missioni, ma senza risultato. L’altro a malapena lo ascoltava, gli diceva che aveva ragione e ci avrebbe fatto più attenzione e poi la missione successiva non cambiava nulla. Lo stesso era successo con Natasha, con la lieve differenza che la russa non aveva neanche finto di dargli ragione, lo aveva semplicemente ignorato.
E cosa poteva dire ora a Nick Fury, che chiedeva spiegazioni per quei civili morti? Avrebbe dovuto scrivergli la verità, ma non se la sentiva. Nessuno, neppure Fury, avrebbe lasciato operare gli Avengers in quelle condizioni. Rhodey aveva paura che quel team venisse sciolto. Tony aveva bisogno dei Vendicatori, così come Thor, Steve, Natasha, Clint e Bruce. I lutti che avevano colpito la squadra e tutte le difficoltà che i suoi componenti avevano affrontato avevano messo a dura prova l’unità del team, ma ora sembrava che tutti loro si aggrappassero gli uni agli altri per tirare avanti. Non potevano sciogliere gli Avengers. Rhodey, Sam e Wanda ce l’avrebbero fatta senza, Visione avrebbe trovato un modo, ma gli altri no. Forse era per quello che i piani d’azione delle missioni erano cambiati. I Vendicatori avevano bisogno di sentirsi forti, di portare a termine tutti i compiti con facilità. Salvare i civili era un rischio, un pericolo per la riuscita della missione.
Non aveva ancora preso una decisione, quando gli arrivò la convocazione da F.R.I.D.A.Y. in sala centrale. Chiuse il portatile di scatto e andò via. Finalmente una scusa per non scrivere quella dannata mail.


Tony si incamminò lentamente lungo il corridoio. F.R.I.D.A.Y lo avvertì che Scarlet, Visione e Banner erano già nella stanza, mentre War Machine era quasi arrivato. Gli altri si stavano già dirigendo verso la sala centrale e sarebbero stati lì nel giro di un quarto d'ora. Aprendo la porta, il miliardario si disse che quella sarebbe stata la riunione più lunga della sua vita.
Nell’attesa, Tony ricontrollò con il proprio tablet di avere tutte le informazioni necessarie e rilesse ancora una volta i dettagli. Sapeva che gli altri stavano facendo un grosso sforzo per non fissarlo: Wanda e Visione chiacchieravano e Bruce scarabocchiava sul proprio quaderno -chissà se stava ancora cercando l’errore nella sua formula per il teletrasporto-, ma ciascuno di loro gli lanciava di tanto in tanto delle occhiate furtive. Rhodey entrò in silenzio, salutò a bassa voce tutti e si sedette a una sedia di distanza da Tony, in modo che, se avesse avuto voglia di parlare con lui, Stark non avrebbe avuto alcuna difficoltà. L’amico, invece, gli rivolse a malapena un saluto e tornò al proprio tablet.
La porta si aprì di nuovo ed entrarono Capitan America e Falcon. Wilson annuì leggermente all’indirizzo di Rogers, come finendo una conversazione cominciata prima di entrare, e si sedette al tavolo delle riunioni, dal lato opposto di Tony. Steve, invece, prese la sedia proprio accanto alla sua. I due si fissarono per qualche attimo: entrambi avevano bisogno di parlare e nessuno ne aveva voglia.
«Come stai?» chiese infine Tony. Steve parve quasi sorpreso da quella domanda, che avrebbe dovuto forse porre lui. Rimase un attimo in silenzio, forse cercando una risposta che evidentemente non trovò, perché si strinse soltanto nelle spalle e domandò: «E tu?»
Tony sospirò e scosse la testa: «Cosa vuoi che ti dica?» Steve abbassò lo sguardo: gli altri potevano pensare che Tony stesse piano piano riprendendosi, ma quegli occhi scuri raccontavano un'altra storia e lui non era in grado di sopportare tutto il loro dolore.
«Mi dispiace di non essere venuto al funerale. Io ero... confuso»
A quelle parole, la mente del genio fece un salto all’indietro, al giorno del funerale di Pepper.
Era un pomeriggio piovoso e freddo, sembrava che anche il cielo fosse in lutto. Le prime gocce avevano cominciato a cadere quando la bara stava per essere calata nella terra. Era stato come se tante lacrime avessero bagnato il coperchio di legno scuro. Era stata una cerimonia breve e raccolta, proprio come l’avrebbe voluta Pepper secondo Tony. Non era una cosa da lui, ma quel giorno niente era così, neanche Tony stesso. Era vestito con il solito completo elegante, ma per una volta aveva rinunciato agli occhiali da sole. Spesso li portava perché non voleva che gli altri vedessero i suoi occhi o ciò che stavano guardando, ma quel giorno non gli importava.
Non era venuta molta gente: qualche collega, alcuni dei parenti, qualcuno dei Vendicatori. La squadra aveva proposto a Tony di fare una specie di addio militare a Pepper, ma lui non aveva voluto. Sentiva ancora come colpa sua tutto ciò che le era accaduto e gli sarebbe sembrato terribilmente irrispettoso comportarsi così al suo funerale.

«Tony?» lo chiamò Steve, risvegliandolo dal suo viaggio nei ricordi.
«Scusami. Non ti sei perso granché, comunque, è stato piuttosto penoso. Pioveva, non c'era tanta gente e... Insomma, non ero proprio al mio top, come puoi immaginare»
Steve non disse nulla per un po', pensando che rivoleva il vecchio Tony.
Se gliel'avessero chiesto un mese prima, avrebbe detto che non avrebbe mai sentito la mancanza delle battutine idiote di Stark, qualora lui avesse miracolosamente smesso di farle. E invece la sentiva eccome: Tony era l'ombra di se stesso, senza quella sua fastidiosa ironia.
Sentì crescere dentro di sé una rabbia furibonda verso quegli uomini, quella crudeltà volta solo a cercare la sofferenza del suo amico. Dovevano fare qualcosa, dovevano far capire loro che gli Avengers non si sarebbero piegati così facilmente.

«Hai delle informazioni, allora?» domandò, con una nuova forza nella voce.
Tony parve emergere da un altro mondo per rispondere: «Sì, o almeno spero. Sarebbe la quinta falsa pista in caso mi sbagliassi»
«Allora speriamo che non sia così. Mi dispiace che tu abbia dovuto fare tutto da solo»
Tony lo guardò negli occhi e vide che Steve si sentiva davvero in colpa per essersene andato in quel modo nel momento in cui avevano tutti bisogno di lui. Per non esserci stato al funerale di Pepper. Per non aver aiutato Thor a superare la morte di Jane. Per aver lasciato che lui raccogliesse tutto da solo le informazioni per quella missione.
Perciò gli mise una mano sulla spalla: «Non ti preoccupare, non ho lasciato comunque avvicinare nessuno. Non avrei condiviso quella ricerca neanche con te»

«Avrei potuto provarci» Steve sembrava davvero abbattuto e Tony si sentì quasi in colpa.
«Beh, basta il pensiero, dai» gli disse, accennando un sorriso. Quando vide che l'amico gli aveva sorriso in risposta, si strinse mentalmente la mano da solo per complimentarsi del risultato ottenuto. Si chiese chi dei due si stesse appoggiando all’altro in quel momento.
Entrando, Natasha li vide sorridere e si disse che quei due erano incredibili: entrambi erano stati colpiti duramente, erano confusi e avevano bisogno di un sostegno, ma tutto quello che facevano era cercare di aiutare un amico.
Sentì Clint di fianco a lei fare una battuta rivolta a tutti e si accorse che l'atmosfera si stava pian piano alleggerendo. Sorrise e pensò che non ci sarebbe mai stato superpotere migliore di quello di saper far ridere un amico.

 
Circa un quarto d'ora dopo, i Vendicatori al completo fissavano l'immagine che Tony aveva proiettato con un ologramma. Rappresentava la casa di Pepper in fiamme. Tutti quanti avevano già visto quelle fotografie, ma guardarle in tre dimensioni e con Tony vicino faceva tutto un altro effetto. La stanza si caricò di quel silenzio rammaricato interrotto solo da schiarimenti di voce e sospiri tipico di chi si sente in dovere di dire qualcosa, ma non riesce a trovare le parole.
«Non dovete scusarvi» disse Tony, la voce un po' tremante «Non è mica colpa vostra» fece una breve pausa che nessuno si sarebbe mai sognato di interrompere, poi spostò quell’immagine olografica e la sostituì con quella di due uomini vestiti con abiti scuri e pratici «Per la precisione, è colpa loro»
«Sono stati mandati da qualcuno» disse Natasha a bassa voce «Due tizi così non attaccano IronMan con tutte quelle informazioni a disposizione»
«Esattamente quello che ho pensato anch'io» rispose Tony «Infatti sono riuscito a risalire a questa base di operazioni, che è evidentemente per un team più ampio di due persone»
La costruzione su vari piani che comparve davanti ai loro occhi era effettivamente sufficiente per ospitare almeno un centinaio di persone. Era uno di quei tanti uffici prefabbricati che si trovano un po' ovunque, con una struttura di cemento a malapena mascherata dall'intonaco.
«Dobbiamo andarci?» domandò Thor, sollevando per la prima volta lo sguardo dalle immagini e rivolgendosi a Tony,
«In realtà, per quanto mi riguarda possiamo anche farla saltare in aria sulla fiducia» fu la risposta. Sam e Rhodey risero a quell'affermazione e pensarono che forse non era tutto perduto, se Tony aveva ancora quel senso dell'umorismo «Guardate che non era una battuta» li gelò lui.
«Tony?» disse Rhodey con un po’ di incertezza nella voce, cercando di fendere quel silenzio che stava schiacciando tutti «Quindi cosa dobbiamo fare?»
«Purtroppo non possiamo farla davvero saltare» sospirò Tony «O almeno, potremo farlo solo dopo che avremo raccolto tutte le informazioni che ci servono. Sono quasi sicuro che quella non sia la loro sede principale»
«Non lo faremo comunque, vero?» domandò Scarlet.
«Perché no?» le rispose Steve con la voce più dura che lei gli avesse mai sentito. Al confronto, il suo scudo sembrava fatto di burro «Hai visto cos’hanno fatto a Pepper. Meritano clemenza?»
«Sono persone, Steve» gli ricordò Falcon «Se anche non meritano clemenza, meritano giustizia. Non decidiamo noi della loro sorte, c’è la legge per quello»
«Possiamo decidere che cosa fare di loro dopo che avremo stabilito un piano di azione» li interruppe Banner «Per ora l’importante è arrivare alle informazioni che servono a Tony, no?»
«Ben detto» convenne con lui Thor «Che cosa cerchiamo?»
«Questo è il problema» rispose Tony.
La mente di Visione registrò quella risposta come sbagliata. Il genio di una volta avrebbe detto qualcosa come "qui sta il bello" oppure "ecco la parte divertente", invece di parlare di problemi con quel tono afflitto. Il genio di una volta faceva attenzione a non colpire il morale dei suoi compagni, cercava di trovare sempre il lato positivo di tutto come forma di difesa, non trasmetteva agli altri il proprio sconforto. Il genio di una volta guardava le persone negli occhi mentre parlava cercando di coinvolgerle nei propri pazzi discorsi, non teneva lo sguardo incollato alle immagini come se avesse parlato al nulla.
Il genio di una volta non c'era più.

«Non sappiamo cosa stiamo cercando?» chiese Natasha.
«Sì e no» rispose Tony «Una cosa la sappiamo: come ho detto, non è l’unica base ed è probabile che non sia neanche la principale. Dobbiamo trovare le altre e sicuramente ci saranno dei file da hackerare, un archivio o qualcosa di simile. Poi potrebbe essere interessante avere qualcuno da interrogare. Per il resto non lo so. Potrebbero avere attrezzatura pericolosa o utile o entrambe, e in quel caso potremmo portarla in laboratorio. Potremmo scoprire che hanno contatti con altre organizzazioni e allora dovremmo capire quali sono. Oppure nulla di tutto questo, la base potrebbe essere completamente deserta perché qualcuno li ha avvertiti del nostro arrivo»
«E quindi, in sostanza, dobbiamo scoprire il più possibile su questi tizi e tutti quelli con cui hanno contatti, prendere i giocattolini da laboratorio che troviamo e se possibile fare qualche “prigioniero”» riassunse Clint.
«Com’è la zona?» si informò Visione «Ci sono abitazioni o potrebbero esserci dei civili?»
«Si sono scelti un posto abbastanza isolato» rispose Tony «Ma comunque se ci fossero delle altre persone si troverebbero nel posto sbagliato al momento sbagliato»
«E noi le porteremmo in salvo» concluse Sam con voce determinata.
«Ne abbiamo già parlato, Sam» disse Steve «Non possiamo mettere a rischio la missione solo per qualche civile»
«No, voi ne avete parlato» ribatté Wanda «Ma questo non significa che noi siamo d’accordo. La nostra missione è anche salvare i civili»
«Fate come vi pare» troncò Natasha «Ma quando abbiamo bisogno di voi dovete esserci»
«E noi ci saremo» concluse Rhodey «Non dubitate»
Natasha e Steve elaborarono velocemente un piano, cui nessuno fece obiezioni. Prevedeva la “pulizia” completa dell’edificio, come l’avevano chiamata, prima di dedicarsi alla ricerca di informazioni. Dovevano avere il campo libero in quel momento.
«Partiamo tra un’ora» decise infine Tony, dopo qualche minuto di silenzio teso «Se qualcuno non se la sente o non è d’accordo, può benissimo non venire»
Nessuno disse nulla e uno a uno i Vendicatori lasciarono la stanza per andare a prepararsi. L’atmosfera, però, non era stata alleggerita di un grammo.
 
«Ti do il cambio?» si offrì Clint dopo diverse ore che Tony guidava «Non è bene che ti stanchi tanto, come combatterai se hai i nervi così tesi?»
«Ho comunque i nervi tesi» ribatté Tony, ma accettò il cambio e andò a raggiungere gli altri. Per qualche decina di minuti nella cabina di pilotaggio regnò il silenzio, poi Clint vide qualcosa con la coda dell’occhio.
Si voltò di scatto e si trovò davanti Wanda che lo guardava come temendo che potesse attaccarla: «Posso?»
«Non vedo perché no» rispose l’arciere rilassandosi sul sedile.
La giovane strega si sedette di fianco a lui: «Beh, diciamo che la discussione di prima è stata un po’ concitata e magari avevi voglia di stare da solo o comunque di non parlare o magari di non parlare con me»
Clint sorrise: «Wanda, le squadre discutono da che mondo è mondo e le cose non cambieranno soltanto perché i componenti sono dei supereroi, ma questo non vuol dire che dopo non si possa parlare e cercare di chiarire la situazione»
«Mi era sembrato che questa volta fosse diversa»
«Lo era» confermò lui «Siamo tutti tesi, molti di noi hanno altro per la testa, ma allo stesso tempo non vogliamo far pensare a Tony che non ci importi della missione perché non è così. Cerchiamo di rimanere presenti perché sappiamo che la squadra ha bisogno di noi, ma non è facile»
«Sì» rispose Wanda «Ma non è questo che intendevo. Non c’è mai stato bisogno di discutere riguardo ai civili. Siamo sempre stati d’accordo su quello, ti ricordi? A Sokovia, tutto quello che abbiamo fatto è stato proteggere delle persone che non c’entravano nulla»
«Le cose cambiano» disse Clint.
«Alcune cose no. Ti ricordi che cosa mi hai detto quella volta? Mi hai fatto un gran bel discorso, mi hai detto che sarei stata un Avenger se fossi uscita da quella porta. Io pensavo che essere un Avenger volesse dire questo»
«Le cose cambiano» ripeté l’uomo «Non devi giudicarci in questo modo. Non sai molte delle cose che stiamo passando»
«"Stiamo"? Anche tu…?» Wanda sembrava sconvolta «Perché non mi hai detto nulla?»
«Non volevo caricarti di un altro peso» mentì Clint.
Se Wanda se n’era accorta, non lo diede a vedere: «Ma siamo amici. Per darti una mano posso sopportare qualunque peso»
«Lascia stare, sono solo degli incubi» minimizzò Clint «Non è nulla di grave, è solo che non riesco a dormire bene e allora mi sembra sempre tutto più difficile»
«Posso provare ad aiutarti, se vuoi» propose Wanda. Clint ricordò a se stesso che i poteri della strega potevano agire anche sul subconscio. Fu tentato di accettare, dicendosi che poteva fidarsi di lei e che sicuramente non gli avrebbe fatto nulla di male, ma poi senza sapere il motivo ebbe paura e decise di rifiutare.
«No, lascia stare, non importa» sorrise allora, decidendo di mentire ancora «Sta migliorando poco per volta»
«Come vuoi»
Per un po’ tacquero entrambi, poi Wanda decise di togliersi un dubbio: «Sarai dei nostri per mettere in salvo i civili?»
Clint rimase per qualche secondo in silenzio, come esitando a rispondere. Sapeva che ciò che avrebbe detto non le avrebbe fatto piacere. Infine si decise, decretando mentalmente che in quella conversazione aveva mentito già troppe volte: «No»
«Scusa?» Wanda non aveva capito. O meglio, la mente di Wanda si rifiutava di capire. Clint aveva parlato a voce bassa e c’era una parte di lei che si aggrappava alla speranza di aver sentito male, ma sapeva benissimo che quella possibilità in realtà non esisteva. Semplicemente, non riusciva a crederci.
«Ho detto di no» rispose l’arciere «La missione è più importante. Non sappiamo che pericoli potrebbero esserci là dentro e io non me la sento di non essere al fianco degli altri»
Era proprio vero. Clint aveva detto di no, senza alcuna possibilità di errore.
Wanda prese velocemente in considerazione varie opzioni, che variavano dal gettarsi dal portellone del Quinjet all’entrare nella mente di Clint e tirare fuori i ricordi di tutto ciò che aveva fatto di male e tutto il dolore che aveva sofferto. Le scartò tutte.

Si sarebbe aspettata quella risposta da Visione. Dopotutto, era possibile che secondo i calcoli dell’androide la partecipazione al salvataggio dei civili fosse troppo rischiosa. Se lo sarebbe aspettata da Sam, se Steve lo avesse convinto che il piano poteva risultare più vantaggioso in un altro modo.
Se lo sarebbe aspettata da chiunque altro, ma non da Clint. Non dall’arciere che l’aveva persuasa a entrare nella squadra. Non dall’arciere cui suo fratello aveva salvato la vita. Dove era finito quell’uomo?

«Quando ce n’è stato bisogno» gli ricordò, con la voce tremante di rabbia «Pietro è stato al tuo fianco e ha salvato la vita a te e altre centinaia di persone. Io continuerò a rispettare la nostra missione. Io e gli altri salveremo delle vite come ha fatto Pietro»
Si alzò e raggiunse gli altri, sfregando via dal proprio volto una lacrima con il dorso della mano. Perché stava piangendo? Per Pietro, per Clint o per se stessa? Non seppe rispondere.
Clint rimase seduto al proprio posto, lo sguardo fisso davanti a sé. Non aveva pronunciato una parola dopo l’accusa di Wanda. Non sapeva e non poteva rispondere.
Non potevano perdere tempo, perché non capiva? Quella ragazzina credeva di avere la risposta a tutto, non voleva mai ascoltare. L’arciere sentiva che prima o poi quella storia sarebbe finita male.

 
«Nat» chiamò Steve, con la voce resa roca dal lungo tempo trascorso in silenzio «Una parola»
La russa annuì e si spostò di qualche sedile in modo da essere proprio di fianco a lui: «Dimmi»
«D’accordo che questo forse non è il momento migliore» cominciò Steve «Con la missione che sta per cominciare e tutti i casini che ne deriveranno. E poi ho saputo che Clint ultimamente non sta molto bene e non vorrei crearti altri problemi…»
«Steve» lo interruppe Natasha prendendogli la mano «Non ti preoccupare dei miei problemi e dimmi»
«No, è che pensavo che forse mi avrebbe fatto bene parlare con qualcuno di quello che è successo con Sharon. Ho aspettato perché non me la sentivo e a dire il vero non me la sento molto neanche ora, ma non ce la faccio davvero a tenermi tutto dentro, sento come se mi stesse consumando»
Natasha sorrise. Ormai aveva rinunciato a credere che Steve si sarebbe rivolto a lei e invece proprio quando aveva perso le speranze il suo migliore amico la coglieva di sorpresa: «Non finisci mai di stupirmi»
«Perché?»
«Avevo perso le speranze che me lo chiedessi» rispose lei «Ci andiamo a bere qualcosa una volta finita la missione? Credo che non sia il caso di parlarne qui» sottintese un “davanti a tutti” che Steve colse benissimo.
«Sì, in effetti forse non è proprio l’atmosfera giusta» ammise «Vada per dopo la missione, allora»
 
«A tutta la squadra, siamo in vista dell’obiettivo» comunicò Clint «Comincio la discesa verticale. Prepararsi a lasciare il Quinjet»
Come previsto dal piano, metà dei Vendicatori sarebbe scesa da un lato dell’edificio e l’altra metà dall’altro. Bruce sarebbe rimasto alla guida del Quinjet e lo avrebbe fatto atterrare non troppo distante. Sarebbe intervenuto solo in caso di necessità, come sempre.
«Natasha, ci serve tempo» disse Sam, come preso da un’ispirazione improvvisa.
«Tempo per cosa?»
«Non volete mettere in salvo i civili, bene, ci penseremo noi, ma abbiamo bisogno di tempo» spiegò Sam.
«Si era detto che ci sareste dovuti essere in caso di bisogno e non avreste dovuto compromettere la missione per fare questa cosa» ricordò Steve
«Ed è per questo che vi sto chiedendo del tempo. Se usciremo insieme dal Quinjet, non potremo mai essere disponibili per voi mentre vi infiltrate. Dateci modo di mettere in sicurezza l’area prima di disporvi per entrare»
«Non dovrete farvi notare» disse Thor «La missione dipende anche da quello»
«Opereremo dall’esterno verso l’interno» rispose Rhodey «E quando saremo abbastanza vicini prenderemo le posizioni stabilite e seguiremo il piano»
«Per favore, Nat» disse Sam «la missione andrà avanti come progettato. Dovete solo concederci un po’ di tempo»
Natasha fissò a lungo Sam, Rhodey, Visione e Wanda, che sembravano protesi verso di lei in attesa del suo verdetto. Interrogò Steve con lo sguardo. Gli occhi del Capitano sembravano esprimere una stanchezza e una rassegnazione che la russa non avrebbe mai pensato di vederci. Rabbrividì appena dentro la tuta aderente, ma mascherò il proprio movimento sistemando i Pungiglioni alla cintura.
Infine, con una lentezza esasperante, Steve distolse gli occhi dai suoi e li fissò per terra, annuendo impercettibilmente.

«Un quarto d’ora» concesse infine Natasha «Non un minuto di più. Potete tutti volare, no?»
Il gruppo annuì in silenzio. «Bene, non fatevi notare e non tardate»
Ricevuto il suo segnale, Clint aprì il portellone di dietro per permettere l’uscita dei quattro. Visione prese Wanda tra le braccia e la portò fuori con sé: «Sarà meglio che conservi la magia per cose più importanti»
«Io e Rhodey ci occupiamo del lato nord-est» stabilì Sam nei loro comunicatori «Voi prendete l’angolo sud-ovest. Cominciate da cinquecento metri di distanza e fermatevi a cinquanta metri dall’obiettivo. Per favore, ragazzi, non fate casini e non deviate dal piano. Ne va del rapporto con il resto del team»
Gli altri tre mormorarono delle rassicurazioni e poi le due coppie si separarono.
Sam operava proprio come un falco, notò Rhodey mentre il suo compagno spariva ancora una volta dal suo fianco, provocando uno spostamento d’aria. Era quasi affascinante: individuava una persona, si gettava in picchiata, la afferrava senza neanche fermarsi e poi riprendeva quota. Mentre planava verso il punto di raccolta, spiegava brevemente la situazione, poi scendeva di nuovo vertiginosamente e lasciava il civile in compagnia degli altri.
«Come hai imparato a planare così vicino a terra e a riprendere quota così in fretta?» domandò, sinceramente incuriosito, mentre i loro occhi scrutavano i campi alla ricerca di qualcuno che non sarebbe dovuto essere lì.
«Io e Wanda abbiamo fatto degli allenamenti appositi» rispose Sam «Ore due, Un uomo e una bambina, tu prendi lui» poi si lanciò in picchiata continuando a parlare come se nulla fosse «Ma comunque avere delle ali invece che dei propulsori aiuta. Certo, non ho la vostra potenza, ma in alcuni casi riesco a essere molto più agile»
«Si è verificata un’emergenza» disse Rhodey all’uomo che aveva afferrato «Stiamo evacuando la zona. Lei e la bambina dovrete restare insieme agli altri. Verremo poi a comunicarvi quando sarà sicuro rientrare»
Depositarono i due sulla piazzetta che avevano scelto come luogo di ritrovo e poi si sollevarono di nuovo in aria.
“Visione, Wanda, come siete messi?” domandò Sam nel comunicatore “Credo che qui sia pulito”
Visione rispose per entrambi dicendo che loro avevano finito e stavano per riprendere le posizioni del piano, Wanda stava controllando ancora una volta i dintorni. Era da qualche minuto che l’aveva persa di vista, ma questo a Sam non lo disse.
La giovane strega non disse nulla, perché era completamente presa da qualcosa che aveva trovato. Si trattava di un foglio fissato a un albero con un pugnale. Molto teatrale, si disse Wanda. Staccò la punta del coltello dalla corteccia e lesse il biglietto: “Ciò che leggi non è ciò che è scritto”. Sentiva che c’era qualcosa che non andava in quel foglio, era come… Come se fosse stato finto! Ecco cos’era. Si concentrò sulle parole del biglietto, accorgendosi che erano come alterate, non del tutto reali.
Strinse gli occhi, mentre passava un dito sul foglio, come cercando di cancellare la scritta. Con suo enorme stupore, vide le lettere cambiare davanti al suo sguardo: “Dopo la missione, qui. La realtà trema”. In qualunque altra occasione avrebbe gettato via il foglio senza badarci, ma quella frase, La realtà trema, la colpì. Si ricordò delle immagini di Visione e Nick Fury che aveva visto. Non sapeva chi le avesse lasciato il messaggio, ma quella persona doveva sapere qualcosa di ciò che stava succedendo. Decise che si sarebbe presentata all’appuntamento, poi mise via il biglietto e tornò da Visione.

Ricevuta da Sam la conferma che avevano assunto le posizioni prestabilite, gli altri Vendicatori scesero dal Quinjet e raggiunsero i propri posti. Occhio di Falco si appostò sul tetto, a ridosso di uno dei lucernari. Thor raggiunse Visione al lato sud della costruzione e i due mantennero una posizione di attesa difensiva, pronti a entrare al segnale, sfondando la finestra in volo. Sam e Wanda si incontrarono all’ala nord e si prepararono a spiccare il volo per un assalto dall’alto oppure entrare attraverso il varco che i loro compagni avrebbero aperto per loro. Steve e Natasha, invece, sarebbero dovuti entrare attraverso la porta di sicurezza, sul lato est, dopo aver neutralizzato chiunque avesse cercato di scappare da quella parte. Dopo aver ricevuto conferma che tutti avevano assunto la propria posizione, Iron Man e War Machine distrussero la porta di ingresso, annunciando rumorosamente la propria presenza.
Per qualche minuto nella costruzione regnò il silenzio più totale, era come se nessuno avesse osato muoversi o parlare. La polvere sollevata dal crollo della porta si depositava per terra e su tutti quanti. Era come neve, soltanto meno rilassante da guardare e più grigia.
La stasi durò poco, però, perché all’improvviso, come se qualcuno avesse premuto il pulsante di accensione, tutti quanti si rianimarono. Alcuni cercarono di attaccare le due armature, mentre altri fuggirono verso l’uscita di sicurezza, dove però trovarono Capitan America e la Vedova Nera pronti ad accoglierli. Steve perse il conto di quanti fossero dopo la prima decina, poi finalmente lui e Natasha riuscirono a entrare.
“Salite al primo piano” disse Vedova Nera a Tony e Rhodey “Qua sotto ce ne occupiamo noi”
Nel frattempo, Clint aveva incominciato la propria opera da cecchino al secondo piano. Prima di tutto aveva spaccato il lucernario, creando una caduta di cocci di vetro che doveva aver ferito almeno una dozzina di persone, poi aveva cominciato a eliminarli uno ad uno. Purtroppo non poteva utilizzare frecce esplosive o incendiarie perché avrebbe potuto distruggere i dati che stavano cercando, ma riusciva comunque a provocare parecchi danni.
Natasha piazzò una piccola carica esplosiva nel muro nord e lo fece saltare in aria, aprendo la strada all’ingresso di Scarlet Witch e Falcon, che si precipitarono dentro e furono subito presi nella lotta.
“Mjöllnir al piano di sopra” comunicò Capitan America. Obbedendo alle sue direttive, Visione e Thor spiccarono il volo quasi nello stesso istante e piombarono al secondo piano sfondando due finestre. Metà dei presenti era già stato trafitto da una o più frecce, ma molti resistevano, armati, e sparavano verso il lucernario, impedendo a Occhio di Falco di prendere la mira. Thor si scagliò contro uno di loro, lanciando il martello a Visione, che lo prese al volo e lo adoperò per colpire alla testa una donna armata di fucile d’assalto che stava per sparare a Clint.
Al primo piano, Iron Man e War Machine stavano eliminando le minacce più gravi cercando di non danneggiare l’attrezzatura, il che era un grave problema visto il tipo di armi di cui erano dotate le loro armature.
“Cercano di fuggire” comunicò Clint “Dall’ala nord, un jet o qualcosa di simile. Riuscite a fermarlo?”
“Andiamo noi” disse Tony “Romanoff, manda qualcuno al primo piano”
La Vedova Nera rispose che l’avrebbe fatto e a un suo cenno Scarlet Witch e Falcon si spostarono di sopra. Sam fu attaccato da due uomini. Wanda ne spostò uno con i propri poteri, mandandolo a sbattere contro un muro. Non si curò di cosa gli stesse succedendo dopo e si voltò a guardare il suo partner, che si era già liberato del secondo avversario e lo stava stringendo per la gola.
«Sam, cosa fai?»
«Lo rendo innocuo senza ucciderlo» rispose quello, mentre l’uomo si abbandonava tra le sue braccia «Ecco, è svenuto. Attenta!»
Il suo avvertimento giunse appena in tempo: Scarlet si voltò e fece volare via alla donna che aveva di fronte la pistola, scaraventando l’arma fuori dalla finestra. Muovendo una scrivania, poi, la bloccò contro il muro, ma quella estrasse un coltello e si preparò a lanciarlo. Wanda rimase perfettamente immobile finché la lama non fu a un metro da lei, poi fece comparire uno scudo di energia che la fermò a mezz’aria e la fece cadere in terra. Probabilmente produsse un rumore metallico, ma nessuno riuscì a sentirlo a causa della confusione e del fracasso.
“Stark, come va laggiù?” chiese Capitan America, recuperando lo scudo con cui aveva appena atterrato due uomini.
“Ci sono solo due persone vive, su quel jet” rispose Iron Man “Ma ormai sono troppo lontane”
“Almeno sapremo dove vanno” disse Occhio di Falco, mentre atterrava al secondo piano dopo aver saltato attraverso quello che era stato il lucernario “C’è una freccia con il tracciatore sul loro mezzo”
“Bene” rispose Vedova Nera “Wilson?”
“Ce la caviamo” disse Sam, portando Wanda qualche metro più a sinistra con la spinta delle ali per evitare che venisse colpita da un calcinaccio che si era staccato a causa della lotta al piano di sopra “Abbiamo praticamente finito”
“Visione?”
“Barton ha completato la pulizia del piano” comunicò l’androide. L’arciere aveva messo via la propria arma preferita ed estratto due lame di foggia orientale, simili a quelle che aveva usato in allenamento con Natasha, ma affilate. In pochi attimi Clint, Thor e Visione avevano concluso il lavoro su quel piano.
La Vedova Nera sparò in fronte all’ultimo uomo rimasto al piano terra, mentre Rogers saliva le scale per aiutare Wanda e Sam. Non trovò, però, alcun avversario ancora in piedi e così tornò di sotto, giusto in tempo per scagliare il proprio scudo contro un uomo che, da terra, aveva estratto la pistola e stava per sparare alla schiena di Natasha.
La squadra si radunò tutta al primo piano e finalmente poterono tirare il fiato. Clint e Natasha si lanciarono a vicenda una veloce occhiata per controllare che l’altro non avesse nulla di rotto. Visione si avvicinò a Wanda e le mise una mano sulla spalla.
«Sto bene» disse la strega, rispondendo alla tacita domanda dell’androide.
Sam prese la mano che Rhodey gli tendeva e si rialzò. Approfittando dello slancio, avvicinò la bocca all’orecchio dell'amico: «Tony come sta?»
Rhodey non rispose, ma fece un lieve cenno con la testa che doveva presumibilmente significare “bene” e gli rivolse un’occhiata come per chiedergli la stessa cosa di Steve. Sam non rispose, ma guardò il proprio amico. Sembrava tutto intero, almeno esternamente. Sapere che cosa gli frullasse in testa, però, era un altro paio di maniche.
Thor non disse nulla, ma portò la mano all’orecchio per accendere il comunicatore e riferì a Banner il risultato della missione: “Niente codice verde. Puoi venire”
Bruce rispose che stava arrivando. Nel frattempo, Tony inserì una chiavetta nel server centrale e cominciò a copiare tutto ciò che conteneva, mentre le sue dita correvano veloci sulla tastiera per inserire i codici di crack. Clint fece segno a Natasha e Steve di seguirlo di sopra e mostrò loro una scatola che aveva trovato.
«Credo si tratti di un prototipo di lama doppia alleggerita» disse, scoperchiandola «So che forse non è il tipo di giocattolino che Tony avrebbe voluto, ma è l’unica cosa degna di nota che abbia trovato»
«Sì» Steve prese la lama e la soppesò con un braccio «Ma chi di noi è capace di usare una lama simile?»
«Io» rispose Clint.
«D’accordo, la porto giù, allora» concesse il Capitano e la sollevò senza sforzo.
«Così ora sarai un vero Samurai, no?» commentò Natasha seguendo Steve al piano di sotto. Clint sorrise e non rispose.
«Siete riusciti a fare prigionieri?» chiese Tony, mentre continuava il trasferimento dati. Era evidente che, se anche l’attacco era stato tatticamente organizzato da Capitan America e Vedova Nera, era Iron Man che comandava le operazioni.
«Non è il mio forte» rispose Natasha.
«Io ne ho tramortito uno, prima» ricordò Sam «È svenuto per mancanza di ossigeno, ma dovrebbe essere ancora in grado di parlare, se vuole»
«E c’è una donna bloccata lì nell’angolo» indicò Wanda «Dietro la scrivania»
«È tutto ciò che abbiamo?» chiese Tony, incredulo «Davvero?»
«Non ci avevi chiesto un ospedale da campo. Ci sono altre persone vive, ma molti sono ridotti parecchio male. Forse, ma dico forse, se chiamassimo adesso l’ambulanza si potrebbe fare qualcosa» rispose Steve «Ti servivano dei prigionieri. Ce li hai»
«Mi serviva anche qualcosa per capire su cosa stessero lavorando qui! Perché costruire questa fabbrica in mezzo al nulla? Non è una caserma, è uno stabilimento con tanto di uffici e computer con poteri di calcolo incredibili per calcolare Dio sa cosa!»
«Una cosa ci sarebbe» disse Bruce, che era arrivato in quel momento «Sotto una scrivania ho trovato questa»
A prima vista sembrava una banale scatola di cartone, ma uno secondo sguardo rivelava che si trattava di metallo estremamente rinforzato ­e resistente –forse vibranio– accuratamente dipinto in modo da sembrare cartone. Insieme al contenitore, Bruce porse a Tony una cartellina, dicendo che l’aveva trovata poggiata sopra la scatola.
Il titolo del dossier era Progetto Terminator.
«Bene» disse Tony «È già qualcosa. Portiamo tutto sul Quinjet, lo studieremo poi con calma quando saremo tornati alla base»
«Ora dobbiamo ripulire tutto qui intorno» disse Capitan America
«Perché?» chiese Sam
«Vuoi che il governo veda questo e sappia che è stata colpa degli Avengers?» rispose Steve.
«Lascia che lo sappiano» disse Tony «Che cosa vuoi che ci dicano? Che cosa vuoi che possano fare? In fondo, siamo noi quelli che chiamano sempre in questi casi»
«Hai ragione» concesse Steve «Ma una volta che lo verranno a sapere l’Avengers Facility non sarà più sicura. Dovremo spostarci da qualche altra parte»
«Ci sposteremo se e quando ce ne sarà bisogno, Steve, è inutile fasciarsi la testa prima di essersela rotta»
In quell’affermazione, Rhodey vide un lampo, una scheggia del vecchio Tony tornare alla luce per un attimo, ma il secondo dopo era già di nuovo scomparsa.
«D’accordo, andiamo, allora?» propose Thor marciando risoluto verso la soglia. Gli altri Vendicatori lo seguirono dopo un attimo di disorientamento.
Sam, Wanda e Rhodey andarono nei punti di raccolta dei civili e comunicarono loro che sarebbero potuti tornare a casa, il pericolo era passato.
Fu solo dopo, una volta che il Quinjet era decollato e stavano tornando all’Avengers Facility, che Visione alzò lo sguardo su Sam, preoccupato come non mai.
«Dov’è Wanda?» chiese, con un filo di voce.
Tutti si voltarono da una parte all’altra, come aspettandosi di vederla accanto a sé, ma invano. La strega era sparita.










Fine prima parte















The Magic Corner:

Salve a tutt*!

Lo so, lo so… State aspettando da un sacco di tempo questo capitolo e oltretutto vi ho creato tanto di quell'hype che probabilmente sarete rimasti delusi. Vorrei però farvi sapere che scriverlo è stato ben più che difficile. Non soltanto perché sono stata in vacanza e poi ho avuto dei casini a casa e simili, ma anche perché la mia mente si rifiutava di scrivere per troppo tempo di seguito cose che facevano così male alla mia indole di fangirl e ho dovuto andare avanti un po' per volta. Uno stillicidio.

Nel mio piccolo, però, spero comunque che questa cosa eterna (sono quasi 9800 parole di capitolo, nel mio documento Word occupano 20 pagine, più del doppio di qualunque cosa abbia mai scritto) vi sia piaciuta almeno un po' e auspico che vorrete farmi sapere cosa ve ne è parso con una recensione, un MP o un pacco bomba (per una presa di posizione molto drastica).

 

Vorrei avere la possibilità di spiegare a chi avrà voglia di leggere alcune cose di questo capitolo:

1) Come le chiama una mia fedelissima lettrice, la Introducing poem (cioè, la poesia di inizio capitolo).

T.S. Eliot mi perdoni. Per chi non lo sapesse/non l'avesse riconosciuta, si tratta di una mia personale rivisitazione della traduzione italiana della prima parte di The Hollow Men. Quella poesia è un'opera d'arte. Ho cercato, in un certo senso, di farle il mio omaggio, perché mi è stata di ispirazione fin dal primo capitolo della mia fanfiction e credo che continuerà a esserlo. Probabilmente molti capitoli della seconda parte avranno titoli tratti proprio da questa mia rivisitazione.

2) "L’Altro sembrava immortale e lui non poteva morire finché Hulk sopravviveva."

Fa molto Harry Potter, lo so. A mia discolpa posso dire che me ne sono accorta dopo averlo scritto e si tratta di una citazione involontaria, anche se zia Jo si merita sempre un omaggio.

3) La scena di Steve con il sacco da allenamento.

Non potevo non metterla. Io amo la scena in cui sfonda il punching ball e poi arriva Fury. Non chiedetemi perché, è semplicemente così.

4) Clint che si appassiona di lame.

Altrimenti detto, facciamo un omaggio all'Occhio di Falco dei fumetti, che è anche un abile spadaccino. Piccola anticipazione, le lame diventano la sua arma preferita quando Clint si trasforma in Ronin, il Samurai senza padrone. Ho voluto fare qualche riferimento già in questo capitolo, ma chissà cosa riserva il futuro…

5) Le scene di combattimento.

Ovvero, io che mi faccio tanti problemi. In caso non ve ne foste accorti, prediligo le scene introspettive in cui l'azione non si sposta di mezzo millimetro, ma ogni tanto devo proprio metterla una scena che fa proseguire la trama. E ogni tantissimo devo mettere una scena di combattimento, per forza, è una storia di supereroi. Solo che non sono proprio la mia specialità. Che sia l'allenamento di Clint e Natasha o le scene di battaglia, ho sempre il dubbio che non siano accurate o in ogni caso non vadano bene.

6) I momenti Stony.

No, non porterà a una ship prima della fine della storia. Ci sono già troppe relazioni in ballo e quei due sono abbastanza sentimentalmente confusi. Ma comunque sì, li ho messi apposta, in caso ve lo steste chiedendo.

7) "Ne abbiamo già parlato, no, voi avete parlato."

Semicitazione da Supernatural, sesta stagione. L'argomento è tutto diverso, ma quello scambio di battute sortisce sempre il suo effetto, secondo me.

8) "Se esci da quella porta sei un Avenger"

La distruzione della broship tra Clint e Wanda. Sappiate che è una delle broship più forti che ho e se ho voluto demolirla in questo modo, tirando in ballo anche quella ben nota citazione da Age of Ultron e Pietro, è stato solo perché dovevo farlo. Necessità di trama. Piango.

9) *si asciuga le lacrime* Il biglietto in "realtà modificata".

Anche questa una semicitazione, stavolta da Shadowhunters. Mi sono ispirata al modo che usa Clary, la protagonista, per rendersi conto di quando qualcuno ha modificato l'aspetto di qualcosa con la magia.

10) Il Progetto Terminator.

*sospira di soddisfazione* non vi dirò di cosa si tratta, ma posso anticiparvi che, come non è il primo progetto che incontrate in questa storia (vi ricordo il Quis custodiet di qualche capitolo fa), non sarà neanche l'ultimo ^^

 

Sì, l'ho tirata un po' per le lunghe, perché questo angolo magico vuole essere un commiato. Non è un addio, ovvio, è un arrivederci, ma potrei stare via molto, forse anche oltre la metà di settembre che vi avevo detto. Ho le idee abbastanza confuse sulla seconda parte (che s'intitolerà I randagi, per informazione), a essere sincera, e mi serve un po' di tempo per chiarirmele e buttare giù qualcosa. Non vorrei dover modificare i capitoli in corso d'opera.

Ciò che posso lasciarvi, come saluto e a tenervi compagnia mentre non ci sono, è proprio The Hollow Men, di T.S. Eliot. Un'opera d'arte, come ho già detto, che secondo me merita di essere conosciuta.

Per la prima volta, poi, voglio menzionare Awakening_Games. La mia storia nacque il giorno che lessi il prologo di quella fic. Mentre la leggevo l'idea ha cominciato a prendere forma nella mia mente. Vorrei quindi tributarle (è proprio il caso di dirlo) i suoi meriti.

 

Infine un grazie sentito a tutti voi che mi avete seguito e mi seguite (e spero continuerete a farlo) nell'affrontare questa storia. Grazie a GreekComedy lei sa perché e a Pouring_Rain11 perché sì e a entrambe perché hanno recensito, grazie a dany the writer per lo sforzo che fa per seguire la storia nonostante non conosca il fandom. Grazie alle 6 persone che hanno messo la storia tra le preferite e alle 10 che l'hanno messa tra le seguite e a tutti quelli che hanno recensito o anche solo letto almeno un capitolo da quando ho iniziato la fic. Spero di ritrovarvi tutti quando tornerò dalla pausa. Nel frattempo continuate a seguirmi, scriverò su altri fandom senza dubbio!

 

Vi saluto come sempre invocando la protezione degli dèi su voi tutti,

-Magic

 

P.S: Oddio quanta malinconia, ora mi suicido -.-''

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Capitolo 16
*** La testa piena di menzogne ***


La testa piena di menzogne
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Mi chiamo Board. Key Board.
Ogni giorno rischio la mia sanità mentale, sopportando gli abusi dello scrittore cui appartengo.
Ogni giorno dedico il mio pensiero a chi prima o poi verrà a salvarmi.
Potresti essere quella persona. Sì, proprio tu.
Con una recensione puoi fare molto per aiutare tutte noi.
Recensisci. Fallo per noi.

Parte II - I randagi


La testa piena di menzogne

Un luogo familiare
dove non sei mai stata,
uno spazio vuoto,
ma ti sembra troppo affollato,
tutto questo niente che ti circonda
e tu non sai metterci ordine.
Forse ci sono troppe storie nella tua testa
 
Vero e falso orbitano
intorno ai tuoi pensieri.
Se la verità fa male,
perché senti dolore quando lui mente?
Non sai se fidarti o fingere:
e se non fosse reale
quell’uomo che hai davanti?
 
Chiudi gli occhi e li riapri,
magari l’incubo scompare.
Decidi di accettare
un’inaccettabile irrealtà.
Pensi che ti aiuterà a capire
il mondo che sta dall’altra parte.
Ma forse ci sono troppe menzogne nella tua testa.
 

Aprì gli occhi. Li richiuse immediatamente perché la luce era troppo forte. Con le palpebre serrate, cominciò a ragionare su quello stralcio di mondo che aveva potuto vedere. C’era qualcosa che non andava. La sua mente continuava a ripeterglielo come se fosse stata l’unica cosa degna di nota. C’era qualcosa che non andava, ma l’immagine le era sfuggita dalla memoria perché aveva tenuto gli occhi aperti per troppo poco tempo e non riusciva a capire di cosa si trattasse. Aprì di nuovo gli occhi e riuscì a resistere alla luce abbastanza da cercare dove fosse il problema, poi li chiuse ancora.
Decisamente c’era qualcosa di sbagliato. O meglio, non c’era niente. Ecco cos’era. Era circondata dal nulla più totale. Era difficile descrivere il nulla, bisognava procedere per negazioni: non aveva un colore, non aveva un odore, non faceva freddo né caldo. Era come essere avvolti nel cellofan, ma senza sentirsi imprigionati. In quel momento si rese conto che poteva muoversi liberamente. Portò le mani a proteggere gli occhi e riuscì finalmente a guardarsi intorno.
Non era propriamente nulla, stabilì, perché aveva una consistenza: le sembrava di essere seduta su una nuvola, o meglio, come aveva sempre immaginato dovesse essere sedersi su una nuvola. Però continuava a non avere colore. Ci mise qualche minuto a rendersi conto di non essere sola. Si voltò lentamente verso l’uomo che stava in piedi alle sue spalle. Le sembrava di riconoscerlo, ma non avrebbe saputo dire chi fosse.
«Ti sei svegliata, signorina Maximoff» disse l’uomo. Fu allora che Wanda notò la stella rossa sul suo braccio sinistro, completamente fatto di metallo.
«Il Soldato d’Inverno» mormorò, con un misto di paura e riverenza nella voce «Ho sentito tanto parlare di te. Steve mi ha raccontato»
James si concesse un lieve sorriso pensando che almeno Steve si era dato la pena di parlare ai suoi compagni di lui, anche se probabilmente non aveva parlato di loro, poi riprese: «Prima di tutto posso assicurarti che non sono qui per farti del male e non ho nessuna intenzione di attaccarti. Voglio soltanto parlare»
«Sei tu che mi hai portata qui?» chiese Wanda «Dove siamo?»
«Non ne sono certo» rispose James «Ci troviamo nella tua mente in questo momento, o almeno così pare. Non ti so dire come ci siamo arrivati»
«Stai mentendo» affermò Wanda, stupendosi di esserne così certa, e in quello stesso istante sentì una fitta alle tempie e si afferrò la testa tra le mani. Il dolore era così forte che dovette soffocare un gemito.
«Cosa? E tu che ne sai?»
«Io… Non lo so» la sua fronte pulsava veloce quasi quanto il suo cuore «Ho solo questa sensazione che… ci sia qualcosa di sbagliato»
James si sorprese a preoccuparsi della sua salute: «Stai bene?»
Il dolore diminuì in modo lento, ma costante: «Sì, credo. Sei stato tu a mandarmi quel messaggio?»
«Quale messaggio?»
Wanda ebbe di nuovo la sensazione che il Soldato d’Inverno stesse mentendo, accompagnata da un altro dolore alla testa. Quella volta se l’aspettava, però: non lo fece notare a Barnes e poi lo mise alla prova: «Lo sai quale». James seppe immediatamente cosa fare: chinò appena la testa, fissando lo sguardo sui propri piedi, e mormorò un assenso che la strega sentì a malapena.
«Perché hai voluto vedermi, parlarmi? Che cosa vuoi da me, Soldato d’Inverno?»
«Ecco… Diversi mesi fa ho avuto una visione» più l’uomo parlava, più lei ne vedeva i contorni sfumati, come se fossero stati finti «Era qualcosa, anzi qualcuno, che non avrebbe dovuto essere lì, ma c’era e mi parlava» di nuovo quella fitta alla testa «Solo che non ascoltava le mie risposte, capisci?» forse il dolore era in qualche modo collegato con ciò che il Soldato d’Inverno stava dicendo? «Era come se non stesse parlando con me, ma con un altro me che non gli rispondeva»
Forse stava di nuovo mentendo e quel dolore era il modo che la sua mente aveva di dirglielo? In fondo, se Barnes non aveva mentito anche su quello, si trovavano nella sua mente, aveva un senso che lei riuscisse ad accorgersi se lui stesse dicendo il vero oppure no. Eppure, ciò che stava dicendo le sembrava familiare. Quando lei e Visione avevano visto quelle immagini che sembravano proiezioni olografiche, era andata esattamente così.
Decise di interromperlo: «Mi nascondi qualcosa, non mi stai dicendo tutto» il Soldato d’Inverno la fissò, impassibile, ma lei era certa che stesse fingendo anche quello «Se vuoi che mi fidi di te, non puoi raccontarmi le cose solo a metà. Ho bisogno almeno di sapere di chi si trattava»
«No» anche James si stupì di quanto secca fosse la risposta che aveva dato.
«Non vuoi?» Wanda cercava di capire «Perché non vuoi? È qualcuno di particolare? O forse non ti fidi di me. Però mi hai portata qui, volevi parlare con me, un briciolo di fiducia devi averla»
«Non lo so se mi fido di te» James scosse la testa, pensando che era troppo tempo che non si fidava davvero di nessuno «È che non sono certo che non sia stata tu a mandarmi quella visione»
Lo stupore di Wanda era tanto genuino che James pensò che avrebbero potuto finirla lì. Era evidente che qualunque cosa fosse stata non era opera di quella ragazzina che probabilmente non sarebbe neanche riuscita a uscire dalla propria mente, in quel momento.
«Io avrei…?» la strega non riusciva a crederci «Perché avrei fatto una cosa del genere? E chi avrei fatto apparire poi? Ma perché a te? Ero a malapena a conoscenza della tua esistenza, di certo non avrei potuto trovarti così» schioccò le dita «dal nulla»
«Sei l’unica che avrebbe potuto farlo» le rispose il Soldato d’Inverno «Era lecito che lo pensassi»
«Dammi un secondo» disse lei «Ho bisogno di pensare»
James non disse nulla e annuì, dicendosi che non poteva essere troppo pericoloso lasciarle qualche attimo per riflette. Dopotutto, aveva già detto ciò che volevano sapere. Si chiese perché Loki non l’avesse già lasciata andare.
Wanda si sedette, prendendo la testa tra le mani. Per essere il nulla, pensò distrattamente, era piuttosto comodo. Qualcosa non tornava. La testa aveva smesso di dolerle, che significava –a quanto aveva capito– che le affermazioni di Barnes corrispondevano al vero. Eppure, c’era qualcosa che non la convinceva a tutto ciò.
Decise di fare mentalmente il punto della situazione, per ragionare freddamente come le avevano insegnato a fare in combattimento. Si trovava nella propria mente. Aveva modo di verificarlo? No, anche se in effetti aveva sempre pensato che se mai fosse entrata nella propria testa sarebbe stato molto più affollato di quel vuoto cosmico con l’eccezione di una persona che aveva ignorato per tutta la vita. Era plausibile che fosse vero? In un certo senso sì, quel luogo le dava alcuni poteri, come quello di scoprire se il Soldato d’Inverno mentisse, che potevano essere spiegati dicendo che nella propria mente accedeva a delle capacità che altrimenti le erano precluse.
Quindi, concluse, il problema non si trovava lì. Di cos’altro poteva trattarsi? Stabilì di andare a ritroso. Partendo dal presente e andando all’indietro avrebbe dovuto per forza incontrare l’intoppo. Ripercorse la conversazione con il Soldato d’Inverno. Era vero, c’era qualcosa che stonava nelle frasi che l’uomo aveva pronunciato e la sensazione che avesse mentito rimaneva, ma non era quello che stava cercando.
Tornò a quando si era risvegliata, ma una volta preso per vero che si trovava nella sua mente tutto il resto sembrava perfettamente logico. La luce abbagliante, i poteri, il niente che la circondava… no, non si trattava di niente di tutto ciò.
Cos’era avvenuto prima che si risvegliasse? All’improvviso si rese conto che era abbastanza difficile ricostruirlo. Ricordava di essere andata a parlare con i civili insieme a Sam e Rhodey per avvertirli che potevano tornare nella zona senza correre rischi. Dopo… Ah, sì, era tornata a quell’albero dove aveva trovato il messaggio che le aveva dato appuntamento. Cosa diceva? “La realtà trema.”
Spalancò gli occhi. Ecco cos’era! Come aveva potuto non pensarci?
«Non mi stai dicendo tutto» disse con voce ferma, fissando James con quei suoi occhi verdi che gli ricordarono quelli di Loki. Erano di una sfumatura leggermente diversa, ma anche l’asgardiano aveva quello sguardo che sembrava scavare nell’animo delle persone.
«Che cosa vuoi sapere?» chiese James.
«Magari potresti cominciare dicendomi chi ha scritto il biglietto con cui mi hai dato appuntamento» rispose Wanda, concedendosi un sorriso nel vedere il lampo di preoccupazione attraversare il volto del Soldato d’Inverno.
«Cosa intendi?» si riprese velocemente Barnes «Sono stato io a scriverlo»
«Sì» concesse Wanda «Magari la grafia è la tua, ma, a meno che tu non sia un incantatore in grado di alterare la realtà, dubito che saresti stato capace di trasformare la scritta in un’altra in modo che soltanto io potessi leggere ciò che c’era veramente scritto»
Barnes chinò il capo, cercando qualcosa da rispondere mentre pensava che sia lui sia Loki avevano decisamente sottovalutato la ragazzina.
«Chi ti manovra, Soldato d’Inverno?» Wanda era infuriata, era stata ingannata, rapita, le avevano mentito e avevano cercato di manipolarla. Ora tutto ciò che voleva erano risposte e un nome. E Barnes continuava a tacere.
Non aveva osato farlo fino a quel momento perché non sapeva cosa sarebbe potuto succedere usando i suoi poteri all’interno di quella che a quanto pareva era la sua mente, ma decise che non le importava poi così tanto ed entrò nella mente del Soldato d’Inverno.
Si sarebbe aspettata qualunque cosa, ma non di venire catapultata in un luogo identico a quello da cui proveniva. Per fortuna la consistenza dell’ambiente era rimasta simile a una nuvola e la sua caduta era stata attutita da ciò che la circondava. Rimase qualche attimo immobile, con gli occhi chiusi, chiedendosi come avrebbe fatto a uscire da una mente altrui. Le faceva male tutto il corpo, aveva i muscoli completamente indolenziti.
Infine si convinse ad aprire gli occhi, riparandoli con la mano dalla luce bianca ancora troppo intensa. Si guardò intorno e notò immediatamente una figura in lontananza, seduta, con i gomiti poggiati sulle ginocchia e le mani intrecciate sotto il mento. Le dava le spalle, ma era probabile che l’avesse comunque vista arrivare. Wanda escluse quasi subito che si trattasse del Soldato d’Inverno, così stabilì di avvicinarsi cautamente per capire chi fosse.
La figura si voltò verso di lei quando ormai era distante un paio di metri e la fissò negli occhi. Wanda trattenne il fiato quando vide quell’uomo in viso. Non poteva essere lui. Non poteva essere vivo. Non doveva esserlo.
Cercò con tutte le proprie forze di togliere il velo di magia che copriva l’immagine davanti ai suoi occhi, convinta che fosse un’altra illusione, ma per quanto provasse quel volto non mutava. Fece alcuni respiri profondi, convinta che bastasse calmarsi per accorgersi che la persona che le stava davanti non era veramente chi sembrava.
Chiuse gli occhi. Rievocò nella propria memoria Thor che le raccontava della guerra che aveva portato al recupero dell’Aether. E della morte di suo fratello. Wanda non aveva dubbi. Thor le aveva detto che Loki era morto, lei aveva percepito il suo dolore. Non era possibile che quello davanti a lei fosse il Signore degli Inganni.
«Niente di tutto questo è reale» bisbigliò a se stessa la strega, coprendosi gli occhi con le mani «È evidente anche da questo posto. Non può essere»
Sentì un tocco freddo sulle mani che la fece sobbalzare. Delle dita delicate spostarono le sue mani da davanti agli occhi che lei aveva spalancato per la sorpresa. Si trovò a fissare da vicino il verde dello sguardo di Loki che la studiava con curiosità. Per un attimo si chiese se non fosse uno specchio che rifletteva i suoi occhi.
Aprì la bocca per dire qualcosa, ma nessun suono ne uscì. Loki aveva continuato a tenere le sue mani tra le punte delle dita, come un delicato origami appena completato, ma la strega se ne accorse soltanto quando egli le lasciò andare. Le braccia di Wanda ricaddero ai lati del suo corpo come gli arti di un burattino a cui fossero stati tagliati i fili.
I secondi trascorrevano scanditi solo dai loro respiri che non producevano alcun rumore. Loki fissava la giovane donna che rimaneva immobile come una statua di cera. Il ricordo del calore delle mani di lei si faceva sempre più lontano e l’asgardiano avrebbe quasi voluto sfiorarle il volto con un dito per controllare se fosse fatto di carne o no, ma temeva di spaventarla.
Era affascinato: le lievi venature rosse che si erano disegnate negli occhi di Wanda dopo che ella aveva utilizzato i propri poteri stavano lentamente svanendo e il verde tornava a riempire completamente le sue iridi. C’era un potere incredibile in lei, pensò Loki, eppure lei non sembrava esserne cosciente.
A Wanda sembrò che il tempo si fosse fermato. Stava respirando, ne era certa, ma quell’ambiente surreale assorbiva qualunque rumore. Il cuore le batteva così forte che avrebbe dovuto sentirlo rimbombare nelle orecchie, invece c’era solo silenzio. Aveva paura. Aveva paura di quell’uomo che sarebbe dovuto essere morto. Aveva paura di quel luogo assurdo. Aveva paura del potere che sentiva scalpitare dentro di sé, impaziente di prendere il controllo di quella situazione che si sentiva sfuggire tra le dita. Ma più di tutto aveva paura di quel silenzio irreale.
«Io sono reale» disse Loki, la voce ridotta a un sussurro. Wanda gli fu quasi grata di aver rotto quella quiete angosciante.
Inconsciamente sentiva che ciò che il Fabbro di Menzogne aveva appena detto doveva essere vero. Aveva sentito il suo tocco sulla pelle. Vedeva il verde sfavillante degli occhi dell’uomo di fronte a lei e si diceva che non poteva non essere reale.
Eppure la sua mente si rifiutava di accettarlo. Sentiva una voce, in fondo, che le diceva che se Pietro poteva essere vivo non c’era alcun motivo per cui Loki non lo sarebbe dovuto essere, ma semplicemente non riusciva a pensarlo. Era sbagliato. Non poteva succedere, non doveva succedere.
«Tu sei… morto» rispose infine, appena prima che il silenzio la soffocasse del tutto.
«Non ci credi davvero» disse Loki, concedendosi un piccolo sorriso.
«E tu che ne sai di cosa penso?»
«So che ti trema la voce» rispose il Signore degli Inganni, senza smettere di sorridere «So che nei tuoi occhi è tornata quella venatura rossa di quando lasci liberi i tuoi poteri perché stai cercando di entrare nella mia mente. Ma non ci riuscirai. So che stai pensando a tuo fratello»
«Smettila» disse Wanda.
«Di fare cosa?» gli occhi di Loki lampeggiavano di divertimento «Di bloccare la tua mente? Vuoi davvero sapere cosa penso? Basta chiedere, te lo dico io: penso che non siamo così diversi come credi tu»
«Non è vero»
«C’è una persona che ha perso suo fratello e potrebbe non rivederlo mai più» iniziò a raccontare lui «Che si è vista crollare addosso il mondo che conosceva dopo che ha scoperto di non essere chi credeva. Poi ha trovato qualcuno che le stesse vicino e la aiutasse a risollevarsi dopo questa caduta. Ha imparato che ci si fa più male cadendo da più in alto e sta cercando di evitare di sollevarsi troppo da terra»
«E…?» domandò Wanda.
«E poi ci sei tu, che sei esattamente uguale»
«Parlavi…» la strega si interruppe a metà della frase e poi comprese «Stavi parlando di te»
«Suona familiare, però, vero?»
«Io non sono come te» affermò Wanda, impedendo alla propria voce di tremare «Io non ho mai voluto conquistare la terra per mio divertimento»
«Ma hai desiderato di uccidere» la interruppe lui «Sei arrivata a un soffio dal permettere che un robot impazzito sterminasse la specie umana»
«Non vivo di inganni» continuò la giovane mentre ignorare le parole del Signore degli Inganni diventava sempre più difficile «Non costruisco ad arte le menzogne come invece fai tu. Io proteggo la Terra da gente come te. Non posso essere così. Io non…» fece un gesto che comprendeva tutto il nulla che li circondava «Io non rapisco le persone per portarle in un luogo che non esiste senza un valido motivo. Il rapimento, la tortura, l’assassinio… io non sono così»
«E gli Avengers?» domandò Loki «Loro sono così?»
«Sai che non lo sono» rispose Wanda a voce bassa.
«No» la contraddisse l’asgardiano «Tu credi che non lo siano. Sai quante persone sopravvissute all’ultima missione dei Vendicatori? Non credo, sei andata via troppo presto. Trentasette. Su oltre duecento. E quindici di loro sono morti successivamente in ospedale. Dei ventidue rimasti, due si trovano all’Avengers Facility in questo preciso istante. E sono convinto che darebbero qualunque cosa per essere da un’altra parte, a giudicare dalle loro urla»
«Stai mentendo. Gli Avengers non farebbero mai una cosa simile»
«Allora forse non stiamo parlando delle stesse persone. Tu sei certa al cento per cento che la tortura sia fuori dalla loro mentalità? Perché io ho informazioni diverse»
Wanda strinse gli occhi: «Non hai nessuna informazione. Sono solo menzogne»
«Se lo sono davvero e tu ne sei convinta, perché le mie parole ti turbano tanto? Forse anche tu credi che potrebbero arrivare a fare una cosa del genere?»
«Basta!» urlò Wanda, stendendo il braccio verso di lui. Dalle sue dita nacque una scarica rossa che avrebbe colpito Loki al cuore, se non si fosse bloccata a mezz’aria per poi svanire. La strega si guardò la mano, perplessa.
«James non ha voluto che tu mi colpissi» rispose Loki alla sua domanda inespressa «Anche tu avresti potuto fare cose del genere nella tua mente, lo sai?»
James. Ci mise un attimo a capire che parlava del Soldato d’Inverno. Quei due erano d’accordo? Wanda non sapeva più cosa pensare, cosa fare. Si lasciò cadere all’indietro, sperando di battere la testa e addormentarsi, o forse svegliarsi, ma una forza la trattenne e la costrinse a sedersi lentamente.
«Che cosa vuoi da me?» chiese infine, esasperata da quella situazione di cui cominciava a sfuggirle l’intero senso.
«Una promessa»
«Che cosa vuoi da me?»
«Che tu non dica a nessuno dell’incontro che hai avuto con me e con James»
«E perché dovrei farlo?»
«Perché neanche tu credi che i Vendicatori siano del tutto estranei a quello che ti ho descritto prima. Se dirai loro che ci hai visti, loro ci troveranno. Se fermeranno la nostra ricerca, tutto il mondo potrebbe essere in pericolo»
«E perché dovrei crederti?»
«Non devi. Non ce n’è bisogno. Mi basta che tu prometta»
Wanda si attorcigliò una ciocca tra le dita, sovrappensiero, riflettendo su quanto era appena successo. Infine parlò: «Voglio una cosa, però»
«Cosa?»
«Risposte. La realtà trema»
Loki sorrise: «Ah, già»
«Perché proprio quella frase?» cominciò a chiedere Wanda «E come potevi sapere che mi avrebbe attirata da te? Che cosa sai sulla realtà? L’hai sentita tremare?»
«Calma, calma» Loki si sentiva soddisfatto, ma non sapeva neanche lui perché «Pensavo avessi mandato tu quella visione, come ti ha detto James. Se fosse stata colpa tua, di certo l’avresti fatto per un motivo e mettermi in contatto con te era l’unico modo per scoprirlo. Il biglietto leggibile soltanto con la magia mi assicurava che avrei attirato la tua attenzione, ma non quella degli altri. E sì, ho sentito tremare la realtà. Io e James stiamo lavorando per capire che cosa stia succedendo. Potrei avere bisogno del tuo aiuto, un giorno. Tu ci aiuteresti?»
«Forse. Ci sono troppe possibilità diverse. Se sarà la cosa giusta da fare»
«Anche se potrebbe voler dire combattere contro i tuoi amici?»
Wanda si prese la testa tra le mani: «Non posso dirti di sì senza riserve, perché starei mentendo. Farei il possibile»
Loki sorrise: «Il tuo possibile è l’impossibile del resto del mondo. Il possibile mi basta. Puoi andare. James?»
Come rispondendo a quella chiamata, una forza invisibile risucchiò Wanda verso l’alto. Lei cercò di opporsi, ma con i propri poteri riuscì soltanto a rallentare il movimento. Si stava muovendo attraverso la mente del Soldato d’Inverno. Ciò che vide non le piacque, ma non poteva fare nulla per impedirsi di guardare.
Sentì James urlare e non riuscì a capire se il suono venisse dal luogo che stava lasciando o dalla realtà in cui stava tornando. Vide stralci di ricordi, scene che non pensava potessero rimanere nella memoria di un uomo senza farlo impazzire. Poi vide scene di quotidianità, di una vita normale che doveva far male per quanto era distante, di una vita con Steve. E capì. Capì, ma non disse nulla, perché non ci sarebbe stato nessuno ad ascoltarla.
Alla fine ritornò nel proprio corpo. Le faceva male ogni singolo muscolo del corpo, compresi il cuore e la lingua. Era seduta su una sedia e per terra c’erano i resti di corde che a quanto pareva l’avevano tenuta ferma. Doveva essersi divincolata parecchio, perché sui suoi polsi risaltavano dei segni rossi.
Di fronte a lei, seduto a un tavolo, il Soldato d’Inverno si premeva la testa con le mani. I capelli gli ricadevano davanti al viso e Wanda non poteva vederlo, ma lo sentì singhiozzare e pensò che per lui quel viaggio doveva essere stato ancora più doloroso che per lei. Poggiata davanti a lei c’era una bottiglietta d’acqua. La vuotò in pochi sorsi e la rimise dov’era. Nonostante avesse placato la sete, sentiva ancora la bocca asciutta. Forse era più dovuto al non sapere cosa dire che all’arsura.
Si alzò in piedi e si diresse verso l’unica uscita. Vide Loki venirle incontro. Si sentiva stanchissima e non aveva più voglia di parlare, ma fece uno sforzo: «Avevi detto che potevo andare»
«Sei libera, infatti» rispose Loki. Wanda sentì le gambe cedere e si aggrappò a lui per rimanere in piedi «Ma così non andrai da nessuna parte»
La strega annuì.
«Ti conviene riposare, prima» Wanda annuì ancora e si lasciò portare a un sacco a pelo steso sul pavimento.
Si addormentò immediatamente, appena dopo aver sperato con tutta se stessa di non sognare ciò che aveva visto nella mente del Soldato d’Inverno.
Loki non rimase a guardarla e andò via subito. James aveva bisogno di lui.











The Magic Corner:
Ciao a tutt*!
Ebbene sì, sono ancora viva e sono tornata qui a deliziarvi/tormentarvi (spero più la prima).
Ne è passato di tempo, eh? Spero che abbiate avuto modo di riprendervi dal capitolo scorso, io ci ho messo un po'. (Sì, sto abilmente evitando di ricordare che avevo detto metà settembre e invece siamo a gennaio)
In questi quattro mesi, però, mi sono tenuta attiva. Prima di tutto mi sono schiarita un po' le idee riguardo a cosa voglio fare di questa storia e dove voglio andare a parare (che aiuterebbe anche, visto che siamo ormai al capitolo sedicesimo), anche se non sono ancora certa di tutti i dettagli al 100%. Poi, proprio mentre eravate distratti, ho creato un account su AO3 (mi chiamo LizzyPavlova, se volete cercarmi) e Instagram (sempre lizzypavlova), in caso vi interessasse.
Spendo giusto due parole sul capitolo che avete letto e poi vi lascio in pace :)
Come mi ha giustamente fatto notare quell'angelo di GreekComedy, c'è un enorme hint della FrostWitch (che sarebbe Loki/Wanda) in questo capitolo. Devo ammettere che è assolutamente intenzionale, soprattutto il momento in cui lui le toglie le mani da davanti agli occhi. Cioé, non è che mi sia messa lì a dire "ora metto una scena FrostWitch", è che ci stava così bene e poi loro sono dei cuccioli assurdi... Insomma, comprendetemi.
Non parlerò delle insinuazioni di Loki riguardo agli eventi immediatamente successivi al capitolo scorso (ci terrei solo a ricordarvi che, nonostante i quattro mesi di differenza nella pubblicazione, i due capitoli sono cronologicamente attaccati), perché ne saprete di più nei capitoli a venire.
E... credo di aver finito!
Per quanto riguarda la pubblicazione dei prossimi capitoli, spero di riuscire a mantenere un ritmo mensile, ma non posso darvi garanzie in proposito, purtroppo. Almeno su febbraio dovrei farcela, perché il prossimo capitolo è oltre la metà, però il resto è nebbia.
Ok, ora la devo proprio smettere. Un giro veloce di ringraziamenti e mi estinguo.
Un grazie enorme a Pouring_Rain11 per le sue belle recensioni Nonsense e perché si commuove e perché mi stalkera e... Vabbè, ho reso l'idea. Un grazie almeno altrettanto gigantesco a quella svitata di GreekComedy che sono quattro mesi che mi ripete che deve recensirmi il capitolo quindici anche se mi ha già detto cosa ne pensa per cui non ce ne sarebbe davvero bisogno. Odio minimizzare il suo contributo a questa storia, ma ho sempre troppo poco spazio per spiegarlo. A buon intenditor poche parole ;) infine grazie a quei sedici che hanno messo la storia tra le preferite/seguite (sempre che si ricordino della mia storia dopo questo letargo) e a tutt* voi che avete letto!
Per finire, come sempre, un piccolo promemoria per dirvi che recensire è assolutamente gratuito, ma anche solo un MP mi fa piacere, e ci si vede presto!
Che gli dèi siano con voi!
-Magic

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Capitolo 17
*** Sommesse e senza senso ***


Sommesse e senza senso
Pubblicità Progresso - Campagna No Profit
Sono una tastiera.
Il mio proprietario è uno scrittore incapace. Da anni cerca di scrivere qualcosa di decente, ma non ne ha il talento.
Scrivo questo messaggio di aiuto e lo rivolgo a voi lettori.
Potete fare qualcosa, potete incoraggiare scrittori diversi, scrittori capaci.
Potete dire al mio proprietario che non ha un briciolo di talento.
Potete scrivere una recensione.
Voi potete, dovete fare qualcosa. Aiutatemi.


Sommesse e senza senso

Una voce nel buio
Dove sei
Chi sei
Parli la mia lingua
Credo
Parole senza senso
Voce fredda
Richiesta di aiuto
Credo
 
Una voce nella luce
Suoni confusi
Sono parole
Sono per me
Forse
Cosa dici
Voce sommessa
Offri aiuto
Forse
 
Dolore
Dolore
Dolore
Sei tu?
Sono io
Fa male
 
 
Si trattava certamente di un incubo. Helena aveva imparato a riconoscere quei minimi segni che potevano darle indizi su come stesse il suo paziente. Con gli altri era più facile: se non riuscivano a dormire bene si svegliavano, se avevano male da qualche parte glielo dicevano. Lineare. Con Pietro, invece, si trattava di indovinare, di studiare le reazioni che il suo corpo aveva a quel disastro che stava succedendo nella sua testa. A volte sembrava addirittura più semplice che con gli altri – di certo non poteva mentirle – ma bastava una piccola differenza nella contrazione di un muscolo per mostrarle uno stato d’animo completamente diverso e a volte sembrava impossibile cogliere questi cambiamenti.
Il respiro del ragazzo era affrettato come se avesse appena finito una corsa alla velocità della luce, pensò Helena, per poi ricordare a se stessa che in effetti il giovane non ne sarebbe stato neanche affaticato. Avrebbe giurato che le labbra di Pietro fossero serrate più strette dell’ultima volta che l’aveva visto. Come era possibile? K non aveva previsto nulla di simile. Ancora non riusciva a capacitarsi di quei minuscoli movimenti che il ragazzo riusciva a compiere nonostante in teoria fosse paralizzato.
Gli accarezzò il viso. Helena aveva sempre le mani fredde, era vero, ma era la fronte di Pietro a scottare, ne era certa. Lo vide spalancare gli occhi mentre prendeva fiato come qualcuno appena emerso da sott’acqua. Si accorse di aver stretto i denti per la tensione soltanto mentre rilassava i muscoli della faccia. L’azzurro degli occhi del ragazzo quasi non si vedeva da quanto erano dilatate le sue pupille.
 
C’era molta luce. Troppa luce. Com’era possibile? Aveva smesso di essere abbagliato dal bianco appostato al di fuori delle sue palpebre settimane prima. O forse soltanto ore – chi lo sa – il tempo non aveva poi molto significato in quella specie di limbo in cui si trovava. Nei suoi sogni erano trascorsi solo pochi attimi, ma gli erano sembrati un’eternità. E Wanda… Come stava Wanda? Aveva sentito il suo dolore, ma forse era stato solo un sogno.
C’era troppa luce. Voleva chiudere gli occhi, ma allo stesso tempo aprirli gli era costato uno sforzo tale che non voleva rinunciarvi. E se fosse ripiombato in quell’incubo da cui era sfuggito a malapena? Meglio convincersi di aver sognato si disse. Non poteva credere che sua sorella avesse sofferto tanto.
A poco a poco, sentì le pupille restringersi dolorosamente come succede agli occhi chiari esposti troppo all’improvviso alla luce e riuscì a distinguere ciò che lo circondava. Era sempre quella camera, era sempre quel soffitto. Però c’era una voce e quella voce stava dicendo qualcosa. O meglio, probabilmente lo stava facendo, perché tutto ciò che Pietro sentiva erano suoni confusi. Perché, perché non riusciva a distinguere le parole?
 
Helena sapeva che la sua voce doveva far risuonare il sollievo che provava. «Ciao, Pietro» disse «Mi chiamo Helena Mazur. Sono il medico che si sta prendendo cura di te. So che non ti puoi muovere e non riesci a parlare, ma possiamo comunque comunicare. Se vuoi dire di sì puoi chiudere gli occhi e poi riaprirli. Se vuoi farmi una domanda batti due volte le palpebre. Se vuoi dire di no oppure non mi riesci a capire, resta fermo. D’accordo?»
Il ragazzo rimase immobile. Maledettamente immobile. I secondi scorrevano, Helena poteva sentirli ticchettare anche se nella stanza non c’erano orologi. Non sapeva cosa fare, non era mai successo in precedenza che lui non le rispondesse. Cosa doveva fare?
Cosa faccio adesso?
Si impose di calmarsi, di smettere di trattenere il respiro. Non si era nemmeno accorta di starlo facendo. Fece un respiro profondo, poi un altro. Chiuse gli occhi e visualizzò il volto di K. Non sapeva come fosse possibile, ma la sua amica riusciva sempre a calmarla, anche quando non c’era. Riaprì gli occhi e riportò lo sguardo sul paziente.
Pietro la stava guardando. Ci mise un attimo a rendersi conto di cosa questo volesse dire. Pietro la stava guardando. Era la prima volta che gli occhi di lui non erano fissi sul soffitto. Pietro la stava guardando. Pietro aveva mosso gli occhi. Il suo cervello quasi non riusciva a pensarlo. Voleva piangere per la felicità. Sorrise al giovane paziente, che sembrava spaventato.
«Ciao, Pietro» ripeté allora, scandendo lentamente le parole «Mi chiamo Helena Mazur. Sono il medico che si sta prendendo cura di te. So che non ti puoi muovere e non riesci a parlare, ma possiamo comunque comunicare. Se vuoi dire di sì puoi chiudere gli occhi e poi riaprirli. Se vuoi farmi una domanda batti due volte le palpebre. Se vuoi dire di no oppure non mi riesci a capire, resta fermo. D’accordo?»
Il ragazzo chiuse e riaprì gli occhi, tornando a guardarla. Helena era felice. Sentì la morsa attorno al suo stomaco allentarsi poco a poco.
«Ti ricordi delle altre volte che abbiamo parlato?»
Pietro rifletté. Si ricordava… si ricordava qualcosa, si ricordava una donna. Sapeva di aver pensato che fosse sua madre, mentre probabilmente era proprio quella donna che in quel momento sedeva di fianco al suo letto. Ed era certo che ci fosse dell’altro. Forse qualcun altro. Sì, ecco, una persona che non aveva voluto vedere ma si trovava là per fargli visita. Non era Wanda.
-Sì- rispose infine.
La donna sorrise e gli accarezzò di nuovo il viso, con delicatezza. Era un contatto piacevole, fresco e leggero. Le sue mani odoravano di buono, di quella menta piperita che mettono nei profumi in modo che sia leggermente meno intensa di quella glaciale e non faccia venire in mente il dentifricio al solo annusarla. Pietro inspirò profondamente per riempirsi i polmoni e la memoria di quel profumo.
«Molto bene» annuì Helena, notando che il ragazzo sembrava avere il controllo del proprio respiro «Ora vorrei provare a chiederti di descrivere che cosa senti, pensi di poterlo fare?»
Ci fu una breve pausa. -Sì-
Helena si chinò a raccogliere la borsa che aveva lasciato per terra ed estrasse una penna e il quaderno su cui aveva precedentemente preso alcuni appunti.
«Bene, ti farò delle domande, oggi affronteremo soltanto le prime dieci. Sentiti libero di fermarti quando vuoi, basterà smettere di rispondere. In questo caso facciamo un battito per dire sì, due per dire no. D’accordo?»
-Sì-
«Perfetto. Prima domanda: escludendo il gusto, che naturalmente non possiamo esaminare, ti sembra di ricevere percezioni da tutti i sensi?»
-Sì-
Helena disegnò una piccola V sul foglio e lesse la riga successiva: «Seconda domanda: ti sembra di vedere allo stesso modo con l’occhio destro e il sinistro?»
-Sì-
La dottoressa annuì: «Ed è la stessa cosa anche per le orecchie?»
-Sì-
«Ok, questa potrebbe essere un po’ più complicata. Parliamo di miele. Te lo spalmo sulle labbra tutti i giorni prima di andare via da questa stanza. Quando torno la mattina dopo è sparito. Ti accorgi di quando lo spalmo?»
-No-
Helena scrisse una crocetta di fianco alla quarta domanda. «E sei cosciente quando lo mangi?»
-No-
«Ti è mai capitato di sentire in bocca il sapore del miele quando ti svegli?»
-Sì-
«Spesso?»
-Sì-
«Sempre?»
-Sì-
«Anche stamattina?»
Pietro ci pensò un attimo. Ricordava di essersi svegliato con il sapore acido degli incubi in bocca. Era certo di aver sentito la gola asciutta. C’era anche il miele? Non ne era sicuro. Batté tre volte le palpebre.
«Vorrebbe dire che non lo sai?»
-Sì-
«Non importa» sorrise Helena «Andiamo avanti con la settima domanda: ricordi quello che sogni, di solito?»
La risposta affermativa fu più rapida delle altre. Eccome se lo ricordava, pensò Pietro mentre batteva le palpebre. Era più facile ricostruire quello rispetto a ciò che gli succedeva quando era sveglio. Certo, avrebbe di gran lunga preferito il contrario.
«Bene. Ottava domanda: sai chi è Wanda?»
Se Pietro avesse potuto, avrebbe riso. Che domanda stupida, certo che sapeva chi era sua sorella, pensavano che avrebbe potuto dimenticarla? Poi ci pensò: era stato in coma per chissà quanto tempo, forse era anche stato morto per degli attimi che naturalmente aveva cancellato. Avrebbe potuto benissimo eliminare l’immagine di Wanda dalla propria memoria. Per fortuna non l’aveva fatto: -Sì-
«Questa sì che è un’ottima notizia» commentò Helena mentre prendeva nota. Per un secondo, Pietro si chiese se fosse sarcastica, ma poi si rese conto che era davvero soddisfatta «Le ultime due domande e poi ti lascio in pace: hai mai sognato tua sorella?»
Come no, in continuazione: -Sì-
«Per finire: ti ricordi il mio nome?»
Pietro ci pensò. Scavò nella propria memoria e seppe con certezza che quando si era presentata la dottoressa aveva detto il proprio nome. Soltanto che non riusciva in alcun modo a riportarlo alla mente. Gli dispiaceva di non ricordarselo: quella dottoressa gli stava simpatica. Riusciva a non trattarlo come una cavia di laboratorio, o un bambino, o qualcuno in punto di morte e allo stesso tempo prendersi cura di lui come se fosse stato tutte e tre quelle cose insieme. Eppure non aveva la minima idea di quale fosse il suo nome.
-No- fu costretto ad ammettere.
«Non è grave» rispose la dottoressa. Pietro si chiese come facesse quella donna a sorridere sempre «Mi chiamo Helena, comunque. Per oggi posso smettere di torturarti. Vuoi che ti legga qualcosa?»
-Sì- “Grazie” aggiunse mentalmente il ragazzo.
«Le fiabe vanno bene?»
-Sì-
Pietro ci mise più tempo del solito ad addormentarsi. Forse, pensò Helena, con quelle domande aveva svegliato il suo cervello tanto da renderne più difficile lo spegnimento. Quando finalmente lo sentì respirare con un ritmo più lento e regolare e vide che aveva gli occhi chiusi, mise via il libro, spalmò il miele e andò via.
«Buonanotte, smemorato» disse, mentre spegneva la luce. Era troppo distante dal paziente per dire con certezza se avesse davvero sorriso o se lo fosse immaginata.
 
Al colonnello Fury non piacevano i medici. Non ce l’aveva con la categoria di per sé – in fondo non gli aveva fatto niente di male – bensì con tutti i suoi esponenti che aveva incontrato negli anni. Dopo una serie di esperienze negative, era difficile non guardare male quella fauna color celeste pastello che affollava la stanza dove si trovava.
Era nella sala in cui infermieri, inservienti e medici potevano rilassarsi durante la loro ora di pausa o prendere un veloce caffè, niente che non avesse già visto avvenire in centinaia di contesti diversi. Lo facevano anche allo SHIELD, ricordò a se stesso. Eppure non riusciva a reprimere una sensazione che per orgoglio non avrebbe mai definito disagio, anche se ci somigliava molto. Forse era l’idea che tutte quelle persone lavorassero con la vita degli altri, si disse. Lo facevano anche allo SHIELD, ricordò invano a se stesso. Non importava quanto i due personali si somigliassero: quella moltitudine celeste non riusciva a piacergli.
Qualunque ne fosse il motivo, il sollievo di veder comparire la dottoressa Mazur oltre la porta a vetri fu enorme e Fury le rivolse un sorriso. In fondo, l’aveva salvato da quella folla di professionisti insopportabili e, soprattutto, indossava abiti di un colore normale.
«Novità?» le chiese. Lei annuì, ma non sembrava molto disposta a parlarne davanti ai suoi colleghi. Lanciò in giro un paio di occhiate nervose, salutò due infermieri agitando la mano e poi gli fece segno di seguirla. Fury le fu incredibilmente grato: il suo occhio era salvo da quello stupro cromatico.
Quando finalmente furono nell’ufficio di lei, la vide rilassarsi.
«Mi scusi se non le ho voluto parlare prima, colonnello» disse, facendolo accomodare «C’era troppa gente e poi quei camici celesti mi fanno davvero venire il mal di testa»
Fury annuì, con un sorriso: «La capisco perfettamente. Cosa è successo, allora?»
Helena sospirò, dando una veloce occhiata ai propri appunti, come per confermare alla propria memoria che aveva tutto quanto sotto controllo.
«Vorrei dire che non riesco a spiegarmelo, ma mi sembrerebbe di non aggiungere niente di nuovo. Pietro sembra aver subìto uno shock e non so a cosa potrebbe essere dovuto. Stamattina ci ha messo più tempo del solito a svegliarsi e aveva il sonno agitato. Quando ha finalmente aperto gli occhi aveva le pupille così dilatate che quasi non si vedeva l’iride. Probabilmente stava facendo degli incubi. Il lato positivo è che per la prima volta da quando ha aperto gli occhi glieli ho anche visti muovere. Mi ha guardata in viso e ha risposto a una serie di domande su come si sentiva. La sua memoria a breve termine sembra avere qualche problema, ma per il resto si ricorda tutto. Domani, se lei è d’accordo, vorrei provare di nuovo a chiedergli se voglia vederla oppure no»
Fury rimase per qualche tempo in silenzio, come riflettendo su tutto ciò che lei gli aveva detto. Per riempire quell’inattività, la dottoressa si versò una tazza di caffè e gliene offrì un’altra che lui rifiutò con un gesto della mano.
«Questi incubi» disse infine il colonnello «È riuscita a capire di cosa si trattasse?»
Helena scosse la testa mentre deglutiva un sorso di caffè, poi poggiò la tazza sulla scrivania: «Di solito cerco di evitare di parlare di ciò che i pazienti vedono quando sono incoscienti. È stato verificato che nella maggior parte dei casi simili a questo le persone tendono ad avere difficoltà a distinguere tra il sogno e la realtà e di norma si consiglia ai medici di evitare di mescolarli facendo raccontare ai pazienti ciò che sognano. Certo, questo caso è unico, quindi magari prima o poi ci proverò, ma per ora preferisco di no»
«Capisco. E… Potrebbe essere opera di Wanda?»
La dottoressa si strinse nelle spalle: «E chi lo sa? Non ho modo di entrare in contatto con lei per sapere se l’abbia fatto volontariamente e in ogni caso non bisogna escludere che possa avvenire contro la sua volontà e magari anche senza che lei se ne accorga»
«Quindi potrebbe essere?» insistette Fury.
«Non conosco perfettamente i poteri di Wanda, ma neanche lei stessa d’altronde, però per quanto ne so potrebbe essere, sì»
«Mi tenga aggiornato comunque» disse il colonnello per congedarsi, mentre si alzava.
«Naturalmente. Ah, colonnello» Fury si voltò sulla soglia «Non vorrei impicciarmi dei suoi affari, ma la sera scorsa ha lasciato il computer acceso e mentre tornavo nel mio ufficio ci sono passata davanti. C’era un documento aperto e la notifica di una e-mail, non ho letto oltre. Volevo soltanto consigliarle di non lasciarlo così, incustodito. Il resto del personale non conosce la sua identità, è vero, ma… non credo che lei voglia rivelarla»
Fury fece una smorfia come per dire che era d’accordo: «Non si preoccupi, non capirebbero comunque nulla» poi si allontanò a larghi passi nel corridoio. Helena si era seduta alla scrivania e aveva appena aperto uno dei fascicoli dei suoi pazienti, quando lo vide apparire di nuovo alla porta.
«Una e-mail, ha detto?» chiese lui.
La dottoressa annuì e Fury si dileguò, senza aggiungere altro.
 
Pietro fu svegliato da un tocco delicato sul viso e aprì gli occhi lentamente. Era meglio così – notò – piuttosto che spalancarli come aveva fatto il giorno prima.
«Ciao, Pietro. Mi chiamo Helena Mazur. Sono il medico che si sta prendendo cura di te. So che non ti puoi muovere e non riesci a parlare, ma possiamo comunque comunicare. Se vuoi dire di sì puoi chiudere gli occhi e poi riaprirli. Se vuoi farmi una domanda batti due volte le palpebre. Se vuoi dire di no oppure non mi riesci a capire, resta fermo. D’accordo?»
Mentre batteva le palpebre, il ragazzo si chiese se fosse possibile sentire in bocca il sapore di miele, ma avere le narici invase dal profumo di menta piperita.
 
Colonnello,
So che si aspetta da questa e-mail una spiegazione. Ho passato diverse ore seduto davanti al computer alla ricerca di qualcosa da dirle, ma purtroppo tutto ciò che so è che io stesso non riesco a spiegarmi cosa stia succedendo.
Fino a pochi giorni fa si trattava soltanto di noncuranza, come se alla squadra non importasse più di quanti civili rimanevano coinvolti negli scontri, ma nell’ultima missione qualcosa è cambiato.
Hanno lottato, glielo giuro, per uccidere. Non per difendersi, non per ottenere informazioni, ma per vendicare e uccidere. E se è vero che sono i Vendicatori, non è così che deve andare. Bisogna fare qualcosa.
Abbiamo attaccato una struttura presumibilmente di criminali, dentro c’erano più di duecento persone. Attualmente, ventidue sono ancora vive. Due di loro si trovano nella nostra struttura. Preferirei spiegarle a voce il resto, visto il rischio che corriamo con questi scambi di informazioni. È ridicolo, ma ho paura di essere intercettato dai miei stessi compagni di squadra.
Non so quanto sia sicuro per lei venire qui, forse possiamo incontrarci da qualche altra parte.
Rimango in attesa di direttive e la saluto,
JR
 
Il colonnello Fury sollevò lo sguardo dal portatile sentendo un lieve bussare alla porta. Cambiò videata del computer e disse: «Avanti»
La dottoressa Mazur socchiuse appena la porta, poi fece un sospiro ed entrò.
Per un attimo rimasero immobili a guardarsi in silenzio, come se entrambi avessero sentito il peso dei pensieri dell’altro ed esitassero a interromperne il flusso, poi Helena si decise a parlare.
«Colonnello» disse «Pietro ha accettato di vederla»







The Magic Corner:
Ciao a tutt*!
Ci ho messo un pochino più di un mese perché ho avuto una settimana un po' d'inferno, ma ora sono qui tutta per voi!
Sono estremamente contenta di pubblicare questo capitolo, anche perché ho passato il mese scorso a fremere perché non lo avevo finito però volevo comunque aggiornare... Sì, sono strana.
Due cose veloci sul capitolo:
Primo, Pietro ed Helena. Ok, devo ammetterlo, non li shippo ma sto spingendo un sacco per questi due. Per me c'è solo affetto tra questi due, ma posso capirvi se li shippate.
Secondo, siccome quella cinnamon roll di GreekComedy mi ha fatto notare che non si capisce molto bene, volevo specificare che "JR" sta per James Rhodes, AKA Rhodey, AKA War Machine.
E niente, oggi sono un po' meno prolissa del solito, quindi mi limiterò a ringraziare: Pouring_Rainn11 che sclera ogni volta di più nelle recensioni, GreekComedy che è fantasticissima as usual, Lumos and Nox, Juliet Leben22 e dany the writer perché si sono imbarcati nell'impresa titanica di recensire questa roba e i 16 irriducibili che mi seguono. Ah, già, e naturalmente tutt* voi che leggete!
Direi che posso anche chiudere, ricordandovi come sempre che recensire o mandare un messaggio privato è gratis ^^
Ci vediamo (forse) più presto del previsto...
Che gli dèi siano con voi!
-Magic

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Capitolo 18
*** Terzo intermezzo ***


Terzo intermezzo
Pubblicità Progresso - Campagna No Profit
Ogni giorno una tastiera si sveglia e sa che sarà maltrattata da uno scrittore incapace.
Mentre tu stai comodamente seduto davanti al tuo computer a leggere fan-fiction, c'è una tastiera che soffre.
Ognuno di noi può fare qualcosa per aiutarla.
Puoi dire a quello scrittore che è incapace, o incoraggiarne un altro perchè non lo è.
Scrivi una recensione!
Non restare indifferente, il destino delle tastiere dipende anche da te!

Terzo intermezzo

Colpo di tosse. «Qualcosa non va»
«Perché?»
Un'altra occhiata al video, ma purtroppo quei numeri non sono cambiati: «Hanno i valori sballati»
«Quanto?»
«Guarda tu stessa»
Non è possibile. «Lei...»
«Già»
«...»
«...»
«Che cosa vuoi fare?»
«Se continua così, dovremo staccarla»
Occhi sgranati: «Stai... stai scherzando. Hai detto tu stessa che sarà estremamente pericoloso anche quando lo faremo al termine del ciclo. Figuriamoci adesso»
«Sì, ma chissà cosa sta succedendo là dentro» sospiro «Potrebbe essere l'alternativa migliore»
Nessuna risposta. Non ci sono risposte da dare.
«Lena?»
«Sì?»
«Lei sarebbe d'accordo»
«...»
«...»
«Aspettiamo ancora un po', K. Per favore. Magari si sistemerà tutto da sé»
«Voglio crederci»








Lizzy's Magic Corner:

Ciao a tutt*!
Sarò breve perché non ho granché da dire... Spero che abbiate apprezzato il capitolo (ancorché breve, come avevo annunciato) e che siate armati di pazienza perchè il prossimo potrebbe richiedere più di un mese per la pubblicazione. O forse molto meno, non lo so. Non vorrei sbilanciarmi troppo :D
In ogni caso, nel prossimo capitolo si sposterà finalmente l'obiettivo sugli Avengers a scoprire cosa stanno combinando dopo l'assalto alla base di K, quindi non perdetevelo!
Avviso: non so quanto mi spingerò in là perché fa impressione anche a me, ma potreste trovarvi davanti descrizioni che sfociano un po' nello splatter. Non dovrebbe essere nulla di disturbante in ogni caso e potrete tranquillamente saltare quelle parti se le riterrete eccessive (anche se non credo che le mie capacità descrittive siano tali da spingervi a queste misure di emergenza...)
Concludo con i miei soliti ringraziamenti: a GreekComedy e a Pouring_Rain11 per il loro feedback rapidissimo e tante altre cose; alle sedici persone che continuano strenuamente a seguirmi; a tutt* voi che mi leggete con una pazienza invidiabile.
Ci si vede presto, spero...
Che gli dèi siano con voi!
-Liz

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Capitolo 19
*** Nel nostro minaccioso sotterraneo ***


Nel nostro minaccioso sotterraneo
Pubblicità Progresso - Campagna No Profit
Ogni giorno uno scrittore incapace si sveglia e sa che dovrà inseguire una tastiera che fugge.
Ogni giorno una tastiera si sveglia e sa che dovrà correre più veloce di uno scrittore incapace.
Che tu sia scrittore o tastiera, comincia a correre.
Ma se sei un lettore no! Puoi fermare questo scempio!
Scrivi una recensione!
Non restare indifferente, il destino delle tastiere dipende anche da te!



Nel nostro minaccioso sotterraneo

Respira
l'aria pesante di paura
Respira
con l'ultimo sangue in gola,
il vomito nascosto dietro i denti,
sulla lingua acido bruciante
da cui non ti liberi
neanche con lo sputo.

Parla.
Non parlare,
loro non devono, non possono sapere.
Ma loro chi?
Loro chi?
Il nemico.
Ma il nemico è buono,
siamo noi i cattivi,
il nemico è clemente.

Forse non più.



L’uomo con i capelli neri lo fissava ormai da almeno mezz’ora, si disse Shad. Era fisicamente possibile per una persona rimanere perfettamente immobile per tutto quel tempo? Non ne era certo. Certo era che quel verde sfavillante degli occhi dell’altro aveva un che di accecante non per la sua luminosità ma per la sua intensità, come se avesse dovuto risucchiarlo dentro. Shad sentiva il bisogno di guardare altrove o almeno socchiudere gli occhi per proteggersi da quel verde, ma allo stesso tempo non avrebbe voluto per nulla al mondo farlo e perdere l’occasione di esaminare quell’uomo che sedeva di fronte a lui.
All’improvviso, senza che nulla fosse cambiato minimamente, l’uomo si alzò dallo sgabello su cui era seduto e sparì dalla sua vista. Shad provò a voltarsi per vedere dove fosse andato, ma si rese conto di essere legato alla sedia. Strano che non se ne fosse accorto prima, quel verde doveva averlo distratto. Strano che la cosa non lo facesse agitare per nulla, forse era ancora un po’ intontito.
Sentì sulla spalla un tocco leggero, quasi timoroso di fargli male, e sussultò. Una mano dalle dita ruvide gli si posò, delicata, sulla nuca: «Calma» disse l’uomo. Aveva una bella voce profonda che risuonava in quella specie di scantinato anche se stava sussurrando.
«È sveglio?» chiese una voce metallica da un altoparlante che Shad riuscì a individuare in un angolo della stanza nonostante la penombra che vi regnava. Non distingueva, però, se si trattasse di un uomo o una donna.
«Sì» rispose l’uomo alle sue spalle, con una sfumatura un poco più aspra nella voce.
Shad iniziò a rendersi conto che non era normale non essere agitato per quella situazione. Si trovava legato nello scantinato di qualcuno con un uomo che non conosceva e che avrebbe potuto fargli qualunque cosa e per di più parlava con un altoparlante collegato a chissà dove, eppure non sentiva nulla. Che cosa gli stava succedendo? Gli avevano insegnato a dominare le sue emozioni, non a non provarne affatto.
Si ricordò dell’attacco al suo stabilimento, lo scudo di Capitan America che lo tramortiva – se si concentrava, poteva ancora sentire il dolore alla schiena per la brutta caduta – e poi più niente. Era prigioniero dei Vendicatori? No, era ridicolo, quella gente non prendeva prigionieri, al massimo portava i feriti all’ospedale. Quell’uomo dai capelli neri era uno di loro? Non gli sembrava di averlo mai visto prima. O forse dall’altra parte dell’altoparlante c’era qualcuno degli Avengers? Non era normale che la situazione non lo rendesse neanche nervoso, continuava a ripetersi.
L’altoparlante si accese di nuovo: «Collega la telecamera. Vogliamo vederlo»
Shad sentì un po’ di movimento alle sue spalle e poi un leggero clic. La mano dell’uomo non aveva abbandonato la sua nuca. Gli dava un senso di sicurezza, come una piccola ancora di certezza in quel mare di dubbi.
«Signor Bradbury» lo salutò la voce metallica «Speriamo che la sistemazione sia di suo gradimento. Deve capire, c’è stato bisogno di sistemare tutto di fretta»
Shad avrebbe voluto rispondere, ma non avrebbe saputo cosa dire e poi si sentiva come incapace di articolare qualsivoglia suono. Non riusciva proprio a muovere le labbra, che nonostante i suoi sforzi rimanevano appena dischiuse, abbastanza da far passare l’aria. Stava respirando con la bocca: se ne accorse in quel momento, ma non poté farci nulla.
«Non si preoccupi se non può rispondere. Non è colpa sua, si tratta del sedativo che le ha somministrato Edward. Ha degli effetti diversi dai normali farmaci di questo genere, ma d'altronde viene direttamente dal nostro laboratorio»
Shad non riusciva neanche più a pensare coerentemente e tutto si riduceva a frasi sconnesse nella sua testa, ma di emozioni neanche l’ombra. Soltanto confusione, come una maledetta spirale in cui vorticavano i suoi pensieri.
Edward. Quindi si chiamava così l’uomo che c’era nella stanza con lui.
Gli aveva somministrato un sedativo. Questo spiegava perché non riuscisse a muoversi.
Ma non gli riusciva di capire perché l’avessero portato lì.
Chi fossero.
Cosa volessero da lui.
No, anzi, quello lo sapeva.
Edward si allontanò da lui e tornò a sedersi sullo sgabello dov’era quando Shad si era svegliato. Qualcosa gli si attorcigliò dentro quando sentì la mano di Edward lasciare la sua nuca: non era esattamente nervosismo, era molto più blando, una sorta di inquietudine che lo riportò bruscamente alla realtà, ma era già qualcosa. Era ancora in grado di provare emozioni.
«In attesa che ritorni abbastanza cosciente da poter rispondere alle mie domande, mi presento e ti spiego un paio di cose» disse Edward, fissandolo con gli occhi di chi avrebbe potuto benissimo strappargli il cuore a mani nude e non perdere neanche un filo del proprio autocontrollo. Shad sentì come un tremito interiore quando incrociò il suo sguardo, ma riuscì a controllarlo.
«Innanzitutto, mi chiamo Edward Devlin» continuò l’altro, mentre gli si dipingeva sul volto un sorriso che a Shad non piacque per nulla «O comunque ti basti conoscere questo nome. Puoi chiamarmi signor Devlin, niente di più. Spero che ci siamo intesi»
La sua voce continuava a mutare di tono, come quella di un attore che cerca l’intonazione migliore da dare a un testo che legge per la prima volta. Nelle ultime frasi, Shad aveva percepito una specie di larvata minaccia, benché pronunciata con il sorriso. Era come se i suoi occhi si fossero illuminati pronunciando le ultime parole, con una punta di divertimento su cui Shad non ci teneva per nulla a indagare oltre.
«Com’è andata con l’altra, Edward?» chiese la voce dell’altoparlante. Quella volta Shad fu quasi sicuro che si trattasse di un uomo.
Il signor Devlin sbuffò: «Mi ha fatto quasi perdere la pazienza e non mi è piaciuto il metodo che abbiamo dovuto usare, anche se era evidentemente il più adatto. Mi è dispiaciuto per lei, ma era fragile, troppo fragile»
«L’abbiamo scelta apposta»
«Lo so, anche se aveva poco da dire è stata una buona scelta, non me ne pento. Ma lo sapete che mi diverto di più se la situazione è un po’ diversa» di nuovo quel tono strano di voce. Shad sentì il bisogno di distogliere lo sguardo da quegli occhi verdi che scintillavano troppo e lo inquietavano.
Da un lato continuava a ripetersi che era meraviglioso tornare a provare emozioni: si era sentito quasi menomato allo scoprire che non riusciva neanche a innervosirsi. D’altro canto, però, avrebbe preferito non potersi agitare perché gli sembrava una situazione in cui i nervi saldi avrebbero potuto aiutarlo.
Edward si alzò e si accovacciò vicino a lui in modo da incrociare di nuovo il suo sguardo: quella volta Shad non osò guardare altrove. «Conosci Nancy Daniell?» chiese Edward, piegando appena la testa di lato come un bambino.
Shad ancora non riusciva a rispondere, ma a sentire quel nome aveva aperto gli occhi appena un po’ di più: l’altro capì che si trattava di un sì. Edward spiegò che aveva parlato anche con lei. «È una brava ragazza» aggiunse «Un peccato. Davvero un peccato»
Si rialzò in piedi e con un enorme sforzo Shad riuscì a seguirne con la testa il movimento, chiedendosi a cosa si riferisse l’altro. Aveva ripreso controllo almeno dei muscoli del collo: poco per volta ce l’avrebbe fatta.
«Ancora qualche minuto e riuscirai a parlare» disse Edward, notando il suo movimento. Shad si chiese se quell’informazione fosse per lui o piuttosto per l’uomo dall’altra parte dell’altoparlante.
«Ora, io immagino che tu abbia firmato un qualche accordo di segretezza con la tua azienda» vedendo che l’altro annuiva lentamente, continuò «e suppongo che noi siamo quanto di più simile a un concorrente la CloaK possa avere. Nonostante ciò, io non mi preoccuperei eccessivamente di quell’accordo e di cosa potrebbe farti l’azienda, se fossi in te, perché a breve ne rimarrà così poco che avrà certamente altro per la testa che venire a cercare te»
Shad deglutì, cercando di ritrovare la voce. Quella minaccia non era velata. Non era stata pronunciata con un qualche tono accomodante o con il sorriso sul volto, come le precedenti. Era semplicemente un’affermazione: loro avrebbero ridotto in briciole la CloaK, e lui non aveva alcuna voce in capitolo.
«Voi… chi?» riuscì infine a dire, strappando al signor Devlin un sorriso compiaciuto dalla sua ritrovata capacità di parlare.
«Sono stato così scortese da non presentarmi come si deve?» chiese fingendo stupore Edward, poi, senza aspettare la risposta continuò «I Vendicatori naturalmente, lavoro per loro»
«Lavora?» ripeté Shad, sillabando la parola come un bambino alle prime armi con la lettura.
«Sicuro, mi pagano per ottenere le informazioni che servono loro. Poi che io ami il mio lavoro è una questione totalmente secondaria»
«Informazioni… da me?»
Edward annuì, poi gli si avvicinò e gli prese una mano. Era piacevole il contatto con le sue dita, notò nuovamente il prigioniero, nonostante la ruvidezza della pelle avevano qualcosa di rassicurante. Ce n’era proprio bisogno, visto che tutto il resto era l’esatto opposto.
«Prima che tu dica qualcosa di stupido, ad esempio che non tradirai mai la CloaK o qualcosa del genere, lascia che ti spieghi una cosa. Tu mi dirai quello che mi serve, che tu lo voglia o meno. Non è qualcosa che dipenda da te. Ciò che puoi decidere è la quantità di dolore che vuoi sopportare prima di iniziare a parlare»
Shad sorrise, notando che i movimenti sembravano farsi più facili di secondo in secondo. Con la stessa rapidità lo stavano inondando le emozioni e ormai era certo che quello non gli faceva altrettanto piacere. Aspettò che il cuore rallentasse un poco, poi rispose: «Soltanto per curiosità: c’è mai stato qualcuno che abbia ceduto dopo questa presentazione? Perché non è la prima volta che sento un discorso simile»
«Alla fine mi dirai se sarà stata tutta roba già vista» concluse il signor Devlin «Direi che possiamo considerare i convenevoli terminati»
«Sì, nonostante la buona compagnia non vorrei rischiare di annoiarmi» sorrise ancora Shad.
«Adoro il buon umore» rispose Edward, con la voce scesa ancora di un tono.

Edward aveva detto di volerlo conoscere meglio, poi era tornato a sedersi di fronte a lui e aveva tirato fuori da chissà dove una serie di appunti inquietantemente simili a una cartella clinica.
«Allora» cominciò a leggere «Shad Bradbury, quarantuno anni, orfano dall’età di ventuno, figlio unico con nessun legame con il mondo che ti circonda. Niente fidanzate o fidanzati, niente amici, non frequenti abitualmente neanche un pub»
«Mi piace cambiare. E sono astemio»
Il signor Devlin continuò, sollevando appena un angolo della bocca alla sua risposta: «Congedato dall’esercito per problemi psicologici, hai abbandonato completamente quell’ambito per entrare nella CloaK»
«Sì, conosco il mio curriculum»
«Peccato che di norma la tua azienda assuma personale altamente specializzato in campi che non c’entrano niente con il tuo. Biologi, ingegneri, medici e infermieri… Tu cosa hai da spartire con tutta questa gente?»
«Serve sempre qualcuno che faccia il lavoro manuale, anche con tutti gli ingegneri del mondo a tua disposizione»
«Che cosa contempla questo lavoro manuale?» era ridicolo, ma Shad ebbe come l’impressione che la questione interessasse veramente all’altro, che non stesse soltanto raccogliendo le informazioni che gli avevano chiesto.
«Montaggio e smontaggio di parti meccaniche. Lavoro da operaio, niente di più» Edward annuì e Shad abbassò gli occhi a guardarsi le mani legate, chiedendosi se fosse suonato abbastanza convincente.
Prima che potesse rendersi conto di cosa fosse successo, sentì il respiro mozzarsi, ma quando aprì la bocca per riprendere aria scoprì che qualcosa gli stringeva la gola. Alzò lo sguardo solo per incrociare gli occhi verdi di Edward che scintillavano come non mai.
«Non vuoi mentirmi, Shad» bisbigliò l’altro, la stretta d’acciaio attorno alla gola di Shad era così ferma che sembrava esserci sempre stata «Davvero, non vuoi vedere cosa succede se lo fai»
Shad cercò di muovere il collo all’indietro, ma lo schienale della sedia lo bloccava. I secondi scorrevano inesorabili, era troppo tempo che non respirava, si sentiva la testa esplodere. Provò a far forza sulle braccia, ma riuscì soltanto a strappare a Edward un sorriso divertito. Quando iniziò a vedere macchie nere davanti agli occhi, li chiuse e si abbandonò all’indietro.
Fu allora che l’altro mollò la presa. Prima ancora che Shad se ne fosse accorto, aveva spalancato la bocca e cominciato ad ansimare: il suo corpo aveva un istinto di sopravvivenza decisamente migliore di lui. Gli girava la testa e si sentiva cadere anche se sapeva perfettamente di essere seduto.
Quando riprese il controllo, vide che l’altro era tornato a sedersi e aveva preso a scrivere sulla cartella. Era mancino, notò, con una lucidità che lo stupì.
«Riproviamo» disse Edward alzando gli occhi su di lui. Shad sentì di nuovo un tremito dentro di sé. È brutto avere paura, pensò.
«Parlami del progetto Terminator» chiese il signor Devlin.
Shad gli sorrise, rispose «Non ne so nulla», e prese fiato, preparandosi a sentirsi di nuovo strangolare. Non avvenne niente di simile. Edward rimase immobile a fissarlo per quella che a Shad parve un’eternità. Forse gli stava dando il tempo di cambiare idea.
Quando infine era giunto alla conclusione che niente sarebbe più mutato e sarebbero rimasti in quello scantinato per tutti i giorni a venire, Edward lo colpì. Non che Shad non se lo aspettasse del tutto, ma pensava che l’altro avrebbe mirato al viso, invece gli diede una ginocchiata all’imboccatura dello stomaco.
Il suo riflesso naturale sarebbe stato di piegarsi in avanti e indietreggiare, ma era legato e l’unica conseguenza del colpo che aveva ricevuto fu che la sedia su cui era seduto oscillò pericolosamente all’indietro a causa dell’impatto. Ebbe la sensazione di stare per vomitare e sentì in bocca un sapore acido che gli diede ancora più la nausea. Cercò di prendere fiato per riprendere il controllo e fu colto da un accesso di tosse.
Non si accorse del secondo colpo in arrivo perché gli lacrimavano gli occhi e li aveva socchiusi per via della tosse: sentì soltanto la testa voltarsi verso la spalla sinistra e subito dopo il dolore al volto e al collo. Sputò per terra nel tentativo di liberarsi dell’acido che sentiva sulla lingua. Sollevò lo sguardo verso Edward e vide la tranquillità con cui l’altro lo guardava, come se invece di dargli un pugno gli avesse appena assegnato un progetto di scienze per la settimana successiva.
Se ne accorse in quel momento: il suo carceriere assomigliava decisamente a un professore delle superiori di cui Shad non aveva un ottimo ricordo. Non che questo migliorasse la situazione, pensò, ma almeno aveva finalmente identificato di chi fosse quell’immagine che riemergeva nella sua memoria ogni volta che guardava Edward.
Il secondo pugno seguì al primo non appena Shad alzò di nuovo gli occhi a incrociare quelli del signor Devlin. Il terzo arrivò senza neanche dargli il tempo di rendersi conto di che cosa gli stesse accadendo. Così avvenne con il quarto, il quinto, il sesto, fino al decimo, dopo il quale perse il conto. Era troppo concentrato ad analizzare quanto precisamente si sovrapponessero i colpi l’uno sull’altro. Era troppo occupato a non chiedergli di fermarsi, a non dichiararsi pronto a dirgli tutto.
Non era un debole, continuava a ripetersi quando prendeva fiato dopo aver ricevuto un altro pugno, non era come Nancy. Era davvero una brava ragazza, Nancy, non sarebbe mai dovuta finire là dentro. Shad, invece, lui era stato addestrato per quello, il dolore non avrebbe dovuto neanche intaccarlo. E allora come mai gli sembrava sempre più difficile non iniziare a raccontare ciò che sapeva su quel progetto? Era psicologico, pensò, era tutta quell’atmosfera. Doveva staccarsi da quella pressione che Edward gli stava facendo e ricordarsi che aveva una missione, un compito.
A un certo punto Edward si arrestò, senza un vero motivo. Shad non sapeva da quanto andassero avanti. Tutto ciò che poteva capire in quel momento era strettamente legato alle sue percezioni sensoriali: sapeva che a un certo punto i colpi avevano iniziato ad arrivare da entrambe le parti, che non riusciva a sollevare le palpebre e che sanguinava in viso. Il resto gli era oscuro. Isolarsi dall’ambiente circostante portava anche a quello.
«Sai» la voce di Edward sembrava arrivare da chilometri di distanza «Un po’ mi dispiace. Voglio dire, questa specie di pestaggio… non te lo meritavi veramente. Non era parte dell’interrogatorio, in realtà. È il genere di tortura che si rivela tendenzialmente inutile: se qualcuno cede per questi quattro colpi, probabilmente avresti potuto farlo cedere senza alzare un dito, che se permetti è molto più divertente. In tutti gli altri casi, è stato abbastanza inutile, no?
Devo ammetterlo, in realtà l’ho fatto per sfogarmi, stavo accumulando troppa tensione a causa del comportamento della tua amica. Mi piace il mio lavoro, davvero, ma a volte le condizioni non sono ottimali» Shad non comprendeva veramente il discorso di Edward, ma era bello avere un suono a cui aggrapparsi «Voglio essere onesto con te: mi stai simpatico, mi piaci, anzi. In altre circostanze avremmo potuto chiacchierare, forse ti avrei chiesto di uscire.
Credo di aver capito come ragioni, perciò lascia che ti spieghi subito la situazione in modo più conciso di prima: non sono un mafioso di un qualche film, né un torturatore dilettante. I pestaggi, i classici tagli sul corpo, persino gli stupri e le altre cose un po’ più elaborate… non fanno per me. Io prendo molto seriamente il mio lavoro, non do spettacolo per una telecamera»
Shad aprì piano gli occhi e lo guardò, confuso: non riusciva a capire dove volesse arrivare.
«Sai molto più di quanto dici» continuò Edward, passandogli un dito sul labbro inferiore per poi pulirlo su uno straccio. Uno dei pugni doveva averlo tagliato, perché Shad sentiva il sangue continuare a fuoriuscire «di certo sei un minimo informato su questo genere di cose. Te lo dico chiaro e tondo: c’è una stanza, vicino a questa, con l’attrezzatura per una tortura specifica»
«Che tortura?» riuscì ad articolare Shad tra le labbra spaccate, sentendo sulla lingua il sapore del proprio sangue.
«Gli americani la chiamano waterboarding» rispose Edward, rivolgendo un angelico sorriso ai suoi occhi traboccanti di terrore «Deduco che tu lo conosca»
«Guantanamo Bay» sussurrò Shad.
«Precisamente»
Il prigioniero scosse lentamente la testa: «Non ci credo»
«Mi sottovaluti» rise il signor Devlin «Ma capisco che tu non ti fidi. Ti porterò a vederla. Puoi fermarmi quando vuoi e raccontarmi ciò che sai, ricordatelo»
Dopo un tempo che Shad non seppe quantificare, ma immaginò essere stato molto breve, la porta si aprì e due persone entrarono. Erano uomini, alti, con il genere di fisico in grado di fargli rinunciare a qualunque pensiero di fuga, se mai fosse stato in grado di formularne alcuno. Uno dei nuovi arrivati aveva i capelli biondi, quasi gialli, lunghi fino alle spalle, l’altro invece li aveva corti, non riusciva a vederne il colore. Per il resto, gli sembravano uguali da dietro le palpebre socchiuse.
«Ti aspetto qui» gli mormorò all’orecchio Edward. Shad non riuscì a sorridergli in risposta.

 
 
 
 -Nancy? Sono qui per aiutarla-
 





Lizzy's Magic Corner:
Ciao a tutt*!
Vi chiedo innanzitutto scusa per il mostruoso ritardo. Ho avuto una serie di casini, interrogazioni terrificanti e viaggi vari che si sono sovrapposti, ma la verità è che questo capitolo non mi andava di scriverlo e quindi ho temporeggiato moltissimo. Perché? Beh, perché la tortura non mi va per nulla. Da un lato volevo farvi vedere quanto in basso stessimo cadendo, dall'altro una parte di me piangeva al pensiero di cosa stessi scrivendo.
Per prima cosa, lasciate che vi dia un consiglio: se non sapete che cosa sia il waterboarding (e vi auguro di non saperlo) non e ripeto NON andate a cercarlo. Ho fatto fatica a dormire dopo aver scoperto di che cosa si trattasse. Vi basti sapere che è abbastanza da far ammettere qualunque cosa a chiunque. No, davvero, fatevelo bastare, lo dico per voi, gente.
Eeeh Loki aveva ragione, forse gli ospiti dell'Avengers Facility in questo momento vorrebbero trovarsi da tutt'altra parte! Wanda farebbe meglio ad ascoltarlo, la prossima volta.
Poi... vediamo un po', che altro c'è da dire? Ah sì, volevo comunicarvi che in un universo parallelo che esiste soltanto nella mia testa i due protagonisti di questo capitolo vivono felicemente sposati con prole (non entro nel merito di che cosa fanno in camera da letto), nel senso che per come li ho immaginati i loro caratteri sono perfettamente compatibili, se non fosse che le circostanze hanno portato uno a diventare un torturatore professionista e l'altro... Beh, non voglio fare troppe anticipazioni!
Riguardo al nuovo capitolo (che spero di portare a termine molto più in fretta di questo, ma purtroppo ultimamente l'ispirazione e la voglia di scrivere litigano...) posso dirvi che sarà quasi certamente l'immediato seguito di questo. Pensavo di spiegarvi qualcosa sulla CloaK (nonostante dare spiegazioni non sia per nulla nel mio stile, ehm ehm...) e magari presentarvi l'adorabile Nancy, ma per ora è tutto molto nebuloso.
So che non vi interessa, ma volevo soltanto bearmi del fatto che il primo capitolo di questa storia ha superato le 1000 visualizzazioni e io sono una bimba felice.
Stiamo ritornando ai livelli delle Note dell'Autrice più lunghe del capitolo, quindi sarà meglio che tagli corto: grazie a GreekComedy che è tipo il centro nevralgico della mia esistenza da fangirl (questo è l'ombelico del mondoooo), a Pouring_Rain11 per la sua pazienza nell'attendere gli aggiornamenti e recensire sempre tutto (imparate, gente, imparate), alle 11 persone che seguono la storia e ai 6 che l'hanno messa tra le preferite nonché a tutt* voi che leggete :)
Basta, mi sto annoiando da sola: ci si sente (spero) il mese prossimo, nel frattempo vi ricordo che recensioni e MP sono totalmente gratuiti ^^
Che gli dèi siano con voi!
-Liza

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Capitolo 20
*** Nella tua mente ***


20Nella_tua_mente
Pubblicità Progresso - Campagna No Profit
Il mio nome è Board, Key Board.
Vivo in casa di uno scrittore totalmente privo di talento, ma ostinato come un mulo.
Sfruttando un suo momento di distrazione, rivolgo un appello ai lettori, a nome mio e di tutti i componenti del suo computer.
Le vostre recensioni sono importanti.
Sono l'unica cosa che potrebbe salvarci dalla sua tortura.
Fate qualcosa.
Recensite.

Nella tua mente

Nella tua mente
ho guardato una volta soltanto.
C'era dolore,
ma non era da solo,
c'erano urla,
urla di persone,
c'erano incubi,
che mi tormentano ogni notte.

Nella tua mente
non mi importa cosa ci sia,
perché nella tua mente
non voglio mai guardare.
Voglio soltanto
che accetti il mio aiuto,
che accetti il mio amore.

Nella mia mente
non so più cosa succeda.
Ci sono persone
che non vorrei lì,
ci sono ricordi
che tralascerei volentieri,
ci sono incubi,
o almeno me li aspetterei.

Dopo aver messo Wanda a riposare, Loki era corso subito da lui, pronto a dare a James il sostegno di cui aveva bisogno, ma l’altro non lo aveva voluto e aveva preferito chiudersi in un sofferente mutismo. Loki era rimasto immobile a fissarlo per minuti che erano parsi secondi o forse ore, indeciso sul da farsi.
L’asgardiano non era molto esperto di sogni. Quando era adolescente, a volte aveva accarezzato con la mente il pensiero di scoprire cosa abitasse la testa di suo fratello mentre dormiva, ma sua madre si era raccomandata di non farlo mai e perciò si era sempre trattenuto. Si era accorto, però, che James si stava impedendo di dormire per paura di ciò che avrebbe sognato e aveva deciso che valeva la pena fare almeno un tentativo di aiutarlo. Alla fine aveva finto di addormentarsi e aveva atteso che anche James cedesse al sonno.
 Non appena sentì il respiro dell’altro cambiare ritmo, si mise all’opera. Sfilare i sogni gli dava una sensazione strana, forse dovuta anche al fatto che Loki era stato all'interno della mente di James All’inizio fu dura, soprattutto perché si era imposto di non spiare i sogni, ma di eliminarli soltanto, uno alla volta, ma infine riuscì nel proprio intento. Il respiro rilassato e regolare di James suonava come un ringraziamento alle sue orecchie. Rimase sveglio tutta la notte a vegliare sul suo sonno.
Fu soltanto il mattino dopo, quando si rese conto che James si stava svegliando, che si concesse di crollare addormentato e approfittare delle poche ore di sonno che sarebbe riuscito a strappare alla propria mente e agli incubi.

James si era sentito in colpa per essersi rifiutato di parlare con Loki di come si sentiva, ma non aveva potuto fare altrimenti: non appena l’aveva visto avvicinarsi si era istintivamente chiuso in se stesso, come se fosse stato Loki il pericolo. L’altro non aveva pronunciato una sola parola, lasciandogli la libertà di scegliere se parlare e cosa dire, ma James aveva preferito tacere e far passare il tempo specchiandosi nel verde preoccupato degli occhi dell’asgardiano.
Dopo che Loki era crollato addormentato sulla sedia di fronte alla sua, era rimasto a fissare i suoi capelli scuri che gli ricadevano davanti al viso. Si era proibito di dormire, o avrebbe rischiato di vivere ancora una volta la tortura di quando la strega aveva attraversato la sua mente.

Svegliandosi, scoprì che infine si era addormentato. Si rallegrò un poco del fatto di non aver sognato nulla, per una volta, e si chiese se fosse stata opera di uno degli altri due: erano entrambi incantatori e probabilmente capaci di qualcosa di simile.
Concluse velocemente la lotta mentale con i propri muscoli che si lamentavano per la scomoda posizione in cui aveva dormito tutta la notte e si alzò in piedi. Si stirò con cautela le braccia e la schiena e poi andò a cercare la stanza in cui Loki aveva messo la strega a dormire.

L’autunno era ormai inoltrato, quindi la notte era stata alquanto fredda, ma Wanda aveva dormito così profondamente da non accorgersene, nonostante il pomeriggio prima si fosse coricata sul sacco a pelo invece che dentro. Probabilmente era così stanca che non aveva notato la differenza.
Aveva dormito parecchie ore, più di quanto si sarebbe aspettata. Non era stato un sonno tranquillo, però: tutto ciò che era successo nella sua mente prima e in quella del Soldato d’Inverno poi le aveva impedito di riposare. A un certo punto della notte, non avrebbe saputo dire quanto tempo dopo essersi addormentata, aveva sentito la voce di Pietro nei propri sogni e aveva capito di essersi messa in contatto con lui.
Suo fratello l’aveva riconosciuta, cosa che non poteva che riempirla di gioia, ma la connessione stabilita aveva trasmesso anche a lui il dolore e la confusione che animavano i sogni di Wanda e alla fine era stato meglio interromperla e lasciare che Pietro si svegliasse o ritrovasse un sonno tranquillo.
Una volta sveglia, aveva scoperto che, nonostante gli incubi e tutto il resto, quel sonno l’aveva aiutata a recuperare le energie. Non se la sentiva di alzarsi in piedi, però, per paura di scoprire che le gambe non erano ancora in grado di sorreggere il suo peso.
Infine aveva deciso di mettersi a sedere con le gambe incrociate e di guardarsi intorno. La stanza era molto ampia e aveva il soffitto alto: probabilmente, si disse Wanda, l’edificio era un vecchio capannone industriale, in disuso da chissà quanto tempo. I muri erano originariamente grigio chiaro, ma erano pieni di macchie scure e pezzi di intonaco che erano saltati, rendendo ancora più desolato l’insieme.
A completare il tutto c’era una piccola apertura di forma quadrata nel muro, più o meno all’altezza di un metro e mezzo, che mostrava ancora i segni dell’intelaiatura di una finestra che doveva essere stata divelta anni prima.
Una volta che era stato abbandonato, il capannone era stato probabilmente vittima di varie incursioni dei giovani dei dintorni, che avevano lasciato diversi graffiti a testimonianza del proprio passaggio. Wanda si chiese dove si trovassero e quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che qualcuno aveva messo piede nell’edificio per restarci più di qualche ora. Sembrava il set di uno di quei film horror che Pietro voleva sempre vedere anche se gli facevano paura e poi aveva gli incubi per settimane.

James trovò la strega seduta sul sacco a pelo, mentre guardava fuori da quella che era stata una finestra. Volgeva la schiena alla porta, quindi non si accorse subito di lui. James prese fiato per dire “Ti sei svegliata”, ma poi si accorse che erano le stesse parole con cui l’aveva salutata l’ultima volta, all’interno della propria mente, e rimase in silenzio.
Wanda si voltò di scatto sentendo il suo respiro interrotto a metà. I loro occhi si incontrarono esitanti, come se nessuno dei due avesse davvero voluto guardare l’altro.
La strega distolse immediatamente lo sguardo. Forse lei invece aveva fatto degli incubi, si disse James, o forse le era bastato ciò che aveva visto il giorno prima. Non ci teneva a saperlo.
«Mi dispiace» mormorò Wanda, alzandosi in piedi.
James avrebbe voluto chiederle se fosse stata lei a permettergli di dormire sonni tranquilli, ma poi si disse che saperlo non era così importante e decise di tacere perché non aveva nulla da rispondere a quelle scuse.
«Devo andare» aggiunse la giovane.
«Ce la fai?» chiese James. Si stava di nuovo preoccupando per lei, notò, era strano. Dopo tutto quello che la strega gli aveva fatto soffrire, avrebbe voluto che non gliene importasse nulla. Anzi, non avrebbe dovuto importargliene nulla.
Invece si scopriva nel petto un ansito di preoccupazione per le sue condizioni. Forse era perché Loki ci teneva tanto che lei stesse bene o forse perché sapeva che il dolore del giorno prima non era stata veramente colpa di quella ragazzina che sembrava quasi più ferita di lui. In effetti, sapendo quali ricordi si era trovata davanti agli occhi, non aveva dubbi che dovesse essere scossa.
«Non sto benissimo, ma mi riprenderò» rispose Wanda, stringendosi nelle spalle «Non posso restare»
James annuì e pensò che aveva perfettamente ragione e che, nonostante una parte della sua mente si stesse interessando di come stava la strega, non la voleva lì, anche se non voleva indagare troppo sul perché. Ripensò allo scambio di sguardi e gesti che c’era stato tra lei e Loki quando si trovavano all’interno della sua mente. No, si disse, non poteva essere quello. Era stupido pensare che si trattasse di gelosia.
Era meglio non sapere perché la volesse lontana, concluse. In fondo, lei per prima aveva detto di non poter restare là. James si raccontò la storia che si trattasse soltanto di una questione di sicurezza: se fosse rimasta troppo a lungo, li avrebbero certamente scoperti.
Wanda si chiese se ci fosse altro da dire, ma non le venne in mente nulla. Guardò il Soldato d’Inverno ancora una volta e gli fece un cenno con la testa che voleva essere in parte un saluto e in parte una richiesta di scuse, e forse qualcos’altro di cui non era sicura. Forse un ringraziamento.
Sorprendendola, Barnes le rispose con una specie di cenno d’assenso che Wanda non seppe interpretare, ma le bastò. Lo seguì fino all’uscita di quel capannone industriale abbandonato da un po’ troppo tempo e poi se ne andò senza più voltarsi indietro.
Nello spiccare il volo con la forza dei propri poteri, per sollevarsi abbastanza da capire dove si trovasse, le tornarono in mente le parole ambigue con cui Loki aveva alluso alle condizioni dei prigionieri alla Avengers Facility.
Doveva tornare dai Vendicatori, si ripeté. Le serviva soltanto quello: rivedere quelli che ormai erano i suoi amici, parlare con Visione dei propri dubbi e sentire le sue frasi misurate che la riportavano alla tranquillità, ricominciare gli allenamenti con Sam, tornare alla normalità. Non era una normalità molto diffusa, ma era la sua normalità.
Eppure, sentiva qualcosa di sbagliato, una specie di grumo alla fine dello sterno, che le diceva che il motivo per tornare era anche e soprattutto un altro. Perché le parole di Visione non sarebbero bastate a tacitare quei dubbi assillanti: aveva bisogno di vedere che andava tutto bene. Aveva bisogno di provare a se stessa che Loki aveva torto, perché doveva avere torto.

Gli incubi del Signore degli Inganni erano spesso monotoni. Non che questo lo aiutasse a riposare un po’ meglio, sia chiaro, ma aggiungeva quella sfumatura di anticipazione che rendeva forse ancora peggiori quei momenti. Loki sapeva già che in quel momento sua madre gli avrebbe rivolto uno sguardo disgustato, o che in quell’altro il trono di Asgard su cui sedeva aveva cominciato a divenire freddo e così tutto ciò che lo circondava, fino a che l’intero regno non fosse diventato una distesa di ghiaccio.
Vivere ogni secondo di quegli incubi con la certezza di cosa sarebbe venuto dopo e con la consapevolezza che nonostante fosse soltanto un sogno non aveva alcun modo di svegliarsi, quella era una delle torture peggiori di tutto il sonno di Loki. O almeno, così aveva sempre creduto.
Quella mattina, invece, vide delinearsi la figura di James all’interno del sogno. Non anche lui, si disse, non voleva che la sua immagine fosse corrotta dal fumo dell’incubo. Invece la scena proseguì, mentre l’unico uomo che avesse mai amato lo rifiutava, gli voltava le spalle, se ne andava cento volte abbandonandolo come avevano sempre fatto tutti.
Erano al pub dove si erano incontrati per la prima volta, il Passato alle Spalle –che nome assurdo–, poi a casa di James, poi all’albergo Montage Beverly Hills, ad Asgard, in quel capannone dove si trovava anche il corpo di Loki in quel preciso momento. Mille posti diversi, ma lo stesso dolore al vedere quegli occhi azzurri fissarlo insofferenti e infine voltarsi dall’altra parte.
Fu quell’angoscia che lo fece svegliare. Per prima cosa si guardò intorno, ma non vide James. Aveva imparato da tempo a separare le immagini nebulose che vedeva in sogno da ciò che avveniva nella realtà, quindi sentì soltanto un ansito di preoccupazione in più di quella che avrebbe avuto normalmente.
Decise di andare a cercarlo: riprese completamente controllo della propria mente e delle proprie azioni e fece per alzarsi, ma proprio in quel momento l’altro si materializzò nella cornice della porta.
«Sei sveglio» osservò James «La signorina Maximoff è andata via qualche ora fa. Non si era ancora ripresa del tutto, ma se la caverà»
«E tu come stai?» chiese Loki, stiracchiandosi il collo come un felino.
James fece una smorfia: «Secondo te?»
«Cosa hai fatto per tutto questo tempo?»
«Come sai che non dormivo?»
Loki si strinse nelle spalle sospirando, evitando di raccontargli ciò che aveva fatto quella notte e di conseguenza il momento in cui aveva sentito che James si stava risvegliando: «Non hai l’aria di uno che si è appena svegliato»
L’altro lo guardò per qualche attimo, dubbioso, ma infine rispose: «Sono stato fuori. A camminare. Dovevo pensare»
«Vuoi parlare?»
James scosse la testa, dicendosi che non sarebbe stato comunque capace di trovare le parole per fargli capire cosa sentiva.
«Hai voglia di bere?» propose allora l’altro.
Barnes lanciò un’occhiata all’orologio: mancava un’ora a mezzogiorno.
«Alle undici della mattina?» chiese, sollevando un sopracciglio.
«Dici che è tardi?» rispose Loki, fingendo preoccupazione «Non lo dirò in giro, promesso»
James cercò di reprimere un sorriso, ma non riuscì molto bene.
«Visto? Ti ho fatto ridere» disse l’asgardiano, con un’espressione rilassata in viso. James doveva concederglielo, stava davvero facendo del proprio meglio.
«Forse è meglio parlare, a questo punto» disse, scuotendo la testa con un sorriso esasperato.
«Come preferisci» rispose Loki e James capì che gli stava davvero lasciando la scelta. Gliene fu grato. Tornò alla sedia su cui aveva dormito, dall’altro lato del tavolo rispetto a Loki, e lo guardò.
«Mi spieghi una cosa?» chiese.
Loki annuì e non disse nulla per non interrompere il filo dei pensieri dell’altro.
«Perché?» James si bloccò per cercare le parole «Voglio dire… Mi hai raccontato di ciò che provi per me. Mi ha raccontato di come è cominciato tutto. Mi hai detto che cosa ti ha colpito in me che non avevi mai trovato in nessun altro. Ma non ho ancora capito perché tu abbia deciso di farti carico di stare accanto a questo rottame di uomo che sono»
Loki parve sorpreso: «James, tu non sei questo. Non sei soltanto questo. Io l’ho visto. Non mi sono fatto carico di nulla, ti sto vicino perché lo voglio. Dopo che ti ho raccontato tutto ciò che provo, credo che tu possa capire che ne ho bisogno»
«Ma tu… Tu non te lo meriti» non voleva che la sua voce si spezzasse, quindi si fermò un attimo per respirare più a fondo «Tu dovresti avere qualcuno che ti possa sostenere, non che ti trascini sempre più giù. È come se stessi avanzando con un ferito grave caricato sulle spalle senza poter fare nulla per aiutarlo. Per quanto tu possa tenere a lui, ti rallenterà sempre e le probabilità che guarisca sono minime»
Il Signore degli Inganni posò delicatamente la punta delle dita sul braccio metallico di James: «Prima di tutto, io non merito nulla. Io e il destino abbiamo già avuto molto da ridire e quindi credo di non poter pretendere niente dal suo aiuto. Il tuo aver accettato di avermi vicino è già stato un regalo più grande di quanto avrei mai potuto pensare. Tu non mi rallenti, James, non sei un ferito grave in punto di morte. Sei l’unica persona che mi impedisca di bloccarmi completamente o affondare»
James sorrise e abbassò gli occhi, quasi imbarazzato. Spostò la sedia un po’ più vicina a quella di Loki, muovendosi senza scatti in modo che l’altro non togliesse la mano dal suo braccio.
«Quando è uscita dalla mia mente» raccontò infine «la strega è passata attraverso dei ricordi. Molti erano dolorosi. Persone che ho visto morire. Spesso per mano mia. La caduta dal treno. Le operazioni. Ha visto praticamente tutto. Ha visto dei ricordi che sono dolorosi adesso perché sono distanti. Dei ricordi di Steve»
Loki non disse nulla, mosse soltanto lievemente le dita della mano che aveva posato sul braccio metallico, in una sorta di carezza. James non sapeva quanto consciamente l’avesse fatto.
«In quel momento stavo gridando perché il dolore era quasi insopportabile e poi rivedere tutto quanto mi faceva male» continuò «Ma vederli così mi ha fatto anche capire quanto sono distanti. Erano parte di un’altra vita. Quando ci ripenso, non mi sembra neanche che fossi io ad agire e tutto questo mi confonde. Non so cosa penso al riguardo, come mi sento. So soltanto che forse potrei andare avanti»
La sedia di Loki scricchiolò quando lui la spostò per avvicinarsi ancora di più a James, mentre quella sul suo braccio diventava quasi una stretta: «Stai dicendo che…?»
James coprì la sua mano con la propria. Loki quasi rabbrividì a contatto con la sua pelle.
«Sto dicendo che forse non è più tempo di aspettare»
Improvvisamente tutti e due si resero conto che il tavolo era di troppo in quella stanza. Loki si alzò in piedi e James seguì il suo esempio, mentre le loro mani abbandonavano riluttanti la presa l’una sull’altra. Per un istante rimasero immobili a fissarsi. James si chiese se gli occhi di Loki fossero sempre stati di quel verde o avessero qualcosa di diverso.
Fece appena in tempo a domandarsi perché Loki non si muovesse, prima di venire colpito da un pensiero: nonostante ciò che aveva appena sentito, l’altro aveva ancora paura. Paura di esagerare. Paura di affrettare le cose. Paura di non aver capito.
Ma James quella volta era sicuro di aver capito e così fu lui ad avvicinarsi. Un passo. Un altro passo. Loki lo guardava con gli occhi di chi avrebbe voluto corrergli incontro perché un istante era già troppo lungo e un millimetro a separarli voleva dire essere già troppo distanti, ma continuava a stare fermo.
Per un attimo, James ebbe paura. Ebbe paura di rovinare tutto. Ebbe paura di non riuscire a essere chi voleva essere con Loki. Ebbe paura che avrebbe avuto paura. Infine si disse che la paura era irrazionale, ma lo erano anche le altre emozioni che provava in quel momento, quindi non importava poi tanto.
Si fermò a un respiro di distanza dal viso di Loki. I suoi occhi lo fissavano quasi imploranti, gridavano che l’asgardiano bruciava dal desiderio di quel bacio, ma non si sarebbe mosso, non per primo.
Colui che per qualche minuto poteva smettere di essere l’ex-Soldato d’Inverno alzò una mano fino a toccare la guancia di colui che in quel momento aveva del tutto dimenticato di essere stato, una volta, il Signore degli Inganni.
James accarezzò la pelle del viso di Loki, tracciò la linea del mento e proseguì fino a sfiorargli la gola con la punta delle dita, così leggere che l’altro avrebbe potuto non accorgersene, se non fossero stata l’unica cosa che gli importasse al momento.
Loki dischiuse le labbra per prendere fiato. A quel minimo movimento, qualcosa scattò finalmente nella mente di James. Non ebbe più esitazioni, non aveva più paura. Lo baciò.
Non era il primo bacio di Loki, non assomigliava neanche lontanamente a quella serie di esperienze adolescenziali che cercava di tenere lontane dalla propria memoria. Eppure aveva qualcosa di nuovo. Era come se la sua mente stesse scoprendo tutto da capo. Era davvero così baciare? Non aveva mai pensato potesse essere così travolgente.
Non era il primo bacio di James. Si prese il proprio tempo, condivise lentamente il respiro di Loki e nel riprendere fiato gli sfiorò i denti e le labbra con la lingua. A ogni secondo che passava, gli sembrava di dissipare una nebbia che lo aveva circondato per chissà quanto tempo. Il fiato di Loki era una medicina, pensò confusamente. Si staccarono per una frazione di attimo, prima che l’asgardiano riprendesse a baciarlo, ogni paura dissolta.
Mentre era distratto, perso in quel contatto che gli faceva così bene, all’improvviso James pensò a Steve. Durò soltanto un istante, un’esitazione che nascose facilmente con un ansimare leggero prima di riprendere il bacio come se non fosse successo nulla, ma la sua immagine era lì. La scacciò con la mente una prima volta, ma quando Loki lo baciò di nuovo era ancora là pronta a riempire la sua testa. Spalancò gli occhi e nel verde dello sguardo di Loki riuscì a liberarsi di nuovo di Steve, ma non per molto.
Quando infine si allontanarono abbastanza da guardarsi in viso, James non fu abbastanza veloce a mascherare l’inquietudine.
«Qualcosa non va?» chiese Loki, con la voce leggermente arrochita ma preoccupata.
«No, va tutto…» cominciò James, ma si interruppe «È Steve» cedette.
«Steve» ripeté Loki «Certo»
James disse che gli dispiaceva, ma Loki scosse la testa, accarezzandogli la tempia: «Non ce n’è bisogno. Dimmi soltanto cosa vuoi che faccia»
«Non fermarti» chiese James «Ti prego»
Loki annuì, serio come se avesse giurato, poi riprese a baciarlo. Non si fermò, né James ebbe altre esitazioni. A un certo punto, in quella mattina, James smise di pensare a Steve.





Lizzy's Magic Corner:
Guess who's back!
Ciao a tutt*!
Quanto tempo è passato? Quasi tre mesi? Chissà se mi ricordo ancora come funziona questo sito...
All'epoca dissi "
Riguardo al nuovo capitolo (che spero di portare a termine molto più in fretta di questo, ma purtroppo ultimamente l'ispirazione e la voglia di scrivere litigano...) posso dirvi che sarà quasi certamente l'immediato seguito di questo. Pensavo di spiegarvi qualcosa sulla CloaK (nonostante dare spiegazioni non sia per nulla nel mio stile, ehm ehm...) e magari presentarvi l'adorabile Nancy, ma per ora è tutto molto nebuloso." E infatti... non ho fatto nulla di tutto ciò.
Riguardo alla lentezza ad aggiornare (anche se ormai dovreste averci fatto l'abitudine...), non ho proprio scuse, se non che sto scrivendo altre cose e ho iniziato questo capitolo tre volte prima di riuscire a finirlo. Per il resto, vi avevo avvertit* che non avevo le idee molto chiare. Per due volte ho cercato di scrivere il capitolo che vi avevo annunciato (quello con le spiegazioni sulla CloaK, per intendersi), ma poi mi sono resa conto che avevo bisogno di spiegare altri avvenimenti prima e quindi vi toccherà aspettare ancora.
E ora, le notizie importanti.
Verso fine agosto parto. Non nel senso che vado in vacanza, ma nel senso che faccio un anno di studi in Inghilterra. Non ho idea di cosa ciò comporterà per la mia "carriera" su Efp. Intendo dire che, benché io sappia per certo che avrò una connessione Internet a disposizione, i miei ritmi saranno ovviamente diversi e quindi potrebbe essere che gli aggiornamenti (che già non sono molto frequenti) diventino un evento da segnare sul calendario. Oppure potrei non aggiornare per tutto il tempo che sono via. Oppure, al contrario, potrei aggiornare ogni due settimane. Non lo so e lo scoprirò soltanto una volta arrivata là.
Nel frattempo, spero di riuscire a postare ancora un capitolo (magari due, ma non vorrei pormi obiettivi esagerati) prima di volarmene via e quindi dovrei avere occasione di salutarvi tutt* come si deve.
Chiudo con un mega-grazie a Kyem13_7_3 per la sua recensione nello scorso capitolo, a Pouring_Rain11 e GreekComedy che mi supportano sempre, al mio consulente Marvel e mia sorella che sopportano i miei scleri, alle 17 persone che hanno messo tra i preferiti/seguiti questa storia e in generale a chiunque abbia letto il capitolo.
Vi lascio in pace, non preoccupatevi.
Che gli dèi siano con voi!
-Liz

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