Capolinea 51

di Bess Black
(/viewuser.php?uid=138698)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


 
 
Image and video hosting by TinyPic



 
Prefazione

La battaglia di Kodiak (stato dell'Alaska), del 2075, fu il primo scontro militare diretto tra Stati Uniti e Russia.
Durò circa sei mesi e dopo decenni e decenni di propaganda, di trattati e compromessi, di manovre pacifiste e tattiche offensive e controffensive, una delle due potenze mondiali riuscì a vantare una supremazia nelle strategie militari.
La notizia della vittoria delle truppe russe, infatti, riuscì a ribaltare le aspettative mondiali ed occupò la prima pagina degli iJournal per tutto il mese Settembre e per  buona metà di Ottobre.
Ma in una società in cui il progresso scientifico aveva preso il posto di quello storico, la guerra non era altro che il lato più formale. Quella che ora non si poteva più definire Storia, amava presentarsi come Evoluzione: un capolinea di ciclica autodistruzione. 




 
0.
L'Origine


 
3 Settembre 2075 - San Pietroburgo, Russia

   L'intera cittadinanza pietroburgese si era riunita, con tutto il suo patriottismo, nella piazza di fronte alla chiesa del Salvatore a festeggiare, sotto i fuochi d'artificio, la vittoria della battaglia di Kodiak.
In una delle file ammassate esattamente davanti alla navata laterale vicino al ponte, una ragazzina, poco più che bambina, sventolava in punta di piedi la bandiera russa; il petto sporto in avanti per mettere in mostra la maglietta dell'accademia militare del fratello - il quale, oltretutto, aveva condotto con successo la battaglia di Kodiak - e un impavido sguardo maturo e fiero.
   La piccola Nastja aveva disobbedito ai gentori, i quali le avevano severamente proibito di uscire, ed era sgattaiolata fuori da Manor Dostoevskij, distraendo maggiordomo e guardie, e manomettendo il sistema di sicurezza. Era corsa per strada, in preda all'euforia, urlando a squarciagola tutto l'entusiasmo: «мы выиграли! Abbiamo vinto! мы выиграли
Ora, nel bel mezzo di migliaia e migliaia di persone perlopiù sconosciute, la dodicenne si unì al coro cantando l'inno nazionale.

 
«Россия — священная наша держава,
Россия — любимая наша страна.
Могучая воля, великая слава —
Твоё достоянье на все времена!
Славься, Отечество наше свободное,
Братских народов союз вековой,
Предками данная мудрость народная!
Славься, страна! Мы гордимся тобой

   Mentre da una parte e dall'altra dell'Oceano Pacifico la guerra faceva congratulazioni e condoglianze, la definita Lotta per il Progresso si faceva largo in sedici zone del pianeta sotto forma di Caso, un fenomeno di continue congetture coincidenti.
   Quella notte tra il tre ed il quattro Settembre, la piazza davanti alla chiesa del Salvatore sul Sangue Versato ospitava più di novecentocinquantatremila persone.
   Quella notte, Nastja Michajovna Dostoevskij sparì per sempre e nessuno ne ebbe mai più alcuna traccia.







Venticinque anni prima



 
Il punto di Partenza
I Capitolo

 
Maggio 2050 - Nord Nevada, Stati Uniti d'America

   «Casa Downey.»
La cameriera.
   «Anne, ho meno di sette minuti. Chi c'è a casa?»
   «Signorina Nathalie!»
La sua vocina stridula e sovreccitata mi costringe ad allontanare la cornetta del telefono dall'orecchio.
   «Non ho tempo, Anne.» Chiarisco subito. «Ho bisogno di parlare con...»
   «Vado subito a chiamare sua madre!» Strilla. «Non sa quanto è in ansia per lei...!»
   «No! La mamma no, Anne! Non ho tempo...»
Mi ha messa in attesa.
Dannazione.
Il cronometro sopra il tavolino d'acciaio segna i sei minuti esatti: ho già perso il settimo ed inutilmente. 
  Quel cronometro è più teso di me, isterico quasi; trascina e risucchia il tempo senza pietà: ancora non ha finito di annientare un secondo che già ne sta arpionando un altro, sotto i miei occhi.
Le mani mi sudano: la sinistra scivola sulla cornetta e, ignorandone il tremolio, l'asciugo sulla divisa bianca e pulita. Stringo più saldamente la cornetta metallica del telefono e tento di distogliere lo sguardo dal cronometro abbassandolo sul tavolino. Cerco di sciogliere il pugno che la mia mano destra ha stretto nel tentativo di raccogliere e rinchiudere la tensione. 
   Sospiro e rialzo lo sguardo sulla parete che ho davanti: spoglia, omogenea e - non nera o scura - ombrosa.
Un brivido mi punge lungo la nuca facendomi venire la pelle d'oca. La stessa reazione da mesi alla molesta sensazione di essere sempre, perennemente e continuamente osservata.
Spinti da una dinamica involontaria, i miei occhi scattano - agili, lesti - in direzione della lucina verde della telecamera nell'angolo della stanza.
   «Pronto? Nathalie, sei tu?»
Lo sguardo mi ricade sul cronometro: cinque minuti e una ventina di secondi.
   Sospiro. «Sì, mamma, sono io.»
   «Oh, tesoro! Come stai? Com'è il tempo da quelle parti? Ancora insistono con quelle divise? Non ci hanno permesso di mandarti un cambio e nemmeno le lettere...»
   «Mamma, senti...»
   «...Ho temuto non ti concedessero alcuna comunicazione questo mese...»
   «Mamma...»
   «Vero, George? Diglielo! Sono sempre più rigidi riguardo alle consegne esterne...»
Quattro minuti.
   «Mamma!» Urlo senza impedirmi di battere un pugno contro la superficie fredda e metallica del tavolino. «Non ho tempo! Io... sto bene, d'accordo? Sto bene. Ora potresti passarmi Alex? Per favore
Ammutolisce.
Con la coda dell'occhio noto la lucina verde della telecamera di sorveglianza lampeggiare.
    «Mamma... ci sei?»
    «Sono papà, Nathalie.» Il suo tono è regolare, la voce è controllata. «Alex non c'è. Ci siamo solo io e la mamma.»
Sento la mamma singhiozzare a poca distanza, ma non gli dico di passarmela: non sono in condizioni di sopportare la sua teatralità.
   Scuoto il capo, scrollando e smuovendo i capelli: sette minuti, ci concedono sette minuti al mese per telefonare a casa e io riesco sempre a chiamare nei sette minuti sbagliati.
Giro intorno alla sedia adiacente al tavolino - sulla quale oltretutto, in teoria, dovrei sedermi - e cerco di fare il punto della situazione, più che altro per impedirmi di urlare, sbraitare e inveire contro i miei genitori.
   «Ascolta, devi fare qualcosa! L'avvocato che mi hai mandato è un completo fallito!»
   «Stewart sta facendo del suo meglio...» Inizia lui.
Tre minuti.
   «No!» Protesto con voce isterica. «Non è vero!»
   «Nathalie, stiamo tutti facendo del nostro meglio per aiutarti, Stewart per primo. Hai bisogno di lui...»
  «Ho bisogno di un buon avvocato!» Grido indignata contro la cornetta. «Dannazione, papà, hai i soldi per un carcere minorile privato e non per un avvocato decente...?!»
I singhiozzi della mamma sono più forti. Vorrei che la smettesse.
Due minuti.
   «Si sistemerà tutto, Nath. Ti aiuteremo ad uscire di lì.»
Scalcio la sedia facendola ribaltare e poi cadere con un tonfo.
Da mesi la stessa frase, la stessa promessa e l'inevitabile delusione. Sono così disperata che vorrei credergli, vorrei che non avesse quella voce monocorde e quel tono spento, vorrei che la smettesse con quelle pause riflessive tra una frase e l'altra e con quei sospiri spezzati tra le parole. 
Non è da lui tanta arrendevolezza.
   «Noi stiamo facendo il possibile, ma dipende anche da te.»
   Mi sfugge una risatina isterica. «Da me?! Cosa dovrei fare, eh? Cosa potrei mai fare rinchiusa in un carcere minorile, sorvegliato da FBI, CIA, Militari e Servizi Segreti?!»
Un minuto.
  Passo la manica della divisa sulla fronte sudata nel tentativo di spostare qualche ciuffo all'indietro. Mamma e papà bisbigliano tra loro; lui è discreto e pacato, lei invece non proprio: le parole le inciampano ancora nei singhiozzi e tra loro, mentre tentano di primeggiare su quelle di papà. Stanno litigando. Loro non litigano mai.
   «Papà!» Tento d'interromperli.
   Si schiarisce la voce, ma aspetta qualche secondo prima di riprendere a parlare. «Devi avere fiducia, Nathalie. Fidati di noi. Fidati di Stewart e ascolta tutto quello che ti dice: segui i suoi consigli e presto potrai tornare a casa.»
Tempo scaduto.
   La telefonata s'interrompe nell'esatto istante in cui il cronometro retrocede a zero minuti e zero secondi, come se papà fosse lì con me ad assistere a quello straziante conto alla rovescia ed avesse scelto con cura parole e pause.
Eppure sono sola. Ferma al centro di una stanza vuota, fredda e troppo illuminata, in un carcere minorile del nord Nevada. Ferma ad ascoltare un bip-bip-bip, perenne inno del mio esilio.
È ingiusto.
Ed è la più frustrante delle umiliazioni quella che mi costringe a sbattere la cornetta del telefono contro il tavolino e scalciare quest'ultimo contro la parete adiacente.
   «Mmm... Sei violenta.» Constata una voce alle mie spalle, facendomi sobbalzare. «Ora che ne dici di tornare in cella, tesoro?»
Sento la porta della Stanza delle Comunicazioni scorrere e scivolare contro il muro, ancor prima di girarmi.
Raddrizzo la schiena ed alzo il viso.
   Quando mi volto, un paio di occhi verdi mi scrutano curiosi, sotto le sopracciglia inarcate fino allo scetticismo. Abbasso lo sguardo sulla sua divisa da militare, fermandomi sulle tre stelle dorate appuntate sul petto, poco sopra la bandierina statunitense.
   «Su, da brava.» Mi incita sornione, facendomi un occhiolino. «Non costringermi a venirti a prendere.»
Mi mordo la lingua nello sforzo di non ribattere. Stringo i pugni sui fianchi e avanzo verso la porta scorrevole della Sala Comunicazioni.
   Oltre la soglia, il Militare - senza smettere di sorridere tra sé - inizia ad armeggiare con l'Identificatore. Gonfio il petto e alzo un poco il mento non appena noto le sue spalle dritte, le gambe parallele e la sua postura sull'attenti. Gli porgo il polso sinistro sul quale è presente il Bracciale di Distinzione, prima che possa chiedermelo.
Punta l'Identificatore contro il Codice stampato sul Bracciale, aspetta il Riconoscimento, poi lo mette subito via.
Nemmeno un istante dopo un paio di manette mi arpionano mano destra e sinistra. È la prassi, la stessa da sempre, ma non riesco a mascherare il mio disappunto. Non che non sia brava a fingere, forse il mio intento non è nemmeno nasconderlo, forse quello che voglio è che una di quelle guardie, incollate dietro le telecamere di sorveglianza si accorga di quanto sia ridicolo ammanettare una diciassettenne disarmata in un carcere minorile ad alta sorveglianza isolato a chilometri e chilometri dai centri abitati.
   Il Militare punta l'angolo trasparente dell'Identificatore contro il proprio pollice sinistro. Sul piccolo schermo compare la sua foto e al fianco la scritta: "James Black - USA Militar Service", esattamente sotto tre stelle. Iniziano a scorrere una serie di dati tra cui il suo peso, altezza, pressione, temperatura, codice genetico...
   Sbatto un paio di volte le palpebre, poi rialzo lo sguardo su di lui. «Dov'è l'agente Chung?» Chiedo, guardandolo male. Era stata l'agente dell'FBI Chung ad accompagnarmi alla Sala Comunicazioni, immaginavo che, come sempre, mi avrebbe aspettata e riportata in cella.
   Non risponde. Mi ha sentita, ne sono certa, ma non risponde.
Mi si dilatano le narici dall'intensità con la quale inspiro aria, nel tentativo di non innervosirmi - o, per lo meno - di non darglielo a vedere.
   «Dov'è l'agente Chung?» Ripeto a denti stretti.
Il Militare Black mette via l'Identificatore, con una smorfia di disappunto, poi rialza il capo e mi guarda, ora più annoiato.
   «È andata ad accompagnare la tua amichetta in infermeria...» Sbotta digitando un codice sullo schermo della parete in seguito al quale scattano le serrature delle porte del corridoio. « ... Di nuovo.»
   «Lily?» Sobbalzo sul posto, allarmata. È la quinta volta nella settimana che Lily si sente male. I miei occhi scattano verso le telecamere di sorveglianza e Black se ne accorge, anche se non dice nulla. 
   «Che cos'ha?» Lo incito allora a proseguire.
Non risponde di nuovo e - anche se ho posto ugualmente la domanda - non mi aspettavo davvero che lo facesse.
   Sbuffo, facendo qualche passo in avanti senza il suo consenso. L'infermiera era stata chiara l'altro giorno: se Lily avesse continuato a stare male, l'avrebbero trasferita. Però, se riuscissi a raggiungere l'agente Chung prima che arrivino... 
   «Non ci pensare nemmeno.» Mi minaccia secco, alle mie spalle.
Non mi volto, ma non torno nemmeno indietro. L'infermeria è solo ad un paio di corridoi dalla Sala Comunicazioni.
   «D'accordo.» Soffia irritato, esattamente dietro di me. «Mettiamola così, bellezza.»
Odo qualche colpo duro, rigido e metallico, fino a quando non sento la canna fredda di una pistola tra le scapole.
Trattengo il respiro e inarco la schiena, involontariamente.
   «Tu scappi, io sparo.»






Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo II ***




 
Image and video hosting by TinyPic
 





 
Capitolo II




      «Cammina.»
La pressione della pistola aumenta e sono costretta a fare qualche passo in avanti. Poi però mi fermo.
L'arma si trova in mezzo alle scapole, in un preciso - e fastidioso - punto che faticherei a raggiungere anche se non fossi ammanettata.
    La verità è che per quanto possa essere pericoloso o rischioso avere un'arma da fuoco puntata contro, io lo trovo umiliante. Il militare Black mi sta puntando contro una Calibro-38 solo perché vuole che obbedisca agli ordini, per sottomettermi al suo volere, per esigenza di controllo e non esiterebbe a premere il grilletto se osassi scappare.
     «No.»
In difesa o attacco, quando si minaccia la vita di qualcuno, si ritiene che valga meno della propria. In questo caso, Black pensa che la mia vita valga meno della sua pazienza.
«Voglio sapere come sta la mia amica.»
Quando parlo, mi rendo conto che avevo trattenuto il respiro fino a quel momento. «Voglio vederla.»
     Una mano s'infila tra i miei capelli, sulla nuca, e li tira all'indietro, costringendomi a piegare la testa.
«Tu non devi volere.» Soffia il militare sulla mia faccia. «Tu devi obbedire agli ordini.»
     Tento di divincolarmi, ma mi fermo subito: se tiro mi faccio solo più male. Lui se ne accorge e stringe ancor di più la presa.
«E gli ordini dicono che dovresti essere nella tua cella a prepararti per la cena.»
     «Non sto facendo nulla di sbagliato.» Insisto. Ed è vero: un'altra guardia mi avrebbe permesso di vedere Lily, o per lo meno di sapere come sta. Credo.
     Il militare inspira forte - probabilmente per trattenersi dal prendermi a pugni in faccia - ed espira sul mio viso. I suoi occhi si riducono a due fessure verdi  e taglienti mentre mi ammoniscono, suggerendomi di tacere.
     Ha un profumo troppo forte. 
Sono altamente intollerante all'alcol etilico: ogni tipo di fragranza artificiale mi provoca nausea ed emicrania. Al momento, essendo a stomaco vuoto, tutto quello che ne viene fuori è uno sterile rigurgitare acido. Provo ad inspirare solamente con la bocca, ma il peso sulla gola non diminuisce e presto avverto fitte nervose, così cerco di allontanarmelo di dosso. Appena inizio a divincolarmi, sento improvvisamente quanto sono strette le manette: più del dovuto, più del solito. Tuttavia non riesco a spostarmi nemmeno di un centimetro e finisco solo con l'agitarmi in modo inquieto e nervoso sul posto, con l'unico risultato di aumentare la nausea ed infastidire il militare ancor di più.
    Ad un tratto, inaspettatamente, mi sento spingere in modo improvviso ed irruento in avanti. I miei piedi nudi non fanno tempo ad inciampare sui suoi scarponi che la mia mandibola si scontra col muro.
    Urlo.
E fa così male - le labbra, le mani, le spalle, la nuca - che mi pento di aver aperto bocca: vorrei non aver nominato Lily e non aver insistito per vederla, vorrei non avergli disobbedito e non averlo sfidato. 
     Con i miei capelli ancora stretti in un pugno, mi schiaccia la bocca contro la parete liscia e fredda, soffocando le mie grida; non posso respirare dal naso perché il suo profumo è ancor più vicino, ma nemmeno dalla bocca: mi si comprime l'aria dentro.
     «Che dici stronzetta, com'è il sapore dell'amianto?»
     Agito invano le mani, intrappolate nelle manette, cerco di scalciare con i piedi, ma Black mi intrappola le gambe tra le sue, pestandomi i piedi nudi. Strizzo gli occhi dal dolore e mentre boccheggio in cerca di ossigeno, la mia lingua incontra un liquido denso dal sapore ferroso.
     «James?» Una voce all'angolo del corridoio. «James che diavolo stai facendo?»
La presa sui miei capelli si allenta, così come la pressione sulle gambe, ma prima di riprendere fiato cerco di spostarmi e mettere più distanza possibile - anche solo di qualche centimetro - tra me e il profumo di Black. 
     Mi cedono le ginocchia ed essendo ammanettata non riesco ad attutire la caduta, così sbatto con violenza sul pavimento e lì rimango. Mi porto la testa tra le ginocchia ed ignoro le due voci alle mie spalle: inspiro ed espiro aria pulita, uscendo dallo stato di asfissia.
Qualcuno si china al mio fianco. «Tutto a posto?» 
     È il militare Matt Andersen.
Scuoto il capo e deglutisco prima di rispondere. «S-sono intol-lerante a-all'etanolo.»
     «Certo che lo sei, è un veleno!»
     Guardo male Black. «Non in quel senso.» Fatico a parlare.
     Sento Matt imprecare, mentre Black armeggia con l'Identificatore, annoiato, e mi getta dall'alto un'occhiata seccata.
«Qui non c'è nulla a riguardo.» Sbotta dopo un po'. «Sta mentendo.» 
     Matt mi aiuta a rimettermi in piedi. «No, che non sta mentendo, James! Guarda la sua faccia, diamine!» Lo rimprovera. «Deve essere una sottospecie di insofferenza... Le intolleranze non sono come le allergie: non si possono rilevare da esami generali.» Spiega, allentando la stretta delle mie manette. «Dobbiamo portarla in Infermeria per segnalare l'alterazione funzionale.»
     «No.» Scatta Black, avvicinandosi. «Non ce n'è bisogno.»
Indietreggio intimorita, non appena il suo profumo si fa largo nell'aria che inspiro. Se ne accorge e fa un passo indietro.
     Matt si frappone tra me e lui. «James non essere sciocco, dobbiamo farlo. È la normativa più...»
     Black lo interrompe con uno sbuffo. «Non sei nella posizione giusta per ricordami le norme alla base del Regolamento, Matt.»
      L'altro soldato incassa il colpo, limitandosi a guardarlo. 
     James Black dà le spalle alla telecamera centrale - che solo ora noto lampeggiare - e si rivolge all'amico, calcando le parole ora bisbigliate. «Nessuna segnalazione, nessun controllo.»
     Matt si volta a guardarmi e sospira. «Ti portiamo a cena, d'accordo?»
     Annuisco, senza aggiungere nulla.
    Black si mantiene ad una discreta distanza davanti a noi, digitando i Codici di Conferma nei cancelli tra un corridoio e l'altro.
    Il carcere è diviso in quattro principali celle: due maschili e due femminili. Quattro militari sono incaricati di sorvegliare le celle a turni, con la supervisione di un agente FBI e uno della CIA. In ogni cella ci sono tre detenuti, per un totale di dodici in tutto il carcere. Lily dorme nel letto davanti al mio. È probabilmente la più piccola qui dentro, non più di quindici anni. Non parla mai con nessuno: mangia, vomita e dorme tutto il tempo. Non è mia amica e ad essere sincera non sono nemmeno sicura che il suo vero nome sia Lily. Volevo solo sapere come sta.

    Quando la porta dell'anticamera del Refettorio scorre davanti a noi, sento Matt tirare un sospiro di sollievo, ma Black non fa in tempo ad aprire la seconda porta, che l'agente Chung dell'FBI ci viene in contro.
     «Siete in ritardo.» Ci informa con tono piatto.
     Mentre Matt non dice nulla, Black non si trattiene dallo sbuffare. 
     La Chung lo scruta severa attraverso i suoi occhi a mandorla. «Ti rendi conto, vero?» Gli domanda livida in volto. «Hai idea di quante storie faranno i Musi-Bianchi?»
     Lui si limita a grattarsi la nuca. «Sono affari loro, io non...»
     «Hey!» Li ferma Matt, indicandomi. «Ci pensiamo dopo al rapporto, d'accordo?»
     La Chung annuisce e gli ordina di portarmi dentro, mentre lei rimane a scambiare due chiacchiere con Black.
     Matt sblocca la seconda porta d'accesso al Refettorio e mi accompagna dentro, lasciando che la porta scivoli alle nostre spalle e si chiuda. Il doppio strato di vetro rinforzato attutisce completamente la voce rimproverante della Chung e gli sbuffi seccati di Black.
    Il Refettorio è diviso in quattro tavoli triangolari ad ogni lato dei quali siede un detenuto. A differenza delle celle, i posti, pur essendo pre-assegnati rigorosamente, cambiano ogni giorno. Tuttavia, Dalton - un ragazzo della Prima Cella Maschile - crede che ci sia un qualche ordine primario e probabilmente intenzionale nell'assegnazione delle collocazioni: secondo lui non sono casuali; ormai sono settimane che si strugge in calcoli statistici per cercare di comprendere il fattore indipendente a cui sono soggette le frequenze.
     Quando io e Matt passiamo accanto al primo tavolo, incrocio il suo sguardo fermo. Dalton ha quegli occhi a mandorla lunghi, concentrati, ma perennemente lontani: su qualunque cosa abbia puntato lo sguardo, sembra averla già vista in realtà, sembra non fare altro che fissarsela bene nella mente per rielaborarla. Dalton si definisce una persona dotata di capacità logico-deduttive più sviluppate rispetto alla norma; Hugo ha riassunto il concetto in un "Lui è avanti" e credo che renda perfettamente l'idea.
     Per la cena mi è stato assegnato il terzo posto del secondo tavolo, con Aaron e Hugo, che non appena ci avviciniamo tacciono, chiudendo quello che molto probabilmente era uno dei loro soliti battibecchi. Matt mi toglie le manette, ma non perdo tempo a controllarmi  i polsi rossi e doloranti, piuttosto mi affretto a sedermi perché non riesco a reggermi più in piedi e lui non dice nulla, attiva il vassoio del cibo tramite il Consenso dell'Identificatore e con un cenno recupera la postura sull'attenti e si allontana di cinque metri, prendendo la Distanza di Vigilanza.
     «Dove diavolo eri? Perché diavolo ci hai messo tanto?» Sbraita Hugo subito, facendomi trasalire sul posto. «E perché diavolo stai sanguinando?»
     «Sanguino? Dove?» Mi tasto il viso alla cieca.
     «Per Dio, Nathalie, hai la bocca tutta rossa!» Esclama Aaron, dal lato alla mia sinistra, cercando non lasciar trasparire il suo disgusto.
     Prendo una piccola salvietta, che trovo vicino alle posate, e me la porto in bocca: il labbro superiore si è spaccato. 
     «Non hai risposto.» Mi fa notare Hugo, sporgendosi in avanti.
     «Black.» Dico solo.
     Hugo digrigna i denti, Aaron si limita a scuotere il capo. «Quello là deve avere un qualche gene di bastardaggine a parte. Un gene mutante tutto suo.» Commenta poi.
Apro la bocca per aggiungere una lunga lista di termini da attribuire al gene che ipotizza Aaron, ma la salvietta è così confortante sul labbro ferito che taccio e mi limito ad annuire. L'annuso e noto che è inodore esattamente quanto insapore.
     «Quindi?» Mi sollecita impaziente Hugo, alla mia destra. «Notizie?»
     Abbasso gli occhi sul cibo selezionato sul vassoio, cupa. «Niente. Alex non c'era.» Continuo a tamponare il labbro, anche se ha smesso di sanguinare: la salvietta è davvero confortante.
     Aaron sorride. «Beh, Hugo ha notizie, invece.» Mi informa. «E anche buone.» Gli fa una pernacchia, mentre l'altro si limita a mostragli il dito medio senza alzare lo sguardo.
     «Notizie buone?» Domando. «Di che si tratta?» Ho davvero bisogno di sentire che almeno una cosa sta andando per il verso giusto.
     Aaron scrolla le spalle e parla con disappunto. «Non vuole parlarmene. Non si fida.» 
È offeso. È decisamente offeso.
     «Aspettavo Nathalie, idiota.» Sbotta Hugo.
     «A Dalton l'hai già detto però.» Lo accusa.
     «Perché lui è la mente del piano, mentre tu non servi a un...»
     «Piano?» Li interrompo. «Quel piano?»
     La fuga.
Mi fanno segno di abbassare la voce entrambi. Di solito durante la consumazione dei pasti non ci è concesso parlare, non frequentemente almeno. Getto uno sguardo oltre la porta di vetro rinforzato e intravvedo la Chung parlare e gesticolare rossa in volto e Black fischiettare con le mani in tasca.
     «D'accordo.» Sussurro chinandomi sul tavolo e sporgendomi verso Hugo. «Ma parla.»
     Lui annuisce e inclina verso il basso il viso, per evitare che sia interamente esposto alle telecamere e rendere quindi difficile ai Sorveglianti leggere il labiale. «Ho trovato una piantina del carcere.»
      Aaron ha la mia stessa reazione: spalanca gli occhi e si guarda attorno.
«Scherzi?!» Scatta contento.
    Hugo lo ignora. «Non è finita qui.» Abbassa di nuovo il capo e io mi avvicino il più possibile per non perdermi nemmeno una sillaba. «C'è una chiara e precisa indicazione di un passaggio bi-frontale: un'uscita antincendio.»
     «Dio!» Esclama Aaron ed io annuisco in sua direzione.
     Hugo sorride soddisfatto. «Quello che ci serve è il diversivo. Solo quello.»
     Inarco le sopracciglia e parlo con la salvietta ancora premuta contro la bocca. «Vuoi dare fuoco all'intero carcere?»
     «No. Certo che no.» Dice scuotendo il capo. «Se non sarà necessario, no.»
     «Quindi che si fa?»
     «Si controlla bene il tragitto, si prepara l'occorrente e si trova un diversivo decisamente convincente.»
     Annuisco e mi scappa un sorriso, anche se il labbro fa male mentre si allarga.
     «Aspetta.» Aaron socchiude gli occhi, diffidente. «Dov'è questa mappa?»
     «È una piantina, idiota.» Lo corregge Hugo, riprendendo a mangiare.
     «Dov'è?»
     «Al sicuro.»
     «E tu come hai fatto ad averla?»
     Hugo ghigna. «L'ho trovata.»
     «Trovata dove?» Intervengo.
     «Ricordate quando ho insultato Black?» Chiede.
Veramente ha insultato sua madre. È stato circa due settimane fa e Black gli ha rotto il naso, lo ha messo nella Cella di Detenzione per due giorni e in punizione per cinque.
     «Beh, quel bastardo si è fottuto da solo.» Il suo ghigno si allarga. «L'ho trovata nel sesto cestino di raccolta, durante l'ultimo giorno di punizione. Era tutta pieghettata, credevo fosse uno di quei rapporti che custodiscono tanto gelosamente...»
     «Fammi capire, amico.» Lo interrompe Aaron, voltandosi a guardarlo. «Tu hai... Ideato un piano di fuga da un carcere a sorveglianza speciale, basandoti su un foglio mezzo stropicciato che hai trovato nel cestino della carta plastificata in lavanderia?»
     Hugo lo fronteggia indispettito ed irritato per essere stato interrotto. «Sì.»
     Inarco le sopracciglia, ma non dico nulla: lascio fare ad Aaron.
     «Ti rendi conto che è una cazzata, vero?» Domanda mellifluo infatti.
La forchetta nella mano di Hugo vibra e sono sicura che in altre circostanze gli spaccherebbe la faccia, o l'avrebbe già fatto molto prima. Dalton dice che Hugo è iperattivo e che quindi i suoi impulsi naturali sono più veloci rispetto alle sue reazioni razionali. A me sembra solo una persona altamente irascibile e potenzialmente collerica. Forse è vero quello che dice Dalton, ma continuo a credere che Hugo sia semplicemente molto arrabbiato e incapace di controllarsi. Io me la tengo stretta la rabbia, la nascondo e a volte me ne dimentico, ma rimane ugualmente lì dov'è; altre volte la libero io, solo che non è più rabbia ormai: è rancore e ogni gesto che ne ricavo è vendetta. La mia rabbia finisce sempre per diventare una subdola arma.
     All'improvviso mi rendo conto che Aaron e Hugo hanno smesso di battibeccare e che tutto il Refettorio è in silenzio. Mi guardo attorno: Black e la Chung sono rientrati. E con loro non si parla.
Ho appena il tempo di scambiare un'occhiata con Hugo, prima che la voce arcigna dell'agente FBI mi richiami.
     «Dawney, per quale motivo non stai mangiando?»
Effettivamente ho ancora la salvietta premuta sulle labbra e davanti a me un vassoio pieno di cibo selezionato che ho il dovere di mangiare. I pasti sono pre-selezionati per ogni detenuto ed ogni vassoio contiene l'esatta quantità di cibo proporzionata per le esigenze di ognuno. Quando si tratta di cibo, nessuna guardia è tollerante: una volta Black mi ha addirittura imboccata e siccome non ho la minima intenzione che riaccada, a malincuore tolgo la salvietta, prendo in mano la forchetta ed inizio a mangiare. In realtà non sono veramente abituata a finire tutto perché do sempre di nascosto una porzione a Lily, ma mi obbligo a mangiare frettolosamente il più possibile: gli altri hanno già finito, quindi per il rientro nelle celle stanno aspettando solo me. E mi guardano tutti. E questo non aiuta né lo stomaco chiuso, né la ferita sul labbro.
Mentre mi agito sul posto per dissimulare la nausea, Hugo rutta ed attira sguardi, sbuffi e risatine, trasgredendo il silenzio; nel giro di un altro paio di rutti, che riescono a richiamare l'attenzione generale, mando giù tutto quello che posso frettolosamente, chiudo il vassoio e aspetto il Segnale di Consenso che arriva subito dopo con una lucina verde all'angolo del tavolo. 
     Tengo gli occhi bassi e sorrido riconoscente a Hugo, poi mi unisco alla risata silenziosa di Aaron.

     Ci rimettono le manette, prima di riportarci nelle nostre celle.
Black è rimasto indietro a controllare i Codici di Consenso, perciò ne approfitto per seguire il gruppo di Matt. 
Gli spostamenti di gruppo avvengono sempre in fila indiana: dietro di me Hugo spiega ad Aaron come ruttare per finta e davanti Dalton cammina a testa bassa. Mi getto un'occhiata attorno, prima di attirare la sua attenzione.
     «Hey!»
     Lui non si volta per non dare nell'occhio, ma fa un basso cenno con la testa. «Nath.» annuisce. «Stai meglio?»
Dalton non usa mai parole come "Bene" o "Male": secondo lui lo stato d'animo umano è troppo complesso per essere associato a concetti tanto astratti, ambigui e generali.
     Sorrido anche se essendo di spalle non mi può vedere. «Sì, meglio.»
     «Mmh...» Considera, poi. «Che tu sappia, quella salvietta conteneva del disinfettante?»
     Sbatto le palpebre e corrugo le sopracciglia. «Ehm... No. Cioè, non credo. Perché dovrebbe?»
     «Mmh.» Si guarda i piedi.
Matt ci passa a fianco per aprire un cancello, ma non ci richiama.
    «Senti Dalton, Hugo mi ha detto della piant... Cosa. Sai se c'è un modo per verificare che corrisponda effettivamente all'edificio?» Domando bisbigliando.
   Dalton annuisce. «Certo. Possiamo controllare l'incidenza di angoli e inter-spazi. Dovrebbe essere sufficiente per verificare una coincidenza verosimilmente approssimativa.»
     «Bene.» Annuisco, anche se l'unica cosa che ho capito è che se ne occuperà lui; e io mi fido. Lo fermo però, prima che inizi ad esporre una serie di probabilità statistiche che invece, non ci sia alcuna coincidenza. «Lo faremo.» Annuisco. «Hai già qualche idea?»
   «La Cella di Detenzione è sul lato estremo, ne controlleremo gli angoli. Il Refettorio e l'Infermeria hanno una collocazione mediana invece, sono interspazi abbastanza affidabili.»
     «Questo significa che qualcuno deve finire in punizione e qualcun altro si deve fare male.» Deduco.
Svoltiamo l'angolo e ci ritroviamo sullo stesso corridoio dove Matt ha raggiunto me e Black, prima di cena.
     «Amianto.» Ricordo, all'improvviso: ne sento ancora il sapore artificiale sulla bocca.
     «Cosa?»
     «Amianto.» Ripeto. «Tu sai che roba è?»
     Dalton si volta di poco, ma mi basta per notare la sua espressione sorpresa e gli occhi a mandorla ancora una volta sottili e concentrati. «Amianto?» Torna a darmi le spalle per non attirare l'attenzione delle guardie.
     «È un minerale ignifugo. Per questo iniziarono ad utilizzarlo per la coibentazione di edifici, fabbriche, automobili, treni, navi ed utensili per i Vigili del Fuoco. Finché non hanno scoperto che è tossico.»
       Ho smesso di sorprendermi per conoscenze di Dalton, ormai. «Tossico?»
    «Ah-ha.» Annuisce. «In sé l'amianto non è pericoloso, ma dopo venti, trent'anni inizia a sfaldarsi in fibre che intossicano l'apparato respiratorio. Ci hanno messo più tempo a rimuoverlo dopo che ad accorgersene, infatti.»
     «Quindi non lo usano più?»
     «Certo che lo usano! Ne è proibita la lavorazione, ma non la vendita e in alcuni paesi nemmeno l'utilizzo. Oggi, più che altro, usano la polvere di amianto per armi da fuoco...»
      «Dove diamine credi di andare, tu?» Una mano spunta fuori dal nulla e mi arpiona il braccio, facendomi trasalire.
Mentre Black mi trascina dall'altro lato del corridoio, mi rendo conto che stavo entrano nella Cella Maschile perciò all'inizio lo seguo senza oppormi, ma non appena vengo invasa dal suo rivoltante profumo, sono costretta istintivamente a scrollarmelo di dosso ed allontanarmi.
     Vorrei tapparmi il naso, ma sono ammanettata. Il respiro mi si affanna subito e sento il peso della cena sulla bocca dello stomaco. Non capisco perché gli altri giorni non abbia avvertito nulla di simile quando si avvicinava, non capisco perché solo ora.
Mentre altri due selezionano i detenuti delle celle maschili, Matt accompagna le tre ragazze della Seconda Cella Femminile. Siccome Lily è ancora in infermeria, per la Prima Cella Femminile ci siamo sono io ed Alicia.
     Black tira fuori l'Identificatore e seleziona la mia compagna di cella tramite il suo Bracciale di Distinzione. Poi mi guarda e sospira.
      «Devo sul serio tirare fuori la pistola di nuovo?» Inarca le sopracciglia.
La vista mi si sta annebbiando. Non apro bocca perché la nausea me lo impedisce, mi limito a guardarlo.
     La voce di Hugo alla nostra sinistra, oltre le sbarre della Prima Cella Maschile, arriva alta. «Che c'è, Black? Ti serve un'arma per tenere a bada una ragazza?»
In un'altra occasione sarei scoppiata a ridere solo per schernire Black, per una volta tanto, ma riesco solo ad approfittare delle risate dei ragazzi per fare un altro passo indietro in cerca d'aria pulita. 
     Il soldato si acciglia e noto un solco di rabbia corrugargli la fronte. Tira fuori la pistola e la punta contro Hugo.
«Chiudi la bocca o te la faccio saltare in aria.» Sputa, togliendo la sicura.
   L'altro scoppia a ridere sprezzante, senza smettere di guardarlo. «Smettila di atteggiarti, stronzo. Tanto non puoi uccidermi.» E gli sorride.
Rabbia. Sono così simili. E se Matt non fosse intervenuto tra loro, sono sicura che Black sarebbe finito col staccargli la mandibola a pugni.
     «Jamie, non fare cazzate.» Lo ammonisce severo.
     Black non si muove, in nessuno dei due sensi: non si avvicina ulteriormente a Hugo, ma non si allontana nemmeno.
   Allora, l'altro soldato scuote il capo e si limita ad un «Tra poco scatta il Coprifuoco.» con una piega leggermente divertita nel tono della voce.

      È Matt a siglare il Consenso del mio Ritiro in cella: si frappone tra me e Black, come prima, cercando di tenerci ad una distanza sufficiente.
     Quando il Ritiro viene completato, mentre le sbarre scorrono alle mie spalle, sento i due militari discutere e qualche istante prima che il campo di forza neutralizzi i suoni, sento Matt dire a Black di non mettere più alcun profumo.
     Do le spalle alle sbarre e mi dirigo verso il bagno; tolto il camice con uno strattone, m'infilo subito sotto le docce.
     Il militare Matt non è sempre stato così. Ricordo che era il primo nelle segnalazioni di condotta, il più rigido nel rispetto degli orari e il più disinteressato nell'assegnazione delle punizioni. Hugo ed Aaron portano ancora i lividi del suo manganello sulla schiena. Per certi versi era addirittura peggio di Black, prima.
     Prima di Emma.
La sua Emma si trova nella Seconda Cella Femminile, adiacente alla mia. Da quel che ricordo, è sempre stata occhi lucidi, guance tonde e capelli rossi, quel tipo di ragazza dal sorriso birichino e la risata cristallina, che non nasconde altro che qualche sciocca ed infiocchettata speranza.
     Lei ha sedici anni, lui trentaquattro. E io giuro di non aver mai visto due persone amarsi tanto.
Tutti sanno della loro relazione, tutti fanno finta di nulla: loro compresi. Eppure io li ho visti innamorarsi: da quando Matt la osservava ancora da lontano, con la scusa di sorvegliarla e lei arrossiva continuamente sotto i suoi occhi, tanto che le guance raggiungevano la stessa tinta dei capelli; li ho sentiti la notte rinunciare al sonno e ai sogni solo per poter parlare, timidi e imbarazzati poi a poco a poco più aperti, sicuri, avidi; è come leggere un romanzo o guardare un film di cui l'unica cosa certa della trama è il loro amore, mentre il resto solo ingiustizia.
     Il getto d'acqua si arresta all'improvviso. Alzo lo sguardo verso una delle otto telecamere che ho puntate contro, quella all'angolo della porta di vetro ed esco dalle docce andando contro un vortice d'aria calda che mi asciuga il corpo bagnato.
La parete-specchio che ho davanti riflette i miei capelli mossi dall'aria dell'asciugatore: ciocche bianche che mi svolazzano attorno al viso, tanto bianche da mettere in secondo piano il pallore della pelle; tanto bianche da porre in evidenza prima di tutto la loro anormalità: la mia anomalia. Gli occhi invece non sembrano nemmeno chiari perché non sono semplicemente azzurri o grigi, ma non hanno alcun colore, l'iride non si è mai differenziata dopo la nascita.
     Eppure non è questo a farmi esitare davanti allo specchio, è il mio viso teso: gli occhi rossi, il labbro gonfio, le sopracciglia corrucciate. Riesco a riscuotermi, ad uscire da un groviglio di pensieri che non mi appartengono ed allora sento un nodo al limite dell'esofago, percepisco chiaramente dolore alle gambe ed avverto fitte nervose trapassarmi il cranio; le mie mani sono strette in due pugni contratti e nervosi.
     Metto la divisa che consiste essenzialmente in pantaloncini igienici e camice, nient'altro è concesso, ma prima di uscire dal bagno getto un'altra occhiata al mio riflesso.
     C'è qualcosa che non va.
Esco dal bagno e mi dirigo subito verso il mio letto, sdraiandomi e raggomitolandomi su me stessa. Faccio sempre fatica ad addormentarmi perché tengono le luci accese tutta la notte e in più non possiamo coprirci; ma questa notte chiudo gli occhi e mi concentro sul tremolio delle mie mani. 
     Dimentico le telecamere, le guardie, Alicia, Lily; ci siamo solo io e la sensazione di vuoto che mi strozza la gola, ottura l'esofago e blocca lo stomaco. Ora ci sono solo io e quel qualcosa che non va. Ora ci sono solo io.

     Nel mio sogno Hugo e Aaron salgono di corsa le scale. Raggiungono il tetto e trovano Black seduto sul cornicione ad aspettarli. D'un tratto, si alza e allontana Aaron da Hugo, mentre quest'ultimo lo ringrazia e si dà fuoco.
     Mi accorgo di essere sveglia perché sento freddo. Ho il respiro affannoso e mentre cerco di distinguere ciò che vedo, una lucina - reduce dal sogno - mi lampeggia davanti. È baluginante: compare e scompare, ma riesco a trarne una conclusione ancor prima di comprenderne a pieno il significato. Ed eccolo, il motivo dell'incertezza che mi segue dalla cena, la ragione per la quale continuo a ripetermi inconsciamente 'C'è qualcosa che non va'
   Se l'intero edificio è rivestito da un materiale che non può prendere fuoco, perché dovrebbe esistere un'uscita antincendio?
     Incrocio lo sguardo di due occhi verdi che mi osservano oltre le sbarre. Scatto a sedere: sono sudata, sto tremando. E vomitando.
      È una trappola.



 



________________________________________________


Eccomi qui :)
Lo ammetto, in questo capitolo ci sono molti più indizi di quanti ne avrei voluti. Innanzitutto ci sono alcuni avvenimenti e/o passaggi che hanno una rilevanza particolare: i caratteri della violenza di Black su Nathalie, perché il suo primo istinto è quello di ferirla in alcuni punti piuttosto che in altri; perché ha insistito continuamente affinché lei non andasse in Infermeria sia nei non portarla da Lily che nel non segnalare l'intolleranza, quando è un suo dovere? È davvero un caso che Hugo abbia trovato la piantina del carcere? È realmente la piantina del carcere? E come ha capito alla fine Nath: perché è segnalata un'uscita antincendio se l'edificio è già protetto da ogni forma di calore? Ma soprattutto, è possibile che James Black si sia lasciato sfuggire la parola "amianto"? Una piccola precisione, su Nathalie e sulla sua descrizione: lei è albina perciò ha i capelli bianchi e gli occhi innaturalmente chiari.
Detto questo, grazie per aver letto e, essendo la storia la mia prima originale ed essendo ancora agli inizi, se qualcuno volesse lasciare un parere costruttivo, mi farebbe davvero piacere
A presto, 
Bess

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo III ***


 
 
Image and video hosting by TinyPic


 
 
Capitolo III
 
 
 
   È Lily a svegliarmi, la mattina dopo.
Canticchia.
  In un certo senso è come se stessi aspettando che lo facesse, come se quel motivetto mimato fosse uno stimolo che innesca una serie di reazioni a cascata – dalle orbite che si muovono sotto le palpebre fino alla percezione di freddo ai piedi – che mi portano alla piena coscienza; o probabilmente sono solo la scusa definitiva per svegliarmi. Quando apro gli occhi, riesco ad adattare lo sguardo alla luce più prontamente del solito, riesco ad avere subito una visione panoramica della stanza e di possibili movimenti all'interno di essa, ma non intenzionalmente.
Lily è inginocchiata vicino al mio letto e sta fischiettando ora – mi soffia sul collo – e aspetta che il Rilevatore Omeostatico azzeri la gravità e mi permetta di alzarmi.
   Nella testiera di ogni letto c'è uno schermo che rileva frequenza cardio-polmonare, temperatura corporea, concentrazione idro-salina, secrezione ghiandolare, peso e massa: se questi fattori non sono nella media ed equilibrati tra loro, viene attivata una forza di gravità reattiva che non ci permette di alzarci.
Ed io non riesco ad alzarmi.
   Lily deve averlo capito, credo. Canta sempre quando è nervosa, o quando lo è qualcun'altro. È il suo unico modo di esprimersi perché non è in grado di parlare. All'inizio pensavo fosse timida, poi ho creduto che non conoscesse la lingua, ma non appena mi sono resa conto dei suoi impedimenti anche solo a comprendere i segni, ho capito che aveva difficoltà a livello della comunicazione in tutti i suoi aspetti. In realtà nemmeno le sue canzoncine mimate hanno senso un preciso, ma riescono a concretizzare concetti semplici che partono da un bisogno ed arrivano ad un preciso obiettivo primario, a volte secondario; me l'ha detto Dalton. In questo momento fischietta: il suo obiettivo è aiutarmi ad alzarmi e nasce dal bisogno di mangiare poiché più tempo impiego per avere il Consenso Omeostatico, più ritarderà il trasporto verso il Refettorio e, quindi, la colazione.
   La divisa che indosso è pulita, lo sento dall'odore di sapone e neutralizzante; un odore fastidioso, ma abbastanza affievolito. Per calmarmi cerco di ricordare quando l'ho indossata perché l’intensità degli odori che traspira non è fresca, ma non riesco a spingermi al di là dei ricordi che vanno oltre l'inizio del sonno o prima del risveglio. Dalton mi ha consigliato di tornare sui miei passi quando sono agitata, non ricordo quando l'ha detto, ma mi ha confidato che ripetersi perché è qui e come ci è arrivato lo aiuta, lo rende cosciente; vivere divisi dalla realtà esterna è asfissiante in verità, a volte sembra di non fare nemmeno parte di questo mondo, di essere capitati casualmente in un posto estraneo, dove tutto è estraneo, le persone sono estranee e non si è semplicemente soli, ma naufraghi nel proprio io. Ci sono momenti - momenti come questo, in cui tremo, non riesco a pensare a quello a cui ho bisogno veramente di pensare e posso solo chiedermi perché non ci riesco - in cui mi sembrano tutti estranei, qua dentro, tutti sconosciuti, tutti anonimi, tutti separati, da me e tra loro; tutti soli, tutti vittime, tutti criminali.
   Una volta, Hugo mi ha detto che non riesce a stare al passo dei ritmi imposti qua dentro, che gli sembra di correre continuamente per acchiappare qualcosa e nello stesso tempo per scappare da qualcosa, mi ha detto che, come me, fatica persino a pensare - come se fosse distratto -, che a volte gli sembra che non sia una semplice reclusione, ma una punizione; lo ha sussurrato e non ha aggiunto altro. È stata l'unica volta che ho pianto da quando sono qui.
   «Puoi alzarti, ora.»
Black ha tolto il Campo di Forza e ora sigla i Codici d'Apertura; le sbarre iniziano a scorrere ed a retrocedere all'interno della parete.
   La gravità si è azzerata in seguito al Consenso Omeostatico e nemmeno me ne sono accorta. Scatto in piedi e non riesco ad impedirmi di saltare sul posto perché mi sento insolitamente leggera ed energica, come se avessi un accumulo d’adrenalina in eccesso.
Lily ride nascondendosi la bocca larga tra le mani; la divisa bianca, dalla quale sporgono le sue gambe scarne e gracili, le sta stretta sulla pancia gonfia e crea un contrasto discorde con la sua pelle nera. Rido un po' anche io per non lasciare trasparire troppo il disagio che ha creato l'insensatezza delle sue risa.
   Mentre la Guardia codifica il Riconoscimento dai Bracciali di Distinzione di Alicia e Lily, io ne approfitto per lavarmi.
Non c’è alcuna porta a dividere il bagno perciò mi illudo di avere un minimo di privacy, mettendomi di spalle davanti allo specchio. Mi sciacquo il viso più e più volte; mi ci vuole un po’ di tempo per riappropriarmi dei ricordi e ancor di più per collegarli: ultimamente devo concentrarmi per pensare, mi devo sforzare all’interno di ciò che è mio, mi sembra di dover abbattere delle mura per poter accedere alla memoria e doverne abbattere altre cento per poter agire su di essa, come se fossi violata da altri pensieri – futili, informi, insensati – che tentano di allontanarmi dai pensieri che cerco – indispensabili, definiti, coerenti. Sento che sto lottando per controllarmi, sto lottando dentro di me: sto combattendo nel mio stesso territorio.
 
 
   «Nath, posso avere il tuo latte? Non mi va il succo.»
   No che non può, diamine. È mio, lo voglio io. «Certo, prendilo pure.» Sbotto col tono più disinteressato che mi riesce.
   L’assegnazione dei posti al Refettorio continua a seguire una logica tutta sua: sono in tavola con Emma e Noah, un ragazzo della Seconda Cella Maschile; avrò rivolto loro la parola due o tre volte, non di più.
   «Quindi, ve ne state occupando voi?» Mi chiede Emma, mentre sorseggia il mio latte.
   Tossicchio prima di risponderle, mi schiarisco la voce. «Hugo e Dalton se ne stanno occupando, sì.» Sussurro nella speranza che abbassi la voce anche lei.
   «E tu sei con loro? Voglio dire, ti fidi?» Domanda esitante, guardandomi.
Forse è un pregiudizio ingenuo da parte mia, ma mi sembra che Emma abbia una prospettiva piuttosto fiabesca della realtà; non che sia stupida o sventata – ne è una prova la sua esitazione nei confronti del piano di fuga – però il fatto che lo chieda a me, che si aspetti una conferma, presupponendo che io abbia le idee chiare e che sia pronta a condividerle con lei, quando in realtà a malapena ci conosciamo, francamente mi mette a disagio. Vorrei essere sincera e condividere con lei ciò che solitamente due ragazze confidano tra loro, quando vogliono fare amicizia; vorrei essere onesta nei suoi confronti e confessarle tutto il disagio, i dubbi, i sospetti che mi vorticano dentro, ma Emma, seppur meriti sincerità, non è ciò che vuole: cerca sicurezza e qualcuno a cui appoggiarsi. Io però non voglio che si fidi di me, non sono in grado di reggere il peso della sua fiducia.
   Deglutisco e sostengo il suo sguardo. «Dalton sa il fatto suo.» Non sono né schietta né disonesta, essere generica mi permette di non mentire.
   Emma annuisce, rinfrancata. «Sì, hai ragione.» Mi sorride. «Dalton è un bravo ragazzo.» Mi ruba un biscotto dal vassoio e riprende a mangiare come se nulla fosse.
Incrocio lo sguardo di Noah che ci ascoltava, astenendosi dall’intervenire: si è limitato ad osservare. Lo capisco dalle sue occhiaie e dal suo pallore – innaturale sulla sua pelle mulatta – che non sono l’unica ad avere dei tormenti.
   «Mmh… Noah, i tuoi biscotti sono diversi dai nostri… È marmellata quella?» Emma si sporge sul tavolo, mordicchiandosi le labbra. «Dici che li posso assaggiare?»
Lui inarca le sopracciglia e mi getta un’altra occhiata: scoppiamo a ridere nello stesso tempo. È strano avere una così immediata intesa con qualcuno che non si conosce bene.
   Emma ci guarda offesa. «Hey!» Le scappa un sorriso. «Non è colpa mia se nei vostri vassoi il cibo è più buono.»
   «Certo.» Noah sghignazza e annuisce, poi le passa il piattino coi biscotti. «Tutto tuo, signorina.»
  In realtà è severamente proibito lo scambio di cibo, ma è Matt a vigilare sul nostro tavolo e quando si tratta della sua Emma sa essere tollerante, come mai è stato prima. Ogni tanto la invidio: vorrei essere anche io in un qualche modo protetta da qualcuno che, seppur nei limiti, è in grado di farlo; quando però devo impegnarmi per far finta di non aver notato le occhiate nostalgiche che si scambiano lei e Matt, mi ripeto che non c’è assolutamente nulla da invidiarle.
   «Pss, Aaron!» Approfitto della tolleranza del militare che ridacchia distratto guardando Emma mangiare.
   «Nath!» Si volta e sorride dal tavolo adiacente, e per un momento capisco cosa intende Hugo quando gli dice che ha una faccia da schiaffi.
   «Mi chiami Dalton?» Gli mimo cercando di non attirare l’attenzione delle Guardie.
   «Come?» Domanda lui, piegando il capo di lato. «Mai coccolare una lampada al neon?»
   Mi tiro uno schiaffo in fronte da sola, lo schiaffo che avrei voluto dare ad Aaron. «No! Ti ho chiesto di chiamare Dalton, è nel tavolo in fondo!» Mimo il più lentamente possibile, in modo che possa capirmi.
   «Ci sono i custodi del mondo? E hanno un problema coi miei nei?»  Mi guarda oltraggiato.
Sento Noah soffocare nel peggiore dei modi una risata che altrimenti avrebbe attirato l’attenzione di tutti i tavoli e reso vani i miei sussurri e le mie – a quanto pare, disastrose – abilità mimiche.
Hugo è nello stesso tavolo di Dalton e sono entrambi dall’altra parte del Refettorio. Sospiro, ignorando Aaron e il fatto che stia aspettando che gli dia delle ulteriori spiegazioni; gli do le spalle e torno a guardare Emma mangiare.
   Inaspettatamente, mi rendo conto che Matt si è avvicinato e che sta aspettando il Consenso dell’Identificatore per sigillare i vassoi e permetterci così di alzarci. Mi assicuro di aver mangiato più o meno tutte le porzioni selezionate nel mio vassoio – o almeno quelle che mi ha lasciato Emma –, prima di accorgermi che Matt in realtà non sta per niente controllando l’Identificatore. Mi sposto un poco con la sedia e noto la sua mano sinistra concatenata tra quelle della rossa, sotto il tavolo: la pelle scura di lui che si fonde in quella chiara di lei.
Incrocio le braccia sopra il tavolo e mi ci appoggio, guardandolo chinarsi su di lei, mentre finge di digitare qualcosa sullo schermo tattile del tavolo e di controllare la calibrazione dei vassoi prima e dopo la consumazione dei pasti. Le sussurra qualcosa all’orecchio: lo vedo assumere un’espressione buffa, prima che Emma ridacchi sotto di lui con una vivacità sentita e voluta; Matt dissimula un sorriso soddisfatto e si china su di lei ancor di più: credo che stia annusando i capelli. Lei respira a fondo e non capisco se è il fervore del momento oppure un sospiro. Vorrei sentire che cosa le sta dicendo.
 
   «Spostati.»
Sobbalziamo tutti e tre: io – nel mio angolo del tavolo triangolare –, Matt ed Emma tra le sue braccia; Noah si guarda intorno, attento.
Rivolgo a Black lo stesso sguardo che rivolgerei ad un moccioso capriccioso che, giochicchiando coi cavi, ha tirato quello del televisore, spegnendolo e impedendomi di vedere la scena più bella di un film.
   «C’è Russell. È passato per l’ennesimo controllo.» Tuona, irritato. «Vai a siglare il terzo tavolo, la Chung ti sostituisce qui.»
Matt sospira tra i capelli di Emma, ma si allontana subito dopo con l’Identificatore in mano verso il tavolo vicino all’entrata.
  Christopher Russell è un agente della CIA, decisamente molto più rigido dell’agente FBI  Keira Chung: entrambi sono supervisori e responsabili, ma i loro interventi diretti sono occasionali. So che si rispettano a vicenda, ma so anche che la Chung è sempre stata un poco diffidente ed allerta quando c’è Russell in giro. Ed ultimamente Russell è sempre in giro.
   «C’è qualcosa che non va.» Sento Noah bisbigliare.
Lo guardo: è la stessa frase che mi sono ripetuta tutto ieri e che non smetto di ripetermi inconsciamente tutt’ora.
   Keira Chung, nella sua divisa blu notte dell’FBI, si avvicina un poco inquieta, ma decisamente volitiva e risoluta; ci mette pochissimo a sigillare il nostro tavolo e ad ammanettarci, tanto che siamo i primi ad uscire dal Refettorio.
   Quando sbocchiamo sul corridoio, mentre la Chung convalida l’apertura del vetro rinforzato, mi avvicino a Noah.
   «A cosa ti riferivi?» Domando, cercando di sembrare abbastanza vaga.
   Mi guarda, aspettando che mi spieghi.
   «C’è qualcosa che non va.» Ripeto le sue stesse parole, le mie stesse parole. «Lo hai detto tu prima.»
Emma si avvicina e alterna lo sguardo tra me e lui, interrogativa. La Chung sblocca i cancelli del corridoio: sento le serrature scattare.
   Sto al passo di Noah ed insisto. «Che cosa intendevi, di preciso?»
   Si ferma e lo vedo trattenere il respiro, irrisoluto. «Nathalie.» Non credevo sapesse il mio nome.
   «Sì?» Lo incito ansiosa, quando noto che la Chung ha finito la codificazione dei cancelli. «Dimmi.» Mi ostino a estorcergli quello che ha da dire.
La Chung ci richiama a gran voce, stizzita – quasi adirata, mentre s’incammina torva verso di noi.
   Si allontana un poco e lo sento sussurrare. «Niente. Hai le ciglia scure, però.»
   Rimango seria per un po’, giusto qualche secondo, prima di sentire la risata di Emma ed uscirmene con un irritato: «E questo che c’entra?»
Probabilmente è stata una copertura dell’ultimo momento, visto che l’agente FBI era a pochi passi da noi, ormai a portata d’orecchio; oppure, solo un modo raffinato – irritante ed irritato – per invitarmi a farmi gli affari miei.
   «Camminate in fretta.» La Chung ci spinge, quasi. «In fretta.» Ripete sbrigativa, aprendo l’ultimo cancello. «Voglio assoluta disciplina. Un’Ora della Tregua assolutamente pulita.» Ci toglie le manette, senza perdere il suo cipiglio minaccioso.
Noi entriamo in biblioteca. Lei rimane fuori ad aspettare gli altri.
 
   Abbiamo tre pause al giorno che prendono il nome di Ora della Tregua: il diritto di circolare liberamente – a distanza media dalla Sorveglianza e senza manette – in biblioteca oppure in palestra.
   Non faccio in tempo nemmeno a guardarmi intorno ed elaborare una strategia per far parlare Noah che Hugo compare all’improvviso alle mie spalle, mi prende per il braccio – facendo un sorrisino innocuo in direzione del cipiglio turbato di Emma – e ci allontaniamo.
   Sentiamo Aaron alle nostre spalle lamentarsi di non aver finito di mangiare. «… Al di là del fatto che ho ancora fame.» Distinguo la sua voce, tra quelle degli altri che stanno entrando ora in biblioteca. «… Così sprecano cibo! Io voglio solo il mio panino con formaggio e marmellata. Datemelo e nessuno si farà male.»
   Io e Hugo c’infiliamo nella sezione di romanzi in lingua originale, dietro lo scaffale della letteratura del Settecento. Aspettiamo guardinghi che Aaron ci raggiunga, ma quando – sentendo a distanza le sue lamentele – ci rendiamo conto che ne ha ancora per molto, Hugo decide d’intervenire.
   «Tu stai qui.» Mi dice, sospirando. «Lo vado a prendere.»
   Annuisco. «Chiama anche Dalton!» Lo raccomando.
Mi siedo per terra e incrocio le gambe, poggiando la schiena sullo scaffale adiacente. Dopo un po’, prendo in mano un libro a caso ed inizio a sfogliarlo; quando però mi rendo conto che è in giapponese, lo metto subito via onde evitare figuracce. Ne cerco un altro comprensibile tra gli scaffali in basso, finché non lo trovo: una raccolta di poesie di un certo Tredjakovskij.
   Mentre ne leggiucchio qualcuna, sento la voce di Aaron interrompersi bruscamente e – anche se non posso vederli, rintanata qui – riesco ad immaginarmi a distanza Hugo tirargli un ceffone e trascinarlo via, mentre si lamenta.
   «Nathalie.» Una voce alle mie spalle.
   Mi volto e sorrido. «Dalton.»
Gli faccio spazio accanto a me.
   «Ti dico che non puoi litigare con un’agente FBI per un panino al formaggio, idiota!» Hugo spunta da dietro il ripiano, col volto rosso.
   «Certo che no.» Concorda ragionevolmente l’altro. «C’era anche della marmellata.»
  Dalton li ignora, come ormai si è saggiamente assuefatto a fare, e mi prende dalle mani la raccolta di poesie; scorre le prime pagine corrucciato e poi mi guarda interrogativo.
   Scrollo le spalle. «Non riesco a concentrarmi, ultimamente.» Abbasso la voce. «Forse leggere mi aiuterà a riordinare i pensieri.»
   Mi guarda confuso e decisamente turbato. «Leggendo in una…»
   Hugo lo interrompe, sedendosi davanti a noi. «Comunque abbiamo il piano!» Si lascia sfuggire un piccolo ghigno, mentre lo annuncia.
   Aaron si siede vicino a lui e lo spintona; Hugo risponde con una gomitata ben assestata, superficialmente. «Dalton ha detto che possiamo controllare se la piantina corrisponde all’edificio.» Riprende tranquillamente, parando la gomitata che Aaron tenta di tirargli facendo finta di stiracchiarsi. «Infermeria, Refettorio e…»
   «Cella di Detenzione.» Completa Dalton, al mio fianco. Si rigira ancora tra le mani il libro che avevo, credevo non stesse ascoltando. «A grandi linee pare che il Refettorio vada bene, ma sono decisamente molto più affidabili gli angoli, in questo caso.» Esplica, guardando il numero di pagine della raccolta di poesie di Tredjakovskij.
   Hugo annuisce. «L’idea è questa: io ed Aaron facciamo a botte, io gli spacco la faccia, lui finisce in infermeria, io nella Cella di Detenzione; tu e Dalton-»
   Aaron lo interrompe, guardandolo con le sopracciglia corrucciate. «Perché non posso spaccartela io, la faccia?»
   Hugo digrigna i denti: odia essere interrotto. «Perché non sarebbe credibile.» Gli sorride, lezioso.
  «No.» Interviene Dalton, prima che possano approfondire ulteriormente la discussione. «Devo esserci io, nella Cella di Detenzione. Devo controllare personalmente.» Alza finalmente lo sguardo dal libro. «In infermeria voglio Nathalie.»
   Chino il capo di lato. «Cosa dovrei fare io?»
   «Ti dirò perfettamente che cosa devi controllare.» Promette, guardandomi. «Ma non si tratta solo di controllare il perimetro…»
   «Oh, già.» Salta su Hugo, un poco a disagio.  «Ci servono un altro paio di cosette.»
   «Perché state creando suspense?» Sbotta Aaron, irritato. Lo ringrazio con un sguardo complice.
  «D’accordo. Io e Dalton ci occupiamo della Cella di Detenzione.» Riassume Hugo, fermo. «Tu e Nathalie dell’infermeria: tu crei un diversivo che basti ad attirare l’attenzione delle telecamere e dell’infermiera; Nathalie controlla gli angoli, ruba la morfina e tutto il disinfettante che riesce a…»
   «Aspetta, aspetta, aspetta…» Lo fermo. Mi volto col busto e lo guardo. «Che cosa?»
   Hugo scrolla le spalle ed alza le mani in segno di resa. «Indicazioni di Dalton, chiedi a lui.» Gli fa un cenno.
Mi giro verso Dalton e lo guardo con gli occhi sgranati.
   «Sono precauzioni necessarie.» Spiega paziente. «Devi innanzitutto chiedere all’infermiera un sonnifero, dille che hai problemi d’insonnia genetici e che la melatonina non ha mai funzionato.»
   «Melatonina?» Domando, indecisa.
  «Una sostanza naturale che riequilibra i ritmi sonno-veglia.» Chiarisce subito, senza smettere di guardarmi. «Se vogliamo addormentare quattro Guardie, non bastano soporiferi o stimolanti naturali.» Esita, ma è una pausa voluta. «Se non ti dà un sonnifero abbastanza forte – il che è molto probabile –, dobbiamo ricorrere ai narcotici.»
   Aaron s’intromette, sorridendo esaltato sul posto. «Vuoi drogarli?»
   «Voglio tenerli buoni finché non saremo abbastanza lontani. Con loro svegli non facciamo due metri.»
   Annuisco. «D’accordo, va bene.» In effetti ha senso: non mi ci vedo ad atterrare Black con un pugno, decisamente no. «E la morfina?»
   «Fondamentale previdenza: non sappiamo quanto ci metteremo, un antidolorifico farebbe comodo; così come il disinfettante.»
Tiene conto di eventuali difficoltà, giustamente; io non avevo preso in considerazione simili problematiche.
   Hugo tossicchia, grattandosi la nuca. «Senti un po’» Si rivolge a Dalton, guardandolo ad occhi bassi. «Sto qua ce lo mando in infermeria io.» Fa un cenno ad Aaron e al suo cipiglio contrariato. «Ma Nathalie?» Mi getta un’occhiata rapida. «Se vuoi che ti mandino in Detenzione…» Si chiarisce la voce. «Hai… Intenzione di… Picchiarla?»
   Aaron, di fianco a lui, fa una faccia pensierosa. «Puoi fare finta di stuprarla.» Propone scrollando le spalle. «È abbastanza credibile.»
   «Perché devi dire cazzate?» Hugo sospira, sconsolato. «Voglio solo capire perché
   Sbatto le palpebre, guardando prima l’uno poi l’altro; faccio per rispondere, ma Dalton termina il suo sbadiglio e mi precede. «Nathalie può inventarsi una scusa sul momento. Io devo passare per la lavanderia, prima. Smonterò l’impianto idrico e creerò abbastanza danni da raggiungerti nella Cella di Detenzione, stanne certo. Devo trovare il serbatoio della candeggina, non sono sicuro che i disinfettanti bastino per l’esplosione.»
   «Come sarebbe a dire esplosione?» Aaron è sorpreso quanto me. «Nessuno ha mai parlato di esplosioni.»
   Hugo sbuffa, spazientito. «Perché, tu come pensavi di superare i cancelli, senza Codici od Impronte d’Identificazione?»
   «Tirando a caso, no?»
  Dalton interviene, concreto e risoluto. «Cloro ed ossigeno.» Dichiara, abbassando un poco la voce. «Acido corrosivo dove basta, deflagrazioni più o meno potenti dove è necessario.»
   Mi sudano le mani, le asciugo sulla divisa. «C’è una cosa che…» Getto una piccola occhiata a Hugo, ad Aaron ed infine a Dalton. «Credo dovresti sapere.»
   «Ti ascolto.»
   Annuisco. «Ti ricordi quello che hai detto sull’amianto, ieri?» Domando giusto per aprire il discorso. «Hai detto che è ignifugo, giusto?»
   «Ignifugo?» Mi ferma Hugo.
   Dalton annuisce. «È altamente resistente al calore, in pratica non può prendere fuoco.» Mi guarda, invitandomi a continuare.
   «Se sulla piantina è indicata un’uscita antincendio…» Riprendo prima d’interrompermi da sola subito dopo: credo abbia già compreso dove voglio andare a parare.
   «Non capisco.» Mi guarda, Hugo. «Cosa c’entra l’amianto?»
   «Black ha detto qualcosa tipo…» Sospiro e mi mordo l’interno della guancia. «Sembrerebbe che l’edificio ne sia rivestito.»
   Dalton scatta, attento. «L’ha detto Black?»
   Scrollo le spalle, annuendo.
   «Non capisco dove diavolo è il problema.» Sbotta Aaron, aprendo teatralmente le braccia e sbuffando.
   Sospira. «L’uscita antincendio può essere un’indicazione generale di evasione d’emergenza: in caso di allagamento, fuga di gas o terremoto, ad esempio. È impossibile che un edificio – soprattutto uno così recente – non abbia un imbocco alternativo a quelli principali. A questo punto, però, l’incognita è un’altra.» Dalton si passa la mano tra i capelli. «A questo punto, il problema è decisamente un altro.»
   Inchioda gli occhi in un punto esattamente al centro del cerchio che abbiamo formato sedendoci; è buffo perché sembra che mi stia fissando i piedi. Da piccola rubavo gli smalti a mia mamma, mi nascondevo dentro l’armadio – ero davvero piccola, ci stavo comodamente dietro le ante – e mi paciugavo mani e piedi. Ridevo compiaciuta tra me e me quando non mi diceva nulla, mi nascondevo le mani dietro la schiena ed i piedini sotto le calze: credevo davvero non se ne accorgesse.
    Scuoto il capo e guardo Dalton. «Cosa non ti convince?»
   Ricambia lo sguardo, da un po’. «Black non è stupido, Nathalie. Il nostro problema è che Black non è per niente stupido, nemmeno quel poco che basta per essere cattivi.»
   «Hey!» Aaron alza una mano ad interromperci. «Forse Black non del tutto stupido, va bene.» Conviene, spazientito. «Ma è malvagio!» Hugo si copre il viso con le mani e gli bestemmia contro a bassa voce, ma Aaron non si ferma. «Avanti, Nathalie!» Mi incita. «Diglielo! Senti, Black è posseduto da uno spirito crudele, te lo posso giurare…»
   Hugo gli tappa la bocca con la forza. «Io lo porto via.» Dichiara, alzandosi e trascinandoselo dietro. «Perché non torni dalla Chung a litigare per il tuo panino al formaggio?» Lo spintona.
   Aaron gli fa la linguaccia, indispettito. «Ti ricordo ancora una volta che c’era anche la marmellata di fragole.»
Prima di scomparire dalla nostra visuale, riusciamo a scorgere Hugo prendere un libro a caso dallo scaffale dietro e sollevarlo. Credo glielo abbia tirato in testa.
   Mi lascio sfuggire un sorriso, prima di tornare a Dalton. Noto che si è alzato e lo faccio anche io.
  Lui si stiracchia e rimette il libro che stavo leggendo al suo posto, nell’ultimo ripiano. «Lo so che Black non ti piace.» Inizia, spostandosi verso un’altra sezione della libreria.
   Lo seguo. «Non è che non mi piace, è solo che…»
  Alza le sopracciglia scettico. «Nathalie, lo sai vero che non può essersi lasciato sfuggire la questione dell’amianto? Sai che è stato lui a mettere Hugo in punizione nella lavanderia, nell’esatta ripartizione in cui ha trovato la piantina?»
Ci fermiamo poco lontani dal tavolo centrale della biblioteca, attorno al quale sono riuniti tutti gli altri; lui si appoggia al muro di spalle ed io mi avvicino.
   «Se Black ha qualcosa da dire, ci conviene ascoltarlo.»
   Incrocio le braccia sotto il seno. «Pensi davvero che abbia qualcosa da dire?»
   «Scopriamolo.»
Tra un’anta di libri grechi e l’altra, scorgo Emma ridere. Continua a riportarsi le ciocche rosse dietro l’orecchio, anche se i capelli sono lisci e perfettamente in ordine. Scommetto che Matt è in Vigilanza all’entrata e la sta guardando.
   «A proposito di persone che hanno qualcosa da dire… Credo che dovresti ascoltare Noah.»
  Dalton sta fissando il pavimento, concentrato e con le sopracciglia aggrottate. «Noah Roberts? Seconda Cella?» Annuisce. «Solo se in cambio mi fai favore.» Sta ancora guardando il pavimento, con la stessa intensità.
   Sbuffo e mi allontano dal viso ciuffi bianchi sfuggiti alla treccia che mi ha fatto Lily, stamattina. «Mi sembra già uno scambio equo, no?»
  «Quando sarai in infermeria,» Riprende tranquillamente lui. «ruba una siringa di adrenalina.»
  Piego la testa di lato. «Quanto è lunga la tua lista di precauzioni?» Mi lamento. Spero che l’ansia non si sia fatta strada tra l’apparente fastidio.
   Rialza lo sguardo dal pavimento su di me. «Non è per la fuga.» Sussurra, stanco. «Ci sono conti che non tornano…»
   «Quali conti?» Sto bisbigliando anche io, involontariamente.
  «Ci svegliamo ed addormentiamo tutti nello stesso, preciso, rigoroso istante.» Spiega, impaziente. «È umanamente impossibile tanta coordinazione ed altamente sospettosa la mancanza di eterogeneità.» Si asciuga il sudore sulla fronte. «Ieri tu avevi il labbro gonfio, Nathalie, avevi un graffio nel piede sinistro ed ora non c’è più nessuna traccia di entrambi.»
Ricordo perfettamente come Black mi abbia tirata dai capelli, ricordo l’esatto momento in cui mi ha sbattuto la faccia contro il muro, ricordo il dolore quando mi ha pestato i piedi.
   Si porta una mano tra capelli e tira qualche ciocca. «Li vedi quei condotti?» Indica dei tubi sopra le nostre teste, nel lato tra il soffitto e il muro adiacente. «Non sono di regolazione termica, se li tocchi sono a temperatura ambiente.»
Faccio un poco fatica a respirare mentre cerco di capire cosa mi sta dicendo e perché ne è tanto atterrito. Forse terrorizzato, forse disgustato. Mi prendo un momento per rendermi conto che ha accuratamente aspettato che fossimo soli per dirmelo, che forse è più grave di quanto supponevo, ma senza dubbio coerente che il mio “C’è qualcosa che non va”.
   «Ci sono due possibili spiegazioni.» Le conta sul pollice e l’indice della mano sinistra. «O è un condotto di areazione ossigenante, e noi siamo sotto il livello del mare…»
   Deglutisco, senza smettere di guardarlo. «Dici che ci passa ossigeno, quindi?» Valuto la sua prima ipotesi, ma la sola idea di essere sotto terra mi soffoca. «Oppure?» Lo esorto a continuare, quando noto la sua esitazione.
   «Oppure ci passa qualcos’altro.»
 
 
   L’allarme suona non appena io e Dalton raggiungiamo gli altri e ci sediamo nel tavolo centrale. È basso, in realtà, ma riesce ad attirare in fretta l’attenzione di tutti i presenti.
   Qualcuno si alza, si allontana; qualcun altro si limita a stare in silenzio ed aspettare; io mi volto verso le Guardie: Matt Andersen e James Black, appoggiati di schiena contro la porta. Si guardano, complici, ma distolgono immediatamente lo sguardo, un poco più arresi. Black respira profondamente, ma è abbastanza controllato; Matt cerca con gli occhi Emma.
   «Che diavolo è?» Sean, un altro ragazzo della Seconda Cella, indica il tavolo.
Questo s’illumina: è uno schermo.
Compare uno studio, dietro alla scrivania è seduta una giovane donna. Ha una bella pettinatura, curata e precisa: mi fermo ad osservarla perché mi ricorda l’acconciatura classica di mia mamma.
   «Telegiornale?» Chiede qualcuno.
Sembrerebbe proprio di sì, ma nessuno risponde.
  «Ci scusiamo per l’improvvisa interruzione dei programmi d’intrattenimento quotidiani in vista dell’aggiornamento degli accordi del Congresso di Amsterdam, tenutosi questa mattina. Il ministro degli esteri russo non si è presentato all’evento prefissato ed il portavoce delle Nazioni Unite è in ritiro per ragioni di sicurezza.» Cambia foglio, rialzando lo sguardo verso la telecamera per una frazione di secondo. «Un telegramma alla Casa Bianca ha giustificato l’assenza della Repubblica Federale Russa con una dichiarazione di mobilitazione dell’esercito, confermato dallo sbarco della flotta a Cuba.» Mentre lo annuncia, vengono proiettate alle sue spalle una serie d’immagini scattate con il satellite. «Tutti i cittadini maggiorenni statunitensi sono invitati a prestare servizio militare od infermieristico, esclusi gli invalidi ed i diversamente abili. Le trasmissioni radio-visive serali saranno sostituite da programmi che metteranno al corrente tutti i civili della situazione in caso di variazioni od aggiornamenti; oppure si procederà all’istruzione delle modalità di difesa e l’indicazione dei punti di riparo atomico più vicini. Raccomandiamo il minimo utilizzo delle linee telefoniche al fine di non intasare il sistema di comunicazioni d’emergenza.» Mette da parte i fogli e fissa la telecamera. «Il presidente avverte l’intero paese dello stato d’allerta: è guerra.»
 


 
_________________________________________________________

 
 
Ok, ok, ok
Sono cosciente del fatto che è tutto troppo intricato, nonostante questo capitolo sia ricchissimo di indizi – probabilmente molto più di quanto lo saranno i prossimi. Ho deciso che al temine di ogni capitolo indicherò una serie di parti/espressioni/descrizioni/battute sulla quale bisogna porre particolare attenzione.
Ergo, prendete appunti:
•    Per sapere la verità, o la verità più probabile: se volete fidarvi di una delle Guardie, Black e la Chang “hanno da dire”; se volete porre la vostra fiducia in un detenuto, allora nessuno e meglio di Dalton, ma nemmeno Noah scherza.
•    Attenzione ad Emma ed alla sua golosità improvvisa.
•    Aaron: credetemi se vi dico che non è stupido, per niente. 
•    Attenzione alla reazione dei due militari, quando hanno saputo che la Russia ha dichiarato guerra agli USA. Non so, non sembravano sorpresi, no?
Ora voglio ringraziare le persone che non se ne sono andate solo perché si sono rese conto che la storia è seria e complicata. Lo so che sono ripetitiva, ma seguire una storia intrecciata e starci dietro non è proprio comodissimo. Spero che ci sia ancora qualche anima disposta a lasciarmi un parere, sia qui su EFP che altrove: insomma, se siete timidi, mi potete aggiungere su Facebook, mi potete mandare un telegramma, una raccomandata, messaggi alle due di notte, un gufo, mi potete anche recensire telepaticamente, se volete.
Sul profilo efp di Facebook sembro un po’ terrorista, ma in realtà sono carina e coccolosa :3
D’accordo, me ne vado.
A prestissimo ♥
Bess





 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


 

Il punto di partenza
Capitolo IV
 
 


 
C’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato.
Erroneo in termini matematici: è la somma che ne traggo senza volerlo in un tremolio dolente prima sullo stomaco, come fosse il peso di tutto ciò che potrebbe essere costruito sulle fondamenta sbagliate, poi esattamente nello stomaco, dentro, dove stanno confluendo le parole di Emma in lettere difformi, spezzate quando le ho inghiottite, perché non so respirarle.
Ha parlato a pugno prima di chiunque altro, tentennando un chi diavolo fa guerre di questi tempi?
Dalton non la guarda e non guardarla rientra nei mezzi che giustificano il suo fine. 
«Non possono certo fare una guerra!»
Il tono di Emma è sdegnato, gli occhi cercano un alleato, qualcuno disposto a condividere e sostenere il suo parere riguardo l’edizione speciale del telegiornale nazionale.
Nessuno risponde, non verbalmente. Qualcuno dice qualcosa, sì; ma nessuno le risponde.
«Non ci voleva, dannazione.» Hugo è seduto esattamente vicino a me, perciò il suo sconforto mi pesa molto più di quanto altrimenti farebbe. «Non potevano riscaldare la loro Guerra Fredda in un altro momento?»
«Ma è perfetto, invece!» chiaramente Aaron ha da ridire. «Se l’intero paese è in guerra chi diavolo vuoi che faccia caso alla fuga di quattro ragazzini?» ammicca anche, nella sua convinzione.
Ora l’esasperazione di Hugo e la mia sono tutt’uno in nome del veto di parola che Aaron Nelson ha appena assassinato tre giorni dopo averlo giurato. Hugo mi guarda e dopo un po’ faccio lo stesso perché mi sento a disagio.
«Quindi è vero? State davvero progettando di scappare?»
Se le voci sul piano di fuga sono arrivate fino alla seconda cella maschile, c’è un buco nell’acqua. E per quanto mi riguarda, Aaron può anche marcire in questo carcere per il resto di tutte le nostre vite messe assieme, anche fin quando del suo cadavere non resteranno che ossa e capelli. Perché il buco nell’acqua è una bolla di ossigeno destinata a tornare a galla ed esplodere contro l’aria.
«È solo un’idea.» tenta di controbattere Hugo, quando capisce che io non l’avrei fatto se non con la sedia sulla quale sono seduta, in faccia ad Aaron.
Dalton non dice niente perché sta continuando a fare i calcoli in silenzio, dove io mi sono fermata e capisce quanto è matematicamente erroneo, tutto ciò.
«Un’idea che, a quanto pare, siete arrivati al punto da attuare.» non conosco Dominic, ci siamo scambiati mezza parola e solamente perché gli ho chiesto se voleva scambiare il secondo piatto col mio, al refettorio. Lui non ha risposto, in segno di indubbio diniego, ma non ha nemmeno mangiato il suo secondo piatto. Semplicemente non voleva rischiare una punizione solo per fare un favore a me. Per questo vorrei che a parlare fosse Dalton e non Hugo, non io e, né ora né mai più, Aaron.
«Non avete pensato che sarebbe stato un minimo obiettivo coinvolgerci?» non so di chi sia la seconda voce, un altro detenuto della seconda cella maschile senza dubbio, ma non sposto gli occhi dalla divisa che indosso per verificarlo.
«Non stiamo facendo le squadre per giocare a caccia al tesoro, stiamo cercando di salvarci il c…»
«No, sarebbe stato onesto.» Dalton interviene prima che il tono di Hugo arrivi fin alle guardie, ferme sull’attenti davanti al portone. «Tecnicamente, non avervi coinvolti è stato obiettivo.»
«È tutto quello che avete da dire?» Dominic ride, o meglio, di lui ride solo una metà del volto perché pensa di avere ragione. In effetti, a suo modo ha ragione; ma i suoi modi non sono i miei. E la ragione è dei deboli.
«Stai facendo una domanda intelligente senza volerlo, prova a riformularla rispettando delle tue intenzioni.»
Mi ha sempre profondamente indignata sentir pronunciare sentenze piene e solenni, senza propositi o voleri, ideologie o convinzioni a supporto delle sentenze stesse. È come vincere per puro caso, contro tutti coloro che dal tempo della loro vita faticano per quel titolo. E non è una questione etica di corretto o scorretto, è una questione meritocratica tra giusto ed ingiusto. Non sopporto sentire i deboli erigere la ragione che sola vantano, a danno di chi ragione a tollerato e sormontato; a danno di chi ha capito che aver ragione, in vita perlomeno, è solo mera lussuria e vanità circoscritta alle debolezze umane. Chi ha ragione non ha ragione per virtù o meriti, ma perché qualcuno è più palesemente stupido di lui.
È il fatto che Dalton sia tornato al presente storico dei fatti e delle parole a sollecitarmi ad intervenire, ma Dominic se lo aspettava. Me lo aspettavo anche io da quando, un’oretta fa, mi sono seduta nel posto libero vicino a lui e non quello affianco ad Emma. Ce lo aspettavamo entrambi dalla prima volta che gli ho parlato, gli ho chiesto qualcosa e lui ha preferito negarmelo a bocca piena e chiusa, piuttosto che essere banalmente gentile, convenzionalmente cavalleresco, un minimo avventato e dare onore ad una possibile alleanza o complicità. Se quella sera, al refettorio, avesse accettato, oggi, qui, sarebbe già al corrente della fuga.
Dopo le mie parole sorride, lentamente. «Pensi che vi dovremmo leccare il culo solo perché vi siete erti a capitani dell’arrembaggio?»
«Sì.» e lo penso davvero. «E vi toccherà farlo indipendentemente da quello che penso io.»
«Ha senso.» concorda Aaron. Il ché mi farebbe piacere – se Aaron non fosse Aaron. «Mi spiace, amico. Legge del più forte.»
«E tutto questo protagonismo…» ride e qualcuno lo segue – ride davvero, con forza di volontà e sono in molti ad accompagnarlo in quella risata schietta, con la stessa spinta sentita. «… solamente perché siete arrivati- oh, scusa, siete partiti prima e per un po’ di ripicca infantile?»
Dalton guarda Hugo, Hugo guarda me, Aaron non m’importa chi sta guardando, ma io guardo uno ad uno chi non è stato coinvolto nella fuga quando decido di essere egoista nel modo più legittimo in cui mi è concesso esserlo. «No, tutto questo perché non voglio finire sulla sedia elettrica per aver affidato la mia vita a degli sconosciuti che ho incontrato in un carcere di massima sicurezza del Nevada.»
«Ha senso.» ripete di nuovo Aaron, mangiucchiandosi un’unghia con fare pensoso – spero sia pensoso perché si è reso conto di essere un idiota e successivamente si è anche assunto la gravità della sua idiozia in termini pratici.
Dominic lo guarda e scrolla le spalle, ma volta la sedia verso di me. «D’accordo. Domanda ed io risponderò.» ha un occhio, l’occhio sinistro un po’ arrossato, probabilmente un capillare rotto.
«Vuoi scherzare?» lo apostrofa Hugo sopra la mia spalla. «Su di te possiamo mentirci senza il tuo aiuto, grazie.»
Guardo Dalton. Lo faccio perché mi viene naturale, perché voglio assicurarmi che calcolare ciò che è erroneo non l’ha allontanato ancora una volta dal presente storico e perché mettere a disagio Dominic mentre mi fissa, mi si rivolge è tutt’un altro approccio alla vita.
«Il discorsetto delle caramelle dagli sconosciuti avresti dovuto fartelo prima di ritrovarti di tua spontanea o meditata volontà con degli sconosciuti fino ad essere coinvolta in un crimine che ti è valso il carcere nonostante la minore età.» mi parla come se fossimo in un momento di intimità, solo io e lui, e mi stesse dando un consiglio, un avviso prematuro e non tardo; ma non riesco a porre un limite alle sue frasi e alla loro combinazione, tanto meno al tono strascicato col quale sono state esalate e mai lo sguardo che le ha accompagnate: le sue parole mi ricordano che non mi è concesso giocarmi la carta della diffidenza quando si tratta di persone con le quali condivido lo stesso crimine e la stessa sentenza.
«Nome. Nome completo.» chiedo quando decido che avrei pensato al suo avvertimento in un altro momento.
«Dominic Hinterwaldner.»
«Non hai un secondo nome?»
«No.»
«Di dove sei?»
«Juneau.»
Mi giro verso Dalton, anche perché voglio una tregua dal contatto visivo con Dominic, e la sua reazione è immediata quanto distratta. «Alaska.»
Quando ristabilisco il contatto visivo è lui a darmi una tregua perché non mi fissa più negli occhi, mi guarda ancora, ma non negli occhi. «È persino la capitale di stato.» si lamenta della mia ignoranza geografica.
«Come ci sei arrivato fin qui dall’Alaska?»
«Esattamente come ci sei arrivata tu, Nathalie Downey.» e sospira.
Trattengo io il respiro per compensare ogni particella d’ossigeno che lui si sta prendendo il tempo di inspirare e scaricare poi in anidride carbonica che rimane incastrata nello spazio tra le nostre due sedie, nociva come le risposte che stiamo nascondendo nelle domande.
«Come ci sei arrivato fin qui?» ripeto, corrugando le labbra.
«Te l’ho detto, es-»
«Come sei arrivato fin qui dall’Alaska, rispondi.»
«Ok.» torna a guardarmi negli occhi. «In treno.»
Persino Hugo vede il lato tragicomico e mi dà una piccola spinta, non nascosta, agli occhi di tutti.
«Età?»
Questa domanda gli piace perché piega di nuovo il labbro superiore. «Ventisei.»
«Non mentire, Hinterwaldner. Non ti conviene.»
Poggia una mano con azzardo sul mio ginocchio dal quale rialza lentamente lo sguardo fino al mio viso rosso, lo sento rosso ancor prima che caldo. «Tu, mia dolce Nathalie Downey, pensi davvero di valere la moralità degli altri, non è vero?»
Hugo mi rifila la stessa gomitata di poco prima. «Non mente, Nath, lascia stare.»
Mi volto verso di lui ed allontano il suo braccio. «Non può avere ventisei anni, questo… mi hanno detto che qui sono stati reclusi solo quelli di noi che erano… che sono minorenni.»
Dalton mi guarda e non mi piace come mi sta guardando perché di solito mi guarda il meno possibile; ci ho fatto caso. «Nathalie, io ho venticinque anni.»
Hugo alza il braccio che ho spinto via dal mio fianco. «Ventuno.» dichiara, poi indica Aaron. «Ventitré.» passa ad un ragazzo della seconda cella maschile, credo un certo Bruce perché è l’unico col quale vedo Aaron e Hugo parlare, ogni tanto. «Diciannove.» fa per enumerare qualcun altro, ma ci ripensa sul momento e scolla le spalle. «Sarete in due o tre ad essere minorenni, qui.»
«Ma…» mi rivolgo a Dalton perché ho bisogno di certezze. «Questo significa che dovrete prestare servizio militare.»
«Non è un mio problema. Non sono cittadino americano.»
«Perfetto.» annuisce Aaron. «Noi fottuti sfigati ci accontenteremo di disertare in tutta vergogna ed emigrare in Kazakistan.»
Dalton fa sobbalzare un sopracciglio, prima di riportarlo in linea piana e parlare senza guardare nessuno in particolare. «Prima assicurati di sapere con certezza con chi deciderà di allearsi il Kazakistan.» 
«Oh, ho controllato» sorride ed indica i reparti della biblioteca alle sue spalle, chiaramente si riferisce ad una o due sezioni in particolare, probabilmente quella di geografia o quella di storia, ma il suo cenno è vago fino a comprenderle tutte quante. «E ci sono solo un paio di libri che ne parlano. È un posto… diciamo che non se lo caga nessuno. Lo si usa solo per fare paragoni geografici quando l’Uganda fa poco effetto.»
«Dove diavolo è il Kazakistan?» chiede Bruce.
Aaron si pronuncia in una smorfia soddisfatta. «Ecco, appunto.»
So che Bruce ha confidenza con Aaron, ancor di più con Hugo; ma non mi risulta che ne abbia con Dalton, quindi non ho un pensiero relativo sul suo conto tranne che è bravo a comparire e scomparire: siamo dodici detenuti ed io lo noto solo per associazione a due delle cinque persone con cui mi ritengo essere in confidenza; non so vederlo quando è solo o nel suo ambiente, con quelli con cui ritiene lui di essere in confidenza, nonché Noah e Dominc, i due con cui condivide la seconda cella maschile. Noah è chiaramente elastico, flessibile, duttile – ho visto le sue improvvisazioni e ho sentito quali parole ne sono comportate dopo averci condiviso il tavolo al Refettorio per una sola colazione. Dominic è la prosopopea dello schiaffo in faccia, dopo una conversazione chiusa, con tanto di testimoni, ne sono uscita con metà delle calorie bruciate e metà delle convezioni sulle quali edificavo la mia stessa esistenza distrutte; soprattutto, le ha distrutte non per mezzo delle sue risposte, ma delle mie domande.
Tra la prima cella maschile e quella femminile stiamo organizzando una fuga; mi chiedo che accada nelle seconde celle, mentre noi “ci ergiamo a capitani dell’arrembaggio”.
«Lo sai, vero, che il Kazakistan confina a nord con la Russia?» Dalton è tornato a fare i suoi calcoli, un modo immediato e preciso, direi scientifico di ignorare consapevolmente Aaron; è Hugo a tentare di rimediare. «E che la Russia è in campo a combattere la guerra che per prima ha dichiarato?»
«Cosa ti fa credere che non siano gli Stati Uniti ad averla dichiarata?» è Emma, crede ancora che la guerra possa essere faccenda di ripensamenti. Mi estrometto dalla discussione allontanando un poco la sedia dal tavolo ed incrociando le braccia; lo giuro, Dominic ha sorriso nel vedermi farlo.
«Perché ho detto dichiarata e non provocata.»
 
Ho passato le ultime discussioni di strategia militare tra Aaron, Hugo ed Alicia a cercare di elaborare io stessa una strategia per avvicinare Dalton, anche se sono sempre io ad avvicinarmi per prima, sempre io ad avvicinarmi di più. Ho bisogno dell’occasione in cui siamo solo io e lui e tutti i compromessi che comporta l’essere, l'esserci solo io e lui – e nessun altro, nessuno in più ad alterare i calcoli che sta portando avanti lui e che io sto cercando di riprendere dove mi sono fermata quando l’espressione aveva rivelato più di un’incognita ed io non detenevo e non detengo i mezzi per manipolarla; ho bisogno dell'occasione per essere, esserci solo io, lui, compromessi, calcoli, incognite e nessuno d’intralcio come chiunque altro può esserlo. Come sono stati d’intralcio Hugo ed Aaron, a volte; come lo sono stati Dominic e Noah, oggi; come lo sono i dubbi, sempre. Ma i dubbi sono serpenti a doppia coda e senza una testa da mozzare che, invidiosi di non averne alcuna, s’insidiano nella mia di testa e ne fanno tana, ne fanno dimora e la curano ed arredano a proprio piacimento. Ma non so adattarmi, abbinarmi agli arredi; non so trovare io stessa dimora nella mia testa, dove sono solo ospite, forse prigioniera, tanto quanto lo sono al di fuori, in questo posto, dove i serpenti mi seguono ed assumono la forma dei miei dubbi, facendosi bastare l’arredo di un camice da prigioniero.
Dominic è un serpente silenzioso, Noah ancor di più – e, a gusto d’eccezione, una testa ce l’hanno eccome. Quindi elaborare strategie destinate a fallire è sottovalutare consapevolmente la loro intelligenza e sopravvalutare la mia furbizia ai danni della mia stessa intelligenza. Le occasioni sono di circostanza, sono caso, sono – appunto – strategia; altrimenti vanno create.
«Dalton, voglio parlarti.»
È la stessa spiegazione che mi sono data per la fuga: è un’occasione creata perché non ce n’è alcun altra.
Noah allunga il viso in un’espressività dilatata e confidenziale, quasi d’approvazione – ma distolgo immediatamente l’attenzione dalla sua reazione perché era pronta per essere vista e valutata, considerata; perché Noah ha un modo esasperatamente consapevole di comunicare per negazione e rinnegamento: parla per antitesi e contrari, nega di averlo fatto, infine se ne esce col silenzio del testimone non presente o del colpevole infermo. Dominic sposta la sedia per lasciarmi passare perché tra la sua e la mia era rimasto poco spazio dal confronto di qualche minuto prima, poco spazio pressato da tutta l’anidride carbonica che ha sospirato contro le mie mancanze e le mie presunzioni. Aaron non dice e non fa nulla, ma Hugo mi guarda e domanda che succede con un’inclinazione goniometrica assurdamente precisa del capo. Forse sarebbe meglio se ricambiassi con un cenno, ma non voglio rassicurarlo con un gesto finto che non saprei riconoscere nemmeno sul volto di mia madre. Basta offendere le intelligenze.
Dalton si alza solo dopo che ho sorpassato il tavolo, mi raggiunge quando ormai sono avanzata oltre il secondo colonnato degli scaffali e mi sto sedendo per terra. Temporeggio altrettanto anche io ed aspetto dopo che si è seduto di fronte a me, aspetto ancora e lo osservo guardare ovunque che verso di me – come sempre.
Cerco tutto ciò che c’è di venticinquenne nel suo aspetto ed è il mio modo di ridarmi lo schiaffo in faccia che Dominic mi ha inflitto a parole.
«Venticinque anni.» lo dico perché l’ultima intelligenza che offenderei è quella di Dalton. «Quando pensavi di dirmelo?» ma parlo scontrosa perché la penultima che offenderei mai è la mia.
«Quando l’avresti chiesto.»
Apro bene gli occhi. «Quindi se non fosse stato per un completo sconosciuto della seconda cella nemmeno l’avrei mai saputo?»
«È fondamentale… Nathalie?» si trascina in pausa il suono vocale, prima di inarcarlo fino alla consonante del mio nome che si prende di nuovo tutto il tempo per scandire.
«Lo è, Dalton.»
«Allora perché non l’hai chiesto, Nathalie?»
 
Mio fratello una volta ha picchiato un ragazzo del quartiere con la mazza che mio padre aveva appesa sulla parete del soggiorno. E, perfino lui, si era preso tutto il tempo per farlo: era andato fino a casa, aveva preso la mazza ed era ritornato – poi l’ha picchiato. Elizar era un nostro vicino di casa ed io giocavo con le sue cugine fuori, sul marciapiede davanti al loro portone – era tardo pomeriggio e mia madre urlava dalla finestra della cucina ad Aleksej di riportarmi a casa, ma lui mi aveva detto che potevo rimanere un altro po’; io tenevo un’estremità dell’elastico attorno alle caviglie, Tatiana teneva l’altra e Yulya saltava – dopo sarebbe toccato a me e volevo fare bella figura perché Aleksej mi guardava, stavo addirittura pensando di dire a Tatiana e Yulya di alzare l’elastico fino alle ginocchia per mostrargli quanto in alto sapevo saltare. Nemmeno col senno di poi mi spiego perché Elizar fu tanto idiota, o semplicemente tanto disgraziato, da fare commenti sul mio albinismo proprio quel tardo pomeriggio – il suo errore primario fu quello di dirmi che era una malattia: la mamma diceva che era una caratteristica di famiglia ed io l’avevo sempre recepita come una sorta di eredità, chiaramente ero troppo piccola per farmi domande sulle anomalie genetiche, ma Elizar la mise in questi termini, aggiungendo che era a causa del fatto che i miei genitori sono cugini di secondo grado, ma che non era grave perché da grande avrei potuto tingermi capelli e sopracciglia. Toccò a me saltare la corda ed invece di farlo, mi misi a piangere. E piansi così tanto che quando smisi ero già sotto la doccia, con Aleskej che origliava dalla finestra del bagno la mamma scusarsi con la zia di Elizar ed io che smettevo all’improvviso di singhiozzare solo per chiedergli di chiudere la finestra perché entrava vento ed io avevo freddo.
Quando sia Aleskej che Elizar sono partiti per l’Accademia, anni dopo, io e Tatiana ne abbiamo riparlato più volte e in una di queste lei si è permessa di chiedermi perché avevo pianto così tanto, mi ha chiesto se l’avessi fatto di proposito perché sapevo quale sarebbe stata la reazione di Aleksej – risposi di no, poi dissi di sì e lei cambiò argomento.
Eppure io non avevo mentito: non avevo pianto di proposito, ma sapevo, certo che lo sapevo, quale sarebbe stata la reazione di Aleksej.
Mi è venuto in mente quando Dominic ha messo la mano sul mio ginocchio, quello sinistro – è stato il secondo schiaffo da parte sua.
 
«Non posso rispondere alle domande che non mi poni, Nathalie.»
«No.» certo che no. «Lasci che lo facciano gli altri.»
«Dunque, Nathalie, non chiedere loro nulla.» Il suo rimarcare il mio nome è aggressivo, non nel tono o nella pronuncia, ma nella ripetizione stessa – ne sento l’aggressività perché so che Dalton non è figurativo nel linguaggio; è corretto. «Altrimenti assicurati di fare le domande giuste, senza lasciartele suggerire dagli altri.»
«Ho questa… sensazione.» cerco di non deglutire per non sembrare spaventata perché non lo sono; sono solo turbata. «Mi sembra che nascondano qualcosa…»
«Ed è sicuramente così.» replica immediatamente, stizzito – a proposito di intelligenze da non offendere.
Alzo le sopracciglia e so di starlo guardando con troppa indignazione. «E non pensi che dovremmo reagire?»
Fa una pausa, non risponde subito. «Nathalie, ricordi quello che ha detto Emma, quella volta?»
Quella volta? Quale volta? Quella volta è un concetto troppo indeterminato per Dalton – ma non glielo dico perché deve essere stato l’unico caso in cui ha mai preso in considerazione le parole di Emma.
«Si era lamentata delle telecamere. Aveva detto che la metteva a disagio il fatto che ce ne fossero dappertutto.»
Annuisco. «Sì, tu l’hai corretta. Hai detto che non è vero che sono dappertutto.» me lo ricordo, avevo passato l’intera serata a chiedermi se ci fossero spazi ciechi, bendati, neri – in cui posso essere sola, solo io, solo me; senza la vergogna che può infondere l’occhio dell’altro.
«Le telecamere di sorveglianza non sono dappertutto. Sono in ogni angolo. Ogni angolo.» assume un’espressione alla quale mi sono dolcemente assuefatta perché è la stessa che veste quando spiega qualcosa; sono i pochi momenti in cui mi sembra che Dalton sia presente con me – mentre mi parla, lo guardo e lui guarda da un’altra parte. «Lo sai questo cosa significa?»
«Non proprio.» la trepidazione del momento mi incute quel poco di audacia per metterla sull’ironico.
Guarda un punto fisso e non distoglie gli occhi; mi concentro e fingo di essere quel punto. «Se ti dicessi che la ripresa da ogni angolo non solo copre tutte le prospettive di un area geometrica, ma permette anche di crearne una riproduzione accurata di altezza, larghezza e profondità?»
«… nel senso che da qualche parte ci sono modellini e bambole che dovrebbero… rappresentarci?»
«Beh, così suona perverso.» sorride. «La riproduzione è certamente su scala, ma loro non ci osservano dietro uno schermo, lo fanno al di là di una proiezione a tre dimensioni.»
Mi porto una mano alla fronte e per un po’ la tengo lì: a me suona perverso anche così. «È assurdo.»
«Oh, no. È ingegnoso.» mi corregge. «Certo, a nostro danno, ma ingegnoso. Ti sei mai chiesta, ad esempio, perché i tavoli del refettorio sono triangolari?»
«Certo che no.» Io pensavo che fossero solo scelte edilizie alternative. «Nessuno se l’è chiesto.» tranne lui, chiaramente, ma il mio problema con le domande giuste e le domande sbagliate è primario, questo l’ho capito.
«Allora, adesso sai cosa significa?» Torno a guardarlo ed è serio, risoluto, oserei dire tempestivo – è all’erta sul posto: sta per agire.
Mi scappa una risatina tremante nello sbuffo che emetto. «Che non c’è nulla che possiamo fare senza che non lo sappiano dettagliatamente? Questo dovrebbe in un qualche modo… rassicurarmi?»
Dalton si passa la lingua sulle labbra e sporge un poco verso di me. «Concentrati, Nathalie. Ciò che dovrebbe rassicurati è avere gli stessi limiti degli altri, equamente. Sapere che ciò che ti impedisce di agire in un modo o nell’altro, vincola anche loro. Sapere che ciò che ti…» s’interrompe e guarda vicino alla mia treccia, forse la mia spalla – è la parte più vicina a me nella quale ha fermato lo sguardo, ma mi basta. «Ciò che ti impedisce di parlare in un modo o nell’altro, o del tutto, impedisce e continuerà ad impedire anche loro a farlo.»
Trattengo l’aria in petto tutt’un tratto. «Che cosa?»
«Avanti.» scuote il capo. «Piazzano una telecamera sul fondo del gabinetto e pensavi che non avrebbero messo delle cimici?»
Mi fischiano le orecchie. «Ma se sentono tutto ciò che diciamo… Dalton, il piano. Tutto quanto. Sanno tutto.»
«Eppure siamo qui a parlarne.»
«Ce lo impediranno.» Credo di non star delirando solo perché lui è pacato; una parte estremamente sadica e masochista di me vorrebbe che Dominic sia di nuovo alla mia sinistra, a suggerirmi le domande da fargli.
«Oh, per favore. L’avrebbero già fatto.»
«D’accordo.» acconsento solo perché l’ironia è un’arma a doppio taglio ed è il mio unico modo per toccarlo: violentemente e a parole, e solo dopo aver inflitto la stessa violenza a me stessa. «Quindi vedono tutto ciò che facciamo, ascoltano tutto ciò che diciamo e... Spiegami come facciamo a portare avanti un piano di fuga da questo dannato posto, se sono sempre a pari passo con noi.»
Sento urla oltre i tre scaffali che ci dividono dal tavolo centrale della biblioteca, seguono due tonfi, prima della confusione e delle grida: mi permetto di spiare e vedo la sagoma di Hugo avventarsi contro quella di Aaron, poi divise dal braccio di Black. Dalton sta già agendo.
«Per una volta, solo questa volta, voglio essere poetico… diciamo, solo perché è fondamentalmente corretto.» si alza in piedi. «Sai qual è la differenza tra noi e la nostra ombra?»
Torno a guardare oltre gli scaffali Hugo che aggredisce Aaron, poi ancora Dalton che cerca di dirmi quello che deve dirmi senza dirlo davvero.
«Noi possiamo splendere.»
Lancio un’altra occhiata che dura il secondo di pausa che Dalton si prende tra una frase e l’altra: il militare Black ammanetta Hugo, mentre Andersen è chinato sul volto sanguinante di Aaron. Mi correggo: Dalton stava già agendo.
«Il mio indizio è questo, Nathalie: splendi. Sii straordinaria e splendi, perché più tu splendi, più è buia la tua ombra.»
                                                                                                                                                  
 
Tossisco più forte di quanto sia necessario – e non è affatto necessario.
Il tessuto del camice bianco sta aderendo troppo al mio petto e al collo, credo di star sudando – vorrei strapparlo via, toglierlo; vorrei tenermi la testa tra le mani prima ed immergerla nell’acqua ghiacciata subito dopo.
Lui mi sta parlando – ora mi guarda anche. Mi parla, mi guarda e non so respirare. È irritato, Dalton quando s’arrabbia si irrita.
«… le gambe, dannazione.»
Mi ha chiesto di sdraiarmi e tirare su le gambe, l’avranno sentito tutti, ma io no, ho solo capito dopo un po’ – però non le alzo a causa della nausea. Al contrario, giro sul posto e gli volto le spalle perché inizio ad avvertire i primi conati, ma come aveva evidentemente previsto lui, non è una buona idea perché oltre all’udito s’inibisce anche la vista ed è come cadere, cadere ininterrottamente, pur restando ferma.
Non appena mi ritorna il tatto, torna lentamente anche l’orientamento, quindi mi rendo conto di essere sdraiata supina; mi ricordo che un secondo prima non lo ero e provo ad aprire gli occhi per capire cosa può essere successo tra il secondo in cui ero in ginocchio e quello successivo in cui mi ritrovo stesa sul pavimento. Dalton è in piedi e mi guarda: ha le mani inclinate all’indietro, sull’attenti. Chiudo immediatamente gli occhi di nuovo per darmi una tregua e risparmiare forza per respirare e per riaprirli – questo mi permette di pensare e mi rendo conto che lui teneva le mani in mostra per provare di non avermi toccata. Allora, capisco che la fonte del dolore al fianco è stato il calcio col quale mi ha rigirata, costringendomi a sdraiarmi.
Quando riacquisto l’udito, la voce di Black ha sostituito quella di Dalton. Chiede se riesco ad alzarmi e mi tocca il polso.
Cerco di rispondere, ma quando finalmente ci riesco lui mi ha già presa in braccio. Glielo dico lo stesso, gli dico che riesco a camminare; lui mi dice di stare zitta.
Non sono proprio in una posizione comoda, ho la sua spalla destra conficcata nell’addome, ma stare a testa in giù mi aiuta a riprendermi. Inizio a capire meglio quel che sta succedendo: ci stiamo dirigendo verso l’infermeria, sento Black accennarne tra le lamentele riguardo il mio peso ed le promesse di chiudere Hugo in cella di detenzione per giorni e notti; davanti a noi Matt sta aprendo le porte lungo il corridoio centrale ed Aaron è ammanettato al suo fianco.
Arriviamo immediatamente, Black mi scarica sul primo lettino ed esce con la promessa di pestare Hugo, Andersen si ferma poco più, giusto il tempo di dirci di aspettare l’infermiera e di passare la borsa di ghiaccio ad Aaron, prima di sigillare la porta e seguire compagno. In realtà non c’è una vera infermiera, è una detenuta della seconda cella femminile ad occuparsene – probabilmente sono tornati a prendere lei.
Aaron conta fino a cinque, una pausa per ogni due passi del militare, e ci alziamo nello stesso istante.
Lui corre verso l’entrata e mi fa un cenno ancor prima di aver spiato dalla finestrella trasparente della porta; io raggiungo i primi cassetti ed inizio ad aprirli e frugare: garze a rete e cotone, chiudo il cassetto; cerotti, ne prendo un paio di tre misure diverse; siringhe, ne afferro diverse e troppo velocemente per far caso alle dimensioni. Mi sposto nella scrivania centrale, ma trovo solo fascicoli, fermacarte, spillatrice, penne; sfoglio qualche fascicolo, ma sono solo fogli bianchi. A questo punto vado direttamente nell’armadietto dei medicinali e provo ad aprirlo.
«È bloccato.» le ante non si schiudono di mezzo millimetro. «Aaron, non si apre, che faccio?» c’è una casella con dei tasti enumerati, probabilmente bisogna inserire un codice di sblocco.
«Vieni qui.» mi dice. «Controlla l’angolo in fondo al corridoio.»
Sostituisco la sua postazione, ma mi distraggo nel guardarlo prendere l’estintore appeso al muro e schiantarlo ripetutamente contro il vetro dell’armadietto fino a quando non crolla tutta la lastra di cristallo. Prima di darmi il cambio, strappa bruscamente il lenzuolo dal lettino sul quale mi aveva lasciata Black e lo mette sopra le schegge di vetro per terra e solo in quel momento mi ricordo che siamo a piedi nudi. Torno dov’ero senza parlare, lo spazio lasciato dalla lastra mi permette di inserire il braccio e raggiungere a tentoni almeno tre mensole, perciò inizio ad afferrare alla cieca medicinali ed estrarli per leggerli. I disinfettanti sono i primi che trovo e ne prendo tre bottigliette, poi ne afferro una quarta in modo da dividerle con Aaron, ma non ne trovo altre; scarto una serie di sciroppi, alcuni inalatori, ma ne prendo uno asmatico e non so perché; ci sono anche compresse e mi permetto di metterne da parte alcune antidolorifiche perché non trovo la morfina. Aaron mi domanda se ho finito e non rispondo perché manca l’adrenalina – e Dalton non aveva parlato davanti a lui – ma non c’è altro nell’armadietto a parte una pila di soluzioni rettali di cui non ho immediata intenzione di sperimentarne la cura. Lo sento imprecare, dice che qualcuno sta arrivando; si allontana dalla porta ed afferra le prime bottigliette di disinfettante, le nasconde nel pantaloncino igienico che indossiamo assieme alla casacca, ma non esprimo alcun disgusto, piuttosto temo che se ne accorgano vedendoci camminare come se avessimo un cactus in mezzo alle gambe. Gli elastici al posto dei bordi impediscono alle bottigliette di cadere, ma non appena si muove per afferrare le Siringhe, noto immediatamente che, invece di camminare, zoppica.
«Che cosa manca?» scuoto il capo perché persino un miope scorgerebbe la gonfiatura e non rispondo.
Frugo in alcune mensole sotto i lettini, ma trovo solo termometri, uno di mercurio e l’altro ancora nella scatola, ci sono antibiotici, alcune compresse in contenitori trasparenti. Aaron mi dice di lasciare stare, mi passa quello che è rimasto e mi sollecita a muovermi a nasconderlo – lo faccio solo quando sento i passi lungo il corridoio ormai adiacenti al muro che ci divide.
Aaron mi spinge per scuotermi. «Dimmi che cosa manca.»
Mi lascio spingere, ma continuo a cercare con lo sguardo.
«Il kit di pronto soccorso.» dice dopo un po’. «L’adrenalina è nel kit di pronto soccorso.»
Mi volta le spalle e cerca di nascondere il gonfiore dei disinfettanti nel pantaloncino, ma riesce a farmi un cenno per indicarmi dove trovarlo. Non mi fermo per chiedermi o chiedergli alcunché.
Il kit è appeso in alto perciò spingo il letto centrale e ci salgo per raggiungerlo. Non ha codici o chiavi, lo apro immediatamente e, oltre all’iniettore d’adrenalina, trovo anche la morfina e quello che spero sia un narcotico. Tuttavia lo stridere del letto contro il pavimento ha prodotto un rumore tale che i passi nel corridoio sono accelerati in corsa e, quando la porta viene aperta, io sto ancora nascondendo l’iniettore.
Aaron si piega immediatamente sulle gambe, fingendo di non riuscire a reggersi in piedi, ma io non ho alcun diversivo e, oltretutto, essere in piedi a quasi un metro d’altezza è incredibilmente sconveniente – questo per non contare il fatto che quando Black spunta oltre la soglia e ci sta già urlando contro, io ho ancora la mano dentro il pantaloncino.
«Che cosa fai?» si lascia alle spalle Aaron e l’armadietto del farmaci col vetro palesemente rotto. «Cosa stai facendo?» mi chiede.
Mentre urlava ho fatto in tempo ad estrarre la mano, ma la velocità è relativa non solo allo spazio percorso dalla mia mano, ma anche al tempo che ha impiegato. E Black è in ottima posizione nella classifica delle intelligenze da non offendere.
«D’accordo.» si ferma al centro della stanza, o almeno dalla mia prospettiva sembra essere il centro. «Ora mi dici cosa stai facendo.»
 
Una delle prime volte che avevo parlato con Dalton eravamo in palestra ed io ero sdraiata sulle gambe di Lily mentre lei mi faceva delle treccine ai capelli. Lui si era fermato vicino a noi all’improvviso e mi aveva detto di alzarmi lentamente perché altrimenti mi sarebbe girata la testa e sarei con buona probabilità svenuta. Aveva ragione, non avevo mangiato granché a colazione perché avevo dato i miei biscotti a Lily e non mi sentivo in piene forze effettivamente.
Quella volta ho ascoltato il suo consiglio, oggi ne ho tratto profitto. Mi sono alzata bruscamente ed il resto l’hanno fatto l’ipoglicemia e la bassa pressione, questo ha fatto sì che fosse possibile il mio trasferimento in infermeria; così come la rissa tra Hugo ed Aaron ha permesso al primo di finire in cella di detenzione e al secondo di raggiungermi. Come stabilito.
Dalton aveva dovuto parlare per apostrofi, ma io l’avevo capito dalla tranquillità con la quale mi aveva detto delle cimici dove sarebbe andato a parare. Certo vedevano quello che facevamo e sentivano quello che dicevamo, certo ci sorvegliavano nonostante non fossimo una priorità, certo lo stato di emergenza militare poteva distrarli solo fino ad un certo punto; ma dalla nostra avevamo ironie ed equivoci – e quindi l’effetto a sorpresa del non detto.
L’unico modo che abbiamo per sorpassare chi procede a pari passo con noi è contare sull’imprevisto ed esserlo. Una sorta di riscrittura del finale lieto o tragico, in finale a sorpresa.
 
E Black a suo modo è una sorta di finale a sorpresa – solo più sorpresa che finale.
Aaron dice di non sentirsi bene, chiede dov’è l’infermiera, lo chiede un’altra volta; Black non lo ascolta. In fretta si guarda attorno, soffermandosi sull’armadio, sul vetro rotto per terra e coperto con il lenzuolo del letto sopra il quale sono ancora bloccata, sui cassetti non chiusi bene e l’estintore sulla scrivania.
«Hai trovato quello che cercavi?» domanda ed annuisce immediatamente dopo. «Suppongo di sì.»
Cerco di scendere, non appena comprendo che si sta avvicinando, ma riesco solo ad abbassarmi sulle ginocchia prima che lui cerchi la calibro 38 e mi minacci con un ticchettio dentale di diniego.
«Che cosa hai preso? Me lo fai vedere, sì?»
Inizio a sudare di nuovo e il camice torna a farsi stretto, colloso e tremendamente asfissiante. Cerco Aaron oltre le spalle del militare e lui mi sta già scuotendo il capo, solo che non so che cosa significhi.
«Mostrami cos’è.» bisbiglia ed io mi rendo conto che ha raggiunto il raggio di vicinanza sufficiente da permettersi di poter bisbigliare.
Mi rendo conto che sto ansimando e non so come evitarlo. «Non è niente.»
È così che estrae una volta per tutte la pistola. «Devi mostrarmi quello che hai nascosto, lo hai capito questo?» appoggia la volata contro la mia pancia, vicino all’ombelico, tanto che sento il mirino solleticarmi. «Perché altrimenti dovrò prenderlo da solo.»
«No.» dico frettolosamente. «Davvero, non ho nulla. Non ho niente. Lo giuro.»
«Ah, lo giuri?» Sposta la pistola contro il mio fianco e ne percepisco il metallo freddo scivolare lungo il mio addome. «D’accordo, allora se lo giuri ti credo.» tira su il mio camice, prima che riesca a fermare la sua mano con entrambe le mie.
Aaron ha rinunciato alla messa in scena del dolore alle gambe e si è alzato in piedi. «Senti, amico, parliamone...»
Black afferra la quarta bottiglia di disinfettante liquido che avrei dovuto nascondere io e gliela scaglia contro. «Tu lo sai cos’ha nascosto, per caso?»
Non mi pento di sobbalzare nel sentirlo urlare dopo aver continuamente bisbigliato solo perché sobbalza anche Aaron.
«Hai ragione, io ho preso una cosa, è vero.» non parlo più, ma balbetto. «Hai ragione, l’ho presa e ti dico cos’è, va bene? Te lo dico davvero, solo per favore…»
La sua sinistra s’intrufola sotto l’elastico del pantaloncino ed urlo.
«No, ti prego, te lo dico, no… è un test di gravidanza.» sono un poco piegata quanto me lo consente la sua figura contro la mia perché la vergogna non mi permette di guardarlo in faccia e perché sto afferrando la sua mano attorno alle mie come posso. «È per Emma, ha un ritardo, mi ha chiesto di prenderglielo, io non volevo disordinare, ma non lo trovavo. Sistemerò tutto quanto, lo farò, ti prego…» l’iniettore di adrenalina preme contro il mio inguine e non so come muovermi per allontanarlo – io stessa non so come allontanarmi.
«Un test di gravidanza nel kit di pronto soccorso, sul serio?» la sua mano cerca alla cieca ed mi proteggo come posso con le mie e piegandomi sempre più su me stessa.
«Matt, che tu sappia, Emma Peterson è in gravidanza?» la vergogna mi tiene chiusa contro me stessa e non riesco a cercare la figura di Andersen, mi chiedo solo da quanto sia lì.
«Non… non lo so.»
La mano si fa all’improvviso meno insistente, le uniche dita che sento sono le mie chiuse in scudo. «Non lo sai?» si volta e la pistola sul mio fianco si allontana un poco con lui. «Nel senso che potrebbe?»
Andersen non risponde e Black si sposta quanto gli basta per darmi le spalle.
«Non lo stai dicendo sul serio, non l’hai fatto davvero…» il resto non lo sento perché cerco un equilibrio interno che non mi concedo, mentre nascondo meglio che posso i narcotici e la morfina. Scendo dal letto e mi allontano il più possibile dalla discussione tra i due militari. Aaron mi suggerisce di rimanere ferma con un cenno e mi appoggio al muro sul lato e alla scrivania di dietro. Con lo sguardo gli indico l’ultimo disinfettante, quello col quale Black lo ha colpito, e lui scuote il capo. Gli trema un ginocchio, trema violentemente – non fingeva il dolore alle gambe. Mi paralizza aver dato per scontato che Hugo avrebbe solamente finto di fargli del male.
Mi guardo le mani e le pulisco contro il camice. Cerco di deglutire, ma non ci riesco. Possibile che il finale a sorpresa sia questo? Hugo punito in isolamento, a digiuno e probabilmente manganellato, il ginocchio slogato di Aaron, il suo naso sporco di sangue, le mani di uno sconosciuto sporche di me, le mie mani sporche di me e di uno sconosciuto? Come faccio a splendere, Dalton? Come faccio a sorpassare la mia ombra e splendere in vergogna?
C’è silenzio quando mi rendo conto che Andersen sta di nuovo ammanettando Aaron. Scrollo il capo per riscuotermi e noto che Black mi sta indicando qualcosa.
Le manette sul letto, mi dice di metterle da sola. Lo faccio prima che cambi idea, stringendo bene attorno ai polsi.
Andersen ci informa che saltiamo il pranzo, dice che ci riportano in cella finché non viene sistemata l’infermeria; entro il pomeriggio, promette.
Passiamo davanti alla biblioteca, dove gli altri si stanno disponendo in fila indiana per avviarsi verso il refettorio, e vorrei fermarmi a cercare Dalton affinché parlargli possa ripristinare il finale a sorpresa in finale tragico; ma cammino dritto finché Black mi concede il lusso di farlo per ultima – non voglio essere guardata, ora, non voglio occhi sulla schiena.
Aaron raggiunge il primo letto, quello di Hugo e si stende a faccia in giù ancor prima che Andersen chiuda i cancelli alle sue spalle. Mi toglie lui le manette, mentre Black codifica l’accesso alla prima cella femminile ed io mi prendo un istante per guardare Aaron interrogativa. E non so precisamente cosa gli sto domandando – se gli fa troppo male la gamba, se tutto ciò ha senso e riesce a rientrare nei piano di Dalton, dove nascondere ciò che abbiamo preso dato che non ci sono barriere architettoniche tra gli spazi interni delle celle, se ha senso nascondere effettivamente, qual è la prossima mossa – che sta succedendo. Anche se Black ci mette un po’ troppo ad aprire i cancelli, l’altro militare mi sollecita a muovermi e non appena le sbarre scorrono quanto mi basta per passarci, entro immediatamente.
Li sento mettersi d’accordo su certe dinamiche, lo fanno a bassa voce, ma un paio di nomi li colgo: uno dei due è quello di Emma e questo spiega la fretta di Andersen. Una volta mi confortava la sua presenza a sfocare la nitidezza che aveva quella di Black – ora non so quanta differenza faccia, sia la sua presenza che metterla in termini di sfocature e nitidezze.
«Ho bisogno di un momento.» volevo aspettare che la cella fosse chiusa, prima di chiedere un po’ di intimità o alcunché d’altro, ma decido di farlo prima finché è ancora distratto a trasfondere codici ed impronte.
Faccio in tempo a raggiungere il bagno quando mi risponde. «Dieci secondi.»
Li conto a mente mentre mi tolgo il pantaloncino igienico, vorrei lavarmi, ma aver già raggiunto il settimo secondo, mi aiuta a dissuadermi da qualunque impulso; invece di buttare il pantaloncino nel cesto, lo nascondo nella pila di quelli nuovi, da cui ne pesco uno e me lo metto in fretta. Quelli che Black mi concede sono quindici minuti in realtà, mi dà le spalle cinque secondi in più ed io trovo l’avventatezza necessaria a ripescare uno dei due narcotici e l’iniettore di adrenalina e li nascondo nel pantaloncino pulito che ho indossato; quando scadono i quindici secondi, sto fingendo di lavarmi le mani e quando si volta, il sedicesimo, me le sto lavando davvero.
«Hai finito?»
Torno al centro della cella senza asciugarmi le mani e noto che è ancora aperta. «Che c’è?» perché non l’ha ancora chiusa?
«Esci.»
I cancelli sono spalancati. «No.»
«Esci fuori.»
Scorgo Aaron ora seduto sul letto di Hugo, ma la prima cella maschile è chiusa.
«Sono stanca, voglio dormire.»
«Devi uscire fuori.»
È in piedi sulla soglia, ma si allontana quando la sto per superare e, quando lo faccio del tutto, poggia la sua mano contro il lettore tattile e la cella si chiude, questa volta immediatamente.
Aaron è in piedi su una sola gamba ora e lo guarda, forse lo chiama anche, gli dice qualcosa – non sento nulla.
«…zzina, lascia stare.» questo è ciò che mi raggiunge della voce di Aaron quando deglutisco la seconda delle volte e mi concentro per ascoltare.
Non mi è mai successo di ritrovarmi fuori dalla cella senza manette ed è come perdere l’equilibrio, ma lo seguo. Aaron mi sta sussurrando qualcosa, a me questa volta – fa’ quello che ti dice, Nathalie, credo dica questo. Non sa che un narcotico nascosto; annuisco e seguo Black.
Mi permette di camminare alle sue spalle fino a quando non raggiungiamo il termine del corridoio, nel lato opposto – quello in cui non sono mai stata; poi torna dietro di me e mi comanda di svoltare a destra. Imbocchiamo un corridoio a senso unico che dà su un muro, come una sorta di vicolo cieco, ma lui non mi dà altre indicazioni ed io non mi fermo.
 Compare nella mia visuale e tocca qualcosa. Si schiudono due porte: un ascensore. Mi dice di entrare e lo faccio, entra anche lui.
Scorrono le due porte e l’ascensore non sale e non scende, ma scivola all’indietro – anche se non sono ammanettata, non ho dove reggermi e per poco non cado di spalle.
«Qui non ci sono telecamere.»
Mi appoggio all’angolo quadro dell’ascensore che più dista da lui.
«Non ci sono nemmeno cimici.» aggiunge ed incrocia le braccia.
«Quindi?» la velocità dell’ascensore mi costringe a tenermi con entrambe le mani contro le pareti, ma quando lo vedo sedersi, mi abbasso lentamente e mi siedo anche io.
«Ricordami quanti anni hai.»
Mi si corrugano le sopracciglia e smetto di cercare appigli a cui reggermi per incanalare le energie e costringermi a guardarlo. «Non abbastanza per te.» mi guarda fermo, mi guarda solo e decido di rispondere in fretta per velare i riferimenti ed i doppi significati di ciò che ha suggerito la mia prima risposta. «Diciassette.»
«Ne avevi diciassette quando sei entrata qui, ma ora quanti ne hai?»
Mi fermo per un po’ e non distolgo lo sguardo. «Stai cercando di dirmi qualcosa?»
Scrolla le spalle. «Voglio solo conversare.» alza una mano ed appena di poco l’altra. «Non c’è nulla di male nel cercare di conoscerci meglio.»
«Cercare di con…?» le mie sopracciglia sono ancora corrugate, riesco ad intravvedere piccoli peli bianchi spuntare in cima al mio campo visivo. «Cos’è, una specie di appuntamento?»
Ride. E c’è un intreccio assurdamente schizofrenico nella sua risata perché incomincia monocorde e leggera, ma termina pressata, quasi scivolosa perché stroncata con la forza – come se avesse incominciato a ridere per un motivo ed avesse terminato ridendo per mille altri, da una ragione ad una vita di ragioni per cui ridere.
«Cosa credevi avessi intenzione di fare?» usa un tono classicheggiante – spinge le parole attraverso la mezzaluna di sorriso che si potrebbe circoscrivere come amichevole, ma io so che non lo è.
«Rinchiudermi in tre metri quadrati isolati da tutto e tutti dopo aver ficcato le mani in mezzo alle mie gambe limita le possibili intenzioni di un medio maschio adulto, lo sai?»
Non sorride come poco prima, lo fa in modo diverso. «Facevo…»
«Non dirmi di aver fatto il tuo dovere o il tuo lavoro.» lo tronco – se questo è il finale a sorpresa, se Black che si scusa è il finale a sorpresa, che lo faccia come si deve, come mi sto sforzando di sopravvivere io: senza offendere le intelligenze.
«Avrei potuto farti spogliare, senza perdere ulteriore tempo.»
«Non ho problemi col mio corpo.» questa volta tocca a me scrollare le spalle. «Ho problemi quando il mio corpo viene toccato senza il mio consenso.»
Piega la testa di lato e torna a sorridere – è un’immagine che mi costringe a distogliere lo sguardo per un momento. «Sì, ma in tal caso avrei dovuto prendere ciò che stavi nascondendo e anche ciò che stava nascondendo il tuo amico.»
Aaron non è mio amico, ma evito di specificarlo. «Pensi debba ringraziarti?»
«No.» arriccia il naso e, quasi, sospira. «Forse dovresti ringraziare il mio egoismo.»
Non rispondo. Da una parte non ho una variante convincente all’evitare di ringraziare qualunque aspetto della sua persona, dall’altra mi prendo una pausa per considerare come controbattere a mio vantaggio – Dalton aveva detto che se Black ha qualcosa da dire è il caso di ascoltarlo, ma mi ha anche ammonito di essere protagonista delle domande da porre e non lasciarmele suggerire.
La velocità dell’ascensore inizia a farmi girare la testa, non capisco più in quale direzione sta andando. Mi porto le mani sugli occhi.
«Che cosa vuoi, Black?»
«Parlare soltanto.»
E la situazione è paradossalmente ironica perché entrambi sappiamo che questo era il migliore dei casi – io so che è il migliore dei finali a sorpresa che potessi pretendere.
Tengo le mani sugli occhi e mi massaggio le tempie.
«Hai fratelli o sorelle?»
«Sorella.» risponde.
Alzo il volto e ridacchio. «Sul serio?»
«No, per finta.» risponde, aprendo le mani – ed allora rido. «È così divertente?»
«Più grande o più piccola?»
«Piccola.»
«Non la vedi da tanto?»
Fa un cenno al quale accompagna in gesto con le mani, ma è il suo modo di convertire la parola taciuta in gesto eloquente, certo, ma comunque impreciso.
Forse è un bene per quella povera creatura, crescergli lontana risarcisce quel che la genetica le ha imposto ancor prima che nascesse. «Ti manca?»
«Non mi lamento.»
Sì, decisamente è un bene per quella poveretta. «Com’è lei?»
«Una versione femminile e più piccola di me.»
Mi immagino una ragazzina con capelli neri ed occhi chiari, poi coi tratti di Black – e sto già ridendo, anche se probabilmente le sua descrizione era ironica.
«Chi dei tuoi genitori è albino?»
Incrocio le gambe, poi ci ripenso e me le porto contro il petto. «Mio padre e mia nonna materna. I miei genitori sono cugini di… terzo o quarto grado, non lo so precisamente.»
Annuisce come se la mia risposta dovesse in un qualche modo essere approvata da parte sua. «Quali materie ti piaceva studiare?»
Ci penso per un po’ prima di rispondere. «Geometria, credo. E astronomia, era uno dei corsi a scelta.»
«Cosa sai della Teoria della Relatività?» chiede, socchiudendo lo sguardo.
«Solo sentito dire.» e comunque interrogare una ragazza in fisica non è proprio il più persuasivo degli approcci, ma evito di farglielo notare. «Einstein, quarta dimensione, spaziotempo, velocità della luce, contrazione della massa…» sull’ultima ho qualche dubbio, ma suona bene e lui non mi corregge perciò non lo faccio nemmeno io.
Esita un po’ ed allora mi sembra che stia elaborando una maniera approssimativamente cortese di farmi notare che quel che ho detto non ha alcun senso, ma poi l’ascensore si blocca, all’improvviso ed è come un pugno nello stomaco, l’ennesimo nelle ultime ore, ma ne sono ugualmente grata.
«Dove hai imparato il russo?»
Mi alzo lentamente, lui mi precede. «Da nessuna parte, ho provato col tedesco e ci ho rinunciato alla seconda lezione.»
L’ascensore si apre ed esco per prima.
«C’era un cronometro.» mi giro a malavoglia e guardo il riquadro rettangolare che mi indica. James Black, leggo, A./N. M. D., le mie iniziali, un’altra serie di numeri a cui non so dar senso, e poi leggo un sette seguito da due zeri. «Siamo rimasti lì per sette minuti.»
«Direi che basta e avanza.» con tutte le gratitudini dello scampato peggio del caso, certo.
Alza le sopracciglia e sorride a bocca aperta, esitante su quanto concedersi di essere o fare – o dire. «Sono sette minuti che ti parlo in russo.» lo sussurra. «E sono sette minuti che mi rispondi in russo.»
 
Mi riporta in biblioteca e non dico una parola – non gli parlo, non mi sollecita nemmeno a farlo.
Noto per primo Andersen, che invece di essere sull’attenti, in vigilanza, è seduto piegato su se stesso, la testa tra le mani. Cerco occhi abitudinari, per primi quelli di Dalton – ma non posso far a meno di sorprendermi alla vista di Hugo ed Aaron l’uno accanto all’altro, seduti per terra giusto dietro il primo scaffale. Quando mi avvicino, scorgo anche Dalton mezzo addormentato – Hugo lo scuote più volte e mi indica.
Aaron si alza e mi viene incontro. «Dove sei stata?» mi fissa turbato, ma lo allontano. «Cos’è successo?»
«Nulla di ché, Black mi ha solo fatto qualche domanda.» io voglio parlare con Dalton, non con lui. Lo supero e mi chino su uno Hugo col labbro spaccato ed una guancia gonfia. «Ti hanno fatto uscire? Quando?»
«Ieri, dopo pranzo.» scuote il capo. «Dove sei stata tutto questo tempo?»
Anche Dominic, Noah e Bruce ci raggiungono, il primo si siede vicino a Dalton e lo aiuta ad alzarsi.
«Che diavolo succede?» da quando Dalton ha la benché minima confidenza con chiunque delle seconde celle?
«L’adrenalina.» pronuncia. «L’hai presa?»
Annuisco e non capisco come possa permettersi di parlarne davanti agli altri. «Ce l’ho qui con me.»
Questo pare riscuoterlo. «Dammela.»
Mi frugo nel pantaloncino e mi rivolgo a mio malgrado ad Aaron. «Che gli è successo?»
«I pasti.» risponde Bruce anche se mai interpellato. «Dalton sospetta che gli abbiano messo un qualche neutralizzante per l’adrenalina… o una cosa del genere, ha fatto un discorso esageratamente lungo quando l’ha spiegato. Pensa che sia probabile che fosse anche nei nostri pasti, ma in dose minore.»
Passo l’iniettore a Dalton – Aaron e Hugo riescono a coprire la visuale alla guardie. «Devo parlarti.» glielo dico, seppur gli altri siano tutti a portata d’orecchio. «Devo parlarti da solo.»
 Dalton continua a cercare di riscuotersi, ha gli occhi arrossati dal sonno, quasi non riesce ad aprirli. «Dov’è Emma?»
Guardo Aaron e mi aspetto che almeno lui abbia senso. «E che ne so io?!»
Hugo interviene, ma irresoluto ed interrotto tra le parole. «Nathalie, nessuno ti ha più vista da ieri mattina. Ed Emma stamattina non era nel suo letto, non hai visto in che stato è Andersen?»
Cerco di nuovo Aaron, anche se è l’ultimo a cui vorrei indirizzare le mie inquietudini, in questo momento e qualunque altro. «Come sarebbe a dire? Hai visto tu stesso Black portarmi via, prima.»
«No, Nathalie, Black ti ha portata via ieri mattina.»
 
Cosa sai della Teoria della Relatività?
 
Dalton si regge in piedi, ma è traballante. «Hai mangiato qualche pasto?»
Mi sembra una domanda così insensata dato lo stato della situazione che mi guardo attorno prima di rispondere. «No, non… non ho mangiato nulla dalla colazione.»
«Bene.»
Strappa il tappo dell’iniettore di adrenalina coi denti e me lo conficca nel collo. Cado a terra immediatamente, crollo sul posto, ed all’inizio sono paralizzata. Poi inizio a tremare, ma sono ancora paralizzata ed è come entrare in agonia, solo a piena coscienza psicosensoriale di quello che mi sta succedendo – una sorta di intervento senza narcosi; per qualche secondo non respiro, poi all'improvviso respiro troppo, ed il mio cuore è pura violenza sonora contro le orecchie e la pelle.
Ho un momento in cui mi osservo da lontano e vedo una cerchia attorno al mio corpo in preda alle crisi.

Cюрприз oкончание. È così che si dice finale a sorpresa in russo.
 
 









 
_________________________________________________________________________







 
 
So che non mi faccio vedere da troppo, troppo tempo e che chi non mi ha su Facebook non sa che fine possa aver mai fatto questa storia nella mia mente perciò mi prendo ora il tempo di spiegare il più possibile nelle note, cercando di non dilungarmi troppo.
Innanzitutto, qualche annotazione relativa strettamente al capitolo: tra gli indizi nel capitolo precedente è globalmente sfuggito il seguente
Io e Hugo c’infiliamo nella sezione di romanzi in lingua originale, dietro lo scaffale della letteratura del Settecento.” […] “Dopo un po’, prendo in mano un libro a caso ed inizio a sfogliarlo; quando però mi rendo conto che è in giapponese, lo metto subito via onde evitare figuracce. Ne cerco un altro comprensibile tra gli scaffali in basso, finché non lo trovo: una raccolta di poesie di un certo Tredjakovskij.” […] “Dalton li ignora, come ormai si è saggiamente assuefatto a fare, e mi prende dalle mani la raccolta di poesie; scorre le prime pagine corrucciato e poi mi guarda interrogativo.
Scrollo le spalle. «Non riesco a concentrarmi, ultimamente.» Abbasso la voce. «Forse leggere mi aiuterà a riordinare i pensieri.»
Mi guarda confuso e decisamente turbato. «Leggendo in una…»”
È tuttavia un indizio che questo capitolo ha squarciato, quindi non mi ci soffermo.
Un altro ancora sul quale non mi dilungherei (anche perché farlo comporterebbe rivelare e naturalmente non posso farlo LOL) è suggerito dal comportamento di Emma e poi indicato da me nelle note, quando vi scrissi “attenzione all’improvvisa golosità di Emma” nella speranza che, tra i vari indicatori nel testo, questo facesse da sutura. (E a proposito di questo, faccio notare che Nathalie non ha specificato se la sua rivelazione su Emma fosse spontanea, dettata dalla menzogna che a sua volta era sospinta dalla paura – o se fosse fondata; faccio notare che se Emma non c’è più, non sapremo mai se era vero o no che fosse incinta).
Naturalmente questo capitolo è stracolmo di tracce e segnali, in qualunque angolo che nemmeno le telecamere, io dirò una cosa sola – forse mi odierete, ma è l’indizio più forte che posso lasciare (ed in teoria nemmeno potrei): se esiste una vaga, mera, lontana, ridicola probabilità che qualcosa accada, un giorno, in un qualche modo, quella cosa accadrà; ma nulla vieta che quel giorno sia il giorno per diverse di queste possibilità.
Ora, fa molto legge di Murphy all’inizio, poi sembra una dichiarazione di guerra al caos (o al cosmo nel caso fossi ironica), ma non lo è per niente. È un mio tentativo, limitato in base alle mie conoscenze, di dirvi che se nel caso vi dovesse venir in mente un spiegazione riguardo a chi-cosa-come-quando-dove-perché, niente e assolutamente nulla al mondo potrà provare che è falsa.
 
Detto questo, passo alla parte più ampia dell’inquadratura generale.
Qualche tempo fa, sul mio profilo Facebook avevo accennato al mio studio della trama di Capolinea con “il senno di poi”, la cosiddetta coscienza postuma, le carte scoperte in tavola in cui vedi finalmente nel complesso cos’hai tra le mani – dissi quello con anche alcune di voi mi suggerirono, cioè che non era una storia molto adatta a questo sito, o ad un sito in generale. Insomma, espressi la mia volontà di farne in romanzo,  accennando che mi sarai presa il tempo di lavorare interamente dal punto di vista strategico ed ideologico della trama.
Questo tempo me lo sono presa – stiamo parlando di quasi due anni d’intensa e continua attività pensante applicata. Ho deciso quindi di ritirami e farlo.
Sul gruppo Facebook qualche mese fa dissi che avrei pubblicato un ultimo capitolo su EFP che assestasse la versione della storia che avevo fino a questo punto pubblicato e che, successivamente, avrei pubblicato anche un ultimo capitolo de’ La Notte e mi sarei ritirata in sede privata a creare. Quindi questo è l’ultimo capitolo di Capolinea 51, nella versione attuale, incomincerò la scrittura daccapo e con i tutti “i senni di poi” e gli arricchimenti su cui ho lavorato e continuerò a lavorare. In ogni caso, non ho intenzione di sparire in assoluto, su Facebook continuerò ad esistere e lamentarmi del creato, anche perché è un profilo unico Real/Fake (il ché è esistenziale da quanto contradditorio) ed ogni tanto e nel caso mi venga chiesto, vi farò avere notizie sugli sviluppi di questa storia.
Sia chiaro che non è assolutamente un addio, così come per La Notte, il mio obiettivo unico e primario è dare alle mie storie ciò che meritano.
Quindi, insomma, grazie a chi è arrivato fin qui, grazie davvero,
spero che da qui alla prossima volta che ci sentiamo (a meno che non sia stasera su FB LOL) il mondo sia diventato un luogo di pace ed armonia, tolleranza e prosperità in cui ognuno ha ciò che merita, ma nel caso sarà necessario rimboccarsi le maniche e provare a farlo diventare tale (d’accordo che sono millenni che l’1% della popolazione ci prova),
Mi ritiro prima d’uscirmene con altri ottimismi/pessimismi dolorosi,
grazie ancora,
cari saluti,
Bessma
 
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2168686