Pyrophone.

di Gatto Magro
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** This mortal coil. ***
Capitolo 2: *** Non era vernice. ***



Capitolo 1
*** This mortal coil. ***


The garden was blessed by the ghosts of me and you
I couldn’t bear this life, so I started another two.
Oh, what you’re waiting for?
 
Mia nonna diceva sempre che una bella storia si riconosce dall’odore.
Perciò, mentre Dusk e Fannie mi guardavano con impazienza, gli occhi grandi come piattini e lucidi dei riflessi delle candele, le prime parole mi si ingarbugliarono fra lingua e palato e per un po’ non riuscii a dire nulla, preoccupata com’ero dell’odore che avrebbe investito i loro nasini.
Caramelle, sarebbe andata bene una storia profumata di caramelle?, chiesi loro con lo sguardo. Le ombre appollaiate sui comodini fischiarono tutte insieme, forte, in segno di disapprovazione. Loro volevano la paura. I mostri coperti di pustole e la bava gialla che precipitava – lenta, lenta – da zanne incrostate di sangue. Vendetta, mi soffiò tra i capelli uno spiffero d’inverno.
Un bacio che sia l’ultimo e il più bello, chiedevano i sospiri dei vestitini di Fannie dalle loro grucce.
Tanto l’amore è una grande stronzata!, insorsero i fazzoletti, immediatamente zittiti da un’ondata di sdegno e rificcati sotto ai cuscini.
Ma io non ascoltavo più; mi solleticava le narici un profumo che non avevo dimenticato, nonostante il tempo trascorso e sfilacciato che si era messo in mezzo a noi – a me, in questa stanza, nel dicembre del 1999, e lui, chissà dove, chissà perché – senza che nessuno gli avesse chiesto niente.
Non so da dove tirai fuori il sorriso che rivolsi ai bambini.
Forse era tornato insieme agli spifferi gelidi per pizzicarmi le guance come faceva lui una volta.
 
Epoche: 1/4
 
… una volta, una ragazza dovette dar via il proprio cuore e accogliere dentro il petto, al suo posto, una foglia d’acero screziata di rosso. Era stata la prima a cadere, quell’anno. Il rosso scorreva lungo quella superficie ruvida come se qualcuno le avesse aperto una ferita proprio al centro.
Certo, un cuore vero e proprio sarebbe stato meglio, ma la foglia se la cavava bene.
Non faceva mai male. E poi il suo - quello vero, quello vecchio - non era un cuore di grande valore, ma dandolo via era riuscita a pagare l’affitto del suo appartamento per quasi un mese intero.
- È piuttosto piccolo. – aveva mugugnato il ricettatore, un ometto tondo come una biglia e con una fittissima barba color ferro. – Vizzo e rugoso come una noce. Del tutto impermeabile. Buono per gli assassini!
E aveva dato una risata così poderosa che gli aveva tolto il fiato e procurato un violento accesso di tosse.
La ragazza aveva intascato il denaro, impassibile, e poi aveva girato i tacchi senza fiatare. Già prima di essere fuori dallo squallido negozietto del ricettatore meditava di demolirlo, ma mentre scartava mentalmente diversi incantesimi distruttivi – far marcire tutte le assi, no; invocare talpe e cavallette e mosconi, no; fargli esplodere la pancia, no; far sedere un drago sul tetto e aspettare che crolli… - l’uomo si riprese e radunò il fiato per chiamarla.
- Non vuoi sapere a chi andrà, il tuo cuore?
Sfiorò la maniglia della porta con un’unghia, lasciando una bava di ruggine dove toccava.
Mandare a chiamare Brughul e Jhin, le fiamme dell’Inferno.
- Hai già un acquirente?
- Forse. È un articolo che non passa mai di moda. – Un sinistro bagliore illuminò un occhio dell’uomo, uno solo, poi morì dentro una teca polverosa alle sue spalle. – Questa è la prima volta che mi capita di rivendere un cuore vero; le persone non se ne separano così di buon grado, normalmente.
- Dovrebbero. Chiunque lo comprerà farà un cattivo affare, ma non mi interessa.
- Davvero? Ti basterebbe una firma, qui su questo foglio. - da un cassetto del bancone trasse un foglio di pergamena spesso e orribilmente consunto, coperto da lettere minuscole simili a zoppi arabeschi, insieme ad una boccetta d’inchiostro color acquitrino che ne aveva tutto l’odore.
Far spuntare una foresta di ragnatele, chiedere a sette fulmini di cadere sullo stesso posto.
- Una firma, e poi?
- Poi lo riconosceresti ovunque. Il nuovo proprietario del tuo cuore. In mezzo ad una folla, lungo i paralleli e i meridiani di una mappa, sul fondo del mare, in mezzo al cielo coperto di nubi, attraverso muri di pietra e, perché no, attraverso le epoche. – La sua voce era diventata morbida come la lunga piuma bianca che gli era spuntata fra le mani all’improvviso.
Lei pensò che quella piuma fosse esageratamente bella, e che quella bellezza la stesse guardando, - no, accusando attraverso la stanza ricoperta di lerciume e oggetti inutili, falsi, libri e specchi e scrittoi e gioielli e abiti scorticati e riesumati dall’incendio del tempo che scorre e dimentica, intaccati dalla rovina e da una rabbia fredda a cui si sforzava di non prestare attenzione, ma che le arrivava al palato con un sapore di vomito.
- No. No, io non voglio.
- È e sempre sarà l’unico che avrai mai avuto. – osservò pacatamente l’uomo.
Lei rise per qualche secondo, e non le venne in mente altra risposta. Aprì la porta, imbarazzata, intimando bruscamente alle campanelline di tacere, e uscì in fretta.
Verruche verdi, pensò con fermezza allungando il passo verso la fermata della metropolitana.
 
 
Sfregò con forza il ricordo degli ultimi minuti contro le pietre che lastricavano la strada e ne lanciò i residui sulle rotaie della metro, uno ad uno, come briciole per i passerotti, mentre dalla gola buia alla sua sinistra lo sferragliare del treno diventava assordante.
E pensò che non aveva un posto dove andare, niente da mettere sotto i denti, ma soltanto i suoi capelli rossi e frammenti di magia rimasti incastrati nel suo sangue, diluito dal susseguirsi di generazioni.
E pensò che non voleva più vedere neanche un centimetro del proprio corpo, infagottato alla meglio in un completo di tweed grigioverde, scovato in un baule nella soffitta di Antonia Guckville e infilato sopra una camicia sdrucida. Forse i piedi li avrebbe tenuti, sì, soltanto quelli, insieme alle scarpe spaiate e ai geloni che non l’abbandonavano nemmeno in estate.
 
Slipping through my fingers all the time;
 
Epoche: 2/4
 
Fare a pezzi i ricordi non è difficile quanto potrebbe sembrare, ma serve un anestetico potente per vederseli sfilare davanti uno ad uno, e uno ad uno inchinarsi e strappare con sorrisi sadici il tempo necessario per recitare la loro parte.
Ma lei non aveva più il cuore e non aveva fatto male, davvero; e forse neanche il corpo avrebbe sofferto troppo – troppo a lungo – se si fosse lasciata cadere sui binari che sussultavano e diventavano roventi.
Le monete tintinnarono dentro la tasca sinistra dei pantaloni, senza motivo. Il suono accompagnò la la visione che si dipanava nella sua testa: si vedeva di spalle, e in realtà erano nascoste una da logoro tweed, l’altra dalla tracolla di cuoio, e si abbassavano lentamente perché precipitava, sciolta e inevitabile, mentre invece i capelli si sollevavano dalla nuca e artigliavano l’aria pesta.
Sollevò lo sguardo e si sentì stupida e perduta, perché invece del cielo poteva soltanto guardare un muro di mattoni.
E un uomo.
Un uomo guardava lei con dentro gli occhi qualche migliaio di catastrofi e sembravano dirle “Allora, ci sei arrivata o no?” e delle labbra che stavano per sorridere.
Bel naso, pensò.
Bel sorriso.
Brutte scarpe.
Soltanto che quando si accorse delle scarpe dovette anche notare che stavano dondolando sulle rotaie.
Mezzo secondo dopo il treno invase il suo campo visivo, ma dovette aprirsi uno squarcio nello spazio o nel tempo, perché rimase la traccia di quel sorriso a galleggiare all’altezza dei finestrini, come una scia al neon stampata nella retina contro le tenebre della notte.
 
   Epoche: not found.
 
No, non fate quella faccia.
Si reincontrarono mille volte, e c’è da dire una cosa, sugli occhi di quell’uomo: non erano gli occhi di un uomo che muore.
Che vuole morire, forse. Che ci ha già pensato un milione di volte, per curiosità o per disperazione, probabile.
Ma che muore davvero, come moriamo io, tu, i fiori e le comunicazioni radio, quello no.
 
Una volta su due andava a finire nei suoi sogni, come si scivola in una pozzanghera o si picchia il mignolo contro lo stipite della porta.
A volte era una statua di bronzo al centro di una fontana, che faceva correre uno sguardo divertito sull’immenso prato di erba cangiante; la stregava con il suo spettacolo di gesti osceni per far arrossire le sirene che lo circondavano, oppure piangendo in maniera incontrollabile, tanto che finiva per riempire la vasca.
Una notte era stato un bigliettaio annoiato e indisponente, stravaccato dietro una scrivania tappezzata di mappe, orari di treni e aerei e mezzi di trasporto inesistenti, il mento affondato nel palmo di una mano e gli occhi cerchiati da occhiaie scarlatte.
- Dov’è che vuoi andare? – l’aveva apostrofata, inarcando impercettibilmente le sopracciglia. – Dio, non vedi quanto questo posto sia fantastico? Io ci resterei tutta la vita. Non ci sono ascensori per la Terra, oggi. Non ti va proprio di rimanere qui a guardarmi?
Un’altra ancora – era crollata sul letto ubriaca – era disteso sul letto accanto a lei, e le stava accarezzando la schiena nuda e macchiata di sole.
Lui aveva addosso una felpa, ma non le mutande, gli occhi socchiusi e il respiro caldo, profondo.
- Sai. – sussurrava, guidando con le dita il contrarsi dei muscoli sopra le sue spalle, le costole, giù fino ai lombi. – Un giorno faremo un album con le fotografie di tutti i momenti in cui avrei voluto ucciderti, ma poi non l’ho fatto.
Lei si tirò su di scatto, perché in quell’esatto momento si rese conto di non essere addormentata, e che lui era proprio lì.
- Quando? – balbettò, guardandolo più che poteva, in quanto era sicura che sarebbe svanito da un momento all’altro, lasciando dietro di sé soltanto l’impronta sul cuscino.
- La prossima volta che ti dimenticherai di me.
Le stampò un bacio sulle labbra – caldo, fuoco, incubi e granelli di sabbia rossa -, per poi alzarsi e camminare verso la porta senza mai smettere di guardarla. Quando le sue spalle aderirono al legno, ammiccò e sparì.
 
Epoche: 3/4
 
- Per mille rospi verrucosi. – esclamò Vivienne con trasporto.
- Corpo di cento porcospini indemoniati. – sospirò Platea, interdetta.
- Porca puttana. – fu la sintesi di Blitzen.
Annika tacque, continuando a torcersi le dita e a fissare sconsolata il suo cappuccino.
Un sospiro le sfuggì dalle labbra e risuonò terribilmente greve fra le pareti della piccola cucina di Platea.
- Tesoro, non fare così. Una soluzione la troveremo, vedrai. – interloquì quest’ultima.
- La storia è piena di situazioni simili alla tua. Certo, un demone è sempre un affare delicato da trattare, ma non c’è da disperarsi. – Viv pensava ad alta voce, sbriciolando un biscotto al cioccolato con le dita. Nella sua tazza, un cucchiaino mescolava con zelo il caffè ormai freddo.
Blitzen era quella più allegra.
- Ti correggo il cappuccino.
Ad un elegante movimento del polso seguì un leggero puff , e da un certo punto del nulla apparve una fiaschetta di grappa. Dopo che ebbe fatto il giro di tutte e quattro le tazze, fece un legnoso inchino a Blitzen, poi sparì.
 
(Ecco, mi venne in mente, la mia storia doveva avere l’odore di quella cucina nel momento in cui si mescolarono insieme il suo normale, di abitudine, biscotti, caffè rovesciato sul giornale o esploso sul fornello, the e patatine fritte, pianti scomposti e ripiani da riordinare, con il sentore acre della grappa di Blitzen.
Non ero sicura fosse adatto a dei bambini, ma se esiste davvero qualcosa, nell’universo, che lo sia, avrei porto le mie scuse a dei Dusk e Fannie adulti e complessati, un giorno.)
 
- Ai disastri. – brindò allegramente la ragazza, scostandosi dal viso ciocche di capelli biondo platino.
Quattro tazze scompagnate vennero alzate, sbattute sul tavolo e bevute tutte d’un sorso come se si trattasse di shots di tequila. A pensarci bene, la situazione richiedeva il sostegno di una certa quantità di alcool in circolo.
- Devo avere un libro che potrebbe aiutarci. – Vivienne inghiottì un singhiozzo, e continuò. – In soffitta o sotto il letto, oh, spero solo non se lo sia portato Joelle in Romania…
- Dell’aglio. Chili di aglio, sarà meglio andare a fare tutto in un posto isolato, ché non sopporto l’odore. Fegato di coniglio, inchiostro di occhi di seppie, polvere estratta da un suo desiderio e fritto misto mare. – snocciolò Blitzen sovrappensiero.
- Che cazzo dici?
- Eh? Metti che il libro ce l’ha Joelle, senti. Io non ho ancora il permesso di tornarci, in Romania.
- Ma sono passati quasi cinquecento anni da quando hai avvelenato tuo marito!
Blitzen sollevò una mano per interromperla, un’espressione infastidita dipinta sul volto.
- Non me lo dire. Quasi cinquecento anni che non assaggio un Cozonac come si deve.
- Stai dicendo che quello che ti preparo ogni singolo Natale non è di tuo gradimento?
- Non la metterei proprio in questi termini, Platea, ma come lo fa la vecchia Tushka è tutta un’altra cosa.
- Magari un bel cerchio rituale… Canapa e zenzero, nastri rossi, luna a tre quarti calante.
La voce di Viv riemerse nel battibecco, dato che Platea non era stata in grado di ribattere, indignata, e ricordò a tutte del problema.
- Bisogna proprio ammazzarlo, quel demone.
- Quando l’hai visto per l’ultima volta?
E Annika raccontò di come avesse incrociato il suo volto in tutte le vetrine di Carnaby Street soltanto quella mattina, mentre attraversava Londra per raggiungerle. Aveva ancora i piedi bagnati per tutta la neve che le era finita nelle scarpe, mentre stazionava incantata davanti a quel viso fumoso e butterato dai residui di detersivo.
Dopo un sospiro generale, Viv estrasse dal niente un taccuino e una penna, preparandosi a prendere appunti.
- Di che colore aveva gli occhi? – domandò con professionalità.
- Non li vedevo, era un’immagine sfocata. Ma le altre volte li aveva sempre rossi, oppure blu.
- Ti ha rivolto la parola?
- L’ha invitata al cenone della Vigilia.
- Blitzen.
- Okay, okay. – fece la ragazza, alzando le mani in segno di resa.
- Non ha detto nulla. Era come se… come se non volesse essere visto, in un certo senso. Se lo guardavo troppo a lungo spariva, e per il resto era come qualcosa che vedi con la coda nell’occhio e quando ti volti non c’è più.
- Da quanto va avanti così?
Annika smise di guardare il fondo della tazza, e si accorse delle tre paia di occhi che la scrutavano con apprensione. Sentiva la bocca irrigidita e le vene asciutte.
Quelle tre donne le avevano salvato l’esistenza, infilandosi armate solo dei loro corpi nella casualità atroce che governa l’universo e che altrimenti l’avrebbe inghiottiva viva.
Vivienne era arrivata una notte di settembre, la stessa che Ann aveva passato seduta sui gradini che si inabissavano alla fermata della metro, pensando ai sorrisi fluorescenti spazzati via dai treni, alla consumazione eterna e alle lucciole estinte; l’aveva guardata attentamente dal cappello alla suola scollata delle scarpe, dalle punte crespe dei capelli all’orlo scucito delle maniche, dal petto privo di cuore alle mani prive di guanti, irrigidite per il freddo e per l’orrore attorno alla ringhiera. E Viv aveva preso quelle mani, sciogliendole la paura da ogni polpastrello, e sorridendo l’aveva portata a casa di sua madre a mangiare brownies che un gentile vasetto incantato aveva cosparso di caramello fuso.
Platea era una compagna di università di Vivienne, ma veniva da lontano: era nata venticinque secoli fa, in Grecia, dal sangue che dal corpo di Mardonio spruzzò sul volto del ragazzino che gli aveva conficcato una spada fra le clavicole. Era vissuta un po’ ovunque, esistenza raminga che si cibava di tragedie e racconti, finché, per una questione di cuore che non si era ancora decisa a chiarire, si era stabilita a Londra sul finire del sedicesimo secolo. Annika l’aveva incontrata ad una proiezione notturna di Good Morning Vietnam: sedeva con le braccia strette al petto, circondata da un allestimento di cuscini, patatine, barrette di cioccolato e kleenex che doveva essersi portata da casa; dal volto non trapelava alcuna emozione – era lei, a sforzarsi di controllarne ogni singolo muscolo -, ma gli occhi erano lucidi dietro le lenti.
- Ti sposti da lì, cazzo. – le aveva ordinato, la voce umida e grumosa che non poteva proprio permettersi di intonare una domanda, se non voleva spezzarsi.
Blitzen era arrivata più tardi, come arrivano i tifoni, il ciclo mestruale e le disgrazie in generale: ne senti il pizzicore nell’aria e in qualche parte dell’anima, ma non conosci il momento esatto in cui avverranno e sai che, in ogni caso, non sarai mai davvero attrezzato per superarle indenne.
Si era presentata alla porta di Platea, alle quattro di una notte proverbialmente buia e tempestosa, con le mani sporche di sangue e la maglietta di vernice.
- Lo sapevo. Dovevi essere tu per forza. – aveva trovato il fiato di dire, un sorriso sghembo tracciato sul suo bellissimo viso. – Tempo perfetto per volare. – biascicò prima di svenire fra le braccia della ragazza.
E poco mancò che svenisse pure Platea, che invece mollò la sconosciuta sullo zerbino e corse a telefonare a Vivienne.
- Mi è capitata Glamis in casa, Viv.
- Prego? – aveva risposto Vivienne, senza traccia di sonno nella voce. Era svanito durante la lunga serie di imprecazioni che la sua proprietaria aveva accompagnato alla ricerca del telefono.
- C’è Cawdor sui miei gradini di ingresso. Credo.
- Oh, e ci sta comoda?
- È svenuta.
Viv sospirò.
- Tesoro, naturalmente io non conosco Shakespeare come lo conosci tu, ma Macbeth non era un uomo?
- Lo so, Viv, ma io ci spero sempre.
- Ti voglio bene. Arrivo.
 
(but baby don’t cry: you had my heart
- at least for the most part.)
 
Ad Annika venne da ridere e un po’ da piangere, mentre pensava a questo e le vedeva lì davanti a sé. E in nome del sorriso di Vivienne, delle illusioni di Platea e dell’imprevedibilità di Blitzen, decise di essere sincera.
- Non si ammazza proprio nessun demone.
Si strabuzzarono sei occhi, si trattennero tre fiati e si fulminò una lampadina.
- Porca vacca. – la redarguì Blitzen.
- Che stai dicendo, Ann? – sbottò Platea, accendendo le candele sparse per la cucina con un brusco cenno della mano.
- Io lo vedo da sempre. È nei miei sogni, nel punto cieco del mio sguardo, nei miei respiri. Un po’ di lui è sulle mie labbra, dentro lo stomaco ho tutti i fantasmi di baci che ho inghiottito. E non voglio che muoia, semmai che diventi più reale. E anche perché se morisse, morirei anche io, perché sono abbastanza certa che lui abbia il mio cuore.
- E quindi?
- E quindi lo amo, Viv. Nonostante tutto. Niente evocazioni, niente feticci di capelli, unghie e imbottitura, niente intrugli da gettargli sulle palpebre per farlo diventare un mucchietto di cenere.
- Annika. – incominciò Blitzen. – Non so in che misura tu te ne renda conto, ma avere a che fare con un demone legato al suicidio, ai sogni e allo shopping in Carnaby Street, tanto più se in possesso del tuo cuore, ha qualche migliaio di risvolti malsani e pochissime possibilità che tu ne esca viva. In qualsiasi senso.
- Ha ragione.
- Toglitelo dalla testa e pensiamo a un benedetto modo di liberarcene.
- Sentite. Io non ho mai – mai messo bocca nelle vostre faccende amorose. Non ho detto una parola quando Vivienne si è innamorata del suo professore di letteratura che poi si è rivelato un vampiro…
- È stato un errore di gioventù. – bofonchiò Viv.
- … Né quando Platea voleva tornare indietro nel tempo per impedire che William si sposasse…
- E da quando lo chiamiamo William?!
- … Né quando Blitzen ha perso la testa per la mitologia greca e voleva cercare di sedurre…
- Va bene! Va bene! – strillò Blitzen. – Tieniti pure il tuo demone, auguri e figli maschi! Me ne lavo le mani, guarda!
Si alzò e se ne andò a fare il giro della casa, continuando a rimarcare in tono isterico quanto se ne sarebbe fregata di eventuali dissanguamenti, stragi, stirpi dannate eccetera eccetera.
Mancavano sei giorni alla vigilia di Natale, e fuori iniziò a nevicare, timidamente, mentre il vento addolciva gli spigoli dei caminetti e le finestre si crespavano di gelo.
 
Epoche: 4/4
Plenilunio.
 
I demoni non si tessono un corpo dal buio senza motivo, Ann.
Non si distinguono dalle altre ombre che popolano il mondo, se non perché mossi da uno scopo, una spinta all’espiazione di qualche peccato che non ricorda più nessuno, soltanto gli anni della loro dannazione.
I demoni preferiscono non avere gli occhi, non respirare; preferiscono fingere di essere morti.
Se il motivo di un demone diventi tu, Ann, ascolta: scappa.
 
Doveva essere quella notte, doveva per forza.
Me l’aveva lasciato scritto nel vapore che rendeva lo specchio un mondo cieco, mentre facevo la doccia, e ai margini dei libri che mi sforzavo di studiare anche durante le vacanze; me l’aveva sussurrato o urlato in quasi tutti i sogni che avevano occupato le mie notti.
E l’aveva ripetuto un’ultima volta, a bassa voce, quasi un rantolo. A una distanza in cui la mia pelle si fondeva con il suo respiro, sigillandomi le palpebre con le labbra.
 
 
La mattina e il pomeriggio e tutte le ore che durò quel maledetto tramonto furono insopportabili; non fece altro che sedersi, lisciare le pieghe del vestito di pizzo nero che le aveva prestato Blitzen, per poi alzarsi e trascinarsi per l’appartamento in cerca di un qualsiasi modo per far passare il tempo, e tutto daccapo.
Quando finalmente i raggi insanguinati del sole si ritirarono, strisciando verso ovest con una lentezza esasperante, schizzò fuori senza neanche prendere le chiavi o il soprabito.
Le strade erano già praticamente deserte, e chi era ancora in giro si affrettava a chiudere la serranda di un negozio o ad aggiustarsi il cappello, diretto a casa.
Quasi all’improvviso si ritrovò sola a passeggiare sui marciapiedi che altre scarpe avevano ripulito dalla neve, mentre ad uno ad uno i lampioni si accendevano e il cielo virava ad un blu sempre più scuro.
Aveva la mente sgombra da qualsiasi pensiero, e non si accorse di dove la stavano portando i piedi finché non vide il fiume brillare del riflesso della luna piena. Aveva scavalcato un basso parapetto di mattoni, e l’erba gelata scricchiolava sotto i suoi stivaletti.
- Annika.
Si fermò. Chiuse gli occhi.
Quando li riaprì, vide soltanto la massa nera del fiume ritrarsi e tornare, ritmicamente, perciò si voltò e lo vide, appoggiato al parapetto a dieci passi da lei, in soprabito nero e con i capelli spettinati.
- Tu. Non so nemmeno come ti chiami, dopo tutto questo tempo.
Successe qualcosa al suo volto, forse aveva sorriso. Era protetto da un circolo di ombre proiettato dagli edifici alle sue spalle, che continuava con un profilo strano anche sul prato.
- È importante?
- Magari. – si chiese a cosa somigliassero quelle ombre, e se non fosse stata davvero un’idiota ad incontrarlo.
- Mi hanno dato tanti nomi, ma quello che preferisco, quello che usi nei miei sogni, è Cassis.
C’era qualcosa di sbagliato e terribilmente seducente nella sua voce, come se le dipingesse nella mente i sogni di cui stava parlando. Si sentì avvampare nel gelo della notte, quasi avesse la febbre.
- Vieni qui, bambina.
Trattenne il fiato, mentre gli si avvicinava, così non si accorse che, nel momento stesso in cui oltrepassò i confini frastagliati delle ombre, tutta l’aria venne succhiata via e le stelle iniziarono a urlare.
 
Annika se ne accorse subito – lui non era davvero lì.
I contorni del suo viso tremavano, luci e sfumature scorrevano sulla sua pelle come colore ad olio continuamente mescolato da un pennello invisibile. I lineamenti del demone cambiavano forma impercettibilmente quando spostava lo sguardo, come se lo stesse guardando attraverso una lente con un ridottissimo punto di messa a fuoco. Soltanto i suoi occhi rimanevano gli stessi: le iridi rosso cupo, contornate da un bianco che spiccava nel buio e li faceva sembrare finti, appesi in quelle orbite nere come per una dimenticanza. Nemmeno le ciglia, lunghe e candide, ebbero mai un fremito.
Era molto più alto di lei, e le faceva accapponare la pelle.
- Cosa fai Ann? Tremi? Non hai mai paura di me, quando vengo a visitarti nei tuoi sogni.
Cassis parlava, e Annika sentiva le grida strazianti degli alberi di un altro, lontanissimo tempo. Il buio compatto di cui era fatto il corpo del demone si plasmò in una selva di fiamme, ma nessuna la sfiorò: era come guardarle attraverso uno schermo.
All’improvviso, la strega seppe che Cassis soffriva terribilmente.
- Perché hai comprato il mio cuore?
- Questa è davvero una lunga storia, per raccontarla in una notte. – replicò il demone, socchiudendo gli occhi come un gatto.
- Abbiamo tempo…
- No, non l’abbiamo. La vendetta lo fa tutto per sé, lo strappa dal grembo del futuro per macinarlo insieme a quello che è stato, e sparge la cenere sulla mente che vede ciò che è. Il tuo cuore serve a rendermi invisibile al demonio, e a pianificare la mia vendetta. Questo è ciò che ti basta sapere.
- Va bene. – disse la ragazza, dopo qualche secondo di silenzio. - Che cosa vuoi da me?
- Non lo so. Tu non mi servi a niente, eppure io non posso fare a meno desiderarti. Ti seguo ovunque e vorrei sapere ogni cosa di te, aprirti come una scatola e dimenticarmi di uscirne prima di addormentarmi. – Cassis reclinò il capo e per un attimo sembrò un ragazzo confuso, ma subito dopo il suo volto ridivenne una maschera.
- Ora dovresti correre via, perché io voglio ucciderti.
- Sì.
Invece la strega si avvicinò di più al demone e lo baciò.
Non era mai avvenuto, mai, in nessuno dei sogni in che lui aveva infestato.
Con la lingua dischiuse quelle labbra roventi e scivolò sul palato, strappandogli un sospiro che ricatturò subito con la bocca.
Per diversi attimi fu meraviglioso.
Poi accadde una cosa orribile.
Percorse con la lingua i profili aguzzi dei denti di Cassis, per scoprirne una, due, tre file. Come in un incubo, quell’istante si dilatò come una macchia scura, mentre si sentiva pervadere dal freddo e sciogliere le ginocchia.
Cassis parlava, ma lei continuava ad affondare tra i suoi denti e non riusciva nemmeno a urlare.
- O forse, forse potresti aiutarmi.
Le si rovesciarono gli occhi.
L’ultima cosa che vide, prima che diventasse tutto buio, fu l’erba inargentata dalla luna – la cinta d’oscurità che la serrava, ci pensò soltanto adesso, ma era troppo tardi, sembrava l’ombra di un castello.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Mi fermai. Avevo la gola secca.
Dusk e Fannie dormivano, non sapevo nemmeno da quanto; erano caduti intrecciati sui cuscini, le bocche socchiuse e i respiri sospesi fra le labbra come bolle di sapone.
Le candele erano ormai ridotte a pozzette di cera, lo stoppino ricurvo ardeva di una fiammella piccola come un’unghia dei bambini. Contai ventisette secondi, e poi si spensero in un unico sbuffo di fumo longilineo.
In quel momento sentii la porta schiudersi, e mi accorsi che c’era stato il silenzio più completo, prima.
- Ehi. – sussurrò la sagoma di Blitzen, ferma sull’uscio. – Dormono?
- Dormono.
- Fuori ha iniziato a nevicare.
Era vero. Scrutai la notte chiara oltre la finestra; il cielo era compattato in un'unica soluzione di nuvole grigie, e fioccava la neve fina come polvere.
- Hai voglia di un the?
Le sorrisi.
- Continui domani, con la storia?
- Penso di sì, se la sopporteranno ancora un po’.
Tacemmo, e lei fece per andarsene.
- Blitzen? – la fermai.
- Sì.
- Ha telefonato?
Le caddero le spalle.
- No. No, non ha telefonato.
Sorrisi di nuovo, stavolta del modo in cui mi guardava, divisa fra l’essere arrabbiata e dispiaciuta.
- Ora scendo, metti su l’acqua.
- Certo tesoro. Ti aspetto giù.
Scivolò fuori, lasciando la porta aperta.
Nevicava; era la prima volta, quell’anno. Identica a come era stato due anni prima.
Ero forse l’unica persona, quella notte, ad invocare il ritorno di un incubo, cucito con mal’arte sul volto dell’uomo che ho amato sempre, in tutte le epoche di questo vecchio e sorprendente mondo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Shame Corner;
Premettendo che: devo qualche migliaio di scuse a Shakespeare, finito senza colpe in questo mare di insensatezze; che non ne avevo intenzione, davvero, di niente di ciò che ho scritto qui sopra, ma le parole hanno cominciato a scriversi da sole, mentre le scorte di senso andavano esaurendosi e non avevo neanche un centesimo per andare a fare rifornimento.
Tutto è nato da una sfida con
Ragnatela: scrivere qualsiasi cosa inserendo tre parole, che in questo caso erano “castello”, “album di fotografie” ed “epoche”. Si presumeva che, avendole scelte io, il risultato sarebbe stato leggermente più civile, e invece non avevo la più pallida idea – né ce l’ho tuttora – di cosa sia ‘sta roba.
La prime tre righe in alto a sinistra rappresentano il tipico esempio di come Gatto capisce le cose, ovvero un cazzo e male; se conoscete Blame It On Me di George Ezra – e se non la conoscete, here’s for you – saprete che inizia così “The garden was blessed by the gods of me and you; So we headed west to find ourselves some truth; Oh, what you’re waiting for?”. Quella lì sopra è la versione corrotta che mi sono ritrovata a cantarmi in testa.
E il resto è soltanto l’esempio di quanto siano pericolosi per me certi esperimenti.
Che ovviamente si ripeteranno, non appena la mia collega sfornerà tre parole.
La parte incredibile e assurda di tutto questo sono le ricerche che mi sono trovata a fare – partendo da una mappa di Londra e sfociando in delitti compiuti in Romania nel Medioevo. Se qualcuno ha qualche idea di chi possa essere morto avvelenato in Romania intorno al ‘500, faccia un fischio: è il marito di Blitzen.
 
 
Gatto Magro.

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Capitolo 2
*** Non era vernice. ***


II
 

Non era vernice,
 

 
C’erano i suoi capelli rossi, le scarpe di pelle consumata fino a perdere odore e colore, le nocche illividite delle sue mani pallide come fotografie sbiadite, le tazze di caffè nero rovesciate sui plichi di fogli che nascondevano le assi marce del pavimento, una lampada ad olio, sospesa ad oscillare da un punto indefinito di buio, o dall’ultima spirale in cui il fumo di sigaretta si torceva pigramente per poi perdersi nell’ombra che inzuppava il soffitto.
Faceva freddo, anche se la camicia leggera e le caviglie nude – ossute, pallide, nervose – dell’uomo seduto al centro della stanza sembravano suggerire il contrario. Il suo respiro poteva essere gelido come l’aria, perché non condensava come quello di Blitzen, che se ne stava fra gli stipiti della porta, dritta come un manico di scopa, le unghie piantate nelle braccia sotto le maniche dell’ampio cappotto di lana.
- Non ricordo più come facevi a mandare via i topi, Babù.
Anche il respiro di Blitzen scomparve dalla stanza. Le si incastrò a mezza via fra polmoni e gola, facendosi improvvisamente pesante come piombo, sprofondandole nel petto e facendole salire le lacrime agli occhi. Non ce la fece proprio a rispondere, le labbra strappavano a vuoto brani d’aria mentre il suo cervello elaborava sinfonie di pianti scomposti, da bambina, sulla sua camicia troppo leggera per quella stagione.
- Sei raffreddata. Schiocca le dita e obbliga l’aria che filtra dagli spifferi a ingentilirsi contro il tuo corpo, amore. So che sai farlo.
Parlava con cura, a bassa voce, senza guardarla negli occhi. Le sue iridi di menta e foreste infestate seguivano i lenti cerchi che le sue dita disegnavano attorno ai polsi. Le labbra schiuse e un sopracciglio lievemente inarcato, studiava distrattamente i segni violacei che accompagnavano la pelle dai palmi ai gomiti: il punto che lei non seppe costringersi a guardare.
- Ti faccio un the.
Ma non si alzò dalla poltrona divorata dagli anni. L’incanto della propria pelle gli spargeva attorno agli occhi un’espressione insieme di stupore e preoccupazione, come se quello che stava osservando non gli sembrasse familiare e avesse avvolto il suo corpo all’improvviso, come una nevicata notturna.
- Con il becco di un pettirosso, devi ungere le finestre esposte ad ovest con un intruglio di rosmarino, salvia e fili di cotone.
- Mettere il bollitore sul fuoco sarebbe troppo banale, Babù?
Aria zuppa di ricordi e dolori sordi incastrata nel petto, di nuovo. Blitzen sorrise. Per i topi, amore, cercò di dire, per mandare via i topi, ma la voce non tornava più. Era caduta nelle caverne del suo corpo che aveva coperto di bugie, sciocchezze e distrazione, uno strato di foglie marce che nascondeva appena l’ingresso della tana di una creatura mostruosa, cresciuta e  deformatasi nell’oscurità dei suoi luoghi soppressi, rinnegati, ma rimasta una trappola ancora perfettamente funzionante. Aspettava, paziente, che lei si avvicinasse con un dito, la punta di una scarpa o di un pensiero, per chiuderla tra le sue fauci dolci e fatali.
Istintivamente, spostò lo sguardo sul proprio corpo, quasi aspettandosi di vedere abissi spalancati sotto il bavero del cappotto. Trovò invece le proprie mani, avvolte attorno una tazza sbeccata, piena di liquido dorato e fumante. Si stupì: l’ultima volta che ci aveva pensato, le sue mani erano artigliate alle proprie braccia, e una lieve sensazione di dolore e tensione era rimasta a premerle contro i polpastrelli. Spaventata, la lasciò andare.
Il liquido dorato dondolava fino a sfiorare i bordi, restituendole il riflesso liquefatto del suo volto.
La tazza non si era mossa: galleggiava nell’aria, come collegata alle sue dita tese da fili invisibili.
Blitzen sentì i muscoli contrarsi repentini lungo la schiena, avanti e indietro, una lenta frustata di calore.
Sbatté le palpebre e la tazza era ai suoi piedi, in frantumi, il the schizzato sugli stivali.
- Oh. – Sospirò.
Fece per alzare nuovamente gli occhi su di lui, sulle labbra una frase di scuse che morì prima di venire pronunciata: la tazza era ancora fra le sue mani, intatta, piena di the bollente.
- E le rose? – chiese lui.
- Quali rose. – Sussurrò lei in risposta. Guardarlo iniziava a diventare doloroso come il calore che le scottava i palmi, irradiandosi lungo le braccia e le spalle – nude, adesso, come il resto del suo corpo – un fuoco cattivo, mordace, che spezzava le sue membra di ghiaccio un pezzo alla volta, senza scaldarla.
- Le rose, Babù, che riempivano le aiuole del parco del castello, affollate in ogni punto in cui stornavi lo sguardo. Quelle dai gambi stretti da nastri di seta nera, appese sopra i caminetti di tutte le stanze, infilate in alti vasi di cristallo al centro del tavolo, sparse a centinaia sopra il pianoforte e  sul tappeto della camera dipinta del blu più profondo, dove mi chiedevi di portarti a fare l’amore…
Lei chiuse gli occhi, tremando.
Le sue parole, lente e paralizzanti, parevano accarezzarle le ossa.
Quando li riaprì, lui la stava fissando.
- Non ci sono più, le nostre rose. Castelul de Trandafiri Albi, con i suoi boschi e le sue fontane, le terrazze per i telescopi e le segrete per i fantasmi, è andato in rovina per lunghi anni, preso da un male tremendo. Le tempeste hanno divorato e spazzato via tutto ciò che poteva essere morso e rapito dal vento. E sulle poche pietre che rimasero, un re che tu non hai conosciuto ha innalzato un nuovo castello.
Frasi così lunghe e faticose, le sembrò di non averle dette mai. E il turbamento che vedeva crescere in lui era insieme ostacolo e spinta che le comprimeva il petto – coltelli piantati nella gola, scala di ferro e cristallo sulla quale la voce si sarebbe arrampicata…
- Come sulla scaletta a chiocciola che portava al Gradina Minunilor, dai gradini invisibili, ma incastonati di gemme come un cielo stellato. Soltanto la luce della luna sapeva accenderle, facendo apparire la scala. Si diceva che essa si riavvolgesse come una dama che raccoglie le sue gonne per passeggiare, e si spostasse di continuo. – Una risata umida e forzata le scappò dalle labbra. – Hanno trovato i disegni di Aldebaran Cărtărescu, sai? Quei maledetti. E hanno voluto usarli per ricostruire il castello proprio come la sua visione doveva aver attraversato la mente di quel pazzo. Pensavo di poter evitare di preoccuparmi, aveva dato fuoco a tutte le tavole, come faceva sempre. Deve aver conservato alcuni bozzetti, dei fogli di calcolo, o magari hanno letto la sua ossessione scavata nel fondo del cranio quando hanno riaperto la sua tomba, non so.
E non seppe proseguire, non con quei ricordi stampati in mente e gli occhi di lui sui suoi seni. Come confessare il proprio dolore di carnefice alla sua vittima ormai dissanguata, ma che si ostinava a respirare?
La guardava confuso e spaventato come un bambino, ma con gli occhi vitrei dal desiderio.
- Babù, ma se tutto è distrutto, noi dove siamo?
Blitzen premette una mano contro la bocca, forte, per soffocare un singhiozzo. Le dita si bagnarono di lacrime. Lui fece per alzarsi e venirle incontro, ma ricadde sulla poltrona sollevando nugoli di polvere: era legato. Una corda spessa quanto un pugno serpeggiava attorno al suo corpo, inchiodandolo dov’era, ma lui sembrava più tormentato dal fatto che la distanza fra loro non fosse diminuita.
Preghiere e maledizioni agli angoli della sua bocca, tutte con il nome che soltanto lui aveva usato per chiamarla. Piegata a quella forza, Blitzen si precipitò davanti a lui a mani tese – la tazza era caduta di nuovo, in un momento che il tempo doveva aver saltato come un graffio su un vinile danneggiato, con le piante dei piedi ne aveva calpestato i frammenti taglienti come lame di coltello, e il suo volto divenne una maschera d’amore e dolore, gli occhi pieni di lacrime per l’uomo seduto di fronte a lei, il sangue coagulato che gli trapuntava pelle e vestiti, e tutti gli anni che erano e sarebbero passati senza che lei scordasse i sapori e gli odori che il mondo aveva assunto, per lei, mentre lui viveva e si addormentava con un braccio stretto attorno ai suoi fianchi, il respiro caldo intrecciato ai capelli che le si incollavano alla fronte.
Il sudore freddo che scoprì sulla sua nuca divenne un liquido denso e bollente sotto le sue dita.
Le  finestre erano in briciole sui tappeti costellati di buchi, permettendo all’aria gelida di irrompere nella stanza: la lampada ad olio oscillava sopra di loro, alterando i lineamenti del suo volto, facendo apparire la pelle un attimo pallida e imperlata di sudore, quello successivo tesa, opaca e disidratata.
- Non ricordo più come facevi a mandare via i topi, Babù. – la sua voce uscì a fatica dalle labbra scorticate. – Adesso sono nella mia testa.
Una mano si infilò fra le sue cosce. Le dita che le accarezzavano la pelle erano di seta; le corde che la sfioravano, carboni ardenti.
Del fumo compatto abbracciava ora la sua visuale periferica, alzandosi in volute grumose dalle assi del pavimento. La stanza sprofondò in un’oscurità umida e verdastra, dove le pareti si persero come in una nebbia di palude. L’odore della putrescenza schiaffeggiò le narici di Blitzen.
- Farà male solo per poco. – balbettò, il petto scosso dai singhiozzi e le guance fredde per le lacrime che lo inondavano e l’aria aspra che le vorticava intorno. Serrò gli occhi di fronte al volto sfigurato dal terrore dell’uomo e lo strinse a sé. Ai rantoli che riversava contro il suo ombelico si aggiunse presto uno stridio acuto, vicino e sempre più alto, come la marea, perso nei secoli e dietro le sue spalle, contro i timpani, percepito da tutti i sensi con un’intensità che la gettava fuori di sé.
Quando iniziò a sentire i morsi nella carne alla base della nuca, si mise ad urlare.
 
 







“Ibis redibis non morieris in bello.”
 




E.m.p.t.i.e.d.
 
 
 
 
 


 
 
Platea spalancò la porta con ben poca grazia femminile mandandola a sbattere contro la parete, dove si schiantò con un rumore sordo e una pioggia di schegge di legno e vernice azzurrina. La maniglia roteò furiosamente al centro del disco d’ottone, finendo per svitarsi e planare attraverso la stanza come un’elica impazzita, scomparendo dalla vista. Un sonoro blop giunse da un punto imprecisato della stanza, segno che il pezzo di ottone era probabilmente affondato nella vasca da bagno piena d’acqua bollente di cui Platea indovinava appena la sagoma attraverso la fitta coltre di vapore che riempiva il bagno.
La ragazza rimase per qualche secondo cristallizzata nel gesto repentino di irrompere nella stanza, strizzando le palpebre e cercando di decidere in fretta se voleva insultare la porta, quella casa che cadeva a pezzi, Robespierre o il Creato intero.
- Blitzen. – esclamò soltanto, all’indirizzo della figura snella che emergeva a tratti dalla nube di vapore come la Pizia delfica. – Tornerò vivo dalla guerra?
Senza aspettare una risposta, entrò nella stanza e socchiuse le finestre per far circolare l’aria spessa e soffocante. Quando riuscì ad intravedere il volto dell’amica, le passò qualsiasi voglia di scherzare.
Blitzen non aveva mosso un muscolo. Pareva pietrificata, eretta di fronte al lavandino, pallida come se l’avessero scolpita dallo stesso blocco di marmo. Le labbra esangui erano schiuse, piegate in un’espressione che ammorbava i suoi lineamenti di una profonda, disperata tristezza. Perfino gli occhi, fissi nella superficie offuscata dello specchio, sembravano aver perso colore.
Mentre Platea la osservava ammutolita, Blitzen, con movenze affaticate di fantasma, sollevò un braccio imperlato di minuscole gocce d’acqua. Mentre stendeva la mano verso lo specchio, le sue labbra si mossero, modulando nel vapore una parola che Platea non riuscì a cogliere.
Un nome. Distante infiniti mondi, perso nella nebbia, qualcuno non rispose all’infinita dolcezza di quel richiamo.
- Blitzen, cosa diavolo stai facendo? – con un guizzo Platea le fu accanto. Afferrò quella manina bianca e la strinse. Gli occhi offuscati di Blitzen finirono nei suoi, senza vederli.
- Sei qui? – sussurrò.
Platea si sentì sprofondare. Prese il volto dell’amica fra le mani, con delicatezza. Era bagnato e lucido di lacrime.
Freddo come la pietra sotto i suoi polpastrelli.
Stava per chiamarla ancora, ad alta voce, quando qualcosa le mozzò il respiro fra i denti. Negli occhi spalancati di Blitzen, il suo riflesso non c’era. E non c’erano le mattonelle coperte di una patina di condensa, le alte candele sparse sui ripiani lucidi, la fila di asciugamani pesanti di umidità; niente di ciò che era fermamente saldato a quel piccolo spazio di mondo reale trovava posto e nome, fra le bianche ciglia di Blitzen. Come in uno schermo, la ragazza vide l’ira brutale e primitiva impressa in un volto privo di occhi; in quelle orbite scavate regnava un buio senza dimensioni.
Platea avvicinò l’indice e il medio della mano destra alle pupille di Blitzen, quasi sfiorando i bulbi oculari, e articolò qualcosa di incomprensibile. Quando abbassò la mano, le iridi dell’amica erano tornate del consueto grigio pallido e un respiro affannoso le scuoteva il petto.
- Cos’hai visto? – chiese Platea a bruciapelo. Reggeva ancora l’altra per le spalle e sentiva ogni brivido che serpeggiava sotto i suoi muscoli.
- Oh, come sono in ritardo. Platea, è meglio se mi passi il cappotto. – Mormorò Blitzen, spostando lo sguardo ansioso per la stanza.
- Prima è meglio se ti asciughi e metti qualcosa addosso. Non vorrai far venire un colpo apoplettico a tutti gli anziani signori del vicinato, andandotene in giro in déshabillé sotto l’impermeabile?
- Prego?
Platea sospirò. Afferrò un morbido asciugamano color indaco e vi avvolse stretta la ragazza tremante.
- Non ricordavo di avere un cappotto di questo colore. Non mi ingrassa un poco? – domandò Blitzen, impensierita.
- Trovo che ti stia a meraviglia. – la rassicurò Platea in maniera sbrigativa, mentre svuotava fuori dal balcone un portasapone pieno di mozziconi zuppi. – Credo che nel tuo armadio troverai anche un paio di mutande in pendant. Fila a vestirti e poi scendi, ti ho versato il tea.
Blitzen rimase lì impalata a gocciolare sulle mattonelle. Si fissava i piedi, corrucciata.
- Mi sembra di aver sognato. Ho un brutto sapore sulla lingua, ma non riesco a capire cosa…
- Sarà quello della menzogna. – Platea si girò per guardarla attentamente. – Qui dentro c’è odore di menta piperita, gelsomino e qualcosa di strano, antico, ma organico. Come un cadavere nascosto in armadio pieno di muffa e polvere nella biblioteca di Uppsala.
 - Sarebbe un buon titolo per il tuo libro di memorie.
- Ricordami di appuntarlo. Per il tuo, invece, suggerisco “Perché diavolo ho invocato visioni e sogni profetici mentre mi insaponavo le ascelle?”
- Stavo solo cercando di capire dove potrebbe essere Ann. – ribatté Blitzen sulla difensiva.
- Ma hai trovato qualcos’altro. Ti ho chiamato per cinque minuti buoni. – Nel tono duro di Platea si insinuò una vena di dolcezza, la stessa che tornava a pungerle i polmoni ogni volta che a Blitzen succedeva qualcosa. - Poi ti ho sentita urlare.
Blitzen tacque. Nella sua mente, si distillavano ricordi degli ultimi minuti che le sembrava di aver vissuto con un altro corpo: da una bizzarra prospettiva angolare, vedeva se stessa immersa nella vasca di ghisa addossata alla parete, circondata di bolle di sapone delle più diverse forme e colori… un sinuoso drago dai riflessi lilla e girasole, volti bulbosi di folletto, lucidi e oblunghi vagoni tremolanti sul pelo dell’acqua correvano intorno alle sue ginocchia… una sigaretta dimenticata esalava un sospiro bianco e sottile che si intrecciava al fumo più denso, penetrante delle erbe annerite in una ciotola d’argento… la voce di Platea che la chiamava dalla cucina…
L’incubo si sovrapponeva alla realtà sfocandone i contorni, come un’interferenza. I rumori esterni si ripetevano, alterandosi improvvisamente mentre un sottofondo greve e roboante cresceva di intensità. Come lampadine bruciate, i colori sfarfallavano e infine si spegnevano, lasciando il posto alla densa oscurità di una stanza che portava i segni evidenti dell’abbandono.
- Somebody catch my breath.
- Che hai detto?
Blitzen sbatté le palpebre e mise a fuoco un paio di occhi dorati, stretti in un’espressione indagatrice.
- Facciamo due passi. Mettiti qualcosa addosso, dobbiamo parlare con Viv.
- Oh, certamente. Tu invece tieni l’asciugamano, fa un contrasto sorprendente con la tua carnagione. – borbottò Platea in risposta, ma l’altra non la udì. Stava già filando verso le scale, lasciando una scia di impronte bagnate sul parquet nero come la notte.
 
 
 

 
I’m a goner
 

Erano bellissime, eteree e disordinate, non si stavano accanto e non si tenevano per mano, per non perdersi tra i respiri della calca di West End: loro non si sarebbero perse mai. Fossero finite in una fotografia scattata per caso, chiunque, guardandola, avrebbe unito con un filo invisibile – rugiada d’occhi – le due figurine che parevano stare immobili, come gli assi di rotazione terrestre in differita sui marciapiedi di Londra, intorno ai quali l’umanità scorreva e si tramutava in un caleidoscopio al rallentatore.
Platea, intabarrata in una giacca maschile grigio tempesta dalle spalle troppo ampie, mani piantate nelle tasche dei calzoni e naso nella sciarpa che la avvolgeva come una coperta, camminava lieve pochi passi dietro Blitzen, che marciava ad una velocità sorprendente per essere issata sui suoi stivali a tacchi alti. Le falde del sontuoso cappotto color glicine sferzavano l’aria dietro di lei, spazzando via la nebbia che tentava di avvolgerle le caviglie. Nonostante l’aria gelida che spirava sulla via, il suo collo era nudo ed esposto al vento. Aveva le guance infuocate e gli occhi pieni di lacrime.
- È mai possibile che Vivienne debba portare a spasso gli antenati mentre siamo immerse fino alla cintola in un mare di merda?
Una donnina tutta rughe e abiti bordati di candida pelliccia sobbalzò nel cogliere quella frase pronunciata dalla creatura angelica che quasi la investì.
- Tu riempi la mia vita di immagini meravigliose. – Platea allungò il passo, superando la donna rifilandole una spallata assolutamente intenzionale. – Perché stiamo correndo? Non credo che Vivienne abbia trascinato Auntie Antonia a passeggiare fino in Galles. Non con quella sua tallonite.
- Quel vecchio comò sarebbe in grado di trascinarsi in Francia, se si mettesse in testa che tira aria migliore. O che è ora di rinvenire qualche altra mummia di famiglia.
- Cosa non fa un buon paio di calzature ortopediche. Gliele consiglio vivamente! – aggiunse Platea strillando nel cornetto acustico dell’ottuagenario che le ostacolava il passaggio.
Sfilavano lanciandosi parole che avrebbero usato in un qualsiasi giorno di dicembre, sorridendo di nascosto nelle maniche dei maglioni o nei bordi delle tazze da the, come se nulla fosse, forse per quel loro essere giovani e antiche che nessun altro poteva sapere.
Platea forse per sfiorare lieve il volto contratto di Blitzen, e confondere l’odore di tensione che emanava con quello delle bancarelle di dolciumi stemperate in un'unica scia colorata ai lati del suo sguardo, ancora un po’.
Blitzen, per costringersi a non cercarlo fra la folla, nei visi di sconosciuti, nei pozzi d’ombra che le luminarie non riuscivano a dissipare. Per non sperare più.
 
 
Antonia Coralise Lucrèce Eulalie Blanchard Guckville era l’unica donna che Vivienne conoscesse ad indossare un corsetto per passeggiare ad Holland Park.
Un corsetto nero, un mantello scuro come la notte che si avvicinava, dalle ampie maniche ricamate in fili spessi d’argento in motivi che s’accendevano alla luce soffice di un lampione dalle braccia torte, un cappellino trapuntato di lunghe piume corvine adagiato sulle ventitré su una corona di ricci color pervinca, un oblungo bastone d’ebano dalla testa di cigno stretto fra le mani guantate ed immote come i solchi sul suo volto severo.
- Eugenia Blanchard, lascia in pace quell’elleboro.
Vivienne sorrise e alzò lo sguardo sull’anziana zia, seduta impettita sull’orlo della panchina come se trovasse sul trono d’Inghilterra.
- Zia, sono Vivienne. – le rammentò, tornando ad incantare con le dita gli steli d’elleboro, che presero a torcersi con grazia, emanando una luce dorata e polverosa. – Eugenia ha dodici anni, sta facendo i compiti di matematica e in questo momento si trova dall’altra parte della città.
Antonia strizzò le palpebre, riuscendo a farlo sembrare un moto sdegnoso e non il tentativo di mettere a fuoco la nipote seduta sull’erba.
- Perdonami, cara. Ma dimmi, Eugenia non è neanche uno fra i tuoi nomi?
La ragazza guardò un punto nel cielo e contò per qualche secondo sottovoce, giocando distrattamente con la tesa del cappello.
- Forse il dodicesimo o il tredicesimo.
- Naturale, naturale! – Antonia strinse il bastone con soddisfazione. – Non ti sei sposata l’anno scorso, vero? – aggiunse dopo qualche attimo di perplessità.
- No, zia. Si sono sposate Cassandre, Isabeau e Noémie… - snocciolò Vivienne, contando in punta di guanti. – Non sono sicura se Aubépine si fosse solo fidanzata con quel tipo alto e scuro, ricordi? Lui non era molto contento quando scoprì che lei preparava filtri in cantina.
- Tua cugina è una sconsiderata! Se scoprissero qualcosa su quel suo negozio di sciroppi e essenze medicinali, saremmo tutti nei guai. E dire che le basterebbe essere un minimo più discreta, usare meno belladonna e gelsomino tigrato, e magari togliere quel ridicolo drago di Normandia dall’insegna!
- Io lo trovo meraviglioso! – Vivienne scoppiò a ridere. – Avvicina i bambini al magico mondo dei farmaci.
Antonia la fulminò con un’occhiata di puro gelo.
- Quando arrostirà qualcuno riderai meno, bambina! Anche se suppongo che tua cugina Aubépine offrirebbe prontamente un miracoloso unguento di erbe per le ustioni…
- Già, Aubépine non si fa mai prendere dal panico. Una venditrice nata. – considerò Vivienne. – Zia, inizia a fare davvero freddo, vuoi che ti accompagni a casa?
- Per lasciarmi in mezzo a quelle papere delle tue parenti alle prese con il tacchino della Vigilia? Preferirei diventare una statua di ghiaccio su questa stessa panchina. Mai, mai la stirpe dei Blanchard rinunciò alle danze nei cieli fitti di stelle della notte di Natale per infilare un pennuto ripieno nel forno! – le narici di Antonia fremevano come quelle del drago di Normandia acciambellato sull’insegna del negozio di Aubépine. – Fuochi verdi dalla punta delle dita, coltri di lampi e gelo per capelli, usavamo volare come granelli di sabbia nei vortici tempestosi. Gli animali del buio erano i nostri destrieri e insieme al vento assordante intonavamo il cantico di Mohr-ja-Ggon…
- Oh, certo, certo. Quanti secoli fa, esattamente?
Pallida di stizza in volto, Antonia ammutolì la nipote con lo sguardo. Stava per ribattere qualcosa quando una voce la interruppe.
- Auntie, che bello trovarti qui. Ti hanno addobbata per le feste? Quel cappellino è adorabile.
Platea si stravaccò malamente accanto all’anziana signora, a braccia conserte e gambe larghe, un’espressione felina stampata sul viso.
Blitzen si avvicinò a sua volta, aggraziata, lasciando una carezza fra i capelli di Vivienne.
- Allora, zia, stavi ancora parlando di remote tradizioni? Anche io e Blitzen ne avremmo un paio da raccontare. Dovremmo dedicare una serata a rimpiangere tutti quei riti folli a cui prendemmo parte in gioventù…
- Ti prego, Platea, di parlare per quanto ti concerne. Io sono ancora nel fiore degli anni, se confrontata con due anticaglie come voi. – la rimbeccò Antonia, assumendo, se possibile, una postura ancora più rigida. L’avrebbe negato sempre, ma all’angolo delle sue labbra severe tremava un sorriso. – E siediti composta!
- Avete notizie? – chiese Vivienne, facendo saettare lo sguardo da Blitzen a Platea. Il viso di ques’ultima si ricompose, facendosi cupo come i cipressi che svettavano alle loro spalle.
- Nulla. – mormorò Blitzen. – Non un urlo, non un soffio è giunto fino a noi.
- E se provassimo con la divinazione?
La bionda allontanò l’idea con un gesto morbido della mano. – Abbiamo tentato, ma siamo rimaste cieche.
- Tu hai tentato. – rimarcò Platea, polemica. – Ci vuole una mente pura, per vedere chiaramente fra le trasparenze dei sogni.
- Certo, se ti ci fossi messa tu sarebbe andata diversamente. Una mente tanto pura, la tua, che avrebbe risvegliato il…
- Blitzen ha avuto delle visioni? Quando? E perché non mi avete aspettata?
- Lei non ha aspettato nessuno! E se solo avesse avuto la grazia di avvisarmi, invece di chiudersi lì dentro e…
- Silenzio! – Antonia picchiò il terreno con il bastone con inimmaginata energia. La sua voce avrebbe arricciato il pelo di un gatto e fatto cadere le piume di un pavone. – Urla, sogni, divinazione, che razza di carnevale è mai questo? Ora una di voi mi spieghi tutto per filo e per segno, per cortesia, e le altre non fiatino.
Le ragazze si scambiarono sguardi veloci e irrequieti. Infine, Blitzen sollevò altera il mento, si inumidì le labbra e parlò.
- Ricordi Annika, zia?
- Quanto ricordo le guerre e i sovrapprezzi dell’uva candita, purtroppo. Quella vagabonda ha saccheggiato la mia soffitta più di una volta, ed è sempre riuscita a scampare alla mia scopa di saggina.
- Annika ci disse di aver spesso avuto delle visioni, durante le quali un demone le appariva. A suo dire, si trattava del proprietario del suo cuore. Noi la avvisammo subito che era necessario liberarsene immediatamente, ma… - Incapace all’improvviso di proseguire, Blitzen chiuse le palpebre. Nel buio che vi incontrò dietro, udì la voce di Platea completare la frase al posto suo.
- Disse di esserne innamorata e che ucciderlo le sarebbe stato impossibile. Ci ha impedito di intervenire in qualsasi modo quando, la notte scorsa, è uscita per incontrarlo.
-  E da allora non è tornata. – Terminò Antonia, lenta, grave.
 
E da allora, mi leggi negli occhi, sono nel fumo che odora di terra, cenere come piume al tatto, colori vibranti nella camera oscura ricavata fra le costole sospese nel buio di un essere di cui non scorgo il volto, nemmeno domandando con dolcezza ai venti e alle loro figlie dai capelli intrecciati di ortiche, ai buchi scavati nel terreno, al muschio verdeazzurro, che s’accendeva al ritmo di un respiro quando la vista del presente si snebbiava, e fremeva la foschia al lento borbottio della sua arcana voce…
 
- Lo vedo, bambina, che hai interrogato le occhieggianti piante della tua terra per avere indizi su dove dirigere lo sguardo. Non è servito, vero?
Blitzen scosse brevemente il capo.
- E tutte voi non credete che la strega sia fuggita con il demone di sua spontanea volontà.
- Bere il sangue di neonati e dare intere città alle fiamme non risultavano fra i sogni erotici di Annika, se posso dire di conoscerla un poco.
- Non possiamo non provare nemmeno a riportarla a casa. – dichiarò Blitzen, la voce fremente. – Siamo state delle stupide.
- Le hai persino prestato un vestito. – precisò Platea, che aveva il dono bizzarro di pronunciare, con sintetica esattezza, la frase che avrebbe mandato un suo qualunque interlocutore su tutte le furie.
Dalla rabbia Blitzen si fece, se possibile, ancora più pallida.
- Platea, vai nel luogo in cui Annika è scomparsa. La mia tallonite non mi permette di andarmene dove voglio, e Cicerbitha Robbins non è una donna che ama le visite inaspettate.
Le ragazze la guardarono con tanto d’occhi.
- Perché devo andarci? – fece Platea.
- Perché dobbiamo andarci? -, le altre due, in lieve differita.
- Esamina il terreno, ascolta l’acqua, presta orecchio allo scricchiolio dei ciottoli. La terra ricorda l’orrore quanto noi; ci dirà qualcosa che non sappiamo ancora sulla vostra amica scomparsa. E Cicerbitha Robbins fa un ottimo tea agli agrumi.
 
 
 
 
Cicerbitha Robbins non amava le visite, punto.
Caratteristica piuttosto bizzarra, pensò Vivienne, dato che possedeva una sala da tea la quale, come dichiarava un grazioso cartello appeso alla porta in legno e vetro completamente appannato, era aperta tutti i giorni dalle otto alle undici del mattino, e dalle due, recitavano frettolose parole in corsivo, fino a che un cliente avrebbe desiderato una tazza del miglior tea d’Inghilterra.
Una spessa patina di condensa ricopriva le ampie vetrine, rendendo indistinto l’interno dell’antico locale da cui filtrava soltanto la luce soffusa delle lampade a parete; l’impressione era, però, che non ci fosse anima viva.
- Coraggio, ragazze, non ho intenzione di compiere ottantaquattro anni su questo marciapiede.
Al di sopra del cappellino piumato di Antonia, Vivienne e Blitzen si scambiarono uno sguardo perplesso.
- Novantaquattro, zia. – si sentì in dovere di precisare Viv.
Ci vollero quattro mani per spingere la porta, che ugualmente non si mosse di un millimetro. A guardarla meglio, il suo contorno pareva semplicemente un rettangolo tracciato con un carboncino; il vapore che chiazzava il vetro si rivelò essere, in realtà, polvere, che aveva tutta l’aria di starsene lì da un bel pezzo. Blitzen pensò vagamente a quanto tutto desse l’impressione di essere appiattito, senza dimensione: più lasciava correre lo sguardo dalle snelle maniglie d’ottone agli stipiti di quercia, più la facciata della sala da tea le pareva un disegno schizzato su di un foglio ingiallito dal tempo, il colore sparso dalla punta delicata di un dito che lasciava intravedere la grana della carta. A toccarla, ora, tutta la superficie si deformava, proprio come un foglio, accompagnata da un crepitio sommesso, lasciando sui guanti di Vivienne impronte di sanguigna.
- Oggi non capisco un cazzo. – sentenziò Blitzen a mezza voce.
- Oh, santissimi numi. – sussurrò Vivienne, rapita, indicandole il cartello che dondolava davanti ai loro nasi congestionati.
Un carboncino invisibile stava tracciando nuovi arzigogoli in un corsivo appuntito.



 
Io sono di zucchero.
 























 
 
 
 
 
 
 
Gatto Magro si è fermata
davanti ad uno scorcio del labirinto
che non aveva previsto.
Questo è forse un enigma di seconda mano,
che le Sfingi iniziarono a comporre per noia
pochi istanti prima di sprofondare;
un’illusione ottica,
un errore di calcolo.
Gatto Magro si siede sull’erba
e inizia a schioccare le dita.
La chiave è di due colori e cinque lettere e mezzo,
pensa per scherzo.
Quasi.
 
 












 

 
 

 
 
 
 
 
 
 

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