Il Cuore del Leone

di Leonhard
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** To Lose ***
Capitolo 2: *** To Fall ***
Capitolo 3: *** To Cry ***
Capitolo 4: *** To Die ***
Capitolo 5: *** To Revive ***



Capitolo 1
*** To Lose ***


NOTA DELL'AUTORE:
Salute a tutti. Non potevo stare lontano da questo fandom per troppo tempo e così sono tornato con una fic nuova e fresca per la gioia(?) di tutti coloro che hanno avuto modo di apprezzare i miei vecchi lavori.

E così sono ricomparso come un herpes a scrivere, scrivere, scrivere e nel tempo libero scrivere. Mi auguro che questa breve storia venga accolta con lo stesso calore con cui sono state accolte le altre: io cercherò come sempre di dare il massimo per divertirvi e strapparvi per qualche minuto dalla realtà.

Un saluto a tutti quanti, ci leggiamo alla fine dell'opera.

Leonhard


 
TO LOSE


Squall non aveva che due certezze nella vita. Solo due, le stesse che avevano tutti i SeeD presenti nel Garden di Balamb. Non erano cose che normalmente pensava: tendeva a lasciarsele scorrere addosso, esattamente come gli era stato insegnato. Avere pensieri disturbava la concentrazione, la lucidità ed il sangue freddo, le tre cose più importanti durante una missione.

Ma in quel momento, svaccato sul letto e con la noia che lo lavorava a dovere, non gli venne in mente nessun motivo per non pensarci. Erano certezze: voleva dire che non c'era modo di evitarle, indipendentemente da quanto si fosse allenato e da quante e quali cariche avrebbe ricoperto. Matricola, SeeD, Comandante, Cavaliere della Strega, non importava: era certezze e non si discuteva.

Prima certezza della vita: si muore. Tutti. Nessuna eccezione.

Seconda certezza: l’ultima missione attiva per tutti. Nessuna eccezione.

Con un sospiro si alzò e si avviò alla mensa, in compagnia di una sorda voglia di caffè. Era arrivata una richiesta di intervento due giorni prima: i clienti erano stati Watt e Zone dei Gufi del Bosco. Dicevano che Timber era prossima alla liberazione e, come da contratto, i SeeD dovevano intervenire. Il preside aveva dato disposizione perché partissero tutti tranne Squall: lui era stato assegnato ad un'altra missione, più lontana, più pericolosa e, anche se nessuno ancora lo sapeva, più personale.

Rinoa era andata con loro: non poteva non essere presente alla liberazione di Timber e lei l'aveva capita. Alla sua richiesta aveva annuito una volta sola, mentre lo stomaco gli si contorceva per la paura di vivere un'altra esperienza come quella infantile, un sorellina-io-sono-solo-bis. Lei, percependo il suo terrore, gli aveva stretto leggermente il braccio e gli aveva sorriso.

“Tornerò” aveva promesso, sussurrandola con una tale dolcezza che in qualche modo anche lui si era convinto. “Io voglio stare con te, Squall: solo che...non sai da quanto tempo aspettiamo una cosa del genere: io ho bisogno di essere lì quando avverrà. Quando sarà tutto finito tornerò qui da te”.

Come poteva dirle di no, di non lasciarlo solo, della sua folle paura di non vederla più? Era una cosa sua, una cosa che per un sacco di tempo aveva lavorato, combattuto, una cosa che aveva lasciato da parte per seguire lui in una campagna che non le era veramente appartenuta finché non era diventata Strega. Ma quando lo era diventata era già troppo tardi: lui teneva a lei e lei teneva a lui: era già comparso quel sottile, indistruttibile legame che li aveva portati sul balcone del Garden, quando lui l’aveva presa per la vita e l’aveva baciata. Il quel momento, almeno nella sua mente, tutto c’era meno l’indipendenza di Timber.

La convinzione di non essere più solo.

Prese il caffè seduto alla mensa, ignorando le occhiate ed i sussurri ammiccanti nella sua direzione dei cadetti SeeD, delle matricole che avevano sicuramente sentito parlare di lui e delle ragazze che, Irvine insegna, non c’era nulla al mondo che le attraesse più di un eroe che ha salvato il mondo.

Il mondo? No, lui era andato avanti: l’eroe che salva il mondo c’è solamente nei romanzi, nei film e nei videogiochi. Lui aveva salvato il tempo e questo voleva dire il mondo di ieri, di oggi e di domani, di tutti i domani. Ogni domani che quelle persone avevano lo dovevano a lui ed alla sua squadra di elementi che alla cerimonia dei diplomi non valevano più di quelli che stavano loro accanto.

Lui lo sapeva e se ne fregava di tutti quegli sguardi ammirati e delle occhiate languide e perse delle ragazze che incrociava nei corridoi. Si volse verso la finestra ed il suo sguardo si perse verso la terraferma: il Garden aveva scortato la squadra a Timber e poi si era mossa verso Winhill, ma senza lasciare il mare. L’avrebbe lasciato poco distante dal villaggio e poi avrebbe fatto rotta nuovamente nei pressi di Timber, città a quell’ora meno occupata ma non per questo libera.

Rinoa doveva restare nei pressi del Garden quando non rinchiusa dentro: era il modo migliore per tenerla al sicuro da un mondo che si proclamava ormai libero da tirannie e terrori militari, ma ancora prigioniero della paura verso il diverso, verso lo speciale, verso un certo potere magico tremendamente alto rinchiuso nel corpo di una ragazza che non aveva ancora fatto vent’anni. Una ragazza dal carattere deciso e sincero, ma reso volubile ed instabile dall’amore che provava per lui: per lo meno, secondo Edea. È una ragazza, innamorata per di più: i poteri da Strega dovrebbero stare in una cassaforte ed invece sono in una piastra di Petri. Wow, confortante.

I motivi per cui Rinoa doveva stare all’interno del Garden erano due: protezione e prevenzione. Il mondo non era pronto alla comparsa di una Strega, anche se giovane, non quando la minaccia di un governo gestito da una come lei era così vicina. E poi, il Garden di Balamb era famoso e rinomato per il suo corpo ammazza-Streghe: se ci fossero stati problemi, beh…era giusto che se ne occupasse lui.

Uscì dalla mensa e si diresse all’ingresso del Garden, con il Gunblade appeso alla sua spalla: aveva deciso di portarlo sulla schiena e non al fianco dopo un incidente con la custodia. Non era stata una vera e propria emergenza, o comunque non un’emergenza che implicasse l’estrazione rapida di un Lionheart. Semplicemente aveva stabilito che un’arma grossa come quella al fianco aveva lo sgradevole vizio di insinuarsi in mezzo alle falcate durante i suoi giri al centro addestramento ed ogni volta terminava in ruzzoloni e capitomboli decisamente non da eroe-che-aveva-salvato-il-tempo.

“Ciao Squall” salutò Cid all’ingresso. Lui si mise sull’attenti e fece il saluto.

“Signor preside” rispose lui, marziale. L’uomo fece una risata bonaria.

“Squall, il tuo grado non è più importante del mio” disse. “Non mi devi il saluto ogni volta che ti rivolgo la parola”. Il ragazzo rimase immobile e fermo sull’attenti finché il preside non gli concesse il riposo.

“I dettagli della missione?” chiese.

“Farai da guardia del corpo a Laguna” fu la risposta.

“…prego?” chiese lui, aggrottando un sopracciglio. L’uomo sorrise, nascondendo le mani dietro la schiena.

“Il presidente Laguna deve recarsi a Winhill per faccende personale ed ha richiesto una guardia del corpo” specificò.

“Non credevo che il presidente di Esthar avesse bisogno della SeeD per farsi scortare in un paese come Winhill” osservò Squall, non del tutto contento di un incarico banale come quello.

“Sì, nemmeno io” assentì Cid. “Ma ha pagato per i servigi di un SeeD e Hyne solo sa quanto abbiamo bisogno di fondi in questo periodo: con la scomparsa della Strega non abbiamo più alcun tipo di esclusiva ed il Garden di Galbadia è molto competitivo sul mercato. Inoltre ha fatto esplicita richiesta di te”. Fantastico: tre giorni in compagnia di quell’idiota di presidente, un soldato che si sarebbe perso anche nel discount sotto casa, un uomo che si faceva mille complessi stupidi prima di farsi una figura epocale solo per essersi avvicinato ad un pianoforte.

Ah, e tra l’altro suo padre.

Che diavolo ci faceva il presidente di una città ipertecnologica come Esthar in un paesino sperduto come Winhill lo sapeva solo lui. La domanda gli vorticò nella testa per tutto il tragitto, ma quando lo vide sbracciare nella sua direzione, urlando il suo nome con gioia quasi infantile ebbe il buon gusto di tenersi la curiosità per sé.

“Ciao Squall!” esclamò, felice di vederlo. “Ne è passato di tempo, eh?”. Lui non seppe fare nulla se non fissarlo: la notizia della parentela gli era giunta poco dopo il loro ritorno dalla Compressione Temporale. Laguna lo aveva preso in disparte e, davanti ad un bel whisky doppio, aveva vuotato il sacco: pochi secondi dopo, necessari per metabolizzare la notizia, Squall aveva vuotato il bicchiere con un sorso solo, poi un altro ed un altro ancora. Della sua prima sbronza ricordava poco, ma i postumi li aveva ancora abbastanza vividi per non accostare alla bocca nulla di più forte di una limonata. Laguna accolse il suo silenzio con una grattata alla nuca ed un sorriso di circostanza.

“È da un po’ che non ci vediamo, eh?” disse. Squall sospirò, si mise una mano sul fianco e si guardò intorno.

“Che ci fai in questo posto?” chiese. “Credevo che il presidente di una città come Esthar non potesse allontanarsi così tanto”.

“Beh, tecnicamente è così” rispose. “Ma Kiros e Ward hanno il preciso compito di non farlo sapere in giro: se Odaine lo viene a sapere mi farà una lavata di capo di ore e non so se è più terrificante i suoi discorsi sulla disciplina e sull’onore di essere presidente o il dialetto con cui mi snocciola tutta questa manfrina”. Un sorrisetto increspò il viso del SeeD nell’immaginarsi la scena.

“Quindi sono al tuo servizio per quanto?” chiese Squall tornando serio.

“Oh non è una cosa lunga” replicò Laguna, agitando una mano. “Per stasera sarai nuovamente al Garden ed io sul mio elicottero. Solo che mi serve il tuo aiuto per tutto il giorno: è una cosa che solo recentemente ho trovato il coraggio di fare”. La curiosità serpeggiò nella mente di Squall, ma non fece domande.

“Vogliamo andare?” propose. L’uomo sorrise ed annuì.

Il paese era pacifico, quasi sonnolento, esattamente come entrambi lo ricordavano. I due camminarono per il paese, in silenzio: persino Laguna, con la sua parlantina che gli aveva procurato il malvoluto ruolo di presidente non sapeva bene che pesci pigliare con il suo stesso figlio.

Con grande sorpresa di Squall, entrarono in un bar e si sedettero. Laguna ordinò un elisir al mirtillo e, quando il SeeD non proferì verbo, ne prese due. Le due bevande arrivarono che i due non avevano ancora proferito verbo: Squall era insieme confuso e stupito, mentre Laguna lo guardava con uno sguardo gentile, quasi…Hyne non voleva dirlo…paterno.

“Fammi capire…” borbottò Squall, appoggiandosi al tavolo e senza degnare di uno sguardo la bottiglia di elisir. “La missione per la quale mi hai reclutato è prendere da bere?”.

“Sì” rispose Laguna.

“Stai scherzando” decise il ragazzo, perplesso, ben sapendo che quell’uomo era capace di arrivare anche a quello. Scosse la testa.

“No, niente affatto” disse, versandosi l’elisir nel bicchiere e lasciandoci cadere un cubetto di ghiaccio. “Volevo solo passare un po’ di tempo insieme: tutto qui, dico davvero”.

“Se ho sempre rifiutato i tuoi inviti è perché non voglio passare del tempo con te” sibilò lui, gelido. “Non ho bisogno di un padre: non a diciotto anni”. Il sorriso dell’uomo divenne triste.

“Lo so, Squall” disse. “So che ce l’hai con me e che non mi vedi come un padre, ma io non voglio questo da te: so quello che ho fatto e quello che avrei dovuto fare e non ho intenzione di campare scuse. Avrei dovuto starti vicino, venirti a prendere alla prima occasione e tenerti con me e comportarmi da padre. Non ho il diritto di essere tuo padre e per questo non voglio che tu mi veda in queste vesti”.

“Allora cosa vuoi?” chiese lui. “Perché questa farsa? Perché mi hai reclutato?”. Laguna non rispose subito. Si accasciò contro lo schienale della sedia con un sospiro, poi bevve un sorso dal bicchiere: a Squall sembrò stranamente a disagio e così…stanco.

“Volevo solo parlare un po’” rispose. “Con qualcuno che non mi vedesse come il presidente di Esthar. Tu sai quanto questa carica mi sta stretta: tutto quello che volevo fare era tornare da Raine e dal Ellione, ma non mi è stato possibile”. Squall non rispose. Voleva parlare? Che storia era quella?

“Che succede Laguna?” borbottò: era una domanda di rito, in realtà non aveva la minima voglia di ascoltarlo. L’uomo scosse la testa.

“Nulla: cosa deve succedere? Sono solo un po’ nervoso” rispose.

Squall sospirò. In qualche modo sentiva di capirlo, anche se mai si era trovato in una situazione come la sua. Si appoggiò allo schienale della sedia ed incrociò le braccia. Vedeva la sua frustrazione, i suoi rimpianti erano stampati in faccia e la vergogna erano quegli occhi fissi sulla bottiglia di elisir, come se fosse particolarmente interessante.

“Non ce l’ho con te” borbottò infine. Distolse lo sguardo quando l’uomo alzò il suo su di lui. Il resto fu silenzio: Squall non sapeva veramente cosa dire e non sentiva che ci fosse realmente bisogno di parole, anche se mille domande rischiavano di farlo impazzire.

Perché lì? Perché adesso? Perché Ellione e non lui? Perché, perché, perché. Per tutta la sua vita aveva evitato di domandarsi perché: sapeva che era la domanda più pericolosa del mondo ed in quel momento avrebbe preferito la tensione di combattere Omega Weapon con un Gunblade spezzato e scarico a quella. Prese la bottiglia di elisir e bevve.

Quando uscirono dal bar era ormai tardo pomeriggio. Il tramonto a Winhill era da considerarsi come una delle meraviglie del mondo: il sole morente all’orizzonte colorava la campagna di un giallo abbagliante ed i raggi sfioravano i tetti e la strada, accarezzandoli con una dolcezza quasi commovente. Laguna si stirò la schiena e sbuffò il suo sollievo.

“Beh, avrei ancora una tappa da fare prima di tornare all’elicottero, ma sono sicuro di potermela cavare da solo tranquillo” disse. All’elisir se n’era aggiunto un altro lì dentro ed erano riusciti a parlare solo della situazione economica e politica tra Esthar e Galbadia: il colonnello Caraway aveva riaperto la superstrada e fatto di FH il più importante centro di scambio tra i due paesi.

“Quello sgangherato porto ne aveva bisogno” aveva commentato Laguna. “Adesso la città è in ristrutturazione e diventerà ricca e fiorente: sono veramente contento del nostro lavoro”. Squall non aveva risposto: non era particolarmente interessato, ma preferiva che lui parlasse di cose futili e senza senso piuttosto che far parlare lui.

“Dove devi andare?” chiese Squall, sospettoso.

“Solo in cima alla collina” replicò lui, indicando un punto poco oltre i confini della città. “C’è Raine da quella parte”. Il SeeD non rispose: si limitò ad abbassare lo sguardo ed a fissare un punto imprecisato del selciato. “Non ti chiederò di venire: ho bisogno di parlare con lei da solo”.

“Ne sei sicuro?” chiese Squall diffidente. Da un lato era contento di poter tornare alla sua noiosa camera, ma dall’altra era preoccupato: era preoccupato perché si era sentito in qualche modo bene e, anche se non lo avrebbe ammesso mai, sentiva un sordo desiderio che quel giorno non passasse, che quel sole non tramontasse. Laguna annuì con un sorriso.

“Si” disse. “Ho passato una bella giornata con te: vorrei che tua madre lo sapesse”. Infine annuì anche lui.

“Beh, allora…ehm…” disse. Non sapeva cosa dire e Laguna venne ancora in suo aiuto.

“Sono abbastanza sicuro che in questi casi si dica alla prossima, rompiscatole” disse, con un sorriso divertito. Sul viso di Squall comparve un piccolo sorriso.

“Giusto” mormorò. “Stammi bene Laguna”.

“Certo; anche tu”.


Il Garden era parcheggiato a pochi chilometri di distanza dal paese: torreggiava imponente sull’orizzonte, bagnato anch’esso dalla luce tenue del tramonto. Il sole morente gli conferiva un’aura quasi mistica, la spessa lamiera bianca e blu brillava si poteva quasi dire di luce propria e Squall si affrettò verso l’accademia. Si sentiva agitato, pesante, ancora con le budella in subbuglio per la giornata passata con suo padre; non era assolutamente il caso di chiamarlo così e lui non pensò nemmeno quella parola. Si chiese se gli altri fossero tornati, se lo stessero aspettando: si chiese se avrebbe trovato Zell nell’atrio, che aspettava solo lui per una birra e quattro chiacchiere. Si chiese se Quistis gli avrebbe chiesto com’era andata e Rinoa: ci sarebbe stata Rinoa? Sarebbe tornata da lui?

Altri punti interrogativi che andavano a sommarsi ad altri. Alcune avrebbero avuto risposta presto, per altre avrebbe dovuto aspettare mesi, anni. Altre non l’avrebbero mai avuta: sarebbero state per sempre domande insoddisfatte, domande incomplete. Tra lui ed il Garden improvvisamente comparve un rosso che lo riscosse.

(Un RubRum?) pensò, spiazzato dalla bestia che gli ruggiva in faccia. “Che diavolo di fa un RubRum da queste parti?”. Sguainò il Gunblade e scartò di lato per evitare una zampata della bestia. Forte dell’elisir, attaccò ma il drago sbatté le ali spostandosi quel poco che bastava per evitare il fendente. Si raddrizzò sulle zampe posteriori, ringhiando: Squall si rese conto che era un grosso esemplare, probabilmente un capobranco. E lui era solo e con poche junction. Digrignò i denti e si volse per fuggire, ma fece pochi metri ed il drago fu nuovamente davanti a lui; tra le fauci ardevano le fiamme del suo prossimo attacco.

Rapido si spostò sotto il ventre del drago e mosse un fendente. La lama penetrò facilmente la tenera carne del ventre della bestia, che squarciò l’aria con un ruggito insieme furioso e dolorante. Squall non demorse e spinse il Gunblade in profondità nella carne; non contentò premette il grilletto e scaricò il tamburo contro il drago, che sussultò ad ogni colpo. Dallo squarcio sgorgò copioso il sangue che gli macchiò il viso ed i vestiti. Bruciava. Dove aveva letto che il sangue del RubRum aveva la stessa temperatura dell’acqua in ebollizione? Strappò via la lama e scartò via da quella pioggia ustionante. Si sentì quasi al sicuro, alle spalle del bestione che, con un ultimo strozzato ruggito perdeva l’equilibrio.

Quello che in gergo si chiama colpo di coda indica un’ultima rappresaglia prima della sconfitta. Una sorta di premio di consolazione, un modo come un altro per lasciare il segno del proprio passaggio, anche se superfluo visto l’epilogo a cui si andava incontro. Squall ebbe appena il tempo di volgere un’occhiata al Garden: una squadra si era accorta del pericolo e tre figure ancora troppo piccola per essere distinte si muovevano tremolanti sotto il Garden, apparentemente lanciate velocemente nella sua direzione.

Poi lo schianto.

Si sentì improvvisamente leggero, mentre un dolore quasi insopportabile esplodeva nel suo cervello. Davanti a suoi occhi il mondo si trasformò in un turbinio di colori dalle forme indistinte: macchie colorate saettavano sotto il suo sguardo, attonito e disorientato. Poi l’impatto e le macchie colorate lasciarono il posto ad una visione di tutte le stelle del firmamento: più di quante avesse visto in tutta la sua vita e lui era stato nella spazio.

Il dolore s’ingigantì, a tal punto da non permettergli di urlare, di tendersi, di muoversi, nemmeno di respirare. Rimase a boccheggiare, mentre davanti ai suoi occhi tutte quelle stelle non smettevano di nascere e scomparire, nascere e scomparire. Sentì come un fruscio il pesante tonfo del drago che stramazzava morto a terra, ma era un fatto che aveva improvvisamente perso ogni attrattiva ed ogni importanza: la priorità in quel momento era tornare a respirare. Non riuscì a mettere insieme due pensieri, il suo cervello era preso dal panico più cieco e non fu in grado di fare nulla se non di star immobile ed ascoltare il suo cuore che batteva forsennatamente ed a guardare quei lampi che aveva davanti agli occhi. Poi tutto scomparve: lampi, dolore, asfissia, cuore, tutto. Ciò che rimase fu il buio in cui lui non poté fare a meno di annegarci dentro.

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Capitolo 2
*** To Fall ***


TO FALL


Rinoa uscì dalla sala televisiva di Timber soddisfatta di sé e con una voglia matta di quel pasticcio di patate del capo delle Volpi del Bosco. Sapeva che un piatto fumante di quella leccornia la attendeva nella casa accanto al Timber Maniacs, la cui redazione stava già sicuramente mandando le macchina stampa in tilt per l’annuncio della tanto sospirata, sofferta e combattuta indipendenza. Quella stessa dipendenza che lei stessa aveva temuto di non raggiungere mai: Timber era in una posizione troppo favorevole e da subito la sua le era sembrata una battaglia contro i mulini a vento.

Ma lei amava le cose difficili: era una di quelle persone che proprio non sapeva quando era il momento di dire basta, di fermarsi e lasciar perdere. Se veramente il gioco non valeva la candela, lei quella dannata candela se la sarebbe presa lo stesso perché sì.

La notizia avrebbe fatto il giro del mondo a tempo record e non poteva non sentirsi orgogliosa dell’esito che aveva avuto quella storia, della ricompensa che il suo lavoro le aveva dato e della soddisfazione nel vedere che il suo lavoro come membro della resistenza aveva finalmente dato i suoi frutti. Si fermò al pub ed acquistò una bottiglia di vino dolce: quella sarebbe stata consumata in una camera del dormitorio accanto a due bicchieri.

Sulla strada che la conduceva al suo pasticcio fumante non poté non sorridere: aveva ancora impressi nella mente lo sguardo che Squall le aveva lanciato quando gli aveva detto che sarebbe partita per Timber. Quello sguardo pregno della stessa paura di un cucciolo che sospetta un abbandono, quell’aria disorientata e spaventata tenuta celermente a freno e nascosta sotto un velo di ghiaccio per non farla star male: come poteva pensare di abbandonarlo? Gli avrebbe fatto una bella sorpresa la sera, quando avrebbe bussato alla sua porta con la bottiglia, un paio di calici e la sua aria pimpante che lui tanto amava, anche se non l’avrebbe ammesso mai.

Lei amava Squall e questo non faceva che confermare il suo amore per il difficile. Non avrebbe mai permesso alla scadenza di quel contratto fatto tanto tempo prima di separarla da lui, dal suo Cavaliere, dal suo uomo.

“Ehi Rinoa” salutò arzilla la donna sull’uscio di casa. “Ti ho vista in televisione: finalmente ce l’abbiamo fatta, eh?”.

“Già” assentì lei frizzante. “Quasi non mi sembra vero ci credi? Era da così tanto tempo che aspettavo questo giorno che ora ho paura di svegliarmi nel treno dei Gufi”. La donna sorrise, condividendo la sua gioia; adocchiò la busta di plastica.

“Non ti avevo detto che ci avrei pensato io ai festeggiamenti?” rimbeccò allegramente. La ragazza sorrise e scosse la testa.

“No, questa è per un altro festeggiamento” disse.

“Ah, la tieni per il tuo bello?” chiese lei, maliziosa. “Ma non credo che tu debba per forza ubriacarlo per festeggiare”. Rinoa rise, senza tuttavia farsi mancare una punta di rossore. In quella il cellulare della ragazza trillò: sul display il numero di Squall.

“Parli del diavolo…” disse, al settimo cielo per la sua telefonata: aveva bisogno di sentirlo ormai da giorni, ma non aveva mai avuto modo di contattarlo se non tramite messaggi rapidi e concisi in cui gli diceva che stava bene e che la battaglia per l’indipendenza si era ormai interamente spostata sul piano politico, a lei quasi del tutto sconosciuto. Prese la chiamata con l’argento vivo addosso.

“Pronto Squall?” disse, cercando di contenere il suo urletto eccitato. “Indovina un po’? Abbiamo vinto: Timber è libera e…”.

-Pronto Rinoa?- chiamò una voce dall’altra parte. La ragazza rimase titubante per i secondi necessari a riconoscere il proprietario della voce.

“Zell! Ciao!” salutò. “Squall è impegnato? Come mai hai tu il suo telefono?”. Sapeva quanto ci tenesse al suo cellulare: più volte aveva cercato per scherzo di rubarglielo, ma da come se lo teneva stretto più che ad un telefono cellulare il suo assomigliava ad un ricettacolo di segreti degno del miglior agente segreto.

-Squall…- cominciò, poi s’interruppe. Il silenzio che seguì le spense all’istante tutta l’euforia che sentiva. -Squall è rimasto ferito in missione…un RubRum Dragon…-.

“Ma stai scherzando” disse Rinoa, mortalmente seria. In quei giorni aveva tentato a contattare mentalmente il suo Cavaliere, ma erano troppo lontani ed ogni volta che interrompeva il contatto si sentiva talmente spossata da desiderare di dormire per giorni interi. “Che è successo? Un RubRum? Oddio, vengo al Garden immediatamente! Spero solo che…”.

-No Rinoa- interruppe il pugile dall’altra parte dell’apparecchio. La voce era rotta, bassa, grave, in qualche modo definitiva e quello era un segno a dir poco pessimo. -Non è nell’infermeria: è all’ospedale di Deling City. Ed è grave…parecchio-.

Papà, perché la mamma è in ospedale? Sta male?

La giovane Strega si sentì il corpo prosciugato di tutto il calore, mentre un fastidioso formicolio le invadeva le vene, come se qualcuno le avesse buttato una manciata di capelli nel sangue. Le forze le vennero meno e piombò su una sedia, mentre la bottiglia di quel vino acquistato con i migliori propositi del mondo s’infrangeva a terra, schizzando in tutte le direzioni il vino che il sacchetto non era stato in grado di contenere.


Non riuscì a stare seduta nella cabina del treno per più di due minuti e si ritrovò a passeggiare nervosamente per il corridoio esterno, maledicendo i treni da alta velocità per il loro palese contrasto di termini e di significato. La testa le vorticava, un senso di vertigine le toccava lo stomaco e lei sentiva il nervosismo alimentarle la nausea, in un miscuglio di sapori e pensieri e sensazioni che non avrebbe augurato nemmeno ad Artemisia stessa.

Squall. RubRum Dragon. Ospedale di Deling City. Grave. Erano pensieri che proprio non riusciva a collegare in maniera logica. O non voleva. Cosa diavolo ci faceva all’ospedale di Deling City, il migliore per la sua equipe medica su quel continente, superato solo dalla clinica centrale di Esthar City per pochi punti di statistica? Era così grave?

Rientrò nella cabina e prese a passeggiare nervosamente sul tappeto. Lo schermo davanti ritraeva un giovane speaker che, con l’eccitazione palpabile sotto il suo tono professionale, riferiva della vittoria di Timber nella sua lunga campagna per l’indipendenza da Deling City e dalle forze Galbadiane: trovò quantomeno surreale quanto il suo interesse per quelle notizie fosse così insignificante dopo aver passato una buona fetta della sua vita a combattere per poterla finalmente sentire.

Il suo cervello galoppava, preda di ansie e paure e ricordi dolorosi: non aveva più messo piede in quell’ospedale dalla morte di sua madre e adesso, in quello stesso posto, Squall era ricoverato in gravi condizioni. Squall, il SUO Squall. Non pensò nemmeno per un istante ad uno scherzo perché uno scherzo come quello era veramente di pessimo gusto, uno scherzo che nemmeno Seifer avrebbe avuto il coraggio di fare. Non seppe resistere e, cavato di tasca il telefono, compose il numero di Zell.

La pacata e professionale voce elettronica la informò che il numero composto non era raggiungibile. Lo stesso capitò con il numero di Selphie e di Quistis; come estremo tentativo, si concentrò e cercò la coscienza di Squall. Poco importava se lo sforzo l’avrebbe sfiancata: poteva anche mandarla in coma per quel che la riguardava, ma doveva sapere perché il suo Cavaliere era in un posto come quello. Trovò la sua coscienza e la agganciò, trovandola scoperta, senza muri o barriere. La cosa non le piacque per niente.

Ciò che vide fu un nero talmente profondo e talmente oscuro che istintivamente si ritrasse con un sussulto e con un gridolino spaventato. Aprì gli occhi e si guardò attorno, per riempirsi gli occhi della luce che filtrava dai finestrini. Fuori il panorama dava su vasti campi verdi e, se si avvicinava e strizzava gli occhi, avrebbe ancora potuto vedere il mare. Deglutì e ricominciò a camminare; accidenti, possibile che non poteva lasciarlo solo per qualche giorno?

Rise amaramente per il suo pensiero e si accorse di non avere la minima voglia di ridere. Non riusciva a capacitarsi della piega che avevano preso le cose e l’euforia della vittoria sulla tirannia Galbadiana sembrava lontana anni luce.

Dov’era finita quella voglia di festeggiare la vittoria con una bottiglia di vino leggero, che a quell’ora giaceva mai stappata in un cestino della pattumiera di Timber? Che fine aveva fatto il progetto di tutti quei brindisi, delle risate, della gioia e di lasciarsi andare ad un languore malizioso? Che fine aveva fatto la prospettiva di svegliarsi in un letto con Squall accanto ed ascoltare i suoi grugniti poco soddisfatti mentre lei gli solleticava il naso con le punte dei capelli? Ed il vestito nero che aveva scelto per il ballo? E la camicia da notte con i bordi in pizzo per accenderlo quanto bastava da vivere la sua personale ricompensa per i suoi sforzi? Dov’era finita la gioia?

Papà, la mamma è stanca: sta dormendo.

In una camera d’ospedale, ecco dov’erano finite: irraggiungibili, irrecuperabili, tanti momenti di festa rovinati prima ancora di nascere e tutto questo per colpa di uno stupido RubRum Dragon.

Pensò quello che non doveva pensare: è grave, aveva detto Zell. L’ultima volta che qualcuno le aveva detto quelle parole sua madre era morta poco dopo . E Squall? Quanto era grave? Perché quel maledetto treno non andava più veloce? Quando erano lontane Timber e Deling City?

Anche lui sarebbe morto?

Si sentì girare la testa: ebbe la tentazione di lanciarsi un Morfeo, ma per quando si fosse svegliata era anche capace che quello stupido treno stesse tornando indietro per replicare la corsa. I pensieri vennero, la mente galoppò e la paura crebbe incontrollata, incontrastata, sempre di più, sempre più intensa e pesante, opprimente e soffocante.

Squall. RubRum Dragon. Ospedale di Deling City. Grave.

Tentò nuovamente di telefonare ai suoi amici e nuovamente rispose la segreteria. Scagliò il telefono sul divano con rabbia: l’apparecchio rimbalzò con un tonfo sul morbido cuscino e cadde sul tappeto. Rimbalzò un paio di volte e rimase lì, immobile, ancora con lo schermo acceso.

Scosse la testa e decise di calmarsi: lui era forte, era passato per ben altro, era guarito da ferite peggiori ed aveva affrontato cose che avrebbero usato un RubRum Dragon come stuzzicadenti. Rievocò disperatamente alla memoria. Adele, Artemisia, Ultima ed Omega Weapon. Quante volte lei stessa aveva scagliato il suo corpo contro le lamiere interne della stazione spaziale? E lui quante volte si era alzato per tornare verso di lei a cercare di fermarla?

Lui era forte: ce l’avrebbe fatta.

Ma quando si sveglia starà meglio, vero?

Ce l’avrebbe fatta.


Non riusciva a ricordare il momento esatto in cui era arrivata in stazione e nemmeno la folle corsa verso l'ospedale, talmente presa dalla sua preoccupazione da non curarsi minimamente degli autobus. Lei passeggiava avanti e indietro nella cabina del treno ed il ricordo successivo era la sua spallata contro la porta dell'ospedale, trafelata e marcia di sudore. Si gettò sul bancone delle informazioni con tale foga che l'infermiera istintivamente si ritrasse vagamente intimorita.

“Posso...” cominciò, ma Rinoa la precedette, sorda a tutto e tutti,

“Squall...dove...è qui...” ansimò, accorgendosi in quel momento del pulsare della milza che le stava facendo riscoprire la fatica di respirare. La giovane allo sportello la guardò stranita e le chiese di ripetere. La giovane Strega si staccò stizzita dal bancone: non aveva tempo da perdere, lei. Si guardlò intorno, smarrita, in cerca di qualche indicazione che le potesse dare un minimo di orientamento.

Malattie infettive...psichiatria...oncologia...centro AIDS...chiesa...accettazione...pronto soccorso...cardiologia...si permise di respirare, poi tornò al bancone.

“Avete ricoverato qui un certo Squall Leonhart?” chiese, boccheggiando leggermente meno. La donna digitò velocemente sulla tastiera e poi annuì.

“Sì; è in terapia intensiva” disse, indicandole il corridoio a sinistra. “Da quella parte”. Terapia intensiva? Oh santo Hyne! Rinoa lanciò un suono di ringraziamento e poi si fiondò per il corridoio. La milza tornò a pulsare ma lei la ignorò nuovamente.

Vero papà?

Non si permise di fermarsi finché, voltato un angolo, non scorse Quistis e Seifer nel corridoio: la tuta della donna spiccava in tutto quel bianco sterile del corridoio, soffitto, muri e persino il pavimento. Seifer le stava cingendo le spalle con un braccio e guardava con occhi sconfortati la porta davanti a loro, ascoltando i suoi sospiri intervallati ogni tanto da un singulto. Rinoa non aveva mai visto Seifer così serio e soprattutto Quistis in lacrime era una cosa del tutto nuova, che le fece nuovamente dimenticare la fatica ed il dolore a quella maledetta milza.

Il primo a vederla fu Seifer, che diede un colpetto alla spalla di Quistis, prima di camminarle placidamente incontro.

“Rinoa...” disse, ma lei non si fermò. “Non puoi entrare: ci sono ancora i dottori”. Parole al vento e lo sapeva. La intercettò e la bloccò per le spalle, rinculando per l'impeto e rischiando seriamente di cadere. “Fermati!”.

“Lasciami!” ansimò, senza fiato. “Squall...dove...male...grave?”.

“Non entrare Rin” ripetè la voce rotta di Quistis. “Non entrare”.

“Non...morto?” chiese la Strega, mentre sentiva il gelo che s'impossessava di lei al solo sentire il suono di quella parola. Seifer scosse la testa.

“No, è vivo” disse. “Ma non è ancora fuori pericolo. Ha avuto un'emorragia veramente brutta e Zell si è offerto per una trasfusione: i dottori sono ancora dentro, ma non fanno entrare nessuno. Selphie, ed Irvine sono stati qui per tutto il giorno e li ho mandati a riposare: io e Quistis siamo arrivati cinque minuti fa”. Parole, aria al vento: Rinoa si accorse di non star prestando ascolto. Deglutì, sentendo la bile salire dallo stomaco portando in una chiara minaccia. Prese un bel respiro e storse la faccia per la lamata di dolore che le diede la milza, seriamente intenzionata a punirla per la poca attenzione che le aveva riservato.

“Cos'è successo?” chiese.

“Era in missione a Winhill” rispose Quistis. La voce era tremante gli occhi lucidi ed il volto arrossato. Seifer abbassò lo sguardo, sconfitto: mai vista un'espressione del genere su di lui. “Ha subito l'attacco di un RubRum mentre tornava al Garden, un grosso alfa”.

“È stato ferito da un RubRum alfa?” ripetè Rinoa. “Perchè non è scappato?”.

“Ci ha provato” replicò la SeeD. “Ma lo sai che quei bestioni difficilmente lasciano scappare le prede”.

“Ah ma l'ha ammazzato” aggiunse Seifer. “Ha aperto la pancia a quel bastardo come si fa con una spigola”.

“Come sta adesso?” chiese ancora Rinoa, sentendo tuttavia una sorta di crudele soddisfazione: ben gli stava a quella bestia.

“È arrivato con ustioni di secondo grado” disse Quistis. “Aveva sangue su tutta la giacca e la maglietta sotto era praticamente da buttare...è entrato in quella stanza e non ci hanno detto più nulla...Selphie mi ha detto che circa una ventina di minuti fa è uscito un dottore che ha chiesto chi fosse compatibile per una trafusione di sangue: Zell è saltato su come una molla ed è entrato senza nemmeno chiedere il permesso, ma da allora più nulla. Ci hanno vietato di entrare e poi sei arrivata tu”.

Rinoa era l'immagine dell'ansia: sudata, scarmigliata, con il fiato corto e gli occhi stralunati che andavano da lei a Seifer alla porta e poi di nuovo a lei. Stava elaborando, lo sapeva: troppe informazioni tutte in un volta sola e ciò non faceva che innalzare la sua preoccupazione a livelli pericolosamente alti.

Vero?

Tornò a regnare il silenzio, pregno di ansia e preoccupazione e lacrime. Gli occhi di Quistis continuavano a lacrimare e Seifer faceva del suo meglio per confortarla nonostante lo sguardo buio che tradiva la preoccupazione per il suo rivale: avevano avuto i loro momenti e due cicatrici speculari a provarlo ma mai si sarebbe sognato una cosa del genere.

Tra i due le cose andavano meglio: era stato Squall ad insistere perché Seifer venisse riammesso al Garden a patto che fosse costantemente tenuto d’occhio dal nuovo comitato disciplinare. Il biondo alla notizia era piombato nello studio di Squall, irritato per quella che lui vedeva come pietà: attraverso la porta, la sua voce aveva tuonato per qualche minuto, poi era sceso il silenzio a confermare che era avvenuto il miracolo. I duelli erano cessati, anche se ancora si punzecchiavano come bambini, con gran divertimento del gruppo.

Rinoa tentò nuovamente di sbirciare nella coscienza del suo Cavaliere, ma si sentì nuovamente schiacciata da tutto quel nero tanto che si ritirò frettolosamente e spalancò la finestra per un improvviso senso di claustrofobia. In quella uscì Zell: era pallido, con un cerotto sull’avambraccio e l’espressione di uno che aveva appena visto un fantasma. La giovane Strega lo tempestò all’istante di domande, ma lui scosse la testa.

“Ancora non sanno nulla” rispose. “L’unica cosa che ho capito è che non è in pericolo di vita”: troppo poco per i suoi gusti, ma era già un’ottima notizia. Si volse verso Quistis: la rabbia si era affiancata alla preoccupazione.

“Mi spieghi cosa diavolo ci faceva un RubRum fuori Winhill?” ringhiò, con voce ansante. La donna si volse verso di lei, ma prima che potesse imputare un fatto anomalo come quello alla Lacrima di Luna, la porta si aprì nuovamente e questa volta comparve un dottore.

“Il signor Leonhart?” chiese. Gli occhi di tutti saettarono verso di lui. “È stabile: se volete vederlo entrate pure, ma l’effetto dei sedativi non è ancora del tutto passato”. Rinoa non attese una parola in più, in quel momento superflua, ed entrò.

La camera aveva le pareti verde spento e odorava di disinfettante. Non aveva mai capito il perché di quei colori morti in tutti gli ospedali: per far apparire sterile l’ambiente, le avevano spiegato, ma per lei non aveva senso. Cosa aveva di così sporco il rosso o un bel giallo grano?

Squall era sul letto, i suoi movimenti erano lenti e deboli ed il suo sguardo era confuso, quasi pacifico, perso nel vuoto.

“Sembra fatto…” si lasciò scappare Seifer. Ed a pensarci bene lo era. Rinoa si avvicinò a lui e prese una mano tra le sue; con l’altra gli ravvivò i capelli dietro l’orecchio, sentendo un tuffo al cuore per la sua carnagione così pallida. Il ragazzo le restituì uno sguardo vuoto, assente.

“Ciao Squall…” sussurrò, straziata. “Ho avuto così tanta paura…”. Seguì un attimo di silenzio, a lui necessario probabilmente per riconoscerla.

“Ehi Rinoa” salutò, con voce distante. Mosse lo sguardo poco oltre la sua spalla. “E ciao anche a te Rinoa…ma quante Rinoa hai portato, Rinoa?”. Seifer trattenne a stento una risata.

“Santo Bahamut” commentò. “Credo stia viaggiando…”. Squall reclinò la testa nella sua direzione e sorrise divertito.

“Ma perché giri con un kochocobo in testa Seifer?” chiese. Il ragazzo si pietrificò per evitare di scoppiargli a ridere in faccia.

“Mi tiene calda la fontanella…” rispose. Il Comandante si fece serio ed annuì comprensivo, come se il rivale avesse detto una verità profonda.

“Senti, hai mica preso la targa dell’aeronave che mi ha investito?” chiese. Rinoa scosse la testa sconvolta e si sedette sulla sedia accanto al letto, Quistis alternava uno sguardo confuso tra il suo allievo ed il suo ragazzo e Seifer fischiò piano.

“Devo chiedere un favore al medico” borbottò. “Un trip così me lo voglio fare anche io…ahia!”. Zoppicò lontano dalla SeeD, che studiava il suo corpo con occhi truci, alla ricerca del prossimo bersaglio per il secondo calcio.

“Rinoa, scusa ma io vado a prendermi qualcosa alle macchinette” disse. “Non ce la faccio a vederlo in questo stato”. La giovane annuì, senza tuttavia distogliere lo sguardo affranto da Squall, che seguiva con occhi sognanti un inesistente oggetto fluttuante sopra la sua testa.

“Io rimango qui” annunciò Zell. Nessuno ebbe la forza di obiettare. Quando la porta della camera fu chiusa il ragazzo si sedette su una sedia, poi sulla panca ed infine sul letto accanto, vuoto.

“Com’è successo?” chiese Rinoa. Zell sobbalzò per l’improvvisa rottura del silenzio.

“Il Garden si è accorto dell’attacco del drago ed ha mandato la squadra di supporto” disse, snocciolando il rapporto che i due SeeD gli avevano fatto. “Il drago l’ha colpito con l’ultimo colpo di coda e l’ha fatto volare per oltre venti metri. Lo hanno raccolto e portato in infermeria, dove la dottoressa Kadowaky gli ha somministrato una Granpozione e tamponato le ustioni con una Panacea, poi ha fatto correre l’ambulanza dell’ospedale e l’hanno fatto passare davanti a tutti”.

“Si è capito che cos’ha?” chiese. Il ragazzo si strinse nelle spalle.

“Ne sappiamo quanto te” rispose. “Io ho donato il sangue per la sua trasfusione, ma questa è la prima volta da ieri che lo vedo cosciente”. In quella Selphie e Irvine entrarono nella camera guardinghi.

“Allora? Che ha detto il medico?” chiese Selphie, diretta: avrebbe salutato l’amica una volta che l’allarme nei suoi occhi si fosse spento. Zell scosse la testa.

“Dicono che è ancora sotto gli effetti dei tranquillanti” disse. “Roba forte a quanto pare: ha tutta l’aria di un bambino che sta scoprendo il miracolo della vita”.

“Senti Rin” chiamò la ragazza. “Ti ho portato un panino dalle macchinette. Non è molto, ma ho pensato che forse avessi fame”. Rinoa guardò lo snack con occhi disinteressati: non aveva la minima voglia di accostare nulla alla bocca, ma non mangiava dalla sera prima. Si alzò e si volse verso Zell con occhi supplici.

“Se si riprende…ti prego…” disse con voce rotta. Lui annuì con un sorriso che a colpo d’occhio sarebbe dovuto essere rassicurante.

“Tranquilla: ti faccio un fischio” rispose. “Tu vai”.

In quella un BIP automatico riempì la stanza con un il suo fastidioso, incessante suono: Squall era seduto sulla sponda del letto.

“Ho bisogno di camminare” disse, con voce ancora assente, ma meno sognante. “Ho le gambe addormentate”. Rinoa corse nuovamente al suo fianco, ma prima che potesse fermarlo, preoccupata per la sua salute, il ragazzo piombò a terra come un sacco di patate. Il porta flebo fece uno scossone e si scontrò con il comodino, facendo cadere una mela ed alcune confezioni di siringhe usa e getta.

Il silenzio durò solo pochi istanti, poi dalla porta comparvero Quistis e Seifer, accorsi per il frastuono della caduta. Tutti in quella sala erano pietrificati dalla paura che Squall si fosse fatto nuovamente male. Dagli occhi del ragazzo era scomparsa l’aria sognante e brillava lucida la perplessità; si guardò intorno, passando in rassegna tutti i suoi amici uno per uno e chiedendo silenziosamente una spiegazione.

“Ma che…?” mormorò. Volse lo sguardo verso le sue gambe, raccolte tra loro in una posizione grottesca. Erano perfettamente immobili. Il viso di Squall si fece se possibile ancora più pallido, poi si mise seduto a terra e si fissò le gambe.

“Cosa…” mormorò disorientato. Si volse verso gli altri con un’urgenza negli occhi del tutto nuova: sembrava…aveva tutta l’aria…della paura. “Io non capisco…”. Tornò a guardarsi le gambe e, dopo qualche secondo sgranò gli occhi, mentre il volto si deformava in un’espressione di puro terrore. Rinoa si riscosse per prima e si tuffò letteralmente al suo fianco.

“Cosa c’è Squall?” chiese affannata. “Che ti succede?”.

“Le gambe!” esclamò lui. Il respiro si fece affannato e la fronte s’imperlò di sudore gelido. “Sto muovendo le dita dei piedi e non si muovono. Nemmeno le caviglie! NEMMENO LE GINOCCHIA!”. Si volse nuovamente verso i suoi amici: sembravano delle statue di cera, pallidi e pietrificati dalla sorpresa e dal terrore. Rinoa lo sostenne per la schiena.

“Calma Squall” disse, ma fu un invito più che altro per sé stessa. “Riprova: magari sono solo addormentate”. Il ragazzo si volse nuovamente verso i suoi piedi, che non si mossero. Il respiro divenne affannoso, mentre arrancava all’indietro in un disperato, inutile, assurdo tentativo di mettere spazio tra lui e le sue gambe. Rinoa si volse verso Selphie: aveva ancora la mano tesa verso di lei, ma il panino giaceva dimenticato a terra.

“Chiama il dottore” ordinò. “Cristo Selphie, CHIAMA IL DOTTORE!”.

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Capitolo 3
*** To Cry ***


NOTA DELL’AUTORE

Salve a tutti e bentornati. Grazie della pazienza che avete avuto. Alla fine, il capitolo non è cambiato più di tanto, ma almeno adesso mi soddisfa abbastanza: è già qualcosa.

Il prossimo capitolo sarà l’ultimo e spero veramente che vi soddisfi come finale; per chi mi conosce, chi ha letto anche altro di mio sa che il mio concetto di lieto fine è molto, MOLTO, particolare. Anche qui, spero di non deludere le aspettative.

Ci leggiamo presto.

Leonhard.


 
TO CRY

Il Gunblade non s’inceppa mai: questa era la frase che ha promosso la diffusione di un’arma innovativa all’interno dell’esercito Galbadiano. Bisognava tornare indietro ai tempi della prima Guerra della Strega: allora la richiesta di armi copriva parecchie azioni di spionaggio e addirittura di sabotaggio tra le industrie di armi da fuoco e quelle bianche. La proposta di un ibrido che accontentasse entrambe le parti era sembrata veramente un’ottima idea e la prima cosa che Galbadia aveva pensato era stato darlo in dotazione all’esercito.

Ecco l’arma che ucciderà la Strega e porrà fine alla guerra. Spada o fucile? Perché scegliere, quando si possono avere entrambi! Il Gunblade, l’arma infallibile: non si inceppa mai.

Non si inceppa mai.

Non ci misero molto a capire che quell’arma non appianava le divergenze tra due mondi di armi valide: lei vendite dei Gunblade sotterrarono in poche settimane quelle di qualunque altra arma e presto le industrie non ebbero altra scelta se non quella di specializzarsi sul loro commercio e produzione. Gli eserciti continuarono la guerra con talmente tanti Gunblader che era strano trovare qualcuno sprovvisto.

Esthar ovviamente ci mise il suo: le falci erano a raggio inferiore, e vero, ma vogliamo mettere la comodità? La rapidità di estrazione nonché il perfetto bilanciamento. Qualcuno riuscì persino a trasformarlo in un’arma da lancio.

Spada, pistola e boomerang tutti insieme: si può desiderare di più?

La prima versione del Gunblade pesava nove chili da armato. L’esercito galbadiano chiamò pomposamente esperti del Gunblade chiunque fosse tornato da una battaglia con tale arma ancora in pugno e a guerra finita Galbadia contava ancora il maggior numero di fruitori di questa miracolosa arma, che mai una volta si era inceppata, mai una volta aveva fatto prigionieri.

Il Gunblade concepisce solo la morte, non ha importanza di chi.

Poche settimane successive i primi sconvolgenti clamori: i più fortunati se la cavarono con un’artrosi cronica, ma non mancarono casi di necrosi ossea. La spiegazione fu immediata, breve e lapidaria: troppo sbilanciato sulla lama.

E cosa si aspettavano? Che un metro di lama pesasse esattamente come venti centimetri mal contati di fucile? Della serie più sono grossi più sono stupidi. L’esercito ritirò l’arma dal suo contingente, riservandola solo ai pochi che ancora avevano il coraggio di impugnarla. Furono veramente molto pochi i temerari che osavano sfidare la sorte e guardare in faccia il rischio di una lesione che dava dolore cronico. Tra essi vi furono due giovani matricole del Garden di Balamb. Per entrambi fu un colpo di fulmine per quell’arma e poco gliene fregava dei rischi.

La prima volta che un undicenne Squall vibrò il suo Revolver si beccò un’infiammazione ai tendini del polso e per una settimana fece fatica anche a reggere la penna per scrivere. Il dolore era sordo e pulsante, ma ormai la sfida era stata lanciata e lui l’aveva raccolta: glielo si leggeva negli occhi ogni volta che si voltava verso il Gunblade datogli il dotazione dal Garden, un vecchio Revolver preso da chissà dove nel magazzino delle armi. La lama era scheggiata, il calcio scolorito in più punti e graffi e righe rendevano frastagliata la superficie del tamburo.

Ma nemmeno quell’arma si era mai inceppata.

La scrutava con gelo per ore, studiandone il profilo, saggiandone il peso e controllando il filo smussato con il polpastrello.

Non vincerai, bastardo. Non su di me, ti do la mia parola.

I giorni di convalescenza li passò a Balamb. Nel negozio di armi, la lama venne uniformata ed affilata, il calcio ridipinto ed il tamburo levigato. Non fu una spesa indolore, ma il badge del Garden di Balamb fornì l'indirizzo a cui spedire il conto e per le strade del paese fu avvistato un ragazzino con un Revolver in braccio.

Quando fu nuovamente in grado di imbracciarlo lo fece con ore ed ore di studio sulla sua tecnica e sulle sue caratteristiche: non si sarebbe limitato a saperlo usare, sarebbe diventato uno specialista. Il suo primo avversario fu un giovane ma non meno strafottente Seifer e si presentò davanti a lui con un Hyperion. Squall ebbe la peggio dopo pochi minuti e la risata sprezzante dell'avversario gli fece sentire più dolore in dieci secondi di quanto avesse fatto il polso in una settimana.

Fu quella, a sua memoria, la prima ed ultima volta che pianse.

Ma lì, in quel quando ed in quel dove, in quella camera d'ospedale, in quel momento in cui era sdraiato in mutande davanti ad un dottore che gli studiava le gambe, percepì nuovamente lo stesso dolore ed avrebbe allontanato l'uomo, se non fosse stato l'unico con il potere di fare qualcosa, se ci fosse stato effettivamente qualcosa da fare. La risonanza magnetica pose fine ad ogni dubbio.

“Signor Leonhart...” chiamò il dottore, con voce bassa e lenta, che fingeva abilmente solidarietà e cordoglio. “Lei ha una lesione al midollo spinale lombare, probabilmente dovuto all'attacco di quel drago. Dobbiamo ancora fare dei test e degli esami, ma non voglio mentirle: c'è la seria possibilità che lei perda l'uso delle gambe. Mi dispiace”.

Mi dispiace: la chiusura della frase preferita dai medici. Era una bugia, ovviamente: se avessero dovuto dispiacersi per tutti quelli che non uscivano dall'ospedale perfettamente sani sarebbero caduti in depressione dopo appena un mese, ma l'etica medica imponeva loro almeno un apparente empatia.

Squall non sentì quelle parole: la sua testa era un vorticante buco nero in cui rimbalzava solo la diagnosi. È probabile che lei perda l'uso delle gambe. Ma stiamo scherzando? Quell'uomo gli stava dicendo che lui, che a malapena sopportava un pomeriggio passato sul letto della sua camera e che avrebbe volentieri mangiato in piedi da quanto odiava star seduto, sarebbe stato costretto su una sedia a rotelle per il resto dei suoi giorni?

Non era divertente: come scherzo non faceva ridere nessuno.

Sentì i passi del dottore farsi più flebili, più lontani. Non si volse quando sentì la porta chiudersi con delicatezza: la sua attenzione era focalizzata sul lenzuolo che gli copriva le gambe, immobili ed ormai inutili. Si volse verso la finestra a contemplare il panorama: il gesto gli sembrò destabilizzante, lo sforzo immenso, peggio di una gita in montagna con Rinoa che gli saltellava esuberante qualche metro più avanti.

La porta si riaprì e passi cauti si avvicinarono a lui. Non si mosse, rapito com'era dal panorama fuori dalla finestra, o meglio dall'infinità di scene che gli passavano davanti agli occhi: passeggiate, combattimenti, gite, corse ed escursioni. Tutte cose che sapeva aveva perduto. Sentì una lieve carezza mentale in mezzo a tutta quella confusione colorata di eventi irripetibili e seppe che Rinoa si stava avvicinando. Lo chiamò piano, con la voce rotta ma seria, grave: il dottore aveva parlato anche con loro. Lui non si volse. Dalla parte della ragazza arrivò un sospiro.

“Io...non so cosa dire...” mormorò.

(Allora non parlare) pensò lui. (Cosa vuoi che ci sia da dire?).

Percepiva la cautela della ragazza, lo smarrimento, la paura di ferirlo più di quanto non lo fosse già ed il nervosismo di trovarsi davanti uno Squall rotto come non lo era mai stato. Tutto quello che seppe fare fu invadergli la mente con un carico di pace e di sollievo: lo fece delicatamente, senza forzare, fermandosi immediatamente ad ogni minimo cenno di resistenza per poi riprovare con cautela.

Rimasero lì insieme, senza parlare. La mente di Squall era invasa dal fiotto di sollievo che la Strega gli trasmetteva, ma non riusciva a confortarlo, né a consolarlo. Allora gli sfiorò la mano e, quando non ci fu alcuna reazione la strinse delicatamente, sempre in silenzio. Le parole erano superflue, inutili, anzi quasi pericolose: avrebbero avuto il potere di confermare ciò che entrambi sapevano, mettere sulla paralisi il timbro con scritto REALE e nessuno dei due voleva questo. Non ancora almeno.

Passarono pochi minuti, poi entrarono gli altri. Rinoa si volse, ma Squall non si mosse di un centimetro: così immobile sembrava una statua di sale.

“Ehi Squall” salutò Irvine senza enfasi. “Tutto bene?”. Domanda idiota numero uno: Selphie gli piantò nel fianco una gomitata adatta a tutte le occasioni. Fu la volta di Quistis.

“Abbiamo parlato con i dottori” disse. Si avvicinò al letto, ma Rinoa la fermò con lo sguardo, scuotendo la testa. Ripiegò sulla sedia contro il muro opposto e si sedette. “Ci sono ancora test ed esami da fare: non è detto che vada così”.

“Ah no?” commentò Seifer. “Sai, le tue lezioni erano noiose ma Anatomia la ricordo bene”.

“Seifer...!” ammonì Zell, grave. “Se proprio non riesci a tacere, almeno modera i termini”.

“Può essere una lesione parziale” disse Quistis scuotendo la testa. “In questo caso avrà bisogno di aiuto, ma sarà autosufficiente”.

“Avete finito?” ringhiò Rinoa. Nella sala tacquero tutti. “Non credo proprio che sia il momento”. Per la prima volta da quando era uscito il dottore, Squall si mosse. Si girò e guardò uno per uno i suoi amici, compagni di una squadra a cui oramai non avrebbe mai più preso parte: li guardò uno per uno, senza riuscire a capacitarsi di quanto sembrassero alti tutti quanti. Il suo sguardo era assente, vacuo, eppure pregno di un tale gelo da far correre sgradevoli brividi lungo le schiene.

“...fuori...” mormorò. In quel momento, la mente di Rinoa fu espulsa da lui con tale violenza che lei rintuzzò, lasciando istintivamente la sua mano.

“Squall...” chiamò la Strega. Tentò nuovamente di avvicinare la sua mente, ma trovò come una gigantesca saracinesca chiusa. Premette delicatamente una volta sola, ma quella non si mosse: il ragazzo non le permetteva di comunicare.

“Sicché...” mormorò ancora, tornando a guardare fuori dalla finestra. La voce era bassa e stentorea. “Un incontro casuale mi ha piazzato su una sedia a rotelle...”. Selphie scosse la testa, mentre Quistis si avvicinava a lui.

“Era un alfa, Squall...” disse, ma lui continuò come se nessuno l'avesse interrotto.

“...per colpa di un RubRum Dragon adesso dovrò portare il catetere a vita” constatò. Non disse altro ma non era necessario aggiungere altro: era stato volutamente definitivo. Lentamente, Rinoa gli cinse la schiena in un abbraccio.

“Ci siamo noi Squall” sussurrò. Zell annuì, cercando di assumere un'aria rassicurante.

“Ci mancherebbe!” esclamò. “Parleremo con i dottori, troveremo una quadra: puoi contare su di noi, su tutti noi”.


Altre risonanze, esami dei riflessi, reazioni a stimoli esterni, reazione al dolore: tutti gli esami che gli fecero portarono alla tanto sospirata diagnosi: la lesione era parziale, il recupero di parte della mobilità era possibile, ma non facile e nemmeno immediata. L'unica notizia che Squall dentro di sé giudicò meno schifosa era che almeno il pannolone se lo poteva risparmiare.

Venne registrato come paziente in riabilitazione e messo in lista. Due sedute al giorno, a cui a turno tutti quanti aiutavano, facevano domande ed ogni tanto gli parlavano, lo rassicuravano come potevano e come sapevano fare: Zell non faceva altro che sospirare alla birra di gruppo che avrebbero fatto tutti insieme, Irvine sogghignava a raccontargli i pettegolezzi che giravano sul pugile e la ragazza con la treccia, Seifer si comportava come se nulla fosse.

Rinoa lasciava raramente il suo fianco; parlava, sorrideva, ma una patina di preoccupazione non lasciava mai i suoi occhi lucidi. Squall sospettava che quel dolore che sentiva lei avrebbe dovuto essere suo, ma proprio non riusciva a capire il motivo di quella sua apatia estranea, come se non fossero sue le gambe che si ostinavano ad ignorare ogni sorta di comando.

Il fisioterapista, un ragazzo sulla trentina dalla voce pacata e gentile, ogni volta lo invitava a cercare di muovere la gamba e non si faceva intimorire dall'occhiata raggelante che gli scoccava ogni volta.

“Fa parte della fisioterapia” spiegava. “Deve cercare di stimolare i muscoli a fare i movimenti a cui li sto forzando io”. La sedia a rotelle era qualcosa di traumatizzante; la sentiva perennemente scomoda, ma ciò che lo faceva veramente star male era la consapevolezza di non potersi alzare quando voleva, anzi di non potersi alzare e basta.

E Rinoa era sempre lì al suo fianco, sia fuori che dentro: poteva sentire la sua presenza all'interno della mente, al di là della barricata che aveva eretto, come se fosse seduta sulla soglia di una porta chiusa. Non osava bussare e lo amava quanto bastava per rabbrividire di disgusto all'idea di forzarlo a farla entrare.

“Ce la faremo, Squall” sussurrava ogni volta che erano soli. Si sporgeva su di lui e lo baciava, accarezzandogli il viso con una dolcezza infinita. “Sono con te: ce la faremo”.


Alla fine il suo mondo si era sempre ridotto a quello: un intero universo, il suo, che partiva dalla porta e finiva alla finestra. Ed in mezzo lui, in silenzio, ad interrogarsi sul perché una cosa come quella era successo proprio a lui: un'altra domanda che non avrebbe mai avuto risposta. Aveva affrontato Streghe, Cavalieri, mostri di ogni tipo e poi era arrivato bello bello un RubRum Dragon che aveva provveduto a mettergli addosso una catena che mai, mai sarebbe riuscito a togliersi.

Passò un'altra settimana e in un momento di solitudine, ormai così rari, Squall si guardò intorno: la sua camera era invasa di maniglie e barre di ferro per facilitargli le operazioni una volta così elementari, come il coricarsi sul letto o il sedersi sul gabinetto. Le porte si aprivano verso l'esterno, le maniglie erano più basse ed aveva sentito una volta Seifer commentare l'assenza di scale come la più grande delle fortune.

Era stato portato al Garden per l’ispezione sanitaria ed aveva in grembo il foglio delle mansioni alternative che un SeeD aveva la facoltà di fare all’interno dell’accademia. Lo guardava ormai da un’ora ed ancora non riusciva a vederlo.

Zell, Selphie ed Irvine avevano ricevuto una missione poco fuori Dollet e quella mattina non aveva aperto a Rinoa. Dalla finestra poteva vedere la Tomba del Re Senza Nome, misteriosa e silenziosa, le fronde del santuario erano increspate da quel vento tiepido che entrava dalla finestra socchiusa.

Come panorama non è male...

Uscì dalla stanza e sospinse la carrozzina fino al giardino: prendere le rampe anziché le scale gli venne automatico, come se già si fosse abituato all'idea di rimanere seduto per tutta la vita. Con movimenti lenti e lo sguardo ancora fisso sulle sue ginocchia, si avvicinò alla fine del giardino.

Durante la battaglia con il Garden di Galbadia la piattaforma si era spaccata ed era rimasta una spessa crepa, circondata da transenne e nastri di isolamento: una spaccatura che separava il mondo in cui c’erano le mattonelle pulite e ben curate da quello in cui le lamiere si fondevano con la terra e le rocce in sospeso sul vuoto. Si avvicinò al buco e si affacciò, guardando l'anello vorticante del Garden. Una porzione di terra grande quanto bastava per farci stare un palcoscenico si era sgretolata al semplice contatto: questo gli aveva detto Zell, durante un rapporto che lui aveva seguito con la piccola parte di sé che non era nell'infermeria, accanto ad una comatosa Rinoa.

Sotto di esso vi erano ancora una buona decina di metri d'aria fresca prima dell'impatto con il terreno brullo. Rimase sulla crepa senza mettere i freni alle ruote, mentre quell’idea gli cullava la mente devastata.

In fondo che male c'era? Cosa sarebbe successo se una volta, solo una in tutta la sua vita, si fosse arreso? Lui si era sempre rifiutato di farlo, anche quando la situazione precipitava, anche quando si accorgeva che era troppo grande.

Nessuno l'avrebbe biasimato se avesse deciso di arrendersi davanti alla nomina di Edea come capo di Galbadia, in quello che sembrava il preludio allo scoppio di un'altra Guerra della Strega.

Nessuno l'avrebbe biasimato se non se la fosse sentita di saltare nello spazio con la bombola d'ossigeno vuota, forte solo di un sordo desiderio e dell'anteprima dei successivi tre minuti grazie ad una visione di Ellione.

Anche contro Artemisia, se avesse stabilito che era troppo grande per lui, nessuno avrebbe avuto da ridire.

Ma quello. Ecco, quello era semplicemente troppo per lui.

Rimanere barricato in una camera d’ospedale per l'imbarazzo dello spettacolo che dava, la faccia di Rinoa e dei suoi amici quando lo venivano a trovare, le occhiate che gli erano arrivate per i corridoi del Garden, l'umiliazione di quelle volte in cui non aveva fatto in tempo ad issarsi sul gabinetto o era caduto nel tentativo: ogni volta aveva seriamente pensato, quasi desiderato di trovarsi in quella situazione e di chinare le spalle in avanti. Al resto ci avrebbe pensato madre natura: lui non avrebbe dovuto fare altro.

Le medicine non funzionavano, la fisioterapia dava scarsi risultati, la compagnia di Rinoa non funzionava: che cosa stava facendo? Si svegliava la mattina ed aspettava la sera per andare a dormire: erano passate due settimane appena e non aveva nessuna intenzione di far passare una vita intera in quel modo.

“Squall?” chiamò una voce. Non ebbe nemmeno bisogno di voltarsi: Quistis lo stava guardando a debita distanza, con il panico nella voce. “Che stai facendo?”. Non giunse risposta. Pochi secondi e si mosse in avanti, lentamente, senza movimenti bruschi.

“Ehi, ehi! Che sta succedendo?” chiese la voce di Seifer. “Adesso Squall vedi di calmarti; non facciamo cretinate”. Il tono era cauto, la voce ferma, ma pervasa da una sottile vena di agitazione. Squall mosse una ruota e si girò, dando le spalle a quel buco: quel vuoto era così invitante, così denso di allettanti promesse che quasi ci soffrì. Quistis e Seifer erano poco lontani, con gli sguardi fissi su di lui: sembrava avessero a che fare con un cobra pronto ad attaccare a pochi centimetri dal loro naso.

“Non succede nulla Squall” mormorò Quistis, cercando disperatamente di trasmettere calma. “Adesso facciamo tutti un bel respiro e chiacchieriamo un po'”. (Hyne fa che non capiti Rinoa da queste parti. Non adesso).

“Chiacchierare?” borbottò lui. “Cosa c'è da chiacchierare? Che cosa ti è sfuggito della mia situazione?”.

“Non farai mica sul serio vero?” chiese Seifer. Anche la sua voce era ferma, ma a differenza della donna, la sua era fredda. “Chi glielo spiega alla streghetta? Ed al gallinaccio? Hai pensato al gallinaccio?”. Squall ci aveva pensato, certo che ci aveva pensato, ma per quanto si fosse impegnato non era riuscito a trovare per loro un'importanza sufficiente da spingerlo ad andare avanti. E lo aveva ferito il non riuscire a trovarla. Dopo anni passati a temere l'abbandono dei suoi amici, ora era lui che abbandonava loro.

“Quistis, hai mica visto Squall?” chiese una voce dietro la SeeD. Rinoa guardò la sua schiena per qualche secondo, poi allungò lo sguardo oltre la sua spalla ed il mondo si fermò. Ebbe il tempo di realizzare lo spettacolo che aveva davanti, poi lasciò cadere gli asciugamani ed il libro che portava e scattò verso la carrozzina. Quistis la seguì con lo sguardo, ma non cercò nemmeno di fermarla. Squall mosse la testa all'indietro e le ruote presero a scorrere verso la spaccatura che l'avrebbe portato ad un morte certa.

Vide il cielo e pensò che non era brutta come ultima visione del mondo che stava lasciando. Sentiva le ruote andare all'indietro, seguendo sempre più velocemente le scanalature e le imperfezioni che portavano al buco e non sentì niente, nulla di nulla, solo la piacevole carezza di un alito di vento.

Sentì uno schiocco e la carrozzina, con un sussulto, si fermò: abbassò uno sguardo confuso sul bracciolo, attorno a cui era avviluppata saldamente la frusta di Quistis. Pochi istanti ed un paio di braccia forti lo presero da sotto le ascelle e lo scaraventarono a terra, lontano dalla voragine, al sicuro.

“Ma che ti dice la testa?” ruggì Seifer. “Hai perso l'uso delle gambe o del cervello?”. Sentì le braccia di Rinoa attorno alle spalle per qualche istante, poi il biondo la sposò di peso ed afferrò il bavero della sua giacca: era furibondo. “Sei un imbecille! Pensi veramente che ci siamo fatti tutti quanti un mazzo così solo per guardarti mentre getti la spugna? Eh?!!”. A sorpresa, lo colpì: un pugno forte, dritto sullo zigomo. Squall stramazzò a terra, impotente, ma Seifer lo afferrò nuovamente per il colletto e lo ritirò su.

“Seifer che stai facendo?” esclamò Rinoa scandalizzata. “Smettila! Mettilo giù!”. Tentò di avvicinarsi, ma Quistis la fermò scuotendo la testa ed intimandola a lasciar fare.

“Lascialo fare” disse, con voce tremante. “Se c'è qualcuno che in questo momento è in grado di scuoterlo, quello è Seifer”.

“Adesso te lo dico io cosa farai, coglione che non sei altro” ringhiò il ragazzo. “Adesso tu monti su quel trabiccolo e te ne torni in ospedale. A partire da oggi pomeriggio fai le tue sedute di fisioterapia...E GUARDAMI IN FACCIA QUANDO TI PARLO!”. Con un ennesimo strattone, lo costrinse a guardarlo: quasi schiumava dalla rabbia. “Se viene fuori che non le fai verrò personalmente ad obbligarti, anche tutti i giorni per anni. E se per disgrazia mi giunge all'orecchio che hai tentato nuovamente il suicidio ti sbatto in una clinica di recupero, sorvegliato a vista, con una camicia di forza legata addosso ed un pezzo di pelle incastrato in bocca finché non ne uscirai da solo o su una barella nascosto da un lenzuolo: ci siamo capiti?”.

Il viso di Squall tornò espressivo, gli occhi luccicarono rabbia. Staccò il bavero dalla presa di Seifer e cadde seduto. Aprì la bocca per ribattere, ma la voce non gli uscì; cercò forsennatamente le parole, scandagliò ogni centimetro del suo cervello per trovare qualcosa di abbastanza offensivo da dirgli, ma tutto quello che sentì fu la gola venir lentamente invasa da un groppo.

“Ti puzza l'alito...” sbottò. Seifer si alzò in piedi: il suo volto era ancora contratto da una smorfia irata.

“Ci siamo capiti?” ripeté, ringhiando in segno di avvertimento. “Spero che sia tutto chiaro perché la prossima volta passerò per le vie di fatto e sai che lo farò”. Certo che lo sapeva: Seifer non aveva mai parlato a vanvera e se diceva che avrebbe fatto qualcosa era solamente per precisare le sue intenzioni. Incapace di parlare Squall annuì soltanto, spostando lo sguardo oltre la sua spalla. Per quanto deglutisse quel dannato nodo alla gola non ne voleva sapere di scendere, ma dentro di lui sapeva che sarebbe salito.

Con la coda dell'occhio vide Rinoa avvicinarsi e, nuovamente, il tocco della sua mente contro la sua. A quel contatto, la saracinesca che chiudeva fuori il mondo da lui si distrusse: finì come una colata di ferro fuso e ciò che la Strega vide dietro di essa fu un ragazzo distrutto, spezzato, fragile come non l'aveva mai visto. E lacrime dappertutto. Dentro e fuori.

Cadde in ginocchio e gli strinse la testa a sé, accarezzandogli i capelli e posandogli piccoli baci, rassicurandolo con una voce prossima al pianto. Anche Quistis si inginocchiò accanto a lui, ma si limitò a posargli una mano sulla spalla, che sussultava preda di singhiozzi isterici. Seifer si grattò la testa, poi si volse e scoccò ai presenti un'occhiataccia.

“Beh? Vi divertite?” abbaiò rivolto ai curiosi che non si perdevano una scena. “Mi dispiace che dobbiate sloggiare, allora!”. Tutti colsero l'ordine celato e, nel giro di pochi minuti, furono soli.

La Strega alzò gli occhi verso il ragazzo: si era calmato e anzi si sentiva vagamente in colpa alla vista di come era ridotto il suo Comandante: non lo aveva mai definito amico, probabilmente perché ne avevano passate troppe ed il numero dei loro dissidi, più o meno seri, era ancora gravoso. Lo guardò con occhi lucidi e, quando ottenne la sua attenzione, mimò un silenzioso 'grazie' con le labbra.

Squall era premuto contro di lei, distrutto, desideroso di volatilizzarsi come per magia. Non riusciva a frenare le lacrime e dopo un po' smise di provarci: era con Rinoa e con lei poteva permettersi il lusso di crollare.

Pianse per tutto quello che gli venne in mente, pianse per tutti gli anni in cui non l'aveva fatto, pianse per tutte le volte che avrebbe dovuto farlo ma che aveva preferito mordersi la lingua fino a farsela sanguinare. Pianse per le occasioni sfumate, per le promesse non mantenute, per le umiliazioni, le sconfitte, i fallimenti, gli abbandoni, le morti.

Ed infine pianse per sé stesso, per le sue gambe e per che razza di piccolo uomo in realtà fosse. Pianse per ciò che aveva, per ciò che non aveva e per ciò che avrebbe voluto avere. Ma soprattutto pianse perché stava per perdere tutto quello per cui piangeva.

Ed in mezzo a tutte quelle lacrime comparve una consapevolezza, una decisione ferma e lucente come un faro in una notte di tempesta: emerse da sola, come se fosse sempre stata lì da qualche parte. Parlò, consapevole che almeno Rinoa lo stava ascoltando.

Voglio andare via da qui.

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Capitolo 4
*** To Die ***


TO DIE


Laguna si fermò davanti all'ospedale con una confusione tale nella testa che lo destabilizzava. Negli ultimi giorni era stato bersaglio di tante di quelle notizie che fino a qualche giorno prima non aveva saputo nemmeno da che parte girarsi per prima. Il colloquio con Odaine, il meeting con le forze di Galbadia, la telefonata di Quistis per dirgli che suo figlio era in riabilitazione per una lesione alla spina dorsale.

E poi quell'ultima chiamata da parte del preside Cid; la burocrazia esthariana non ammetteva sentimentalismi come un figlio in sedia a rotelle, non nei confronti del presidente, ed era stato con un sollievo quasi fuori luogo che aveva ascoltato il preside del Garden di Balamb riferirgli la notizia di uno Squall che aveva tentato il suicidio. Un fatto così assurdo, così decisamente non-da-Squall aveva allarmato anche Kiros e Ward, che lo avevano messo sulla Lagunarok ed impostato personalmente il pilota automatico per Deling City.

“Con il tuo senso dell'orientamento rischi di finire a Trabia” aveva commentato l'amico. Avrebbe replicato in modo sagace, il presidente Laguna, ma in quel momento non gli era venuto in mente nulla che potesse rendere giustizia ad un affronto simile.

Il viaggio era stato un soffio, nell'ospedale l'avevano riconosciuto, ma davanti alla cortese ed emozionata infermiera seduta all'accettazione non riusciva a sentirsi il dirigente dell'unico continente in grado di rivaleggiare con Galbadia, ma solo un padre che faceva visita al figlio nell'ultimo posto in cui avrebbe voluto trovarlo.

Guardò l'orologio e, con un sospiro, si frugò nella tasca. Odaine era stato chiaro nel raccomandarsi di non sgarrare gli orari e lui non aveva la minima intenzione di farlo; guardò la piccola pastiglia gialla per qualche secondo, poi se la cacciò in bocca, deglutendo e pregando che non si incastrasse in gola. Ci mancava solamente quella: non bastava suo figlio sulla sedia a rotelle, vero?


Quando l'uomo entrò nella stanza temette di perdere il controllo e di scoppiare in lacrime come un bambino; Squall era sul letto, con sguardo perso fisso verso la finestra, pallido e sconvolto, mentre Rinoa era accanto a lui, con una mano tra le sue e gli parlava con un sorriso tirato, stanco. Quando la ragazza si volse vide tutto il dolore, lo smarrimento, l'incapacità di essere forte in un momento in cui lei per prima aveva bisogno di essere incoraggiata. Eppure ci stava provando: voleva, doveva essere forte. Per Squall, per il suo Squall. Ringraziò il cielo di aver preso quella pastiglia fuori dall'ospedale: avrebbe implicato spiegazioni che in quel momento sarebbero state solo deleterie.

Fu messo al corrente della giornata: la solitudine, la depressione che stava lentamente mangiando suo figlio e la decisione che era stata resa pubblica da Rinoa ai pochi intimi presenti in quella stanza. Laguna capiva: doveva andarsene da lì e ricominciare.

La visita successiva fu al preside Cid. L’uomo lo accolse con un sorriso distante, che sovrastava a fatica i pensieri che aleggiavano nella sua testa.

“Salve presidente Loire” salutò vago, come lo vedesse per la prima volta. ”Posso offrirle qualcosa?”.

“No grazie” declinò rispettosamente l’uomo. Potresti offrirmi la possibilità di evitare che Squall ritenti quello che ha fatto nel cortile e che magari ci riesca: la prossima volta Quistis potrebbe non essere nel cortile.

“Rinoa è venuta a parlarmi” disse. “Mi ha riferito la decisione di Squall”.

“Quindi…?” chiese l’uomo. “C’è qualche problema?”.

“Un mare di problemi” rispose Cid. Laguna si sedette senza che gli venisse offerta: Caraway l’avrebbe folgorato sul posto, ma era proprio perché c’era il preside del Garden di Balamb si permise di non seguire il galateo politico.

Era in compagnia di amici ed era di suo figlio che si parlava.

“Mi illustri” invitò. Cid sospirò: era strano quanto apparisse stanco ai suoi occhi e si sorprese a pensare che probabilmente lui desse quella stessa impressione.

“Squall vuole lasciare la SeeD” cominciò l’uomo. Dal tono era una decisione che non gli piaceva nemmeno un po’. “Fino a ieri ero seriamente intenzionato a lasciargli il posto di preside: un lavoro tranquillo, molto ben retribuito e pieno di pensieri e responsabilità e non nascondo che sarebbe stato anche un’ottima occasione per me di ritirarmi a vita privata con Edea, finalmente. Poi ho saputo del…episodio nel cortile del Garden.

“Laguna, voglio essere sincero con lei e risparmiarle le sviolinate ed i peli sulla lingua: io voglio bene a quel ragazzo come se fosse mio figlio. È un bravo ragazzo, un brillante studente ed un SeeD modello: sono stato veramente molto orgoglioso di lui durante la campagna contro Artemisia e sinceramente ero convinto che lo sarebbe stato per sempre. Questo mio attaccamento nei confronti di uno studente, di un soldato, mi rende combattuto: vorrei che accettasse il mio lavoro e che stesse qui, ma allo stesso tempo so che non posso più chiedergli una cosa del genere e lo capisco”.

“Dove vuole arrivare, preside?” chiese Laguna, invitandolo a proseguire. Va bene non avere peli sulla lingua, ma così è anche troppo.

“La SeeD non prevede un programma per congedare i propri membri” disse. “E questo per due motivi: primo perché nessuno ne ha mai avuto motivo, secondo per gli insegnamenti e l’addestramento a cui è sottoposto da cadetto”.

“Mi sta dicendo che Squall non può lasciare la SeeD?” chiese lui, riuscendo per qualche celata capacità di mascherare il nervosismo crescente con il suo tono calmo.

“Tecnicamente no” rispose. “Per questo ho convocato lei”. Finalmente prese posto dietro la sua scrivania; si tolse gli occhiali e si strinse la base del naso, liberando un sospiro stanco e liberatorio: la soluzione a cui aveva pensato evidentemente non lo soddisfava e Laguna ebbe il sentore che per lui sarebbe stato lo stesso.

“La ascolto” disse.

“Laguna, lei è il solo a cui posso chiedere una cosa del genere: deve arruolare Squall per un’altra missione. Al resto penseremo noi” rispose. Laguna non credette alle sue orecchie.

“Scusi, che missione dovrei assegnarli nello stato in cui è?” chiese. “Il rapporto è stato fatto, tutti sanno le condizioni in cui versa e poi c’è il referto medico dell’ospedale di Deling City: cosa segno nel mandato?”.

“Quello che vuole” rispose. “Per noi è indispensabile che Squall lasci il Garden con un valido motivo; tuttavia quello che le chiederò oggi è un patto”.

“Un patto? E sarebbe?”.

“Laguna, lei gode della piena fiducia del Garden visto il supporto che ci ha offerto durante la battaglia contro Artemisia: aver utilizzato il potere di Ellione sapendo quale fosse la posta in gioco è stato esemplare e per questo le sto proponendo un accordo ufficiale basandomi unicamente sulla sua parola”. Cid inforcò nuovamente gli occhiali e lo guardò da sopra le lenti a mezzaluna: lo sguardo era fermo, lucido.


Supervisione dei progetti di un Garden estariano: questo era stato il motivo per cui Squall era stato richiesto. Lui e solo lui. L’attenzione del ragazzo fu verso Cid per tre buoni minuti e venne considerato quasi un miracolo. La spiegazione della missione fu fatta in presidenza, a porte chiuse; quando l’illustrazione terminò, nella sala non volava una mosca.

“Ma è impazzito?” sbottò subito Seifer. “Ma si rende conto di quello che sta dicendo?”.

“Sì, Seifer” replicò Cid. “E lo faccio solo perché si tratta di lui”. Rinoa era paralizzata, con gli occhi che saettavano da Cid a Laguna, fermo in un angolo con un espressione che non gli stava bene sul volto solitamente allegro e spigliato. Istintivamente cercò il suo ragazzo e quando trovò la sua spalla la strinse più forte che poté.

“Preside, non può farlo” disse Quistis. La sua voce pacata tradiva l’inquietudine, la preoccupazione. Ma anche una tristezza profonda. E nostalgia.

“Preferisco che vada così piuttosto che rischiare di leggere nuovamente un rapporto come quello del cortile” replicò Cid. Con quelle parole li affondò tutti, dal primo all’ultimo. Zell aprì la bocca per ribattere, ma la chiuse dopo qualche momento, Selphie cercò la mano di Irvine e tutti si volsero verso il loro Comandante.

Squall guardava il preside e non diceva una parola. Il corpo era abbandonato stancamente contro la sedia a rotelle, ma le mani stringevano i braccioli con un forza nuova e gli occhi

gli occhi

fremevano e brillavano di attenzione: dal RubRum Dragon era in assoluto la prima volta che guardava una persona con un’attenzione diversa da quella che normalmente si riservava ad un letto da rifare. Riluceva la determinazione, la forza e la speranza.

Era quello che voleva e Rinoa si sentì allo stesso tempo felice e distrutta.

“Ci sto” disse semplicemente. Spinse le rotelle accanto alla scrivania e lesse il mandato della missione. Pochi secondi e lo siglò con la sua firma frettolosa ma armonica, del tutto simile ad un autografo.

“Odaine è il migliore in molti campi” intervenne Laguna. “Se la cosa può consolarvi, starà bene: se Squall vorrà vederlo, potrebbe addirittura tornare a camminare”.

“Al resto ce ne occuperemo noi” concluse Cid. “E con noi intendo anche voi”.


Riuscirono ad organizzare una bevuta a Balamb, in un bar sul porto. La serata fu ridanciana, ma con un sottofondo di dolore, di lutto; Squall parlò poco e guardava la sua granpozione alla mela come se stesse ripassando la consegna della missione. Il ritorno non fu molto diverso ed il ragazzo si riscosse dai suoi pensieri quando Rinoa entrò nella stanza con lui e si chiuse la porta alle spalle.

“Cos…?” tentò di dire, ma venne zittito dalle labbra della ragazza. Senza mai lasciarlo, si mise a cavalcioni su di lui e gli avvolse le braccia intorno al collo, in un bacio che non lasciava scampo. Squall dopo qualche attimo di tentennamento incredibilmente ricambio; erano ormai troppi giorni che subiva i suoi baci e Rinoa si sentì genuinamente felice.

La sua felicità tuttavia fu spezzata brutalmente dal pensiero del giorno dopo: quando piombò nella sua testa erano arrivati sul letto, lui con i pantaloni e la canottiera e lei in intimo. Continuò a baciarlo, ma il sapore salato delle lacrime giunse alle labbra del ragazzo, che la separò da sé.

“Rinoa?” chiamò. La guardò per qualche minuto, poi sospirò comprensivo e la attirò a sé. La ragazza, tra le sue braccia forti, con il suo calore contro la pelle ed il suo odore nel naso pianse.

“Scusami…” singhiozzò. “So perché lo fai e so che è meglio così…ma non ce la faccio a non pregare che tu cambi idea”.

“Rinoa, io…” cominciò Squall, ma lei gli premette delicatamente l’indice contro la bocca.

“Non dire nulla Squall” mormorò. “Io voglio che tu stia bene e che sia di nuovo felice. E se la missione di domani ti darà questa possibilità non ti chiederò di ripensarci. Però…”. Prese la sua mano e la guidò contro il suo seno. “Questa sera, qui e adesso, ti chiedo di fare l’amore con me; ti chiedo di essere mio e di farmi sentire tua ancora per questa sera”.

Si mischiarono lacrime e singhiozzi e gemiti. Rinoa strinse a sé il suo Cavaliere godendosi il suo tocco, assaporandosi il momento secondo dopo secondo

qui e adesso

come se fossero gli ultimi, come fossero tutte cose che dal giorno dopo non avrebbe più avuto. Provò l’orgasmo più indesiderato della sua vita, quello che avrebbe sancito la fine di tutto, la chiusura di un periodo di tempo che per lei era valsa la missione fallita sul treno dei Gufi, l’essere sopravvissuta nello spazio e di tutte quelle volte in cui la sua volontà

il suo amore

nei confronti di quel ragazzo un tempo taciturno, freddo ed intrattabile l’aveva costretta a continuare, ad insistere, a provare ad avere un dialogo con lui che non riguardasse il contratto o la missione che stavano svolgendo.

Solo un’ultima volta, come quella scorsa. Solo un’ultima volta.


Dopo una settimana, Squall era libero. Libero dalle missioni, dalla burocrazia, dalla depressione, dall’ambiente militare che una volta aveva ucciso l’umanità dentro di lui, quella stessa umanità che Rinoa aveva visto rinascere sulla Lagunarock, quella volta nello spazio.

Guardò la bara scendere in una fossa fresca sulla collina di Winhill e spostò poi lo sguardo sulla lapide che avrebbe contrassegnato quel luogo per sempre. Squall Leonhart. Laguna l’aveva voluto con Raine, in quel posto che non aveva mai voluto visitare, accanto a quella lapide che non aveva mai voluto vedere. Al funerale erano intervenuti tutti nel Garden e in molti piangevano. Persino i suoi amici piangevano, anche se sapevano perfettamente come stavano le cose.

Sapevano che quella lapide indicava il luogo di sepoltura di una bara vuota.

Cid e Laguna si erano prodigati nei giorni precedenti a divulgare in tutto il mondo la notizia dell’avaria dell’elicottero su cui viaggiava una squadra di SeeD diretti ad Esthar per una missione e non aveva mancato di precisare che su quell’elicottero, che ormai riposava sul fondo del mare al largo di FH, buono solo per le tane dei pesci, era presente anche il leggendario SeeD Squall Leonhart.

La stampa passò la notizia in rete mondiale e nel giro di una settimana Squall era pubblicamente morto. Non mancarono messaggi di cordoglio e corone di fiori nella presidenza del Garden e comunicati radio e televisivi in cui si commentava la morte del ragazzo ricordando tutte le sue imprese

Squall era libero

e commemorandolo come il grande eroe della loro epoca.

Il funerale finì con il saluto militare da parte dei SeeD e i colpi a salve sparati in aria ed in poco tempo la folla si disperse. Rinoa si avvicinò a Laguna e lo prese per la manica della giacca.

“Laguna…ti prego…non permettere che gli capiti qualcosa di brutto” mormorò, con voce rotta. “Non sopporterei di perderlo una seconda volta e morirei se questa cerimonia dovesse ripetersi con una bara piena…”. L’uomo non rispose; si limitò ad annuire ad una promessa che non avrebbe potuto mantenere, mentre con una mano nascosta dalla tasca giocherellava con le sue pillole.




NOTA DELL’AUTORE:

Lo so, avevo detto che questo capitolo sarebbe stato l’ultimo, ma non è così. Ci sarà un epilogo e vi dico pure quando sarà pubblicato: Giovedì 24, come regalo per il mio compleanno.

Spero fremiate dalla voglia di sapere cos’è successo e come si concluderanno le cose, perché io non vedo l’ora di scriverlo XD

Un saluto a tutti.

Leonhard

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Capitolo 5
*** To Revive ***


TO REVIVE


Le pillole gialle nella tasca di Laguna fecero il loro lavoro per cinque anni. In quell'arco di tempo fece ciò che non aveva mai fatto, tutto ciò che non aveva mai fatto: restaurò i rapporti con FH e con Galbadia, tenuti per troppo tempo sui carboni ardenti, tagliò il nastro del primo Garden di Esthar nella storia del paese e fece rifiorire il suo orto privato.

Ma sopratutto ebbe l'occasione di fare il padre: Squall era stato messo in terapia, sotto quello che Odaine aveva chiamato progetto Oblivion. Qualche ora dopo, una glaciale Shiva evocata davanti a loro avrebbe puntualizzato che quello che le stavano chiedendo si chiamava baratto e che tecnicamente non poteva farlo ma per Squall avrebbe fatto un'eccezione. E poi era una transazione troppo ghiotta per non indurre in tentazione qualunque altro GF.

“Perdita di ricordi selettiva?” aveva commentato la creatura.

“È possibile dargli dei ricordi di un'altra persona?” aveva chiesto Laguna. Il GF era apparso scandalizzato, ma ritrovò immediatamente dopo la sua compostezza e la sua espressione insensibile.

“Dipende” rispose. “Dai ricordi che volete avere e da quelli che volete darmi”.

“Vorrei i ricordi di un medico” intervenne Squall: sapeva che Shiva aveva un debole per lui ed era una prova la rapidità con cui ogni volta rispondeva alla chiamata e da quanto fosse insignificante il ricordo che gli prelevava ogni volta. “Vorrei diventare un medico”.

“Ed in cambio cosa avrò?” chiese Shiva, rompendo di poco la sua patina di permafrost.

“Prenderai tutti i ricordi che ha della mia vita al Garden e tutti gli insegnamenti che ha avuto al suo interno” replicò Laguna. “Nonché il ricordo del suo nome”. Shiva si zittì per qualche secondo, scrutando il giovane con un'espressione quasi preoccupata.

“Ci saranno degli effetti collaterali” disse poi piano. “Quei ricordi sono la radice di molti altri: dimenticherai di aver conosciuto i tuoi amici. Dimenticherai come evocarci”.

“Devo farlo, Shiva” disse Squall, deglutendo piano. Si volse poi verso Laguna. “Spiegherai loro la situazione, vero?”.

“Certo” annuì il presidente. Mentiva, ma andava bene così: suo figlio si sarebbe dimenticato anche quella bugia che aveva accettato di dire.

Non deve avere alcun tipo di rapporto con il Garden; per il mondo lui sarà morto su quell'elicottero e noi ci comporteremo come se fossimo parte del mondo. Cid era stato categorico su quel punto e sui notiziari e sui quotidiani sarebbe comparso quel messaggio: avrebbe informato il Garden che Squall era libero. Invieremo la nuova identità di Squall nell'istante in cui la notizia comparirà in televisione: era una celebrità a tutti gli effetti e la notizia della sua morte farà il giro del mondo in tempo zero.

Così, mentre Squall dormiva nel coma farmacologico indottogli da una flebo di Medicina dell'Eroe, i documenti falsi di quello che oramai era un morto vivente pervennero sulla scrivania del presidente di Esthar, assieme ad uno scarabocchio su un post-it: l'ultimo messaggio del preside Cid riferito a Squall Leonhart era breve ma pregno di significato.

Che sia libero.

Laguna, con gli occhi lucidi di lacrime non piante, gettò il bigliettino nel tritacarte e lesse i documenti nella busta marroncina, cacciandosi in bocca una pastiglia gialla ed inghiottendola intera.

Lo sarebbe stato.



Dopo cinque anni, tuttavia, le medicine smisero di fare effetto: immunizzazione, l'aveva chiamata Odaine, e nel giro di un mese il cancro fece il suo lavoro e se lo portò via. A Laguna successe Kiros Seagill e Ward divenne il consigliere.

Assistette alla cerimonia in prima fila, come unico parente del defunto: Laguna venne seppellito accanto a sua madre, Raine Leonhart. Proprio lì accanto, una lapide sempre pulita, sempre circondata da sgargianti fiori multicolore e candele.

Squall Leonhart.

A distanza di anni, ancora non capiva il motivo per cui un eroe come Squall Leonhart avesse voluto essere seppellito in un posto sperduto come quello. A cerimonia finita, rimase ancora per qualche momento sulla lapide del padre, con la testa invasa da pensieri che mai aveva fatto: non era del tutto sicuro che lui e Laguna fossero mai andati a pescare insieme, e quello fu solo uno dei rimpianti che proprio lì, su quel pezzo di lucido marmo, sentì e scoprì.

Accettò le condoglianze da amici e collaboratori e colleghi del padre di cui lui aveva solo un vago ricordo e, all’imbrunire, si sedette finalmente in macchina, guidando verso Deling City. Si sentiva un cerchio alla testa mentre altre lacrime minacciavano di vincere la resistenza delle palpebre stanche ed arrossate: davvero non vedeva l'ora di tornare nel suo appartamento, farsi una doccia calda ed infilarsi sotto le coperte.

L'appartamento era silenzioso e buio, come ogni volta che tornava a casa. Gettò stancamente la giacca sul divano e si sedette sulla poltrona, liberando nell'aria uno sbuffo esausto: era solo, era stanco, era

libero

sudato ed invaso da polline. La doccia fu un toccasana; rimase sotto il getto d'acqua per quello che gli parve un tempo infinito, godendosi il piacevole picchiettare dell'acqua tiepida contro il corpo tonico. Uscendo dal box doccia la prima cosa che cercò fu l'asciugamano.

La seconda fu il bastone.

Dopo l'incidente d'auto aveva passato mesi infernali di dolorosa riabilitazione, che aveva portato a quel risultato. Una gamba offesa era molto più di quanto l'equipe di medici capitanati da Odaine in persona aveva previsto e lui stesso non poteva lamentarsi: l'alternativa sarebbe stata la sedia a rotelle e si era sempre anche solo rifiutato di immaginare come sarebbe stato.

Conoscendosi avrebbe tentato il suicidio.

 
--- o ---


Rinoa non era mai stata un'amante delle folle, ma era una cosa che ormai non poteva più evitare; almeno non dall'uscita del suo ultimo libro. Aveva perso Squall, ma a modo suo era andata avanti; il Garden non aveva più nulla da offrirle e l'aveva lasciato dopo appena un anno. L'opera che l'avrebbe annoverata tra le scrittrici più lette ed apprezzate di quella generazione era nata come sfogo, come tentativo di buttar fuori tutta la nostalgia e la sofferenza che sentiva nei confronti di un uomo che non poteva ricordarla.

Era stata scoperta per caso e la stesura dell'ultima parte della storia, dettata dalla speranza nascosta di un miracolo, l'aveva scritta velocemente, circondata da bicchieri di caffè. Il libro era uscito dopo qualche settimana e da quel momento era stato un crescendo di popolarità e convocazioni e fiere e presentazioni, a cui non mancava mai di allungare istintivamente lo sguardo per cercare QUEL volto familiare.

Alla presentazione ad Esthar poi, l'eccitazione provata nel riconoscere Laguna si era trasformata in delusione nel constatare che c'era soltanto Laguna in modo talmente repentino che non riuscì a mascherarla bene.

“Sta bene” le aveva detto poi, in privato. “Ma non posso dirti dov'è, Rinoa. Mi dispiace, ma Cid è stato estremamente chiaro ed anche io capisco il motivo per cui nessuno deve conoscere i suoi spostamenti”. A lei erano bastate quelle parole ed aveva annuito, prima di salire sul palco a presentare il suo libro, bellissima nella sua camicetta verde acquamarina accompagnata dai pantaloni color beige chiaro.

Parlò a lungo e rispose a domande; diede risposte piacevoli, curiose, ma anche sofferte e nostalgiche. Da dove era nata l'idea, se si era ispirata a qualcuno in particolare, se pensava di fare un seguito: come poteva fare un seguito?

Dopo la presentazione, seduta ad un tavolo privato con Laguna, si era fatta raccontare quel poco che poteva dirle su Squall e si sentì genuinamente felice nel sentire che si era costruito una vita nuova, lontano dal rigore militare in cui era cresciuto e da cui era stato educato per tutta la vita. La paralisi alle gambe si era ridotta ad una gamba offesa ed a quella notizia una lacrima le scavò il trucco.

“Vorrei tanto vederlo...” mormorò. Laguna non seppe fare altro che sospirare e scuotere la testa.

“Mi dispiace...” rispose.

Il suo libro divenne un best seller e a distanza di cinque anni veniva ancora riconosciuta e lodata per quella storia così toccante e commovente. Autografi e dediche erano quotidiani anche a distanza di cinque anni e ogni volta che leggeva quel titolo, così pregno di significati che solo lei conosceva, sentiva quella fitta che le impediva di dimenticare, di andare avanti con la sua vita, magari di innamorarsi nuovamente e di mettere su quella famiglia che per anni e da anni desiderava.

Scese dal treno e s'incamminò verso casa di suo padre; aveva promesso di passare a trovarlo un giorno che fosse capitata da Deling City e lei ci era andata apposta. Non le avrebbe fatto male dopotutto tornare in quella casa, da un padre che si era riscoperto desideroso di riallacciare con lei quel rapporto che non avevano mai veramente avuto. Era appena uscita dalla stazione quando il telefono trillò nella sua tasca: il numero sullo schermo era quello di Zell. Non si sentivano da almeno due mesi.

 
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Il dottor Leonhard Loire, al tempo Squall Leonhart, uscì dalla sala operatoria e diede la lieta notizia ai parenti del paziente: era stata un'operazione alla cistifellea, ormai roba di routine, ma immaginava che anche in quel caso era una faccenda del tutto diversa stare al di qua della porta che dava alla sala operatoria.

Vide la luce riaccendersi negli occhi della donna davanti a lui e sul suo viso si schiuse un sorriso che esprimeva una rara felicità.

“Grazie dottore” esclamò. “Hyne gliene renderà merito”. Lui annuì una volta sola, disegnando un lieve sorriso complice prima di salutare ed andare a cambiarsi. Era passato un mese dalla morte del padre e l'affogare il dolore nel lavoro aveva dato i suoi frutti e poteva dire di sentirsi abbastanza bene. E poi gli piaceva il suo lavoro: si sentiva a proprio agio come dottore e l'ospedale di Deling City era piena di persone che l'avevano conosciuto durante il suo tirocinio.

L'orologio lo informò che era ora di coprire il turno al pronto soccorso; normalmente non lo faceva, ma il dottor Marchisi stava uscendo da una crisi coniugale e gli aveva chiesto di coprire il suo turno per un paio di giorni. Leonhard, desideroso di più lavoro in cui affogare la nostalgia del padre, aveva accettato su due piedi. Indossò il camice e zoppicò fino al reparto.

Verso la metà del suo turno venne mandato nella stanza otto. Si sentiva il braccio leggermente intorpidito dallo sforzo che doveva fare sul bastone ed il suo umore ne aveva risentito, guastandosi leggermente. Sostò per qualche momento davanti alla porta, sospirò ed entrò nella stanza.

Accanto al letto vi erano quattro ragazzi, ad occhio suoi coetanei, e steso sul lettino vi era un quinto, con una gamba stretta in una fasciatura rossastra. Dieci occhi saettarono verso di lui e si spalancarono dopo qualche secondo, attoniti e sorpresi come se stessero guardando la cosa più strana al mondo. Il ragazzo sul lettino ruppe il silenzio.

“Che mi venga un colpo...” borbottò, con una voce che esprimeva sorpresa. Leonhard tossicchiò una risata e chiuse la porta.

“Spero di no, ma nel caso è nel posto giusto...” rispose. Nel silenzio generale si avvicinò al lettino e prese la cartellina appesa ai piedi del letto. “Seifer Almasy. Sono il dottor Leonhard Loire: cosa è...successo...?”. La voce scemò lentamente, mentre guardava le espressioni attonite e stupite degli altri ragazzi presenti nella stanza. “Qualche problema?”.

“Scusateci dottore” prese parola una donna con gli occhiali. “Lei ci ricorda un nostro vecchio amico”. Leonhard annuì, intuendo che forse non era il caso di indagare oltre.

“Allora? Che è successo?” chiese nuovamente.

“Noi siamo SeeD” cominciò un ragazzo biondo con un grosso tatuaggio sullo zigomo sinistro. “Eravamo in missione ed il nostro compagno è stato ferito da un Adamanthard: ecco il referto della nostra infermiera”. Il dottore lesse il foglio: frattura del femore con sospetta lacerazione dei tessuti interni.

“Ho capito” borbottò. “Beh bisogna mettere a posto l'osso o non si salderà bene. Allora Seifer: ho bisogno di sapere quanto reggi il dolore”.

“Ma che scherza dottore?” replicò lui, con un sorriso di sfida. “Io sono un SeeD”. Leonhard annuì con un sorrisetto.

“Non lo metto in dubbio, ma il dolore alle ossa è il più acuto che il corpo umano può generare e sto per farle parecchio male” replicò.

“Wow, un attimo!” esclamò il biondo, improvvisamente allarmato. “Come sarebbe a dire?”.

“Tenetelo fermo” ordinò secco il medico, con quello stesso tono con cui, in un passato che non ricordava, dava istruzioni a quegli stessi SeeD presenti nella stanza. Obbedirono senza fiatare. Prese saldamene i due capi della frattura e si mise in posizione. “Allora Seifer; al tre”. Il ragazzo prese a respirare profondamente.

Il conteggio di Leonhard arrivò a malapena al due, poi torse la gamba: nell'aria risuonò per qualche istante il ripugnante schiocco delle ossa, poi fu sovrastato dall'urlo di dolore di Seifer, che rimbombò per tutto l'ospedale.

“CRISTO SANTO, SQUALL!” ruggì il ragazzo. “MA TI HANNO INSEGNATO A CONTARE O NO?”.

“Seifer!” esclamò Quistis, scandalizzata, ma il dottore scosse la testa prendendo delle bende pulite.

“Non si preoccupi” disse serio. “Capita spesso che mi confondano con Squall Leonhart. Sinceramente non capisco il motivo, dato che è morto cinque anni fa…”.

Se avessero chiesto ad ogni singolo componente della squadra, Seifer incluso, non avrebbero saputo dire se quello che faceva loro più male fosse quel tono distaccato con cui Squall parlava di sé stesso, il fatto che dava loro del lei oppure per l’espressione: era tranquilla, serena, in qualche modo finalmente

libero

in pace con sé stesso.

“Beh, un po’ le assomiglia…” osservò cauto Zell, pregando di non ricevere una delle famigerate gomitate di Quistis. “Forse sarà per questo…”.

“Forse…” assentì lui fasciando stretto la gamba del biondo ed ignorando i grugniti di dolore. Tutti notarono l’espressione di Zell illuminarsi di una sorda inquietudine e lo sguardo saettare alla porta e poi all’orologio tranne il dottor Leonhard, che scrisse frettolosamente qualcosa su un foglio. “Beh, tra qualche minuto l’infermiera vi condurrà in sala gessi: dovrà tenerlo per un paio di mesi e stare a riposo. Questa è l’esenzione dall’attività SeeD. Ora scusatemi ma ho altri pazienti…”. Quistis annuì e salutò con un sorriso largo quanto falso.

“Ti prego Zell, dimmi che non hai chiamato Rinoa…” mormorò Irvine, nell’istante in cui il camice bianco del dottor Loire scomparve dietro l’angolo ed il tonfo dello zoccolo del bastone si fece più sordo e lontano.

“Eh…” mormorò il ragazzo grattandosi la testa. Era una domanda retorica, ovviamente: l’espressione colpevole del ragazzo valeva più di mille parole. “Se vuoi non te lo dico…”.

“Adesso capite perché continuo a chiamarlo gallinaccio?” sbottò Seifer, irritato per il dolore alla gamba immobilizzata. “Hai il cervello di un Lesmathor”.

“Ma cosa potevo saperne io che avremmo trovato Squall?” replicò lui, nervoso ed irrequieto.

 
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La telefonata di Zell aveva risvegliato ricordi che per sempre sarebbero stati troppo vividi e troppo dolorosi, per una serie di motivi che sinceramente non riusciva a mettere su una scaletta. L'ospedale di Deling City, per dirne una, dove era stato ricoverato Squall e dove era morta sua madre, il fatto che si trattasse di Seifer e che si era ferito, come Squall, durante una missione, che fosse stato nuovamente Zell a chiamarla ed a farla precipitare in quell'atrio, esattamente come era successo con Squall.

Squall, Squall, Squall.

Seriamente, come poteva fare una scaletta?

“Buongiorno” salutò, appoggiandosi al bancone della reception. “Avete ricoverato un certo Seifer Almasy?”. L'uomo dietro il bancone digitò il nome sul terminale ed annuì dopo qualche secondo.

“Sì; è in sala gessi in questo momento” disse. Le indicò il corridoio dietro di lui. “Secondo piano a destra”. Rinoa ringraziò e si avviò verso l'ascensore con passo spedito. Arrivò al secondo piano e si avviò velocemente verso il reparto gessi, mancando di udire i passi dietro l'angolo accompagnati da un ritmico tonfo secco, come di un bastone.

L'urto la colse di sorpresa ma barcollò solamente, riuscendo in qualche modo ad aggrapparsi ad una fila di sedie lì accanto. Il povero malcapitato non fu altrettanto fortunato: stramazzò a terra con uno stupito verso strozzato; il bastone che volò qualche metro più in là la informò che aveva appena atterrato uno zoppo ed il camice bianco precisò che la sua vittima era un DOTTORE zoppo.

“Oh santo Hyne!” esclamò. “Mi dispiace! Scusi! Si è fatto male?”. Preda dall'adrenalina, si volse e raccolse il bastone, poi si sporse verso la figura per cercare di fare qualcosa e tutto quello che seppe fare fu immobilizzarsi.

Rinoa in quel momento non avrebbe saputo dare un nome a ciò che sentiva, anzi non avrebbe nemmeno saputo spiegarlo. Si riempì gli occhi con quei folti capelli castani, quei lineamenti marcati ma gradevoli, quegli occhi grigi che la guardavano con curiosità mista ad una piccola, impercettibile punta di rimprovero.

“No, tutto bene signorina” disse. “Lei?”. C’era anche la voce, bassa e penetrante come la ricordava, ma condita da un senso di quiete e di tranquillità che era del tutto nuova da lui, ma che già sapeva che avrebbe popolato i suoi pensieri per molto, molto tempo. Boccheggiò, senza riuscire a muovere un muscolo; si accorse di non avere forze sentendo il bastone, fino a qualche istante prima stretto nella mano, piombare nuovamente al suolo con un tonfo secco. Impallidì e si sentì mancare, mentre la sua testa cominciò a vociare, come e fosse al centro di una piazza piena di gente.

Squall. Quello è Squall! Oddio. Squall! Cosa? Lei? Mi ha dato del lei? Porco Ifrit, ho atterrato Squall! Squall.

Il ragazzo la guardò con più attenzione, poi si sporse in avanti per come la posizione gli consentiva.

“Signorina! Si sente bene?” chiese, leggermente allarmato. Allungò rapidamente la mano verso il bastone e si mise in piedi; in un attimo fu accanto a lei.

“Tu...io...non...” biascicò. Le passò un braccio dietro la schiena, guidandola verso le sedie dietro di lei: il suo tocco le fece girare la testa ancor più velocemente.

“Si sieda” invitò il ragazzo, chiamando subito dopo un'infermiera di passaggio. “Serve un bicchiere d'acqua qui”.

Riuscì a non svenire per un motivo sconosciuto. Rinoa trangugiò l'acqua coltivando il sordo desiderio di qualcosa di molto più forte; sfidò la sorte ed alzò uno sguardo tentennante verso il dottore. Quegli occhi grigi non la lasciavano, guardinghi ed attenti, mentre la delicata pressione della sua mano sulla spalla era ciò che la teneva ancorata in quello che non esitò a definire il più bel sogno della sua vita. Gli occhi attenti si fecero sospettosi e la scrutarono per qualche secondo, prima di allargarsi con una luce di comprensione.

“Ma lei è Lenore!(*)” esclamò.

“Cosa...?” mormorò lei, persa: lei era Rinoa ma se lui voleva chiamarla così andava bene, purché non lasciasse la sua spalla. Il dottore annuì.

“Ma sì! La scrittrice!” puntualizzò lui. “Mia sorella va matta per i suoi libri!”. La felicità la prese come l'alta marea, un'onda anomala. La prima lacrima le tracciò un solco e scoppiò a piangere senza ritegno; non si controllò e premette la testa contro la pancia di Squall, quantomeno stupito dalla reazione. Il vociare nella sua testa aveva cambiato registro, ma era ancora assordante.

Squall. Mi da del lei. Sua sorella. Scrittrice: ti conosce come scrittrice. L'hai trovato, ma non si ricorda di te. L'hai trovato.

Sentire le sue mani contro le spalle non limitò quella felicità con uno strano sapore agrodolce, che non le permetteva di riprendere il controllo: il tocco era incerto, il suo odore rimandava alle corsie ospedaliere in cui

era rinato

aveva vissuto e gli inviti a calmarsi erano lontani e distaccati, esattamente come il dottore che, tanti anni prima, l'aveva consolata dopo averle spiegato che sua madre si era addormentata ma non si sarebbe più svegliata. Ma era Squall, il suo Squall, e quella era una consapevolezza in cui la sua mente si sarebbe persa per ancora qualche secondo, prima di ricordarle che non lo era più.

 
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Leonhard guardava la figura premuta contro di lui, in lacrime; era sicuro di non averla mai incontrata, ma in qualche modo percepiva una strana sensazione: si sentiva incredibilmente felice, come se avesse ritrovato una persona cara da tempo perduta.

Si divise da lei e si appoggiò al bastone, a disagio: lo sguardo che la giovane donna gli rivolgeva racchiudeva il panico disperato. Sentendo che era la cosa giusta da fare si sedette sulla sedia accanto, si volse a guardarla asciugarsi gli occhi con un sorrisetto imbarazzato.

“Mi deve scusare dottore” mormorò con voce rotta. “Non…non so veramente cosa mi sia preso”.

“Un po’ di stanchezza?” azzardò cauto, interrogandosi su quella strana empatia che non riusciva a sopprimere. Lei annuì. “Beh, capita anche ai migliori di crollare: non si preoccupi signorina Lenore”.

“Rinoa” disse lei. “Mi chiamo Rinoa Heartilly”.

“Leonhard Loire” si presentò lui.

Parlarono. E null’altro. Rinoa non si soffermò a riflettere che lui stava conoscendo una persona che lo amava e che aveva amato: lo scoprì come dottore presso l’ospedale di Deling City e fu quando lo guardò zoppicare via, richiamato all’ordine dal cercapersone che prese la sua decisione. Passò a trovare Seifer ed il sorriso sul suo volto disteso informò i SeeD di quello che era successo. Da parte loro ci fu solo solidarietà e sorrisi complici, che le diedero tacitamente un permesso di cui lei non aveva bisogno.

Lo aveva sentito. Il loro legame esisteva ed era saldo; la Strega ed il Cavaliere erano figure che l’oblio donato dai GF non era riuscito a cancellare e lei non avrebbe mai permesso che una cosa del genere capitasse.



Un mese dopo guardò l’orologio del suo appartamento appena messo a nuovo, nella zona residenziale di Deling City e capì che era giunto il momento. Si fece una doccia e si pettinò accuratamente, prima di prendere la teglia sul piano cottura ed uscire. Attraversò la strada e quando fu su quella soglia si fermò, prese un bel respiro e suonò il campanello.

Per qualche secondo spaziò, perdendosi in quelle iridi grigie che la guardavano meravigliate attraverso la folta chioma castana, poi il suono della sua voce la riscosse. Squall, anzi il dottor Leonhard Loire, era sorretto dal suo bastone, indossava una camicia turchina ed un paio di jeans; dall’interno della casa si spandeva un delizioso profumo di soffritto.

“Salve…” salutò, con un sorriso smarrito. La ragazza sentì il trasporto di molti anni prima e fu con uno sforzo non indifferente che riuscì a non salutarlo con un bacio. Invece sorrise il suo miglior sorriso.

“Buonasera Leonhard” disse, porgendogli la teglia coperta da un foglio di alluminio. “Mi sono appena trasferita nell’appartamento dall’altra parte della strada e ci tenevo a conoscere i miei vicini”. Il ragazzo prese il piatto con un’espressione a metà tra il divertito e l’incuriosito.

“Sapevo che funzionava al contrario” osservò. “Non dovrei essere io a farle visita?”.

“Sì…però sono una che canta fuori dal coro” rise lei, con l’argento vivo addosso. Il ragazzo scartò la teglia e studiò il contenuto.

“Crostata di mirtilli” constatò. “La mia preferita! Grazie”. Il suo sorriso si fece più ampio, la sua felicità più immensa. Rimasero sulla soglia per qualche secondo, in silenzio, cercando non le parole ma il coraggio di dirle.

“Beh…io adesso vado” disse lei, agitando timidamente la mano. Fece tre passi e si sentì chiamare.

“Senti…Rinoa” chiamò Leonhard. Con il cuore a mille si volse verso di lui. “Mi stavo per mettere a tavola…se non hai ancora mangiato, vuoi farmi compagnia?”. Il suo cervello urlò un’assordante sì, ma deglutì quella risposta repentina ed istintiva.

“Non disturbo?” chiese. Lui scosse la testa.

“Assolutamente no” rispose lui, con un sorriso. “Se ti piace la pasta…”.

“Vado matta per la pasta...”.

“E allora che aspettiamo?”. La sua risata era cristallina, gioviale e Rinoa si sarebbe impegnata a godersela per tutta la vita: lo giurò a sé stessa varcando quella soglia.

Fu qualche ora dopo che notò il suo romanzo accuratamente riposto sulla libreria. Lesse i caratteri lucidi che nominavano con quel titolo la sua storia.

La loro storia: la storia sua e quella di Squall.

Il Cuore del Leone.



(*) Per quelli che non lo sanno, Lenore è il nome che in origine era stato pensato dalla Square per Rinoa.



NOTA DELL’AUTORE:

Cari miei lettori, siamo giunti alla fine. Ho voluto rendervi partecipi del mio compleanno con questa storia, finalmente completa, che spero vi abbia divertito e che vi sia piaciuta.

A breve tornerò con una nuova fic, ma fino ad allora io vi saluto. Ringrazio tutti coloro che leggono queste righe e che magari leggeranno anche le righe future che scriverò.

Un saluto a tutti.

Leonhard

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