Nevermind

di _exodus
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 001 - Nevermind ***
Capitolo 2: *** 002 - Hayato ***
Capitolo 3: *** 003 - Tenma ***
Capitolo 4: *** 004 - Kirino & Ibuki ***
Capitolo 5: *** 005 - Kariya & Tsurugi ***
Capitolo 6: *** 006 - Takuto ***



Capitolo 1
*** 001 - Nevermind ***


Autore: _exodus;
Titolo: Nevermind;
Personaggi: Kariya Masaki; Kirino Ranmaru; Matatagi Hayato; Matsukatze Tenma; Munemasa Ibuki; Shindou Takuto; Tsurugi Kyosuke;
Categoria: triste;
Genere: angst; malinconico; triste;
Rating: arancio;
Avvertimenti: violenza;
Introduzione: | Inazuma Eleven | Nessuna coppia | Angst; Malinconico | !Violenza! | Partecipante al contest "I non-toni dell'Amore" indetto dagli Shiri Sixteen |
Ormai Kyosuke era abituato a serate del genere, ogni sera il gruppo di amici si ritrovava in quel vagone e ognuno faceva sempre le medesime azioni, come se fosse stato un rituale sacro, il loro. Quello che facevano poteva essere benissimo accomunato ad un rituale devoto all’alcol. Bevevano per dimenticare, dicevano. Tsurugi odiava quelli che giudicavano, quelli che si fermavano alle apparenze, per questo permetteva a quell'alchimia perversa di sapori e sensazioni di scorrere con il suo sapore forte, amaro e dolce allo stesso tempo, nella sua gola bruciante, per poi abbandonarsi al destino.

Eventuali note dell'autore: non so in quanti di voi conoscano il k-pop e di conseguenza i BTS, un gruppo sudcoreano. Ci terrei solo a dire che questo gruppo ha cambiato il mio modo di vedere le cose; questa fanfiction è ispirata ai loro MV.
Ringrazio chiunque leggerà, grazie mille! <3
 
_exodus

Era notte fonda a Inazuma-Cho e le vie che, solitamente, durante il giorno brulicavano di gente erano pressoché deserte. E, come se non bastasse, piccole gocce bagnate precipitavano dal cielo notturno ricoperto da nuvole grigiastre per poi andare a cadere silenziose sull'asfalto. Cadevano insistenti anche sul viso di un giovane ragazzo conosciuto come Tsurugi Kyosuke che camminava sotto la flebile luce dei lampioni, l'acqua gli carezzava dolcemente le guance per poi ricadere lungo la mascella e scorrere fino al suo collo pallido; infastidito dal brivido dovuto al contatto con l'acqua gelida alzò il cappuccio della felpa nera fin sopra i capelli bluastri, ormai bagnati anch'essi, e continuò a fissare con sguardo perso i giochi di luci creati dai lampi che apparivano nel cielo sovrastante illuminandolo.

Non gli ci volle molto tempo per arrivare alla vecchia ferrovia della città, abbandonata anni addietro dopo la costruzione di una nuova stazione più vicina al centro. Gli occhi di Kyosuke si spostarono velocemente tra quei vagoni ormai ricoperti dalla ruggine che segnava indelebilmente il tempo che scorreva inarrestabile, le labbra sottili s'incurvarono in un sorriso sghembo quando finalmente il blu riuscì a trovare un vagone rossastro sul quale si poteva appena vedere tracciato con della vernice bianca sbiadita il numero undici. Saltò agilmente tra un binario e l'altro stando attento a non poggiare male un piede su quei dannati sassi e finalmente raggiunse il vagone, bussò deciso per tre volte e afferrò la maniglia che si trovava a destra dell'ingresso al vagone facendo cigolare un poco quest'ultima.

Quando accostò il viso fu accolto dalla scena che ormai era solito a vedere ogni sera: i suoi unici amici intenti a brindare e divertirsi. Uno di questi, Kariya Masaki, si accorse della sua presenza e lo afferrò per un polso per poi gettarlo su quello che era un divano che, con molte possibilità, era stato recuperato da una discarica, ma ciò non toglieva che fosse in ottime condizioni. Tsurugi conosceva i ragazzi presenti da diversi anni, si guardò intorno alla ricerca degli unici due che mancavano all'appello, fece vagare lo sguardo per tutto l'ambiente che, in quei due anni, era diventato piuttosto accogliente grazie soprattutto a Takuto che si era preoccupato di aggiungervici una piccola televisione rialzata da un mobiletto in legno piuttosto antico, aveva persino attaccato della carta da parati e aveva aggiunto molteplici quadri facendo sembrare quell'ambiente stretto molto più grande. Poi finalmente gli occhi dorati del blu incontrarono i visi famigliari di Hayato e Ibuki, intenti a bere il contenuto di alcune bottiglie di alcolici poggiati su un tavolino adagiato sulla parete sinistra. Improvvisamente la musica s'alzò costringendo Tsurugi a voltare lo sguardo verso il giradischi alla ricerca del cretino che aveva alzato così tanto il volume e non si meravigliò più di tanto quando vide Tenma intento a maneggiare con il regolatore del volume.

« Tenma, vuoi farci diventare tutti sordi? » gridò al castano che stava dall’altra parte della stanza, cercando di sembrare almeno arrabbiato. Potè constatare, però, che Matsukatze aveva già bevuto un gran numero di alcolici quando un « Dai, KyoKyo, non rompere… e pensa a- a divertirti… » gli arrivò sconnesso alle orecchie, ovattato dalla musica fin troppo alta.

Ormai Kyosuke era abituato a serate del genere, ogni sera il gruppo di amici si ritrovava in quel vagone e ognuno faceva sempre le medesime azioni, come se fosse stato un rituale sacro, il loro. Quello che facevano poteva essere benissimo accomunato ad un rituale devoto all’alcol. Bevevano per dimenticare, dicevano. Per dimenticarsi del tempo che continuava a scorrere senza sosta, delle loro vite senza senso e prive di utilità, perché secondo la società loro erano solo teppisti. Tsurugi odiava quelli che giudicavano, quelli che si fermavano alle apparenze, per questo permetteva a quell’alchimia perversa di sapori e sensazioni di scorrere con il suo sapore forte, amaro e dolce allo stesso tempo nella sua gola bruciante per poi abbandonarsi al destino.
In quel momento vide Hayato e Masaki sbattere il povero Ranmaru contro una parete, privarlo del giubbotto in jeans lasciandogli solo la maglietta bianca stropicciata, che venne imbrattata di vernice da Hayato che vi tracciò sopra una “x” con una bomboletta di vernice estratta dal borsone che si portava sempre dietro. Hayato era un tipo piuttosto chiuso, con molti problemi con la famiglia e con la grande passione per i graffiti, ma i suoi non erano semplici linee disegnate senza un vero senso, la sua era arte.

Nel loro gruppo ognuno aveva un problema di cui tutti erano a conoscenza: depressione, autolesionismo, droga, cattive conoscenze… Tutti tranne Takuto, lui di problemi sembrava non averne, ed era proprio lui a tenere il gruppo in piedi, nonostante avesse un carattere debole con il tempo questo aveva iniziato ad essere sempre più determinato e il ragazzo dai capelli del medesimo colore del cioccolato era diventato la Stella Polare del gruppo.

Quello era un periodo particolarmente difficile per Hayato: la scuola era uno schifo come sempre, aveva problemi con la fidanzata che per lo più se ne approfittava di lui e del suo portafogli pressoché vuoto per poi andare a fare la troia in ogni tipo di locale durante la notte, era arrivato a tentativi di suicidio diverse volte, ma non aveva mai avuto il coraggio di spingersi oltre e morire.
Stava camminando silenziosamente per le vie affollate di Inazuma-Cho, con le mani in tasca e la testa altrove mentre veniva spintonato da alcune persone, quando venne riportato alla realtà dal telefono che vibrò nella tasca posteriore dei jeans logori.
« Che c’è, mamma? »
All’udire il tono preoccupato della donna dall’altra parte del telefono iniziò a spaventarsi, pensando che potesse esserle accaduto ancora qualcosa.
« Hayato… tuo padre… è-è stato s-scagiona-to. »
Terminò la frase a fatica e Hayato si bloccò immediatamente appena quella fase gli arrivò alle orecchie, facendo anche in modo che alcuni passanti se la prendessero malamente con lui per avergli bloccato la strada. Non disse niente, si limitò a sbattere il telefono in faccia alla donna.
Il padre, uno dei criminali dei quali i telegiornali hanno parlato spesso, era stato scagionato dopo aver scontato la pena di quattordici anni che gli era stata data quando il ragazzo era solo un dolce bambino di quattro anni ignaro della pericolosità e della corruzione del mondo. Crebbe in fretta, però.
Con il padre in carcere e la madre che lavorava in un piccolo bar frequentato da brutta gente i soldi non erano molti e soprattutto non sufficienti per mantenere l’intera famiglia. Ma ciò che davvero preoccupava il ragazzo erano i frequentatori abituali del bar che, quando ne avevano l’occasione, non si facevano problemi a toccare la madre di Hayato. All’inizio la donna non diceva nulla, fu lui a venire a scoprire tutto e una volta finì anche a menare uno di quei tizi fuori dal bar dove lavorava la madre, guadagnandosi solamente molteplici pugni sul viso.
I rapporti tra il diciottenne e il padre non erano mai stati dei migliori e il giovane non era neanche interessato a creare un legame padre-figlio con l’uomo.

Si passò una mano tra la folta chioma, nervoso. Era terrorizzato dall’idea del ritorno del padre.
 

Parole: 1.190

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Capitolo 2
*** 002 - Hayato ***


 

Si erano fatte le otto di sera quando Hayato varcò la soglia di casa ritrovandosi così nell'ampio corridoio di casa. Una sentinella scattò nella sua testa quando udì delle urla provenienti dal salotto, non ci mise molto a capire che quella a implorare pietà e a gridare aiuto era la madre.

La causa gli fu subito più chiara quando sentì delle urla maschili sovrastare quelle della donna e subito il giovane riconobbe la voce profonda e graffiante del padre che continuava a minacciare la moglie. Hayato non si diede il tempo di pensarci su due volte e, seguendo l’istinto, percorse a grandi falcate i pochi metri che lo separavano il salotto, raggiungendolo. La scena che si ritrovò davanti gli fece gelare il sangue nelle vene: la madre a terra, con il viso arrossato dal pianto e tumefatto per le botte, con segni violaceo-bluastri qua e là sulla pelle che era stata usata come una tela vergine che aspettava solamente il momento di essere dipinta, il padre stava davanti alla donna, con uno sguardo minaccioso e i capillari degli occhi rossastri.
Forse per l’alcol che ancora scorreva nel suo corpo, forse per un attimo di follia, forse perché lui era una persona impulsiva che non amava ragionare, fatto sta che entrò nella stanza senza farsi né vedere né sentire dai due e afferrò una bottiglia di birra –svuotata dal padre, ipotizzò Hayato- appoggiata sul tavolino accanto alla porta e con un’espressione di puro odio si scaraventò contro l’uomo spaccandogli il vetro verdastro in testa procurandogli alcuni tagli sulla fronte e tra i capelli del medesimo colore del carbone che probabilmente non lavava da mesi, se non addirittura anni.
Sentì la madre cacciare un urlo quando l’uomo si lanciò contro il diciottenne afferrandolo per la maglietta, si guardarono intensamente senza mai permettere ai loro sguardi li lasciarsi un secondo poi il più anziano iniziò a far incassare pugni sugli zigomi e nello stomaco ad Hayato che si piegò in due respirando affannosamente. Cadde rovinosamente a terra.
« E’ tutto quello che sai fare, piccola merda? Sei come tua madre, da me non hai preso un bel niente. »
In quel preciso istante la rabbia s’impossessò del ragazzo che stringendo i rimasugli del collo della bottiglia verdastra, fece leva sulle braccia e sulle gambe alzandosi lentamente senza mai staccare lo sguardo dal padre per poi lanciarsi sull’uomo conficcandogli il vetro appuntito nello stomaco, preso dalla situazione. Lo fece una, due, tre volte… Quelli che dapprima erano solo rivoli iniziarono a diventare veri e propri fiumi di sangue e macchiarono la maglia bianca che indossava il padre di Hayato che in quel momento giaceva al suolo, ormai privo di vita.
Sentì una strana sensazione all’altezza dello stomaco, non dovuta al pugno ben assestato di prima ma conseguenza della consapevolezza di aver ucciso qualcuno. Si sentiva un mostro al percepire il sangue ancora caldo scorrere dalle mani tremanti fino agli avambracci, a vedere lo sguardo terrorizzato della madre che forse non l’avrebbe più voluto come figlio, chi voleva come figlio un assassino? Aveva ucciso il padre che era un maniaco, un pericolo per i fratelli, la madre e sé stesso, ma aveva comunque ucciso una persona e quello nessuno glielo avrebbe mai perdonato.
Terrorizzato si inchinò velocemente alla madre farfugliando parole alla rinfusa per poi scappare dall’abitazione, non curandosi nemmeno di chiudere la porta d’ingresso. Andò a rifugiarsi nella vecchia scuola elementare della città che distava poco dalla casa dove era cresciuto, si nascose tra i muretti quasi ceduti del tutto e iniziò a piangere coprendosi il volto con le mani sporche di sangue che or scorreva liberamente sulle sue guance, spinto dalle calde lacrime per poi arrivare alle sue labbra sottili incurvate in un sorriso amareggiato facendo assaporare al giovane il gusto ferroso del sangue misto a quello salato delle lacrime, un sapore perverso che gli scorreva in tutto il corpo. Smarrito, afferrò il cellulare e compose in fretta il numero dell’unica persona di cui voleva sentire la voce melodiosa in quel momento e, per sua fortuna, la risposta arrivò immediata.
« Pronto? »
Rispose una voce allegra, ignara di tutto il dolore e delle lacrime versate da Hayato in quel momento.
« Ta-Takuto… »
« Hayato! Cosa cazzo è successo?! »
« Mio padre… »
Takuto raggelò a sentire le parole di Hayato: suo padre lo conosceva bene e sapeva che non era un uomo di cui fidarsi. Stette in silenzio, in una muta richiesta di proseguire.
« Ho ucciso mio padre. »
Il moro, che stava dall’altra parte, non poteva credere alle sue parole.
Hayato proseguì.
« Non ho potuto fare altro… stava ancora maltrattando mia madre, non potevo accettare che lo stesse facendo di nuovo, quel bastardo. Così ho afferrato una bottiglia, gliel’ho spaccata in testa, lui ha iniziato a difendersi facendomi cadere… sono riuscito ad alzarmi e con i rimasugli della bottiglia l’ho ucciso colpendolo allo stomaco. »
L’ultima frase di Matatagi fu flebile, quasi impercettibile e risuonò come una supplica.
« Takuto, aiutami… aiutami… aiutami… »
Hayato ripeteva la stessa frase, tra i singhiozzi, come una cantilena.
« Non ti preoccupare, troveremo il modo di superare anche questo, Hayato. »

 

Erano passate ormai due settimane dalla morte del padre di Hayato, la madre del ragazzo era riuscita a trovare il coraggio di chiamare la polizia, ma non volendo accusare il figlio fece passare il tutto come un suicidio: l’uomo doveva una grossa somma di denaro ad un altro gruppo di criminali che circolava per la città e, non avendo abbastanza soldi, si tolse la vita conficcandosi una bottiglia rotta nello stomaco.

Era una dinamica piuttosto strana ma i poliziotti vi credettero lo stesso.
Hayato non era finito nei guai, ma il pensiero di aver ucciso il padre lo perseguitava ogni notte, era diventato il suo incubo notturno e ogni volta si svegliava sudato, con rivoli di sudore che gli colavano lungo le tempie e con il cuore che batteva imperterrito nella cassa toracica minacciando di uscirvici.
Aveva pensato diverse volte di togliersi la vita, per punirsi di tutto ma mai aveva davvero preso la pistola puntandosela alle tempie, mai si era conficcato un coltello all’altezza del cuore, ma forse quel giorno avrebbe davvero posto fine alla sua esistenza.
Takuto, l’unico ad avere una patente e un’auto che per lo più era un camioncino, aveva deciso di portare il gruppo al molo. Durante il tragitto Kirino e Kariya, seduti sui sedili posteriori, si erano addormentati, così toccò ad Ibuki sottrarli dalle braccia di Morfeo una volta giunti a destinazione.
Erano circa le cinque del pomeriggio ed il cielo era tinto di arancio e di ogni sua sfumatura, senza nuvole che ne coprissero la bellezza; il mare sembrava voler inghiottire il sole che pian piano andava scomparendo.
Poi Hayato adocchiò l’enorme impalcatura in legno che s’innalzava di circa una trentina di metri, salirvici sarebbe stato stupendo, pensò mentre si alzava.
Si mise il cappuccio della felpa grigia sopra la testa e dopo aver lanciato uno sguardo al gruppo di amici, troppo impegnati ad ammirare i gabbiani danzare leggiadri sul filo dell’acqua per notarlo, iniziò ad arrampicarsi cercando appigli resistenti con le possenti braccia.
Il gruppo rimasto seduto sulla scogliera si accorse di lui solo quando fu arrivato alla fine della sua folle scalata, quando stava godendo della vista mozzafiato che gli veniva concessa, facendosi cullare dal vento che increspava la sua felpa di diverse taglie più grande.
Vide Takuto spostare, curioso, la sua inseparabile videocamera su di lui –con cui documentava qualunque loro follia- e sorrise amaramente: il castano non era consapevole che quella sarebbe stata la sua ultima follia. Sorrise amaramente lanciando un ultimo sguardo agli amici.
Osservò per un tempo che parve interminabile le onde infrangersi sulla scogliera, scrosciando e poi piegò in avanti il ginocchio della gamba sinistra, quella destra dietro pronta a scattare.
Corse velocemente quei pochi metri e saltò più in alto che poteva liberandosi in aria, in quel cielo rossastro. Agitò le braccia cercando di stare in equilibrio e poi chiuse di scatto gli occhi quando cadde nell’acqua gelida producendo un tonfo, facendo schizzare piccole gocce di acqua salata.
Takuto si alzò di scatto e assistette alla scena impotente, come il resto della compagnia. Erano sconcertati.

 

 

Parole: 1.371

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Capitolo 3
*** 003 - Tenma ***


 

Itentativi dei ragazzi di salvare Hayato erano stati tutti privi di utilità, la vita del ragazzo era scivolata via, lenta e straziante, come le lacrime salate che scorrevano silenziose lungo le guance, facendole bruciare.
Il più scosso di tutti, probabilmente era Tenma, per diversi giorni non toccò cibo, solo alcune volte Takuto riuscì a convincerlo a mangiare qualcosa che non era mai al di fuori di un paio di bocconi di pane. Ciò che Tenma ingeriva in maggiori quantità erano gli alcolici, ne beveva ogni sera sempre di più.
Il castano condivideva un piccolo appartamento che dall’esterno risultava più che altro ad una catapecchia, ma l’interno era piuttosto accogliente. Quella sera era steso sul letto, intento a fissare il soffitto sul quale Ranmaru aveva dipinto tempo fa una perfetta rappresentazione del Sistema Solare, lo sguardo perso tra le nebulose e le comete, mentre la sua mente, a differenza dei suoi occhi grigiastri, era persa in un immenso buco nero eterno. In quel momento sentì dei pugni possenti battere sul legno della porta, producendo delle vibrazioni all’interno di quest’ultimo; poco dopo la familiare chioma ondulata di Takuto fece capolino da un piccolo spiraglio che si era creato aprendo la porta, facendo però filtrare anche la luce proveniente dall’altra stanza e facendo inevitabilmente strizzare gli occhi a Tenma, abituati alla flebile luce proveniente dalla piccola finestra, sulla parete destra.
« Tenma, oggi ci vediamo alla ferrovia, vieni con noi? »
Il castano voltò il capo verso destra, per fissare il cielo tinto di ogni sfumatura di rosso, fino all’arancione. Ormai odiava quel colore con tutto il suo cuore che, da quel giorno marchiato a fuoco nei pensieri del giovane, era diventato freddo come i ghiacci più eterni. Si era spento come una candela fa quando tutta la cera è colata via, sciogliendosi sul suolo, Tenma si era lentamente spento, e con lui tutta la sua vitalità.
« No, resto a casa. »
Rispose atono, senza degnare il coinquilino di uno sguardo. L’orecchio non posato sul cuscino poté udire un sospiro e la porta chiudersi lentamente, poi sentì il rumore metallico di un paio di chiavi, si era fato più distante e ancor più lo era il cigolio della porta d’ingresso che si chiudeva.
Il tempo passò velocemente, silenzioso, impercettibile per Tenma che quando voltò il capo verso la piccola sveglia elettronica notò che si erano fatte le dieci, il sole era scomparso del tutto portandosi con sé il cielo rossastro che ora era coperto da un blu intenso che oscurava le vie che, nonostante l’orario di punta, non erano affollate in quella zona, conosciuta per essere uno dei luoghi più malfamati dell’intera cittadina; solo la luce di una luna tradita dalle stelle che, quella sera erano, sparite rischiarava di poco i vicoli, aiutata dalla luce dei pochi lampioni posizionati sui marciapiedi.
C’era un fatto di cui Takuto e nemmeno il resto della compagnia era a conoscenza: Tenma era diventato solito a vagare per le vie abbandonate della citta, cullato dal vento pungente che gli scompigliava i capelli castani. Un giorno aveva conosciuto un gruppo di ragazzi, dei piccoli teppisti che se ne approfittavano dei più deboli che non avevano mai il coraggio di denunciarli alla polizia, intimoriti dalla loro aria poco rassicurante. In ogni caso, anche se avessero denunciato molestie e ricatti da parte di quei ragazzi la giustizia non si sarebbe mai intromessa perché tutti quei ragazzi erano figli di facoltosi avvocati o di membri delle forze dell’ordine. Ormai si sapeva, la giustizia non era mai giustizia.
Si alzò pigramente dal letto ad una piazza, facendo increspare le lenzuola bianche sotto al suo peso, indossò un giaccone nero e si diresse in soggiorno, dove le luci erano spente. Camminò cautamente fino all’interruttore della luce, situato a pochi metri dalla porta della propria camera e dovette  strizzare un paio di volte gli occhi grigiastri per permettere a questi di abituarsi alla luce fin troppo forte per i suoi gusti.
Cercò le chiavi di scorta che Shindou lasciava sempre in una scatola in alluminio dove una volta vi erano i suoi biscotti preferiti, una volta trovata la chiave giusta la infilò nella toppa e dopo tre mandate la porta si aprì emettendo il solito scricchiolio che a volte era per lo più paragonabile ad un flebile lamento.
Quando superò la soglia il suo viso venne investito dall’aria gelida che gli fece percorrere un brivido lungo tutta la spina dorsale, tirò il cappuccio sulla testa cercando di proteggersi il più possibile dal freddo e dopo essersi stretto nella giacca tirò dritto per la sua meta.
Quella sera Tenma era diretto in un locale delle città dove, si sapeva, giravano alcolici che venivano serviti anche a minorenni e droghe di ogni genere, da alcuni giorni erano diventati i luoghi più frequentati dal castano.
Si sapeva anche che nemmeno il tragitto verso quei locali era sicuro, per quelle vie giravano ragazzi che avevano il solo intento di approfittarsi di ragazze, ragazzi e persino anziani, non solo per prendere dei soldi, la stragrande parte delle volte lo facevano solo per divertimento, picchiando, pestando e minacciando, anche gli stupri in quelle strade erano all’ordine del giorno. Era come era ovvio che andasse in una nazione, se non in un mondo, dove sono sempre e solo i più forti e potenti a comandare e a non venire mai fermati dallo Stato per il semplice motivo che il mondo giri attorno a soldi e dove governano persone disposte a mettere persino a repentaglio e rendere impossibile la vita di altre persone pur di arricchirsi. Matatagi lo aveva sempre detto a Tenma, persone come loro avrebbero meritato di bruciare nel fuoco eterno dell’Inferno, spingendo macigni fino alla fine dei tempi.
In quel momento il castano stava camminando con lo sguardo fisso sull’asfalto tempestato da buche, perso in un buco nero di pensieri. Non si accorse di due ragazzi che camminavano nella direzione opposta alla sua e ci finì inevitabilmente addosso, urtando con le spalle prima uno, poi l’altro. Dovevano essere più grandi di lui solo di alcuni anni, se non essere suoi coetanei.
Uno di questi, il più alto e possente lo afferrò per la spalla, facendolo voltare e sbattere contro il muro in mattoni rivestito da graffiti che Tenma non si perse a guardare, troppo impegnato a fissare terrorizzato il ragazzo che si trovava davanti e che lo teneva stretto per la gola, osservandolo con fare superiore. Presto anche l’altro li raggiunse scrocchiandosi le dita.
« Come hai osato venirci addosso? »
Urlò quello che lo teneva pressato contro il muro, con sguardo assassino, i piccoli capillari del bulbo oculare che sembravano minacciare di scoppiare.
« I-io... »
Le parole gli rimasero bloccate in gola.
« Sarà il solito frocietto indifeso che va in qualche locale gay… »
Disse l’altro sprezzante.
« Lascialo stare, non avrà niente. »
Avevano ragione, l’unica cosa che era rimasta a Tenma era la dignità, ma i due ragazzi gli tolsero anche quella quando iniziarono a colpirlo ripetutamente, prima nello stomaco e sulle costole, facendogli emettere gemiti disumani, disperati, strozzati dal dolore accecante. Poi, insoddisfatti, iniziarono anche a lasciare segni violacei sulla pelle morbida del castano, sporcandola anche del sangue che aveva iniziato a scendere dal naso dopo un colpo ben assestato sul setto nasale che, probabilmente, si era anche rotto. I pugni che un  Tenma indifeso incassava erano sempre più potenti e dolorosi. Quando ormai tutto il corpo del ragazzo dai capelli grigiastri era stato colpito i due pestatori se ne andarono, lasciando Tenma accasciato sul freddo asfalto. Iniziò a singhiozzare, calde lacrime corsero veloci lungo le sue guance, cadendo poi sull’asfalto. Era un pianto silenzioso, il suo.
Passarono minuti, se non ore, prima che il castano, rassegnato, decidesse di rincasare, per lo meno di provarci. Riuscì a rialzarsi solamente dopo diversi tentativi falliti, le gambe tremavano per il freddo e la paura, erano instabili. Iniziò a camminare con passi strascicati, la testa gli pulsava dolorante, ma si sforzò di arrivare per lo meno alle strisce pedonali che iniziò ad attraversare.
Mancava poco per arrivare all’altro lato della strada, ma in quel momento un furgone nero passò oltre le strisce pedonali, ignorando il ragazzo che era in mezzo alla strada e investendolo in pieno.
Tenma cadde per terra per la seconda volta, l’unica cosa che i suoi occhi riuscirono a scorgere fu la targa di un furgone nero che proseguiva, andando per la sua strada come se nulla fosse.
 
« 49-49* »
 
Recitava la targa.
Poi i suoi occhi si fecero più pesanti e non si aprirono più, il corpo del ragazzo giaceva in mezzo alla strada, tutte le auto schivavano il corpo privo di vita del ragazzo dai capelli castani colorati di rosso dal sangue vermiglio ormai freddo che formava una pozza proprio sotto la sua testa. Freddo come i cuori delle persone.
 
 
Parole: 1.497
 
 

* In Giappone è possibile scegliere il numero da mettere sulla propria targa e ogni combinazione ha un significato, in questo caso “49-49” sta per “Morire soffrendo”

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Capitolo 4
*** 004 - Kirino & Ibuki ***


 
Kirino Ranmaru era sempre stato un ragazzo piuttosto problematico, non osava mai aprirsi agli altri, se non alle uniche persone a lui care, due delle quali se ne erano andate nel giro di poche settimane.
Il ragazzo dai capelli del medesimo colore delle fragole soffriva di depressione da molto tempo ormai, ogni mattina prendeva degli psicofarmaci che lo aiutavano almeno in parte. Il medico gli aveva prescritto un numero massimo di due pillole al giorno, ma dopo la morte di Hayato queste diventarono tre, con lo scorrere dei giorni quattro, poi cinque; quando morì Tenma divennero sei e nel giro di una settimana divennero circa una decina. Il corpo già macilento assunse un’aria ancora più malsana, grosse occhiaie violacee comparvero sotto gli occhi cerulei di Kirino, ormai spenti da tutta quell’oppressione. Ranmaru era molto affezionato a Takuto, il quale gli continuava a dire che un giorno, prima o poi, anche loro la felicità l’avrebbero trovata, un giorno anche loro avrebbero visto la luce alla fine del tunnel. Con il passare del tempo si convinse dell’esatto contrario e dopo le due pertite subite quell’ideale di “felicità” si era ormai fatto ancora più irraggiungibile.
Era domenica, esattamente le undici del mattino. Ranmaru si alzò molto lentamente dal letto, con un’aria completamente svogliata. Si avvicinò allo specchio del bagno della propria stanza e si osservò nel suo riflesso: si faceva schifo da solo. La pelle cadaverica, in contrasto con le profonde borse ancora più marcate da un colore bluastro misto a del viola, gli occhi, più grigi che azzurri, erano arrossati per via del sonno e delle ore passate a piangere silenziosamente. Iniziò a far scorrere l’acqua del lavandino, si piegò poggiando gli avambracci e con le mani a scodella si portò il liquido gelido al fiso. Si fissò un’altra volta nello specchio mentre piccole goccioline gli colavano lungo gli zigomi, arrivando poi al mento, i capelli ormai bagnati appiccicati alla fronte.
Aprì il piccolo armadietto nascosto dietro lo specchio e prese la scatola dove teneva gli antidepressivi, non stette nemmeno a contare quante ne prese, si versò tutto il contenuto sulla mano facendo anche cadere alcune pillole nell’acqua. Ingerì tutto senza pensarci due volte. Quel giorno voleva andare a fare un giro, non gli importava dove, voleva solo uscire da quella casa nella quale la luce del sole non entrava da molto tempo. Indossò una maglia bianca, il primo paio di pantaloni che riuscì a pescare nel caos totale che si nascondeva nell’armadio e per coprirsi indossò una felpa grigia.
Ibuki, invece, sembrava aver trovato la felicità, o per lo meno quella che sembrava felicità. Aveva conosciuto una ragazza, era fin troppo carina per ritrovarsi nella zona che era soprannominata “Il Ghetto” a causa della sua fama per la gente che vi girava. Il ragazzo dalla pelle olivastra conosceva benissimo quella zona, quasi come le proprie tasche. Sapeva che vi si potevano trovare prostitute in ogni dove, eppure i capelli rosati, del medesimo colore dei fiori di ciliegio, i dolci occhi azzurri e la pelle nivea le davano quasi un’aria angelica. Sembrava impaurita quella notte che la vide. Passarono le settimane e lui s’innamorò follemente cadendo nella ragnatela dalla quale sarebbe difficilmente uscito. Sakura, così si chiamava la giovane, all’apparenza era una ragazza dolce e disponibile, ma tutto cambiò nel giro di poco tempo, lei iniziò a diventare una ragazza alla quale interessavano solo gli averi di Munemasa, non l’amore accecante che provava per lei.
I due si trovavano in un motel, avevano appena passato una notte di fuoco insieme, Ibuki era convinto di essere riuscito finalmente a raggiungere la felicità, quella di cui Takuto tanto parlava. Eppure il castano gli aveva detto che la felicità era eterna, allora perché si svegliò verso le cinque del mattino, con solo il sole che, timido, faceva capolino e un forte profumo di Chanel. Nessuna traccia di Sakura. Se ne era andata, lasciando solo il ragazzo dai capelli biancastri, solo con un grande vuoto.Fece passare la mano sulle lenzuola piegate dal corpo perfetto della ragazza. Sospirò.
Cosa non andava in lui? Perché lei se ne era andata? Aveva davvero approfittato di lui per tutto quel tempo? Per il giovane era una cosa inconcepibile, lui si era davvero innamorato di quella ragazza. Si buttò a peso morto sul materasso ed estrasse dalla tasca l’accendino che portava sempre con sé per poi iniziare a giocare con la piccola fiamma.
 

Ranmaru non sapeva dove si trovava esattamente, ormai camminava sotto il sole e senza sosta da diversi minuti, in quel momento l’unica cosa di cui era a conoscenza era il forte dolore al cranio che lo costringeva a fermarsi di tanto in tanto. Poi si bloccò in mezzo al marciapiede, le forze iniziarono ad abbandonarlo, le gambe a cedere sembrando fatte di gelatina, avvertì un forte capogiro e cadde per terra gemendo.
Ibuki stringeva in mano una piccola tanica contenente della benzina, non sapeva esattamente da dove provenisse, l’aveva trovata nascosta sotto la scrivania malandata che era stata messa nella stanza per cercare di far sembrare quella piccola topaia una stanza per lo meno decente. Aprì il tappo del contenitore in plastica e ne svuotò il contenuto sulle lenzuola, spargendone un po’ anche sul pavimento. Riafferrò l’accendino in metallo, osservò la fiammella scottante muoversi instabile e poi lo buttò fra le coperte appiccando il fuoco nel quale aveva deciso che sarebbe morto.
 

 

Parole: 895

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Per chiunque se lo fosse chiesto, per farvi un'idea in più della fanfiction e spoilerarvi qualcosa provate a guardare questo video.

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Capitolo 5
*** 005 - Kariya & Tsurugi ***


 
Kariya Masaki era una persona piuttosto confusionaria, non poteva mai fare affidamento su certezze a causa della sua mente fin troppo sotto sopra. L'unica cosa di cui forse era certo era il fatto di essere gay fino al midollo, continuamente sfottuto e ricattato.
​La notizia della sua omosessualità si era sparsa velocemente, il turchese a volte si stupiva di quanto gli abitanti di Inazuma-Cho fossero simili a delle nonnette assetate di gossip. Eppure non se ne era mai preoccupato.
Non aveva dei genitori omofobi ai quali doveva tenere eternamente nascosto quel segreto, anzi, lui i genitori proprio non ce li aveva.
Non aveva da temere di alcun bullo, era lui il primo a bullizzare i più deboli.
​Eppure, dopo diverse settimane, per il giovane divenne praticamente impossibile riuscire a vivere come una persona normale a causa di tutte le oppressioni. Con il tempo gli insulti che gli venivano lanciati per strada si erano fatti sempre più frequenti e pesanti, a volte si era anche procurato dei lividi e dei tagli piuttosto profondi dopo essere stato pestato nei vicoli più deserti della città; eppure a lui non importava nulla di tutto ciò perchè si sentiva compreso dagli unici amici che non lo avevano mai abbandonato.
​Quella notte i tre rimasti se ne stavano attorno al fuoco, con chi aveva lo sguardo perso tra il cielo stellato e chi fissava le fiamme aranciate muoversi vivaci facendo scoppiettare di tanto in tanto la legna.
​La serata passò lenta, straziante e silenziosa.
 

Tsurugi era quello che più di tutti aveva assistito alla lenta sterminazione dei suoi amici silenziosamente, non aveva mai proferito parola a riguardo, eppure era quello che probabilmente soffriva maggiormente. Aveva cercato di rimanere impassibile, di poter apparire come un supporto, un muto aiuto, perchè lo sapeva che prima o poi Takuto sarebbe crollato sotto il peso del dolore. Quel giorno si alzò verso le sei del mattino, quando in quelle giornate il sole si mostrava timidamente rubando il posto al cielo stellato. Cercò di fare il letto il meglio possibile, non voleva arrecare troppo lavoro al castano, suo coinquilino da diversi anni. Vivevano insieme a Tenma, una volta. Takuto era stato cacciato di casa dai suoi quando aveva dichiarato loro che non avrebbe iniziato gli studi di legge, il blu era semplicemente scappato di casa. Lanciò un fugace sguardo a Takuto, poi sorrise amaramente.
​Nel giro di poco tempo si vestì e fu pronto per recarsi alla stazione di benzina dove lavorava, lo stipendio non era molto ma sommato a quello di Takuto era sufficiente per mantenere le spese dell'affitto. Prima di andarsene, però, prese un foglietto bianco dalla tasca, era stropicciato ma era ancora possibile scriverci sopra. Afferrò una biro posata sulla piccola scrivania davanti ai due letti ad una piazza ad iniziò a scrivere.
 
あなたが生き残るために持っています
D e v i   s o p r a v v i v e r e .
 
​Posò il piccolo foglio sulla scrivania e, messo il suo borsone nero in spalla, lasciò l'abitazione.
 
 
Si era ormai fatta sera, circa le nove. Kariya aveva iniziato a far scorrere l'acqua dal rubinetto della vasca, il fumo ascendeva quasi invisibile. Il turchese indossava un paio di pantaloncini neri e una canottiera di alcune taglie in più della sua, gli occhi giallastri puntati sulla vasca che pian piano si riempiva di acqua bollente. Quando la vasca fu riempita dall'acqua quasi fino all'orlo immerse una gamba, poi l'altra, il corpo iniziava a riscaldarsi. Si immerse completamente cercando di resistere al dolore lancinante che sembrava trafiggergli la pelle nivea. Poi guardò la lettera poggiata sul bordo della vasca, l'afferrò e l'aprì per rileggerla un'altra volta; l'aveva letta talmente tante volte che ne aveva perso il conto. Fece scorrere gli occhi felini sulle parole impresse su della carta color caffè, spiegazzata verso gli angoli. Poi afferrò l'accendino e avvicinò alla fiamma un angolo della lettera, facendo contorcere la carta che assumeva un colore scuro. Fece cadere le ceneri di quella lettera sul pavimento ricoperto da piastrelle bianche che presto vennero bagnate dall'acqua che traboccava dalla vasca. Il turchese sospirò, chiuse gli occhi e si lasciò scivolare lentamente immergendo completamente il capo sotto l'acqua. Kariya Masaki odiava il caldo, ma per quella volta decise di fare un'eccezione.
 
 
​Kyosuke osservava un furgone nero avvicinarsi, così iniziò a dirigersi verso il distributore pronto a servire il cliente. Quando il veicolo di fermò il conducente abbassò il finestrino rivelandosi un uomo sulla cinquantina, i capelli brizzolati. Era vestito come tutti gli uomini ricchi, assetati dal potere, quelli che fanno dei soldi un Dio da venerare ogni ora ed ogni giorno. Tsurugi odiava quelle persone e odiava il modo con cui scrutavano le persone come lui e le trattavano come se fossero dell'insignificante polvere. Anche se a malavoglia iniziò a fare il pieno, stringendo la sigaretta tra le labbra. Il proprietario della stazione di benzina gli aveva detto mille volte di non fumare durante le ore lavorative, ma per il blu era una cosa impossibile; certa gente faceva dei soldi un Dio, lui vedeva Dio nel fumo. Quando finì non fece nemmeno in tempo a finire di fare il pieno che il conducente premette l'acceleratore sfrecciando via dopo aver lanciato alcune banconote al ragazzo facendo sì che alcune gocce di benzina caddero a terra proprio ai piedi del giovane. Poi vide la targa del furgone nero: 49-49.

« Morire soffrendo... »

​Sussurrò facendo cadere a terra il mozzicone che cadde sopra la piccola pozza di benzina, si udì il suono di una forte esplosione, poi il silenzio.

 

 

Parole: 938

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Capitolo 6
*** 006 - Takuto ***


 
 
 
Takuto si buttò a peso morto sul grande letto matrimoniale dalle lenzuola bianche e iniziò a fissare le pareti immacolate, dopo la morte di Kyosuke aveva deciso di cambiare casa. Teneva da parte ormai da diversi anni i soldi che aveva preso prima di andarsene di casa, ai quali si aggiungeva, di tanto in tanto, una parte dei suoi guadagni. Riuscì a comprarsi una casa di medie dimensioni, molto più spaziosa della precedente. I vecchi propierati vi avevano lasciato anche i mobili e il castano doveva ammettere che non era affatto male. Aveva persino cambiato città, si era trasferito in un paesino distante alcuni chilometri dalla cara e vecchia Inazuma-Cho.
​Sospirò. Tutti i suoi amici lo avevano lasciato, tutti nel giro di un mese, tutti morti a causa della società.
​Hayato si era ucciso dopo aver commesso l'omicidio del padre appena stato scagionato per mancanza di prove contro l'assassinio di alcuni suoi superiori al lavoro; Tenma era stato pestato a sangue da ragazzi che nonostante le innumerevoli denunce non sono mai stati fermati perchè figli di uomini di potere, poi era stato investito; Ranmaru era morto per overdose, in mezzo alla strada, e nessuno si era degnato di chiamare la polizia, un ambulanza... ; Ibuki era morto a causa di una fidanzata la quale voleva solo i suoi soldi; Masaki era morto affogato nella sua vasca dopo aver bruciato una lettera con delle minacce da parte di un gruppo di omofobi e Kyosuke era morto in un'esplosione.
​Eppure lui si stava impegnando al massimo per continuare a vivere, come gli aveva detto Kyosuke.
​Aveva cercato di non crollare, di non scoppiare in lacrime davanti ai ragazzi per essere un punto di riferimento per tutti loro, e di certo non avrebbe mai mollato.
​Quella giornata era stata piuttosto impegnativa e la stanchezza si fece sentire in poco tempo, le palpebre divennero pesanti e il giovane si addormentò tra le braccia di Morfeo.
 
Si svegliò a causa di alcuni rumori che sentì in lontananza, ma quando aprì gli occhi non vide le familiari pareti bianche della stanza, ma bensì un limpido cielo azzurro. Si alzò reggendosi la testa pulsante con una mano e dovette strizzare gli occhi diverse volte per adattarsi alla luce del sole. Non riusciva a capire come si potesse trovare in un posto del genere, eppure sembrava tutto così reale che non poteva essere un semplice sogno…
Si alzò in piedi guardandosi intorno con aria confusa, si trovava in un enorme prato, alla sua destra vi era un piccolo bosco di betulle, alla sua sinistra una stradina sterrata, non sapendo in che direzione andare optò per quella che gli sembrò più sicura iniziando ad incamminarsi spaesato verso la piccola strada. Dopo quelli che sembrarono alcuni minuti Takuto si trovò davanti ad alcuni magazzini abbandonati, vi era anche un giardino e alcuni muri crollati in alcuni punti dove vi erano graffiti, gli ricordavano tanto quelli di Hayato…
Udì delle urla, ma non delle urla di terrore, appartenevano ad alcuni ragazzi che si stavano divertendo ridendo tutti insieme. Incuriosito decise di avvicinarsi stringendo tra le mani la sua inseparabile videocamera la quale teneva sempre in una tasca del giubbino logoro, si trovò in equilibrio su un muro a guardare in basso. Perse un battito. Pietrificato fissava quel gruppo di sei ragazzi giocare allegramente, uno di loro era poggiato ad un muro e un altro ne stava tracciando il profilo con una bomboletta di vernice. La sua mente iniziò a lavorare trovando una possibile spiegazione al fatto che quei sei ragazzi sembrassero i suoi amici ma il flusso di pensieri, ipotesi e ragionamenti venne interrotta da una voce squillante e cristallina.
« Takuto! »
Quella era senza ombra di dubbio la voce di Tenma, spostò lo sguardo in direzione della fonte della voce e vide gli inconfondibili occhi cerulei del ragazzo dai capelli castani che gli sorrideva allegramente sventolando una mano per invitarlo a raggiungerlo. Seppur impacciatamente scese con un balzo dal muro non troppo alto e corse in direzione dell’amico stringendolo tra le braccia, calde lacrime iniziarono a scendergli lungo le guance.
« Takuto… perché piangi? »
A parlare era stato Ranmaru che aveva raggiunto i due insieme agli altri.
« Voi… voi siete morti. »
Il rosato si limitò a fissarlo silenziosamente.
« Noi non siamo morti. »
 
 
Quel giorno Takuto lo passò facendo foto ai suoi amici e a divertirsi spensierato come accadeva ai vecchi tempi quando non avevano nulla di cui preoccuparsi. Lo portarono nel bosco poco distante, si arrampicarono sugli alberi e giocarono a calcio.
Takuto decise anche di portarli nel loro posto preferito.
« Ragazzi, venite con me… »
Aveva semplicemente detto ottenendo l’attenzione di tutti e sei.
Si era accorto della presenza di una spiaggia poco distante da dove si trovavano, quel posto sembrava essere stato fatto apposta per loro, un luogo dove vivere finalmente in pace.
Bastarono cinque minuti di cammino per arrivare davanti alla distesa di acqua salata che si stava tingendo di arancio, in men che non si dica tutti si privarono delle scarpe per correre lungo la sabbia che pian piano andava raffreddandosi, il castano sorrise alla visione di quella scena, sperava davvero che quello non fosse un sogno.
Giocarono rincorrendo il pallone sulla sabbia, lasciando che quest’ultima si alzasse di tanto in tanto e s’infilasse nei loro piedi solleticandoli. Esausto Takuto si sedette su uno scoglio, al fianco di Matatagi.
Lo fissò per alcuni istanti e poi iniziò a parlare.
« Ti andrebbe se ci facessimo una foto? »
« Perché no? »
Disse in tutta risposta il bruno che chiamò Tenma chiedendogli di fare una foto, nonostante il castano ci mise un po’ più del dovuto alla fine riuscì a fare ai due una foto. Il moro la guardò non appena la piccola fotocamera gli venne consegnata: lui e Matatagi sorridevano, il braccio di Hayato sulle sue spalle, gli occhi ridotti a due piccole fessure a causa del sorriso smagliante che aveva stampato in volto.
 
 
​Ben presto il sole calò e si fece ora di andare a dormire. I sette amici erano riuniti intorno al fuoco a chiacchierare animatamente quando alla fine Takuto, come accadeva alla ferrovia abbandonata di Inazuma-cho, dichiarò che si era fatta ora di dormire e, anche e a malavoglia, tutti si sistemarono come meglio poterono. Anche Takuto si strinse meglio nel giubbino verdastro per poi appoggiarsi sulle gambe di Kariya, gli occhi color caffè si chiusero subito dopo e il castano venne svegliato dal trillare insistente di una sveglia. Eppure era certo di non aver caricato sveglie dopo aver detto agli altri di andare a dormire, aprì gli occhi e si accorse di essere nel suo caldo letto.
 
Quello che aveva fatto era davvero un sogno, ma era così reale… afferrò la fotocamera posata sul comodino e fece scorrere le immagini, le foto che c’erano le aveva davvero scattate nel posto in cui il suo sogno era ambientato, ma l’unica cosa visibile era la vegetazione o i muri cadenti. Arrivò all’ultima foto sul rullino, quella che aveva scattato con Hayato, di lui non vi era l’ombra, in quel frammento di secondo imprigionato dalla fotocamera vi era solo Takuto che sorrideva spensierato.
Takuto aveva sognato tutti i suoi momenti felici passati in quegli anni con i suoi sei amici e quei momenti erano la parte più bella di tutta la sua vita. Le sue giornate non erano mai state solitarie grazie a loro… ma in quel momento cosa doveva fare?
Scese dal letto e si diresse verso la grande finestra coperta dalle due tende bianche che aprì con uno scatto deciso delle braccia permettendo alla luce del sole che splendeva alto in cielo di illuminare completamente la stanza.
Avrebbe continuato a vivere, sarebbe diventato il sole di quelli come lui, di quelli come Loro.
Sarebbe diventato la luce di tutti i giovani che non sarebbero mai diventati adulti.

 

 

Parole: 1314

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