Too frail to live, too alive to die.

di Pachiderma Anarchico
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** -Prologo- ***
Capitolo 2: *** La distanza di una porta ***
Capitolo 3: *** Impatto frontale ***
Capitolo 4: *** Non sei in gioco, non metterti in gioco ***
Capitolo 5: *** Dieci secondi ***
Capitolo 6: *** Il cielo è rosso stanotte ***
Capitolo 7: *** Questa illeggibile oscurità ***
Capitolo 8: *** Il sangue scorre veloce ***
Capitolo 9: *** Illusi ***
Capitolo 10: *** Fuoco chiama Fuoco ***
Capitolo 11: *** Come il rosso dei rubini ***
Capitolo 12: *** Certe cose non cambiano mai ***
Capitolo 13: *** Sangue e adrenalina. ***
Capitolo 14: *** Giovani e alla fine liberi ***
Capitolo 15: *** Varsavia ***
Capitolo 16: *** Uccidimi (parte I) ***
Capitolo 17: *** Uccidimi (parte II) ***
Capitolo 18: *** Remix assurdo di un'anima che si frantuma ***
Capitolo 19: *** Perso in Paradiso ***
Capitolo 20: *** Suono di non ritorno ***
Capitolo 21: *** -Epilogo- ***



Capitolo 1
*** -Prologo- ***


Eccomi qui, anche io irrimediabilmente stregata da questo film e irrimediabilmente pronta ad fantasticare su un possibile continuo di "Suicide Room". 
Se cercate una storia semplice, questa non è la vostra storia. Perché questa storia è contorta, difficile e forse anche un po' folle. Non è perfetta, non è impeccabile, non è logica. Per questo non so se piacerà, come piacerà, se forse piacerà. 
Spero solo che, qualunque cosa leggiate nelle righe da qui a seguire, sia qualcosa che vi spinga a volerne sapere di più, che tocchi dentro in un punto imprecisato del vostro essere.
Lascio il palco alle mie (tanto) difettose parole, e la mia cara Megara X mi perdonerà se non sarò alla sua altezza nel caratterizzare dei personaggi che lei ha reso troppo bene per poter anche solo pensare di osare di più, e mi perdonerà se non riuscirò a rendere il suo Aleksander magistralmente bene come lo ha reso lei.

Grazie a chi è solo di passaggio e a chi si fermerà un po' di più.

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Prologo



 

Spesso si paga un caro prezzo per essere se stessi, e si paga ancor di più per restare se stessi, contro la corrente, a dispetto della gente.
Fingere è più facile, agli occhi altrui sembra che ogni cosa sia fatta al momento giusto nell'attimo impeccabile, ogni asso nella manica è sempre pronto per essere tirato fuori quando devi ricordare chi comanda, chi è ammirato e rispettato.
Quando non si è sicuri, quando non si è certi, bisogna fingere, e col fingere finisci per crederci.
Credere alle tue stesse maschere, credere che sei davvero tu quello che occulta le emozioni, frena i desideri, finge cortesia. 
Dentro combatti.
Combatti contro chi sei davvero per evitare che si mostri sotto gli abbaglianti e insidiosi raggi del sole, combatti contro te stesso, una battaglia che non puoi vincere. 
Come uno stallone dal manto troppo bianco, troppo particolarmente candido per poter essere mostrato al mondo troppo nero, sarebbe parlato, additato, discorro, pericoloso, perché quel bianco, in un'infinità di nero, acceca. E quello stallone deve rimanere confinato nel suo perenne recinto di spasmodiche accortezze. Però, sai che è selvaggio, che non si limiterà a starsene buono buono nell'ombra, che un giorno, quando meno te lo aspetti, quando meno lo avverti, farà un salto più alto dei precedenti e supererà quel recinto, troppo labile per tenere dentro una cosa tanto grande come te stesso. E quando quel bianco niveo, disarmato, autentico, inviolato, giovane, toccò il nero, quel nero ne fu così spaventato da aver tentato di distruggerlo. Perché non c'è niente di più oscuro di una grande luce corrotta, perché sotto ogni nero si nasconde un bianco che non si può correre il rischio di mostrare.
E allora, tra stralci di menzogne e inconfessabili verità, arrivi ad un punto in cui devi fare una scelta, una scelta drastica, forse crudele, ma necessaria, tra il limbo della tua anima e la realtà che artificiosa ti circonda.
Io ho pagato per aver finto, ho pagato per aver "scelto", ho pagato per aver mostrato a quegli ingannevoli abbaglianti raggi del sole il vero colore dei miei occhi, o il vero sapore delle mie labbra.
Ho pagato un prezzo così caro che non so se mai mi sarà restituito, se mai riuscirò ad appropriarmene nuovamente; e ciò che solitamente viene chiamato destino, io lo chiamo autodistruzione.
Mi assumo la responsabilità delle mie azioni, della vita che ho lasciato scivolare lentamente tra le dita, inafferrabile come acqua, intoccabile come fumo.
Non sono uno sciocco, so riconoscere la disfatta quando la vedo. Accaduta in modo surreale, come un pallido spettro di un'esistenza apparentemente perfetta.
Fingevo. Fingevo di respirare, fingevo di abbondare di intoccabilità, fingevo di star bene, mentre il mio mondo crollava su di me. 
Ma adesso non so se sarà più tempo di finzioni.
Adesso sento il fuoco sotto la cenere, quello stesso fuoco che mi ha distrutto, bruciato vivo tra birre, giacche eleganti e baci rubati. 
So di avere cicatrici addosso marchiate a fuoco nella mia anima in caduta libera; so di avere le mie colpe e i miei peccati in tutta questa spirale di buio; so che, nel momento dell'estrema rottura, ho tentato su persone più rotte di me. 
Forse è stato tutto un grosso equivoco, forse la mia vita era davvero proprietà di qualcun altro e io non potevo deciderne, non potevo lasciarvi la mia impronta. Ma i forse sono finiti.
Non mi pongo più domande, non mi aspetto risposte. 
Non ho fede, non ho fiducia, ne in me, ne nel sole che ti illude che la notte sia finita quando, in realtà, deve ancora cominciare.
Immagini vaghe fluttuano intorno a me, balugini di momenti passati nell'oscurità recondita della mia desolazione.
So cosa ho fatto nel buio, non ne vado fiero, ma non riesco del tutto a pentirmene.
Potrebbero accusarmi. Accusarmi di aver incendiato tutto ciò che amavo e di averne poi bruciato le rovine, e sarebbe vero.
Accusarmi di essermi arreso proprio quando era il momento di combattere, e sarebbe vero.
Accusarmi di non averci neanche provato, di aver semplicemente perso interesse nei colori, nei sapori, nei vizi, nelle virtù e no, non sarebbe vero.
Quasi sento mio padre che mi parla come se non fossi suo figlio con la sua voce ferma e distaccata, priva di alcun tipo di emozione, schiavo di convenevoli e finte compostezze. Vivere una vita come la sua dove tutto ha un prezzo e niente un valore mi disgusta, preferirei la morte, preferisco la morte.
E' come se riuscissi a sentire il rancore dei miei, si sentono traditi, ma io non potevo aiutarli a capire qualcosa che va oltre la loro comprensione, o del loro tempo.
Come una luce sfuggente mi saltano in testa, o dovunque che siano, le parole di una qualche canzone metal: "Li farò sanguinare ai miei piedi".
Non sono così sadico, provo, o provavo comunque una sorta di riconoscenza per i miei genitori, per avermi dato tutto ciò che non mi serviva davvero.
I tempi si confondono in una competizione nella mia coscienza. Quale tempo dovrei usare per dar voce alle mie congetture? Il passato, probabilmente, anzi, quasi certamente. Ma il presente è sempre li, in agguato, pronto a sgomitare indelicatamente per la smania di venir usato. 
Sento qualcosa, la mia mente sta ancora giocando con me come il resto dei momenti  da qualche tempo a questa parte. Non riesco più a dare un valore al tempo, se esiste il tempo in questa sorta di dimensione confusa da morire.
Spesso i ricordi mi vengono a trovare, caotici e inconcludenti, ma io li riconosco.
Riconosco il momento, riconosco le persone.
Riconosco lei, che in qualche modo trova sempre la via per raggiungermi.
C'è fin troppa chiarezza nella mia non-lucidità.
Un ricordo, in particolare, fluttua spesso nel cielo plumbeo in cui vagheggio.
Una particolare situazione che mi ha torturato prima, quando avevo un cuore che batteva, e mi tortura ora che vorrei solo starmene oziosamente fermo protetto dall'ala dolce della pace perenne.
Questo ricordo lo detesto, detesto la scintilla che l'ha aizzato, detesto il momento che me l'ha lasciato imbrigliato nelle pieghe dell'anima, detesto una parte di me che, in particolare, se l'è goduto. Lo ricordo bene, più di quanto ci tenga ad ammettere.
In questa dimensione, con ciò che rimane di me, non credo mi senta in dovere di condannare nessuno, ne di gettare inutili anatemi a sprazzi di tempo lontani; sono come uno spettatore passivo di uno spettacolo del quale ne teme il significato.
Eppure, ricordo tutto di quel frangente, ogni vivido dettaglio, come se fosse accaduto non più di qualche istante fa, come se le parole della mia accompagnatrice aleggiassero ancora nell'aria dando il via ad un incontro di contatti che parvero fuoco. 
E con il fuoco vorrei bruciare il protagonista di quello spettacolo, quello che andava sullo skateboard con l'unico scopo di far vedere quanto ne era capace, quello che era così bravo a fare ciò che non gli piaceva che pensavi potesse piacergli davvero, quello che sentiva le sfide come una questione personale, quello che mi ha infilato la lingua in bocca con la discrezione di un esibizionista. Si, potrei davvero farlo.
Una sensazione piuttosto umana per qualcuno che sta aspettando di essere accettato in Paradiso o venire scagliato nelle più profonde viscere dell'Inferno.
La via calma dei miei pensieri si piega d'improvviso in un'incurvatura inaspettata, perché una parola saetta nel loro territorio.
Pillole.
Come è arrivata fino a me? Come mi ha raggiunto sin qui?
E adesso ricordo con precisione scansionistica il momento in cui l'ultimo sorso di birra ha tolto al mio corpo anche l'ultimo, difficile respiro di vita con l'aiuto di due piccoli dischi bianchi che mi hanno avvelenato persino l'anima.
Un lampo di luce mi danza dinnanzi, la grazia di una ballerina, la tracotanza di un fulmine.
Cosa succede? 
Che si stiano davvero spalancando i cancelli del Paradiso? No… E' qualcos altro. 
Dolore.
Lo sento, forte e acuto, lo sento penetrare con la sadica delicatezza della punta acuminata di uno spillo, ma mi è impossibile capirne l'origine, analizzare dove si poggia.
Non c'è più la quiete di prima, il silenzio non è più il padrone, è stato appena spodestato da qualcosa di più grande.
Dal dolore? No, il dolore è solo un volere dettato dalle leggi di questo nuovo sovrano.
Cos'è che ha irrotto nella superficie? 
Al dolore si aggiunge lo stordimento di una testa imbarocchita e pesante che non sembra neanche la mia; forse sto solo immaginando torrenti di inesistenti
sensazioni per ingannare qualcosa, forse il tempo.
Qualcosa di più sottile e mirato, una fitta incline a salire velocemente la scala dell'intensità, porta a chiedermi se questo non sia il mio supplizio eterno, provare per sempre sensazioni che non mi appartengono più. 
Un peso improvviso comprime dove un tempo c'era un cuore. Il mio. Quasi non mi permette di esalare respiri. Perché sto respirando?
La pressione continua vertiginosamente a salire e io non trovo le armi per fermarla.
Non si può salvare ciò che è già annegato, eppure non voglio perdermi in questo strano limbo dove sento tutto e conosco il niente, dove il buio cede troppo spesso il posto alla luce, dove la stabilità di pochi istanti prima sembra impossibile da recuperare, perché sono al limite.
Al limite di che poi, è un mistero. Eppure mi sento sull'orlo di un baratro enigmatico del quale non si riesce a vederne la fine e neanche l'inizio. Saltare e rischiare di cadere verso il fondo o rimanere con i piedi ben saldi sulla piattaforma fissa su cui mi sento ancorato?
Il confine dell'ombra e vicino mentre il dolore torna ad affondare i denti nella carne.
Carne..pelle..corpo.
Ed è in questo momento che ho l'improvvisa certezza che qualcosa non quadra, che ho sparato un proiettile che forse non mi ha colpito, che sto impazzendo nel tentativo di resistere a qualcosa che mi ostino caparbiamente a negare di conoscere.
Un piede avanti, un passo davanti all'altro, un altro, un altro, solo un altro ancora.. e mi getterò nel vuoto,
Non voglio farlo, non ho le ali per volare, non ho la forza per saltare, ma c'è qualche dettaglio, di quell'abisso oscuro, che mi spinge imprescindibilmente ad avvicinarmi alla sottile linea che separa uno strano spazio di forme confuse e colori vitrei da qualcosa di molto più grande.
I pensieri mi danno la caccia, riempiono lo spazio tranquillo che mi è stato concesso, parlano di qualcosa, piangono ridono urlano il mio nome.
Sento che è tempo di abbandonare questo angolo di pace per andare chi sa dove.
Dentro di me, la risposta. 
So così bene qual'è che non voglio neanche cercarla negli angoli reconditi del mio essere per constatare che è davvero ciò che so già, per forza o per grazia, essere.
Non sono sicuro di volerlo fare, ma la pressione sul mio petto adesso fa male, incessanti colpi torturato la mia testa e mi sono stancato di sopportare il dolore inerte mentre mi divora pian piano pregustando il sapore della mia anima.
Adesso il tempo esiste, adesso fa capolino, timido è ingombrante, nel sapere che il tempo di fare una scelta ponderata non c'è. Mi costringo a lasciarmi andare al mio impaziente istinto, e forse sbaglio, perché quello si è intestardito, quel fottuto stronzo vuole lottare.
Lo sento come scalpita al passo dei battiti del cuore. 
E se c'è ancora un cuore, se questa assurda quanto insensata sensazione non è solo un'effimera illusione, sento questo cuore lottare contro i limiti della cassa toracica, contro ciò che lo tiene prigioniero, contro di me, che cerco di tenerlo schiavo tentando di realizzare perché adesso tutti i cieli stanno crollando.
Le voci si accavallano, si intrecciano, si sciolgono e tornano a darsi la caccia, parole confuse perforano veloci come proiettili la bolla che mi circonda, lo scudo dietro il quale mi ero rifugiato forse per sempre.
Ogni cosa va al di là della mie capacità di giustificarla, non riesco a capire, non riesco a comprendere, qualcosa mi sfiora e sussulto in un improvviso slancio di energia, il dolore non cessa, la testa mi scoppia, visi e voci si perdono in un labirinto infinito, e ad un tratto mi rendo conto che due strade, occulte e misteriosamente vere, si dipanano dinnanzi a me, e la lucidità di un momento mi dice che posso percorrerne solo una: tornare nel piccolo bozzolo di quiete donatomi o sorgere dalle ceneri, dalle mie ceneri, sparse nel vento e rapite dal cielo.
Per un attimo, un solo, breve, insignificante attimo, penso a cosa succederebbe se ritornassi, se i caldi raggi del sole collimassero nuovamente ad accarezzarmi la pelle, e il vento a sfiorarmi amorevolmente il viso.
E qui il mio infido istinto di sopravvivenza decide per me sbaragliandomi bruscamente senza tener minimamente conto delle mie inutili riflessioni, e fiondandosi per quella strada che avevo deciso di abbandonare ma che adesso guardo con una punta di malinconico desiderio.
Malinconia di cosa? Del dolore, della sofferenza, della solitudine, dell'anima che si lacera come un pezzo di stoffa sgualcito?
Ma a qualche profondo, scriteriato meandro del mio essere, tutto ciò doveva mancare, perché nel mentre di un secondo l'oscurità si sta nascondendo e forse ho fatto quell'ultimo passo, forse sono caduto nel vuoto, forse mi ci sono lanciato, forse ho paura, la paura che nasce dalla consapevolezza di essere 
troppo fragile per vivere e troppo vivo per morire.
La luce mi investe, diventata accecante, si ricorda di me e io spregiudicatamente la accolgo nell'iride dei miei occhi che si spalancano alla vita che non sapevo scegliere.
Sono incoerentemente, irrimediabilmente, illogicamente, vivo.

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Capitolo 2
*** La distanza di una porta ***


Megara X non merito codeste recensioni *.*
Non vi aspettate niente da questo capitolo, è più per introdurre le bombe che lancerò dopo, anzi, gli skateboard che lancerò dopo (Non sei divertente -.-)

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CAP. 1

 

I minuti che seguono il mio risveglio sono un turbinio confuso di sensazioni che giocano con la mia sanità mentale.
I miei occhi vagano nella stanza dalle spoglie pareti color panna, perplessi di rivedere il pulviscolo mostratosi nei fasci di luce galleggianti nell'aria dove batte il sole, o di poter scorgere nuovamente il cielo limpido di un azzurro vivo come, teoricamente, dovrei essere io adesso.
La testa continua a non dar tregua al mio corpo debole, con un tono di intensità dieci volte superiore a quello che mi pareva nel mio stato semi-incosciente, e un ago infilato nella pelle del braccio sinistro si rivela essere il dolore sottile e pungente di qualche minuto prima, se di qualche minuto si tratta. Non ho idea se siano passate ore, mesi, o anni, ho solo una vago sentore del dove mi trovo e del come ci sia finito. Su quest'ultimo punto la mente si rifiuta di soffermarsi, sbarrando con un colpo categoricamente secco il particolare di come sono caduto a pezzi.
Le forme iniziano a disegnarsi con lenta precisione, i colori cominciano a darsi il giusto peso e io mi chiedo se il sentirmi uno schifo sia il contratto che involontariamente ho stipulato con l'aldilà. I condotti uditivi sembrano essere l'unica cosa dell'insieme del mio corpo priva di formicolio, spossatezza o dolore e alle mie orecchie giungono rumori lontani, attutiti soltanto dall'ovatta che sento ostruire il passaggio del suono nei canali che dovrebbero portarlo fin sul cervello per poterne rilevare l'appartenenza.
Il rumore si tramuta in voce, la voce si scinde in più entità, ma oltre all'aver compreso che più essere umani stanno parlando davanti la porta della stanza, non si accende nessuna improvvisa folgorazione né sul nome di quegli essere umani, né sulle loro facce, né sul perchè stiano facendo un comizio proprio qui. Riconoscere quelle persone richiederebbe uno sforzo che il mio cervello, in questo momento, non è in grado di fare, un balzo che dovrebbe puntare troppo in alto.
D'altronde, sono reduce da un pericolosissimo salto nel vuoto di un baratro infinito, e nonostante sappia (quasi) con certezza che è stato solamente il mio subconscio ad essersi divertito con me, i miei arti si rifiutano di collaborare, caparbi nelle loro statiche posizioni.
La porta si apre e una donna in camice bianco avanza verso il lettino su cui sono sdraiato, anzi, mi correggo, su cui sono buttato come un sacco di patate troppo pesante, o come un corpo totalmente privo di soffio vitale, credo dipenda dai punti di vista col quale si guarda la mia reale condizione. La donna, inizialmente dai contorni sfocati, sembra stia armeggiando con qualcosa.
-Dominik.-
I miei occhi deviano tragitto, il mio collo, lentamente, li segue, il mio viso mira a quello le cui labbra hanno pronunciato con chiarezza quelle lettere in successione, senza pensarci, senza saperlo, senza aver comandato ai muscoli del collo di reagire a tale richiamo; evidentemente qualcosa di me risponde ancora a quel nome, qualcosa di me si sente ancora legata alla melodia scaturita dall'intreccio di quelle sillabe, anche se Dominik si è perso nell'inviolabile buio di una stanza, nella disperata prigionia di due occhi, nella musica ignara di una discoteca.
La donna è giovane, mi sorride benevola.
Da quanto tempo qualcuno non mi sorrideva?
Ho provato sulla mia pelle ogni tipo di sguardo, di ghigno, di smorfia provocante o spaventata rivolta nella mia direzione, ma credo che un sorriso vero manchi alla mia collezione recente.
Mi sbaglio.
Io un sorriso vero l'ho visto, e più di una volta, sbocciato, neanche a dirsi, solo per me.
E' strano come proprio coloro i quali si reputano più forti, protetti da una corazza d'acciaio inviolabile e indistruttibile, si perdano nello schiudere le labbra in un semplice sorriso. E a dispetto di queste persone, ho visto un sorriso autentico, concreto, uno che ha lottato tra le lacrime e disteso quelle labbra tanto bramate proprio quando l'oscurità minacciava di richiudersi su di me, trascinandomi nel suo abisso.
Il sorriso di una creatura tanto pura quanto distrutta, disillusa da una realtà che sentiva non appartenerle.
Quasi mi perdo l'entrata di mia madre, se davvero di mia madre si tratta con quell'espressione spenta incastrata nella pelle e quel viso pallido come un lenzuolo troppo consunto. Mi guarda e, forse per la stanchezza, forse per la sua capacità di rimanere decorosamente in piedi anche in certe particolari situazioni, non riesco ad interpretare l'espressione con cui accoglie la mia vista.
Mi parla e la sua voce ha perso il colore di efficienza di cui era satura. Riesco comunque a percepire una ben camuffata nota di profondo sollievo nelle sue poche parole, come qualcuno che non ha respirato fino a questo momento e adesso si trova ad inghiottire avidamente l'aria tutta in una volta.
-Dominik.. Come stai?-
Vorrei rispondere a questa domanda con tutta l'effimera sicurezza con la quale avrei risposto qualche tempo prima, ma la verità è che non lo so, e probabilmente, ora, dinnanzi a lei, con un ago infilato chi sa quanto a fondo nell'interno del braccio, non ci tengo neanche a saperlo, perchè pensarci proietterebbe nella mente immagini che vorrei eliminare, estirpare da ciò che è successo.
-Bene.- rispondo, a metà tra un bisbiglio e un sussurro, ed è la prima menzogna che dico.
Ma non ho nessuna intenzione di replicare fatti già accaduti, fingendo di star bene, alleviando il dolore degli altri ed elevando all'ennesima potenza il mio.
La mia cara mamma si è appena resa conto che il suo interrogativo non ha corde a cui aggrapparsi constatando che sono appena riemerso da un sonno durato chi sa quanto, con una flebo attaccata alla mia pelle come una sanguisuga assetata del mio sangue, con la testa che pulsa al ritmo di musica house.
E' evidente la sua titubanza, vacilla nel non sapere cosa aggiungere, gli avvenimenti che l'hanno resa partecipe sono stati troppo persino per la sua abile prontezza.
Ha le sembianze di qualcuno che è stato imbevuto del più bel sogno che si possa desiderare, fino a quando non gli è stato detto che il proprio figlio era in bilico tra la vita e la morte, risvegliato così nel modo più brusco. Mia madre che non riesce ad arrivare né con parole né con il cuore a me.
Almeno l' inclemente normalità non è cambiata.

La mia permanenza in ospedale è qualcosa che non ci tengo a descrivere nei dettagli, di me che devo essere aiutato anche per arrivare al bagno e delle sedute con psicologi e psichiatri che parlano di concetti scientifici e razionali con la sensibilità di un libro imparato a memoria.
Dopotutto cosa può interessare a dei perfetti estranei della tua esistenza che oscilla tra le fiamme della luce più brillante e quelle dell'oscurità più remota?
Proprio nulla.
E le loro parole scivolano addosso senza lasciare traccia, senza soffermarmisi, neanche per sbaglio, addosso, ma fluttuando nell'aria come granelli di polvere indesiderati che si ha scosso senza tante cerimonie dai vestiti.
Durante i giorni in ospedale, che non distinguo minimamente l'uno dall'altro, mio padre ha l'intelligente idea di non mostrare la sua faccia in giro e ogni volta che mia madre si avvicina a sfiorare l'argomento la zittisco con uno sguardo d'avvertimento, l'avvertimento che non ho alcuna intenzione di vedere lui e la sua faccia cesellata di superbia e le sue prediche del tipo “Sei un ingrato, ti abbiamo dato tutto.”
Non tutto papà, non tutto.
Ti sei mai chiesto cosa mi rendesse davvero felice?
Ti sei mai preso la briga di guardarmi per dieci secondi senza dovermi presentare a qualche illustre personaggio che grazie alle buone impressioni di una moglie ideale e un figlio modello ti avrebbe fruttato un mare di soldi?
No, tutto ciò era escluso dalle tue priorità, quindi abbi almeno la decenza di non farti vedere fintanto che sono confinato qui per aver combinato due pastiglie che in un attimo troppo lungo di selvaggio coraggio mi hanno portato alla morte. O quasi.

-Ne abbiamo parlato tanto Dominik.-
“Ne abbiamo parlato troppo” penso mentre il primario del reparto di psichiatria mi osserva attraverso le lenti perfettamente limpide degli occhiali.
E' il mio ultimo giorno tra queste mura, dove ho scoperto di essere stato trasportato d'urgenza, dove sono stato completamente privo di sensi per cinque giorni, dove il mio corpo si è ripreso quasi del tutto tornando alla sua consueta attività, dove il mio petto è tornato ad alzarsi e abbassarsi al comando dei miei respiri, dove il mio cervello è stato ampiamente psicanalizzato e dove i miei occhi hanno capito che, dal momento che si sono riaperti, devono rifarlo ogni mattina e accogliere con ospitalità il sole.
Dimenticate l'oscurità, penso, che è perfettamente in linea con ciò che sta dicendo nel frattanto lo psichiatra.
-Dimentica l'oscurità Dominik.-
Lo guardo e annuisco, ormai è un'azione automatica, dopo tutte le sedute e gli incontri che ho fatto sul perchè certe cose accadano e su come non farle accadere, sono scocciato che degli sconosciuti mi guardino come se loro avessero il mondo in pugno e non fossero mai caduti, da mille metri, turbinosamente, su un rovo di spine.
-Ti sei ripreso abbastanza velocemente, questo dimostra che forse..-
Come si chiama il tipo?
-..più forte di quel che pensi..-
Rubinowicz.. Rubisewicz..
-Dottor Rubinowicz- una donna entra nello studio portando un fascicolo color pesca in mano.
Sorrido da solo mentre mi congratulo per aver vinto la scommessa giocata con me stesso.
Quanto riesco ad essere idiota?
Nel frattempo il “Rubino” ha ricominciato a buttar giù fiumi di parole che suonano una più giusta dell'altra, protette da una botte di ferro nel loro significato aureo di eccellenza inattaccabile.
E io non ci penso proprio a contraddire il suo foglio di laurea appeso in bella vista sulla parete.
-Domani tornerai nel mondo reale..-
Perchè quello cos'era?
Un posto con persone che si sentivano inadatte, incomprese, troppo orgogliose per chiede aiuto ma troppo bisognose per rifiutarlo.
E' forse il posto più vero in cui mi è capitato di spendere i miei giorni, molto di più delle cene d'affari dei miei genitori o delle apparenze in una sala da Judo.
Questa volta sono davvero grato al dottore che mi salva dalla sinistra direzione in cui aveva improvvisamente svoltato la mia mente.
Aspetta almeno che metta piede fuori di qui e poi avrai tutto il tempo di lambiccarti il cervello Dom..
-Fai soprattutto ciò che ti piace, concentrati principalmente su questo, su ciò che ti fa venir voglia di alzarti la mattina, su ciò che ti fa sentire vivo, Dominik.-
Se ripete un'altra volta il mio nome mi incazzo.
Vivo.. la fa sembrare facile lui, seduto sulla sua comoda sedia in pelle, dietro a una lucida scrivania, a sorseggiare caffè che gli viene portato, parlando con voce pacatamente controllata sull'illusione che io possa schioccare le dita e ricominciare tutto d'accapo, premere semplicemente un tasto su una candida tastiera e lasciare che il passato svanisca come una manciata di sabbia sul palmo di una mano sottoposta ad un appena accennato anelito di vento, dimenticare chi mi ha rifiutato e chi mi ha accolto. Perchè, ciliegina sulla torta, devo dimenticare entrambe le categorie.
Rubino caro... Io domani varcherò le soglie dell'Inferno tornando tra le fiamme che conosco bene perchè già provate sulla pelle, ne sono stato già ammaliato e distrutto, e non credo di riuscire a dimenticare proprio nessuno.
-..e ricorda di non dare nell'occhio, sii te stesso ma senza reagire, non cogliere le provocazioni, trascorri questi ultimi mesi di scuola nella massima tranquillità, non stressarti, non agitarti e, assolutamente, non cercare le cose che ti hanno portato a dove sappiamo entrambi. Testa bassa, spalle al muro e niente di male, d'accordo?-
I miei occhi si dirigono su di lui e questa volta annuisco per davvero.
Preferisco perdere l'uso della parole durante le ore di lezione piuttosto che avere altri crucci che mi facciano perdere qualcosa di più significativo. E se il tollerare passivamente tutto il veleno che il mondo mi sputerà addosso è la soluzione, ho tutta l'intenzione di seguire questa politica.
Dopo avermi annunciato che ci saremmo visti una volta alla settimana fino all'età della pensione (questo l'ho supposto io), mi congeda lasciandomi andare nella mia stanza.
Da li a qualche secondo avrebbe parlato anche con i miei, e io, che non ho la più pallida voglia di sorbirmi le occhiate allarmate di mia madre, gli sguardi di disapprovazione di mio padre e gli occhi della fredda efficienza dello specialista, mi ritiro con la scusa di dover raccattare le mie cose.
Mentre getto nel borsone tutto ciò che è stato a impedire ai miei stufi neuroni il delirio in quelle lunghe lunghe giornate, ovvero cuffiette, libri, vestiti, focalizzo l'attenzione sulle parole di Rubinowicz e mi convinco che questo è davvero il modo giusto di muoversi, la cosa veramente giusta da fare.
Peccato che con la serena prevedibilità del fare ciò che gli altri si aspettano non sono mai andato molto d'accordo.

 

***
 

La prima mattina a casa dopo un tempo lungo quanto un'era, la persona che mi guarda attraverso lo specchio quasi nego di conoscerla.
E' un ragazzo dalla pelle troppo chiara, dagli occhi, simili allo zaffiro scuro ma privi di espressione, segnati da cerchi scuri ancora troppo profondi, dal corpo magro, più esile dall'ultima volta che ho posato lo sguardo su di lui.
La felpa leggera blu notte nasconde i segni della sua commiserazione sulla pelle, segni che né lui né io abbiamo intenzione di guardare.
Una mano passa tra i capelli come le tenebre che mi hanno sedotto e mi costringo a formulare un pensiero puramente normale, comune e lontano da ciò che non doveva succedere ma che alla fine è successo lo stesso: “E se li tagliassi?”
Dopotutto anche lo psichiatra ha detto di non concentrarmi su niente di neanche vagamente rischioso, né sul passato, né sul futuro, ma solo ad andare avanti nel presente, possibilmente senza ferite per aver sottratto la forbice al parrucchiere ed essermela infilata in gola.
Così sono tutto propenso al riflettere su un possibile taglio di capelli mentre l'auto percorre il tragitto che separa la mia casa da uno dei licei più esclusivi di tutta la Polonia.
Mia madre mi domanda forse dieci volte se per caso non volessi cambiare scuola, e non importa se a ridosso degli esami finali, lei è disponibilissima a richiedere il cambio oggi stesso.
So che molto probabilmente avrei dovuto accettare, dir di si senza neanche darle il tempo di finire di parlare, che in questo modo avrei seguito al cento per cento, al mille per mille il percorso dello psichiatra che mi sono ostinatamente inculcato nelle mie urgenti priorità, ma per qualche sporca ragione rispondo con un secco, netto, altisonante, “no.”
E continuo a ripassare nella mente varie pettinature guardando senza vederla il paesaggio che scorre veloce oltre il vetro del finestrino. Appena la macchina si ferma mi carico la borsa a tracolla in spalla e scendo velocemente. Non voglio che mia madre scorga neanche la più piccola traccia di preoccupazione sul mio volto. Le faccio segno di andare e lei, dopo avermi riservato un'occhiata angosciata, parte accelerando e allontanandosi sulla strada.
Ha un importante incontro di lavoro e scompare oltre l'angolo nel giro di una manciata di secondi.
Mi volto.
L'edificio dove, per quanto caparbiamente tenti di respingerlo, tutto è iniziato è li, a qualche metro da me, si erige maestoso nella sua ampiezza e pare quasi sorridere perversamente stagliato contro il cielo plumbeo, mentre avanzo verso il suo ingresso. Imbriglio la mente, circoscrivo la memoria in qualche argine lontano dal mio presente, metto un piede davanti all'altro e spingo la porta che si apre nel lungo corridoio dalle sfumature d'avorio.
Ogni ala è deserta, escludendo il personale di servizio, a causa della prima ora di lezioni già iniziata.
I miei avevano avvisato il preside che avrei fatto un po' tardi in questo primo giorno di ritorno dalla irrealtà, e ora cammino attraverso quegli stessi luoghi in cui avevo creduto di trovare la pace e invece mi sono trovato a rispondere agli attacchi di un duello.
Abbasso la testa e tiro dritto il più rapidamente possibile per sconfiggere l'ondata di ricordi e sensazioni che minaccia di travolgermi, sicura di sopraffarmi.
Indifferente, sono indifferente.
Continuo a ripeterlo nella mente come un disco rotto privo di alternativa mentre mi rifiuto di sollevare lo sguardo scollandolo dal pavimento. Affretto il passo, e non di certo per arrivare in classe ad un orario quantomeno accettabile. Le gambe si superano veloci, si muovono repentinamente perchè vogliono fuggire da qualcosa da cui non si può scappare.
Mi blocco solo per trovarmi difronte la porta dell'aula in cui ho trascorso le mattine per quasi quattro anni.
So con esattezza fatale cosa si trova dietro questa porta, al di la di questa soglia. Conosco a memoria persino ogni scritta sui muri della stanza che custodisce, cancellate dopo l'ultimo ripasso di pittura (e cripticamente ricomparse).
Indifferente.
Poggio la mano sulla maniglia tenendo ben cucito in mente a fil di ferro la condizione che devo immediatamente adottare e tentando di ricordare come si apra una porta, bandendo con tutte le forze possibili ogni emozione fuori dalla campana di vetro rinforzato in cui mi sono rinchiuso.
Le mie dita esercitano una lieve pressione, così inconsistente che per un attimo credo fermamente di non aver fatto niente, ma la porta si apre e qualcosa mi dice che l'indifferenza è destinata a crollare come un castello di carta costruito nell'aria più fragile.

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Capitolo 3
*** Impatto frontale ***


"La gente è intrappolata
  nel passato.
  Io non faccio eccezione, e non illudetevi:
  nemmeno voi." 
(C. Palahniuk)



CAP. 2


 

Dominik -1 aprile-

Ogni singolo occhio di ogni singolo viso di ogni singola persona presente nell'aula si posa su di me con sorpresa, perplessità, incredulità.
Sono sorpresi nel vedere qualcuno che non si faceva vivo, nel senso letterale del termine, da quasi un mese; perplessi nello sconvolgimento totalmente inaspettato di un giorno cominciato nel modo più normale possibile; increduli del fatto che sia tutto intero e che abbia ancora le mie facoltà mentali e motorie per recarmi a scuola e non solo, anche per camminare tra i banchi.
Ed è proprio quello che faccio, mi dirigo velocemente verso l'unico posto libero, che non è quello che ho lasciato quando decisi che detestavo questo posto. Non che adesso lo ami, ma già il fatto che la professoressa si sia limitata a sorridere e a continuare il suo monologo senza esordire con imbarazzanti "bentornato" e domande del tipo "C'è la possibilità che tu tenta di ammazzarti se vai in bagno da solo?", gli fa guadagnare sicuramente punti. Forse non ho detto neanche buongiorno, così, per dimostrare che mi ricordo persino come si parla, ma la mia attenzione era stata momentaneamente catturata dalla vista di due banchi vuoti esattamente uno in perfetta simmetria con l'altro.
Per un attimo l'immagine dei residenti di quei due banchi avvinghiati in qualche aula didattica deserta mi lampeggia davanti agli occhi come un faro nel buio di una scogliera, ma la ricaccio immediatamente indietro nello scompartimento della mia mente in cui sono rinchiuse le cose che non mi devono minimamente interessare. Mi concentro invece nel leggere ciò che l'insegnante ha scritto sulla lavagna elettronica: "Romeo & Giulietta: morti per amore o libertà?"
Vi ho mai detto quanto ami l'ironia della sorte?
E grazie a questo brillante sarcasmo che sembra possedere il destino, passo il resto della lezione di letteratura inglese non perdendomi neanche una parola sull'amore appassionato (o distruttivo) dei due innamorati protagonisti, tra bisbigli e sussurri che senza troppa difficoltà giungono sino alle mie orecchie.
Dopo due ore di vivace discussione sul perché i due amanti abbiano preferito uccidersi piuttosto che vivere l'uno senza l'altro e un'ora sull'interessantissimo argomento della geometria quantistica applicata all'architettura ideologica, il suono tanto atteso, desiderato, amato della campanella sembra volermi urlare, con il suo squillare acuto e prolungato "Esci da lì il più in fretta possibile", e le do retta, alzandomi e fiondandomi fuori dalla classe mentre i corridoi si riempiono di gente chiassosa e sorridente, lieti del momento d'aria e in attesa della pausa quanto me.
Attraverso lo stesso corridoio baciato dall'affluenza di studenti, e se mi guardo intorno quasi posso vedere una ragazza mora seduta a terra con un portatile tra le gambe intenta a mostrare al suo cavaliere il vestito che indosserà al ballo o una delle tante giornate di sole in cui una decina di ragazzi, tra cui uno con una liscia chioma nera, stanno comodamente tutti ammassati su una panchina sotto i raggi timidamente caldi della prima primavera.
I ricordi, la finta normalità, quello che non è più mio sono come belve feroci in attesa tra la selva, pronte a balzare fuori in ogni momento sulla preda ignara delle loro mosse. Mi sento come braccato, cacciato dalle sensazioni e dai deja voi di un diciottenne che ha percorso questo stesso corridoio con la riga fitta ed enigmatica del nero intorno agli occhi, un jeans abbassato a mostrare i boxer, anch'essi dello scuro colore, e una pistola nella tasca della felpa in stile gotico, lasciando credere di essere intoccabile perché protetto dall'ennesima maschera che quel diciottenne si è trovato a portare.
Adesso la situazione si ripete con la differenza che non ho il nero a delineare il contorno dei miei occhi, ma occhiaie evidenti sulla pelle candida del viso provato e l'aspetto tutt'altro che simile a quello di un angelo caduto bandito dal Paradiso per essersi rifiutato di sottostare alla legge divina, ma più simile a quello di chi è troppo stanco per ricominciare.
Sento gli stessi sguardi indagatori di allora sulla schiena, le stesse parole mormorate a voce volutamente alta al vento, gli stessi commenti privi di sostanza.
Il mio di sguardo, invece, è puntato come un mirino di precisione su un punto indefinito dinnanzi a me e non ha intenzione di abbassarsi, girarsi, scendere a compromessi con un altro bersaglio.
Svolto l'angolo.


 

Aleksander -1 aprile-

Era fin troppo semplice, bastava fingere un malore qualunque, trovare la scusa più banale e al quasi campione di Judo era consentito praticamente tutto, anche portarsi dietro una propria compagna di classe con il pretesto dell'aiuto in caso di bisogno.
E così, simulando un comune mal di testa seguito dal tocco di classe di un normale capogiro, io e Karolina ci slinguazzammo in infermeria per tre ore in cui saremmo dovuti stare con il culo incollato su delle sedie a chiederci come facesse la professoressa di letteratura inglese a non morire asfissiata per mancanza d'aria dopo i suoi interminabili sproloqui. La ragazza, invece, ebbe la brillante idea di far fingere al ricoperto di gloria Aleksander Lubomirski una qualche mancanza per poterci toccare e strusciare in santa pace.
Quello si che era un modo più divertente di passare il tempo.
Almeno fino a quando la campanella non ci persuase ad interrompere una più che gradevole "lezione di anatomia" per andare a socializzare con i nostri simili. Quegli stronzetti staranno già ridendo e spettegolando sul dove e il come avessimo fatto.
Mentre Karolina si preoccupa di alzarsi il Jeans e io la cerniera dei pantaloni, faccio mente locale sugli allenamenti che mi aspettano nel pomeriggio e su chi dovrò spalmare a terra per dimostrare ancora una volta di essere il migliore.
Appena varchiamo la soglia dell'infermeria un coro di voci canzonatorie ci investe, ridacchiando e scommettendo sulla nostra breve gita e pretendendone i particolari più "interessanti". Non che ci sia molto da dire, baci e toccatine, di certo non all'altezza dei film mentali che hanno partorito le loro menti perverse, ma per accontentarli ingigantisco un po' il tutto mentre ci dirigiamo al bar affamati come cavalli a giugno. Mi concedo dal gruppo per passare, insieme al mio caro, ficcanaso, importuno amico Misha Martens, dalla segreteria, dove mi aspetta una comunicazione riguardo il campionato nazionale di Judo di quest'anno, quando la sua voce acuta e beffarda mi giunge fastidiosamente chiara attraverso la confusione generale dei corridoi pullulanti di anime e la moltitudine di esclamazioni che si sovrappongono l'una sull'altra.
-Sai chi è ricomparso dall'aldilà in tutto il suo charm?-
Mugolo una qualche risposta giusto per fargli credere che tengo il filo del discorso e non lo sto ignorando, cosa che in realtà sto facendo felicemente.
Lui schiude le labbra, allontana quello superiore da quello inferiore, apre la bocca pronto per spiattellarmi in faccia l'ultima notizia che è palesemente contento di essere uno dei primi a conoscere e io decido proprio in questo preciso momento di voltare il viso verso di lui.
Avrei voluto sentire la risposta, credetemi, avrei voluto che Misha fosse stato un tantino più veloce, che io avessi messo una gamba davanti all'altra un tantino più lentamente, che il destino non avesse deciso di giocare con me proprio in quel millesimo di secondo, perché gli finì completamente addosso, con la noschalance di un lottatore di Rugby.
Rovino a terra accompagnato dal sottofondo musicale di un colpo sordo e la mia mancata prontezza di coscienza mi fa rimanere senza fiato per due secondi, poi inizio a nominare con solenne chiarezza tutti i santi del Paradiso sperando vivamente che, chiunque sia andato in collisione con me per non avere ben presente come si fa a mettere un cazzo di piede davanti all'altro, abbia fatto la mia stessa fine stendendosi sul pavimento.
Qualcuno, tra le molte anime che ora volgono i loro occhi da questa parte, mi aiuta ad alzarmi, probabilmente Misha, più col pretesto di trattenermi perchè consapevole che, se mi trovo in un giorno tranquillo, scaricherò solo un torrente di termini più o meno coloriti contro l'energumeno che non è capace di aggirare un angolo senza uccidere qualche ignaro passante, e che in giorni “meno” tranquilli.. beh, meglio per il suddetto energumeno starmi accortamente alla larga.
Appena alzo lo sguardo, gonfio della celeberrima gloria che so mi investe e della stizza per avermi fatto sembrare un mezzo scemo davanti a mezza scuola, il torrente di termini più o meno coloriti cede inevitabilmente il posto ad un fiume in piena di sbigottimento con conseguente espressione attonita che deve essermi comparsa sul viso nel cruciale instante in cui mi rendo conto che l'”energumeno”con cui mi sono scontrato colando a picco come il Titanic ha la pelle di porcellana, gli occhi di un amletico azzurro oceano, le ciocche scure come il nero a mezzanotte che gli ricadono sulla fronte in un preciso disordine, e che è Dominik Santorski.
L'unico e solo coglione che riesce a sembrare il capo del mondo in pieno possesso delle sue facoltà mentali anche andando in giro come un dark-gotico-makeuppato psicotico.
Mi sollevo cercando di sembrare il meno deficiente possibile mentre l'esterrefatto l'ascia il posto al ritrovato controllo della situazione che tentava disperatamente di sfuggirmi di mano.
Il rapido susseguirsi delle azioni non mi impedisce, in ogni modo, di notare le ombre scure sul suo viso, come buchi neri incastonati nella via lattea, il cambiamento della pelle, persino di qualche tono più chiara di quanto la ricordassi, e la luce, che una volta adornava i suoi occhi rendendoli enigmaticamente unici, scomparsa quasi del tutto o occultata dal torbido di quell'azzurro.
Solo un mese fa avrei giurato di poterci vedere la vita vorticare nelle sue iridi come sottili e brillanti filigrane d'oro.
Ora invece, o nascosta o svanita, scorgo solo la luce fredda e pungente come minuscole schegge di ghiaccio che i suoi occhi riservano personalmente e solamente al sottoscritto, prima di prendere la borsa scivolata dalla sua spalla nell'impatto e di oltrepassarmi senza tante cerimonie.
La lucidità che sopraggiunge l'attimo dopo il suo avermi dato le spalle mi dice manifestamente che sono stato fermo, di sasso, a fissarlo impalato, che sono sembrato un perfetto idiota, e che sembro tutt'ora un perfetto idiota, mentre il bastardo ha risposto con dei riflessi così veloci che hanno buttato i miei nel cesso. E sempre la stessa disgraziata lucidità mi porta a riversare tutta la frustrazione del catartico momento su quell'allocco beota di Misha mentre lo spingo indelicatamente, con la percentuale di pazienza pari a zero, a raggiungere gli altri.
Non ci metto molto a comunicare a tutti i presenti la notizia, cercando di capire se l'effetto che farà a loro sarà lo stesso di quello che ha fatto, o forse sta ancora facendo, al sottoscritto.
Alla notizia del ritorno del Dark la figura bionda di Magda Kisowkoz e quella tutt'altro che tranquilla di Joanna Saska emettono un fischio al limite tra il divertimento e la malizia e Asher Brown, quasi meccanicamente, scatta con gli occhi impenetrabilmente scuri su Karolina, intenta a compare una Coca.
Non aveva mai accettato, mai digerito e mai superato che la cara, voluta, appetitosa Karolina fosse andata al ballo con il felpato, introverso, illeggibile Dominik, per giunta scendendo allo “squallido accomodamento di chiederglielo lei stessa se l'avrebbe onorata della sua presenza quella sera”; mi pare ancora di sentirle le sue ripetitive e persistenti parole sparate a tutto volume col tono più acido che le sue corde vocali riuscissero ad effettuare. E da quel momento inutile specificare la sua insofferenza verso il moro e la costanza con cui aveva fatto carte false pur di gettare fumo o fango su di lui, non solo agli occhi della ragazza, ma di tutto l'universo conosciuto, in modo che nessuno si ricordasse che Karol aveva preferito l'ermetico Dominik allo sfavillante Asher.
Ma noi c'è lo ricordavamo, e proprio in memoria di questa rimembranza tutti, nello stesso istante, come di tacito accordo, ci scambiamo occhiate furtive attraverso le ciocche di capelli o da sotto le visiere dei cappelli.
Sembra quasi che questo giorno abbia preso una piega inaspettatamente interessante, come se la routine grigia costellata da tracce di blu appartenenti al nervosismo pre-esame di stato e qualche cenno di giallo posseduto dai pettegolezzi, dalle scenate dei professori, dalle serate tra un cerchio di birre e uno di amici, dalle ambizioni e dai progetti di una vita dei quali senti perennemente il fiato sul collo, quel grigio, solito e banalmente abituale, si sia mischiato con qualche singolare colore, perchè adesso è venato da sottili sfaccettature di rosso, ma non quel rosso corallo, di fronte al quale ti viene da sorridere per la lucentezza della sua gradazione, e neanche il rosso bordeaux, arcano e quasi impenetrabile alla vista e ai sensi, no.. Questo giorno si è dipinto improvvisamente del rosso più vivo e ardente, una tonalità verso la quale non puoi non sentirti veemente attratto, perchè è il rosso del cielo al tramonto, il rosso di quello stesso cielo all'alba, il rosso dei rubini, il rosso dei sontuosi petali di una rosa scarlatta, il rosso del fuoco, il rosso del sangue.
Karolina ci raggiunge con una lattina in mano, mentre il mio cervello è occupato a fare il poeta, e due cannucce per dividerne il contenuto con Magda, che prevedibilmente sta già allungando una mano per appropriarsene.
-Cosa sono questi sorrisetti?-
-Ma come Karol, non lo sai?- rimbecca subito Joanna, che puntualmente non perde neanche la più misera occasione di beffeggiare chiunque sappia un pettegolezzo meno di lei. -La tua fiamma è tornata.-
-La mia che?-
Karolina ci guarda tutti, me compreso, aspettando un chiarimento che non arriva, e che io certamente non mi impegno a darle.
Tutta la mia concentrazione è sulla bella sigaretta che tengo in bilico tra l'indice e il pollice della mano destra, o almeno a fingere che la mia mente sia tutta li, sulle spirali di fumo che si camuffano con l'aria, perchè in realtà non mi sto perdendo una sola parola. Perchè tutto a un tratto il loro discorso mi pare più importante della mia bella sigaretta?
-Non lo sa..-
-Non lo sa proprio..-
-Wow che colpo..-
Quando Karolina minaccia di annaffiarci tutti con la Coca Cola e il flusso di esclamazioni si interrompe di colpo, capiamo che la sua pazienza sta arrivando al limite tollerabile e i limiti di Karolina è bene non oltrepassarli mai.
-La tua fiamma..- ricomincia fastidiosamente qualcuno.
-Che palle- mormoro prima di allontanare la sigaretta dalle labbra e annunciare con stizzita esasperazione: -Dominik Karolina, Dominik. Hai presente quello con cui sei andata al ballo, quello con cui mi ci sono avvinghiato la lingua, quello che si è vestito da emo gotico, quello che ho sputtanato su mezzo Facebook, quello con..- “cui ho flirtato in classe dopo quella particolare, elettrica sera”. Non lo dico.
E non so il perchè.
Sarebbe così semplice completare l'opera, aggiungere del piccante su un piatto già cosparso di pepe, conquistare le occhiate ammirate e luccicanti di invidia del gruppo che cadrebbe ai miei piedi, sbandierare ai quattro venti con calcolata noncuranza un accaduto che ormai metterebbe sotto una luce ancora più malsana il dark, senza che quella luce di scherno tener minimamente conto che c'ero anche io tra quei banchi in quel momento, che avevo iniziato io a provocarlo in quella classe, che volevo vedere io il suo viso se gli avessi solo appena accennato a quella notte, quando assaggiai le sue labbra, labbra che lui si leccò con dosata lentezza in un giorno successivo, l'attimo prima di schiudersi in un luminoso sorriso.
Karolina si guarda furtivamente intorno, quasi in trepida attesa di vederlo passare, mentre il viso bronzeo di Asher si rabbuia ulteriormente.
Li osservo con un'attenzione che nessuno sospetterebbe poter avere origine da me e so esattamente, tra un tiro di sigaretta ed un altro, che ne avremmo viste delle belle, e considerando che sul campo adesso c'era anche Santorski, di belle davvero.

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Capitolo 4
*** Non sei in gioco, non metterti in gioco ***


Non chiedete spiegazione della tragica sfasatura temporale di questo capitolo perchè non saprei quale giustifazione dargli, so solo che non tutti saranno capitoli "casinisti" come questo.
Grazie immensamente per le visite e un grazie speciale a Megara X per il prezioso sostegno che dai a una scappata di manicomio come me.
Attenzione, la storia non sarà ancora per molto incentrata quasi solamente sull'introspettività di Dominik, ma potrei "partire in quarta" con i "giochi" da un momento all'altro. Preoccupatevi.
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CAP. 3




Dominik -notte tra il 5 e il 6 aprile- 

Le prime notti dopo i primi giorni di quella che mi ostino a chiamare "indifferenza" il sonno mi abbandona come una puttanella sulla strada.
Rimango con gli occhi aperti a fissare il soffitto nell'oscurità sovrana per due buone ore, incapace di rendermi conto del tempo che corre senza aspettarmi, prima di decidermi ad alzarmi e a raggiungere il bagno, giusto per non rimanere imbambolato sapendo che il sonno non arriverà mai. 
Il bagno, però, non lo raggiungo, i miei occhi vengono catturati dal cielo intriso di tenebre e privo di stelle che irrompe in tutto il suo tetro spettacolo nella stanza già priva di luce.
L'argento della luna non è abbastanza forte da sconfiggere i fasci di ostinato buio che la tengono prigioniera. I miei occhi scrutano l'orizzonte. Guardo la luna, che c'è, ma è impotente dinnanzi alla prepotenza del nero ed è costretta a rimanere lì, immobile, mentre il cielo si sgretola intorno a lei.
Si è impotenti, nell'onda della vita, nel corso degli eventi, nel profondo delle nostre emozioni, non si è mai abbastanza per cambiare le cose.
E allora cosa si fa?
Si decide di far finire tutto perché è troppo doloroso sentire la terra che frana sotto i tuoi piedi mentre tu miri all'orizzonte.
O si va avanti. Nonostante la fragilità, nonostante la barriera di nuvole grigie che opprime il sole, contro tutto e tutti anche se tutto e tutti sono molto più grandi di te.
Ma mentre il mio sguardo scorre sul panorama silente alla ricerca di un infimo luccichio, mi chiedo se si potrà mai vincere una guerra che non volevi neanche iniziare, se proprio tu che hai abbracciato il buio potrai mai difenderti dalle ferite della lotta per la luce.
Giungo alla conclusione che nel cielo non c'è neanche una stella e io non voglio combattere, non voglio dispiegare le ali e solo allora ricordarmi che non posso volare. Non posso, non voglio, non mi è concesso, non fa differenza. Mi limito a rimanere nel mio spazio ad osservare tacitamente la realtà che mi piace ogni giorno di meno. Ho fatto così per tutte le mattine incolori di questi primi giorni d'Aprile, circoscrivendo i miei occhi al rettangolo del quaderno sul banco e alzando la testa solo per incontrare le facce degli insegnanti e far capire loro che non mi sono addormentato. Ho avvertito, ogni volta, mire di iridi puntate su di me, sulla mia schiena incurvata, sulla mia nuca scura e sul cellulare su cui sbriciavo l'ora di tanto in tanto. 
Avrei voluto urlare almeno una decina di volte: "Qui dentro non c'è proprio niente! Non è attraverso un telefono che sono andato tra le braccia amorevoli della morte!"
Non l'ho fatto. Non ho intenzione di fare niente che possa intaccare il mio già troppo fragile equilibrio mentale e psicologico.
Sono ancora quello spettatore passivo che ero prima di rinvenire dalla mia intossicazione-overdose, con la sola differenza che ora forse potrei reagire, che adesso, in teoria, sarei qualcosa di più che uno spettro in una dimensione non ben definita sul confine tra la vita e la morte.
In pratica però, il mio cuore pompa solo sangue, la mia mente è schiava di congetture e prigioniera delle mie stesse catene e il corpo racchiude un'anima macchiata di veleno e perdizione.
In questa oscurità è difficile immaginare il sole che combatte la tenebra, è quasi assurdo credere che la luce si farà realmente vedere, da un momento all'altro.
Non vedo luce, non sento salvezza.
Mi chiedo perché sia vivo, chi ha avuto l'insensata corruzione di interferire con i miei piani. 
Mi chiedo perché sia sopravvissuto, e quale parte di me priva di buonsenso ha avuto una voglia tanto grande di rivedere il cielo da trascinarmi via dal sonno eterno ad un passo dall'attimo fatale.
Mi arrampico sul letto mentre la sfera argentea si staglia sulla superficie come petrolio e mi guarda inerte dalla sua altezza. 
La notte non può durare per sempre, eppure a me sembra tutto una  notte infinita. 
Una di queste mattine mi sono riappropriato del mio vecchio banco.
Fu la prima volta, nella settimana appena passata, che arrivai a scuola precedendo il suono della campanella e mi sedetti alla mia vecchia postazione nel corridoio centrale, seconda fila, lato destro.
Il ragazzo che si era trasferito li durante la mia assenza era un diciottenne in perenne versione "monaco buddista" con un fastidiosissimo tono di voce acuto e creato appositamente per perforare i timpani. Non ricordavo il nome. Era sempre stato, da quanto ho memoria, uno di quei dettagli che ricordi per i primi cinque minuti dal momento in cui ti viene detto e che poi la mente ripone in qualche ala del cervello adibita a dimenticatoio. E puntualmente non seppi come chiamare il tipo che veniva e viene solitamente usato dalla scuola come cartoleria ambulante.
Se si fosse fatto pagare tutte le volte che ha prestato qualcosa a qualcuno, sarebbe l'uomo più ricco della Polonia.
Quel giorno si avvicinò al banco su cui io ero quasi sdraiato e con quell'irritante vocetta mi comunicò che a quel posto, solitamente, negli ultimi tempi, si ci sedeva lui.
Non so se avete mai incontrato qualcuno che parla con una calma straziante e un'educazione esemplare anche per mandarti a quel paese.
Ecco, lui è esattamente uno di quei tipi.
E a me, questi tipi, urtano decisamente il sistema nervoso.
Diamine, rivuoi il tuo maledetto posto? E sfrutta tutto il disappunto che hai in corpo, per quando mingherlino tu possa essere, e mandami a fare in culo no?
Ma lui no, lui se ne stava li fermo con quell'aria da innocente samaritano devoto.
Io, che di innocente ho perso anche l'ombra, samaritano non lo sono mai stato e l'unica cosa verso il quale ero devoto in quel momento era la sedia su cui poggiavo il sedere, alzai lo sguardo, palesemente scocciato, verso di lui, con tutta la buona volontà di fargli capire che non era giorno, settimana e neanche mese. 
Ora mi chiedo, a distanza di giorni, cosa il tipetto abbia visto nelle mie pupille, perché si andò a spalmare sul primo banco che trovò libero, e li rimase.
E ripenso a quell'episodio anche la mattina seguente, nel mentre di un'importantissima classificazione di alcune sostante chimiche presenti in alcune boccette su uno dei tavoli da laboratorio.
E' il primo compito che ci assegna la professoressa appena varca la soglia, anzi, aveva già iniziato a vaneggiare con un piede dentro e uno fuori. Questo perché lei ha una concezione della sua materia che supera quella di tutte le altre.
Quante volte, in quattro anni, l'avevo sentita ripetere sempre la stessa gloriosa frase solenne: "La chimica, ragazzi, è uno scambio di vita. Tutto ciò che è fuori è chimica. Tutto ciò che è dentro, è chimica..- e a quel punto lo spiritoso di turno aveva esordito nel simulare una pernacchia che emulava un altro tipo di chimica, composta più da gas.. mandando la professoressa su tutte le furie, minacciando note e sospensioni a destra e a manca, anche agli uccelli che ebbero la sfortuna di passare dalle finestre in quel momenti.
Nessuno deve sminuire la chimica nella "sua" scuola, potrebbe essere l'ultima cosa che si oserebbe fare.
La Rezijida è famosa in tutto l'istituto per gli scatti di collera pura che riserva ai suoi studenti, e in questo momento rischia di lasciarsi andare proprio ad uno di questi scatti, mentre sfregia con lo sguardo ognuno di noi.
-Cominciate.-
Quasi non mi accorgo della presenza comparsa accanto a me con la sua chioma color zafferano e le lentiggini sulle guance rosate. Gli occhi verdi mi osservano con accesa curiosità.
-Sono Sandra- si presenta.
La guardo e ha qualcosa di familiare. Probabilmente ho scontrato il suo viso nei corridoi, ma mi sfugge altro su di lei. 
Prima della mia caduta libera ero tra le persone più popolari della scuola, invischiato nel gruppo dei "vip", dei "fighi", di quelli "importanti". Adesso che ci penso, e che non è più questa la mia realtà, non riesco a capire come mi sia trovato in mezzo a loro, immerso tra coetanei con cui avevo poco e niente in comune. Forse per il reddito della mia famiglia, forse per illusione o casualità, non era difficile scorgermi tra le giovani promesse del liceo, al fianco dei capobranco o dei leader di turno.
Studente brillante, conoscevo ogni singola faccia dentro e anche fuori quel posto, se erano facce collegate ad esso.
Adesso non so neanche chi sono io, né cosa sto facendo e di quella luce dorata, che sembrava agghindarmi anche se non spiaccicavo parola, non è rimasto niente.
Oddio, sono forse più conosciuto di quanto lo ero prima, ma non più perché vado in giro con Aleksander.
Quel fastidioso nome sguscia fuori dalla stanza blindata a doppia serratura della mia mente targato con tutto ciò che deve essere bandito categoricamente dai miei pensieri e da tutte le altre parti che ne hanno sfiorato, assaggiato anche solo una minima parte.
Mi volto appena e, con la coda dell'occhio, spio come procede la sua di classificazione.
Sta flirtando spudoratamente con la sua compagna di corso.
Tipico.
Quel pallone gonfiato deve ringraziare che è bravo in Judo e fa fare la sua porca figura alla scuola.
La media scolastica del pallone, prendendo in esame una banale minuzia, è accettabile, ma discutibile, c'è ne sono di molto più eccellenti, eppure nessuno si inginocchia se non passa lui. 
In Judo però, glielo riconosco, sa il fatto suo: è bravo, e con bravo intendo proprio il migliore.
-Sono tedesca.-
Mi districo bruscamente dai lacci dei miei pensieri saettando di scatto con gli occhi sul viso solare della mia nuova vicina e disgregando il flusso troppo sibillino dei ricordi che avevano inconsapevolmente indotto le mie iridi ad abbassarsi fino all'altezza delle labbra della promessa del judo.
-Non sembri tedesca.-
-E tu non sembri uno che è così disinteressato a ciò che gli capita intorno.-
Colpito. 
Da quando ho riaperto gli occhi sto cercando in tutti i modi di essere una statua dinnanzi a qualunque evento, parola, azione o fatto possa anche solo solleticare un' impercettibile parte della mia attenzione, e questa nuova-ex sconosciuta, nel giro di quattro secondi, mi ha manifestamente detto che sto fingendo spudoratamente, e che si vede lontano un miglio.
Neanche a farlo apposta, le coincidenze prendono il sopravvento. Detesto le coincidenze, ho imparato a formulare un' opinione inattaccabile su di loro, meschine artificiose bugiarde, e cioè che "esistono, esistono eccome". 
Davvero c'è ancora chi crede che niente accade per caso, che dietro a tutto c'è una ragione precisa che ti ha portato fino a quel punto? Davvero si può pensare anche solo plausibilmente che alcune cose sono già scritte, che alcune cose devono accadere, non importa il dove, il come e il quando, troveranno il modo di fregarti?
E ora devo cercare di non farmi fregare, appunto, da una qualche reazione che il tizio nel corridoio, oltre la porta aperta del laboratorio, cerca di suscitare in me, perché quel tizio sta fingendo di cadere a terra in un'evidente farsa di morire, teatralmente parlando, dopo aver bevuto qualcosa dalla bottiglia che tiene in mano.
Asher. Il "tizio" con cui avevo condiviso mille serate di svago insensato, insieme al resto del gruppo, prima che sviluppasse una sorta di intolleranza nei miei confronti. 
E questa misconosciuta intolleranza si sta rivelando in tutto il suo splendore ora che si sta beffeggiando, davanti a una trentina di persone, della mia quasi..
Allora non presi in considerazione un dettaglio fondamentale, un dettaglio che avrebbe potuto fare la differenza, ovvero che nessuno dei presenti che si stava godendo lo spettacolino sapeva esattamente di chi o cosa quel cretino stesse parlando.
La sferzata era diretta precisamente a me.
Io, dal canto mio, pensai solo a puntare due occhi disperatamente imperscrutabili sulla ragazza accanto a me che stava osservando una provocazione che non capiva fino in fondo, come del resto tutta la classe.
-Lascialo stare, è alla disperata ricerca di un hobby.-
E solo perché la sua ricerca non aveva dato i frutti desiderati doveva passare il tempo con me? Che cosa gli bruciava ancora? La sua preziosa Karolina non mi guarda neanche più, o meglio, mi guarda, ma solo per puntualizzare il suo disgusto. Nel suo branco non ci sono più e non ho nessunissima brama di rientrarci, sono un mezzo-quasi-per poco morto che cammina, cosa vuole dal sottoscritto?
Eppure quel ragazzo, per qualche motivo comprensibile solo al suo cervellino contorto, si diverte a creare baratri su una strada già cosparsa di spine. Fantastico.
Non gli do la soddisfazione di uno scoppio di lava, di un serrare comvulsivamente i pugni, di un tremolio di labbra, niente. Rimango inespressivo nella mia posizione sicura.
-Tu sei Dominik Santorski, vero?-
-Così si dice- rispondo all'unico elemento che in quel momento non sta ridacchiando.
Sento gli effetti speciali della messa in scena continuare alle mie spalle con tanto di versi agonizzanti dal dolore e non so quale santo mi tiene incollato allo sgabello.
Credetemi, non lo so.
Fatto sta che riesco a superare la lezione di chimica senza finire dal preside per aver tentato di incendiare i capelli di un altro studente.
Il mio autocontrollo è più ossessivo che efferato, più necessario che autentico, e viene messo nuovamente alla prova anche qualche ora dopo, mentre cammino per i corridoi diretto a mensa.
Me ne sto placidamente per i fatti miei, in disparte dal resto del mondo, cercando di dare un senso alla giornata, quando due colpi irruenti ad entrambe le spalle mi apportano contemporaneamente un'improvvisa botta di dolore che, sommati alle tutt'altro che delicate spinte, mi fanno crollare a terra.
-Santorski non sembri più tanto minaccioso eh..?- urla uno degli artefici di quella originale trovata.
Non ho bisogno di cercare con lo sguardo gli autori della mia caduta. Li conosco tutti.
Mark Piasecki e Samuel Kowaski, amici rispettivamente dell'energumeno che è Asher Brown e quel semidio che si crede di essere Aleksander Lubomirski. 
Appunto.
Mi alzo con tutta la calma del mondo. Le gambe, l'addome, le spalle, la testa, gli occhi che vanno a cozzare, per la seconda volta, nel tentativo di oltrepassarlo, contro la sua presenza appena comparsa davanti a me. 
E questa seconda volta mi blocco prima che possa finirgli addosso, non volendo affatto replicare la scena di una settimana fa, quando ci siamo accappottati sul pavimento perché lui era troppo distratto e io troppo concentrato. 
Istintivamente faccio accuratamente per aggirarlo, ma Aleksander non sembra avere intenzione di lasciarmi passare, piantando la sua figura dinnanzi alla mia e impedendo il passaggio da qualunque lato cerchi di avanzare.
Così, di punto in bianco, combino i miei occhi con le sue iridi bronzee, che non hanno smesso di fissare la mia faccia da quando il loro posseditore ha deciso che deve crearmi impicci. Le sue labbra (su cui mi soffermo per caso, intendiamoci) sono una linea immobile nel caffè latte della pelle del suo viso.
Non apriamo bocca, non spiattelliamo parola. Non seguiamo alcuna comunicazione scritta, ne verbale, ma solo il filo sul rasoio di due paia di occhi incendiari che se potessero si incenerirebbero all'istante
Il mio sguardo spazientito gli comunica francamente: "spostati.", il suo, sogghignante, indubbiamente: "spostami."
Sto per accontentarlo, spingerlo bruscamente, mandarlo a quel paese perché ne ho abbastanza di questa giornata e di certo non mi sarebbe mancato il
suo sprezzante contributo.
Faccio per crearmelo il passaggio, anche a costo di sgomitare, anche a costo di prenderlo a calci, quando, a dieci centimetri di distanza, mi fermo come paralizzato. Il solo pensiero di doverlo sfiorare mi impedisce di muovere anche solo un muscolo. Ogni singola fibra del mio essere mi scaraventa addosso ricordi, sensazioni, ogni singola goccia fatta di anima e sangue che fece traboccare il vaso che era la mia vita, frantumandosi in mille lame appuntite.
Faccio un passo indietro, quasi salto per la scossa di elettricità che mi è dardeggiata nelle vene all'immagine di due corpi vestiti di bianco, avvinghiati in una lotta efferata sul pavimento di una palestra, gli occhi di uno dei due che scrutano ghignanti l'altro, il sorriso beffardamente mordace che compare sulle sue labbra, quel culmine di assoluta libertà, quell'errore imperdonabile.. Sbatto le palpebre sottraendomi al passato e scopro che sto indietreggiando. Mi sto allontanando da lui, dalle sue impenetrabili iridi di rame scuro, dal suo corpo dove ogni muscolo ha un posto ben definito, dai distinti e sicuri tratti del suo viso che adesso sono appena contratti in una ben celata sospensione tra la perplessità e l'inaspettato dubbio sul mio repentino cambio di decisione. Non gli do il tempo di reagire, di replicare, di fare qualunque cosa avesse in mente, perché l'attimo prima ero lì lì, a specchiarmi nel riflesso scuro delle profondità dei suoi occhi, l'attimo dopo sono uscito velocemente dal suo campo visivo, quasi mi metto a correre per proteggere forse la mente, forse qualche altra cosa, dall'ondata di memorie che lui si porta dietro. Appena sono a distanza di sicurezza, nascosto in un corridoio momentaneamente privo di vita, mi lascio andare contro la fredda superficie del muro, respirando più volte in attesa di aria che ho già, ma che non mi basta.
Non dovrei concedermi di apparire debole, non dovrei apparire fragile, non avrei dovuto neanche pensare a muovere un dito per passare, avrei dovuto semplicemente voltarmi e andare da un'altra entrata ma no, munito di malferma caparbietà, lo avevo guardato negli occhi un secondo, un fottutissimo, maledetto, secondo in più, e avevo permesso a tutte le ombre del trascorso di fare festa sulle miei resti.
Devo superare questi momenti in cui passato e presente creano un malsano gioco di scambio, passare oltre e guardare avanti come se non fossero mai accaduti, come se non fossero mai esistiti, ricompormi nel giro di minuti come se il mio cuore non avesse preso la rincorsa, o potrei rischiare di precipitare in quell'abisso che, concedendomi la vacillante salvezza, mi ha anche assicurato che, se ricadrò di nuovo tra le sue fauci, non ci sarà una seconda via di fuga.
Dall'Inferno si può uscire una volta, dopo sarai condannato per sempre.
No so quale irrequieta voglia la spinga, ma la sua vivace presenza mi segue anche a mensa, mi intercetta, si siede al mio tavolo e inizia anche a prendere la piega dei discorso.
-Perchè te ne stai solo?- 
La sincerità e il colore caldo della voce di Sandra sono quasi opprimenti, almeno per me nello stato "L'umanità se né stia alla larga."
-Okay metà scuola ti crede un folle ma..potresti venire da noi.-
Seguo i cenni della sua testa per capire che "noi" sono una decina di persone con la tendenza a diventare logorroiche.
-No grazie.-
-Perfetto. Gente tutti qui!-
In meno di un nanosecondo il tavolo brulica voci e visi, risate e schiamazzi. Mi trovo con persone di cui non so un bel niente con le cosce a un centimetro di distanza dalle mie e un turbinio confuso di parole nei miei condotti uditivi. 
Guardo Sandra con un cipiglio per niente entusiasta.
-Non vorrai sembrare carne al fuoco- fa per tutta risposta lei, riservandosi un certo tono ammiccante.
Sto giusto per credere seriamente che non abbia tutti gli ingranaggi mentali funzionanti a dovere, quando le sue parole improvvisamente acquisiscono senso e concretezza.
Tutto il tavolo dei "VIP" si è voltato da questa parte, osservando con occhi che lanciano saette il gruppo sorridente venutosi a formare attorno a me.
Io non volevo sembrare proprio niente, non volevo lanciare sfide, non volevo caricare pistole, ero disincantato, fuori fase, confuso e forse l'azzardata morte mi aveva reso anche un po' troppo distante, perché non capì quello scambio di sguardi accesi come fiammiferi sulla benzina.
La comitiva che si è appena improvvisata la mia parla animatamente di qualcosa, ma il mio cervello rifugia ogni sorta di concentrazione. 
Se solo li avessi ascoltati più attentamente, se solo avessi letto tra le righe dei gesti che mi avevano perseguitato per l'intera mattina, se solo avessi letto tra le scintille di quegli sguardi, forse avrei capito prima che ero nel bel mezzo di un campo di battaglia di antiche tensioni.

 

***

La chiave entra nella serratura, gira al suo interno facendola scattare, la porta si spalanca con un colpo deciso che non proviene da me.
-Entra.-
La voce di mio padre è pervasa dal gelido tono di chi non ammette repliche.
Avanzo superando la soglia senza fare obiezioni. Mi raggiunge la voce di mia madre prima della sua presenza.
-Dominik gliel'ho detto che non era il caso, ma ovviamente lui..-
-Siediti- la interrompe lui continuando il freddo contatto visivo con i miei occhi. 
Colgo l'apprensione sul viso di mia madre e la miope severità su quello di mio padre. 
So che non posso sottrarmi a qualunque cosa si sia messo in testa, anche perché, mi ricorda una giudiziosa vocina, ho accetato di comportarmi bene e di non agitarmi.
Non sei in gioco, non metterti in gioco.
(Butto) lascio cadere la borsa e mi siedo sul divano in pelle difronte a loro.
-Primo- esordisce mio padre. -Perchè lo hai fatto.-
Loro sono quelli in piedi che mi scrutano dall'alto in basso, ma sono io a tenere le redini del discorso e dell'andamento della situazione.
-Che c'è, lo psichiatra non te lo ha detto?-
La vocina accenna un breve attacco di tosse.
-Noi vorremmo saperlo da te tesoro- risponde immediatamente mia madre nel vano tentativo di farmi arrivare le parole di mio padre in una versione più "soft."
Andrej Santorski non è dello stesso parere.
-Lo psichiatra riesce a spiegarsi alcune cose, riguardo ad altre anche lui non trova l'interpretazione di certi tuoi gesti per andare fino in fondo.-
Pendono dalle mie labbra, come se fossero disposti ad ascoltare davvero le parole che né usciranno fuori.
-Se hai di nuovo toccato quella roba..-
Mio padre adora gli avvertimenti, i ricatti, le minacce "a fin di bene", il tutto ovviamente condito da una buona dose di austerità, ma ciò che lo riempie di una gioia vera è trovare un colpevole. Sempre.
Un colpevole che non sia lui. Sempre.
-Non ho più toccato pillole o roba di questo tipo.-
E non ho toccato più neanche il computer. 
I miei hanno tolto la connessione, disabilitato la rete sul mio cellulare e mio padre ha fatto richiesta alla scuola di controllarmi (categoricamente) a vista se dovrò utilizzare un pc, un tablet o qualunque cosa si connetta col mondo per scopi didattici.
Come se togliermi la possibilità di collegarmi mi salvasse.
Come se togliermi la possibilità di collegarmi mi avesse salvato.
Per loro finisce tutto lì. E' questo il problema, e ora che lo hanno debellato possono ritornare nella loro dimensione felice dove tutto è immancabilmente al suo posto e tutto funziona alla perfezione. Io sono un accessorio rotto che deve essere aggiustato il prima possibile per tornare nella fittizia realtà dove non esistono problemi, contraddizioni, incertezze, sbagli o paure.
-Lo spero per te, perché lo psichiatra ha detto..-
La loro è una patetica imitazione di controllare la vita, quasi quanto la mia. 
Ma questa mia patetica imitazione mi sta aiutando a non perdere l'equilibrio dal filo a cui sono necessariamente appeso.
-E tuo figlio? Tuo figlio cosa ha detto?-
Neanche un mese fa avrei pagato qualunque cifra e ucciso anche mille uomini pur di avere l'occasione di vedere l'espressione sulla faccia che in questo preciso momento è quella di mio padre.
L'ho preso in contropiede. L'ho spiazzato.
Ma non molla la presa nonostante le insistenze di mia madre a lasciar perdere, non si fermerà fino a che non sarà arrivato esattamente dove vuole lui.
-Mio figlio dovrebbe capire che deve impegnarsi nello studio e nel comportarsi come converrebbe ad un Santorski, non dare retta a degli strambi squilibrati mentali.-
-Quegli strambi squilibrati mentali hanno fatto ciò che tu non sei mai stato capace di fare- e nel frattempo mi sono alzato, nell'illusione che il nervosismo che inizia a dilagare nelle mie viscere possa disperdersi sollevando semplicemente il sedere dal divano.
-E cosa avrebbero fatto di tanto importante da portarti a..-
-Mi hanno ascoltato- lo interrompo duramente. Le mie parole sanno di aspro nella gola.
Non ho voglia di ascoltare altro, di sorbirmi le sue pungenti allusioni e le sue rigide fino allo stremo congetture mentali.
Miro alla mia stanza, che alla fine si rivela essere sempre un valido rifugio, l'unico rifugio.
Le mie gambe mi guidano parentorie, il mio corpo si allontana da loro.
-Dominik non ho ancora finito.-
Sono testardo e avrei continuato imperterrito la strada per il nascondiglio,ma con un' asciutta brusca strattonata mi ritrovo la faccia di mio padre a un palmo dalla mia, e adesso è in collera. Posso contare le rughe sulla sua fronte che si formano quando si rende conto di non essere il padrone della situazione.
-Ti abbiamo dato tutto ciò che si può desiderare e tu ci ringrazi così?!-
Ho la risposta pronta. E a quanto pare c'è l'ho da sempre, sulla punta della lingua, tagliente, amara, incredibilmente vera, rinvigorita da tutto il tempo che me la sono cacciata dentro senza mai avere la forza di sputarla fuori.
Adesso però, non ho più niente da perdere, e questa risposta nascosta e mascherata gliela quasi ringhio in faccia.
-Io non lo volevo tutto questo!- 
Emettono un piccolo sussulto, mi accorgo di aver alzato pericolosamente la voce e mi affretto a tornare su un porto sicuro. Abbasso il tono, ma non riesco a renderlo meno amaro.
-Volevo essere qualcosa in più che il figlio perfetto che vi portavate dietro nel vostro puntare sempre più in alto dimenticando ciò che c'è in basso sotto i vostri occhi, ma ci è voluto un tentato suicidio per farmi guardare da voi.-
E questa volta nessuno cerca di fermarmi, questa volta ho mandato un messaggio che è stato abbastanza disarmante da essere recepito al volo. 
Mi rifugio nella mia camera esattamente come quando non volevo uscirne più e il buio minacciava di afferrarmi tra le sue grinfie affilate e io pensavo di volerlo.
Adesso non gli permetto di prendere possesso dello spazio intorno a me ma dentro lo sento, lo sento che si fa barbaramente strada nella mia anima sul punto di allarmarsi, e sento anche lei, e cerco con tutte le resistenze rimaste di allontanare questo buio più vero che mi promette, mi illude, mi sorride invitante nel suo fascino distruttivo.
Deglutisco cenere, isolo la mente dalla polvere, cerco disperatamente di fingere che i colpi sordi alla porta del mio essere non siano tanto insistenti da farmi vacillare.

 

***
 

Dominik -pomeriggio del 7 aprile-

I corridoi si fanno di tre toni più silenziosi al mio passaggio, percepisco gli occhi ammantati dallo splendere dell' interesse e del menefreghismo e provo, irradiato da quei riflessi, lo stesso tenebroso disagio che ha fatto insorgere l'esigenza di alzare quel calice di birra la fatidica notte. Nel bene o nel male mi ritrovo sempre al centro dell'attenzione, sia che porti avanti un'audace scommessa al centro di un cerchio di adolescenti ubriachi, sia che porti avanti l'instabile scommessa sulla mia vita al centro di un irreparabile cerchio nefasto.
Mentre cammino verso l'ufficio del preside in cui sono stato convocato, sono esasperato da come venga pesato, dagli occhi ambrati, smeraldati e turchesi che mi seguono, ogni minimo movimento, di come questo opprimente occhio di bue mi illumini in una luce malsana dovunque vada, rendendomi come uno spettacolo guardato fino allo sfinimento, un pesce rosso in una boccia di vetro e per giunta senz'acqua, perché mi sento soffocare. Peró so, per fortuna o sfortuna, mantenere le maschere, e riesco a resistere nella mia facciata imperscrutabile fino a quando non spingo la porta che precede quella che si apre nello studio del dirigente. Me la richiudo alle spalle e l'aria fuoriesce, anzi più che altro scappa dai polmoni con la sveltezza di una gazzella in fuga.
Alcune voci provengono dall'interno della stanza. Cerco di definirle, di concretizzarle, di assegnare loro un'identità, ma i neuroni non hanno voglia di concentrarsi in un'attività che non suscita loro il minimo interesse e desisto dal riprovarci. 
La risposta al tentativo fallito giunge nell'attimo seguente con una botta e risposta inquietante, come se l'universo si fosse messo d'accordo con chi sa quale divinità pagana per prendersi gioco di me. 
Perchè quelle voci hanno una presenza.
E che presenza.
Avete "presente" la sensazione che si prova quando sembra che tutto ció che non vuoi che accada finisce puntualmente per verificarsi?
Credo che il mondo, il destino, il caso e la natura siano impelagati in un complotto contro di me.
Non sono così egocentrico da credere che l'esistenza stessa giri intorno al sottoscritto, ma tra tutti i viventi di questa scuola, tra tutte le facce che potevo trovarmi davanti, tra tutti gli occhi che potevano incrociarsi con i miei, perchè proprio quelli di Aleksander? 
Il quasi campione di Judo è uscito dall'ufficio del preside e il suo sguardo, inizialmente animato da qualcosa che sfugge alla mi comprensione, si tramuta poi, con la velocità di un lampo, nella pozza di illeggibilità profonda che li distingue.
I secondi rimangono sospesi come stele di ghiaccio nella stretta anticamera finchè i suoi occhi non si allontanano con un movimento secco dai miei e spalanca la porta, uscendo seguito dalla sua aria di popolare figaggine (stronzaggine).
-Dominik, entra- mi esorta il preside con la sua voce pacata e gentile.
Mi volto verso di lui mentre il rumore sordo della porta che si chiude alle mie spalle mi rimbomba nelle orecchie. Nell'udire quella voce lo stomaco mi si contorce a causa della familiarità di cui è vestita che, per un crudele folle attimo, mi fa vagheggiare nella misera finzione che niente sia cambiato.
Ma la realtà mi crolla addosso con una forza d'impatto tale che mi conduce all'inquietudine più acuta nel momento in cui noto gli occhi turbati del preside che mi scrutano da cima a fondo.
-Come stai Dominik?- 
Ancora una volta le sue parole sono traboccanti di premura e reale apprensione, il suo viso affabile e le sue mani giunte sulla scrivania di mogano lucido in un chiaro segno di ispirare tranquillità. 
Ma non mi apro, non mi rivelo, non mi spoglio dinnanzi alla prima amabile voce che mi porge la stessa dannata domanda che sento dannatamente rivolgermi praticamente da ogni dannata persona che ha avuto il piacere di vedermi dopo che i miei dannatissimi occhi hanno avuto il brillante lume di riaprirsi.
La risposta sorge spontanea, sguscia fuori dalle labbra come una registrazione pre-impostata nelle mie corde vocali.
-Bene.-
Lui continua a osservarmi. Forse si aspetta una correzione, un'aggiunta, una parola che tradisca i miei occhi sbarrati ermeticamente o la riposta data senza neanche pensare se il significato che racchiude sia vero.
Ma non mi conosce.
E infatti poco dopo fa segno di sedermi e la sua mano destra si posa sul mouse che fa ticchettare.
Un click.
Gira lo schermo verso di me in religioso silenzio. Va subito al sodo, a quanto pare ha capito che non riuscirà a cavare nient'altro o a instaurare una conversazione lunga e ricca di dettagli con me.
-Questo mi è arrivato oggi, dopo l'inizio degli allenamenti pomeridiani.-
Un secondo click.
Una sala di medie dimensioni compare sullo schermo come se fosse stata fotografata da uno spiraglio appartato. Riconosco subito che non è una foto, è un video e una figura appare nella luce discretamente soffusa dell'inquadratura in movimento.
Sono io.
Io qualche ora fa, solo in un posto in cui nessuno sapeva che fossi. O quasi nessuno, a giudicare dal filmato del quale sono il protagonista.
Erano appena iniziate le attività del pomeriggio, a cui tutto il corpo maschile dell'istituto era invitato come sempre a partecipare, tra cui la lezione di Judo. Non che fosse obbligatorio, ma dava crediti extra e il Dominik perfetto di cinque settimane fa ci andava senza neanche sapere il perché.
Non era portato per il Judo, non gli interessava prendere la lode agli esami di stato, ma interessava ai suoi, interessava all'immagine impeccabile con cui doveva folgorare il mondo e quindi, automaticamente, interessava anche a lui.
Il Dominik di adesso invece, quelle poche ore prima, era uscito dagli spogliatoi con l'intendo di andare davvero alla lezione di Judo, tanto uno valeva l'altro.
Si, stavo effettivamente recandomi nel lanciarmi in quell'attività il cui esito era sempre me con il sedere per terra, dopo aver scansato due dei "VIP".
I tizi mi avevano attorniato e fatto fracassare la spalla sinistra contro un armadietto dietro di me, e se è possibile non porre un limite all'evidenza, i due armadi se ne tornarono come docili cagnolini dai loro proprietari tra cui, dio indiscusso del gruppo, Aleksander, affiancato da quell'ameba di Samuel.
Il sorriso che comparve sul viso divertito del "re" mi fece serrare la gola da una morsa irritante.
Se era tanto felice perché non sentivo più la sensibilità alla spalla sinistra grazie ai suoi leccaculo perché non veniva personalmente a lussarmi anche l'altra?
Uscì dagli spogliatoi rifiutandomi tassativamente di guardarlo un secondo di più con le loro risate echeggianti nel corridoio.
Prima che raggiungessi la sala di Judo però, qualcosa attirò la mia attenzione come una potente calamita con un danneggiato pezzo di ferro: un sacco da boxe nero, attaccato a una catena in una sala silenziosa e deserta, che troneggiava isolato al centro.
Ricordo il dolore alla spalla, le immagini degli occhi sprezzanti che mi avevano perforato la pelle nell'ultima settimana, la derisoria apparizione di Asher mentre si divertiva a imitare la mia morte, la voce imperiosa di mio padre e dei suoi occhi accusatori, le cicatrici che invece di accennare a rimarginarsi sembravano bruciare come ferite aperte e gli occhi che, qualche minuto prima, avevano seguito sghignazzanti la mia uscita affrettata dallo spogliatoio, e tra quelli, due occhi, in particolare, arroganti e sfrontati, che avevano avuto il potere di colpirmi come uno schiaffo in pieno viso. 
Nella velocità di un secondo venni catapultato nella realtà di un mese prima, quando quello stesso sguardo sprezzante aveva affondato le sue iridi pungenti nelle mie, nel corrosivo attimo in cui il mio corpo mi aveva tradito. 
Avvertivo il dolore che avevo provato nel sentirmi solo, incompreso, distante da tutto ciò che non sentivo più come mio, lontano da tutto ciò che avevo perdutamente desiderato come mio. Una fitta acuta mi suggerì che la spalla sinistra non era del tutto libera nei movimenti quando buttai con foga la borsa a terra in un impeto di furore e mi avvicinai a quel sacco, mentre passato e presente vorticavano in una burrasca turbolenta nella quasi penombra della sala, invadendo la bolla di protezione che avevo tentato, forse ingenuamente, di crearmi.
Ricordi, palpiti, squarci, voci, lacrime silenziose, risate, sorrisi, aiuti urlati all'oscurità, baci. Baci veri, baci falsi, baci fittizi, baci licenziosi con erotici intrecci di lingue, eccitazione, odio, passione,  tenebra, speranza, paura, brama, disperazione, oblio, desiderio, pillole, accettazione, bianco, nero, innocenza, colpa, alcolici, menzogna, forse amore, aiuto, uno sparo nel buio, ho colpito il sacco.
Ho colpito il sacco con la forza della frustrazione che mi aveva assalito come un parassita.
Eppure, quando quel pugno dato a mani nude cozzò contro la ruvida superficie, qualcosa si mosse. L'aria cambiò, il corpo sciolse per un attimo tutte le corde e ogni muscolo si è rilassato e nella mente si è sprigionata l'immagine di un fiammifero che combatte l'oscurità.
Piccola, fatua fiammella, troppo fievole per scalfire la tenebra ma troppo orgogliosa da far tacere.
Gli occhi si abbassano sulla pelle sulle dita della mano destra, rossa, graffiata dal materiale che senza capacitarmene sono andato tanto impulsivamente a colpire.
Ero solo in quella sala, solo nei miei pensieri, solo nell'aria nuovamente immobile, ma per un millesimo di secondo qualcosa mutò, qualcosa si era spregiudicatamente incrinato.
Usai le maniche della felpa per coprirmi le mani e continuai a colpire il sacco con un colpo dietro l'altro, sempre più agguerrito, sempre più affranto, fino a che l'aria non riuscì più a raggiungere i polmoni e dovetti fermarmi, lasciando cadere la felpa a terra. 
Le braccia scoperte dalla t-shirt appaiono nel filmato con tutto il loro eccessivo candore e ringrazio mentalmente chiunque si sia preso la briga di riprendermi di non averlo fatto da abbastanza vicino da permettere al preside di vedere i segni sulla mia pelle, testimone di terribili verità.
Guardo con una sorta di curiosità il ragazzo che adesso si guarda intorno disorientato e ansante prima che il video si interrompa. Non afferro il motivo per il quale io sia stato chiamato qui e non capisco il movente del filmato tranne che a nessuno piace farsi i cazzi propri. 
L'idea di vivere cent'anni non alletta più?
Il signor Bckowoz gira il monitor verso di lui, rendendo lo schermo metallico del pc alla mia vista.
Okay in quel momento sarei dovuto essere a Judo a farmi massacrare, ma ci andrò la prossima volta, prima o poi il coccige me lo rompo lo stesso, ma ora non facciamone un affare di stato se per un solo incontrollato momento ho preso a pugni un sacco da boxe perché il mare che ho dentro era in tempesta e rischiavo più del solito di esplodere e frantumarmi in tante erosive schegge di..
-Quello che vedo è talento.-
..vetro. Che?
Vago con lo sguardo nell'ufficio alla ricerca di qualche spinello o qualunque cosa possa aver fatto andare il preside fuori di testa.
-Scusi?-
-Quello che vedo è talento- ripete lui imperturbabile.
E' convinto. 
Si sbaglia, quello è amarezza, rabbia, inquietudine e qualcos'altro che non sono riuscito a definire.
-Quello non è talento.-
-Beh..- congiunge nuovamente le mani -qualunque cosa sia, funziona.-
E' ostinato.
-Perchè non partecipi alle lezioni di boxe?-
Perché non mi lascia semplicemente andare?
-Non..-
-Permette crediti extra- rimbecca immediatamente lui, -e visibilità, e constatando che siamo a meno di due mesi dagli esami finali ti potrebbe fare comodo qualche credito in più se magari tu non riuscissi a recuperare tutti gli argomenti.-
Troppo ostinato.
Apro la bocca per rispondere.
-Inoltre la boxe è un'ottima attività fisica.-
La richiudo la bocca.
E lo faccio perché non c'è bisogno di un fulmine che metta in agitazione i miei drogati neuroni per ricordarmi come si fa 2+2, perché io ricordo quanto fa 2+2 e ricordo come si persuade la gente. 
Il gioco lo conosco, anche se fingo di non saper giocare.
-Se frequenterò le lezioni pomeridiane di boxe, considerando anche che vorrei avvantaggiarmi nello studio arretrato, non avrò tempo per impegnarmi a fondo in altre attività..-
-Si- mi interrompe il mio ignaro preside, forse più inconsapevole di quanto creda o più bravo a recitare di quanto abbia mai creduto. 
-Sommando la boxe tre volte a settimana, lo studio, la corsa settimanale obbligatoria per tutta la scuola e i vari impegni personali.. Direi che dovresti rinunciare al corso di Judo.-
Bingo.
Nei miei occhi appaiono tante stelle invisibili mentre mostro il mio miglior sguardo affranto al signor Buckowoz.
-Dia il mio nominativo per la boxe e..- rallento notevolmente la voce in un'eccellente nota dispiaciuta -credo che dovrei proprio rinunciare a Judo..- "dovrei", io l'ho già fatto.
Mentre le sue mani sfogliano alcune carte il mio testardo testardo cervello si pone una domanda a cui, credetemi, non ho la benché minima voglia di rispondere. Ma ogni volta che la scaccio dalle corsie deviate dei miei pensieri essa continua cocciutamente a picchiettare sulla mia corteccia celebrale.
"Perché non hai sentito la voce del preside e dell'allenatore di Judo quando aspettavi fuori dall'ufficio?"
"E perché? Perché molto probabilmente ero distratto" rispondo prontamente alla mia mente irrequieta che non vuole affatto starsene zitta e pensare a come arrivare a stasera.
Non lo ammetto a me stesso, non lo confesserei neanche sotto tortura, ma è vero, ora che la mia attenzione si è focalizzata su questo dettaglio, le voci dei presenti nella stanza, per quanto distinte e limpide oltre il legno della porta, non avevano sortito il minimo effetto sul mio stato di disinteresse, tranne una.
E considero detestabilmente casuale che, tra tutte, avessi captato all'istante proprio la sua, e trovai non detestabile, non insopportabile, ma odiosa la presunzione di quella giudiziosa vocina che, adagio adagio, gentilmente e amorevolmente, mi notifica che quella voce l'avrei riconosciuta anche in una festa con duecento persone che schiamazzano sotto gli effetti di alcol a fiumi mentre scuotono i loro copri a ritmo di musica tecno sparata a tutto volume da non sentire neanche le urla dei propri pensieri.
E io odio la tecno.


***

Il signor Buckowoz mi congeda dopo avermi comunicato il nominativo dell'allenatore e di poter ritirare gli orari in segreteria. 
A casa, nel silenzio assordante dei miei pensieri, esamino le condizioni della spalla sinistra. Un livido nero-violaceo troneggia come un errore di colore sul pallido marmo che è la mia pelle. 
Metto in dubbio che qualsiasi attività fisica mi faccia bene vista la quasi inesistente concentrazione della mia mante e il corpo magro, direi smunto, che emerge dal riflesso nello specchio. La maglietta è appollaiata sul letto, lanciata malamente sul materasso appena varcata la soglia della stanza ed essermi appostato davanti lo specchio, ma sarei tentato di riprenderla in fretta e spalmarmela addosso perché sembra che stia sgretolandomi da un momento all'altro. In futuro, spunto mentalmente, ricordarsi che una dieta a base di disperazione e pillole non va bene.
La figura che mi sta davanti mi risponde con lo sguardo spento, blindato da possibili fughe di emozioni, la perenne espressione impassibile segnata nei tratti del viso, come una maschera di cera troppo realistica e le labbra, ombre di quel rosa fulgido che le animava una volta, non credo sappiano più sorridere.
Stai davvero provando a vivere?
No, questa via che mi sono intestardito a percorrere, questi giorni che mi intestardisco a superare credendo che tutto mi scivoli realmente addosso senza
intaccare, ogni tragica volta, un pezzo di me, non può essere definita "Vita". Mentire a me stesso che la notte sia finita velocemente com'è iniziata, che le fiamme non brucino scarlatte in attesa di consumare i resti arrendevoli delle rovine su cui sto costruendo un castello di sabbia, negare che il lungo segno nell'interno del braccio destro, che adesso sorveglio attentamente come temessi possa aprirsi da un momento all'altro, non sia evidente come una rosa rossa in meno a un oceano di tulipani bianchi.
Gli altri sono più coraggiosi, gli altri non fingono, non mentono, non lasciano credere che sia tutto perfettamente come cinque dannate settimane fa, no, loro me lo sputano in faccia che ora sono un instabile squilibrato con attacchi di disagio acuti che ha tentato due volte di uccidersi e che con la seconda c'è la quasi fatta.
Vorrei pentirmi di quello che ho fatto, la prassi sarebbe "capisci dove hai sbagliato e non farlo mai più", ma la mia coscienza si rifiuta praticamente farlo. Forse perché adesso sa che, nonostante i segni, la miriade di punti oscuri che costellano la mia anima, la fragilità del mio equilibrio, la violenta sensazione di inadeguatezza che viene a trovarmi ogni giorno, sono libero. Libero di non essere quella creatura perfetta che tutti si accanivano tanto a vedere, libero di stare male e di urlare al mondo di farsene una ragione, libero dalle catene delle ambizioni che gravavano sulle mie spalle.
E la strada lastricata di inaffidabilità che i miei pensieri si decidono a percorrere abbandonando la carrozzeria sicura su cui erano custoditi, mi porta inevitabilmente a lei.
Faccio un secondo errore.
Una di quelle porte blindate da doppia serratura in acciaio rinforzato si apre, poco poco, lascio che uno spiraglio della sua luce accattivante fuoriesca e illumini una piccolissima, davvero nulla parte delle camere oscure che prudentemente riservo dentro di me, lascio che carezzi quelle pareti, e lusinghi quegli angoli, e, prima che possa impedirlo, si è già vendicata.
Uno scintillio rosa appare nella stanza. 
Lo vedo, per un frangente troppo breve, nel riflesso dietro di me.
La sento, come se il suo respiro, a metà strada tra il caldo più seducente e il freddo più tagliente, mi sfiorasse la pelle sensibile del collo.
Vorrei voltarmi e non vedere quel riverbero di luce malsana nei suoi occhi dove il passato ha tracciato solchi troppo profondi, vorrei le sue labbra, per una volta, una sola, premere con grazia letale sulle mie, sentire, per un'ultima volta, quel serafico tocco venereo, a quel punto potrei anche lasciare che il torbido insano di quelle due pillole alabastri torni a cullarmi per sempre, datemi questo e dopo potrei anche..
Non so se ho urlato, non so se l'ho fatto. 
Vagamente mi rendo conto di avere la testa stretta tra le mani, di stare ansimando, di essere seduto o scivolato sul pavimento freddo con un terribile dolore palpitante alle tempie e la drammatica certezza di stare cadendo a pezzi, come se non avessi mai smesso.

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Capitolo 5
*** Dieci secondi ***


Non ho molto da dire, apparte il ritrovare in questa marmaglia tutti gli errori che per distrazione, capo vuota o la mia personale licenza poetica (ceeeerto e come no) mi portano a scrivere determinati sgorbi. In ogni caso grazie a chi segue questa storia e grazie di cuore a Megara X che ancora non ha chiamato il manicomio per la sottocritta. 
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CAP. 4



La notte lentamente si trasforma in giorno senza che i miei occhi si chiudano per più di dieci minuti. Vagano senza meta nell'oscurità complice della mia veglia nella stanza. E' facile guardare l'interno di queste pareti al buio, quando non è possibile distinguerne i dettagli. So che appena si presenterebbe la luce stringerei le palpebre impedendomi di riconoscere quelle pareti che sanno di lacrime, echeggiano di dolore e urlano di sangue.
Ho paura di fronteggiare il passato, di guardare in faccia i miei demoni.
Mi hanno ucciso una volta, lo faranno di nuovo. E proprio come allora io non ho la forza di combatterli. 
Quattro ore dopo sono nel cuore dello spasso più totale accompagnato dalla voce singolarmente profonda del prof. di filosofia nelle orecchie e l'attenzione andata troppo oltre per poter essere recuperata. Avverto il consueto formicolio di uno sguardo puntato sul mio corpo e non ho alcun bisogno di essere contemplato, come non ho bisogno di voltarmi per sapere chi è che ha il proprio paio di occhi fisso da trenta minuti su di me, ovvero quello del mio compagno di banco che si è spostato di mezzo metro, il massimo consentitogli prima che debba posare i suoi libri sul vuoto, che mi osserva con un cipiglio allarmato e il terrore negli occhi. Fa così da un paio di giorni.
"Caro piccolo Pewel, sapevo che non avevi tutte le rotelle apposto, ma non credevo riuscissi a raggiungere certi livelli".  Adoravo Pewel, davvero, prima che iniziasse a guardarmi come se fossi un maniaco e a trattarmi con la cauta prudenza con cui si tratterebbe un serial killer dichiarato.
Forse mi è venuta una lieve voglia di strangolarlo ora che gira le pagine del libro il più lentamente possibile come se potessi tirarglielo in testa da un momento all'altro.
Perfetto, vuole starsene ammassato in un angolo alla fine del banco per il resto dell'anno? Non potrei chiedere di meglio. Sposto il volume di filosofia verso il centro del nostro spazio e il cellulare sulla sua parte, tanto è troppo impaurito dal sottoscritto per azzardarsi a sfiorarlo anche solo con un'unghia. L'unica cosa di cui mi rammarico è di non potergli più chiedere le risposte logico-fisico-matematiche impossibili che manderebbero in crisi anche Einstein dei compiti in classe della professoressa Kiuscomikiz.
Pazienza, non sarò un fisico.
-Bukowski affermava che..-
Una sinistra irrequietudine si impossessa pezzo per pezzo di me, inizio a sentirmi a disagio, quel disagio che sto imparando a conoscere perché a quanto pare si è affezionato a me, quel disagio che compare nel momento in cui mi rendo conto di essere circondato da persone che sanno esattamente cosa vogliono.
Tutti i presenti in questa classe prossima al diploma hanno un progetto, degli scopi, degli obiettivi, mentre il mio unico obbiettivo da due settimane a questa parte è rimanere integro, possibilmente senza riportare ferite, non rispondere a niente che non sia la chiamata della tranquilla routine e starmene buono, sopprimendo tutto ciò che potrebbe portarmi ansia o sprazzi di tristezza, cercando di non pormi domande delle quali temo troppo la risposta.
Non ho nient'altro.
Non ho un orizzonte verso il quale guardare, non ho sogni verso i quali ambire, strappati tutti dagli ultimi letali avvenimenti, e cosa più destabilizzante, non ho una certezza.
Neanche una, neanche il più piccolo punto fermo sul quale possa contare senza il rischio di venir pugnalato alle spalle, nessun punto fermo contro il quale possa poggiarmi senza il rischio di cadere. Tutti loro invece, per loro scelta o per scelta di qualcun'altro, hanno un cammino preciso da percorrere. Sanno esattamente chi saranno.
Ma sanno anche chi sono
Li osservo nella mia placida attenzione alle parole del professore che non si accorge che neanche Bukowski oggi può catturare il mio interesse.
So come ci si sente ad avere tutta la vita davanti programmata fino all'ultimo giorno, e ad avere la spiacevole sensazione che sia stato tutto deciso senza di te, come se tu non avessi potere di decisione neanche su un respiro dell'intera tua esistenza.
Studia, ottieni buoni risultati, soddisfa gli standard, fatti conoscere, università, lavoro.
Nel mio caso potrei aggiungere "scuola privata", "università prestigiosa" e "lavoro ultra pagato".
Ed era tutto così perfettamente normale che non mi sono mai neanche chiesto se mi andasse bene, se fossi d'accordo almeno su una di queste cose, neanche io ho avuto la briga di interessarmi ai miei desideri. Ammantato dall'aurea di decoro che vantava la mia famiglia, ho creduto che volessi la rinomanza e il lustro.
Credevo di aspirare all'oro.
Mi sbagliavo. Tutto ciò che volevo era un semplice, futile, segretamente bramato abbraccio, una parola di conforto quando ero così sotto pressione da impedirmi anche di respirare, un sorriso sincero, d'indulgenza magari, verso quello che riuscivo a fare ma anche verso quello che non riuscivo a fare.
Mi sarei accontentato dell'argento, anche del bronzo se avessi saputo che il "nome" compromette i rapporti con i tuoi genitori che ti trattano come una macchina bella e costosa da mostrare agli amici (rigorosamente con una busta paga alta quanto la loro) per farli morire d'invidia, dimenticando che saresti una persona con dubbi, voglie, disagi, necessità, dimenticando che forse saresti anche loro figlio. Per non parlare di quanto il "nome" comprometta i rapporti con il resto del mondo. 
Ma no, tu dovevi essere il pezzo forte tra gli oggetti esposti nella loro splendente vetrina, l'arma segreta che permette di persuadere più facilmente uno dei più importanti affaristi della Polonia a prendere accordi con tuo padre. Magari dopo, come ciliegina sulla torta, tanto ci sei, esci pure con la sua impeccabile figlia dagli impeccabili capelli, con il suo ombretto delicatamente rosato sugli occhi e il mascara mai troppo nero sulle ciglia.
E in 10 secondi ho cambiato tutto. Solo 10 secondi e ho distrutto il mio mondo.
Ho detto no alla risatina graziosamente contenuta dietro a una mano, preferendo quella forte e incontrollata di chi sorride attraverso le lacrime; mi sono rifiutato di scegliere l'apparente indissolubile perfezione per prediligere il devastante struggimento di un'anima che non finge di avere l'oro nelle mani in questo mondo del cazzo fondato sull'esteriorità e su quanto siano firmate le tue mutande, anch'esse del cazzo.
Prendiamo questo branco di adolescenti morti di alcol e libertà, si accontentano di assaporare pochi infinitesimi attimi in cui possono essere concretamente se stessi, anche a costo di recitare un ruolo che non appartiene loro per il tempo restante.
Almeno io, nel mio modo insano, ho mostrato alla luce de sole il mio vero volto, alterato, mascherato, ma c'era, ed era facilmente riconoscibile se solo qualcuno avesse acuito la vista un po' di più.
E mi chiedo, con la voce dell'insegnante a fare da sottofondo, se essere stato me stesso, se aver avanzato la pretesa di essere diverso, mi avesse davvero reso diverso, ne è valsa la pena? 
E' valsa la pena consumarmi per questo?
Corrodermi dentro mi ha solo fatto capire che siamo una razza alla continua ricerca della più fulgida perfezione, anche se la perfezione è sopravvalutata.
Nelle cose che fanno gli esseri umani voglio vedere le cicatrici, le cadute, il casino, gli errori.
Mi guardo intorno circospetto, per un millesimo di secondo ho creduto di aver elaborato i miei interessanti arrovellanti mentali ad alta voce.
Ma no, ovviamente non l'ho fatto.
Tutti i presenti sono ancora dediti a scrivere con lentezza estenuante sulle righe dei loro quaderni o a spiare qualche notifica sul proprio account facebook alla fasulla insaputa del professore, mentre io creo scompiglio tra i miei neuroni con le conclusioni di uno che è andato in coma per quattro giorni per overdose di
droga o di emozioni, come se proprio io potessi fare lezioni di vita a qualcuno, come se possa essere migliore perché ho avuto il coraggio di..farlo.
Che schifo.
Da quando il futuro è passato da essere una promessa ad essere una minaccia?
L'ultima parola che slitta nella mia mente urta con lo sguardo che si è inaspettatamente sollevato.
Non un po' più giù o un po' più su, quello sguardo ha mirato preciso, dritto alle mie iridi, si è piantato prepotentemente dentro di esse che adesso hanno creato un contatto quasi palpabile con i loro diretti provocatori.
Aleksander ha i suoi occhi scuri fissi nei miei, e io spero che i miei siano abbastanza incendiari attraverso l'inquietudine della quale si fanno forti, generando due occhi illeggibili e intimidatori. Il professore non si è accorto che uno dei suoi studenti ha il volto girato verso due file più indietro della sua e io vorrei che lui la smettesse di guardami con quel' indecifrabile scintilla nel colore intrigantemente illune dei suoi occhi.
"A cosa pensi stronzo?"
A quanto sia pietoso? A quanto sia stato stupido?
A quanto profonde siano le occhiaie che so mi adornano il contorno occhi in questo preciso istante? A quanto tu sia immensamente più adatto, resistente, disinvolto, pronto, normale rispetto all'impreciso, morboso, difficile ragazzo che non accenna ad abbassare gli occhi dinnanzi ai tuoi?
Il mio sguardo resiste sul suo viso, i miei occhi persistono nei suoi, immobili i suoi, fermi i miei, assoluti nella loro fragilità. 
Che cosa sta facendo? Quegli occhi impenetrabili stanno lanciando una sfida altrettanto enigmatica? E io, che diamine sto facendo? Sto rispondendo a quelle due pozze scure con altrettanta imperscrutabilità o riesce a leggere qualcosa tra questo azzurro?
Ma alla fine, qualunque sia il motivo che lo ha spinto a girarsi, qualunque sia l'irragionevole ragione che ha spinto i suoi occhi a incantenarsi per un lasso di tempo troppo lungo con i miei, è lui a dover abbassare lo sguardo, a dover rinunciare a un cedimento da parte mia.
Il mio mento era alto, il pearcing riluceva nel cambio di prospettiva dovuto al mio sopracciglio appena inarcato e la fierezza che ha manovrato il mio sguardo sorrideva impertinente. Un battito di ciglia e quella fierezza è come se non fosse mai esistita. Ma so che c'era, so che non è stata solamente una troppo vivida immaginazione, perché ho portato Aleksander Lubomirski a cedere per primo, a desistere qualunque fosse il suo intento.
Ho assicurato allo psichiatra di "fare il bravo", l'ho promesso a me stesso poiché è l'unico modo di evitare una caduta più dolorosa della precedente, uno squarcio troppo profondo nelle già troppo ampie crepe dell'oscurità che non mi lascia andare.
Eppure -in quel momento non potevo saperlo- avevo lanciato un seme su un terreno fertile, più propenso di quanto si potesse mai credere a far crescere qualcosa.
Quel "qualcosa" che, probabilmente, mi aveva distrutto una volta, nella totale e irreversibile occasione onnipotente in cui un pizzico di coraggio in più può fare la differenza tra bene e male, salvezza e dannazione.
Il coraggio di non mostrarmi vulnerabile davanti alla persona che aveva dato il via ufficiale a quella lenta ma constante discesa negli inferi, la persona che mi aveva, prima di tutte le altre, fatto sentire inadeguato e sbagliato e terribilmente solo. 
Quel coraggio deve essersela data a gambe non appena il diciottenne ha voltato il viso verso qualcosa che non sono io, perché adesso mi sento perplesso e snervato, e di quella arcana fierezza, di quell'ermetico coraggio, non è rimasto più niente, nessun indizio che ci siano, neanche la più piccola traccia che ci siano mai stati.
Ho paura, paura che sorge dalla consapevolezza di esserci guardati dieci secondi, dieci miseri secondi in più di quanto avremmo dovuto, dieci fottuti secondi in più di quanto avremmo dovuto mai concederci.
Folle, insano, maledetto coraggio.

 

***

 

So che la scuola offre incontri di sostegno e che uno psicologo si aggira tra queste mura, ma la professoressa di matematica non sembra voler desistere dal ricordarmelo -in sede privata- ogni singola lezione.
Come se non mi bastassero già le sedute che sono costretto a fare con lo psichiatra per i miei "disagi" (da schizzopatico) ogni settimana e con persone che dovrebbero aiutarmi ad abbandonare la mia dipendenza da internet.
E a volte avrei davvero il forte impulso di aprire un computer, ma non è della tastiera, del mouse o della schermata di facebook di cui ho così bisogno, ma di chi c'è o c'era dietro a quel computer. Questo tutti quegli specialisti da strapazzo non lo capiscono, ed io non credo che farceli arrivare sia nelle mie priorità.
Si preanuncia una bella seccatura.
Gli unici momenti in cui mi distraggo davvero sono le lezioni di boxe, quando mi accanisco contro il sacco come se non ci fosse un domani. E chi lo sa, a questo punto, forse non c'è davvero. In quei momenti, tutto ciò che riesco a trovarmi dentro lo spingo nelle braccia e nelle mani e lo proietto fuori, in quei colpi secchi e anarchici.
Ci sono delle regole nella boxe, come in tutti gli sport che si rispettino, delle tecniche, delle tattiche, e a volte le imparo davvero, mi sforzo a seguirle al cento per cento; altre volte volte, però, le accantono, me ne libero completamente scaricando tutte le mie forze, quelle che ho e quelle che non ho, in pugni privi di logica, privi di grazia, privi di criteri, traboccanti di indisciplinato selvaggio. E alla fine mi ritrovo ansante, col fittone, la pelle imperlata di sudore, la maglietta
bagnata attaccata al torace come se fosse un tutt'uno col corpo e i muscoli doloranti ed esausti.
Sto appuntando qualcosa su Oscar Wilde e, in risposta ai miei pensieri, il tricipite del braccio destro si lamenta ogni volta che sposto la mano per andare a capo o faccio troppa pressione con la penna. Ad un tratto un fruscio leggero troppo vicino alla mia distanza di sicurezza mi porta ad alzare lo sguardo. Un pezzo di carta appallottolato è caduto, o molto più probabilmente stato lanciato, accanto al mio banco. Lo prendo e dispiegandolo riconosco la scrittura arrotondata e lineare di Sandra.

Vieni all'Ocelot* sabato?

Mi volto scorgendo il suo sorriso spigliato in ultima fila.
Alzo una spalla in risposta. "Forse".
Lei ostenta uno sgargiante broncio, poi si diletta nel fare una serie di smorfie verso tutte le schiene dei presenti e mi fa capire, a suon di facce e gesti, che saremmo stati insieme con il suo gruppo.
Ha una luce troppo sincera negli occhi, brillano di spontaneità e io non sono così neiutralmente distaccato come faccio credere. Forse uscire per non venire a scuola mi avrebbe ricordato com'era starsene davanti a un bicchiere di birra ad osservare il resto del mondo andare su di giri.
E' lunedì, il secondo da quando cammino di nuovo per questi corridoi che, ci terrei a sbagliarmi, conosco troppo bene, e ignoro il perché Sandra mi stia invitando a uscire sei giorni prima. Non ho l'agenda piena d'impegni, diciamo che vivo alla giornata da un po' di tempo a questa parte, "come arrivare a fine serata senza pensare a una stanza della quale già il nome è tutto una poesia?"
Prima che torni a concentrarmi sulla letteratura, materia che mi ha sempre appassionato, vedo che lo sguardo della ragazza si è spostato su qualcos'altro non lontano da me e le sue labbra formulare silenziosamente le parole "Czego Checsz?" (Cosa vuoi?) Passo in rassegna l'aula ma nessuno è voltato verso la sua direzione, così le mostro un cipiglio interrogativo che afferra al volo. Per tutta risposta si indica il polso coperto da bracciali colorati e alza gli occhi al cielo.
Immaginando al posto di quei bracciali un orologio costoso e analizzando per mezzo secondo l'espressione vagamente seccata di Sandra, non mi è difficile capire a chi si fosse rivolta e di chi stesse parlando. Mi soffermo, per la prima volta, sul fatto che il segno distintivo di Aleksander è l'orologio che ha incollato al posto e che, se potesse, non toglierebbe neanche sotto la doccia.
Lui è il tipo perfetto nell'esibire i suoi soldi nell'eleganza, nelle camicie aderenti dal taglio su misura per lui, jeans con la sigla segnata sul girovita, e bracciali d'acciaio o dalle sottili maglie d'oro. Io invece con gli orologi non ci ho mai avuto molto a che fare, una camicia l'ho indossata al ballo e da allora non ne ho più sfiorata una e l'unico bracciale che spicca sul mio polso è una sottile fascia nera.
-Cosa c'è sabato all'Ocelot?- chiedo alla tedesca seduta sul muretto davanti scuola poche ore dopo.
-Alcolici gratis fino a mezzanotte!- risponde lei con enfasi. Molti visi si girano verso di noi al suono squillante della sua voce.
-E perché vuoi che venga?-
Mi tira un colpetto sul braccio. I suoi colpetti sono i colpi che ti darebbe un lottatore di wrestling. Credo che segretamente si dedichi a questo sport, o non riuscirei a spiegarmi la forza con cui ti slogherebbe il collo con uno schiaffo.
-Ti sottovaluti un po' troppo Santorski- ribatte la bionda con un sorriso cospiratorio sul viso spruzzato di lentiggini.
-Guardali, i fighetti di turno.- Sposta una gamba oltre il muretto, sedendocisi a cavalcioni di sopra per avere una visuale perfetta dell'entrata della scuola dal quale stanno uscendo coloro che comunemente sono noti come "VIP".
-Asher va dietro a Karolina da un anno e lei non gliel'ha mai neanche fatta annusare.-
Inarco un sopracciglio in una palese espressione eloquente nella sua direzione.
-Eeeh vabbè, non se lo fila.-
-E tu come lo sai?-
-Perchè lei, zoccola si, ma ha gusti migliori.-

 

***

 

-Tre giri di pista chi c'è la fa, chi si stanca può fermarsi prima e iniziare a fare gli esercizi di riscaldamento. Ricordate, il modo migliore per mantenere un ritmo sostenuto e una resistenza prolungata è respirare bene e non fare scatti di velocità, sono inutili sprechi di energia.-
Mi guardo attorno mentre l'istruttore elenca le basi di una buona corsa. Lo fa tutte le settimane, quindi mi prendo il lusso di non ascoltare le sue parole.
Me lo sarei preso comunque questo lusso.
La pista pullula di ragazzi in tute e canottiere, felpe legate alla vita e scarpe da tennis pronte a scattare. Sto stremando il mio corpo in via di ripresa tra boxe, atletica e corse, ma ho sempre amato correre. Almeno lo amavo prima di iniziare a non sopportare più niente, senza distinzione.
A vedermi sembra che non sia cambiato nulla. Io, in tuta nera e canottiera bianca, in mezzo alle persone delle quali potrei contare le sbronze, sotto il cielo plumbeo di un giorno d'Aprile, azzarderei a dire che ogni tassello del mio incasinato puzzle e tornato al suo posto, ma non è più la stessa cosa. Quei pezzi non combaciano più alla perfezione, o forse non l'hanno mai fatto, ma nessuno lo dava a vedere.
Però so correre, e allora perché non farlo fino a che le mie gambe non chiederanno pietà? 
L'atmosfera rilassata che aleggia nell'aria circostante mi ricorda che non è una gara di velocità, ma d'altronde, chi se ne frega?
Ci sparpagliamo sulla linea di partenza.
-3-
Posiziono le gambe.
-2-
Mi piego.
-1-
Sollevo il bacino.
-Pronti..-
Alzo lo sguardo e tengo sotto mira l'orizzonte.
-VIA-
Scatto in avanti.
Il vento non tarda a passarmi tra i capelli, gettandoli all'indietro mentre supero la maggior parte degli altri.
Le gambe incrementano la velocità, si lanciano in un movimento agile e costante, le suole delle scarpe saggiano appena il suolo volando sul terreno.
Il paesaggio sfreccia sfocato mentre fendo l'aria con le braccia, complici dell'aumento di velocità.
Non so se sono primo o ultimo, o se la mia resistenza sta per cedere. So solo che mi piace il bruciore sotto la pelle dei muscoli che si contraggono e il respiro sincronizzato ai battiti del cuore. E lo sento il cuore, lo sento nelle orecchie, nel corpo, contro la cassa toracica. E' bello non avere assolutamente niente in mente, nessun brusio, nessuna voce, niente che possa fermarmi.
Il corpo mi intima di fermarmi, il respiro si fa più sottile, ma l'accenno del crollo mi incinta a spingermi oltre, mi porta a voler osare di più. Sono quasi alla fine dei tre giri, potrei continuare ancora. E ancora. 10 secondi ed è finita.
E' una gara, una sfida che ho lanciato a me stesso, e che me stesso ha colto al volo. Non so perché ci tenga tanto, non so cosa voglia dimostrare, ma quel bastardo ha giurato di vincere e io non posso permetterglielo. Corre veloce, corre veloce come la luce, che inseguo senza sosta ma che non riesco a raggiungere. Eppure è così vicina..sarebbe così facile, scattare un tantino più velocemente, azzardare un po' più in alto, per riuscire ad afferrarla. La sento sulla pelle, ma non posso abbracciarla, la vedo nell'aria, ma non posso sfiorarla. C'è, ma è come non volesse esserci, non per me. Perché io mi sono lasciato sedurre dall'oscurità, ho cercato il buio, ho bramato il silenzio piuttosto che scegliere lei, e adesso non è più così facile. Adesso vuole che la conquisti. Ma come si può conquistare qualcosa che è sempre stata tua? Come si può ambire a qualcosa che non puoi trovare in nessun posto se non dentro di te? Ignoro il dolore alle gambe, le fitte all'addome, la stretta al costato, sto cercando quella luce, e la sto cercando nel vento che sbatte sul viso, nel respiro divenuto irregolare, nei battiti del cuore. E' la prima volta da quando ho di nuovo messo piede nella vita che sento di possederlo davvero un cuore, sento di averlo ancora, sotto macerie, sotto cenere e resti carbonizzati, sotto ferite e parole, è questo il segreto, perché è lì che è la luce, è li che si trova la salvezza.
Ma l'oscurità è ammantata dal fascino perverso che solo il proibito può elargire, basta un riflesso del colore dell'argento a farmi esitare, basta lo smarrimento di un secondo, e sono a terra.
Dopo esserci volato a terra, dopo aver rotolato pesantemente per qualche metro grazie alla spinta della velocità che cavalcavo.
Rimango immobile e solo dopo aver constatato che ho fatto una caduta ammirevole e per niente rassicurante mi azzardo a concentrarmi sul mio corpo, scosso quanto me dall'improvviso cambio di prospettiva. La mia attenzione si focalizza su più punti saggiandone l'integrità e soffoco un gemito quando mi tasto il polso destro con l'altra mano. Cerco di sollevarmi. E proprio quando le parole di una banale quanto stupida domanda mi compaiono tra le cellule celebrali, ovvero "Le gambe mi reggeranno si o no?", che entra in collisione lo sghignazzare compiacente di chi ha il mondo in pugno, levatosi alle spalle dell'istruttore che si avvicina per controllare se mi sono fracassato il cranio nel brusco rapporto ravvicinato che ho avuto col terreno.
-Che succede Santorski?- Niente, mi è venuta voglia di abbracciare il terreno. -Stavi andando molto bene- mi aiuta ad alzarmi.
-Sono caduto.-
La scusa più vecchia del mondo, sono caduto, mi sono tagliato col coltello mentre affettavo il pane, mi ha graffiato il gatto..ma lui sembra crederci. Mi soppesa con lo sguardo, cercando qualche frattura sfuggita alla sua lungimirante attenzione.
-Che succede mio principe?-
Un attimo prima sto facendo il cerbiatto ferito con l'allenatore, l'attimo dopo mi volto verso quella fantastica voce che mi fa venire la fantastica voglia di saltargli addosso e prenderlo a cazzotti. E non fermarmi alle ferite mortali.
Le stesse parole, pronunciate da lui, con la faccia di uno che si sta divertendo parecchio, il sorriso ghignante a incrinargli l'espressione pomposamente seriosa quando incontra lo sguardo dell'istruttore, mi fanno balzare meccanicamente in testa la sublime immagine di prenderlo a calci in mezzo alle gambe. Ecco il mio meraviglioso piano, devo solo oltrepassare la corazza formata da anni e anni di intenso allenamento e vede come lo castro per il resto della sua..Una lama. E' una lama quella che ho visto. E' l'argento della lama di un coltello che ha catturato i raggi del sole. Mi basta alzare di poco lo sguardo sui minacciosi bagliori che emanano gli occhi miele di Asher per realizzare all'istante il perché il mio polso pulsa di dolore.
Le sue dita spingono il coltello più a fondo nella tasca ma non riesce a nascondere abbastanza velocemente alla mia vista le tracce di ketchup sulla sua lucente superficie. Divertente, davvero divertente. E il mio essere completamente e totalmente rincretinito, paranoico e irrequieto mi ha fatto reagire d'istinto alla vista di quell'oggetto tanto innocuo quanto letale. E a del ketchup. Sono finito a terra per del ketchup. Dire che vorrei prendermi a schiaffi fino a non ricordarmi come mi chiamo è un eufemismo. Nessun altro sembra aver visto l'oggetto della mia repentina caduta al suolo. Calmo, devi stare calmo. E' un coglione col cervello di un'anatra cannibale, va tutto bene, tutto meravigliosamente bene..
-Santorski c'è la fai ad andare in infermeria da solo?-
-Si- rispondo prendendo la felpa nera con la mano utilizzabile, -C'è la faccio.-
Rientro negli spogliatoi immettendo l'aria persa durante la corsa nei polmoni e sotto lo sguardo dei presenti ho un solo, unico pensiero in testa e un'unica immagine davanti agli occhi. 
"Ho bisogno di un computer. Ho bisogno di te."

 

***

 

-Aleksander, se non migliori i tuoi voti in letteratura e storia scordati skateboard, soldi e uscite il sabato sera. Questa ti assicuro che è l'ultima volta che te lo dico. Alla prossima valutazione negativa ti chiudi in casa. Siamo intesi?-
-Si mamma.- rispondo con un certo tono petulante che non riesco a non usare contro le parole di mia madre e lo sguardo perso di chi sta prestando si e no il 50 per cento della sua attenzione all'ambiente circostante. Sbuffo. Questa maledetta storia, ma perché dobbiamo dare una tale importanza a cosa è successo mille anni fa? Tanto vale conoscere tutte le razze di dinosauri a memoria, non si sa mai che ci troviamo a doverne cavalcare uno. Mi alzo e mi dirigo in camera mia. Questa scenetta sta diventando un po' troppo familiare, e lo sarà fino agli esami se quella stupida vecchia bacucca della professoressa Sciumpatewich non la smette di scrivere voti negativi su quel suo registro del cazzo con la sua penna blu del cazzo. Non è mica colpa mia se l'universo ha una sorta di automatica simpatia dilagante per me, una simpatia che lei non ha mai digerito. Me le ricordo ancora come se fosse ieri le occhiate incendiarie che riservava al giovane talento di Judo al primo anno. E quattro anni più tardi, da un mese, fa di tutto per portare all'esasperazione quello stesso talento di Judo, mettendomi voti non eccelsi, diciamo neanche discreti, ma neppure accettabili. Non si possono guardare. Questo perché non sopporto la storia? Probabilmente, ma la mia antipatia per una materia non mi ha mai impedito comunque di ottenere risultati almeno guadabili. Questo almeno prima che la mia cara professoressa non si mettesse in quella zucca diabolica che deve pormi domande a cui neanche i protagonisti della storia stessa saprebbero rispondere. Le sue interrogazioni sono diventate terzi gradi nei miei confronti. Fanno paura. E non è ancora colpa mia se la storia è una di quelle materie che non fanno niente per risultare interessanti. Ti si presenta li, con quei volumi che assomigliano tanto alla Bibbia, con tutte quelle date inutili di avvenimenti che potrebbe raccontarmi anche l'adorabile cugina Kirazia. E non so ancora quale sconvolgente segreto custodisca lo stato polacco per avvalersi della pretesa di considerare a tutti gli affetti quella donna mia "cugina". La cara Kirazia, infatti, vanterà si e no un cinquecentocinquanta anni, ma per lo stato di parentela lei è mia "cugina". Ecco, lei è il tipico essere umano che c'era durante la seconda guerra mondiale, c'era durante la prima guerra mondiale, c'era quando hanno inventato le auto, la lampadina, e scommetto che c'era anche quando hanno scoperto la ruota. Molto probabilmente avrà cavalcato un dinosauro nei suoi anni d'oro. E ha una ruga per ogni avvenimento. Rabbrividisco al pensiero della sua faccia, quella si che ha una ragnatela di storia sul viso. E come la cugina Kirazia non presta neanche la minima attenzione a quello che si mette addosso e che lei osa anche chiamare "vestiti", anche la storia non si preoccupa di risultare interessante. Perché non prova con una minigonna, o una calza un tantino più trasparente, o una scollatura a V in modo da lasciare intravedere le grazie. Poi penso alle grazie della cugina Kirazia e capisco perché io non trovo punti d'appoggio con la storia. Perché la storia è la cugina Kirazia. 
La letteratura è un altro paio di maniche. Nonostante vada bene, Sciumpatewich mi odia a prescindere, e ha iniziato da qualche mese a questa parte a chiedermi cose assurde su autori assurdi che non rimembra neanche lei. Non sono un appassionato di "antichi capolavori," ma non la detesto. Semplicemente detesto l'insegnante, e, proporzionalmente, detesto anche lei. E iniziando a detestarla ho iniziato anche a non studiarla. Ogni cosa va proporzionalmente. E' logica. 
Il display del cellulare, lanciato malamente sul letto, si illumina rivelando l'arrivo di un messaggio che ha come mittente Samuel, oltre alle trenta nuove notifiche Facebook.

Che hanno detto?
Papà non è in casa, mamma è abbastanza nervosa.

Dovresti darti una mossa, la Sciumpatewich ti fa nero, sai che non le piaci. Sbuffo per la seconda volta. Non posso preoccuparmi anche di lei, ci sono i campionati di Judo, gli esami di stato, la certificazione europea d'inglese che mio padre è tanto convinto a volermi far prendere, gli allenamenti, la tesina.. Ci parleranno gli altri prof.
Non le frega di questo e tu lo sai. Samuel perché vuoi pestato?
Allora sentiamo Dante, cosa dovrei fare?
Fatti aiutare da qualcuno. Sorriso scettico. Se mio padre deve pagare anche ripetizioni di storia e letteratura questa è la volta buona che mi fa fuori.
Infatti fatti aiutare da qualche studente.
Potrei chiedere a qualche bel visino di darmi una ripassatina..
I visini che piacciono a te sono già fortunati se passano l'anno. Devi chiedere a qualcuno già bravo di suo in queste materie genio. Qualcuno che non si ci deve impegnare più di tanto.
Merda Samuel hai qualche consiglio?
Non ti piacerà. Mi manderai a fanculo.
Io ti ci sto mandando già adesso. Spara.
Perché non chiedi a Santorski? 
Fanculo.
Oh andiamo sai che ha una propensione naturale per questo genere di roba poetica.
Non se ne parla. Ripeto l'anno piuttosto.
Allora fottiti.
Allora mi fotto.

Il cellulare risulta improvvisamente accattivante tra le mie mani. Sarebbe questione di poco, questione di attimi, inviare un semplice, banale messaggio del tipo "Hey ti ricordi di me? Sono Aleks, quello che un mese fa ti ha sputtanato su Facebook". Ma dai Samuel, davvero puoi anche solo lontanamente supporre che proprio lui possa accettare di fare qualcosa proprio con me? Dominik Santorski, l'orgoglio formato diciottenne moro polacco? Per non tenere in considerazione gli strepiti del mio di orgoglio, che impediscono, convinti come sempre, autoritari come non mai, alle mie dita di posarsi sul nome utile allo scopo trovato in rubrica. Potrei chiedere a qualcun'altro, chiunque altro, anche la Sciumpatewich stessa, anche la cugina Kirazia, ma non lui. Perchè diavolo deve essere lui il migliore in letteratura? Perché non poteva essere bravo in, che so.. educazione fisica? Ah già, perchè il migliore in quel campo sono io. Perfetto, sono Aleksander Lubomirski, talento ascendente del Judo regionale per due anni di seguito e quest'anno uno dei favoriti per il campionato nazionale, possiedo tutti i requisiti standard per entrare in una delle migliori universitá d'Europa e beh, non credo esista uno studente che ha fatto vincere alla scuola che frequenta tante medaglie quanto me al mio ingrato liceo, perchè questa donna barra arpia barra iena vuole indurmi alla più bruciante caduta a un passo dal volo finale? In altre parole: perchè mi sta scassando le palle proprio adesso? 
Mi rendo conto di star tenendo nervosamente il tempo col piede quando a quel ritmo accompagno le parole in spagnolo di una qualche canzone. Sono alla frutta. Sarebbe veloce con lui, qualche incontro e sarei pronto a sostenere un'interrogazione tenuta anche da Adolf Hitler, certamente un parente alla lontana della Sciumpa. O una reincarnazione. Dipende dai punti di vista. Ma poi che me ne importa di quello che dirà, mi serve avere il massimo e superare quest'interrogazione, ma di certo non mi metto a implorarlo o a elemosinare un compagno di studio. Metà del corpo femminile farebbe a gara per passare un pomeriggio a flirtare con me, metà del corpo maschile farebbe altrettanto per passare un pomeriggio a cazzeggiare con me. È lui quello strano, quello equivoco, quello che ti si presenta con l'eyeliner intorno agli occhi da un giorno all'altro perchè si è messo in testa che deve ribellarsi, che deve andare controcorrente, che deve distaccarsi da tutti e tutto perchè nessuno è all'altezza di essere onorato della sua presenza. E grazie che ha una propensione naturale per la letteratura Samuel, passa le sue giornate a fare il poeta solitario. Ribellarsi a che poi? 
Messaggi, nuovo messaggio. 
"Eilà Nik me la dai una botta con letteratura?" 
Si, una botta, e già mi ha mandato a quel paese. Coglione tu e coglione io che mi faccio tutti questi problemi per uno qualunque. 
"Dominik, so che hai da fare, ma dovresti proprio aiutarmi in letteratura." Il tenere in conto dei suoi impegni, il senso del "dovere", mm..forse potrebbe funzionare. Giá che ci sono scarichiamo la colpa su qualcuno che non sia io, così gli faccio capire che sono stato costretto da un'impellente necessità e questo messaggio è partorito dalla criticità della situazione e che non è un'idea assolutamente partita dal sottoscritto. Aggiungo: "la Sciumpatewich è pazza."
Rileggo l'insieme delle cazzate che ho scritto, sembra che funzioni. O almeno, avrebbe funzionato se, proprio in quel momento, i miei neuroni non avessero deciso di affollare le già fin troppo affollate stanze della mia mente con ciò che è stato prima per far tramutare gli occhi di Dominik in due gelide schegge di asprezza non appena mi vede adesso. Anzi no, gli basta avvertire solo le mie vibrazioni nell'aria per cambiare temperatura e scendere a quella a meno quaranta. E i ricordi non mi hanno preso in pieno, mi stanno letteralmente bombardando con la carrellata di bagliori di sensazioni che si portano dietro. 
Lancio il cellulare sul letto come se fosse una pietra incandescente. Mi sono bevuto il cervello? Come posso credere che mi degni anche di una risposta? Tutto ciò che devo sapere c'è l'aveva scritto in faccia stamattina, quando mi sono voltato e ho azzardato a guardarlo per più di dieci secondi. Non chiedetemi perché abbia avuto questa improvvisa idea di osservarlo, né perché lui ha alzato gli occhi sui miei e non l'ha riabbassati con quella luce di indifferenza che puoi scorgere prima che le sue iridi non ti guardino già più. In questo modo però, ho potuto leggere chiaramente, in quel ghiaccio, la diffidenza tagliente che mi ha scaraventato addosso sul nostro filo di sguardi. Sono un idiota. Un idiota piuttosto figo però. Capitemi, non posso fare a meno di pensarlo mentre passo davanti al lungo specchio appeso nell'armadio e intravedo piacevolmente il mio riflesso. Se c'è una cosa che conosco di Dominik Santorski è la ferma caparbietà del suo scellerato orgoglio. Non si lascerà neanche avvicinare da me, figurarsi passare ore e ore a stretto contatto l'uno con l'altro. Ma l'ira della Sciumpa incombe su di me, mi ha concesso appena due settimane di tempo per prepararmi all'interrogazione del secolo la quale si diletterà a sottopormi, mia madre mi ha dato l'ultimatum prima che mi costringa a trasformarmi definitivamente nel monaco di clausura più giovane della storia e, prima che possa anche solo realizzarlo, ogni fibra del mio essere ha già preso il rendere Dominik Santorski accondiscende come una sfida. E' il momento di cambiare tattica. Fino a che punto riuscirai a spingerti amante del nero?




*Ocelot: Gattopardo (polacco)

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Capitolo 6
*** Il cielo è rosso stanotte ***


Non uccidetemi per la lunghezza, è un capitolo di passaggio, ma di passaggio vero, quindi perdonate in anticipo la mancanza di un cinquanta righi in più.
Grazie moltissime delle visite e buona lettura.

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CAP. 5




Un sentiero oscuro ospita i miei passi. Scricchiola ghiaia sul terreno. Nulla è visibile oltre la cupa nebbia. Le stelle non rischiarano la via, la luna gioca a un nascondino perenne. Forse sto volando, forse non sto facendo molto oltre il mettere una gamba davanti all'altra, ma non ne sono sicuro. Non so dove sono, né dove sto andando. Non avverto il mio respiro, non sento i battiti di alcun cuore. Il mio corpo non è stanco, e la vista non è più ceca.
Dinnanzi a me, l'oceano. 
L'oceano con le sue onde che si infrangono perenni contro gli scogli, la sabbia bianca cosparsa di minuscole gemme di sale, la pace della frivola brezza marina che scuote i capelli. Sono perso nella notte senza stelle.
-Guarda, l'oceano. Ti piace?-
La prospettiva cambia, forse mi sono voltato. L'aria vibra di quella voce.
-L'oceano può fare tutto ciò che vuole.-
La voce fantasma mi penetra nelle ossa, troppo suadente, troppo millantatrice, troppo familiare per non riconoscere il brivido che mi percorre lungo la schiena. 
Perché so a chi appartiene, e il ricordo mi corrode l'anima.
Conosco quell'oceano che sa di tetra, meravigliosa desolazione, riconosco la sensazione di andare a mille, perduto nel vortice inconsulto dell'accettazione malsana.
-Tu inganni te stesso. Perché lo fai.-
Voglio vederla, voglio vedere a chi appartiene la voce dal dramma ammaliante e vedere che non mi sbaglio. Allungo una mano, compare sullo sfondo, le dita affusolate sono una nota troppo candida in quella landa di nero.
-Devi morire un po' di volte prima di iniziare a vivere davvero.-
L'oceano è più fosco, le onde più alte, l'aria soffia una melodia malinconica sottomessi alla pressione, al freddo, al fremito crescente.
-Muori Dominik.-
La voce mi trapassa come un pugnale nella pelle, lenta, inesorabile e distruttiva.
-Muori Dominik.-
Il vento diviene tempesta, la gola brucia, le mani tremano, eppure vorrei che pronunciasse ancora il mio nome, stregato da sempre dal modo in cui suona erroneamente giusto tra la melodia ambigua della sua voce.
-Muori Dominik, ancora una volta, fino a che anche il sangue non potrà fare a meno di te..-
La schiena si solleva con uno scatto troppo veloce. Il modo vortica per qualche istante prima che gli occhi si abituino alla stanza che assume la sua forma, il respiro segnato da singhiozzi ansimanti. La ragione riconosce l'ambiente circostante nella tenebrosa penombra, realizza che le gambe sono state vittime dell'aggrovigliamento di lenzuola che le tiene imprigionate. Sembra che una pantera abbia lottato sul letto, e invece sono solo io, col respiro corto e i capelli attaccati alla fronte imperlata di sudore. "E' stato un incubo", mi ripeto.
"E' un incubo", mi rispondo.
Mi passo una mano tra i capelli e districo gli arti inferiori dalla matassa di coperte. Varco la soglia della mia stanza. Una manciata di frammenti di tempo fa mi sarei premurato di non far cigolare la porta nelle mie frequenti passeggiate notturne. Adesso non ho più questa preoccupazione da quando i miei mi proibiscono di chiudere le porte. Ora che ci penso, sono sparite tutte le chiavi.
La cucina mi accoglie con la sua complicità silenziosa.
L'acqua fredda che mi getto in gola schiarisce ai miei sensi atrofizzati le idee su quale sia sogno e quale realtà. Alla fine giungo alla risposta. Ciò che viene comunemente chiamato sogno, ovvero fenomeno psichico legato al sonno, caratterizzato dalla percezione di immagini e suoni riconosciuti come apparentemente reali dal soggetto sognante, ha un termine, una data di scadenza, una fine. La realtà, invece, sembra pronta a torturarmi per sempre.
Cosa ha detto lo psichiatra durante il nostro ultimo incontro?
"Vedrai, se continui così, tornerà tutto come prima."
Ci ripenso, mi concentro, cerco di crederci, ma non credo che le cose potranno mai tornare come prima. 
Ma questo non gliel'ho detto.
Non gli ho detto che, insieme al mio crollo, sono crollate anche maschere, stereotipi, apparenze, inconfutabili certezze. Non gli ho detto che un nuovo sole, forse più macabro, forse più venereo, ha rischiarato angoli di stanze nascoste da anni di artefatte falsità. Non gli ho detto che non passa giorno in cui non mi chieda perché l'ho fatto, e perché non lo faccia di nuovo.
Rigiro il bicchiere tra le mani osservandone la lucida superficie vetrata. Neanche un alone, una crepa, una piccolissima invisibile imperfezione sull'esterno bianco trasparente. Eppure ricordo bene che questo bicchiere è stato la mia abituale vittima da piccolo, quando lo prendevo di nascosto giocandoci fino a che non lo scheggiavo come si doveva. Mia madre si arrabbiava ogni volta, e lo faceva aggiustare ogni volta. Osservandolo meglio mi rendo conto che forse non è di vetro ma di cristallo. Questo spiegherebbe la maniacale premura con cui ci teneva che fosse sempre impeccabile. E non importava se quei lati cristallini c'erano quando fingevo di essere un illustre uomo d'affari con un'immaginario sigaro tra le labbra le cui spirali di invisibile fumo incantavao un platonico interlocutore, o se era fatalmente caduto un giorno che avevo provato, per la prima volta, un alcolico, un liquore conservato gelosamente dai miei perché dal valore di sessanta zloty e, quando il liquido ambrato mi aveva sfiorato la gola, mi era preso un attacco di tosse così forte da aver lasciato cadere copiosamente bicchiere e contenuto sul Parquet del soggiorno, scheggiando terribilmente il cristallo. Quante storie potrebbe raccontare un oggetto tanto abusato quanto perfetto. Ma è una perfezione apocrifa, illusoria, inesatta, perché quelle storie ci sono, sono esistite, i graffi sono stati provocati, i colpi sono stati causati e, nonostante adesso, davanti al mio sguardo, tra le mie mani, sotto la mie dita ci sia un cristallo integro e intatto, questo cristallo non è né integro ne intatto. Sotto la superficie esemplare infatti, vedo, forse perché ho arrecato io quelle crepe, forse perché non sono mai svanite del tutto, ogni rottura, ogni spaccatura, ogni squarcio aperto sulla candida lastra. E continua ad essere un bel bicchiere, nonostante tutto, grazie a tutto. Ha un passato, ha delle memorie, ha una storia. Di colpi, di dolore, di bruciore, ma è ancora qui, tra le mie mani, ancora utile, anche se il sublime è solo un inconsistente velo sulle incrinature.
Il bacio di una fiamma si infrange sulla superficie del bicchiere disperdendosi in mille sfaccettature cremisi nella cucina. Mi avvicino alla finestra dove la notte sta lentamente cedendo il posto al sole che riemerge oltre l'orizzonte, abbattendo come sempre la schiera di stelle a guardia della luna.
E' ancora buio li fuori, ma quei raggi sono scarlatte promesse di risurrezione nell'insano fascino dell'esistere, dell'esserci ancora. 
Il cielo è rosso stanotte.

 

***

 

A ridosso di mezzogiorno esco dal laboratorio linguistico per puntare dritto alla mensa. La borsa a tracolla nera mi sbatte sul fianco destro ad ogni passo e le cuffiette bianche sono ben incastonate nelle orecchie come rubini su una corona.
-Tesoro niente eyeliner oggi?-
Lo sento. Li sento. Ma non mi volto, non li guardo, non cerco le labbra che si premurano si apostrofarmi tanto calorosamente. I miei occhi semplicemente vagheggiano nell'aria davanti a me, consapevoli che non c'è una via d'uscita dalle voci, dalle aspettative, dalla paura, dal rancore. 
Forse non c'è una via d'uscita neanche dalla speranza.
Penso a quelle voci che mi perseguitano da quando ho rimesso piede qui, penso a quegli sguardi beffardi, sferzanti. 
Riconosco l'amaro umorismo di questi momenti.
Dio quanto la amo, l'ironia della sorte.
E' così precisa, così drastica, così dannatamente astuta che mi verrebbe voglia di averla tra le mani per strangolarla. 
Noto un agitarsi di braccia e di parole al mio lato che mi porta e disincastrare il pesante metal da un'orecchio per poter udire una frizzante e delicatissima Sandra rispondere con voce (discretamente) alta -Franck ingoiati quel cesso!- per poi voltarsi sorridentemente verso il sottoscritto.
-Ehi.-
Sto per comunicarle che non c'era alcun bisogno di prendere le mie difese quando una fila chilometrica di gente in attesa manda in frantumi le mie parole diplomatiche.
-Cazzo succede?-
Dopo un acuto vociare e qualche ambasciatore venuto a riportare alla biondo cenere il motivo di quella orda infinita, Sandra alza gli occhi al cielo mettendosi in coda.
-Costolette e pizza.- annuncia con aria teatralmente rassegnata.
-Prevedibile.- commento esaltando intensamente il suo drammatico tono di voce.
-Guarda che non sei tu il re del teatro.-
-E chi sono?-
-Il re dei colpi di scena.-
Credo di star sorridendo a tutta l'espressività malcelata di questa frase. -Non possono rinunciare alla pizza e alle costolette per oggi?- seguo con uno sguardo poco amichevole un ragazzo del secondo anno che spintona come un dannato. -Che cacchio spingono? Prima che arrivi il loro turno saranno già finiti.-
-E se non sono finiti?- mi domanda con complicità la tedesca.
-Nuova forma di ribellione, non me ne prendo.-
La fila va avanti lentamente ma a ritmo sostenuto e noi ci muoviamo con essa. Alla fine arriva il nostro turno, dopo quella che sembra una traversata nel deserto. Sono rimaste poche costolette e due fette di pizza.
-Una porzione di quelle e una fetta di quella.- Sandra mi guarda con un divertito sorriso sulle labbra color pesca e un sopracciglio inarcato.
-Siamo tutti schiavi del sistema.- mi giustifico seguendola al tavolo del suo gruppo.
-Bello perché non vieni a farmi un servizzietto?- qualcuno urla nel bel mezzo della baraonda di studenti nella sala.
Poggio il vassoio. Sarei tentato di girarmi. Sono tentato per un solo, piccolissimo istante, di guardare in faccia il grande scienziato che ha aperto bocca, di lasciar perdere le parole dello strizzacervelli e di mandare in frantumi quelle della promessa che ho fatto a me stesso di superare l'ultimo mese senza guerreggiare, deponendo ogni sorta di arma, lasciando che tutto mi scivoli totalmente addosso, senza toccarmi. Mi tocca però. 
Mi concentro sul chiacchiericcio della gente intorno al tavolo dove sono seduto mostrandomi brillantemente indifferente alle allusioni alle mie spalle e a quella grande mente che deve essere chi le ha pronunciate.
-Lasciali perdere, le persone più interessanti sono sempre il frutto di situazioni complicate.-
-Andrea De Carlo- risponde prontamente Sandra ad un ragazzo dai folti capelli ricci seduto di fronte a lei.
-Dopotutto è più facile scindere un atomo che un pregiudizio.-
-Einstein- rimbecca una rossa più lontana.
Inutile specificare che li sto guardando con quello che deve essere un punto interrogativo sulla faccia, perché la rossa si sente in dovere di spiegare.
-Dawid ama parlare citando le perle di saggezza altrui, e a volte lo facciamo anche noi.-
E poi sono io quello che deve andare dallo psichiatra.
Però deve essere divertente a giudicare dai loro sorrisi, sono interessanti nelle loro singolari manie.
-E di lui che ne pensi?- domanda il tipo che si chiama Dawid parlando palesemente di me.
Sandra mi avevaa introdotto senza tante cerimonie in quella comitiva e probabilmente i suoi componenti veterani volevano sapere perché Dominik Santorski stesse con loro. Analizzarmi, magari.
Roteo mentalmente gli occhi al celo, non mi interessano altre persone che mi pesano sulla bilancia del valore, se sono abbastanza popolare, figo e normale per essere degnato della loro considerazione e con cui devo fingere di essere un angelo sceso -mai caduto- dal cielo per poter essere onorato della loro luminosa presenza. Mi caccio in bocca un pezzo di carne masticando svogliatamente.
-I più bei versi, le più belle scene a teatro riguardano sempre la morte, perché il più grande messaggio dell'artista e farci comprendere la bellezza della disfatta.-
Alla parola "morte" ho alzato appena gli occhi sulla tedesca.
-Mmm..Oscar Wilde, touché.-
Non so se avete mai provato il piacevole seppur ambiguo formicolio all'interno di un punto imprecisato di congruenza tra cuore, mente e anima che provoca alcune particolari parole dette nel modo giusto al momento perfetto. 
Ecco, io rimango interdetto da quelle parole, divinamente musicali, meravigliosamente tragiche.
Sandra ha appena usato una frase di Oscar Wilde tratta dal libro "Il ritratto di Dorian Gray" per descrivere me.
Cosa abbia voluto dire o quale punto volesse andare a toccare sguazza nel mistero anche nei minuti seguenti, quando la conversazione ha unito diverse menti e occupato varie bocche e il soggetto non nè sono più io. Dawid mi parla come se mi conoscesse da anni, mentre io prima di oggi non gli avevo mai rivolto la parola. A pensarci bene, neanche ora l'ho fatto.
Queste persone così spontanee, animate da sguardi sorridenti e solare benevolenza, sono così diverse dai sorrisini freddi e distaccati di mio padre durante le sue uscite di lavoro o dai commenti pungenti e maligni di chi si considera sempre un gradino più in alto di chiunque altro.
Nessuno di loro ha badato ai cerchi scuri intorno ai miei occhi, segni di notti insonni, o alle mie entrate teatralmente dark di alcune settimane prima di barricarmi in una stanza deciso a non uscirne mai più ma sperando ardentemente che qualcuno venisse comunque a liberarmi. Da chi? Da me stesso.
Ognuno di loro si sta impegnando a conoscere il ragazzo dai capelli d'ebano e dalla pelle di consunta porcellana che ha davanti senza preoccuparsi del passato interrotto, peccaminoso, turbolento sul quale, in questo momento, gran parte della scuola sta trovando motivo di interessante pettegolezzo. 
Peccato che questo ragazzo risponda per lo più con inespressivi monosillabi percorrendo i loro visi con inespressivi sguardi.
-In compenso abbiamo le costolette.. e la pizza.-
E' squillante la voce di Sandra mentre mi porto il bicchiere di aranciata alle labbra.
-Sabato voglio "fare brutto", siete con me?-
Non sento la risposta, non so se ci siano stati più si o i no hanno preso il sopravvento. Non sento neanche le parole che seguono, scomparsi anche i molteplici visi intorno a me. La realtà suona distorta mentre la gola brucia come incendiata da miliardi fiammiferi e il corpo viene scosso da prorompenti colpi di violenta tosse.
-Dominik..- avverto il mio nome come ovattato e lontano, non nel presente in cui mi sono portato una mano sulla bocca e ho bruscamente scostato la sedia dal tavolo per scattare in piedi. C'è movimento nel mio frangente d'aria, qualcuno viene velocemente verso di me, ma non do il tempo neanche a un dito di sfiorarmi, mi sono già fiondato fuori. Tempo tre secondi e sono piegato su un gabinetto a vomitare l'anima. La tosse non da pace alla mia gola e l'addome si contrae dolorosamente per via degli spasmi involontari che mi assalgono senza tregua mentre le pareti candide del water si imbrattano di liquido bianco non bene identificato e vivide chiazze scarlatte vividamente in contrasto contro l'immacolata superficie.
Sangue.
Ho vomitato sangue.
Mi accascio contro la parete del bagno credendo che la lucidità di fisico e di pensiero mi possa venir mandata come una mamma dal cielo. Ma ovviamente, per cercare di sentirmi un tantino meglio, devo rimboccarmi le maniche e provvedere da me.
Mi sollevo e spingo con tutta la pressione della mano sul pulsante dello sciacquone, poi realizzo che, nella fretta della corsa, sono entrato nella prima stanza utile che mi è capitata davanti, ovvero il bagno dei professori. E si può chiudere dall'interno.
Faccio scattare la chiave nella serratura per evitare a chi in questo momento si sta armando per venire a prestare soccorso al tormentato, problematico, psicotico Dominik, una vista tanto pietosa.
"Orgoglioso fino all'eccesso", avrebbe detto mio padre se fosse stato qui. Ma ci sono solo io ad aver aperto il rubinetto e aver lasciato che l'acqua fredda scorra sui polsi, prima di bagnare anche il viso e sciacquare le labbra e la bocca. Lo stomaco è un intrecciassi caotico di budella che sembra si stiano fastidiosamente mordendo a vicenda e le tempie pulsano di un frivolo, irritante dolore. Alzo lo sguardo è la vedo, la vedo troppo bene la differenza tra me stesso e il mio riflesso. Quello che sono stato nelle ultime settimane e quello che sono ora. E se nelle precedenti settimane, se nei precedenti giorni, se nei precedenti minuti ero un pallido spettro della mia ombra ancora più sbattuta, niente in confronto alle labbra che amavano schiudersi in ermetici, indefiniti mezzi sorrisi, adesso, davanti a uno squallido specchio di un comune bagno di un prestigioso liceo in cui ciò che stava accadendo non era poi così comune, i miei occhi si infiammano di una luce che ormai sapevo perduta, forse per il presente, probabilmente per sempre, ad adornare un corpo ansante e provato, eppure qui, in piedi, il cui petto ancora si alza e si abbassa al ritmo dei polmoni che misteriosamente ricordano ancora come si respiri.
Ho sputato sangue, quindi c'è un cuore che persiste a pompare concretezza nelle vene. Forse vita.
Ho alzato le maniche della maglia con la necessità di bagnare le braccia e una lunga, sottile linea di qualche tono più scura della mia pelle spicca nell'interno del braccio destro, giù, fin quasi a toccare il polso.
La osservo, ne seguo il tracciato senza nasconderla, coprirla, mimetizzarla. La osservo nel riflesso dello specchio, quello stesso riflesso che ora mi dice che non posso tener fede alle parole dello psichiatra né alle mie, e pensandoci non ne ho più alcuna intenzione. Perché so il motivo per il quale ho iniziato a tossire spasmodicamente, il perché il corpo ha reagito istantaneamente a quell'aranciata, il perché mi sono trovato piegato sulla tazza di un cesso a rimettere un connubio di sostanze rosse e bianche. Perché quella non era semplice aranciata. Vi è stato disciolto ciò che mi diede quasi la morte in quella discoteca che era in procinto di diventare la mia tomba, ciò che tentai con ogni forza rimastami di espellere, bandire dalle mie profondità, ma che allora non riuscì a fare.
E adesso l'avevo praticamente bevuta, l'overdose che mi aveva portato all'incoscienza per giorni e giorni e che aveva quasi decretato la mia fine.
Quel maledetto schifoso figlio di puttana.
E' riuscito a riportare a galla la sensazione di sentire il lieve peso delle pillole sulla lingua quasi nello stesso modo e con la stessa forza sento traccia di quell'aranciata avvelenata nello stomaco. E con la stessa devastante intensità so che è stata una mera illusione quella di poter fuggire alle voci, di poter superare il passato, di poter sopravvivere lasciando che tutto mi passi semplicemente accanto, di pensare che non cogliere le provocazioni mi potesse davvero permettere di chiuderle fuori.   
Stringo le mani attorno al bordo del lavandino, mi gira la testa, velocemente vortica la realtà.
Il mio riflesso è un'immagine eterea e instabile, i capelli sono scompigliati sulla fronte, le labbra di un rosa evanescente e le gocce d'acqua gelida si insinuano nella maglietta provocando brividi alla pelle segnata da battaglie interiori quanto esteriori.
Mi farò male, riesco ammalapena a immaginare quante ombre ancora oscureranno la luce, quante volte dovrò dubitare del sole e quante volte dovrò credere che non esistono nuovi inizi da certe fini, e che alcune ferite non smettono mai di bruciare. Mi farò male, forse più di quanto le botte mi ricordino, forse più di quanto riuscirò a sopportare.
Potrei realmente rinchiudermi dentro una fortezza di platonico disinteresse, credere alle mie stesse menzogne quando dirò che va tutto bene come se non avessi il mare in tempesta dentro, come se sapessi nuotare, come se non fossi già annegato una volta.
E so che non voglio farlo. Non voglio sopravvivere senza mai vivere davvero. Per vivere devo andare la fuori senza fortezze e sentire ogni cicatrice, ogni lacrima, ogni botta, ogni crepa, ogni rottura, ogni attimo di solitudine che ha abbracciato e che abbraccerà il mio animo devoto al nero. Voglio respirare l'aria di un cielo grigio, guardare in faccia le persone che un tempo conoscevo senza sentirmi tanto diverso, voglio cogliere, afferrare, strattonare quelle provocazioni e scagliarle contro chi le ha lanciate con tutta la forza che non ho. Sto tremando.
Nell'attimo di lucidità in cui i sensi riemergono dall'ammasso chiassoso di pensieri e sensazioni, vedo le braccia ancorate saldamente al lavandino, tremare. Ho paura. 
Ed è potente. 
Ho paura di così tante cose che in questo momento non riesco a focalizzarmi neanche su una. Ma tra l'abisso del mio disagio più oscuro e il rosso dell'inizio di questo giorno e poi del mio sangue, se c'è davvero una bellezza nella disfatta devo essere sinistramente bello qui, rinchiuso in un bagno, sostenuto dal lavandino, pervaso dal vuoto e colmato dal riflesso dello specchio, dell'orgoglio, dell'insurrezione dell'inaspettata ascia di guerra che ho dissotterrato riponendola come una fidata complice dietro le spalle perché sono stanco, incerto, mutevole, tremante, disilluso, guardingo, scettico e si, sono nel pieno della disfatta e no, sentendo di nuovo, per la prima volta, dopo un'eternità, la scriteriata voglia imprudente di rispondere, non ho intenzione di uscirne. Perché nonostante tutte le convinzioni dello psichiatra, nonostante tutti i miei tentativi di negarlo, sono sempre stato in gioco, ed è inutile fingere di non saper giocare.

 

***

 

Mi volto non appena il suo nome emerge, distinto, dall'ondata di fitto vociare.
Mi volto perché la successione di quelle precise sillabe e la voce con cui vengono pronunciate mi provoca una spiacevole sensazione alla bocca dello stomaco che si stava rimpinzando di roast beef.  E mi volto giusto in tempo per vederlo sfrecciare fuori dalla sala con la forsennata velocità barcollante di chi sta per piegarsi da un momento all'altro. Pare che tutti abbiano visto più di me della scena che ha provocato un' infinità di mormorii e un'improvvisa alzata di sguardi e sederi.
-Che è stato?- 
-Cosa gli è successo?- 
-Dov'è andato?-
Mi guardo intorno raccogliendo più testimonianze possibili, cerco di dare alla mia mente un'impronta di sveltezza e analisi per captare i dettagli più importanti al che non sia l'unico in quel mare di facce a non sapere che cacchio è successo. 
La miriade di opinioni diverse sparate a gran voce non sono d'aiuto ai miei condotti uditivi che tentano di registrare le parole di chi era seduto vicino a lui, e quelle persone adesso sembrano delle celebrità con il drappello di gente intorno al loro tavolo e la costellazione di domande che vengono rivolte loro. Potrei unirmi al coro e sperare di saperne di più, ma, analizzando ciò che sono riuscito faticosamente a sentire, ovvero che ha cominciato a stare male dopo aver mangiato o bevuto qualcosa e rivedendo davanti agli occhi il modo in cui teneva stretta la mano sulla bocca, ho già capito abbastanza. Abbastanza per poter alzare il culo.
-Sta male..- sento mormorare da qualche parte nel chiasso sperduto intorno a me. Non presto più attenzione all'ambiente circostante. Mi sono alzato.
-Permesso.- dico in tono pratico spingendo anche qualcuno nel deciso tentativo di passare e superare la soglia della mensa.
-Starà male..- è l'ultimo commento, mormorato nell'acuto vociare, che colgo prima che le porte mi si richiudino alle spalle. Le gambe svoltano automaticamente al di là dell'ultimo angolo prima della scalinata che conduce agli spazi riservati alle attività extracurriculari e la mia mente scansiona velocemente le parole sentite nella marmaglia da cui sono filato via prima che qualcuno potesse fermarmi. Se ci sarebbero riusciti a fermarmi. In questo momento, infatti, mi sembra che in un modo o nell'altro mi sarei volatilizzato comunque, alla fine.
Sicuramente sta male, ma non posso accertarmene di persona.
E' orgoglioso, si sarà nascosto, sono orgoglioso, non ne ho il coraggio.
E poi in un attimo sono già negli spogliatoi, silenziosi, deserti, saturi di mezza luce e quello dopo sto spingendo la porta a due battenti che da nella palestra, silenziosa anch'essa, ma non deserta.
Bingo.

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Capitolo 7
*** Questa illeggibile oscurità ***


Su consiglio della mia cara rompina Megara X ho ridotto notevolmente la lunghezza delle frasi dal capitolo in cui mi ha fatto notare che nei miei labirinti mi ci perdo anche io. Però qualche frasetta chilometrica me la dovete concedere in questo capitolo.
Come sempre ci saranno una miriade di errori ma rammentate che ho sempre quella benedetta licenza poetica xD e grazie come sempre a tutti coloro si prenderanno la briga di leggere. Grazie davvero.
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"Nessuno si avvicinerebbe tanto al fuoco.
Nessuno 
tranne chi ha un motivo valido per scottarsi."
Albert Einstein

 



CAP. 6 




I passi simili a una marcia militare riecheggiano nel silenzio della palestra quando la attraverso spedito, occhi puntati sull'unico essere vivente presente li a ridosso dell'ora di pranzo. Sta armeggiando con un cellulare in mano.
Il motivo che mi spinge a fare ció non lo inquadro, la ragione che mi trascina così urgentemente verso il perché Dominik è corso in mezzo secondo fuori dalla mensa. Forse non ci mi concentro abbastanza attentamente, forse, se mi fermassi un momento, potrei capire che cosa mi provoca questa lieve, persistente insofferenza da quando ho visto la sua testa nera schizzare fuori dalla porta, se solo mi concedessi il lusso di ascoltarmi per un secondo, probabilmente saprei perchè ciò che è accaduto non mi garba per niente.
-Asher che succede.-
La mia non é una domanda, è un'affermazione perché so esattamente cosa succede, e non mi sta bene. E il non starmi  bene qualcosa mi porta ad assumere un tono di voce autoritariamente aggressivo e dei modi per niente delicati. Asher ha alzato lo sguardo dorato su di me, e sorride.
-Aleks, che succede?-
-Dimmelo tu.- rispondo immediatamente, e la mia immediatezza é il risultato di tutti gli anni in cui ho imparato a conoscere e a combattere il fare millantatore di Asher.
-Non credo di sapere cosa..-
-Io credo che tu lo sappia benissimo.- i miei occhi cercano nei suoi la risposta che so non tarderá ad arrivare. -Perchè Dominik Santorski è corso via dalla mensa con una mano schiaffata sulla bocca?- 
Asher sorride, il miele delle sue iridi sorride, brilla a quella domanda che sa tanto di successo.
-Tranquillo- risponde con un certo tono soddisfatto -È sicuramente vivo.- 
-E perchè io non ne ero al corrente?-
-Mi divertivo.- fa lui in tutta risposta, depone il cellulare in tasca e si sfila il cappello da baseball nero e rosso dalla testa. -Ci divertivamo.- e sorride. Sorride ancora e io ho tanto la strana, inebriante voglia di mollargli un calcio negli stinchi. Mentre la sua mano destra si preoccupa di passare tra i fili senape che sono i suoi capelli, i suoi occhi non mi perdono di vista neanche per un secondo, né quando incrocio le braccia, né quando alzo il mento. Si, ho il classico comportamento dei gatti quando devono sembrare minacciosi sentendosi a loro volta minacciati, e come loro rizzano il pelo e gonfiano la coda, anche io gonfio il petto e mi piazzo davanti al mio interlocutore, immobile, in smaniosa attesa di sentire le motivazioni che ha da darmi.
-Ci divertivamo?- ripeto, -Non ti ho detto io di farlo.-
-Ma sapevo che avresti voluto farlo.-
Non sopporto quel suo accento perfetto, quel sibillino doppio gioco delle sue parole, l'incarto in cui sono caduto. Lui è davanti a me, aspetta che faccia un passo falso? Aspetta che dica qualcosa di inaspettato? 
-Non è così?-
L'altra faccia delle sue parole la sento troppo bene.
Potrei davvero dire qualcosa di inaspettato? Potrei difendere Dominik Santorski? Quasi certamente no. E allora perché, improvvisamente, l'accento di Asher, quel suo modo di trascinare armoniosamente le parole, mi suona particolarmente amaro? Perché, dopo quattro anni che me la sbatto davanti ogni mattina, la ghignante luce nell''oro dei suoi occhi non mi scende più giù? Asher è furbo, astuto e non pensa alle conseguenze. Un po' come me, ma in modo diverso. Lui è una faina, non una volpe. Le volpi passano la maggior parte della loro vita in fuga, abbastanza scaltre da sapere come nascondersi, abbastanza furbe da sapere come sopravvivere, ma non abbastanza audaci da provare a rallentare. Le faine, invece, hanno un modo tutto loro di gestire questa scaltrezza. Fanno sempre un passo avanti, sempre, più del dovuto, più del necessario, oltre quella linea sottilissima che separa la calma dal rischio, la pace dal tumulto. E la faina che ho davanti mi guarda con due occhi che aspettano solo di sentire ciò che uscirà dalla mia bocca, il verdetto di un leader, l'opinione di uno che conta. Qualcuno che non dovrebbe avere tanta esitazione in corpo per qualcosa che, stando al copione, avrebbe dovuto solo fargli accendere il viso di un'espressione beffardamente compiaciuta.
-Avresti fatto meglio ad avvisarmi.- 
La butto sul "Non si deve muovere una foglia se non lo so io", devio il discorso sulla consapevolezza che tutti, in questo liceo, devono possedere, ovvero il lampante dovere che di ciò che accade io devo essere il primo a saperne. E mentre le mie battute sgusciano rapide e indolori tra le mie labbra verso l'esterno, ho la sgradevole sensazione di stare davvero leggendo qualcosa di già scritto, di aver preferito tramutare il messaggio nell'opposto di ciò che era realmente. E' di me che stiamo parlando, non di lui. E' stato l'averlo deciso e messo in atto senza che io ne sapessi alcunché ad avermi urtato, non il cosa è stato fatto e a chi. Il messaggio che voglio si legga chiaro e luminoso come un'insegna al neon in un vicolo buio è che, se mi avessero messo al corrente, avrei anche partecipato, qualunque cosa sia stata architettata.
-Certo, hai ragione, la prossima volta sarai il primo a saperlo.- Asher mi poggia un braccio sulle spalle. Sembriamo due complici, mi ha automaticamente coinvolto nel suo gioco. -In ogni caso sarai lieto di sapere che probabilmente ora il frocetto-dark-emo avrà lo stomaco accartocciato e l'acido in gola- ridacchia, e quel suono rimbomba fastidiosamente nella palestra, -per non parlare della nausea che si ritroverà..alle stelle.-
Ho ricevuto tanti colpi in vita mia, e brillantemente li ho incassati tutti. Sono un campione di Judo e, dopo tutti gli anni che mi dedico a questo sport, dopo tutti i combattimenti, posso dire, non senza un certo vanto, di essere stato colpito moltissime volte; sono un incendiario, un amante dello spingere i limiti oltre, la benzina che indurrà la fiamma, il creatore per eccellenza di risse e scontri e so prevedere alla perfezione un pugno, un calcio, qualunque cosa si protenda a minacciosa velocità verso lo spazio d'aria del sottoscritto, che siano regolati da rigide tecniche e subordinati a regole, come nel Judo, sia che si tratti di colpi resi pericolosi dall'imprevedibilità del caotico, durante una sera in cui, magari, eravamo ubriachi più del solito. E alcuni colpi ormai non fanno più male, semplicemente ti sfiorano il lembo di pelle che vanno a marcare, ma non mi piegano più in due e non mi mozzano più il respiro in gola, semplicemente non li sento. E poi c'è ne sono altri. Altri che contro ogni previsione, anche quelle di Nostradamus, ti si piantano nel corpo con una violenza d'impatto tale che non te lo ricordi più come si respiri. Le ultime parole di Asher, infatti, mi centrano in pieno nel petto, nel ventre, vibrano persistentemente di un'insopportabile forza, come un pugno assestato così bene da non permetterti nemmeno di piegartici in due, prima che tu te ne accorga sei già a terra. Detesto la coltellata che le sue parole mi hanno scagliato e detesto i pensieri che scaturiscono dallo squarcio aperto dalla lama, e mi rendo conto di non voler neanche immaginarmelo lui, a terra, piegato su un gabinetto, stremato dall'aver caracollato fuori dal corpo le forze rimaste, le mani strette su qualunque cosa possa sorreggerlo, e il braccio di Asher sulle spalle diventa più pesante mentre la mia mente vagheggia su quegli occhi che non dovrebbero guardare il fondo di un cesso, e si sposta lentamente su quelle labbra, troppo attraenti per meritare una cosa del genere.
Mi rendo conto di avere la bocca serrata in una linea dura, il mio corpo ha i nervi a fior di pelle e le mie spalle scostano bruscamente il braccio di Asher fuori dal mio raggio d'azione. Mi volto verso di lui con una foga che ha rimontato il suo disappunto dentro me, la sento persino nelle viscere e so perfettamente che i miei occhi non irradiano di pacifiche saette. Apro la bocca e non so cosa ne uscirà, quali parole rotoleranno fuori, se saranno piume o pugnali, di acqua gelida o cera bollente, impreviste o accidentali, ma so per certo che non ci aspetterebbe questo da.. 
-Siamo una squadra, vero?-
Ho richiuso la bocca. Il copione non dice di prendersela tanto per una cosa così stupida, per una cazzata fatta a qualcuno di cui non me ne importa niente. Anzi, come ho già fatto limpidamente intendere, gli avrei fatto di peggio che causargli una banale nausea. E' questo che ci aspetta da me, no? E io sono pronto a dare al mondo lo spettacolo che vuole. Lo spettacolo che pretende. Sono una volpe, sopravvivo, e per sopravvivere devo fare tutto ciò che è in mio potere per stare sempre dal lato che vince. Dal lato più forte. 
-Sabato voglio una sbronza epica- lo spingo sorridendo. -Andiamo a comunicarlo agli altri idioti.-

 

***

 

Il cellulare si è messo a vibrare nel mentre di un' interessantissima conversazione con il mio psichiatra preferito. E non sono ironico, il suo modo di farmi il terzo grado assomiglia molto a quello delle interviste doppie in TV, cosa anche alquanto irritante dal momento che ti da si e no cinque secondi per formulare una frase di senso compiuto e sputarla fuori. E cinque secondi non mi bastano per dire tutto ciò che lui vorrebbe sentirmi dire.
-Stai prendendo le medicine?-
-Si.-
-Stai avendo allucinazioni?
-No.-
-Stai facendo come ti ho detto? Niente ansia, stress, emozioni destabilizzanti?-
Lo guardo. E' una mezza verità quella che esce dalla mia bocca.
-Si.-
Ho ancora le budella sottosopra e il sapore del sangue tra i denti, ma perlomeno l'emicrania mi ha abbandonato un'ora fa. Non so cosa è peggio: convincermi di aver dissotterrato l'ascia di guerra solo adesso o accettare la certezza che è sempre stata nelle mie mani, solo che è stata nascosta dietro le spalle. Rubinowich mi scruta attraverso gli occhiali, non la finisce di fissarmi.
-La scuola ha comunicato ai tuoi che oggi, all'ora di pranzo, hai avuto un attacco di tosse violento e sei corso fuori dalla mensa. Era nausea?-
Meraviglioso, qualcun altro che non ne è al corrente così posso dirglielo personalmente? Si fa prima. Tanto vale dire la verità, ovvero che mi sono buttato sopra un WC, se è un medico lo capirà da se.
-Si.-
-Hai rimesso?-
-S..- 
-Cos'hai mangiato stamattina, prima che ti venisse l'attacco di nausea?-
-Un tè.-
-Quindi vale anche per il "cosa hai bevuto"? Dominik devi mangiare lo sai.-
Lo so, ma non per questo mi viene l'appetito e si, riconosco anch'io che è una fregatura, perché se dovevo rimettere almeno avrei rimesso qualcosa di più consistente che liquidi gastrici e globuli rossi.
-Non costringermi a darti anche gli integratori alimentari.- il suo dito fa su e giù su un foglio che tiene davanti al naso, prima di posarlo con un colpo secco e incrociare le mani davanti al viso. 
-Come ti senti?-
Aggiornamento di stato: se mi affibbia anche gli integratori alimentari sarà la seconda volta che scaricherò pillole nello scarico di un gabinetto, potete starne certi.

Il cellulare aveva vibrato perché era stato svegliato da un messaggio ben preciso, spuntato dal nulla come un fiore nelle coltri innevate dell'Alaska. Inaspettato, sorprendente, totalmente fuori luogo. E totalmente fuori luogo fu la mia risposta la quale è la causa per cui, uscito dalla seduta di psicanalisi, sono in macchina, stravaccato sui sedili posteriori, in viaggio verso una meta del tutto priva di senso logico. I lampioni scorrono veloci oltre il vetro del finestrino e il clangore del traffico e della vita del centro si dirama man mano che ci inoltriamo in una residenza privata alla periferia della città. La schiera di graziosi villini che mi si presenta davanti è una successione degli stessi mattoni color salmone sparsi qua e la ad arte su un intonaco panna, degli stessi giardini verdi perfettamente curati, degli stessi cancelli bianchi dai motivi intricati. Persino i fili d'erba sono della stessa lunghezza. L'unica dettaglio che differenzia una casa da tutte le altre è la ragazza appena apparsa sulla sua soglia. La porta si richiude alle sue spalle e lei scende aggraziatamente i gradini, oltrepassa il candido cancello aperto e si avvicina alla macchina. Posso sentire il suo profumo prima che spalanchi la portiera e si sieda sul sedile accanto a me. Le gambe eleganti fasciate da sottili calze bianche, il cappotto blu notte che lascia intravedere una delicata camicetta rosata, i boccoli perfetti che le ricadono ad arte sulle spalle. E' esattamente come l'ultima volta che l'ho vista, impeccabile e surreale. Mi sorride appena. E' discreta, riguardosa e signorile, e non ci penserebbe neanche una volta a fare la prima mossa. Troppo audace. E Dio se ha ragione. Do l'indirizzo del locale all'autista e mi immergo nel delicato aroma di rosa che la ballerina si è portato dietro. Mi sfilo le cuffiette dalle orecchie.
-Ciao Weronika.-
-Buonasera Dominik.-
E io, dal picco della mia coerenza, mi ritrovo di nuovo sprofondato nel mondo delle gambe perennemente accavallate perché non sia mai si veda un millimetro di pelle dal ginocchio in su e nella dimensione della finzione, dove ogni essere vivente finge di avere l'oro tra le mani, perennemente legate dal platino del portafoglio e della terra che si sgretola sotto i loro piedi mentre loro credono davvero di poter comprare qualsiasi cosa: le case grandi, i vestiti firmati, lo champagne di qualità, le macchine costose, l'amore, la lealtà, l'amicizia. Questa volta però, ci sono sprofondato per mia scelta. Ho accettato l'invito di Weronika, sono passato a prenderla con l'ausilio dell'autista perché si, non ho la patente ma avere i genitori con un conto in banca merlettato di zero servirà pure a qualcosa, e ritrovarmela accanto dopo l'aver declinato la sua presenza nella mia vita confessando a entrambe le nostre famiglie in una strana combo della mia omosessualità latente e averne dato la dimostrazione slinguazzandomi un'innocua statua mi fa un certo effetto. Ah, e avevo anche l'eye-liner quella sera, quindi il perché lei, non solo sia uscita con me ma me lo abbia anche proposto, rimane un mistero. Forse non è così superficiale come il suo ceto sociale vuol far credere.
-..si sto danzando, a breve verrò convocata per un'audizione per la Danzica Accademy..- 
Sono attratto dagli uomini? Sono attratto dagli uomini come ho negato, ostentato, ritrattato? 
Il centro riprende vita mentre la macchina sfreccia sulla strada principale. Ristoranti e pub scintillano di insegne brillanti e risuonano di tacchi alti,
ticchettanti sui marciapiedi. Weronika sta dicendo qualcosa circa una borsa di studio e io non posso fare a meno di chiedermi se sono gay. Okay, certamente sono accaduti fatti discutibili, sicuramente equivoci sull'orientamento della mia sessualità, fatti che non hanno mancato di farmi clamorosamente notare, ma allora come si spiegherebbe lei ? Ero nel mio periodo peggiore, stanco, solo, e lei era stata la mia luce in fondo al tunnel, nonostante fosse una luce malata, è stata l'unica che abbia mai davvero cercato di capirmi, di ascoltarmi, almeno. Forse volevo solo qualcuno che tenesse a me, forse non mi piacciono le donne, forse non mi piacciono neanche gli uomini, forse mi sentivo incredibilmente distante prima che me ne rendessi davvero conto, prima che, accorgendomene, il mondo che conoscevo si rompesse. In ogni caso, mentre i miei occhi osservano la figura snella di Weronika,  qualcosa mi dice, contro ogni mio forzo di negarlo, che io non sono attratto nè dagli uomini nè dalle donne, io sono attratto da un uomo e da una donna. O almeno lo ero.
-Andrò a Washington a giugno, appena gli esami saranno terminati.- 
Annuisco sedendomi sul divanetto in pelle rossa. Ah non ve l'ho detto? Siamo arrivati, siamo scesi dall'auto, siamo entrati, abbiamo sorpassato l'affilamento di persone intorno al bar e lei ha continuato tranquillamente a parlare, senza pormi domande, senza aspettarsi interruzioni o eclatanti cenni di assenso. E questo è un punto a suo favore, in quanto Weronika non si aspetta che tu ti beva ogni parola che esce dalla sua bocca, non ti chiede conferme e non pretende pareri sull'argomento, semplicemente ti culla con il cristallino della sua voce e lascia che la tua mente fluttui tra i pensieri senza fermarsi a controllare che tu stia seguendo il suo discorso ne toccandoti per richiamarti all'ordine. Altra cosa decisamente a suo favore. Detesto essere toccato. Lo detesto da quando sono uscito dall'ospedale, detesto che qualcuno possa anche solo sfiorarmi senza il mio permesso e Weronika neanche ti guarda per più di cinque secondi senza il tuo permesso, e mi ritrovo ad ascoltare davvero ciò che sta dicendo perché non è così noiosa e fastidiosamente altolocata come pensavo e perché parla di Washington come un innamorato parlerebbe del suo amante.
-C'è un'università niente male lì.-
-E' una delle migliori- i suoi occhi brillano di desiderio. -Sarebbe un sogno riuscire ad entrarci.-
-Avresti la mente adatta.-
-Anche tu- le sue labbra si illuminano di un incantevole sorriso, 
-Solo non ambiamo alle stesse cose.-
La guardo con un cipiglio abbastanza perplesso. -In che senso?-
-Nel senso..- la sua voce ricorda il succo dolciastro delle fragole 
-Che non credo tu sogni con tutte le tue forze di essere ammesso ad un'università importante.- vedo la sua attenzione scivolarmi addosso. Ha una luce curiosa negli occhi. -Credo che le tue priorità siano altre..- Già, cercare di non uccidermi. 
-Non ho tutte queste priorità.-
-..Solo che ovviamente è quasi impossibile sapere quali. Sembri un prolungamento della notte, e un filosofo una volta disse che è nella notte che si nascondono le cose più interessanti. 
Alzo le sopracciglia.
-Voglio dire che..cioè non volevo dire..beh si volevo ma intendevo..
Sorrido. -E la danza?- 
La mia domanda non le fa piacere, è palese la repentinità con cui ha abbassato lo sguardo, il modo in cui si sfiora le mani o come improvvisamente sembra che non trovi la pelle di questo divano più tanto comoda. Oh mio Dio, guai in Paradiso?
-La danza non è più una mia priorità.- è un filo di voce la sua. 
-No?- potrei lasciare stare, potrei semplicemente lasciar cadere il discorso o deviarlo su strade più bianche, su strade meno sofferenti, ma non mi sento in vena di fare sconti, e se anche la vita più aurea protetta dalla più spessa campana di vetro ha subito dei colpi, beh, anche malignamente ma voglio sapere cosa è successo.
-No, io..E' al mio futuro che devo pensare.-
-La danza non fa parte del tuo futuro?-
-La danza non può far parte del mio futuro.-
E' tutto chiaro, ti sei dovuta scontrare con la realtà ballerina. Leggo nei suoi occhi la stessa oppressione che giurerei si potesse leggere nei miei, la stessa, devastante sensazione che non conta chi sei, conta cosa puoi diventare e quanto in alto devi puntare per soddisfare le aspettative di qualcuno mentre deludi le tue. 
-Ti piace Washington Weronika?- la sto scrutando, nel vero senso della parola, sto studiando ogni imperfezione che, senza alcun preavviso, si è mostrata su un quadro che io ricordavo perfetto. Troppo per essere anche solo lontanamente vero.
-Adoro Washington e quell'università è meravigliosa ma..- Ma non è la danza. 
E sono passato per eccentrico, sono passato per folle, sono passato per problematico, sono passato per complessato e adesso scopro che l'erba del vicino non è poi così verde. Mi verrebbe voglia di spararmi un colpo in bocca, siamo senza speranza. 
-I tuoi non vogliono.- affermo con convinzione saccente spostando i miei occhi su un bicchiere dal contenuto rosato non ben identificato. Il tuo mondo non vuole, esattamente come non voleva il mio.
-Se non supereró l'audizione alla Danzica è finita. Ho provato a spiegare loro che riusciró a far tutto, a ballare e a studiare, ma non..-
-Ascoltano.- 
Lo sguardo color cioccolata di Weronika mi passa attraverso con un'intensità che mi graffia in gola. Mi specchio in quel colore e so che non sono così cattivo da augurare quello che ho passato io a qualcuno, neanche alla principessa del galà. Perché mi sono riconosciuto nella perfezione crepata di lei, ho visto il riflesso del mio stesso dolore nella sua fragile inattaccabilità.
-Ribellati.-  
-Co..come scusa?-
-Ribellati- ripeto nel tono spudoratamente ovvio della prima volta. 
-Non..non posso loro..mi hanno dato tutto..-
-Non ti hanno dato niente- la interrompo bruscamente, più bruscamente di quanto avessi voluto, -se non è quello che vuoi.-
La ragazza si sporge sul tavolino dinnanzi a noi e prende il suo bicchiere tra le dita. -Cosa ne penseranno gli altri?-
-Gli altri- è sprezzante la mia voce, amara nel più profondo delle mie viscere -ti giudicheranno, ti reputeranno un'ingrata, una pazza, un'instabile ragazzina viziata. Ma sai che c'è?- ho unito le mani in grembo, mi sono avvicinato a lei quel tanto che basta perchè i miei occhi non perdano i suoi neanche per un secondo e perché le mie parole arrivino sparate con inaudita forza dov'è giusto che arrivino. -Tu sarai quello che vorrai essere, farai quello che vorrai fare, e se non ci riuscirai pazienza, sarà perchè hai tentato e fallito, non perchè non ci hai provato affatto. Non devi essere all'altezza di nessuna condizione sociale, di nessuna società, di nessun conto in banca.- 
Poso con slancio e anche un pizzico di ben celata teatralitá il mio bicchiere vuoto di cocktail sul tavolino. Spero che senta bene le mie parole perché sono le parole che vorrei qualcuno avesse detto a me.
-E al diavolo le voci, al diavolo le parole, al diavolo le persone, al diavolo le aspettative. Brucia tutto e fottitene Weronika, fottitene come se non ci fossero mai state. Non fare come me.-
Mi alzo, lei si è alzata con me.
-Vado alla..-
-Si, e io vado al..-
Mi allontano un attimo prima che lo faccia lei. Vedo la sua gonna lillà scomparire nel corridoio che si affaccia sui bagni. Io invece ho bisogno di bere qualcosa di più forte che un analcolico cocktail alla frutta. Intorno all'angolo bar si è radunato un nutrito drappello di persone e io mi faccio largo tra i corpi mollemente poggiati al bancone.
-Due Vortix.- 
Il barista annuisce e si accinge a preparare ciò che gli ho chiesto. La risata angelicamente goffa di una donna mi porta a emergere dalle spine che mi punzecchiano la mente proprio quando mi viene servito l'ordine. Vorrei fare un cenno di ringraziamento all'uomo ma alla fine mi prendo i bicchieri e mi dirigo alla mia postazione senza neanche degnarlo di uno sguardo. Mi siedo e.. No, non ditemi che è stata una coincidenza. Qualche goccia del contenuto di uno dei due bicchieri mi schizza sull'avambraccio. Il cocktail profuma di ciliegia, ma è rosso sangue. Spicca, brilla, ammicca sulla mia pelle che fa di tutto per farne risaltare l'accattivante colore. Due minuscole goccioline mi osservano silenziose dal braccio destro e io sono come ipnotizzato dal raffinato contrasto tra il porpora e la porcellana. Sono scivolate, languide, sul punto perfetto. La cicatrice potrebbe aprirsi, sono solo due gocce, due gocce che sarebbero ancor più belle se provenissero dalla mia vena. Due gocce non hanno mai ucciso nessuno. Sono così belle..Così vive. 
Stringo il pugno, serro le labbra, mi passo una mano tra i capelli, sto ansimando. Emergo dal caos nella mia testa con un colpo doloroso, ma necessario e mi concentro su poche consolazioni che forse mi evitano, almeno per stasera, di andare fuori di testa.
Non sono in una discoteca, sono in un elegante pub, non ho cicatrici aperte o in procinto di aprirsi, ho solo vecchi ricordi, il rosso sul mio braccio non è sangue, è succo di ciliegia. Su un tavolo difronte serpeggia dominante il rosa di qualche alcolico, un rosa tanto forte, tanto violento da provocarmi un'emicrania che mi urla in testa, la seconda in un giorno. Rosso, rosa e il sottile tracciato di un eye-liner troppo nero intorno ad un occhio troppo azzurro.
Weronika è uscita dal bagno, mi sta raggiungendo, non ha fatto neanche quattro passi che io sono già perso.

 

***

 

-Santorski ricorda l'allenamento venerdì, sarebbe un peccato se lo perdessi.-
-Si Mr. Ris.-
E' un'abitudine ormai quella di assecondare le parole dell'istruttore di boxe. Lui dice che ho potenziale, io dico che non vedo nessun potenziale, lui dice che non mi sono mai guardato mentre colpisco. In ogni caso, potenziale o no, la boxe mi aiuta a scaricarmi, a non pensare per qualche ora, a sentire qualcosa che non sia il vuoto, e questo mi basta. Gli spogliatoi sono deserti, segno che mi sono trattenuto più a lungo e che la marmaglia di anime, tovaglie, accappatoi, deodoranti, indumenti e scarpe è evaporata un bel po' prima che decidessi di scollarmi dal sacco e dai guantoni. Approfitto della calma assoluta e del prezioso silenzio per concedermi una doccia bollente. L'acqua calda mi accarezza piacevolmente la pelle, vi si insinua attraverso, distende i muscoli, mi porta a piazzare il viso sotto il getto e avvertirne il calore sulle palpebre chiuse, sulle guance, sulle labbra semi aperte nel tentativo di bearmi maggiormente del tepore che sprigiona. La sento percorrermi la schiena, sfiorarmi i fianchi, baciarmi le linee dell'addome, invitarmi a darle di più mentre le sue gocce ammaliano ogni centimetro della mia pelle, dischiudo le cosce, lascio che l'arroventata lingua dell'acqua stuzzichi lascivamente il ventre, giù, sempre più giù, troppo più giù, portando calore nelle stanze gelate del mio corpo, sgretolato, rotto, e l'avvolgente incandescenza si preoccupa di penetrare, addentrarsi nelle crepe dell'inesistente difesa di cui si è vestito il mio orgoglio, e il calore le tocca, le incalza, le porta alla luce, mormora sensualmente che posso mostrarle, che è il momento di.. Chiudo l'acqua, mi infilo nell'accappatoio bianco. Asciugo in fretta la pelle surriscaldata. Tutto questo bianco non mi sta bene addosso. Questo non ha niente a che vedere con la mia pelle. Sono bianco su bianco, lei e il tessuto con cui ho cancellato le gocce brucianti, ma non sono lo stesso bianco. Uno è immacolato, l'altro macchiato. Mi infilo il boxer grigio e il jeans nero sotto l'accappatoio poi lo getto su una panca e mi infilo maglia e felpa in un colpo solo. Mi sento potente per questo, non chiedetemi perché. Passo una tovaglia sulla testa, svogliatamente, e questo rende i fili scuri dei miei capelli delle ciocche anarchiche dove ognuna prende la via che gli sembra più conveniente. Gli do una ritoccata con le mani gettandomeli verso sinistra e le dita affusolate sono il netto contrasto tra il colore dei capelli e quello della mano. Sono una contraddizione vivente, tutto di me è privo di buonsenso, persino i colori dei miei tratti fanno a cazzotti. Oh che gioia. 
-Ti sei fatto la fidanzata?-
Rimango con la tovaglia a mezz'aria. Sono giusto li li per riporla nel borsone quando quella particolare voce riconducibile a una fin troppo distinta presenza mi folgora sul posto e folgora nello stesso istante ogni muscolo adibito al movimento delle braccia. Lascio cadere placidamente la tovaglia e mi volto. Mi scontro con i suoi occhi. Ho perso un battito. O forse due, o forse tre, o forse ne perdo uno ogni volta che mette un piede davanti all'altro e fa un passo verso di me. 
-O te la sei solo fatta?-
L'incandescenza dell'acqua che mi ha accarezzato non è neanche paragonabile a quella dei suoi occhi che scivolano lenti sul mio corpo soffermandosi più del dovuto. Le labbra dalla linea marcata, decisa, irruente come lui si piegano in un sorriso compiaciuto e io mi ritrovo ad alzare di più la zip della felpa. Mi sento nudo davanti a lui. I capelli spettinati, il piacente caffè-latte della sua pelle, l'immancabile, luccicante aria di chi ha il mondo ai suoi piedi, l'arcana, indecifrabile scrittura che si cela dietro l'ardente bronzo di quelle iridi che hanno il maledetto potere di marchiarti a vista. E sento quel marchio ardermi addosso.
-Non siamo tutti come te.- dico a mezza voce, inespressivo, atono, fermo nella rigidità dell'aria che si è improvvisamente accaldata. Quanto ci vorrà primi che inizi a scottare? Sono immobile come si starebbe immobile dinnanzi a un serpente, indeciso se attaccarti o meno e che lascia a te l'ultima parola per decretare la tua salvezza o la tua condanna. E il particolare serpente che mi scruta in questo momento ha un veleno potente. 
-Eppure.. Avrei giurato che non ti piacessero le ragazze..-
Un sorriso indomito si accomoda sulle mie labbra prima che risponda. Questo non va bene.
-Questo, comunque, non è affar tuo.-
E tanti saluti al contenere il pungente colore della mia voce, alle celate spine, all'incatenato sarcasmo.
-Ma come, io mi preoccupo di informarmi sui tuoi gusti e tu mi rispondi così?-
Un ghigno divertito sboccia sulle sue labbra già sferzanti. La camicia azzurra dal taglio perfetto che gli fascia il corpo come se gli fosse stata cucita addosso mi ricorda un'altra era. È passato poco più di un mese, ma sembra un'eternità, ricordi che affiorano da un mondo parallelo a questo, un mondo popolato dalle stesse facce, dalle stesse presenze, ma non è lo stesso. Quel mondo è cambiato, o forse è cambiato il modo di guardarlo. Aleksander fa un passo avanti e mio ne faccio uno indietro. Io voglio mantenere la giusta distanza, lui sembra volerla annientare. 
-Non ti sto vedendo a Judo.-
-Sarai in lutto.- mi volto riempiendo la borsa con movimenti decisi. Butto tutto alla rinfusa, una cosa sull'altra come una Tour Eiffel disordinata.
-Fai boxe- tiro i guantoni dentro con un movimento fulmineo. -Tu?- 
Lo sento sghignazzare alle spalle. 
-E tu mi hai abbandonato per Asher?- 
Alzo gli occhi. Detesto il gioco delle sue allusioni.
-Cosa c'entra l'amico tuo.-
-Lui fa boxe.- sorride. Lo sento che sorride. Lo sento come se c'è lo avessi davanti. E allora mi volto e impercettibilmente sussulto trovandomelo a un metro di distanza. I suoi occhi vibrano di scura sicurezza, ma c'è dell'altro nell'ambra accattivante delle sue iridi che mi osservano troppo vividamente. 
-Perchè, tu sei diverso da lui? Da tutti gli altri?-
-Io sono tutti gli altri?-
Il cuore sobbalza. Non se lo aspetta. 
Mentre ogni fibra del mio essere è paralizzata dal comando centrale della mente di rimanere imperscrutabile, perfettamente freddo come un pezzo di marmo, quel maledetto non se lo aspetta. E lo sento contro la cassa toracica, scalpitante come un dannato al mutamento della voce di Aleksander. Lui addolcisce la piega delle sue parole e c'è chi me lo fa immediatamente notare. Quell'improvvisa catena percorsa da dolcezza tocca qualcosa, non lo nego. Ne è la prova la velocità con cui corre quel muscolo che dovrebbe solo limitarsi a pompare sangue e mantenermi in vita. Ma non è più tempo di sguardi rubati e piccanti provocazioni in una classe di scuola. 
-Ti sei comportato come tutti gli altri- ,lo guardo negli occhi, lo vedo come guarda nei miei occhi, -Sei diventato tutti gli altri.-
E' più veloce della mia capacità di prevederlo. Un scatto repentino degno di un serpente e io mi ritrovo a sbattere contro gli armadietti dietro le mie spalle. Si è avvicinato troppo. Ed è a cinque centimetri di distanza da me e contare, approssimare, supporre quanti beati millimetri ci dividono mi serve a non concentrarmi sui nostri corpi che adesso si scambiano il calore. I suoi occhi stanno bruciando, scandagliano nei miei qualcosa che non trovano, o forse l'hanno trovato e non se lo spiegano, perché adesso le sue pupille sono dilatate e le palpebre appena socchiuse. 
-E' bastata un'aranciata a farti stramazzare al suolo?- 
Uno schiocco possente e silenzioso. Sono le mie mura che si erigono in difesa del mio spirito di conservazione. E' tornata l'accesa strafottenza nella sua voce e sono tornati gli schieramenti di strati e strati di muraglia nella mia. 
-Siete stati molto bravi, una trovata ironica, sagace.. Una cosa che credevo troppo intelligente per vo..-
-Non sono stato io.-
-Non mi interessa.- sorrido, una smorfia graffiante che graffia anche me. -Tu..lui, lei..loro..- Quale malsano coraggio mi porta ad avvicinarmi, a sopraffare quei cinque centimetri per trovarmi il suo sguardo contro il mio e il suo respiro sul viso, non lo so. So solo che sento di doverlo fare come sentivo di volere la sua lingua ancora nella mia bocca, quella notte. Percepisco il suo profumo adesso e posso credere che lui percepisce il mio, se lo ho un profumo, non lo so, non so niente nel momento in cui una convinzione solitaria sboccia nella calca di pensieri inaspettatamente ammutoliti, ovvero quella fulminante che se camminare sul filo di due sguardi incandescenti per dieci secondi più del dovuto era stata una mossa sbagliata, riuscire a scorgere ogni dettaglio dorato nel chiaroscuro dei suoi occhi deve esserlo cento volte di più. Non ci è concessa a noi, questa vicinanza. Dischiudo le labbra, le mie palpebre si abbassano, avverto l'arresto del suo respiro, le distanze si annullano, non esistono più.. -Non fa differenza.- 
Un'impercettibile cambio d'aria e la sua mano si è bloccata a mezz'aria, immobilizzata davanti al mio viso. Non mi rendo conto di cosa è successo fino a quando non sento il polso sinistro di Aleksander tra le mie dita in una morsa efferata e i nostri sguardi che combattono una feroce battaglia. Ho il cuore in gola. Quasi lo sento sibilare, il fuoco dei loro attacchi. 
Mi allontano di un passo senza lasciare il suo sguardo, per quanto il poco spazio che ho a disposizione mi concede.
-E così tutti noi ti abbiamo fatto sentire male? Oh, povero Dominik..- fa una smorfia prima di aprire quelle amabili labbra in un sorriso sprezzante. -Ti ricordavo meno fragilino.. Ma, dopotutto, sei sempre uno piccolo frocio.- L'ambra si illumina.
-E tu un grande coglione.- Sorrido nell'espressione più indolente che la vista del suo sguardo ostentatamente schifato riesce a suscitarmi. -Ma non si può essere tanto coglioni naturalmente.. Confessa, ti alleni.-
Non riesco a leggerlo e questo mi irrita profondamente. Soltanto oggi, dopo anni, in uno spogliatoio, ho scoperto che venature di sottili fili d'oro si intrecciano nell'oscurità delle sue iridi e adesso il sorriso appena accennato che anima la bocca di Aleksander mi porta a domandarmi quante altre cose non riesca a decifrare di qualcuno che, agli occhi del mondo, è un libro aperto. Sembra quasi soddisfatto mentre l'ammaliante occhiata che riserva alla pelle nuda del mio collo fa alzare nettamente la temperatura.
-Hai tirato fuori gli artigli Santorski?-
Sarei tentato di sfiorare l'epidermide all'altezza della carotide per constatare che l'ambra dark quanto i miei capelli intorno alle sue pupille non stia bruciando sulla mia vena. Un fremito al bassoventre mi dice che le mie vene stanno bruciando. Non mi concedo il lusso di abbassare lo sguardo neanche per un secondo. Sono in fiamme.
-Hai perso il diritto di toccarmi.-
Inclina la testa di lato quel tanto che basta perché mi faccia sentire come un quadro studiato a tavolino. In soggezione? Si. Sul punto di incazzarmi sul serio? Anche.
-E' questo il Dominik che volevo.-
Ritrae bruscamente il polso con la mia presa ancora addosso e quel passo indietro che avevo faticosamente riguadagnato si disintegra insieme a me contro il suo corpo. Sbatto l'addome al suo prima che riesca a inibire l'impatto e fermare il cuore che è dovunque tranne che al suo posto. Non dovrei sentirlo nelle tempie il suo battito, non dovrei sentirlo nel bassoventre. Ho fatto letteralmente un salto indietro facendo un baffo alla velocità del suono.
-Stronzo..- sibilo a mezza voce lasciandogli malamente il braccio. 
-Mi serve una mano Dominik.- è consapevole dell'effetto che ha su di me? 
-Di qualunque cosa si tratti- chiudo con un colpo secco la cerniera del borsone -scordatelo.-
Me lo carico sulle spalle e lo oltrepasso senza degnarlo di un altro sguardo.
-Facciamo uno scambio.-
Mi fermo. Perchè mi fermo? La sua voce è sicura, determinata, spavalda e allettante. E io mi volto. Stringo la mano intorno all'mp3. Sto già srotolando gli auricolari. "Non ho intenzione di perdere altro tempo per te e i tuoi giochetti", è questo quello che voglio che afferri mentre infilo l'attacco delle cuffiette
nell'inserto nero. Insieme al piccolo scatto alzo gli occhi nei suoi. La sua é l'esemplare posizione di chi sa di avere le redini del cavallo in perfetto controllo.
Attento Aleks, questo cavallo sta per scalciare.
-Quanto avevi in fisica?-
Lo guardo. Lo sa benissimo quanto avevo..
-Sei.-
-E ora quanto hai?-
..Ma vuole sentirmelo dire.
Lo guardo, sbarro i miei condotti uditivi con le testine bianche degli auricolari e faccio per dileguarmi.
-Va bene, va bene- alza le mani avvicinandosi. -La tua letteratura per la mia fisica.- 
Ha il tono convincente di un uomo d'affari, l'espressione persuasiva di un uomo d'affari, la posizione del corpo ferma di un uomo d'affari.
-Tu vuoi uscire di qui, io voglio uscire di qui. Ci guadagniamo entrambi, allo stesso modo.-
È una volpe, non un serpente. É questa bella volpe, perchè è bella, la volpe che ho davanti, è la prima che ha iniziato a spogliare il mio mondo, il nostro mondo, di ogni cosa che nascondeva ció che era realmente, rivelandone le crepe dalle quali non passava alcuna luce. Quel Paradiso, più velocemente di quanto avessi mai creduto possibile, é divenuto il più freddo degli Inferni, quella dimensione che credevo di conoscere, quella realtà che era la mia, la sua, quella di tutti coloro i quali adesso mi guardando come se non avessi mai respirato il fumo della loro stessa sigaretta o il boccale della stessa bottiglia, ha decretato l'inizio della notte più nera che abbia mai attraversato, una notte all'insegna del buio, della perdizione, dell'anima spiritata persa in qualche insana parola che le dichiarava un fievole affetto attraverso il monitor di un computer. Eppure quella notte ha rischiarato gli angoli del giorno, rivelando un giorno che non era così chiaro come si pensava, mostrando spaccature prive di luce su tutto ciò in cui avevo creduto, su tutto ciò in cui forse, credo ancora. 
Ha infilato le mani nelle tasche del jeans che coprono quelle cosce che chiunque sano di mentre troverebbe fantastiche, i ciuffi spettinati dei capelli che gli donano da sempre un'aria ribelle, l'espressione insofferente sul viso che solo un mese fa trovavo attraente e il costoso orologio ancorato saldamente al polso che riporta tutta la sua indocile figura su un piano che sprofonda nel reale, che piomba nell'effettiva verità che il talento di Judo è inabissato nella società di cui si ostina a condividerne i valori, di cui è forse convinto davvero di farne parte. Recita un ridicola parte in un ridicolo spettacolo del quale lui non ha la possibilità di decidere alcunché, si limita a fare ciò che gli altri si aspettano da lui, sempre, è stato plasmato per soddisfare le aspettative più alte, per ambire a quelle più alte, senza poter mai abbassare lo sguardo e vedere chi sta al di sotto del suo livello, senza poter mai voltare il viso per vedere chi ha lasciato indietro. Combatte ogni giorno per tenere a freno chi è realmente, per mascherare se stesso quando le porte sono aperte e lui è esposto agli occhi del mondo, e il mondo fa lo stesso, si veste di menzogne e si copre di falsità per non vedere oltre le corazze con cui si ricevono i colpi dell'andare avanti. Ma il suo mondo non è più il mio. Lo è stato, e insieme ad esso ha demolito ogni certezza che sorreggeva i resti di una vita che era già morta. Ma le cose sono cambiate. E mentre lo osservo mantenere meravigliosamente il ruolo che gli è stato assegnato dal portafoglio dei suoi genitori, dal suo grado sociale, so che non sarà mai una partita combattuta alla pari, so che non posso farci niente se c'è un altro che si nasconde sotto quei muscoli e quella vista arrogante perché tanto non verrà mai fuori, non gli è permesso e lui starà al gioco, proprio come tutti gli altri. So che non cambierà mai. 
Così chiudo fuori ogni scheggia di dolore che mi ha causato con la merda che ha fatto si che uscisse dalla sua bocca sullo schermo di un computer, mi lascio abbracciare dalla freddezza che torna placidamente ad aleggiare sul mio viso. I battiti persistono nelle tempie e lo sguardo che mi cade sulle sue labbra per una frazione di secondo troppo lunga è convincente nel farmi notare che non sono affatto indifferente al chiaro ambrato di quella pelle o alla profondità di quegli occhi, ma sopravvivere è più importante e lui è il primo a ricordarmi che siamo in guerra, e che questa volta non sarà l'oscurità di una stanza chiusa a chiave a proteggermi.
-Domani alle quattro a casa tua.-
Scorgo il mezzo sorriso insolente che mi vende e che lo rende un provocante stronzetto, prima che mi volti e mi volatilizzi a passo veloce fuori dagli spogliatoi.
La sorte è una puttana di prima categoria, ma una cosa è certa: Aleksander Lubomirski non mi farà del male mai più.

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Capitolo 8
*** Il sangue scorre veloce ***


Salve a tutti. Non ho molto da dire, tranne che spero che questo capitolo vi piaccia di più di quanto sia piaciuto a me. 
Grazie, come sempre, per le visite. 
PS: Capitolo con frasi chilometriche. Non chiedetemi il perchè. Avete il permesso di maledirmi.
Pachiderma Anarchico
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"La più eccitante attrazione
è esercitata da due opposti
che non si incontreranno mai."
Andy Warhol
 

 

- CAP. 7 -







-Te l'avrò detto almeno cinquanta volte.-
-Facciamo cinquantuno.-
-Tu non hai capito.-
-Ma và.-
Dominik si porta due dita sulla fronte e io sto iniziando a contemplare l'omicidio.
-Perchè questo tizio non se né stato a casa sua? Doveva cambiare città ogni volta che scriveva qualcosa?-
-Si chiama ispirazione, l'avresti anche tu se smettessi per due secondi di lamentarti.-
-Mi basta la sua e dovermela imparare tutta per la prossima settimana.-
-Se tu non avessi fatto il coglione con la professoressa..-
-Ah io ho fatto il coglione?-
-No scusa, il testicolo.-
Inarco un sopracciglio. Adesso l'omicidio è totalmente nelle mie grazie.
-Non capirò mai perché dover imparare ogni fottuto dettaglio di una vita che non è la mia.-
-Se solo avessi il cervello grande quanto il tuo ego..-
Mi alzo. Se è un invito a prenderlo a schiaffi accetto volentieri. Ho appena deciso di ignorarlo. Se non lo ignoro potrei prendere un coltello e farlo fuori. Magari uno dell'argenteria di mia madre. Un bell'effetto cinematografico.
-Metto a fare il caffè, ne vuoi?-
-Magari..conoscendo una vita che non è la tua, ti ritrovi in sintonia con quella persona, capisci che appartieni a qualcosa di più grande.-
Schiaffo le mani sul ripiano della cucina. Quale parte del "Faccio il caffè, ne vuoi?" non ha capito?
Mi volto, sopracciglia che stanno sfiorando i picchi del monte Everest, braccia incrociate, fondoschiena poggiato contro il ripostiglio sotto i fornelli, occhi che lo trapassano da parte a parte.
-Io non appartengo a nessuno.-
-Tu?- accenna un sorriso, veloce, rapido, per niente indolore. -Tu appartieni alla tua vita, a ciò che comporta, a ciò che comporterà.-
Fantastico, ha iniziato a filosofare ogni parola che esce dalla mia bocca, e fa maledettamente schifo sentirmi dire la verità proprio da lui che per la stessa
verità non è più lo stesso. Se solo avessi saputo quanto.
-E tu? Dominik Santorski a chi appartiene?- mi accomodo al mio posto senza che il mio sguardo vacilli sul suo viso.
Ha abbassato gli occhi, il sorriso che gli increspava elegantemente le labbra si fa più profondo. 
-Avanti- lo stuzzico, voglio vedere quegli occhi alzarsi, -hai sempre la risposta pronta sugli altri ma quando si tratta di te.. Hai paura.-
-Anche tu hai paura.- 
E quell'azzurro si è sollevato, luminoso, forse malinconico, sicuramente determinato. La sua voce ha pronunciato una risposta dal timbro sicuro, dalla sfumatura ovvia, così ovvia che quasi mi ritrovo nel panico, quasi alzo una mano a tastare se, sotto i polpastrelli, mi è scivolata dal viso l'apparenza faticosamente modellata in anni e anni o la corazza dal corpo.
-Io non ho paura.-
-No?-
Non volevo che quegli occhi si sollevassero? Perché adesso vorrei solo che la smettesse di guardarmi come se riuscisse a cogliere gigli in un campo di viole. Sembra una gara a chi usa il tono più fermo. L'ineluttabilità nel suo, l'inconfutabilità nel mio. Eppure lui ha l'irritante, straordinaria capacità di riuscire a confutare qualsiasi cosa.
-No, ho tutto quello che si potrebbe desiderare e qualunque cosa desidero la posso avere.- Sento la lingua passarmi sulle labbra solcate da un sorriso smagliante. -E tu lo sai benissimo che ciò che proviene da me è sempre oro colato, quello che dico, ad esempio..- sono stato cattivo e lo so. Parole fin troppo precise in un contesto fin troppo chiaro che tagliano l'aria come brutali coltelli. Ma, dopotutto, chi ha detto che devo essere clemente? Nessuno concede clemenza, perché proprio io, proprio qui, proprio ora dovrei mostrare sensibilità e indulgenza, verso chi poi? 
I coltelli che sono sgusciati fuori dalla mia bocca hanno allontanato ancora di più lo sguardo di Dominik da me.
-Bene. Dominik Santorski è appartenuto a così tante cose che adesso non ne possiede più nemmeno una.. e nemmeno una possiede lui.-
Un'ora fa, quando si è presentato davanti la mia porta, avvertivo il gelo nella sua voce e nei suoi occhi, schegge del ghiaccio più puro. Poi, chi sa grazie a quale sconosciuta fonte di calore, ha iniziato lentamente a sciogliere le labbra in sobri sorrisi e io ho iniziato a bramare quei sorrisi, di nuovo, a bramare il Dominik che conoscevo, quello che mi sono impegnato tanto affinché mi odiasse. E quel gelo è tornato adesso, più freddo che mai e anche quell'azzurro, che si è condensato per impalarmi sul posto. Ma amo il rischio, soprattuto se si tratta di rischiare con qualcuno imprevedibile quanto il mare. Reputo strano che sia attratto dall'incalcolabile, quando nella mia vita tutto deve essere determinato e ipotizzato fino alla virgola più bislacca.
-Facciamo una scommessa.-
-Con te? Mai più.-
Mi ritrovo ad avvicinarmi a lui quel tanto che basta da potergli studiare abbastanza dettagliatamente le labbra. Sono allettanti, dalla linea delicatamente visibile fino alle lievi pieghe sul labbro inferiore chiuso ermeticamente con quello superiore. E devo ammettere, non senza una certa riluttanza, che questa vicinanza è certamente più interessante del ricordare il perché qualcuno vissuto tre secoli prima abbia scritto una poesia di 50 pagine comprensibile solo a lui sull'amore della sua vita. Perché non è andato da lui e invece di fare parole non ha fatto fatti? Perché non se l'è preso?
Alzo lo sguardo e scopro che i suoi occhi non si sono abbassati, hanno aspettato fermamente il ritorno dei miei. Ha autocontrollo il ragazzo, proprio quando non lo deve avere. Beh, ha davanti il re dell'autocontrollo, e il re ha appena deciso che vuole vedere questo controllo cadere.
-Una scommessa- ripeto, più lentamente, più solenne, col fare cospiratorio di chi sta architettando il colpo più grosso della sua vita con il suo complice. E Dominik mi è sempre sembrato il complice perfetto. Silenzioso, discreto, scaltro. 
-Io scommetto che scopro a cosa appartieni prima che tu scopra cosa mi fa paura.-
Il ghiaccio azzurro affonda nell'ambrato nero con misterica intensità mentre viene alzata una mano. Mi sta offrendo la stretta della sua mano destra. 
Mi concede inaspettatamente un sorrisetto altezzoso, di quel vanto che non è tanto vanto quanto consapevolezza. Di avere ragione.
-Quindi c'è qualcosa di cui hai paura.- 
-Quindi c'è qualcosa a cui appartieni.-
Gli regalo il mio miglior sorriso soddisfatto, e brillante. Forse è anche altezzoso, di quel vanto che è proprio vanto, a giudicare dalla smorfia che mi lancia il moro. Arriccia le labbra e il naso. Il broncio di un secondo. Neanche sotto tortura ammetterei quanto mi è mancato quel broncio. 
La cucina di casa Lubomirski, la mia casa, risuona placidamente dei rintocchi dell'orologio appeso al muro durante i minuti in cui ognuno, improvvisamente, si perde nel proprio mondo, sospeso in chi sa quali universi, imbrigliato in chi sa quali ricordi. Non sopporto questo silenzio, pesante, denso, carico di perché e saturo di possibilità. Mi alzo, mandando indietro la sedia con un colpo secco. Un colpo che ho reso il più rumoroso possibile. Io sono qui, sono vivo, sono accanto a te, perché deve allontanarsi? Perché deve fuggire lontano dal presente? Perché devi essere tanto irraggiungibile?
-Quindi non vuoi caffè?- 
Patetico quanto poco serva la bocca quando non si ha il coraggio.
-No, ho raggiunto il mio massimo di caffeina per oggi.-

 

***

 

-Qualcuno ricorda la definizione esatta di "rette parallele"?-
-Prof. è cosa da seconda elementare.- 
La voce di Karolina emerge dal vociare nell'aula, venata di sarcastico rispetto nei confronti delle figura che ha difronte. 
-Non te la ricordi Karolina?-
La voce di Raul dall'ultimo banco porta la ragazza ad alzare gli occhi al cielo prima di schiudere le labbra in un provocante sorriso, forte della provocazione.
-Due rette si dicono parallele fra loro quando non hanno alcun punto in comune.-
-E il piano?- rinfodera la divertita ironia di qualcun'altro.
-Oh e va bene, due rette di uno stesso piano sono parallele fra loro quando non hanno alcun punto in comune.-
-Esatto e, signorina Zimmer, potrebbe trovare le parallele molto più interessanti di quanto abbia potuto verificare in seconda elementare.-
La mano del professore di matematica sfila veloce sulla lavagna elettronica, tracciando due linee nere sulla tecnologica superficie bianca. Due rette parallele.
-Non si toccano, non hanno punti in comune, si protendono all'infinito. Semplice, se si considera la geometria Euclidea.-
Metà degli occhi dei presenti sono puntati sulla biondiccia testa riccia di Pewel, che oltre ad essere una cartoleria ambulante e un aspirante monaco buddista, e oltre a credermi un serial killer dichiarato, è anche "l'obiezione" per eccellenza. Si, perché Pewel è capace di contrastare con la sua opinione qualunque cosa, anche un'affermazione incontestabile quanto "il cielo è blu". Il cielo magari è blu davvero, ma lui, con quel fastidiosissimo tono di voce, troverà comunque il modo di opporsi a tale tesi e farti arrivare al punto da convincerti che il cielo non sia realmente blu. I miei occhi però seguono un'altra strada, fanno eccezione, il bersaglio delle mie pupille non è il mio iconico compagno di banco, ma le linee disegnate dinnanzi a me. 
-Avrete certamente sentito l'espressione "sono due rette parallele, non si incontreranno mai".-
-Jace e l'ex fidanzata- esordisce Misha. Prorompenti esclamazioni.
Altra voce. -Joanna e il dopo sbronza.- altre acclamazioni.
Joanna ribatte con una vistosa smorfia. I suoi occhi accarezzano qualcun'altro. 
-Dominik e la sua eterosessualità.- Acclamazioni. Più forti.
-Joanna e il suo cervello.- Fischi. E un ululato di smaliziati "uuuuuh.."
Non ho bisogno di voltarmi per constatare quanto le mie parole l'abbiano colpita. So di aver centrato, con anche una certa dose di nonchalance, il bersaglio nella sua piena, pomposa fierezza. Lo so perché la certezza mi è data dagli schiamazzi divampati tra queste quattro mura. E io sono al di sopra di tutto questo, troppo per girarmi o lanciare un'occhiata ai miei chiassosi vicini. L'unica visione che mi concedo è il notare un'affascinante paio di labbra incurvate nella morsa di un occultato risolino divertito prima che l'insegnante ci strappi tutti al tagliente, esilarante momento.
-Grazie signor Martens, signorina Bond, signorina Saska e signor Santorski.- il professor Kon si appunta gli occhiali sul naso aquilino. E' un tipo sportivo, da jeans e camicia senza cravatta e, scommettendo sull'età, non si è mai arrivati a supporre che l'uomo abbia più di trentacinque anni. E' il professore più giovane che abbiamo e per questo le sue lezioni sono meno noiose di quanto ci si aspetterebbe dall'insegnare una materia come la matematica.
-Ora, se i nostri quattro paladini dell'ordine non vogliono lanciarsi i banchi contro, possiamo continuare. Secondo quanto vediamo dunque, due rette di questo tipo non hanno nulla da scambiarsi, niente per il quale rimanere. E allora perché l'una non si separa dall'altra, perché non deviare il proprio corso e allontanarsi dalla compagna? Perché continuare a percorrere lo stesso cammino sempre, per sempre, fino all'infinito, con qualcuno che non sfiorerai mai?- 
Kon ha incalzato l'attenzione dei suoi studenti, si capisce dagli sguardi elettrici, dall'aria carica dello sfregamento di neuroni che cercano una risposta plausibile alle argomentazioni del professore. Due rette parallele che si incontrano. Il mio sguardo si perde nei raggi di sole che penetrano dalle finestre e rischiarano strisce caotiche di sedie, teste e braccia. Qui non si tratta più di rigore matematico.
-Mmm.. Andiamo andiamo, che ci siete.. Lubomirski- il mio sguardo non è più tanto concentrato sul sole -che ti vedo particolarmente partecipe oggi. Secondo te?-
"Lubomirski" alza le spalle, si passa una mano tra i capelli già spettinati, il suo corpo ostenta una noncuranza che non ha ma che ha sempre incantato tutti, sa che sta per dire qualcosa di intelligente.
-Magari sono opposte e complementari.-
Bang.
Attenzione di tutti i presenti. Silenzio prima della tempesta. Quattro parole più una congiunzione e ha davvero detto qualcosa di sensato. Più che sensato. Strabiliante. E la tempesta scoppia nell'istante seguente, quando ogni bocca inizia a dire la sua, voci su voci, incomprensioni su incomprensioni. E il professore è diventato un conduttore televisivo che cerca di calmare i suoi ospiti.
-Ragazzi buoni, c'è spazio per tutti..Signorina Ubons-Kos?-
-Come fanno ad essere opposte e complementari?- Inizia la ragazza con quel suo accento francese e la voce grossa di una cantante lirica. -Se sono opposte non sono complementari, l'una esclude l'altra.-
-E allora come te lo spieghi il fatto che non si scollano l'una dall'altra?- interviene Joanna con l'atteggiamento degno di un'arringa politica.
-Hanno dei conti in sospeso- ridacchia Samuel. -Vero Leks?-
-Magari una lezione..- Aleksander si distende sulla sedia. Disinvolto, tre metri sopra terra. Tre metri sopra tutti. -Così, giusto per far capire all'altra parallela di chi è il territorio.-
-Ma quella parallela continua a sfuggire.-
Mi guardo intorno. Che cosa diavolo stanno dicendo? 
-Dunque voi dite che potrebbero toccarsi, raggiungersi, completarsi a vicenda? Vedete, il prendere in esame le rette parallele è sempre affascinate, uno degli argomenti più entusiasmanti della geometria, applicabile a discorsi di qualunque disciplina. Abbiamo due rette, all'apparenza uguali, perfettamente identiche, ma non si incontrano mai. Questo significa che non sono così simili come sembrano. Ma se fosse anche solo apparente il non poter toccarsi? Se in un punto collimassero?- rinfranca Mr. Kon.
-Non possono collimare.-
Un'alzata di occhi generale. Sbuffi. Lamenti. Lo sapevamo. Lo sapevamo tutti. 
Pewel ha trovato il modo per contestare. Ovviamente. Qualcuno trovi un hobby al tipo.
-Calcolando la distanza tra l'una e l'altra, l'inesistenza di punti in comune o di scambio, lo spazio in cui si muovono, è impossibile che due rette parallele si tocchino.-
-Razionalmente questo è ciò che dice la logica Signor. Lorensz, ma qui non stiamo parlando di calcoli e numeri, ma di attribuire un sentimentalismo, di dare un'interpretazione al cammino di queste due rette. Siete giovani, dovreste essere bravi ad uscire dagli schemi.-
-Se si vuole uscire dagli schemi..- la voce di Aleksander mi porta a rizzare le orecchie e spalancare i padiglioni auricolari perché si, prevedibilmente e fastidiosamente, sembra che la mia mente non voglia perdersi neanche una parola pronunciata da un timbro tanto superbo quanto accattivante.
-Se si osserva la prospettiva si nota che in un punto si uniscono davvero. Basta mettersi nello spazio tra le rette, e, nel punto più lontano, sulla diretta via dell'orizzonte, si sfiorano, si toccano.. Si raggiungono.-
Quella voce si trasforma sensualmente in una spirale di malizia che l'uomo non ha colto, ma che io ho percepito benissimo.
-Così puoi dare finalmente una botta a quella retta Leks..?- sogghigna la voce divertita di Antony.
-Due rette parallele sono parallele per una ragione.- sto fissando la nuca castano dorato che si è bloccata nel sentire lo stoicismo di cui si fanno forti le mie parole. -Quel punto non è che un'illusione perché se si ci avvicina la prospettiva cambia, e la congruenza semplicemente non esiste. Non si sfiorano, non si toccano, non si raggiungono.- sto affondando ad una ad una le sue parole con sinistro piacere. -Due rette parallele non si scelgono, ciò che le divide sarà sempre più forte di ciò che le unisce. Due rette parallele non si incontrano, mai.-
La nuca dinnanzi a me non accenna a muoversi, qualcosa pizzica la mia gola, entrambi imperscrutabili, entrambi piantati sulle nostre sbagliate, sbagliate posizioni.
-E cosa succede quando due mondi che si appartengono non possono collidere? Cosa può voler dire l'essere opposto e complementare a qualcuno ? E cosa si può fare quando ci si accorge che non si può vivere con quel mondo e che non si può vivere senza di esso?- sorride e siamo sulla linea di blocco per la seconda alzata di occhi al cielo della mattinata. I sorrisi del professor Kon sono, da quattro anni, preludi di morte. 
-Parlatene col vostro professore di italiano, sarà ben felice di assegnarvi un saggio sull'argomento.-
Eccoli tutti gli occhietti che saettano puntando alle stelle. E i miei non fanno eccezione questa volta. Tutto questo sentimentalismo mi ha stancato, ne ho fin piene le orecchie ed è controproducente alla realtà delle cose. 
E pensare che io vivevo di sentimentalismo. Ma, come il "vivevo" è un tempo storico appartenente a un tempo non corrente, appartenente al passato, molte cose sono passate, appartengono a un tempo che non è più parte di me.

 

***

 

Uno..due..tre..quattro…Uno..due..tre..quattro..Uno..due..tre quattro..Uno..due..tre..quattro..Quanto è alto questo palazzo? 
L'eco dei miei passi rimbomba nel silenzio del tragitto, lungo e faticoso tragitto, che dovrebbe condurmi sano e salvo a destinazione. Avrei potuto evitarmi gli ottocento piani grazie a quella salvifica invenzione chiamata "ascensore", se non fosse stato che il polpastrello del mio indice destro abbia premuto quell'irritante pulsante di colore perennemente rosso per almeno una decina di volte senza che la salvifica invenzione si mostrasse in tutto il suo splendore ad impedirmi di fare una ventina di rampe di scale. Le gambe protestano nella disperata salita che la costruzione di lusso mi ha spinto a fare e l'umida temperatura di Aprile non aiuta l'accaldata epidermide del collo sotto il giubbino di pelle. Finalmente la vedo la mia meta, la porta in legno lucido sul fondo di un lungo corridoio silenzioso. Pare quasi che voci soavi si levino nell'immobilità assoluta dell'aria, i cori angelici che mi accompagnano verso l'aurea destinazione e mi esortano a suonare il dorato campanello. Non sono mai stato tanto lieto di vedere una porta. La targhetta in ottone su cui sono stati incise eleganti lettere nere mi restituisce un fosco sfavillio del mio sguardo. Lubo..
-Ehi.-
Credo che uno uno statista troverebbe alquanto interessante la velocità che devono aver raggiunto i battiti del mio cuore quando sono volati in gola. Mi sarei aspettato Beatrice con i suoi lisci capelli castani dai riflessi dorati come quelli del figlio, non il figlio, lì, sulla soglia della porta, a spostarsi per permettere al sottoscritto di entrare.
-Ma quanti cazzi di piani ha questo palazzo? -
Aleksander sorride e il sottoscritto entra, entra in questa casa per la seconda volta in tre giorni, in questa casa che sa di complessità, con l'azzurro cobalto e il bronzo degli occhi delle tigri a colorare il grande soggiorno su cui da l'ingresso, con le miriadi di costellazioni di soprammobili sparsi ad arte su ogni superficie disponibile, con le immense vetrate che danno sul centro della città che inizia a tingersi dei bagliori delle luci che si protendono verso l'imbrunire del cielo. Non mi sono mai abituato a queste mura, nonostante le volte in cui, ai tempi in cui eravamo degli innocenti ragazzini di tredici anni, ho varcato spesso la stessa soglia, guardato lo stesso soggiorno, sfiorato con lo sguardo ogni soprammobile. Durante gli anni sono aumentati, adesso sono una colonia di un migliaio di elementi. Mi sono buttato persino sul divano che era lì, quasi al centro del soggiorno, prima che il suo posto lo prendesse un nuovo sofà a penisola di cinque posti in pelle bianca. Ma il concetto è lo stesso, alcune cose non cambiano, potrebbero passare anche quattro secoli, ma c'è qualcosa, nella barocca eleganza di queste stanze impeccabili, che non mi lascerà mai respiro. 
-Che cosa ascoltavi?-
Il padrone di casa accenna agli auricolari candidi che ho sfilato dall'inserto del cellulare e che sto cacciando nella tasca con una sorta di lenta impazienza. I miei occhi gli vanno a solcare il viso e, a quanto pare, non nel modo più tranquillo.
-Voglio solo sapere un nome.-
-Black Sabbath.-
Aleksander analizza velocemente la mia figura reduce da una pseudo scalata del Kilimanjaro.
-Fa caldo?-
Stiamo arrivando a parlare del tempo. Quando siamo caduti così in basso?
-L'ascensore mi ha spudoratamente ignorato.-
-E' la bisbetica del piano di sotto, ogni venerdì si porta a casa una ciurma di quaranta persone intasando mezzo palazzo con la carovana di anime che fanno avanti e indietro da, per e nel suo deserto.-
-Tipo un pellegrinaggio alla Mecca?-
La sua risata sembra colmare, per un istante, un vuoto insostenibile quanto inevitabile tra noi. 
-Si, esattamente.-
Io sono ancora fermo, impalato nello stesso punto in cui mi sono incollato, con i piedi per terra, appena entrato. 
Attico più Aleksander sommati al catartico silenzio di quelle splendenti pareti danno come unico risultato una morsa fin troppo aggressiva alla bocca dello stomaco e la tendenza fin troppo presente di sfiorarmi il viso, segno non molto evidente di disagio. Ma d'altronde, come si potrebbe riempire questo silenzio? Esistono parole capaci di arginare, almeno in parte, le pareti d'acciaio rinforzato che sento erette intorno a me tanto quanto intorno a lui? E con quale coraggio riusciremmo a fare una cosa del genere, dopo l'oceano che si è insinuato tra noi? Tornare a parlare del tempo non sembra poi tanto male.
-Oggi siamo soli.-
E adesso si che dovrei dire qualcosa. Come ad esempio un educato "Grazie, ripasso quando la stretta allo stomaco non sarà più tanto feroce da farmi male". Perché si, mi sta facendo male. E continua caparbiamente a farmene anche mentre lo seguo per il lungo corridoio decorato da quadri e sorridenti fotografie dalle preziose cornici La sua stanza è cambiata dall'ultima volta che ci ho messo piede, eppure la sensazione che ne ricavo è la stessa. Quel letto a due piazze dai moderni tratti blu, l'enorme armadio fatto interamente di specchi ad ante scorrevoli, i comodini geometrici di un bianco perlato, il parquet color crema, le grandi vetrate presenti in tutta la loro ampiezza anche in questa stanza, che regalano una vista completa dell'affollata, caratteristica, colorata Varsavia. 
E' cambiata, questa camera. Sono cambiati i colori, forse anche lo stile -certamente adesso ci sono più specchi- è cambiata l'aria di classe che ora sembra traboccare dai muri, la raffinata eleganza che è intrinseca in ogni elemento che troneggia davanti agli occhi. Non ci si aspetterebbe una camera tanto inappuntabile, perfettamente ordinata ed esemplare da uno come Aleksander. 
Mi siedo a un lato della lunga scrivania e quasi sorrido. La donna delle pulizie farà del suo meglio, uscendo ed entrando dal covo dell'astro del Judo, ma i miei sensi non ci mettono molto a carpire tutti i dettagli che sfuggono all'accurato controllo della stanza. La poltrona rotonda, simile a un morbido pouffe gigante, ha ancora i segni di qualche corpo che si ci è malamente gettato di sopra, il carica batterie di un iphone è adagiato sul letto come un lungo serpente candido, sulla maniglia argentata della porta che è quella del bagno privato è appesa una sciarpa bordeaux e un'estremità sfiora il pavimento, un piccolo branco di orologi è annidato sul lucido comò e una catenella dorata oscilla lentamente. Poggio la borsa, prendo i libri che lui sfila da una notevole libreria a mensola e mi scopro a desiderare ardentemente la voce della madre, o del padre, o della donna delle pulizie, o del cane a fare da sottofondo a l'imbarazzo di non proferir parola perché nessuna parola sarà mai quella giusta.
-Il magnetismo- il magnetismo, -è la branca della fisica- fisica, -concernente il fenomeno dell'attrazione.- 
La voce di Aleksander, chiara, limpida, penetra nella mia curiosa analisi della sua tana e mi spinge a prendere almeno un quaderno, possibilmente a quadretti, possibilmente di fisica. Ne ho uno a quadretti. Se lo facciano bastare. 
-Alcuni materiali esercitano una forza detta "magnetica", per la sua intensità, su altri materiali. In particolare per fenomeni stazionari, ovvero non variabili nel tempo, si parla più specificatamente di magnetostatica (che presenta alcune analogie formali con l'elettrostatica allorché si sostituiscano alle distribuzioni di carica elettrica le densità di corrente elettrica).- E' abbastanza nero da passare ad altro, non trovi? No, a quanto pare non trovo affatto constatando che la punta della penna che tengo svogliatamente in mano sta marcando il tratto di uno strano scarabocchio a spirale per la milionesima volta. Il sottile filo nero si ingrossa sempre di più e io non intento lasciargli tregua mentre termini scientifici di qualcosa che non riesce a catturare il mio interesse mi giungono lontani e distorti. Ho quasi la netta impressione di stare per poggiare la testa sul braccio, lasciando che il suono di quella voce mi rilassi nella sua melodia amabilmente familiare.
-L'elettromagnetismo è, invece, il risultato dell'unione tra elettricità e magnetismo.
La teoria elettromagnetica fu elaborata nella sua forma finale da James Clerk Maxwell. L'interazione elettromagnetica è responsabile dell'interazione tra oggetti che possiedono carica elettrica, che sono a loro volta "sorgenti" del campo elettromagnetico che ne rappresenta l'interazione in ogni punto dello spazio. Tale campo si propaga nello spazio sotto forma di radiazione elettromagnetica, un fenomeno ondulatorio che non richiede alcun mezzo materiale per propagarsi e che nel vuoto viaggia alla velocità della luce.-
La mia attenzione si è spostata. Da qualche parte, tra Maxwell e la luce, ho alzato lo sguardo, posizionato la mia vista sulla persona accanto a me che è così religiosamente seria, concentrata sulle nozioni scritte in grassetto, da prendermi quasi in contropiede. Non te lo aspetti Aleksander Lubomirski, l'incendiario per antonomasia, a starsene pacificamente seduto nel silenzio di una stanza, dinnanzi a un libro che non parla di motori, sport o sederi, e a non accorgersi che lo stai fissando da circa dieci minuti.
-Tale forza ammette come caso particolare i fenomeni elettrostatici (es. elettricità) e i fenomeni magnetostatici (es. magnetismo) e a tale interazione fondamentale si possono ricondurre molti altri fenomeni fisici macroscopici quali ad esempio l'attrito, lo spostamento di un corpo a mezzo di una forza di contatto..insomma, "eccetera", "eccetera", "eccetera"..- Cosa volete che me ne importi del magnetismo quando ho le mani che fremono al solo pensiero di poter sfiorare un qualsiasi mezzo che si colleghi ad internet e la disperata ricerca di qualcosa che mi faccia credere di aver fatto bene ad essermi risvegliato stamattina? Le tue labbra sono tutto ciò che vedo adesso, tutto ciò che si impossessa prepotentemente della mia carente attenzione. Si muovono veloci, quelle due mezzelune di scuro alabastro, seguono il ritmo delle tue iridi che scorrono abili sulle parole che sembri capire molto bene. Quello che non capisco io invece, almeno non abbastanza velocemente, è che le tue labbra si sono fermate, che i tuoi occhi non stanno più decollando sulle pagine e che la tua voce non sta scandendo leggi e formule. -Dominik..- e sono belle anche quando pronunci questo nome, -Dominik- lo fai sembrare dannatamente perfetto.. 
-Dominik!-
Mi scosso bruscamente. Le palpebre si serrano un paio di volte prima che mettano completamente a fuoco il libro su cui avrei dovuto essere concentrato. Aleksander ha i suoi occhi fissi su di me.
-Hai capito?-
Le sopracciglia raggiungono altezze da record. 
-Se avessi capito non sarei qui.-
-Ma se te l'ho anche spiegato.- il suo indice destro ticchetta su un foglio nello spazio di scrivania tra noi, inciso da parole, decorato da frecce e segnato da formule. Guardo quasi scettico quello a cui non ho fatto minimamente caso, come se lui avesse fatto spuntare questo foglio già tutto bello che scritto solo per ingannarmi. Ma lui ha parlato davvero di fisica senza che io sentissi una sola parola e la sua scrittura assume un tono stranamente professionale nel trattare schemi e numeri, al contrario dell'accozzaglia di anarchici righi che sono i suoi compiti di italiano.
-Magari se la tua scrittura fosse comprensibile a noi comuni mortali..-
-Annuivi pure.. Se ti avessi detto che ho i capelli rosa, sei braccia e otto gambe mi avresti risposto di si?-
L'occhiata truce che gli riservo non può che essere altrimenti, una scintilla di puro fuoco, quella rischiosa, quella che ti dovrebbe suonare un allarme in testa sul non spingere la conversazione oltre. Lui però sembra non possedere il suddetto allarme, sembra pronto a ribattere a un'altra ondata di sarcasmo da parte mia, senza capire che il sottoscritto non ha alcuna voglia di rispondergli. Ma certo, lui fa sempre quello che vuole. "Come te d'altronde", ribatte qualcosa in qualche parte di me che non è del mio stesso partito politico. Ma lui non pensa alle conseguenze. "Da quale pulpito."
Do un'occhiata al libro. 
-Il magnetismo è una forza magnetica..- mi sforzo di assumere un tono di voce risoluto, un timbro che conosce esattamente ciò che sta sgusciando dalla bocca che gli appartiene. -E si parla di magnetostatica, che ha alcune proprietà simili a quelle dell'elettrostatica, quando si sostituiscano alle distribuzioni di carica elettrica..-
-Non stai capendo una sola parola.-
-Neanche una.-
Non mi rendo conto di quello che ha intenzione di fare fino a quando non lo fa. Chiude il mio libro, si premura di far sparire il suo come il migliore dei prestigiatori, e si alza. 
-Vieni con me.-
Gli scocco uno sguardo tra l'indifferente, il sospettoso e il curioso. Il mio corpo ostenta indifferenza, fermo nella sua posa che la mente si ostina a far diventare marmo mentre il suo sguardo di ambra scura mi scruta dall'alto in basso con una sorta di improvvisa impazienza, e sono sospettoso, condizione che annulla totalmente l'indifferenza da me testardamente mostrata a grandi leghe, perché essere sospettosi significa non fidarsi, significa guardarsi intorno, proteggersi le spalle, significa alzare gli occhi verso l'avversario e prepararsi ad ogni azione che potrebbe portarti lontano dal sicuro rifugio della trincea per scendere sul fronte, significa essere curioso, e la curiosità annienta l'indifferenza, e la curiosità uccise il gatto, il cane, il coccodrillo e l'orango tango. E per me una morte è stata abbastanza. 
-Andiamo, voglio solo mostrarti una cosa, ti assicuro che non mordo. -I suoi occhi scintillano provocanti. -Per oggi.-
Devo dire che l'idea di riaprire quel libro intriso di concetti che per me non hanno alcun punto logico non mi alletta affatto. La voce di Aleksander ha l'insana prerogativa di rapirmi, rapire la razionalità e il buonsenso, rapire il celestiale candido in cui aleggiavamo per inoltrarci nel cammino incerto e ombroso di qualcosa del quale forse neanche noi siamo a conoscenza. Ci metto due secondi a capire che mi alzerò, che lo seguirò, che quel suo modo di appellarmi ha un terribile effetto sul mio freddo controllo, che quel ghigno sconsiderato mi ha già legato. Ci impiego ancor meno ad allontanare il deretano dalla sedia e a seguire il padrone di casa, che adesso ha tutte le sembianze di una guida, nell'ingresso, dove una porta che ho sempre pensato nascondesse un armadio spalanca invece la sua bocca su una scala di inappuntabile ciliegio che si snoda, dritta, sin ben oltre il livello del piano. Aleksander è proprio davanti a me quando spinge la seconda porta, scorrevole e in vetro, e mi mantengo a distanza, un paio di gradini sotto, gli occhi che contemplano le quasi invisibili venature del legno, interessati da qualsiasi cosa non faccia parte del suo corpo che mi da le spalle. Un sibilo di vento sul viso mentre mi inoltro oltre quel secondo ingresso non può prepararmi a dovere su cosa il sole di una giornata di metà aprile andrà ad illuminare dinnanzi al mio sguardo stupito. Una terrazza enorme, lunga, brillante di costoso designer si manifesta al primo posto di uno sfavillante podio con un angolo bar da far invidia ai bar stessi e lunghi, accoglienti, caldi spazi creati da divani chilometrici, formanti angoli e penisole, reclinabili o meno, ammantati da grossi cuscini dall'aria soffice quanto il pelo dell'Ermellino bianco, riparati dal sole da un alto tetto e dalle foglie verdeggianti delle imponenti piante che danno al luogo il caratteristico aspetto di un qualcosa di meticolosamente curato e di necessariamente costoso. Il mio sguardo però, non è catturato tanto dal bar con di sgabelli dalla forma stramba e moderna, ne dalle luci bianche incastonate nel pavimento, ne dalla schiera di dorate sedie sdraio che sembrano essere sulla linea difensiva come leali alfieri, ma più da ciò che questi alfieri vanno diligentemente a difendere, oltre che ad adornare. Una piscina vasta quanto metà dell'enorme tetto, dai lati morbidamente arrotondati, attrae i balugini del sole che picchia spietato all'altezza in cui il vento non cessa di scompigliarmi i capelli, l'acqua appena mossa dalle correnti d'aria. L' accattivante distesa blu è interrotta solamente da un ponte largo quanto due uomini l'uno accanto all'altro, piatto, dello stesso pavimento piastrellato del colore della sabbia, del grigio fumo, del crema, su cui io poggio i piedi, alcuni metri più lontano. L'oro del sole è indicibilmente bello sulla superficie cristallina e io mi volto verso colui il quale si è stravaccato comodamente su un divano e mi guarda con un sorriso sornione.
-Cosa ne pensa signor Santorski?-
Un ricordo si improvvisa nel suo lontano spettacolo, due ragazzini si sfidavano su quale fosse la casa più bella, la più lussuosa, quella con maggior gusto di arredo tra le sue mura. Le loro voci rimbombano ancora nella mia testa, saettano placidamente in qualche anticamera tra le costole quando realizzo l'innocenza di quegli anni che sembrano appartenere a un'altra era, forse ad un universo parallelo, certamente non quello che ho lasciato mi trasformasse e che, lentamente, mi distruggesse.
La bocca di Aleksander si increspa come la superficie dell'acqua di una chiara sfumatura di soddisfazione prima di fare un cenno elegante con la mano per invitarmi a sedere. E' palesemente compiaciuto, forse ipotizzando, forse fiutando la coltre di ricordi a cui sono andato prontamente a parare. Lo ammetto, ho guizzato il mio interesse verso il posto immediatamente più vicino a lui per poi tornare, privo di alcun tipo di buonsenso, sulla sua figura, la figura di un corpo perfettamente modellato, disinvolto nella posizione rilassata di qualcuno che sa di essere una visione gradevole, forse di più, a fare da sfondo a un viso che, colpito da un demoniaco, spiritato, infame raggio di sole, si trasforma nella corda che blocca i polsi, nella mano premuta sulle labbra, nello sguardo felino che non si perde neanche un movimento della preda. Perché è così che vedo quegli occhi adesso, diventati ambra liquida, ambra pura, scintillante, ingannevole, attraente, mentre soppeso, incerto, l'idea di avvicinarmi. Ma lo faccio, perché quella corda tira, quella mano non ammette repliche, quel posto sembra chiamarmi a gran voce e quegli occhi vibrano di una musica che non voglio conoscere, mentre metto una gamba davanti all'altra e mi accomodo quasi sul bordo del divano, accanto a lui. E quell'ambra continua a scrutarmi, prima del colore dell'oro fuso e d'un tratto, appena quel sottile fascio di luce si disperde in qualche nuvola, di nuovo nera, ambra nera, densa, come il fondo di un profondo pozzo in cui si specchia l'argento della luna. Ma non c'è argento in queste iridi, solo oro. 
-Penso che la sua dimora abbia vinto su tutti i fronti, signor Lubomirski.-
-Beh lo sa..- rinfranca lui versando del liquido scuro in due bicchieri, -A me piace vincere, su tutti i fronti.-
Prendo il bicchiere che mi porge. -Lo so.- il mio sguardo osserva senza vederlo il liquore che ho in mano. -Lo so bene.-
-Credi davvero a quello che hai detto stamattina durante matematica?-
Quella domanda non me l'aspetto. Ha il tono della casualità, la precisione di ciò che casuale non è. Non sono affatto parole buttate lì a caso, sono un preciso connubio di analisi, di studiare l'altro fronte, prima di attaccarlo. Perché non ci si può difendere da ciò che non si conosce. 
-Se l'ho detto ci credo.-
Il braccio destro è poggiato con noncuranza sullo schienale dello stesso lato, la mano sinistra fa vorticare l'alcolico un paio di volte. Non mi guarda. Non so quale divinità pagana ringraziare per questo. Quale santo devo pregare perché quelle bollenti pupille non si posino ancora una volta su di me?
Il silenzio è pensante, carico di qualcosa di inafferrabile, qualcosa che conosco molto bene, eppure che non so spiegarmi. Aleksander e qui, davanti a me, a distanza di sicurezza. Quale? La mia.
Perché colui che mi sta praticamente al fianco, osservato nella sua naturalezza, è innocuo, quasi innocente nelle sue labbra dal sorriso travolgente e dalla risata contagiosa, nei suoi sguardi di pura energia, nella sua voce calda e affascinante quanto la Primavera. E a volte mi viene di dimenticare ciò che è stato, di abbandonare il passato alle spalle, guardandolo mi assale la sfrenata voglia di cancellare i ricordi che fanno male, di chiudere gli occhi e fingere che tutto quello non sia mai accaduto, che quelle lacrime non abbiano mai solcato la pelle delle guance, che il cielo non sua passato da un torbido blu al più fosco dei grigi, mi viene voglia di avvicinarmi e sopraffare quel metro che separa la mia presenza dalla sua. Ma mi sono stancato di fingere, e fingere è sempre stato l'unico modo per andare avanti, con lui, con gli altri. Forse è per questo che non sto andando avanti, perché non so più fingere. E non sapere più farlo significa essere scoperto su tutti i fronti, significa difendersi solo con le proprie forze, proteggersi con la propria fragile corazza, con la propria nuda verità. 
Il silenzio che sembra gravare tra quei bicchieri non lo tollero un secondo di più, così butto avanti le mani con la prima cosa neutrale che mi passa per la testa.
-Perchè tu ci credi davvero? Credi che due rette parallele, da qualche parte, possano toccarsi? Non ti facevo tanto romantico.-
La sua bocca si arriccia in una smorfia. I miei occhi mi tradiscono. Quelle labbra stringono senza pietà la corda intorno ai miei polsi. 
-Io ci credo. Tu puoi credere di essere figo con l'eye-liner e io non posso credere a due linee che percorrono da sempre la stessa via l'una accanto all'altra?- Il mio sopracciglio inarcato è una limpida risposta alla sua malcelata strafottenza. 
-La tua ironia mi commuove.- il liquore brucia piacevolmente in gola quando mi porto il bordo frastagliato del bicchiere alle labbra. -Il tuo romanticismo anche.-
-Non mi aspettavo che tu sostenessi l'idea di qualcosa di tanto tragico e.. definitivo.-
Ma sembro non essere onorato della grazia dei santi, infatti quegli occhi tornano, e tornano con la forza di un uragano a travolgermi, a lasciarmi incatenato sul posto. E le catene bruciano quando mi accorgo che io sto guardando dritto in quegli occhi, che le mie iridi combaciano con le sue senza remore, senza timore, senza sfuggire a quella vivacità. Probabilmente la melodia di quegli occhi mi piacerebbe, se imparassi a conoscerla, ed è proprio per questo che mi tengo ben lontano dal farlo, che mi rifiuto di svelare il segreto che mi porta a vedere l'oro nei suoi occhi anche quando questi sono neri come le tenebre.  
-Credevi che ero tutto rose, fiori, castelli, destrieri bianchi e vissero felici e contenti?-
-Una cosa del genere.- la sua mano passa tra i capelli di rame scuro prima che la sua bocca si vanti di un sorriso irritante. -Ma devo dire che al destriero bianco non avevo pensato.-
-Io non penserei neanche al "vissero" se fossi in te.- 
Il vento tiepido mi colpisce in viso con la velocità di un cavallo in corsa quando mi alzo e lascio che la luce del sole annienti le ombre che sento vorticarmi fameliche intorno. Poggio le mani sul muretto bianco che circonda quel terrazzo di lusso mentre i colori pastello della città, vividi, brillanti, drappeggiano il centro storico, caratteristico, prima che la diramazione del moderno porti a una sconfinata distesa di grattacieli d'argento e macchie di effervescente verde. Sembra difficile sentirsi depressi in una città così, con la sua musica galoppante e le piazze dall'aria mistica gremite di gente da chi sa dove. Sembra quasi impossibile che qualcuno, qui, possa anche solo farsi strada in pensieri quali.. che so.. il suicidio. Ma non è impossibile, e ne ho la certezza matematica. Il cielo urla libertà, ostenta forza, ampiezza, infinito, ma i miei occhi sono calamitati dal suolo, lontano, sull'altezza dalla quale la mia vista cerca di mettere a fuoco anche i dettagli più minuziosi. Ma i dettagli non sono altro che accessori futili e inconsistenti e la vita di Varsavia non è abbastanza forte da poter fermare la sensazione di claustrofobia che si impadronisce della percezione che ho delle nuvole di marmo e del cielo dal blu troppo blu. Non sento quasi più l'aria, inutile ricordare a me stesso di essere completamente esonerato da qualsiasi tipo di costrizione ormai, di essere come quelle rondini che sono solo sfumature scure all'orizzonte, inutile credere che non arriverò allo stesso punto dal quale mi sono, forse, e dico forse, fastidiosamente allontanato. Il sangue scorre veloce, quello stesso sangue a cui ho sgombrato la strada, aperto le sbarre, lasciato copiosamente uscire. E il cielo non è più blu, e il verde non è più verde, e le nuvole sono tutt'altro che bianche e il rosso della chiesa antica di Varsavia sembra l'unica cosa essere sulla stessa linea della mia coscienza.
-Potrei darci una festa.-
Sobbalzo bruscamente, come se fossi colpevole anche solo di aver pensato certe cose, come un ladro colto con le mani nella cassaforte e con la refurtiva stretta saldamente tra le dita. Aleksander se ne accorge, lo avverto che ha i suoi occhi puntati sulla mia nuca, ma non dice niente, semplicemente si limita a misurare a grandi passi la piscina, forse contando mentalmente quanti bei sederini ci starebbero seduti sui bordi della sua proprietà.
-Ottima idea-, la mia voce ha slittato inevitabilmente verso il sarcasmo, -così puoi già iniziare a scegliere la tua futura sposa.- 
E non è un sarcasmo solito, di quelli forti, penetranti, anche taglienti, se si tratta del mio, ma rassicurante e "solito". No, è il mio miglior sarcasmo. Quello macabro. Quello amaro. Quello del boia prima di calare l' ascia.
Lui ha capito l'antifona, i suoi passi si sono fermati, il suo viso ha raggiunto la stessa altezza del mio, dal lato opposto della piscina.
-Cosa intendi dire?-
-Intendo dire..- i miei passi risuonano sordi mentre mi avvicino al ponte in mezzo alla piscina. -Che sei abbastanza sveglio da non credere davvero di poter scegliere la tua futura spasimante fra tutta la popolazione mondiale di sesso femminile.- Scruto con rinnovata attenzione le lievi increspature dell'azzurro liquido. -Dovrai trovarne una all'altezza, con un conto in banca a otto zeri e tipo..una catena di casinò a Las Vegas a suo nome.- Sento i suoi occhi su di me mentre i miei galleggiano sulle superficie dell'acqua. -Io inviterei Magda e Karolina, probabilmente i tuoi ti combineranno il matrimonio da un momento all'altro.-
Non avevo messo in chiaro che il discorso avrebbe preso una piega tanto scomoda velata da un'impercettibile punta di acidità e rancore represso. Non riesco a focalizzare il punto da cui sgorga questa dominata asprezza, il movente che mi ha indotto a scegliere questo gioco di parole. Ho solo limpida davanti l'immagine di Aleksander, dritto, elegante, in piedi davanti a un altare cosparso da un manto di petali viola e la testa bionda di Magda accanto, sorridente, agghindata in un costosissimo abito da sposa candido come la neve, e limpida è anche la sensazione di stare per vomitare da un momento all'altro. 
Alzo il mento, ogni passo che fa è ossigeno che toglie al mio respiro. La luce vivida nei suoi occhi, ermetica tra quelle palpebre e quei passi che ci separano sempre meno, mi induce a fare dietrofront, ad allungare le distanze allo stesso, persistente ritmo nel quale lui le sta accorciando. 
Un ghigno. -Hai paura Dominik?- 
Quella voce non è d'accordo con quelle labbra. La sua voce non è d'accordo con le sue labbra. Il sorriso che mi sbatte in faccia è sprezzante, ostenta indistruttibilità. Il tono che sguscia da quel sorriso è invece pacato, delicato quanto una carezza sul viso che sfocia nel preludio di un bacio sussurrato. Sorge di sensazioni nascoste, risuona di una preoccupazione messa crudelmente a tacere. E mi fermo. Perché ho paura, ma non abbastanza.
-Non mi sfidare.- 
Non abbastanza da sopraffare l'orgoglio, non abbastanza da dargliela vinta una seconda volta.
Le gambe non accennano a muoversi nonostante gli avvertimenti del criterio logico, nonostante il cuore urla qualcosa che non voglio sentire, nonostante l'anima che mi si lacera solo al pensiero, lo lascio avvicinare, lascio che annulli le distanze che ho disperatamente tentato di mantenere quel tanto che bastava perché vedessi il sole nei suoi occhi come una luminescenza lontana e non come una folgore tanto vicina da rischiare di abbagliarmi.
-Non ci sono telecamere questa volta.- mormora, carico di allusioni fin troppo evidenti.
-E' per questo che non ti illumini.- Allusioni che si fanno sentire addosso come cera bollente. Il suo viso è il palco di un teatro, le emozioni che vi vengono messe in scena si innescano con la trasparenza dell'acqua mentre i suoi occhi vivono della prepotenza del fuoco, occultati da fiamme che non riesco a comprendere. Sui tratti decisi del suo volto si dipingono, nel giro di qualche secondo, le emozioni più diverse, e io non riesco ad afferrarne neanche una. Mi sfrecciano davanti come comete l'insolenza, l'interesse, l'indifferenza, la curiosità, l'imprudenza, la più fulgida, illegittima malizia che sguazza innocentemente nel diaspro delle sue iridi, impenetrabili come muri d'acciaio.
-Sei geloso?- 
La carezza nella sua voce, prima solo accennata, ora la sento sulla pelle. Il suo respiro mi sfiora la bocca con il suo vibrante aroma alla vaniglia.
-Neanche se tu fossi l'ultimo essere vivente ancora pensante nell'universo conosciuto e sconosciuto.- Quella vaniglia non aiuta la mia concentrazione, ma ho una fortezza dentro, e non lascia trasparire il più minimo cedimento. Occhi negli occhi, respiro su respiro, c'è troppa poca aria a distanziarci adesso, troppo passato a tirarci violentemente indietro e troppo futuro a legarci le mani. 
-Ne sei sicuro?- le dita della sua mano destra passano con grazia letale sul mio avambraccio nudo. Ma è il presente quello che danza intorno a noi, il presente delle sue dita e della mia pelle in fiamme al passaggio di esse. Elargite ai miei polmoni le istruzioni su come si respiri perché la mia fortezza non è poi così resistente, contro certi attacchi. 
-Il tuo corpo diceva altro..- Non sono attacchi qualunque, e le mie difese non sono pronte a questo, non sanno destreggiarsi in mezzo ai colpi di chi sa come farti sprofondare con uno schiocco di dita perpetrato al momento giusto nel punto fatale. Un avversario ingaggia una battaglia, lotta, ha le tue stesse armi, nè sa quanto te di ciò che avverrà quando uno dei due affonderà l'ultima spada. Un nemico, invece, non ingaggia battaglie, non inizia lotte, non ha le tue stesse armi. Un nemico, il tuo, l'unico e il solo, dichiara guerra, non se ne fa niente di biechi conflitti, vuole vederti in campo con tutto te stesso, e non mostra cedimento, neanche la più misera misericordia nel dare il via al colpo che trapasserà le tue carni. 
Perché l'avversario attacca alla ceca, il nemico ti vede attraverso, perché reduci dalle stesse terre, dalle stesse lacrime, e ti uccide. Senza pietà.
-O stai per scrivere uno stato su Facebook o non riesco davvero a spiegarmi il perché tu ricordi così bene quell'episodio.- butto giù tutto d'un fiato, non senza una certa fierezza. Ogni parola mi costa uno sforzo di autocontrollo in più, spingo in avanti per non cadere indietro. 
-Chi ti dice che io abbia una spiegazione. Ho la verità in tasca?-
-Tu hai sempre la verità in tasca.- i suoi occhi si specchiano nei miei, profondità di vorticosa perspicacia. 
-E se ti dicessi che questa volta non c'è l'ho? Che non so spiegarmi il perché ricordo con estrema precisione ogni singolo avvenimento che ti riguarda?- la sua voce si riduce a un sussurro. Persuasivo, convincente, terribilmente vicino. Così vicino che non sento altro che la vaniglia in cui sono avvolte le sue parole. Così vicino che il celato oro nei suoi occhi minaccia di farmi vacillare. E' la stessa, inebriante sensazione che provai nel momento in cui seppi di aver scelto il buio, la stessa, proibita, indicibile forza nel quale mi trascinò l'oscurità, la stessa, silenziosa, ardente fiamma a cui non ho saputo rinunciare. E sento quella fiamma nella pelle, la vedo nel suo sguardo, mentre le mie labbra si schiudono nel rispondere alle sue labbra. 
-Direi che hai un talento naturale nel bluffare. Saresti un meraviglioso giocatore di Poker.-
-Principe, la senti questa elettricità?-
La gola è asciutta, lo stomaco serrato, il sangue scorre veloce. Caldo, freddo. La sento questa elettricità, Aleksander. 
-Questo si può chiamare magnetismo, o attrazione.- Non fare certe scelte.. -Magnetostatica, perché non cambia nel tempo.- Scelte che si pagano a caro prezzo. La sua mano ritorna sulla pelle dell'avambraccio, l'indice rifà lo stesso percorso, più lentamente, e più velocemente mi sta logorando dentro. Non è cambiato affatto, è questo quello che mi vuoi dire? Che il pollice che adesso esercita una lieve, precisa pressione sul polso destro non mi sta gettando bruscamente fuori binario? Che la sensazione di disintegrarmi sotto il tuo sguardo non è sempre come la prima volta? Cos'è che vuole dirmi la tua voce di salata seta e i tuoi tocchi di ruvida dolcezza? Che hai ancora il controllo su ogni pezzo di me? Che mantieni ancora saldamente le redini difficili delle briglie orgogliose di questo cavallo perduto che per gli altri è semplicemente troppo selvaggio da poter essere riportato nel recinto giusto? E' questo quello che vuoi dimostrare portandoti il mio braccio più vicino? Che, in questa vita, sei sempre tu, a tenermi in pugno? Che, in questa guerra, sei sempre tu a vincere?
-L'elettromagnetismo, invece, è l'unione tra elettricità e magnetismo.- 
Le sue dita si intrecciano delicatamente intorno al mio polso. Queste noiose nozioni, con la sua voce, assumono le sembianze della più agognata melodia. -Tra elettricità e attrazione.- 
Non riesco a non seguirla con lo sguardo, la mano che si avvicina inesorabile, al mio viso. Vorrei scovare ogni rimanenza di forza rimasta negli angoli bui delle mie stanze gelate e usarla per imprimere agli occhi la resistenza di persistere nello suo sguardo, ma sono a un passo dal provarlo e già temo il contatto con quelle dita, mi corrodo al pensiero di riprovare la stessa, feroce sensazione di quella sera. E proprio quando le sento, che con deleteria grazia si posano sulla guancia sinistra, so che non c'è rimedio all'effetto che provocano alcune cose, che non ci sono mura, barriere, difese contro i brividi lungo la colonna vertebrale e le palpitazioni del cuore che segue il ritmo delle onde di un oceano tutto suo. Sfilo il polso dalla sua presa, l'indice sfiora con dosata lentezza lo zigomo, la vaniglia è tutto ciò sento, il calore del sole non è neanche lontanamente paragonabile a quello che ha il monopolio di metà del mio viso, l'oro della catenina che riluce intorno al suo collo non regge il confronto con quello dei suoi occhi che scrutano nei miei, troppo vicini. 
troppo. dannatamente. vicini.
-Non era poi così difficile no..?- le sue parole non dicono quello che il suo sguardo sta urlando, -La fisica.- 
e io vorrei urlare a mia volta di rabbia, di frustrazione, perché sono ancora qui, perché non sono ancora sfuggito alla tua presa, alle tue dita che scendono verso le mie labbra, perché il fuoco del tuo corpo adesso è anche il mio, perché due rette parallele, cazzo, non possono incontrarsi. Il piano, la vita, il destino le ha costrette a guardarsi sempre in faccia senza potersi sfiorare mai? Lascia che sia. Ma no, il tuo pollice che mi abbassa il labbro inferiore cercando di crearsi un varco tra le mie muraglie, le mie labbra che cedono sotto le lusinghe del tuo tocco, il mio cuore che sembra voler rompere le costole della cassa toracica, tutto pare essere intenzionato a eludere il destino, sottrarsi a questa vita, cancellare i capitoli di un libro già scritto e lasciare che le distanze si annullino, che l'azzurro del cielo venga nascosto da te, perché è solo te che vedo adesso, solo te che sento, non esiste sole, non esiste vento, non esiste aspettativa, promessa, condizione sociale, apparenza, aspirazione, ambizione. C'è solo la bellezza del tuo viso e la familiarità della tua pelle a cui non mi abituerò mai, e le tue labbra, scure, ammalianti, assassine. 
-A me sembra più chimica..- sussurro a un soffio troppo breve dalla tua bocca. E mi hanno ucciso una volta, e lo faranno ancora, come il patto stipulato con il più seducente dei demoni, ho venduto l'anima una volta alle labbra delle quali ora la traccia del mio sguardo può contare le pieghe, e ho attraversato il più lugubre degli inferni, e cosa peggiore, mi ci sono abituato, ho imparato ad amarlo, a renderlo amico, amante, compagno, così che adesso non esista cielo senza pioggia, acqua senza sale, sorrisi senza tradimento, rose senza spine. E io non posso lasciartelo fare. Raccolgo quel che resta di me dinnanzi a te, imbriglio il barbarico coraggio che mi porta a riversare i miei occhi nei tuoi, che, con sommo stupore, non hanno smesso di osservarmi un momento. Mi tratti come la rosa più rossa con le spine più acuminate, e io devo pungerti. Perdonami Aleksander, forse uscirà un po' di sangue. Perdonami, ma non posso farti vincere così.
Riprendo possesso dell'unica volontà logica, perfida che mi porta ad approfittare dell'attimo in cui più vorrei sentire queste labbra su di me, dell'attimo in cui tu forse sei più vulnerabile perché maledettamente vicino che praticamente stai già sciogliendo le catene per incatenare le mie di labbra, e io lo so, lo so terribilmente bene che si lasceranno legare, so che, se solo provi a lambirle, le mie difese non saranno abbastanza forti da fermarle. Non lo sono mai state. Non se s tratta di te. 
E allora ti guardo, il mio sguardo sul tuo, gli occhi allacciati ai tuoi, alzo una mano, purtroppo ricordo dove siamo, la poggio sul tuo petto.  
-E io detesto la chimica.- 
E' un momento, prima che lo faccia. E' un secondo, prima che ti spinga. Ma, nel frangente seguente, sento immediatamente gli schizzi sulle braccia.
-Bastardo figlio di..- 
Sorridi nell'acqua, cercando di ricomporti per mantenerti a galla, imprecando anche quanto basta, e sorrido anch'io nel vedere ogni tua singola ciocca di capelli imperlata dall'acqua della tua piscina. 
-Corri Santorski..Corri e sii veloce perché se solo ti metto le mani addosso..-
-Non si preoccupi Lubomirski, conosco la strada.-
Sento le tue maledizioni nelle orecchie mentre mi rivolgo verso le scale, poi la tua risata, cristallina, trascinata dal vento. E' stato un momento, è stato un secondo, ma l'ho sentito, sotto la mia mano, il tuo cuore che batteva, troppo veloce.

 

***

 

Ammantato di notte sei, adornato della più suadente oscurità. Bello, come chi non sa di esserlo. Unico, come chi ne ha la piena consapevolezza. Suggestivo come un teschio bianco agghindato da iris magenta, un corvo nero impreziosito da occhi di rubino, il rosso fuoco di una volta celeste fregiato da saette di cristallo. 
Sei la malinconia che vedo nei tuoi occhi, di un blu più blu del mare, sei la sottile, combattuta riga nera sotto quegli occhi, sei la stella che cade ma che lascia una scia più luminosa, sei il sole che non ti si addice, la neve immacolata che scende tragicamente lenta, tragicamente fragile, che un flebile raggio di sole può annullarla, ma forte da ricoprire ogni cosa. Sei solitudine, con la quale torturi. Sei silenzio, quello con cui uccidi. Sei la lama che si posa sulla guancia invece di affondare nel cuore e sei il proiettile che vi affonderà. Sei l'angelo caduto che non sceglie l'Inferno e sei il demone che ci vive da sempre. Ti osservo muovere i tuoi passi come solo tu sai fare, con quell'aria da vinto, con quel portamento da re, scorgo il tuo viso, conosciuto come un'impronta, intravedo le tracce ormai invisibili delle tue lacrime sulla porcellana della tua pelle, distinguo le tue labbra, le distinguo troppo bene. Ti volti un attimo, poi più nulla. Il sangue scorre veloce. Sei mio.

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Capitolo 9
*** Illusi ***


Che dire, un grazie forte a tutti coloro i quali leggono questa fic. 
Potrebbero esserci degli errori, ma voi perdonerete queste piccolezze inconfronto agli scempi che ho scritto, vero?
Pachiderma Anarchico
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CAP. 8

 

 

La mente è troppo complessa per poter essere un semplice connubio di cellule celebrali. E' una sinfonia di immagini, sentori, ricordi, voci, attimi. Macchina perfetta e, come tutte le cose perfette, affatto priva di imperfezioni. Facilmente può ingannare, facilmente più essere ingannata. Da vita a cose che non ci sono, inculca paure che non esistono, ripete per giorni e giorni, ore e ore, minuti e minuti, con la devozione di preghiere, latanie che hanno il sapore di condanne, e induce a credervi. Boicottare un qualcosa di forte come la mente è facile come attuare un colpo di stato. Lo stato sembra un'entità di immenso potere, e forse lo è davvero, ma basta dare un lieve, impercettibile sussulto a una delle instabili colonne che lo sorreggono per crollare come castelli di carta. E la mente, proprio a causa del potere che esercita, non fa eccezione. 
Sarebbe incredibilmente comodo, adesso, sollevare la tazza di the e convincersi di averlo solo immaginato. Un'illusione, una visione, un'immaginazione. Tutto qua. 
Ma certe cose non si possono "solo" immaginare, su certe cose neanche un sistema tanto delicato può confondersi. I fremiti sotto pelle nè sono la prova certa. Non mi sono sbagliato. I miei occhi lo hanno visto davvero, quel bagliore di un rosa troppo vivo. Il cuore ha davvero raggiunto le tempie quando le mie pupille hanno scorto qualcosa di estraneo alla monotonia dei palazzi ma di troppo familiare al sottoscritto.
Il rosa si contrappone ai raggi d'oro del sole che penetra la finestra della cucina e si riversa sul tavolo, rivelando piccoli cristalli scintillanti nell'aria. La tazza sfiora le mie labbra e so di avere ragione, e mi piace darmi ragione, mi consola, in un certo senso, sapere che almeno ho in pugno la definizione di ciò che mi vortica attorno. Eppure questa volta forse avrei voluto sbagliarmi. Avere ragione ha un prezzo, quello della verità. Perché se è vero che la mente era perfettamente lucida, se è vero che gli occhi erano perfettamente sobri, allora la verità è che non esisteva solo un sfavillio rosa dietro quell'angolo, ma anche due occhi di ghiaccio, un paio di labbra del colore delle orchidee, il mio più grande sbaglio, probabilmente l'unico che rifarei. La stanza gira, caotica, nel mezzo di un secondo, e con lei la percezione della realtà. Un capogiro improvviso al solo pensiero che, dietro un computer, ci stava davvero qualcuno, qualcuno che respirava, parlava, camminava, piangeva, urlava, rideva.. Qualcuno come me. 
Alzo appena lo sguardo giusto per concedermi la visione dell'entrata di mia madre, seguita da quella di mio padre. Neanche si guardano più, quei due. E il mondo in cui sono immerso fino al collo ancora persiste nel convincersi che non si è rotto qualcosa di assolutamente fondamentale nella finzione di cui ci beavamo quando mi sono ucciso. O quasi, ucciso.
Spesso non riesco nemmeno a distinguere la morte da quello che sono ora, volentieri la mente non si cura di scindere il "sono" dal "quasi", e io mi ritrovo a osservare con la coda dell'occhio mia madre che, in un tailleur grigio fumo, da le spalle a mio padre, in uno dei suoi completi gessati verde smeraldo, che sembra non riuscire a rassegnarsi al muro che la donna che dice di amare ha eretto per tenerlo lontano. Mi dispiace, in un certo senso, sotto una certa luce, ma è un dispiacere privo, scialbo, grigio come la giacca di Beata Santorski perché non posso piangere altri morti. 
La piccola pasticca bianca che sollevo tra l'indice e il pollice sembra così familiare da mozzarmi il respiro. Non ricordo perché me la sto gettando in gola, tra antidepressivi, pillole per l'insonnia, sedativi e la visita a quella bellezza che è l'ospedale due volte a settimana non so neanche che ci faccio ancora qui. Per chi sto resistendo? Per cosa? E' sempre un campo di battaglia, sempre al confine fra due mondi, e, anche dopo essermi giocato tutto, la domanda insiste nell'essere comunque la stessa. Con chi schierarsi? Per chi combattere? Per la realtà, o per ciò che fingiamo che sia? Per la luce, che ci decora delle sue ombre, o per il buio, che ci rende liberi? Per la paura, con la quale ci proteggiamo dai rischi del superare quel sottile confine tra quello che siamo e quello che non dovremmo essere, o per il coraggio, capace di troppo?
Ovunque mi volti, verso qualunque direzione, non sembra esserci una via giusta da percorrere, non sembra esserci salvezza, né condanna, ma solo questo tempo sospeso nel mezzo di ciò che è giusto e ciò che è facile. 
E non sono tagliato per scegliere le cose facili.
Voglio quel rosa. Voglio quel rosa nonostante tutto, voglio quel rosa nonostante questo, lo voglio anche se una linea sull'interno  dell'avambraccio mi ricorda che non dovrei volerlo, lo voglio pure se il contratto con l'inferno l'ho stipulato grazie a lui, voglio quel rosa, voglio sentire tra le mie mani che è reale, che c'era davvero, che non è stato tutto un incubo, che qualcuno era davvero lì, accanto  a me, anche se attraverso uno schermo. 
Le nocche sbiancano, la tazza potrebbe disintegrassi tra le mie dita, c'è qualcosa che non quadra. 
Non desidero che lei da giorni, settimane, dal momento in cui ho rivisto la luce, forse anche da prima, e non ho bramato altro per giorni se non un computer, un cellulare, un tablet, un mezzo che potesse connettermi con lei. In un lampo di un secondo intravedo quel rosa, più vicino di quanto sia mai stato, deglutisco e improvvisamente non ricordo bene come si cammini e.. l'oro di questo maledetto sole non mi lascia fottutamente in pace. Ha raggiunto il dorso della mano, stretta ancora convulsamente intorno all'ormai amata tazza, e disegna strisce brillanti sulla pelle già fin troppo chiara. 
E se il rosa stesse lottando con l'oro? Per un attimo ci credo. 
Per un momento ci penso, al sole, che è così caldo..avvolgente.. Ma non è possibile. Se lo guardi ti abbagli, se ti avvicini ti bruci. Il sole va osservato da lontano, ammirato a distanza di sicurezza, la sicurezza che lui non ti darà mai.
Mentre il rosa..
Il rosa è distrutto come te. Annientato come te. Disilluso come te. Morto. Come me.
E sanguinante.
E nel frattempo il sole può ammantare la tua pelle d'oro, del suo oro, o arderti addosso fino a ucciderti. E se devo morire, preferisco farlo con le mie mani. Anzi. Con le mani di quel rosa.

 

***

 

Il sabato è troppo atteso per i miei gusti. Un giorno come un altro, ma che per i giovani significa stare svegli fino a quando ti reggi in piedi imbottendoti di alcol fino a che non ricorderai neanche il tuo nome. E l'Ocelot sembra il posto perfetto per fare entrambe le cose nel migliore dei modi, ragion per cui devo spintonare la carcassa di gente all'entrata per crearmi un varco e addentrarmi nel locale. Grande, spazioso, a metà fra un pub rustico e una discoteca ultra moderna, intricati disegni sulle pareti di felini che dovrebbero essere gattopardi e il suono della musica martellante da lato della discoteca. Per mia fortuna un'ala sperata da quella del bar considerando che quella gran testa del DJ ha fatto partire una pura e inconfondibile canzone tecno. 
Potrei andarmene seduta stante. 
E forse l'avrei anche fatto se un braccio intorno al mio non avesse diminuito nettamente le mie probabilità di fuga. 
-Davvero mi hai portato in un posto dove prediligono quella musica?-
-Eccolo qua il mio critico preferito- esordisce Sandra tenendomi saldamente attaccato a lei. -Finalmente, aggiungerei.-

Mi guida, o per meglio dire, trascina fino ad un tavolo dove riconosco qualche faccia del suo gruppo e altri che non ho mai visto in sua compagnia. Li conosco tutti, almeno di vista e forse anche di nome. Se devo essere totalmente sincero non mi interessa l'identità di tutte quelle persone, sono qui solo perché ancora non sono arrivato allo step "divento un monaco", ma direi che non mi sto allontanando moltissimo dalla possibilità. Vorrei essere dovunque ma non dinnanzi a un gruppo di una quindicina di umani che mi guardano come se fossi un.. principe o qualcosa del genere che li ha degnati occasionalmente della sua presenza. 

Ehi gente, sono un comune mortale, come tutti gli altri… okay forse con un po' di sale in zucca in più degli altri, ma non c'è bisogno di stendere il tappeto rosso al mio passaggio. 
E' questa l'impressione che davo quando la mia compagnia era ben altra? Non lo voglio il tappeto rosso, non l'ho mai voluto. 
Mi siedo sul divano circolare attorno al tavolo rispondendo a qualche saluto o cenno del viso. 
Capito fra Dawid e una rossa che deve essere la tizia che.. Ma si, è lei, colei che ha fatto parlare per due settimane mezza scuola ininterrottamente grazie a una prestazione avuta con Samuel Kowaski nei bagni. E ricordo perfettamente come l'accaduto finì dentro i canali uditivi e sulla bocca di tutti in 24 ore. Samuel, da galantuomo per niente esibizionista, aveva riferito il "lavoretto" al suo miglior fratello, o come amano definirsi, niente poco di meno che Aleksander, e, prevedibilmente, in neanche un giorno, anche gli alieni su Marte sapevano dello scottante pettegolezzo. Non capirò mai come si fa a parlare per quattordici giorni di fila di una cosa che, nel buio delle loro camere, hanno fatto tutti, compiacendosene anche.
Ma ho imparato a mie spese che se un qualcosa diventa di dominio pubblico, non importa quanto banale essa sia, risulterà improvvisamente scandalosa, terribile, volgare, succulenta, o, come direbbe la mia accompagnatrice del ballo, "che ha dell'incredibile".
Seguo a stento gli stralci di conversazioni nella baraonda intorno a me, parole che compaiono nell'aria e, velocemente come si manifestano, svaniscono nelle flebili correnti di vento che scaturiscono dall'apri-chiudi della porta. 
-Quei capelli ti stanno..-
"Uno schifo."
-Esami, gente che cos..-
"Me ne frego."
-Genitori sono usciti di senno..- 
"Non solo i tuoi".
-No..Davvero??-
"No ti sta palesemente prendendo per il culo."
-..e pensare che era una così brava ragazza..-
"Si aspirava due dosi invece di tre?"
-Vado a prendere da bere.- mi alzo con la velocità di un velociraptor in corsa.
-Ma no sciocchino- risolino -tanto viene il cameriere.-
Non so se avete presente Linda Blair, la ragazzina indemoniata dell'Esorcista, in quella caratteristica scena in cui volta la testa di lato con assassina lentezza mentre i suoi occhi emanano scintille di luciferino fuoco. Ecco, prendete quella scena, sostituite alla faccia orribilmente sfigurata della Blair una con due labbra strette in una linea di ferreo marmo e due occhi azzurri venati dalla perversa voglia di strangolare quell'immonda diciottenne sul posto. 
"Sciocchino?!"
Mi risiedo, scioccato, sconvolto, disgustato. Avverto ancora tra gli spossati neuroni celebrali quella risata, simile a un tintinnio acuto di forchette battute su bicchieri di cristallo. Sento il bisogno impellente di suicidarmi. Nel senso letterale del termine.
Le frasi diventano sempre più brevi, i gesti sempre più articolati, le risate si innalzano notevolmente di volume e si abbassano di lucidità. 
Sono appena le undici e già una buona parte degli ospiti dell'Ocelot è sul confine della sbronza. 
-Allora Dominik, come te la sei spassata nel mese in cui non ti sei fatto vedere a scuola?-
Volgo gli occhi verso la fonte di quella voce, un ragazzo con due spalle larghe quanto un armadio a tre ante e i capelli rossicci sbarazzini sul volto. Il viso è gentile, la voce disinteressata, non sembra neanche lontanamente supporre come io me la sia "spassata". Non ha idea di quanti segreti si porta dietro una domanda vestita di banalità, quanto dolore c'è dietro alla mia assenza dal luogo che ho considerato il mio inferno personale. E lo considero ancora come tale, solo che ho imparato a nuotare tra le fiamme, ad immergermici fino alla punta dei capelli, neri come le pareti di quell'inferno, giusto perché ormai mi sono bruciato così tanto che il fuoco non può far più niente. E' quello che può fare dentro che mi inquieta.
E no, Ronald Wesley, non ho intenzione di rispondere alla tua domanda.
-Dovevo prendermi una pausa..questi esami..- sospiro. Teatralmente.
-Già, dicono che saranno..-
-L'anno scorso..-
-Mio fratello ha dovuto..-
Prevedibile quanto una falena attratta dalla luce. Inserisco tra le parole una che richiama gli interessi attuali di tutti i presenti e l'attenzione è sfocata dal sottoscritto prima che il boccale della bottiglia arrivasse alle mie labbra.  
Alcune facce mi stanno ancora osservando con circospezione, come se potessi prendere una calibro 4 da un momento all'altro e puntargliela contro. Devo ammettere che ho desiderato davvero conficcarvi una pallottola in testa una volta, ma non lo avrei fatto. 
-Dopo quell'entrata.. Ti ricordi la tua entrata di un mese fa Dominik..Dom, posso chiamarti Dom?- meglio se non mi chiami affatto. -Sembravi.. sembravi uno dei Satyricon appena uscito da un video dei Suicidal Tendencies.-
Sorrido. Non posso fare altro. Sorrido regalando all'elettrizzato ragazzo che ho difronte la mia miglior espressione divertita, nel senso amaro del termine, ma sinceramente divertita. Il tizio che mi guarda come se fossi il suo idolo ha i capelli più neri dei miei, se è possibile, e un ciuffo perfettamente liscio che gli ricade dal lato destro del viso, coprendogli l'occhio. E' chiaramente una tinta quella della sua chioma, che non risalta particolarmente sulla sua pelle tendente all'ambrato, non importa quanti vestiti color dell'ebano si spalmi addosso.
Mi sento vagamente copiato. 
-E' stato tipo.. BOOM!-
Saltiamo. 
Perché' al "boom" i nostri glutei prendono il volo per una frazione di secondo in stile aerodinamico, mentre la mia espressiva e ben irritata arcata sopracciliare non sa più che altezze raggiungere per dimostrare tutto il suo disappunto.
-Bang, era più Bang quell'entrata.-
Non vi avrei conficcato una pallottola in testa, ma probabilmente al possessore delle corde vocali che hanno liberato una voce tanto..fastidiosamente sicura, le cervella gliele avrei trapassate eccome. 
Stendete quel tappeto rosso signori e signore, perché sta passando.
Le quindici persone di un secondo prima sono un ricordo guardando in faccia l'accozzaglia di anime che si è accalcata sul nostro tavolo. A colpo d'occhio gli individui saranno una trentina dei quali la metà è già ubriaca fradicia e l'altra è sul punto di diventarlo.
E la scena è fin troppo familiare, quando mi arriva una bottiglia di birra tra le mani il senso di claustrofobia la segue a ruota.
Ho presenze che mi spingono, premono sui fianchi, urtano la schiena, stese sul lungo schienale blu notte del divano o con una natica in bilico su un bracciolo. Respiri sul collo, aria accaldata, alcol che gira e tiri rubati alle sigarette nascoste sotto il tavolo.
Claustrofobia.
Non tollero la vicinanza eccessiva, specie se di dieci persone in combo, e la  porta aperta non serve ad alleggerire l'aria, densa di risate sonore e schiamazzi altisonanti. 
E' un fastidioso, irritante, indicibile dejavù che perseguita la mia incerta e mal ritrovata stabilità mentale vedere Karolina a due persone da me briosamente andata nella vodka che sorregge in mano e Magda praticamente spalmata contro la mia spalla sinistra.
Vedo con chiarezza inconfessabile due cose: la bottiglia vuota al centro del tavolo che gira ormai da diversi minuti e gli occhi bronzo scuro di chi mi è praticamente davanti. Se non ci fosse un tavolo della portata di dieci vassoi in mezzo a noi, ci staremmo guardando negli occhi. 
Ma lui non mi guarda, saetta le sue iridi come una pallina da ping pong troppo veloce da un lato all'altro, la stra-potenza sul volto e la leader ship nei movimenti. 
E mentre io affondo, lui sembra salire sempre più in alto.
Il respiro è sottile, superficiale nell'ossigeno che non vuole raggiungere i polmoni, la musica è martellante, fa tremare le pareti, una bottiglia bacia il suolo, frantumandosi in mille pezzi di vetro. 
Perché non mi guardi?
Dieci giri.
Salvami.
Venti giri.
Perché sto cadendo.
Quaranta giri. 
Il boccale è rivolto verso di me, la bottiglia sul tavolo mi sfida nella sua posizione letale, indica il mio corpo come una freccia centra il bersaglio. 
Neanche mi ero reso conto che stavano "giocando". 
Ma non stanno giocando.
E' un tiro di dadi in cui le probabilità che escano due sei sono quasi nulle.  

 

 

***

 

Non ti guardo, non ti guardo neanche quando la bottiglia, alla fine della sua folle corsa, sceglie te, non ti guardo quando ti indicano con dita e cenni del capo, non ti guardo neanche quando qualcuno deride a voce troppo alta la tua mancanza di audacia, sicuro che ti rifiuterai, sicuro che te ne starai zitto e buono con la coda tra le gambe. 
Ma quando pronunciano il tuo nome, devo farlo.
Illusi.
Credono davvero che tu non abbia il coraggio di farlo? 
Sono bravo a mentire a me stesso, ma non posso ignorare la sensazione che provo quando il turchese dei tuoi occhi che imploravano il mio aiuto un attimo fa, si solleva, tagliente, dalla bottiglia al resto del gruppo. 
E adesso sei tu a non guardarmi.
E ancora c'è qualcuno che ti reputa un codardo. 
E non riesco a decifrare le scritte impresse sulle pareti della mia mente, perché non reputi anch'io la stessa cosa. 
Da dove deriva la sensazione che il coraggio che ti marchia a fuoco negli occhi sia molto più del flebile cerino che dai a vedere?
Il verde della bottiglia di birra punta ancora la tua figura, immobile, dritta. Stai soffocando dentro, lo so, lo sento, ma sei una statua di deserto ghiacciato fuori.
Sei bravo ad indossare maschere Dominik, quasi quanto me.
L'unica cosa che non potrai mai nascondere è quel cerino in quelle iridi blu, che si sta trasformando in una fiamma. 
Piccola, ma rischiosa.
La vedo limpidamente, la punta di fuoco che guizza leggiadra nel tuo sguardo quando lasci che si incontri con il mio. 
Un innocente gioco per passare il tempo sotto l'effetto dell'alcool, è questo tutto ciò che sembra questa serata. Ma tu sai che non è così, io so che non è così,
infondo tutti sanno che non è così.
E' una pericolosa partita a scacchi senza schieramenti, solo infime alleanze, in cui chiunque può essere mangiato.
E questa potrebbe essere una mossa vincente, o l'ennesima disfatta.
I tuoi occhi decidono di solcare i miei, ma il tuo azzurro non si lega col mio bronzo. Tu non glielo permetti.
E sei arrabbiato, ecco perché quella fiammella sta diventando fiamma, e sei incazzato, così si spiegano le scintille di sfida che emana ogni millimetro del tuo viso. 
Non lo farai. Non devi dimostrare niente a nessuno. Non lo farai.
Cerca di capirmi, non posso essere mangiato, non posso perdere questa partita, non dopo tutto ciò che ho fatto per far si che il mondo credesse che sia qualcuno che non può essere sfiorato, toccato o sconfitto.
Non si tratta di essere bianchi o neri, alfieri o cavalli, pedoni o regine, torri o re, si tratta di sopravvivere, perché non lo compendi? 
Vorrei fermarlo, e forse potrei anche farlo, ma me ne sto seduto qui, impalato, ad osservare la fiamma diventare fuoco davanti a me. E la mia affermazione si tramuta in supplica prima che me ne renda conto, prima che possa imporre al mio subconscio di riportare tutto all'ordine, sto sperando, pregando che quel fuoco non sia indirizzato a me, che il tuo coraggio non si dimostrerà distruttivo come temo.
Ma a pensare male non si sbaglia mai.
Non lo fare, non lo fare, non lo fare..non lo fare..
Ma l'hai già fatto.
Imprevedibile come vento, inafferrabile come fumo, mi sfuggi dalle mani come neve al sole, non cogli il messaggio che ho tentato in tutti i modi di lanciarti, o forse non ti interessa.
La tua mano e tra i suoi capelli prima che le mie palpebre sbattano una seconda volta, la tua bocca è sulla sua prima che che le cose sfuggano al mio controllo. Quelle labbra, le tue, su quelle di Magda. Su quelle di qualcun altro
E non lo tollero.
La tiri a te con violenza, con rabbia e il tuo rancore per averti volutamente ignorato come se non ti conoscessi brucia e brucia incredibilmente bene. Mi brucia in gola, mi fischia nelle orecchie, contrae la bocca dello stomaco. Le tue labbra mi stanno facendo un dispetto, uno di quei colpi di scena che ho visto troppe e troppe volte nella mia mente, con stizza crescente. 
E la realtà supera di gran lunga l'immaginazione. 
Perché non è stizza, quella che provo con atroce intensità in questo momento, non è disappunto quello che mi offusca la vista, non è contrarietà quell'irrefrenabile voglia di alzarmi e spingere bruscamente lei lontano da te, o prendere te per i capelli e inculcarti in quella testolina mora che non puoi farmi questo. 
E' gelosia.
Mi alzo. Mi allontano. Spingo la porta del locale. Mi inoltro nella notte.
Il buio sa di fresco, le ciocche scomposte dei capelli ondeggiano al ritmo del lieve vento che permette alla mente di prostrarsi sotto il dominio e alle membra di sciogliersi dalle contrazioni in cui le ho costrette. 
L'ondata di risentimento però, sembra non voglia abbandonare il mio corpo, fatta della stessa sostanza del sangue. 
Rivedo davanti agli occhi l'attimo in cui quello sguardo più grezzo dello zaffiro è scivolato via da me e, con una repentinità imprevedibile, hai avvicinato Magda a te. E in quell'attimo so che sono stato sconfitto, mangiato sulla scacchiera della vita da una pedina comparsa dal nulla che non combatte nè per i neri nè tantomeno per i bianchi. Combatte per se stessa. Più densa dell'oscurità, selvaggia come un cavallo nero dagli occhi di cielo. 
Molto probabilmente più tardi confesserò che è stato il contatto con Magda ad avermi urtato. Perché cazzo dovrebbe essere così. Una sigaretta finisce prevedibilmente nella mia bocca. La fiamma ondeggia al vento, la tua non ha vacillato neanche per un momento. 
Tu non sai, non immagini neanche quanto mi infastidisca tutto questo, vederti sulla mia strada ogni volta che svolto un angolo e fermarmi perché semplicemente non riesco a passare oltre. 
Gli altri parlano di me, cercano di entrare nella mia testa, sono convinti di conoscermi.. E poi ci sei tu. 
Tu che sei in bilico tra la caparbia certezza che sono solo ciò che sembro, e l'ingombrante sospetto che sto recitando una parte di uno spettacolo che non mi piace più, tu, sul confine dei tuoi occhi che mi guardano come se non potessero vivere di nient'altro o mi trafiggono come se vorrebbero essere posati su qualunque cosa tranne che su di me. 
Devo coprire la punta della sigaretta con la mano per evirare che il vento la spenga e vorrei sbatterti al muro, credimi, vorrei farti male, molto male perché non puoi sconvolgere di punto in bianco i rassicuranti colori della mia esistenza imbrattandoli del tuo nero, non voglio l'oscurità, sono fatto per stare nella luce, sotto ai raggi più intensi del sole più forte, quale scellerata partita a scacchi stiamo giocando? 
Io sono il re, sono il più importante, rispettato, temuto, inspiro ossigeno ed espiro oro, ma tu sei la regina, fai quello che vuoi, quando vuoi, come vuoi, non detti ordini ma nessuno può dartene. E questo ti rende pericoloso, incontrollabile, e forse neanche lo sai fino in fondo cosa le tue labbra incatenate a labbra che non sono le mie mi abbia scatenato dentro, nelle viscere dell'orgoglio, negli abissi di qualcosa a cui mi rifiuto di associare un nome. 
-Te lo avevo detto, Aleksander.-
Spirali di fumo si dissolvono nel vento e lo stesso vento mi porta la voce infinitamente puntuale di chi, ho l'impressione, non aspettava altro.
-Lui non è come noi.-
La cosa più nauseante? Non riesco a dargli torto.
Sento una pressione sulla spalla, poi il calore sprigionato dalla mano di Asher. Un passo dietro di me.
Ci provo. -Di cosa stai..-
-Li ho visti i tuoi occhi..- profondo, lento, il coccio di appuntito vetro della sua voce che si insinua nel corpo dell'aria. -E ho visto i suoi.-
La sigaretta muore tra le mie labbra, ho ceduto a proteggere la fiamma. 
-Non puoi averlo Aleksander.- 
Alzo lo sguardo sul cielo adornato di stelle. Forse è più intelligente di quanto pensassi. No, non lo è, è perspicace, capace di osservare gli altri e trarne risultati, abile nel tirare le somme. Legge dentro, e l'ultima cosa che voglio è che qualcuno mi legga dentro. Non posso permettermelo.
Mi volto, pronto a a ricordargli che io non voglio nessuno, e che se anche lo volessi sarebbe già mio.
E nessuna delle due cose sarebbe vera. 
Ma la sua voce è pronta, il vetro tra le sue labbra che si tramuta in parole nella frescura della sera sa già cosa fare.
-Aiutami ad fargli capire chi è che comanda- il miele tra le sue palpebre non brilla neanche un po'. -Una volta per tutte-

 

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Capitolo 10
*** Fuoco chiama Fuoco ***


Stai attento nell'espireme desideri al buio
non puoi essere sicuro di quanto lasceranno il segno
e nel frattempo sto solo sognando di piangerti in disparte
sono a patti col diavolo
così ora il mondo non sarà mai al mio livello
ti voglio tirare fuori dalla gabbia
sono un giovane amante furioso
ho bisogno di una scintilla per infiammarmi
le mie canzoni sanno cosa hai fatto nel buio.






CAP. 9

 


 

Il clangore della palestra che va svuotandosi e un sottofondo di secondo livello alla concentrazione di ogni singolo neurone sul mio allenamento. Il corpo e il respiro sono le uniche due cose su cui la mente accetta di focalizzare la sua attenzione, le uniche due cose che mi persuadono a spingere il corpo a dare sempre di più, come se non ci fosse limite alla tecnica che posso raggiungere. Il Judo è il momento in cui mi concedo un po' di filosofia. Quando le mie gambe si allineano l'una con l'altra, i muscoli pulsano per lo sforzo compiuto e l'afflusso di sangue mi accalda la pelle so che la poesia è finita, ma solo e soltanto allora. 
Una tovaglia va a tergere parte del sudore sulla nuca mentre mi avvio verso l'uscita. Il tempo scorre più veloce proprio ora che le giornate si allungano, a ridosso di Maggio. La Natura è difficile da comprendere come una donna nel pieno delle "sue cose". 
Imprevedibile, incontenibile, ombrosa, suscettibile, complicata e innegabilmente bella. 
E approposito di qualità insopportabilmente innegabili, la natura ha fatto proprio un buon lavoro con l'ambigua creatura che scorgo difronte a me. O di spalle, considerando che sta armeggiando con qualcosa dando la schiena alla porta, da cui spunta il mio sguardo circospetto. 
E' la seconda volta che siamo gli ultimi ad uscire dai nostri rispettivi corsi e per la seconda volta incrocio la sua strada, solo che questa volta lui non lo sa e io avrei anche avuto l'intenzione di annunciare la mia presenza entrando bellamente e con una certa dose di spavalderia negli spogliatoi, ma proprio quando.. 
Si sfila la felpa. 
Una gamba si blocca. 
L'altra pure.
E credo che il mio respiro le abbia seguite a ruota quando non c'è più neanche la maglietta a coprire la sua pelle. 
Ha portato la vista a primo impatto sulla sua epidermide, senza neanche darmi il tempo di..che so, prepararmi psicologicamente a trovarmi dinnanzi quella porcellana candida. Lui non ha idea che io sia qui, immobile a respirare la stessa sua aria di qualche metro quadrato, ma poteva evitare quello scatto fulmineo. Intatto, il bianco marmo che ricopre le sue scapole, un po' troppo in vista ma dalla forma inattaccabile, o la sua vita, stretta, dai fianchi lievemente marcati che i vestiti sono soliti celare. Persino le incurvature dei muscoli delle braccia si intravedono nella mezza luce degli spogliatoi che non basta a impedirmi di penetrare i denti nelle labbra così forte che, tra il considerare che il suo corpo si è ripreso bene da quello stato di recente magrezza e il notare che i muscoli più pieni si intravedono ancor più facilmente di prima, avverto il sangue nella bocca. Ma il suo sapore non è la mia priorità, perché quella pelle è tanto bianca da sembrare inconsistente, e allo stesso tempo così vera da spaccarmi il respiro in due. Un leggero solco percorre la sua schiena, divide le spalle e separa i due lati di quel marmo. La linea che segna la colonna vertebrale, un tratto di poco profonda decisione e di perfette dimensioni per ospitare la punta di una lingua che volesse saggiarne il sapore, valutarne la consistenza, se è davvero di velluto come sembra. 
Silenziosamente poggio la fronte sul muro, spero che il freddo possa schiaffeggiarmi ma il caldo improvvisamente mi da alla testa, cresce e ingrossa la sua onda come un'eruzione vulcanica privata, circoscritta soltanto a me, troppo prorompente per poter anche solo rendermi conto che sto spingendo il bacino contro la parete, nascosto alla vista. Penso al sole, che sembra non aver mai battuto su quella schiena, inevitabilmente prende forma anche il davanti dello stesso corpo, immagino la riga della mandibola, quella del collo che scende giù come una morbida cascata fino alle linee delle clavicole.. So cosa sta per fare, e l'inconsapevolezza di quanto ammalianti siano le armi che ha a disposizione è proprio ciò che le rende letali. 
La cinta nera si slaccia, le piccole borchie su di essa emanano qualche baluginio argentato, il basso ventre è caldo..è umido.. Decisamente ho tutto fuori controllo, ma quel fondoschiena è la mia meta, voglio solo constatare che quel bianco è un trucco, che quella pelle è un bluff, che una volta che quei jeans saranno caduti a terra ci sarà qualcosa, qualsiasi cosa a farmi sbuffare infastidito, quasi nauseato, convincendomi che ho solo perso tempo.. ma conosco già la realtà dei fatti e la verità è che una pelle così va ammirata da lontano e posseduta da vicino, va segnata, graffiata, marcata perché nessuno possa appropriarsene, e il sangue scorre tanto, ma tanto veloce, giunge con violenza posti in cui non avrebbe dovuto esserci, non così, l'elastico dei suoi boxer è sempre più visibile, mi gira la testa. Quando mi sfugge un sospiro grave dalle labbra so che ho strattonato la borsa e sono schizzato via. 
Sono fuggito.
Aleksander, stai calmo, molto calmo. Le mani apposto..molto apposto e la mente ferma. 
Molto ferma.


***

 

Immaginate una palestra deserta. 
Fatto? Bene, adesso pensate al tramonto e alla luce che si dissolve lentamente dietro l'orizzonte. 
Fatto? Adesso provate ad amalgamare il tutto insieme a un me ansante, con la canottiera bianca spiaccicata al torace e il respiro corto e un Dominik nello stesso stato, dinnanzi a me, con il petto che si alza e si abbassa al ritmo di respiri dettati da una resistenza più vacillante e dove la canottiera nera lascia ben poco alle fantasticherie sulla parte superiore del suo corpo sudato.
Adesso dovrebbero prendere forma nella vostra mente le parole fastidiosamente autoritarie dell'istruttore di educazione fisica e la mia sorpresa nell'apprendere dopo quattro anni in questo beato liceo che è anche un esperto di difesa e combattimento corpo a corpo, aggiungeteci l'insofferenza di Dom nell'essere designato mio compagno..di corso e il piccolo dettaglio che solo due ore fa stavo per farmi una sega guardandolo spogliarsi, e il quadro è completo. Avete davanti esattamente l'irresistibile spettacolo che mi sto apprestando a eseguire. 
Sì, perché alla dirigenza dell'istituto non bastavano le nove materie giornaliere più i corsi extracurriculari per i crediti più le attività pomeridiane, no, a distanza di un mese dagli esami di stato ci piazzano gli allenamenti di combattimento corpo a corpo dalle cinque alle sette di pomeriggio due volte a settimana. 
Certo, se verremo attaccati da un branco di elefanti inferociti tutta sta ben di Dio di attività fisica di sarà utile.
E come se tutto ciò non fosse stato abbastanza per il sottoscritto, ci mancava anche la brillante idea del mio "compagno" (di corso) di cambiare look al gatto nero che si ritrova in testa poco prima di questo entusiasmante pomeriggio, presentandosi con i capelli corti dal lato destro e più lunghi su quello sinistro, terminando il capolavoro con un ciuffo la cui punta gli sfiora quasi lo zigomo e gli coprirebbe l'occhio se lui non se lo scostasse ogni cinque secondi con quello scatto della testa che gliela sfracellerei al muro. 
Il parrucchiere o chiunque sia stato a creare una cosa del genere dovrebbe essere sbattutto in prigione e preso a sprangate sulle gengive perché cose del genere su soggetti del genere dovrebbero essere totalmente illegali.
Perché non sono illegali?
Dov'è la legge quando ti serve?!
-Riproviamo.- dico imperativo.
Almeno me la sto godendo ad essere tassativo. Si perché il caro Dominik è sotto la mia "guida e tutela", essendo io di livello avanzato, cosa che sto usando a mio vantaggio per farlo ammazzare di fatica. Gli sto dando ordini da un'oretta, mi arriverà un pugno in piena faccia da un momento all'altro, il naso mi rientrerà nella pelle, diverrò il degno erede di Lord Voldemort e dovrò procurarmi anche una calotta calva, ma fino ad allora.. -E non guardarmi con quegli occhietti omicidi, riproviamo.-
Alla fine si abbandona alla rassegnazione che sono un caso disperato che non lascerà stare tanto facilmente il suo ruolo di predominio perché si sta divertendo troppo e riparte all'attacco.
Prevedibile.
Lo blocco in una manciata di secondi e lo atterrò in altrettanto tempo.
E' la quinta volta.
Non la seconda o la terza.
La quinta.
-Perchè mi trovo sempre a terra con te?! Dannazione!-
-Guarda che tutti si trovano sempre a terra con me.- rispondo con un mezzo sorriso sulle labbra.
-E' una specie di consolazione?- sbuffa rialzandosi.
-No- piego le ginocchia -mi sto solo vantando.-
Parto al contrattacco. Lui lo capisce all'istante, si abbassa ed evita il mio colpo sferrato con l'avambraccio.
Ghigno fermandomi. -Però.. Il principino ha i riflessi pronti..-
-Stai cercando di provocarmi?- rimbecca bruscamente.
Faccio un passo indietro. -No, sto cercando di far emergere il vero Dominik, non questo.. - Non ho le parole adatte a portata di lingua. 
-Sembra quasi che tu abbia paura di avvicinarti.-
-Non ho paura.-
-Dimostralo.-
I suoi occhi sono turchesi lucenti sul viso imperlato da un velo di sudore e adornato da un penombra di occhiaie che non accenna a scomparire. Qualcosa attraversa quegli occhi, neanche il tempo di notarlo che è già sparita. Qualunque cosa fosse, ha lasciato una traccia belligerante nelle sue iridi, vorticosamente indomita in quell'azzurro che pare vetro, vetro appuntito in grado di trapassarmi da parte a parte. 
E sembra proprio quello che vuole fare quando si lancia contro di me cercando un varco nelle mie solide difese, o creandoselo a forza. 
Paro ogni suo colpo, polso, avambraccio, di nuovo avambraccio, non lascio che mi sfiori, piego la testa, rimango fermo con i pieni ben saldi a terra,  indietreggiare renderebbe solo più difficile caricare i colpi e nel frattempo riparo il viso con il braccio destro, ma proprio nel secondo in cui mi concentro maggiormente sul preservare la parte alta del corpo e dello stomaco, sento una pressione sul fianco sinistro.
Ha realmente trovando un modo per arrivare a me. 
Gli ho lasciato io la breccia aperta nella difensiva, incautamente aggiungerei, ma sembrava non aspettasse altro. Doveva solo individuare la cicatrice, poi ci avrebbe pensato lui a infilarci la lama.
Il colpo non è doloroso, ci stiamo solo allenando, ma si fa sentire perché ben assestato con la rotazione dell'anca e lo spirito competitivo di Dominik, che ha preso il sopravvento. 
Sorride sprezzante passando il peso sulla gamba destra, pronto a scattare con la sinistra.
-Tutto qui quello che sai fare?-
Mi rendo conto di star seguendo il suo sorriso con le mie labbra nell'istante in cui scorgo le mie labbra curvate all'insù nei suoi occhi. Colgo la provocazione facendo scorrere il mio sguardo sui punti salienti della sua figura.
In meno di tre secondi ho analizzato le forze e le debolezze del mio avversario. Dominik ha i riflessi pronti ma una resistenza decisamente inferiore alla mia, le gambe più lunghe ma una massa muscolare corporea meno sviluppata, ovvero  io sono più forte, ma lui potrebbe essere più veloce, il che potrebbe rappresentare un problema, a meno che..
Mi sono gettato in avanti, la gamba sinistra a sorreggere il mio peso, non gli lascio tregua, colpisco quasi alla ceca, ma so ciò che sto facendo.
Come previsto si difende bene da qualunque mossa io cerchi di fargli subire, indice di riflessi niente male, ma il suo respiro irregolare mi sta chiaramente dicendo che non riuscirà a resistere sotto il mio assedio ancora per molto.
Persino le finte sono inutili con lui, riesce a capire quando ho la reale e precisa intenzione di assestare un colpo e quando sto solo falsando il mio movimento per prenderlo in contropiede. Perché osserva il volto di chi ha davanti, non il corpo. 
E' stressante sapere che non si lascia ingannare, visto che sfiancare e sorprendere chi ho davanti è la mia carta vincente.
Forse con Dominik, però, è bene cambiare mazzo.
Schiva con destrezza un pugno mirato alla testa piegandosi agilmente indietro e con un'accorta rotazione del busto si trova all'altezza del mio stomaco.  Il mio corpo ancora sbilanciato in avanti per sferrare l'offesa non fa in tempo a bloccare il secondo calcio che arriva dalla stessa gamba con bersaglio lo stesso punto di pochi attimi fa. 
Una fugace visione nera e una pressione decisa sull'anca sinistra mi fa sbilanciare, ma questa volta sono pronto. 
Vacillo ma porto la sua gamba con me e nel riacquistare improvvisamente l'equilibrio faccio un brusco passo indietro, stringendo la presa sul suo polpaccio e avvalendomi della rotazione muscolare per tirarlo esattamente dove voglio io. 
Questo non se lo aspettava.
E forse nemmeno io.
Nonostante la fervida ironia che mi trovo, non mi sarei aspettato di trovarmelo tra le braccia per evitare che mi incrinasse una costola.
Questo perché nel mentre di un battito d'ali gli ho fatto perdere il terreno sotto ai piedi, costringendolo a pararsi dalle gomitate alla gola, e riuscendo a sbattere la sua schiena contro il mio corpo, immobilizzandogli le braccia. 
Il suo è respiro ansante, il mio controllato, il suo braccio destro fermo tra il mio addome e il suo fondoschiena, il polso destro costretto in una morsa ferrea, le mie braccia bloccano le sue. 
-Sai che potrei esercitare una lieve pressione e diresti addio alla tua articolazione?-
Dico accennando alla mia mano che stringe il suo polso davanti la sua pancia. Lui mi regala la smorfia più contrariata che riesce ad articolare. 
È in mio potere. 
-Devo dire peró che non sei tanto male.- considerando come mi hai colpito due volte allo stesso punto, mossa astuta. Non mira a sfiancare l'avversario, né a danneggiarlo. Ogni suo colpo, schivata, rotazione, battito di ciglia era mirato a qualcosa di molto più assordante. In un vero combattimento, contro qualcuno che sa il fatto suo, tecnicamente non avrebbe più del 50per cento di possibilità di uscirne vincitore senza gravi ferite, ma se le mie osservazioni sono esatte, Dominik possiede due cose che in occasioni del genere possono fare la differenza: coraggio e astuzia, l'intelligenza di carpire il modo più veloce per abbattere chi si trova difronte e l'audacia di farlo.
-Fa male il fianco?- 
Ribatte lui tagliente.
Lo attiro ancor di più a me tirandolo con un movimento secco.
Forse non ha capito che lo ho in pugno.
O forse lo ha capito e il sorriso strafottente che gli compare sulle labbra è la risposta che il suo orgoglio si rifiuta di ammettere. 
Gli scorre ribellione nelle vene. 
Aleggia nell'aria, nel pulviscolo che si posa sui vestiti, pulsa nella sua pelle come fuoco acceso, come una miccia infiammata da una vitalità strana, ambigua, fragile come cristallo l'attimo prima, distruttiva come una bomba atomica il secondo dopo. Lo tengo più fermamente di quanto avessi pensato di dover fare, e mi sento come se stringessi tra le mani le redini di un purosangue impossibile da imbrigliare. 
Perchè Dominik è un purosangue, esattamente come me, esattamente come dobbiamo essere, esattamente come tutti e due avremmo dovuto continuare ad essere, solo che lui, ad un certo punto, ha iniziato a scalciare. 
E vorrei sapere perché.
Vorrei conoscere il movente di quella arcana riga nera intorno ai suoi occhi impressa come un tratto di sicura insicurezza un po' di tempo fa, vorrei capire il perchè abbia scelto il nero come alleato in questa vita, sui vestiti, sui capelli, forse più giù, forse più dentro, forse più profondo.
E mi limito a stringerlo, non riuscendo a comprenderlo, lascio che le mie dita gli impediscano i movimenti perchè non voglio lasciarlo andare e tornare a soddisfare le aspettative del mondo.. 
Forse, e dico forse, voglio soddisfare solo le sue di aspettative, di colui che si è fermato da un po' nella mia morsa d'acciaio, sopprimendo ogni tentativo o impulso di liberarsi. 
-Mai farsi circondare le braccia quando l'avversario è più forte.-
-La tua abilità nella sottile arte del vantarsi implicitamente è ammirevole.-
-Sai che potrei anche morderti?- mormoro sulla pelle del suo collo, le labbra tra l'orecchio e il collo.
-Fallo e ti apro in due, asporto gli organi interni e li do in pasto al gatto della mia vicina zitella.-
-E questa sarebbe una minaccia?-,sghignazzo, -da te mi sarei aspettato qualcosa di più.-
-Va bene, fallo e ti castro, squarto ogni singolo tessuto del tuo corpo e con le tue ossa traccio una stella a cinque punte intorno ai tuoi miseri resti, poi ti do fuoco con un lume e disperdo le ceneri in un cimitero abbandonato, stile setta satanica. -Si interrompe, come se parlare senza interrompersi fosse divenuto faticoso. -Contento?-
-Mm ora va meglio..- 
Perchè sto sussurrando? 
L'arto sinistro di Dominik è ancora bloccato dal sottoscritto dietro la sua schiena, il destro è immobile nella mia presa, eppure basta un lieve, insignificante movimento del suo collo per mandarmi in cancrena. 
Dominik ha voltato il viso verso il mio per guardarmi in faccia, i suoi occhi spiccano sulla pelle chiara ammantata di sudore e la penombra ci avvolge lentamente con la sua lingua sconosciuta. 
-Sicuro che i morsi siano regolamentari?- 
Esordisce a mezza voce, incrinando il silenzio ma senza sfilacciarlo più di tanto.
-Non saprei, ma possiamo provare..-
L'accento delle mie parole che scivola nella malizia ben celata non sfugge alla sua attenzione, assottiglio lo sguardo quando sento i suoi muscoli irrigidirsi, uno per volta, combattuti dall'azzurro nel suo sguardo, mare vivo. 
Oceano in tempesta. 
-Provaci..- sussurra. 
Rabbrividisco. All'istante. Causa per effetto.
Azione per azione.
La magia chiama magia.
Il fuoco chiama fuoco. 
Sangue chiama sangue.
-Com'è stato baciare Magda?-
Ho stretto involontariamente la presa, forse una flebile riflessione fa capolino in qualche sperduto angolo di lucidità, avvertendomi che potrebbe rimanergli il segno delle mie dita sul polso, ma non me ne fotte. Tirare fuori l'argomento mi ha dato più fastidio di quel che pensassi. Mi ha irritato. E non sono disposto a compromessi.
-Lasciami- mormora -o potrei farti davvero male..-
Il braccio che gli sostengo paralizzato tra i nostri due corpi, premuto sulla sua colonna vertebrale per impedirgli qualsivoglia torsione accentuata del busto, rimane pressoché immobile, ma la mano attaccata a quel braccio raggiunge il basso ventre e prima che possa capacitarmi della minaccia che vuole attuare, sta tenendo sotto assedio i gioielli di famiglia.
I miei gioielli di famiglia.
Con due dita volutamente delicate, maledettamente sibilline.
E in particolare ha sotto arma quello situato più sulla sinistra.. 
Mi è salito il cuore in gola e poi, rombante come una ferrari nuova fiammante, si è buttato in caduta libera in mezzo alle mie gambe, insieme alle sue dita e a qualcos'altro.. 
L'aria si è improvvisamente cristallizzata nella realtà che ci circonda, e non è l'attacco furbamente architettato del corpo a corpo a rendere il sangue tanto frenetico nelle mie vene che d'improvviso sembrano non riuscire più a contenerlo, è proprio quella quasi inesistente pressione di quelle due quasi invisibili dita a mandarmi in paralisi.
Deve spostare quelle dita. Deve farlo e in fretta. 
E deve togliersi dai tratti del viso quell'espressione di demonietto da film horror che gli si è disegnata sulla faccia, la luce perversa nelle frecce appuntite delle sue iridi scagliate con un arco dalla mira eccellente, le labbra rosee distese in un ghigno inquietante e deliziosamente pericoloso, il tutto con l'ausilio del ciuffo d'ebano che gli ricade prontamente sul viso, celandogli l'occhio sinistro e armonizzando ogni tratto.
Se il diavolo avesse un viso, sono sicuro che assomiglierebbe al suo. 
Ma non sono solito vendere l'anima a chi si prodiga di comparirmi dall'inferno.
E con un'impeccabile tecnica che, manco a dirlo, mi torna utile prima dell'incontro con la mandria di elefanti inferociti, lo giro piazzandomelo difronte e lo avvicino a me, senza lasciarmi fregare da quel bel faccino ancora animato dalle fiamme del nono girone infernale e tenendogli i polsi serrati in una catena di dita tra di noi. 
Faccio in modo che lui non riesca ad abbassare le mani più del dovuto e raggiungere luoghi che si devono tenere il più lontano possibile da lui e dalle sue nefaste intenzioni.
Lui si lascia docilmente manovrare, scostare, strattonare, ma i suoi occhi hanno altri piani. Ancora, ancora una volta scorgo quel bagliore simile alla coda di una cometa in caduta libera che mi porta a domandarmi come facciano forze opposte a concentrarsi tutte in un'unica persona.
Il bianco e il nero non posso convivere, eppure sembra che in lui si combatta una lotta perpetua tra queste due realtà.
Dominik è innocenza, e proprio quando ti viene voglia di spiegargli che cos'è un orgasmo lui ti spiattella in faccia tutte le posizioni del Kamasutra con tanto di immagini illustrative; trasuda purezza, gliela leggi sul marchio della sua pelle baciata dalla luce angelica, e quando stai per posargli una dorata aureola in testa si rivela come il più spietato dei demoni sfuggiti all'oltretomba che ti scruta con l'appetito di un contratto verso la dannazione eterna; è fragilitá, come una rosa piegata dalle intemperie del cielo, come un petalo spezzato da una goccia di pioggia troppo grossa, e ad un tratto, nel bel mezzo del tornado, quello stesso cielo rimane allibito nel capacitarsi del fatto che quella rosa è sempre stata protetta da spine aguzze che sembrano artigli delle pantere nere del Bengala. 
Come la danza classica, quel portamento dritto e quello sguardo fiero di un'aquila in volo, e l'hip hop, il caos della mente e del cuore, lo sfracellamento dell'animo al suolo in un'infinitá di movimenti; la lirica, dove ogni parola e sostenuta allungata sino all'esasperazione in un intrigo di note altisonanti e dall'epico impatto e la musica rap, un fiume in piena di parole, concetti, apostrofi, sound, ritmo, frasi dettate da una metrica irregolare perchè l'anima ha troppo da dire e troppo poco tempo per farlo. 
Senza preavviso lo spingo allontanandolo da me con forse un po' di animo di troppo.
-Riproviamo.-
-Hai una delicatezza invidiabile.-
-Riprova.-
-Che ne è stato del "pluralia tantum"?-
-Ti dai una mossa cazzo o devo iniziare ad urlarti contro per far accorrere mezzo corpo insegnanti?-
-Delicatezza 2, A volte ritorna.-
-Alza il culo!-
-Delicatezza 3, La Vendetta.-
Inizio a sorridere mio malgrado al secondo "film", ma all'annunciazione del terzo, sommati alla sua espressione teatralmente truce e al suo contrito tono di voce, infrango la mia serietà in frammenti di risata.
-Potresti fare l'attore, sai recitare.-
-Non immagini quanto.-
-Riprov..iamo, ma questa volta ti voglio convinto.-
-Ah perché gli sguardi assassini di proprio prima non ti sono sembrati abbastanza convinti?-
Si mette in posizione e io ne approfitto per un'ultimo pensiero prima che lo specchio della mia mente venga neutralizzato dal suo attacco.
E' davvero figo con questo nuovo gatto nero che ha in testa.
Non che prima non..
LO fermo giusto in tempo.
Il suo approccio è più aggressivo, come un animale braccato che deve difendersi. Come un animale ferito che deve attaccare.
E' questa la sensazione mentre cerco di non farmi sorprendere dai suoi colpi, come se stesse attaccando solo per difendersi.
Paro l'ennesima mira contro lo sterno. Punta sempre alle parti più sensibili, ma con i colpi diretti non può andare lontano, l'altro combattente se li aspetta.
-Fermo..fermo.-
Lo blocco davanti a me e mi metto dietro le sue spalle. 
-Devi essere più imprevedibile. La velocità non ti manca, con la forza puoi migliorare ma ciò che conta davvero in questo caso è la tecnica. Altrimenti perché persone alte quanto una Vigorsol possono avere la meglio su armadi alti due metri?-
-Perchè temo che non esiterai a dirmelo?-
Trasuda sarcasmo da tutti i pori. 
Perché la cosa non mi infastidisce?
-Devi essere meno scoperto con i colpi che andrai ad infliggere e devi spostare meglio il peso del tuo corpo.-
Il riflesso nei grandi specchi davanti a noi ci rimanda l'immagine della mia mano che scende verso il suo stomaco. 
-Ci sono cinque livelli di sensibilità.- La mia voce risuona nella palestra deserta atona e dura, inespressiva e ferma come una roccia di fiume. Non sembra quasi la mia. 
-L'addome è sensibilità quattro.- 
Gli prendo la mano e con le sue dita gli faccio toccare il punto più delicato. 
-Lo senti?-
-Si, lo sento.- si limita a rispondermi, e le sue parole sono privi di alcun colore, peggio delle mie.
-Poi la schiena, livello 5 per tutto il corso della colonna vertebrale.- 
I polpastrelli sfiorano la base della nuca fino a dove è consentito dalla maglia. Non ho mai trovato un indumento tanto ingombrante. Mi verrebbe voglia di farla a pezzi.
-Il collo..- devo toccarlo -specialmente la gola.-
Questa cazzo di pelle mi sta chiamando, implorando, urlando, pregando, minacciando di toccarla, la sto fissando un po' troppo, ma il velo di sudore che la adorna è terribilmente attraente e.. E' sudore Aleksander. 
..Che si potrebbe lavare via..Sotto una doccia.. E tu sei completamente impazzito.
-E ovviamente in..in mezzo alle gambe.- deglutisco silenziosamente permettendo agli occhi di saettare come palle da biliardo per tutta la sala piuttosto che soffermarsi dove vorrebbero ardentemente soffermarsi. Bastardi. -Livello 5.-
-In mezzo alle gambe?-
-Si- perché me lo sta facendo ripetere? Non gli è bastato sentirmelo dire una volta con il fiato sotterrato in gola?
-Proprio in mezzo?-
-Proprio in..-
Socchiudo le palpebre, come un lupo che valuta se è il caso di scoprire i denti. Sta giocando con me. Si sta divertendo captando con quella dannata perspicacia il disagio che provo nel dirlo e la sta usando come arma a doppio taglio, contro di me. La sua voce è celestiale, il suo tono casuale e le sue parole trasudano innocenza allo stato puro. 
Figlio di puttana. Ha sfoderato gli artigli prima di me.
Bene, se vuole la guerra.. Non ho alcuna intenzione di uscirne sconfitto. Ferito forse, ma non di più.
-Sai cos'altro è importante?- 
-Cosa.-
-Attaccare l'avversario quando meno se lo aspetta.-
Un momento. 
Il tempo del volo di una rondine, della vita di una farfalla, dell'onda che si infrange sullo scoglio. 
Il tempo di un misero respiro, uno appena accennato, afferrato all'ultimo secondo in extremis proprio quando non c'è la facevi più.. Un momento in cui avrei potuto, avrei dovuto fare qualsiasi cosa, qualsiasi, anche prendere un coltello e piantarglielo nel cuore, ma non quello che invece ho fatto. Non avrei dovuto fare quell'insignificante passo avanti, non mi sarei dovuto permettere di prendergli il mento tra il pollice e l'indice e voltargli il viso, non avrei dovuto concedermi il lusso di avvicinarmi tanto da sentire il profumo della sua pelle, non avrei dovuto.. Cazzo se non avrei dovuto.
Ma l'ho fatto, perché ho potuto.
L'ho fatto perchè mi sono stancato di giocare pulito, l'ho fatto perché nessuno mi ha fermato, perchè anche se ci avessero provato forse l'avrei fatto lo stesso, forse non aspettavo altro.
E no, non aspettavo altro che sentire quelle labbra ancora una volta sulle mie, di poterle plasmare sulle mie con le mie, di poter lasciare che il labbro inferiore si schiudesse lasciandomi entrare con riserva e impazienza, come se anche lui non avesse aspettato altro. 
E mi sono seccato anche di aspettare, aspettare qualcosa che è a un passo da me e che potrebbe svanire da un momento all'altro e avere rimpianti sul fantasma di ció come sarebbe stato saggiarle ancora una volta.
Non voglio avere rimpianti.
Ne ho già fin troppi se si tratta di lui, di quello che avrei potuto dire, di quello che avrei potuto fare. Di quello che non avrò il coraggio di fare.
E credetemi se vi dico che non abbiamo aspettato altro che questo, il fottutissimo secondo di coraggio in cui mi sarei liberato, anche solo per un istante, dalle catene dell'apparire, della perfezione perenne come ghiaccio dopo la neve. 
È la stessa, inebriante sensazione di essere soli al centro di tutto, la stessa, inebriante forza che mi pervase quella notte, quando, per la prima volta, provai le tue labbra che sapevano di champagne, birra ed enigma, morbide, bellissime, spaventate, audaci nella loro singolare dualità, labbra su cui si confrontavano i dissapori dell'esistere sul confine tra luce e buio. Mi stregarono quella notte, tra gli alcolici e la sfrontatezza di adolescenti sull'orlo del baratro della vita, tu mi mostrasti molto di più, mi dicesti, con quella lingua che stuzzicava e si nascondeva, che potevamo scegliere, che potevamo avere tutto.
Se non ci fossero state quelle pacche sulle spalle e quelle braccia a tirarmi indietro non so se mi sarei allontanato da te, se avrei accettato il fatto che non avrei sentito mai più quelle pieghe vellutate tra i miei denti, il tuo viso nella mia mano, la prospettiva che mi spalancasti dinnanzi, il semplice, ambito, proibito pensiero di essere giovani e alla fine, liberi.
Ma questa volta, in questa palestra, in questa penombra, il tuo viso è nuovamente, in qualche modo, nella mia mano, il tuo corpo troppo vicino al mio, le tue labbra di nuovo tra le mie. 
E forse neanche Dio sa quanto mi siano mancate, quanto, ad ammetterlo neanche sotto tortura, avrei voluto baciarti ancora e ancora come se non ci fosse stato un domani, come se ieri non fosse mai esistito, ma bearmi del presente che grava con i suoi filamenti iridescenti sui nostri obblighi di cenere.
Questa volta non mi sarei spostato, volevo sentirle più a fondo le sue labbra, penetrare fino al limite e lottare per il dominio del contatto con le nostre lingue che si incontrano e si scontrano in una lotta serrata e assolutamente irresistibile. 
Ma tu non mi permetti di entrare questa volta, non schiudi la tua bocca, non mi lasci varcare la tua soglia, non ti lasci toccare di più e appena senti la punta della mia lingua sulle tue labbra giá accaldate ti scosti, come il polo opposto di una carica elettrica, come se fossi respinto dalla stessa cosa che ci ha unito. 
Non sei sorpreso, non sei incazzato, non sembri avere la tentazione di staccarmi le orecchie a morsi, ti è piaciuto, lo vedo sulle tue guance lievemente tinte di rosa quanto ti è piaciuto, sulle tue gote dove la mano tempestiva di un pittore sconosciuto ha tratteggiato l'alba. 
Non te lo aspettavi ma lo volevi, eppure eccoti qui, a nascondere il tuo sguardo sotto il ciuffo d'ebano, a lasciarmi interdetto. Vorrei capirti per una dannata volta. 
Faccio un passo avanti. 
Fino a ieri baciavo da Dio. Incrocio le braccia Sbuffo. Non va bene. 
-Guarda che bacio benissimo Santorski.-
L'angolo della tua bocca si solleva in un sorriso appena accennato, un sorriso che non raggiunge gli occhi, flebile come lacrime nella pioggia, assolutamente non tuo.
Allungo una mano, giusto per farti capire che si, non abbiamo un passato proprio rose e fiori, che gli eventi hanno preso una piega imprevista, che mi prenderei a schiaffi per quello che ho fatto e per quello che avrei voluto fare se tu non ti fossi fermato, che se solo mi soffermassi ad analizzare per cinque secondi che cazzo mi è preso nell'ultimo minuto mi recherei all'obitorio più vicino a prenotarmi una bara, ma ei, perchè sembra che ti stiano torturando? Perché sembra che sanguini ogni volta che ti avvicini a un altro essere umano?
-E' tardi.-
Davvero Dominik?
Lo guardo mentre solleva lo sguardo, rimango fermo quando osserva il cielo oltre le finestre e sembra non riconoscerlo, sono impotente dinnanzi alle tue gambe che ti conducono lontano da me, irraggiungibile come un angelo che ha tagliato tutte le corde e si è lasciato cadere. E io non posso fare altro che inseguirti con gli occhi dal paradiso fino a quando non raggiungi la porta, augurarmi che ali nere possano darti tutto ciò che non hanno potuto quelle bianche, e tormentarmi con il chiedermi se vale davvero la pena stare dalla parte di chi vince se dalla parte di chi vince non ci sei più tu.
Sbatti la porta con forza, come a voler incastonare un punto a qualcosa che ha solo virgole, e non sto bene da solo nella palestra che mi ha visto molte volte allenarmi prima di un incontro, uno più importante dell'altro, verso una scalata di ambizione che ancora non è terminata.  Sono tra le mura che mi rendono un campione, nel mio territorio, sul mio palcoscenico, e rimbomba il colpo della porta come l'ultimo eco del ricordo della prima pagina strappata di un libro ghiacciato. Perché la realtà e' divenuta così tetra senza di te? 
Non sono disposto a lasciarti andare così.
La porta subisce anche il mio di tonfo quando la richiudo distrattamente dietro il mio corpo che si accinge a trovarti il più in fretta possibile. 
I corridoi sono deserti, silenziosi, i miei passi riecheggiano tra le pareti che conosco bene e la coda dell'occhio ne disegna vagamente i contorni mentre mi dirigo nell'unico posto dove andresti dopo una cosa del.. genere.
Non riesco a spiegarmi perché credo questo, potresti essere dovunque, ma tu sarai lì. 
Svolto l'angolo e ti sento. 
Ma a quanto pare qualcun altro ha la pretesa di conoscerti abbastanza bene da aver avuto il mio stesso istinto, perché non sei solo.

 

***
 

Le sue..labbra erano sulle mie e dopo non c'erano più, perché io le avevo rifiutate, bloccate, chiuse fuori dal mio mondo.
Sembrava passata un'eternità quando misi piede fuori quella stanza, sembrava che il tempo si fosse fermato. 
I sottili fili di aria fresca che serpeggiavano fra i corridoi erano piacevoli sul viso accaldato, sulla pelle percorsa da brividi che il freddo non avrebbe mai potuto provocare. Pochi minuti dopo l'aria fa solo male. Come gli è saltato in mente di farlo.. perché, perché non riesce a dichiarare vittoria senza infierire e cazzo, perché sono una strafottutissimo masochista? 
So già dove sto andando senza comandare alla mente di seguire i miei piedi, entro nell'aula di musica, gli strumenti riposano sparsi per per il perimetro, io spalanco la finestra, l'unico in tutta la scuola ad avere un danzale dove ci stanno comodamente sedute due persone l'una accanto all'altra. 
Forse vorrei urlare, probabilmente l'asfalto di sotto mi sta chiamando a gran voce, se avessi una lametta me la sarei piantata nei polmoni perché quest'aria priva del profumo costoso ed estremamente maschile con un ben nascosto retrogusto di vaniglia fa dannatamente schifo, ma mi ritrovo a cavalcioni sul davanzale a prendermi la testa tra le mani e a sorridere come un vero e proprio cretino mentre le dita raggiungono i capelli e ci passano attraverso e l'aria ghiaccia le lacrime che hanno deciso di solcarmi il viso. Sento la bocca incurvata in un sorriso illogico bagnato dal sale delle lacrime che non mi abbandonano. 
Sono insano. Maledettamente sprofondato nel passato che si ripete.
Perché continuo a rompere il disco, di nascosto, senza che la mente e tutto ciò che racchiude possa vederlo, qualcun altro si è infiltrato oltre i rovi e il filo spinato che lo sorveglia e ha spezzato quel disco che pretendeva di tornare a funzionare bene. 
Come prima. 
Cuore, questi non erano fatti tuoi. 
Ma sembra non infischiarsene mentre balla vittorioso nel sapere che sta vincendo il suo tiro alla fune con la mente. 
Non cantare vittoria troppo velocemente, potrei comparire nelle vicinanze con una mitragliatrice. 
Le guance gelate rivelano che le scie lasciate dalle lacrime sulla mia pelle stanno ferendo il rossore che le pervadeva poco prima, ma sento ancora di andare a fuoco, proprio come nell'istante in cui le sue labbra.. Non riesco neanche a pensarci in maniera decente, sento di poter ridere per il resto della mia vita e buttarmi di sotto nello stesso momento. 
-Ah.. Quanti saranno? Quindici..venti metri?-
Il tempo si è fermato per la seconda volta. 
Ricordo.. Credo di aver alzato la testa così bruscamente da farmi male, poi più niente.
E davanti a me, davanti a me in carne e ossa, pelle e sangue, per la prima volta senza uno schermo a separarci. senza niente a separarci, c'è lei. Solo lei.
-Sylwia..-
E averne la consapevolezza è come un salto. Un salto ull'asfalto.

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Capitolo 11
*** Come il rosso dei rubini ***



Salve, sono viva. 
Buona fortuna per la lettura di questa.. cosa..non ben identificata. 
Grazie ai lettori che persiston nel seguire questa fic, la vostra ostinazione è da esempio per tutti noi. *voce in stile Albus Silente*

Pachiderma

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CAP.10







-Sarebbe interessante buttarsi e vedere cosa accade, non trovi?-
Sylwia. 
Sylwia e il suo viso angelico, Sylwia e la sua pelle colorata dall'argento della luna, Sylwia e la sua maschera che non potrà mai nascondermi abbastanza, Sylwia e la sua passione per la morte. Imbattersi nell'asfalto dopo un volo di venti metri per lei sarebbe il massimo, la teatralità nel sollevarsi sul davanzale, catturare l'ultimo, profondo respiro, chiudere gli occhi, o magari lasciarli aperti sfidando l'orizzonte, e poi l'audacia nel farlo, nel saltare davvero nel vuoto. 
Sylwia. 
E il potere che ha nel farmi salire il sangue alle tempie più velocemente del vento in una tormenta. 
Rimango paralizzato, fermo, immobile a fissarla per non so quanti minuti, mentre la sua voce occupa lo spazio che ci separa.
-E' da un bel po' che non ti sento.- Sorride, miele sullo zucchero. -Cos'è, i tuoi ti stanno tenendo sotto "stretto controllo"?-
C'è disgusto nella sua voce. Appena giusto un po', quel tanto che basta per portarmi a pensare che sia dovuto tanto a chi mi ha impedito di raggiungerla in tutti questi giorni, tanto a me, che sembra non mi sia impegnato fino allo spasimo nel farlo.
Si avvicina e devo frenare l'impulso di allontanarla o indietreggiare, se non voglio realmente sentire il cemento della strada contro la mia pelle.
Non lo voglio, vero?
-Ci stanno provando.-
Mi sorprendo della corposità della mia voce, bassa, sfaccettata da mille sfumature diverse, come un diamante investito dalla luce.
Perché mille cose diverse provo nell'attimo in cui mi rendo davvero conto di avere la certezza che lei, la donna che mi ha stregato con la sua disperata devozione verso il buio, la creatrice di una stanza che porta quasi il nome del mio suicidio, l'unico essere umano che sarei stato disposto ad ascoltare se avesse tentato di salvarmi, la Regina, è qui, davanti a me. Se allungo un braccio la tocco, so che la tocco, e sarebbe.. Troppo.
-Ci stanno riuscendo.-
-Può darsi.-
E allora perché la mia voce è un lago ghiacciato? 
Cos'è questa ramificazione di qualcosa che simile a risentimento risalirmi dal ventre fino alla gola?
-O forse, sto solo provando cosa significa vivere.- 
E' un male fisico distogliere gli occhi da lei, statua di perfetto finto equilibrio, per posarli sulla sera spruzzata di lucciole. -Così, giusto per sapere cosa si prova.-
-E cosa si prova a vivere, Dominik?- La tengo sotto osservazione con la coda dell'occhio. Ora che mi ha trovato vorrei che se ne andasse, ma ora che l'ho trovata non voglio perderla.
-O meglio, cosa si prova a slinguazzarlo?- La mia testa fa uno scatto. 
Il secondo dopo la battuta d'arresto dell'aria di qualche microsecondo fa. 
-Perchè è questo che significa vivere, no Dominik?-
Tasto il collo con due dita timorose di trovare, impressi sulla pelle come marchi di fuoco bruciante, i morsi di un serpente molto, molto velenoso. Sulla pelle non c'è niente, ma il veleno della sua voce tagliuzza l'aria come polistirolo.
-Credevo avessi una considerazione più alta di me, Sylwia.- 
Il gelo delle mie parole non possono contrastare quei denti di vipera. Neanche lontanamente.
E non sono così maledettamente incisivo come vorrei con tutto ciò che rimane della mia stabilità mentale perché si sta combattendo una guerra dentro me, nel profondo delle viscere e negli abissi dello stomaco che sento potrebbe tradirmi da un momento all'altro. 
Non sono già abbastanza magro, intestino dei miei stivali?
Ed eccolo lì, limpido, lucido, chiaro come la luce del primo mattino il suo repentino cambio d'intenzioni, la voglia che ha di farmi volare fuori dalla finestra e la tentazione di gettarsi prima di me per attutire l'impatto col suo corpo.
E' così. E' sempre stato così. Vuole salvarmi e nel contempo, nel medesimo, millenario frammento di tempo, farmi a pezzi.
-L'avevo, prima che mi capitasse di vederti con lui. -Assottiglia le palpebre, lo sguardo è incandescente. -Proprio, con lui.-
-Ti capitasse?-
Scendo con un leggero salto dal davanzale. E' improvvisamente diventato più alto nel mentre della mia folleggiante, ridente\piangente cavalcata sulla sua schiena o sono le gambe che hanno deciso senza comunicarmi un bel niente che possono andarsene in vacanza per il resto della giornata?
-Quindi mi vuoi dire che tu sei "capitata"- non posso fare a meno di mimare il gesto delle virgolette. Non posso farne a meno. -di qui per caso, in una sorta di.. gita turistica per le affascinanti scuole superiori polacche?-
-Forse. Ma noi non crediamo alle coincidenze, mio re.-
Come. Ho. Fatto. 
Come. Cazzo. Ho fatto. 
Come. Accidenti. Ho fatto. A non notarlo.
Dov'è quello sfavillio rosa che mi ha perseguitato nelle ultime tre settimane?
Dov'è quell'orchidea sbiancata su alcuni petali e ancora brutalmente viva su altri più caparbi?
-I tuoi..-
Capelli.
Non c'è più il colore delle fragole a rilucere sotto gli audaci raggi di sole, non c'è più l'immagine della ragazza che mi guardava attraverso una web-cam e parlava tramite un microfono, non vi sono più i fitti ricci fruttati di un melenso colore, non esiste che il rosso, non persiste che il rosso, non vive che il rosso, adesso anche sui suoi capelli. 
Su ogni filo dei suoi capelli.
-Finalmente li hai notati. Non sono proprio un dettaglio irrilevante adesso che sono, finalmente, del colore giusto.-
Quel rosso su ogni, singolo, breve filamento sulla sua testa, quel rosso, non del tramonto, non del rubino, non del fuoco. Esattamente il rosso che scivola nel corpo, lo stesso rosso che pompa il cuore, lo stesso, identico rosso che mantiene in vita. 
Fu in quel momento che iniziai ad avere paura.
La paura nata dal terrore della consapevolezza di dove potrebbe portarmi il coraggio, lei, la sua voce sinistramente irresistibile, il passato e ora, anche quel rosso.
La paura di trovare la morte sempre più allettante della vita.
-Perchè..-
Un passo, e so che è troppo vicina. Non abbastanza.
-Perchè è questo che siamo, Dominik.- si afferra una ciocca di capelli scarlatta davanti il viso pallido. -Rosso.- se la scosta bruscamente dalla guancia. -Il rosso della fiamma-, sembra di vederla ardere sfolgorante nei suoi occhi in minuscole scintille purpuree. -Il rosso della passione..- Dovrei ritrarre la mano che ha catturato tra le sue dita lunghe, le unghie che solcano la pelle leggere come una nave sulle onde, il pollice e l'indice, bianchi, aggraziati, stretti intorno al mio polso, premuti dove un'eternità fa erano altre dita. -Il rosso- il suo respiro prende dominio delle mie labbra -del sangue.-
Sussulto impercettibilmente, come in trance. Qualunque movimento mi sembra di troppo, inappropriato. Ma questo lo devo fare.
Sollevo le dita della mano libera, lentamente, pregustandomi l'attesa nel conoscere la realtà dei fatti. 
E la realtà dei fatti è che c'è rosso sulle mie dita, dopo averle poggiate sulle labbra. 
Mi ha morso. Mi ha morso il labbro inferiore fino a farlo sanguinare.
Un secondo e le punte delle mie falangi sono ammantate di corallo.
Corallo scuro. 
Alzo gli occhi sul suo viso, sollevo lo sguardo in quello innaturalmente attento che mi sta dinanzi, scrutandomi come un lupo ammirerebbe la notte.
-Tu non sei come loro..-
E il passato mi crolla addosso, immobilizzandomi, bloccando ogni tentativo di una respirazione controllata e regolare, ammanettando ogni pensiero e imbavagliando ogni altra parola fuori dal nostro silenzio. 
Silenzio carico di parole, ricordi, amarezza e rimpianti. 
"Loro", gli altri, mormorato come se fossero un'altra specie, pronunciato con disprezzo come se fossero un altro odio. 
La voce della verità decorata da menzogna che grava sulla mia stabilità, sull'equilibrio che non esiste nel mezzo del mio essere, che scuote il corpo e stritola nella sua morsa ogni cellula della mia razionalità che non sia d'accordo con lei.
Ammaliante, seducente, totalmente sbagliata. 
Siamo sbagliati, singolarmente. Insieme sembriamo più giusti, meno proibiti, meno soli. 
Perché siamo soli in queste tempeste di vento e lo sono senza di lei, inutile illudersi di vedere oro e comprare argento. 
Sono travolto dalla melodia triste della canzone che le sgorga dalle labbra, l'attraente, agognata sofferenza color del ghiaccio che scorgo tra le sue palpebre, imprigionato dalle sue catene che io stesso ho acconsentito baciassero la mia pelle, esattamente come l'ultima volta. 
Ma la Regina fa un errore. 
Involontariamente forse, inconsapevolmente può darsi, le dita si stringono di più, lievemente, quasi un'assente pressione e il mio corpo sembra non aspettasse altro per urlare. Una fitta scaturisce dal mio polso, un lampo nel ventre dell'oscurità, e un nome nella luce che per un secondo sconfigge ogni cosa.
Aleksander.
E so che non posso farmi incantare dai perenni castelli di cristallo in cui lei è l'unica sovrana, perché non è come l'ultima volta. E' cambiato qualcosa, né sono la prova le strisce arrossate sul pezzo di pelle dove qualche minuto fa erano strette, come con un'ancora di salvezza in un mare di perché, le sue dita, la sua mano, la sua pelle. Non ho fatto tutto questo per guardarmi vivere, non sono sopravvissuto per tornare a richiudermi tra le pareti di una stanza che è troppo piccola per contenere le mie urla, non ho dato tregue alle ferite lasciando guarire le cicatrici per apriore nuovi tagli su una superficie che li ostenterebbe tutti, uno ad uno, di un colore più vivo della vita stessa, non ho baciato Aleksander Lubomirski per correre dietro a una porta e fuggire proprio ora che sento qualcosa differente dal dolore.
Non voglio ritrovarmi al punto di partenza a sostener un braccio che ho martoriato con un coltello da cucina perché non avevo una lametta a portata di mano, che fa sicuramente più figo, e non voglio cedere alle lusinghe dell'unico essere umano che abbia mai amato quando decisi che qualunque cosa lontanamente simile all'amore poteva starsene beatamente fuori dalle palle.
Non sono fatto per nascondermi nel buio, sono fatto per accendermi nel nero. 
E questo, Sylwia non l'ha mai capito.
-E se volessi esserlo?-
Se, per una volta, volessi sentirmi uguale a tutti quegli insulsi umani che abbiamo tanto criticato nelle nostre notti insonni? 
Sto cadendo nella stessa trappola dell'ultima volta, nello stesso, oscuro, sofferente, rabbioso baratro che mi ha ucciso una volta.
E' questo quello che mi vogliono sbattere in faccia i tuoi magnetici occhi da gatta? E' questa la verità che ho finto di non conoscere negli ultimi tempi?
La rosa al posto delle tue labbra si schiude, lentamente, drammaticamente.
-Un passato sterile non ammette repliche.- ogni singola sillaba sposta un'intero sibilo d'aria che accarezza le pieghe delle mie labbra. Sento il rombo di un'intera muraglia crollare da qualche lato della mia razionalità. -E tu non puoi essere come loro.-
I miei occhi passano veloci dai suoi occhi alle sue labbra e dietrofront, le dita fredde sulla mia mano cristallizzano ogni pensiero che non sia devoto a lei e la sua chioma rosso sangue cade come una cascata scomposta sulla sua schiena, rendendo vivido il pallore segnato delle sue gote. 
Le labbra sono di un rosa malva, quasi bianco, pallide quanto la pelle, privi della brillantezza che un tempo devono aver posseduto, ma che io non ho mai visto. Le occhiaie sono nascoste dal trucco eccentricamente marcato che guerreggia sui suoi lineamenti ma gli occhi trionfano di vitalità, di scintille scoppiettanti di un fuoco mai assopito. Eppure cosa avrei fatto per quelle labbra spente e per quelle occhiate colorate di azzurro. E basta il calore del ghiaccio di quegli occhi a farmi sobbalzare, a farmi dubitare che io appartenga al mondo a cui sono tornato o a quello che lei mi sta offrendo, una seconda volta. 
-Perchè.-
Perché io non appartengo al mondo a cui il mondo vuole che io mi leghi in silenzio, e non so più fingere di farlo. 
E trovo che con la scia delle lacrime ancora in vista sui suoi zigomi e quella prepotente malinconia nei suoi occhi, sia bellissima. 
Mi innamoro delle imperfezioni. E ho l'ostinazione di scovarle anche in chi fa tutto il possibile per occultarle. 
E questo non è il suo caso.
-Perchè sei tutti i colori del buio.- L'ultima parola è appena udibile mentre vedo con estrema, pungente chiarezza l'indice bianco e aggraziato che si posa sulle mie labbra, lo sento mentre, meraviglioso come Lucifero e ingannevole come Satana, passa sulle labbra, lieve, tagliente, e lievemente mi porta a dischiudere il labbro inferiore sotto al suo tocco che seduce e assoggetta la mia minima e mai abbastanza capacità di reagire dinnanzi al sublime del suo essere.
Non cambia niente, quando si porta l'indice bagnato del mio sangue tra le sue labbra, l'impatto di sentire il cuore in gola è sempre lo stesso, attraverso lo schermo di un computer, attraverso gli occhi e l'aria. 
Seguo come rapito quel rosso che risplende sull'immacolato della sua pelle, che va a confondersi con la punta della sua lingua, poi il caos nella mente, nell'animo, nel cuore, nelle gambe che incito brutalmente a muoversi quando vorrebbero solo inginocchiarsi, sopraffatte dal bisogno di averla vicino. 
Ma non lascio potere di decisione a nessun'emozione che rischia di travolgermi come un fiume in piena di vecchie sensazioni, non lascio che il rosso mi conquisti un'altra volta, non lascio che la neve si sciolga impotente sotto all'inoppugnabile calore del sole. 
Ho desiderato così tanto vederla, vederla sul serio, poter constatare la concretezza della creatura che ho ambito per giorni e giorni che ora me ne sto andando, mi sto allontanando da lei e da tutto ciò che si porta dietro, da tutto ciò che mi appartiene, da tutto quello che non sarà mai mio. 
-E' meglio uccidersi che venire uccisi Dominik.-
Ma è meglio vivere che morire, Sylwia.
-Ed è meglio morire perché si ha avuto il coraggio di uccidersi, piuttosto che farlo perché si è stati troppo deboli per resistere.-
Non ho accettato di ritornare in questo schifo per arrendermi senza combattere, mia Regina, non più.
Le ultime parole che mi lanci addosso sono quelle che più temevo avresti detto, quelle da cui fuggo perché non voglio pensare su quando in fondo siano vere. E lo sono, per tutti i soli e le stelle, fottutamente lo sono, più vere del cielo stesso.
-Ti farà del male mio re, lui ti farà del male e una lametta nella carotide sarà niente a confronto. Ti farà del male e sanguinerai come uno squarcio sulla pelle non potrà mai fare. Ti farà del male e non potrai fare niente per fermarlo.-

 

***

 

-Certo che sei simpatico quando fai così.-
-Senti non è colpa mia se il grigio mi muore in faccia.-
-È la tua faccia che muore sul grigio Samuel.-
-Decede più che altro.-
Soffoco una risata nel bicchiere di Coca Cola che  ho spalmato sulla bocca.
-Non voglio obiezioni, lamentele e grattacapi dei tuoi Samuel, intesi?-
-Beh, c'è sempre il verde petro..-
-E NON azzardarti quella sera a presentarti con colori che vanno dal blu cobalto al verde militare perchè non risponderó di me. È chiaro?!-
-Mi spieghi perchè devi decidere ogni capo d'abbigliamento di ogni persona invitata a questa cazzo di cena?-
-Forse non hai capito che Magda farà un giro di telefonate quel pomeriggio per assicurarsi che mettiamo le mutande della sfumatura di bianco giusto.-
Samuel quasi mi sputa la Sprite addosso mentre Magda incrocia le braccia. Ha l'aria di voler far apparire un broncio sulle labbra a forma di cuore, ma all'ultimo momento un luccichio trasognato si impadronisce dei suoi occhi. Evidentemente l'associazione me+mutande non deve averle dato poi tanto fastidio.
-E comunque dovrete essere perfetti.-
Alzo la Cola. -Con me sfondi una porta aperta.-
Samuel alza la Sprite. -Disse l'uomo della modestia.-
-Si fa quel che si puó.-
-Come sempre.-
Samuel ha un sorriso da ebete che gli va da un orecchio all'altro mentre facciamo sbattacchiare i nostri bicchieri in una sorta di brindisi post-lezioni di eleganza by Magda. 
-Oh cazzo!-
Per poco non mi butto la Coca sulla camicia, tra parentesi nuova e immacolata, e Samuel schizza il contenuto della sua bocca sul tavolo tossendo per cercare di non morire affogato nella sua stessa Sprite. 
-E tu..da dove..salti fuori..?- 
Mormora tra un conato e un altro. È diventato rosso dalla punta delle orecchie fino a quella del naso e il contrasto con i suoi capelli dorati rende l'insieme molto esilarante.
-Samuel stai per morire.-
Lui ride come un ossesso piegandosi sotto al tavolo mentre la tosse ricomincia più forte di prima.
Scuoto la testa e mi rivolgo a Magda e Karolina, comparsa come un attraente fungo castano in questo momento.
-E voi cosa indosserete balde fanciulle?-
-Il mio vestito è un Versace rosso Valentino dal taglio in stile antica Grecia con spacco laterale a ridosso della coscia sinistra e drappeggio..- 
La mia attenzione era già sfocata alle fatidiche parole "il mio vestito è", figurarsi dove puó essersi rintanata dopo il fiume di parole su dettagli di vestiario femminile dei quali al momento mi interessa ben poco. -..doppia fila di Swarovski sul decoltè..-
-Santorski?-
-No..- sopracciglia aggrottate. -Swarovski.-
Al fungo castano non sfugge il fugace scatto della testa bionda di Magda al suono di quella parola.
Per fortuna non bada al fatto che i miei piccoli depravati neuroni rompicoglioni abbiano scambiato il nome di una delle marche di diamanti più famosa al mondo con il cognome di un mio compagno di classe. 
-Ah!-
Samuel è riemerso oltre il bordo del tavolo e all'urlo di Karolina e al suo indice puntato contro Magda sembra volerci tornare il più in fretta possibile.
Eruzione vulcanica femminile fra tre, due, uno..
-Quindi ti è piaciuto baciarlo!-
Magda per tutta risposta boccheggia come un pesce rosso fuori dalla boccia di vetro. 
Scoppierei a ridere anche io se non fosse che Karolina diventa più pericolosa di uno squalo bianco davanti a una scia di sangue quando si innervosisce. 
E questo lo sanno tutti, per questo il mio amico sta cercando in tutti i modi una via di fuga che non trova.
-Ma non l'ho baciato io..- risponde la bionda con il tono lamentoso di chi è stato costretto ad affrontare la stessa conversazione ottanta volte, -mi è arrivato addosso lui..-
-Ah allora SI.- 
Non so se ridere per la faccia sconcertata di Magda e quella furiosa di Karolina e ignorare quel fastidioso pizzico pungente alla base della gola o tirare un calcio sotto il tavolo a Samuel per bloccare ogni suo tentativo di farle irritare ancora di più.
In questo momento ha proprio la faccia di uno che potrebbe dire la boiata più grande della sua vita. Nel momento meno opportuno di tutta la sua esistenza.
-Non sembrava avessi proprio la faccia sconvolta mentre ti succhiava le labbra in stile "Aiuto salvatemi perchè uno Dominik Santorski mi sta violentando"!-
È ufficiale. Questi fottuti diamanti non potevano chiamarsi in un altro benedettissimo modo?!
Questa conversazione sta deviando in zone che iniziano a non andarmi più a genio. 
Samuel ridacchia. -Io ero rimasto al capitolo "È un piccolo frocio del cazzo", avete scritto nuovi sviluppi?-
-Ma certo.- si appresta a confermare Magda con il chiaro intendo di lasciar cadere l'argomento. Rifugia gli scatti di Karolina più di ogni altra cosa. 
-Gay o non gay..- mormora lei, -Penso proprio che me lo farei.-
Samuel le lancia la bottiglia di plastica vuota, Magda ridacchia spingendola con un braccio e io li guardo. Passa qualche secondo, qualche secondo in cui un occhio attento avrebbe notato un ritardo nella mia pragmatica reazione, ma alla fine so esattamente come comportarmi.
Sopracciglia aggrottate, naso arricciato, sguardo schifato.
-Oh ma per favore..- Smorfia.
-Infatti, tra tutta la fauna maschile del "Rosiska", proprio quello?- 
I nostri occhi si incontrano. Basta un lampo nel verde. Samuel non ci provare.
Intanto le voci delle ragazze sembrano intercettare i nostri sguardi avidi di vendetta
-Non siete obiettivi..-
-Solo perché è ambiguo..-
-Già, orribile perchè ambiguo, vero Leks?- 
-Ma si..- roteo il bicchiere in aria mentre gesticolo.  -E poi è anche misterioso, incomprensibile.. con un sarcasmo da ucciderlo..pungente, imprevedibile..-
Sbatto gli occhi una volta. 
Mi basta che le palpebre si sfiorino una volta per riconoscere i contorni dei visi interdetti delle ragazze mentre mi guardano e il lieve, piccolo, trionfante sorriso sulle labbra appena incurvate di Samuel. 
-..E poi è uno squilibrato del cazzo..- le parolacce mi escono convincenti. -Andiamo gente..- Ma non sono convinto.  -Non siate ridicoli. Quello.. No.- Neanche un po'.
-Capito gente?- mi fa eco il deficiente che ho difronte. -Quello no.-
-Karol Johanna ha preso la borsa della Burberry che piaceva a te!- urla Magda stringendo così tanto il cellulare in mano che temo mi esploda sui capelli da un momento all'altro. 
-Quella..-
-In vetrina..-
-Col manico..-
-A doppia..-
-Catenella..-
-Laccata..- 
-D'oro..-
-COME HA OSATO?!-
Quasi mi metto a piangere. 
Karolina è diventata una sottospecie di gormito dalla faccia arancione e i capelli perfettamente lisci le si sono rizzati in testa stile Dragon Ball. Non mi sorprenderei se unisse le mani a coppa e si preparasse a scagliare un'onda energetica contro chiunque possa averle fatto un torto del genere. Acquistare la stessa "cosa" che ha adocchiato prima fra tutte Karoline Zimmer è un oltraggio, o giù di lì.
-Aleksander! Come ha osato?!-
La mano va a finire sulla bocca, due dita sfiorano le labbra. Devo sembrare "L'urlo" di Much, solo più teatrale, più colorato e ovviamente più bello.
-Come ha osato..?!-
-Esatto! E' quello che mi chiedo anch'io!- Salta in piedi e trascina il ciondolante polso di Magda con sè. -Andiamo Magda, oggi è la volta buona che di quell'arpia non resterà che un dito!-
Mentre se la scarrozza per la cucina Magda biascica qualche cenno di scusa prima di lasciarmi un leggero bacio sulle labbra e correre a risolvere una guerra di stato.
-Non era Sirius Black quello a cui lasciarono solo un dito?-
Inarco le sopracciglia.
-Ah no era Peter Minus..-
Sbarro gli occhi.
-Ma si.. Codaliscia..-
-Ma di che cosa..-
-Harry Potter, ti dice niente?-
Mi schiaffo una mano sulla faccia prima di sentirlo parlare di nuovo. -Seguire i tuoi discorsi sta diventando estenuante..-
-Ma Codaliscia si tagliò da solo il dito.. Beh non è da escludere che non lo faccia anche Karolina se non trova una borsa più esclusiva di quella di Johanna.-
Segue un santifico e salvifico momento di agognato silenzio in cui, proprio sulla vetta dell'ultimo, magico, appagante secondo di tranquillità, la mia scaglionata mente già sull'orlo del precipizio si illude sfortunatamente di poter starsene serena e rilassata per cinque, cinque minuti. 
Non chiedo tanto, solo cinque, merda, di minuti.
-E quindi ora cosa siete? Fidanzati? Non fidanzati? Quasi fidanzati? Forse fidanzati?-
Ma lui si sta divertendo troppo per gettare la spugna così, senza ulteriori torture mentali. 
A quanto pare chiedere cinque minuti di pace è davvero troppo secondo l'illustre scassapalle opinione delle persone che frequento.
-Probabile-fidanzati?-
Se continua gli devio il setto nasale. Ve lo giuro sull'onore che non ho più. Russerà per il resto della sua miserabile vita a partire da oggi. 
-Samuel siamo.. qualcosa.-
-Ah..- annuisce. -Interessante..- Alzo gli occhi al cielo. -Soprattutto la spiegazione.. Esaustiva.- Lo sento davvero il cielo grattare sulle mie orbite.
-E tu e Santorski?-
Non sono caduto dalla sedia. 
-NON sono caduto dalla sedia.- gli punto l'indice contro mentre lui se la ride. -Sono QUASI caduto dalla sedia.-
-Aaah Aleksander.. Se non esistessi ti dovrebbero inventare.-
-Non credo ci riuscirebbero.-
Mi alzo con una spinta rumorosa della sedia sulle piastrelle a scacchi bianche e nere. La casa di Magda è un soft mixer fra il moderno più moderno e il classico più classico. Varchi la soglia di una stanza e non sai mai se ti ritroverai davanti un letto a baldacchino dalle coperte avorio o un lavandino nero metallizzato.
Spalanco il frigo con un colpo secco spostando il peso del corpo su una gamba. Passo quasi più tempo qui che a casa mia ultimamente, e la cosa in sè non sarebbe poi tanto male se non fosse per le insistenti e constanti pressioni dei miei genitori e i sorrisi indulgenti e falsamente accondiscendi di quelli di Magda. A volte mi sembra di essere piombato nel Medioevo, dove avevano luogo "unioni di potere" solo fra ricchi e fidanzamenti combinati fra gli eredi delle casate più nobili. Nessuna possibilità di scelta. Nessuna possibilità di scappare. Incastrato ancor prima che nascessi dal tuo nome in un destino che è stato scritto per te. 
Inspiro. Espiro. Afferro con nonchalance una bottiglia di birra perché so che Samuel non ha ancora finito, sento quasi il beccare del suo sguardo sulla mia nuca. E non ho idea di dove abbia intenzione di andare a parare. O forse una mezza idea c'è l'ho..solo che sono troppo codardo per ammetterlo a me stesso. 
Mentire agli altri è umano, mentire a se stessi è diabolico. "Da stolti", diceva mio nonno. E sembra che io stia diventando sempre più abile a mentire al mondo e sempre meno incline a mentire a me stesso.
-Che numero di scarpe porta?-
Mi volto fulminandolo con lo sguardo. Vorrei incenerirlo sul posto quando usa l'ironia come arma a doppio taglio. Questa è una mia esclusiva.
-Misterioso, pungente, sarcastico..- emula la mia voce con un 10per cento di fedeltà e un 90per cento di malizia in più. 
-Se proprio mi vuoi imitare, quindi rovinarti, almeno fallo come si deve.-
 -..imprevedibile..intrigante..-
Mi sporgo sul tavolo. -Non ho mai detto che è intrigante!-
-Ma lo pensi.-
-No che non lo penso.-
-Si, pensi che quel nero lo renda sexy e..-
-SSSH!- gli faccio segno di chiudersi la bocca. -Che fai mi vuoi vedere morto?- bisbiglio.
-Quello che voglio dirti, caro campione di Judo, è di goderti quest'ultimo mese di liceo, perché appena varcherai quella soglia da diplomato, non potrai più fare l'adolescente in tensione.- sorride disegnandosi le labbra con la punta della lingua. Il suo è quasi un vizio a cui sono, o almeno dovrei essermi abituato, ma vederlo davanti agli occhi nel bel mezzo di certi discorsi provoca la formazione di immagini limpide davanti la mia attenzione. Ricordi fin troppo chiari. -E i tuoi vorranno che tu faccia le cose sul serio con Magda. E ciò significa cene, pranzi, incontri, università, colloqui, anelli..-
-Anelli?-
-Non ti aspetterai di essere esentato dal regalare un anello alla tua fidanzata.-
-Lei non è..-
-Ma il mondo si aspetta che lo sia.-
Samuel, l'unico in grado di spiattellarmi in faccia la verità con quel suo insopportabile accento da commedia, l'unico di cui mi fidi realmente in questa massa di idolatri e pugnalatori alle spalle della società in cui sono incatenato anche per le orecchie. 
-Stai passando parecchio tempo con lui ultimamente.-
-Sono costretto.-
-Si, hai proprio l'aria di un deportato in un campo di concentramento nazista.-
-E questo cosa vorrebbe dire?-
-Che sei un asso nel mentire ma non al sottoscritto perché ti conosce abbastanza bene.- ribatte con voce annoiata e un noncurante gesto della mano.
-Pensi che stia mentendo?-
-Cosa hai fatto ieri pomeriggio quando ti sei trattenuto a scuola?-
-Avevo una lezione di combattimento corpo a corpo.- rispondo prontamente, l'inflessibilità nella voce.
-E perché avevi l'aria di uno che ha provato la droga per la prima volta?-
-Rincoglionito?-
-Elettrizzato.-
Sfioro col deretano il piano della cucina. I miei occhi vagano per il pulviscolo in controluce nella stanza senza posarsi più da nessuna parte, come gazzelle in fuga da un branco di leopardi affamati.
-Sai che fare ciò in cui sono portato mi esalta.-
L'indice di Samuel, quel dito longilineo così rigido diviene un pendolo nell'istante in cui lui lo fa oscillare dinnanzi al suo viso. -No no no- oscilla tre volte -non eri esaltato, eri estasiato.-
Gli occhi hanno trovato un punto di appoggio, il cielo azzurro oltre la finestra, prima che su quel ceruleo si sovrapponga il turchese del mare in tempesta.
-Con chi hai fatto questa lezione?-
Mi rendo conto che Samuel ha vinto prima ancora che pensi alla risposta da dare per sviarmela, per salvare la mia faccia di bronzo ancora una volta. Il punto è che con Samuel non ho quasi mai avuto bisogno di indossare maschere o usare filtri su ciò che potevo e non potevo dire. E' questo ciò che mi frega, l'abitudine di rendersi invincibili davanti a qualcuno che conosce ogni tua debolezza. E non ho una risposta per attutire l'impatto stavolta.
-Con Dominik, Dominik Santorski.-
E all'improvviso tutto torna. I tasselli confusi e sparpagliati di un puzzle grande come l'oceano e burrascoso altrettanto si avvicinano all'essere finalmente ricongiunti nelle esatte posizioni, quelle posizioni che qualcuno, forse io, forse non solo io, ha così brutalmente annientato affinché regnasse il caos.
E ho nella mente il caos. Nell'anima il caos. Nel corpo il caos. Solo il cuore sembra stranamente silenzioso, appagato, zittito da qualcosa che, per la prima volta, gli è bastato.
-Perchè per una volta non provi l'ebbrezza di accontentare il tuo volere prima di quello di chiunque altro?-
-E cos'è che voglio?- faccio qualche passo avanti saggiando con in polpastrelli la superficie vetrata della bottiglia intorno alla quale sono chiuse le mie dita.
-Andare oltre, e vedere cosa c'è.-
-Andare oltre..- ripeto, assorto, quasi come un sussurro nel vento. -Sembra facile.- Poggio la bottiglia smeraldina sul tavolo, tra di noi. -Ma non lo è.-
Il verde della bottiglia riflette i timidi raggi di aureo sole, il verde delle iridi di Samuel riflettono la vivacità della sua anima.
-Sei campione regionale di Judo da due anni consecutivi, non perdi un incontro da quando avevi quattordici anni, tra meno di un mese parteciperai al campionato nazionale, hai la media del distinto in tutte le materie, sei tutor di combattimento e difesa, ti appresti a rappresentare la scuola alle olimpiadi di fisica, vai sullo skateboard come se ci fossi nato di sopra, hai una ragazza che ti tieni buona senza prometterle assolutamente niente nonostante i tuoi minacciano di scuoiarti vivo, a giorni si terrà un ricevimento con le persone più influenti della società polacca, sarai introdotto brillantemente nel mondo del lavoro sulla soglia dei diciannove anni senza neanche aver messo piede all'università che sarà una delle più prestigiose di tutta l'Europa e stai disinvoltamente sotto l'attenzione degli sponsor da mesi, non mi sembra che ti piacciano poi tanto le cose "facili".-
Mi guarda, lo guardo, ci guardiamo. 
Lo guardo, sorrido, mi guarda, alza il bicchiere di birra, ci guardiamo e sappiamo come se l'avessi già fatto cosa sto per fare.
-Magda vuole che indossi un vestito nuovo di zecca appositamente per l'occasione?- la lingua schiocca. -Perfetto, non guasterà avere un occhio esterno per cui provare gli abiti.-
Sfilo l'Iphone dalla tasca del Jeans, illumino lo schermo con l'immagine di un elaborato graffito sullo sfondo e lo sblocco. 
Nuovo messaggio. 
Scrivi.
I pollici ticchettano veloci sulla tastiera, prima ancora di esalare un altro respiro ho già finito. Non c'è tempo per pensare.
-E il resto del mondo?-
Le labbra si incurvano, la mano è ferma e gli occhi salgono dalle parole che non ho riletto fino allo sguardo ridente di Samuel.
-E il resto del mondo si fotta.-
Invia.

 

***

 

No no no e categoricamente no
Avrei dovuto rifiutare. Avrei dovuto buttare il cellulare da qualche parte e impossersarmene soltanto quando non avessi avuto la terribile, totalmente da rincretiniti bigotti, cruenta, indicibile intenzione di rispondere a quelle cinque parole: "Cerimonia. Vestito. Vieni con me?"
Con un secco, definitivo, insensato e ingiustificabile "Si."
Quindi eccomi qui, due ore dopo, a fissare una Mercedes sportiva grigio fumo metallizzato, a tratti grigio perla dai riflessi argento, che si parcheggia senza troppe cerimonie davanti al palazzo che ospita l'appartamento di lusso dal quale la sto osservando. 
So chi la guida, tutto di un'auto tanto costosa e dalla forte personalità come questa richiama in ogni tratto della sua essenza il proprietario che è all'interno, magari stravaccato sul sedile in pelle con un braccio fuori dal finestrino a sorreggere tra il pollice e l'indice una sigaretta accesa. Mi ritrovo a tormentare il laccio delle cuffiette mentre mi sposto nell'ingresso per prendere le chiavi di casa e chiudere la porta. Un tonfo rumoroso. Rivolgo uno sguardo contrariato a quell'ammasso di ferro e legno che fa così tanto rumore. 
Un sussurro, un appena accennato cigolio, quella di sotto ha aperto la sua di porta. E quella di sotto apre la porta per due ragioni: lasciar passare il marito che se ne torna carico come un mulo di fatica dal supermercato o accogliere la figlia con la sua ciurma di ragazzini di tutte le età comprese fra i dieci anni e i due mesi. Trovate un hobby alla signorina.
E trovatevi un altro ascensore perchè questo è occupato. Mi fiondo nell'abitacolo come se fosse l'ultima speranza di vita mentre la nave sul quale ero ancorato cola a picco e premo il tasto corrispondente almeno dieci volte. Continuo a spingerlo anche mentre l'ascensore scende fino al piano terra, non si sa mai. 
Apro il portone immacolato proprio quando lo sento. Posso sentirlo. 
Ma no, non sono pazzo, o almeno non del tutto, perché lui è qui. 
Si mostra in tutto il suo splendore in braccio alla madre, urlando, dalla potenza dei suoi due mesi, a squarciagola anche se ha dormito, giocato, è stato pulito, ha mangiato e ha fatto il "ruttino". Grida per il semplice gusto di sbatterci in faccia il fatto che "è piccolo e puó farlo". E la madre sembra una morta in vacanza, le sopracciglia basse, le palpebre pesanti, lo sguardo vacuo. Non rimprovera la sua numerosa prole, la prende direttamente a sberle.
Su questo ha tutto il mio appoggio.
Non mi piacciono i bambini, non sopporto i loro lamenti e non tollero la quantità smisurata di attenzione che necessitano, pretendono e puntualmente ricevono. Come se dopo aver superato una certa etá non avessi più bisogno di un contatto che sfiora l'affetto con le persone che chiami mamma e papá. Non li sterminerei stile Hitler & gli Ebrei, i bambini, ma se non si avvicinano troppo mi fanno un favore. Come il resto dell'umanità d'altronde. 
No, forse il problema sono io. 
Lo sfortunato uomo consorte della signora intanto si rassegna nel fare l'ennesima scalata verso il suo piano con cinquanta buste della spesa per mano. E mi è fastidiosamente familiare la voce della donna che incita dalla finestra, molto romanticamente e con molta, moltissima gratitudine, il marito nelle sue traversate dalla macchina alla sua casa: "Muoviti..! Scansafatiche, fetente..Disgraziato..-
Li ucciderei.
Li ucciderei tutti.
A partire da lei con quella sua crocchia di quattro peli in testa fino all'ultimo nascituro che già strilla come un dannato. 
-Disgraziato.. Finocchietto..! E..- e io non sento più niente. 
Nessun suono è abbastanza incisivo da scalfire la lastra di silenzioso vetro che copre il mio canale auricolare, nessun insulto o protesta é abbastanza importante da perforare la bolla di assoluto "nulla" che si è creata appena i miei occhi hanno cercato l'auto e hanno trovato lui. 
Il problema sono decisamente io.
Poggiato con un fianco allo sportello della macchina, una mano portata vicino al viso affinchè le labbra protese in avanti possano inspirare dalla sigaretta i rivoli di densa nebbia, i capelli spettinati ad arte sulla fronte che accentuano i tratti tinteggiati con decisione del suo viso, insomma, un tutt'uno con l'ostentata eleganza del suo mezzo.
È fermo mentre scendo i gradini con le mani infilate prontamente nelle tasche dei jeans, stabile come una statua nella sua posizione più gloriosa. 
Decido di non soffermarmi su altro della sua figura -come la camicia bordeaux aperta su una maglietta nera un po' troppo attillata e il jeans a vita bassa- considerando che mi sta guardando da quando ho varcato quella soglia. Gli occhi non sono visibili oltre le lenti riflettenti degli occhiali da sole, ma quasi sento quel bronzo fondermisi addosso. Mi siedo sul sedile senza aspettare che lui entri o mi faccia cenni o qualunque altra cosa. Sono improvvisamente troppo.. emotivo per permettermi troppe azioni.
Solo quando lo sportello sbatte e il motore si risveglia mi costringo ad alzare lo sguardo sulla strada davanti a me.
-Affollato il tuo condominio.- 
La macchina parte allontanandosi prontamente dal putiferio che è scoppiato intorno casa mia. Devo mettere il veleno dei topi davanti la porta della tizia di sotto, se sentirò anche solo un altro giorno gli strepitii suoi o anche un solo, mezzo urlo di uno dei suoi cento nipoti dovrò procurarmi dei documenti falsi e rifugiarmi in qualche casinò a Las Vegas perché diverrò ricercato in cinquanta stati, vivrò di prostituzione, droga e gioco d'azzardo, cambierò i connotati del mio aspetto fisico ogni sera ma in ogni caso ne sarà valsa la pena.
-Troppo.-
Osservo su cosa sono seduto. Il rosso scuro è estremamente allettante. E non parlo della pelle del sedile.
-Pensavo saresti venuto con la moto.-
-Pensavo anche io la stessa cosa, ma poi ho pensato a te, e ho deciso che voglio vivere un altro giorno.-
Maledette, traditrici, infami labbra che si vantano di un sorriso ancor prima che me ne accorga. Ma non mi nascondo, non questa volta.
-Mi credi così pericoloso?-
Il suo sguardo indugia nel mio quando si dimentica momentaneamente di guardare dove sta andando.
-Sbaglio?-
-A non tenere gli occhi sulla strada quando guidi? Si.-
Si ricompone così velocemente che sembra crederci anche lui. 
-Comunque- continua come se non si fosse perso a guardare nonsochè, -ho l'impressione che non ti aggradano particolarmente le moto.-
-A me non aggradano neanche le biciclette, pensa tu.-
Contiene uno sbuffo divertito. -Appunto.-
-Però questi sedili.. Ottimo abbinamento di colori.-
Il nero e il rosso insieme creano un effetto che non raggiunge nessun'altra coppia di colori, per quanto brillanti, vivaci o stratosferici siano. Il nero della notte, del mistero, dell'incomprensibilità, del proibito, e il rosso della passione, del profano, delle notti incendiate dal fuoco, dal sangue.
-Invece ti piacciono le macchine..-
-Vuoi dire quelle costose, eleganti, nere?- Annuisco stendendomi un po' sul sedile. -Si.-
-Quindi la mia è proprio fuori categoria- alza le sopracciglia quasi assecondandomi, come se non credesse possibile che qualche essere umano non sbavi sulla sua auto. -Argentata, sportiva..-
-Beh si ma.. ha gli interni neri e rossi per cui..- passo le dita sul cruscotto scuro -vivrai un altro giorno.-
Non riesco a guardarlo per più di due secondi. Lui riesce a guardarmi per più di due minuti senza sbattere le palpebre. 
Questa si che è ingiustizia.
Prendo il cellulare dalla tasca mentre Aleksander accosta da qualche parte all'inizio di una strada piena zeppa di negozi e gente che scarrozza buste pastello per i marciapiedi.
Persino dal riflesso sullo screen si notano i cerchi scuri che mi ballano intorno agli occhi. Sapevo che non avrei dormito da quando il passato si è ripresentato in tutto il suo splendore a ricordarmi chi sono. Anzi, no, so chi sono da quando lui ha deciso che voleva, doveva, gli necessitava.. baciarmi. Perché. E perché non l'abbia castrato con un calcio di potenza atomica ai detroiti rimane un mistero. Un mistero tremendamente estenuante. 
La parte più logica, razionale e assolutamente incazzata di me voleva ardentemente mandarlo a fare in culo. Un'altra parte, quella che vorrei frustare a sangue fino a quando non mi implorerebbe pietà in ginocchio aspettava le sue labbra praticamente dalla sera in cui le ha assaggiate. E questa parte sta vincendo, in vantaggio su una guerra che non sarebbe mai dovuta iniziare. 
Aleksander dice qualcosa a proposito del negozio in cui stiamo entrando, ma non ho bisogno di sentire cosa ha da dire per capire a cosa si riferisce. Soltanto guardando le vetrine dell'Atelier sento il portafoglio andarmi in pensione. 
Dentro è anche peggio.
Scaffali ordinati con perfezione maniacale, quasi sembra che mia madre sia passata di qui, color rosa Barbie su cui sono riposti foulard di seta e sciarpe da cinquanta zloty ciascuna, pavimento blu notte disseminato da brillantini che dovrebbero essere stelle. Una notte stellata. E se le macchiassi di vomito? No perché sento di poterlo fare davvero, da un momento all'altro.
Una commessa in tailleur giallo sole spunta fuori dal nulla come un avvoltoio e ci guida nel lato maschile del locale. O almeno guida Aleks, io seguo soltanto la sua nuca volontariamente disordinata.
Cravatte ordinate secondo le sfumature di colore, vestiti eleganti per ogni occasione, pouffe arancioni che sembrano enormi caramelle giganti e camerini che potrebbero benissimo essere grandi quanto il soggiorno di casa mia. L'unica cosa che intacca il mio interesse al momento è conoscere l'esatta ubicazione della stanza chiamatasi bagno. 
Nonostante i prezzi esorbitanti che si intravedono sui cartellini sparsi per il negozio, ci sono almeno una ventina di persone seguendo il mio campo visivo che sembrano elettrizzate di farsi un nuovo mutuo.
-Dimmi che non passi le tue giornate in questi posti..- mormoro ad Aleksander senza preoccuparmi di quanto bassa sia la mia voce.
-Non ci passo le giornate ma ci sono passato ogni volta che dovevo andare a qualche parte di lusso e togliti quell'espressione profondamente disgustata dalla faccia.-
Non vedo la mia espressione ma deve essersi incrementato notevolmente il disgusto. 
-Si, abiti da cerimonia dunque.. vita normale, lunghezza media, non gilè sotto giacca, dovrei indossarlo con una cravatta, pantaloni sartoriali..-
La mia attenzione sfuma nell'osservare la donna a cui Aleksander sta descrivendo in dettaglio il completo che vuole. Lui è esperto in fatto di questa "roba", io non sapevo neanche che cambiasse la "vita" di un vestito, ma lei si beve con evidente compiacenza qualunque cosa le dica, come se fosse abituata ad annuire anche ai clienti più scellerati. Vorrei comprarmela anche io qualcosa, giusto per far incrinare quella maschera di finta disponibilità.
-Perfetto signor Lubomirski, se attende un attimo vado a soddisfare la sua richiesta- e scompare oltre una porta.
-Sai il fatto tuo tra indumenti con un valore di almeno due zeri.-
-Tu invece sembra che non hai mai visto altro oltre a felpe e jeans. Se non avessi quel pearcing avrei potuto trovare la scusa di averti preso in un villaggio
sperduto dell'Africa.-
-Visto? Non lo puoi dire, mentre io posso ancora dire che sei un coglione.-
Il mio collo scatta in direzione di un avvenente divano difronte ai camerini. Lo punto come se da ciò dipendessero le sorti del mondo e mi accaparro dei morbidi cuscini con destrezza.
-Un coglione incredibilmente attraente.- ribatte lui.
-Ma sempre un coglione.- controbatto io.
La ragazza ritorna con una sfilza di stampelle in mano. Quello che sorreggono non è del tutto visibile per via delle buste protettive avvolte intorno agli abiti. 
-Si provi questi, son tutti come ha specificato, dei colori e dello stile che mi ha chiesto- solleva una busta semi trasparente rivelando un completo beige. -Io inizierei da questo.-
-Io no.- Prendo un'altra stampella. -Ha visto la sua pelle? Che facciamo, il deserto sulla savana?- Mi giro nelle mani il vestito che ho scelto. -Il blu notte invece si che va bene.- lo passo ad Aleksander che sembra volermi prendere a pugni e rendermi omaggio con una statua allo stesso tempo. Ma si sta mordendo una guancia con tutte le forze di cui dispone per non ridere, il che mi fa ritrovare a fissarlo con insistenza fino a quando la commessa non interrompe la mia contemplazione. 
-E lei chi sarebbe?-
-Dominik Santorski.-
-La SCUSI signor Santorski!- una donna quasi salta sul divano dove ho rivendicato il mio dominio. Ho perso dieci anni di vita. Non che sia la mia priorità al momento. Lo sono invece i capelli color giallo evidenziatore a boccoli così incurvati che potrebbero benissimo essere Roller Coaster in miniatura.
-E' solo un po' impulsiva!..-
-Tranquilla è solo daltonica.-
La donna scocca un'occhiata poco rassicurante alla ragazza che si appresta ad avvicinarsi ad Aleksander per scortarlo nel camerino.
Cosa debba scortare visto che è proprio davanti a noi, non l'ho capito.
-Sa, sua madre e suo padre hanno un gusto eccezionale..- Vuole entrarci anche dentro magari? -..clienti di vecchia data..- Magari desidera aiutarlo a cambiarsi? -..Mariah non sa quel che dice..- Abbassargli i pantaloni? -..Lubomirski..Incarnato affascinante..- E perché mi importa?
Aleksander se ne esce dopo un paio di minuti. La velocità con cui si è spogliato dei comodi jeans e camicia e si è infilato in questo tubino d'eleganza mi turba. Il sottoscritto sarebbe ancora alle prese con il capire dove si sarebbe andata a cacciare la manica sinistra della giacca.
-Strepitoso..!-
-Fa-vo-lo-so!-
Mi guardo intorno con il disprezzo a festeggiare occhi. Quelle donne sembrano gay. Come faccia una donna a sembrare gay non me lo spiegare.
Il blu scuro gli sta bene, lo rende slanciato e dall'aria raffinata come quella di un uomo d'affari.
-No, cambiati.-
Almeno una decina di donne che sentono la mia convinta richiesta sbarrano gli occhi voltandosi verso di me con uno sguardo incredulo da pesce lesso.
-Manca qualcosa.. Al blu intendo, a te..- lo guardo dalla testa ai piedi. Ma porca miseria. 
-Cambiati.-
-Dominik tesoro cosa ne vorresti sapere tu di questo genere di abbigliamento?- 
-Stai cercando di fare del sarcasmo?- inarco un sopracciglio mentre Leks inarca i propri. Lui ha bisogno di entrambi per rendere l'idea che io mi piazzo in faccia solo accentuando la mia arcata sopracciliare destra.
-Beh, è la verità.-
-Io non so assolutamente niente di tutto.. ciò, ma so ciò che vedo, e il blu non è la tua.. -arriccio le labbra e muovo una mano come se fossi uno stilista francese di alta elitè- tonalità, Lubomirski.-
Lui scuote la testa con un sorriso incredulo e si porta nel camerino il vestito nero.
Appena esce scuoto la testa con rassegnazione. 
-Il nero non va bene.-
Le donne si voltano, espressione perplessa, rughe comparse sulla fronte, risultato di aver notato che sono ricoperto dal nero da capo a piedi. Loro non capiscono e io non mi sento in dovere di spiegare. 
Aleks alza gli occhi al cielo. -E io che pensavo che portarmi dietro Magda sarebbe stato stressante.-
Ignoro i suoi deboli tentativi di protesta e osservo la tonalità dorata della sua pelle, ambra che al sole sembra quasi cosparsa di minuscoli granelli di sabbia che brillano al sole. Il nero rende su di lui, certo, sul suo corpo pieno e sul talento che ha per indossare abiti di una certa portata.
Ma c'è un colore che gli starebbe ancora meglio.
-Il nero no.- ripeto.
Sta per argomentare una colorita risposta con tutti i grammi di disappunto che i miei dinieghi gli hanno fatto montare dentro. Riesco a riconoscere l'ondata che sta per riversarmi addosso da come apre la bocca, dagli occhi di una vitalità disarmante, dalle braccia allargate.. Prima che dal camerino accanto al suo spunti un ragazzo. Che più che un uomo sembra un folletto della Cornovaglia -quei piccoli esserini blu di Harry Potter- un po' troppo cresciuto, ma non abbastanza da arrivare con la punta del suo cranio oltre l'anca di Leks. Basso, tozzo, con la giacca che stringe pericolosamente i suoi notevoli bracci carnosi e il pantalone lungo di almeno due metri in più delle gambe. 
Sposto lo sguardo dal tipetto, che non avrà più di vent'anni, ad Aleksander, che lo sta fissando nascondendo senza grandi risultati una smorfia di profondo raccapriccio. 
Portano lo stesso vestito, dello stesso taglio e per di più, dello stesso colore.
Passo un braccio sullo schienale del divano, aggiusto il didietro in una posizione più comoda e raddrizzo la schiena. Squadro il diciottenne davanti a me con superbia e gli faccio segno di parlare con un sopracciglio che è diventato l'Arco di Trionfo. Sono proprio curioso di sentire cosa avrà da dire.
-No, questo nero no.- scuote la testa con devota convinzione. -Decisamente no.-
Mi alzo e poggio un fianco al muro accanto a lui. 
-Fai come farebbe Karolina se un'altra persona avesse addosso il suo stesso indumento- mi passo l'indice sulla gola con teatralità. -O, se non vuoi sporcarti le mani, c'è sempre il Deep Web.-
-Il Web che?-
-Il Deep Web- scandisco distrattamente. Sento solo silenzio dal corpo vicino al mio e volto il viso verso quello che ora ha assunto la forma di un punto interrogativo. -Non sai cos'è?-
-Dovrei?-
-Beh.. non è che lo trovi scritto sulle scatole dei cereali, però..- Sospiro e poggio la schiena alla superficie giallo pallido che mi sta sorreggendo. -Esiste il World Wide Web, che è la rete aperta e accessibile a chiunque da qualunque piattaforma presenti la possibilità di connettersi, ed è il Web di superficie con tutte le stronzate che tu conosci molto bene. Poi esiste anche il Deep Web, che è appunto il Web profondo, quello segreto e non disponibile per ogni tipo di piattaforma dove è presente materiale illegale, come pedopornografia.. complotti politici e non..- 
-E' illegale?- incrocia le braccia, come sempre quando è scettico o anche solo vagamente dubbioso. -Perchè non arrestano le persone che fanno parte di questo.. Deep Web?-
-Perchè non le trovano. Le pagine del Deep Web vengono cancellate ogni tot di giorni e riaprono ogni volta su siti diversi. E' in continuo movimento e in più non tutti possono accedervi, ci vuole un programma.-
-Un programma? Del tipo.. scaricarti la nuova versione di Microsoft Word?- quando fa dell'ironia lo prenderei a testate.
-E' a pagamento.- quasi gli ringhio in faccia.
-Okay tigre..- alza le mani in segno di resa. -E se basta sganciare un po' di money per avere tutto sto.. coso, la polizia non riesce a scovarne gli artefici?-
-Guarda che non scrivi su Google "programma per accedere al Deep Web" e ti si presentano una sfilza di programmi a tua scelta, solo pochi computer ne entrano in possesso e tu, collegando il tuo con uno di questi, accedi al Web profondo.-
-E sentiamo principe- si lecca le labbra con fare cospiratorio, -tu come le sai queste cose?-
Per un attimo ci credo che potrei dire la verità. Guardo le sue labbra. Non ho scordato il loro sapore. Qualche giorno fa non sarebbe dovuto accadere quello che poi effettivamente è successo. E' stata una svista, sono scivolato sul ghiaccio. Se non voglio che si rompa, devo correre più veloce. Devo essere più astuto, e Aleksander rimane Aleksander, non saranno le mie labbra a fargli cambiare idea. Non l'hanno fatto prima, non lo faranno neanche adesso. 
E la verità è sempre troppo ingombrante
-Non c'è bisogno di essere un Serial Killer dichiarato per conoscere certe cose. Basta un po' di curiosità e qualche ricerca.. E sono bravo con il computer.-
-Anch'io sono bravo.-
-Si, per scrivere stati del cazzo su Facebook.-
Non volevo dirlo. O forse si. Scopro che ho ancora risentimento dentro, rancore. Sono bravo a portare rancore, ma la vera padronanza di quest'arte è nata durante il tempo passato dietro ad una porta. Prima ero così incline al perdono che mentre discutevo, per quanto violenta fosse la lite e taglienti le parole che vi volavano in mezzo, avevo già perdonato l'altro. Adesso sento di poter riaprire cicatrici con la sola freddezza di uno sguardo.
-Riguardo a quello, io..-
-No.- alzo una mano ritornando nei pressi del mio amato divano. Cerca di oltrepassare il mio rifiuto di farlo proseguire ma io mi volto ancora scuotendo la testa. -Non voglio sapere niente a riguardo, lascia perdere.- 
Avrebbe voluto parlare e avrebbe voluto che io lo lasciassi fare, ma qualunque cosa ha intenzione di sputare fuori circa il passato non la voglio sentire. Credo che potrei crollare sotto il suo peso. Non sono pronto ad avviare una conversazione in cui si avanzano opinioni sull'inizio della mia fine. Anche se lui non lo sa.
-Il blu ti rende troppo grande, adulto.. Il nero troppo ordinario e professionale..-
-Ci saranno una marea di noiose persone importanti, non voglio sembrare un ragazzino.-
-Devi sembrare quello che sei.- faccio scivolare le mani tra i vestiti scorrendo fra tutti quelli che hanno portato.
-Potremmo vederne degli altri signor Lubomirski..- cinguetta melodiosa come un uccellino la ragazza.
-Ci sarebbe il celeste- azzardo -ma tu..-
-Non metterò mai il celeste su un abito elegante, preferisco farmi tirare i capelli uno ad uno con la pinzetta delle sopracciglia e farmi fare la ceretta all'inguine nello stesso momento.-
Gli occhi cozzano con ciò che le mie mani sfiorano, adagiato sulle mia gambe. Non ho bisogno di alzare la pellicola protettiva per sapere che ho fatto bingo.
-Il bianco.-
-Si ottima ide.. Cosa?!- Spalanca gli occhi come se avesse visto un alieno verde e deforme. -Il bianco, proprio tu il bianco..-
Incrocio le gambe fasciate da un jeans più nero dei miei capelli.
-Ehi, solo perché prediligo un colore non significa che non sappia riconoscere le qualità degli altri.- consegno la stampella alla donna boccolosa per portarglielo. -E il bianco sta bene con la tua pelle e ti rende austero senza modificare e alterare i tratti di un ragazzo di diciotto anni.-
Di un desiderabile ragazzo di diciotto anni.
Lui se lo piega su un braccio, scruta il colore della neve con indecisione. Non credo di averlo mai visto con un completo bianco in un'occasione e non credo che lo abbia mai indossato. Ma d'altronde, a lui starebbero bene anche i boxer verde pisello. E perché i boxer saltano fuori proprio adesso, per giunta con un colore come il verde pisello?! 
-Avanti.. provatelo. Sembri un condannato che sta andando al patibolo. -sorrido strafottente. Devo ammettere che non vengono bene quanto vengono bene a lui questo genere di espressioni sprezzanti, ma so di star facendo dignitosamente la mia parte di stronzo. -Su Karolina Zimmer, è solo un vestito, se non ti sta bene puoi sempre cambiarti prima che qualcuno ti veda e sarai ricordato a vita come "L'Anticristo del bianco".- 
Alla fine si rifugia nel camerino pur di non sorbirsi ancora il mio sarcasmo spietato in un momento cruciale come questo. 
Le donne, intanto, mi riempiono la testa di chiacchiere su quale cravatta si potrebbe abbinare, sui modelli, sulle fantasie disponibili. Io e già tanto che riesco a farmi il nodo.
Quando Aleks esce, ho la conferma che sono un fottuto genio.
Il colore chiaro fa risaltare l'incarnato della sua pelle e gli occhi di bronzo scuro, i capelli ramati.. E' perfetto. 
-Gira un po'.- lui esegue. 
-Potreste abbinarci una camicia bianca, il look total white le sta..- 
-O una dorata!-  
La moltitudine di voci acute si fondono in un suono indistinto mentre sciolgo le gambe l'una dall'altra, mi alzo e mi avvicino a lui che mi scruta come se fossi uno strano fenomeno non ancora abbastanza chiaro.
-Adesso si..- mormoro abbottonandogli qualche bottone della giacca sull'addome. Poi le mie dita salgono, leggere come vento, vicino al collo, sul colletto della camicia. -Ma senza cravatta.-
Le labbra gli si incurvano all'insù, un sorriso diverso da tutti quelli che gli ho visto sulla faccia oggi. Sembra disorientato, ma negli occhi ha quasi una scintilla compiaciuta. 
-Mio padre mi uccide se non vede la cravatta.-
-Verrò al funerale.-
Indietreggio proprio quando le sue dita stanno per allungarsi verso i miei polsi. Sorrido. Forse mi sfugge qualcosa di provocante sul viso quando mi porto le nocche sulla bocca, nascondendo la perversa piega delle mie labbra. La vedo nei suoi occhi e nelle filigrane d'oro che li attraversano.
Ormai avrei dovuto saperlo che lui otteneva sempre ciò che voleva.
Una pressione sul polso e un piccolo strattone mi riportano così vicino a lui da essere investito del suo "One Million" ancora prima di stabilizzare l'equilibrio. 
-Vieni con me- Sento le parole condensarsi in aria calda contro l'orecchio. -Al ricevimento, vieni con me.- reprimo con barbara audacia un brivido.
Mi volto per incontrare i suoi occhi. Non sta scherzando. 
-Perchè dovrei?-
-Mmm..- tamburella con l'indice sul mento mentre fa un passo indietro. 
-Non hai un valido motivo per accontentarmi?-
Ne avrei mille di motivi per accontentarti. Il dettaglio che tu sembri non tenere in considerazione caro Leks è che noi qui, insieme, siamo solo di passaggio. Tra tre settimane usciremo dalle porte del liceo e non sapremo più neanche come ci chiamiamo. Non saremo disposti a ricordare più niente di tutto questo, presi così come saremo dal nostro futuro, o dalla nostra sopravvivenza. E non credo di essere disposto a farmi coinvolgere nel percorrere una strada secondaria che presto finirà.
-Ringrazia che ho validi motivi per far spendere un po' di soldi ai miei.-
-Splendido.-
Ma io sono un inguaribile masochista, e se c'è qualcosa che nessun psichiatra, pillola, cura, circolo potrà mai cancellare, è proprio questa tendenza a buttarmi a capofitto nelle situazioni, senza riserve, senza secondi piani. Forse non è l'ingenuità che ti fa fare lo stesso errore due volte, forse è la voglia di vivere. E vorrei tanto che esistesse una cura per questo.  
Mi spinge verso un altro camerino e parla animatamente con la signora che si stava per arrampicare sul mio divano con i suoi boccoli. Mi mancano già le mie natiche spalmate sui cuscini.
-Taglio chiuso,- 
-Aleks.-
-Lunghezza normale,- 
-Aleks..-
-Vita stretta,- vita che!?
-Nero..-
-Aleks mi stai inquietando.-
-Entra, spogliati.-
Mi spinge dentro con la delicatezza di un bisonte inferocito. 
-Se vuoi ti aiuto.-
-No grazie credo di potercela fare benissimo da solo.-
Mi passa una camicia nera e un completo scostando un po' la tenda rossa che mi copre alla vista. In che modo mi sono fatto trascinare a un ricevimento tra pomposi ricconi con sigari da dieci zloty ciascuno?
Un mese fa ci avresti partecipato anche tu.
Un mese fa, prima che la mia media smettesse di essere brillante e che rifiutassi ogni tipo di percorso impostatomi dalla mia famiglia. Prima che smettessi di essere un Santorski e iniziassi ad essere solo Dominik.
Dovrei comportarmi come se non fosse cambiato niente? Atteggiarmi come qualcuno che punta al top per il suo futuro, quando la realtà é che è già tanto se so che arriverò a domani?
Esco ed evito accuratamente di incontrare il mio riflesso in qualunque superficie riflettente. L'unica cosa decente è che continuo ad essere ricoperto dal nero da capo a piedi.
-Posso metterti la cravatta?- il tono malizioso con cui riesce a pronunciare una frase che potrebbe essere associata al tempo di oggi mi fa fremere. Nella zona ventre. 
Merda.
-Se lo fai..- mormoro nello stesso tono, come se gli stessi proponendo un'orgia a quattro, -ti taglio le mani.-
-Se io non metto la cravatta, tu la metti- mi circonda il collo con il tessuto scuro a mo' di cappio, -andata?- 
Abbasso lo sguardo sulla sua mano testa verso di me. E la stringo. 
-Non posso credere che mi sono lasciato convincere..- 
Mi direziona davanti lo specchio. 
-Tanto ci dovresti essere anche tu.-
-Prima- puntualizzo.
-Prima, e adesso la tua lingua è diventata ancora più tagliente, li farai impazzire.- 
Annoda velocemente la cravatta e riesce a partorire un nodo decente come io non riusciró mai. 
-E guardati.- 
-Non mi piacciono gli ordini.-
-Non mi piace chi non li esegue.- mi spinge il mento con due dita costringendo al mio viso di trovarsi dinnanzi al proprio riflesso.
-Poi, perchè non dovresti?- 
Lo accontento, giusto per non sorbirmi la spiegazione dettagliata di quello che ha subito l'ultimo Cristo che non lo ha ascoltato. 
Quello che vedo è l'immagine di un ragazzo alto, slanciato, la pelle come seta di neve, i lineamenti morbidi, la linea delle labbra voluttuose, ciglia e sopracciglia nere, le prime folte, le seconde sottili e arcuate.
Mi rendo conto solo osservando il mio corpo accentuato dal modello della giacca e dal taglio dei pantaloni che il tempo sta passando realmente. Il corpo è magro, ancora troppo, ma i segni del digiuno e dell'ospedale sono quasi completamente svaniti. Le occhiaie persistono, caparbie, ma anche l'insonnia e stipulando un patto sono riuscite a resistere entrambe sul mio fisico. Il resto peró non è male, osservando la vivacità degli occhi e la reattività dello sguardo. 
Non ho più l'aspetto da.. qualcuno che si è ucciso.
Ma il suicidio c'è l'ho dentro. Scorre insieme al sangue, forse più veloce, si veste del sarcasmo gelido con cui spesso taglio di netto le conversazioni, fa capolino nella notte come un mostro annidato sotto il letto che aspetta solo quell'attimo di vulnerabilità per attaccare, si amalgama con il silenzio che rimbomba nelle caverne delle mie parole, lo vedo, come un viso distinto, sul rosso del mio labbro inferiore. Ed è quando alla mia persona se ne sovrappone un'altra, bramata come il Paradiso, dannata come l'Inferno, che decido che non voglio guardarmi più.
Le donne fanno qualche commento, sembrano apprezzare e a me basta che il vestito sia guadabile, il resto puó attendere.
Alla cassa intesto tutto sul conto di mio padre mentre Aleksander sfodera una carta di credito come un'arma. 
Anzi, la tira fuori con maggior soddisfazione.
Appena rivedo la luce del sole, sano e salvo dalle grinfie dello shopping da bancarotta, Leks mi imprigiona con lui in una tavola calda dall'altro lato della strada perché aveva un "certo appetito".
Non avevo capito che il "certo appetito" rappresentava il nutrirsi di tutto il menù più le cameriere e i tavoli del locale.
Mentre lo guardo ingurgitare ogni contenuto dei dieci piatti che si trova davanti mi domando quand'è stata l'ultima volta che ha toccato cibo. Credo che abbia mandato giù anche qualche forchetta.
-Aleks i piatti non si mangiano..- dico come se stessi parlando con un bambino seduto per la prima volta a tavola.
Lui per tutta risposta mi spiattella in mezzo alla faccia il medio. Che classe.
Lancia un'occhiata quasi compassionevole alla tazza di thè nero su cui poggio una mano. 
-No, sul serio, mi rifiuto di credere che ti abbuffi così tanto e hai quel corpo.-
-Che corpo ho?-
Sto per aprire bocca e rispondergli quando le sue labbra camuffate nella malizia più sfrontata mi fanno risigillare i denti e mandarlo a quel paese sottovoce prima di avvicinare la tazza.
-Hahaha.- sghignazza -Attento a quello che dici- esclama soddisfatto, - ogni parola potrebbe essere usata contro di te.- 
Riuscirei a prendere la forchetta che sta usando per rimpinzarsi e infilargliela in un occhio?
-Comunque, mio padre mi obbliga a seguire una dieta rigida per via del Judo visto che sono nell'agonismo.- Ritorna al suo cibo, mi guarda mentre spilluzzica il pane. -E quando lui non c'è mi piace strafare.-
-Quindi lo fai a dispetto?- sbuffo con insofferenza adagiando la schiena contro lo schienale. -Una sorta di ribellione post crisi adolescenziale?- 
Aleks mi scruta con circospezione prima di sillabare con dovuta noncuranza: -può darsi.-
Il silenzio attanaglia i suoi denti nello spazio intorno a noi, rendendo colui che mi è difronte molto più lontano di quanto effettivamente è. E' un silenzio rumoroso, chiassoso, invadente quanto i suoni alterati della musica tecno e fastidioso altrettanto. Ricco di parole, ci impedisce di pronunciarne neanche una. Disseminato di ricordi, è troppo doloroso per poter essere ricordato. Sono quei silenzi che voglio e nello stesso diffido tra noi, quei momenti in cui potremmo dire così tante cose che preferiamo nasconderci nel nostro mondo, nella nostra terra sicura dove siamo gli unici re piuttosto che guardarci in faccia e dirci la verità. Non scenderemo mai dal trono, richiederebbe una temerarietà che non abbiamo.
E' nel silenzio che Sylwia affonda in me in tutta la sua arte, lavorando nelle profondità del vuoto che non posso colmare. 
E cosa si prova a vivere, Dominik?
Già, cosa si prova a sapere che sarai sempre inadatto, distante, sfocato come la nebbia e denso come il fumo? Cosa si prova ad essere un perenne incompreso in bilico tra macabra incoscienza e contorta sfrontatezza?
-Cos'è?-
Se sussulto, non lo do a vedere. Stringo tra indice e pollice un disco bianco che non mi ero reso conto di aver tirato fuori. Alcuni gesti sono dettati da un'automa ormai.  
Abbasso lo sguardo sulla pasticca, poi su di lui. -Droga.-
-Ah-ah, come siamo simpatici laggiù.-
-Tu non hai mai preso una pillola?- dico tranquillamente. 
-Si, integratori e roba simile..- 
-E io sedativi per dormire.- o almeno provarci.
-Devi essere sedato per dormire?-
Ah tesoro, io devo essere sedato per qualunque cosa. 
-Ma prima hai bevuto un..cappuccino grande quanto un boccale di birra, e nel cappuccino c'è caffè o sbaglio?- alza le sopracciglia in un'espressione eloquente.
-Tutti abbiamo la nostra ribellione.- 
e ma la butto in gola. 
-Allora..- la tazza è estremamente interessante. -Tu e Magda..?-
-Io e te..?- imita l'accortezza nella voce e il disinteresse che ostenta ogni cellula del mio corpo. All'inizio penso si stia solo divertendo a farmi il verso, ma poi me lo trovo vicino, stravaccato sul sedile color pesca accanto a me per impedirmi il passaggio e io mi ritrovo incastrato fra lui e la grande vetrata che da sulla strada, -e quel bacio.-
-Quel bacio cosa.-
-Cos'ha significato?-
-Cos'ha..- piantato sulla difensiva erigo mattoni su mattoni. -Deve aver significato qualcosa?-
Aleks fa uno strano grugnito che sa di allegria e impazienza e si avvicina saltando col sedere mezzo metro più in qua. E io salto mezzo metro più in là. 
-Quindi tu mi vuoi dire che sei un divulgatore di baci universali? Baci chiunque ti capiti a tiro?-
Quando lo schermo della mia mente decide di proiettare l'immagine del suo sedere poggiato comodamente su un letto, so che devo fare qualcosa. Qualsiasi cosa.
-Ssi.. Si. Computer, cuscini, statue..-
-Statue?-
-Mai provato? Beh dovresti.-
Vorrei poterci leggere qualcosa in più negli occhi che mi para davanti schermati da qualsiasi intrusione esterna come gli occhiali schermano dai raggi del sole, ma si limita a scuotere la testa e sulle sue labbra troneggia un suadente sorriso. 
-Cosa devo fare con te Santorski...-
E' normale che al solo udire la sua voce improvvisamente scesa di otto ottave e divenuta bassa e roca un brivido mi parte dalla base del collo fino al fondoschiena? Fingiamo che lo sia, normale. E beiamoci pure della mera, surclassata illusione che sia estremamente normale, totalmente riscontrabile nell'ordinario il mio corpo che si apre un varco nel suo negarmi la fuga passando, arrancando, scivolando tra quei centimetri che distanziano il bordo del tavolo dalla sua presenza e io che, volutamente o non volutamente, nolente e volente, mi alzo lasciando che il mio tentativo di sfuggire gli sfiori ciò che è del suo corpo, guardandolo negli occhi, approfittando dell'attimo in cui la sua vista incontra la mia per determinare la vittoria di Perseo sul labirinto di Cnosso. 
In poche parole, mi sono mezzo strusciato addosso a lui per passare. E l'ho fatto di proposito. 
Mi avvio verso l'uscita senza voltarmi, spalanco con una spallata la porta e scelgo di attendere il proprietario dell'auto con cui in teoria dovrei tornare a casa, gli occhi al di là della strada. Mi basta identificare una zazzera sciolta di lucidi capelli biondi e una chioma più scura e liscia per capire chi ho riscontrato sul marciapiede opposto. C'è un fiume di cemento a separarci. Un fiume su cui sfrecciano macchine, ma non abbastanza veloci. Lo scampanellio della porta, tre figure che si uniscono a quelle due, una spinta, un uomo e una donna vanno loro incontro, si conoscono, ho la voce di Aleksander sulle labbra, risate, le sue labbra a sfiorare le mie labbra mentre sibila una parola a voce talmente bassa che sembra uno scherzo del destino. 
-Baciami- e mi ritrovo sette lettere impresse a fuoco.
Labbra su labbra. Ancora. 
Corpi che sfiorano corpi. Nuovamente.
Respiri dentro respiri. Sempre.
Occhi negli occhi. Da brivido. 
Non so se avete mai provato a danzare sulla bocca di qualcuno osservando a qualche insignificante centimetro di distanza ogni, più piccola, luminosa emozione che attraversa, che splende nelle iridi dei suoi occhi, di occhi di bronzo che mi stanno letteralmente folgorando con la forza con cui sono puntati, piantati, insinuati nei miei, sconcertati, sorpresi, ma aperti. Aperti i miei, aperti i suoi mentre scosse elettriche mi divorano dentro con la ferocia di un leone affamato e l'improvvido deleterio del filo spinato su cicatrici ancora rosse.
Da le spalle alle figure che grazie alla mia vista periferica -perchè altrimenti non ci avrei capito un beato nulla- vedo si stanno dileguando, allontanandosi nei colori delle vetrine e io lo lascio fare, lascio che la sua mano salga, che il cappuccio scenda sulla mia fronte, che i vestiti mi si appiccichino addosso con il dispetto delle fitte gocce di pioggia che si insinuano nei vestiti. La mia lingua gli entra dentro con selvaggia insofferenza, le sue labbra si schiudono ulteriormente per accoglierla, pronte, come nel riflesso di uno specchio già studiato, calde, incoscienti spericolati, sento i muscoli della sua schiena sotto il palmo della mano e un tonfo secco mi segnala che le buste dei miei acquisti sono andate ad osservare in un incontro ravvicinato il marciapiede. 
Inventeremo che è stato un caso, inventeremo che c'era un cielo troppo grigio e un'acqua troppo fredda, inventeremo che eravamo deboli, piccoli, in preda agli ormoni, inventeremo che Marte era nella sesta Luna e subiva le influenze negative di Mercurio, tra qualche giorno inventeremo una storia che giustifichi questo, l'incontro di due universi che una volta erano uno solo, la collisione di rimorsi e parole, inventeremo persino che avevamo una ciglia negli occhi e per questo avverto il calore sprigionato dal suo corpo sotto il tessuto troppo sottile della maglia, tanto prima o poi ci crederemo a quello che racconteremo agli spettatori di uno spettacolo che non prevedeva la scena di me che ti spingo contro la carrozzeria della tua auto e di te che mordi il territorio dove hai piantato artigli, prepotenza e denti, che spingono nella carne morbida che si fa martoriare da te, ancora da te, sempre da te. 
E proprio così mi costringi ad allontanarmi da te, ancora da te, sempre da te. Il tuo è un dominio relativo, la mia è un'attrazione relativa, il nostro bacio, è relativo. 
-Non volevi che ti vedessero con me?- soffio sulle sue labbra.
-Non volevo che mi vedessero punto.- Si accende una sigaretta ma non se la porta vicino. -Magda e Karolina più i miei genitori? Combinazione da film horror.-
I suoi denti incidono la carne proprio dove l'hanno fatto due giorni fa quelli del più grande, glorioso, indimenticabile sbaglio della mia esistenza, freschi nella memoria, incancellabili nell'anima.
-Chi è stato a farti questo principe?- mormora con il suo fiato di vaniglia che mi manda fuori di testa. -Con chi mi devo litigare?-
La realtà, che ci piomba addosso come ogni volta con i suoi artigli rapaci. La realtà sempre più confusa, caotica con i colori che vanno mescolandosi in una tonalità strana ed illeggibile sul quadro che un tempo chiamavo vita.
-Ho flirtato con la morte.-
Avrei giurato che il sorriso di Leks fosse una piega forzata della bocca che non aveva alcuna voglia di sollevarsi all'insù, ma poi la stessa faccia inspiegabilmente briosa, animata da un'elettricità che posso sentire anche io,  mi accompagna fino allo sportello della macchina che spalanco con poca delicatezza. Ho l'argento vivo in corpo. 
-Devo prenderla a cazzotti?-
-Puoi provarci.- 
Ho persino le buste della "spesa" in mano. Non ricordo neanche di essermi preso la briga di essermi voltato a prenderle. Ogni neurone svolge un compito diverso, schizzano di qua e di la come cavalli impazziti, mucche alla deriva e pecore belanti senza un filo di lana. Poi ci sono quelli che si isolano negli angoli (forse ho una mente quadrata) e si dondolano sulle ginocchia in preda alla disperazione più abissale, quelli che si fanno prendere dal panico e intaccano la mia capacità di concentrazione, i risoluti che si danno un gran da fare per cancellare, inabissare, occultare gli ultimi, deliranti avvenimenti, i ricercatori, mancati scienziati della mia mente che premono per capire che cazzo sta succedendo dentro e fuori, perché l'universo sembra all'improvviso impazzito e gli adoranti rincoglioniti che stanno delicatamente appoggiati ai davanzali delle finestre dei miei fili cerebrali e sospirano con aria romantica. E' tutto un gran casino.
-E' pericolosa?-
-Ha insegnato al sottoscritto tutto ciò che sa.-
-Sinceramente?- mette in moto con l'aria di chi la sa più lunga di quanto dia a vedere. -Credo che nessuno possa insegnarti ad essere quello che sei sempre stato.-
Mi lecco le labbra. -Pericoloso?-
Schiocca la lingua. -Fatale.-
-Aleksander Lubomirski che mi trova fatale.. Questo si che sarebbe da sputtanamento.-
-Ehi, hai una fiamma forte- si protende verso di me, così vicino che l'aroma del suo profumo costoso mi risale sulle braccia come un fiume anomalo, -ma non è detto che io sia disposto a bruciarmi.-
Non gli guardo le labbra neanche una volta, credetemi. E nessun'altra.. soda parte del corpo. Il passato è uno spartito di una melodia che non sono disposto a suonare una seconda volta.
-E per la cronaca, non mi piace che ti debbano sedare.-

 

 

***

 

Le stanze sono silenziose, in casa non si muove una mosca, una foglia, un filo di vento o il cartone del latte, sono solo le sette e i miei non torneranno prima delle nove, cosa che mi lascia infastidito ed irritato perché questo significa che i pensieri possono decantare da una parte all'altra indisturbati.
Apro l'acqua della doccia, cerco di regolare la temperatura invano perchè so già che è un'impresa più che impossibile se non entro. Mi spoglio e intanto sorrido come l'emerito rincoglionito che sento di essere in questo momento mentre nel riflesso del grande specchio del bagno c'è un ragazzo pallido, magro, dai capelli nerissimi che sorride come se non ci fosse un domani. 
Mi ha baciato. Ho risposto. Mi ha toccato. Gliel'ho lasciato fare e quasi non svengo nel vedere il rigonfiamento dei jeans che pare mi saluti dal vetro con un'espressione strafottente sotto il tessuto nero e lo scherno di essere punto e a capo come se niente fosse accaduto, come se non avessi contato fino a dieci e tentato di ammazzarmi, ammazzare la mia vita, uccidere ogni maschera che vedevo indossata con maestria dai volti che un tempo consideravo amici, distruggere tutto ció che conoscevo, annientare le menzogne e le verità, disintegrare come un vaso di cristallo chi ero diventato pur di fingere che tutto andava bene, che sorridere quando dentro volevo solo morire andava bene, dimostrare al mondo che non potevo essere rotto, sconfitto, ferito, disilluso. Dimostrare al mondo che non ero umano. E invece, signori e signore, Dominik Santorski, un Santorski, l'esempio vivente dell'amore vincente, del successo, dello sfolgorante firmamento della perfezione, più umano di chiunque altro, cade, si sfracella al suolo, piazza il broncio e addirittura sanguina. E si eccita al solo pensiero di Aleksander Lubomirski.
L'ho detto. L'ho detto e lo ripeto che mi fa una rabbia boia la prova concreta, puntuale che alcune cose non cambieranno mai, neanche dopo quattro giorni di coma per overdose da tentato suicidio. Mi libero degli indumenti, lascio che l'acqua lambisca i muscoli contratti della schiena mentre dinnanzi a me prendono forma le sue labbra sottili, da uomo, l'aroma della sua pelle alla vaniglia nascosto sotto uno strato di costoso profumo maschile, il suo corpo disegnato dalla mano di qualcuno che sapeva il fatto suo con la matita in mano, la voce, calda, invitante, da orgasmo. 
Sto pensando ad Aleksander mentre mi faccio la doccia, non credevo potessi scendere così in basso, ma sto persino ridendo dentro avendo la certezza che la pressione lieve e pesante delle sue labbra sulle mie, la mano da qualche parte sulla mia nuca con le fredde gocce di pioggia dell'ultima primavera che giocavano a rincorrersi sui nostri visi accaldati, erano reali. E immagino le nostre lingue ancora intrecciate, i brividi sotto la pelle che pareva un conduttore di elettricità ad alto voltaggio, a estremo voltaggio, le nostre mani da qualche parte sui nostri corpi, parti che non ho inquadrato bene per via di quella voce, sempre lei, punto fisso della costellazione di pianeti nella mia mente, luna del sole di cui è baciato il suo corpo, i toni caldi del deserto e la decisione del vento in tempesta. E penso a lei, alle parole che prenderebbero vita con il suo colore ambrato nel mio condotto uditivo infuocato dal respiro rovente di frasi sussurrate nel bel mezzo di una notte in cui l'oscurità verrebbe minacciata dal fuoco di orgasmi e lenzuola concenti. E penso alle sue mani, sicure di dove andarsi a posare, sorprese di trovare sgombro l'ingresso di una porta che è sempre stata chiusa da una serratura indecifrabile, inoppugnabile, ma non per lui, mai per lui. E allora l'acqua tiepida della doccia sembra più fredda e all'improvviso più calda mentre le sue gocce sostano sulle nostre pelli scottanti, insinuandosi nei colletti dei giubbini e delle giacche e solleticandoci l'addome mentre le nostre labbra si sfiorano, si toccano, combattono una guerra su un campo in cui le nostre lingue hanno il predominio, scontrandosi e seguendo una traiettoria tutta loro nel tempo dei nostri fiati rubati, il tempo di qualche secondo prima di ricominciare a lottare in una guerra che non vogliamo finisca troppo presto e l'ho sentito, l'ho sentito il suo desiderio, la sua voglia di avermi, di prendermi, di guardarmi e sapere che non sarei fuggito, che non mi sarei difeso, che non lo avrei attaccato. 
Mi passo il bagnoschiuma violaceo sulle mani ed è solo vago il suo dolce aroma agli iris.
Mi ha baciato, mi ha baciato, il campione di Judo, ricco figlio di papà, un papá che è un avvocato di fama nazionale, merlettato stronzo viziato, cinico e insensibile, puttaniere e grande atleta, amante di quei cazzo di skateboard come se fossero motociclette fiammanti.. Lui, il bello, figo, fulgido etero per eccellenza, con la sua lingua nella mia gola. 
Siamo. Nella. Merda. 
Uccidetemi. Subito. 
Occhi di ghiaccio, sguardo penetrante da lanciatore di coltelli, pelle di finta porcellana, labbra rose quanto erano i suoi capelli, qualcuno deve avermi preso alla lettera.
Non ho il viola degli iris sulle mani, ma rosso, il rosso liquido dei rubini fusi, tra le dita, sotto le unghie, rosso sulle braccia come ramificazioni di vene infiammate, un reticolo di oro rosso sulle pareti immacolate della doccia bianca, bianco profanato da impronte rosse, rossa l'acqua che scorre a terra, rossa come sangue, rossa come il mio sangue.
Credo di aver urlato, credo anche di aver fatto un salto fuori per districarmi dall'odore pungente di tutto quel rosso e essere sbattuto con la schiena al mobiletto del bagno quando i miei occhi confusi sono entrati in collisione col rosso per eccellenza, volto magistralmente alla formazione di una, distinta, rossa parola: "samobójstwo".. suicida.
E urlo ancora, con l'odore tipicamente metallico del sangue nelle narici urlo ancora, non c'è altro da fare quando il passato ti troverà sempre, quando non puoi sfuggire alla parte più oscura di te. 
Urlo fino ad avere male alla gola, urlo fino a che sento venirmi meno le corde vocali, urlo fino al non vedere più tracce di rosso, impronte, l'acqua divenuta gelida è trasparente, limpida. 
Ma quel rosso c'era.
Quel rosso non se né mai andato.

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Capitolo 12
*** Certe cose non cambiano mai ***


Dominik 

3 giorni dopo - ore 3.10

 


In momenti come questi il buio non è solo buio, brilla di una moltitudine di costellazioni diverse, una supernova meravigliosa e implacabile. Come in ogni momento come questo che si rispetti grido, sento la mia voce nel mentre dell'impatto con il risveglio riecheggiare tra le pareti invisibili nella notte, la fronte e il collo ammantati di sudore, le ciocche scomposte di capelli attaccati alle minuscole goccioline sulla mia pelle, le lenzuola che creano una gabbia incatenata intorno al corpo e lo sguardo allarmato di mia madre che si precipita nella mia stanza dalla porta ormai sempre aperta. 
E, come in ogni momento, cerca di essere utile, in qualche modo, di comportarsi come la cosa che non è mai stata: una madre.
Ma glielo riconosco, ha tentato in ogni modo di esserlo, di diventarlo, prima e anche dopo, ma non ci riesce e non ci è mai riuscita. E probabilmente è troppo tardi per farcela.
E, come ogni notte, si piega verso di me e come ogni notte io mi scosto bruscamente pronunciando un secco, ansimante, diffidente: 
-Non mi toccare-.
Così lei si solleva, raddrizza la schiena, aggiusta la vestaglia sull'addome e mi domanda: -Sempre gli stessi incubi?- e io non la rispondo mai, non do soluzione al quesito che mi porge ogni notte come un mantra, come un'insolita quotidianità che dovrebbe farmi sentire al sicuro, ma che invece mi opprime.
E' da tre settimane che lo psichiatra sta cercando una cura almeno farmaceutica alla mia perenne e perpetua insonnia e basta osservarmi con un tantino di attenzione per comprendere facilmente che io non dormo da tre settimane. Non importa quante pillole, gocce, respirazioni o calmanti introduca nell'organismo, gli occhi si spalancano sempre allo stesso orario, nella fascia tra la mezzanotte e le tre e quelle rare volte che non lo fanno il mio sonno è tormentato e per niente riposante. Dormire è una tortura.
Lo è sempre stato dal mio instancabile punto di vista in caparbio stato di veglia, ma da quando iniziai a connettermi alla.. a Sylwia, non so più come si dorma, cosa si provi a chiudere le palpebre e lasciarsi andare nella tranquillità di un letto. 
Le coperte sono troppo calde, gli angoli del materasso troppo freddi, la mente troppo ingombra, il silenzio troppo denso. Vi sono così tanti rumori, lamenti, scintille nell'oscurità che non riesco a capacitarmi del fatto che le persone non sentano le profane preghiere di tutti i demoni che popolano la notte.
E osservando sempre più spesso dettagli che un tempo mi sarebbero parsi irrilevanti, afferro che non tutto è come sembra, che anche mia madre deve avere la sua buona dose di problemi con la notte, con il sonno che è da un po' che non colora i suoi occhi.
Tra poco più di tre ore strillerà quella fastidiosissima, irritante checca di una sveglia e tra sole diciannove ore sarò immerso nel patatrac di un "incontro interscolastico" in cui dovrò sorbirmi gli infiniti, interminabili sproloqui dei rappresentanti delle università più importanti del territorio polacco e fingermi addirittura interessato. Come se la situazione non fosse stata già abbastanza pallosa.
Il tutto si svolgerà nella sala di un albergo di lusso, un cinque stelle, e non posso astenermi dal riservare una corsia in penombra e semi nascosta della mente a lei, al come sarebbe estremamente facile introdursi ad un evento tanto popolare, al come sarebbe estremamente facile per me confondermi con la marmaglia di pesci palla che sicuramente azzanneranno il buffet e scomparire, come se non fossi mai esistito.

 

 

***

 

"Perlomeno mi risparmierò lo smoking".
L'ora X è giunta, finalmente il momento in cui mi ritirerò in casa senza dover destreggiarmi tra vassoi carichi di scintillanti bicchieri di costoso champagne frizzante e tavoli in porcellana riccamente imbanditi non è più così dolorosamente lontano.
Spero ci siano i Profiterole. La serata guadagnerebbe drasticamente punti.  
Mi riprometto di andare a caccia di quelle deliziose palle fondenti non appena varcherò quella soglia dorata, ma prima devo capire come uscire di casa, entrare nella macchina con i miei genitori e arrivare alla "festa" senza farmi centrare con un colpo di pistola da mio padre o perforare i timpani dall'urletto disperato di mia madre appena capirebbe che cosa ha in serbo suo figlio per l'importante serata. 
C'è voluto poco meno di due ore per mettermi d'accordo con Sandra, (avrebbero dovuto sequestrarmi anche il cellulare) che, fortuna o sfortuna, si ritrova volentieri a sostenere le nocive follie della mia labile sanità mentale. 
E io adoro le nocive follie che volentieri partorisce la mia labile sanità mentale.
Davvero, avevo tutta la serena intenzione di starmene buono stasera a esibire cordiali saluti e brillanti sorrisi di circostanza a signori in pompamagna e calzini firmati ma, ad un certo punto, proprio mentre facevo scorrere le dita sui bottoni della camicia un geniale, meraviglioso, scoppiettante fulmine a ciel sereno ha invaso il circuito cerebrale più pericoloso dei miei padiglioni mentali: quello della ribelle.impertinente.insofferenza.
E allora vai, non ho potuto far altro che procurarmi un complice sicuro e dare inizio alle danze.
D'altronde, non mi è mai dispiaciuto ballare.
Alla fine sono riuscito a sviarmela in macchina senza che quel grand uomo di mio padre e la sua devota, amoreggiante, signora fredda come Madonna quando le ricordano che ha centocinquant'anni adocchiassero lo scempio che ha creato la mia mente malata. Ci metto tre secondi a spalmarmi gli auricolari nelle orecchie e a far partire una canzone metal dietro l'altra, con le assordanti percussioni e il ritmo poetico. E credetemi, il metal è l'ideale per questa serata. 
Forse anche la poesia.
Dopo qualche decennio sfilo la cuffietta dall'orecchio sinistro osservando il paesaggio scuro che sfoca umido accanto al finestrino.
-Ci stanno seguendo.-
Oh Cristo.
-Beata ti dico che quella macchina ci sta seguendo da quando..-
La cuffietta è tornata urgentemente al suo posto. Conosco questi copioni come se li avessi sentiti dalla nascita, diciotto anni fa.
Ma io li sento dalla nascita. Diciotto anni ti fanno imparare a memoria ogni più fastidioso e raccapricciante difetto di una persona e si e no due pregi, mediocri. 
Non credo che i miei genitori abbiano poi questi gran pregi, altrimenti io e i miei spastici neuroni che ballano al ritmo di hard metal da dove saremmo usciti?
Non ho notizie da Sandra, neanche quando l'hotel a cinque stelle emerge in tutto il suo paradisiaco splendore oltre il viale privato cesellato da alberi tutti uguali, stagliandosi contro il blu del cielo notturno. 
Non le ho detto esattamente cosa fare, non ho esposto i miei grandi piani ad alta voce, neanche per messaggio vocale o di testo, l'ho solamente congedata con una breve frase che potrebbe riassumere pagine intere di parole. E credo di aver reso bene l'idea. Da dove nasce tutto ciò? 
Ah beh.. Diciamo solo che è il momento di lasciare il segno in tutto questa lucente, apparente, sottile perfezione del cazzo. 
Oh, pardon, un linguaggio del genere non si addice all'ambiente: del pene.
Scendo dall'auto e declino l'invito dei miei ad entrare con un veloce gesto della mano. Prima che mio padre capisca che sì, ha scarrozzato anche suo figlio fino a quell'evento e che mia madre riesca a vedere più della punta dei miei capelli, sono schizzato via dietro una fila di cespugli potati ad arte. 
Nell'attesa della persona che sto aspettando le forme di tutte quelle foglie verdi smeraldo cattura la mia attenzione. 
Cespugli, cespugli ovunque. Di, ogni, santissima, forma.
Ci giurerei che uno raffigura una capra. 
Perché.
Non avevo idea della macchina che avrebbe portato la mia complice, non avevo idea di cosa avrei visto una volta che sarebbe scesa, ma non appena lo sportello si apre e una gamba si allunga sul marciapiede, rimbomba nelle orecchie "Paradise", i Within Temptation a tutto volume nella discoteca dei padiglioni auricolari e so che non esiste canzone migliore per il momento che mi appresto a mettere in scena. 
La frase con cui congedai Sandra quando le esposi la mia follia tre ore fa mi danza nella mente, balla sulle note di una melodia arcaica e assolutamente irragionevole mentre la sua generosa figura si avvicina al sottoscritto.
Io l'avevo detto che le avrei reso l'idea con otto, auree parole più che con un'enciclopedia di spiegazioni: "devi sembrare appena uscita da una setta satanica", e sembra proprio che una setta satanica le abbia vomitato addosso. Più o meno la stessa che stasera è diventata la mia stilista personale. 
-Sembri un invasato dark punk gotico!-
-E tu sembri la stessa cosa- conservo il cellulare. -Ottimo lavoro comunque -le porgo il braccio fasciato di pelle nera, -Pronta?-
-E me lo chiedi?!- sorride e mi tira verso l'entrata. 
Tranne la moltitudine di fumatori o coppiette, i veri invitati sono all'interno dell'immensa sala dell'hotel, tutti i più rinomati licei e università polacche sono all'interno di queste quattro mura d'avorio e noi stiamo per fare l'entrata più disastrosa che potevo mai inventarmi. Diverremo emarginati dall'alta società prima ancora di farne effettivamente parte, credo che un record così non si era mai visto. Ma ehi, mi sono stancato di fare il soprammobile di porcellana, adesso voglio provare l'ebbrezza di scendere dalla credenza in vetro di mia madre. 
Ancora con le cuffiette nelle orecchie (che non ho alcuna intenzione di togliere), i Within a continuare il loro ancestrale tornado di chitarre elettriche, violini e voce da soprano.

What about us?
Isn't it enough,
No we're not in Paradise

Entriamo.
No, decisamente non siamo in Paradiso.
Il tempo di tre passi e ci stanno guardando praticamente tutti, ogni paio di occhi adornato da ombretti rosa, viola, argentati, da occhiali dalla montatura fine in osso rosso o dalle ciglia arcuate fino alla fronte, è puntato come la punta di un fucile su di noi, che avanziamo come se stessimo facendo una sfilata di Cavalli.  
Forse le signore stanno ammirando la stretta maglia nera di Sandra con spallina in pizzo e l'appariscente teschio scarlatto all'altezza del seno con la vivace e adorabile scritta "All die", o magari stanno valutando la consistenza del jeans che ho indosso sulle mie gambe, e, a dirla tutta, forse si vedono più le mie gambe che il jeans, strappati praticamente dovunque e uno spiffero freddo mi ricorda che uno strappo è presente persino sotto la linea di un gluteo. Probabilmente mia madre, con la bocca spalancata e gli occhi fuori dalle orbite, non sa se vomitare per le maniche in rete consunta sulle braccia della ragazza che ho accanto o i guanti bucati da motociclista emo neri e rossi che ho alle mani con tanto di impeccabile smalto nero, mentre mio padre e la sua arguta intelligenza non si perdono la spettacolare ciocca rosso fuoco tra i capelli di Sandra che scende, come una purpurea treccia, sino alle calze a rete bucate e agli stivali con catene incorporate che tintinnano come quei film horror da quattro soldi con i lamentosi fantasmi nei castelli. Abbiamo dinnanzi un pubblico molto numeroso e la metà di questi brutti ceffi la conosco. Compagni, ragazzi incontrati nei corridoi, ex amici, genitori degli ex amici, presidi, dirigenti, insegnanti. Si, ci siamo avvicinati egregiamente al fondo dello squallido considerando che mio padre sta tentando in ogni modo di convincere i suoi vicini che io non sono suo figlio ma un "altro Santorski", e l'espressione feroce del Signor. Lubomirski che mi osserva come se avessi davvero disegnato una stella a cinque punte sul pavimento in marmo e mi fossi messo a ballare qualche strana lingua intorno al fuoco. 
Pensavate davvero che avrei finto cortesia e interesse quando l'unica, fottuta cosa che voglio è avere la forza di respirare ancora e di concentrarmi perché continui ad avere la voglia di farlo? 
I genitori della mia "accompagnatrice", con una ruga per tutto il disappunto che provano in questo preciso istante per la figlia e per il suo "istigatore", è accentuato dai cenni di diniego della madre e dalle occhiate furtive di suo padre che cerca di captare qualche segnale che gli indichi se qualcuno abbia sospettato una sorta di parentela fra loro e la ragazza con l'ombretto nero fino alle tempie e il rossetto color prugna sulle labbra. 
Invece c'è qualcuno del gruppo di Sandra, tra cui Dawid, il re delle frasi fatte, che si indicano varie parti del corpo e ci fanno okay con le mani. L'ultima cosa che vedo prima di inoltrarci nel corridoio di gente che si fa da parte per farci passare come se fossimo affetti da un qualche virus estremamente contagioso è uno di loro che mi indica, si indica gli occhi e batte le mani estasiato. Embè, l'eye-liner è il mio forte. 
Forse ho esagerato a farmi un centimetro e mezzo di riga nera intorno, dentro e sugli occhi, ma mi piaceva troppo e mi è sfuggita la mano. Per poco non mi disegnavo i ghirigori sul viso con i colori dell'arcobaleno. Forse non avrei dovuto nemmeno indossare il giubbino nero di pelle che mi lascia scoperto tre dita del giro vita. Ah dimenticavo, i Jeans sono a vita bassa. 
Oh. porca. troia. mi. sto. divertendo. troppo.
Una donna si è versata lo champagne addosso nella foga di prendere il cellulare per immortalare questo solenne momento e la madre di Aleksander sembra Madre Teresa di Calcutta che vuole e cerca di comprendere a tutti i costi anche le anime più peccaminose.
Ho l'impressione che dopo questa bravata ho un posto in prima fila all'inferno con su scritto il mio nome sopra. Assicurato.
-Ehi Lubomirski- appello ad alta voce, e so esattamente quale Lubomirski si volterà, -ci sono i profiterole?-
Aleksander si sta praticamente facendo in quattro per non leccare a terra dalle risate, e il risultato è che si tiene la pancia come se fosse incinto ridendo come un ossesso pazzoide. Trova la delicatezza di annuire in risposta alla mia domanda e sussurro un -E tu che volevi metterti un banale vestito- prima che io e Sandra ci separiamo, andando incontro alle nostre dosi di problemi dopo ciò che abbiamo fatto.
-Sembri Ozzy Osbourne nei suoi momenti peggiori..- mi poggia una mano sulla spalla conducendomi al tavolo dove mi aspetta il senso della serata: i Profiterole.
-Dio come cazzo ti è venuto in mente..-
Faccio ticchettare gli anfibi fino a quelle deliziose palle scure grondanti di panna e crema.
Sento ancora sguardi in balia dell'argento delle borchie della mia cintura o del rosso con cui ho colorato metà del mio ciuffo.
Aleksander continua a sghignazzare indicando un ragazzo dai capelli color del grano che si fa largo tra tacchi e borsette. 
-Samuel, il presidente del tuo fan club.-
Samuel gli tira un schiaffo in testa così forte che metà viso della stella del Judo affoga nel punch, prima di concedermi un solare sorriso. 
-Dominik, entrata trionfale.-
-Di certo non è passato inosservato..- mormora Leks in preda ad un nuovo attacco di ridarella. Si sta davvero divertendo.
-I miei genitori di certo non l'hanno perso d'occhio neanche per un secondo-.
-Perché i miei? Erano sconvolti- e ricomincia a far vibrare le corde vocali in una sonora risata fino a quando io e Samuel non lo guardiamo con insistenza, lui alza una mano agguantata da Rolex e ci fa segno che si riprenderà presto, nascondendosi alla vista. 
E' inutile che finge di avere la situazione sotto stretto controllo, gli stanno per uscire le budella dal naso.
-Chi ti ha truccato?-
La superbia nella sua voce la sento come una seconda presenza che aleggia ombrosamente nell'aria prima che arrivi. Quando mi giunge davanti, mano sul fianco e occhi di pietra, la sento respirarmi addosso.
-Mia madre, si è messa e mi ha conciato a Carnevale- risolini e sbuffi contriti. 
-Beh.- il mento alzato di Karolina è una di quelle immagini che mi porterò dietro per il resto della mia vita -Non sei..affatto male.-
-Ah davvero? Perché non sembrava pensassi questo quando prima ti sei impegnata nel schiaffarti in faccia la smorfia più disgustosamente schifata che sei riuscita a emulare- Alzo il bicchiere che ho agguantato in una sorta di brindisi a lei. -Ah già, ma dobbiamo salvare le apparenze. Beh, la mia l'ho appena persa, ragion per cui..- alzo le spalle con sottile aria teatrale.
-Sei sexy!-
Magda spunta al fianco di Leks come una boa gialla. I capelli biondi stasera sono ancora più biondi. Il mio ciuffo è per metà rosso. Nessuno con i capelli rosa caramella?
Chris fa un cenno a Samuel e Leks. Non capisco fino a quando non intercetto Magda che si appiattisce dietro il corpo di Aleks e Karolina che le brucia addosso con due occhi in stile spilli acuminati da bambola assassina.
Quell'horror l'ho visto. E lo rivedo anche adesso. 
Dopo varie parole, sguardi eloquenti e allegri complimenti riesco ad allontanarmi per appropriarmi dei Profiterole più grandi -sono qui solo per loro- e non mi rendo conto che qualcuno mi ha seguito.
-I tuoi si sono dileguati?
-Perché i tuoi no?- 
Segue un breve momento in cui qualcuno rapisce la sua voce in saluti e cerimonie.
-Se io avessi il tuo coraggio..-
Accenno un sorriso svuotando il vassoio del dolce. -Che faresti che non hai già fatto?-
Uno spostamento d'aria e divento immobile quanto il David di Michelangelo perché se solo indietreggiassi di un millimetro mi troverei a premere col fondoschiena sul ventre di colui il quale si è sporto così pericolosamente verso di me che sembra voglia farmi impazzire.
-Ad esempio..-
-Aleksander..!- 
Ci voltiamo nello stesso istante. 
Aleksander si ricompone con cura come se dovesse incontrare il Papa, la regina d'Inghilterra o Barack Obama, e non i suoi genitori. 
Ora come regola dovrei ammettere la mia voglia di scomparire dopo la cazzata che ho avuto la faccia tosta di inscenare, ma la verità è che volevo proprio le facce inorridite al mio plateale ingresso in grande stile rosso e nero per desiderare di non essere esattamente dove sono.
Al centro della merda più totale.
-Aleksander ti stavamo cercando, il Signor. Snauz ha chiesto espressamente di te-.
-Dominik..- 
Barbara Lubomirski mi allunga un sorriso gentile mentre suo marito sembrava molto più propenso a voler parlare del signor Snauz.
Aleksander sembra aver ritrovato possesso dei propri movimenti e guarda il padre con il chiaro intento di metterlo alle strette e costringerlo a degnarmi di almeno un cenno del capo. 
Aleks, c'è più probabilità che l'acqua si trasformi in vino.
Alla fine deve cedere alla sua ostinazione. 
-Papà hai visto Dominik..-
-Tutti lo hanno visto, mi sembra.- 
E' ammirevole la decisione di come porta avanti quel cipiglio severo sulle labbra simili a quelle del figlio, e non sembrano avere voglia di baciarmi. 
-E' il figlio di Andrej e Beata Santor..-
-Conosco i suoi deliziosi genitori e conosco lui- mi osserva come un posseduto osserverebbe la croce. O viceversa. -O conoscevo-.
Leks non riesce a nascondere il suo roteare gli occhi al cielo spostando il peso del corpo da un piede all'altro, in evidente disagio. Io sto da Dio.
-E come mai questo cambio così..repentino, di look?- inarca un sopracciglio con la stessa arroganza che ho visto incisa in quello di suo figlio così tante volte da averne perso il conto. 
-Nuova conoscenza religiosa? Nuova scelta di vita, o forse nuova visione del mondo? Magari cambiato orientamento sessuale..-
-Marcin- lo ammonisce la moglie avvicinandosi al fianco del marito. E lui non sembra essere uno che smette di girare coltelli nelle piaghe tanto facilmente.
E' il classico uomo che non ammetterebbe di essere raffreddato neanche sotto tortura medievale, figuriamoci ostentare le sue scelte o il suo stile attraverso gli abiti.
Li conosco bene gli uomini come lui, non importa quante bestemmie puoi star gridando dentro, fuori devi sembrare sempre, impeccabilmente, in accordo con il gusto dell'ambiente di cui fai parte, al diavolo gli sconvolgimenti emotivi.
-Diciamo pure che devo l'idea a suo figlio- Aleks volge il suo sguardo verso le mie parole, ma c'è solo vago orgoglio nei suoi occhi. Io provo un certo gusto a pronunciare le parole che seguono: -Mi ha ricordato che certe cose non cambiano mai-.
Ci guardiamo e potremmo stare benissimo così per un altro bel po' di tempo, ma Marcin lo agguanta prontamente per un braccio. -Il Signor Snauz è un uomo molto influente, non è bene farlo attendere Aleksander-.
-Non attenderà- sorride, amabile. -Dominik andiamo?-
Sorrido, adorabile. -Dal Signor Snauz?-
Sorride, affabile. -Dal Signor Snauz-.
Sorrido, spregevole. -E andiamo-.
Seguo il sedere del mio istigatore privato di danni alla comunità e quando passo vicino al cipiglio feroce di Marcin, con il suo sopracciglio accusatore sollevato fino a quella nuvola a forma di tanga che ho visto oggi, so che sto facendo bene il mio lavoro. Cosa che mi viene sistematicamente confermata non vedendo in miei amorevoli genitori in giro. 
Alla fine il Signor Snauz è un uomo davvero influente, dirigente onorario dell'associazione internazionale dell'attività professionale agonistica. Non fatico ad immaginare che il suo pigiama sia un completo color crema identico a quello che indossa ora.
Ho Leks accanto e non posso credere di non aver mai davvero notato la sua capacità di incantare la gente, il talento che ha nel dosare le parole giuste con un tono di voce calmo, rilassato e assolutamente padrone di sè. Per un attimo mi chiedo se non sia Snauz quello che sta cercando di guadagnarsi la sua fiducia. 
-Gli sponsor sono ovviamente parte fondamentale di ogni contratto professionale, e prendendo atto del suo talento e dei titoli che ha già ottenuto nella disciplina del Judo.. Non mi sarebbe difficile procurarle qualche nome Signor Lubomirski..-
-Sarebbe splendido-.
Vanno avanti per un tempo che oscilla tra i cinque e i dieci minuti. Per me e il mondo attraverso il nero di un eye-liner cinque o dieci ere geologiche. 
Scorgo Sandra tra la folla in ghingheri, non difficile da individuare, si udirebbe lo sbatacchiare delle catene dei suoi stivali anche a cinque chilometri di distanza. Anche Google Maps ci troverebbe in questo momento.
-E lei è..?-
Mi volto verso il sentore che la domanda sia rivolta a me e scopro che sono comparsi due aitanti individui accanto a Snauz, un'affascinante donna bionda di almeno un metro e novanta e un uomo di non più di quarant'anni con l'aria di chi si trova nel posto sbagliato al momento giusto. 
-Dominik Santorski- rispondo alla donna. Mi allunga una mano adornata di anelli. La stringo e i suoi piccoli occhi si addossano all'aria dissennata che vira intorno ai pezzi di pelle che si vedono attraverso il Jeans. Sai com'è, se vuoi fare qualcosa, falla bene. Se dovevo fare un'entrata storica da un miliardo di dollari, cinque strappi grandi quanto il Madagascar ci stavano. Perfettamente.
-Santorski..- ripete lei facendo sibilare il nome tra la lingua e i denti, come se assaggiasse un qualcosa di difficile catalogazione. -Il Santorski della possibile borsa di studio in letteratura alla Maria Curie-Slodowska University?-
-Si, e anche il Santorski della mentalità dark andante e della matita intorno agli occhi- sorrido come se stessi presentando un curriculum da togliere il fiato. -E' sempre lo stesso Santorski.-
Snauz mi guarda come se fossi un interessante quanto inquietante fenomeno da baraccone, da studiare con estrema delicatezza e previdenze per evitare di venire contagiati da certe stranezze. La donna non so cosa abbia travisato della mia risposta ma ciò che incuriosisce la mia già incrinata pazienza è il viso disteso e sorridente dell'uomo sulla quarantina, che con quell'aria da ragazzino in giacca e cravatta sembra ancora più giovane. 
-E dovreste vedere come si comporta con la Boxe-.
Per poco non sbatto un piede a terra. Che cazzo stai facendo Lubomirski. 
Dovresti renderti ancora più splendente agli occhi dei tuoi possibili datori di lavoro, non mettere me sotto quell'indesiderato occhio di bue.
-Aah anche un atleta..- Adesso Snauz pensa di fare un passo avanti. Non sono più inquietante ora, solo interessante ai suoi spasmodici occhietti. La cosa non va affatto bene.
-Non sarebbe un peccato vederti all'opera..- mi sorride con una fila di denti bianchi da pubblicità di dentifricio. 
-Mi fido del giudizio del Signor. Lubomirski, e lui non è il tipo che elargisce complimenti.- 
-Ah lo so bene..- quindi perché gli viene in mente di elargirli proprio adesso?!
-Dovevate vedere la potenza con cui ha sferrato il primo pugno, una bomba a orologeria- Sta gesticolando troppo per i miei gusti, -appena il preside del Rosiska ha visto il filmato e rimasto talmente impressionato che l'unica cosa che è stato in grado di dire è stato qualcosa del tipo: Santorski Dominik subito dal preside!- 
Uno scroscio di risate e cenni di assenso, la voce del preside imitata abilmente quasi come se fosse stata registrata da un qualche cellulare nascosto durante le ramanzine in classe e la straripante, travolgente, indiscutibilmente ultrasonante voglia di sacrificare uno dei miei amati Profiterole per colpire il grandissimo coglione che sorride come se avesse il mondo in mano precisamente in fronte.
Ricorda Dominik, l'omicidio non è contemplato dallo stato polacco, finisci in prigione se lo ammazzi, ti danno l'ergastolo se lo scuoi vivo.
Imprigiono un braccio di Aleksander con il mio, esibisco un educatamente galante sorriso da "fuga alla velocità della luce" e un cortese -Scusate- e me la svigno portando Aleksander con me.
-Sei stato tu..- soffio, incredulo, non appena siamo abbastanza lontani da non venire assaliti da altri uomini in colonie da cento zloty. 
-Si- mi butta addosso -sono stato io-.
-Perché-.
-Perchè so riconoscere talento quando lo vedo, -risponde con irritante leggerezza, -e sarebbe stato un male sprecarlo-.
-Mi sembra di sentire il "Signor Snauz"- sbotto col sarcasmo che mi esce a secchiate dalle orecchie -e quello non era talento, era..-
-Non mi fotte sapere cos'era- sbotta tranquillo, si porta un cucchiaino colmo di crema alle labbra, -funzionava e funziona alla grande-.
-Tu e quel video avreste dovuto farvi i.. -mi blocco. Una donna grande quanto il tavolo e rotonda altrettanto ha adocchiato la torta con glassa e sciroppo d'acero, -fatti tuoi.-
-Io i fatti miei non me li sono fatti- Si avvicina con ancora il cucchiaio in bocca e lo sguardo efferato di un capobranco. -Problemi Santorski?-
Il bicchiere di champagne ormai vuoto sbatte con poca grazia sul tavolo mentre rispondo ai suoi occhi di ringhiosa superbia con risentimento furente. 
-E se ne avessi Lubomirski?-
Il mondo si ferma, come ora, come allora, perché certe cose non cambieranno mai. Questo è ciò che siamo.
-Leks!-
Piego la testa, devio lo sguardo, il sangue affluisce alle gambe e faccio un passo indietro. Il viso di "Leks" è sotterrato sotto quello roseo di Magda che gli sta divorando le labbra con le sue, calcando ogni centimetro della sua faccia, dalla fronte fino alla punta del mento. 
-Magda devi proprio istigarmi al sesso qui..?- finge di guardarsi nervosamente intorno.
-Tesoro ti sto solo baciando- rinfranca lei con l'aria di una civettuola, irresistibile cerbiatta dagli occhi marroni e il pelo d'oro.
E ricomincia a succhiare le sue labbra, a convergere insieme a lui, l'uno contro l'altro in una danza sfrenata all'insegna della meravigliosa, eterna "passione giovane". Le braccia di lei vanno a circondargli il collo, lui le cinge la vita con le mani e non sembrano ricordarsi che c'è qualcuno a neanche un metro di distanza dai loro visi accaldati. Beh, me ne ricordo io.
Mi allontano senza preoccuparmi di disturbarli, ora come ora neanche se crollasse il soffitto riuscirebbero a staccare quelle ventose. Le cozze sono meno appiccicose di quel francobollo biondo.
Da un vassoio in movimento trafugo un altro bicchiere di champagne. Sarà il terzo della serata, o il quarto, e decido che non ne ho abbastanza. Sull'argento di un cucchiai cerco di individuare gli occhi. L'eyeliner è ancora al suo posto, intatto e integro come se lo avessi appena messo. La classe non è acqua. E neanche Rimmel.
-Santorski, giusto?-
Convengo che devo voltarmi, sarebbe troppo sfrontato non farlo.. maledizione. Abbasso il mio specchio di fortuna e la mia vista si abbatte sull'uomo dalla
perenne giovinezza di poco fa.
-Dominik-.
-Già.. Non capisco questa mania di appellare la gente per cognome, sempre. Come se il cognome fosse più importante del nome stesso.-
Avvisto un' altra montagna di Profiterole. -Quando dovranno mettere la tua identità sulla lapide il cognome servirà.- e sono al cioccolato bianco.
La presenza che si ostina a starmi vicino si libera in una risata commovente. Come mai non è ancora corso via urlando dopo la mia funerea battuta che avrebbe arrestato sul nascere qualsiasi tipo o sotto-tipo di conversazione?
-In quel caso..credo proprio che mi sarebbe utile conoscere il tuo-.
Abbandono momentaneamente la lucida, invitante glassa di cioccolato candido che ammicca da quei Profiterole perché l'uomo che mi squadra con impegno si è appena difeso dal mio macabro sarcasmo con una.. pungente ironia. 
Non all'altezza dell'amaro nero delle mie parole certo ma..non male. Davvero non male.
-Dominik poi è un bellissimo nome.-
Inarco le sopracciglia. -Cos'è, una specie di flirt di serie B?-
Sorride. -Tranquillo, non sono un pedofilo.-
Sorrido. -Sono tranquillo e per la cronaca, sono maggiorenne, non sarebbe pedofilia-.
-Sei tagliente..- sembra quasi un complimento. -Cosa c'è, stai cercando di dirmi qualcosa?-
Sorridiamo. Forse è la smorfia della serata che più si avvicina a un vero sorriso, sia il mio, sia quello che vedo sul suo viso.
Alzo lo sguardo dirigendolo verso i Profiterole bianchi, fulcro costante dei miei pensieri, controllando che non me li abbiano sgraffignati da sotto il naso.
-Ah l'amore..- sospira accanto a me, bicchiere alla mano e mano in una tasca dei jeans. Occhi puntati su Aleks e Magda che amoreggiano indisturbati tra le coppie dei loro genitori più qualche altro fuoriclasse aggiunto. Per nostra fortuna hanno deciso che non vogliono figliare nel salone. 
-A quest'età è qualcosa di..inafferrabilmente epico-. 
Emetto un bisbiglio tra lo scettico e l'infastidito. 
-Si, amore..-
-Non sei d'accordo?-
-Non ho idea di come sia l'amore alla mia età- metto in chiaro pungolando il bicchiere con un'unghia laccata di nero. -So solo che quei due non si amano-.
L'uomo sembra soppesare il valore delle mie parole su una bilancia immaginaria. -Può darsi.. Come fai ad esserne tanto sicuro?-
-Perchè sono attori-. 
Mi avvicino furtivamente alla mia preda. 
-Recitano ruoli che gli vengono imposti da qualcuno più grande di loro e si impegnano affinché persino coloro i quali glieli hanno plasmati addosso credano alle loro stesse menzogne, ossia che è tutto vero-.
Sollevo un piattino. E' tornato ad osservarmi.
-Sembra che ne parli per esperienza diretta, Dominik-.
-Anche io avevo un ruolo ben definito cucito addosso, signor nonsochiseineperchètistoparlando,- di quale Profiterole mi approprio? -ma un bel giorno ho deciso che non voglio soddisfare le aspettative di nessuno che non sia io e seguire solo la mia testa- riempio il piattino di palline bianche, -il che mi porta a presentarmi a una specie di riunione per snob con profumi da cinquecento zloty come un sociopatico appena uscito da una band black metal-.
-Non so cosa abbiano pensato tutti questi snob con profumi da cinquecento zloty, -mi fa un cenno -ma..io trovo che la tua entrata sia stata di grande impatto- continua tutto d'un fiato, -sembravi voler sbattere in faccia al mondo la verità, e cioè che non cambi secondo il volere di niente e di nessuno. Il punto è Dominik, cosa è successo da spingerti a questa fame così..spietata di libertà?-
Lo osservo sulla reminiscenza delle sue parole, che si innalzano nell'aria costruendo colonne di vibranti risposte. Sono ancora troppo lucido. Che razza di champagne annacquato servono in questo albergo?
Libertà. La parola dell'anno, una domanda da cinquecento milioni di dollari.
I suoi occhi sono fermi su di me, ma non hanno quel tono imperioso e accusatorio di quelli del padre di Aleksander, né la mordente alterigia di quelli di Aleksander stesso. Eppure me li ricordano, nel loro castano scuro, hanno qualcosa che condividono distintamente come due animali di diversa razza ma di eguale specie.
Un'occhiata all'altro lato della sala, dove Marcin ride gentilmente alle parole di un qualche riccone, la schiena dritta, lo sguardo dignitoso, colorato da quell'altera luce che ti penetra dentro e accanto a lui Leks, elegante ma con brio nella sua camicia cerulea e i jeans scuri, signore indiscusso dei rapporti umani, la stessa schiena dritta, lo stesso sguardo ardito del padre ma con l'irriducibile fiamma di un regale guerriero e poi l'uomo vivace che si sta intrattenendo con le inorgoglite parole di un ribelle, quell'impavida, nobile luce nelle iridi ammantate del colore della sera.
Il piatto con ancora qualche Profiterole spalmato sopra finisce sul tavolo. -Chi è lei?-
Un astruso sorriso gli increspa la superficie delle labbra sottili. -Uno scrittore-.
Il bicchiere va a fare compagnia al piatto. 
-Non ho mai conosciuto uno scrittore-.
-Oh sai..possiamo essere riconosciuti dalla caratteristica aria del "Non so cosa ci faccio qui ma portatemi via il più in fretta possibile", e anche una certa espressione sognante e vagamente frastornata negli occhi-.
E allora la vedo, la spruzzata di polvere ambrata nei suoi occhi in apparenza neri, le vedo le sue labbra, le riconosco, perché quella forma decisa e adulta l'ho assorbita troppo bene. 
Faccio un passo avanti, e ripeto: -Chi è lei-.
Quelle labbra si distendono, l'oro nei suoi occhi è lampante, allunga una mano nella mia direzione. -Romek Lubomirski-.
-Lo..-
-Zio di Aleksander, si-.
-Ci avrei scommesso, -catturo tra i denti l'interno della guancia guardando verso tutt'altra direzione appena quel cognome si risolleva dalle ceneri, -e avrei vinto-.
Alzo il mento ed egli richiama anche il mio sopracciglio destro all'ordine. 
-Non creda che adesso ritratti quello che ho detto, tra gli snob è compreso anche suo fratello-.
-Lo so- annuisce con allegra rassegnazione. -Marcin non è cattivo solo..molto sul militare andante-.
-Diciamo pure sul dittatore andante-.
Ride di gusto prima di rispondere: -Si, anche quello-.
Guardo muoversi quelle labbra, così differenti e così familiari da frammentare la mia attenzione. 
-Sei perspicace Dominik..-
-Me lo hanno detto-.
-..e leggi dentro le persone- continua come se non lo avessi interrotto, -una qualità non molto comune al giorno d'oggi-.
La tasca destra del Jeans vibra ritraendomi dalle parolone melodiose di Romek Lubomirski. Ciò che c'è scritto sul display del cellulare mi allontana completamente dalla realtà di qualche secondo fa. Pochi caratteri e una sola, indomita sensazione: eccitante pericolo. 
Perché se in una semplice quanto banale frase di un semplice quanto banale messaggio compaiono le parole "Sala" e "Samobójców", "Suicide" e "Room", l'una drasticamente accanto all'altra, per chi le ha conosciute, per chi né è stato stregato, rapito, per chi ha provato l'ebbrezza di queste due parole sulla pelle, non c'è niente di meglio e di peggio a questo mondo. E devi correre, perché tuo malgrado sei un masochista, perché il proibito è infinitamente eccitante, perchè in fin dei conti quel limite lo vuoi superare di nuovo.
-Si beh.. pensi che leggo da quando ho sette anni. Mi scusi-.
Seguo l'insano presagio di quei grafemi attraverso l'elegante sala, i tavoli, le ingombranti, invadenti persone in chignon e giacche di alta sartoria. Molti mi
guardano, ancora non riuscendosi a capacitare dello squilibrio che può portare un ragazzo sulla soglia del diploma e del suo posto nella società a presentarsi con uno smokey eyes (perfetto) e un abbigliamento da punk metal. Mi inoltro in coltri di profumi e aromi fruttati di lucidalabbra fino a trovare la strada che conduce nel corridoio che dovrebbe portarmi nel bagno. E' stato facile, in effetti, troppo facile riscontrare, fra tutti quei corridoi e quella grandezza, la via più diretta senza dover fermarmi neanche un momento a riflettere sulla direzione da prendere o se avessi quanto meno dovuto chiedere a qualcuno per cui questo hotel non sembra New York. Ma eccomi qui, veloce, rapido, silenzioso, a percorrere il corridoio più lungo che in cui mi sia mai capitato di avanzare, o è solo la mia distorta percezione del reale che prolunga, distende e dilata lo spazio e il tempo. Alla fine però ci arrivo. Alla fine quella soglia la varco. Alla fine la Suicide Room è ancora morbosamente viva nell'abbagliante luce della morte.  
Panna, dorato e crema sono i colori che dominano sui lavandini dai rubinetti placcati, sul marmo che li ospita, sulle moderne cornici degli specchi, sulle piastrelle rosa antico adornate da riflessi d'ambra e le porte dei bagni color crema, impeccabili come se fossero state costruite due giorni fa, rilucono dello sfavillio opaco del lampadario al centro del soffitto chiaro, di un materiale opalescente simile a madre perla e cristallo.
Quasi illuminata a giorno, con la luce che riecheggia ancora più vistosa contro le superfici fulgide, la stanza è abbastanza grande da contenere dieci persone. 
Ma non sono dieci le persone che occupano con la loro presenza ogni parete, non è un mormorio sommesso di ospiti che attendono il loro turno, ma solo un essere vivente emerso dai riflessi dei due specchi, così vivido da superare la nitidezza di dieci persone.
-Sapevo che saresti venuto-.
-Sapevo che ti avrei trovata-. 
Alzo lo sguardo, lentamente, non c'è fretta, adesso.
-Sapevo che non mi avresti delusa-.
Mi volto rincorrendo il suono ricco della sua voce nello spazio fra di noi.
Si avvicina e questa volta non mi muovo. Con un gesto svogliato della mano bianca indica la lunghezza del mio corpo.
-Adesso si che si inizia a ragionare- il ghiaccio che mi scivola addosso è di un'ostica, inesplicabile bellezza. -Adesso si che riconosco il mio Dominik. Ribelle..coraggioso..-
E ci credo, se lo dice lei, con la musica plumbea delle sue misteriche corde vocali, con gli occhi tanto limpidi da non poter vedere all'interno, in profondità, oltre quelle iridi turchine dove c'è così tanto buio da mandare il mio respiro ad andarsene beatamente a quel paese.
Mi guarda come nessuno mi ha guadato mai, con adorazione e invidia, con insidiosa meraviglia.
Non aspettiamo oltre, non siamo mai stati schiavi dei convenevoli. Con la velocità di una pallottola spuntata dal nulla, qualche angolo sperduto dell'universo, le nostre bocche si affamano a vicenda, si stuzzicano, colpevoli di un passato comune, oltraggiano il dolce e il romantico, profanano il morale elevando all'ennesima potenza l'immorale, quando ferite si scontrano, si coccolano, quando cicatrici riaprono nell'impeto della passione, quando lacrime sgorgate da occhi disincantati per la stessa ragione si consolano le une con le altre, e mentre le lingue si amalgamano, si intrecciano, rimbomba l'ordine della legge naturale di smetterla, di finirla, di non farsi oltre del male, di scegliere la vita, sempre la vita, solo la vita ma io no, io non ci riesco, non ancora, non ora, ho scelto lei, ancora lei che è la notte, che è il sangue, che forse, dopotutto, è la vita stessa, che vedo nei suoi occhi di apparente gelo invernale, che sento nella mano che mi stringe così forte la nuca da permettermi ammalapena di respirare tra un bacio e un morso, ma infine, non ho bisogno di respirare, ho bisogno di lei, della nostra insonnia, della nostra disillusione, della nostra criptica, drammatica verità che ci portiamo dentro da tempo, delle imperfezioni che gravano sulle funeste decorazioni del suo lunare viso pallido e sui miei occhi di insofferente, sfacciata, sfrontata, pittura nera. Le mie mani viaggiano sul suo corpo, e non è come me l'ero immaginato nel mezzo di una sbronza questo bacio, non è leggero, delicato, innocente quanto l'innocenza stessa, al centro di una discoteca gremita di esseri umani che non ci guardano perché non vogliamo essere guardati, perché siamo soli, soli insieme, solo noi e nessuno più, no, è un incontro di dolore, una guerra di sentimenti, una distorsione del giusto e dello sbagliato, una macabra fusione di bianco e nero, di fuoco e sangue, di fatale ed eterno. Sento che potrei morire con le sue scottanti labbra addosso, vorrei il mondo capisse quanto sono ridicoli, insensati, inetti, inutili, invisibili loro e le loro sciocche parole di perfezione quando io vestito dall'estremo ambiguo del dark e lei, l'incarnazione di un angelo a cui non è bastato cadere, ma che si è lasciato dannare, mi sento perfetto. Con le sue mani fredde sul collo, sulla schiena, così in contrasto con il caldo della sua lingua che non mi lascia tregua, mi sento in Paradiso, quel Paradiso che per noi, angeli senza ali, imperfette imperfezioni, ombre nell'oscurità, ha chiuso i battenti. Si poggia al ripiano del lavandino quasi lasciandocisi cadere contro e io cado con lei, sorreggendo il peso del corpo impaziente con le mani sul marmo freddo, mentre dita mi sfiorano il lembo di pelle scoperto dal giubbino, scendono, inesorabili, infilandosi sotto la vita dei jeans, esperte e impacciate, ammalianti e sinistre, vere come niente è stato vero fino a questo momento. Rabbrividisco violentemente e i miei denti trovano la sua gola, si insinuano nella scollatura della maglia, si fanno largo sulla spalla abbassando la spallina del reggiseno, sentendo finalmente sotto di essi la pallida pelle che ho così spesso sognato di stringere. 
Non ci sono risolini di cortesia o trattenute risate di circostanze, non ci sono pettegolezzi sul vestito all'ultima moda della tua occasionale migliore amica, non esistono finzioni, trucchi, catene qui, nello spazio che è solo nostro, nelle bocche che si consumano, bruciando nel fuoco della distruzione psicologica e morale. E quelle dita ghiacciate scendono sempre più giù, imperterrite, fino all'oltretomba, fino al laccio dei miei boxer. 
-Che cosa stai facendo?-
Sylwia si volta, pronta, subito, come un animale diffidente dal pericolo o un predatore incapace di non attaccare.
Io invece ci metto due secondi in più per volgere viso e sguardo verso Aleksander in piedi sulla soglia, bronzo che brucia, ancora più vivo, più distruttivo della Regina stessa.
Due secondi di silenzio, puro, calcareo, pesante silenzio.
Sono in subbuglio dentro, il mio mondo è capovolto e nonostante ciò rispondo con una voce tanto tagliente, tanto affilata, tanto pacatamente incazzata da superare persino i miei standard più acuminati. 
-Quello che stavi facendo tu in sala pochi minuti fa-.
-E' una vendetta?-
Si avvicina, fuoco aspro gli divampa negli occhi, aspra è la voce allibita con cui accompagna quel fuoco. 
Mi allontano da Sylwia che ci osserva e lo osserva vicino, maledettamente vicino, ma io ne ho abbastanza, abbastanza del suo mondo ipocrita, della sua presenza caustica, del risentimento che gli leggo dentro. Mi avvicino, annullo io le distanze, tranquillo, in apparenza, padrone della situazione, in apparenza.  
-Il mondo non gira tutto intorno a te, Aleksander-.
-E questo che vorrebbe dire?!- mi sposto di lato, mi sta perforando l'udito e non per il volume della sua voce quanto per la bruciante sfumatura di sbalordimento che le ha impresso. -Che puoi scoparti ogni..cosa che ti passa davanti? Cosa cazzo vuoi dimostrare Dominik?-
Volto la testa furente. 
-Io non devo dimostrare niente a nessuno ne tantomeno a te, fantomatico burattino fottutamente legato alla gonna di mamma e papà a cui devi ogni centesimo che ti fumi per vivere da re-.
-Non mi sembra che per te la situazione sia tanto diversa- alza le mani, spalanca la bocca, arcua rigidamente un sopracciglio, -e se non vivi da re come vivi? Da duca, conte, principe?-
Sono di nuovo a un passo da lui, soffocante la sensazione di venire sottomessi dalla forza con cui mi si accanisce contro e l'inafferrabile sdegno che invece gli sputo dentro. 
-Te ne vai in giro con quell'aria da poeta malinconico come se fossi un passo sopra tutti -prorompe in una risata amara, -ti piace proprio essere un frocio depresso?-
-Mi piace?- sibilo con disprezzo e sdegnosa incredulità. -Io almeno non gioco, non fingo, non interpreto il ruolo di qualcun altro- ringhio. -E, per tua informazione, lei si chiama Sylwia, non la DEVI nominare e mi conosce come tu non farai mai-.
-Si?- annuisce con esagerata convinzione, assottiglia le palpebre,- Perfetto, allora tienitela. Chi cazzo vuole conoscerti? CHI cazzo potrà mai amarti!?-
Mi fermo, per un secondo, sembra che il mondo abbia smesso di girare, il tempo di scorrere, la notte di avanzare. Un secondo in cui due fuochi così distinti brillano nella loro massima intensità come scoppiettanti lingue di bruciante luce. Gi occhi sono sul pavimento, ma non sono le piastrelle avorio che vedono. Avverto solo l'ansimare di Aleksander, affannato come se avesse fatto un notevole sforzo e il silenzio di Sylwia, immobile. Faccio un passo avanti, alzo il mento, non c'è pietà nel mio sguardo, è inclemente la mia voce. Nessun Paradiso accetterebbe gli occhi di venereo odio che gli cucio addosso.
-Di certo non tu-.
Non so cosa sarebbe successo se un flebile lamento, il caso, il destino, non ci avessero fermato, non so cosa saremmo stati capaci di fare, fino a quando ci saremmo sputati rabbia inutilmente repressa su facce che osannavano cose e ne sbraitavano altre. Siamo dei falsi, cocciuti, irrimediabilmente segnati stronzi.
E qualcuno aveva già deciso per noi.
Mi volto, il sangue nelle tempie, il cuore nella gola, la furia di Aleksander ancora sfrigolante nell'aria stantia. Una stanza chiusa, per quanto grande possa essere, per quanto lussuosa, bene arredata e luminosa sia, sarà sempre troppo piccola per me, Sylwia e Leks, insieme. 
E l'errore di esserci ritrovati insieme lo abbiamo pagato infinitamente caro. 
Non aspetto cenni, comandi, ordini di una qualche mente più lucida, più calma, più pragmatica, non reduce da un bacio dall'Inferno e una mezza sfuriata con il tuo ormai quasi ex-compagno di classe con cui tutto è un casino galattico.
Non aspetto nessuno perché so già prima di vederlo cosa troverò una volta che aprirò quella porta, la porta dell'ultimo bagno, troppo chiara per il contesto che sento diventare sempre più claustrofobicamente scuro. 
-Sylwia- mormoro con la voce di una fiacca domanda retorica. -Cosa hai fatto?-Ciò che è preludio alla risposta che ho la certezza non tarderà è una tintinnante risata da bambina, non come quella di Magda, leggiadra e acuta, e neanche come quella sfacciata e irriverente di Karolina, è un suono armonioso quanto le mani di un violinista esperto che scelgono Paganini suonata in re maggiore ma con lo stesso impatto di unghie strisciate sadicamente su una lavagna.
-Te l'ho detto- tintinna, -mondo chiuso, ferite aperte-.
Spalanco la porta sul demoniaco eco di quel cimelio e lì rimango, fermo, scialbo, orribilmente consapevole che dovrei fare qualcosa, che il corpo accasciato a terra necessita di aiuto urgente, che Aleksander mi spinge per passare, per piegarsi accanto a quel corpo ancora miracolosamente attaccato alla vita, ordinando cose che per me non hanno alcun senso. 
-Dominik..!- sono io, sono lì, nello squallido bagno di una discoteca a vomitare anima e cuore sulle piastrelle di notte scura, con il sangue nelle narici e la disperata -Domi..- caparbia voglia di sputare in faccia a chiunque mi stesse trascinando in quel baratro di vorticoso nulla -NIK..- così quieto, così privo di dolore, cattiveria, egoistica presunzione di riuscire a vivere un secondo di più.
Spintono bruscamente Aleksander, forse troppo bruscamente, non mi serve un altro con la testa spaccata sulle piastrelle di un bagno stasera, mi basta conoscere esattamente il veleno che sta togliendo al ragazzo che stringo tra le braccia il respiro ormai lontano.
-Chiama aiuto-.
Lo sorreggo mentre cerco di farlo piegare in una posizione più scomoda, deve vomitare, deve rimettere lo schifo che ha ingerito e deve farlo adesso. Lui si contorce debolmente, è privo di forze, è privo di voglia di farcela. Lo so cazzo, lo so che sembra dannatamente più bello lasciarsi andare nel tepore della morte -ma devi vivere capito? Devi vivere- sussurro, bisbiglio, prego che mi senti.
-Lui non lo sa, vero Dominik?-
La voce della Regina, dell'unica, sola reggente di tutta l'oscurità che è calata improvvisamente in una stanza un attimo fa sfolgorante come il sole, giunge al sottoscritto come una folata di vento, non abbastanza incisiva da farmi voltare, non abbastanza forte da portarmi via dal corpo che scuoto febbrilmente ma abbastanza da aizzare l'attenzione verso le parole indispettite che arrivano dopo: -Che cosa non so?-
-Non gliel'hai detto..- un sorriso, sicuro come la morte. -Avremo sempre qualcosa che nessun altro potrà mai avere. Ricordalo mio re, l'ultimo segreto sarà sempre nostro-.
Un sibilo sordo, stizzito. -Di cosa stai parlando? Di cosa cazzo sta parlando Dominik?!-
-Aleksander ti sfracello a uno di questi fottuti muri di merda se non chiami aiuto subito!- 
Costringo colui che reggo a stento a sputare ciò che ha ingurgitato perché qualche razza di cosa l'ha ingurgitata, è troppo evidente la sensazione di violento deja-vù che mi alita volgarmente addosso.
Aleksander corre fuori, veloce, ma Sylwia era già sparita un attimo prima, sulle note del testo di una canzone che non mi entra dentro, per ora.
-Non puoi andartene.. non così..non così, devi poter vedere il sole e desiderarlo d'inverno..devi..bestemmiarlo d'estate perché ti si appiccica addosso con la sua umidità, devi.. -stringo la presa sulle sue braccia abbandonate lungo i fianchi inermi, -devi sentire il cuore che batte quanto quelle labbra ti si avvicinano e..e vedere i fuochi d'artificio quando finalmente ti toccano e.. -il respiro è sordo, rotto, il suo stentato contro i miei polsi, il mio fragile quanto un posacenere di cristallo scaraventato su un pavimento di pietra. -E sentirti male..malissimo, desiderare di morire, solo, solo fra tutta quella gente indifferente e si, devi voler morire perché la vita..la vita è anche questo, ma poi -sangue, vomito, saliva, tracce bianche sulle mie mani e i bordi ancor più bianchi del water, -devi guardare il cielo e sapere che il sole sorgerà di nuovo, non importa quanto.. -tossisce convulsamente e quei suoni secchi mi rimbombano in un eco infinito -..quanto la notte sia lunga e..- e la mia voce è diventata una cantilena contro la fronte del ragazzo, -non può finire così, non deve finire così perchè non vale la pena per niente dare via questa, questa, la inconsistente ma constante consapevolezza di essere vivo..vivo..- Una presenza salda sulla mia spalla, il movimento frenetico in una stanza dove adesso di individui ne è piena che mi scorrono a fianco trasparenti come spettri e due braccia che mi trascinano lontano, oltre la soglia, lungo il corridoio che adesso non è più così lungo portandomi via dalle parole concrete di chiunque sia arrivato a soccorrere e conducendomi via con una torrida frase di tempesta 
-Dobbiamo uscire di qui-.
Ancora intontito quelle parole non fanno presa fino a quando, dove prima la luce inondava qualsiasi cosa, adesso divora il fumo, compatto, sodo, pregante di mortifera fuliggine che può significare solo una cosa: la sala è in fiamme.
Lucide, fiammanti, ardenti le fiamme divampano roventi tra le alte mura annerite, esasperate dall'implacabile, soppresse dal calore che, insaziabile, si avvicina sempre di più come un'enorme bocca disposta a banchettare col mondo intero.
Aleks mi tira con lui, scattante come se avesse aspettato quel fuoco, animato da mente propria, di un rosso tanto diverso da quello che è indiscusso protagonista dei miei incubi ma deleterio forse anche di più, veemente nel complesso grattacielo che i suoi denti stanno abilmente costruendo, piano su piano. Mi piego, incapace di sopportare il fumo oltre, la nebbia sottile e penetrante che corrode gli occhi, il suono basso della gola raschiante di Aleksander, ma non si ferma, mi porta via, dai mormorii e dalle urla, dai bisbigli, dalla dimensione distante dalla quale non mi arriva assolutamente niente se non corrosivo calore. Niente è visibile oltre la superficie di neve nera, solo la mano di incrollabile tenacia che si porta dietro il mio corpo tentennante, ancora ancorato all'immagine di quel ragazzo circondato da densi grumi di sangue. Aleksander tossisce sempre più spesso, sempre più roco, i miei occhi lacrimano a momenti alterni e ho una mano sul lembo di maglia in una stretta serrata intorno al viso. Il fuoco è vero, vero il sentore di stare già bruciando, vero che un fuoco tanto impietoso non può essere sbucato dal nulla rischiando da un momento all'altro di accecarmi con le schegge incandescenti che mi sferzano le braccia. Qualcuno l'ha aizzato, qualcuno è stato il diavolo di questo Inferno, qualcuno che è un'ombra indistinta al di là del muro rosso e oro. Ho la pretesa di vedere attraverso le lacrime, la polvere, le urla e le fiamme, ma in realtà chiunque sia stato a creare tutto questo rimane una percezione nascosta nei nove gironi infernali, mentre la sua mano non è più qui, non la sento, non la sento più, ho perso parte della sensibilità al corpo ma so che è qui. 
L'aria brucia terribilmente bene, brucia inafferrabile e mortale e la sua mano calda scivola via in un'angosciante solitudine che mi avvolge, brucia la pelle, l'anima, l'inquietudine di essere solo e l'aria fresca è una sorpresa per me, una botta di ghiaccio sulla pelle accaldata, ma non fa caldo, non fa caldo..
-L'abbiamo trovato nel bagno.. terra.. ingerito..fuoco -una pausa. -Salvato..?-
Voci si susseguono, allarmate, esauste, luci blu e rosse si fanno largo tra la folla.
Intravedo una chioma di rossicci capelli, un viso lentigginoso, so ci è, so chi è quella sfumatura di colore ansioso che mi si avvicina a passo rapido, ma oltre la coltre di fitta nebbia che avvolge ogni mia sinapsi celebrale non riesco a giungere ad un nome da associare ad essa. L'ombra colorata si ferma, qualcuno l'ha fermata, poi profumo e respiro sul mio collo.
-Stai tremando..-
Braccia ferme mi avvolgono, stabili come acciaio nonostante l'aver appena rischiato di bruciare vivi, nonostante i tremiti che attraversano il mio corpo. Aleksander mi stringe a sè e io gliene sono grato anche se non rispondo, anche se la mente è altrove, in un tempo che sembrava un'altra era e invece è più vicino di quanto avessi mai osato immaginare, anche se ho lasciato pezzi di me in quel bagno, vicino al corpo e alla bile di quel ragazzo. 
Devo essere un fascio di nervi, decisamente troppo rigido per un abbraccio come si deve, perché il corpo che tenta di calmarmi aderisca bene al mio, ma lui mi sfiora la schiena, ogni muscolo contratto, ogni tremolio delle ossa fino a quando non poggio la guancia sulla sua spalla. E anche se so che il freddo dal quale cerca di scaldarmi è troppo dentro, radicato in una fossa oceanica di macabro azzurro, nascondo comunque il viso nell'incavo del suo collo, come servisse a qualcosa, come se non è anche il corpo di Dominik Santorski che in questo momento stanno caricando d'urgenza su una barella.

 

***

 

-Stato..-
-Critico..-
-Fiamme..-
-Colposo..-
-Coma..-
-Over..-
-Diciannove..
-Dose..-
-Anni..-
-deplorevole..-
-Andrej..-
-Marcin..-
-In salvo..-
-Mio Dio..-
-Pregare..-
-Mamma..-
-Beata..-
-Barbara..-
-Aleksander..-
-Dominik- Aleks si staglia sulla soglia, l'aria spossata e lo sguardo che si posa stanco, ma non del tutto privo della vivacità consueta. 
Lo guardo in attesa, mi guarda come se avesse necessità impellente di aprire bocca, la apre ma l'intenzione negli occhi scuri si affievolisce come una luce in fondo a un tunnel. 
-I tuoi stanno intrattenendo i miei con un'affascinante discorso sull'importanza della sicurezza anti-fuoco-.
-Si, sanno essere molto appassionati- accenno un sorriso ma non c'è traccia di colore nelle mie parole. Lui sembra accorgersene.
-Cos'è successo stasera?-
L'attenzione sprofonda nella camomilla che ho tra le mani, prerogativa indiscussa di Barbara Lubomirski che imbottisce l'umanità di liquido giallo ogni qual volta accade qualcosa di significativo. Un'altra alternativa è la Vodka, ma non credo che se la chiedessi me la darebbero.
-Mi sembra che ci fossi anche tu-.
-Non sto parlando del ragazzo a terra, sto parlando di te che lo fissavi come se a terra ci fossi stato tu-.
Mi rifiuto di offendere il liquido dorato alzando lo sguardo. 
-Mi sono solo preoccupato-.
-Anche io ma non sembrava che avessi visto un fantasma-.
Sospiro stancamente e lascio andare la tazza. -Io non sono fatto della tua stessa pasta Leks-.
-Non credo che sia questo il motivo-.
Ostinato. Orgoglioso e ostinato. 
-Chi è quella ragazza?-
Sfioro il muro accanto a me senza accennare di voler rispondere o anche solo star pensando di voler rispondere. 
-Va bene- sospira e incrocia le braccia. Sembra si stia sforzando di non cavarmi fuori la risposta a forza. Posso quasi vedere il fumo che esce dall'attrito delle sue idee che cozzano negli ingranaggi di una mente che non è abituata a darsi tanto da fare per andare oltre. 
-Tu rispondi a una mia domanda e io rispondo a una tua, in totale sincerità. Ci stai?-
Orgoglioso, ostinato e stronzo, ovviamente.
-Ci sto- allungo le gambe sotto il tavolo. -Inizio io- ho già quel nome sulla lingua. -Perchè stai con Magda?-
Non si aspettava proprio questa, non credeva che, fra tutte le cose che sono successe, baci, uscite, combattimenti, silenzi, andassi a pescare proprio la domanda più innocua e rischiosa del mio arsenale.
Ma d'altronde lui cade sempre in piedi, non importa quanto potete è la pistola che gli punti contro, quanto veloce sarà quel proiettile.
-Perchè devo sopravvivere.. Voglio sopravvivere. E se questo è l'unico modo per farlo al massimo delle mie possibilità.. Ben venga-.
Forse dovrei reagire a una risposta che in parte mi aspettavo. E' schietto il concetto, disinibita la sincerità, però, in qualche modo, da qualche parte, avrei preferito che mentisse, che smussasse gli angoli prima di lanciarmela. Annuisco impercettibilmente.
Lui si prepara pazientemente, pregustandosi ogni attimo in cui dovrò rispondere in completa e disarmante verità a qualunque cosa fuoriuscirà da quella testa, dal suo sconcertante bisogno di sapere.
-Provi qualcosa per lei?-
Boom.
Il cuore è un cavallo impazzito.
L'istinto mi suggerisce di rispondere con un evasivo, capitolare "Non sono fatti tuoi", la mente sprona le redini nello scovare una via d'uscita che non preveda la risposta limpida a una domanda che mi ha trovato del tutto impreparato. Ha cambiato quesito, ha cambiato domanda, ha cambiato bisogno di sapere. Perché. E come rispondo io adesso? Come racchiudo l'oceano in un bicchiere? Come posso imprigionare in parole e definizione ciò che è sempre stato libero?
Respiro, profondo, lo guardo indecifrabile, rispondo autentico: -Sì-.
Se lo avesse previsto non lo da a vedere, ma scommetterei il mio portatile che la conversazione è costretta a stroncarsi troppo bruscamente per i suoi gusti. 
Una domanda per una domanda. Sincerità per sincerità.
-Io credo che questa serata sia stata sproporzionatamente piena di imprevisti-.
-Io invece credo che abbiamo approfittato della vostra pazienza anche troppo- mi alzo e lascio che i suoi occhi mi seguano cocciutamente prima di sparire in corridoio. 
Mezzo secondo dopo sono di nuovo sulla porta della cucina.
-Stanno parlando di scuola- fa una smorfia.
-uuh-
-futuro..
-uuuh..-
-e università-.
Si schiaffa le mani nei capelli. 
-Tragedia-.
Mi risiedo docilmente. Interrompere i "grandi" quando toccano questo tipo di argomenti è pericoloso quasi quanto farti vedere mentre toccano questo tipo di argomenti.
-Potrebbero coinvolgerci-.
-Dobbiamo scappare-.
Aleksander si copre il viso con le mani mentre esco sul balcone e ne controllo l'altezza. -Possiamo saltare, avanti, prima tu-. 
Un attimo dopo mi ha raggiunto nella notte fresca. Lampioni minuscoli come lampadine illuminano la strada privata, deserta di un'aurea surreale mentre Varsavia
si concede lo splendore dell'oro delle luci crepuscolari.
-Ah certo, siamo solo ad altezza attico-.
-Che vuoi che sia per un campione come te- gli faccio un cenno sferzante.
-Sei tremendo- scuote la testa prima di alzare il mento e assumere l'espressione rigida di un cantante lirico. -Dovrei buttarti di sotto solo per aver decantato derisoriamente il mio brillante talento-.
-Guarda che l'omicidio non è contemplato, sai quante volte l'ho ripetuto nella mente?-
Ridacchia di un qualcosa che capisce solo lui. -Hai pensato di commettere un omicidio?-
-Io ci sto pensando anche ora-.
E' così agile dal non farmi neanche sentire che mi ha afferrato per i fianchi e sollevato di qualche centimetro. L'imprevisto sconcerto di vedere quei lampioni momentaneamente più grandi mi strappa un urlo ribelle sul confine dello sbigottito e dell'adrenalina. Mi abbasso a forza con un sorriso indomito sulle labbra e gli
occhi nascosti dal ciuffo sconvolto.
-Aleksander sei scemo!?- ma sto ghignando. 
-Fallo ancora-.
Mi blocco, il ciuffo su un occhio, l'altro che lo scruta interdetto.
-Cosa-.
-Questo- mi scosta lentamente i capelli dal viso osservandomi come frastornato. -Sorridere-.
Serro le labbra in una linea insicura e indico la strada.  
-Non posso..- sdrammatizzo senza pensare a quanto e se sembrerò convincente. 
-Non ci siamo ancora buttati-.
-Salti tu salto io, ricordi?-*
Adesso cita un film visto, rivisto, risentito, osannato fino al disgusto e dialetticamente romantico come una nave che cola a picco in un oceano gelido in pieno inverno. Eppure, non so perché gli occhi abbiano scontrato così violentemente i suoi, cosa abbiano visto attraverso la quasi invalicabile penombra ma rimango sbalestrato, vacillante su un filo sempre più sottile.
-Mi stai prendendo per il culo Lubomirski?- mormoro, la voce complice a contatto con la sua.
Si avvicina e il vento dissotterra l'odore di fuoco che non ci si è ancora staccata di dosso, intrisa negli abiti, nei capelli, forse anche nel sangue. Per fortuna che la cerimonia dove dovrò indossare quello stramaledetto abito elegante avrà luogo tra una settimana. Mi afferra un polso e ormai saprei riconoscere ad occhi chiusi le sue mani, lisce, sempre più calde della mia pelle, sicure, prepotenti, coraggiose.
-Andiamo a struccarti- sto per aprire bocca ma la sua tempestività mi precede, -sembri una Drag Queen-.
…Inutile dire cosa può accadere a qualcuno che chiama Drag Queen me, me, il re dell'eye-liner in persona.
-No, Dominik, ti uccido..no..ho...hahaha..ho scherzato..- si tiene alla ringhiera con entrambe le man.
-Ringrazia che non ti voglio spingere giù davvero perché dovrei toccarti il sedere Aleksander, ringrazia-.
Lui si rimette stabilmente su due piedi, alza il mento, liscia i vestiti, rende presentabili i capelli e.. 
-Ma non era questo che stavi aspettando?-
Ah! Al diavolo il sedere, mi sbilancio contro di lui con tutto il peso del corpo bestemmiandogli mentalmente ogni santo, antenato, Homo Sapiens o Erectus che gli sia vagamente imparentato. 
In una lotta intensa e logicamente priva di alcuna regola arriviamo in bagno con la possente, refrattaria voglia di coricarci o sul water e svenire o di tirargli (da parte mia) tutti i peli castani che ha in testa. Alla fine oltrepasso con le unghie e con i denti la barriera di snervante difesa che si erige addosso e quando una mano preme sul torace i muscoli si contraggono all'istante diventando..deliziosamente duri. Mi ritiro sventolandogli il medio davanti la faccia e lui mi inchioda sul cesso chiuso e mi sbatte sul viso dischi di cotone e struccante dell'ignara Barbara che non sa che suo figlio sta seviziando un povero innocente come me. 
Là dentro parlano di progetti, ambizioni, prestigio e cieli blu all'orizzonte mentre noi ci preoccupiamo di proteggere i capelli dagli attacchi all'idratante dell'altro.
Squarterò quel tronco duro che si ritrova e svenderò i suoi maledetti organi al mercato nero.
Ma per il momento gli faccio ingoiare solo un po' di struccante, o latte detergente, o qualunque cosa sta spazzando via il nero intorno agli occhi e la dignità. Non che la sua sia messa tanto meglio visto che sembra Babbo Natale in vacanza e considerando che si sta scimmiottando da solo davanti lo specchio.
-Sei.un.idiota-.
-Che cosa sono?- si volta.
-Un idiota- fa un passo avanti.
-Che cosa sono?- 
-Un.idiota- allunga le mani e io mi appiattisco al muro.
-Scusa, che cosa sono?-
-Un i-d-i-o-t-a-.
-Si?
-Sì-.
-Si?-
-Sì-.
-Si?-
-Se me lo chiedi un'altra volta giuro che..-
Troppo tardi. 
Il vulcano-tempesta-tornado Aleksander mi spiattella davanti alla fotocamera interna del suo cellulare con una sensazionale quanto a dir poco tragica idea in testa. 
-Non te lo chiedo perché adesso ci facciamo una foto-.
Diabolico. Orgoglioso, ostinato e diabolicamente stronzo.
-No-.
-Sì-.
-No-.
-Sì-.
-No-.
-Sìì- mi cinge un fianco con il braccio e.. non fa improvvisamente caldo?
Non mi spiego perché non abbia scelto una posa più..comune, una che fa fighi da soli perché a lui piace brillare da solo, sotto un riflettore tutto suo, incondivisibile con nessun altro. Non voglio spiegarmi il perché lui abbia scelto quella mano sulla mia vita e perché io da quell'attimo non ho pensato più che la notte fosse fresca, che il fuoco fosse caldo, che i miei genitori stavano atrocemente fraternizzando con i suoi, che un incendio è scoppiato in un albergo a cinque stelle a prova di fiamma, che il bacio con Sylwia è stato molto più che un bacio.
La foto c'è la siamo fatta e ci finisce su Facebook, pubblicata su una delle bacheche più guardate, con due tipi che sembrano usciti da una pubblicità dei panettoni, uno con crema bianca a creargli una sorta di riprovevole barba e degli ignobili baffi su naso e sopracciglia e l'altro con un occhio bianco e uno simile a quello di un panda schizofrenico, il tutto accompagnato dalla farneticante, delirante didascalia: "Salti tu, salto io".










*Salti tu salto io, ricordi?: frase tratta dal film Titanic, James Cameron.

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Capitolo 13
*** Sangue e adrenalina. ***


- CAP.12 -


 

Guardali bene. Guardali negli occhi.
Hanno bei vestiti, belle etichette, begli incarti,
ma sono velenosi.


-S. Bienni-





 



Aleksander, 1° ora, letteratura inglese: Il ritratto di..da quando Marzia ha una quarta?
 

-Questo Dorian Gray si è divertito parecchio Prof-.
-"Questo" Dorian Gray mi ricorda molto qualcuno, per caso ti rivedi in lui Martens?-
-E' praticamente la mia biografia-.
-Non avevamo alcun dubbio-.
-Di sicuro non è la tua autobiografia-.
Misha Martens cade dalle nuvole. Alzo gli occhi al cielo. Samuel risponde con voce eloquente. La sua pazienza mi sorprende tutt'ora.
-Tu non scrivi come Oscar Wilde Mì.-
E poi i due protagonisti della depressiva commedia passano almeno dieci minuti a farsi versi di strani animali inferociti e smorfie di dubbia provenienza da un
polo all'altro della classe.
Gente non ho nostalgia dei tempi dell'asilo, non c'è bisogno che me li facciate rivivere puntualmente ogni benedetta prima ora di letteratura inglese del mercoledì. Puntali come orologi svizzeri solo quando non c'è da arrivare in orario a scuola. 
Ma alla fine la noia ha la meglio, Samuel mi centra nell'orecchio con una penna e finiamo per dichiararci guerra con gli astucci.
Non vogliatemene, sono concreto e deciso e il più delle volte coerente con me stesso e i miei sani principi morali come "ubriacati solo di Sabato" e "non usare preservativi scandenti". Ah, per non citare la convinzione su cui baso tutta la mia solida esistenza, il "non regalare assolutamente anelli di nessun tipo alla ragazza con cui i tuo genitori, i suoi genitori e gli alieni su Marte ti costringono a stare". Su questo ultimo punto credo ingaggerò presto un conflitto atomico di portata internazionale con mio padre.
Obama verrà a conoscenza di questo, si pentirà di non aver convocato alla Casa Bianca un giovane intelligente come me prima della disfatta, avrei potuto rallegrare le segretarie.
La causa principale del mio sdegnoso calo di coerenza è la testolina mora due file più dietro con la quale mi scanno a momenti alterni, pianifichiamo i nostri rispettivi omicidi un giorno si e l'altro io sono in vacanza ma lui si impegna per entrambi e proprio quando sono al culmine della cima più alta della voglia smaniosa di prenderlo saldamente da quei fili lisci e neri e sbatterlo al muro tante volte quanti sono gli anelli di Saturno..che faccio? Mi metto a citare un film tanto spocchioso quanto Titanic, ridicolmente zuccheroso fino al diabete di terzo tipo in cui la nave è il personaggio più intelligente dell'intera pellicola. 
..Andiamo, ci stavano in due su quella porta.
Ammettiamolo, Rose è un tantino sadica. Quasi quanto la Rezjida alla terza ora. 
Chimica è una delle mie forze e la Rezjida non è il mio tipo.
Forse quello di Samuel.
-Nel libro Dorian è biondo, invece nel film l'attore che hanno scelto per interpretarlo è moro-.
Non mi parlate di mori, non nominate i mori, non mi guardate se state pensando ai mori.
-Si Karolina, spesso gli adattamenti cinematografici modificano alcune caratteristiche delle opere su cui si basano ma la mia domanda era "Qual è il messaggio principale del romanzo?"-
Mi unisco come primo corista al concerto di risate e sghignazzi che mi ruggisce attorno.
-Signorina Saska?-
-La bellezza, la vanità-.
-E' esatto- attende che Joanna argomenti la sua risposta. Quando è palese che non lo farà, continua, -ma se agli esami finali, che vi ricordo saranno fra circa tre settimane contando giugno, risponderete così alla commissione con..due parole e un'alzata di spalle, come ci ha gentilmente mostrato la Signorina Saska, credo avremo qualche problema. E noi non vogliamo avere problemi agli esami finali, vero?- 
Posa il libro sulla cattedra e si ci appoggia contro. Magda non la smette di fissarmi. Sono consapevole di essere un adone greco e che dietro sono ancora meglio che davanti, ma anche io voglio una certa privacy. Aspettate almeno che mi tolga la maglietta.
-Non voglio sorbirmi altre discutibili parole dei vostri amabili genitori-.
-Mi creda Prof.- Antony si è svegliato dal letargo, -neanche noi-.
Sospira e ci scruta tutti con apparente rassegnazione. 
-Santorski, almeno tu, dammi questa soddisfazione-.
Silenzio. 
Perché c'è silenzio?
No..non è possibile.
Lui, lui che non conosce la risposta ad una domanda di letteratura di qualsiasi lingua stiamo studiando? 
Non ci credo, è allucinante..potrebbe grandinare e oggi Marzia arrivare addirittura ad una quinta.
Ma Marzia non possiede neanche una quarta, infatti, proprio quando tutto sembra perduto, da due file di banchi più dietro ecco che si leva una voce musicalmente narcisista partorita dalle labbra di un egocentrico di prim'ordine.
-Nel romanzo di Oscar Wilde agiscono tre personaggi principali: Basil, pittore attratto dal fascino del protagonista, rappresenta il valore morale e sensibile dell'animo umano, Lord Henry Wotton, nemesi di Basil che incarna la tentazione e la passione e Dorian Gray, appunto il protagonista, che racchiude in sé le uniche cose che contano davvero: bellezza e giovinezza-.
-Scusi professoressa, Santorski sta parlando di Dorian o di me?-
Una valanga di risate, lo scambio di qualche pacca sulla spalla e..
-Se Lubomirski addirittura confonde Dorian Gray con sé stesso sarà semplicissimo per lui parlane approfonditamente- sta sorridendo il bastardo. 
-La prego professoressa, lasci che Lubomirski ci illumini con la luce del suo sapere-.
La prof. ci guarda a braccia conserte. A quanto pare non vuole intervenire. A quanto pare si sta divertendo quasi quanto Samuel che trattiene grugniti tra la risata
che non riesce a contenere.
-La mia luce non potrebbe mai eguagliare le parole di Santorski- scandisco con eleganza, -noi comuni mortali possiamo solo bearci delle sue considerazioni- mi volto, i suoi occhi deviano bruscamente traiettoria, -non siamo all'altezza-.
-Giovinezza e bellezza sono ciò a cui il mondo non potrà mai dire no- inarca un sopracciglio sottile, -almeno secondo il pensiero di Lord Henry-.
Mi sta palesemente apostrofando. 
-E questo pensiero porterà Dorian a circondarsi di bellezza e lussi sfrenati, totalmente privo di scrupoli morali, freni e inibizioni- l'azzurro si è allontanato e il mio sguardo fa lo stesso, -vivendo la sua giovinezza appieno, immerso nel sublime che presto si tramuterà in male.- 
Samuel perché mi stai fissando con gli occhi all'infuori come una rana davvero troppo arguta?
-..Infatti tutto scorre, anche la giovinezza, ed essa, tramutandosi, si porta via la bellezza, si porta via la parte..migliore della vita, l'unica che valga la pena di essere vissuta. E' a questo punto Oscar Wilde inserisce lo scambio dell'anima, il nucleo principale dell'intero romanzo, colonna portante dello svolgimento dell'intera trama, il patto deleterio che porta all'annullamento di sé stessi.- Samuel lasciati incantare dalla voce di Santorski, tanto lo so che ti piace quasi quanto
piace a Karolina quando parla. 
-Per sempre giovane, per sempre dannato-.
La professoressa annuisce compiaciuta. 
-Perfetto, e..Lubomirski, sentiamo qual'è questo "patto deleterio", il quale è stato egregiamente citato dal tuo compagno?-
E ti pareva. Prevedibile quanto l'alternarsi di giorno e notte. La Roska non mi odia, detesta o mal sopporta, non come l'incantevole signora che si preoccupa di insegnarci a comprendere le stellari opere della nostra lingua madre, ma non mi adora quanto adora Dominik. Non riesce a resistere a quell'aria di raffinato dramma che gli aleggia introno agli occhi luminosi e persi o alla voce più diretta di quanto ti aspetteresti.
-Il quadro invecchia al posto suo-.
Gli occhi della Roska sono ancora su di me, Samuel ha un attacco di tosse acuta, le mie braccia sono serrate sul patto, la schiena spalmata sullo schienale, Magda emette asciutti suggerimenti alle mie spalle, sbuffo impercettibilmente. Conosco la risposta, solo non vedo cosa ci guadagnerò nello scomodarmi durante un rilassante dibattito.
-Il dipinto in cui il pittore ha raffigurato Dorian rappresenta in qualche modo la sua anima corrotta, e man mano che egli compie azioni..- mi gratto la testa, -deplorevoli, l'immagine imbruttisce e invecchia al suo posto, mentre Dorian rimane perennemente giovane e bello-.
Devo dire la mia, non mi basta esporre la trama di un libro, se ne devo parlare voglio parlarne secondo il mio volere.
-Ma perché focalizzarsi molto su questo? Certamente la scelta di Dorian Gray non è priva di conseguenze, ma ogni patto che si rispetti ha i suoi lati oscuri- espongo con logica noncuranza, -in cambio però, Dorian ha ottenuto il potere, tutto quello che voleva, era suo-.
-Oddio si può essere più materiali?-
Sandra? La ragazza bionda dalle mille lentiggini in ultima fila che negli utili tempi è diventata l'avvocato difensore di Dominik. O meglio, il rotwailer da guardia. Sarebbe carina..se non mi contestasse ogni due per tre. 
E io non tollero chi mi contesta. 
-Tesoro ci ha guadagnato l'immortalità- incrocio le gambe e distendo il corpo. Un chiaro segno: "non mi interessa cosa dici perché qualunque cosa dici ho ragione io". -Tu non l'avresti fatto?- 
I suoi occhi si fermano su di me ignorando le sopracciglia inarcate e lo sguardo manifestamente scettico che le rivolgo in tutta calma.
-Certo, se avessi voluto rinunciare alla mia umanità. Dorian ha rinunciato alla capacità di giudizio, alla sua coscienza- assottiglia le palpebre, eppure gli occhi verde foglia non sono minacciosi solo.. biechi, equivoci. 
-Ha rinunciato all'amore-.
Vuole dire altro, me lo dicono i tratti testi del suo grazioso viso, lo sguardo fermamente puntato nel mio, la stessa, serrata linea delle nostre bocche. 
La sua sta per schiudersi, la mia si stringe ancora di più. Ma alla fine entrambi lasciamo perdere, entrambi ci addossiamo sui nostri posti, entrambi deponiamo le armi che eravamo sul punto di prendere, ci rinchiudiamo nei nostri rispettivi sbadigli, nei nostri dormiveglia mal celati e come lei rinuncia a dichiararlo io rinuncio al sentirlo con le mie orecchie, sulla linea di un'orizzonte di aria che a tratti è chiaro come il sole e spesso nero come l'ebano. 
Dopotutto è come se l'avesse detto, come se l'avessi sentito, anche se così non è stato, anche se quella bocca è rimasta chiusa e il mio corpo le ha dato le spalle, è lì la verità, in mezzo a noi, sedimentata sulle rovine di passato che non passerà mai. 
"Ora capisco perché non c'è differenza fra Dorian Gray e te".
Avrei potuto darle torto?
Avrei osato dare torto a lei, ai ricordi, a ciò che non può essere cambiato?
-Samuel un pezzo di carta-.
-Eh?-
-Dammi un pezzo di carta- ordino.
-Karina- si volta verso la fila posteriore -un pezzo di carta-.
Per la cronaca, di carino ha solo il nome.
-Samuel te lo vai a comprare un pezzo di carta-.
-Dai muoviti.. serve ad Aleks-.
Dire che mi è volato un quaderno sul banco è usare uno scialbo eufemismo. Mi sono arrivati sotto il mento tanti di quei pezzi di carta che posso riscrivere la Bibbia dieci volte.
-Dici che scegliere il foglio rosa è troppo azzardato?-
-Non si intona con i suoi capelli-.
Un sorriso furbo gli prende vita sul volto e io scuoto la testa, ancora incredulo dopo quattro anni su come Samuel veda oltre tutto quello che non notano gli altri, trapassa la mia corazza come se fosse carta pesta e sa già cosa voglio fare prima ancora che lo sappia io.
Se mai un giorno dovrò fare una rapina, so già chi sarebbe il mio complice.
Scrivo velocemente su quattro righi di carta mentre la professoressa è troppo impegnata a spiegare le differenze fra i vari patti peccaminosi nella storia della letteratura, piego il foglietto e allungo un braccio all'indietro, verso Magda.
-A Dominik-.
Lei non fa storie, afferra quello che gli sventolo sotto al viso perché semplicemente non può dirmi di no e mentre prende appunti lo passa al compagno dietro di lei, sulla stessa linea del mio bersaglio. Mormora in fretta qualcosa e si volta ritornando alla sua scrittura, non prima di avermi reso omaggio con un carezzevole bacio sulla guancia.
Non sembra essere risentita perché non penso a scriverle messaggi segreti da passarci furtivamente durante le lezioni, è candidamente fiduciosa in ciò che è il suo ragazzo, o almeno in ciò che deve essere. E si, sembra che siamo proprio fidanzati.
Perché non l'ho saputo prima?
Eureka!, il destinatario del messaggio ha ricevuto il messaggio, pensavo di dover fare una richiesta scritta per passare un cazzo di biglietto in una classe di trenta individui.
Vorrei seguire ogni suo movimento, da quando lo ha tenuto tra indice e medio per portarselo sul banco, da come non è consapevole del fatto che sia io a mandarglielo perché non gliel'hanno detto, ma non appena i suoi occhi si scontrano con la mia scrittura la riconosce subito, quasi solo passandoci un dito sopra, avvertendo la pressione calcata di ogni lettera, la decisione nel tratto grosso e scadenzato, irregolare come la coerenza che se ne è andata a farsi fottere. E se Magda vive ignara nella bambagia dalla quale sa di essere coperta, sicura, gioviale, fidente fino all'ultima ciglia colorata da mascara viola, Karolina non è così.
E io me ne accorgo solo adesso.
La testa è appena spostata verso destra, gli occhi attenti lievemente inclinati, le gambe immobili, la schiena rigida, dritta, pronta a non perdersi neanche un dettaglio di questo momento. 
Ho sottovalutato Karolina e la sua capacità di osservare, ho sottovalutato l'esclusività con cui adorna ciò che ritiene appartenerle, ho meramente sottovalutato il cieco accanimento che si impadronisce di lei quando vuole fermamente qualcosa.
Ma che nè lei, nè nessun altro si azzardi a sottovalutare il sottoscritto, se io non miro alla sua stessa meta allora c'è qualche possibilità che lei riesca ad avere la meglio. Ma se io voglio qualcosa -e qualcosa mi dice che vogliamo esattamente la stessa cosa- non esistono possibilità, non esiste vittoria contro di me e la mia ostinata durezza.
Mi volto, apro la bocca e una pallina di carta mi colpisce in fronte. 
Ma certo, tu non puoi sprecarti a passare un pezzo di carta di mano in mano. Complimentoni Dominik, mira eccellente. 
Lo guardo in cagnesco mentre dispiego il piccione viaggiatore e devo contrarre le mie labbra in una sorta di paralisi stile botulino per non sorridere
esplicitamente.


 Qual è il tuo segreto?

Se te lo dicessi dovrei ucciderti.


 

Dominik 
3° ora, chimica, oggi la Rezjida è più angosciante di Saw che spunta in una canzone di gruppo di High School Musical cantando sulle note di "We're all in this together" "I will kill you with my shine bright torture knife". 

Ho reso l'idea?


-Karolina ti ho detto che non ci servono altre provette-.
-Ma che ne sai, se alla Rezjida le prende uno dei suoi attacchi fulminanti e le spacca a terra? Sasha un'altra-.
-Karol ma te ne ho date cinque, me ne lasci qualcuna?-
-Di solito gli attacchi della Rezjida sono più orientati verso centro destra- interviene Samuel, che se non dice la sua potrebbe svenire. -Ovvero dalla..nostra..parte.. Sandra cambiamo posto?-
-Non mi muovo neanche se mi paghi-.
-Assegno o contanti?-
-Contanti, andranno benissimo-.
Se avessi dovuto valutare Samuel solo in base a ciò che vedo, a come si pone, agli acuti della sua voce calda e allegra, avrei ammesso di trovarmi davanti ad una persona solare, amichevole, con l'eternità dell'entusiasmo nelle vene, le scintille negli occhi e l'intelligenza di non perdere tempo a discutere, a odiare.
Ma poi sposto lo sguardo sul davanti, il banco da laboratorio proprio dinnanzi al suo e mi chiedo come possano essere tanto vicini uno con la benevolenza in uno sguardo e uno con la belligeranza nel sangue, la competività nelle sue scelte e una sorta di resistente frattura con tutto ciò che non riesce a controllare, come Aleksander. Saranno davvero così amici? O è solo tutto parte di quell'unica, grande finzione che è la vita? Siamo tutti ancora in scena su quel palcoscenico da cui io sono sceso con violenza o qualcuno è sceso con me? 
-Oggi ho deciso che dovrete creare un'esplosione-.
Samuel inclina la testa. -Che?-
-Boom!- Asher batte una mano sul ripiano bianco. 
La disposizione della classe è cambiata. Alla terza ora c'è una così varietà di pesci che è come mettere a contatto in un acquario squali, delfini e foche. 
Mi volto.
La Rezjida è una donna..particolare. O almeno particolarmente fuori come un balcone. 
Trucco da Lady Gaga in concerto vestita che sembra uscita da una copertina di playboy ma con un centinaio di chili in più e una voce baritonale che sprofonda sottoterra ma che, in uno dei suoi momenti, può divenire un acuto di Celine Dione. 
-Dovrete creare un'esplosione, una reazione chimica che innescherà un'esplosione-.
-E..come facciamo?- Magda ha già rinunciato ancor prima che scada il decimo minuto di lezione. 
-Seguite questi composti- e scrive sulla lavagna numeri,  formule e io ci giurerei che non hanno alcun senso neanche per lei.

 

4 C3 H5 (NO3)3   →   12 CO2 + 10 H2O + 6 N2 + O2

 10 KNO3 + 8 C + 3 S   →   2 K2CO3 + 3 K2SO4 + 6 CO2 + 5 N2

-Aaaah, adesso si che è tutto chiaro!- 
Sasha guarda Karolina, Karolina guarda Sasha e insieme mi ridono prove di vergogna praticamente nei timpani.
-Oppure servitevi del libro come ausilio-.
L'unico ausilio che vorrei in questo momento è qualcosa per l'emicrania che minaccia di surclassarmi nelle tempie.
-Si perché con il libro siamo a cavallo- Asher sbatte fastidiosamente un piede a terra come una batteria di cui farei volentieri a meno. -Leks come ho fatto a non pensarci prima?-
-Un'esplosione..create un'esplosione- risponde lui grattandosi il mento. -Si. e lei magari è magra e Karolina è vergine-.
Una provetta vola come un pericoloso proiettile a velocità bazooka verso l'esatta traiettoria del naso del campione di Judo che si butta di lato all'ultimo secondo per evitare che gli si conficchi nelle cervella. Sulla colonna sonora dello sghignazzare di Asher Karolina mi fa un lieve cenno con la mano.
-Te l'avevo detto che le provette possono tornare utili-.
-Se vuoi usarle per uccidere Aleksander mi va da Dio. Sasha, un'altra-.
Un costoso profumo maschile fa prepotentemente capolino nello spazio di aria che prima era riservato a me e alla mia occasionale compagna di laboratorio che non ho idea del motivo per il quale si sia venuta a traslocare qui.
-Senza il sottoscritto tu non vivi- e allunga una mano verso una provetta.
Perché questa frase mi suona più veritiera di quanto lui potrà mai pensare?
-Prenditi questa provetta e sparisci-.
Lui gira lo sgabello e io mi ritrovo con la testa contro la sua.
-Rettifico, prenditi questa provetta e sparisci prima che avverta Karolina che le stai sottraendo uno dei suoi preziosi cimeli, e te la sguinzagli-.
Mi passa strafottente una mano nei capelli e lo esorto ad andarsene a quel paese.
-Ehm..Karolina..-
-Leks che cosa stai facendo alle mie provette?!-
-Rapimento- scuoto la testa come inorridito. 
-Fare una cosa simile a delle innocue provette..-
-Sta' zitto Nik. Karol me ne serve una. Facciamo mezza, ma non voglio andarle a chiedere alla Rezjida-.
-Ma come..hai paura?- mi esibisco in un broncio canzonatorio. 
-Samuel, figliolo, perché fai boiate?-
Si sente solo la Rezjida sul palcoscenico che è sempre la sua cattedra, Karolina quasi non soffoca dal tentare di nascondere una risata che senza ombra di dubbio provocherebbe la fine di una lezione scolastica e l'inizio dell'inferno in Terra, e Aleks, animano da nuovo diniego nell'avvicinarsi ad un animale tanto preoccupante, si difende con un fermo: -Sono l'unico che ha le palle di andarci-.
-Ma tu non sei quello che può fare qualsiasi cosa, anche trucidare un compagno e chiuderlo nell'armadietto dopo averne esportato gli organi, perché nessun insegnante può dirti di no?- il broncio si trasforma in un ghigno subdolo. 
-Certo, potrei, ma non mi passa neanche per l'anticamera del cervello perché io non sono inquietante come te-.
-Leks ti avevo detto che potevi prendere le mie-. Magda sembra alquanto delusa che lui non abbia scelto le sue provette. Ma che cos'è, un concorso di bellezza per giovani provette? 
E il giudice è Aleksander?
-Neanche tu puoi dirmi di no- dice come se non l'avesse sentita rivolto nella mia direzione.
-Io? Vuoi vedere come te lo dico bene?- Alzo lo sguardo e arriccio le labbra. -N-O-.
Non lo faccio apposta credetemi. Mi lecco le labbra. Quasi vedo la scintilla nei suoi occhi.
Catturo il suo sguardo e un secondo dopo non mi guarda già più, devia la sua attenzione con rapidità fulminea. Mi guardo intorno. Lo stanno guardando. Ma certo. Un attore non abbandona mai il personaggio. 
-Quelle di Dom hanno una quinta, quelle di Magda solo una quarta- dice a mo' di giustificazione agli sguardi d'apprima perplessi, ora rinvigoriti da nuova luce di trionfo. -E poi sapete che mi piacciono le bionde, e queste provette hanno qualcosa di giallo nel loro fascino-. E come lui getta le mani avanti e si salva da qualcosa che ancora mi sfugge, anche gli altri si riscuotono subito, sgomenti di aver dubitato anche solo un istante di lui, del capo, del leader. 
-Aleksander ci vuole tanto per fottere al frocio qualche provetta?-
Mi sporgo oltre il corpo di Aleks e incontro il grigio metallo degli occhi di Asher. 
-Come prego?-
Azione riflessa, assottiglia le palpebre, quel metallo diventa argento, per un breve momento brilla di sinistra luce poi distende il viso, ricompone come marmo sui suoi tratti l'espressione di scherno che si fa beffe di qualsivoglia essere vivente si scontri sul suo cammino e inizia a guardarmi dall'alto in basso, esclusività che concede solo al sottoscritto.
-Dagli le provette-.
Sorride, magnificamente disprezzante, nauseato, ci scommetto, anche dal guardarmi in faccia. 
Gioia della mia vita, siamo in due ad essere disgustati da quello che ci troviamo davanti.
Sbatto le palpebre. -Non credo di aver afferrato il concetto-.
-Dammi quelle cazzo di provette Santorski-.
Mi prendo una ciocca del ciuffo nero tra le dita fingendo di osservare le doppie punte che, fortunatamente, ancora non ho.
-No- alzo una spalla con sciocca noncuranza- non credo che lo farò-.
Asher afferra brutalmente una matita dalla punta fin troppo affilata. 
-Sai questa dove te la infilo?- ringhia in un sibilo sordo.
-No- espressione innocente, sono giusto appena sceso dal Paradiso. 
-Non ne ho proprio idea-.
-O forse..- e ritorna il sorriso con la bipolarità, 
-preferiresti che fosse Aleksander a farlo?-
Il quadro che mi si dipinge sul viso deve essere una sorta di Monalisa versione pop-moderna, le mie labbra sono indecise se sorridere o saltargli addosso e staccargli brandelli di carne.
-Ma guarda un po'..e io che pensavo che avresti fatto una proposta del genere a Karolina- annuisco fingendo di riflettere sulle sue "allettanti" parole. 
-Ah già..- Aleksander si muove impercettibilmente accanto a me, ma io sono già partito: -Non puoi perché non ti caca neanche di striscio-.
Lo sgabello se ne va indietro con un tonfo, una bassa imprecazione, due corpi si toccano, l'urlo della Rezjida mi trapassa le orecchie o ciò che ne resta. 
-SEDUTI! S-E-D-U-T-I! SEDUTI!-
Non mi sono mai mosso dal mio posto. Ho le natiche saldamente incollate allo sgabello, lo avrei aspettato, se fosse stato necessario, avrei aspettato lui e tutto il suo illogico rancore. E sembra proprio tanto, e sembrava che volesse trapassarmi da parte a parte con quella matita. Non ho paura Asher, mi dispiace. 
Karolina non ha lasciato che i suoi occhi si staccassero da me neanche per un momento, adesso vorrebbe dirmi qualcosa, leggo le scritte nei suoi occhi scuri che smaniano per tramutarsi in parole, forse ammirate, forse sorprese. Io armeggio con decisione con i composti e gli elementi chimici nelle bocce di vetro, strisciando con malagrazia contenitori sulla lastra bianca. 
-Asher non durante l'ora di chimica- sento mormorare in un tono che sa di comando alla presenza che mi si era praticamente lanciata addosso. 
-Leks- inizia, la mano stretta ancora così fermamente intorno alla matita che credo il legno cederà da un momento all'altro. Karolina mi sfiora il polso con la mano -Dominik-.
-Quello stronzetto emo non si deve permettere-.
Karolina adesso ha ogni dito della mano destra fermo sul mio polso. 
-Non ti darà più problemi, non darà più alcun problema a nessuno di noi-.
Un altro, vano tentativo. -Dominik..-
-Sarà meglio, perché altrimenti quel sottile collo bianco glielo spezzo come un grissino e tu lo sai-.
Un cenno di allarme.
-Ti ho detto che non ti darà problemi quindi stai calmo perché io non voglio averne le ultime settimane per un qualunque squilibrato del cazzo- aggiunge. Lui. 
Una provetta si frantuma al suolo.
La Rezjida vuole un'esplosione? E' il suo giorno fortunato. Impugno il collo di un boccetta, so che sarà l'ultima, l'azzurro freme, lo riverso nel bianco opale e sulla sinfonia di uno scoppio sordo scaccio bruscamente la mano di Karolina, mando indietro con un colpo d'anca lo sgabello, scanso a tambur battente ogni tavolo, varco seduta stante la porta e prima che il fumo raggiunga il soffitto la miscela schiumosa è alterata in nero e io sono andato in escandescenza. 
-Che caratterino..-
Fanculo.

 

***

 

-Mi sono scaldato Sandra, tutto qui-.
-E' uno stronzoin libera circolazione Dom, come si può ragionare con Asher?-
-Alla fine però c'è riuscito-.
-Certo, perché conveniva a lui che non accadesse niente di che dato che si trovava proprio in mezzo-.
-Non mi interessa quello che Aleksander Lubomirski  ha intenzione di fare o non fare, anzi, non me ne fotte per niente-.
-Ah, la Rejida ha detto che l'esplosione era corretta -Sandra ridacchia compiaciuta, -quindi forse ti eviterà il preside. Comunque io continuo a dire che è una stronzo, per di più molto indeciso-.
Aggrotto le sopracciglia tenendomi il cellulare incassato fra l'orecchio e la spalla. -Cosa vuoi dire?-
-Voglio dire che neanche un attimo prima ti fissa come se potessi scomparire da un momento all'altro, con un'intensità da paura e l'attimo dopo è l'egoista strafottente di sempre-.
-Perchè, pensi che quando mi guarda lo fa per una ragione?- agguanto la felpa con una mano e le scarpe con l'altra. 
-No?-
-No. E' solo..divertito da ciò che fa. Fino a quando ha il mondo ai suoi piedi e può controllare il corso degli eventi, non importa quello che dovrà inventarsi per mantenere il suo ruolo di comando, lo farà, e non esiste cosa o persona ad avere il potere di distoglierlo dal suo obbiettivo-.
-E' semplicemente ingiusto-.
-Quelli come lui e con lui dettano legge Sandra, che ti piaccia o no-.
La voce all'altro capo del telefono si zittisce di colpo. Stringo i lacci delle Converse.
-E da quando ti sottometti al sistema?-
-E' un dato di fatto Sandra, una certezza matematica-.
-A me non piace la matematiche e neanche i calcoli privi di scappatoia. Lui, Asher, Karolina, Magda, Sasha e le altre teste di cazzo del suo gruppo si credono i migliori- fa schioccare la lingua con gusto. -E' il momento che qualcuno smentisca questa credenza-.
-Non hai inserito Samuel nel gruppo delle teste di cazzo-.
-Samuel non è come loro- risponde prontamente. -O forse si.. Per essere amico di uno come Aleks devi essere come lui, ma poi saresti una minaccia per il suo glorioso status quo, quindi più probabilmente devi condividere ciò che fa ma senza minacciare ciò che fa..- sospira, pensierosa, poi butta fuori l'aria in un colpo solo -Oppure devi avere qualche rotella fuori posto-.
Mi avvicino alla porta. 
-Se si tratta di Samuel credo nell'ultima opzione-.
Allontano l'apparecchio dal condotto uditivo per evitare che lo sghignazzare della mia interlocutrice mi risuona tra i neuroni. 
-Già, però è carino, no?-
Mi fermo. -Non lo so-, non ho avuto tempo di guardare lui.
-Lo è, fidati. Ma loro sono i nemici- me l'immagino alzare un dito, -quindi no, niente, non si può fare niente.
Sorrido davanti lo specchio, non per il riflesso. 
-Perchè, che volevi fare?-
-Ah niente niente.. Dove hai detto che stai andando?-
Improvviso cambio di direzione. Ahia Sandra.
-Dallo psichiatra-.
-Un giorno me lo dirai perché vai da questo psichiatra vero?-
-Un giorno, se mi starai ancora simpatica, te lo dirò- sospiro, -cosa molto improbabile-.
-Stronzo anche tu- e riattacca.
Sogghigno e intasco le chiavi. Non posso neanche portarmi in giro soldi perché potrei avere il sano impulso di comprare qualche droga o pillola. Se per strada mi attaccherà uno scatto di sete acuta, dovrò morire di sete. Questa non è vita. 
La mano è già sulla maniglia.
-Dominik-.
Mi fermo. 
-Sto uscendo-.
E' inutile dire dove, lei lo sa già.
-Aspetta, prima che tu vada vorrei dirti qualcosa-.
-Non puoi dirmela dopo?-
Mia madre tentenna ma non demorde. -Vorrei dirtela adesso-.
-E se io adesso non volessi sentirla?-.
Duro, freddo, lontano.
-..Per favore-.
Chiudo gli occhi. 
Detesto quella parte di me che si preoccupa sempre di qualcun altro. Anche se il sottoscritto è sull'orlo del baratro più profondo, se c'è qualcuno a cui impedire quel salto sono il primo a farmi avanti. Perché deve essere come un fottuto interruttore? Passare dall'essere totalmente disinteressato all'importarsene di tutti i pesi del mondo. 
E sprofondo con essi.
Mi volto, vado in cucina, mi posiziono davanti la porta finestra, il mio corpo getta ombra sul tavolo.
Beata Santorski è colei che si direbbe una donna con gli "attributi".
Ambiziosa ma con riserva, schietta ma con riguardo, al di sopra dei mezzi termini se si sfiora corde di violini scoperte. Le ombre sotto agli occhi mogano, le dita delle mani che si tormentano a vicenda, lo sguardo che non arriva sono solo alcuni dei segni che compromettono la consueta eleganza della donna che è una delle più importanti stiliste del territorio polacco, della donna che è mia madre. E tutto perché io ho avuto l'insano, impertinente e fantasticamente inappropriato desiderio di sbatterle in faccia la verità: che il matrimonio dei Santorski é solo un'unione di occasione, che le serate ai gala e a teatro a vedere opere che mettono in scena realtà non poi così frutto di audace fantasia, non sono il nostro regno, che fingere ventiquattr'ore su ventiquattro, sette giorni su sette interesse per collane di perle e chiacchiere di lusso non valgono tutto il perbenismo che dobbiamo, o adesso dovete, mettere in scena, simbolo di una farsa che, destinata a non avere fine, ho reciso a mie sole e uniche spese.
È stata colpa mia. 
Beata capisce che suo figlio non aprirà bocca, non parlerà per primo, non darà vita ad una conversazione destinata a morire sul nascere, così respira profondamente, alza il mento e si prepara a fare qualcosa di completamente nuovo per lei e quella parte di sé che non mi ha mai mostrato.
-Come sta andando con lo psicologo?-
La sua è una domanda di circostanza. Lo psicologo li aggiorna regolarmente dei miei miglioramenti, peggioramenti e della mia ammirevole abilità nel manifestare l'introversione a livelli non umanamente concepibili.
-Bene, ha tolto alcune pillole dall'arsenale che mi ha prescritto..e ne ha aggiunte altre-.
Annuisce, rigida e a disagio.
-E..ti senti bene? Voglio dire..- mi guarda -ti senti meglio?-
Mi sento bene..mi sento meglio.. Non sono neanche sicuro di "sentirmi".
-Mi sento..- cerco le parole giuste, alzo lo sguardo, rovisto tra gli angoli immacolati della moderna cucina, provando ad attutire lo schianto di una realtà che non si può lenire. E alla fine ci rinuncio. -Un drogato, dipendente da altre pillole che hanno la pretesa di smorzare le mie tendenze masochistiche, autolesioniste, psicosociopatiche-.
La zip della felpa sale con uno scatto. 
-Ora devo andare-. 
Sto già uscendo dalla stanza quando i suoi occhi si abbassano sul tavolo e la sua voce mi raggiunge. 
-Perchè?-
Mi fermo, per la seconda volta. E questa volta non è per farle un piacere o per la fievole curiosità di sapere quali grandi progetti avrà mai da comunicarmi, ma per lo sviscerale scossone che ha subito la sua voce. Un crollo di stile, ma anche di maschere.
-Perchè cosa-.
-Perchè l'hai fatto-. Si volta e indugia sul mio corpo che le da le spalle. 
Sospiro, non posso fuggire dal reale proposito di questa conversazione così facilmente come avevo previsto. Non sono per niente capace di fare previsioni. Forse perché spero sempre per il meglio. O forse, e le dedico il mio sguardo, perché mi rifiuto sino all'ultimo di vedere il peggio. 
-Non siamo stati abbastanza presenti, non ti abbiamo dato il giusto credito come "persona", non siamo stati capaci di farti capire quanto ti amiamo- scuote la testa, sembra così vulnerabile che l'abbraccerei. -Ma noi ti amiamo Dominik, ti amiamo tantissimo-.
Ma non l'abbraccerò, perché di abbracciare mia madre, si, non ho il coraggio. 
-Quando..- la sua mano scosta i capelli scuri dal viso, la sua compostezza ricerca un contegno che si dissesta. 
-Quando ho saputo che cosa era successo..Quando quel telefono è squillato e..un paramedico credo.. O forse era un poliziotto io non ricordo.. Ricordo però perfettamente cosa mi disse-, deglutisce e io ora non le rivolgo solo il mio sguardo, ma anche l'amore che un figlio, nel bene o nel male, seppur sgretolato, proverà sempre per sua madre. E continua: -la signora Beata Santorski? Suo figlio ha avuto un incidente. Crediamo che abbia tentato il suicidio-.
Il frastuono del crollo di un muro d'acciaio rinforzato in anni e anni da menzogne e tornaconti, da trucchi e soldi, da dignità di paglia. Mia madre si sta svelando, sta retrocedendo nel dimostrarsi inafferrabile e sta mostrando, almeno a me, cosa significa essere umani e che, udite udite, anche lei è uno di loro.
La parola con la S capitombola davanti a noi, quasi palpabile nel silenzio. 
E palpabile è il mio rifiuto di negarla.
-Mamma- dico, sforzandomi di apparire quantomeno sensibile a cosa deve avere provato quando una voce incolore le ha detto, attraverso una linea telefonica, che l'unico e solo figlio che ha non ha trovato niente di anche solo vagamente decente per cui valesse la pena vivere e che ha deciso che l'unica e ultima cosa da fare era spezzare tutte le corde. 
-Se è questo che vuoi sapere, non è stata colpa tua e..neanche di papà-.
Sulla fronte le compaiono tre solchi profondi di espressione. -Allora di chi è, bambino mio? Chi ti ha fatto tutto questo?-
Sulla lingua sento il gusto di molti nomi diversi. Agrodolce, amaro, piccante.. Potrei pronunciarli tutti, e non sbaglierei. Ma questo non cambierà la verità. Dare la colpa a persone che se la dovrebbero prendere non attenuerà l'identità dell'unico e solo, vero assassino che è la causa dell'inferno in cui ho bruciato.
-Vuoi un colpevole mamma?- sorrido, espressione di vetro. -C'è l'hai davanti-.
Temeva questa risposta, temeva la presa di coscienza che danza nella lucidità della mente. 
-Io sono l'unico colpevole, io sono l'artefice della mia morte. Non importa quanto altri mi possano aver spinto vicino al ciglio del baratro, il salto l'ho compiuto io-. 
Faccio ciò che più si avvicina a una sorta di vicinanza, di gesto di affetto, refrattario e diffidente certo, risentito e privo di calore, ma è il massimo che possa fare adesso e mi auguro che le basti. Le poggio una mano sulla spalla nuovamente dritta, la scruto nel viso nuovamente alto, nello sguardo criticamente blindato di una donna di successo che ha tutto quello che un essere umano possa desiderare. L'ammirata e temuta Beata Santorski. 
Sembra che i gesti di affetto facciano in mia madre lo stesso, spontaneo effetto che fanno a me. Sospettosi verso gli altri, verso la loro scarsa propensione nell'avvicinarsi ai propri simili. 
E devo ammetterlo, la donna che ho davanti si sta dimostrando sempre più simile al figlio che confessava di non conoscere, indomita e trasparente, nonostante gli sforzi per far si che l'acqua in cui era immersa divenisse più torbida. Mi rivedo in lei, in qualche modo, esiste un eco flebile dentro di lei che richiama me e
quello che sono. 
Ma c'è una cosa che non potrà accomunarci mai, una cosa che ci dividerà sempre, l'unica cosa che ci possa rendere davvero diversi, separati, differenti.
Lei è cambiata per vivere, si è adeguata alla gloria, alla scalata, al successo che avevano previsto, le hanno scritto addosso cosa sarebbe dovuta essere e lei si è attenuta formalmente al copione, tranne qualche battuta fuori posto, i binari del suo treno sono stati dritti, statici, inflessibili. 
A me è stata fatta la stessa cosa, prima che diventassi troppo cruciale per accorgermene, mi è stato detto esplicitamente che tipo di persona sarei dovuto essere, che tipo di uomo sarei dovuto diventare. Ed è qui che sta tutta la differenza. Io ho cancellato le scritte sul mio corpo, ho detto no alle aspettative, non ho seguito ordini, non ho accettato comandi. 
Perché non sono remissivo, non sono ubbidiente e nel modo più assoluto non sono responsabile, quindi eccomi qui, in una casa che non conosco più, con persone che non sono cadute con me, davanti a un essere umano che si riprenderà privo di cicatrici o traccia di ricordi, nella finzione che ottusamente portano avanti. 
Ma io non sto fingendo più con loro. 
Mi sono schiantato al suolo, rotto, spezzato come una rosa dal vento, cambiato come una pennellata su di un quadro dove tutto aveva il suo posto, logorato dentro, sorretto da medicinali che inibiscono le sensazioni e le percezioni, a far visita ad un ospedale (il migliore) due volte a settimana per far credere ai miei ansiosi genitori che sto facendo qualcosa in più che chiudermi in me stesso per stare bene, come sbandierare la mia vita davanti ad un perfetto sconosciuto. 
Allucinati visionari.
Possiamo dare la colpa a tutti in questa storia, o possiamo non darla a nessuno. 
Siamo tutti assassini e siamo tutti innocenti. Ma questa cosa la devo dire, perché gorgoglia, raschia nella gola da troppo tempo: -Non è stato un incidente comunque -la fuga ora è mia, le parole non vacillano, -non ci si imbatte per caso in un overdose, e in un coltello-.
La tonfo della porta accompagna i miei passi. 

 

***

 

-Dominik tu sei affetto, tra altre cose, da Nyctophilia-
Anelo annoiato: -cos'è?-
-Presenta quattro stadi, e può essere una propensione, una preferenza, un amore o un'ossessione per la notte e l'oscurità- passa in rassegna alcune carte con occhio critico. -La tua è al secondo stadio, una preferenza, preferisci circondarti dal buio. Alcune persone si sentono più potenti nella notte, altre affermano con più convinzione se stesse nelle ombre. Si può arrivare addirittura a un tipo di eccitazione sessuale per l'oscurità, ma comunque non è una cosa rischiosa o particolarmente ingombrante, almeno non quando non è associata ad un tentato suicidio e all'isolamento di giorni e giorni tra le pareti di una stanza. Il tuo caso-.
Lo psichiatra scribacchia qualcosa su un bloc notes mentre assedio la pelle del braccio sinistro, tormentandomela con le unghie. 
-Non c'è solo questo vero?-
-No-, apre con un click il computer. Non sta fermo per un secondo.  
-Manifesti attacchi di panico?-
Al silenzio che segue sposta gli occhi sul ragazzo che si sta fissando energicamente le dita delle mani. 
-Dominik voglio aiutarti-. Certo, tutti vogliono farlo. Così tante persone di buone intenzioni che ancora non capisco come non mi sia ricoperto di unicorni e
arcobaleni e non sia andato a creare qualche associazione di ascolto e sostegno.
-Facciamo che io non rivelo la tua risposta ai tuoi genitori, qualunque essa sia, e tu me la confessi-.
Mi mordo l'interno della guancia soppesando l'offerta del dottor Rubinowicz, e alla fine annuisco, tentennante, ma annuisco. 
-Si-.
-E come sono?-
-Brevi, veloci, solo dopo alcune allucinazioni, si risolvono facilmente- rispondo meccanicamente.
-Da quello che è il quadro generale..hai spesso incubi durante le ore di sonno, a volte flash di illusioni durante il giorno. Attacchi di panico di primo livello, quindi irrequietezza con conseguente insonnia dovuto a shock post-traumatico. Inoltre potresti aver attacchi dovuti a emozioni persistenti, sia dovuti a quello che è il tuo essere caratteriale, sia per ciò che hai passato-. 
Mi guarda come ad esortarmi a confermare o smentire le sue affermazioni sul mio discutibile stato psicofisico, e io mi limito ad assentire non sillabando niente. 
Mi osserva, annuisce e le sue dita volano sulla tastiera. 
Varco la soglia di questo studio per due volte a settimana da un mese e mezzo ormai, sono passato dallo sfiduciato al nervoso, dal nervoso alla diffidenza cronica, dalla diffidenza cronica ad una sottospecie di placida razionalità. 
Adesso sento lo scatenarsi lento di una suscettibile battaglia dovuta a qualcosa che ha aizzato due lati della stessa medaglia a dichiararsi fuoco. Due parti di me, due opposti, due binari dello stesso treno stanno per azzannarsi a vicenda. E pagherei in contanti per sapere il perchè. 
-Quello che voglio sapere- prorompo con lentezza asfissiante, -dottore, e se esiste una possibilità che io possa tentare di uccidermi nuovamente-.
Penso che un psichiatra rinomato come quello che ho difronte dovrebbe essere abituato agli sbalzi di umore dei suoi pazienti, ai repentini cambi di decisione, alle crisi isteriche e alle smanie irragionevoli e gratuite, eppure vedo passare una luce nel suo sguardo quando parlo, come se ancora si meravigliasse dei silenzi infiniti che porto avanti per un tempo che sembra secoli e della violenza con cui li taglio di netto con la schiettezza delle mie frasi. 
Forse la maggior parte delle persone che ha incontrato sedute qui erano tipi che negavano l'accaduto, non accettavano l'idea di essere stati vulnerabili, illogici, totalmente privi di amor proprio o semplicemente umani. Ma io no. Io sono caduto e ho sanguinato. Non c'è niente da smentire, niente da coprire.
Rubinowicz ci pensa per qualche secondo a cosa dirmi, o più probabilmente se dirmelo, ma oramai lo sa che non è così facile nascondere qualcosa a chi ha visto menzogne per tutta la vita. 
-Dominik- e oramai io sono rassegnato alla media delle volte che pronuncia il mio nome, una percentuale che va dalle venti alle trenta a seduta. 
-Se c'è una cosa che ho capito in un mese e mezzo di terapia con te è che sei un ragazzo tanto forte quanto testardo e quasi incapace di arrendersi, caratteristiche ideali per uscire da una situazione del genere in modo brillante. -Mette da parte un foglio. -Ma sei anche sensibile, imprevedibile e molto emotivo, e questo lato del tuo essere potrebbe intaccare il percorso di crescita-.
Seguo i suoi movimenti con il cipiglio tipico del "arriviamo ad un punto entro la mezzanotte?"
-L'essere tanto sensibili ed emotivi è meraviglioso, perché ciò significa che vivi la vita a 250km\h, provi ogni emozione intensamente, la felicità, ed esempio, quando sei felice sei felice davvero- si umetta le labbra e io detesto queste pause enfatizzanti che fa.
-Ma così anche la tristezza, quando sei triste, lo sei per davvero-.
Mi passo le mani sulle spalle, sul collo, sulle braccia, voglio difendermi dalle sue parole.
-Quindi?-
-Quindi la cosa migliore da fare al momento, secondo me, è che tu vada avanti verso la nuova vita che ti si aprirà davanti non appena terminerai il liceo, incoraggiare te stesso a raggiungere un obbiettivo, ed evitare gesti avventanti, impulsivi dettati da emozioni avventate ed impulsive. Nessuna emozione forte, potrebbe destabilizzare la tua razionalità attuale. Un sentimento significativo ora come ora comporterebbe quasi sicuramente sconvolgimenti emotivi-. 
Lo studio è incredibilmente moderno, eppure c'è qualcosa nelle file disordinate di libri e nei post it gialli, azzurri e rosa sparsi un po' dappertutto sulla scrivania che donano alla stanza qualcosa di speciale. Un'anima.
-Vedi Dominik, tu non sei il tipico suicida-.
-Questa l'ho già sentita-.
Accenna un sorriso calmo. 
-E chiunque te l'abbia detto aveva ragione-. 
In un primo momento aspetta che io aggiunga qualcosa, ma quando il mio sopracciglio scettico è in procinto di scoppiargli in faccia si appresta ad aggiungere: 
-Non sei dipendente dal tagliarti e non sei affetto da bassa autostima. Un tipico suicida avrebbe tentato il suicidio un numero improponibile di volte, tu quante? Una-.
-Due-.
-Due, se contiamo la ferita che ti ha mandato la prima volta all'ospedale- giunge le mani, sfiora distrattamente l'orologio che ha al polso, mi guarda con una strana sfumatura di percezione. -Ma tu quella sera non volevi ucciderti, altrimenti ti garantisco che quella lama avrebbe calcato più a fondo la pelle del tuo avambraccio-.
L'interesse saetta di rimando al lungo, sottile segno nell'interno del braccio destro. Vorrei poter non sentire niente quando ricordo di avercelo, ma chi voglio prendere in giro? Sento tutto, rimembro tutto, ogni più piccolo dettaglio di quando assalì la mia pelle come un maniaco farebbe con una ragazza sola in un parcheggio deserto nel cuore della notte. La stessa foga, lo stesso ardimento, la stessa inesistente coscienza, lo stesso menefreghismo per le conseguenze.
-Ti sei procurato tre tagli-.
Alzo il mento, seguito dal mio sguardo e la durezza con cui gli piombo addosso. -E le sembrano pochi?-
-Assolutamente no- stacca un post it, lo appallottola e lo getta nella cestino della pattumiera. Centro. 
-Mai hai mai visto le braccia di un tipico autolesionista?- 
Non mi piace venire preso in contropiede, non avere armi con cui difendermi o non trovarne, essere messo sotto esame e non avere studiato abbastanza per rispondere, ma è così, non so cosa dire, non formulo risposta perché non posso contrattaccare. 
-Sono segnate braccia, avambracci, polsi, spesso anche cosce, polpacci, gambe, si arriva non raramente anche a martoriare le labbra, e i tagli sono così tanti che sembrano ombre su ombre, cicatrici su cicatrici, non danno tregua alla carne, neanche il tempo alle ferite di chiudersi, un'infinità-.
Stringo le braccia al petto. Mi balena in mente la pelle di Sylwia. Squarci su squarci, rosso su rosso. 
-E poi tu non sembri possedere una bassa autostima anzi, io credo proprio che tu abbia un'alta considerazione di te Dominik-.
-Questo che significa- sputo nell'aspro di un ringhio. -Che ho finto? Che non mi sono tagliato le vene? Che non sono passato attraverso un cazzo di coma da overdose perché non sono il suicida tipico?-
Mi alzo, deglutisco, cammino per la stanza come un animale in gabbia, respiro, metto le mani nelle tasche della felpa, poi in quelle del jeans, poi nei capelli, poi sulle labbra. Lui si limita a seguirmi con gli occhi mentre le sue parole fanno presa su di me e le mie su di lui, sulla calma pacatezza con cui asseconda i miei scatti. Non è la prima volta che vorrei prendere a calci il muro e non è la prima volta che affrontiamo simili discorsi, ma mai così vicini alla realtà, mai così vicini a quella notte.
-Domi..- Lo fulmino con un'occhiata atrocemente aggressiva. Alza le mani. -D'accordo-. attacca un altro post it. 
-Nessuno sta negando tutto questo, il punto è che non sei dipendente dall'autolesionismo, da pillole o dalla voglia di farla finita. Se anche adesso ti dessi una lametta in mano potrei giurare che tu non faresti assolutamente niente, non ti passerebbe neanche per la mente di usarla. Ma il fatto che ascolti le emozioni prima della ragione è l'enorme dettaglio che ti ha spinto ad utilizzarla quelle tre volte e ad ingoiare quelle pillole in discoteca-.
Le gambe non vogliono fermarsi, la cenere cede il posto a fiamme pigre di un bruciore assordante. 
-La differenza fra te e un autolesionista, Dominik, (vorrei saltargli alla gola), è che egli si taglia per privare qualcosa, persino dolore, perché dentro non sente più nulla, non si sente più vivo- stringo le dita sulla bocca, -mentre tu lo hai fatto perché ti senti troppo vivo-.
-La smetta- sibilo.
-Siamo arrivati esattamente al punto dove volevo che tu arrivassi- sorride e io mi volto e credo che neanche Jack lo Squartatore abbia mai avuto un'espressione così omicida come la mia in questo preciso istante. -Si sta divertendo Rubinowicz?-
-Dominik voglio che tu capisca che ciò che può salvarti è proprio ciò che può portarti a rifarlo. Il tuo essere emozionale sommato al tuo carattere drastico e ad una buona dose di coraggio sono quello che sì, potrebbe portarti a ritentare il suicidio. I tuoi non sono mezzi termini, non sarà mai grigio quando puoi scegliere fra bianco e nero- appunta qualcosa e capisco dal movimento della sua mano sul foglio che è "schierarsi" prima di tornare a posare la sua rilassatezza su di me. -Non scegli sfumature, solo colori-.
Sbatto le palpebre. Mi ha detto la verità. Non ha attenuato il colpo, non ha finto. Mi ha limpidamente detto che potrei provare di nuovo ad uccidermi. Mi va bene, mi sta bene. Era quello che volevo, qualcuno che mi guardasse in faccia e mi spiattellasse davanti parole senza filtri, senza censure. Mi risiedo, incrocio le braccia.
-E sei ancora magro-.
Ci manca poco dallo sbuffare. -Ho preso un chilo-.
-Un chilo in sei settimane Dominik, non è che tu stia proprio diventando obeso-.
-Lo preferirebbe?
-Ti si contano le costole-.
-Solo perché lei è un medico e sa dove si trovano-.
Sorride e mi rendo conto che sono immobile con il mio sguardo privo di attrattiva e le labbra serrate su una poltrona dura quasi quanto la mia voce quando un attimo fa ero nel bel mezzo di un attacco di consapevolezza isterica. Cos'è questa, cosa sono? Volubile, lunatico, psicopatico? 
-Se continui così io ti affibbio anche gli integratori-.
-Dovrebbe essere una minaccia? Vuole che le faccia qualche lezione?-
-"Sarcasmo pungente"..Sì, questo lo avevo annotato sulla tua scheda il primo giorno che ci siamo visti-.
-Ho anche quello nero, quello macabro e quello che ti fa correre via urlando con ciocche dei tuoi capelli in mano-.
-Sarei lieto di provarli tutti, ma penso che tu non ne farai mancare occasione-.
Il foglio di carta che mi sventola sotto al naso riporta a lettere che sfiorano il cubitale i "compiti a casa" da portare a termine, tra cui, in alto e ben visibile: "rilassarsi" e "ingrassare".
-Ti direi di metterti sulla bilancia ma credo che in questo momento mi lanceresti un anatema che mi farebbe zoppicare per il resto della mia vita quindi, solo perché ci tengo alle mie gambe, come va a scuola?-
-Il solito-. Non lo guardo neanche più.
-La maggior parte degli adolescenti risponde così a questa domanda- regola le lancette dell'orologio che ha al polso. Prima gli ho dato un'occhiata ed erano puntuali come uno svizzero. 
E ritorno a guardarlo. Se la gioca bene lo psichiatra. Sa dove fare leva per farmi parlare, e nonostante io sappia esattamente a che strategia sta ricorrendo non posso fare a meno di puntualizzare che io non sono "la maggior parte degli adolescenti".
-Sono circondato da idioti i quali la massima preoccupazione è abbinare i calzini ai bottoni della camicia e contare quante persone ti sei fatto perché più te ne fai più sei figo. Ah, e avere il vestito più costoso, non importa se sembri una tavola imbandita perché sarai in sovrappeso di appena ottanta chili-.
-Bene..- osserva il foglio -questa è certamente una risposta originale. Amici?-
-No-.
-Nemmeno uno?
-No-.
-Dominik-.
-Forse c'è qualcuno che vorrebbe esserlo, ma me ne sbatto troppo per pensarci. In ogni caso, io non sono amico di nessuno-.
-E i vecchi amici?-
Inarco le sopracciglia, faccio svolazzare l'indice. 
-Il branco di idioti include anche loro-.
-Allora adesso parliamo di una cosa- apre un cassetto, allunga una mano e tira fuori un foglio bianco. -Da quello che ho riscontrato in te, non presti ascolto alle voci altrui, non rientra nei tuoi interessi ciò che gli altri pensano di te, né le opinioni della società e i modelli sociali impeccabili che spesso figure più grandi di voi ragazzi vi impongono di seguire. Perché allora ti ha fatto così male?-
Mi irrigidisco appena.
-Di cosa sta parlando?-
-I tuoi genitori mi hanno raccontato cosa è successo-.
-Che mi sono suicidato non è una novità mi sembra-.
-Cosa è successo prima-.
Contraggo la mascella. -Prima non è successo niente-.
-Io so diversamente. Per non sbagliare- mi fa un cenno e apre una cartella azzurra, fa scorrere velocemente i fogli presenti al suo interno tra le dita e ne sfila fuori uno macchiato da scritte e scritte di inchiostro blu. 
-Un tuo compagno di classe ha pubblicato un post diffamatorio sulla bacheca del tuo account Facebook. Questo post è divenuto presto molto popolare e da lì tu hai iniziato a manifestare disagio e isolamento-.
Dire che vorrei mutilarlo e incollargli la lingua alle palle per aver tirato fuori proprio quel momento è dire davvero poco sul grado di desiderio assassino mi passi per le vene nel non poter far altro che ascoltare le sue parole. 
-Quello che però i tuoi non hanno potuto riferirmi è cosa è successo prima della pubblicazione di questo stato e il perché ti abbia toccato tanto-.
Inspiro. Espiro. Sono pronto.
-Non vuole dirmi di salire sulla bilancia?-
Prende una penna scegliendola con cura quasi maniacale dalla moltitudine del portapenne, un foro grande quando una tazza incastonato direttamente nella scrivania di vetro lucido.
-Non rispondere alla prima, ma fallo alla seconda-.
Sorrido staticamente. -Perchè vuoi diventare Miss America?-
-Perchè questo ragazzo ha avuto così tanto potere contro di te-.
Adocchio l'orologio sul suo polso sinistro e mi ritrovo a fiatare caparbiamente il muro accanto a me. Piccole linee di crepature quasi invisibili si diramano sotto l'intonaco uniforme. Occultate bene, ma non cancellate. Quelle vene di cemento non se ne andranno mai. 
-Dominik chiunque, qualunque essere vivente sulla faccia della Terra avrebbe potuto fare quello che lui ha fatto a te e non ti avrebbe neanche sfiorato con un'unghia. Perché lui si?-
Abbasso gli occhi sul riflesso del mio viso, la superficie fredda della scrivania mi risponde, nella mente ronzano domande e possibili risposte che non riesco ad afferrarne nemmeno una, e non voglio. Rispondere, essere sinceri sulla sorgente di un fiume di sangue comporterebbe il riportare alla luce cose che voglio solo siano incatenate nel più profondo di me, il fondo di una gola che neanche i raggi del sole possono raggiungere. Sento tagli vibrare, minacciare di aprirsi solo se mi azzardo ad essere onesto, per questa volta, posso sentire il sangue che ribolle nelle vene, rabbioso, agguerrito, pronto ad annegare la lingua se solo essa prova a comporre il suo nome. Fa male avere il vago sospetto che se lui non mi avesse puntato addosso la pistola io non avrei premuto i grilletto, fa terribilmente male avere il sentore che avrei scelto te, nonostante tutto. 
-Dottor Rubinowicz- alzo lo sguardo, dispongo l'orgoglio, copro le carte, non vi lascerò entrare, non lì dentro. -Se vuole evitare sconvolgimenti emotivi parliamo del rapporto inesistente con i miei, delle pressioni delle influenti personalità del sociale, della mia entrata in stile "meta per invasati" di due giorni fa, ma non di questo, perché altrimenti prendo quella lametta che prima avrei rifiutato e mi ci scartavetro le vene o prendo quella stessa lametta e gliela scartavetro nelle vene-.

 

***

 

Sono riuscito ad evitare gli integratori per un soffio di vento, uno così lieve da poterlo trovare nel deserto del Sahara, ma ha fatto la differenza dall'aggiungere alla pila di dischi e ovali bianchi anche gli ultimi ritrovati della scienza per sostituire il cibo a chi si ostina a mandare giù porzioni che lascerebbero affamato anche un ragazzino di dieci anni. 
Dopo l'ultimo autista quello che mi sta aspettando nel parcheggio non ci pensa neanche a fare qualche scherzo, i signori Santorski lo hanno strigliato per bene prima di assumerlo ufficialmente. E se le parole pratiche di mio padre e quelle tutt'altro che soffici di mia madre non dovessero bastare, ci sono sempre gli urli. A quanto pare funzionano più del broncio, anche se con alcune persone alzare il volume della voce non serve a niente e il broncio è sempre la migliore arma. Come il silenzio. 
I passi risuonano sordi sull'asfalto mentre il marciapiede inghiottisce le Converse nere. Potrei mimetizzarmi tranquillamente con la sera calante se non fosse per i lampioni che gettano una tenue luce dorata sulla strada e la pelle di un pallore niveo.
Mi affretto ad uscire dal parco dell'ospedale circondato dal verde e le parole del dottor Rubinowicz sono un frastuono nella mente, più reali dello scalpiccio dei miei stessi passi. 
Non sono un autolesionista tipico, non sono un suicida tipico, allora che sono? 
Se c'erano delle certezze prima, erano proprio le verità indiscutibili delle mie cicatrici e dell'incastro di eventi in quella discoteca, mentre adesso qualcuno mi comunica molto chiaramente che non mi sono squarciato la carne perchè non sentivo la vita, ma perchè la sentivo troppo. E le cose non sono cambiate. È facile, quasi logico sotto quest'ottica, che i pensieri rincorrano lui, rincorrano risposte alle sue azioni equivoche, ai suoi sguardi insistenti, alle parole ambigue di una volontà criptica. 
È stato lui a farmi quel video la prima volta che mi sono avvicinato a quel sacco da boxe nella sala vuota, lui a portarlo dal preside, sicuro che egli mi avrebbe esortato a fare qualcosa in merito, lui, la stessa persone che meno di cinque minuti prima mi aveva scottato con occhi sferzanti mentre il suo gruppo di ammiratori sfegatati mi circondava contro un armadietto. 
E la vita la sento troppo, forte quando il sangue nelle vene, forte quando il suicidio tatuato sulla pelle. Cosa fai? 
Cosa fai quando per un istante di estremo coraggio hai osato ucciderti perché ogni emozione, ogni, fottuto sentimento ti passa attraverso come un colpo di pistola? Cosa faccio ora che ho la certa consapevolezza che se la persona giusta tocca le corde sbagliate io vado in pezzi come il cavallo alato di cristallo di mia madre? Perchè certe cose non possono cambiare, mutare, trasformarsi in una mera indifferenza, invece di bruciare con quella fastidiosa e destabilizzante familiarità come quando mi guarda come se avesse capito più di quanto gli è mai stato detto? 
Sylwia, Sylwia e basta la notte, la notte agli angoli, quella che i lampioni non possono sconfiggere per riportarmi a lei, forse l'unica persona che abbia mai amato, l'unica che avrebbe potuto salvarmi. 
No. 
E dopo un mese e mezzo posso ammetterlo almeno a me stesso, anche se me stesso si rifiuterà di ascoltare: c'era un'altra persona che avrebbe potuto farlo, altri sguardi, un'altra voce, altre mani avrebbero avuto il potere di fermare la discesa verso l'insanità dell'inferno. 
Una persona che mi arde dentro con la forza del fuoco e la prepotenza della tempesta.
Una persona che ho osservato, ascoltato, adorato, odiato, invidiato per la sfrontata noncuranza con cui i suoi occhi calchino tutto senza soffermarsi mai su niente, pervasi da quella luce di sicurezza irraggiungibile, al di sopra di tutto e tutti. E allora perchè, nella sua scalata verso il successo lastricata di mattonelle di smeraldi e diamanti trova il tempo e la voglia di voltare il viso, centrarmi con le pupille, scrivermi biglietti dal dubbio significato durante banali lezioni scolastiche in cui dovrebbe recitare la parte del "non sarò mai un studente modello ma dovete stare al gioco perché senza di me sareste nulla" e soprattutto, perché mi stuzzica con quella fastidiosa certezza che tutto il mondo gli cadrebbe ai piedi con un suo battito di ciglia? Perché cazzo cetre ferite non posso chiudersi?
-Perchè cazzo non stai attento?-
La sua figura alta compare dall'oscurità della strada.
-Non sai che una bambolina come te non dovrebbe camminare tutto solo?- 
Uno spostamento d'aria e mi sono già allontanato. 
Mi spingo senza pensarci verso il riflesso dell'oro di un lampione.
-Dove scappi Santorski?-
Caldo sul polso e gli ho sottratto senza il minimo cenno di delicatezza la mia pelle dalla mano. 
-Lasciami perdere Asher-.
Allungo il passo con il chiaro intendo di mettere dei paletti tra ció che non si deve azzardare a fare con il sottoscritto, ovvero niente. Ma c'è qualcosa nei suoi modi che mi dice che stasera o è strafatto, o ubriaco, o..
Mi afferra una spalla e alzo brutalmente la voce, ogni parola intrisa di freddo, ogni sillaba di gelida diffidenza.
-Non mi toccare-.
..e sono abituato a venire sempre ascoltato. 
Ma non questa volta. 
Non basta voltarmi, non sarebbero bastati i riflessi di un felino per sfuggire a due mani che vogliono sbatterti al muro con tutta la forza che possiedono. 
Il muro lo sento sulla schiena senza neanche rendermi conto che mi ci ha spintonato contro e le pupille sembrano spilli scintillanti.
Sto per sputargli addosso acido, pugni, calci, tutto ciò possa fargli amaramente pentire di avermi sfiorato anche solo con un dito, ma il ferro fuso che mi saetta davanti annienta ogni tentativo. Non è fatto, non è ubriaco. È incazzato, di quel rancore arrugginito delle anime spezzate.
-Come cazzo fai?- 
Sta ringhiando, l'aria sfreccia tra i denti, la mia si è fermata nei polmoni. 
Al mio silenzio il muro mi si conficca ancora di più nella pelle e la pressione del suo corpo aumenta.
-Chi sei, Dominik Santorski? Chi sei, lo sai?-
Il caldo di un freddo indesiderato inizia a farsi estrada sui solchi di una pelle congelata.
La voce rimane conficcata in gola, la sua è soffocante nell'inesistente spazio d'aria tra noi.
-Però sei carino..-. Quando i polpastrelli mi sfiorano uno zigomo sibilo con disprezzo: -lasciami-.
Il buio è più buio, la sua presa più salda, a tratti stretta, così stretta da far male. Non è un contatto fermo, è ferreo, sardonico, imperdonabile. Mi è addosso, e lo
capisco davvero solo quando le sue mani non mi lasciano sfuggire, quando devo piegare il viso per non guardarlo.
-Ash..- per istinto mi appiattisco, voglio stargli lontano, stare lontano dalle fitte che sento nei punti in cui le sue dita creano solchi di violenza. 
-Lasciami cazzo-.
-Adesso capisco che ci trova in te..-
E' come se fosse ubriaco, fatto, drogato di emozioni, rabbia repressa, rancore stantio, ubriaco di insofferenza verso la mia voce, di intolleranza verso di me. E
mi tiene incollato.
-Di cosa..- reprimo un lamento, serro le labbra, mi strattona con ferocia.
-Pensi di aver vinto non è vero?- 
Ho il suo alito sulle labbra, le sue mani vigorose sulle braccia, la mente completamente vuota. E' per istinto che lo rispondo, è per istinto di una sopravvivenza che fa impetuosamente capolino nel frangente in cui capisco che mi farà del male, perché c'è l'ha scritto negli occhi.
-Di cosa stai parlando?- 
Suona così falsamente calma la mia voce, tranquilla mentre un avversario che non sapevo di avere sino a questi livelli mi avvicina ancor di più a lui e all'acredine che accudisce. 
-Pensi che solo perché lui voglia scoparti ti sei trovato un alleato?- apro bocca e questa volta gemo per davvero, sbattuto nuovamente alla parete dove il mio corpo si ci è abbattuto contro. 
Ma resisto. 
Se c'è una sola possibilità di sciogliermi dalle sue mani è parlare, ragionare, se esiste logica, trovarne una se non c'è né. 
-Chi, chi vuole..-
-Lui vuole solo una cosa-. 
Un serpente pronto ad attaccare. Ecco cos'è ora che assottiglia le palpebre, scopre le labbra, ha lasciato le mie braccia. 
-Lui..Asher lui chi-. 
respira. respira. respira.
-Allora perché non provare? Vuol dire che sei roba buona..-
Lessi tra le righe e quello che ci vidi non mi piacque per niente. 
E l'istinto di sopravvivenza si comportò esattamente da quello che è: un istinto, perché mi fece fare una cosa stupida. Prendere lo slancio non sarebbe servito a niente, darmi la spinta e scansarlo bruscamente per allontanarmi non avrebbe funzionato. Troppo facile. Troppo indolore. 
Mi trascina nuovamente davanti a lui, brutale, forte di qualcosa che non ha niente a che fare coi muscoli. 
-Gli dirò com'è stato- mi sorride, atroce, agghiacciante e, cosa assolutamente indicibile,
totalmente padrone di sè. -Tranquillo bellezza..-. so che devo fare qualcosa, lo vedo questo nero che è inesorabilmente più nero e le sento le sue mani che cercano di infiltrarsi nei miei vestiti, di cercare il contatto con la mia pelle sotto la quale come corre il sangue. 
So che devo fare qualcosa. 
Lo spingo, scalcio per frustrazione e lui mi da un altro motivo per mugolare, affonda le dita tra spalla e collo, la scapola sinistra completamente ancorata nella morsa tra indice, medio e pollice. 
Mi piego sotto il dolore, sotto il bruciore di tre dita che scottano come sale su una ferita aperta. Correnti di ghiaccio sulla pelle suonano l'allarme che non serve a niente ribellarmi al suo corpo, opporsi alle mani che scoprono l'addome in accelerato movimento, contestare le unghie sul fondoschiena che grattano impazienti per entrare più a fondo. Vuole annullarmi definitivamente, vuole soddisfare un desiderio brutale che va oltre la carne, un volgare dispetto, un'insidiosa, acre rivincita. 
Nei suoi occhi lo vedo, che spruzzano scintille ferine, nella mano che si è stretta intorno al mio mento, stanco dei miei vani ma insistenti tentativi di calciare via le sue pressioni su di me.
Lo vedo. Non c'è logica. Non c'è cattiveria. . solo vendetta.
Ansimo, non c'è abbastanza aria nei polmoni, non c'è stato tempo neanche di respirare. Le ossa bruciano, la pelle brucia, la presenza delle dita sulla mandibola brucia, ma non di quel fuoco di cui non ne hai mai abbastanza, di quella fiamma così ardente da non riuscire neanche a guardarla, di quella sensazione della quale non puoi fare a meno, questo calore brucia di tutt'altra miccia. 
Mi abbandono contro la struttura che mi sostiene, paralizzato da ogni angolo, da ogni lato, i suoi occhi duri, immobili, folli che si specchiano nei miei. 
-Non fai più il principe Dominik?- 
E' così dolce la melodia che scaturisce dalle sue labbra che per un attimo mi lancio davvero nell'illusione che appartengano a qualcun altro quelle labbra, che sia di qualcun altro quella voce. Ma nascosta, udibile fin troppo bene fra le parole, c'è una nota di sarcasmo venato d'odio.
-Non puoi ribellarti per sempre..- bisbiglia nell' orecchio. Rabbrividisco. -Arrenditi-.
Sollevo lo sguardo, la faccia, ancora nella sua mano, in balia di lui che non vuole arrendersi. Respiro velocemente, la luna mi scruta silenziosa, spettatrice di boccate d'aria ansanti, di occhi d'argento che avranno quello che vogliono. Spezzarmi.
Il bottone del Jeans fa un clic. 
sordo. solitario. solo.
Dita scendono nella vita del pantalone, solcano i fianchi, crude, efferate. 
Sbaglia a lasciarsi andare, sbaglia a credere che quella carne che domina si sia prostrata a lui, sbaglia, e Dio solo sa quanto, a credere anche solo per un istante che non mi ribellerò.

Sono nato per questo. Sono morto per questo. 

Siamo circondati dal nero e tu non sei abbastanza per farmi inginocchiare Asher, mi spiace. 
Arriva alle anche, forse più giù, raggiunge il lato più basso della coscia, so cosa pensa: "è fatta, è in mio potere".
So che devo fare qualcosa.
-Sei mio-.
No Asher, non lo sono.
So che devo fare qualcosa, ma non sono bravo a seguire piani. Sono bravo a seguire emozioni.
La testa scatta, libero il viso, gli mordo le labbra. Sono vicine. Le premo tra le mie, forte, spietato, di più, sempre più forte. Non mi sorprende avvertire il sapore del ferro in bocca, del suo sangue sulla lingua, che forse mi rende scarlatti i denti.
Grazie Sylwia. 
Grida di dolore e rabbia, sorpresa e risentimento, un -dannazione!- imprecato a mezza voce e mi ha inchiodato al muro, il volto contratto in una smorfia ringhiosa. 
-Dannato frocetto!-
Alza la mano. Copre la luna. Oscura le stelle. E..sta per arrivarmi uno schiaffo. 
-Dov'è quella luce che ti balla negli occhi Santorski? Dov'è il tuo incrollabilele orgoglio?-
Proprio qui.
Trattengo il respiro proprio quando il palmo sta per abbattersi contro la mia guancia e gli sputo in faccia. Con una sorta di indolenza negli occhi che trafiggono i suoi come chiodi appuntiti. 
Un momento solo e so che non mi piegherò, che preferirei morire piuttosto che dartela vinta, soccombere alle tue mani, alla pelle che adesso ribolle di sangue e adrenalina. e orgoglio. Caparbio, instancabile, orgoglio. 
E coraggio, e -levami la tua merda di dosso!- enfatizzato da un calcio seguito da un mugugno strozzato, da un uggiolio leggero.
Si piega, dolente dopo che i suoi testicoli hanno provato in prima persona l'impatto con una delle mie Converse. 
Gli ho affibbiato un calcio nelle parti basse con tutta l'ardore del momento, la foga di liberarmi, l'impeto di farlo amaramente pentire, l'intento di farli ricordare esplicitamente che non è così facile avere la meglio su chi è già danneggiato, ma sopravvissuto.
Lo spintono con energica stizza e corro via con tutta l'aria che mi rimane, le forze che racimolo e la furiosa adrenalina che rende lucida la mente, lasciandolo a terra piegato in due. L'aria della notte è fresca, ma il buio non è più sinistro, è nel buio che mi accendo, è il nero che si dimostra sempre il mio miglior alleato e quando giungo all'auto che mi aspetta, apro la portiera e mi isso sul sedile posteriore, sono totalmente in me, privo di alcuna traccia che sia successa qualcosa, come se non fosse accaduto niente. 
Mentre l'auto prende velocità e avanza sulla strada, potrei però giurare di aver sentito, con appassionato fervore, un grido da dieci decibel.
-Maledetto figlio di puttana!-
Provo una deliziosa sensazione nel sapere che quel maledetto figlio di puttana sono io.








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Non sono d'accordo con Aleks sul Titanic ma dovevo scriverlo, era necessario ai fini della sua testolina. xD
Spero che questo scempio sia stato di vostro gradimento.
Un ringraziamento speciale come sempre va a Megara X che cerca (invano) di farmi entrare nella testa del campione di Judo.
Pachiderma Anarchico


 

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Capitolo 14
*** Giovani e alla fine liberi ***


Ho provato a intasare un po' l'ordine cronologico di questo capitolo. Se dovessi riprovarci... fermatemi.
Un grazie perpetuo a chi si ostina tanto valorosamente a segurie questa storia

Pachiderma Anarchico

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- CAP. 13 -

 

 

Samuel

Ore 16.00: e' finita vero? E' il momento del finale in stile "e vissero tutti felici e contenti", vero

.

..

Aspettate, questo non è Biancaneve e i Sette Nani

.

..

..

Merda.

 

 

-Mamma non me ne frega un emerito ca..-
Un'occhiata veloce. la mia.
-..cchio di encefalotubo se Magda ha chiamato per la ventesima volta e per la ventesima volta vuole sapere cosa diamine è successo ma io per la ventesima volta persisto nel mio atto di ignorarla perché forse, mamma, io non ho alcuna voglia di risponderle.-
Sospiro, mi siedo, mi rialzo. Casa Lubomirski non è mai stata così rumorosa, neanche al tredicesimo compleanno in cui Leks ha fatto scoppiare la torta. 
Mai.
Neanche quando il padre di Aleks, Marcin Lubomirski e lo zio di Aleks, Romek Lubomirski, ebbero quel battibecco storico durato cinquanta minuti d'orologio durante il quale nonna Lubomirski tentava di distrarre i presenti con vagonate di cibo da duemilacinquecento calorie ciascuno e la Signora Lubomirski faceva di tutto, credetemi, di tutto, per evitare che il suo calmo e mansueto figlio filmasse l'intera scena. 
Non c'era così tanto caos neanche quando Aleksander si mise ai fornelli in quel fatidico giorno in cui neanche internet fu abbastanza e rischiò di incendiare cucina, soggiorno e camera degli ospiti con il sottoscritto dentro. 
Pensandoci non riesco ancora a credere di essere vivo dopo aver passato così tanto tempo con questa famiglia. 
Se avessero un cane come minimo si metterebbe a ballare la conga sulla ringhiera del tetto, giusto per essere all'altezza dei focosi geni ereditari.
Un bip e un'acuta voce femminile si leva nel corridoio d'ingresso: Leks cosa cavolo è successo? Mi vuoi spiegare perché ti sei intromesso? Qui c'è lo stiamo chiedendo tutti, Asher sembra un pazzo psicotico su Facebook e Nik è praticamente impossibile da rintracciare.. Ascolta, io, Magda, Antony, Joanna e gli altri siamo solo preoccupati per te, cosa significa che ti potrebbero sospendere? Non possono farlo..Non ora, non a te. Lo sai, noi siamo dalla tua parte. Che ha detto il preside? Vedrai basterà qualche parola di tuo padre e.. La voce di Karolina si spegne con un secco click e un ragazzo emerge dal soggiorno, entra in cucina e posa i suoi occhi di pura collera su di me.
-Se sento un'altra volta la parola "cosa", "successo","preside" e preoccupati", io.oggi.mi.sparo.un.colpo.in bocca.-
Aleksander non ha i nervi a fior di pelle, no.. Sono i nervi ad avere a fior di pelle lui.
E tutto per un minuto, ma quale minuto, un secondo, no ancora non ci siamo, un attimo, momento, spudorato frangente in cui si è persa la pace dei sensi per..cosa?
Non ho capito bene, e a quanto pare nessuno qui sembra avere la soluzione del dilemma che ad un certo punto questa mattina  sembra aver sfiorato i neuroni di tutti. 
Cosa cacchio è successo?
-Leks beviamoci qualcosa eh.. una birra..-
-Perchè non si fanno i cazzi loro?- sputa tra i denti, poggia le mani sul tavolo. -Perchè?-
-Magari meglio una camomilla.- 
Mi alzo e apro il frigo. 
-Io non è che li pesto a quei due.. li riduco a brandelli..-
La camomilla continua ad essere l'ideale.
-..due coglioni di merda che non hanno un cazzo da fare e vengono a scassare le palle a me.-
Ha pronunciato cinque parole, e quattro sono parolacce.
Dategli una medaglia, ha vinto.
-Leks vedrai che..-
-Che cosa vedrò Samuel, che cosa vedrò? Le loro teste appese sopra al camino al posto delle calze natalizie? Se è questo che vedrò, non vedo l'ora, altrimenti non voglio sapere altro.-
Alzo le mani. A quanto pare non è ancora finita. Probabilmente finirà solo quando avremo quel pezzo di carta in mano che attesterà il nostro grado d'istruzione superiore: diplomati.
Se ci arriveremo tutti interi. Qualcuno perderà il naso, me lo sento. Oggi Asher c'è andato molto vicino. Ma, detto tra noi, ho gongolato parecchio.
-Tu sai cosa succede se ti sospendono Aleksander?!-
Oh no, Barbara, ti prego, no no no..
-Oh miseria ladra, mamma quante volte ti devo dire che se Buckowoz mi sospende io gli incendio la macchina?-
-Aleksander!-
-No non lo farà, perché se lo sospendono io incendierò la sua di macchina, Barbara.-
Il Signor Lubomirski non è arrabbiato, è nero come i suoi occhi.
E questo è sottolineato dal fatto che la sua voce è pacata e ragionevole. La voce di Marcin Lubomirski è pacata in questa nota estremamente accomodante solo quando sta per scoppiare da un momento all'altro. 
Entra nella cucina e l'aria cambia radicalmente, come i fulmini in lontananza che preannunciano una tempesta.
-Allora adesso mio figlio mi farà il grande, immenso onore di spiegare a suo padre cosa gli sarà mai saltato in testa in quella che doveva essere una normale, normalissima mattina di scuola e che invece si è trasformata in un persuadere il preside di essere ragionevole verso qualcosa per cui io non lo sarei affatto.-
Ma Aleksander non è da meno in quanto a stile durante un'incazzatura. Ha già gonfiato il petto, alzato il mento, stretto i pugni, spalancato la bocca e..
-Oh andiamo Marcin, ha diciotto anni, è normale ritrovarsi in una rissa-.
Allora Dio esiste. 
Romek fa il suo ingresso indulgente nella stanza, l'aria sbarazzina e la spalla appoggiata alla parete.
-Romek, non ti intromettere anche tu per cortesia.-
Duro, severo, guarda il figlio come se avesse commesso il più imperdonabile dei peccati. Ha la mania di ingigantire un po' le cose Marcin, ma questa volta credo che non ne abbia bisogno. 
-Devo ricordarti le tue scazzottate da giovane fratello?-
-Devo ricordarti, e ricordarlo anche ad Aleksander, che non si finisce nello studio del preside per partecipazione ad una rissa meno di due settimane prima degli esami finali?-
L'attenzione sfreccia come un Bolide nelle partite di Quiddich di Harry Potter: Leks, tensione in ogni dita e il perseguire di un controllo che gli sfugge di mano, suo padre e suo zio in una discussione vivace, al limite della pazienza, di cui lui e l'ardimento giovanile sono gli assoluti protagonisti.
-Lascialo vivere-.
-Ah, Aleksander vive fin troppo.- alza una mano in segno di ammonimento.  -E cos'è che lo ha fatto risvegliare così efficacemente ultimamente?-
-Resuscitare, più che altro.-
-Romek non sto ridendo.-
La tensione si potrebbe tagliare con un coltello di plastica, quello che ti vendono con le insalate di tonno in scatola e che ti si spezza matematicamente in mano appena la sollevi. 
-Dovresti provarci qualche volta..posso insegnartelo.-
-Aleksander pretendo una risposta.-
Tutti pretendono qualcosa dal ragazzo in piedi accanto al tavolo, immobile come un'improbabile ma convincente statua di marmo di bronzo dal quale presto, io ci scommetto gli alluci dei piedi, erutterà un fiume di lava incandescente. 
Romek non lo perde di vista neanche un istante, così uguale e così diverso dal figlio, non capisce che Aleks deve essere figlio modello e studente impeccabile, atleta talentuoso e ammaliatore instancabile, che deve soddisfare le aspettative di tutti senza chiedere mai quello che vorrebbe realmente in cambio, che è bianco ma all'occorrenza nero, poi se richiesto deve diventare rosso, ma anche viola e blu, senza escludere il verde, che deve comandare e ubbidire, affascinare e fingere di essere affascinato da persone delle quali non gliene importa un fico secco, ammirare chi ha abbastanza per stare al suo fianco ma senza lasciarlo avvicinare troppo, far credere al mondo di essere esattamente la perfezione che il mondo crede di conoscere, e proteggere ciò che il mondo non deve vedere.
Attacca per difendersi, ma ha imparato a farlo sul serio, a istillare le sue regole in qualunque gioco, a vincere su tutti i fronti perché è davvero il migliore.
Ma non nel modo in cui pensano gli altri.
-Non c'è niente da spiegare, papà.-
-A me sembra che ci siamo molte cose da spiegare. Come i soggetti con cui ti sei coinvolto. Io e tua madre ti abbiamo difeso davanti agli altri genitori, e non escludo che tu possa aver avuto le tue buone motivazioni per aver fatto quello che hai fatto ma.. lui..il figlio dei..-
Oh, no.
Romek non lo faccia, quella è zona minata, un campo in perenne rischio di esorbitanti bombe atomiche. State brillantemente ostentando calma e compostezza, eleganza e fermezza, non rovini tutto così, soltanto quelle poche sillabe e sarebbe..
-..Santorski-.
la fine.
L'amico che in questo momento potrebbe mutilare un gregge di pecore a mani nude si volta, gli da le spalle, si porta due dita alle tempie. 
-Se sento un'altra sola volta la parola "Santorski" oggi mi faccio arrestare, e altro che sospensione, per vedermi dovrete venire con un permesso di visita nel carcere statale polacco.-
-Esigo una risposta Aleksander, se non vuoi che la riscuota direttamente da lui.-
Va tutto bene, va tutto bene.. allora perché ti stai avvicinando a tuo padre Leks? ehm.. Leks? Perché sembra ti possa uscire il fumo dalle orecchie da un momento all'altro? Sciogli quei muscoli contratti fino allo spasimo dai, non importa..
-E' questo il punto papà, è lui che ti da fastidio?!-
..ma importa, eccome.
Si fronteggiano, fuoco contro fuoco solo per innescare un fuoco più grande. Risolutezza contro furore. Lampo contro tuono, entrambi profeti di un'imminente bufera.
-Quel ragazzo è cambiato e tu lo sai, da quando frequenti Santorski ti comporti in modo deplorevole.-
-Forse non mi interessa se non ti piace, forse per una volta non mi interessa quello che tu potresti pensare di me.-
Assisto alla scena in silenzio, paralizzato sulla sedia che ormai riporterà il segno delle mie natiche, spettatore di uno sconvolgimento senza precedenti.
Sapevo che sarebbe successo, ma non pensavo grazie a quella testolina mora.
Anzi, forse pensandoci era ovvio che sarebbe accaduto grazie a quella testolina mora, d'altronde è così evidente che nessuno l'ha capito. Neanche loro stessi.
-..impulsivo, disubbidiente, fuori da ogni controllo che sei diventato, e per cosa?- gli punta un dito addosso, l'indice inquisitore\accusatore di Marcin Lubomirski. Una leggenda.
-Che cos'è Aleksander? Un tossicodipendente? Un criminale? Alza il gomito?  Ti sta portando sulla cattiva strada? Dimmelo Aleksander, basta che tu mi dica se ti ha abbindolato, costretto, minacciato e io ti assicuro che se ne pentirà amaramente. Lo trascino in tribunale e vedremo quale dei miei colleghi sarà capace di salvarlo..-
-Ma ti senti?- Leks sposta malamente una sedia, dall'altra stanza si sente la voce concitata della signora Lubomirski dare spiegazioni al telefono. 
-Devi sempre esagerare, drammatizzare il tutto, se no non sei contento! Non può essere una normale quanto comune quanto banale parapiglia tra adolescenti no, tu inizi a farti i film mentali alla oo7 con avvocati, illegalità e criminali perché chiunque non la pensa come te è un terrorista di stato.-
E' stato più di una parapiglia, e questo Leks lo sa fin troppo bene.
-Questo parapiglia è stato descritto dal tuo allenatore come alquanto violento.-
-Ma certo, mi hanno portato in presidenza cosa avrebbero mai potuto dire? "No signori era una insignificante mischia fra diciottenni ma noi siamo intervenuti come se si stessero scannando a vicenda sull'orlo della terza guerra mondiale"?-
Ma voi vi stavate scannando a vicenda sull'orlo della terza guerra mondiale. 
-Ti conosco abbastanza bene Aleksander da capire quando minimizzi i fatti.-
Annuisce, divarica le gambe, pianta pesantemente i piedi a terra. 
-Okay papà, d'accordo, si è innescato un girone infernale, ci siamo dati battaglia in mezzo a un corridoio prendendoci a pugni, calci e randellate sui denti, starò sicuramente sanguinando da qualche parte e se non fossero intervenuti probabilmente, ma che dico, quasi sicuramente avremmo continuato all'obitorio. Va meglio così?-
-Bene- sospira, si raddrizza, scocca un'occhiata velenosa a Romek come se tutto il trambusto fosse colpa sua e del "differente quanto incredibilmente poco funzionante modo di educare" del fratello, che nel corso degli anni si è sempre visto spezzare una lancia verso la gioventù, le passioni e la confusione, entrando sempre in contrapposizione con il fratello in difesa della libertà. 
Aggiusta con un movimento secco del polso l'orologio costoso ancorato all'articolazione. 
-Il preside ci farà sapere a breve. Tu spera Aleksander, prega che non ti accada niente di compromettente prima degli esami e del campionato di Judo perché altrimenti questa bravata te la faccio ricordare per il resto dei tuoi giorni. Comunicalo anche a Santorski, dato che ti piace tanto avercelo sempre intorno.- l'indice leggendario adesso è totalmente premuto sul petto di Aleks, che sostiene lo sguardo privo di emozioni del padre. -Se ti metti nei guai per colpa sua, o se lui si mette nei guai per colpa tua, perchè ripeto, io ti conosco, vi mischio come un mazzo di carte. -Mostra i palmi delle mani, la voce accesa di un'allegra minaccia dal tono scontato. 
-Non si capirà dove inizia uno e finisce l'altro.- 
Scompare oltre Romek, lasciandosi dietro il figlio che è indeciso se sbattere i piedi a terra, ridere o sbraitare. 
-Adesso te lo sta andando a mettere per iscritto.-
-Zio..- sospira -puoi andare a controllare che mamma non si sia buttata dal balcone? Io vado a trovare qualcosa per il mal di testa. Grazie.- mi trascina con sé, ci
chiudiamo nella stanza. 
Non leggeteci doppi sensi.
-Tuo padre o è un mago o non ha idea della ben accetta ammonizione che ti ha presentato..-
Leks si butta sul letto, calcia le scarpe lontano e si porta le mani sul viso, poi solleva i palmi, apre gli occhi e si puntella sui gomiti.
-Che?-
-Vi mischia come un mazzo di carte..-
Sbatte le palpebre, prende un cuscino, me lo lancia addosso a tutto gas. 
Lo afferro per un pelo. Sa essere letale anche con un cuscino. E adesso cosa farà? Uccidere con una Lelly Kelly?
-Ma dài dovresti essere contento..- mi avvicino, cauto. -Non si capirà dove inizia uno e finisce l'altro.- ridacchio divertito della mia stessa, avventata ilarità con un Aleksander Lubomirski che è ancora drasticamente incollerito.
-Samuel se ti avvicini ancora di un altro passo non si capirà dove tu inizi e dove tu finisci.-
Lo conosco. Forse più di Marcin. 
Lo conosco perché l'ho visto in momenti in cui non c'era nessun altro, quando ci nascondevamo in questa stanza lontani dalla realtà e lui mi mostrava quella parte di sè che gli altri possono soltanto immaginare. 
Quella imperfetta, vulnerabile, anche emotiva e perché no, sensibile, amica. 
Quella parte così viva che pare brilli di luce propria, come una supernova dinnanzi alla quale le altre stelle svaniscono, inghiottite dalla sua luce. 
Lo conosco perché so che ha cinque tipi di sorriso e altrettanti di risate, che quando alza quel sopracciglio destro ti sta chiaramente consigliando di non innalzarti al suo livello, che quella forza nei suoi occhi sfida l'universo intero. 
Non fa parte della massa, non è davvero uno di loro, di quei tanti visi uguali e affabili che gli fanno solo comodo, e la massa lo sa che c'è qualcos altro sotto la corazza in acciaio di guerriero inoppugnabile e l'aria da ventiquattro karati che gli ballonzola perennemente intorno. 
Lo sa ma non fa niente, non si sente in dovere di dover fare niente  fino a quando il senso rotatorio della Terra è quello giusto e fino a quando ogni cosa ha un posto preciso in cui essere inquadrata, non hanno il coraggio di mettere in discussione la sicurezza che lui offre alla loro mediocrità.
-Cos'è che ti ha dato tanto fastidio Aleks? Hai partecipato..anzi, aizzato decine di risse, in questa non avevi neanche la priorità assoluta, perché dovrebbe essere diversa dalle altre?-
A volte mi sembra di essere uno psicologo, che le nostre confidenze siano sedute fra paziente e medico, ma è l'unica maniera che conosco per farlo parlare, fare il finto tonto, lasciare che, con domande banali, le parole fluiscano come una mareggiata fuori da lui. Solo così ho sempre avuto una piccola speranza di scostare l'Aleksander che si vende al mondo da quello che non è mai stato in vendita. A nessun prezzo.
-E' la stronzata sbagliata al momento sbagliato.-
-Sicuro? Perché io credevo che era la persona giusta nella stronzata sbagliata.-
-Samuel non voglio starti a sentire.-
Giochicchio con un orologio sul comodino, costoso quanto un hotel a due stelle..a New York.
-Non è colpa di nessuno Leks.-
-No è colpa loro!- si alza di scatto e mi sottrae l'orologio dalle mani. Se lo mette al polso pur di non avere l'inquietudine di vederlo volare pericolosamente nelle mie mani. Adesso ne ha due che tintinnano l'uno contro l'altro come minuscoli brindisi. 
-No, non lo è- lo guardo dritto negli occhi, riflessivo. -Era una questione loro, tu ti sei intromesso. Ne avrebbero pagate loro le conseguenze, mentre adesso le paghi anche tu, perché?-
Mi osserva, socchiude le labbra, le schiude, le richiude. Mi manda a quel paese. Si gira.
-Ti ha dato fastidio quello che hai sentito?-
-E' una cazzata. Non dovrebbe fregarmene niente..-
Aspetto che continui, paziente, perché continua, ve lo dice Samuel.
-Ma cazzo se mi ha dato fastidio quello che ho sentito.- ringhia, si volta, si sfila un orologio dal polso e lo scaraventa privo di contegno sul letto.
Neanche in preda alla furia più ceca sacrificherebbe uno dei suoi amati orologi. 
Forse solo in un caso.
E cazzo quanto vorrei essere lì per assistere alla scena, se mai accadrà in questa vita.
-Adesso ti farò una domanda al quale nessuno, e ripeto, nessuno di quelli che ti conoscono penserebbe mai che tu sapresti rispondere, semplicemente credono che sono "dettagli" dei quali la tua folta intelligenza non ha bisogno di ricordarsi. E che questo valga con chiunque.-
-Sam..- le sue mani finiscono sulle mie spalle in una stretta apprensiva, l'espressione contrita del viso è quasi maniacale. 
-..Di che cazzo stai blaterando?-
-Con quante persone sei andato a letto in diciotto anni di vita?-
-Quante..diamine, ehm.. cinque.-
Lo guardo.
-Sei.-
Lo fisso.
-Nove..-
Lo squadro.
-Quindici?-
Lo fulmino.
-Venti.-
Annuisco interessato.
-Okay sgualdrina più di venti, abbiamo finito?-
No che non abbiamo finito.
-E da quando stai con Magda?-
-Con nessuno.-
Incrocio le braccia.
-Ehi! Sono sincero.- si preme appassionatamente una mano sul cuore. -Ho solo flirtato con qualcuna.- 
Fra poco mi commuovo.
-E di tutte queste persone cosa ti ricordi?-
Il sopracciglio gli parte in aria. Gli schizza fin all'attaccatura dei capelli con velocità esorbitante, segno che ha appena inteso e concepito le mie domande come una sfida. E da che mondo e mondo non si è mai visto che Aleksander Lubomirski si sia tirato dimetro dinnanzi ad una sfida.
-Mi ricordo- inizia, con la voce impastata di galante ma altisonante superiorità, -che una si chiamava Laila.. quell'altra, la francese.. era.. massì la rossa.. dài la riccia!..-
-Ci ho flirtato io o tu?-
-No con quella ci sono andato.. Sono andato un paio di volte con Karolina. Poi c'è quella con cui ho limonato che..-
-Detesto questa parola.- è inevitabilmente l'accompagno con una smorfia disgustata. -Non usare i termini di Joanna quando sei con me per favore.-
-Si ma.. era bionda, magra, austriaca- alza un dito con fare vittorioso, -e si chiamava Clariss.-
-Si.. e poi?-
-E poi che?!-
-Sei andato a letto con mezza Polonia..-
-Un quarto.-
-Tre terzi dell'Europa..-
Mi sbatte una mano in fronte. Credo che i miei neuroni stiano sbatacchiando perplessi e spaesati.
-Sono stato molto tempo con Sarah, mi piaceva davvero.-
-Ci sei stato tre settimane.-
-Era un fidanzamento ufficiale.-
-Non ho dubbi.-
-Mi ha spezzato il cuore quando mi ha lasciato.-
-L'hai mollata tu la sera del suo diciott'anni Leks.-
-La tedesca! La tedesca, da Amburgo, biondo cenere, occhi verde foglia, spruzzata di lentiggini sul naso, abbastanza chiara, quarta di seno e tanga in pizzo. Bam!-
Sbatte le mani compiaciuto.
Inarco un sopracciglio in un un'imitazione dell'originale che mi sta difronte.
-Ma bravo, e come si chiamava la tedesca?-
-La tedesca.. la tedesca si chiamava.. aspetta aspetta aspetta, aveva un nome particolare.- gira per la stanza, prima in circolo, poi a quadrilatero, misurando il
parquet con i passi. 
-Un nome straniero.. difficile, molto difficile da ricordare.. qual era il nome.. complicato.. c'è l'ho! No no.. era con più lettere..una zeta.. compro una vocale. Forse iniziava con una consonante sorda..-
-Si chiamava Alexandra.-
Si ferma. Si ferma nell'istante in cui neanche il trapezio che ormai ha preso forma sul pavimento sulla scia dei suoi passi può dargli ragione. Perché l'ho messo con le spalle al muro ancora una volta, e non perché sia semplice aggirare una mente sveglia quanto quella di Leks, ingegnoso macchinatore di stravaganti peripezie, ma perché io ormai li vedo i tasti che devo premere, le strade che devo aggirare, i sentieri nascosti che devo intraprendere per farlo arrivare non dove dico io, ma dove la sua fierezza non gli permetterebbe di andare.
E' un vizio, un difetto, forse la più grande pecca che la maschera che indossa giorno dopo giorno gli ha lasciato, l'unica increspatura in un'acqua assolutamente meravigliosa, il ginocchio rotto della statua di Michelangelo, il suo tallone d'Achille che invece di condannarlo lo ha salvato, ma cambiandolo. 
L'amico più caro che ho, forte, arguto, capace di innumerevoli cose, anche obiettivamente un bel vedere, ha un difetto, che vuoi per finzione, vuoi per necessità,
gli si è attaccato addosso come una sanguisuga. 
E' bravo, maledettamente più bravo di quanto egli stesso avrebbe mai potuto immaginare a mentire a sé stesso. 
Si è spesso convinto che i ruoli che interpretava erano veri, che la recitazione per mantenersi a galla fosse autentica, che quello che si guardava allo specchio la mattina nel bagno della propria stanza e quello che scorgeva nei riflessi dei display di tecnologici cellulari nei corridoi di scuola fosse lo stesso Aleksander.
E forse si è dimenticato che Aleksander non è uno solo, che c'è né un secondo, un terzo, forse un quarto; che quello che è e quello che deve essere sono due cose differenti, che percorrendo una strada non deve perdersi, che la faccia di un diamante, un diamante vero, non è mai una, ma molteplici, e le sfaccettature di luce su di esse, infinite.
Forse lui se ne è dimenticato, ma io no.
-Samuel mi lasci fottere una buona volta?! Non sono in vena di lasciarmi psicanalizzare da te e dalla tua irritante pseudo-passione per la psicologia come non sono in vena di sentire le cazzo di lamentele di mio padre o pensare a quel pezzo di stronzo che pensa di salvarsi quel visino con quella sua aria di superiorità di merda. Se non c'ero io stamattina a salvarglielo il visino gliel'avrebbe sfigurato!.. avrei proprio voluto vederlo.-
L'esclamazione c'è, l'autorità di un capo anche, ma la voce si è rotta. 
Impercettibile, invisibile, inafferrabile, ma si è rotta. Io sono qui, io l'ho sentito lo spazio, lo spacco, la voce flebile su quella insignificante nota che ha cambiato ogni cosa.
-E di Magda..cosa ti ricordi?-
Risponderà, nonostante sia irritato da me, arrabbiato con sé stesso e con l'oggetto implicito ma principale del suo breve cedimento, deve dare un senso alle emozioni che prova in questo momento. Deve assegnare loro una logica, una razionalità, non può lasciarle vagare nell'aria, deve controllare il vortice che rischia di diventare tornado. 
Deve sapere di avere il controllo delle redini del cavallo, sempre e comunque.
-Apparte l'aspetto fisico?- la sua voce non è più quella di prima. -Quello lo conosco piuttosto bene. So a memoria la sua casa..il suo colore preferito dovrebbe essere il verde, veste firmato, è fissata con gli orecchini piccoli, le piace legarsi i capelli, è allegra, gioviale, conosco i suoi genitori, che lavoro fanno e dove lo fanno, il posto in cui è stata la scorsa estate..si ubriaca di birra se non gliela tolgono dalle mani, mi imbratta le labbra di lip gloss alla frutta.-
-E..?-
Sospira. Chiude gli occhi. -Cosa dovrei sapere di più Samuel? Ci conosciamo da una vita ma non stiamo insieme da una vita, credo di sapere abbastanza, direi.-
Annuisco, mi sfioro il mento, in apparenza ricercando un mio pensiero.
-Se ti faccio un'altra domanda mi prendi a pugni?-
Mantiene la calma perché sta rientrando nel personaggio. Focoso, impavido, ma razionale.
-Me ne hai fatte una dozzina, la tredicesima te la concedo.-
-La casa di Santorski -meglio seguire le sue regole chiamandolo per cognome- la sai a memoria?-
Avete mai provato ad osservare un artista che disegna un ritratto realistico? Il modo in cui la punta scura della matita si muove sugli spazi grandi e nei dettagli, le sfumature che regolano la luce e il buio sui tratti del viso, la gomma che schiarisce o annulla del tutto tracce e caratteristiche, dando espressione impressionistica alla figura.
Ecco, in questo momento è come se la mano di un pittore avesse cancellato bruscamente ciò che rendeva il volto di Aleksander scocciato e stufo e gli avesse ritracciato i lineamenti come se dovessero trapassare con la loro temibile intensità chiunque avesse guardato il suo ritratto. 
E mi sento un po' trapassato e prostrato dallo sguardo tirato con cui spera di zittirmi una volta per tutte.
-Sì.-
Ma sa bene che non accadrà.
-Il suo colore preferito?-
-Il nero.-
-Veste firmato?-
-Sì, ma non è un fissato dell'ultima moda o dell'eleganza.-
-Con che cosa è fissato?-
-Troppe cose.-
-Se gli tocchi i capelli?-
-Ti spara.-
-Com'è in generale?-
-Interessante.-
-O?
-Inebriante.-
-Conosci i suoi?-
-Sì.-
-Che lavoro fanno e dove lo fanno?-
-Sì e anche che sono rompipalle peggio dei miei.-
-Si ubriaca?-
-Non che io sappia.-
Mi sfracella la cornea con due occhi di puro avvertimento ma io lo precedo, ignorando volutamente la sottintesa minaccia dei suoi di spaccarmi in mosaico la testa se non la smetto. 
-A che sopracciglio ha il percing?-
-Sam mi hai scaglionato..-
-Non lo sai. E io che pensavo che non sfuggisse mai niente al tuo controllo..-
-Sinistro.-
-Colore capelli?-
-Nero-blu.-
-Sei bravo con le tonalità.-
-Sei bravo ad adularmi.-
-Grazie.-
-Non c'è di che.-
-Labbra?
-Rosa cipria.-
-Occhi?-
-Azzurro vetro.-
Cerco di frenare un sorriso. 
-Pelle?-
-Palle?-
-Pelle.-
-Bianco cadaverico.- mi fa una smorfia.
Il sorriso mi arriva alle orecchie. 
-O?-
Alza gli occhi al cielo. 
-Porcellana.-
-Si lascia toccare mentre viene o no?-
Il pugno che mi smussa una spalla non me lo leva nessuno, ma ne è valsa la pena.
-Sei un emerito idiota.-
-E tu un emerito cazzaro, andiamo, ti ricordi persino com'era vestito quando quella mattina si è presentato a scuola con l'eye-liner.-
Sbuffo divertito, il sorriso mi muore sulle labbra..
-Te lo ricordi.-
..solo per rispuntare più splendente di prima.
Sghignazzo incredulo.
-Non ci credo.. te lo ricordi!-
-Vagamente.- si difende immediatamente lui.
Ma ormai la Ferrari è partita, il tragitto è intriso di ostacoli, gli avversari sono notevolmente abili, ma cazzo quanto corre questa Ferrari.
-Questa la devi sparare..-
E' tutto fuorché rilassato, nell'aria luccica l'elettricità che sprigiona ogni contrazione  di ogni fibra di ogni muscolo del suo corpo. Siamo in pieno territorio minato e
io lo sto costringendo a camminare sulle bombe.
E' un prato fiorito* senza fiori.
La sua è una risposta di sfida.
-Felpa stile patch work bordeaux a strisce nere con zip sul lato destro, t-shirt nera con disegno gotico argento, Jeans stretto grigio scuro Ralph Lauren, Converse nere, borsa a tracolla nera, auricolari bianchi, eye-liner, smalto nero a un dito. Adesso sei contento?-
Credo che una lieve incrinatura di soddisfazione abbia coronato il sorriso con cui incoraggiavo ogni parola che usciva dalla sua bocca, sicure come sicari, dritte come le armi che impugnano e che mi confermano la verità. 
-Adesso posso dirtela una cosa Leks? Da amico sincero molto psicologo un po' rompipalle ma che alla fine si ritrova sempre con la ragione in mano?-
Una verità che Leks deve sentire. Almeno una volta, per una volta, deve trasformarsi in sostanza.
-Solo perché hai specificato che sei un rompipalle.. Dici.-
E quando si decide di sapere, si deve essere pronti a tutto.
Faccio un passo verso di lui, poi un altro, lento, senza fretta, avanzo verso la persona che più mi sta a cuore, la persone che ho ammirato così tante volte da non averglielo mai detto. L' ho ammirato prima, quando in terza media un ragazzo lo ha chiuso nella palestra e lui per ripicca gli ha incendiato lo zaino, senza premurarsi di salvare niente dal suo interno, sia chiaro; lo ammiravo mentre si guadagnava con Dio solo sa quanta fatica una posizione, un posto nel liceo e poi nella società, padrone di un podio tutto suo ma che si era valorosamente costruito da solo, ancora il podio più acclamato e ambito ma sui cui nessuno, in quattro anni, è mai riuscito a salire senza venire catapultato giù subito dopo; e lo ammiro adesso, che sta delineando il ragazzo che è, l'uomo che vuole diventare, che deve fare a gara con le sue emozioni, che deve fare a pugni con i suoi sentimenti. Lo ammirerò qualunque cosa deciderà, anche se sceglierà di nascondere ciò che è realmente, io sarò al suo fianco.
Sono suo amico, sono suo fratello, sono suo complice, sono con lui. 
E forse è un bene che questa verità, velata, allusivamente espressa perché vorrei evitare che mi venga smussata anche l'altra spalla, la senta da me, da una persona che gliela farà vedere per cosa è davvero, senza stravolgerla, senza profanarla.
Gli poggio una mano sul petto, all'altezza del cuore.
-Leks, se io dico Sarah..qui dentro non succede niente.-
Un lampo si improvvisa nei suoi occhi. 
Si oscurano.
-Se dico Karolina..- scuoto la testa, lentamente. 
Il suo sguardo è un'enigma.
-Se dico Magda- l'altra mano segue la prima, ma è solo silenzio, -questo non batte più forte.-
Non ho più il suo sguardo su di me, lo ha spostato, oltrepassandomi, oltre la grande vetrata della sua stanza.
-E' per questo che non posso perdonarlo questa volta.- 
E il vetro gli mostra, in tutto il suo splendore, un cielo di un blu chiaro, armonioso, un azzurro piacevole, delicato, ossequioso degli occhi che si adagiano su di lui, non colpisce la cornea, la ammalia, la conquista, la seduce con la fragile sfumatura del suo turchese accattivante. 
-E' quasi come guardare il mare.- mormoro, non volendo interrompere la contemplazione di qualcosa che va al di là di un celeste e qualche nuvola.
Qualche secondo dopo la sua voce sfiora gli accordi del silenzio.
-Il mare in tempesta.-

 

Ore 12.00: i Romani sarebbero stati fieri di noi, ci siamo azzannati come tigri in un anfiteatro.

Pensandoci è un bene che tutto il putiferio sia avvenuto nell'ora in cui ci sarebbero stati più occhi puntati addosso, in questo modo abbiamo evitato di finire all'ospedale per gravi lesioni e\o fratture. 
Le dodici, suono della campanella che annuncia l'inizio della pausa pranzo, un branco di circa ottocento studenti riversati nei corridoi con la forza di rinoceronti e la scalmanata delicatezza di rinoceronti impazziti.
Ci sono due cose a cui le persone non dicono mai no: le pause e il cibo. Quando poi questi due elementi si combinano in uno solo beh.. lascio a voi immaginare il trambusto affollatosi tra scale, corridoi e aule mentre ragazzi tra i sedici e i diciannove anni inneggiano la loro matura visione della vita facendo a gara per prendere i posti più ambiti della mensa o correre a perdi fiato per arrivare per primi onde evitare la fila chilometrica nel tentativo di arraffare qualcosa da mangiare. 
E ovviamente le coincidenze non sono mai troppe. 
Il tavolo a cui si apposta il nostro gruppo è riservato solamente ai sottoscritti, nessuno si avvicina a quelle sedie neanche con il pensiero e chiunque ci abbia provato nel corso dei primi anni, fidatevi, non ci ha riprovato mai più.
Questo perché noi gravitiamo intorno all'asse di temuto rispetto di Aleksander e Asher, e se c'è una cosa che il secondo sa fare meglio è intimidire chiunque non la pensi come lui. 
E alla suddetta ora si unisce sempre alla nostra rilassata marcia verso la sala mensa dopo il corso avanzato di informatica, eppure questa mattina non si vede da nessuna parte.
Non che ci siamo preoccupati più del necessario a guardarci oziosamente intorno, "sarà andato a sfottere qualche matricola", è il pensiero corrente. Avrei voluto che non ci fossimo sbagliati.
Perché Asher, l'alto, vispo, slanciato, irrequieto Asher, con i suoi occhi di pura filigrana d'argento che nell'intensità assomiglia più a filo spinato, non è intento a spaventare nessuna matricola o a massacrare il sacco da boxe mentre il suo gruppo si dirige verso il tanto ambito pranzo più il gossip di metà giornata che deriva da quegli innumerevoli tavoli. 
Ricordo perfettamente il momento, come se non fossero passate più di quattro ore ma solo quattro minuti.
Il chiacchiericcio è dilagante, assordante e confusionario, Antony sta dicendo qualcosa a proposito di una gara di skateboard alla pista in centro mentre Joanna racconta ad alta voce dell'ultimo segreto della sua nuova-ex migliore amica, che era una gran troia e per questo non sono più in rapporti.
Una grande amicizia, durata ben un mese. Come se essere intimi amici di Joanna a lungo termine fosse umanamente possibile.
Le parole si susseguono, si confondono, si sovrappongono le une sulle altre, le borse sbatacchiano alle schiene e alle braccia, c'è chi, non essendo abbastanza importante da avere una postazione propria , si affretta sul pavimento immacolato, chi fa partire musiche assordanti dai cellulari e chi si contorce in forti risate dalla dubbia provenienza. 
E' sempre un gran casino l'ora di pranzo. 
Ma ad un tratto il casino di centinaia di adolescenti cessa, scompare, svanisce nel nulla, letteralmente.
Le voci si sono man mano affievolite, fino a lasciarne qualcuna sporadica nell'aria improvvisamente meno accaldata, poi si sono spente anch'esse. Gli sguardi si cercano, domandandosi silenziosamente o con qualche parola veloce cosa sta accadendo, le mani stringono cellulari, borse o mani, i corpi impazienti si sono inaspettatamente fermati, bloccati nella posizione di curiose statue imperfette. 
Anche noi ci siamo fermati, proprio nel momento in cui il silenzio improvvisato è stato violentemente rotto da respiri brevi, veloci, affannati, intervalli e altre parole ansimate, un lamento soffocato che può essere benissimo un guaito ma anche una domanda o magari una risposta nel mentre di una respirazione irregolare, discontinua, inconfondibile. O quasi.
La risposta al quesito che affligge l'interminabile baraonda di presenti viene sventato dall'avanzare lento e inequivocabilmente pomposo di capelli biondo pallido e liquidi occhi grigi.
E i respiri ansanti continuano alternandosi a brevi pause, alternandosi a frasi incomprensibili sotto l'assedio di rapidi respiri.
E tutto precipita vorticosamente in un oceano di botta e risposta senza precedenti.
Perché dall'illogicità della registrazione che proviene dal cellulare di Asher, in mezzo a due file di anime immobili, c'è nè una ancora più immobile, ancora più innaturalmente ferma, da le spalle a tutti e sembra aver capito qualcosa che a noi altri sfugge senza ritegno.
Se mi avessero detto quello che sarebbe successo di lì a un lasso di tempo infinitamente breve, non ci avrei creduto. 
Perché nella marmaglia intrecciata di reti di soffi, fruscii, emerge un suono, fastoso, solenne, tremendamente distinto che prende forma nell'aria come un fantasma dalle rosse catene. 
Un sussurro, una parola, un alito di vento che forma un nome, un nome troppo afferrabile per confonderlo con qualsiasi altra cosa: "Dominik". 
E' seguito da un flebile gemito e due, veloci, sibilate parole, comprensibili nell'irrazionale ma ragionevole discorso che va formandosi come la scia di un shuttle nel cielo limpido. 
"Sei mio."
Come avrei potuto crederci?
Chi erano quei due che stavano diventando troppo velocemente i protagonisti di una macabra commedia che sfociava nel thriller?
A quel punto accadde l'impensabile. 
Un impensabile talmente tanto inconcepibile che me ne accorgo solo io nell'assordante rottura di fragile tolleranza che si è stancamente trascinata fino ad ora: la faccia di Aleksander. 
La faccia di Aleksander quando il quadro gli si forma davanti molto più vivido, quando i tasselli coronano un'immagine che gli suscita sui tratti del viso il disintegrarsi di tutte le maschere, di tutti i ruoli, di tutto il ferreo autocontrollo esercitato con innegabile maestria in anni. 
Le labbra contratte, il corpo ingabbiato in una posa rigida e gli occhi ardenti, lanciano fiamme e scintille, sembrano sul punto di incenerire il mondo. 
Le redini del cavallo gli sono sfuggite di mano e quel cavallo scalcia, indomato, selvaggio, eccome se scalcia.
E lui rimane irto, impotente e più infuriato di quanto l'avessi mai visto, dinnanzi all'inconfondibile registrazione della voce di Asher agghindata dagli ansimi di Dominik.
E poi la voce di Asher la palpiamo in diretta, in mezzo al corridoio più luminoso della scuola, in mezzo a guerre mai terminate e a maree mai assopite.
-Ti è piaciuto, eh Dominik?-
La registrazione continua, infinita.
E lui non si volta.
-Ti è piaciuto come ti ho scopato? -
Posso avvertire il cambiamento in Aleksander nello stesso istante in cui lo vedo sul volto di Dominik. 
Karolina si lascia sfuggire un gridolino raccapricciante.
-Sono stato bravo Dominik?-
Asher continua a parlare, imperterrito, qualcuno dei suoi più vicini inizia ad alleggerire l'atmosfera raggelata con risate che non raggiungono la moltitudine, che non suscitano altro che disgusto in me e qualcosa a cui ancora devo assegnare un nome in Aleksander. 
Asher continua a sbandierare ai quattro venti la verità di ciò che ha in mano, a farsi superbamente beffe della situazione, inconsapevole dei due paia di occhi che aleggiano su di lui, rapaci, disgustati, ribelli. 
Gli occhi di Dominik fu la cosa che ci colpì, o che a me personalmente fece venire i brividi.
Ghiaccio di un azzurro chiaro, trasparenti, privi di coperture, finzioni, così guerreggianti di indocilità, così lucenti di fiammeggiante sovversione da non lasciare spazio a nient altro. 
E gli occhi di Aleks.. Dio se solo li aveste visti.. adombrati, bollenti, furiosi, l'ambra scura bruciava con selvaggia ferocia, le labbra strette in un'unica, ermetica linea di scalpitante rabbia. Non mi degna di uno sguardo, non degna di uno sguardo nessuno di noi, di loro, nessuno di particolare. 
Perché in quell'istante nessuno era abbastanza importante da guadagnarsi il suo interesse tranne uno, una testa mora su una pelle candida aveva totalmente addosso il burrascoso fremito dell'attenzione di Aleksander che, passando lentamente con lo sguardo dall'uno all'altro, da Asher, sorridente e vittorioso alla figura imperscrutabile di Dominik, si ferma di più su quest'ultimo, come se non volesse ammetterlo, come se gli avessero toccato, e non solo, preso, rapito ciò che considera suo e suo soltanto.
Doveva accadere, prima o poi, doveva smuoversi qualcosa nelle profondità di quest'ammasso di orgoglio e rancore in putrefazione, di ostinata fierezza e vano negare. Perché sono uccelli senza gabbia il fuoco scoppiettate che ho accanto e il ghiaccio tagliente che vedo difronte, perché al di là di tutto, sono avversa insofferenza e pura insurrezione. Sono liberi.
E non puoi imprigionare ciò che è nato libero.
E' chiara, la situazione è immacolata quanto il pavimento del corridoio in cui si è congelato il tempo. 
Asher ha una registrazione, la registrazione dell'inconfondibile ansimare di Dominik, sostiene di esserselo fatto e non arriva nessuna obiezione, nessun suono, neanche un fievole fiato a contrastare le sue affermazioni, affermazioni che toccano in Aleksander punti reconditi del suo essere che non andrebbero mai, mai toccati.
Dominik e lì, in mezzo alle acque del fiume di studenti riaccesi che sussurrano, mormorano, parlano, approfittando dell'instabile e succoso momento per avanzare ipotesi l'una più inverosimile dell'altra. 
E Dominik rimane lì, ammalappena si può vedere il morbido alzarsi e abbassarsi dell'addome, segno che sta respirando, segno che è vivo. 
Perché è vivo Dominik, più vivo di tutti noi messi assieme, più vivo di Joanna che è febbrile con i polpastrelli sulla tastiera del cellulare in contatto con mezza scuola, più vivo della squallida regalità di Asher quando capisce di aver vinto.
Non l'avevo davvero capito, fino a questa mattina, il possessore di due occhi tanto brillanti quanto oscuri, non l'avevo davvero compresa l'aria che aveva fatto perdere la testa a Karolina, alla ballerina bionda, a una certa Sylwia di cui mi aveva parlato Aleksander e ad Aleksander stesso, fino a quando non l'ho sentita sulla mia pelle, l'aria intarsiata di coraggio e imprudente ribellione di quel ragazzo dai capelli neri e la pelle bianca. 
Se l'avessi capito, se l'avessimo fatto, probabilmente non sarebbe stato così sconvolgente assistere all'avanzata sicura, implacabile, spietata di Dominik, ai passi che lo separavano sempre meno da Asher, ridente, ignaro di quanto il mare possa essere imprevedibile,  di quanto l'oscurità possa essere suadente, di quanto la luce possa essere violenta. 
Il pugno di Dominik si infrange sulla faccia di Asher, le nocche della sua mano destra, senza remore, senza paura, senza neanche l'accenno di un tentennamento, gli rovinano sul naso, paurosamente precise. 
Asher barcolla, il cellulare si fracassa a terra zittito mentre lui cade all'indietro, sorreggendosi malamente con un braccio. Con l'altro si tasta il volto, tagliato da un sottile rivolo di sangue cremisi. 
Siamo trasaliti per la seconda volta, così ciechi, così superficiali da stuzzicare chi ha la tempesta dentro.
Gli occhi di Asher lo guardano inerti per un secondo, stralunati, l'aria grava di emozioni pericolose. E tutto successe così in fretta che pensandoci quattro ore dopo non so ancora darmi una spiegazione sul come sia stato tanto pronto.
Forse, c'è lo aspettavamo, infondo. 
Il fuoco di Aleksander me lo aveva sussurrato.
L'argento tra le palpebre di Asher si vena di veleno ed egli si lancia addosso a Dominik con la brutalità del risentimento, della sorpresa e di tutto l'amaro accanimento che inneggia nelle sue iridi quando si tratta di lui. 
L'avrebbe sbattuto a terra, gli avrebbe frantumato le ossa, cazzo se aveva tutta l'intenzione di farlo, era lì lì, l'aveva raggiunto, lì, a neanche due passi da lui, lì dove il ghiaccio si incrina, c'è l'aveva nelle mani, ma altre mani glielo levarono dalla presa.
Neanche il tempo di per Asher averlo, forse solo di sfiorarlo con un dito e Aleksander non è più accanto a me. 
Dominik è fuori, completamente fuori dalla portata di Asher, Asher non ha potuto neanche rasentarlo perché qualcuno glielo ha impedito, perché non so se era scritto da qualche parte, ma se non lo era allora lo hanno cambiato, questo fottuto destino che non apparteneva a loro. 
-Che CAZZO stai facendo!?-
Asher non solo è stato bruscamente spinto all'indietro, ma una muraglia di audacia, tecnica e muscoli non gli permette di fare neanche un altro accenno verso Dominik. 
Perché Aleksander non glielo permette, di avvicinarsi a Dominik.
Asher è incredulo.
-Sei impazzito..-
Un po' tutti, un'impavida franchezza si è impossessata di noi, e allora scorgo che Asher ammette soltanto la sua di conclusione, ovvero l'arrivare a Dominik anche a costo di passare su Leks con la forza e vedo Nik che, degno dell'alta opinione che ho di lui, ha scritto negli occhi cosa sta per fare. Mi intrometto, lotto con le unghie e con i denti e con una buona dose di resistenza nell'afferrare Dominik da dietro, nel bloccargli le braccia e trattenere la protesta che esibisce tutto il suo corpo nell'assoluto rifiuto che prova nel vedere Asher che, con la sua irruente aggressività, tenta di togliere di mezzo Leks.
-Dominik fermo.. porca..fermo..!- 
Ora sì che ansimo, affannato, mentre stringo tra le braccia un fulmine in caduta libera, un tempestoso cavallo imbizzarrito.
E questo cavallo nitrisce con quello che sembra più un ringhio.
-Asher non toccarlo!-
Colgo di sfuggita le mani che separano energicamente i due contendenti proprio quando una possente gomitata mi trafigge le costole.
-Caz..zo..- 
Lascio andare quella furia mora tenendomi una mano sullo sterno.
Dominik mi ha appena sfracellato le costole e le parole che seguirono furono fin troppo prevedibili.
-Brown, Santorski, Lubomirski cosa credevate di fare?! Dal preside, immediatamente.-
-Professore veramente..-
-E anche tu Kowaski. Muovetevi, subito.-


Mancano 10 minuti alle 14.00 e posso già comunicare cosa dovranno scrivere sulla lapide. Il mio testamento avrà come unico erede Zaphir, egli è l'unico degno dell'ultimo pensiero prima di lasciare questo mondo, l'ultima creatura a cui relegare l'ansimo  fatale, il respiro tra i respiri mentre il canto melodioso di una fenice si leva nel coro di una luce accogliendomi all'ingresso dell'altra esistenza. 
Ah, Zaphir è il mio cane.


Il preside osserva per la frazione di tre secondi l'assortito quartetto che è stato trascinato di punto in bianco nel suo ufficio. Sfila gli occhiali da lettura dal viso rubicondo e li posiziona, senza fretta, su di un libro rilegato in pelle. I fogli sotto il suo sguardo vanno a fare compagnia alla modesta pila di carte nel primo cassetto della scrivania in ciliegio e lo screen del computer si oscura con un cenno silenzioso.
Avverto il pressante ticchettare dell'impazienza, ticchettio che il preside Buckowoz non sembra avere alcuna voglia di assecondare. 
Avvicina la sedia, congiunge le mani, alza gli occhi.
-Che gruppo di soggetti interessanti..-
Asher, i capelli così chiari da sembrare platino, le piccole labbra a cuore contratte in una smorfia indiscreta, incarnato colore crema e occhi accesi da un'inconciliabile lucentezza ostile; Dominik, ciuffo di un nero d'ebano ravvivato da sottili riflessi bluastri, falsamente accondiscende, carnagione di porcellana nivea e la chiara consapevolezza del suo sguardo cristallizzato in un brio divergente che sta categoricamente evitando di guardare chiunque eccetto il muro accanto a sé, e Aleksander, presente, composto, dritto, dorato in mezzo a due scintille effervescenti di fuochi distruttivi che sono stati fermati ad un attimo dal generare un incendio. 
E poi ci sono io, ovviamente, che aspetto con silenziosa trepidazione il momento in cui il preside comporrà la fatidica domanda che a stento trattiene la voglia di Asher di sbandierare le sue "ragionevoli" considerazioni.
E appena il quesito viene formulato e un -Cosa è successo?- aleggia per la stanza le parole di due voci tanto diverse quanto sfacciate volano fendendo l'aria, -..impudente di un irriverenza..- rimbalzano sui muri, -..arrogante, spudorato, tracotante..- ruotano sugli armadietti -..bastardo..- e le poltrone -..insolente..- e si infrangono, svelte, abili, nei condotti uditivi del preside che sembra averne già abbastanza. 
I discorsi sono sempre più articolati, la voce acuta di Asher e quella intensa di Dominik si danno battaglia persino tra le invisibili molecole di ossigeno e anidride carbonica che fluttuano tra queste mura. 
Leks rimane in silenzio mentre ai suoi lati si sta stilando un trattato di guerra di incomprensibile significato. 
Aggrotto le sopracciglia e lo stesso fa il professore di educazione fisica Korean, nel vano tentare di carpire almeno il succo della situazione nascosta tra le parole incomprensibili di un diciottenne e un diciannovenne in piena isteria.
-..provocare come se questo fosse un suo..-
-..situazione chiara, è pazzo..-
-..menefreghista dispotico del..-
-..bambino viziato..-
-..neuroni trabboccanti di disgustosa superbia..-
-..atto di aggressiva violenza fisica con conseguenze estetiche..-
-..ridicola, insulsa capacità di perforare la barriera della tolleranza..-
-Basta- sillaba il preside aumentando in gradi il volume di voce per sovrastare quelle che non accennano a darsi tregua. 
-Basta, basta, basta.- 
Alza le mani e per un attimo rivedo Silente difronte agli studenti di Hogwarts nella Sala Grande a sproloquiare nei suoi discorsi di inizio anno. 
Ma qua non si tratta della storica faida fra Srpeverde e Grifondoro,  qua è proprio uno scontro Harry Potter VS Lord Voldemort. 
E ancora non sono riuscito a capire chi sia Voldemort.
Il Preside, approfittando del ritrovato silenzio, interpella l'unica persona che non ha ancora aperto bocca sull'argomento, apparte il sottoscritto, e io mi accorgo di essere troppo fissato con Harry Potter.
-Lubomirski, cosa è successo si può sapere?-
Ora il mio sguardo è tutto per il mio amico, ancora una volta nella posizione più scomoda, ancora una volta in balia di una corrente più grande di lui. 
Ed è bravo a gestire le cose che dovrebbero sopraffarlo, è il migliore a rimanere a galla quando il resto del mondo affonda, e oramai ci si aspetta che semplicemente c'è la faccia, che continui a salvarsi come solo lui sa fare perché non mira alla barca, nè si fa condizionare dall'impulso di raggiungere la riva, solamente lotta per rimanere a galla, in mezzo alle fronde, in mezzo alla luce e al buio, in mezzo alla sopravvivenza. 
Non prendere una posizione e lasciare credere agli altri che ciò che sceglie è proprio quello che vuole. 
Leks non si frappone tra ciò che è giusto e ciò che è facile, lascia queste strade agli altri, a chi non ha già la corona in testa, a chi è davvero libero perché non ha addosso il peso delle aspettative, il macigno della grandezza. Quella corona sulla sua testa non deve cadere, può vacillare, può inclinarsi, ma non deve cadere, a qualunque costo. 
Ma li ho visti quegli occhi di bronzo fuso prima, in un corridoio che sembrava improvvisamente claustrofobico sotto quell'eruzione di violenti sentimenti, li ho sentiti ardere mentre reagivano a quei mugolii nel cellulare, alla registrazione, alla prova lancinante che ciò che considera suo, è stato nelle mani di qualcun altro.
Schiude le labbra sotto gli occhi impazienti di Asher, convinti della sua cieca lealtà, abbandona le braccia lungo i fianchi, rilassa le spalle per ingabbiarle di nuovo e una morsa mi stringe lo stomaco quando mi rendo conto che sta davvero per farlo. 
Dominik neanche lo guarda, ma dopo le parole inconfondibili che gli attraversano la bocca è costretto a farlo. 
E non nasconde lo stupore. 
Aleksander Lubomirski ha appena preso una decisione, ha lasciato la neutralità, ha abbandonato il porto sicuro intarsiato d'oro per spostarsi in mare aperto, ha rinunciato alla sopravvivenza di un certo galleggiamento perché finalmente, e sottolineo finalmente, si è stancato di limitarsi a sopravvivere e forse, finalmente, si deciderà a vivere.
E vivere significa rischiare, significa lanciarsi dal quel burrone per sentire quella botta di adrenalina, significa compromettersi con lo schierarsi non dalla parte del più forte, ma da quella dove ha già montato i tendaggi il tuo cuore, significa combattere fra ragione e sentimento e non lasciare che la razionalità della logica vinca prevedibilmente sulla furiosa imprevedibilità delle emozioni. 
Aleksander ha preso una posizione, una posizione scomoda, la corona sembra la torre di Pisa, il trono trema, l'aurea maschera è in bilico eppure la sua voce ha formato sicura, decisa come mai prima d'ora le parole che hanno composto sul viso di Asher un capolavoro di sbigottimento attonito.
-Ha iniziato Asher, Dominik non c'entra.-
La guerra infuria dentro quattro mura, infuria fuori, negli intrecci di legami inaspettatamente in pericolo, assottigliati non dalle parole, non dall'intendo, ma dalla netta consapevolezza di ciò che Leks stava per fare, e dall'impavida schiettezza con cui è andato avanti lo stesso. 
Non esiste più coraggioso di colui il quale sa esattamente cosa accadrà.
E il mio pseudo fratello sapeva fin troppo bene l'inferno di ghiaccio e fuoco che si sarebbe delineato meccanicamente una volta uscito dal campo della fredda neutralità, dal lato della perenne vittoria.
Asher ci mette meno di un battito d'ali a capire l'andamento della situazione e con voce baritonale pronuncia un chiaro e secco: 
-Non è vero.-
-Santorski sei tu la causa del sangue sul volto di Asher?-
Dominik sposta autonomamente gli occhi da Aleks al signor Buckowoz, come se si fosse ricordato solo ora che non erano solo loro due. 
-Sì.-
-Quindi hai reagito.-
-Ma non ho iniziato io!-
-Sì, ho reagito.-
-Con un pugno.-
-Ridicolo..-
-Con un pugno.-
-Perchè?-
-Perchè se lo meritava tutto.-
Il professor Koran si scambia un'occhiata con la professoressa di polacco, che se nè sta zitta su una poltrona ad osservare la singolare scena.
Perchè, mentre una faida in un liceo è una cosa comune quanto il caffè, una faida così accesa in un liceo così prestigioso a due settimane dagli esami di stato, da competizioni, tornei, concorsi, una faida fra tre studenti di prim'ordine, uno più brillante dell'altro, non è poi uno di quei film triti e ritriti.
-E tu Kowaski, cosa ci facevi in mezzo alla scena?- domanda la professoressa.
-Io..cercavo di dare loro una calmata.-
-Sciocchezze!- sbotta Asher che non sentendo di prendersela direttamente con Leks si impadronisce della sua collera contro di me. -Ha aiutato il folle maniaco di Santorski a completare l'atto vile che lui aveva iniziato.-
-Ah io sarei il folle maniaco!?-
L'insofferenza incredula nel timbro limpido delle labbra di Nik è al di sopra di quello che potrò mai immettere nella mia voce.
-E' schizofrenico, imprudente e anche violento..-
-Ma come ti permetti razza di idiota narcisista?-
-Come ha chiamato mio figlio?!-
Oddio, no.
Un coppia, un uomo e una donna fanno il loro ingresso senza traccia di cerimonie nello studio sventolando le mani in gesti degni di una tragedia e una voce  offesa pronta per chi sta per scatenare un dramma.
-Signora Brown per favore..- tenta la professoressa, invano.
-Mio figlio non ha toccato nessuno! Vero Asher che non hai toccato nessuno?-
-Vero mamma, io non faccio certe cose.-
-Ha sentito? Mio figlio non ha fatto niente, non capisco neanche perché sia qui.-
Il preside si passa una mano sugli occhi. 
-Se è qui c'è una ragione ben precisa signora Brown.-
-Ma lo ha sentito..-
-Tutti abbiamo sentito vostro figlio Signora e Signor Brown.-
Io mi immobilizzo all'istante in una paralisi motoria, ma niente in confronto al rapido impallidire di Leks al suono della voce di suo padre.
-Anche suo figlio è qui mi sembra, Signor Lubomirski- ribatte pacatamente il padre di Asher.
-Sì, lo è e desidererei immensamente sapere perché.-
Barbara Lubomirski mi si avvicina cautamente, comunicandomi che i miei stanno per arrivare.
Oh che bella notizia, adesso sì che sono rovinato. 
Zaphir, ti ho sempre voluto bene.
-I vostri figli sono stati coinvolti in un comportamento poco consono al luogo e all'onore di questo istituto..-
-Ma loro non c'entrano niente, l'accaduto è chiaro come il sole, è tutta colpa sua, di Santorski.-
-Come, prego?-
Il verso eclatante quanto ritmato di un tacco annuncia l'entrata di Beata Santorski, che si fa largo nella stanza dove la seconda guerra mondiale sembra divenire niente a confronto, e prende a spada tratta le difese del figlio che ora ha smesso anche di respirare.
-Ho detto solamente la verità Signora Santorski.-
-E lei sembra conoscerla piuttosto bene constatando che non era lì Signora Brown.-
Alza con uno scatto uno dei due manici della borsa bordeaux che ha sulla spalla.
-Non faccia l'avvocato con me Beata, sappiamo entrambi che Asher e Aleksander sono dei ragazzi diligenti che non si invischierebbero in un banale litigio.-
-Non riesco a comprendere bene cosa sta insinuando Lorena.-
-Primo, signore, l'avvocato qui sarei io- puntualizza con entusiastica precisione Marcin, -e, secondo, nessuno mi ha ancora comunicato quanto è successo. Una rissa, come sarebbe a dire?-
Andrej Santorski parlotta animatamente con la professoressa Rinìvich mentre gli animi si scaldano di un'ottava.
-Come sarebbe a dire?? Suo figlio è chiaramente disturbato.-
-Mio figlio non è affatto disturbato.- Beata fa un passo avanti e sotto l'imponenza del suo sguardo gelido Lorena Brown risponde facendo un passo indietro. Velocemente.
-Suo figlio ha la presunzione di tirarsi fuori da tutto questo quanto è il primo che dovrebbe darci delle spiegazioni, e se lei si permette un'altra volta a nominare mio figlio..-
-Cosa fa Beata, cosa fa? Mi sta minacciando? Marcin mi sta minacciando, l'hai sentita?!-
-Lorena per l'amor del Cielo e di tutti i Santi potremmo evitare di trattare una disputa fra diciottenni come un caso da tribunale?-
Il Signor Brown alza un dito. 
-Ehm..scusate..ma Asher ne avrebbe diciannov..-
-SILENZIO!-
Al coro di indemoniate voci femminili si ci è aggiunta anche quella di mia madre, appena varcato l'ingresso e già cerca qualcuno da incolpare con mio padre, docile e paziente alle calcagna. 
Non so se è l'utero, la menopausa, la luna, la linea, il parrucchiere, la manicure, le doppie punte, la crema anti-età che non funziona, il fondotinta che non copre o le ciglia che fastidiosamente si attaccano l'una all'altra quando ci passi sopra il mascara ma queste femmine mi fanno paura. 
Tanta paura.
-Signori.- tenta il preside, ma non esistono scappatoie dal riverbero di accuse e proteste che sbatacchiano clamorosamente nell'aria che sa di focolaio scoppiettante. 
Apro una finestra proprio nell'istante in cui il professore la chiude. Mi rivolge un cenno palese e capisco che vuole evitare di far udire il manicomio che infuria qui dentro al resto della scuola. Saremmo una bella fiction, di quelle che non sai se ridere per l'assurdità degli avvenimenti o piangere per l'assurdità degli avvenimenti. 
-Assolutamente inaccettabile che un soggetto tanto turbolento rimanga impunito..-
-Sta parlando di mio figlio come se fosse un pluriomicida che se ne va in giro per le strade di Varsavia dopo essere evaso di galera Lorena, e sta parlando di MIO figlio.-
Mr Brown le rivolge un cenno rigido. -Beata, prima che Dominik iniziasse a frequentare Asher non ci convocavano nell'ufficio del preside per certe cose..-
-Io non frequento Asher.- mette in chiaro la voce sorprendentemente ferma di Nik prima che qualcuno possa fermarlo.
-Lo frequentavi mi sembra.-
-Al passato, Signora Brown.-
-E perché ti ritrovi sempre alle costole del mio Asher?-
-Le sue preziose costole il "suo" prezioso Asher se le può benissimo tenere.-
Lorena scuote la testa con rinvigorita teatralità.
-E' un insolente, io l'ho detto, è un insolente.-
La Signora Santorski sfiora delicatamente la spalla del figlio.
-Lorena- dice Marcin, -come ho già detto evitiamo di dare spettacolo. Quanto ad un dato di fatto, è quasi divenuta matematica la presenza di Dominik Santorski ogni qual volta succeda qualcosa di compromettente.-
Mi schiaffo una mano in testa. 
Sì, considerando la "o" sdegnata che ha assunto la bocca di Nik più il tripudio straripante nel sorrisino di Asher e il tutto sommato alle urla, alle contraddizioni, alle borsette delle signore che continuano a cadere dalle spalle frenetiche e all'aria tutt'altro che quieta di Leks, credo sempre più fermamente che saremmo una bella serie tv.
Ma di quelle che fanno milioni di telespettatori a serata.
-Papà.- prorompe Aleks con un principio di zelo. -Ho già spiegato che Dominik non c'entra niente.-
-Misericordia!- Lorena Brown si porta una mano al petto. 
Oh. Mio. Dio. 
-Lo difende! Suo figlio difende il Santorski, dopo tutto quello che le nostre famiglie hanno fatto insieme questo non c'è lo meritiamo Marcin, non c'è lo meritiamo!-
-Aleks sta perdendo la retta via..- mormora con platonica saggezza un Asher sempre più compiaciuto.
Leks gli sventra il ventre con uno sguardo furibondo prima di avventarsi nella discussione sempre più rabbiosa.
-Anche lei avrebbe difeso "il Santorski" poco più di un mese fa Signora Brown. Cosa è cambiato?-
Mi siedo ad un lato della scrivania, afferro un foglio e una matita qualsiasi e mi accingo a disegnare. Il viso di Dominik meriterebbe un ritratto normalmente, ma con l'espressione di questo momento devo disegnarlo, devo imprimere su carta gli occhi di puro stupore e il respiro a scatti esterrefatti.
E ridacchio anche, irrimediabilmente divertito.
-Cosa è cambiato?- riprende lei, disorientata, momentaneamente priva di parole. 
E' un attributo di Nik quello di sputare fuori dai denti un qualcosa che ti chiude la gola in mezzo secondo, eppure Leks oggi non è stato da meno. 
Il significato palese nascosto tra le righe della sua replica ha lasciato il volto rotondetto della Signora Brown confuso e paonazzo. 
E il significato palese è esplicitamente uno: "Ipocrita".
-E' cambiato! E' semplicemente cambiato. Io lo difendevo prima..-
-E io lo difendo adesso.-
Leks fa un passo avanti, agghindato da un fervore tutto suo e Dom ne fa uno indietro, gli occhi fuori dalle orbite e allibito.
-E sbagli. Caro ragazzo.. Marcin, Marcin diglielo anche tu che frequentare certe persone con certi disordini della personalità..-
Beata alza la voce. 
-Lorena.- 
-Che cosa avrei, Signora Brown?-
Un attimo e lo sconcerto è scappato via a gambe levate dal viso di Dominik, le sue labbra non sono più sbalordite ma glaciali e i suoi occhi imbevuti di inclemente freddo siberiano.
-Ragazzo è palese che.. Andiamo Barbara, tu sei un medico, saprai benissimo che cosa ti trovi difronte..-
-Lorena non è questo il momento adatto per discutere di dubbi casi clinici, siamo qui per tutt'altro affare.- risponde con rilassata convinzione Barbara Lubomirski.
-Non c'è bisogno di un medico per capire che è schizofrenico.-
-Brown!-
Buckowoz fa appena in tempo ad ammonirlo che Dominik gli è già scattato contro. Asher salta letteralmente contro il muro. Il professore riesce appena a trattenere l'arma che sta impalando Asher con occhi di ghiaccio solido.
-Vedete?- oscilla appena. -E' un imprevedibile sconsiderato impulsivo..-
-Brown non ti consento di dire certe cose!-
Il preside sbatte le mani sulla scrivania. Il foglio sotto le mie mani trema.
-Signor preside io non..vorrei dire certe cose, è vergognoso che debba usare queste parole ma sono costretto dalle circostan..-
La nota acuta dell'urletto da soprano della signora Brown trapassa i quadri incorniciati, il ciliegio della scrivania e la già compromessa attenzione di mio padre, che sbatte le palpebre e si porta, discretamente, un dito ad un orecchio.  
-Che cosa è successo al mio Asher?! C'è sangue..c'è..-
Vorrei preoccuparmi, alzarmi e d'istinto provare a soccorrere la pericolante torre gemella che si schianta al suolo con i capelli giallo zafferano tendenti alla polenta e la borsetta che viene barbaramente oscillata in aria come una mazza da baseball per internati in un centro di igiene mentale, ma rimango stranito, con una punta di divertimento sulla lingua, ad assistere inerme alla scena.
-Fatela sedere.. Lorena guardami, guardami, ascolta, concentrati sul suono della mia voce..-
-Sangue..sul mio Asher..Sangue..-
Lorena si sventola con una mano mentre Barbara le picchietta gentilmente su una guancia. -Acqua, datele acqua.-
Asher si affretta ad accettare il fazzoletto che Marcin gli porge e ad asciugare il rivolo di rosso che ha ricominciato a colargli dal naso.
La vista della pomposa, refrattaria, ottusa Lorena Brown che aggiunge un altro pizzico di dramma alla scena delirante che si è così duramente impegnata a mettere in atto non può portarmi ad altro che a scambiare un'intesa di occhi soddisfatti in una combinazione di sguardi soddisfatti.
Gli occhi di Leks ricambiano con ironica complicità.
Dominik invece, con la vista del piccolo fiumiciattolo sul viso di Asher che trova fonte dal pugno che gli ha sferrato, rivolge a quel cremisi opaco lo sguardo più lieto, la luce più appagata che abbia mai potuto scorgere tra le sue pupille. Fissa quel sangue con insistenza, come se sotto al riverbero del suo silenzioso incitamento potesse prendere fuoco. 
-Ha toccato mio figlio.. e' pericoloso..sono pericolosi..tutti e due..-
-Lorena cerca di riprenderti per favore, tuo figlio è vivo e vegeto e non è a rischio di vita.- Marcin le rivolge uno sguardo nella fascia laterale fra il comprensivo più accomodante e l'estenuato più accondiscendente. -Ciò ovviamente non toglie che sono tutti coinvolti. Preside perché Aleksander era lì?-
-Ho cercato di dividerli, Samuel mi ha aiutato.- risponde Leks.
-Ed hai cercato di dividerli perché?- rinfranca il preside, osservandolo di sottecchi, paziente.
-Perchè..- sospira -Dominik lo ha colpito.-
-Bene..- 
-Ha iniziato lui.- Aleks cerca di riportare la situazione sotto il suo dominio.
-Ció non toglie che non ti saresti dovuto avvicinare Santorski.-
Il modo in cui "Santorski" viene fuori dalla bocca di Marcin, l'implacabile senso del dovere, la voce dura e la presenza catartica, tutto di lui e del modo in cui lo guarda con un mixer perfetto di sospetto e curiosità, fa insorgere in lui la molla della difesa.
-Neanche suo figlio avrebbe dovuto- Dominik inarca la sottile, inflessibile linea nera sull'occhio destro, -Marcin.-
-Ah adesso è colpa mia che vi ho fermati dal prendervi a morsi, vero?- interviene Leks. 
-Nessuno ti ha chiesto di intervenire.- 
Dominik è sulla difensiva latente, diffida dagli sguardi che lo reputano il principale colpevole di tutto 'sto bordello e dall'inaspettato comportamento di Aleks, dall'ambiguo della sua intromissione e del modo protettivo con cui scocca occhiate lancinanti ad Asher. 
A me neanche mi calcolano più, ignorato nel modo più assoluto, e la cosa non potrebbe che farmi un immenso piacere. 
-Sono complici..- mormora afflitta (e delirante) Lorena Brown, con la mano del marito stretta nella sua e gli occhi al cielo.
-Erano due così bravi ragazzi..-
Ma i bravi ragazzi non ci sono più, spazzati via dalle correnti elettriche fra i giochi delle iridi che si rincorrono senza mai raggiungersi, dagli occhi che urlano quello che la bocca non osa lasciare andare. 
Si guardano Nik e Leks, si osservano, si studiano, si fanno la guerra mentre si stanno spogliando a vicenda nelle pagine della mente, pagine dove sono scritte parole che non andrebbero mai pronunciate, proibito nell'insospettabile, evidente realtà dei fatti: sono giovani e alla fine, sono liberi.
Il preside si risiede, informa gli occhiali, riprende in pugno il comando della nave. 
-Lubomirski, Brown e Santorski, dato che a conti fatti siete stati trovati tutti e tre nel pieno di una rissa sconsiderata in mezzo ad un corridoio gremito di studenti e che avete coinvolto anche qualcuno dei vostri compagni, e constatando non solo che avreste potuto farvi seriamente male ma anche farne ad altri, pulirete i bagni dopo l'orario scolastico durante la prossima settimana.-
-I bagni?! Mio figlio non pulirà i bagni!- la signora Brown salta da quel divano come se avesse carboni ardenti sotto il sedere 
-Lo farà Signora, se vuole diplomarsi in questa scuola.-
-Mio figlio li pulirà eccome, vero Aleksander?-
Aleksander non lo ascolta, non guarda suo padre, sta guardando Dominik, che ha smesso di essere presente a noi. É da un'altra parte con mente, attenzione e qualcos'altro. 
La luce nei suoi occhi è più lontana adesso. 
-Si preside, lo faró.- si scosta dalla carezza di Beata. -Ma solo a giorni alterni. Non ho intenzione di avere a che fare oltre con Brown e le assicuro che non ho il minimo interesse nell'avere rapporti con Lubomirski, almeno per la prossima vita.- 
rivolge un breve inchino al preside, -con permesso.- e se ne va scomparendo oltre la porta senza guardarsi indietro.
Beata e Lorena si guardano in cagnesco, Andrej Santorski si guarda intorno, estraniato e vagamente sospettoso, il preside discute con Barbara Lubomirski, comprensiva e Marcin Lubomirski con i due professori, dritto e impeccabile.
Il ghigno di Asher non si è incrinato, ma tramutato in qualcosa che di sorriso non ha più niente mentre osserva rapito come un fantasma che brama la vita, muto e silenzioso come uno spirito nell'ombra, Aleksander che volge tutto il suo sguardo, la sua attenzione e il suo interesse verso la porta chiusa, verso la scia di colui che ha pronunciato le ultime parole stroncanti, dileguandosi senza aspettare permesso. 
Guardo Leks e so cosa lampeggia nelle luci al neon del suo essere prima ancora che dia le spalle alla porta, impassibile.
"A qualunque costo."






*prato fiorito: gioco presente su alcune versioni di Widnows o online che 
consiste nel riuscire a ripulire un campo minato da fiori senza scoprire le caselle in cui essi sono nascosti. Se la casella contiene un fiore, la partita verra' considerata persa.

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Capitolo 15
*** Varsavia ***


CAP. 14
 



Aleksander

Ore 22.00
Apro Facebook e accedo al mio account perché ne ho abbastanza di giocare pulito, afferro quel cellulare perché ho le peggiori intenzioni, compongo il suo numero perché non mi importa delle conseguenze.
So che da qui a quattro squilli non avrò più l'assoluto controllo. 
E no, non mi interessa.
-Aleksander.- 
E' anche sostenuto il principino, dopo che gli ho salvato delicato faccino.
-Cosa preferisci che scriva, che ti è venuto dentro o che te lo sei preso in bocca?- brutale. 
So giocare anche io a questo gioco d'ispirazione dark.
-Aleksander- adesso sì che riconosco il mio nome in questo campanello d'allarme. -Che cazzo significa.-
-Ma questa volta lo pubblico sul mio profilo, così, giusto per essere sicuro che tutta Varsavia lo veda. Allora?-
-Ti piace fare l'infame..-
-Allora- ripeto, impaziente. -Che cosa devo scrivere sulla mia bacheca di Facebook? Dài dimmi tu i dettagli, a casa sua? Sul suo letto? O è troppo elegante un letto per Asher?-
Sbatto il dito sul mouse, un ticchettio persistente che gli dovrebbe far intendere che deve muoversi. 
-Non osare.-
..e adesso sì che riconosco lui, quel ragazzo con i segni neri sotto gli occhi e gli occhi che ti fanno venir voglia di strapparti le corde vocali dalla gola.
-Che cosa Dominik? Farti la guerra? Troppo tardi, non trovi?-
-..Non oseresti.-
Ha cambiato verbo e il condizionale non mi si addice. Per niente. Mi sta sfidando. Mi sta apertamente dicendo che non ho la faccia tosta di farlo, non a lui. Ultimamente si hanno troppi dubbi su questo. La mia faccia è di bronzo cazzo. 
-Non.. non "oserei"?- 
Scrivo nello spazio bianco apposito del social network parole che sputano veleno. 
-Sai è strano, perché sto già osando.-
-Perchè Aleksander, perché?-
-Perchè, baby, mi va di farlo. Dovrebbe esserti familiare questa sensazione, il seguire solo ciò che dice la tua testolina, il non avere regole. Tu ne hai regole, Dominik?-
-Non sei così diverso da Asher quanto pensi campione.-
Ah, bene, stai guadagnando punti nella scala di quante volte ti sbatterei al muro Nik. 
-Non ho mai detto di esserlo diverso, ma tu, tu sei un maledetto falso, ti ricopri di quella fantomatica irraggiungibilità e alla fine..-
-Che cos'è che ti rode Leks, che?!-
-Pubblicare o non pubblicare..?- mormoro con voce carezzevole. -Tu che dici, se lo scrivo io mi credono?-
Silenzio.
-L'ultima volta lo hanno fatto? Ci hanno creduto? Non ricordo..-
-Pezzo di merda.-
-Hai dieci minuti per varcare la soglia di casa mia.-
Chiude e questa volta, non risponde.


***
 

Sento l'ascensore, apro la porta, lasciandola socchiusa. Non può che essere lui, perché l'orologio sta scoccando ora il decimo minuto. Ha spaccato l'ora X. 
Quindi eccolo, lo sento che si sbatte la porta di casa alle spalle. 
Lascio il computer sulla scrivania dello studio di mio padre (dove entro solo quando lui non è nei dintorni) e sono pronto ad accoglierlo. La mia figura sboccia nel soggiorno, accogliendo l'altra figura, quella che mi sta pugnalando con uno sguardo lacerante.
-Non ti permettere.-
-Siamo nervosetti eh?-
-Aleksander se lo fai sarà l'ultima te lo assicuro.-
-Che cos'è?- 
Spingo il mio telefono sul tavolo, svogliatamente, mentre si leva dall'apparecchio la stessa registrazione che tutta la scuola ha avuto il piacere di udire ieri mattina, quando il giorno si è incendiato di nero sulle note dei suoi ansimi nel cellulare di Asher. 
-Gemiti?- 
Ghigna appena, una smorfia vagamente disgustata sugli occhi che si stanno scurendo. 
-Pensi di essere nella posizione più comoda per prendermi per il culo?- 
Faccio un passo avanti, ripropongo la stessa domanda, pretendo una risposta.
-Che cosa hai fatto con Asher?-
Fa un passo avanti, ripropone lo stesso sguardo oscuro, non ha voglia di darmela 'sta benedetta risposta.
-Che cosa pensi che abbiamo fatto?-
Il plurale mi urta il sistema nervoso già sull'orlo della pazienza, quell' "abbiamo" non mi piace affatto e se una cosa non mi piace, reagisco di conseguenza. E Dominik sta giocando col fuoco, un fuoco instabile che deve affrontare le sue labbra apertamente sferzanti.
-Non me lo dici? Bene.- 
Gli do le spalle, il computer è già nelle mie mani , lo screen si illumina, esortandomi ad agire. 
Faccio fatti, non parole. 
-Mi inventerò qualcosa all'altezza, tranquillo, lascerò tutti a bocca aperta, come deve essere stata la tua con lui.-
La mano è sul mouse, il pulsante blu sembra un'oceano di incertezza ma il cursore ci naviga perfettamente sopra mentre quel "Pubblica" ammicca come una vecchia fiamma. 
E non sarà mai tanto semplice. Non è nel nostro sangue. E lo sento scorrere con velocità folle mentre il metallo freddo di qualcosa di pungente mi preme sulla carotide, agguantando la pelle del collo. 
La normalità appare improvvisamente anormale con Dominik dietro che mi tiene una delle vene più grandi del corpo umano sotto il tiro di una forchetta, ma c'era da aspettarselo, il piccolo nero delle sue pupille in quel cielo di vetro celeste lampeggiava, frenetico, pericoloso. 
Ha afferrato la prima cosa che gli è capitata in mano e non so se aveva la certezza che qualunque cosa fosse sarebbe stata l'arma perfetta, ma lo è, nelle mani di chi vuole sopravvivere tutto è un'arma. Io lo so bene.
-Ho detto: non ti permettere.- 
Il soffio freddo tra spalla e collo mi avverte che non è dietro di me, è spalmato sulla mia schiena, discreto, letale. 
-Mi sembrava di averti fatto capire che non accetto ordini da te.-
L'indice si posa sul pulsante destro, i denti di metallo premono istantaneamente di più. Fastidiosi.
-Che arma ha usato Santorski, per uccidere Lubomirski? Una forchetta..- mi sforzo di ridacchiare. 
-Originale, non c'è che dire.-
-Mi faccio bastare l'essenziale.- 
Un brivido risale la colonna vertebrale, un brivido che non confesserei mai di aver avuto a causa della sua voce. Non è divertita, non è beffeggiante, non è di colui il quale sa di aver afferrato in pugno la situazione no..è fredda come il ghiaccio, bassa come l'oltretomba e cruda come l'inferno. 
ed è dietro il mio orecchio.
-Tu, non oseresti.- bisbiglio a voce abbastanza alta.
-Aah quello che non oserei l'ho superato da tempo. Cancella quello schifo.-
-Pensavo avessi inteso che non scherzo.-
-Pensavo avessi inteso che io non l'ho mai fatto.- 
Preme ancora di più e io inizio a perdere lentamente sensibilità al lembo di pelle sotto l'assedio ostinato della sua arma improvvisata.
-Cancella Aleksander- ribadisce, -ora.-
Devo cedere, momentaneamente, devo seguire le regole della sua battaglia, una battaglia pericolosa quanto lui. 
La crocetta rossa è la mia meta, quella che disintegrerà la finestra di Facebook, quella che forse decreterà la salvezza del mio collo al centro di un inaspettato tiro a segno. 
Perché sì, ha in mano una forchetta e sì, la cosa è anche alquanto ironica, ma non riesco a trovarla divertente mentre mi pervade la netta sensazione che Dominik con una banale forchetta sarebbe più che capace di trapassarmi le vene.
Chiudo, obbedisco, mi lascio guidare dalla costrizione della sua disperata imprevedibilità.
Ma non finisce qui, non quando ho abbandonato tutte le certezze, la fermezza di stare alla larga da lui, l'inoppugnabile corazza d'acciaio per capirci qualcosa. Sono un combattente, sono stato plasmato per combattere. 
Ed è questo ciò che faccio.
Il braccio di Dominik mi si gira nella mano, sono inevitabilmente il più forte, ma questo non basta perché è il braccio sbagliato. E un errore con chi ha lo sfrigolio dell'elettricità negli occhi può essere precario. 
Mi graffia, con quella dannata forchetta, mi segna da qualche parte, avverto solo un istantaneo bruciore poi lui, che indietreggia, con l'utensile ancora stretto in mano e uno sguardo folle nelle iridi. 
-Pensi davvero che me lo sia fatto?- 
Indietreggia, avanzo, arriviamo di nuovo in soggiorno. 
Silenzio. 
Siamo soli. Soli con i nostri demoni che ballano insieme. 
-Pensi questo di me?- chiede, in un tono che sa quasi di sdegno. 
Scatto. 
E' pronto. 
Fa un salto indietro. 
Non si lascia prendere il bastardo.
-E anche se fosse? Sentiamo, anche se mi fosse venuto dentro non dovrei in ogni caso rendere conto a te.-
-Non decidi tu quello a cui devo rendere conto.-
-Anche se glielo avessi preso, succhiato..leccato.. non è affar tuo..-
-Dominik non mi fare incazzare.-
-Anche se ci avessi fatto sesso..e magari è proprio così, tu non avresti comunque voce in capitolo.-
Mi sbilancio in avanti e questa volta lo prendo.
Gli esili polsi gli vengono stretti in una morsa di ferro dinnanzi al suo viso, la schiena è premuta contro il mio torace, ogni cellula del suo corpo scalpita per liberarsi ma ogni cellula del mio corpo freme per trattenerlo. 
Cerco di bloccargli le gambe tra le mie e nel contempo di non farmi infilzare un occhio dalla forchetta che sguaina come un pugnale. 
-Cazzo se sei combattivo..- 
Ma io lo dico: nel corpo a corpo sono superbamente bravo, anche contro un indomabile che dentro ha il sangue della ribellione.
-Levami le mani di dosso..- 
Stringo ancora di più le dita sulla pelle, non lo lascio andare, non mi lascia respiro, e quando mi è chiaro che non posso bloccargli le braccia dietro la schiena e che la forchetta gravita ancora nell'asse di ghiaccio infuocato del suo illogico desiderio di farmi fuori so che devo darmi una mossa. Le redini del cavallo sono ormai impossibili da recuperare, o forse non le ho mai ghermite davvero, forse non l'ho mai voluto il controllo su un purosangue nero come la notte che non può e non deve essere controllato. 
E me ne sto accorgendo soltanto adesso, mentre lottiamo in una lotta disperata all'insegna di qualcosa che forse neanche esiste ma che mi spinge sempre verso lui, verso il corpo magro che ho ancorato al tavolo, che si contorce e smania sotto il mio che lo imprigiona, verso il viso che mi annienta a vista mentre ho i suoi polsi inchiodati sul tavolo, verso gli occhi di vetro azzurro accesi di violenta vita.
Ho Dominik sotto di me, gli inibisco ogni possibilità di muoversi o quasi mentre lui fa di tutto per slegare le mani, le braccia, le gambe, immobilizzate dalle mie, dure, resistenti, frutto di anni e anni di allenamento. 
E, nonostante l'esperienza, la superiorità muscolare e la furia equivoca con cui alimento i miei arti, non posso dire che sia stato facile fermarlo, che sia facile circoscrivere l'incendio senza lasciare terra bruciata, questa volta. 
Ringhia, sbalza, strattona con stizzita contrarietà, le labbra contratte, l'aria che sibila fra i denti serrati. 
E' mare in tempesta. 
E l'acqua mi arriva alla gola. 
Ormai sono in mare aperto, mi sta inghiottendo ma so nuotare, devo andare fino in fondo, devo capire perché mi ha dato dannatamente fastidio quella registrazione e la realtà che si porta dietro, perché non riesce ad essermi indifferente, perché la sua egocentrica instabilità mi attrae, ammaliando ogni vano recitare, devo scovare cosa c'è in questo ambiguo diciottenne che lo rende ogni giorno più accattivante. 
Spinge infastidito, lo risbatto sul tavolo, alterato. 
Se vuoi giocare a braccio di ferro con me Dominik, sappi che non puoi vincere. 
Mi arrampico con le dita sulla mano destra dove ancora la forchetta minaccia scintillante di colpire nuovamente. Rasento la sua pelle perché se solo sollevo il mio peso, se solo gli do aria per un secondo, mi sfugge come fumo fra le dita. La forchetta abbandona la sua stretta, con una mano premuta sulla spalla gliela sfilo dalle dita e la lancio da qualche parte. E quando una smorfia di dolore sfugge ai tratti tesi della sua faccia il lampo di un' illuminazione rischiara il campo visivo. 
-Ti fa male.-
E' un attimo.
La mano mira senza incertezza a scoprirgli la pelle tra spalla e collo, dove prima ho poggiato le dita per bloccarlo e gli ho fatto male
-Non c'è niente, fermo.-
Ma non sono stato io, non posso essere stato io, non avevo intenzione di..
A niente servono i tentativi di Nik di lasciarmi fuori dalla constatazione che, abbassatogli la felpa e avendogli scoperto l'area intorno alla scapola sinistra, c'è davvero qualcosa che gli provoca dolore. 
Due piccoli lividi rosso bluastri spiccano sull'incarnato chiaro della pelle, quasi sulla strada fra spalla e collo, poco sopra l'osso sporgente della scapola. E sono lividi da pressione. 
Non sarebbe servita la preparazione che ho ricevuto negli anni di sport e Judo professionistico per riconoscere che qualcuno vi ha compresso le dita, la forma dei polpastrelli è limpida quanto l'acqua sotto il sole. 
E mi brucia molto di più.
-Che ti ha fatto..-
La voce si rifiuta di uscire, bloccata in gola da corde corrosive. Lo sollevo dai polsi sino ad aver il suo viso fermo dinnanzi al mio. 
-Che.cosa.ti ha.fatto.- scandisco a una distanza troppo breve. Non è nelle mie proprietà contare i metri che dovrebbero separarci, lo è contare tutte le volte che l'ho avuto a un passo da me, così vicino da poterlo sfiorare, e non l' ho fatto. 
Non dovrei neanche adesso.
Non dovrei, ma il suo respiro sottile scava sulle mie guance e l'odore inconfondibile di iris e indolenza fraternizza con il mio bagnoschiuma al caramello.
-Ti ha toccato Dominik?- mormoro, esitante sulla miccia che diventa fiamma.
E al suo silenzio il mormorio si fa convinzione. 
-Ti ha toccato.-
-E anche se fosse?- 
Questa volta mi spinge con risentito rifiuto e faccio qualche passo indietro, inebetito, stordito come se mi fossi svegliato da un letargo. Un letargo durato anni. durato troppo.
-Anche se fosse Aleksander?-
Anche se fosse Dominik?
Anche se ti avesse toccato, preso con la forza, anche se è un dato di fatto che ha palpato la tua pelle, che ha lambito la tua carne, che ti ha guardato negli occhi volendo possederti..No.
Due sillabe, un (solo) significato e mi rimbomba in testa come l'eco infinito di un abisso insondabile. 
No.
Assolutamente, categoricamente no.
Non esiste che mi abbiano sfidato nel mio territorio, non esiste che abbiano raggiunto lui, non esiste che qualcuno abbia pensato anche solo per un attimo di..possederlo.
Dominik mi guarda, ancora in attesa di una risposta che non so dargli.
-..Se lo ha fatto Aleksander?-
-Lo ha fatto Dominik?-
-Lo ha fatto Aleksander.- l'aria scotta. -Ma per una volta non riguarda te.-
-Non avrebbe dovuto farlo.-
-Ah no? E perché. Perché il maschio alfa ha detto di no?-
-Cazzo se non avrebbe dovuto farlo..- mi passo le mani fra i capelli seguendo un filo intarsiato di furore che Nik non percepisce ma del quale io inizio ad averne la nausea. 
-Esci dalla mia vita Aleksander, una volta per tutte. Non ti voglio a contestare ogni mio passo, non voglio il tuo grande e intoccabile occhio critico su di me, ci stiamo per diplomare tu avrai una ragazza perfetta, una carriera brillante e la tua illustre famiglia sarà fiera di te, non mi rivedrai mai più ma per queste due settimane cazzo, per queste ultime, benedette, due, settimane, liberami dal girone infernale di tutte le lingue che ti sbavano dietro perché io non sono una di loro.-
-Me la paga.. Questa me la paga..-
-Dio perchè dovrebbe..-
-Perchè NESSUNO deve toccarti cazzo!-
Sussulta quasi quanto sussulto io, solo per un attimo l'esterrefatto sguazza nel chiaro sempre più chiaro dei suoi occhi. Ma l'attimo si dissolve nel nulla e una
più che lecita domanda prende forma sulle sue labbra. 
-Perchè.-
E' prevedibile che non risponderò. 
Lo lascerò andare via, come sempre, come al solito, come ci si aspetti che il mio saldo dovere faccia, e infatti eccolo, abbassa lo sguardo, mi nasconde gli occhi con le lunghe ciglia, è pronto per scendere dal tavolo, per fare quel piccolo balzo che lo porterà via da me, ancora e ancora le mie mani hanno bloccato i suoi polsi, il mio corpo sorride di nuovo al suo, il riflesso dei miei occhi viene corrisposto. 
Non voglio essere prevedibile. Non stasera.
-Perchè tutti sanno che non si tocca la roba mia.-
E quello che dico lo dico senza sfoggi di voce, senza sfumature nelle parole che scivolano come verità assoluta dalla punta della lingua. Ciò che dico lo dico con i suoi polsi nelle mie mani sul tavolo del mio soggiorno-cucina, con le sue iridi a troppo poco dalle mie, con a cinque chilometri dall'attico la strada più trafficata di Varsavia che non è abbastanza forte da perforare il nostro spazio, creatosi intorno alla connessione di sguardi che non si mollano. 
Perché è stato un momento, un momento soltanto e ho catturato le tue labbra tra le mie? 
Perché il mio corpo non forma più quell'arco di tensione per non entrare in contatto col tuo ma le maglie e i Jeans si strusciano contro?
Perché la bocca mi è finita sulla neve del tuo collo e una tua gamba si è accalcata al mio fianco?
Perché ci siamo solo io e te, adesso. Perché i tuoi occhi sono così celesti, adesso. Perché niente può fermarci, adesso.
Ed è proprio mentre il tuo corpo reagisce ai baci con cui ti divoro la linea morbida della mandibola che capisco che questa è una battaglia che non potrò mai vincere. 
L'ho persa quando in prima media comparve quel ragazzino coi capelli che si confondevano con la notte e la solitudine nelle ossa. Rimaneva zitto e osservava, osservava.. Era come noi ma non si sentiva lo stesso. Riservato e silenzioso, sapeva divertirsi più di chiunque altro. 
L'ho persa quando vidi per la prima volta il sorriso di quel ragazzino. Pensavo che non sapesse sorridere.. Non lo faceva mai. E invece eccole lì, due labbra perfette fino all'ultimo dettaglio, due labbra con un sorriso perfetto. Erano fatte per sorridere le sue labbra, anche se non glielo concedeva mai. E lo sono ancora, fatte per sorridere.. 
E la perdo adesso che non ti permetto di sorridere perché quelle labbra sono nelle mie, sulle mie, con le mie in una danza che non andrà mai sul palcoscenico. 
Gli libero le mani e si intrecciano nei miei capelli, scendono sulla nuca, si insinuano nella maglia, sono come le ho sempre immaginate: fresche, lisce, conturbanti. Con un braccio gli circondo la vita sottile e lui si solleva di rimando per lasciarsi avvolgere. E' sbagliato, terribilmente sbagliato ma non riesco ad allontanarmi, non riesco a sottrarmi dalle dita che discrete stanno sollevando la camicia per rifugiarsi al suo interno, a contatto con la pelle del mio bacino. 
Lo sorreggo mentre si raddrizza, sedendosi sul tavolo che sostiene non solo lui, ma anche la nostra rabbia, la nostra giovinezza, quel filo invisibile che non si scioglie. 
Credo sia per questo che passo le mani sul tessuto della felpa e non mi basta, voglio sentire la sua pelle, voglio che questa barriera nera crolli perché ciò che difende non può attendere. 
Dominik smania, vuole la stessa cosa ma ferma la corsa della mia fantasia quando sono lì lì per scoprirgli di più. Mi blocca delicatamente le dita e le porta sui suoi fianchi prima di circondarmi la vita con le gambe e ricongiungere le nostre labbra. E capisco che sa giocare bene almeno quanto me. 
Le lingua iniziano presto a riconoscersi, a rincorrersi sui binari delle nostre bocche, il cuore rimbomba nelle orecchie come un tamburo impazzito e non avrei mai pensato di sentirlo così, scalpita, il bastardo, sembra volermi sfondare la cassa toracica sembra volermi dire "Te lo avevo detto", si fa sentire proprio ora, quando ho tirato lieve ma con fermezza la testa di Dominik all'indietro, quando lui ha negli occhi l'azzurro dell'insofferenza, quando passo i denti sulla linea della gola per lasciarvi il segno. Tutti devono sapere che questa è proprietà privata. Tutti. 
E io dovrei saperlo che la mente della mia vittima non avrebbe giocato pulito. Perché la mia vittima è anche carnefice e neanche il tempo di stringerlo a me che il basso ventre si agita, trepidante della vicinanza con lui e spazientito per la presenza di questi inutili Jeans che non solo ci separano come mura invalicabili ma grattano con deliziosa ruvidezza contro l'erezione che si fa già sentire.
Ma non è invalicabile ciò che ci divide, non questa volta. 
Lo sollevo senza sforzo, mi slitta addosso circondandomi il collo con le braccia, lo faccio atterrare docilmente e per un attimo sembra instabile sulle gambe, non è un tremore illusorio quello che lo accende, ma si fa largo fra tutte le mani che tentano di tirarci indietro, di ripiombarci nella realtà. 
E' questa la realtà, lo scatto della serratura della porta della mia stanza e la schiena di lui spinta contro di essa ma con un mio braccio ancora intorno ad attutirgli l'impatto. La realtà è il movimento fluido delle labbra che si provocano, la mia lingua che lo cerca, la sua che sfugge per farsi ritrovare ancora più impetuosa, irresistibile nella nota sensuale che si scrive su uno spartito che non avrebbe dovuto mai essere suonato. Siamo corde scoordinate, chitarre diverse, lui nera, elettrica, esplosiva io bruna, classica, inconfutabile eppure mi piace la sua musica, quella che stiamo suonando, quella che gli propongo e che lui accetta senza tentennamenti, con i bottoni della camicia che allentano la loro presa uno dopo l'altro e la sua mano che passa sulle linee del mio addome. 
L'angolo del letto si abbassa silenzioso mentre Dominik getta su Varsavia le ultime incertezze e recida, salendomi a cavalcioni sulle gambe, i freni che non gli si addicono.  
Il lungo ciuffo gli cela il bagliore di un occhio. Voglio che sia mio. 
In un modo che non capisco, in un momento che non dovrebbe, con un desiderio che non conosco ma non abbandono le sue labbra, inspiegabilmente punto focale di tutto il movimento che avverto sull'autostrada maggiore delle mie viscere. Lui mi assale con forza, non mi permette quasi di respirare, ma in fin dei conti non mi serve respirare, mi serviva con Karolina, mi serve con Magda ma non con lui, qui, adesso, mi servono i suoi sospiri, la contrazione dei muscoli della sua pancia mentre si muove irresistibile su di me, lo screzio di turchese che appare quando socchiude appena le palpebre per riallacciare i suoi occhi nei miei. Occhi che non ho mai perso.
Potrei allontanarmi, certo che potrei farlo, correre via e non voltarmi più indietro, ma per la prima volta temo di non farcela da solo in quella realtà oltre la porta dietro la quale ci siamo trincerati, un vano ma meraviglioso tentativo di dimenticare tutto tranne le mie mani che risalgono la sua schiena e i denti che creano solchi visibili. 
Mi fermo.
Quella che mi si compone davanti nella penombra della stanza è un'immagine che mi sconvolge ogni rimanenza assidua di pensiero logico fra le sinapsi cerebrali e tormenta sadicamente il rigonfiamento nei pantaloni che diventano ogni secondo più inopportuni. 
Le sue gambe sulle mie, le sue cosce sulle mie  ma la sua schiena si arcua e il collo viene esposto totalmente a me, visibilissimo anche nel chiaroscuro, come opale scintillante, invitante e mio. 
Aroma all'Iris invade ben presto il mio spazio vitale mentre le voci di una razionalità ormai lontana pressano per risalire l'abisso in cui le ho confinate, si ingrossano come pericolosi cavalloni marini, cercando un varco come una caccia al tesoro che non gli lascerò vincere, non stavolta.
Non ci sono uscite stanotte, nessuna scappatoia dalla gabbia in mezzo agli squali, niente mi salverà dall'afferrargli la cerniera della felpa e con chi sa quale impeto di abbassargliela giù. L'indumento cede alla fame con cui bramo il pallore che mi si rivela davanti, sotto i polpastrelli ci sono linee morbide di muscoli addominali, porcellana dolcemente modellata. Ho pensato di conoscerlo, di conoscere ogni segreto del mondo e dei suoi abitanti, che le strade fossero senza uscita almeno che tu non te ne creassi una, che oramai nessuno potesse fare lo sgambetto a chi lo sgambetto l'ha inventato. 
Puoi sentirlo? Posso sentire che ti lasci toccare, graffiare, prendere.. Puoi sentirlo che mi sto concedendo all'inconfessabile? Mentre i respiri diventano sospiri di amanti e i suoi glutei finiscono nelle mie mani, mentre un fremito diverso, una nota stonata che si accorda magicamente al resto della melodia. Lo guardo negli occhi e i suoi occhi mi rispondono. Ha capito che ho capito e la consapevolezza gli sfuma zaffiri grezzi al cospetto del nero delle pupille. Un fremito di emozione e paura, di passare la linea, di essere sbagliato, di diventare disfatto, stasera. Il fremito di chi sente le mani di qualcuno sul proprio corpo per la prima volta.
-Sei vergine.-
Non ho bisogno della risposta, ma rimango comunque incantato quando annuisce nel silenzio e quello stesso silenzio viene rotto dalla voce adornata da fili di vergogna e fierezza. 
-Sì.-
e la felpa vola a terra insieme ai miei Jeans, a ciò che potremmo essere, alle sue scarpe, ho visto ciò che siamo, le mie dove sono finite?, insieme con le sinistre stelle nella luna del suo sguardo quando gli faccio presente a suon di baci che il fatto che sia vergine è il dettaglio che mi ha fatto perdere la testa. 
Ci ritroviamo l'uno sopra l'altro in una guerra senza esclusione di colpi dalla quale si esce sconfitti a metà. 
Dieci secondi prima sto rasentando con la bocca ogni centimetro di pelle lasciandogli il mio passaggio accaldato e dieci secondi dopo un ginocchio in mezzo alle gambe mi stuzzica come una lenta, insaziabile, spudorata tortura lì dove pulsa la mia erezione.

Dominik
Probabilmente quando domani sorgerà il sole dovrò andare dal primo chirurgo disponibile ad asportarmi quella porzione di corteccia cerebrale in cui vengono immagazzinati i ricordi e scordare tutto questo, dimenticare la mia gamba che spinge contro il sesso di Aleksander Lubomirski, già enormemente eccitato, credetemi,enormemente, e continuare a fingere che sì, sto bene e che no, non lo avrei mai (ri)fatto. Dimenticare che mi sollevo in ginocchio sopra a un materasso che ora riconosce la forma di un secondo peso e sbottonare con un colpo secco la chiusura del Jeans prima che lui faccia il resto, abbassandomelo sulle gambe. Inutile in questo momento, lo calcio da qualche parte nella reminiscenza di buio della stanza prima che il cuore si appropri della mente e non esista altro che noi, su un letto, con le luci della skyline di Varsavia in lontananza a colorarci cladeiscopi di altri mondi sui corpi, a giocare a fare gli amanti, e a credere di esserlo davvero, sospiri in sospiri, pelle su pelle, lingue con lingue, labbra contro labbra, nudi, a fare gli equilibristi su una corda che si è già spezzata. Sono acqua sotto vento sul suo corpo, tempesta di sabbia con una mano sul suo viso e maremoto sulle sue intimità. Geme, geme quando i miei denti trovano un capezzolo e vi si chiudono intorno, geme perché non se l'aspettava, geme perché la punta della lingua sul morso non gliela da vinta. Vorrei scendere, appropriarmi del meraviglioso girovita, di quella fantastica eccitazione, ma come faccio quando, alzando appena lo sguardo, ho sotto gli occhi Aleksander in estati per i giochi contorti della mia lingua? 
Sul bruno dei muscoli scolpiti con classe scrivo tracce di baci veloci, affamati, feroci e nel contempo scrivo la nostra condanna. La mia di sicuro.
E' una condanna sapere che qualunque cosa fosse successa sarebbe andata così, convogliata in un ingorgo di strade ad un'unica uscita. E' una condanna credere di essere due ragazzi normali, privi di illusioni, aspettative, dubbi, paure, incertezze, vittime dei nostri stessi successi, e pensare anche solo per un attimo che le mani che hanno ormai preso terreno sul mio fondoschiena possano farlo ancora, e ancora, e ancora, fino ad averne abbastanza, fino a non farcela più. E' una condanna cadere nello stesso errore, in quell'errore che una volta mi ha ucciso, spalancato le fauci del mostro dentro me ed è una condanna avere la certezza che, se qualche mese fa fossero state tutte così le mie notti, con qualcuno, ma che dico, con lui accanto a me, il mio avambraccio adesso non riporterebbe alcun segno e tutte le lacrime che hanno portato il suo nome non sarebbero mai cadute. E' una condanna.
Sono condannato a sentirmi vivo con le sue mani su di me, fra i capelli, sul mio viso, sulla mia schiena, sul mio sedere, tra le mie cosce, e con le mie sui bicipiti e tricipi e quadricipiti e diecicipiti marcati delle sue braccia e le gambe intorno alla sua vita dove vi sono muscoli modellati da precisione matematica di cui io ignoravo anche l'esistenza e allora va bene, aggiungerò un altro nome alla lista di tutte le cose che sono diventato negli ultimi tempi. 
Instabile, non ho più niente a coprirmi; imprevedibile, neanche lui; irrequieto, mi bacia e sono sotto di lui; emotivo, mi bacia e vorrei morire; imprudente, il mio ventre non gli da pace; insofferente, sussulto quando adorabili, meravigliose punture pizzicano nell'interno coscia, mentre la bocca di Aleks si fa spazio sulla mia pelle, si appropria della mia carne proprio mentre un'innumerevole sfilza di motivi per cui non dovrei essere qui a mordermi le labbra a sangue per non rendere totalmente esplicito quanto cazzo sto godendo mi invade la mente, puntualmente spazzata via da un nuovo lamento che raschia in gola quando lo stronzo passa la bocca su tutta la lunghezza della gamba che sorregge, come se fosse sua, come se ogni centimetro di pelle che ricopre le mie ossa fosse sua. 
Ed è sua stanotte. 
Ogni centimetro di pelle che mi ricopre ossa, muscoli, intestino tenue e crasso gli appartiene in quest'imprevista collisione di rette parallele.
Non si possono piegare i binari di un treno, non dovrebbero piegarsi i binari di un treno altrimenti il treno sbanda, e drammaticamente aggiungerei, ma sono il re del dramma e allora non lasciamo che il treno sbandi, non aspettiamo un incidente che non avverà mai, facciamolo sbandare questo treno, se siamo già sbandati noi. 
E lo siamo, persi, incantati, avvinghiati, incatenati in rose dai petali setosi e spine acuminate, incastrati in un plagio che abbiamo architettato alle nostre spalle, prigionieri di una libertà che per questa notte, ci daremo il lusso di concederci. Divoro le sue labbra come se non potessi fare altro, come se tutta la mia vita si fosse ridotta a questo, a ripiombare nel veleno e a scoprire che l'antidoto non è cambiato. Le lingue si fondono per scindersi e mescolarsi di nuovo, consapevoli che quando finirà il sapore non sarà mutato, dall'ultima volta, dalla sera che decise, in una mescolanza di rosso e nero, che nessun bacio sarebbe stato lo stesso perché nessuno è come lui, tempesta e calma, bianco e un grigio sempre più scuro, prepotenza e la delicatezza con cui ha poggiato due dita sugli anelli muscolari dell'apertura in mezzo ai miei glutei, premendo per entrare, per varcare la soglia del non ritorno, e glielo lascio fare, nonostante il dolore che mi colpisce, lascio, forzo il corpo ad abituarsi a lui, all'invadenza delle sue falangi.
Lo guardo, fa male, lo voglio, voglio che faccia di più, voglio sentirlo dentro e fuori, sopra e sotto, voglio che il buio si colori di lui, è per questo che nonostante tutto lo attiro a me, e lo guardo, e mi guarda, ci guardiamo un istante, un istante solo e decretiamo, in un lampo che percuote il nero, che se cadiamo, questa volta cadiamo insieme. 
La corda si spezza, il cuore martella, la pelle sudata e le sue mani calde sui cancelli dell'Inferno. Lo guardo, annuisco con il coraggio della paura, il piacere nelle mani e le dita delle stesse mani attorno alle lenzuola. Sono rigido, fermo, immobile sotto il tocco di Aleksander. Lo capisce, lo sente, sorride ed è sulle mie labbra, e combatto. 
Potrei dire che ho seguito ogni sua mossa, che ero cosciente e presente, ma Dio quanto ho cercato di resistere per rimanere lucido, vigile, seguire i suoi movimenti e non farmi sorprendere, ma la verità è che appena le sue labbra si sono cristallizzate sulle mie io ho ricominciato a non capirci più niente, immerso in un vortice di sensazioni incapaci di dare spazio ad altro, le sue labbra, i miei morsi, il sapore ferroso del sangue che sento in bocca, lui che deve essersi portato le mie gambe sulle spalle, mi scosto per guardare ma il mio viso è tra i suoi polpastrelli e affonda ancora di più, rende i baci più umidi, il contatto più serrato, la lotta più ardua. So cosa sta facendo e glielo lascio fare perchè ho paura, paura di cosa succederá domani, del futuro che é giá passato, del pensiero che persino "questo" un giorno non mi salverà.
Ma quel giorno non è oggi e la schiena di questo grandissimo stronzo che mi sta facendo capire il nulla si tende sotto le mie mani, le scapole fasciate da muscoli sodi, rocce in tensione quando si prepara a qualcosa che sembra lo stia cogliendo impreparato. 
Apro gli occhi e ritrovo i suoi, puntuali, splendidi in questo languido malva scuro, colmi di piacere e ansimi inespressi. 
Vedo cosa c'è nei suoi occhi e comprendo che non si ci può preparare a questo.
-All'inizio ti farà male..- mi bisbiglia contro l'orecchio. Piego d'istinto la testa. 
Adoro sentire il suo respiro tiepido sulla pelle fredda di sudore.
-Ma ne varrà la pena.- 
Il respiro è singhiozzato, altalenante il suo sulla scapola che sì, forse sporge decisamente troppo ma sul quale lui passa le dita come se fosse la cosa più bella del mondo. 
Farà male e so io quanto, ma mentre la guance avvampano per le carezze delle sue dita, ferme per la prima volta da quando ci siamo incastrati l'uno all'altro come un'impossibile puzzle, so che non mi interessa, e sulle volte di condense di respiri discontinui so che sì, non importa quanto rosso uscirá questa volta, quanto grande sarà la cicatrice, non voglio fasciature su questo, voglio che esca sangue, voglio che esca vita.

Aleksander
-Ah..- 
Inarca la schiena, placca le lenzuola, le stritola fra le mani come se si stesse spezzando in due.
Faccio piano, vorrei fare piú piano ma so che non basterebbe ad alleviare il dolore della prima intromissione nel tuo corpo, di tutto quello che gli ho fatto, ad alleviare lo sbigottimento di un Dominik che si sta dando a me, per la prima volta nella sua vita, con la persona con cui si è quasi scannato e poi scannato del tutto, evitato, ignorato e saltato addosso, dopo che la stessa persona è stata sotto al minaccia di una forchetta. Irrimediabili. Irrecuperabili. Siamo sempre qui. Siamo sempre noi. in un labirinto senza uscita. Non esistono fili di Arianna, non ci sono mostri fra queste pareti, solo i demoni dentro di noi messi a tacere dai nostri gemiti.
Questi sono gemiti, cazzo. 
Niente a che vedere con quelli scaturiti dalla registrazione. 
Voglio lasciare il segno stanotte. Voglio lasciare il mio segno sulla sua pelle. Voglio che, per qualche giorno, quando si guardi allo specchio veda me, accanto a lui. Un'illogica voglia che non metto a tacere, un'irrazionale, spudorato coraggio coronato dalla consapevolezza che domani tutto questo sarà solo un ricordo del leggendario periodo di sbandata crescita adolescenziale, la fase di passaggio dal liceo all'università, dall'universo delle cazzate e dei sabati sera a quello del dovere e del futuro. E' solo un ponte fra due mondi, la scalinata dall'Inferno al Paradiso, la chiave per una porta che, fra due settimane, chiuderò per sempre. 
Entro in Dominik, più a fondo, lentamente, ma entro in lui, di più, lascio che il suo calore mi accolga, che sciolga i muscoli che indossa contratti addosso come un'armatura. 
-Sei così stretto..- sussurro con il suo addome che si alza e si abbassa al ritmo dei miei affondi. 
Mugola qualcosa di incomprensibile. Sa che mi piace, Dio solo sa quanto mi piace entrare in un varco tanto inesperto quanto intoccato, sapere, sulle note dei suoi tendini che si rilassano sotto di me e le sue labbra che si colorano della lucentezza del sangue, che ci sono io stanotte, a privarlo della sua innocenza, a infrangere la porcellana con il bronzo, così diversi, così pronti a disobbedire a ogni precetto, qualsivoglia principio e qualunque responsabilità, così pronti ad ansimare nel buio, a spegnere le luci perché non ci servono, non siamo sul palcoscenico, non stiamo recitando un ruolo, no, questa volta non siamo schiavi di congetture, convenevoli, proibizioni istillate a mo' di paletti solo per distanziarci. 
Tanto c'è Varsavia ad illuminarci stanotte, ad osservarci silenziosamente gemere e soffocare respiri, ad essere complice della mia bocca che ritrova la sua, della sua schiena che sorregge gli scatti del suo bacino che chiede di più, dei polpacci che spingono sul mio sedere, dei gemiti attutiti da lingue e saliva. Mi concede di guardarci negli occhi solo per un momento, tropo breve, prima di rifugiare lo sguardo sulla linea del collo, dei pettorali, di qualunque cosa mi nasconda l'azzurro, innocenti anche con il mio membro nel suo corpo e la sua erezione meravigliosamente dura, bollente contro il mio ventre contratto e rilassato, contratto e rilassato..timido e sfrontato quando si puntella sui gomiti e si aggrappa a me per sollevarsi, infila le unghie nella mie scapole portandomi a lacerarlo completamente, provocandomi sussulti di disinibito piacere che non riesco a mascherare. 
Gemo vergognosamente. 
Gli occhi limpidi quanto il mare d'Estate sono accesi da una provocante scintilla di selvaggia indocilità.
-Credi.. che ti lasci tutto il divertimento..?- 
Le parole ansanti, striscianti, impazienti, stringe le gambe intorno a me, si spinge più dentro e chiude gli occhi, il nero dei capelli sul viso, il rosso delle labbra dischiuso.
-Ti fai..male..- sussurro.
-Questo.. non è dolore- risponde. 
Gli infilo la lingua in bocca, rudemente, credo di poter arrivargli anche in gola, scalpitanti, problematici, mentre la night life della mia città è ignara di quanto accade in un lussuoso attico in cui si confondono fiato e polmoni, ignara come i miei genitori, a scarrozzare la loro eccellenza a qualche gala di ricconi, forse persino con i suoi genitori, i Santorski, e io il mio Santorski l'ho qui, in mezzo al niente e al tutto, nell'atto di un qualcosa di rapace e smanioso che potrà essere dimenticato alle prime luci dell'alba o non essere cancellato mai più. 
Non ne ho abbastanza di lui e lui non sembra preoccupato di questo, almeno fino a quando, sull'apice della vetta di un'esorbitante, frastagliato culmine di piacere, non mi fermo, stafottente fino al midollo.
Varsavia sarà complice anche di questo, dei suoi occhi che incontrano i miei e del suo ringhio sordo nello spingere le gambe contro le mie natiche.
-Che..cazzo..fai.-
-Non lo so..pensavo potessimo fare..una pausa..- 
Sorrido, ansante, esausto quasi quanto lui, stanchi, sudati, accaldati, i suoi zigomi sfumati di rosa e i miei capelli che saranno in uno stato pietoso, eppure mi piace l'Aleksander che si specchia nelle sue iridi, quello che non ho mai dato in pasto al mondo perché non è mai stato in vendita. E stanotte la mia scintillante, dorata Varsavia ha visto anche quella parte di me che non le avevo mai mostrato. 
-..Io.ti.ammazzo.-
Gli sfioro il labbro inferiore con il mio, terribilmente eccitato anche solo per smettere un secondo di toccarlo.
-Mm..e come posso fare?..-
-Puoi scoparmi.-
Il sorriso decolla e plana da un orecchio all'altro sulle montagne russe della sua voce totalmente innocua. 
-Come?..-
-Rettifico. Devi scoparmi.- 
Il sibilo basso di quella parola fra le sue corde vocali mi scuote fin nelle vene, seminando scie di fremiti e germogliando brividi di indicibile, bollente, carnale eccitazione. Si accosta a me, il mio sesso si muove dentro lui ed è la fine, dell'attimo di lucidità, dei muri di carta che sono scientificamente caduti dinnanzi alla sconvolgente verità che asseconda i miei pensieri. Voglio Dominik.
Voglio Dominik, per una notte, forse per sempre, e che la mente si fotta. 
E che si fotta anche la ragione, rintanata in qualche angolo buio mentre ciò che rimane di me è inebriato dall'innocente mente perversa del moro pallido con cui ho sincronizzato oramai i respiri, con cui il cuore pompa sangue e vertiginosa fame l'uno del sudore dell'altro, i muscoli si preparano a mettere in scena l'ultimo atto e non voglio nient'altro che questo, il suo gemito di assoluta estasi quando gli vengo dentro, le palpebre serrate alle cosce contratte e il liquido bianco  ad imbrattarmi l'addome, dolorante, soddisfatto. 
Non so di preciso quando crolliamo. Non so neanche se fossero le tre, le quattro o le cinque del mattino. 
Però so che mai, mai mi persi come quella notte.

 

***
 

Dominik

È spettacolare. Sentirsi così. Sentirsi vivi. Avere il mondo in mano. Poterlo modellare a mio piacimento. Poterlo lasciare andare. Come se non esistesse. Come se non potesse scalfirmi. Come se non potesse far nulla per impedirmi di respirare.
Ma sto respirando? 
Un raggio di sole mi è sugli occhi. Posso scorgerlo attraverso le palpebre chiuse. Muovo infastidito la parte inferiore di me. Fa caldo. Troppo. Che ieri abbia lasciato le finestre aperte? ... E da quando non mi servono pasticche per dormire? Ieri sera non le ho prese.. Ricordo di non averle prese.. perché non le ho prese? E perché questo sole si ostina a starmi addosso? Mamma chiudi le finestre, non voglio 'sto sole rompipalle. 
Ma.. non mi è permesso più chiudere la porta della mia stanza da secoli, perché a cara Beata non presta soccorso al su unico bambino? È domenica. .. Se, domenica dell'anno scorso. È venerdì.. Cazzo ma io dovrei essere a scuola. Socchiudo gli occhi. Sono in una rischiarata penombra tagliata da sottili raggi di luce solare. Ma io continuo a sentire più caldo di qualche minuscolo bagliore di quella maledetta stella. I contorni si distinguono con facilità anche ai miei occhi velati di sonno, la gigantesca poltrona-pouffe, medaglie di Judo appese sopra l'elegante scrivania, un moderno computer portatile grigio metallizzato, costosi orologi sullo squadrato comodino bianco, e.. Orologi..? Medaglie di Judo? Portatile grigio?? Comodino BIANCO?!
... Spalanco gli occhi..lentamente..molto lentamente. Mi passo due dita sugli occhi, come se quello che sto per trovarmi davanti possa cambiare nel frattanto che io mi decido a prendere per le corna il coraggio che mi ha incornato. 
Ma lo abbasso lo sguardo. 
Ditemi che quell'interferenza dorata nell'omogeneo incarnato della mia pelle è un'abbronzatura presa male.
....
No?
No. 
Scatto in piedi come se una lama mi avesse penetrato il sedere.
Letteralmente.
E nel mio sorgere investo qualcuno perchè improvvisamente una voce roca impastata di sonno pronuncia una raffinatissima serie di parole del registro più altolocato conosciuto dall'uomo: -Cazzo..ma porca puttana..! Stronzetto matricolato..Che fottuta botta..- 
Non qualcuno.
Lui.
Sto male.
Mi volto con l'intento di volatilizzarmi da qualsiasi altra parte che non sia respirare la sua stessa aria e il suo stesso profumo e. merda. mi mancava il naso spiaccicato come una mosca sul legno di una porta. Adesso le ho tutte. E anche la capacità di uccidere qualcuno in 0.2 secondi se un essere umano di buoni auspici non viene a dirmi cosa cazzo ho fatto. Giro la maniglia, la porta cede sotto l'impetuosità della mia mano e mi catapulto nella cucina-soggiorno, spumeggiante di sole. 
Maledetto. 
Mi tormento le mani cercando punti d'appoggio stabili, solo per realizzare che non staró mai seduto per quella che pare un'eternità, cinque ere geologiche e un miliardo di stagioni, ma non deve essere passato che più di un minuto quando i passi in corridoio mi convincono a voltarmi davanti ad un Aleksander scombussolato, con capelli che sembrano Roller Coster, braccia abbandonate lungo i fianchi e.. 
-Sei nudo!- 
Mi schiaffo una mano in faccia proprio quando una voce che si è riappropriata della consueta grinta un tantino troppo fastidiosamente "rilassata" mi comunica che..
-Ehm, tesoro..Anche tu.-
Mi basta un'occhiata di un quarto di millesimo per capire che, miseria ladra!, é vero. 
Dire che mi sono materializzato in camera a spalmarmi qualcosa addosso è un'eufemismo.
E premurandomi di spingerlo brutalmente nel passare, ovviamente.
-Tu la mattina sei sempre Mister Delicatezza?-
Lo guardo come se fosse un povero scemo e riprendo l'ansiosa passeggiata davanti il tavolo della cucina. Tavolo dove lui mi ha..
Merda. merda. merda.
Devo solo metabolizzare l'accaduto e poi lo ammazzo..
-Mi stai consumando il pavimento.-
Ma pensandoci posso anche metabolizzare dopo e ammazzarlo prima..
Mi volto. Sconcertato.
-Tu la mattina sei sempre così beota?-
-I giorni dispari.-
Gli do le spalle con un gesto stizzito. 
-Che cosa ho..- mi volto. Di nuovo. 
Più minaccioso. Più fuori.
-Che cosa hai fatto!?-
-Io? Sei tu quello che..-
-Che ti è saltato addosso come un bufalo in calore, vero?-
Alza un dito. 
-Io.. ehm.. no.-
-Appunto.-
Mi butto i capelli di lato come se due occhi in questo momento fossero meglio di uno. 
Occhi che non mi hanno fermato dal farmi spingere su un tavolo che doveva farci cadere col culo a terra!
-Siamo fottuti..fottuti..-
Sbatacchia qualche posata e il tintinnio metallico mi gratta nel cervello ancora impegnato a dare un senso a qualcosa che di sensato non ne ha neanche l'ombra. 
-Ma di che ti preoccupi?-
E il sopracciglio destro parte all'attacco, pronto a sbranare lui e questa cazzo di disinteressata calma. 
-Scusa ma non eri tu quello del: "tutto deve andare come dico io tutto deve essere sotto il mio controllo sono un prestante e glorioso etero circondato da femme fatale e niente mi sfuggirà di mano perché so cosa faccio ventiquattr'ore su ventiquattro? Din diin, credo che ieri ti sia sfuggita un'ora.-
-Uno, io non parlo cosí. Due, non ho mai detto di non essere etero.- 
-E io che sono, una donna?-
Apre la bocca, sotterro la base di setto nasale in mezzo all'arcata sopraccigliare tra dure dita.
-Non rispondere.- 
Ridacchia e il mio viso non potrebbe essere più corrucciato, contrariato e colpevole di così.
-Che cosa è successo ieri notte.- 
Alza una spalla, si passa un dito sul naso.  
Lui c'é l'ha intero, non é andato a sbattere di faccia contro una porta nel vano tentare di sfuggire a una stanza da letto non tua ma con anche il tuo odore dentro.
-Aleksander è un tragedia greca- allargo le braccia- un dramma shakespiriano- alzo la voce- un'apocalisse te ne rendi cazzo conto?!-
E lui, per tutta risposta, sapete che fa? 
Alza la sua bella tazza completa di cucchiaino coordinato, spalanca i suoi occhi scuri la cui pi grande priorità è informarsi se voglio -Latte coi cereali?- 
Non lo voglio il latte maledizione. E poi quel latte è bianco e.. ho urgentemente bisogno di una doccia. 
Solo adesso realizzo che il mio odore si è confuso col suo profumo e l'inconfondibile aroma di.. Sesso. 
-Sto per vomitare..-
-In fondo a destra.-
-Aleksander te lo giuro sulle paranoie di mio padre e sulle cravatte gialle di tuo padre che ti apro in due.- 
-Come ho fatto io ieri notte?- 
Ho preso una tazza, ma non credete, non è per il latte e neanche per i cereali, voglio solo centrargli il centro della fronte e fargli davvero male.
Mi mostra i palmi.
Non è cosí calmo.
Non puó esserlo.
Tutto questo pandemonio significa soltanto che non è servito a niente sopravvivere, a niente fare errori che ho rifatto e che rifarò. Non so cosa significhi per lui e fingo che non mi interessi, ma per me è un macello. E quando mi lascio cadere su una sedia ho l'immediata conferma superlativa che non è un macello. 
È un casino.
Mi sollevo di scatto guardandomi intorno con una nonchalance che non copre la dolorosa fitta che ho provato appena il mio fondoschiena si è schiantato su una superficie stamattina troppo dura. 
Non ricordavo che le sedie del soggiorno-cucina di Aleks fossero così "dure". 
Sono dure, sono le sedie, è colpa loro. 
Ma quando l'attenzione si frantuma su di lui so che non é così. Le sedie non sono dure e io sono neanche un irrisolvibile masochista, ma un deficiente. Ma di quelli seri eh. 
-Male?-
Mi sbatte in faccia il sorriso per trattenere la risata. 
E se ride questa volta lo prendo a pugni in bocca fino a quando le tonsille non si mischiano alle corde vocali e la lingua si attorciglia intorno ai denti che gli faccio sputare a uno a uno. 
-Ok ok..non sei in vena di scherzare. Beh Nik neanche io, se tutto 'sto bordello si viene a sapere è la mia fine. Caput. Addio.- 
-Se non pubblichi uno stato su Facebook per dirlo al mondo non credo si venga a sapere, non penso di mandare un messaggio a ogni contatto presente nella mia rubrica avvisandoli che ho fatto..con..- mi rovino una mano nei capelli. -non riesco neanche a dirlo..-
-Ci basta così, no? È stato un momento, una piccolezza, siamo diciottenni..io quasi diciannove sì ma il punto è che abbiamo gli ormoni a palla anche negli alluci dei piedi. È normale.-
-È normale..- ripeto, sicuro di voler dare alla voce un'impronta di verità scientifica ma col risultato che sembro più scettico di quanto sia. 
"Normale". 
C'é mai stata questa parola nel mio fottuto vocabolario? 
-Va tutto bene..tutto nella norma. La carte in gioco sono sempre quelle- e la partita è sempre in mano tua. 
Vincerai sempre, vero Leks? 
-Sono esperienze.-
-Sì- l'indice della mia mano sinistra va a rallenting fendendo l'aria per fronteggiare il corridoio da cui sono ben udibili passi calcati. -E dirai questo anche a tuo padre? Che sono "esperienze"?- 
Gli occhi che mi ulula addosso sono quasi ironici. Anzi lo sono proprio, ce non fosse che so cosa accadrà fra 5 secondi se io non sarò fuori da questa casa in 3. 
Quasi mi viene voglia di tradirlo, di annunciare realmente al padre e al mondo che ha avuto un'erezione grande quanto il lago Bajkal in Russia e grossa quanto il mar Caspio contro di me a causa mia. 
Tanto, oltre alla mia vita, cos'ho da perdere?
-Devi scomparire da qui.- 
Mi spintona verso la porta e a nulla servono le proteste che non gli si conficcano in testa. Saprei camminare da solo, ma mi ha comunque volato sul pianerottolo. 
-Quello mi ammazza davvero..-
-Perchè pensi che io scherzassi?- 
Mi presta la sua attenzione un'ultima volta e prima che possa dire qualsiasi cosa lo precedo. Deve essere così.-
-Dimentichiamocelo Leks.-
-L'ho già fatto Nik.-
-Perfetto.-
Mi avvio per l'avanguardistico ascensore che attende la mia fuga e posso sentire la porta dell'attico Lubomirski strisciare in un sibilo silenzioso nell'attesa di nascondere tutto questo quando le sue orecchie avvertono il sibilare imprecato delle mie gambe che si schiantano contro qualcosa che non solo al 99% mi ha quasi fatto finire col muso a terra, ma che ha avuto anche la briga di sbattermi tra qualche parte fra polpaccio e coscia. 
-Checazz..-
Lo skateboard. 
Sono inciampato sullo skateboard
Quel dannato.ripugnante.armaletale di uno skateboard. 
Mi volto con il sangue nelle tempie. So che sarà lì, alle spalle dietro le quali la porta non si é chiusa. E infatti eccolo lì, con una smorfia da ebete che non é un ghigno divertito ma un sorriso consapevole. 
Non ho il tempo di analizzare le espressioni facciali del grande Lubomirski, mi faccio raggiungere solo dalla sua voce prima che le pareti di vetro mi chiudano al loro interno.
-Sapevo che prima o poi ti avrei colpito.-

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Capitolo 16
*** Uccidimi (parte I) ***


BUON ANNO!
Spero che abbiate passato un Capodanno in compagnia tra abbuffate e giocate a tombola in cui io perdo miseramente. 
Iniziamo questo nuovo cammino con l'aggiornamento (finalmente) della mia fiction. L'altro ieri sera ho visto quanto "fu" l'ultima volta che pubblicai ed è stato tipo tre mesi fa. 
Oddeo.
Questo capitolo è diviso in 2 parti, altrimenti è una cosa lunga e incomprensibile più di quanto già non sia. La seconda parte la pubblicherò DomanI.  
Spero non vi annoi troppo e come sempre un grande grazie a chi continua a seguire la storia. 

Pachiderma Anarchico

PS: i capitoli dovrebbero aggirarsi intorno a 19\20.






CAP.15
  parte I




Dominik
 

Può essere di diamanti un pidocchioso lampadario? 

-Dimentichiamocelo Leks.-

Squadrati, luminescenti diamanti. 

-Io l'ho già fatto Nik.-   

Posso capire il cristallo..

-Perfetto.-

Ma i diamanti sono l'emblema della ricchezza sfrontata. E le luci dorate che sbattono sui diamanti mi stanno anche accecando la cornea. 

Distolgo lo sguardo solo per riportarlo sul soffitto il più in fretta possibile. Il discorso che si sta intrattenendo al tavolo è tanto prevedibile quanto la mia totale non partecipazione. 

-Ho fatto domanda alla Adam Mickiewicz University, all' American Accademy of English e all' Uniwersytet Warszawski..-

-L'Università principale di Varsavia?! E ti hanno presa?-

-L'indirizzo di scienza politica credo che..-

-Solo cento studenti passano il test..-

Che poi al tavolo ancora non ci siamo neanche seduti, ma le conversazioni su questo meraviglioso rompipalle chiamato "futuro" si fanno già spazio negli spazi d'aria tra la decina di individui per postazione. 

E quando si dice che alla sorte tu non stai antipatico, ma proprio sulle scatole non è solo un luogo comune. 

Se solo vedeste le nove persone con cui devo condividere la sontuosa cena di stasera vi mettereste a ridere pure voi, credetemi. E credete anche alla constatazione che io non ci trovo niente da ridere. Peró rido lo stesso, come una Pasqua. 

Mi guardo intorno con disinteressato interesse. Troppe facce che conosco. Troppe facce che mi conoscono. 

-Dimentichiamocelo Leks.-

-Io l'ho già fatto Nik.-

-Nik.-

-Perfetto.-

Alzo gli occhi dal rossore sulle nocche causato dall'aver tenuto il guanto da boxe tutto il giorno. 

-Mi passeresti l'acqua, per favore?-

Sorrido. 

Un sorriso più finto della sua voce cordiale.

E lo faccio perché siamo circondati da un branco di essere umani la quale colonia costa quanto un rubino. 

-Certo.-

o forse avrei sorriso lo stesso, insomma, ve l'ho detto che avrei passato la serata a sorridere. Stasera ho intenzione di fare il bravo mamma, le ho detto prima di uscire, eppure lei, imperterrita, continua a chiamarmi ogni quattro minuti d'orologio. 

Prendo la bottiglia e non solo gliela avvicino, ma gli verso anche il contenuto con l'eleganza maggiormente consentitami dalla rotazione del polso. 

-Grazie mille.-

-Di nulla.. amico.-

Il grigio negli occhi di Asher è venefico anche sopra lo sfarzo del suo smoking crema e panna. Strozzatici con quell'acqua. 

Non so chi stia fingendo di più, se lui con la presenza di un serpente a sonagli camuffata da zebra o io, a fingere di prestare attenzione alle parole sfarzose di direttori di università e corsi di dottorato e cose che al momento non sorpassano neanche il primo strato di corteccia celebrale che proietta sullo sgangherato screen della mente la solita scena, le solite parole.

-Dimentichiamocelo Leks.-

-Io l'ho giá fatto Nik.-

-Perfetto.-

Non era perfetto e non é perfetto. Non lo sarebbe stato fingere che non fosse successo niente e non lo sono gli sguardi occulti che ci scambiamo da quando, stamattina, abbiamo messo piede nella stessa aula. Non so cosa voglio, non so quale reazione sarebbe stata quella giusta, molto probabilmente non esistono reazioni giuste allo sbaglio più grande dei tuoi ultimi diciott'anni. 

Ma dopo che la sigaretta l'hai alzata, che la siringa l'hai riempita, che la lametta ha tagliato, che puoi fare? 

Che ci posso fare se i suoi occhi addosso mi ballano nella pancia? Se solo al lasciare ai pensieri briglia sciolta rido come un coglione? Neanche la disposizione dei posti puó intaccare il mio umore stasera, neanche Karolina che non la finisce di riempirmi l'orecchio destro di nomi e indici puntati verso persone che non vedo, neanche il suo braccio magicamente sedotto intorno al mio. L'acqua frizzante frigge in gola, Asher ha un sorriso amabile, mi da la nausea e cazzo se ho buon gusto. 

Questa volta Karol non ha bisogno di assegnare una possente identità a coloro dei quali sta parlando.

-Non é bellissima?- mormora, il sogno di un'invidia nascosta.

-Sì.. lo è.-

E tanti saluti al "dimentichiamocelo" tanto convinto che gli ho sparato in bocca l'ultima volta. Perché la cara, vecchia Karolina sta parlando di Magda che, ora che sposto di dieci gradi l'angolazione della testa, noto che è infilata in un lungo vestito color porpora e argento. 

Quale coglione risponde senza aver capito un'acca della domanda?

Eh, il sottoscritto era spostato di dieci gradi verso settentrione, dove un sorridente pallone gonfiato è fasciato da un completo bianco di alta sartoria. Quello smoking candido l'ho scelto io e l'"io" ha proprio un delizioso palato. 

-La borsa di Magda in realtá è mia ma.. sai quanto mi piace condividere.-

Questo, nel linguaggio della ragazza dai mossi capelli castani accanto a me significa che, se Magda non gliela restituirà più nuova di quando gliel'ha data entro ventiquattr'ore bè.. la situazione potrebbe facilmente degenerare. E con "degenerare" mi riferisco a strappi di capelli e pugni nelle ovaie. Lotte da ragazze insomma. 

Non posso fare a meno di seguire quel pallone gonfiato muoversi attraverso ai tavoli come fosse il padrone di casa, intavolando convenevoli come un ragno che tesse la tela. L'aracnide sa esattamente cosa fare, quando farlo e come farlo, non c'è filo nell'intricata rete traslucida che sia un punto morto, non c'è un lembo più sottile, un punto debole nella trappola. 

Aleksander é così, ha tessuto la propria rete invalicabile intorno a lui, al mondo che comanda e dal quale si lascia comandare. È uno scambio, un'offerta reciproca, ci guadagnano entrambi: lui da alla realtà concretezza e compattezza, e la realtà lo premia pendendo dalle sue labbra, perennemente. 

Anche adesso, attorniato da smoking e champagne, posso quasi sentirla bollire l'aria da Vanity Fair che si porta instancabilmente dietro.

Eppure neanche lo champagne è abbastanza stasera, neanche Vanity Fair può impedire al sottoscritto di vedere attraverso il bianco dei suoi vestiti. Non dovrei, eppure vedo i suoi muscoli attraverso il bianco della giacca, sotto quella camicia, e non dovrei conoscere con precisione matematica il punto in cui l'elegante pantalone si gonfia.. ed eccomi qui, a lasciarmi sfuggire il corso degli eventi di mano e a fuggire con esso. 

Ripeto: sono un coglione. 

-Dominik è un ottimo studente.- 

Mi costa distogliermi davanti la vista del figlio dei Lubomirski che si porta il bicchiere alle labbra, ma la voce che ha abbracciato il mio nome non mi suona accordata. 

-Anche Asher lo è.- sorrido, smagliante, rigido. -Informatica, economia, statistica..-

-In informatica credo siamo alla pari.- 

Mi guarda con l'inconfondibile, tachicardico ticchettio di una bomba a orologeria negli occhi e io ricambio con quella stessa bomba, solo con qualche minuto in più d'attesa.

Poi sorride. Di botto.

Sì, fa spesso così e tu vieni semplicemente spiazzato dal suo cambio repentino di personalità. 

Ad uno come Asher non basta la bipolarità, deve essere quadripolare, come minimo, mi ci gioco il sedere che a stentoo tengo incollato alla sedia. 

Potrei avere un cuscino? Lo stronzo tre tavoli più avanti mi ha sfondato.

-Ho letto il suo curriculum Sign. Santorski.-

-Il mio..- sbatto le palpebre. 

-Ssì..- 

-Sul sito del Rosiska.-

-Il Rosi.. Certo! Il liceo..- annuisco come un'idiota, afferro la prima cosa che mi capita tra le mani , ed è un cucchiaio, e stanno servendo carne. 

Vorrei schiaffarmi una mano sul viso e giustificarmi davanti al tavolo che improvvisamente mi trova il passatempo più esaustivo della serata, e magari dire che non è colpa mia se ho gli spilli nel buco del..

-E' uno dei migliori della scuola e..- 

Mi reggo al tavolo. 

Sono sicuro al 99,99% che le fitte fra i glutei esporranno presto la loro protesta e mi districo con violenza da ció che ci aspetta fra una settimana e un giorno, avvenimento incombente che non avremmo potuto dimenticare neanche volendo. Sento le spalle pesanti. Non è bello sapere che hai fatto richiesta ad una sola università e che se non mi troveranno idoneo ai loro standard potró tranquillamente prendere una scopa in mano e iniziare la carriera da spazzino.

Non che la cosa mi sembri più horror del rinchiudersi in una discoteca a morire. 

-Scusatemi.. signori.. ritorno fra un attimo.- sì, due

Raggiungo in quattro falcate il tavolo dove una riccia testa bionda fa ondeggiare a ritmo alterno i boccoli sulla sua sommità.

-Sam, una sigaretta?-

Lui si tasta il gilè elegante, poi fruga nelle tasche del pantalone fino a quando non tira fuori un pacchetto di sigarette ammaccato. Me lo lancia. Io sono a venti centimetri da lui e lui.me.lo.lancia. 

Ora capisco cosa accomuna Lubomirski (che mi deve un sedere nuovo) e questa testa di ravanello dorata. 

Mi avvio verso l'uscita della splendente sala ricevimenti di un ristorante che potrebbe benissimo contare la superficie quadrata dell'Australia e la notte fresca mi accoglie sotto il chiarore pallido della luna. 

Spero che Samuel sia uno di quei fumatori che aspettano di fumare giusto quelle due sigarette per incastrare nel pacchetto l'accendino. 

Non che fumi. Non che abbia mai avuto voglia di fumare. Ma ho fatto sesso con Aleksander Lubomirski, una sigaretta posso concedermela. 

È tra le mie labbra prima che chiunque possa fermarmi con discorsi farciti di paroloni su quello che accadrà da qui a un esame. Io non so cosa mangerò domani a colazione. E se ci arriverò. La notte puó riservare indicibili sorprese. 

Un solo, singolo esame e si spalancherà la porta dell'ignoto. La punta della sigaretta si illumina di arancio. 

Ora dovrei inspirare, giusto? 

Mi guardo intorno come all'ultima interrogazione di matematica alla quale Samuel ha risposto a gesti muti. 

L'aria è attraversata da tiepide correnti di calura estiva e in giro non si vede neanche un'anima. Tiro. 

Tossisco, mi lacrimano gli occhi, tossisco ancora e mi sventolo con una mano. Che merda è? 

Mi fa letteralmente schifo e io non ho niente di meglio da fare, credo sia per questo che sollevo di nuovo la sigaretta in bocca nonostante il primo tiro si faccia sentire raschiante come un rastrello sull'asfalto dell'autostrada tra le tonsille. 

E quando la piccola miccia lampeggia è come se lampeggiasse anche la gigantesca, abnorme scritta al neon accesasi davanti agli occhi trasognati e alle bocche spalancate dei miei svogliati neuroni. C'è anche un po' di bava su quelle piccole bocchette incantate. 

Ma il neon a caratteri troppo grandi per guardare oltre e a luce troppo fastidiosa per non esserne investito irride una sola parola nell'assordante scalpiccio di zoccoli di cento cavalli comparsi dal nulla nella mente: "pericolo". 

La sigaretta finisce immobile fra i ciuffi d'erba pigramente scomposti. Le dita non l'hanno lasciata cadere, hanno smesso semplicemente di esercitare la pressione tale da sostenere un oggetto pesante quanto un pezzo di carta rotolato perché il neon, più il chiarore lunare, più la frescura di una notte di inizio estate, più il notevole dettaglio che oggi é sabato, il penultimo sabato prima degli esami finali, fa di questo momento uno scombussolamento abissale nel profondo delle viscere. Mi si sono attorcigliate le vene. Dove sono stato le ultime ventiquattr'ore? Chi sono stato? 

Sono caduto quando dovevo saltare, mi sono guardato indietro quando avrei dovuto andare solo avanti.

La gola viene stretta dalle dita della mano che prima sfioravano la sigaretta e che adesso vorrebbero lasciarmi collassare. 

Manca l'aria.

Mi manca l'aria, il fresco non è abbastanza, il freddo neanche, mi fa caldo e i brividi si fanno sentire sulla colonna vertebrale.. Se mi fa caldo perché sto tremando come se fossi gelato dentro? Perchè il muro sembra non potermi sorreggere, sorreggere i pezzi di me rimessi insieme da una colla scadente?

Perchè ho "fatto sesso con Aleksander Lubomirski", e un urlo ora sarebbe il finale perfetto per un sipario macchiato di rosso.  

Non mi molla da quando sono entrato a scuola stamattina. 

Anche in una stanza colma di computer come lo era Magda di alcolici lo scorso venerdì quando le balzò in testa di dover diventare una spugna umana di vino e Samuel attribuì tale desiderio al fatto che lei e Leks avevano guardato Spongebob la notte precedente. Il suo sguardo arraffa il mio, e il mio si fa miseramente catturare. 

Ci rincorriamo nel silenzio, sulla linea del proibito, sulle ali che mi stanno portando lontano da ogni buonsenso. 

Chi era Aleksander ieri sera? Perché gli occhi che furtivamente accarezzano i miei non sembrano quelli in cui c'è la spietata certezza di qualcuno che non sa perdere ma quelli di bronzo fuso che bruciavano prima di abbandonarci l'uno contro l'altro ad un'insensata notte che fa ribollire ansia, paura, incertezze, antichi dolori e nuovi tremori? 

É un fottuto errore, dovevo disintossicarmi e sono andato a ripescare la siringa che non ho mai dimenticato. 

Adesso il contenuto dello stantuffo me lo sento nelle vene alla pari del sangue. 

Sbagliato, solo, mare che si infrange sull'ennesimo scoglio che non cederà.

Un fottuto errore che mi costa l'inesistente sanità mentale che ho finto di possedere davanti a madre, padre, psichiatra, scuola e mondo, un equilibrio imperfetto, sanguinante, su un'oceano di squali.

Voglio che il suo viso si giri ancora, mentre prende a parolacce Samuel e con Samuel sfotte i primini mentre si fanno in otto davanti lo schermo per accaparrarsi l'ultimo porno e contendersi la vittima di turno, un paio di cuffiette per sentire i teatrali incitamenti della ragazza fra gli ansimi; voglio che il suo viso si giri mentre tiene Magda sulle gambe, mentre le circonda la vita con un braccio, mentre bacia Magda io voglio che guardi me, e quando lo fa ho una paura asfissiante nei più sbatacchianti alveoli del cuore da farmi sotto all'istante se non fosse per l'ameba di Asher qualche fila dietro che ci fissa con i suoi vivaci occhietti acuminati appuntati sulla mia t-shirt. Così aggancio le dita sulla tastiera e fingo disinvoltura, in netta antitesi alla mia pelle che impazzisce al ricordo del corpo del ragazzo qualche posto più avanti al centro di un nutrito gruppo di ammiratori e compari davanti a due nudi che si sbavano addosso.

Combatto contro me stesso schierato con la trincea della mente che erige muraglie di ragione e amor proprio, muraglie di domande e risposte chiare, limpide, gocciolanti razionalità che puntualmente crollano sotto ai bombardamenti dei carri armati delle emozioni, ai proiettili della libertà, ai colpi del cuore. 

È una partita facile, dopo tutto quello che è successo, dopo tutto quello che succederà se mi lascio coinvolgere, è quasi scontato che il buonsenso e la ragione vincano sul resto. 

Ma ci sono dentro, immerso in una piscina senza scale nella quale non ricordo di aver saltato, ci sono dentro fino alla punta del riflesso blu dei miei capelli, più in profondità di quanto sia mai stato, ne usciró più distrutto di quanto mi sia mai sentito.

Le dita circondano la gola ansante, il muro segue la lenta scivolata sull'erba, le luci dorate e il sonoro vociare dall'interno non mi raggiungono, non intaccano l'ansia che mi soffoca e il tumulto dei battiti nelle tempie. Ho fatto..ho fatto...

Allento la cravatta,

non basta, 

la getto a terra, 

l'aria sembra avvolgersi intorno alla trachea come una corda che inesorabilmente si stringe, si stringe, si stringe..

-Dom.. Dom..inik..-

Menta, l'aroma cangiante di fine primavera cede il posto alla menta. Una mano che sa di menta, poi un'altra e la visuale é totalmente appannata da una testa chiara e due rotondi occhi color foglia. 

-Dom..guardami.. guardami.-

Samuel mi sostiene il viso con due mani come se potessi accartocciarmi su me stesso come una lattina vuota, e magari è così che mi ha trovato, al muro, incapace di frenare la corsa del sangue, ma non vuoto, pieno fino all'orlo di sensazioni sbagliate, di scelte sbagliate, una goccia, una sola goccia e..

-Dominik calmati.. Ehi calmati.-

Mi riporta alla realtà con gesti semplici e mezze voci, incastrate fra le tonsille. Il respiro si calma, il cuore distende lo scalpitante moto dei suoi battiti e il silenzioso urlo nelle corde vocali si attenua fin quasi a scomparire.

Quasi.

-Va tutto bene..-

No Samuel, non va bene.

Non va bene avere il tuo migliore amico dentro, non va bene sentire in bocca il sapore della cannella e il retrogusto di vaniglia, non va bene cadere a terra vittima di un attacco d'ansia che sfocia nel panico raggomitolato attorno alla fatidica domanda: "E ora?" 

Spero che il riflesso che vedo sia in qualche modo distorto, con un notevole margine di esagerazione dell'innegabile realtà dei fatti.

Voglio che lo specchio mi urli contro: "È sbagliato!"

Ma non lo è.

I segni sul collo non sono un errore di battitura, i morsi sulle spalle e il rossore nei punti in cui le sue dita hanno affondato nella mia carne non sono macchie d'inchiostro sul panna di una carta da lettera. 

Non si tratta di un errore di stampa al quale una nuova edizione rimedierà, mi sono ritrovato avvinghiato su un letto con la persona che non dovevo neanche guardare, ho fatto "sesso" con Aleksander Lubomirski e la consapevolezza mi sta uccidendo.

-Ma sai fumare?-

-Certo..- mangio respiri  -per.. chi.. cazzo mi hai preso Samuel?!-

-Per uno che non sa fumare.-

-Non è la prima.. volta che tengo una sigaretta in mano.-

-Sì per reggerla a Leks.-

Deve aver capito di essere inciampato in pianura ancor prima che il mio viso si trovi spalmato sul suo e il ringhio in filigrane d'ira gli sbatta in faccia.

-Ti sembro il portantino di Leks io?-

-..No, Dom non intendevo que..-

-E ti sembro in vena di psicanalizzare la mia tendenza al non fumare se stasera ho avuto la magnifica idea di darmi alle canne?-

-No ma..-

-E ti sembro il genere di persona che non ti spegne la miccia della sigaretta in fronte se non la finisci una volta per tutte di inserire il tuo amico in ogni fottuto discorso che fai con il sottoscritto?-

-Nik- sospira. -Il fumo ti da alla testa.-

-Sono altre le cose che mi danno alla testa, ad esempio tu in questo momento Samuel.-

Aspiro altre dieci volte in dieci secondi e per dieci volte tossisco come un fumatore di novant'anni. Dopo un attacco di panico avrei bisogno solo di aria e ossigeno.. E okay, la sigaretta non è il mio forte. Appurato.

Quasi il ravanello dorato non mi prende un occhio con i suoi movimenti di Yoga.

-Tu cerca soltanto di rilassarti..- La sera è spettatrice del ringhio acuto delle mie labbra tirate.

-Sai dove te le ficco le tue tecniche di rilassamento??- 

-Oookay sei stato con Leks di recente?-

Mi pietrifico.

-Perchè.. si vede?-

-..Cosa?-

Sono corso via prima che il verde dei suoi occhi possa indagare più a fondo nell'azzurro dei miei, varcando la porta che cazzo, non so più come sprangare. 

Sono scassinatori di porte esperti queste emozioni che sciabordano come alta maree dalla trachea allo stomaco. Non faccio neanche cinque passi che la presa salda di una mano che conosco troppo bene mi blocca la fuga arroventandomisi sul polso e la fisionomia squadrata del suo viso bruno mi si piazza davanti con ostile franchezza.

-Puzzi di fumo mal fumato.-

-Ma cos'è stasera, la serata "salviamo gli adolescenti dalle droghe leggere?", siete diventati tutti i miei guardiani personali?-

-Non vorremmo che ti si raggrinzisse questa bella pelle..- un'altra voce.

Avete presente quella istantanea sensazione di essere in mezzo a due lupi rabbiosi che litigano per la stessa preda? Ecco, con Aleksander da un lato e Asher dall'altro mi sento esattamente così, la preda della situazione che non ha nessuna voglia di stare a guardare. 

-Qual è il problema Asher, la compagnia di Karolina non è più abbastanza per te?-

-E il tuo di problema Leks? Quella di Magda oramai non ti aggrada più molto?-

Voglio fuggire da qui, allontanarmi dall'area rarefatta di uno scontro di insinuazioni. 

-Psicologia? No guardi, il test può anche aver risultato una buona percentuale ma io proprio..-

E lo avrei anche fatto se un convoglio di gentiluomini non avessero avuto il tempismo perfetto dei momenti critici di sommergerci con le loro pompose proposte e curiose domande.

-Non credo di poter esserle d'aiuto.-

Eppure il ragazzo dagli occhi di metallo sembra essere insofferente a tutto il lusso, alle attenzioni che gli si rivolgono con cortese invadenza. Premi, corsi, concorsi, meriti.. La carriera scolastica di Asher Brown è d'oro quanto quella di Aleks. Un oro bianco certo, meno appariscente, con luci della ribalta lievemente più soffuse, ma pur sempre oro. E lui, con le risposte secche e la rigidità della colonna vertebrale, sembra non sia a suo agio nel suo mondo.

Sbuffo. -Se le dico che si sbaglia vuol dire che si sbaglia. Se cerca un esperto di Judo non sono il soggetto che fa per lei, io in suddetto sport sono quello che finisce sempre con le natiche per terra. Con permesso.- 

Li lascio freschi freschi ai loro uomini provenienti da prestigiosi College sparsi per l'intero territorio polacco e mi rintano nel lussuoso bagno del locale, lontano dal sottile motivetto di sottofondo delle voci dai colori sgargianti dei protagonisti dell'ultimo anno del mio liceo. Le traslucide mattonelle nere e porpora fanno da sfondo all'immagine di un viso pallido nello specchio cerchiato dall'ovale di moderna cornice vetro opale. Gli occhi rispondono con vivace pesantezza, mi stanno rimproverando per l'atto che il corpo sta esaltando con assoluta vittoria. Ho lo stomaco in guerra con le labbra, le gambe in combutta col cervello e le braccia se né stanno lì, lungo i fianchi, come l'attenzione che cala sui segni visibili sul chiarore dell'epidermide. Basta avere la briga di scostare un po' il colletto della camicia e.. ho il marchio "Aleksander Lubomirski" impresso da tutte le parti. Come una borsa di Luis Vitton con le sigla in contro campo a caratterizzare l'intera pelle. 

Ecco, sono diventato una fottuta borsa di Luis Vitton. 

Speriamo almeno che sia una di quelle con il listino prezzi da mille in su.

Dominik Santorski, imperterrito stronzetto masochista, sei stato a letto con Aleksander Lubomirski, viziato immancabile figlio di papà, patteggia con questo, fattene una ragione e vai avanti come se ciò fosse solo un inaspettato inconveniente facilmente sorpassabile in un'esistenza in cui ad ogni dilemma c'è una soluzione.

Aah, questo sì discorso accorto da persona assennata che ha tutto sotto il più puro controllo. 

E per tutto sotto controllo intendo emozioni, sensazioni, sentimenti, paure, dubbi, incertezze, aggressività compulsiva, insonnia, ossessioni e un piccolo tentato suicidio alle spalle. 

E, giungendo alla più che ovvia conclusione che io non sono né una persona assennata, né una persona assennata che fa discorsi accorti, né una persona assennata che fa discorsi accorti che ha tutto sotto il più puro controllo, non sembra essere una sorpresa che le mani, recuperando acqua gelida da spalmare sulla faccia, stiano tremando convulsamente e che le labbra sanguinino perché i denti vi stanno incidendo la loro impronta. 

Va tutto bene. 

Col cazzo.

La vibrazione del cellulare mi trascina nella realtà. Mi chiede di sollevarlo e allontanare le pupille dai segni di mani e denti sulla linea della mandibola. 

"Voglio parlarti."

Un nome. Due parole. 

"Sai dove sono, vero?"

Per chi sto sanguinando adesso?

"Sono fuori."

Un scarica di elettricità attraversa ogni vertebra della schiena, intaccano la contemplazione della pelle che celo accuratamente sotto al colletto di camicia nera e mi addentro nella notte facendo il percorso all'indietro nella sala gremita di presenze. Vengo sommerso dalla brezza della sera e prima che me ne renda conto sto già svoltando l'angolo dietro il locale, dove costose auto attendono pazientemente sotto il chiaro di luna. 

Basta poco perché sembri che un pezzo di quel pallido argento si stacchi dal cielo per adagiarsi sull'asfalto che mi porta i suoi passi leggeri. Basta poco perché i vestiti svolazzanti e gli articolati discorsi sul futuro perdano importanza. Basta poco, ed è un gioco a cerchio, il punto di partenza è sempre lo stesso. Catapultato in un buio diverso la vedo, in un buio più intenso la sento, in un buio che sa di buio la sua presenza mi richiama prima dello sguardo che si stacca dal cielo per posarsi su di me. 

E' un gioco a cerchio, ma non sono più sicuro di voler giocare. 

Ma basta che da qualche parte riecheggi il tuo nome per perdermi nel suono, lasciarmi trasportare dall'inevitabile irrazionalità che racchiude, unirmi alla tua oscurità in questa notte di stelle. 

-Cosa ci fai qui?-

-Mi sembra ovvio, no?- 

Lo scampanellio nell'implicito quanto retorico punto interrogativo nell' inesistente domanda disperde un'impalpabile aroma di fragole, come sinuose spirali di fumo.

-Volevo vederti, volevo toccarti..-

I capelli sono di un incredibile rosso, più acceso dell'ultima volta. Forse è la sera, forse no, ma i riflessi sullo scarlatto delle ciocche che le contorniano disordinatamente il viso è quasi nero. 

E se è un gioco a cerchio, davvero non c'è via di scampo?

-Sylwia non dovresti essere qui.-

-Adesso ci sono cose che possiamo e cose che non possiamo fare?-

Schiocco. Uno schiocco segue l'arresto del bianco della sua mano protesa verso la mia guancia.

Momentaneamente confusa lei, spaesato io. Un tempo non molto lontano avrei pagato ori e argenti, spostato mari e monti pur di attraversare la webcam e unirmi alla malinconia sulle sue labbra. Ho amato e odiato lo screen del computer che permetteva di vederla ma non di toccarla. Adesso è qui, rossa, ambigua, ma raggiungibile. E' qui, davanti a me, per la seconda volta e io ho appena impedito ai suoi polpastrelli di giungere sino a me. 

-Dominik..- echeggia una risata lontana -non dirmi che ti sei fatto fare il lavaggio del cervello.-

Le labbra articolano suoni che la mente non recepisce. Sono sempre io, e' sempre lo stesso, le sue labbra di ciliegia mi fanno ancora sbaccellare lo stomaco, i cristalli di ghiaccio fra le sue ciglia rapiscono il mio sguardo, le sue mani affusolate, trascurate sono ancora mio desiderio, eppure qualcosa è cambiato. 

-Noi possiamo tutto Dominik. Lo sai, noi non siamo come loro.-

Loro.. Loro.

Ecco cos'è cambiato. Compreso nel loro c'è qualcuno adesso. 

Non riesco più a detestarli o a fingere di detestarli adesso. Questo perché sono diventato come loro, o perché uno di loro è diventato come me?

-Non sono poi tanto male..-

I suoni diffusi da un pianoforte stonato le lambiccano la mente prima che possa fermarle.

-Non sono male? Sono immersi e sommersi in una mediocrità composta da parole vuote e finti luoghi comuni, insensibile menefreghismo e maschere di cera..-

-Anche tu indossavi una maschera Sylwia.- 

-Questo perché io dovevo difendermi, sopravvivere.-

-Beh sono stanco di sopravvivere.- scaccio il contatto che non riesce ad avere e disintegro la barriera del buio con un passo indietro. 

-Sono stanco di indossare maschere, sono stanco di difendermi, sono stanco di dover trovare una giustificazione logica ad ogni cosa e sono stanco che altri prendano decisioni che spettano a me.-

-Con me non devi indossare maschere.. lo sai.- il gelo delle sue dita alla fine sfiorano le labbra, le unghie chiare e irregolari, solcano la bocca che il ghiaccio dei suoi occhi ha scorto per tramonti e albe nel languore promettente della notte priva di comete. -Con me puoi essere te stesso, essere chi scegliamo di essere, diventare un'estensione della notte, osservare il resto del mondo da un altro universo.. non dobbiamo niente a nessuno e nessuno può imprigionarci. Sii la mia prigione Dominik, e io sarò le tue catene. Sii il mio principe.-

 

"Mi faresti il favore di smetterla di fissarmi?"

"Perché dovrei?"

"Perché è inquietante."

"E' romantico."

"E' inquietante."

"Romantico."

"Allora mi faresti il favore di smetterla di essere romantico?"

"Non posso."

"E perché no?"

"Perché so quanto ti piace."

"..a ME non piace."

"Allora perché sei diventato più rosso della bustina di ketchup?"

"Alza la testa dal cell prima che la prof ti veda."

"In caso è colpa tua."

"E' sempre colpa mia."

"Concordo, e lo era soprattutto ieri sera.."

"Fottiti testicolo."

"Che c'è, adesso c'è l'hai con me?"

"Io c'è l'ho sempre con te."

"Devi, ti voglio combattivo."

"Perché dovrei esserlo?"

"Perché sei il mio principe."

 

-Quello che ho scelto di essere..non posso esserlo nell'ombra.-

-Cos'hai scelto di essere?-

-Un combattente.-

-Bè, io invece ho scelto di essere una suicida.-

Con la velocità di un tuono che si propaga dal nulla e lo stesso effetto sorpresa del lampo nel cuore della notte, il bagliore candido di ciò che pullula ancora con visione accattivante i miei incubi ci impiega due secondi a percuotere l'incanto sopraggiunto in seguito all'udire della sua voce, due secondi e so già che sarà tardi per tornare 

indietro.

-Sylwia NO!-

Le pasticche rotolano sulla ghiaia, altre sopraggiungono sull'asfalto, nivei dischi di neve, altri sono ancora nella sua mano, pochi e pochi sono finiti nella mia mano, grondanti lucidità sul palmo.

Le guardo come si guarda un peccato che si avrebbe il coraggio di rifare, le rifugio come il fumatore che vuole togliersi il vizio, spingo lei, fermo la corsa della bocca che cerca di raggiungere le pillole che ammiccano dalle dita e quelle stesse dita affondano tra i miei capelli quando con uno strattone trattiene il mio alito sul suo.

-So che lo vuoi, lo vuoi con tutto te stesso perché non sai fingere di star bene Dominik, non sai fingere di essere come loro..-

Mi allontano ma mi riporta più vicino, i fili neri fra le dita che non lasciano la presa, le unghie nella nuca.

-E' quella la nostra realtà.-

la spina di un cespuglio mi penetra la coscia. 

-Non puoi fuggire da ciò che sei, mio re..-

indietreggio, mi stringe un braccio con una drammaticità che fa male. 

-Dov'è.. Dov'è?!-  

la fitta lascia odore di un puntino di sangue.

-Dov'è il Dominik che conoscevo?!-

-E' MORTO!-

...

Immobile.

Quei falsi puntini di neve sono ora a terra, immobili. Immobile è l'aria fredda che non accenna a bisbigliare cosa le stelle tacciono, silenzioso pubblico di una rivelazione che si fa carne. 

Sylwia non c'è più, al suo posto persiste il sangue rosso come la sua chioma e l'ultimo sguardo che mi ha donato prima di divenire parte dell'ombra. Era malinconia, o soddisfazione? Rabbia, amarezza, fierezza?

Abbandono le braccia, districo la gamba dalle radici di spine. 

E' una scena a rallentatore quella che si va creando sullo spiazzo di erba e asfalto, dove prima bruciava il fuoco dei suoi capelli e dove adesso una bionda-rossiccia mi fa veloce cenno di avvicinarmi. 

-Sandra.. che succede?-

-Falò, birra, devo togliermi questi tacchi.-

Comprensibile, nonostante sembri un gioco in codice; e forse lo è davvero, ma per quelli cresciuti con questa gente è tutto chiarissimo: ci incontriamo tutti ad un falò da qualche parte, abbiamo la birra, basta con lo champagne e basta anche con questa asfissiante eleganza. 

-Fammi strada.-

Ci inoltriamo in quella che sembra una radura immersa nella totale oscurità se non fosse per la torcia del cellulare di Sandra che illumina decentemente i nostri passi. 

-Come fai a non inciampare nei tuoi stessi piedi? La gonna di questo vestito sembra un strascico da sposa.-

-Essere donna vuol dire anche questo.-

-Camminare sui trampoli?-

-Ed evitare che un lembo di seta si impigli nel tacco a spillo da dodici scoprendoti il lato B.-

Evito una sporgente e nodosa radice di un albero. -Io non ho di questi problemi.-

Sorride con maliziosa ironia. -Non mi dispiacerebbe vedere il tuo lato B.-

-Neanche a me!- uno spintone mi coglie completamente impreparato e quasi non finisco spiaccicato al tronco di una quercia o quel che è. 

-Samuel puoi evitare di ferirmi mortalmente?-

-Ma non mi dispiacerebbe neanche vedere il tuo..- Samuel si avvicina ad una Sandra rossa come un pomodoro con fare da provocante galantuomo.

-Ehi ehi frena i dispiaceri amico, ci sono prima io.-

Mi volto. 

-Sono venuto solo per..-

Prima che possa finire un braccio mi artiglia la vita portandomi con sé, dietro il grosso busto di un albero, e in un battito di ciglia mi ritrovo il suo respiro inconfondibile anche nell'ombra sulla guancia e il calore di Aleksander nei polsi.

-Pensavo che non venissi.-

-Pensavo che non ci fossi.-

-C'è la birra- sghignazza- credevi davvero che me la sarei persa?-

-No.. ovviamente no.-

-Pensavo di dover mandare un messo a cercarti, non sei più rientrato.-

-Tu guardavi me?-

-Non essere così sorpreso principe, chi non ti ha guardato stasera..-

-..Comunque, me ne stavo anda..-

Che Aleksander Lubomirski riuscisse ad ottenere sempre quello che vuole era risaputo, ma che usasse qualsiasi mezzo, o arma, o colpo basso per riuscirci nessuno si era premurato di dirmelo.

Almeno prima di stasera. 

Da stasera, dopo che mi è spuntato un bernoccolo sulla testa a causa della corteccia di un albero su cui ho fracassato le cervella per la sorpresa di averlo improvvisamente sulle labbra, non ho più alcun dubbio: è uno stronzo. 

Anzi no, è lo stronzo. 

Mi lascia prima che possa anche solo razionalizzare che mi ha assalito il labbro inferiore con i denti, allontanandosi insieme al gruppo che prosegue il tortuoso cammino tra le fronde degli alberi.

Mi lascia sapendo bene che lo seguirò, da lontano, diffidente, in silenzio, ma né ha la fottuta certezza che se si volterà sarò solo un passo dietro di lui. 

Mi intrometto in mezzo a Sandra e Samuel, artefici di un flirtaggio zoppicante, lento, asfissiante quanto quello di Ron e Hermione, semplicemente perché non mi va di sostenere lo sbocciare di nuovi amori stasera, solo perché l'elegante abito bianco di quel pallone gonfiato è ben visibile ad un sette metri da me, in testa al gruppo di una quindicina di persone, a fare strada verso una meta che, ci scommetto l'alluce destro, non conosce nemmeno lui.

-Ehm..Samuel..dove dobbiamo andare?-

Appunto.

-Aspetta, ho il navigatore!-

Oddio.

-Ragazzi siete sicuri che..-

-Sì sì sì Joanna, lascia fare agli uomini.-

Alla fine gli "uomini" ci hanno fatto vagare un'ora senza riuscire a capire quale fosse questa intricata destinazione e solo, mi duole ammetterlo, grazie alle conoscenze tecnologiche di Asher, a quelle territoriali di Sandra e all'entusiastico tifo di Sam che, rendendosi conto che li suo navigatore aveva miseramente fallito, si rendeva utile con smaniosi incitamenti. Almeno fino a quando Leks non gli ha ucciso quell'ultimo neurone non psicolabile rimastogli scaraventandogli in testa un rametto che sembrava un tronco, attorniati intorno a un fuoco le cui lingue rosse svettano quasi a voler toccare il cielo e i nostri sguardi resi languidi dalla vicinanza col calore. I miei probabilmente lo sarebbero lo stesso anche in mancanza delle fiamme visto e constatato che Aleksander ha scelto di sedersi proprio davanti a me sulle sponde del grande lago. 

-Non tocca terra quando cammina..-

-Già Sarah è una presuntuosa del cazzo.-

-Come te Joanna.-

-Leks! Sono una presuntuosa, Karolina sono una presuntuosa?-

-Diciamo un po' sopra..le righe.-

-Ogni tanto è bello essere sopra le righe.-

Un numero considerevole di occhi si acquattano famelici sulla mia figura, silenziosa, ferma, illuminata fin troppo dalla luce del fuoco.

-Sì…Vedi? Anche Dominik lo pensa, non è un difetto sottrarsi agli schemi.-

-E alle inquadrature..-

-E alla prevedibilità.-

-E all'ASTEMIO!-

-Samuel..no.-

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Capitolo 17
*** Uccidimi (parte II) ***


Come promesso.. la parte 2.
Grazie grazie ancora ancora.
Pachiderma Anarchico.
PS: Non ho riletto niente di questa parte, è stato un flusso buttato di getto senza quasi pensarci, scritto in un tempo di due giorni. Non era mai capitato col punto di vista di Aleksander. perdonatemi.

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CAP. 15  -parte II-




Aleksander

 

La musica scoppietta come un fuoco di Natale inferocito fra console e dj, dj e persone, persone e piscina. In quest'ultima l'acqua vibra trascinata dall'assordante motivo di una musica house americana. Neanche un alito di vento intacca la notte di una domenica di fine primavera. E non una domenica qualsiasi. Ma l'ultima, prima che si spalanchino le porte dell'inferno. 

Mio padre lo chiama futuro, io non ho neanche il coraggio di chiamarlo. Non lo ammetterò mai davanti a lui. 

E' per questo che è appena mezzanotte e il cestino della spazzatura delle modeste dimensioni della torre di Pisa è già piena fino all'orlo di bottiglie di birra e vodka vuote. E se lo si guarda dalla giusta angolatura, è anche inclinato da un lato. 

Siamo terrorizzati, chi più, chi meno, e le luci della discoteca che ho allestito sulla terrazza del mio attico non bastano a mascherare gli occhi lucidi e le sottili spirali di canne nascoste. 

-Dammi un tiro.-

Sottraggo alla bocca di qualcuno l'ennesima boccata di fumo e mi guardo intorno con lentezza, placidamente come se avessi tutto il tempo del mondo. Ma non ho tutto il tempo del mondo, nonostante sappia che una settimana non passa in fretta, nonostante le luci della mia Varsavia rimangano sempre lì, fisse e sicure come una certezza matematica. 

Il tempo della pacchia, dei colpi di testa, dell'adolescenza in cui ti viene concesso tutto perché sei disposto a tutto sta per finire. I miei non fanno che parlare della prestigiosa università dopo il diploma, i parenti non vedono l'ora di vedermi diplomato come se stessi per sposarmi e la famiglia di Magda non sta badando a spese per la festa che darà in onore della maturità della loro adorata, unica, figlia. E' un orologio che non si ferma del quale i secondi, infinitesimi, piccoli, scorrono inesorabili. 

Quando sono passati questi quattro anni?

 

-Samuel.. si fa toccare mentre viene.-

-Che?-

-Dominik.-

-Ah..Domi.. DOMINIK?! Che cazzo hai fatto Aleksander?-

-Un guaio Samuel.-

-L'hai fatto..con..-

-Sì cazzo..sì.-

-E..com'é stato?-

-Beh..-

-Leks come..-

-Ti risparmio tutto l'insopportabile patatrac psicologico per una santissima volta. È stata la miglior scopata della mia vita.-

-...merda.-

-Eh merda sì.-

-E ora che fai?-

-Espatrio. La Polonia non é più un posto sicuro per me. Che ne dici della Bulgaria? No, troppo vicina. La Svizzera? No, devo uscire dall'Europa. La Thailandia! La Thailandia non è in Europa vero?-

-Okay le tue conoscenze geo-politiche fanno cacare ma..Cosa hai intenzione di fare adesso??-

-Adesso.. cambiamo piano.- 
 

-Alza il volume Antony.-

-Ma è a al massimo.-

-A quant'è?-

-Novanta..-

-Allora non è il massimo. Tu vai a novantanove.. Non voglio sentire neanche i miei pensieri stanotte.-

Con un balzo svogliato scendo dalla piattaforma rialzata dove servizio bar e amplificatori distribuiscono il nostro pane quotidiano e mi dirigo in mezzo alla folla che si dimena intorno la piscina a ritmo di musica. Non lo do a vedere che sto andando proprio lì, ma ho intravisto una testa mora attraverso le luci psichedeliche che mi interessa.

-Principe.-

Si volta, assonnato, o finge solamente di esserlo. -Perchè così triste?-

-Stasera potrei farti la stessa domanda- risponde.

-Non sono triste, ti sembro triste?-

-Vuoi la verità?-

-No.-

-Allora non mi sembri triste.-

Sorride piano, discreto, circospetto come un pesce fuor d'acqua. 

Cambio argomento per non perdermi nel rosa di quel sorriso.

-Lo stile è di nuovo sobrio stasera eh?- prorompo e alludo ai miei jeans grigi e alla sua felpa nera.

-Non possiamo essere troppo perfetti, o i nostri si abitueranno.. D'altronde..non ci siamo ancora diplomati.- si guarda intorno, poi bisbiglia: -La notte è ancora nostra.-

S'è c'è una cosa al mondo che detesto, è quando qualcun altro ha ragione, perché ciò implica automaticamente che io ho torto. 

Ma c'è una cosa che detesto di più, persino di più di quando ho torto, ed è quando ho torto perché Dominik Santorski ha ragione.

Complicato? Bè, mettiamola così: io detesto dargli ragione.

Ma stasera c'è l'ha tutta questa bastarda che se ne va in giro, di persona in persona a tradirmi. Stanotte la ragione è sua. 

Eh si..potrei intavolare un'abile arringa e argomentare in modo tale da darmi ragione anche se non c'è l'ho -sono sempre figlio di un illustre avvocato- ma la notte è troppo giovane per fare certi discorsi, quindi lo tiro in pista prima che possa obbiettare e soprattutto, prima che possa obbiettare io. 

-Devo farmi vedere impegnato o Samuel vorrà ballare un lento-.

Dominik si volta, nasconde un mezzo sorriso, dice: -Non credo che ci sarà questo pericolo stavolta.-

Seguo il filo del suo sguardo e capisco che ha ragione per la seconda volta in meno di sette minuti: Samuel si sta scatenando in pista al fianco di Sandra, la coda alta sfasciata e i capelli biondo rossicci incasinati sul folto arrossato. 

-E poi non credo ci siano lenti nel mio repertorio- aggiungo. -Nella musica come nella vita-.

-Perchè? A volte è bello rallentare un po'..- si fa più vicino, -guardarsi attorno..-

-Vivere-.

-Già..vivere.- e mi guarda, in modo strano, le palpebre lievemente socchiuse a dimezzare l'azzurro torbido dei suoi occhi. Mi guarda e lo guardo, mi chiama e rispondo. Non servono parole, quando il battito del cuore scandisce un ritmo che è solo nostro. Non servono parole quando, con la scusa di una canna, me lo porto lontano, lontano dalla gioventù e dall'alcol, con solo un bicchiere in mano sua, lontano dalla piscina e dalle luci, lontano dalla corrente.

Come se il domani non esistesse.

Alcune coppie sono ammassate nelle scale che conducono in casa. Scendiamo più giù, appostandoci sul secondo gradino che si affaccia sul corridoio. Ho proibito di fumare in casa perché mio padre mi ha proibito di far fumare in casa e il contrasto con l'aria che spira all'esterno, satura di sigarette improbabili e quella invece limpida all'interno, ha una differenza quasi palpabile. -Fumi?- 

-Bevo- si porta il bicchiere di vodka alla bocca.

Pesca dal cocktail un cubetto di ghiaccio dai bordi già mangiati dall'alcolico e lo raccoglie tra le labbra, succhiandolo mentre osserva il liquido rosa volteggiare fra le pareti del lungo bicchiere di plastica dura. 

-Sei preoccupato?- domanda senza guardarmi, incastrando il ghiaccio tra denti e lingua.

-Per cosa, gli esami?- Scuote la testa e finalmente vedo i suoi occhi nella mezza luce del corridoio. -Per il dopo-.

La luce sembra improvvisamente più scura, come se la porta della terrazza in cima alle scale abbia risucchiato l'ossigeno nei nostri occhi. 

-Sì-.

Il suo sguardo è qualcosa che non capisco, padrone della strana inconsapevolezza di chi non ha nulla da perdere. 

Ho capito che questo diciottenne è diverso da tutti quelli che ho incontrato, differente da tutti quelli che conosco; diverso da me, da Samuel, da Antony. Diverso perché, al contrario di noi, corre su un binario diverso, irraggiungibile per chi come me, ha l'occhio del mondo incollato al sedere. A volte mi sembra che la vita stia correndo troppo in fretta, che il suo scorrere sia frutto di un copione già scritto da qualcun altro, e che io debba limitarmi soltanto a sottostare alle sue battute. Come un attore che non può aggiungere nulla di più al suo personaggio, come un incontro di Judo in cui ho già previsto tutte le mosse dell'avversario, e so come attaccarlo, e non può sfuggirmi perché io sono più forte, e se anche non lo sono ho calcolato, studiato, esaminato, analizzato la persona che ho di fronte in modo che nulla possa più sorprendermi. Mi sono allenato tutta la vita a far sì che chi avessi davanti non avesse segreti per me, a mantenere saldo il sangue nelle vene, a renderlo ghiaccio e neve se necessario, ad ibernarmi sulle mie decisioni, ad essere il leader, l'unico che seguiresti, l'unico che comanda. E' una partita già vinta, una battaglia in cui la mossa che ti metterà al tappeto sarà la mia, è già scritto, è scontato, così banale da fare schifo. 

E poi arriva lui. 

Con le stelle negli occhi che ti guardano solo se costretti e quando lo fanno il più delle volte sono nauseati da ciò che vedono; con la pelle di quel bianco uniforme, leggero, omogeneo, inconsistente come il cristallo di grandine quando si posa sulla mano calda; con il silenzio di chi parla solo quando interpellato ma che comunque tutti si voltano ad ascoltare.

Dominik è questo, uno che potrebbe farti gli auguri di Natale il giorno di un funerale. E mi fa rabbia, credetemi, vederlo così semplice, alle prese con un cubetto di ghiaccio smussato che non vuole sciogliersi in bocca, con il profilo morbido e la lingua che tocca le labbra rosse disegnate con una matita invisibile, e trovarlo irresistibile. 

Mi incazzo come una bestia sapendo di avere già perso in partenza con lui con la stessa velocità con cui gli altri perdono contro di me. 

Poi arriva lui, e io non sono più capace neanche di prendergli la faccia tra le mani e premere le mie labbra sulle sue, e baciarlo,e  forzarlo ad assecondare la mia lingua perché ripeto, sono io che comando. Ma a lui non interessa. 

-Tu non hai paura Dominik?- la mia è pura curiosità, un silenzioso cedimento alla sua incomprensibilità. Mi sono arreso al fatto che devo chiedergli spiegazioni per riceverle.

-Tutti hanno paura Aleksander-.

-Sai cosa intendo..- un mezzo sorriso si impadronisce delle mie labbra. Devo smorzare una tensione che non avevo notato. -Degli esami..del cambiamento..-

-Mi piacciono i cambiamenti- è lui a creare questa tensione, la piega invisibile della sua bocca, il bicchiere che non sta fermo fra le sue mani. -Significa che il mondo non si è fermato.-

-Il mondo non si ferma Nik, e io vorrei solo questo, per una volta, una fottuta volta, che si fermasse, o almeno..rallentasse..-

Tiro fuori una sigaretta dalla tasca del Jeans, poi mi ricordo che mio padre mi mozzerebbe il capo con tutti i capelli se andassi contro alla sua prima, intransigente norma domestica: niente nicotina fra le mura dell'attico. 

Dannazione, mi servirebbe proprio qualche tiro e un po' di tabacco a giocare sulle tonsille in questo momento. Questo genere di conversazioni mi fanno venire l'orticaria, ma con Nik è diverso, lui prima di rispondere ti guarda, mi guarda, mi osserva, si inumidisce le labbra, sorride, torna serio, poi non so se mi sta prendendo in giro o se quel luccichio negli occhi è solo fantasia. Solo allora risponde: -Apri la bocca.-

Perdona il perplesso -Che?-

-Apri la bocca- e me lo ripete nello stesso, identico, preciso, sputato modo della prima volta.

Sto giusto riflettendo sull'immagine del mio dentista che mi dice le stesse, identiche, precise, sputate parole quando il lieve torpore di un respiro mi accarezza le guance e il profumo di vaniglia e iris riempie l'aria, le voci attutite, il mio dentista. Riempie tutto, prepotentemente, violentemente, fastidiosamente perché no, ma non lascia posto a nient altro.

Non capisco cosa vuol fare fino a quando non lo fa. 

Mi sospinge piano a lasciarlo entrare fra le mie labbra e mi bacia, leggero come un sospiro, delicato quanto un sussurro, ma con la stessa proibizione di un sussurro erotico. Voglio raggiungerlo con la lingua ma il freddo si materializza su di essa e brividi di piacere mi percorrono la schiena come se fosse l'autostrada Varsavia-Berlino. Mi ha passato il cubetto di ghiaccio, dalla sua bocca alla mia, e la sua consistenza ghiacciata, più il suo alito caldo che si somma al mio respiro, più quell'odore che è solamente suo, mi lasciano in bocca qualcosa che si fa sentire fino al basso ventre, vibrando nel petto.

Si alza e un sorriso che sa di vittoria gli danza in viso. -Visto..- dice, con me che lo guardo piacevolmente sconcertato. -Che lo si può fermare?-

Mi alzo anch'io, seguo il suo sorriso, la mia serietà si incrina, la mia tensione non esiste più. Ci riesce davvero a rendere tutto più semplice. Proprio lui, che è il re delle complicazioni.

Guardo il paio di coppie in cima alle scale, poi lui, come un complice al suo primo furto. -Tu dici che mi notano?-

Sbatte le palpebre. -Se fai cosa?-

-Se faccio questo.- e gli piombo addosso, poggiandolo al muro, incatenandocelo se necessario, perché stasera mi serve proprio la sua vicinanza. E anche questa non basta. 

Lo bacio con foga, avidità, quasi non lo lascio rispondere, sottraggo alle sue labbra il respiro, gli rubo l'ultimo grammo di "sei uno stronzo" che si snocciola fra le calcolate pause in cui gli lascio accennare qualche parola, blocco i suoi tentativi di sfuggirmi. Gli piace, so quanto gli piace, ma è un'orgogliosa testa di cazzo e devo mettere in stop il contatto famelico fra la mia bocca e la sua per guardarlo in faccia. -Se ti muovi mi risvegli una certa situazione.-

-E come si risveglia si riaddormenta. Lasciami andare irrecuperabile bastardo..stronzo pallone gonfia..- lo zittisco continuando il mio lavoro con la carne piena e rosa delle sue labbra e a mo' di giustificazione gli sussurro in un orecchio: -Re batte principe..e il re sono sempre io.- Le mani si insinuano fra la notte dei suoi capelli, lui non permette alla mia lingua di varcare la soglia che voglio disperatamente fare mia, la sua cavità orale ricoperta da una pelle così.. Voi non potete capire cos'è toccare la pelle del suo collo, sotto la mandibola, intorno al pomo d'Adamo, sotto il lobo dell'orecchio, vicino la nuca, all'altezza della carotide. Liscia, libera, con lui che mi respira addosso in modo affrettato, chiaro segno che questi territori sono un suo punto debole. E scovare un punto debole di Dominik non è mai stato semplice. 

Lo sprono per entrare nella sua bocca, gli cerchio le labbra con la punta della lingua e con quella stessa lingua vorrei dare inizio allo scontro con la sua, ammansirla al mio tocco, sentirla più ribelle. Ma lui stringe le labbra, mi permette solo di baciarle e a me serve altro, serve di più, mi serve lui come la nicotina che non ho potuto fumare, come la canna riposta in tasca, come il giubbino di Armani le serate di gennaio. E' una droga sentirlo tuo e non tuo mentre cerchi di abbattere le sue difese, e' un droga la sua pelle e il modo in cui si accalda, con lentezza estenuante, senza mai darsi al primo tocco. 

E' una droga e io. la. voglio. La pretendo.

Sono tanto vicino da scorgere nel suo incarnato, qualcosa che intacca la porcellana all'altezza dei polsi.

-Cosa sono?- mormoro, con un occhio abbassato a tentare di capire cosa siano i segni sotto ai suoi polsi e un altro intento a baciarlo. 

-Cosa?- chiede lui senza davvero essere interessato alla risposta, volendo che continui a stuzzicarlo. 

-Quelli..-

-Quelli che?-

Gli prendo il polso destro ed è come se si scottasse, me lo leva dalla mano con velocità sorprendente. Una padronanza di riflessi che non credevo possedesse mentre era in balia delle mie attenzioni. 

Avrei dovuto capirlo in quel momento, da come si era irrigidito, da come la sua schiena si fece dritta e le gambe immobili, da come i suoi occhi tornarono ad essere lastre di ghiaccio spesse e circospette di un paesaggio in cui infuriava la bufera. Avrei dovuto capirlo dal fatto che l'eye-liner non c'era intorno ai suoi occhi, ma nel modo in cui mi guardò -nel modo in cui si sentì improvvisamente in trappola addossato a quel muro con me a una manciata di centimetri di distanza- potevo vedere facilmente le decise linee nere a rendere assassino il suo sguardo. 

Ma non lo capì, e la pagai cara. 

-Quei segni..-

-Aleks, c'è Asher che si è imbucato alla festa-. 

La voce di Magda mi costringe a guardarla e ad annuire, il cervello che vaga in due diverse direzioni.

Salgo velocemente le scale e torno in terrazza, con Dominik al seguito, nella musica che è di qualche decimo più bassa. So perché.

Tutti sono a conoscenza del fatto che io, Aleksander Lubomirski, non ho invitato Asher Brown a questa festa. Avevo detto qualcosa a riguardo, una scusa più che falsa per il mio rifiuto ad averlo in casa mia dopo anni che siamo nella stessa compagnia, dopo secoli che i nostri rispettivi genitori si frequentano, ma la verità è che dopo aver toccato il ragazzo dal pearcing al sopracciglio dietro di me, non l'ho più guardato nello stesso modo. 

La sua sfolgorante luce di affabilità per me si è spenta, nessuno tocca la mia roba, consapevole o inconsapevole. E Dominik Santorski è roba mia.

Chiamatemi territoriale, possessivo, prepotente, me ne farò una ragione.

-Samuel- lo avvicino, arrancando con fare da padrone verso l'intruso, -com'è entrato?-

-E chi lo sa, quello ha il mantello dell'invisibilità di Harry Potter, è comparso dal nulla.-

-E adesso lo faccio scomparire io- faccio un fischio, -Asher.-

Lui si volta, fa un sorriso, ma si ferma. L'ha capito che gli conviene fermarsi.

-Mi sembrava di non averti invitato, cosa ci fai qui?-

-Aleks.. luce dei miei occhi, credo tu te ne sia dimenticato..di invitarmi intendo. Allora ho fatto da solo. Non ti dispiace spero- ammicca.

Avanzo, testa alta, nessun tentennamento. -Fuori di qui.-

-Altrimenti che fai? Mi metti al tappeto con una delle tue strabilianti mosse di Judo?-

-Mi stai sfidando per caso? Vuoi provarla sul culo una delle mie strabilianti mosse di Judo?- mi accorgo solo adesso che la musica è cessata e che tutti i presenti ci stanno osservando, circondandoci in un cerchio semi perfetto, come accade sempre quando nell'aria c'è odore di..

-Una rissa? Vuoi iniziare una rissa proprio qui? A casa dei tuoi? Di nuovo?- Asher allarga le braccia, sa di averla fatta franca. 

Ma non grazie al mio buon autocontrollo o alla sua inesistente dose di buonsenso. Grazie a Samuel.

Perché io mi ero davvero gettato contro quel pagliaccio e gli avrei davvero legato le palle sulle orecchie e lui, privo di quel famoso buonsenso, mi aspettava con un ghigno persistente sulle labbra carnivore.

-Leks per favore non dargli questa soddisfazione- bisbigliò Samuel tenendomi dalla camicia. -Vuole solo questo, una rissa per farti passare qualche guaio.-

-E voglio dargliela questa rissa Samuel. Se ci tiene tanto che lo lasci morto a terra.-

Lui continuava a tenermi e io continuavo a dimenarmi, ed altre mani si aggiunsero al coro di quelle che non volevano che la magnifica piscina della mia superba terrazza del mio superlativo attico si imbrattasse di rosso.

-Voglio solo dire due paroline Leks.. Non scaldarti- salta sul ripiano rialzato sotto al gazebo dove servizio bar, divanetti e stasera anche console, fanno lo sfoggio del mio lusso. -Due paroline e me la squaglio..- strappa dalle mani del DJ di turno il microfono usato per animare la discoteca e batte teatralmente due dita sulla testina dove la capsula amplifica la sua voce. 

-Mi sentite? Sì? Sì. Karolina sei una bellezza sui tacchi stasera.. lasciamelo dire.-

Karolina si guarda intorno, rintanando una bruna ciocca riccia dietro l'orecchio. Vorrebbe sorridere, le lusinghe sfrontate di Asher non le sono del tutto indifferenti, ma è palese che lei non sa quale debba essere la reazione appropriata, se andare contro di lui o contro di me. Perché la ragazza, sveglia quando si degna di esserlo, ha capito una cosa, al contrario del suo corteggiatore, che da qualche settimana deve esserselo dimenticato: non si va contro il sottoscritto. 

-Bene.. quanta gente conosciuta.. Che c'è Leks hai invitato tutto il quinto anno del Rosiska stasera?-

-Asher porca di quella miseria porta il tuo culo fuori dal palco prima che ti faccia scendere io a calci nelle gengive- sputo tra i denti.

-E un attimo..fammi contare quanti siamo.. uno..due..tre..quattro.. Ah bè, ad occhio e croce.. ricordate la gita del secondo liceo? Samuel si portò dietro una bottiglia di Rum di nascosto dai professori e quando i suoi lo vennero a sapere minacciarono di venire a Bruxelles a prenderlo, e lui si spaventò così tanto che aveva già i documenti falsi in mano pronto per darsi alla macchia..- ridacchiò, ci fu qualche risolino, sorrisi, alzate di calici, ma non ero l'unico ad aver capito che Asher Brown non si sarebbe scomodato ad essere qui se non per una buona ragione; perché Asher Brown è colui il quale a sedici anni in suddetta gita fece scappare urlando alcune ragazze risiedenti nel nostro stesso hotel, ritagliando strane forme con la carta e facendo ombre con la fiamma di un accendino sulla finestra delle sue vicine. Il tutto durante la notte. Quelle figure erano state create con precisione millimetrica. Furono spaventosamente geniali. E anche ora, con un microfono in pugno e l'attenzione su di sé, infiltratosi nella festa dell'anno a cui lui non è stato invitato, dopo ciò che è successo il mattino seguente di quella registrazione, non credo proprio che lui sia qui e abbia rischiato di essere preso a skateboardate nelle cervella da me per sproloquiare su semplici aneddoti della nostra giovinezza. Nei suoi gesti, nella raffinata gentilezza nella sua voce.. il luccichio negli occhi d'argento.. Samuel mi rimane vicino, pronto a contrastare ogni mio colpo di testa.

-O quando Magda fu così ubriaca che dovemmo trascinarla su per i cinque piani del suo palazzo perché si era addormentata..o quando..- e si fermò, osservando con interesse qualcosa all'orizzonte. Poi continuò: -Ma non sono qui per questo, rammentare le gesta del passato. Quello che voglio dirvi stasera è qualcosa che non sorprenderà nessuno. Non ha sorpreso me, non ci riuscirà con voi. Credo che qualcuno di voi rimarrà stupito, ma per il resto.. Non ha sorpreso nemmeno il protagonista del fatto quando è successo. Credo che c'è lo aspettassimo tutti che Nik si sciogliesse nuovamente davanti alle labbra di Leks, no?-

Cosa?

-Sì andiamo.. il 7 maggio si sono baciati di nuovo..sapete? E' stata una cosa epica..Da soli, nella palestra, durante un allenamento di lotta corpo a corpo.. Dio l'avete mai visto Via col Vento? Un bacio di quelli, non tanto intenso eh..c'erano delle remore..delle paure.. ma bello da mozzare il fiato..- Fa una pausa, si rivolge verso una persona in particolare. Non mi sento le ossa. -Dominik.. sì, me ne ha parlato..perchè Aleksander è così, è uno di noi. Davvero credevi che potesse essere diverso con te? Che ti facesse una sottospecie di.. trattamento di favore? Perché eri tu? Perché baci bene?- scuote la testa come un parroco dinnanzi la confessione di un bambino. -No no no.. Aleksander Lubomirski va dove gli conviene..si schiera dalla parte più forte. E tu tesoro mio, per quanto possa esserlo, non lo sarai mai abbastanza. Un bel faccino a volte non è abbastanza… forse… forse non dovevo dirtelo.. non ti ucciderai di nuovo vero?.. Ops!- si porta indice e medio sulle labbra, spalanca gli occhi, la bocca è una "o" p e r f e t t a. -Forse non dovevo dirlo che hai tentato il suicidio.-

-Stronzo..- Sento Samuel ma non lo sento. Non c'è, non esiste, non può raggiungermi. Niente può farlo quando ho sentito l'anima aprirmisi in due, spaccarsi come un pezzo di carta, come una stoffa strappata dalle mani più feroci. 

Le sue. 

Voglio sprofondare, scomparire, per la prima volta nella mia vita, vorrei non essere me stesso. 

Li guardo, e non li riconosco. 

Tutte queste facce..questi volti, vuoti..queste maschere prive d'importanza..l'immobilità mi divora, spalanca le sue fauci, attende le mie carni, l'anima ridotta a brandelli sempre più piccoli, sottili. Continua a dilatarsi la voragine, a stracciare le parole di Asher.. mi scuote solo il vederlo. Il vedere i suoi occhi che non mi conoscono e lo fanno meglio di sempre. 

Mi guarda, due secondi, due millesimi, e so che è troppo tardi. E' sempre, troppo maledettamente, tardi.

Ma questa volta lo faccio lo stesso. 

Non lo lascio andare così.. Ho visto l'attimo in cui è caduto, nei suoi occhi, e lo vedo adesso, che che ha annuito, verso di me, solo per me, e si è girato, che se ne va, che si allontana.. dove non posso raggiungerlo. 

Nel nero più nero che solo ora ho capito quanto.

-Nik.. Nik aspetta..- 

Cosa ho fatto?

L'immobilità dell'aria è qualcosa di differente dal vento che urla nelle tempie, che mi sbatte contro cose più grandi del Judo..università..soldi..carriera..: vendetta, sofferenza, suicidio.

Mi faccio spazio a forza, li spintono senza pietà, devo raggiungerlo..fermati..

-Dom..- scendo le scale, lungo il corridoio, attraverso il soggiorno, una spallata alla porta, è già nell'ascensore. Mi fiondo per le scale, uno scalino, due scalini, tre alla volta.. veloce, di più, e davanti e solo l'immagine dei suoi occhi..il suo sguardo che non tocca Asher.. si sfracella su di me, condanna me, perché voleva me.

Ho dato il meglio, il meglio di me a persone che non lo meritavano niente, alleati in una guerra in cui il tuo miglior alleato ti pianta un pugnale nelle spalle e ho fatto tanto a te..proprio tu che.. io ho.. l'ho tirato da un braccio. -DOMINIK!-

lo costringo a girarsi e.. la testa mi scatta di lato, la mascella dolorante, l'aria stantia della mia sorpresa. 

Un pugno. 

Mi ha tirato un pugno.

Che fa anche male cazzo.

Alzo le mani, come se mi avesse puntato una pistola alla fronte, nonostante abbia solo voglia di portarmi le dita al volto e tastare quante ossa facciali mi ha rotto. 

Ma alzo le mani, velocemente, l'istinto della difesa, un gesto che spererei lo calmasse, un gesto che spero gli trasmetta che non voglio fargli la guerra. Ma non ho mai smesso di bombardarlo.

-Non.. non farlo..- sussurra, alzando una mano, indietreggiando, spaventato, incazzato, distrutto.

Era.. Era distrutto, annientato, spezzato, rotto, e la cosa peggiore: vedevo il mio coltello nelle piaghe delle sue braccia, ora così evidenti da far male, vedevo il suo sangue sulle mie mani, il nero sporcarmi la pelle come petrolio su ali di gabbiano.

-Io l'ho fatto prima.. gliel'ho detto prima che..-

-Bravo.. complimentoni.. Aleksander..- annuisce, mi guarda ma non mi vede.  -Hai vinto. Hai vinto ancora e vincerai sempre, vero?- 

Parla velocemente, sussurri a urli a parole soffocate per non crollare sull'asfalto. Siamo fuori, sulla strada sotto casa mia, ma non me ne rendo conto fino a quando non vedo la tempesta nei suoi occhi, il nulla nei miei. Tranne una cosa.

Voglio fargli capire una cosa.. una soltanto.. ma come posso raggiungerlo? Come posso vincere contro lo stesso dolore che ho causato? Lì, dove non avrei mai osato spingerlo.

-Non ne avevo idea..-

-Certo..come tutti..-

Ci riprovo. So che non servirà. -Dominik..-

-Hai..giocato.. hai solo giocato..- scuote la testa, mi avvicino, si guarda intorno, vorrei toccarlo, chiude gli occhi come se solo il guardarmi gli faccia male. 

-Io mi sono fidati di te.. Ho fatto sesso con te.. e tu..- si porta le mani tra i capelli, poi sorride e mi fa paura. -E' stato solo un fottuto gioco per te.. solo un gioco..-

-Non è così e tu lo sai.-

-..Cosa so? Cosa.? Io non so niente.. so solo che certe cose non cambiano mai.-

-E allora TU!? Non credi che avresti dovuto dirmi che hai tentato un cazzo di suicidio!?- ringhio, alzo la voce, è nero il cielo, sono neri i suoi capelli, nera quella parola. Appena la pronuncio mi si impiglia in gola, graffia, scalpita come un cavallo di tenebra, è troppo, persino per me. Ma non per lui. Niente è troppo per il ragazzo che ho di fronte, niente è troppo per chi ha il coraggio nelle vene. Dove ti ha portato? Quando in giù ti ha spinto..?

-Perchè avrei dovuto farlo? Chi eri tu.. chi sei..? Tu non sei nessuno Aleksander Lubomirski tu. non. sei. nessuno. per me.- 

Il petto si alza e si abbassa nel sostegno di coltelli roventi che si scagliano contro l'aria gelida a velocità inaudita.

La sua voce.. è il ghiaccio più puro, il freddo più denso.. la punta di una forbice che ti si infila nella carne strano dopo strato.. vena dopo vena. 

Sa dove tagliare, sa come farlo. 

Ma lo sento lo stesso il dolore, e la sofferenza, e quei segni sui polsi che non oso arrivare ad immaginare come se li sia fatti.. la sento la sua pelle aprirsi, le cicatrici squarciarsi.

-Cosa avrei dovuto dirti..?- sibila, donando ad ogni sillaba il peso della solitudine, -che tenevo a te più di quanto pensassi? Che il tuo comportamento da.. stronzo mi ha fatto piantare una lama nelle vene? EH? Cosa cazzo avrei mai potuto dirti? Che da quella notte non ho desiderato altro che la tua bocca si avvicinasse di nuovo alla mia? Cosa dovevo dirti? Che mi hai ucciso?!- scuote la testa, con forza, con rifiuto. 

Vorrei parlare ma sembra che tutto ciò che possa dire sia rimasto incastonato in gola come la gemma più preziosa in una corona d'oro. Qualsiasi frase non sarà mai abbastanza da scalfire il muro invisibile ma perpetuo che si staglia in mezzo a noi, separandoci ancora una volta. Separandoci dove non possiamo arrivare. Non abbiamo la forza di abbattere i mattoni che ci distanziano, gli abissi che non si colmeranno mai.

-no..- alza le spalle, un gesto che non gli si addice -eh.. No..- ride, aspramente, il vetro che si infrange sulla pietra -NO-.-

No, questa volta neanch'io sarò abbastanza. 

-Non te lo avrei detto e adesso so che ho fatto bene.-

Mi abbandono a me stesso, lascio che i respiri si calmino, che il vento si alzi, che le domande diventino punti indefiniti in un mare di perché. Lascio che la parte peggiore prenda il sopravvento, che il male che sento si camuffi in una forza illusoria che p l'unica ancora di salvezze in cui posso sperare, adesso. 

-Sei sempre la vittima.. non è vero Dominik? Il personaggio principale di un dramma solo tuo.- anche io rido, ma solo perché temo che le lacrime infrangano quella porta blindata che stanotte sembra assolutamente inconsistente a tenerle lontane dalle mie guance. -Il povero.. piccolo.. cocco di mamma che abbiamo fatto suicidare..- la mia voce risuona strana nell'ansimare dei respiri di Dominik, nella fretta dei miei. La mia voce risuona cattiva, esattamente come voglio che sia. Deve uscire lava bollente dalla mia bocca, deve uscire il menefreghismo che so mi proteggerà dal dolore che sbraita a saperlo così, e al non aver fatto niente per aiutarlo. E' stata colpa mia Dominik. E la consapevolezza mi sta uccidendo. -Abbiamo ferito i suoi frangili sentimenti.. la delicata sensibilità del frocietto..-

Perdonami Dominik.. ma devo giocare a chi colpisce più forte, a chi fa male di più. Devo soffocare l'urlo che è pronto nella gola.. perché io vorrei urlare, urlare fino a non avere più fiato, urlare ad una realtà che non mi piace più.. urlare a te, che mi hai mostrato cose che non dovevo bramare, che potevamo avere quello che non avremo mai. Sei stato tu il primo a mentirmi, con quel bacio, quella notte, durante quel dannato ballo, quando con timida sfrontatezza mi hai mostrato che non avevi paura di niente, neanche di te stesso.

Sei stato tu il primo a mentirmi, bastardo, tu e le promesse delle tue labbra e la luce nei tuoi occhi e la certezza che non sarei mai stato capace di mandare tutto a fanculo pur di averti. 

Ho dovuto spegnerla, capisci?! Ho dovuto farlo!

Ma tu non urli, ti fermi, assottigli il tuo azzurro, le ciglia lunghe e nere sono un prolungamento della notte sui tuoi occhi, ma le stelle non ci sono a fargli compagnia. Tu non urli, non piangi, non graffi, non mordi. Non mostri i denti, non mi prendi a pugni. Ma semplicemente ti fermi, e mi guardi, e quell'azzurro è falso, perché è nero, il nero che mi lanci addosso con la chiarezza di chi sta cadendo a pezzi, ma non lo farà davanti agli altri. Tu non urli, ti fermi, mi guardi con l'odio che non riesci a provare. E mi fa fottutamente male, mentre le tue labbra si schiudono, mentre la tua voce articola dei sussurri, sapere che nonostante tutto l'odio che meriterei, tu, ancora, non riesci a provarlo. Prendimi a calci, fammi sanguinare, riducimi a brandelli ma non startene lì, immobile, a guardarmi con l'amore negli occhi.  

-Mi fai schifo.-  

e non sei più mio.

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Capitolo 18
*** Remix assurdo di un'anima che si frantuma ***


CAP. 16





La mente parla, come se l'ascoltassi. Urla cose che al momento non possono interessarmi. Non perdere il tuo tempo, non mi salverai stanotte. 

La discoteca ammicca chiassosa, le luci psichedeliche volteggiano nell'aria del locale rarefatto. Non mi interessano. La ragazza al bar mi chiede qualcosa. 

-Il più forte che hai- rispondo.

Non chiede di vedere i documenti, forse non osa contraddirmi, forse quello che ho negli occhi parla per sè. 

Non è nella musica assordante che voglio abbandonarmi, ma nel contenuto di un bicchiere, e in quello di un secondo, e poi di un terzo. La gente si spintona, balla, balugini di bracciali vistosi e orecchini pendenti. Labbra a forma di cuore e cosce sode. Maschi e femmine. Uomini e donne. 

All'inizio distinguo facilmente anche il DJ alla console sul palco, dopo il quarto bicchiere, le immagini si confondono facilmente.

-Ancora.-

-Ehi, sei sicuro?-

-Ti sembro insicuro?-

Non commenta, ma so già quale sarebbe stata la sua risposta: "no, solo folle". 

Alla fine riesco ad avere la bottiglia, non nel modo in cui mi sarei aspettato, ma l'importante è che possa soffocarmi nell' alcol. 

-Andiamo Dejaneera..non fare tutte queste storie.. questa dolcezza vuole un po' di spasso..- cerca di toccarmi una guancia. Lo mando a quel paese. Mi trattiene da un polso. Gli alzo la bottiglia contro. 

-Ti fracasso le palle stronzo.- ricordo di aver ringhiato.

Lui ha alzato le mani. -Calmati bellezza..- 

Me ne vado, ma non perché io abbia paura che quel deficiente possa farmi qualcosa. L'unico che può farmi del male stanotte sono solo io.

Alzo il mio bottino. Leggo una C, una A, una.. e' Cognac. Sghignazzo e bevo direttamente al boccale della bottiglia, mando giù diversi sorsi, la gola mi va letteralmente a fuoco, lo stomaco si scioglie come poltiglia e i miei sensi sono mera neve al sole. Ma non mi interessa.  

Il freddo mi si insinua sotto la maglia.. poi il caldo, il caldo cocente dell'inferno. Corpi che si sfiorano, ansimi all'unisono, respiri che si concentrano in

nuvole di ossigeno invisibili.. freddo e caldo.. correnti di aria gelida sulla schiena.. voci amplificate.. batterie.. la musica dice qualcosa.. la discoteca è gremita di ospiti che mi si accalcano attorno..ero fuori.. ero fuori nell'aria fredda.. il Cogn..ac.. dov'è? Mi guardo intorno e la stanza balla, balla insieme alla chitarra elettrica della techno che si sparge nell'immenso spazio scuro. Balla così tanto che.. rido, scoppio in una risata flebile e acuta, senz'anima e senza corpo. Sono nella mischia, forse ubriaco.. no, decisamente ubriaco.. col sedere attaccato a quello di qualcuno che non conosco.. una ragazza a giudicare dalle forme.. o Aleks.. lui ha un sedere più bello.. Aleks.. e rido, rido ancora, ma stavolta più forte, più disperato, rido fino ad ansimare, fino a soffocarmi nella mia stessa aria, ma non smetto, non smetto neanche quando i denti di un estraneo cozzano contro i miei e le vertebre della colonna vertebrale prendono la forma di dita ruvide. Ansimi e respiri..respiri e ansimi.. labbra alla ciliegia lasciano la loro scia sul collo.. forse vorrei scacciarle.. forse no. 

Forse.. non mi interessa.

-Mm sì.. così..- zucchero e miele si cristallizzano nel padiglione auricolare. Le sto leccando il dito con cui mi palpa le labbra..o la sua bocca morbida lambisce le mie dita..non lo so, sento caldo e un freddo da impazzire.

Sto impazzendo?

Le dita ruvide ritornano, insistenti che non appartengono ad una femmina. Scendono in basso, la zip si apre sotto la loro pressione, abbassano quello che rimane della cerniera. 

-Ah! Cazzo..!-

Non rimane niente.

Non c'é niente.

E non mi interessa.

Ho scalciato credo. Ho spintonato, credo.  

Mi libero, mi districo da quelle mani virili e quelle dita e quelle labbra e quello zucchero che è conato di vomito nella gola. Avanzo, la stanza è una nave nella tempesta, si muove incessantemente, continua a sollevarsi, continuo ad avanzare, si abbassa, sciogliendosi ai miei piedi e io mi sciolgo con essa, nell'aria fresca, nella notte, nel tempo che è un insignificante dettaglio nel cuore che non batte. 

Perché dovrebbe? 

Perché dovrei? 

La mente urla, sbraita, la testa è una sofferenza che non sento, il ciglio della strada è un letto più che comodo, grigio e nero, nero come il nulla. 

"S..n..d..a..do..n..ik.."

Le stelle non ci sono, le luci dei grattacieli le sovrastano con la loro impertinente imponenza.. ma so che sono lì. Devono esserci, anche se non posso vederle.

"Sa...ra..nik..stra..nik.."

La coscienza è un granello di sabbia che vaga in un deserto di neve, la luciditá un barlume spento nel fuoco dell'insensatezza.. Sto così bene qui, al buio, circondato da fiumi di alcol e puzzo di sigarette corrette con impacchi di erba che non vorrei altro che restare qui per sempre, su un marciapiede alla periferia della night life di Varsavia come una puttana sul ciglio della strada.

Sto così bene che se il cuore smettesse di battere sarei felice, così bene che vorrei che le ossa mi si spezzassero una ad una e avvertire ogni più piccolo "crak" del loro disintegrarsi.

Voglio un dolore più grande di questo.. per favore.. voglio urlare per qualcos'altro..soffrire per qualcos'altro..voglio infilarmi una pasticca in gola per qualcos'altro.. Le stelle che non scorgo sono umide, bagnate dalle lacrime che credo alla fine abbiamo trovato il modo di uscire fuori, lente e inesorabili, prive di pudore.

I suoni si confondono, un remix assurdo di un'anima che si frantuma. 

Non la mia.. Non la mia.. Non di nuovo.. Ti prego.. se esisti.. se ci sei.. non di nuovo.. non così.. le cicatrici non passeranno mai.. non vedo più le stelle, né sommità di grattacieli infiniti. Non sento più il fuoco della dispersione.. quello della fine.. ma un vociare che dovrei conoscere. La voce di uno dei due.. un maschio.. una femmina.. un'ombra indefinita col suo timbro squillante mi aizza l'emicrania come benzina su un incendio. Gli intimo di finirla ma lui continua.

Forse non mi sente.

Forse non sto parlando.

Forse non ci sono più.

 

 

 

Samuel

 

-Credi che Aleksander si sia incazzato?- chiede Sandra, facendo tintinnare i bracciali che ha al polso. -Voglio dire.. dopo oggi.. dopo Asher..-

-No.- scuoto la testa, l'ombra di un sorriso sul volto. -Credo che sia furioso.- 

Usciamo dalla paninoteca portandoci dietro aroma di salsa barbecue e hamburger. -Anzi, lo so che è furioso.- 

Camminiamo così, in silenzio per un po', la periferia di Varsavia delineata da pub e locali notturni. Un ragazzo suona il violino per strada, la sua musica si innalza nelle colonne d'aria dei nostri pensieri. 

-Hai sentito Dom?- chiede infine la ragazza che mi sta al fianco, passo sicuro e voce incerta.

-No.. Ma di solito fa comunella con te.- rispondo. 

-Non questa volta, non..- e il resto della frase si perde sotto una di quelle colonne, mangiata viva dall'importanza di un momento che non ho capito. 

-Sandra cosa.. c'è. Oh mio Dio..- 

Il mio è solo un sussurro, forse ho portato le mani alla bocca, forse solo le dita, forse ho solo immaginato tutto questo come vorrei aver immaginato l'immagine del ragazzo addossato malamente ad un marciapiede di un vicolo nella mezza luce di una luna che non arriva sin lì. Un ragazzo dai capelli come la notte, la pelle chiara, il look nero, le labbra rosa, lo sguardo perso. 

-E'..-

-Samuel è ubriaco.. ubriaco perso. Aiutami.. veloce.-

Faccio qualche passo avanti, la mente annebbiata da fumo che non ho fumato. Faccio per reagire, le articolazioni si bloccano, incollate dal panico. 

Non ti ucciderai di nuovo, vero?

-Oh. mio. Dio…-

-Samuel!-

Mi avvicino, deglutisco nel vedere i deboli tentativi di Dominik di svincolare la presa della ragazza che tenta di sorreggergli l'anima. Mi guardo intorno. Nessuno disposto ad aiutarci. Non mi sorprende, in questo posto il più lucido sono io. Si salvi chi può.

-Dominik.. andiamo cazzo.. Sandra e se non è solo ubriaco..?-

-Portia.. che cazzo dici.- 

-Va bene, va bene! Ma frequentate tutti la scuola "diventa come Aleksander Lubomirski" ultimamente? E dalle.. allora.. ehm..- 

Alla fine riesco a farmi circondare le spalle da un braccio del ragazzo che mi guarda per un secondo prima di rigettassi nell'assenza. 

-Riesce a camminare.. Samuel non farlo cadere! Io apro la macchina..- e mi precede, arrancando sull'orlo della corsa con me dietro, impegnato a sospingere Dominik a seguirmi.

-Sembri.. più ubriaco tu..ah ..più ubriaco tu che io..-

-Silenzio Dom, tu mi farai passare qualche gua..ah..ah!- sto per cadere dal marciapiede neanche fosse il Gran Canyon, tento disperatamente di non finire con il naso a terra perché trenta centimetri mi hanno fatto perdere l'equilibrio. 

-Sei un.. coglione.- pure.

-Grazie eh.. e io che ti sto praticamente trascinando come una bestia da soma per tre quarti di Varsavia..-

-Varsa..via.. adoro.. Varsavia.. e le stelle..e le luci..-

Lo faccio entrare sul sedile posteriore della mia auto, faccio per piantarmi accanto a lui per evitare che mi vomiti sui sedili in pelle nuovi quando una mano decisa mi afferra con decisione la sciarpa che decisamente mi sta strangolando.

-Sto io dietro.- dice, prima di colarmi fuori dalla mia stessa auto.

-Ma cosa..- ma quando la vedo, capisco ogni cosa: i suoi occhi sono un lago gelato, le mani ferme e tranquille, il viso contratto in una smorfia concentrata. Tasta Dominik, scruta Dominik, cerca di capire se deve rimettere, quanto alcol ha ingerito, le sue capacità riflessive.. mi metto al posto di guida senza obbiettare, metto in moto, il suv ruggisce piano prima di portarci verso casa.

-Sandra sei sicura che non ti serve una mano?- li osservo a momenti alterni nello specchietto retrovisore.

-Accelera, non riesco a capire se ha ingerito solo alcol.-

-Sandra..- inizio ad ansimare. -Se non ha ingerito solo alcol significa che.. potrebbe.. avere..-

-Non dirlo, continua a guidare.. in fretta Sam dai!-

Non me lo lascio ripetere due volte. Infrango ogni limite di velocità, arrivo a numeri che ammalapena sono concessi sull'Autostrada, sono sul punto di fermarmi di botto e di chiedere ad un carabiniere di ritirarmi la patente e quel che resta delle mie facoltà mentali proprio quanto il familiare cordoglio di villette a tre piani mi ricorda di essere giunto sano e salvo a destinazione. 

Sterzo bruscamente, tiro il freno a mano, scendo, apro lo sportello posteriore, Sandra scende, le lancio le chiavi dell'ingresso, la piglio in fronte, mi manda a quel paese, costringo Dominik a scendere, devo praticamente tirarlo, rischio due volte di deviarmi il setto nasale a causa dei pugni che -grazie all'alcol!- non riesce a darmi, lo porto in casa, lo siedo su una sedia in cucina, non sul divano perché è troppo comodo e mi si addormenta prima che possa capire se si sia voluto ammazzarsi, sicuramente vuole ammazzarmi, i miei non ci sono, ringraziamo il Dio delle cene di lavoro, pensandoci non lo capirei comunque se vuole ammazzarsi, ma ammazzarmi è palese dalle occhiate che mi fa, Sandra gli tasta il polso, io poggio la testa sul tavolo.

-Aiuto.-

-Guarda che non sei tu quello imbottito di Cognac.-

-Come sai che ha bevuto Cognac?-

-C'era una bottiglia ai suoi piedi sul marciapiede e.. non so se abbia bevuto di più, probabilmente è così.-

-Dannazione..!-

gli prende il polso. -16 respiri al minuto.- gli lascia il polso.  -Non è svenuto o in stato catatonico..-

-Sandra…-

-Non sembra disidratato..-

-Sandraa..-

-Ha le mani fredde ma non sappiamo per quanto tempo è rimasto fuori.. quindi..-

-Sandra!-

-Non ha labbra blu.. né battito accelerato Samuel non è a rischio coma etilico!- e mi bacia.

Così.

Senza preavviso.

Giusto per festeggiare, passare il tempo, andare in bicicletta.. Mi bacia.

E io rimango come un cretino, immobile, aspettando di capire cosa diamine stia succedendo.

-massì.. fate con calma..- Dominik ci regala una perfetta visione della sua faccia disgustata e credo ci abbia appena mandato a quel paese con la mano. Sono troppo intontito per pensare di rispondere al bacio, quindi mi rivolgo all'ubriaco: -vuoi vedere che ti butto un secchio di acqua fredda addosso?-

La ragazza accanto a me riversa la sua pragmatica professionalità in un timido sorriso. -Stavo giusto per fare delle prove come.. chiamarlo o chiedergli di aprire gli occhi ma.. vedo che non c'è ne bisogno.-

Ma il ragazzo non sta bene. E' ricettivo, riconosce le presenze intorno a sé, la sua vista sarà sfocata ma realistica, la mente lenta ma veritiera, eppure non sta bene. Le spalle incurvate, le labbra secche, gli occhi socchiusi, la voce flebile. 

-Nik hai preso qualcosa con l'alcol? Tipo delle.. delle.. sì ehm, delle..- ma non riesco a dirlo, neanche non pensandoci, neanche se spengo il cervello e attivo i testicoli. Non riesco neanche a pensare che il diciottenne che si sta stravaccando sulla sedia della mia cucina, quello stesso diciottenne che ha avuto il coraggio di prendere a pugni Asher Brown e ammaliare Aleksander Lubomirski.. possa essersi ucciso. Aver voluto mettere fine a.. tutto questo. Perché, diavolo, la vita fa schifo, ma la morte fa più schifo. 

E poi.. non vale la pena continuare a tirare avanti per questo? Per un bacio dato a fior di labbra dalla ragazza che ti piace..o per sperare nella bufera di neve che ti permetterà di saltare la scuola, o per il sole, e le stelle, e la notte, sotto le coperte di paile, a fantasticare su cosa sarai, su cosa diventerai, quanto migliore, quanto cambierai questo mondo.. Se Dominik non è riuscito a trovare neanche un misero motivo per resistere, uno solo per frenare la discesa verso la fine.. è triste. 

Ma è più triste sapere che nessuno era lì per fermarlo.

Per farlo ricredere. Per fargli capire che sì, la vita fa schifo, ma ci sono cose che ancora si possono salvare.

-Nik hai preso delle pillole? … Droga?-

-Qualcosa che potrebbe farti schiattare?- Sandra mi fulmina con gli occhi, la mia scalata verso il successo termina qui.

-Ah Samuel.. se non esi..stessi.. dovre..bbero.. inventarti..-

Si alza e si dirige in bagno senza degnarci di un ulteriore sguardo, come se solo l'osservare la stanza gli provocasse capogiro.

E il silenzio divenne alquanto in imbarazzante.

-Così..- inizio, incapace di lasciare che quelle note mute si protraggano ancora per molto. Vorrei dire qualcosa di eroico, di strabiliante, le cose che confessano di solito gli uomini virili sulla loro possente virilità. Ma sento che sto per dire una grande calza.. -Il bacio era troppo umido?-

Vedo Sandra schiaffarsi una mano in fronte e i miei neuroni ammassarsi sui letti a castello del mio cervellino, esausti dello sforzo -inutile- di rendersi utili.

Ma alla fine sorride, in qualche modo, con qualche coraggio, e ringraziando il Cielo che non mi abbia slogato il collo con qualche schiaffo.

-Penso che stia bene.- dico in fine. 

-Bene.. in che senso? Perché io penso che non stia affatto bene.-

-Beh..sì, per quanto riguarda la sbronza dico, sta bene. Per il resto..-

-Non posso crederci che abbia tentato di uccidersi.-

Mormora lei, sparando le parole a zero, tono incolore di chi parla mantenendo i nervi saldi e i muscoli contratti. Sandra è così, potrebbe scoppiarle davanti agli occhi una bomba e lei andrebbe immediatamente a soccorrere i feriti. 

Non c'è tempo per le lacrime e le emozioni, per lei. 

E mentre lei soccorre i feriti, io sarei ancora lì, ad osservare le macerie di quella bomba con il cuore palpitante e le lacrime agli occhi. 

Troppo codardo, o troppo sentimentale. 

-Ho sempre pensato che fosse un tipo emotivo..- sussurro.

-Ma non sarei mai arrivata a pensare che fosse quel tipo.-

-Quale tipo?-

-Il tipo.. suicida.-

-Sandra..-

-Sì?-

-Lui.. il tipo suicida..-

-..sì?-

-E' solo.. in bagno.-

Basta troppo poco per renderci conto che abbiamo sbagliato alla grande. Aleksander non me lo perdonerà, se succede, non me lo perdonerà mai.

Scollo il culo dalla sedia con una velocità che neanche i Power Rangers e attraverso il corridoio nero con un solo pensiero in testa: ti prego, ti prego, ti prego.. fa che non si stia uccidendo.

Ma Dominik faceva di peggio, perché ha paura, conosce cosa c'è dopo, sa cosa troverà dietro al nero, e lo sceglie lo stesso. 

Ne è simbolo la porta chiusa del bagno, la porta che spingo con disperazione nel tentativo di rubare quell'attimo di elettricità fatale che rischia di mozzargli l'aria nei polmoni. Una spallata e non è troppo tardi, nonostante il riflesso d'argento che saetta nelle sue mani, la piccola forbice serrata fra le sue dita tremanti e determinate a spalmarsele nel collo, so che posso farcela, a fermarlo. Lo devo alla sua vita, a quella di Aleksander e alla mia, che lui disintegrerà quando saprà che Nik era in casa mia quando si è sventrato la carotide. 

Mi lancio alle sue spalle, se ne accorge, gli circondo la schiena, mi spinge ferocemente, sbatto al bordo duro del lavandino, si taglia un polso, lo sbatto al muro, ma non c'è la faccio, mi ringhia contro, gli afferro i polsi da dietro, si dimena come un animale selvaggio e..

-Dominik TI PREGO!-

La sua corsa si arresta. 

Il mio respiro è scomparso, trattenuto troppo a lungo nello stomaco. Il suo non esiste, sussurrato in fretta, sussurrato a tratti, come scalpiccii di zoccoli sull'asfalto. 

Si accascia, senza lasciare la forbice, ma scioglie i muscoli e la rabbia, lasciando lo spazio giusto al dolore. Quel dolore. Il dolore scaturito dall'amore. L'unico che possa farti arrivare a questo. Si arrende a questo dolore, al viverlo, a sentirlo sbraitare dentro di lui, al provare la folle andata del sangue nelle sue vene che non può lasciar sgorgare. 

-Lo odio.. lo odio Sam.. Lo odio così tanto..- singhiozza contro il mio collo, la voce tremante di lacrime, quelle che bagnano il suo viso. Continuo a tenerlo in una stretta che fa male perché temo che se solo allento la pressione mi sfugga dalle mani. Continuo a tenerlo e lui continua a riversare dolore in acqua e sale dai suoi occhi, più azzurri del mare .

-Credimi Nik.. lo odio di più io in questo momento.-


 

*


 

"Sto bene, grazie."

E' la quarta volta che lo dico, è la quarta volta che mento. 

Come se si fossero accorti di qualcosa, come se fossi meno presente a me stesso degli altri giorni. 

Lo psichiatra è la quarta persona che entro oggi mi fa questa domanda, io seguo la medesima prassi che ho adopero con tutti. 

Alzo gli occhi, non ho idea di cosa possano vederci dentro, quale vuoto gli spiattellerò davanti. Ma non mi interessa. Arriccio le labbra, compongo le stesse parole che andranno a comporre la stessa frase. Vorrei urlare?

Sì, vorrei farlo.

Ma non lo faccio. 

Abbasso gli occhi, abbasso il vuoto, torno a guardare il grigio, continuo a guardare quel grigio che è l'unica cosa che mi concedo di vedere oggi. 

E' palese che non mi crede. 

Non so se mia madre lo abbia fatto, se mio padre ci abbia creduto, se Marje, la donna delle pulizie, non abbia solo fatto finta di credermi. Non lo so, ma non mi interessa.

-Dominik, hai dormito stanotte?-

Mi chiede se ho dormito. 

Non lo guardo questa volta. 15 minuti non è dormire. 15 minuti in cui ho chiuso gli occhi e ho desiderato di morire. 

Non è dormire. 

Ma non glielo dico. A che servirebbe? Sapere che nessuna medicina, nessuna pillola, nessun ciclo di sedute infinite, nessuna auto-motivazione, nessun sedativo potrà mai fermare il cuore dal volere quello che vuole.

-Dominik.. sei qui da trenta minuti e hai detto tre parole. Vuoi parlarne con me?-

No.

Strappatemelo dal petto. 

Potrei avere una crisi di nervi. 

Probabilmente l'avrò.

Ma non qui.

-Posso andarmene? Per favore..-

Congiunge le mani sulla scrivania.. forse. Non lo so. Non mi interessa.

-Da psichiatra.. dovrei tenermi qui e farti il terzo e quarto grado se necessario.. poiché è palese che sei visibilmente sconvolto.. ma..-

-Sconvolto?- sbatto le palpebre, sorrido, congiungo le mani sulla sua scrivania, lo fisso nelle palle degli occhi. -Io non sono sconvolto. Tutt'altro.-

Sospira. -Ma.. da persona umana.. ti farò andare via da qui in un evidente, instabile stato emotivo insano.. se rispondi ad una domanda. Ma voglio una risposta secca, precisa e soprattutto.. onesta.-








\\Capitolo senza grandi svolte, ma ci avviciniamo alla fine. X
  Pachiderma Anarchico

 

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Capitolo 19
*** Perso in Paradiso ***


Oh, I go off like a gun
Like a loaded weapon
Bang, bang, bang
Grip me in your hands
So here we go again
It echoes in my head
Bang, bang, bang
Grip me in your hands
 
 
So I can feel you here with me (tear the flesh)
So I can feel you here with me (break the skin)
So I can feel you near me (tear the flesh)
 
 
So I'll make sure you hear me
 
 
 
 
 

 
CAP. 17
 
 
 
 
-Ultimo giorno di scuola, 11 giorni agli esami-
 
 
 
Questa mattina era iniziata come tutte le altre.
Il cielo era di un azzurro acceso quando percorsi il viale che costeggiava quell'immenso edificio sormontato da giganti vetrate dove ogni tua più recondita paura, fifa e\o qualsivoglia terrore si concretizza nell'assoluta spietatezza di poche ore altisonanti nei ciottoli per la strada che porta all'inferno. O altresì noto come scuola. 
L'aria vibrava di particelle che sapevano di elettrica impazienza per l'estate, la cui imminente vicinanza vendeva "VACAZE" ed "ESAMI" come fossero stati Ray-Ban.
Fra solo una settimana e quattro giorni, o anche fra solo undici giorni, se volete, gli studenti dell'ultimo anno sarebbero tornati per l'ultima volta fra quelle mura, a sostenere l'elogio della loro vita. 
Questa mattina era iniziata come tutte le altre, il cielo continuava ad essere ostinatamente azzurro anche quando mormorii allarmati mi seguirono per l'intera mattinata, come se quella massa informe di persone temesse che tirassi fuori l'astuccio da un momento all'altro e tentassi di ammazzarmi con l'evidenziatore verde. Non sapevano che le probabilità che ammazzassi me invece che loro erano pari a zero. 
Questa mattina era iniziata come tutte le altre, frutto di un copione imparato a memoria, e lui non si voltò mai. 
La sua schiena rimase girata, il suo capo chino, il suo sguardo non cercò mai il mio, e nessuna altra parte del mio corpo: non osava guardarmi, e la cosa mi stette più che bene. 
Se solo ci avesse provato, lo avrei sputato in faccia. 
Adesso c'è un movente per tutto il nero che mi portavo addosso, adesso è chiaro perché sto spesso per conto mio, evitando la compagnia delle persone che un tempo vaneggiavo fossero miei amici, con quella sorta di ambigua superiorità negli occhi celesti: sono un suicida. 
E i suicidi sono sempre dei prototipi equivoci di anticonformisti che giocano a fare i piccoli saggi, prima di piantarsi una lametta nei polsi. 
Io non ero anticonformista, non ero saggio: ero scazzato. 
Questa mattina, quando passai davanti la palestra di Judo senza fermarmi, mi tornarono in mente le parole del mio psichiatra:
"loro non ne hanno idea."
Beh, nessuno accusa nessuno di poter sapere con esattezza quali strani pensieri passino nella difettata mente di uno che non vuole più vivere ma ciò non toglie che potrebbero evitare di fare a tutti i costi gli stronzi, e magari rivolgere uno sguardo, una parola di conforto a chi è affetto da "certe stranezze". 
Non a me, sia chiaro.
Se voi vi avvicinate al sottoscritto in un momento in cui il sottoscritto è sommerso da una cascata metaforica di emozioni bipolarmente discostanti, il sottoscritto potrebbe ferire brutalmente. 
Dunque, dicevo, questa mattina era iniziata come tutte le altre, e il cielo blu di mezzogiorno, come ho già detto, era il primo segno dell'estate, e gli esami finali bussavano ininterrottamente alle porte, incombendo come una minaccia fin troppo attesa. 
Difficile dire se tale minaccia avesse più effetto sui ragazzi, che sventolavano tesine di 88 pagine a destra e a manca (Samuel giurò di aver visto un tipo che leggeva la sua mentre faceva un volo a mezz'aria e veniva atterrato in un combattimento di Judo) o i genitori, i quali non facevano altro che discutere di quanto i loro figli fossero brillanti giovani scienziati  che avevano la lode già praticamente in pugno; o gli insegnanti, che sarebbero stati costretti a subire le ire delle precedenti due categorie se non avessero assegnato i voti desiderati.
Tutta la scuola, inoltre, era convinta del 110 e lode che fra una settimana e quattro giorni -o anche undici, se preferite- avrebbe coronato il diploma di Lubomirski Aleksander. 
Tutti tranne io, che progettavo di lanciargli addosso pomodori durante la prova orale, sottolineando vezzosamente che l'unico orale a cui Lubomirski Aleksander avrebbe preso 110 e lode non poteva certamente essere verificato in quella stanza. 
Quanto a me, stamattina avevo pressoché una vaga, vaghissima idea di quello che avrei detto quel giorno, e una vaga, vaghissima idea sarebbe rimasta perché se questa mattina era iniziata come tutte le altre, beh, per disgrazia o per fortuna, non finì nello stesso modo.  
 
 
***
 
Sono le dieci di sera del dieci giugno quando la luna viene oscurata dalle nuvole. Nuvole d'argento dense quanto una coltre di nebbia invernale se la mangiano a morsi, danzando per il conquistato dominio del cielo. 
Intravedo la quieta battaglia dalla finestra della mia stanza prima di tornare ad osservare con soffocato interesse gli effetti collaterali delle pillole che prendo perché l'ambulanza del pronto soccorso non debba più venire a prendermi in uno squallido bagno deserto tranne che per una coppia di… deficienti. 
E' ironico che io abbia già 25 dei 30 effetti collaterali scritto sul retro della boccetta.
 
- Parziale perdita di sonno e\o difficoltà ad addormentarsi
- Perdita di peso
- Perdita dell'appetito
- Nausea
- Attacchi d'ansia
 
…Sorrido fra me e me, getto un'occhiata alla tesina abbandonata sul letto. Dovrei prenderla fra le mani e studiarla, sottolineare i concetti più importanti e approfondire gli argomenti essenziali, ripassare il programma affrontato dai miei compagni durante quel mese di assenza in cui tutti credevano che mi fossi preso una vacanza e fossi su una spiaggia delle Maldive a spalmarmi la crema solare sul naso o giù di lì. 
Ma la responsabilità non è il mio forte, ed è per questo che quando squilla il cellulare ci metto due secondi ad afferrarlo, come se stessi aspettando solo un motivo per distarmi.
E' lei.
Come abbia fatto a raggiungere un cellulare privo di connessione internet con internet non perdo tempo a chiedermelo, perché il nome che ammicca sulla chat che si è appena aperta non ammette dubbi. 
Nessuno avrebbe potuto fingere, neanche uno studente del liceo potrebbe aver voglia di scherzare, perché se è vero che il mio suicidio è ormai di dominio pubblico, la Suicide Room rimane ancora soltanto mia. 
"Devo vederti."
Non vi è il suo nome sul messaggio ma le lettere rosa caramella sono più chiare di una firma. 
Decido di lasciare stare, decido di accantonare il telefono, decido tante cose nei rintocchi dei battiti del cuore che separano il primo messaggio da un secondo:
"O mi uccido."
E da un terzo:
"Nella tua scuola, dove è giusto che sia."
Non mi rendo conto di avere il cuore dalle parti del pomo d'Adamo fino a quando non lo sento in gola, latente contro le tempie, palpitante nello stomaco e mischiato al sapore amaro che mi attanaglia la lingua.
Mi alzo.
Non ho scelta.
E anche se c'è l'avessi non la vorrei.
Dite alla realtà che ho fallito. Dite alle pastiglie che non si può cancellare il passato. Ditelo, al rancore, che non è abbastanza forte da trattenermi qui. In salvo. Da finzione e sogno.
Non c'è stato niente, niente, ad avermi fatto desiderare di non tornare più da te?
Sì, qualcosa… una cosa, c'è stata, inutile fingere, non si mente a sé stessi. 
Ma se sto venendo al tuo cospetto, forse pure questo non è mai stato abbastanza. 
Lascio cadere casualmente una mano nel cappotto di mio padre, apro silenziosamente la porta, sgattaiolo via come un ladro.
Sono le dieci e venti quando il quadro della Mercedes di papà si illumina nel buio e il motore si risveglia, portandomi nella sera dei quartieri di Varsavia. 
Raggiungo presto la scuola, si impenna come un cavallo nel buio.
Scendo dall'auto ed entro da una finestra sul fianco sinistro dell'edificio.
La finestra in questione è difettosa, e lo so perché l'ho rotta io, insieme ad Aleksander, al secondo anno. La colpimmo con un pallone, così forte che Samuel ci minacciò di spifferare tutto al preside per una settimana, almeno fino a quando Aleksander non minacciò di tirare una pallonata anche a lui. 
Entro con facilità, perché la finestra è difettosa, e se non lo fosse stata l'avrei rotta io. 
Ma no, ecco, basta una leggera pressione nel punto giusto.. un lieve spostamento a destra della cornice e.. bingo, atterro nel laboratorio di chimica, silenzioso e scuro, e mi affaccio sul corridoio. Tutto tace e nei dintorni non vi è alcun accenno di vita.
Dove potrebbe trovarsi una ragazza di circa ventiquattro anni con la tendenza al comando e una marcata brama di reclusione?
Lo penso. Lo so.
Sono nel corridoio sbagliato.
La sala computer è dall'altro lato, nell'ala ovest dell'istituto. 
Cammino, cammino più veloce temendo di non arrivare in tempo, ma so che vorrà vedermi per lasciarsi salvare o… trascinarmi giù con lei.
Ma non corro.
Cammino veloce ma non corro, perché il rimbombo ritmico dei passi potrebbe svegliare il buio, e i fantasmi che vi si nascondono. 
La sala computer è ben visibile, l'unico sprazzo di luminosità in quell'ammasso informe di banchi, sedie e aule, perché la luce nella stanza è stata accesa. 
Ed è vuota.
Il silenzio stagna come una palude verdastra, il tempo è congelato, la mente galoppa per superare almeno in velocità l'idea che non può vincere per logica: si è già uccisa. 
Ma nella notte non ci sono giochi leali. Avrei dovuto saperlo. 
Sarei dovuto scappare.
-Ciao principino...-
Un tunnel buio rimarrà sempre senza uscita.
-Asher.-
Avrei voluto che il suono di questo nome fosse stato più convincente.
Ma si spezza in mezzo, forse dalle parti della "h", perché il ritrovarmelo davanti, alle undici di notte, in una scuola enorme, chiusa e deserta, mi schiaffeggia lo stomaco. Ma faccio del mio meglio, credetemi, faccio del mio. meglio. 
-Che cosa vuoi?- dico.
-Complimenti, ci sei riuscito ancora una volta.- risponde.
Se una morsa impedisce alla mia voce di suonare sicura, quantomeno convincente, non so quale demone si sia impossessato della sua, perché questa non è una voce no… è odio, nella più pura delle forme. 
-Come si fa a voltare le spalle ad una vita perfetta come la tua?- biascica.
Che cosa sta dicendo? 
-Come siamo arrivati a parlare della mia vita.. Asher?- prorompo.
-Cosa ne sai tu della mia vita?-
Si concede un sorriso da voltastomaco e risponde, in un bisbiglio simile a un rantolo: -So quanto basta.-
Si muove, fa un mezzo giro, quasi soppesando le parole, con lo sguardo d'argento fisso sul pavimento a scacchi bianco e nero e la lingua che sa già, esattamente, cosa dire.
-Deve essere bello aprire gli occhi… e prendersi tutto ciò che si vuole…- mi guarda, -vero, Dominik?-
Scuoto la testa, incapace di ragionare. 
-Di cosa stai parla..-
-Era il mio mondo, e tu non avresti dovuto farne parte.-
Sento che dovrei parlare, rispondergli, far cessare quel rammaricato flusso di parole che si vestono del più succulento rancore. E lo avrei anche fatto, se quel sibilo roco non mi avesse annullato del tutto la capacità di proferir parola. Non comprendo il filo che sta seguendo, non riesco a vedere dove ci porterà, ma una cosa sembra certa: questo filo è rosso sangue. 
-..ma il povero Dominik aveva problemi... aveva problemi, il povero Dominik si è suicidato… ridicolo.-
-Tu sapevi del mio suicidio…- non riesco a non dirlo, non riesco a dirlo ad alta voce, ma questo basta a far sì che i tasselli di un puzzle nero si colorino delle tinte più terrificanti che abbia mai visto. Un puzzle nero e opalescente, rosa schocking e grigio perla, oscuro come un mistero e risolto sin dall'inizio. 
Era chiaro, era semplice, era troppo sconcertante per poter essere anche solo pensato a mente lucida.
Ma eccola qui signori e signore, nella più mostruosa delle manifestazioni, ingarbugliata nella mera illusione che il passato si può cambiare: la verità.
E se il passato non si cambia, se il passato ti cambia, qual è la verità?
E se ti segue, fino agli angoli più remoti del mondo, solo per presentarsi con quel ghigno beffardo a ricordarti che non puoi sfuggire alla tua storia, a quale prezzo la voglio conoscere?
-Mi detesti. Ma non da sempre… da quando ho iniziato a stare male...- 
La mia voce è poco più che un sussurro, ma devo farlo. Devo lasciare che la mente lavori frenetica per giungere all'unica verità plausibile. 
-Sei stato ammesso al corso di informatica avanzata..- mi guarda, lo guardo, mi guarda e sorride, lo guardo e lo vedo per la prima volta da mesi. Da anni.
Penso che vomiterò se soltanto aprirò bocca, ma non posso tacere adesso.
-Tu non mi detesti per Karolina…- mormoro, -tu mi detesti per Sylwia.-
-Sorpresaaa…-
Lo bisbiglio, quasi sperando che le pareti non lo sentano, quasi sperando che nemmeno io lo senta. Ma anche solo l'articolare le labbra in quel nome mi fa pensare che, sicuramente, vomiterò.
-Jasper.-
Ora non sorride più, ma canticchia, in tono lugubre, cantilenante e nauseante: -Visino carino, cervelletto carino, visino carino cervelletto carino, visino cari… Le hai proprio tutte, vero Dominik?-
Fa un passo avanti. Non mi muovo. Anche se la concretezza di avere davanti tutto ciò che volevo lasciare indietro mi appesantisce le spalle tanto da gettarmi a terra, non mi muovo. e perché?
-Ash--
-Il mio nome è Jasper.-
-Asher ascoltami… ascoltami. Io so come ti senti.-
-No! Non lo sai.-
-Asher questo non è il modo giusto per reagire..-
-Qual è il modo giusto eh?!- sbuffa. -Fare come te? Avere… tutto ciò che si possa desiderare e non farselo bastare?- assottiglia lo sguardo, scopre i denti, potrebbe mordermi.
-Eh..?! Qual è! No perché… Karolina, ha perso la testa per te; quella ballerina non ti staccava gli occhi di dosso e… tra le due ovviamente c'è Sylwia, che ha mandato tutto a puttane pur di averti.- Mi morderà. Non c'è luce nei suoi occhi, solo una vena di folle disprezzo.
–E adesso Aleksander… non ti fermi neanche davanti al sesso, vero Dominik?!-
Forse, se fossimo stati in uno di quei film americani tutto effetti speciali, questo sarebbe stato il momento in cui un rallenting d'effetto avrebbe inquadrato la lucida goccia di sudore che avrebbe percorso la mia tempia sinistra prima di spostare la telecamera sul mio sguardo impietrito. 
Ma non siamo in un film, nessuna goccia di sudore sta percorrendo la mia tempia sinistra e nessun effetto speciale sta stravolgendo il viso del mio interlocutore dagli occhi d'argento, serrati mentre ride di cuore, ride sguaiatamente, ride come se non ci fosse un domani. E qualcosa mi dice che non ha tutti i torti. 
Non sono sicuro di volerlo vedere, il domani.
-E non è neanche colpa tua… perché hai cercato anche di… ucciderti ma…- il riso si spegne come se non fosse mai iniziato, -non vuoi proprio morire.- 
Lo dice come se fosse colpa mia.
Un pizzicore fastidioso si propaga dalla nuca.
-Beh…- sorride, -adesso ci penso io… a farlo… come si deve, tranquillo! Sarà una storia avvincente..-
-Asher non farlo, non è giusto… per te. Non fare il mio stesso errore. Non rovinarti la vita perché qualcuno ti ha detto che non potevi essere abbastanza. Loro non ne hanno idea.-
-Tu sì?-
-Io sì.-
-No… NO!- urla. -Non ne hai idea perché… e come potresti… hahaha… sei sempre stato la prima scelta…- e gli sprazzi di risata agghiacciante diventano furiosi sibili. 
-Ma quello non era il tuo mondo, è il mio, Dominik.- 
Si scosta il ciuffo chiaro dagli occhi, il suo polso ha fatto uno scatto innaturale che non mi è sfuggito. 
-Quindi, ti sentivi così invincibile da avermi cacciato dalla mia stessa casa? Dalla casa che io ho costruito? Perfetto… perfetto- mi sarà addosso, come un serpente dal veleno mortale. Si ferma, ma è un'illusione. 
-Benvenuto nella Suicide Room Dominik.- 
Non c'è luce nei suoi occhi quando mi salta addosso, letteralmente, e con violenza mi manda a sbattere contro le pareti silenziose. Non è colpa tua, mi dico, ma neanche mia, mi rispondo, e sono protagonista di una prontezza di riflessi che non credevo di possedere. I miei pensieri hanno sempre corso più delle gambe.
Ma non a questo giro.
Evito quello che ha tutta l'aria di essere un pugno ben assestato all'altezza della mascella e mi appiattisco alla parete. Posso solo guardarlo un secondo, mentre un urlo orribile si instaura in questi granelli di polvere che ci guardano impassibili, complici di una lotta impari.
L’ argento folle dei suoi occhi si fa così vicino che sono costretto a spostarmi dal muro che fa tremare con un calcio, destinato a me, destinato a spezzarmi le ossa con lo scricchiolio sinistro che brama sentire.
Non sono bravo nel corpo a corpo, ma non voglio morire, non voglio Asher… Jasper… chiunque tu sia
Devio le sue mani come non posso deviare il suo odio, mi colpisce attraverso i suoi occhi accecati, i suoi denti bianchi, le labbra tirate fin quasi allo spasimo, l'espressione gloriosa di chi non ha niente da perdere. 
-Vieni qua piccolo suicida… voglio solo GIOCARE!- la sua voce di dolcezza sintetica si pianta nel mio sterno con la furia di un treno in corsa. Posso sentirlo il dolore, vivido e reale nello stomaco, a dirmi che non ci sono computer questa volta ad ostacolare il male. Mi piego in due.
La realtà mi piomba addosso. 
E' tutto diverso qui fuori: la luce è più forte, le voci più acute, i respiri più ansanti, il dolore… il dolore è intollerabile, come il freddo del muro che mi trafigge la schiena. E' un deja-vu, Asher che mi alita sulla faccia contratta dal dolore, Asher che è più forte, più alto, più arrabbiato, Jasper, che sottovaluta ancora una volta quanto io sia arrabbiato e ferito e deluso e vendicativo.
Ha un coltello in mano, si sfracella insieme alle sue nocche sul punto dove un istante prima c'ero io. Latra dolorosamente, gli sfreccio accanto. L'arma finita chissà dove. Corro verso la porta, piegato con il respiro intrappolato in gola, sono quasi sulla soglia ma non credo di avercela fatta. Lui non si fermerà fino a che non avrà pezzi di me sparsi sul pavimento.
Perché vogliamo sangue, vogliamo un palcoscenico, vogliamo rivalsa, vogliamo ribellioni sbagliate, una web cam nel vuoto silenzio di una stanza e storie da raccontare. 
La mia storia inizia da qui, da quando un braccio viene torto -non saprei dire quale- in una strana angolazione dietro la schiena dalla sua presa. Si romperà. Urlo.
Urlo senza ritegno, urlo per ossa e muscoli che perdono la loro sensibilità, per la mia sensibilità, che mi ucciderà ancora una volta. 
Vengo scaraventato all'angolo di una scrivania, la punta mi si conficca nella pancia, un computer si fracassa al suolo. 
Vorrebbe piegarmi, ma non ne ho l'intenzione.
Non è la forza che mi fa arginare le fitte lancinanti, e mi fa strappare il braccio dai suoi artigli; non è con il coraggio che tasto a tentoni il piano ormai sgombro della scrivania e stringo la presa sul filo di una tastiera. 
Gliela scaravento contro con un grido sordo.
Lo colpisco violentemente sulla fronte, il colpo di circuiti e plastica.
E' il desiderio di poter guardare di nuovo la vita negli occhi, anche quando la sua mano che si leva feroce sulla mia faccia mi giura che la vita non la rivedrò mai più.
Lo sento prima di avvertirlo, lo spostamento dell'aria che si lacera, prima che lo schiaffo mi arrivi dritto in viso da qualche parte fra zigomo e labbra. Sento il bruciore nauseante e il mio corpo che cade a terra. Mi giro appena in tempo, ma è comunque troppo tardi. 
I capelli troppo chiari gli ricadono sugli occhi, se li sposta ancora una volta, perché vuole guardarmi negli occhi mentre mi uccide. Perché mi ucciderà, c'è la scritto in faccia. 
Gli allontano una mano, blocco un pugno, ma la sua furia non ha ragione, non ha legge. E' in balia delle emozioni, e la cosa peggiore è che so esattamente come ci si sente. 
Sintomo per sintomo, grammo per grammo. 
E' sopra di me, e mi tiene inchiodato a terra, e avverto la rabbia farsi largo fra questa scacchiera di nero e bianco e inondare campi di sole sfolgorante. Cercava un modo per arrivare a me. 
Beh, l'ha trovato.
Alla fine le sue mani sono riuscite a superare la mia resistenza e si stringono, più dolcemente di quanto avessi creduto… si stringono attorno al collo. Non mi rendo conto che è il mio fino a quando non sento me stesso rantolare, in cerca d'aria che non arriva, in cerca di luce che si affievolisce. 
-Implorami Dominik… implorami di avere pietà… implorami per salvarti la vita…- 
lo sento, lo vedo, lo capisco, ma non lo comprendo. O è lui, che non comprende me. Io? Implorare per la mia vita? Potrei implorare che tu smetta di… di spingere e spingere e… spingere i tuoi polpastrelli nella carne della mia giugulare… ma non lo farò. Sai che non lo farò. Pregerei per te, se mi fosse rimasta aria nei polmoni e ossigeno al cervello… pregherei per te che non riuscirai a salvarti da te stesso. 
Sbatto un braccio a terra, l'unico tentativo che riesco a fare, prima che un roco sussurro si porti via l'ultimo brandello di polvere dentro me.
-Io… implorare.. te.. per la mia… vita… Ash..er scu-sa-mi ma…- non posso fare a meno di ridere, un suono soffocato e privo di esistenza, più vicino alla morte di quanto sia mai stato, -non lo farò… mai.-
Stringe di più,  più forte, più selvaggiamente.
Non è dolce, ma non fa più tanto male… ho conosciuto dolore peggiore di questo...
E posso solo sperare che le sue emozioni facciano in fretta… molto più in fretta di quanto abbiano fatto le mie, sadiche, spietate, egoisticamente vive fino alla fine.
Fanno male le unghie nella pelle… rimarranno le mezzelune, ma rimangono mezzelune sui cadaveri? 
Come sarò da morto? Non ci avevo mai pensato… forse non ci credevo che sarei morto, alla fine. Ma non si sfugge alle cicatrici, che se potessero riprenderebbero a sanguinare più copiosamente di prima, come pleniluni in pozzi neri.
Non vedo più alcunché, ma lui continua a premere, continua a strangolarmi, come se non gli bastasse la mia morte, come se il cuore che rallenta e la mano che si apre inerme sugli scacchi di quel pavimento non siano abbastanza. Forse non gli basta, vorrebbe che mi dimenassi, che combattessi per la mia vita, ma non si combatte per qualcosa che non si può sentire. La mia vista si sta perdendo nel suo rancore, il mio dolore diverrà il suo dolore, il sentirsi a disagio in un mondo che non merita questo disagio, queste cicatrici, questa morte. 
Ma morirò lo stesso. 
La vita mi scivola via dalle mani come fumo bianco, ogni rumore è un ricordo lontano… devo confessarvi, alcuni rumori sono belli… alcuni ricordi sono felici. 
Forse valeva la pena combattere, dopotutto.
Forse vale la pena morire, tuttavia.
E' probabile che abbia combattuto, prima che tutto fosse così lontano… è possibile che qualcosa si salvava ancora nelle persone, negli sguardi… nelle birre di una notte lontana… 
Asher non sa che tra un minuto potrebbe sbattere le palpebre e scoprire che non voleva farlo, ma io sarò già via, e lui non potrà farci nulla.
Perché le emozioni sono questo, l'istante, quell'istante, nel quale crollano i muri che dividono i sentimenti, e nel quale crollano le barriere del controllo. 
E' quando il fuoco brucia più forte perché non c'è l'acqua del contegno a spegnerlo. E' quando le ceneri si disperdono e tu sei solo con ciò che non vorresti fare e ciò che farai. Sono questi gli istanti per cui valeva la pena vivere, gli istanti in cui liberarsi dalle catene portava a fare cose totalmente insensate, come il baciare un tuo compagno di classe perché una stupida scommessa che lui ha fatto con la tua bocca non ti renda un vigliacco, e cose totalmente felici, come il rifarlo ancora, il baciarlo di nuovo e spingersi sempre più oltre.
Rimbomba il suono del mio respiro nel silenzio, sembra che stia trattenendo il fiato, in realtà è l'ultima carcassa di anima che si spezza, sopraffatta dalla fame della mia fine. 
Non è poi così romantico morire, neanche se ti viene compressa la gola fino a tranciarti il respiro sul pavimento bianco come la mia pelle e nero come le venature che la adorneranno quando una bara di marmo bianco la ospiterà, per sempre. 
Per sempre.
Che cos'è questa parola? che cos'è questo sempre e questo "per" che sia antepone a sempre? cos'è l'immortalità, cos'è l'infinito, quell'otto rovesciato che sembra un vaso caduto? è strano che sia il simbolo di qualcosa che non può finire. È una menzogna dunque, in realtà finisce tutto, al di là di ogni sogno, aldilà del più grande sogno del più grande dei sognatori, finisce tutto?
Ogni strada, ogni oceano, ogni mondo, ogni sentimento, ogni emozione, ogni logica, ogni amicizia, ogni vento ogni… tempesta, rabbia, rancore… finisce persino la vendetta, ad un certo punto?
E se davvero tutto finisce, lo dico adesso, prima che sia troppo tardi, che mi dispiace; che morire a diciott'anni non è neanche così lontanamente tetro e romantico come credono gli innocenti, e che piantarsi coltelli nel cuore e tagliarsi le vene e combattersi nella vita reale così come su un tappetino da Judo è molto più romantico di questo…  in qualche modo.
La morte non è romantica, è magnanima: un improvviso dolore e poi… è oblio.
Diteglielo, perché in ogni caso io non lo farei.
E' ironico, non trovate? che qualcuno possa mettere il mio corpo in una bara bianca.
Non voglio una bella bara bianca, non voglio sembrare puro. Non lo sono mai stato: nella mia mente ho ucciso, strappato, dilaniato, colpito, scaraventato, distrutto, spezzato, mutilato, squartato, frantumano, annientato chiunque mi passasse accanto, chiunque mi rivolgesse la parola in quei giorni in cui volevo semplicemente che l'umanità non esistesse; nella mia mente ho urlato i peggiori insulti, ho ringhiato le migliori minacce, ho lanciato bombe e impugnato pugnali, ho morso, ho punto, ho avvelenato, ho fatto sesso con lui tante e tante e tante di quelle volte che voi non ne avete idea.. e non mi serviva neanche guardarlo, mi bastava odiarlo in silenzio. Perché l'ho odiato, l'ho odiato tanto quanto l'ho… 
no
Non lo dirò in punto di morte, non lo dirò con le mani di Asher addosso, non lo dirà il fantasma di me stesso.
E' quando so che la Suicide Room ha avuto ciò per cui è nata, l'aria entra a fiotti in gola, su per il naso, si riversa nella luce abbagliante impigliata nelle palpebre come ondate di una marea impazzita e un suono terribile, un risucchio roco, graffiato mi fa vibrare i timpani, e capisco di non aver mai respirato fino ad ora e che quel risucchio, questo suono oltraggioso a metà fra l'agonia e il risveglio, sono io. Sono io.
E il bianco non è più bianco ma un pugno di colori, il luccichio dello schermo scheggiato di un computer, una parete candida su cui qualcuno ha scritto qualcosa, e i rumori non sono più un'isola lontana nel deserto del nulla ma vividi, chiassosi, assordanti.
Tutto quello che non ho sentito negli ultimi secondi, minuti, anni? mi scoppia nelle vene, come un fuoco d'artificio difettoso che ha atteso fino all'ultimo per dare il meglio delle sue scintille. Dolore, dolore e conati di vomito e tosse e rastrelli appuntiti nel palato arido e stomaco contratto e urti e ansimi e una voce. Una voce che, anche se sono piegato in due, carponi, con la fronte ancorata al suolo e la schiena prostrata da respiri rauchi e violenti, mi costringe ad alzare la testa e tutti i capogiri che ne derivano perché devo vederlo, cazzo io devo vederlo.
-Ti.ho.detto.di.non.toccarlo!-
E' reale, è qui, e lo sta prendendo a pugni sul naso.
Sembra quasi una scena comica: due adolescenti rissosi nel mezzo di una banale faida sulla soglia dell'età adulta; disgustosamente visti e rivisti i loro calci, pugni, colpi, affondi, ansimi di muscoli che guizzano in tensione. In realtà c'è qualcosa di molto più disgustoso dietro.
Mi sollevo a fatica perché un'altra lama è comparsa dal nulla, tirata fuori della cintura di non so quale pantalone, ma so a chi appartiene, e non è lo stile di Aleksander difendersi con terze parti: lui ti disintegra con le sue mani. 
Ma Asher è diverso, non si accontenta di un pugno, non basta un labbro sanguinante, neanche se ti lascia mezzo morto a terra: Asher vuole il teatro. 
Ma non batterà mai Aleksander. 
Non ho bisogno di sentire un altro computer ultra piatto che si fracassa a terra per saperlo.
Si passano il coltello come una palla avvelenata, Asher vuole tagliargli la gola, Aleksander lo devia come se non avesse fatto altro per tutta la vita: difendersi dagli attacchi di qualcun altro.
Non resisteranno ancora per molto e le tonsille ardono troppo per poter urlare e di mettermi in mezzo non esiste, mi sbilancerebbero via come carta sull'autostrada spazzata via dal vento di una Ferrari in corsa. C'è solo una cosa che posso fare, ancora in bilico fra la necessità di sdraiarmi e respirare tutta l'aria nella stanza o bucare le ruote, della Ferrari. 
-Leks NO!-
Non è un sussurro, non è un urlo, ma mi sentono benissimo.
-Sta' indietro Dominik- ringhia, -questa è una questione di principio.-
-Non ti lascerò diventare un… assassino.- rantolo.
-Ascolta il tuo ragazzo.- Asher continua nel suo sorriso, ma non è più tanto convincente con le mani alzate e un coltello che mira al pomo d'Adamo.
-Taci Asher perché ti giuro che ti taglio le palle prima della gola..-
-Leks non posso permettertelo.. non per lui.-
-Non sei tu a decidere Nik, non questa volta.-
-E quando mai?!-
-Sentitevi… litigate come una coppia di quattordicenni..-
Aleksander guizza in avanti, troppo fluido, troppo veloce, troppo convinto
Non è con le parole che riuscirò a fermarlo. Con le parole non ci siamo mai capiti. 
E un attimo prima che Aleksander gli pianti la lama nella carotide io sono addosso alla mia.
E' folle, ma è logica. Una logica folle che sperò ci salverà… se non ci avrà uccisi prima.
-Fermo!- è troppo tardi per tornare indietro. L’aria si cristallizza.
-O mi uccido.- 
E lui si ferma per davvero, la lama che poggia sulla pelle, Asher che non ha più il coraggio di sbattere le palpebre. 
Lui si ferma e mi guarda, con il coltello stretto in mano e la luce negli occhi, e i nostri occhi collidono, si incastrano gli uni negli altri. Si stanno dicendo cose. Si stanno sfidando a vicenda.
-Nik non.. fare cazzate.- 
Ah non ve l'ho detto perché si è fermato? Perché non ha ucciso Asher con le sue stesse mani?
Non per quanto suonasse convincente la mia voce, questo è chiaro, ma perché io ho afferrato il primo coltello con cui Asher voleva farmi a fettine e lo tengo premuto sulla mia gola, da qualche parte su qualche vena, la mano che trema, ma la determinazione dell’irragionevole.
-Non diventerai un assassino..-
-Nik.-
-Non te lo permetterò..-
-DOMINIK!-
-..e se devo uccidermi per questo.. beh, l'ho già fatto una volta, per te, lo farò ancora una volta, per te.-
-Stai bluffando.-
Ci osserviamo per poco, ma tanto ci basta. 
Lui sa di aver mentito, io so che non l'ho fatto.
Asher scompare da questo palcoscenico, le luci sono distrutte, ma noi ne siamo ancora i protagonisti.
E' un campo di battaglia da cui non siamo mai usciti, abbiamo polvere da sparo sulle dita.
La mia mano fa pressione, la sua lascia la presa. Una goccia di sangue stilla dal mio collo e si riflette su un coltello che giace al suolo.
E l'osso di un gomito finisce sul volto di Aleksander. Scatto in avanti ma lui si è già
liberato, lo distanzia, mi grida: -Corri Nik!- ma solo quando lo vedo andare nella direzione opposta mi lascio andare all'adrenalina della fuga, le do in pasto i miei resti e le mie gambe fanno il resto. Quando si scappa dalla morte c'è un motivo in più per andare avanti. 
Non mi guardo indietro. 
Non posso guardarla in faccia una seconda volta. 
Non quando non sono stato io a chiamarla. 
La notte non è fredda ma rabbrividisco ugualmente mentre gli alberi inghiottiscono la mia ombra. Se non fosse per la pelle chiara nessuno mi vedrebbe.
Nessuno mi avrebbe visto.
Che sciocchezza.
Lei avrebbe sentito il sangue scorrere nelle vene e incendiarsi nel respiro ansante di chi non vuole morire. 
Non così
Non se non lo decido io. 
Definitemi egocentrico, o delirante. Definitelo delirio o incoscienza, ma decido io come e quando morire. 
Il Vistola, il fiume che taglia Varsavia a metà, è visibile dietro la sua sagoma spettrale.
I suoi capelli sono più rossi dall'ultima volta, sanno di fiamma.
E' al centro di uno spazio libero da alberi. C'è qualcosa di surreale in tutto questo. 
-Sylwia..- ansiamo, sussurro, respiro, mormoro, boccheggio. 
Non ho più aria nei polmoni, uno strangolamento quasi totale e una piccola incisione su una vena del collo non sono cose da fare nella stessa notte.
I rumori sordi di colpi e collera annunciano l’arrivo di Leks e Asher; quest’ultimo l’ha raggiunto e brandisce la terza arma della serata: di metallo, con un grilletto… una pistola.
Che cade a terra prima che chiunque possa fermarli.
Si separano. Non ne so il motivo. Osservo ancora la pistola quando si allontanano l'uno dall'altro.
-Dominik.-
-Nik.-
Mi volto. Aleksander. 
-Ti muovi veloce per essere uno che ero tanto così dall'ammazzare.- commenta Asher con un ghigno storto mentre si apposta dietro Sylwia. Il fiume è immenso e immobile. Una distesa di acqua nera.
Aleksander alza lo sguardo. Io non ho bisogno di guardare.
-Cosa hai fatto tu...?-
Sylwia scocca un’occhiata al suo compare. E’ velenosa.
-Ma come... mi vuoi far credere che tu non ne sapevi niente rossa?- Leks sputa le parole fra i denti.
-Ci conosciamo, io e te?-
-Aleksander Lubomirski. Vorrei dire che è un piacere ma…- scuote la testa. Qualcuno direbbe che è strafottenza quella che ha fra le palpebre. Io dico che è consapevolezza.
Cosa sai, Aleks?
-Aaah sì… il famoso Aleksander. E' lui, non è vero Dominik? Colui il quale ti ha fatto chiudere in una stanza per giorni e giorni al buio e alla solitudine e alle lacrime, soffrendo come un cane e meditando sul suicidio a causa dei suoi aberranti giochetti che nascondevano soltanto una repressa e mal celata voglia di sbatterti ad un muro e baciarti e per il quale lui non ha avuto il fottuto coraggio?-
Non nego, non confermo. Si può, in una notte, scandagliare il passato e capire cosa è andato storto? Qual è la tessera che nel puzzle non si è incastrata perfettamente?
-Scusa mia regina, ma qui non siamo tutti tuoi sovrani.- 
e forse, dopotutto, Aleksander ha sempre saputo più di quello che ha voluto far credere. Ditemi che la parola "regina" è stata una scelta casuale di termini. Dimmi che…
-E tu non sai un cazzo di me.-
-Ma so parecchio di lui..- Sylwia ha il sorriso di una sul ciglio della strada, capace di farti sbandare per darle un passaggio e nello stesso tempo gli occhi di una sul ciglio di un burrone, che ha già deciso di buttarsi. 
Mi indica con un dito, lentamente, teatralmente. Non avevo previsto la sua comparsa, ma d'altronde, dovevo aspettarmelo che il suo personaggio sarebbe stato pieno di sorprese.
-Mentre tu non hai fatto altro che scavare ferite profonde e ogni taglio ogni.più piccolo.taglio aveva il tuo nome scritto sopra.
A l e k s a n d e r . -
Smettetela.
-Pensi di conoscerlo meglio solo perché eri con lui nei suoi momenti peggiori?- 
Sylwia avrà anche l'aspetto della regina dell'inferno che ti sta proponendo di andartene da solo sulle tue gambe perché è un gioco che non potrai mai vincere, ma Leks ha quel luccichio negli occhi… quello che gli compare prima di un incontro di Judo in cui il risultato è incerto… quello che fa capolino quando c'è da vincere molto e da perdere molto di più… quello che ha sempre sguazzato nei suoi occhi quando avvicinava le labbra alle mie e si chiedeva se l'avessi baciato, ma lui lo faceva lo stesso. 
-Io sono stato con lui nei suoi momenti migliori. Tu c'eri quando non capiva una mazza del libro di fisica e ho dovuto spiegargli la stessa formula cinque volte? C'eri quando lo stronzetto mi ha buttato in piscina totalmente vestito con una camicia che è costata trecento euro perché sì, veniva dall'Italia? C'eri quando eravamo nudi e io mi sono addormentato su di lui e tremava.. tremava ma il suo cuore batteva e batteva e batteva più di quanto avrà mai battuto con te? Tu non c'eri, c'ero io.-
La risata di Sylwia è un suono che non vorreste mai sentire ma della quale tutti ne avreste dipendenza. Non posso fare a meno di guardarla quando il suo volto di carta si accartoccia in un riso di puro giubilo. -Credi realmente che io non ci sia mai stata mentre ti baciava…? Che io non sia mai stata nei suoi pensieri… sulle sue labbra… mentre stava con te?- La notte è così silenziosa che le voci rimbombano come in una cattedrale di fuoco e fiamme. -Tu non potrai mai capirlo… tu non potrai mai averlo, perché non capisci il dolore, il voler stare soli… lontani da tutto, e le cicatrici che non cicatrizzeranno mai e le lacrime invece dei pugni e il silenzio invece degli urli e Dominik invece di qualcun altro.
Io sì. Io ho capito che era speciale dal primo momento in cui l'ho visto e l'ho visto attraverso una web cam, mentre tu… tu c'è l’avevi davanti ogni giorno, ogni… maledetto giorno… era tuo, e l'unica cosa che hai saputo fare è stata UCCIDE…-
Faccio un passo avanti. -Sylwia no. Sylwia. no.- 
-Andiamocene, vieni via con me.-
La guardo. -Cosa?-
-Non abbiamo bisogno di loro, non abbiamo bisogno del mondo.-
Sono al centro, in mezzo, come se le acque del fiume in piena dividesse due rive in tempesta. Come se dividesse il mio cuore.
-Sai anche tu che non è vero… Sylwia non si può vivere così.-
Davanti ho Sylwia, dietro Aleksander. 
-Non dovremo per forza vivere… e se lo faremo, lo faremo a modo nostro. Siamo liberi- sorride. Io non sono sicuro di poter sentire il resto, -possiamo essere i padroni delle nostre scelte. Niente catene, niente doveri, nessun obbligo. Sarà una nostra scelta.-
-E' la mia, Sylwia.-
-Dominik.-
-Non posso tornare a rinchiudermi in una stanza e non posso nascondermi… Non voglio nascondermi… Sylwia.-
Asher freme dietro lei. Il respiro di Aleksander è inconsistente: un silenzioso fantasma alle mie spalle. Ma lo sento. 
Non so cosa stia capendo di questa conversazione al limite del possibile, oscillante come un cappio appeso a un lampadario di cristallo nero in una stanza dalle pareti di vivida vernice rossa, ma non credo si stia muovendo. 
Nessuno lo sta facendo.
-Lui può anche averti fatto credere che potrebbe essere diverso… ma non lo sarà.- pioverà. -Io conosco la tua sensibilità, ho conosciuto il tuo dolore… Ho contato i tuoi tagli. Li ho visti sanguinare.-
Eppure la notte è così splendente… -E l'ho odiato Dominik… ho odiato Aleksander Lubomirski senza conoscerlo perché aveva avuto il potere di farti fare questo… Anche la sera che ti ho salvato la vita.-
-Sei stata tu..- sbarro gli occhi.. ma certo. Solo lei sapeva dove fossi. -Nella discoteca. Hai chiamato l'ambulanza..-
-..e sono corsa via. Sì.- annuisce, alza una mano. Il palmo è d'argento. -Ma non prima di essermi assicurata che saresti sopravvissuto.-
-Tu volevi..- le corde vocali cedono nel bel mezzo della frase, ma devo urlarla, devo urlarla adesso. Ci sono cose che in un sussurro non renderanno mai abbastanza. Come si può sussurrare… -QUESTO!- 
-Io volevo che tu morissi per me! Che ci fossi io nel tuo suicidio! E invece…- le ricce ciocche rosse come fiammiferi, danzano sul suo volto di carta vetrata. Non guarda più me. Ha l'odio negli occhi.
-E invece c'era lui.
Asher non mi leva gli occhi di dosso. Sono d'argento anch'essi.
Ma Aleksander no. Lui non è d'argento, e non è neanche d'oro, o di bronzo o di platino con la camicia strappata da qualche parte all'altezza della clavicola e la consapevolezza di essere un intruso in una conversazione che non capirà mai, su un campo di battaglia su cui non ha mai combattuto. Aspetto che parli ma rimane in silenzio, e so perché.
Perché non sente di averne il diritto.
Vuole che questa sia una mia scelta.
Ed è di una scelta che si tratta?
Come potrò mai scegliere fra la ferita e la lama? 
-So che mi vuoi Dominik.- La sua mano aspetta ancora me, ferma a mezz'aria come nessuna statua saprebbe mai fare. Le unghie irregolari sono colorate di viola. C'è dolcezza nel suo sguardo, persino gentilezza. E desiderio. -Mio re..-
-Nik.-
Chiudo gli occhi.
Anche se non sa… anche se non può neanche immaginare cosa vuole dire attraversare tutto questo… anche se non sa cosa significa essere me, lui ci prova lo stesso. Perché vuole lo stesso che vada da lui.
-Io ti voglio Sylwia.-
Per un secondo penso davvero di chiudere qui la questione. Di ricacciarmi in gola la verità. Ma… -E ho bisogno di te… e mi piaci, e mi elettrizzi e mi fai sentire… accettato. Come se tutti i miei sbagli e i miei errori e ogni mio più piccolo difetto siano la perfezione. E guardi queste cicatrici come si guarda un'opera d'arte, e…- allargo le braccia, non sta piovendo. Sono solo le mie lacrime. 
-E… forse mi fai sentire anche amato…- una di essere raggiunge le mie labbra. Ma..-
E’ bellissima, con occhiaie profonde e un vestito leggero del colore delle nuvole che le lascia scoperte le gambe bianche e martoriate.
-Lui mi fa sentire vivo.-
Sono certo di averlo detto non nel sentire la mia voce pronunciare proprio queste parole, ma dal riflesso spontaneo che ha assunto la bocca di Sylwia quando il surreale diventa reale e l'astratto si tramuta in concreto.
-Ovviamente… e la sensazione di essere vivi non si scambia con nient’altro.- fa una pausa, come se stesse decidendo se dirlo o no.
-Qualsiasi cosa accada qualunque… male ti lanci addosso come pietre ad una cazzo di lapidazione tu muori e vivi… per lui.-
Scopre i denti in quello che a primo attrito sembrerebbe un sorriso ma… non lo è. E non è un ghigno, o una smorfia; e non sta piangendo o ridendo o urlando o guardandomi con disprezzo. Se ne sta lì, nel suo fascino spiegazzato, ad osservarci. Poi alza una pistola. La quarta arma della serata. 
L'ultima. 
La punta contro Aleksander.
La tiene bene.
La punta bene.
La punta forte.
Aleksander apre le mani, ma non cerca di portare tutto su un piano logico. Non vi è logica stanotte. Questo cielo vedrà solo emozioni.
La guarda senza battere ciglio.
Lubomirski se solo tutti quelli sapessero davvero quanto cazzo sei coraggioso..
-Tu scegli lui…- aspetta. -ma io ho scelto te.-
Il grilletto si abbassa, poi scompare sotto il viola delle sue unghie. Mi serve un secondo per lanciare un'occhiata alla pistola abbandonata a terra e decidere che non sarò saggio stanotte.
Solo tremendamente innamorato.
Mi lancio dalla parte opposta, davanti a quella pistola, davanti ad Aleksander. Non può fermarmi, Sylwia non può fermarsi, il colpo non può fermarsi. Il mio cuore non può fermarsi. Ma lo fa. Sa cosa sto facendo e me lo lascia fare, perché non è mai stato così bello morire con una pallottola nel petto e il suo volto davanti che si contrae dalla sorpresa e dal terrore e la sua voce che ti chiama. Mi hai chiamato così tante volte… ma questa volta non posso risponderti.
Ci provo ma è tutto così inutile. Non sento più le gambe, o le braccia, o le mani ma la tue mani le sento… stringi più forte… cazzo stringi di più, fino a quando non ci sarà più niente in questo corpo in grado di sentirti.
Definitemi egocentrico, o delirante. Definitelo delirio o incoscienza, ma decido io come e quando e soprattutto per chi morire.
E ho scelto di farlo così, meglio dell’ultima volta, con terriccio sotto le unghie e la sua voce a promettermi che andrà tutto bene.
Ma ti prego, non fare promesse che non puoi mantenere.

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo ispirato dalle canzoni: Bang – Armchair Cynics
                                                  Lost in Paradise – Evanescence
In particolare ascoltando Lost in Paradise mesi fa la scena ha preso forma nella mia mente.

 

 
 
\\I can't believe it's done.
No! Non iniziate ad affilare coltelli o a lucidare pomodiri per lanciarmeli addosso a causa del modo... tremendo in cui ho scritto la fine di questo capitolo. E non so neanche perchè l'abbia fatto visto che solo Dio sa quanto ho negato e sofferto la fine di Suicide Room... ma, nella scrittura non faccio sconti a nessuno, per cui... chiedo venia!
Ragion per cui, miei prodi marinai (no non ho visto di recente Pirati dei Caraibi lo giuro!) spero che non ne abbiate già abbastanza di me e delle… strane cose che partorisce la mia penna. 
Non so come ringraziare chiunque abbia recensito o apprezzato in silenzio la mia storia sino ad ora, il vostro apprezzamento è stato molto apprezzato (?) e non posso dimostrarvi la mia gratitudine se non con un altro lungo e infinito capitolo carico di feelings che se vanno di qua e di là come cavalli imbizzarriti in una gara di Dressage nel Kentucky.
Per non parlare della storia che non ho ancora pubblicato in cui se mi gestisco i due protagonisti automaticamente diventano quattro e io non posso gestire le emozioni di quattro personaggi alla volta.
Oddio, posso farlo, ma poi viene fuori una roba come questo capitolo. Non date a me il controllo delle emozioni: andranno a briglie sciolte e criniere al vento (tipo Spirit cavallo selvaggio).
Okay la smetto di blaterare e vado ad affogare le mie discordanze mentali in un budino al cioccolato, ma prima vorrei dire che le strofe iniziali sono tratte dal testo della canzone BANG, degli ARMCHAIR CYNICS. 
Se avete tempo e voglia ascoltatela, è molto bella ed è quella che ha sempre più rappresentato Suicide Room ed il suo mondo nella mia testa, insieme a “LOST IN PARADISE” degli Evanescence e a "LIGHT 'EM UP" dei Fall Out Boy. 
Grazie ancora alle utenti che hanno recensito il precedente capitolo e che mi hanno sommersa di complimenti immeritati: vi ho fatto aspettare 3 ere glaciali e 3 disgeli per leggere un nuovo capitolo ma ora c'è, è qui e… scappo prima che si disgeli anche il mio budino al cioccolato.
Al prossimo capitolo (spero non dobbiate aspettare un'altra era glaciale o l'impatto di una meteora sulla crosta terrestre)
Pachiderma Anarchico.

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Capitolo 20
*** Suono di non ritorno ***


\\Ritardo, ritardo. Sono in un completo. ritardo.
Ne sono consapevole e me ne assumo tutte le responsabilità. Non vi spiattellerò alcuna scusa. Mi auguro solo che i fedeli e affettuosi lettori di questa storia non impugnino arco e forconi e mi vengano a prendere sotto casa. 
Credo che questo sia il penultimo capitolo, o al massimo il terzultimo.
Se vi va (e lo spero) lasciate una recensione per questo agoniato, sfuggente 18esimo capitolo e grazie ancora per l'apprezzamento dimostratomi.
Pachiderma Anarchico






CAP. 18
 
 


 
 
Avete mai provato la sensazione di aver controllato tutta la vostra vita? 
Di aver creato ogni suo schema, di aver raddrizzato ogni suo binario, di aver calcolato ogni suo numero… tanto da averla già vissuta prima di viverla.
Se la risposta è sì,  sapete esattamente come io mi sono sentito. 
Fino ad ora.
Conoscete anche la sensazione di aver perso quel controllo? 
Di aver ignorato la retta di uno schema che non avevate previsto, di aver raddrizzato un binario sbagliato, di non aver calcolato le persone, insieme ai numeri. 
Se sì, potete facilmente immaginare come mi senta adesso. 
O forse no.
Quando è accaduto? Come?
In quale esatto momento tutto il mio mondo di simmetrie e strade inondate di sole ha deciso di esplodere?
A causa sua. 
No, non della rossa che butta a terra la pistola come se fosse incandescente… e neanche del ragazzo d'argento dietro le sue spalle di luna che la incita a scappare, prima che sia troppo tardi. 
No.
E' stato tutto a causa del fottutissimo ragazzo moro ricoperto di sangue e respiri sconnessi che hanno nascosto su quell'ambulanza a cui non mi fanno neanche avvicinare. Se dovesse succedergli qualcosa… se non lo rivedessi più…
-Aleksander… figlio mio!- 
Strette di spalle, lacrime, baci, mani sul cuore, il mio si è fermato. Si è fermato assieme al suo. 
No. 
-Stai sanguinando..-
No.
-Cos'è successo?-
-Chiamate l'altra vettura!-
-C'è polvere da sparo qui..-
-Aleksander… amore, devi farti vedere.-
No.
-Lui dov'è..?- riesco a dire, nel trambusto di psichedeliche luci di ambulanze e automobili di poliziotti indaffarati, barelle e manette ai polsi di un pallido fantasma rosso.
-Lui dov'è?-
Nessuno mi risponde. 
Qualcuno alla fine è costretto a iniettarmi un tranquillante per farmi salire in macchina. 
Quando gli passo davanti il fantasma rosso mi guarda. 
Ha la morte in faccia, bagnata di lacrime. Io una storia non finita, bagnata di rabbia.
Era probabilmente una promessa di guerra, e se non fossi stato troppo sconvolto, l'avrei capita.
 
***
 
 
Non c'è riposo per chi era sul luogo del delitto. Neanche quando il delitto dovevi essere tu.
-Signor Lubomirski? Dobbiamo farle alcune domande.-
-Non vedete che è sotto controllo?-
Sotto controllo.
-Signora..-
Mi viene da ridere.
-Sono Barbara Marja Lubomirski, chirurgo e primario di questo ospedale, e sto parlando da esperto prima che da madre. Nessuna domanda durante la medicazione del paziente.-
Ma sto tremando.
Un medico sbatte la porta davanti agli agenti. 
E' mia madre, ma è sempre difficile riconoscerla nel lungo camice bianco e nell'aria pratica di chi ha combattuto molte battaglie.
-Joy, i risultati.-
-Tuo figlio ha il tendine del braccio destro stirato Barbara, una contusione alla tempia sinistra e un ematoma localizzato sul petto, poco sopra il capezzolo destro. Per il resto non abbiamo riscontrato altre problematiche.-
Parlano e parlano. Parlano del fatto che io non riesca a seguire la luce con gli occhi perché mi tremano anche le pupille e delle dosi anestetiche da darmi se non la smetto di salire e scendere dal lettino. Parlano e parlano, fino a quando un altro camice bianco non irrompe con seriosa gravità nella stanza, dicendo una roba come: -Dominik Santorski presenta una costola rotta e una incrinata, il proiettile è a circa 5 cm di profondità, potrebbe aver sfiorato un polmone, ci serve lei dottoressa.-
Non sono uno sciocco. 
So riconoscerla una situazione che sta in piedi per miracolo e potrebbe crollare da un momento all'altro quando mi si presenta davanti con il suo bel vestito di macchiato di disperazione: la vedo nei gesti meccanici di mia madre, la percepisco nella faccia impassibile del suo collega e la sento quando scendo dal lettino per l'ultima volta e mi rendo conto che se non vedrò mai più la sua faccia impazzirò.
-Aleksander, dove vai?-
-Devo vederlo.. io devo vederlo.-
Mi riportano sul lettino. Mia madre si allontana.
-SALVALO TI PREGO!- è l'unica cosa che riesco a urlare prima che inizino a tastarmi il braccio. 
Il tendine è maciullato. Vedo le stelle.
 
***
 
E' rosso. 
E' rosso su tutte le dita.
E' rosso sui palmi delle mani.
Non riesco a guardarlo. Non riesco a guardarmi. 
E' il suo sangue.
E' il suo sangue sotto le mie unghie.
E' il sangue di quel bastardo nelle pieghe dei miei palmi. 
Sembrano strane ramificazioni di vene , rosse, rosse, così rosse da darmi la nausea.
-Leks! Cosa cavolo è successo?!-
-E' il suo sangue Sam… è il suo sangue…-
-Leks… vuoi bere? Puoi bere qualcosa? Cos'hai? Hai il braccio tutto fasciato Leks…-
-Io.. lui.. Sam.. non lo rivedo più io.. se non lo rivedo più io..-
Due mani mi afferrano le spalle. Le stringono. Mi fanno male. Ma gliene sono grato.
Non avevo mai provato questo dolore. O almeno avevo sempre finto di non riuscire a provarlo, dietro la mia invincibile corazza d'acciaio. Ora mi sta consumando dentro. Dove sei? Stronzo dove sei?!
-Leks ascoltami.- 
I suoi occhi verde foglia sono brillanti, e amichevoli, e pieni fino all'orlo di preoccupazione per il sottoscritto, e vorrei dirglielo, dirgli tante cose che non gli dirò mai più. Ma non voglio dirle a lui e non voglio vedere i suoi occhi e l'unico accenno di voce che partorisce la mia gola è un flebile -Dominik…-
-Non so cosa sia successo: dimmelo Leks. Dominik cosa?-
-Io l'ammazzo… se muore io l'ammazzo. Te lo giuro Samuel se lui muore Io l'ammazzo conqueste mani..-
-chi ammazzi Leks, chi muore.. chi??-
-DOMINIK! QUELLA GRANDISSIMA FIGLIA DI PUTTANA GLI HA SPARATO A DOMINIK CAZZO..!-
Sono grato anche quando Samuel mi spinge via, trascinandomi vicino la macchinetta del caffè, sperando di riuscire a calmarmi con una camomilla che sa di acqua. Lui parla, mi abbraccia, mi sposto, cammino avanti e indietro percorrendo le stesse quattro mattonelle bianche per venti volte prima di lasciarmi cadere sulla prima sedia utile e passarmi le mani fra i capelli già tartassati dalle dita irrequiete. 
-Leks… tranquillo, okay? Tranquil_.-
-Non dirmi di stare tranquillo, quel cazzo di proiettile era mio, MIO. …Non dirlo Samuel…-
-Va bene!- sospira, si lascia cadere accanto a me. Ma lui non si sta sgretolando dentro. 
-Va bene… ma… Leks, tu devi sapere che Dominik non si arrenderà facilmente. Tu lo sai Leks… lo sai meglio di chiunque altro. Tu l'hai visto combattere quando tutti noi ci aspettavamo che sarebbe crollato, tu hai visto fino a che punto il suo coraggio l'ha portato. Lui era sempre lì, e tu lo sapevi.-
-Il suo coraggio lo ucciderà anche questa volta.-
-Il suo coraggio- e qui Sam è come non l'ho mai visto: la verità sulle guance, gli occhi lucidi di fresca rugiada, la sicurezza di qualcuno che non ha idea di come andrà a finire, ma ci crede lo stesso, -lo ha portato in quella sala operatoria, e il suo coraggio lo riporterà indietro.-
-E' solo Sam.. è solo fra la vita e la…- 
-Dominik è sempre stato solo quando combatteva Leks… lui non si lascia aiutare… non lo vorrebbe neanche adesso il tuo aiuto. Tu puoi stargli vicino ma è lui a salvarsi… e a decidere se vuole tornare da te. Ma tornerà, tornerà…- mi abbraccia e questa volta semplicemente mi arrendo. 
Sì, mi arrendo. Non sono il chirurgo in quella sala operatoria -lì c'è mia madre- con il bisturi in mano e il sudore in fronte a stillare ogni goccia di sangue dal corpo di quello stronzetto per recuperare un pezzo di ferro che vuole estinguere a morsi la sua vita. Non ho la minima capacità di scelta sulle sorti di questa notte. 
Mi arrendo, perché lui è più forte. 
Lo è sempre stato. 
Non sul campo da Judo, né nelle relazioni col mondo… lui lo è nella vita. Nel sorridere quando meno te lo aspetti per una stupidissima cosa che tu neanche avresti notato, e nel mentre ridere insieme a lui perché la sua risata è così dannatamente travolgente e scoprire che le tue labbra possono distendersi molto più di quel che credevi. E' stato più forte dei suoi demoni, quando quelli gli sibilavano di stare alla larga da me che certe cose non cambiano, che certi errori non perdonano. 
-Signor Lubomirski, ora dobbiamo farle quelle domande. Non si può più aspettare.-
Ed è vero, fottutamente vero che certe cose non cambiano, che siamo ancora qui, in un ospedale bianco, alle due di notte, a causa degli errori che abbiamo commesso ancora. e ancora e ancora. 
-Arrivo.-
Come due trapezisti che si prendono e si lasciano e volteggiano in venti impetuosi e cadono sempre in piedi. 
Ma questa volta ti terrò. Non lascerò quella mano. Dovessi cadere anche io insieme a te.
Seguo un'uniforme scura e una giacca grigio fumo in qualche stanza deserta, in qualche ala dell'edificio, in qualche angolo sperduto della mia mente.
Mi sono arreso, ma non rimarrò immobile ad attendere che mi dicano che non potrò stringere le tue costole con le mie mai più.
-Ci spieghi signor Lubomirski, dall'inizio. Gradisce un caffè?-
-Non le sembro già abbastanza agitato?-
-Se dobbiamo essere sinceri, lei ci sembra sul punto di urlarci contro.-
-Non lo farò.-
-Perché no? Ne avrebbe i motivi.-
-Perché quando avrò finito di raccontare cosa è successo questa notte non sono sicuro chi sarà il primo a farlo.-
 
***
 
-La pistola che reggeva la ragazza cade a terra, davanti a lei. E' quella con cui ha sparato. Sembra che l'abbia lanciata via, in realtà l'ha solo lasciata andare… mentre guardava fisso il corpo a terra, sanguinante, che lei ha amato fino alla follia. La follia pura. Quella vera. Non è una metafora. Non è romanticismo. Il ragazzo dietro di lei la spingeva… la incitava… voleva scappare con lei non appena quel proiettile ha trapassato la carne ma… lei era assente, era… incredula. Era esterrefatta: aveva perso il controllo di sé e delle proprie emozioni. La vendetta è un piatto che va servito rosso, commissario.-
-Quindi tutto è successo… in funzione di una vendetta? Perché.-
-Perché, come le ho detto, è follia.-
-La ragazza, Sylwia Zielinski, a quanto ci risulta, ora è in centrale. Potrebbe essere trasferita in prigione non appena l'interrogatorio a cui la stanno sottoponendo terminerà. Ma se è follia… potrebbe non poter essere arrestata. In quel caso verrebbe immediatamente trasferita in un Centro di Igiene Mentale.-
-Se non è folle… fingerà di esserlo.-
-La crede così subdola?-
-Io l'ho vista impugnare una pistola e premere quel dito sul grilletto con la stessa audacia che ho io durante un incontro di Judo, quando sto per sbattere l'avversario al tappeto. Non aveva remore negli occhi, non aveva dubbi. Non aveva pietà. Dominik Santorski… il mio, Dominik Santorski, sta lottando per rimanere in vita in questo preciso istante, è in sala operatoria da tre ore, non so se lo rivedrò mai vivo e lei mi chiede se io credo quella donna così subdola? Io credo che il diavolo abbia un valido concorrente. E' folle. E coraggiosa. E mi creda, commissario, non esiste accoppiata peggiore.-
Gli agenti annotano tutto, come silenziosi aliti di vento in un giorno afoso, non sollevano neanche lo sguardo quando dico: "Spero che ci marcisca in quel manicomio."
-Non è un manicomio..- mi ricorda il commissario.
-Non me ne fotte un cazzo.- gli ricordo io. 
-Moderi il linguaggio Signor Lubomirski, io sono dalla sua parte. Ma deve dirmi la verità. Come conosce Sylwia Zielinski?-
Vorrei prendere a calci una sedia, alzarmi di scatto, urlare. Dio solo sa quanto mi costa sfogare ogni singolo pelo ritto dalla paura del mio corpo in un ritmato e costante ticchettio della scarpa sul pavimento bianco.
-Non si può conoscere Dominik senza conoscere anche lei. 
Il distintivo sula divisa dell'uomo coglie il luccichio del suo sguardo quando lo posa su di me. Non può più aspettare.
-Cosa glielo fa pensare?-
Ma dovrà farlo. 
Romek Lubomirski non è uno che si fa attendere. Prorompe nella stanza come un uragano dal cipiglio severo e allarmato. Urla qualcosa contro le guardie, mi trascina fuori, mi chiede se respiro per la capacità dei miei polmoni di immagazzinare aria o ho un respiratore attaccato da qualche parte. 
Non so cosa rispondere, le immagini scorrono in fretta, i pensieri non si fanno afferrare, libellule libere in un mare rosso. La notte è rossa. 
Saranno le due, le tre.. ore infuocate fra le corde vocali che hanno perso la facoltà di articolare suoni comprensibili al genere umano; ore infuocate fra i rintocchi di quell'orologio alla parete che sorride malevolo e sgangheratamente crudele.
-Se qualcuno non mi dice come sta nel giro di cinque secondi Dominik non sarà l'unico ad aver bisogno di una sala operatoria stanotte. Ehi tu!-
Un ignaro infermiere in un camice troppo largo per le sue occhiaie si volta come se gli avessi iniettato una siringa di anfetamina. Probabilmente lo avranno avvisato dal guardarsi dal pazzo in jeans e felpa grigia e sangue che ha preso d'assalto i corridoi di chirurgia dell'ospedale fra mezzanotte e le due.
Appena mi guarda, capisce che sono io quel pazzo, realizza che la sua posizione da infermiere non è delle più comode, e scappa.
Appunto.
E io lo inseguo.
Appunto.
Per essere magro e pallido e assonnato le sue gambe si muovono bene. 
Ma io ho una ragione in più per raggiungerlo. 
E lo raggiungo, prendendo in pieno con un ginocchio un carrello appostato davanti ad una porta. Qualche ago, qualche garza, qualche calmante vola in aria. Una busta di sacchetti per il vomito mi cade in testa, l'infermiere grida terrorizzato, lo atterro con quello che in Judo è chiamato "il salto del toro".
A me sembra solo il salto di un disperato con i vestiti che puzzano di sangue rappreso e un sacchetto in testa. 
Non devo essere un bello spettacolo, con buone possibilità Jack Lo Squartatore sarà stato meno inquietante con quella sua aria ombrosamente ironica da assassino seriale. 
Io sono soltanto un diciottenne con il sudore fra i capelli, la mano sul sedere di uno povero disgraziato che tentava di fare il suo ingrato lavoro nel reparto sbagliato al momento sbagliato e la tachicardia al posto delle ossa.
Afferro le cartelle fra le sue mani. Il suono dei miei passi pren la rincorsa.
-Leks... per l'amor del Cielo!-
E Samuel insegue me.
Appunto.
-Cos'è, un film su James Bond in cui tu fai il ladro?! Fermati!-
Mi fermo solo quando posso rinchiudermi dietro la porta del bagno. Lascio che Samuel mi raggiunga prima di girare la chiave due volte come se un branco di rinoceronti stia per sfondare la porta.
-Aleks…ander… che CAZZO stai FACENDO?!-
-Quello che avrei dovuto fare un paio di ore fa.-
-Stai diventando… melodrammaticamente teatrale... come lui, lo sai?-
-Lui si sta facendo sbudellare da un bisturi elettrico perché ha nelle vene un fottuto proiettile che toccava a me! Il minimo che possa fare è..-
-Lui ha parecchie cose nelle vene che avrebbero potuto ucciderlo, non l'hanno fatto, non sarà di certo un proiettile a..-
-Non è il momento di giocare a poesia Sam! Io devo sapere quanto grave è. Io devo sapere se devo rassegnarmi al fatto che non lo rivedrò mai più perché credimi, non è una cosa a cui mi rassegnerò.-
-Aleks… almeno cambiati questa felpa, puzzi di zombie!-
-La tua delicatezza mi commuove… coglione.- 
Mi strappo i vestiti di dosso buttandoglieli contro come un pallone da Basket. Samuel mi aiuta a pulire il pulibile della mia pelle. Vi è qualche segno rossastro di dita e qualche livido di botta a costellarmi il torace mentre la mia sanità mentale sta iniziando a fare le valigie insieme all'autocontrollo e tutto ciò che posso fare è togliere i residui del sangue di Dominik dalla mia pelle.
Potrei morire.
Ma non lo farò. 
Ci sarà tempo per morire se lui non esce da quella sala operatoria. 
-Tieni, ti ho portato un cambio..- si volta con una t-shirt bordeaux in mano. -E non aprire quella cartella!-
Non ci posso credere. Credo di aver mostrato i denti e nello stesso tempo strappatomi qualche capello prima di urlare, con un grido esasperato e istericamente sconnesso "C'è il nome dell'unico figlio di puttana per cui abbia mai perso la testa su questo foglio!"
Non saprò mai se qualcuno sentì quello che dissi in un ospedale enorme con una mano metaforicamente sul cuore e una stretta alla gola perché non avevo mai urlato la verità e non l'avevo mai urlata così forte. Non credevo neanche di saper urlare prima di quella notte. 
Prima che il ragazzo di cui sono innamorato non stesse prendendo a morsi la morte.
Persino Samuel si incanta, consapevole che il suo interlocutore non può essere il leggendario Aleksander Lubomirski, ma una sua fedele copia giallastra e con le unghie premute nelle morbide carni delle mani. 
Consapevole che non si può tornare indietro dopo che le parole affondano come sassi nei tessuti dell'accettazione.
Sì, perché alla fine ho dovuto accettarlo -non so come, e non so quando- che ho davvero perso la mia testa dai castani capelli gellati al limone per quella color dell'abito di Armani che ho nell'armadio: nero. 
E' il vestito più bello che ho. 
Non lo indosso quasi mai, ma non ho dubbi che se lo indosso sembro un re.
Perché è questo che mi fa sembrare Dominik: un re. 
Ma ho la corona solo se è lui a porgerla sul mio capo, perché solo lui conosce la combinazione della cassaforte in cui è conservata. 
E se quel bisturi non farà il suo lavoro, e mia madre non riuscirà a fare il dovere per cui ha fatto un giuramento, io non avrò perso soltanto l'unico che voglia, ma anche la parte migliore di me. 
Ed è egoistico il pensare che tutto giri intorno a me anche, persino in questo caso, ma quella emotiva testolina nera armata di folle coraggio suicida è anche questo. E' la parte migliore di me. 
E sono il primo a vomitare per le frasi smielate e il romanticismo adolescenziale da quattro soldi, e questa "massima" l'ho vista scritta almeno venti volte sulle dediche d'amore dei Social Network che in fondo mi fanno pure schifo, o come descrizione di una qualche foto che di poetico aveva solo la scollatura, ma non ho altri mezzi per descrivervi la situazione.Per descrivere come mi sento.
Perché io ci sto provando davvero a descrivere come mi sento, e so che sto fallendo miseramente, ma non ho altre parole. Le ho perse tutte nello scarico delle voci di Samuel e del buonsenso che mi incitano a restituire la cartella, a starmene buono su una sedia, ad attendere che il tempo smetta di prendersi gioco di me. 
Farò al massimo una di queste cose. 
Che il destino inizi a contare.
Apro la porta di scatto e mi trovo circondato da una baraonda di sguardi austeri, contrariati, comprensivi, dolci, indifferenti. Puoi trovare di tutto in un ospedale. Quando il dolore vibra fra le pareti e la speranza passeggia per i corridoi gli essere umani diventano bizzarre creature interessanti.
Lascio che qualcuno si prenda le carte e che Beata Santorski si avvicini. 
Ha la matita sbavata sotto a un occhio e le labbra esangui. 
Ma il suo corpo è fermo, le sue mani intatte, il suo orgoglio a testa alta come la Tour Effeil. 
Il mio credo di averlo pestato cento volte stanotte, reca i segni di pugni e unghie. Il suo è eretto nei suoi occhi lucidi, scuri e così diversi da quelli che ho imparato ad associare al suo cognome. E' strano.
Proprio nei momenti in cui la mia corazza dovrebbe diventare più spessa e la loro sensibilità più fragile, io mi accartoccio e questi tipi si trasformano in uragani di emozioni umanamente intoccabili. 
Mentre io mi ripiego su me stesso, lei mi osserva come se non fosse giunta ancora al verdetto. L' assoluzione o la condanna.
Il padre si rifiuta di voltarsi, ma lei incrocia con i miei i suoi occhi impenetrabili come muri eretti, ostinati e spossati, e sta per dire qualcosa. Lo vedo delle sue labbra con un pallido residuo di rossetto. E' il mio ultimo attimo di lucidità, prima che una figura in tuta verde acido riempia il corridoio con la verità.
-Dominik Santorski è uscito dalla sala operatoria. Le prossime due ore saranno decisive. Non sappiamo se l'intervento è riuscito, ma abbiamo fatto tutto il possibile.-
 
***
 
Il silenzio è assente. Lo è.
Ma nessuno riconosce la differenza fra un silenzio carico di parole e parole cariche di silenzio.
Come nessuno vede la differenza fra un colore e un altro. Bianco… nero…  per il mondo non sono neanche colori. Sono io che stamattina volevo indossare il nero. 
Lo  avevo scelto, fino a quando anche mio padre è entrato nella stanza e ho dovuto sorbirmi la sua predica mattutina che riserva alle giornate importanti, puntando il suo elegante dito indice verso una camicia candida. Questa camicia candida.
Come tanti sono gli occhi del liceo che si preparano alla botta finale.
 Sono sorridenti, schiamazzano e camuffano in mezzi sorrisi l'ansia da prestazione. Come se un voto possa cambiare qualcosa. Come se una camicia di un altro colore possa fare la differenza. 
Ma per me stamattina l'avrebbe fatta.
Aleksander Lubomirski, figlio di Barbara e Romek Lubomirski, primario in chirurgia l'una e affermato avvocato l'altro, con il nero in un giorno come questo. 
Aleksander Lubomirski con il nero fra i corridoi del suo regno.
Aleksander Lubomirski è il re di questa scuola.
E molti cercano il loro sovrano nel volto serio del sottoscritto. 
Anche io lo cerco, ma non avrò più fortuna di loro. 
Perché avevo scelto il nero e ancora una volta non sono riuscito a tenermelo. Arriva sempre qualcuno:  il destino, l'invidia, l'orgoglio, mio padre a persuadermi che non è la scelta giusta e io gli lascio credere che hanno ragione, che ho capito e che non lo farò più.
Ma la verità… la verità volete sapere qual è?
E' che, se mi lasciano libero di scegliere, io lo rifarei.
Posso avere i violini come colonna sonora di questi pensieri? E' lui lo strumento giusto, perché è struggente, malinconico, ha il suono del non ritorno. 
Siamo realmente tornati all'inizio? Stiamo fingendo ancora una volta, come mille altre volte, che non sia accaduto niente? Non mi avrete, non questa volta.
- Amore noi andiamo in Aula magna, tra quindici minuti tocca a te. Mi raccomando Aleksander non fare tardi, sai com'è tuo padre. -
- Sì mamma, sarò puntuale. -
Sorrido a mia madre, scambio un cinque con un ragazzo del corso di lingua, attendo che la testa d'oro di Samuel spunti dalla porta per attraversare insieme il varco del futuro.
Ma la testa che varca la soglia non è d'oro.  
Anzi, non c'è niente di più lontano dall'oro di quel colore.
E' da dieci giorni che non lo vedo. Dieci giorni in cui avrebbe potuto essere vivo, morto, paralizzato, con qualche danno permanente e invece eccolo lì, grondante vita. 
Che figlio di puttana.
- Dominik. -
Lui intrattiene qualche rapporto di convenevoli, ma mi sta già guardando. Sorretto da Samuel. 
Quel grandissimo, mastodontico, pezzo di stronzo.
No, non Samuel.
Si comporta come un ospite, con la discrezione dei sopravvissuti.
Mormoro: -Nik-, e lui mormora quello che somiglia ad "Aleks", perché anche se non lo sento, l'eco dei suoi passi è simile ai respiri del vento.
Faccio dietrofront  e al diavolo il bianco, mio padre, l'esame finale, i capelli rosa, i computer, le pistole, gli skateboard e pure il Judo. Faccio dietrofront, ma verso di lui.
Scusa papà, ho scelto il nero.
Lo raggiungo, ma non mi accontento,  lo afferro per la vita, gli prendo il viso con la mano e lo bacio.
Come se non avessi cento paia di sguardi appuntati addosso.
Come una vendetta, come un dispetto alla vita. 
Lo bacio e neanche senza una buona dose di esibizionismo, e quando ricambia avvolgendo la sua lingua alla mia so che non l'ho sorpreso, che ho sorpreso tutti stamattina in questo corridoio, ma non lui.
Le labbra di Dominik sono calde, le mie gelide, e il loro contrasto mi da la sensazione del ghiaccio sulla pelle nuda. Siete mai riusciti a descrivere il momento esatto in cui il ghiaccio bacia la carne accaldata? 
Ecco, appunto. Io mi sento così. Come dopo una bottiglia di vodka, come dopo un sorso di vita. 
Qualcuno fischia, qualcuno urla, Karolina ha preso le sembianze di un murales tanto è diventata un tutt'uno con la parete. 
Ha ragione, dopotutto questa volta non aveva chiesto nessuna scommessa .Ma non si può essere re senza l'altra metà del trono. Che sia una principessa o un principe, il problema non mi tocca poi tanto, visto che Dominik è capace di essere entrambi. 
Sicuramente è una prima donna. Certamente lo è più di lei.
E sicuramente mi squarterà per il fatto che la mia mano è ancora sulla sua nuca davanti a tutti, ma se c'è qualcuno che può farlo -rompermi in tanti piccoli pezzettini e poi saltarci sopra- questo è lui.
-Devi andare.-
-Tu vieni con me.-
-Ti assicuro che non morirò.-
-Che non morirai questo è sicuro. Che ci proverai… beh… è un'altra storia.-
-E' il potere dei suicidi.-
-Solo io posso ucciderti.-
-Ha. Ha. Ha. Sai bene che sei piuttosto scarso in proposito.-
-Non smetterò mai di provarci, sei il mio Karma.-
-Vallo a piangere su Facebook.-
La provocazione è recepita, il suo sorriso una minaccia.
-Tu nel frattempo non creare un club di invasati delle sfere di cristallo con piumini rosa.-
-Guarda che il rosa è il nuovo nero.-
-Questo vuol dire che ti vedrò con i capelli color piumino?-
-Neanche se mi paghi.-
-Se ti pago in natura?-
-Possiamo pensarci.-
Mi spinge tornando ad appoggiarsi a Samuel.
La ferita al costato deve essere ancora dolorosa, ma la lingua schiocca come sempre.
-Quando i pezzi del tuo puzzle tornano a posto posso darti lezioni di Judo.-
-Solo se questa volta cambiamo location.- 
Sorrido. 
-D'accordo. Ma ehi, Nik!- grido entrando in Aula Magna -Sopra ci sto sempre io.- 
Bacia il dito, prima di mostrarmelo.

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Capitolo 21
*** -Epilogo- ***


Hello… it's me. I was wondering if after all these years potrete perdonare questo immenso, colossale, megagalattico ritardo che io chiamo "pubblicare" e che voi chiamerete "riesumare."
Ma ho già in mente il primo capitolo del sequel, quindi non temete, non vi libererete così facilmente di me, come io non mi libererò così facilmente di questi personaggi che oramai sono parte anch'essi del calcio delle mie ossa.
Ebbene sì, sono riesumata e con L'ULTIMO capitolo di Too frail to live, too alive to die.  Roba da non credere. So già che quando cliccherò sul pulsantino "completa" nevicherà o la deriva dei continenti si accelererà del 45% poichè è la prima volta che chiudo una fan fiction a capitoli (sono un danno, I know). 

Ci tengo a ringraziare con tutto il cuore coloro che hanno seguito la storia e le sono stati fedeli fino alla fine, attendendo pazientemente ogni nuovo capitolo, tollerando i miei tempi incostanti e donandomi ogni volta, puntualmente, nuove visite e recensioni. Risponderò con calma a chi non ho risposto e leggerò tutte le fan fiction pubblicate recentemente in questa sezione perché no, non mi sono dimenticata di voi, della promessa di un sequel e della passione che mi lega a questo film.

Ringrazio Suicide Room che mi ha cambiata molto di più di quanto sembri, spalancando le porte di un mondo nuovo: quello slavo, quello della depressione e dei disturbi mentali, quello di un modo di fare cinema totalmente diverso, proiettandosi nelle mie scelte con il suo impatto. (per non citare neanche non la finestra, ma il portone a 4 battenti che mi ha aperto sull'ineguagliabile bellezza delle Slash. Da questo non credo si guarisca.)

E ringrazio MegaraX che mi è rimasta al fianco in questo viaggio, dal 2014 sino ad oggi, da quando faticavo a comprendere Aleksander sino ad averlo pronto sulla punta delle dita grazie ai nostri infiniti discorsi e alla sua infinita pazienza. Co-protagonista indiscussa dei miei poco rassicuranti voli mentali e delle ipotesi su scenari apocalittici per capire meglio come il nostro pallone gonfiato preferito avrebbe reagito, questa storia non sarebbe stata lo stesso senza di te. Leggendoti ho imparato a dare più ritmo alle mie parole, intervallando i monologhi dei sentimenti e il predominio che l'interiorità ha da sempre nella mia scrittura, e a rendere più consistenti ai dialoghi.

Stravolgendo la fine del film e scrivendone un nuovo inizio ho sperimentato, cambiato, scandagliato ogni più piccolo dettaglio del mio stile, lanciandomi in un mare aperto di possibilità.
Too frail to live, too alive to die è stato il mio campo di battaglia, il ramo dal quale spiccare il volo verso orizzonti diversi e più lontani. Fu la prima volta in cui scrissi una storia lunga in prima persona, ma ora come allora, sembrò assolutamente naturale dover fare così con questi personaggi, quasi temessi di non riuscire a dare abbastanza dignità all'introspezione che mi è tanto cara e alla grandiosità delle loro emozioni. 

E ovviamente, per restare coerente con il mio dinamismo mentale (leggersi "insane") ho scritto questo ultimo capitolo in terza persona (e al passato), perché senza rendermene conto è nato così, e così evidentemente doveva essere.

Spero di rivedervi al sequel, "Cross my heart, that I'll die for you",  e spero che abbiate amato leggere questa storia tanto quanto ho amato io scriverla.

(Pssst...
Auguri di un felice anno nuovo a tutti voi!)
 

Pachiderma Anarchico.
___________________


 

 


Epilogo

 

 

 

-Non posso credere che l'hai fatto.-
-Pensi che io mi sarei mai aspettato di limonarmelo davanti all'intera scuola?-
Uno dei quattro storse il naso.
-Ah, pardon, a Dominik non piacciono questi termini volgari per "svalorizzare" i sentimenti.-
Aleksander si sporse dalla sua sedia girevole verso il suo letto a due piazze blu magenta con un sorriso ironico sul volto per scompigliare la testolina mora che vi si era appollaiata sopra con il suo computer ultra-sottile in grembo. 
Questa, per tutta risposta, gli mollò un pugno sull'avambraccio.
-No, dico davvero, avete visto la faccia di Karolina?- Samuel quasi non batteva le mani dall'euforia. -Avrei tanto voluto avere i popcorn e una macchina
fotografica.-
-Quell'oca spelacchiata ha avuto quello che merita, finalmente.- aggiunse Sandra, i capelli arancioni legati in una coda scomposta e le gambe da skateboarder fasciate da lunghe calze a righe. 
-Quello che si meritava? Se fosse stato per te l'avresti messa sotto con il camion di tuo padre.-
-Sì… anche. Ma Aleksander è stato di gran lunga più divertente.-
-Divertente.-
-Ha! Nik, per cortesia, non incenerirlo, è il mio nuovo supereroe.-
-Un po' di Magda mi è dispiaciuto però… Voglio dire- si affrettò a continuare il biondo, poiché gli occhi combinati di Sandra e Aleksander erano una promessa d'omicidio, -era davvero invaghita di Leks.-
-Ha baciato Dominik.-
-Ehilà, gente, non utilizzatemi come capro espiatorio, voi due non la sopportavate già da prima e per altre ragioni.-
-Io non la sopporto perché ti ha baciato durante il gioco della bottiglia.- ribattè Aleksander, incrociando fermamente le braccia al petto.
-Io… Nik ha ragione, non la sopporto da questo preciso istante: perché ti sarebbe dispiaciuto per lei, Samuel caro?-
Aleksander e Dominik si godettero lo spettacolo di vedere Sandra soffocare Samuel tra gli enormi cuscini del letto, senza grandi possibilità di ribaltare la situazione: la ragazza era nettamente più forte del suo fidanzato.
-Io ti distruggo!-
-Magari puoi farlo dopo Sandra, mi serve per il College.-
-College o Università?- riprese la ragazza con un cipiglio malizioso. -Perchè in Polonia si chiama Università… ma all'estero potrebbe chiamarsi College…-
-Afferrato bionda.- Leks avvicinò il pouf a sé e vi distese le gambe. -In ogni caso non ho ancora deciso, però devo dire che College fa più figo.- Ci pensò su un momento, sollevando gli occhi su un punto imprecisato del soffitto. Alla frase mancava qualcosa. 
-Non che io ne abbia bisogno.-
Samuel sotterrò la testa sotto a un cuscino, Sandra fece finta di lanciarsi con una caduta plateale dalla finestra e Dominik mimò l'atto di uccidersi. 
Il che risultò alquanto credibile, considerando che aveva una ferita non ancora del tutto rimarginata all'altezza delle costole che era stata a tanto così dall'ucciderlo per davvero.
-Beh.. figo, noi andiamo da tua madre, voleva dirci qualcosa prima.-
Samuel sembrò risvegliarsi da un sonno molto lungo. -Che?-
-Da sua madre Sam, dobbiamo andare da sua madre.-
-Da Barbara? Ma.. perché? Prima non ha detto nie..-
-Samuel, andiamo dalla signora Lubomirski perché -Samuel- voleva dirci qualcosa, prima.-
-Ah… aaaaah… Sì, certo, certamente. Andiamo… eh, Sandra, potevi dirlo prima no? Andiamo…- 
Sandra si tirò appresso il biondo con impaziente stizza e, prima di chiudere la porta della stanza, tutti poterono avvertire un distinto -IDIOTA- sibilato dalla ragazza.
Aleksander sbuffò in una mezza risata, Dominik aveva gli occhi incollati allo schermo del pc e non prestava attenzione all'ambiente circostante.
-Hai cambiato la situazione sentimentale su Facebook.- furono le sue le uniche parole.
-Sì.- annuì l'altro, con una noncuranza che non provava affatto.
-Perchè.- 
Non fu il "perché" più rassicurante dell'universo quello che sgusciò come un missile nucleare ad alto grado di combustibilità dalle labbra del moro, e Aleksander lo capì subito
-Perchè credevo che fosse ora.-
-Aleks, non abbiamo parlato affatto di quello che è successo alla festa, né di quello che è successo dopo la festa.-
-Credevo di averti dimostrato… qualcosa poco meno di quattordici giorni fa Nik.-
-Hai spifferato ad Asher che ci siamo baciati in palestra quel giorno degli allenamenti corpo a corpo.-
-Lo so..- il ragazzo sospirò, passandosi una mano fra i capelli spettinati ad arte. -Lo so. Non è stata una delle mie.. mosse più brillanti, d'accordo? Ero sotto pressione, tartassato dagli allenamenti di Judo e dagli esami finali, con Magda cotta a puntino da un lato e te dall'altro che mi degnavi di uno sguardo solo per ricordarmi quanto fossi stato stronzo prima che tu... sparissi... dalla scuola, e ho fatto quello che so fare meglio: camuffare le mie reali intenzioni.-
-Ti sei sentito a disagio a causa di come ti guardavo?- Nik sbattè le palpebre, chiaramente sorpreso.
-Mi sono sentito una merda Dominik.- 
Aleksander non riuscì a credere di averlo detto, almeno non ad alta voce e non a lui, ma se doveva dimostrare qualcosa quella "maturità" tanto valeva iniziare subito.
-E l'ho rifatto. Ho fatto lo stronzo un'altra volta, spiattellando a quel bastardo quello che era successo in palestra.-
Dominik tamburellò con le dita sulla tastiera, senza realmente schiacciare nessun tasto e sbandierando gli occhi da una parte dello screen all'altra.
-Ci sono trecento mi piace Leks…-
-E allora? Qual è il problema Nik, non ho sputtanato nessuno questa volta, non ti ho taggato in un video con dei pupazzetti idioti ed esilaranti.-
-Esileranti?- ripetè il ragazzo, inarcando un sottile sopracciglio nero.
Aleksander sospirò, lasciò andare con le gambe il suo amato pouf morbido e impregnato del suo profumo costoso e avanzò verso di lui.
-Facebook non è importante.-
Dominik gli palesò tutto il suo scetticismo serrando le labbra e incrociando le braccia in una classica posa alla "ti faccio il culo se ti avvicini ancora". 
Perché il suo incrociare le braccia era un serrare le braccia con fare un tantino belligerante, stringendo le unghie delle mani sulla pelle e arricciando pericolosamente la bocca.
Aleksander si arrese. -Okay, è importante. Ed è per questo che ho cambiato anche la tua situazione sentimentale.-
-Che cosa hai fatto?-
-Eh, non potevo cambiarla solo io, sarei sembrato un coglione.-
-Lo sei.-
Aleksander tentò di scalfire l'espressione contrariata del moro con un labile sorriso, ma quello aveva il chiaro intendo di farlo fuori.
-Come hai avuto la password.-
-Non sei l'unico bravo con la tecnologia. Ho chiesto ad Asher un anno fa come si facesse a scoprire le password degli account di Facebook.-
Dominik fece per alzarsi di scatto nonostante il taglio all'addome. 
Fu più lento di quanto avrebbe voluto essere nel momento in cui aveva deciso di sbattere in faccia ad Aleksander in una delle sue celebri uscite teatrali, quando quest'ultimo lo afferrò (delicatamente, per carità) da un polso e fermò la sua fuga.
-Eddai… vieni qui.-
Dominik lo guardò, sbuffò infastidito e si sedette sul bordo del letto, pronto a mandarlo malamente a quel paese e rifiutandosi di incrociare ancora una volta i suoi occhi con quelli dell'altro.
-So che non ti piace quando le persone fanno qualcosa in cui c'entri anche tu e non chiedono il tuo parere, e che odi quel Social Network e tutto ciò che significa. Per non parlare di quanto detesti le smancerie… e questa è una smanceria. E io non posso darti che ragione, sul serio, ti sembro tipo da stato sentimentale su Facebook?- Aleksander si bloccò un attimo, giusto quei secondi che cambiarono il suo tono da lieve a dannatamente serio. Quasi vendicativo. 
-Però devono saperlo. Devono sapere che non sono riusciti ad ucciderci. E non sto parlando della terrorista travestita da confetto rosa o di quel figlio di puttana informatico di Asher, ma di tutte quelle serpi che hanno tramato contro di te così come hanno tramato contro di me. Quelli che io chiamavo "amici" e tu "società".-
Aleksander attese, attese che Dominik dicesse qualcosa, facesse qualcosa o che lo fermasse dal dire ciò che stava per dire. 
Ma Dominik continuava a non guardarlo, seppure i contorni del suo viso avevano assunto una piega meno rigida.
-Non mi interessa quello che ti ho detto, non mi interessa se ci hai creduto: ho mentito.- 
Il ragazzo si appoggiò su quello spiraglio di luce per abbattere le sue difese, o quantomeno varcarle.
-Non penso che giochi a fare la vittima, non penso che tu sia un arrogante frocetto, non penso niente di tutto ciò. E mi dispiace se ci hai creduto, perché ci ho creduto anch'io. Vivevo nello stesso ruolo che mi ero cucito addosso e per un attimo ho davvero pensato di rimanere così, essere… la persona che tutti si aspettavano che fossi. Ma quando ti ho visto andare via dalla mia festa quella notte, o quando ho visto Asher su di te, o quando… quel proiettile ti è entrato dentro, ho capito che non volevo più essere quella persona, se significava che tu… beh.- La mano svolazzò in aria in un vago gesto che poteva significare soltanto una cosa: "crepare".
-Wow, che eleganza.-
Ma il moro ormai stava sorridendo, anche se tentava con ogni forza di sopprimere quella smorfia contratta, mordendosi una guancia e l'orgoglio che danzava negli occhi.
-Dovrai fare più di questo, lo sai?-
-Ehi.- Aleksander si piegò su di lui, i loro respiri si intrecciarono. -Tu non sei mica un santo.-
-Cosa te lo fa pensare?- sussurrò di rimando Dominik, lasciando che le sue labbra soffiassero su quelle dell'altro. 
-Mmh.. vediamo… il fatto che mi hai spinto nella mia piscina vestito con un completo da mille szloty?- si avvicinò. -O perché mi hai tirato uno schiaffo a mano aperta in pieno viso?- una delle sue mani bronzee percorse il profilo del suo collo bianco. -O perché mi hai detto che non eri mai stato con nessuno e sessanta secondi dopo eri nel mio letto?- lambì con indice e medio il mento del ragazzo. Dominik sollevò appena la testa, assecondando i suoi tocchi ma senza smettere di sfidarlo.  -O perchè negli spogliatoi, il primo giorno in cui abbiamo parlato dopo il tuo ritorno a scuola, mi hai schiaffato la mano lontano dal tuo viso?- il dorso della mano tentò di sfioragli uno zigomo ma Dominik la spinse via, ancora.
Ma questa volta Aleksander era pronto.
L'altra mano gli ghermì il volto e lo avvicinò a sé, coprendo le labbra del moro con le sue, stuzzicando la carne piena del suo labbro inferiore con la lingua. Dominik si divincolò ma stette al gioco, semplicemente non poteva in alcun modo fingere che la bocca dell'altro non lo mandasse su di giri. 
Ma per poco.
Aleksander notò qualcosa nell'angolo del suo campo visivo e semplicemente non potè ignorarlo. Anche se stava baciando le labbra che gli avevano sempre fatto perdere la testa, la vita a volte si riduce soltanto ad una mera questione di priorità.
Era difficile non notarle -nonostante la pelle chiara che ricopriva come una distesa di neve i polsi di Dominik- le sottili strisce di carne persino più chiara, più lucida, più tirata sulle vene. 
Aleksander fece fatica, nonostante tutto, nonostante avesse visto il sangue del ragazzo più volte di quante competizioni di Judo avesse vinto, ad immaginare il rosso fuoriuscire da quelle porte lisce e surreali. 
Come varchi per l'inferno, come sussurri spietati di fuoco e cenere, non smise di fissarli neanche quando avvicinò due dita alle cicatrici dei suoi tagli. 
Lunghi, troppo lunghi, una di quelle lingue si diramava fin quasi al gomito. 
Ma non fece in tempo neanche a pensare di percorrerla con un polpastrello che Dominik ritrasse le braccia come se si fosse scottato. 
Scosse la testa e i suoi occhi si persero lontani; si alzò una seconda volta, ma per murarsi vivo in qualche stanza buia, nei recessi dei suoi pensieri, nei coralli sanguigni dei suoi ricordi dove una pallida donna dai capelli di velluto sfatto era la sua unica ancora in questo mondo. 
No.
Aleksander non lo avrebbe permesso. 
Non di nuovo.
E la febbre che improvvisamente gli ribollì nelle ossa lo costrinse a stringergli l'avambraccio con troppa forza, quasi temendo che l'altro scivolasse via dalle sue mani come fumo.
Dominik si voltò e Aleksander vide ciò che non avrebbe mai voluto vedere nei suoi occhi: l'oceano più tempestoso rinchiuso in un piccolo, disonorevole e opprimente bicchiere.
Non tollerò un attimo in più quella manifestazione di diffidenza, come se Dominik pensasse di essere vincolato ad un'eterna partita di scacchi, in attesa del momento in cui lui l'avrebbe sbattuto fuori dalla scacchiera.
Furono i suoi due allarmati occhi azzurri a sospingere la mano di Aleksander nello stringersi a quella sottile dell'altro, invitandolo ad avvicinarsi a lui.
Non vi era alcuna traccia di scherzo, di risata, di rumorosi campanelli di leggerezza fra loro; il campione di Judo capì che questa volta non si poteva volgere l'attenzione altrove e dimenticare, comprese che essa era una delle lotte più difficili della sua vita, la conquista di un territorio arduo e impervio che Dominik aveva reso inaccessibile al mondo intero. Ma che voleva a tutti i costi.
Per potervi mettere piede avrebbe dovuto accostarsi al trono del principe e imparare a conoscere i segreti del suo regno.
Segreti racchiusi al centro di taglienti pietre preziose, rubini di rossi lapilli e cicatrici che dividevano le fiamme, ma non estinguevano il fuoco.
-Dominik.- mormorò, con gentilezza e cautela, ma senza girarci intorno. -Posso toccarle?-
E Dominik voleva dirgli di no, urlargli che non se ne parlava, che non era affatto questione di fiducia, ma una pura e schietta questione personale, perché non esisteva che mostrasse così, a viso aperto, i momenti in cui era caduto più dolorosamente, scritti sulle pagine inequivocabili del suo corpo. 
Le cicatrici sembravano così giuste nel mondo di Sylwia, ma ora erano così dannatamente sbagliate in quello di Aleksander, con l'oro alle pareti e le finestre spalancate sulla luce. 
Ma Aleksander non volle lasciar perdere. Perché non volle lasciar perdere? Perché desiderava imbrattare quell'oro di vernice scarlatta?
-Non ti faccio del male...-
Dominik era quasi furioso.
Quei segni erano una cosa fra lui e la colonna rosa che reggeva il tempio della sua anima.
Oh. Ma al diavolo.
Le cicatrici incise a fuoco nella sua carne non appartenevano a Sylwia, né tantomeno ad Aleksander, e avrebbe deciso lui e lui soltanto cosa farne di esse, se darle in pasto al buio o lasciare che qualcuno le toccasse.
E Aleksander aveva una certa luce negli occhi scuri, una scintilla di consapevolezza; Aleksander capiva davvero l'importanza di quel momento, il sottile filo di vetro oscillante sulla fiducia dietro un silenzio ombroso. 
Capiva cosa avrebbe significato per l'altro lasciarsi toccare nei punti in cui aveva sanguinato più copiosamente, spalancare il petto e lasciare che un altro di quegli essere umani imprevedibili ed egoisti vi mettesse le unghie; e fu questo a persuadere Dominik. 
Gli lasciò andare le dita, lo raggiunse sul letto, volse i palmi delle mani e così anche le braccia all'insù e lasciò che gli impertinenti raggi del sole di inizio Luglio danzassero su quelle macchie di oscurità. 
Scorse che l'altro aveva domande sulle labbra che smaniavamo per posarsi fra di loro: "Cosa si prova, quanto vicino eri dall'andartene per sempre, quante volte l'hai fatto, come sopportavi il dolore.." ma alla fine solo poche parole si tramutarono in suono, le più inaspettate.
-Sono stato io?-
Dominik lo osservò, forse per la prima vera volta e, lentamente, scosse la testa, come se non avesse fretta, come se se lo fosse aspettato.
-No, sono stato io.-
Non era fierezza il sibilo certo nella voce, solo le sue scelte che parlavano.
Aveva scelto lui di stringere quel coltello e aveva scelto lui di usarne la lama per incidere le sue emozioni su qualcosa che ne avrebbe poi recato i segni, e nessun altro. 
Almeno voleva essere l'indiscusso padrone della sua solitudine.
Ma Aleksander non lasciò spazio alla solitudine, la scalciò via con gli zoccoli di un cavallo irridente.
Si piegò sugli avambracci di Dominik e ne sfiorò le cicatrici, prima con le dita, piano, pianissimo, come se vi fosse scritto qualcosa di fondamentale, e poi con le labbra. 
Dominik sussultò, ma egli continuò a percorrerne il tracciato con diligenza, lasciando qualche bacio sui segni traslucidi, sotto i tremiti del moro. 
Tremiti che divennero brividi mano a mano che le labbra di Aleksander si facevano più vicine all'incavo del gomito, mano a mano che i demoni si dissolvevano come volute di nebbia in una cripta ai confini del mondo.
Dominik appariva sorpreso dai suoi gesti e quando Aleksander tornò a guardarlo, potè giurare di scorgere l'ombra delle lacrime fra le ciglia nere.
-Ti ferisci, ti salvi… Usi le stesse scale che ti portano sul fondo per risalire. Non devi mai nasconderle, chiaro? Mai con me.-
Dominik rimase in silenzio per attimi che sembravano eterni. Avrebbe potuto benissimo aver smesso di respirare cercando di non intaccare il peso di quelle parole pronunciate dall'unica persona dalla quale non si sarebbe mai aspettato di ascoltarle.
Decise che non era il momento adatto per continuare quella conversazione, non in quel frangente, in un mese come Luglio, in una stagione come l'Estate, con le voci allegre di Sandra e Samuel a contendersi le ultime fette di Sacher in cucina. 
Quindi disse quello che avrebbe portato Aleksander su un terreno sicuro, nella sua arena di gioco e provocazione, lontano dagli sguardi indecenti di ambiguità e sangue.
-Ho altri segni… sulle gambe.-
-Mmm… quelli credo li vorrò vedere stanotte.-
-Coglione.- ma Dominik sorrise, lasciando che Aleksander si concentrasse nuovamente su quello che aveva interrotto.
Perché Dominik inaspettatamente gli si inclinò addosso, schiuse le labbra, aprì la bocca e lo lasciò entrare, con tutto il suo ardore, con tutto il bisogno che aveva di abbattere i muri, di smussare le spade e sdraiarsi sul letto e lasciare ad Aleksander libero spazio di accedere ai suoi zigomi alti, al contorno delle labbra rosse, alle vene pulsanti della gola che Dominik continua a nascondere perché è tanto, troppo dispettoso; si muoveva sotto di lui perché voleva sentire Aleksander e i suoi muscoli contratti, e il suo corpo caldo e sicuro su di sé. Si muoveva e da qualche parte sanguinava, perché Dominik sanguina sempre, e le dita dell'altro ragazzo si tinsero di scarlatto quando passarono sul fianco.
-Oh. Cazzo.- 
E' tutto ciò che riesce a dire. 
Sulla sua pelle il rosso ha un altro effetto. Il bronzo con il rosso è solo ruggine, innocua. 
Ma il rosso sul bianco è tutta un'altra storia.
-Deve essere saltato qualche punto..-
-Te l'ho detto che non sei un santo, cazzo.-


 

***

 

Tre settimane dopo. 

 

-Dominik, ti stai comportando molto bene. Hai messo due chili dall'ultima visita e le tue costole stano benone. Però controlliamole meglio, un'incrinatura e una frattura non sono cose da prendere sotto gamba.-
Il ragazzo moro sdraiato su un lettino in un bianco studio privato che odorava di limone e soldi annuì senza opporsi. Sapeva che i suoi pagavano profumatamente lo specialista che, in quel momento, gli chiedeva di togliere la maglia e lasciare che lui si occupasse delle sue ossa. Era il miglior medico di Varsavia e se lui sosteneva che il proiettile e la ferita non avevano lasciato tracce collaterali nel suo corpo, doveva essere vero. 
Solo Aleksander non ne era convinto.
Seduto su una delle due poltroncine di pelle bianca dinnanzi alla scrivania del dottor Hokuro, slacciava e riallacciava il suo rolex da almeno dieci minuti, e squadrava l'uomo in camice come se potesse trasformarsi in un orrido drago da un momento all'altro. 
-Cosa sta per fare, dottore?-
-Sto per controllare che le costole precedentemente danneggiate del signor Santorski siano perfettamente tornate integre.- rispose quest'ultimo, professionale e rassicurante.
Non come Aleksander, che dopo aver parlato slacciò per l'ennesima volta il Rolex e sembrò volerglielo lanciare in testa.
-E come effettuerà questo controllo, scusi?-
-Con una buona esperienza nella manualità, signor Lubomirski.- e si diresse nel piccolo bagno privato, lasciandone aperta la porta. Con lo scorrere dell'acqua nel lavandino iniziò a scorrere anche la contrarietà di Aleksander.
-Leks dannazione, smettila. Ti ho lasciato venire a patto che tu non iniziassi con le tue paranoie da "i medici sono tutti pazzi".-
-Ma se è la verità!- bisbigliò l'altro, riallacciandosi l'orologio al polso e afferrando uno dei lecca-lecca che Hokuro gli aveva offerto (come faceva con i bambini di sei anni) quando il ragazzo non smetteva di fissarli. 
-Ti ricordo che tua madre è un chirurgo.-
-E infatti mia madre è pazza.-
-Si assicurerà soltanto che la cicatrizzazione sia andata a buon fine perché, sai, un mese e qualche giorno fa mi hanno sparato!- 
-Lo so, c'ero, grazie tante.-
-E molla quel maledetto lecca-lecca!-
-Ma è al lampone!-
-Tra quattro millesimi di secondo esatti avrai un altro sapore in bocca se non. molli. quel. fottutissimo. lecca-lecca.-
-Quale, quello del tuo sperma?-
-Non…- Dominik spalancò la bocca. -… ci posso credere.. che tu l'abbia detto sul serio. Parlavo del tuo SANGUE.-
-Bene, procediamo?- esordì il dottor Hokuro -rientrando nella stanza- a due ragazzi dall'espressione angelica. Fin troppo angelica. 
Aleksander ricominciò ad odiare lo specialista con lo sguardo. Da quanto in qua i medici con tre specializzazioni, esperienza e un curriculum da far invidia al primo ministro delle Nazioni Unite avevano trentacinque anni o poco più ed erano orientali, atletici e assidui giocatori di tennis?
Dominik si sfilò la maglietta e la lanciò in faccia al suo ragazzo con un pizzico di forza di troppo, ma nessuno fece domande. Aleksander magari le avrebbe pure fatte, se non avesse avuto una delle maniche in gola. 
-Si rilassi, Santorski. Respiri regolarmente.-
Le mani abili dell'uomo facevano pressione sotto le costole, al lato della gabbia toracica, su punti precisi della congiunzione di ossa, articolazioni, tendini e muscoli. 
-Fa male se premo qui?-
Dominik scosse la testa e Aleksander prese un altro lecca-lecca e lo spezzettò con i denti, lasciandosi finalmente andare sulla poltroncina ma non smettendo di fissare le dita dell'uomo sull'addome del suo ragazzo.
-Qui?- 
Il moro fece un altro cenno di diniego, le mani del medico si insinuarono al di sotto dell'ultima costola, scesero più in basso e poi…
-Ah!- Dominik si lasciò sfuggire un singulto di dolore e il medico si fermò. 
Il volto di Aleksander scattò di lato come quella di un serpente a sonagli: da qui a prendere a testate Hokuro la distanza divenne ridicolmente poca. 
-Qui eh… eh sì, le costole incrinate sono sempre più fastidiose di quelle rotte nel risanarsi. Bene.- si allontanò e tornò al computer. 
-Santorski, lei deve fare una terapia di massaggi localizzati all'addome per risvegliare il punto indolenzito e abituarlo ai movimenti del corpo. Meglio se inizia già dalla prossima settimana, avverto della rigidità ancora concentrata in quel punto. Per il resto…-
-Dottore.- Aleksander si sollevò in tutta la sua plateale irritazione, brandendo un lecca-lecca al lampone come una sciabola sbarrando gli occhi scuri. Dominik intuì cosa stesse per fare, si vestì in fretta e cercò di bloccarlo gettandosi su di lui. Lo placcò, tentò persino di zittirlo con una mano su quella bocca più veloce del buonsenso ma niente da fare, Aleksander spiattellò in faccia al dottor Hokuro la domanda che tanto lo affliggeva. 
-Sì, d'accordo, è tutto molto bello, ma mi premerebbe sapere, e mi creda, è una questione della massima urgenza, se posso
non-posso portarmelo a letto stanotte.- 
Il dottor Hokuro sorrise, Dominik si schiaffò una mano in fronte ripromettendosi di mollarlo appena fossero usciti da quello studio e il medico annuì con fare cospiratorio. 
-Il signor Santorski è perfettamente in grado di sostenere un rapporto sessuale, signor Lubomirski. Solo…- e le sopracciglia di Aleksander schizzarono alle stelle mentre "il signor Santorski" desiderava che il proiettile lo avesse ucciso davvero.  
-All'apice dell'amplesso… non faccia molta pressione sull'ultima costola, intesi?-

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