1. Il Pianto Delle Stelle di Levyan (/viewuser.php?uid=673727)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Nascita ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Taglio ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Vagito ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - Abbraccio ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - Allattamento ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - Ricerca ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 - Scoperta ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 - Svezzamento ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 - Crescita ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 - Gioco ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 - Interazione ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 - Amicizia ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 - Movimento ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 - Caduta ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 - Dolore ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 - Pianto ***
Capitolo 17: *** Captitolo 16 - Crescita II ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 - Ribellione ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 - Fatica ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19 - Pigrizia ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20 - Impazienza ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21 - Stimolo ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22 - Delusione ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23 - Umiliazione ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24 - Cambiamento ***
Capitolo 26: *** Capitolo 25 - Crescita III ***
Capitolo 27: *** Capitolo 26 - Domanda ***
Capitolo 28: *** Capitolo 27 - Ambizione ***
Capitolo 29: *** Capitolo 28 - Sensibilità ***
Capitolo 30: *** Capitolo 29 - Ostentazione ***
Capitolo 31: *** Capitolo 30 - Apistia ***
Capitolo 32: *** Capitolo 31 - Cognizione ***
Capitolo 33: *** Capitolo 32 - Crescita IV ***
Capitolo 34: *** Capitolo 33 - Coerenza ***
Capitolo 35: *** Capitolo 34 - Traguardo ***
Capitolo 36: *** Capitolo 35 - Disperazione ***
Capitolo 37: *** Capitolo 36 - Comprensione ***
Capitolo 38: *** Epilogo - Nostalgia ***
Capitolo 1 *** Prologo - Nascita ***
Il
Pianto
Delle Stelle
Prologo
-
Nascita
Nel
cielo di Sidera, non
c’era l’ombra di una nuvola. Le stelle, dalla coltre oscura,
illuminavano
quella notte di agosto. La popolazione di tutta la regione aspettava
impazientemente. Di Lì a poco sarebbe accaduto qualcosa, qualcosa di
spettacolare. Una volta ogni dieci anni si poteva ammirare il Pianto
delle
Stelle, una surreale pioggia di stelle cadenti che si manifestava a
intervalli
regolari. Quella notte tra il ventotto e ventinove agosto, stava per
accadere
di nuovo.
Il
belvedere della città
di Delfisia era stato costruito appositamente per questo evento. Pochi
anni
prima, sul colle Altare, era stata edificata la terrazza omonima,
progettata
per ospitare le centinaia di persone che avrebbero corso abbastanza da
prendere
i posti migliori quella notte. Per onorare le antiche radici della
città, il
belvedere era stato costruito attorno alla meridiana della Gru, enorme
orologio
solare di marmo vecchio di oltre duemila anni, mai spostato dalla cima
dell’altura,
attrazione centrale della terrazza.
La
folla, proveniente da
Hoenn, Kanto, Kalos e da tutto il resto del mondo, girava per le strade
di
Sidera da giorni. Delfisia, come ogni altra città, pullulava di turisti
che
quella notte riempirono la terrazza Altare armati di videocamere,
fotocamere e
cellulari.
–
Mamma che ore sono?
–
Quasi le due,
tesoro...
Nemmeno
i bambini
avevano sonno. Aspettavano lo spettacolo tra le braccia o sulle spalle
dei
genitori. Sapevano che, se si fossero persi il Pianto delle Stelle
quella
notte, avrebbero dovuto attendere altri dieci anni per rivederlo.
La
folla era ansiosa.
Un
ragazzo appoggiato
alla ringhiera della terrazza aspettava, teso come gli altri, la caduta
della
prima cometa.
–
Xavier! Xavier! Uff...
scusi, permesso... – Una biondina particolarmente vispa avanzava
zigzagando tra
le persone, in direzione del ragazzo dai capelli castani.
–
Celia! Sei qui! –
Xavier era felice di vederla.
–
Sono tornata in tempo!
Sono tornata in tempo? – si rettificò trasformando l’esclamazione in una
domanda.
–
Sì, non è ancora
successo...
Fu
interrotto dalla voce
di un bimbo.
–
Mamma! Mamma! Ecco una
stella!
Xavier
si voltò. Celia
si voltò. Tutta la folla si voltò.
In
effetti, proprio in
quel momento, una cometa falciò il cielo e scomparve tanto
repentinamente
quanto possibile.
Dalla
folla si innalzò
un sospiro sorpreso. Le videocamere cominciarono a riprendere, le
fotocamere
misero a fuoco. Nessuno voleva dimenticare quel momento. Due, tre,
quattro...
le comete cominciarono a piovere copiosamente.
Entrambi
appoggiati alla
ringhiera, Celia e Xavier, guardavano stupefatti.
Lei
aveva quattordici
anni. Il suo fisico iniziava a maturare, un principio di seno
germogliava sul
suo petto e delle timide curve cominciavano a scolpire i suoi fianchi.
Indossava un top con le spalline sottili dello stesso colore dei suoi
occhi,
viola chiaro, quasi trasparente. Un paio di pantaloncini neri che
arrivavano a
metà coscia lasciavano le sue gambe libere di muoversi. I suoi capelli,
di un
biondo talmente chiaro da sembrare bianco, erano legati in una coda
semplice e
comoda.
Era
la persona più
vicina a Xavier, da sempre, almeno da quando ricordava. Il ragazzo che
ora le
stava accanto, per lei, era sempre stato un vero e proprio fratello.
Da
ragazzini erano inseparabili,
giocavano sempre insieme, ma il loro legame si strinse maggiormente
quando i
genitori di lei durante un viaggio di lavoro all’estero, scomparvero;
Xavier la
accolse a casa sua, Marcos, padre del giovane, fece in modo che
l’affidamento
della ragazzina fosse dato legalmente a lui. Aveva cinque anni, un
presunto
incidente aereo le aveva tolto le due persone che l’avevano messa alla
luce,
impiegò parecchio tempo per riprendersi.
Ora,
viveva ancora con i
due che le avevano dato una casa. L’insolita famiglia, originariamente
stabilita a Unima, aveva deciso di trasferirsi a Sidera più o meno un
anno
prima. L’età dell’uomo si faceva sentire e il medico di famiglia aveva
consigliato di lasciare la città di Austropoli per trasferirsi in un
luogo
dall’aria più pulita, più a contatto con la natura. L’uomo, onesto
lavoratore
per tutta la vita, aveva messo da parte una piccola somma di denaro che
gli
aveva permesso di comprare una modesta proprietà proprio in mezzo alla
cittadina di Delfisia.
Celia,
davanti a quello
spettacolo, guardava il cielo. Stimolata dal momento, la ragazza, mise
la sua
mano su quella di Xavier. Il castano la guardò e sorrise. Le strinse
quella sua
manina morbida e delicata.
Xavier,
sedicenne, era
cresciuto contando soltanto sulla figura di suo padre. Marcos aveva
avuto il
primo figlio ad un’età abbastanza avanzata e non aveva mai raccontato al
primogenito chi fosse stata la donna che l’aveva partorito.
Il
ragazzo aveva dei
capelli castani abbastanza corti che teneva perennemente dritti,
alzandoli con
l’ausilio dell’asciugacapelli. Era contrario al gel. I suoi occhi
sembravano
due perle nere. Abbastanza alto, slanciato. Celia, che era moderatamente
bassa,
arrivava con la fronte al suo petto. Era snello, forse grazie alla sua
abitudine
di uscire quasi tutte le mattine alle sei, per andare a correre. Faceva
dai cinque
ai dieci chilometri e tornava a casa, doccia e subito al lavoro. Dava
una mano
ad un allevamento Pokémon locale.
I
ragazzi, fatta
eccezione per l’aspetto, sembravano veramente fratelli. Erano uniti da
un
legame indistruttibile.
Celia,
con il volto
illuminato dalle stelle cadenti che sfilavano sulla nera passerella del
cielo, ammirava
in silenzio. Sorrisi, grida di turisti, stelle che cadevano dal cielo
come
lacrime. Sidera.
Intanto,
quella
notte, poco lontano dal belvedere Altare, nel Bosco Lira, fitta selva
che sorgeva proprio sotto la terrazza, un ragazzo apriva gli occhi per
la prima
volta.
O
forse no, non era la prima. Le sue pupille nere si abituarono alla
luce delle
comete che passavano sopra di lui in poco tempo. Il ragazzo si ritrovò
al
centro di un prato, completamente senza alberi. Era un piccolo spiazzo
circolare
vuoto al centro di quel bosco fitto e oscuro. Si alzò in piedi, ciò
non gli
dette fatica.
Sollevò
il
mento.
Contemplò
quello
che tutti chiamavano il Pianto delle Stelle. Sotto la brezza estiva, i
suoi capelli lunghi, bianchi, si agitavano come eseguendo una strana
danza.
–
Chi sei?
Il
ragazzo
volse lo sguardo verso il bosco.
–
Chi sei?
Nessuno.
Il
ragazzo
ci pensò un attimo.
–
Kalut...
–
Bene, Kalut, ben svegliato nel mondo degli umani...
–
Ehi. – Una
mano picchiettò sulla spalla di Xavier.
–
Julie!
– esclamò il ragazzo voltandosi.
Una
ragazza
dai capelli corvini era comparsa alle spalle dei due. Aveva un enorme
sorriso in volto e i suoi occhi scuri e profondi ridevano più di lei.
–
Sei
arrivata! – fece gaudente il castano portandola alla sua destra e
stringendola
a sé.
Lei
si
lasciò cingere dal suo braccio. – Pensavi di liberarti facilmente di me?
Ho
avuto solo un piccolo contrattempo. – spiegò. – Che mi sono persa?
Uno
“shhh” giunse dalla folla alle
loro
spalle. Nello stesso istante, un’altra stella cadente sferzò il buio
spezzando
quella sorta di fase di stallo in cui per alcuni minuti non era caduta
la
pioggia.
–
Wow...
– commentò estasiata la mora. – Da qui è tutta un’altra cosa... –
proseguì lei
che aveva intravisto la prima parte dello spettacolo dall’allevamento,
appena
prima di correre alla terrazza. Lei era la figlia del gestore
dell’allevamento
dove lavorava Xavier.
Celia,
nel
frattempo, era rimasta in silenzio. Aveva sorriso all’arrivo di Julie,
ma
nulla di più. Quando i suoi occhi chiari si incrociarono con quelli neri
come
l’oblio della ragazza alla destra di Xavier, i quali avevano compiuto
una breve
gita passando dal volto felice ma marchiato dal sonno dello stesso
ragazzo
castano, fino a concludere il viaggio con lei, la sua espressione fece
la
contorsionista circense.
–
Ok, vi
lascio un po’ da soli – disse sforzandosi di sorridere nei confronti di
suo fratello.
Xavier
ricambiò
il suo sguardo. La bionda fissò ancora il cielo, quindi si allontanò
dileguandosi silenziosamente tra le persone e prendendo posizione
accanto alla
telecamera di un inviata di Sinnoh Tv pochi metri più in là.
Era
stata
una sparizione più concettuale che materiale, Julie e Xavier si
trovavano
ancora in mezzo al marasma di gente, non erano affatto soli. Ma la unica
presenza di Celia, logorava il momento di intimità dei due.
Qualche
istante
e Julie si prese lo spazio per stringere forte al suo corpo il braccio
di Xavier. – è fantastico... – commentò suadente.
Le
stelle,
in quel momento cadevano numerose e il silenzio quasi surreale che si
era
creato opprimendo, come un topo che sottomette un leone, il chiasso
generato
dalla massa era il sottofondo perfetto per quel momento magico in cui le
labbra
dei due si incontrarono.
Passarono
circa
tre quarti d’ora tra effusioni e contemplazione del cielo; la gente
aveva
iniziato a stancarsi anche se, secondo la tradizione popolare, il Pianto
Delle
Stelle doveva durare dalle due della notte fino alle sei della mattina.
La
folla cominciava a diradarsi, le madri erano le prime ad andarsene, i
figli si
stufavano subito e toccava alle donne portarli via, i papà dovevano
sempre
dimostrare di essere uomini con in volto quell’espressione da “intanto
vai tu, femmina, io sono maschio e
resto a guardare” interrotta a brevi intervalli da profondi
sbadigli.
Quelli che se ne andavano per secondi erano i teenagers e i ragazzi poco
più
grandi, diretti verso bar, locali e pub assetati di alcol. Sulla
terrazza si
erano aperti dei buchi tra la folla che uno dopo l’altro si dilatavano
facendola sembrare un colabrodo.
Dopo
le
due ore, i buchi della terrazza erano diventati i gruppetti di persone,
il
corpo del colabrodo era il pavimento rimasto vuoto. Piccole comitive,
inviati
delle televisioni, fotografi professionisti, scienziati e filosofi erano
le
razze rimaste, tutti rigorosamente sdraiati o seduti, in massa o da
soli; il
fatto è che dopo una cert’ora non si correva più il pericolo di
estinzione, si
aveva invece la certezza che coloro che erano rimasti lì fino a quel
momento
tanto lontano, non se ne sarebbero andati prima della fine.
–
Savi...
– fece infantile la mora strusciando la tempia al petto del fidanzato, i
due si
erano concessi di adagiarsi a terra. – ...andiamo...? – proseguì con un
sorriso
sbarazzino in volto.
–
Nel
nostro angolo? – chiese il ragazzo voltando appena lo sguardo.
–
Nel
nostro angolo – acconsenti quella.
Come
due
ombre si dileguarono da quel luogo, silenziosi e illuminati a tratti
dalle
comete, scomparvero sotto dallo sguardo vigile e quasi intristito di
Celia.
Discesero una scala, si portarono, mano nella mano, su un piccolo
balconcino
che nasceva al di sotto della terrazza Altare come una cellula-figlio in
un
processo di gemmazione.
Giunti
a
destinazione, i due si unirono di nuovo in un bacio, si abbandonarono su
un
lettino inclinato di pietra levigata posto lì al momento della
costruzione. I
loro occhi si chiusero e i loro corpi si unirono in quella calda notte,
la
notte dei poeti e degli assassini.
Nel
frattempo,
nel cielo, oscurata dalla luce bianca e pura delle altre stelle,
passava l’unica scia viola di quella sera. Una stella cadente dal colore
scuro
sopra le teste di Xavier, Celia, Kalut. Sopra tutta Sidera.
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Capitolo 2 *** Capitolo 1 - Taglio ***
Capitolo
1 -
Taglio
Il
ragazzo
camminava con passo insicuro nel bosco. Le sue mani, guidate
dall’ingenua
curiosità, sfioravano tutto ciò che avevano attorno. Incerto, passò i
polpastrelli lungo le venature ruvide della corteccia di un pino. Una
sostanza
vischiosa e appiccicosa rimase sulle sue dita.
Per
un
momento i suoi occhi vitrei si spalancarono, come impauriti, ma poi la
ragione prese possesso della sua mente e dei suoi recettori,
concludendo che, forse,
quel qualcosa non rappresentava una minaccia.
–
Kalut – ripeté meccanicamente il ragazzo.
Nessuno
rispose.
I
suoi capelli bianchi neanche sembravano avere più la vita concessa
loro dal
vento. Tutto si era zittito, in quell’istante.
–
Kalut! – ripeté, a voce leggermente più alta.
Mosse
due
passi all’indietro. Una fronda si mosse, probabilmente sotto il peso
di un
qualche piccolo Pokémon nascosto. Lui avvertì il rumore. Si voltò e
fulmineo
inquadrò il punto da cui gli era sembrato provenire il fruscio.
Tremava
nervosamente, il suo respiro era irregolare. Il suo tallone si sollevò
da
terra.
In
un
istante era giunto in mezzo agli arbusti, spostava furiosamente i rami
più
bassi degli alberi e dei cespugli, furente, accecato da una rabbia
terrorizzata. Continuò la sua caotica opera di ricerca, finché un
piccolo
Ledyba uscì dalle fronde di un rametto dell’albero a lui vicino,
probabilmente infastidito
dal disordine. Kalut, alzando lo sguardo, si accorse di lui. Si
bloccò.
Fissava
quella
particolare creatura volante con un volto stupefatto e inquieto. Il
Pokémon gli si avvicinò. Kalut non diede immediatamente fiducia al
Pokémon e
prese distanza. Ledyba riprovò ad avvicinarsi, ma il ragazzo si fece
ancora una
volta indietro.
Per
un
momento i due si scrutarono. Alla fine, il Ledyba volò via. Kalut fece
una
smorfia e cercò di capire dove fosse sparito l’essere.
–
Ledyba... – mormorò.
“29
agosto”
segnava la sveglia accanto al letto di Xavier, “14:18” diceva anche.
Il
ragazzo
si strofinò il cuscino in faccia, sbadigliò, stropicciò gli occhi.
Quindi saltò giù dal letto.
Aveva
indosso
un paio di boxer. Le notti estive sanno essere terribili. Mise in fretta
dei
pantaloncini e una maglietta senza maniche e scese al piano di sotto.
Un
ben
identificabile “buongiorno” proveniente
dalla
cucina giunse alle sue orecchie.
–
Da
quanto sei sveglio? – chiese lui senza rispondere al saluto.
La
domanda
era rivolta all’uomo che stava cuocendo due uova in padella il cui
profumo si era diffuso per tutta la stanza principale, suo padre Marcos.
Che il
giorno prima si era preso la comodità di gustarsi la pioggia di stelle
dal
balcone di casa propria.
–
Da
quando ha bussato alla porta l’assistente del Professor Willow, biondo –
In
realtà il ragazzo non era biondo, ma il soprannome che il padre gli
aveva
appioppato da giovanissimo quando il suo crine era ancora di un
giallognolo da
neonato era rimasto al suo posto per ben sedici anni. – Ti cercava, ma
ho
preferito non svegliare l’adolescente che dorme – rise il genitore.
L’uomo,
un
po’ in sovrappeso, portava una camicia hawaiana e dei bermuda abbinati.
Ai
piedi aveva delle infradito verdi. Sul suo volto gioviale si
riscontravano
leggermente le tracce lasciate dai suoi sessantatre anni, ma la barba
perfettamente azzerata e il sorriso sereno compensavano quei particolari
come
piccole rughe e capelli ingrigiti o mancanti.
–
Il
Professor Willow? – ripeté curioso Xavier stiracchiandosi e sedendosi al
tavolo
della cucina. – Quello che abita a Idresia?
–
Esatto
– annuì Marcos. – Uova? – chiese mostrando al figlio il contenuto della
padella
ancora sfrigolante. Era un orario anonimo, quel pasto non sarebbe stato
definibile né una colazione né un pranzo.
Xavier
annuì
leccandosi le labbra. – Dai, dimmi che voleva! – ripeté il castano.
Marcos
sorrise,
prese un piatto e vi adagiò le uova. – Aspetta – Pose il piatto sotto
lo sguardo affamato di Xavier fece quindi scendere un filo d’olio sulla
padella
e ruppe altre due uova al suo interno. Il sottofondo di cibo che
sfrigola tornò
a diffondersi nella stanza.
Xavier
fece
il primo boccone recidendo direttamente la pietanza con il lato sottile
della forchetta che aveva appena preso dal cassetto accanto ai fornelli.
–
Dai
un’occhiata tu stesso – sussurrò con voce calda il genitore appoggiando
un
pacco nero e anonimo sul tavolo e facendolo scivolare lentamente davanti
agli
occhi del figlio. – Ho come l’impressione che avrai da divertirti.
Xavier,
senza
esternare particolari emozioni, ma più con un piglio titubante, si ficcò
in bocca un'altra forchettata di uovo e cominciò a togliere il coperchio
della
scatola.
Il
contenitore
rettangolare di colore scuro celava due strumenti somiglianti a dei
semplici guanti, uno nero e uno bianco, aventi ognuno attaccato un
bracciale dello
stesso colore che andava a stringersi attorno al polso.
Xavier
li
scrutò con uno sguardo interrogativo che da solo valeva come mille “cosa
siete?”.
Parzialmente
convinto,
né indossò uno, quello nero. Calzava perfettamente. Notò, ridando un
occhio all’altro guanto, che erano due sinistri. Non fece commenti.
Studiò
quello
che aveva indosso. Il tessuto di indefinibile materiale aveva la parte
corrispondente al dorso della mano liscia, mentre quella del palmo
leggermente
più irregolare, in modo da fare attrito e ritornare utile nella presa
degli oggetti;
cinque sottili linee celesti attraversavano il guanto partendo da un
solo punto
al centro del palmo e, rispetto alla fisionomia della mano, giungendo
fino ai
polpastrelli dove si perdevano, come immissari di un lago, in dei
cerchietti
anch’essi celesti corrispondenti proprio al centro, alla parte più
sensibile
dei polpastrelli. Sembravano avere una qualche utilità e non essere
solamente
decorativi.
Il
guanto
era morbido, elastico, non impediva in nessun modo i movimenti e faceva
respirare la mano. La parte di esso che abbracciava il polso, dello
stesso
colore del guanto ma di un materiale gommoso simile al silicone, aveva
un
piccolo schermo quadrato di circa due pollici, ma sembrava essere
spento.
Probabilmente si sarebbe acceso se Xavier avesse premuto il piccolo
interruttore a sfioramento appena visibile che era sotto il display.
–
Che è
‘sta cosa? – chiese Celia comparendo improvvisamente alle spalle del
fratello.
–
Non so
dirtelo... buongiorno comunque... – rispose quello con fare disattento.
–
Mi sa
che ce n’è uno anche per te, Celia – aggiunse Marcos spostando la
scatola
contenente il secondo esemplare dello strumento, quello bianco, verso la
bionda.
Celia
prima
rubò il piatto di uova a Xavier, poi si interessò al guanto e indossò
anche
lei il suo. Intanto, il ragazzo aveva finito di esaminare l’oggetto e
aveva
ripreso in mano la scatola.
–
C’è un
biglietto qua – mormorò.
–
Leggilo
– lo esortò il padre mentre si occupava delle uova che sfrigolavano in
padella.
Il
castano,
attirando anche l’attenzione di Celia, tirò fuori dal pacco un piccolo
cartoncino e iniziò a leggere a voce alta.
“Carissimi
Xavier
Levine e Celia Ellison,
vorrei
proporvi
di intraprendere un viaggio, di attraversare Sidera e svolgere alcuni
compiti per mio conto. Tenendo premuto l’interruttore sottostante al
display
del bracciale, il PokéNet si accenderà e partirà immediatamente un
video
esplicativo.
Cordiali
saluti
Prof.
Jason
Willow.”
Xavier,
terminata
la lettura, sorrise alla bionda la quale ricambiò il suo sguardo.
–
Che
aspettiamo? – fece entusiasta.
Xavier
seguì
le istruzioni sul biglietto e poggiò un dito sull’interruttore. Quel
piccolo led celeste raffigurante una Poké Ball in stile minimal si
illuminò e
una frazione di secondo più tardi anche il display stesso lo fece, su di
lui
comparve un’altra Ball, ma colorata.
–
Buongiorno – salutò una vocina proveniente dal dispositivo. – prima di
iniziare, consiglio di sfiorare il lato destro dello schermo e seguire
la
spiegazione olografica.
Xavier
alzò
un sopracciglio, ma seguì l’istruzione e, passando delicatamente il dito
lungo
lo spigolo del display, si vide proiettare davanti una piccola immagine
tridimensionale di un uomo più o meno della stessa età di suo padre, ma
più
magro, con un paio di occhiali che poggiavano sul setto nasale e un
camice che
gli dava quel tono intelligente da professore. Era la sua la voce.
Xavier e
Celia si scambiarono uno sguardo stupito.
–
Ripeto,
buongiorno, vi prego di seguire con attenzione questa spiegazione perché
non si
ripeterà – disse come premessa.
Nello
stesso
momento Marcos si voltò e si servì le uova.
–
Bene,
io sono il Professor Willow, questo dispositivo è chiamato PokéNet ed è
il
frutto di lunghe e profonde ricerche da parte di molti scienziati sparsi
in
tutto il mondo. I vostri sono i primi ad essere stati diffusi,
consideratevi
dei tester fortunati. – qui mise le mani sui fianchi fieramente. –
Presto sarà
messo sul mercato, ma vi rimarrà comunque l’esclusiva del Glowe, ovvero
il
guanto collegato al PokéNet.
Xavier
annuì.
Celia si appoggiò sul suo palmo.
–
È uno
strumento dalle grandissime capacità ma non è di questo che voglio
parlarvi...
–
E meno
male – intervenne Marcos da dietro le quinte.
–
...questi strumenti mi sono stati forniti dalla Federazione a fini di
ricerca,
io ho voluto scegliere voi tra tanti Allenatori, dopo accurate ricerche,
e designarvi
per un importante compito – Si prese un attimo di pausa. – Vorrei che
voi
viaggiaste per Sidera.
–
Io
avevo già intenzione di farlo... – mormorò il castano.
–
Tu,
Xavier, hai già conquistato parecchie medaglie e potresti viaggiare per
battere
le palestre di questa regione – Era come se la registrazione avesse
stesse
rispondendo alle parole del castano. – Celia, vorrei che anche tu
intraprendessi questo viaggio – disse meno formalmente. – Non dovete
avere per
forza un obbiettivo, potete fare quello che volete, partecipare alle
gare o
puntare alla Lega, il compito richiede soltanto che voi la
attraversiate. In
casi estremi dovreste tenervi a disposizione come assistenti di ricerca
diretta
in modo da darmi una mano sul campo.
I
due
ragazzi si scambiarono un’altra occhiata.
–
Se
siete interessati, continuate a vedere questo video, altrimenti potete
anche
spegnere i dispositivi e riconsegnarli al mio assistente che tornerà
questa
sera a chiedervi la risposta – affermò l’ologramma.
Silenzio.
Xavier
e Celia si guardarono un’ennesima volta, scrutarono Marcos, che nel
frattempo aveva terminato le uova e li fissava sorridente, si guardarono
di
nuovo, annuirono in sincronia e riportarono l’attenzione al PokéNet.
–
Se
siete arrivati fino a questo punto, significa che siete interessati alla
missione. Bene, sapevo di aver scelto le persone giuste, ma adesso vi do
qualche nozione sul PokéNet. Innanzitutto, come vedete, ha alcune
funzioni
dell’Holovox e del...
–
Julie!
Diciotto
e
tre quarti in punto, la ragazza si trovava nel cortile dell’allevamento,
stava pulendo le foglie di un Hoppip. Xavier si avvicinò alla
staccionata,
sentendo la sua voce, la ragazza si era alzata e, preso in braccio il
Pokémon,
si era diretta verso di lui.
–
Ehi,
che ci fai qui? Avevamo un appuntamento? – chiese lei sorridendo.
–
In
realtà volevo dirti che sono stato incaricato dal Professor Willow di
farmi una
gita lungo tutta la regione, batterò le palestre e mi dirigerò alla
Lega. Ho
già preparato le cose, parto domani, ti va di venire? – spiegò tutto
d’un
fiato.
La
mora
storse la bocca e sollevo un sopracciglio. – Diamine... non ne ho idea.
Qua
hanno bisogno di me... – mugolò lei inclinando il capo.
–
Dai,
non puoi proprio accompagnarmi? – insistette il castano. – Posso
percorrerla
tutta in poco tempo – aggiunse.
–
Non lo
so, Savi, posso raggiungerti ogni tanto, magari quando non c’è troppo da
fare... – rispose Julie.
Xavier
si
passò la mano tra i capelli, aveva un’espressione poco soddisfatta. –
Uff... va
bene, vediamo, comunque domani passo a salutarti, ok?
–
Ovviamente – sorrise la ragazza.
Hoppip
emise
il suo verso e, uscendo dall’abbraccio dell’allevatrice, le salì in
testa. Lei lo accolse gioviale.
Attorno
alle
sette, il campanello di casa Levine trillò, Marcos corse ad aprire.
Sulla
soglia, lo stesso ragazzo che quella mattina aveva consegnato la scatola
dei
PokéNet.
L’assistente
di
Willow fu accolto in casa, vide immediatamente Celia e Xavier impegnati
a
prendere confidenza con i loro rispettivi apparecchi, quelli concessero
al
ragazzo pochi istanti in cui dissero di essere entusiasti di partire.
Marcos
gli offrì un caffè, in meno di due minuti dalla sua entrata,
l’assistente del
professore si trovava di nuovo alla porta.
–
Xavier
e Celia – li nominò poco prima di uscire.
Quelli
lo
guardarono distratti.
–
Il
Professor Willow vi fa i suoi più sentiti auguri – disse. E uscì.
Il
resto
della serata scorse noiosa e colma di attesa per i due. La cena fu
sostanziosa,
ma non pesante, quindi si diressero verso le loro stanze, si erano
promessi di
andare a dormire presto.
–
Buonanotte! – esclamò Celia sulla soglia della sua camera.
Un
“notte” e un “dormi” da lontano giunsero in risposta. Lei sorrise e si chiuse
alle spalle la porta della sua camera. La sua stanza era stata appena
rimessa a
posto, voleva lasciarla in ordine prima di partire.
Si
sedette
alla scrivania bianca che era all’angolo tra il letto e il muro. Prese
un piccolo taccuino somigliante per intero ad una barretta di cioccolato
morsa
ad un angolo. Adorava quel quaderno.
“Nuovo
viaggio,
nuovo diario.” Fu il suo pensiero.
Aprì
il
taccuino. La prima pagina si presentò bianca e pura davanti alla sua
matita.
Celia la fissò per un lungo attimo, quindi si decise a violare il foglio
vergine con la rude grafite.
Era
da
poco sorta l’alba del 30 agosto.
–
Ci
vediamo, pa’.
–
Vedi di
non strafare, biondo – l’uomo lo strinse a sé.
–
Hai
detto che Celia mi aspetta alla terrazza?
Marcos
annuì.
Xavier sorrise e, ricambiato l’abbraccio con l’atteggiamento più virile
che riusciva a venirgli fuori, si dileguò.
Marcos
rimase
sull’uscio a guardare da lontano la sagoma del giovane che si
allontanava a passo rapido. Tutto sommato era felice di vederlo così
attivo.
–
Divertiti... – mormorò come se potesse ancora sentirlo.
Il
ragazzo
giunse in pochi minuti all’allevamento, erano circa le sei di mattina e
quasi tutti in quella sede erano svegli da un bel po’. Non suonò
neanche, Julie
comparve alla porta quasi subito, lo aspettava. Aveva addosso un
vestitino
leggero e semi-trasparente che lasciava intravedere la sua biancheria
intima. Il
ragazzo fece una smorfia di approvazione non appena la vide.
–
Allora,
come sta il mio futuro campione? – chiese lei mettendogli le braccia
sulle
spalle.
–
Mah,
non mi lamento... – I due si baciarono. – Non mi lamento affatto... –
precisò.
–
Penso
che per un po’ sentirò molto la tua mancanza – affermò lei, una volta
staccatasi dalle sue labbra, con una vena scherzosamente malinconica.
–
Beh, se
vuoi posso rimandare di una mezz’oretta la partenza per stare un altro
po’
insieme – propose lui sottolineando con l’espressione il vero senso
della
frase.
–
No,
dai, voglio pensare a te ricordandomi l’altra notte, quella sì che è
stata magica
– rispose lei sorridendo e baciandolo di nuovo.
Non
passarono
molto altro tempo appiccicati, il giorno era giunto da poco, ma il
castano voleva partire prima possibile. Si salutarono poco dopo e lui si
diresse verso il belvedere, luogo di partenza dove la bionda lo stava
aspettando.
–
Allora?
– chiese Celia.
Xavier
era
appena giunto al suo fianco, i due, immobili sulla Terrazza Altare,
guardavano
il sole appena sorto. Il momento era mistico.
–
Allora
cosa? – ribatté il castano.
–
Vogliamo partire o rimaniamo qui come due ebeti? – fece lei sorridendo.
–
Io nord
per Borgo Asterion e tu ovest per Vulpiapoli? – chiese Xavier.
–
Ci sto
– annuì la bionda.
–
Hai
preso Gel? – domandò il castano dopo alcuni istanti di silenzio.
Celia
prese
una Poké Ball dalla sua cintura e la mostrò a Xavier. Attraverso la
trasparenza del guscio, il ragazzo riuscì ad intravedere l’esemplare di
Reuniclus assopito al suo interno. Dormiva, proprio come il primo
giorno,
quando Marcos, per il sesto compleanno di Celia, le aveva fatto trovare
la Poké
Ball di un Solosis sotto il cuscino. Primo suo Pokémon.
Entrambi
portavano
il PokéNet, affascinati da quel dispositivo di cui avevano imparato
tanto bene le funzioni, attendevano con ansia di poterlo usare sul
campo.
Il
castano
annuì. – Voglio proprio vedere come andrà a finire...
I
due
presero ognuno la propria strada. Celia aveva lasciato uscire Gel dalla
sua Ball,
il Pokémon la seguiva fluttuando spensierato. Xavier camminava lento
guardandosi attorno e studiando ogni particolare che gli si parava
davanti. Due
persone diverse e tanto legate che prendevano due strade separate.
Il
cordone
era stato tagliato.
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Capitolo 3 *** Capitolo 2 - Vagito ***
Capitolo
2 -
Vagito
Bosco
Lira.
Kalut si muoveva tastando il terreno soffice ad ogni passo. Gustava il
solletico dell’erba fresca e morbida sotto le piante dei suoi piedi.
Ogni
tanto, durante le soste, qualche minuscolo animaletto saliva tra le
sue dita,
saltando via e scomparendo al suo minimo movimento. Quel posto magico
lo
ipnotizzava.
Per
un
momento si fermò. Guardò alle sue spalle, guardò a destra, a sinistra,
guardò in basso. Tutto lo affascinava, non aveva mai visto nulla di
simile.
Riprese
a
camminare finché, ad un certo punto, proprio davanti a lui un Venipede
spuntò
fuori da un cespuglio e iniziò a scalare la corteccia di un albero
limitrofo.
Il ragazzo si immobilizzò, gli occhi fissi sulla strana creatura che
stava
sfilando davanti al suo sguardo pietrificato.
Vinto
il
timore, Kalut mosse una mano per toccare il Pokémon, affascinato dalla
sua
rilucente e liscia corazza. Il Venipede, per natura difensivo e poco
fiducioso
nel prossimo, si ritrasse più che poté nel suo esoscheletro, ma quando
le dita
dell’umano lo sfiorarono, egli reagì immediatamente sfoderando i suoi
aculei
veleniferi.
Un
grido
risuonò in tutto il bosco. Persino il Pokémon, terrorizzato dal forte
suono improvviso, si rinchiuse nella corazza appallottolandosi e
cadendo a
terra innocuo ma difeso. Kalut, terrorizzato, era caduto all’indietro.
Stringeva il polso corrispondente alla mano dolorante, fissando con
orrore le
venature violacee che circondavano il punto perforato. Sentì un
brivido che gli
diede come l’impulso di allontanarsi da quell’arto avvelenato, iniziò
freneticamente a scalciare come per prendere le distanza dalla sua
stessa mano,
ma notò immediatamente che la sua strategia era inutile. Strinse
ancora di più
il polso, sentiva il bisogno di staccarlo, di separarsene. Neanche
quello gli
riuscì, il suo istinto contrastante per natura l’autolesionismo gli
impedì il
gesto estremo.
Avvertì
qualcosa
premere sopra i suoi zigomi, poi il bisogno di strizzare gli occhi, di
stropicciare le palpebre. Cominciò a piangere.
Celia
si
trovava all’entrata est del Ponte Sirma, costruzione che permetteva
l’attraversamento del fiume Eridano, arteria principale di Sidera, lungo
corso
d’acqua che la tagliava in due metà. Per un attimo chiuse gli occhi,
immaginò
tutto il suo viaggio. Poi un leggero tocco sulla spalla da parte di Gel,
il suo
Reuniclus che la seguiva fluttuando, la riportò alla realtà.
–
Andiamo... – sussurrò lei annuendo al compagno.
Celia
percorse
il ponte tutto di corsa, trattenendo il respiro. Al termine di questo,
venne avvolta dalla natura, gli alberi sembravano crescere attorno a lei
mano a
mano che i suoi stivaletti calpestavano il terreno. La sua direzione era
Vulpiapoli e ogni tanto il suo occhio
tornava alla Mappa Città implementata come una delle tante
funzioni del
PokéNet. Non voleva perdere di vista l’obbiettivo.
Mantenne
un
ritmo costante per tutto il tragitto, fino all’ora di pranzo. Lì si
fermò e,
tirati fuori dei sandwich per lei e dei poffin per Gel, desinò seduta su
una
roccia coperta di muschio secco. Rialzandosi, avvertì immediatamente un
lieve
dolore ai polpacci, ma non gli dette così tanta importanza. Il suo
cammino,
come una perfetta esecuzione orchestrale ogni tanto sporcata dalle aspre
note
di uno o due violinisti disattenti, riprese toccato a intervalli
regolari dal
lieve stress muscolare fin quando, attorno alle quattro del pomeriggio,
la
ragazza decise di fermarsi, riconoscere e possibilmente medicare
finalmente
quel male che minacciava di attentare alla sua positività.
–
Uff...
– sospirò Celia sedendosi ai piedi della corteccia di un albero cavo.
Rapidamente
identificò
la fascia muscolare che le procurava quel fastidio in continua
crescita. Cominciò un inesperto ma efficace massaggio e in poco tempo
quel nodo decise di
sciogliersi. Provò a liberare
entrambe le gambe. Dopo qualche minuto, quando il dolore fu
apparentemente
scomparso, Celia tornò in piedi.
–
Facciamo che questa è la prima e l’ultima volta che mi fa male, ok? –
parlò
alle sue gambe.
La
ragazza
mosse appena due passi, sollevò lo sguardo e si trovò davanti un uomo.
Questi sostava ad un paio di metri di distanza da lei, guardandola con
fare
leggermente interdetto.
Celia
in
un primo momento non ebbe reazioni, quindi rivolse al tipo un sorriso
imbarazzato.
–
Buongiorno – la salutò l’uomo in tono gioviale.
–
Salve –
ricambiò lei con voce un poco ebete.
La
bionda
squadrò il soggetto, il tipo la fissava dai suoi occhi scuri celati
sotto una
cascata di capelli blu, aveva una corporatura muscolosa e un volto
liscio e
pulito. Con una mano stringeva una sacca che passava sopra la sua spalla
e gli
cadeva appoggiata alla schiena, morbida, come fosse vuota. I suoi
vestiti erano
semplici, una canotta scura senza maniche e priva di scritte o disegni e
un
paio di pantaloni larghi, pantaloni da dojo, stretti alle caviglie,
anch’essi
scuri.
Celia
non
staccò gli occhi dall’uomo per una manciata di secondi. Quello
approcciò. –
Perdonami se ti ho infastidito mentre intrattenevi un animato discorso
con le
tue gambe, io sono Antares. – sorrise avvicinandosi a lei e porgendole
la mano.
La
ragazza
si accorse di aver già sentito quel nome. Le sue sinapsi si
ricollegarono rapidamente e, dopo alcuni millisecondi, lei si rese conto
di
aver davanti il Campione della Lega di Sidera.
–
Oh
cavolo, ma tu sei il Campione! – esclamò stringendogli l’arto intero più
che la
mano.
Antares
annuì.
Aveva imparato come funzionava, quando diceva il suo nome arrivava
immediatamente il vento della fama a scompigliare i suoi lunghi capelli
blu.
–
Che
cosa ci fai in questo posto? – chiese invadente Celia.
–
Avevo
delle... – spostò tutto sul vago. – ...cose da fare. Tu, piuttosto, sei
mica...
– dette uno sguardo al dispositivo che la ragazza portava al polso. –
...l’Allenatrice scelta da Willow?
Con
una
faccia un poco incredula un poco ammaliata, Celia annuì.
–
Ah! Sei
Celia! Ragazza, non sai quante ricerche fatte su di te dal Professore ho
dovuto
leggere e approvare perché fossi tu quella destinata a prendere quel
PokéNet –
esclamò espansivo e sorridente. – Allora? Hai intenzione di battere le
palestre? – domandò interessato l’uomo.
–
Eh, sì,
pensavo di iniziare da Vulpiapoli, sono diretta lì a dire il vero... –
rispose
la bionda.
–
Ma
perché dovresti perdere tempo? Vieni, ti ci porto io! – propose Antares.
L’uomo
prese
una Ball dalla sua cintura e in un attimo un gigantesco Charizard si
interpose tra i due. Celia, senza neanche riflettere, accettò e si fece
caricare dal lucertolone. Dieci minuti scarsi e una traversata
rapidissima
della campagna che li separava da Vulpiapoli e la ragazza era davanti
alla
palestra di Arturo, maestro di tipo Normale
della regione.
–
Diamoci
una mossa! – fece entusiasta Antares.
I
due
entrarono nella struttura la quale si presentava esternamente come uno
scatolone, un cubo di colore rosso scuro. All’interno invece rivelava la
sua
identità: la palestra Pokémon di Vulpiapoli ospitava una vera e propria
palestra, quella con i bilancieri e i tapis roulant. Casistica
impossibile più
che improbabile. I due, entrando, furono subito avvolti da quell’odore
aspro e
metallico misto all’aroma di olio da muscoli e a un retrogusto di
sudore. Il
tutto però purificato dalla benevolenza cara e dolce dell’aria
condizionata
impostata a livello plutone.
Celia
rimase
interrogativa e un pizzico a disagio. Lei, piccola ragazzina in mezzo ai
quei colossi pompati con i bicipiti unti e scolpiti, si sentiva un
piccolo
Wooper in mezzo a dei Bouffalant.
–
Arturo!
– esclamò Antares facendo un gesto con la mano in direzione di un
bancone nascosto
in un angolo poco lontano dall’entrata. – Vieni a vedere chi ho qui! –
proseguì
il Campione.
Da
dietro
quella sorta di scrivania, un ragazzo massiccio e muscoloso si eresse
fiero e
marmoreo. Capelli rasati quasi a zero, una barba biondiccia e
disimpegnata e
dei bicipiti scolpiti. Celia era interdetta. Arturo, il Capopalestra,
era a
petto nudo con un asciugamano appoggiato sulle sue spalle larghe, la sua
pelle
lucida di sudore faceva capire che il ragazzo stava facendo esercizi o
che
aveva smesso da poco. In una mano stringeva un foglio scarabocchiato e
nell’altra una penna, che fu posata alcuni istanti dopo.
–
Antares! – salutò sorridente il biondo riconoscendo il Campione che era
entrato
nella sua palestra e dirigendosi verso di lui. – ...tieni, questa è la
scheda,
deltoidi e tricipiti per questa settimana... – sussurrò poi rivolto ad
uno dei
ragazzi a lui vicini e porgendogli il foglio scarabocchiato. – Allora,
come
vanno le cose nei piani alti? – chiese entusiasta tornando a
concentrarsi
sull’ospite.
–
Tutto
bene, era da un po’ che mi ero riproposto di venire a farti visita, ho
bisogno
anche io di muovermi un pochino – scherzò Antares.
In
tutto
questo Celia era rimasta piccola piccola nel suo silenzio senza osare
intromettersi tra i due.
–
Eh... –
Arturo, ormai prossimo al Campione, si mise a studiare il soggetto che
aveva
davanti. – Devi lavorare un po’ di più sul petto... – mormorò serissimo.
–
Dai,
roccia, a questo pensiamo un’altra volta, guarda invece chi ti ho
portato! –
esclamò sorridente Antares prendendo sotto braccio la bionda e
indicandola con
la mano libera al Capopalestra.
Arturo
la
scrutò per un interminabile minuto con occhi titubanti e un pizzico
delusi. –
Ma è maggiorenne? – chiese ancor più serio di prima.
–
Lei è
Celia – ribatté con aria anti-sarcastica il Campione. – Una degli
Allenatori
scelti da Willow. – aggiunse.
–
Oh! –
concretizzò Arturo con la faccia contorta in una smorfia imbarazzata e
prolungando quel oh per una
decina di
secondi buoni. – Hai fatto bene a portarmela, così mi rendo conto di chi
si
tratta... – cercò espedienti.
–
Salve –
salutò a bassa voce Celia con volto sorridente per convenzione ancora
stritolata dal braccio di Antares.
–
Allora,
vogliamo darle una medaglia? – chiese il Campione stupendo non poco la
ragazza.
Per
un
primo momento nessuna risposta venne fuori dall’espressione atona di
Arturo. –
Ovviamente, deve solo venire con me... – sorrise poi.
La
scenetta
andò avanti, la magia si ruppe solo per un istante quando l’uomo, giunto
al bancone seguito come un ombra poco sicura da Celia, presa da un
cassetto una
medaglia raffigurante una specie di V di colore bianco con il primo
braccio più
largo del secondo, vagamente somigliante ad un arto nell’atto della
contrazione
del bicipite, proferì un “tieni”
talmente greve da far quasi asciugare il sudore che gli imperlava la
fronte.
Ma
Celia
non lo notò, lei prese la medaglia Centauro
felice, senza ascoltare il Capopalestra, orgogliosa come se avesse vinto
lei,
grazie al suo talento, quella targhetta tanto ambita.
La
bionda
si diresse da Antares, lo ringraziò educatamente e scomparve
oltrepassando per
la seconda volta la porta di quella palestra-palestra.
Arturo
la
fissò fino all’ultimo secondo, così come il Campione. E anche quando
ella fu
finalmente scomparsa alla loro vista, i due continuarono a guardare
nella
stessa direzione, con volto serio, come avessero davanti il più bel
tramonto
della storia. Uno accanto all’altro.
Antares
lasciò
andare un sospiro. Arturo lo imitò.
Il
Capopalestra
aprì timidamente bocca: – Il professore...
–
È una
carogna – lo interruppe precipitosamente il Campione della Lega di
Sidera. Con
voce greve. – Ha quattordici anni...! – esclamò con voce soffocata e
fare
altamente incazzato gettando a terra la sacca che aveva in spalla.
“Bosco
Lira
oltrepassato!” pensava Xavier mentre guardava la Ball del Pumpkaboo
appena
catturato attaccata alla sua cintura.
Aveva
impiegato
tutta la mattinata e altre ore dopo il pranzo per attraversare la
fitta selva che era il Bosco Lira. Si era rivelato un viaggio semplice
ma al
contempo un po’ noioso, quindi il ragazzo aveva deciso di sconfiggere
alcuni
Pokémon selvatici. Nel farlo, gli era venuto in mente di catturare un
esemplare
da aggiungere alla sua squadra e quel Pumpkaboo lo aveva convinto.
Accanto al
suo Eelektross, compagno di ogni sua avventura e unico Pokémon che aveva
deciso
di portarsi dietro, sembrava un po’ deboluccio, ma Xavier si era
ripromesso di
allenarlo con cura in modo da rendere la sua squadra una delle più
potenti di
Sidera. Puntava alla Lega, lui.
Il
bosco
era finito, ma c’era ancora un bel pezzo di strada da fare. Inoltre, il
caldo
si faceva sentire. Il ragazzo aveva percorso la prima metà del viaggio
all’ombra della chioma degli alberi, ma dopo quella lo attendevano
almeno altre
tre ore di cammino sotto il sole cocente. Tre ore durante le quali
sarebbe
stato impossibilitato all’uso di Eelektross, poiché esporre la sua pelle
umida
alla troppa luce solare si sarebbe potuto rivelare fatale, e ciò lo
avrebbe
invalidato sul fronte delle lotte.
Intelligente
e
propenso alla riflessione e all’analisi, il ragazzo aveva deciso di
fermarsi
nel primo Centro Pokémon e ricominciare il viaggio al calar del sole.
Provvidenza.
Un
complesso di un paio di edifici dal tetto rosso si presentò davanti a
lui
dopo soli altri due minuti di cammino. Era un grande Centro Pokémon
adibito
all’accoglienza di viaggiatori. Non aveva neanche chiesto al PokéNet se
ce ne
fosse uno nelle vicinanze, la sua presenza rientrava in una di quelle
certezze
che si acquisiscono dopo anni di vagabondaggio nelle regioni.
Xavier
entrò
spalancando col pensiero, come adorava pensarla, la porta di vetro
automatica.
Davanti
a
lui tutto si mostrò un intricato reticolo di corridoi, terrazze,
banconi, il
tutto sparso e distribuito su tre diversi piani di altezza. Non era
pienissimo,
ma delle persone c’erano, Allenatori principianti intenti a negoziare
con le
cassiere dei market a proposito del prezzo troppo alto delle Iperpozioni
e
esploratori necessitanti di indumenti da trekking nuovi. Xavier aveva le
sue
belle convinzioni circa quei soggetti. D’estate iniziano a viaggiare per
le
regioni cani e porci, dagli Allenatori itineranti più scarsi a tutta una
serie
di persone che il ragazzo non riteneva degna
di
tenere in mano una Ultra Ball. Era quindi sicuro di non voler
mischiarsi
con quella gentaglia là dentro e rimanere il più possibile fuori da ogni
gruppetto di persone.
“Ragazzini...”
pensava.
Subito
si
mise alla ricerca di un bar. Lo trovò poco dopo, un caffè della stessa
catena
di quelli che vendevano Conostropoli a Unima. Prese un gelato, era
agosto. Per
un momento sentì nostalgia della frenetica e caotica Austropoli. Dopo un
po’ anche
l’ultima punta di cono andò giù. Si sentiva più fresco dopo quel piccolo
spuntino.
Xavier
si
diresse verso i bagni. Entrò, espletò le funzioni primarie, quindi si
sciacquo
il volto e si diede una rinfrescata al corpo. Portava una maglia leggera
e dei
bermuda abbinati, ma l’acqua era l’unica cosa che veramente lo salvava
dalla
autocombustione spontanea.
Il
ragazzo
decise di fermarsi per un po’. Trovò una poltrona in una sala d’attesa,
affidò con tutta calma i suoi due Pokémon ad un infermiera e prese tra
le mani
una rivista, con l’intenzione di occupare quelle ore che lo separavano
dal
tramonto.
Si
trovò
a leggere “Chicret”, rivista
volta
all’informazione e all’aggiornamento nell’ambito della moda. Notò un
articolo
riguardante una nuova promessa delle gare Pokémon di Hoenn, chiamata
Orthilla,
la foto della ragazza lo aveva colpito. Adorava quelle col visino
innocente, la
maggior parte delle volte si rivelavano essere quelle più perverse. Il
resto
del magazine lo annoiava.
“Professor
Willow?”
udì poi poco lontano.
Xavier
tese
l’orecchio.
“Lo
conosci?”
udì ancora.
Cercò
di
dare uno sguardo e capire che stesse parlando del prof. Con la coda
dell’occhio
intravide due Picnic Girl. Ragazzine di età che si aggirava tra i dieci
e gli
undici anni.
–
Dicono
sia l’unico Professor Pokémon che non abbia mai formato dei Pokédex
Holder –
rise la prima, quella più bassa.
–
Magari
è solo incapace, non ho mai letto un articolo sui Pokémon scritto da
questo
Jason Willow... – aggiunse l’altra.
Xavier
le
ascoltava divertito mentre con il dito carezzava il suo PokéNet nuovo di
zecca.
“Vedrete
chi
è che chiamerete incapace una volta che questo gioiello sarà messo sul
mercato...” pensava.
Kalut
fissava
la sua mano. Ormai aveva smesso di cercare di separarsene e stava
lottando mentalmente per evitare di farsi spaventare ancora. Le
lacrime gli si
erano asciugate, o forse gli erano finite. Il Venipede, lasciato il
suo assetto
difensivo, sostava dietro un cespuglio, lontano dall’umano e lo
fissava, lo
fissava come ipnotizzato.
Il
ragazzo
dai capelli bianchi era abbattuto, non sapeva come reagire, non sapeva
cosa fare e non sapeva cosa inventarsi. Non avvertiva
più dolore ma il suo codice genetico
non gli permetteva di smettere di preoccuparsi per le ferite. Il poco
sangue
che era sgorgato si era ormai raggrumato sulla sua mano. Lui
attendeva, un
altro colpo, un aiuto, attendeva.
Ad
un
certo punto. Senti qualcosa muoversi dietro il suo collo, qualcosa
vibrare,
come un leggero fremere. Automaticamente, per autodifesa, portò la
mano al
collo e, non trovandovi niente sostenne inconsciamente che quella
sensazione
fosse sparita. Non era così.
I
suoi occhi iniziarono a farsi preoccupati, il suo sguardo sempre meno
sicuro,
le sue lacrime pronte a uscire di nuovo.
–
Venipede! – gridò senza volerlo.
Il
Pokémon,
come attratto da un richiamo primordiale, si avvicinò all’umano. Kalut
non lo accolse, ma nemmeno lo scacciò. Piccoli passi, attenti e
docili,
condussero il coleottero al suo braccio, il braccio che, soltanto
quando tornò
a guardare seguendo il movimento del Venipede, notò essere
guarito.
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Capitolo 4 *** Capitolo 3 - Abbraccio ***
Capitolo
3 -
Abbraccio
Kalut
si
era alzato in piedi, la strana sensazione che avvertiva dietro al
collo era
scomparsa. Camminava, camminava, cercando di distanziare quel
Venipede che lo
seguiva tanto insistentemente, ma senza lasciarlo intendere. Andava
solo qua e
là, senza una meta, muovendosi in direzione opposta al Pokémon. La
creatura,
invece, con tutta la calma del mondo seguiva i suoi passi ad un
ritmo costante
e trovava il modo di recuperare terreno anche quando il ragazzo
scattava
staccandosi da lui. Gli andava dietro, attratto come il ferro dalla
calamita,
da qualcosa che neanche lui sapeva riconoscere.
Il
Centro
Pokémon di Vulpiapoli pullulava di Allenatori e viaggiatori. La
struttura era
gigantesca, ospitava una decina di nuclei di cura e altrettanti reparti
di
primo soccorso, due o tre Pokémon Market estremamente forniti, delle
camere, un
bar e un ristorante. In un modo o nell’altro, Celia riuscì a trovare una
stanza
in cui alloggiare, vi entrò grazie alla chiave magnetica offerta alla
reception.
Immediatamente
si
gettò sulla branda, e buttò la borsa a terra. Reuniclus, che la seguiva
fluttuando calmo e pacato, restò a fissarla con occhi tristi per un po’.
La
ragazza lo notò quasi immediatamente. – Ehi, Gel, che hai? – chiese.
Il
Pokémon
fece alcuni versi e gesticolò con le sue braccia gommose lasciando
andare nell’aria delle scintille fucsia.
Celia
lo
scrutò per alcuni istanti. Seria. In silenzio. – Volevi combattere? –
domandò
poi.
Il
Pokémon
annuì, sorridendo.
–
Ma dai!
Abbiamo preso la medaglia senza sforzo, meglio così, no? – esclamò la
ragazza
osservando felice la targhetta.
La
ragazza
fece una doccia, uscì dalla stanza per mangiare qualcosa e poi decise
di riposarsi. Prima di chiudere gli occhi, prese in mano il suo diario a
forma
di barretta di cioccolato, con calma vi annotò il resoconto della
giornata, i
pensieri, le idee e le speranze. Poi andò felicemente a dormire.
Il
sole
stava calando. Xavier aveva sonnecchiato lievemente e si stava
preparando ad
uscire di nuovo. Eelektross fremeva all’interno della sua sfera e
Pumpkaboo,
più calmo, sembrava anche lui pronto a combattere.
–
Grazie,
arrivederci! – lo salutò l’infermiera principale.
Xavier
fece
un cenno con la testa e uscì dal centro. Camminò in mezzo per tutta la
sera, lo stridere delle cicale iniziava a diffondersi nell’aria. La luna
già
alta nel cielo si preparava al turno di guardia notturno. Xavier stava
già
pensando ad una strategia da utilizzare contro i Capipalestra gemelli di
Borgo
Asterion in base alle informazioni che aveva ottenuto circa i loro
Pokémon dal
PokéNet.
“Hanno
usato
tre coppie di Pokémon diverse, Accelgor e Escavalier, Ninjask e
Shedinja,
Heracross e Pinsir.” rifletteva il castano. “Mh, un Pokémon di tipo Fuoco mi farebbe comodo...”
Il
suo
piede destro si appoggiò a qualcosa di molle. Xavier, in allerta fece
impulsivamente un passo indietro ritirandolo. Prima scrutò il terreno
poi si
guardò attorno. Aveva calpestato una chiazza di melma, una melma densa e
di
color viola.
Comprese,
capì
di essere circondato. – Venite fuori! – esclamò senza timore.
Passarono
pochi
istanti. La chiazza su cui aveva messo il piede si rivelò essere un
Goomy,
altri esemplari simili e anche alcuni Sliggoo vennero fuori pronti a
colpire,
in ultimo, un enorme Goodra comparve al suo cospetto. Tutti loro erano
usciti
dalle fronde vicine.
Effettivamente,
notò
Xavier solo dopo essere finito in quella specie di agguato, si trovava
molto vicino alle anse del fiume Eridano, la zona era umida e paludosa e
proprio in quel punto, limitrofo alla tana di quei Pokémon, vi era una
grande
presenza di acqua, persino il sentiero era costellato di pozze e la
terra era
umida e irregolare. Avrebbe dovuto capirlo, lui, di trovarsi nei
quartieri di
quel Goodra e del suo clan, ma era stato troppo occupato a leggere
informazioni
su Borgo Asterion e sui suoi Capipalestra dal PokéNet. e adesso si
trovava
circondato da un gruppo abbastanza numeroso di draghi.
–
Bene,
mi stavo giusto annoiando. – Ed era vero.
In
un
attimo Eelektross e Pumpkaboo erano fuori dalle Ball.
–
Dragartigli – ordinò al suo
Pokémon Elettropesce. – Tu,
Pumpkaboo, usa Halloween su
Goodra.
La
rissa
scoppiò. Eelektross, in totale sintonia con il suo Allenatore, non aveva
avuto
bisogno di indicazioni precise circa il bersaglio designato e aveva
iniziato a
fare strage di Goomy e Sliggoo utilizzando i suoi artigli irradiati da
una
potente energia violacea. Xavier aveva fatto il possibile per evitare
colpi di
Pokémon selvatici che dirigevano i loro attacchi verso di lui e non
verso i
suoi compagni adibiti alla lotta. Il Pokémon Zucca, invece aveva utilizzato con successo la tecnica sul Goodra
boss del gruppo. Ora il corpo molliccio della creatura esalava ogni
tanto dei
sottili fumi sul viola scuro, come a dimostrazione del fittizio tipo Spettro impostogli dal
Pumpkaboo. Reagì
immediatamente scagliando un Dragopulsar
verso di lui.
–
Eelektross! – esclamò Xavier.
Il
Pokémon
di tipo Elettro intuì
immediatamente e difese il compagno di squadra con un Lanciafiamme che deviò il raggio di energia scagliato dal Goodra.
Pumpkaboo era fuori pericolo.
Xavier
diede
uno sguardo al PokéNet, si accorse che, tenendo in mano la Ball di un
Pokémon della sua squadra con il Glowe, tutte le info a lui relative
comparivano sul display. Attualmente poteva leggere quelle di Pumpkaboo,
rimase
un pelo stupito, ma in testa gli si accese una lampadina. – Ok, ho
un’idea! –
esclamò il castano correndo verso i suoi Pokémon. – Qui con me, tutti e
due. –
ordinò loro.
I
tre si
reclusero in un solo punto al centro della mischia. Proprio il punto più
pericoloso.
–
Ora,
Pumpkaboo, usa Bruciatutto e
Eelektross, tu vai con Lanciafiamme,
non
li colpite, riscaldate solo l’ambiente – ordinò.
I
due
colpi incandescenti si limitarono a colpire il terreno e l’aria, creando
una
sorta di barriera infuocata tra i Pokémon selvatici e Xavier e la sua
squadra.
Ciò impediva agli avversari di colpirli.
Dopo
un
paio di minuti, il ragazzo tastò il corpo di Eelektross. Lo trovò
asciutto. –
Rientra! – disse richiamando il Pokémon Elettropesce
nella sfera bianca e rossa. – Pumpkaboo, tieni vivo il fuoco, manca
ancora
poco... – fece.
Purtroppo,
il
secondo membro della sua squadra era affaticato, si rese conto che aveva
sprecato molte energie per sputare quella schiera di fiammate così
contrastanti
il suo elemento madre, l’erba.
Con
uno
strenuo ultimo sforzo, Pumpkaboo alimentò ancora un po’ il fuoco, prima
di
accasciarsi a terra, stanchissimo. Xavier lo accolse nella sfera e poco
dopo si
accorse che la sua tattica aveva funzionato, i Goomy, gli Sliggoo e
persino il
Goodra si stavano dileguando.
Aveva
inteso
che quelle creature erano uscite per cacciare di notte proprio perché,
durante il giorno, il sole era stato talmente intenso da rendergli
pericolosa
la permanenza fuori dall’acqua, stessa storia di Eelektross, insomma.
Avevano
cercato prede per sfamarsi, “Ma
ci
avevano provato con quelle sbagliate.” rideva tra sé e sé,
inconscio del
fatto di essere stato attaccato, in realtà, solo perché le creature lo
avevano
visto calpestare uno dei cuccioli del gruppo.
Aveva
quindi
scelto una semplice tecnica, far alzare di nuovo la temperatura e
levarsi di torno quegli avversari indesiderati in modo da non doverli
mettere
KO uno dopo l’altro. E aveva fatto tornare nella sfera anche Eelektross
in modo
che quella barriera di calore non si rivelasse un’arma a doppio taglio.
Soltanto
una
cosa non gli quadrava. Prese di nuovo con la mano sinistra la sfera di
Pumpkaboo e diede un occhio allo schermo del PokéNet. “Perché conosci la
mossa Bruciatutto? Soltanto
tramite MT puoi
impararla e io ti ho catturato nel Bosco Lira poco fa.” pensò come se
stesse
domandando ciò direttamente al Pokémon.
Il
primo
dubbio era fondato, ma l’orgoglio generato dall’aver notato
un’imperfezione
così nascosta superò per grandezza la vera curiosità, così, lì per lì
non se ne
preoccupò davvero, non era il tipo. Proseguì la sua marcia e non
ricevette più
alcun fastidio fino a quando, attorno alla mezzanotte, varcò le porte di
Borgo
Asterion.
Era
Ferragosto.
La suoneria del PokéNet destò Celia dal suo profondo sonno. “Otto
meno dieci, baby.” diceva
ironicamente il display. La ragazza staccò il volto dal cuscino,
trascinò le
gambe fuori dal letto e su di esse si sollevò. Avvertì immediatamente la
fastidiosa sensazione di impedimento che l’acido lattico le dava e con
rabbia
sbuffò. Con gran flemma si portò in bagno, si fece una doccia e si
asciugò come
meglio poté.
Non
aveva
voglia di camminare, non con l’acido lattico. Le venne un’idea. Guardò
il
PokéNet, le previsioni segnavano addirittura dei picchi di quaranta
gradi nella
sua zona. Aveva tutti i requisiti necessari, uscì immediatamente dal
centro e
corse verso la palestra di Arturo, lo trovò intento a riaggiustare un
macchinario da leg curl.
All’inizio
un
po’ intimidita, si schiarì la voce e salutò l’uomo dalla porta
d’ingresso.
Il Capopalestra alzò lo sguardo e mormorò un “ehi” tornando subito a concentrarsi sul suo lavoro. – Come mai
qui? – domandò poi dopo aver bloccato la molla del macchinario.
–
Sai per
caso dove si trova Antares? – chiese la bionda.
–
Si è
fermato da me a dormire, è sceso da poco, se sei fortunata lo trovi
ancora al
bar qui a fianco a fare colazione... – rispose Arturo.
Celia
annuì
e ringraziò: – Ok, grazie mille e buon lavoro! – lo salutò. Si accinse
ad
uscire, ma si fermò un istante con i piedi già sullo zerbino esterno e
guardò
di nuovo Arturo. – Grazie ancora per la medaglia di ieri! – esclamò
sparendo
dietro la porta.
Si
sentì
una forte botta metallica, il Capopalestra, sentendo quella frase, aveva
mollato uno dei cilindri dell’apparecchio lasciando la barra in balia
della
molla che la aveva spinta addosso al suo pollice e provocandogli un
dolore
atroce. Arturo si soffocò le imprecazioni nella trachea.
Il
bar
vicino alla palestra era pieno di persone, molte di queste si dirigevano
verso
il bancone, altre al loro tavolo, ma la maggior parte sostava vicino ad
un
certo soggetto dai capelli blu. Fan, chi in cerca di un autografo su una
loro
Ball, chi solo di una stretta di mano, chi di una foto.
Celia
cercò
di introdurvisi per raggiungerlo. Quando Antares la vide, in mezzo alla
folla che piccola come era cercava una fessura nella quale infiltrarsi,
subito
fece allargare il gruppo di ammiratori per farla passare. La invitò a
sedersi
di fronte a lui.
–
Ora
lasciatemi un secondo, dopo... – Dette un morso al suo cornetto ripieno
di miele.
– ...vi fifmo gli autogfafi – proseguì a bocca piena.
Le
persone,
tra la delusione generale e l’ostilità nei confronti della biondina,
si diradarono, rimanendo comunque nei paraggi, in agguato, come dei
Noctowl,
intenti a scrutare il Campione con i loro occhi lunghi.
–
Allora,
come mai sei venuta a cercarmi? – Antares bevve un sorso di latte, della
schiuma gli rimase sospesa sul labbro superiore.
–
Ecco...
– Celia cercò le parole. – Oggi fa caldo e io devo fare ancora tanta
strada per
arrivare a Costa Mirach... – spiegò con una vocina da bimba annoiata.
–
Ferma,
vuoi che ti accompagni per un altro pezzo di strada? – chiese l’uomo per
arrivare
al punto.
Celia
mugolò
un “mh” inclinando la testa e
evitando il suo sguardo fisso.
Antares
sorrise.
– Non c’è problema, ragazza, dopo ti porto io! – sorrise il Campione.
Lei
imitò
la sua espressione gioviale.
–
Hai
fatto colazione? – domandò poi lui.
La
ragazza
scosse la testa accompagnando il movimento a un “neh”. Antares le offrì una brioche e un cappuccino, lei non pensò
neanche un momento di rifiutare. I due si alzarono poco dopo al termine
del
pasto, l’uomo pagò al bancone e proprio nell’esatto istante in cui
rimise il
portafoglio nella sacca, venne assalito di nuovo dagli ammiratori. Celia
stessa
impiegò una decina di minuti prima di uscire da quella matassa di
braccia e un
tondo quarto d’ora dopo si trovava sul dorso del Charizard di Antares,
fuori
dal bar e pronta a volare via sotto la supersonica, ma esperta guida di
quel
soggetto eccentrico e stravagante.
Venti
minuti
e si trovavano a Costa Mirach, città, appunto, costiera, pullulante più
di Vulpiapoli e Delfisia messe assieme di turisti e visitatori. Era il
più
famoso sito adibito alla balneazione di Sidera e le persone, attratte
nella
regione dallo straordinario evento del Pianto Delle Stelle, avevano ben
pensato
di fermarsi una settimana intera ed approfittarne per andare in
spiaggia. Le
coste sabbiose di Sidera erano famose per la loro amenità e il mare
stesso per
la sua trasparenza.
Quando
i
due Allenatori giunsero a destinazione atterrando, come di convenzione,
davanti
al Centro Pokémon della città, si resero conto di essere arrivati
proprio
“nell’ora di punta”, momento in cui tutti i vacanti si riversavano nelle
strade
armati di borsa, ombrellone e sdraio portatili, diretti verso la
spiaggia. I
due guardavano divertiti quel grande torrente di bikini, costumi a
pantaloncino
e pareo.
–
Va
bene, le nostre strade si separano quindi? – chiese il Campione.
–
Penso
di sì, ma scusami, non ti ho chiesto se ti do fastidio facendomi
accompagnare,
tu dove sei diretto? – fece la ragazza.
–
Io... –
rifletté l’uomo. – ...sto vagando senza meta per la regione, quindi no,
non mi
infastidisci – sorrise lui.
Celia
annuì
felice, i due si salutarono informalmente e presero due strade
differenti, lei verso la palestra e lui verso... un altro posto.
Xavier,
nel
frattempo, varcava la soglia della palestra dei gemelli di Borgo
Asterion,
cittadina ferma nel tempo in un periodo imprecisato della storia,
caratteristica e molto attaccata alle tradizioni. L’ironia stava nel
fatto che
essa fosse rappresentata da due giovani ragazzi, maestri del tipo Coleottero.
L’edificio
della
palestra si mostrava da fuori come una struttura completamente a tema
col
resto della città, in pietra, sfumature tra il marrone scuro e il rosso,
di
semplice fattura. Quando il ragazzo vi entrò dentro, invece, si trovò
davanti
una specie di ecosistema miscelato.
Rimase
basito
di fronte al prato non curato e pieno di erbacce che costituiva il
pavimento, al soffitto bucato che permetteva ad un po’ di luce di
entrare e
inverdire i fili d’erba, alle rovine di una vecchia casa, infilata nella
palestra in stile matrioska, che spuntavano dal terreno come fossero
nate da
esso. Le mura di pietra abbattute, diroccate e colonizzate completamente
da
ragnatele e insetti creavano un atmosfera particolare, soprattutto se
uniti al
fresco clima che vi era all’interno della palestra, al cantare delle
cicale
pure in pieno giorno e all’ombra fitta che ricopriva ogni spigolo
interno,
eccetto quel cerchio centrale che veniva irradiato dal sole.
Il
ragazzo
ammirò in silenzio lo scenario.
Per
ovvie
ragioni, i suoi occhi scorsero fino all’altro estremo della stanza, dove
due
ragazzi erano intenti a far combattere un Heracross e un Pinsir. Xavier,
sempre
sulla guardia, si annotò mentalmente che una delle coppie di Pokémon che
aveva
letto appartenere ai due Capipalestra era esclusa, poiché nessuno
avrebbe mai
fatto lottare due Pokémon già affaticati per l’allenamento.
Quando
i
gemelli lo notarono, lui stava seguendo la loro lotta da una decina di
minuti
circa. I due sorrisero, Castore e Polluce erano i loro nomi.
Kalut
stava
camminando da tutto il giorno. I piedi gli dolevano, ma finalmente
aveva
trovato il suo perfetto equilibrio. Si rese conto di non avere più
quel passo
stentato e un po’ barcollante di prima. Ma restava sempre il problema
del
Venipede, che sembrava essersi talmente attaccato a lui da ricomparire
ogni
volta che il ragazzo prendeva un’altra strada.
Kalut
perse
la pazienza, si voltò verso il Pokémon e iniziò a gridargli contro le
uniche tre parole che pensava di conoscere: “Kalut”, “Ledyba” e
“Venipede” ogni
tanto smetteva, rendendosi conto di essere rimasto senza fiato, quindi
tornava
a farlo, ricominciava a gridare. Alcuni Pokémon uccello, infastiditi
dal caos,
lasciavano i rami su cui stavano appoggiati e svolazzavano via. Anche
alcuni
esseri terrestri, come Weedle, Spinarak e Wurmple se ne andavano
seccati,
turbati nella loro quiete.
Venipede
no.
Lui restava fermo al suo posto, davanti a Kalut, fronteggiava la sua
ira
teorica con coraggio e fermezza. Fin quando il ragazzo stesso smise di
strillare, non ricordando il motivo per cui aveva iniziato.
In
quello
stesso istante, la fatica per i chilometri percorsi, lo stress per gli
avvenimenti traumatici avvenuti dalla notte in cui aveva aperto gli
occhi, si
riversarono tutti in una volta sul giovane e poco temprato corpo del
ragazzo.
Kalut crollò a terra, stanchissimo e senza preoccuparsi della luce,
socchiuse
gli occhi con naturalezza, istintivamente.
Pensò
negli
ultimi momenti della sua lucidità a che cosa gli stesse accadendo e,
preoccupato, non volle più chiudere le palpebre. Gli ricordava... il
prima,
quello che c’era prima, una fitta nebbia, scura, tetra, soffocante.
Gli sembrava
di aver avuto a disposizione un solo giorno, un lasso di tempo
limitato per
rinascere, per ricominciare tutto da capo e di averlo sprecato. Di
aver gettato
quell’opportunità.
Sentiva
di
star tornando indietro, di star tornando al prima, al sonno.
Lottò,
lottò
con tutte le sue forze per sconfiggere il suo orologio biologico. Ma
nulla, l’uomo non vince sulla natura. L’ultima cosa che avvertì fu il
corpo del
Venipede stringersi al suo, abbracciarlo, stargli vicino.
E
stavolta, il suo contatto non lo intimorì.
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Capitolo 5 *** Capitolo 4 - Allattamento ***
Capitolo
4 -
Allattamento
Celia
si
trovò davanti uno spettacolo agghiacciante. L’interno cupo e buio
della
palestra era identico all’interno di una piccola casa delle bambole...
con
tanto di bambole. Un numero indefinibile di pupazzi di pezza con dei
bottoni
come occhi e tempestati di spilli su ogni parte del corpo giaceva
dentro quella
palestra. Alcune bambole gettate a terra, altre appoggiate sulle
numerose
mensole, sui mobili, altre ancora persino inchiodate al muro.
Eppure
c’era
qualcos’altro in quella stanza.
Ovunque,
letteralmente
ovunque, in quella palestra vi erano degli schizzi, delle
macchie, dei disegni o delle scritte indecifrabili fatte con
dell’inchiostro
nero. Era come se un pittore impazzito avesse preso in mano un pennello
di
grosse dimensioni, iniziando a macchiarci i muri, i pavimenti, le
bambole
stesse, il soffitto... Proprio guardando in alto, Celia rimase a bocca
aperta.
Una gigantesca stella a sette punte era stata disegnata sul bianco
intonaco di
quella stanza, in alto, passando sopra al lampadario infranto, e
giungendo a
toccare ogni lato del soffitto.
La
ragazza
cercò di riprendersi, si era lasciata andare in un “oh Dio...” ma anche quello le era morto in gola. Era indecisa, si
trovava ad un bivio, entrare in quel lugubre e inquietante posto o
uscire di
lì.
Si
preparò
a muovere il primo passo all’interno, quando avvertì un pianto, il
pianto di una ragazza i cui mugolii lamentosi e rotti risuonavano
all’interno della
palestra.
Celia
scomparve,
uscì dalla palestra e si chiuse la porta alle spalle, il sole la
irradiò di nuovo, a dire il vero le dette anche un po’ fastidio e fu
costretta
in un primo momento a strizzare gli occhi.
Si accorse di avere il fiatone, decise di calmarsi e riprendere
fiato.
Sarebbe rientrata nella palestra, in qualche modo sarebbe rientrata.
–
Il mio
nome è Xavier, ho appena iniziato il mio viaggio lungo questa regione e
sono
approdato qui – dichiarò il castano davanti ai due sguardi interrogativi
e
sorridenti dei Capipalestra. – vorrei sfidare questa palestra –
concluse.
I
due si
scambiarono un’occhiata. Xavier seguì i loro sguardi, in fase di attesa.
–
Ok –
rispose semplicemente uno dei due con il sorriso stampato sul volto.
Il
ragazzo
rimase un momento immobile, come se dovesse accadere qualcos’altro. In
quel frangente ebbe modo di studiare l’aspetto con cui si presentavano i
due
soggetti. Entrambi avevano dei lunghi capelli neri, fluenti, ma uno li
aveva
legati in una coda dietro la nuca, quest’ultimo era vestito a tema,
pantaloni
da safari, casacca sbracciata da pigliamosche, pieno di tasche e con
degli scarponcini
ai piedi; l’altro, invece, portava una felpa legata alla vita e dei
pantaloni
più educati, bianchi, ancora Xavier non era riuscito a realizzare come
il loro
colore non fosse ancora stato macchiato dall’erba, e infine una camicia,
anch’essa bianca, avvolgeva la parte superiore del suo corpo. I due
avevano una
corporatura simile, non particolarmente alti, ma dal fisico tonico,
giovanile.
Non
trascorsero
più di due istanti, Castore e Polluce presero la loro posizione a
bordo campo, nell’estremità del Capopalestra. Xavier imitò la loro
iniziativa e
decise di prendere posto dall’altro lato.
–
Ti
propongo una cosa prima di iniziare, sfidante, noi sappiamo dare ordini
anche
al Pokémon dell’altro... che ne dici se rendessimo questa lotta un
tantino più
complessa chiamando per nome il Pokémon al quale ordiniamo di attaccare?
In
modo che tu non sappia da quale dei due nemici proviene il colpo. – ideò
uno
dei due, quello vestito elegante coi capelli sciolti.
–
Sono
d’accordo – il fratello gli batté il cinque. – Ci stai, Xavier? – chiese
quello
con i capelli legati, chiamandolo per nome.
Il
castano
si rese conto che effettivamente non sarebbe riuscito a vincere tanto
facilmente se avesse rispettato quelle condizioni, ma, orgoglioso,
annuì.
Stette a pentirsene e a rimuginare sull’accaduto per i due millesimi di
secondo
seguenti, si morse il labbro e si stabilì di stare attentissimo per
quella
lotta, almeno finché non avesse scoperto il set di mosse avversario.
–
Venite
fuori! – esclamò Xavier lanciando le Ball di Eelektross e Pumpkaboo. I
due
esemplari fecero il loro ingresso in campo.
I
due
Capipalestra rimasero stupiti – Mandi in campo i Pokémon prima di vedere
quelli
dei Capipalestra? – chiese Codino.
–
Temerario – commentò Capellisciolti.
–
Ho con
me solo questi due compagni, quindi potete mettere quel che volete, la
mia
scelta non cambia – rispose Xavier a entrambi con la faccia spavalda di
chi
contraddice sicuro di aver ragione.
–
Ma così
faciliti a noi la nostra, di scelta – ribatté Codino.
Xavier,
che
fino a un momento prima si stava martoriando il labbro, si morse la
lingua.
Non sapeva da dove gli fosse arrivata quell’ondata di disattenzione che
gli
stava compromettendo previdenza e riflessione.
I
gemelli
risero. Per evitagli eventuali agevolazioni, voltarono le spalle allo
sfidante,
fecero intendere di starsi scambiando le rispettive sfere un numero
indefinibile di volte, in modo da non far capire chi fosse a lanciare il
Pokémon di chi e quindi per nascondergli persino la sua appartenenza.
Infine
si
voltarono, si misero in posizione e tirarono le Ball.
“Buona
l’acqua
fresca” pensava Guido tornando alla palestra di Costa Mirach a passo
lento sorseggiando una bottiglia di H2O con qualche minerale
dentro.
Stava facendo ritorno alla palestra dopo essere andato a rinfrescarsi.
Celia,
che
in quel momento era tornata ad avere un ritmo cardiaco naturale, lo vide
giungere
alla sua destra. Non saltò in aria per miracolo, ma si voltò furente
verso
l’uomo, che aveva riconosciuto essere la guida presente in ogni santa
palestra
del mondo e adibita all’introdurre essa ad ogni sfidante.
–
Mi può
spiegare che cosa succede là dentro?! – esclamò la bionda facendo
trasalire e
quasi strozzare l’uomo con la sua acqua. – Ci sono bambole che piangono
e
spilli e muri macchiati ed è buio! – proseguì con lo stesso piglio.
–
Ehi,
ehi, signorina, si calmi – la placò l’uomo. – Vuole dell’acqua fresca? –
chiese
mostrando la bottiglia.
–
Non
voglio dell’acqua fresca! – rispose lei ancora incazzata.
–
Se
proprio vuole sapere perché questa palestra è così particolare, le
spiego –
cominciò Guido ridestando la sua attenzione e in parte anche la sua
calma. –
...Luna, la Capopalestra, è una veggente ed ha sempre avuto un carattere
particolare e un po’... eh-eh... lunatico... e quello è il suo regno. Lo
addobba come vuole e i suoi gusti cambiano in base al tempo. Una volta
entri
nella sua stanza ed è tutto arcobaleni e fiori, il periodo primavera di petali, e la volta dopo ci sono poster raffiguranti
cadaveri sventrati e borchie, il periodo
metallara gore – riassunse quello.
–
Ah – si
calmò Celia. – ...e adesso in che periodo è? – domandò.
–
Eh –
mormorò Guido. – ...non lo so, a dire il vero è la prima volta che si
comporta
così, in più questa sua fase sta durando da un bel po’ ormai... a
pensarci bene
ancora non le ho dato un nome... vediamo – L’uomo cominciò a tirare
fuori denominazioni
a caso che riassumessero lo stato mentale di Luna in quel periodo, ma
Celia
aveva smesso di ascoltarlo e lui aveva sottratto la sua attenzione alla
ragazza.
La
bionda
di Austropoli era pronta a rientrare in quella palestra. Con un po’ di
coraggio, prese e aprì la porta, in un momento venne catapultata di
nuovo
all’interno di quel fantomatico mondo fatto di bambole martoriate,
spilli e
inchiostro nero. Camminò lenta e facendo attenzione a non calpestare
nulla, ma
impiegò del tempo prima di riabituarsi al buio pesto.
Di
nuovo
giunse alle sue orecchie il pianto, Celia fece una smorfia e cercò di
ignorarlo.
Si
muoveva
con calma, come si trovasse in mezzo ad un campo minato, col cuore a
mille e i nervi tesi, in cerca della Capopalestra. Ad un certo punto le
parve
di raggiungere una meta. In quel punto l’ammasso di bambole era più
grande e
sembrava celare qualcosa che si muoveva, qualcosa da cui provenivano i
singhiozzi.
Non
impiegò
molto a capire che si trattasse di Luna, allora con calma, senza essere
troppo invadente, mormorò un debole e timido “Salve...” che venne contrastato dal pianto forte mutato in un
gridare acuto della ragazza che, giunto tutto d’un colpo alle orecchie
di
Celia, la fece trasalire.
–
Andatevene, nubi! – iniziò a gridare la donna immersa nelle bambole
spillettate
e celata dal buio – Andatevene!
Celia
doveva
ancora riprendersi dallo shock, non ebbe il tempo di ascoltarla e di
decifrare le sue parole.
–
Luna! –
gridò quando il suo cervello tornò a funzionare.
–
Attenta
alle nubi! Stai attenta! – gridò la Capopalestra tra un singhiozzo e
l’altro.
–
Luna! –
chiamò di nuovo Celia.
La
bionda,
più per nervosismo destato dal timore che per rabbia, iniziò a
scuoterla stringendola per le spalle, aveva individuato il suo corpo e
faceva
di tutto per risvegliarla da quella sua furia cieca.
–
Le
nubi, le nubi, Celia! – gridò un’ultima volta la Capopalestra.
–
Luna,
voglio vincere una tua medaglia! – esclamò tutto d’un fiato la bionda
sovrastando persino la sua voce e dandole uno scossone talmente forte da
zittirla.
I
singhiozzi si fecero più lenti e le lacrime isteriche si trasformarono
in un
pianto calmo e doloroso. Per un attimo la bionda ebbe il timore di
averle fatto
del male, per questo non si mosse.
Durante
quel
frangente di calma riuscì a definire la fisionomia della ragazza che
aveva
davanti. Luna aveva, a occhio e croce, poco più di lei, ma era magra,
con la
pelle chiara e vestita di un abito da cameriera completamente nero,
pitturato, probabilmente
con gli stessi colori che sporcavano i muri. Il che aveva appunto
lasciato
numerosi segni sul suo corpo e anche sulle mani di Celia quando lei
l’aveva
afferrata. I capelli della ragazza erano di colore scuro, disordinati,
anch’essi probabilmente macchiati di tempera.
Il
singhiozzare
amaro di Luna proseguì per breve tempo, poi la ragazza smise e
rimase in silenzio. – ...tieni – sussurrò quindi a Celia prendendo una
bambola
a caso dal mucchio, e mettendogliela in mano. – ...ognuno dei loro occhi
è una
medaglia... la medaglia Eclissi – sussurrò a voce ancora più bassa.
–
Ma
come? Neanche tu combatti? – esclamò un po’ stupita ma affatto
preoccupata
Celia.
La
risposta
si fece attendere, poiché quando la bionda prese in mano la bambola,
Luna si girò su un fianco e smise di parlare e di muoversi.
–
Luna...? – riprovò dopo alcuni istanti la bionda.
–
Le
nubi, Celia, stai attenta alle nubi – concluse la Capopalestra con voce
bassissima, appena udibile, ancora scossa dal precedente pianto.
Celia
rinunciò,
strinse la bambola per quanto gli spilli conficcati in essa glielo
impedissero e si avvicinò alla porta.
Proprio
mentre
il vetro oscurato e scorrevole si apriva, le venne in mente che la
ragazza la aveva chiamata per nome, senza che lei le avesse mai rivelato
la sua
identità. Le fece strano, ma la luce del sole che la accecò per almeno
dieci
secondi le fece passare di testa quel pensiero che, nato nel freddo e
buio
antro dei dubbi del suo cervello, per coprirsi dai raggi solari indossò
un
mantello bianco con su scritto “facciamo
finta
che, in realtà, quella donna non abbia mai detto il mio nome”. E
tanti cari saluti.
Guido
vide
la bambola e sorrise alla bionda che, appena uscita dalla spelonca cupa
e
inquietante che era la palestra di Costa Mirach, doveva ancora abituarsi
alla
luce.
–
Sai che
ho trovato che nome dare a questo periodo? – le disse.
–
Ah sì?
– chiese sarcastica lei – E quale sarebbe? – domandò senza in realtà
avere il
minimo interesse riguardo quell’argomento.
–
L’ho
chiamato periodo notte dei poeti
e degli
assassini – sorrise Guido dando un altro sorso alla bottiglia di
acqua.
Celia
lo
guardò, scrutò la sua immagine a fondo ora che la sua vista glielo
permetteva
riuscendo solo a vedere al posto di quell’uomo un ammasso di cose di cui
non le
interessava una minima pagliuzza. Fece una smorfia strana. – Orribile –
commentò schifata. E andò via.
Due
Pokémon
comparvero sul terreno avversario, un Escavalier e un Accelgor. Quella
fu
la scelta dei due Capipalestra. Erano due esseri particolari, Xavier era
originario di Unima, perciò ne aveva visti a bizzeffe, ma quelli che
aveva
davanti sembravano più fieri, più allenati.
–
Prima
mossa a te, sfidante... – sorrise Codino.
Xavier
si
preparò mentalmente versando l’aria che aveva nei polmoni all’infuori.
–
Pumpkaboo, Bruciatutto, crea
un muro
di fuoco! - ordinò.
Il
Pokémon
eseguì, un’ondata di fiamme caotica e imprevedibile colpì in direzione
dei due
coleotteri avversari i quali furono costretti a tirarsi indietro per non
essere
colpiti da un attacco che avrebbe potuto infliggere loro parecchi danni.
Una nuvola
di fiamme rimase nel punto in cui Bruciatutto
aveva avuto il suo momento di massima espansione, per il tempo
necessario per
coprire il secondo attacco di Xavier. Un potente Falcecannone occultato dal fuoco, infatti, spuntò davanti
all’Accelgor
nemico che non fece in tempo a schivare l’attacco.
Xavier
conosceva
bene la velocità di un Accelgor, aveva ben pensato di danneggiare
entrambi gli
avversari con Bruciatutto e
allo
stesso tempo di sfruttare la mossa per non permettere ad Accelgor di
vedere e
schivare il secondo colpo.
–
Non è
malaccio – commentò Codino.
–
Assolutamente, ha studiato bene, direi... – sostenne Capellisciolti.
–
Gli diamo
sul groppone?
–
Gli
diamo sul groppone.
–
Doppioteam! – ordinò uno dei
due.
Accelgor
rispose
ai suoi comandi, Xavier annotò mentalmente.
Il
Pokémon
si sdoppiò in numerose sue immagini speculari, una dozzina di Accelgor
comparvero ad un paio di metri dal terreno, sopra le teste dei due
avversari.
–
Doppio Ago! – esclamò lo
stesso
Capopalestra.
Xavier
rimase
confuso, un Accelgor non era capace di utilizzare quella mossa. Capì il
tranello che era troppo tardi. Dal
basso,
Escavalier, passando nel punto cieco di Eelektross e Pumpkaboo che erano
occupati a tenere d’occhio i minacciosi Accelgor sopra di loro, aveva
assestato
ben due colpi centrando entrambi gli avversari con le sue due lance.
Violenza
pura. Eelektross cadde all’indietro e Pumkaboo fu sbattuto molto più
lontano.
Il
centro
della lotta si era spostato, ormai non si trovava più in corrispondenza
del
cerchio di luce solare ma poco all’infuori. L’erba si era leggermente
bruciata
al contatto col precedente colpo di Pumpkaboo, ma nulla di grave.
–
Eelektross, Sgranocchio su
Accelgor! Pumpkaboo,
Halloween su Escavalier!
–
Rispondi con Acidobomba! –
ordinò Capellisciolti.
Mentre
Eelektross
veniva intercettato dalla mossa di tipo Veleno
di Accelgor, il colpo di Pumpkaboo andava a buon fine, ora Escavalier
aveva tre
tipi, Coleottero, Acciaio
e Spettro, ed era mediamente vulnerabile alle mosse di quest’ultimo.
–
Fanculo, togliamo di mezzo Accelgor, Pumpkaboo Stordiraggio su Escavalier! – fece Xavier che si era reso conto che
la velocità del Pokémon Sgusciato
stava
dandogli parecchio filo da torcere e aveva deciso di lasciar stare la
sua
strategia basata su Halloween.
Una
flebile
lucina dondolante raggiunse Escavalier che non poté per forza di cose
difendersi, il Pokémon rimase stordito.
–
Entomoblocco su Pumpkaboo! –
ordinò Codino.
–
Scordatelo, Lanciafiamme e Bruciatutto, voi due! – esclamò
Xavier.
Effettivamente,
il
nemico fu colto impreparato. Due fasci di fuoco, uno più grande, l’altro
più
modesto, circondarono il Pokémon Sgusciato
che si trovò, ironicamente, proprio tra due fuochi. I colpi andarono a
segno,
Accelgor cadde a terra quasi esausto.
–
Sdoppiatore – ordinò Capellisciolti.
I
Pokémon
di Xavier non se ne resero conto, neanche Xavier a dirla tutta, ma
Escavalier
era tutt’altro che confuso.
Ci
fu un
impatto violentissimo, il Pokémon Cavaliere,
con addosso la sua armatura pesante di metallo, si scagliò con tutta la
sua
mole addosso a Pumpkaboo che fu scagliato vicino all’Accelgor nemico.
–
Cazzo,
Eelektross, Sgranocchio! –
fece
preoccupato Xavier, leggermente in tensione.
–
Contropiede – rispose Codino.
Escavalier
fu
colpito dalle fauci del Pokémon Elettropesce,
ma rispose immediatamente con un rude colpo con il lato della lancia che
fece
piegare Eelektross in due.
–
Ci
vuole ben altro per far perdere la concentrazione ad Escavalier, Xavier!
-
esclamò con un ghigno soddisfatto uno dei due Capipalestra. Il ragazzo
di Unima
si rese conto che non era stato previdente concentrandosi solo su uno
dei due
avversari. Escavalier non era rapido quanto il suo compagno, ma
sicuramente lo
batteva in potenza. In tutta questa combo, il tanto ostico Accelgor era
rimasto
a terra, mentre Pumpkaboo aveva trovato la forza di rialzarsi.
–
Finiscilo con Metaltestata –
ordinò Capellisciolti riferito
al Pokémon Zucca.
Escavalier
si
lanciò contro di lui di gran carriera.
–
Perfetto, usa Malcomune! –
ribatté
Xavier.
La
carica
del Pokémon Acciaio/Coleottero fu
intercettata
dalla forza psichica di Pupkaboo. Escavalier si contorse, il
Pokémon di Xavier stava sottraendogli energia a distanza in modo da
pareggiare
la loro forza vitale rimanente. Ed era molto ampio il divario tra i due,
considerando che Pumpkaboo ne aveva prese, e anche molte, mentre
Escavalier era
sì e no stato toccato da un colpo anche piuttosto debole.
Improvvisamente,
Escavalier
fu più stanco mentre Pumpkaboo si ristabilì quasi del tutto. Xavier era
soddisfatto della sua mossa.
–
Non ci
riesci, Gigassorbimento! –
ordinò un
Capopalestra.
Repentino
come
un fulmine, Accelgor si rialzò da terra e bloccò Pumpkaboo da dietro
mummificandolo con le due bende che aveva attorno al collo. Un bagliore
verde si
manifestò nel punto d’incontro tra i due Pokémon. Accelgor mollò
Pumpkaboo che
cadde a terra rovinosamente. Esausto.
Xavier
non
fu affatto felice di ciò, aveva perso un Pokémon e aveva a disposizione
solo
Eelektross che era anche abbastanza stanco, mentre doveva fronteggiare
un
Escavalier con metà delle sue energie e un Accelgor appena tornato nel
pieno
delle forze. Per colpa sua, in più.
Fece
rientrare
il Pokémon Zucca. In quel
momento si
accorse di una cosa, un brandello di una sottile membrana nera cadde
davanti a
lui svolazzando nell’aria, un brandello della fasciatura di Accelgor, lo
riconobbe subito. Capì immediatamente, ricordò che gli Accelgor devono
tenersi
sempre idratati e potevano creare una membrana umida per farlo da soli,
ma
evidentemente quello del suo avversario non ne aveva avuto il tempo.
Inoltre dopo
esser stato circondato dai due fuochi ed essere rimasto fermo sotto il
fascio
di luce per un bel po’... si era evidentemente “seccato”.
Sorrise.
–
Eelektross, Lanciafiamme,
incendia
tutto!
Il
Pokémon
raccolse le sue forze e sputò un getto infuocato
potentissimo che colpì
Escavalier per primo, essendo il più vicino a lui, poi di striscio anche
Accelgor. Il colpo arroventò l’atmosfera.
–
Continua, mira ad Accelgor!
Altro
fascio
di fiamme. I due Capipalestra furono rimasero stupiti, Xavier conosceva
bene i
Pokémon e i loro punti deboli, e sapeva pure sfruttare quei punti a suo
vantaggio, sicuramente avevano trovato un degno avversario. Eppure
successe qualcosa
di imprevedibile, Escavalier si schierò davanti al compagno che stava
per
essere colpito, Accelgor perdendo acqua, aveva perso anche velocità di
movimento. Il Lanciafiamme
colpì in
pieno il Pokémon Cavaliere che
rovinò
a terra esausto.
–
Ma
allora non dovevo preoccuparmi più di tanto, elimina anche Accelgor, usa
Colpo! – ordinò Xavier.
Capellisciolti
stava
ritirando
Escavalier nella sfera, Codino
entrò in soccorso del Pokémon Sgusciato.
– Attacco Rapido! – ordinò.
Accelgor
si
scagliò repentino contro Eelektross. Ma servì a poco e niente, la sua
effettiva
forza fisica era imparagonabile a quella avversaria, il corpo a corpo
non era
per Accelgor. Il Pokémon fu intercettato da Eelektross che lo stordì
prima di
tutto con una capocciata, quindi iniziò a massacrarlo a forza di colpi
devastanti con i suoi artigli senza dargli un momento di tregua. Quando
Accelgor
perse conoscenza, il Pokémon Elettropesce
pose fine al suo momento berserk, concludendo la lotta.
Xavier
aveva
vinto.
Kalut
aprì
gli occhi, vide l’erba, prima di tutto, l’erba che aveva davanti e
l’erba
sulla quale si era addormentato. Quindi avvertì la presenza di
Venipede, ancora
stretto al suo corpo. La sua mente impiegò un po’ a comprendere che
non era
morto. Kalut sorrise, sorrise davvero, con gusto, un sorriso che
proveniva dal
suo ventricolo destro. Si alzò in piedi, mossa che svegliò Venipede.
Si guardò
attorno, guardò il suo corpo, lo toccò, strinse i suoi capelli. Si
accorse di
essere vivo.
Si
rese
conto che il sonno era finito.
Il
ragazzo
balzò in piedi, si sentiva carico e pronto a qualsiasi cosa, era
felice, soddisfatto, ma... tutto in un momento, questo finì. Una
scossa
attraversò tutto il suo corpo, una specie di contrazione, un dolore,
da alcuni
punti di vista. Lui si piegò in due, mugolò premendosi con una mano
l’addome.
Aveva
fame,
sentiva il bisogno di mangiare.
Venipede
si
accostò a lui, probabilmente il Pokémon aveva compreso. Subito si
diresse
verso un albero e cominciò a salire sulla sua corteccia, Kalut,
distratto dal
morso allo stomaco, lo seguì con lo sguardo. Venipede scomparve tra le
foglie
dell’albero, il ragazzo avvertì il rumore di alcuni rami che venivano
mossi, il
fruscio delle foglie giungere alle sue orecchie.
Dall’albero
cadde
una Baccapesca che precipitò a terra, tra l’erba. Kalut rimase
leggermente basito. Venipede tornò a fare capolino dalle foglie, come
per
richiamare il ragazzo. Quindi tornò indietro e fece cadere altre due
Bacchepesca. Kalut comprese, si abbassò e le raccolse, le strinse tra
le mani.
La quarta Baccapesca la prese al volo.
Si
convinse
e le diede un morso.
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Capitolo 6 *** Capitolo 5 - Ricerca ***
Capitolo
5 -
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Un
salto.
Niente. Un altro salto. Niente.
Le
bacche
erano troppo in alto perché Kalut riuscisse a raggiungerle. Venipede
comprese il suo disagio e la sua fame, decise quindi di tornare
sull’albero e
facilitare il gioco al ragazzo lasciandogli cadere altri frutti. La
creatura
cominciò a salire lungo la corteggia, lentamente, con calma. Il
ragazzo lo
fissò con occhi spiritati, coinvolti fino all’ultima cellula.
Ovviamente si
avvicinò alla corteccia e provò anche lui a scalarla, mise un piede su
di essa,
una mano, poi un altro piede un po’ più in alto... si accorse troppo
tardi di
non avere appigli e rovinò miseramente a terra spellandosi leggermente
il
ginocchio e la coscia. Non demorse, riprovò e si fece di nuovo male.
Celia
fissava
la bambola che aveva in mano.
Nel
frattempo,
attorno a lei, plotoni di persone tra clienti e camerieri si
muovevano freneticamente. Vassoi che scorrevano agilmente tra gli
sguardi
sperduti di potenziali clienti appena entrati nel ristorante che
scrutavano tra
la coltre di teste e pietanze in cerca di un tavolo vuoto adatto ad
essere
inquinato dalla loro presenza. Ogni tanto un bambino sfuggiva dalla
campana di
vetro dei genitori, cominciava a correre tra le gambe della folla fino a
sbattere con le gambe di un qualche cameriere che, obbligato dal suo
mestiere
ad essere sempre sorridente, eludeva giovialmente il bambino come si fa
con
l’assillante richiesta di un mendicante e continuava per la sua strada.
Un
chiacchierare entusiasta e acuto aleggiava nell’aria, l’acciottolare dei
piatti
era il tappeto.
La
ragazza
si decise, era ancora ferma al tavolo su cui aveva consumato il suo
pranzo, ma poco gliene importava, i camerieri erano troppo impegnati per
preoccuparsi di una ragazza che occupava un solo posticino ad un angolo
buio e
sperduto della sala. Celia prese un coltello e tagliò alla meno peggio
il filo
che teneva attaccati gli occhi-bottoni della bambola alla sua testa, ne
rimosse
uno, dopo aver liberato quel punto da tutti gli spilli che vi erano
conficcati.
Quel pezzo di metallo che le rimase in mano aveva la parvenza di un
bottone ma
la sua forma era leggermente più complessa, i quattro buchi che vi erano
aperti
al suo interno erano decorati in modo strano e tutti i bordi erano
rifiniti.
Diede un’occhiata all’altro “occhio”. Stessa cosa. Aveva tra le mani ben
due
medaglie Eclissi una delle
quali
ancora attaccata alla bambola di pezza macchiata di inchiostro.
Le
venne
in mente di chiamare Xavier e regalargliela.
Impiegò
alcuni
minuti a trovare il suo contatto sul PokéNet, lo strumento era talmente
intuitivo da risultare a volte fastidioso all’uso, e lo chiamò. Il
ragazzo
rispose in video, si vedeva chiaramente dal piccolo display che aveva la
bocca
piena e un panino tra le mani.
–
Oh,
Celia, dimmi – rispose il castano.
–
...’spetta...
– la ragazza era intenta a cercare l’interruttore a sfioramento,
individuò il
punto, ci passò sopra il polpastrello e immediatamente l’immagine di
Xavier
mutò in una sua proiezione olografica. – Ok, ci sono, volevo dirti... –
rimuginò un istante.
–
A
parole tue – incentivò lui.
–
A
quante medaglie sei? – domandò Celia.
–
Una.
–
Io tre
– ribatté lei assistendo al più radicale mutamento di espressione che
avesse
mai visto fare a Xavier.
–
Tre?! –
chiese incredulo lui. – Caspita sei stata via un giorno e mezzo...
Celia
rise.
– Ma aspetta, non è così semplice, due sono uguali, ho due medaglie
Eclissi, ne vuoi mica una? – spiegò.
–
Eh... –
Xavier non capiva perfettamente, ma cercò di mandar giù la notizia allo
stesso
modo. – Presumo di sì? – Era più una domanda che una risposta.
–
Dai,
tanto la Capopalestra è una pazza, non ti chiede di combattere, ti dà la
medaglia e via... – affermò
Celia.
–
Come?
Non combatte?
–
No, e
io sono stata fortunata, non ho dovuto sconfiggere neanche Arturo, sul
percorso
ho incontrato il Campione Antares e lui mi ha dato uno strappo fin qui
facendomi anche prendere la medaglia di Vulpiapoli senza sfidare il
Capopalestra – sorrise gaia lei.
–
Davvero...? – chiese il ragazzo un po’ deluso e un po’ infastidito.
–
Davvero
– confermò lei.
–
Mh... –
Pausa. – Vabbè... il resto come va?
–
Tutto
bene, io sono abbastanza avanti e mi sto divertendo, tu invece?
–
Anche
io, i Capipalestra qua a Borgo Asterion sono ossi duri, però, in
compenso... –
dette un morso al panino che brandiva come un trofeo. – ...si mangia
bene.
–
Vedo.
–
La squadra?
– domandò a bruciapelo lui.
–
Oh
cavolo, devo ancora trovare un compagno a Gel... – ricordò lei un poco
allarmata.
–
Ah, io
ho un Pumpkaboo! – sfotté lui.
–
Un
Pumpkaboo...? – domandò lei lasciando trapelare il sarcasmo.
–
È un
Pokémon molto forte – ribatté Xavier.
–
Mh,
vabbè, adesso dove sei diretto tu? – chiese la bionda cambiando
argomento.
–
Penso...
penso che andrò a Idresia – rispose.
–
Ah,
anche io avevo idea di andare lì, siamo più o meno alla stessa distanza.
Facciamo una cosa...
Xavier
aguzzò
l’attenzione.
–
Passiamo dal Professor Willow e poi andiamo a battere il Capopalestra
insieme,
il primo di noi che arriva aspetta l’altro, così ti do anche la
medaglia, che
ne dici?
Il
ragazzo
annuì. – Ci sto, magari lottiamo anche.
La
loro
chiamata terminò.
Celia
rifletté
un istante su ciò che aveva detto il castano. Pensò che effettivamente
lei aveva a disposizione soltanto Gel e Xavier conosceva bene le sue
mosse. In
più i Reuniclus sono vulnerabili al tipo Spettro
dei Pumpkaboo. Aveva bisogno urgente di un nuovo Pokémon.
La
ragazza
pagò il conto e si diresse immediatamente fuori, volle ripartire
subito. Guardò sul PokéNet e notò che le mancavano diverse ore di
cammino per
giungere al fiume Eridano. Idresia si trovava su un isoletta che sorgeva
al
centro di un lago formato dal rigonfiarsi del fiume stesso al centro
della
regione. Ancora sentiva l’acido lattico di quella mattina, ma poco
gliene
importava. Si mise in cammino con Gel che le galleggiava accanto, ma non
prima
di aver dormito una mezz’ora.
Xavier
accartocciò
la busta che conteneva l’hamburger appena consumato e la gettò nel
più prossimo cestino. Prese il passo, la direzione era Idresia e la sua
squadra, appena ritirata al bancone del Centro Pokémon, gli sorrideva
radiosa.
Tirò
fuori
il PokéNet e impostò la destinazione nel programma Navigatore. Secondo i
calcoli del dispositivo avrebbe impiegato sette ore circa di cammino per
raggiungere la cittadina. Era pronto ad affrontare la scarpinata.
Kalut
era
steso a terra, Venipede gli girava attorno mentre lui fissava il
cielo.
Calmo, sereno, silenzioso. Il Bosco Lira sembrava privo di vita,
eppure ogni
istante un nuovo e sconosciuto suono giungeva alle sue orecchie.
“Kricketune,
Roselia,
Combee...” pensava lui man mano che il suo cervello identificava la
specie che emetteva il verso. Si accorse di saper dare un nome a quei
Pokémon,
si rese conto di conoscerli. Era come se nel suo cervello ci fosse
qualcosa di
già scritto, qualcosa che andava scoperto di nuovo. Ma era troppo
complesso e
troppo nascosto perché lui ci riuscisse.
–
Venipede! – esclamò, nella sua spensieratezza. Il Pokémon ridestò la
sua
attenzione, sentendo il richiamo. Kalut rise, rise di gusto, senza
motivo, ma
rise.
Ad
un
certo punto la sua serenità fu minata da un rumore, il muoversi di un
ramo
improvvisamente. Di nuovo.
Si
alzò
in piedi.
Eppure,
il
ragazzo non provò timore, la prima sensazione che giunse alle sue
sinapsi non
fu l’ansia né tantomeno la paura. Si sentiva dentro, si sentiva
attratto da
quella sensazione di sconosciuto che aveva intravisto in quel suono.
Sentiva di
voler capire di che cosa si trattasse.
Fece
un
gesto a Venipede per intimargli di seguirlo e cominciò a camminare.
–
Quello?
Ti piace? – chiese Celia rivolta a Gel mostrando un Cherrim col display
del suo
PokéNet. Il dispositivo era fornito di un database contenente
informazioni
riguardanti tutti i Pokémon trovabili a Sidera ordinati in base alla
zona. Il
Pokémon la fissò con occhi delusi. – No, infatti, neanche a me... – si
rispose
la ragazza.
La
bionda
si muoveva lungo il sentiero da un paio d’ore, il sonno lo aveva
recuperato e
si sentiva pronta a concludere il viaggio verso Idresia in un giorno,
proprio
per questo nel tempo limite di un arco solare doveva trovare un Pokémon
da
aggiungere al suo team.
–
Quello
invece? – Un Purugly, stavolta, era mostrato nello schermo. Il Reuniclus
non le
rispose neanche. Celia scosse di riflesso la testa.
In
quel
momento le venne un’idea. Secondo le mappe nei pressi del punto dove
stava
camminando in quel momento vi era un antro poco profondo. Lei sapeva per
certo,
per una di quelle credenze che si acquisiscono da bambini e poi faticano
ad
andarsene nel corso degli anni, che nelle grotte si trovavano sempre dei
Pokémon interessanti. Decise di incamminarsi verso questo luogo e magari
esplorare questa caverna per capire quali esemplari esotici si potessero
catturare al suo interno.
Non
impiegò
molto a trovarla, non mancava di senso dell’orientamento, una fessura
in un massiccio vicino si apriva quasi ad accogliere gli allenatori in
cerca di
rogne. Camminò per un po’ in tondo all’interno della prima stanza della
grotta,
sempre rimanendo nei pressi della sagoma di luce disegnata a terra dalla
porta,
dato che era sprovvista di una torcia, indecisa se inoltrarsi ancora o
cercare
cose interessanti in quel punto. Decise di spingersi un po’ oltre. Ad un
certo
punto udì il gutturale verso di un Pokémon giungerle alle orecchie. Si
voltò e
con lei Reuniclus.
Probabilmente
infastidito
dalla loro presenza, un Gible aveva abbandonato il nido e, battagliero
come tipico della sua specie, era venuto ad affrontare l’intruso.
Il
Pokémon
piacque alla bionda che fece un semplice calcolo, Terra: resistente a Eelektross e Drago: resistente a Pumpkaboo. Non ci pensò due volte.
–
Psichico, Gel! – ordinò.
Una
pressa
invisibile cominciò a spremere le tempie del Pokémon Squaloterra
che, ancor più incazzato, si
lasciò sfuggire un Riduttore
con cui
centrò il Reuniclus troppo impegnato a strizzargli la materia grigia.
–
Stordipugno! – il suo ordine
risuonò
nella caverna.
Le
forti
braccia di Gel incontrarono il corpo di Gible ancora scosso dal
contraccolpo che
tentò di contrattaccare con Lacerazione
ma fu vinto dalla potenza avversaria. Cadde a terra stanco ma non
esausto.
Celia voleva prima sfinirlo, quindi ordinò al suo Reuniclus di
utilizzare Psiconda.
Una
sorta
di immagine violacea dalla sagoma simile a quella del Pokémon Espansione
partì dal corpo gelatinoso di
lui per colpire l’avversario emanando una luce accecante. Gible rimase
sconfitto,
ma il bagliore diede per un istante a Celia la possibilità di vedere che
appesi
al soffitto vi erano numerosi Zubat e Woobat. Non ebbe il tempo di
calcolare la
gravità della situazione, la luce improvvisa spinse l’insolito stormo di
Pokémon Pipistrello a
riversarsi,
innervositi dalla sveglia indesiderata, all’interno della caverna e a
sbattere
le ali freneticamente creando una fattispecie di vortice svolazzante
attorno a
Celia e Gel. La ragazza si spaventò ma il suo Pokémon
fu lesto a creare una barriera psichica
attorno a loro due per impedire ai Pokémon selvatici di colpirli.
Celia,
all’interno
della bolla, sentiva i corpi degli Zubat cozzare contro le pareti
traslucide e poi subito dopo il più debole ma ripetuto sbattere delle
loro ali
nello stesso punto, i Woobat invece erano più controllati e attaccavano
una
volta, due al massimo, prima di gettare la spugna e lasciare che la
barriera
rimanesse al suo posto.
La
furia
di alette e dentini si concluse poco dopo. Alcuni di quei Pokémon erano
usciti
dalla grotta per affrontare il sole e altri invece si erano rifugiati
spingendosi nei visceri più profondi e reconditi dell’antro. Celia e Gel
erano
al sicuro. Il Pokémon lasciò che la barriera si dissolvesse.
–
Che
cavolo... – commentò la ragazza mentre il suo cervello faceva mente
locale. –
Oh no! – esclamò. Le era tornato in mente Gible. Si voltò.
Il
Pokémon
era disteso a terra, pieno di graffi e ferite, totalmente devastato. Lo
stormo aveva attaccato ciò che poteva attaccare, l’unico Pokémon esterno
allo
scudo psichico di Reuniclus. La
ragazza
si appropinquò a lui. Poteva perfettamente udire il suo respiro
affannato e
rotto. Era ancora vivo. Celia
prese il
Gible tra le braccia e corse fuori dalla caverna.
La
luce
investì i suoi occhi costringendola a strizzarli per i primi momenti. Le
venne
in mente che la cittadina più vicina era Costa Mirach, da cui lei era
partita,
ed era ad un’ora e mezza di cammino. – Merda... – In un primo momento
non vide
la salvezza per quel Pokémon che aveva in braccio, poi una lampadina a
risparmio energetico si accese nel suo cervello. La ragazza diede Gible
a Gel e
aprì la borsa.
Ben
cosciente
del fatto che non sarebbe bastata a ristabilirlo completamente, tirò
fuori una Cura Ball dalla tasca laterale e, attivandola, la poggiò
delicatamente sul corpo del Pokémon Squaloterra.
La sfera si aprì e lo risucchiò al suo interno. Il Pokémon era stato
catturato,
neanche aveva provato ad opporsi.
–
Andiamo! – esclamò la bionda prendendo a correre verso il sentiero che
aveva
seguito nell’intento di ripercorrerlo tutto al contrario.
Era
tardo
pomeriggio e Xavier si trovava a metà strada, Borgo Asterion era
leggermente
più vicino a Idresia rispetto a Costa Mirach, lui era certo che
l’avrebbe
raggiunta prima di Celia. Il ragazzo guardò l’orario e iniziò a
prendersi il
viaggio alla maniera più comoda. Sconfisse qualche Pokémon selvatico,
allenò i suoi
due compagni di squadra, Eelektross e Pumpkaboo e si preparò
ulteriormente sia
alla lotta con Celia che a quella con la Capopalestra di Idresia.
Kalut
era
in posizione di guardia. Scrutava l’ambiente circostante con
attenzione e
un broncio di concentrazione in volto, accanto a lui Venipede. Un ramo
sopra di
lui si mosse ancora, i suoi occhi si diressero tra quelle fronde da
cui, dopo
alcuni istanti, uscì uno Staravia pronto all’attacco, in cerca di
prede. Kalut
si tirò indietro in modo da eludere il becco del Pokémon mentre
Venipede si
preparava a ricevere ordini di attacco.
–
Staravia... – sussurrò Kalut. – Venipede! – esclamò tendendo il
braccio al suo
Pokémon. Il Centipede si aggrappò alla mano del ragazzo, salì sul suo
arto e,
passando sopra le spalle, giunse all’altro braccio da cui, come se
avesse
inteso perfettamente le intenzioni di Kalut, si gettò attaccando con
Rotolamento il Pokémon avversario. Staravia incassò il colpo ma non ne
rimase
danneggiato gravemente, quindi rispose con Attacco Rapido, ma Venipede
resistette.
Kalut
annuì,
in qualche modo, sapeva di star comunicando le mosse al Pokémon, ma
non
aveva idea di come il suo cervello potesse conoscere così tante
strategie,
tecniche, possibilità di combattimento. Seguiva nel frattempo la lotta
con
occhi smarriti, troppo occupati a studiare quello che aveva davanti e
ogni
possibile suo esito. La sua mente come un computer elaborava gli
avvenimenti e
ne elencava le possibili risposte alternative, in conclusione
sceglieva sempre
quella più conveniente. Tutto in pochi millisecondi.
Il
ragazzo
gridava rendendosi conto che Venipede stava per essere colpito a
sinistra
da Aeroassalto, lui usava Ricciolscudo e si difendeva. Chiamava il
nome del
Pokémon quando Staravia mostrava il fianco, un Velenocoda subito
veniva
sferrato da questi andando perfettamente a segno.
Il
Pokémon
Centipede colpì un’altra volta l’avversario, Staravia barcollò, ma non
si arrese. Le sue ali si illuminarono e per un istante i suoi occhi si
diressero verso Venipede. Kalut lo notò, ma senza un reale motivo non
fece
nulla per allertare il suo Pokémon e quest’ultimo incassò un Attacco
D’Ala. Il
messaggio lo raggiunse, coniò ufficialmente la sua sicurezza del fatto
che il
Venipede si basasse sui suoi avvertimenti per attaccare e difendersi.
Kalut
sorrise.
Staravia
si
avvicinò per un secondo attacco, il ragazzo avvertì il Pokémon un
ultima
volta. Protezione. Quindi Rulloduro. E l’avversario era a terra.
Kalut
ispirò,
permise a Venipede di riavvicinarsi tenendo gli occhi fissi sul
Pokémon
uccello svenuto ai suoi piedi. Aveva vinto.
Cacciò
un
grido di sfogo e felicità insieme.
|
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Capitolo 7 *** Capitolo 6 - Scoperta ***
Capitolo
6 -
Scoperta
“Cureremo
il Pokémon,
faremo del nostro meglio.” aveva detto in tono rassicurante
l’infermiera.
Celia
era nella sala
d’attesa del Centro Pokémon. La sera stava scendendo su Sidera e lei
aspettava,
aspettava che un qualche aggiornamento giungesse dall’equipe di dottori
che si
stavano occupando di Gible ormai da diverso tempo. Tra le mani aveva un
bicchiere di polistirolo dal quale aveva bevuto poco prima. Odiava quei
bicchieri, capiva che la loro peculiarità nell’essere di quel materiale
così
poco resistente stesse proprio nell’essere usa e getta, in modo da
prevenire la
diffusione di un possibile morbo giustamente contraibile in luogo come
un
ospedale, ma li odiava. Le davano un senso di precarietà, di debolezza,
di
fragilità, e in quel momento lei aveva bisogno di sicurezza, sicurezza
d’acciaio.
Attorno
a lei c’erano
poltrone vuote. Un solo ragazzo, sdraiato su una di esse, giaceva
immobile con
una rivista in faccia. Sembrava addormentato.
Celia
gesticolava
nervosa giochicchiando col bicchiere che aveva in mano, generando un
rumore
abbastanza fastidioso.
–
Ti pagano mica per il
concertino? – mormorò sarcastico il ragazzo da sotto la sua rivista, ad
un
certo punto.
Celia
si voltò verso di
lui. Impiegò un po’ per capire che la domanda fosse rivolta a lei.
–
Scusa...? – domandò
insicura.
–
Ti pagano per
svegliarmi a suon di polistirolo? – precisò l’individuo sollevandosi e
togliendosi la rivista dal volto.
Celia
lo scrutò. Era
giovane, le sorrideva, portava una felpa nera con la scritta “One
Soul”, e dei jeans larghi, era
castano, con gli occhi nocciola.
–
...n-no... – balbettò
disattenta. Un particolare aveva catturato la sua attenzione. I suoi
occhi non
la ingannavano, da dietro la felpa del ragazzo, spuntava un nodo di
cravatta,
un colletto inamidato e una giacca nera elegante.
Fissò
il collo della
persona che aveva davanti come per accertarsi che ciò che vedeva non
fosse uno
scherzo della sua vista.
Lui
ovviamente lo notò.
– Cerchi qualcosa? – domandò sorridente abbassandosi e intercettando la
linea
del suo sguardo.
Celia
venne colta alla
sprovvista. – Io? No, non... non è nulla... – La ragazza si alzò in
piedi e
raccolse la sua borsa.
–
Ehi, ma dove...?
–
Scusami, ma ho da
fare. – tagliò corto la bionda.
Abbandonò
il ragazzo che
non prese proprio benissimo la cosa e si chiuse nel bagno. Trasse un
sospiro.
Era ancora appoggiata alla porta. Si sciacquò il volto, fece mente
locale,
chiarì momentaneamente la confusione. Si accorse che non era poi così
orribile
la situazione, stava andando bene, era solo un Gible selvatico quello
per cui
si stava preoccupando tanto. Tecnicamente era il suo, l’aveva catturato,
ma
soltanto da alcune ore.
Uscì
dal bagno dopo
dieci minuti contati. La prima cosa che vide fu il
ragazzo-giacca-sotto-la-felpa
conversare con un medico.
–
È entrata nel bagno,
dovrebbe essere di ritorno a br... - diceva il castano.
–
Dottore, come sta
Gible? – intervenne Celia spuntando alle spalle dell’uomo in camice.
Il
medico si voltò.
–
Signorina, il suo
Pokémon si sta rimettendo, – La bionda poté liberarsi di un peso che
gravava
sul suo stomaco. – è stato molto fortunato, gli effetti della sua Cura
Ball le hanno
molto probabilmente salvato la vita – confermò il medico.
–
Grazie mille, quando
posso ritirarlo? – chiese Celia stringendo la mano all’uomo.
–
Mh, io le consiglierei
di farle passare la notte in pace, domani potrete ripartire, ma mi
raccomando,
non sottoporla ad uno sforzo eccessivo per i primi tempi, occupati di
lei. –
raccomandò il medico.
–
Uh? È femmina? –
domandò la bionda.
–
Ed è anche
giovanissima, lei è un’Allenatrice signorina...?
–
Celia, mi chiamo
Celia. Sì, sono in viaggio per vincere le medaglie di Sidera – rispose.
–
Beh, sicuramente una
volta che si sarà evoluta avrà un Pokémon davvero forte e fedele in
squadra –
il medico fece per andarsene. Si girò verso la bionda all’ultimo
momento. – Ha
la pellaccia dura – concluse prima di voltarsi e sparire nel corridoio.
Celia
raggiunse la
stanza in cui stava riposando il secondo membro della sua squadra. Gible
era in
un lettino ricurvo studiato appositamente per i Pokémon di piccole
dimensioni,
aveva un’espressione serena in volto. Alcune bende erano avvolte attorno
ai
punti più delicati come le giunture o la pinna che aveva sopra la testa,
ma non
vi era traccia di emorragie o ferite gravi. Era felice che stesse bene,
ma non
lo aveva catturato per “non sottoporlo ad uno sforzo eccessivo”. Aveva
bisogno
di un compagno che la aiutasse nelle lotte.
–
Mi serve Karma... –
sussurrò tra sé e sé.
Julie
stava mettendo a
dormire i Wurmple. Curava i loro bozzoli bianchi e lilla appena
iniziati,
faceva sì che nessuna scoria, foglia secca o rametto si impigliasse
nella seta
da loro prodotta. Una voce giunse dallo stabilimento dell’allevamento. “Julie, ti cercano al telefono!”.
Era
sua mamma.
–
Arrivo ma’! – rispose
lei.
Percorse
velocemente
tutto il prato, Volbeat e Illumise le facevano strada con le loro luci
nell’oscurità della notte.
Giunse
da sua mamma che,
in vestaglia, la aspettava con la cornetta in mano. Julie fece un gesto
alla
madre con la mano come per chiedere chi fosse a cercarla a quell’ora, il
labiale della madre le rispose il nome “Celia”.
–
Celia, dimmi, come va
il viaggio? – salutò la castana.
–
Tutto bene, grazie per
l’interessamento – rispose la bionda dall’altro capo, parlando alla
cornetta
del telefono del Centro Pokémon. – Julie, mi serve Karma – tagliò corto.
– Puoi
mica mandarmelo al Centro Pokémon Ospedaliero di Costa Mirach? –
domandò.
–
Ehm... va bene, te lo
invio immediatamente se vuoi... – rispose Julie.
–
Grazie mille, ti devo
salutare adesso, sei dolcissima, ciao! – Celia riattaccò.
Julie
rimase un momento
interdetta per la brevità della telefonata, la bionda sorella di Xavier
non era
mai stata così precipitosa, non che lei ricordasse.
La
mora raggiunse un
mobile al lato della sala, lo aprì e iniziò a cercare. Esso conteneva le
Ball
degli Allenatori che avevano lasciato i loro Pokémon all’allevamento,
tutte
ordinate e disposte correttamente, ognuna di esse aveva una targhetta
con su
scritti i dati essenziali riguardanti l’esemplare di appartenenza.
Prese
in mano una Ultra
Ball con attaccato un’etichetta cartacea bianca con su scritto “Celia
Ellison, Skarmory, femmina, Karma”.
Tornò fuori.
Si
diresse verso la
parte di giardino in cui avevano disposto dei giganteschi massi per far
adattare i Pokémon più abituati ad un ambiente montano.
–
Karma! – chiamò senza
gridare troppo.
Pochi
secondi e poi un
potente Pokémon Armuccello con due battiti d’ali sorse da dietro il
massiccio
per atterrare, spostando ingenti quantità d’aria, davanti a lei. Emise
il suo
verso acuto.
–
La tua allenatrice ha
bisogno di te, bella... – gli sussurrò l’Allevatrice carezzandola e
poggiando
sul suo corpo la Ball. La Skarmory scomparve all’interno della sfera.
Celia
attendeva davanti al
dispositivo di trasferimento Pokémon. Aveva già chiesto il permesso di
utilizzarlo
all’infermiera che aveva il turno al bancone principale quella notte.
Aspettava
la sua Skarmory, Pokémon che aveva catturato a Johto accompagnando
Xavier in
uno dei suoi viaggi. Insieme avevano attraversato le regioni di Unima,
Johto e
Kanto, lei aveva persino ottenuto le medaglie di quest’ultima, oltre
quelle
della sua regione originaria. Ovviamente durante questi itinerari
lontani da
casa aveva approfittato per costruirsi un team coi fiocchi con il quale
aveva
viaggiato praticamente sempre. Prima di iniziare la gita a Sidera, però,
aveva
deciso di ricominciare tutto da capo e lasciare tutta la sua squadra,
escluso
Gel, all’allevamento della ragazza di suo fratello. Cosa simile aveva
fatto
Xavier che diversamente, aveva catturato molti più Pokémon in ogni
regione attraversata,
ma ne aveva liberata la maggior parte alla conclusione del viaggio. Si
era
ritrovato alla fine con tre soli esemplari tra le mani e uno di questi
era il
suo Eelektross. Diceva di volersi costruire una squadra composta dai “membri più forti delle squadre”.
Un
suono svegliò Celia
dal suo flusso di coscienza. La richiesta di trasferimento da parte
dell’Allevamento Pokémon di Delfisia richiedeva di essere accettata sul
monitor
del dispositivo. Lei premette il tasto OK.
Avvertì
un ronzio
leggero, una luce all’interno della capsula di trasferimento, quindi la
sua
Ultra Ball si materializzò nel dispositivo. La ragazza la prese in mano,
la sua
pelle fu solleticata dall’elettricità statica quando entrò in contatto
con la
sfera nera e gialla. Lo sguardo di Celia oltrepassò il vetro traslucido,
un’assopita Skarmory riposava serena nella sua mano. La sua compagna
così
possente si faceva così minuscola una volta chiusa dentro la sua capsula
La
ragazza mise la Ball
a posto nella borsa, accanto a quella con dentro Gel e a quella vuota
assegnata
a Gible. Aveva sonno. Voleva andare a dormire. Le indicazioni per
trovare le
stanze da letto per i viaggiatori all’interno del complesso dedalo che
era
quell’enorme Centro Pokémon Ospedaliero gli furono date dall’infermiera.
Ripassando nella sala d’accoglienza, la bionda si accorse che il ragazzo
con i
capelli castani era scomparso, nessuno sedeva più sui divanetti rossi.
Una
triste atmosfera cupa aleggiava in quella stanza, rallegrata solamente
dal
brusio prodotto dal Tg notturno in onda sul maxi schermo sopra il
bancone
centrale, il suo volume era stato drasticamente abbassato. Si rese conto
che
era estremamente inquietante il panorama, guardando fuori attraverso il
vetro
della porta e delle finestre si vedeva soltanto il nero, il buio
ambiente
circostante era del tutto occultato agli occhi di chi si trovava
all’interno
del centro dalle luci artificiali perennemente accese. Le venne un
brivido, e
ciò basto a farla correre alla sua cuccetta. La ragazza si spogliò,
indossò un
leggero “pigiama di fortuna” che le impedisse di sudare l’anima durante
la
calda notte di quel trentunesimo giorno di agosto, si sdraiò sulla
branda.
Afferrò
il diario a
forma di tavoletta di cioccolato morsicata e una matita.
“Non
so ancora che
soprannome dare a Gible, Avril, non ho neanche scambiato uno sguardo con
lui.
Penso che dovrei essere preoccupata per le sue condizioni, è comunque un
mio
Pokémon...” scrisse. “...è molto caldo stanotte, il PokéNet dice che ci
sono
trentatre gradi. Domani non ho voglia di rifare tutta la mattinata in
cammino
sotto il sole, spero di incontrare di nuovo Antares...” Qui inserì una
faccina
sorridente. “Se si offrisse di nuovo per accompagnarmi potrei davvero
pensare
male...”
“Ma
scherzi? Secondo me
è un pedofilo, guardati le spalle la prossima volta che lo incontri!” si
rispose.
“Smettila!
È una brava
persona!”
“Celia,
ricordi cosa
diceva la mamma, non devi mai dare completa fiducia a nessuno” si
ricordò.
Per
un istante Celia
smise di scrivere. La sua coscienza tacque, Avril tacque.
“Oggi
ho incontrato un
ragazzo molto particolare, portava un vestito da matrimonio nascosto
sotto una
felpa da skater... sulla felpa aveva scritto One Soul... chissà cosa
vuol
dire...” proseguì.
“Sotto
la felpa? Non
stava morendo di caldo?”
“L’ho
pensato anch’io...
ma, a parte gli scherzi, credo di aver sudato più oggi che in tutta la
mia vita
per quella corsa con la Cura Ball in mano.”
“Mh...
devi farti una
doccia, odori di cadavere di Psyduck morto in maniera atroce.” si
sfotté.
“Hai
ragione...”
“Magari
è per quello che
il ragazzo è fuggito non appena ti sei allontanata” Commentò sarcastica.
Celia
aggiunse un
teschietto al posto del punto in quella frase, chiuse il diario, si alzò
e si
diresse verso il bagno per lavarsi.
Xavier
era nelle stanze
da letto del centro Pokémon della città di Idresia, era steso sulla
branda,
intento ad utilizzare il suo PokéNet tenendolo in mano, non attorno al
polso
come di consuetudine. Aveva chiamato Celia più di una volta, ma non
aveva
ricevuto alcuna risposta. Le prime chiamate andavano a vuoto, le ultime
invece
non partivano neanche poiché la tipa in segreteria diceva che il
dispositivo
del ricevente era spento.
“Impostazioni,
Servizio
satellitare” Il ragazzo navigava tra le impostazioni del suo dispositivo
leggendo mentalmente le scritte sul display. “Radar Allenatori...
dovrebbe
essere questo” pensava.
Si
aprì un interfaccia
olografica che ricordava molto una mappa minimale di colore scuro in
mezzo alla
quale sorgeva un puntino più chiaro. Con estrema probabilità i puntini
non
indicavano gli Allenatori stessi, bensì gli Allenatori dotati di
PokéNet. Era
ambiziosa come approssimazione.
“Questa
è Idresia, e
questo sono io...” ragionò Xavier riferendosi al puntino. “E nei paraggi
Celia
non c’è...”
Fece
un gesto con le
dita stringendo pollice e medio in prossimità dello schermo del PokéNet,
sfiorandolo appena, e l’effetto si riversò sull’ologramma, la cui
immagine si
restrinse, inquadrando una fetta di terreno maggiore. Ora Xavier poteva
vedere
la mappa di tutta Idresia. Scorse un altro punto, più a nord di lui,
indicante
un secondo esemplare di PokéNet. Cliccò sul display e una piccola
finestra si
aprì uscendo dall’icona indicante se stesso. La videata mostrava suoi
dati
Allenatore, la sua scheda, le sue medaglie, la sua età, i Pokémon che
attualmente aveva in squadra, e altre sue informazioni poco importanti.
–
Wow... – Il ragazzo
rimase stupito dall’efficienza dello strumento. Ma non era se stesso che
cercava, sposto l’area interessata muovendosi sul display e centrò il
secondo
puntino. Cliccò.
“Professor
Jason
Willow, profilo bloccato.”
recitava la videata.
–
Ah – sorrise Xavier. –
Già prendi contromisure. – fece sarcastico.
Continuò
la sua ricerca,
gironzolando in tondo attorno alla zona della città-isola di Idresia.
Non
scorse nulla. Quindi si decise e digitò il nome “Celia” sulla barra di ricerca.
L’area
di interessamento
della mappa fece un enorme salto e inquadrò la chiazzetta chiara al
centro
della città di Costa Mirach.
–
È ancora là?! –
esclamò il castano.
Cliccò
sul puntino.
Diceva “Celia Ellison, femmina,
23
febbraio...” E tanti altri dati scritti nella finestra. “In
squadra: Reuniclus, Skarmory, Gible”
Diceva anche.
Kalut
sorrideva,
si era gettato a terra. Il sole era ancora alto nel cielo, era da
poco passato mezzogiorno. Aveva sconfitto il suo primo avversario
insieme al
suo primo Pokémon compagno, ne andava fiero.
–
Dado! Dado! Perché mi scappi sempre?! – udì ad un certo punto.
Lo
sgambettare
tra le fronde lo mise all’erta, qualcos’altro si stava avvicinando,
ma stavolta non riconosceva alcun verso. Alla voce lontana, lo
Staravia esausto
caduto a terra rispose con un lieve cenno del capo e un mugolio
stanco. Kalut
intese che tra l’essere in avvicinamento e il Pokémon sconfitto c’era
un
qualche collegamento.
–
Dado! Dove sei? – continuava la voce avvicinandosi sempre più.
Lo
Staravia,
rinvenendo un po’, riuscì ad emettere un cinguettio più acuto che
giunse all’ignoto soggetto. Il ragazzino tacque e si diresse verso il
luogo in
cui giaceva il suo Pokémon uccello.
Kalut
fece
appena in tempo a rialzarsi in piedi.
–
Dado, sei qui! Smetti di non darmi retta, non devi sparire cos... – il
bimbo si
interruppe.
Il
suo
sguardo incrociò quello di Kalut. Entrambi erano stupiti dalla
presenza
altrui.
Kalut
si
trovò davanti una figura infantile, più piccola di lui, per la quale
non
riuscì a provare spavento. Non era inquieto, si sentiva un morso allo
stomaco,
un calore indesiderato alle punte delle dita. Si vergognava di essere
davanti
ad un essere così particolare.
I
due si scrutarono per un interminabile istante.
–
Perché sei nudo? – chiese ad un certo punto il ragazzino.
Kalut
socchiuse
gli occhi. Un qualcosa era giunto al suo cervello, un messaggio, una
domanda. Sapeva cosa aveva detto il ragazzino, lo aveva capito.
–
Chi sei? – insistette lui.
Il
ragazzo
non rispondeva, i suoi occhi erano persi nel vuoto e la sua lingua
dormiente nella sua gola. Venipede era fermo dietro di lui, mentre
Staravia
giaceva ancora a terra. il bambino mosse alcuni passi verso Kalut, che
indietreggiò di pochi millimetri, giusto per sicurezza, quindi si
avvicinò al
suo Pokémon.
–
Dado... come stai? – chiese il bimbo.
Il
Pokémon
emise un debole mormorio. Era esausto, si trattava di un naturale
svenimento da lotta.
–
Ha combattuto con te? – chiese il ragazzino rivolto di nuovo a Kalut.
Il
ragazzo
dai capelli bianchi non rispose ma, poco fiducioso, si appropinquò
allo
Staravia. Mise delicatamente una mano sul suo piumaggio, lo carezzò
sotto lo
sguardo attento del bambino.
–
Dado... – mormorò Kalut.
Il
ragazzino
annuì, imitando la carezza dell’altro. – È il suo nome – confermò.
–
Staravia... – proseguì.
–
Sì, si è evoluto da poco.
Le
voci
dei due erano tanto simili. Kalut sentiva le parole del bambino e
capiva
che erano uguali alle sue. Voleva sentirne ancora, voleva sentirlo
parlare.
Voleva sentire quei suoni così particolari, così delicati e definiti.
Adorava
ascoltare i versi dei Pokémon, ma udire la voce umana era tutta
un’altra cosa
alle sue orecchie.
–
Io mi chiamo Richard, ma tutti mi chiamano Rick - si presentò
innocente il
bambino. - Tu invece come ti chiami? - chiese.
Il
ragazzo
dai capelli bianchi si bloccò. La sua mano si sollevò dallo
Staravia, i
suoi occhi smisero di guardare il vuoto. Si diressero verso il
bambino. – Kalut
– rispose.
|
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Capitolo 8 *** Capitolo 7 - Svezzamento ***
Capitolo
7 -
Svezzamento
–
Ma
sei qui da solo? – domandò Rick.
Kalut
si
guardò attorno per trovare il suo Pokémon. Venipede si stava
nascondendo
dietro un cespuglio, probabilmente intimorito dalla presenza altrui.
Il ragazzo
dai capelli bianchi sedeva a terra con l’asciugamano da mare color
pulcino di
Rick avvolto attorno alla vita. Il bambino lo aveva portato nello
zaino e aveva
deciso di prestarglielo in modo da permettergli di coprirsi ed
apparire
pubblicamente accettabile. Il ragazzo non aveva capito bene perché, ma
lo aveva
ascoltato.
–
Venipede – chiamò Kalut.
Il
Pokémon
Coleottero-Veleno si avvicinò.
–
Ehi... – mormorò Rick. – È tuo? – domandò.
Kalut
alzò
lo sguardo, nel frattempo il Pokémon Centipede saliva sulla sua spalla
passando lungo il braccio. Molto, molto vagamente, Kalut annuì.
–
È un bel Pokémon... – commentò il ragazzino.
Dado,
lo
Staravia di Rick, era stato curato dal suo Allenatore con alcuni
rimedi e
sopra le loro teste, tornato pienamente in forze dopo un po’ di tempo,
svolazzava allegramente.
–
Kalut, io devo tornare indietro – disse a un certo punto Rick.
Kalut
lo
fissò.
–
Se vuoi posso lasciarti il mio asciugamano – aggiunse alzandosi con
atteggiamenti fuggitivi.
–
Rick... – si allarmò Kalut alzandosi anch’esso.
–
Che c’è? – chiese il ragazzino.
Kalut
scosse
la testa.
–
Non... – Rick cercò una scusa. – ...non vuoi che vada? – chiese.
Kalut
si
mise alla ricerca di una risposta, fece largo nella sua mente e provò
a
capire quale fosse la parole che cercava. Faceva qua e là con gli
occhi sotto
lo sguardo attonito di Rick che attendeva una reazione. La trovò.
–
Resta – pronunciò il ragazzo.
Tra
i
due si creò il silenzio. Rick l’aveva sentito pronunciare solo i loro
nomi e
il nome del suo Pokémon, ed era rimasto con lui tutta la mattinata. E
poi
quella parola.
–
Devo essere a casa per pranzo, Kalut... – Il ragazzo guardò a terra.
Il
ragazzino
tacque per qualche secondo.
–
Se vuoi puoi venire con me – fece entusiasta Rick.
Un
velo
di speranza tornò sul volto di Kalut che sorrise e annuì gioioso.
I
due si incamminarono, il bosco era fresco e caldo allo stesso tempo.
Il sole
picchiava, ma una piacevole brezza soffiava tra gli alberi facendo
danzare le
chiome fitte e verdeggianti degli stessi e carezzando delicatamente i
corpi
accaldati dei due. Venipede camminava strettamente vicino a Kalut,
mentre
Staravia volava in corrispondenza del suo Allenatore ma a più di nove
metri da
terra. Il Bosco Lira era un posto affascinante, e Kalut trovava ogni
cinque
metri il motivo per fermarsi. Da un Joltik sceso sulla corteccia di un
albero a
una Baccapesca caduta a terra, fino ad un’impronta di Bouffalant in
mezzo al
sentiero, cosa che per altro sortiva un totalmente differente effetto
su Rick,
allarmandolo.
Il
ragazzo
dai capelli bianchi si stupiva di qualsiasi cosa, tutto era nuovo per
lui e differente da ciò che aveva visto durante il poco tempo che
aveva passato
nella selva. Rick assecondava le sue “scoperte” per i primi dieci
secondi, dopo
di questi lo esortava a continuare la camminata.
I
due giunsero a Delfisia che il sole era alto allo zenith.
–
Andiamo, Kalut, casa mia è da questa parte! – esclamò Richard.
Il
ragazzo
dai capelli bianchi si era fermato. Erano giunti da un momento
all’altro, seguendo quello strano sentiero nero, ruvido e pungente, in
un
ambiente totalmente diverso. Dalla terra non sorgevano più alberi, o
meglio, le
piante stesse erano davvero rare. Invece numerose “case”, come le
chiamava
Rick, tempestavano il terreno quasi creando barricate tra i sentieri
percorribili
e il mondo esterno. Kalut si chiedeva come mai tutto fosse così
diverso da come
lo avesse visto fino a poco tempo prima.
Ancora
non
si sentiva a suo agio.
Le
strade
erano vuote, era mezzogiorno, nessuno usciva a quell’ora, e anche i
due
ragazzi avvertivano sulla loro pelle
l’elemento
che aveva spinto tutti a rientrare a casa: il caldo. Kalut stava
sudando. E ciò lo inquietava.
Ad
un
certo punto, dopo alcuni minuti di cammino incerto dietro al passo
rapido di
Rick, il ragazzo dai capelli bianchi iniziò a sentire un rumore che
mai era
giunto alle sue orecchie prima di quel momento. Improvvisamente,
un’automobile
sfrecciò sull’asfalto a gran velocità generando un rombo rapido, greve
e
fastidioso.
Kalut
ne
fu terrorizzato, balzò indietro dallo spavento e cadde addosso
dirimpetto ad
una parete a lato della strada.
–
Kalut! – esclamò Rick accorgendosi della sua reazione e tornando
indietro per soccorrerlo.
Il
ragazzo
dai capelli bianchi aveva il cuore che batteva tremendamente rapido
nel
petto e il respiro corto. Digrignò i denti per un attimo, ripercorse
ciò che
aveva visto. Uno spaventoso essere di metallo gli era appena passato a
pochi
metri a gran velocità. Il suo istinto di sopravvivenza si era
immediatamente
messo in allarme.
Quando
si
fu calmato, anche con l’arrivo di Rick che cominciò a parlargli per
rassicurarlo, Kalut si guardò attorno. Era seduto sul lastricato e con
la
schiena sulla parete di uno strano edificio dal tetto rosso.
Era
un
Centro Pokémon, ma non poteva saperlo.
–
Kalut, stai bene? – chiese Rick ad un certo punto.
Kalut
non
gli rispose. I suoi occhi avevano incontrato la porta di vetro del
Centro.
Proprio accanto a lui. L’immagine ivi riflessa lo aveva ipnotizzato.
C’era
un
altro. Kalut spostò la testa e l’altro fece lo stesso. Kalut si alzò e
l’altro fece lo stesso. Kalut si mosse e l’altro fece lo stesso.
Capì
che
l’immagine che aveva davanti altro non era che il suo riflesso. Si
vide per
la prima volta. In principio la sensazione che provò fu di stupore, ma
poi
un’emozione positiva si intromise in lui. Era felice di se stesso,
felice di
vedersi.
Mosse
un
braccio, una gamba, inclinò il collo. Si divertiva guardando
l’immagine sul
vetro imitarlo. Era affascinato da quello strano fenomeno. Ma poi...
vide
altro. Accanto a lui, o meglio poco dietro di lui, Rick lo guardava
attonito.
Tuttavia ad interessargli non era la sua espressione... quanto il suo
aspetto.
Grazie
all’immagine
proiettata sulla lucida porta del Centro Pokémon, poté mettere a
paragone la sua immagine con quella del ragazzino.
Erano
uguali,
speculari, stessa forma del corpo, stesso numero di braccia, di gambe,
stessa forma della testa. Rick era un essere appartenente alla sua
stessa
specie.
Lui
aveva
incontrato un suo simile.
Kalut
era
felice, aveva realizzato di essere una creatura simile a Rick e ciò lo
faceva sentire più a suo agio in compagnia del ragazzino. Ma qualcosa
si
intromise nel suo momento di serenità.
Il
vetro
scorse, la porta si aprì. Dal centro Pokémon uscì un signore sulla
quarantina vestito di nero, alto che si trovò davanti il ragazzo dai
capelli
bianchi avvolto nel suo asciugamano giallo.
Kalut
rimase
immobile, paralizzato, un terzo esemplare della sua specie si era
presentato a lui come niente fosse. Il signore, interdetto, si fermò.
Insicuro
sul da farsi salutò educatamente e passò avanti eludendo Kalut e Rick.
Il
ragazzo
non si mosse e non proferì parola. Rimase col suo sguardo da ebete con
la
bocca socchiusa e gli occhi stupiti a fissare il vuoto.
–
Kalut, c’è qualcosa che non va? – chiese Rick che era ancora alle sue
spalle.
Kalut
si
voltò lentamente. Fissò Rick, sorrise. Lo vide meglio, vide il suo
simile,
un suo simile molto più piccolo, più debole di lui, più fragile.
Qualcosa
si
mosse nel suo cervello per poi essere trasformato in un impulso
elettrico
che presto si diffuse in tutto il corpo. Doveva occuparsi di quel
ragazzino,
era un essere uguale a lui, ma lui sentiva il dovere di prendersene
cura.
Kalut
tese
la mano.
Rick,
ormai
abituato ai comportamenti insoliti del suo nuovo amico, la strinse.
I
due ripresero il cammino.
–
Dovrebbe essere qui a momenti, gli ho detto che doveva tornare a casa
per l’ora
di pranzo – affermò Mary, la madre di Rick, impegnata a badare ai
fornelli.
Il
marito
annuì, immerso nella lettura del quotidiano sulla poltrona del
salotto.
Qualcuno
suonò
il campanello.
Mary
si
avviò verso la porta, la aprì sorrise al figlio e poi le saltò
all’occhio
anche la figura più grande che era dietro di lui. Per un momento, un
brivido le
corse lungo la schiena.
–
Ricky, chi è il tuo amico? – chiese poco sicura della sua domanda.
Intuendo
la
presenza di un altro individuo, anche Donald, padre di Rick, si alzò
in
piedi e abbandonò il giornale per appropinquarsi all’uscio.
–
Mamma, lui è Kalut, l’ho conosciuto nel Bosco Lira – rispose
sorridente il
ragazzino.
Il
ragazzo
appena presentato alla donna aveva un espressione stupita ma
sorridente
in volto.
–
Oh... – mormorò la donna, facendosi leggermente indietro. – ...e che
cosa ci fa
avvolto con il tuo asciugamano? – Di tutte le domande che voleva
porgli, aveva
scelto la più banale.
–
Eh, non aveva vestiti, ho pensato di dagli quello – rispose il figlio.
Mary
fece
una smorfia incredula di chi si preoccupa di non aver sentito bene le
parole altrui. – Puoi venire un attimo, Richard? – domandò.
Nel
frattempo
anche il marito era giunto sulla scena e con fare da pater familias
lasciò passare il figlio e si diresse verso l’intruso che
automaticamente si
accingeva a seguire il suo unico amico lì presente, bloccandolo sulla
porta e
iniziando a scrutarlo come un agente di un equipe di perquisizione.
–
Com’è che ti chiami? – chiese a braccia conserte e con fare serio.
Nel
frattempo,
giunta in cucina, Mary rivolse l’interrogatorio materno al figlio.
–
Scusami, Richard, ma che cosa ci fa qui quel ragazzo?
–
Mamma, te l’ho detto, ho incontrato Kalut nel bosco, era solo e senza
vestiti.
Voleva compagnia e ho pensato di portarlo a pranzo con noi...
–
Ma hai la minima idea di chi possa essere?
–
No, lui mi ha detto solo il suo nome, è una delle poche cose che
riesce a
pronunciare.
La
donna
rimase interdetta.
–
Una delle poche cose che riesce a pronunciare? – chiese per
assicurarsi di ciò
che aveva sentito.
–
Sì, parla poco per essere più grande di me...
Mary
scosse
la testa volgendo la testa verso la porta e intravedendo il marito
intento a perquisire l’intruso sullo zerbino. Lo raggiunse intimando
al figlio
di restare in cucina.
–
Che ti ha detto? – domandò all’uomo comparendo alle sue spalle.
L’uomo
sbuffò
togliendo le mani da Kalut. – Ben poco, non è particolarmente
comunicativo, ma sicuramente è disarmato.
I
due si guardarono.
–
Secondo me è un tossico – affermò il genitore. – Questi ragazzi non
sanno
proprio come passare il tempo... – commentò scuotendo la testa.
–
Che dovremmo fare? – chiese Mary.
Donald
scrollò
le spalle. – Non so... non possiamo mica lasciarlo nudo per strada...
La
donna
si fermò a riflettere. Il suo occhi cadde oltre la figura del ragazzo,
sullo Staravia del figlio accovacciato a terra vicino ad un Venipede.
–
Quello è tuo? – chiese al ragazzo dai capelli bianchi leggermente
infastidita
dalla presenza del Pokémon Centipede nel suo giardino.
Kalut
si
voltò e, con volto leggermente insicuro, annuì alla domanda della
donna. Il
ragazzo si sentiva in dovere di stare calmo, troppe presenze attorno a
lui lo
stavano schiacciando.
–
Lo portiamo dentro? – domandò infine Mary riferendosi al ragazzo.
–
Non penso che potremmo fare altrimenti... – rispose il marito.
Kalut,
guidato
all’interno dell’abitazione da Rick sotto la stretta vigilanza dei
genitori, si trovò in una terra completamente nuova. I colori, le
forme, le
cose che vedeva attorno a sé erano così particolari, così nuovi per
lui.
Persino i due adulti si stupirono vedendo un ragazzo come lui rimanere
incantato da tanti elementi che erano parte della loro quotidianità.
Iniziarono
a dubitare della loro teoria, mettendo in dubbio il fatto che Kalut
fosse un
drogato.
Fecero
pranzo
offrendone, per forza di cose, anche al nuovo arrivato che fu
affascinato
dal sapore del cibo e ne mangiò con gusto. Kalut continuò
l’esplorazione di
quello strano universo pure il pomeriggio finché, attorno alle otto,
cadde
addormentato sul divano del salotto portato in paradiso dalla
stanchezza e
dalla morbidezza della superficie di quest’ultimo.
La
centrale
di polizia statale era immersa nell’afoso e dolce far nulla della sera
del trentuno di agosto. Martin, addetto alla segreteria, era seduto
comodo
comodo sulla sua sedia leggermente inclinata all’indietro, con i piedi
sulla
scrivania, il ventilatore puntato in faccia, come tutti lì dentro, e
la mano
destra intenta a scoppiare caramelline a Candy Crush sul suo
cellulare. Dire
che Sidera fosse una regione calma era un eufemismo, eppure, in quel
periodo
sembrava che improvvisamente tutti i criminali si fossero presi una
bella
vacanza per andare al mare. Due suoi colleghi, seduti su scrivanie
limitrofe,
si divertivano a lanciarsi aereoplanini di carta fatti con le pagine
dell’agenda fornita ad ogni agente dalla banca nazionale, altri due
erano
presissimi da una partita a dama su una scacchiera portatile.
Semplicemente,
ognuno ammazzava il tempo come meglio poteva.
Ad
un
certo punto Martin tolse i piedi da sopra il tavolo, riprese una
posizione
verticale ed ergonomicamente corretta, ripose il suo cellulare e mosse
il mouse
per riattivare lo schermo. Cominciò a far scorrere il cursore bianco
sul desktop
muovendo il dispositivo wireless sul tappetino bianco con la
prorompente
scritta nera “FACES” in mezzo. Fece appena in tempo a digitare “come
diagnosticare il” su Google Chrome che un suono nuovo fece il suo
ingresso
nell’aere precedentemente così silenziosa e pacifica.
Un
paio
di sguardi increduli viaggiarono tra i volti dei poliziotti presenti.
Lo
stesso Martin, dapprima non proprio sicuro delle sue orecchie, cercò
in giro
visi a cui appellarsi, unì le mani e le scosse leggermente come per
dimostrare
lieve disappunto per ciò che stava sentendo.
Intanto
il
telefono fisso trillava insistente sulla sua scrivania e sotto occhi
ed
orecchie di tutti.
L’uomo
finalmente
si convinse e, mosso dagli sguardi approssimativi dei colleghi,
decise di alzare la cornetta.
Dall’altro
capo,
Donald, con il cellulare attaccato all’orecchio, attendeva battendo
nervosamente il piede. Quella era una delle giornate da passare tutto
il giorno
in mutande in casa ad annoiarsi e a guardare film brutti con la
famiglia, a lui
invece era toccato uno sconosciuto incapace di esprimersi in casa.
Il
genitore
avvertì quel suono metallico che si sente quando l’interlocutore
risponde alla telefonata.
–
Pronto, polizia, mi dica – rispose poi una voce assonnata dall’altro
capo.
–
Buonasera, ecco... stamattina, mio figlio ha condotto a casa un
ragazzo sui
sedici, diciassette anni. Dice di averlo incontrato nel bosco, questo
ragazzo
non sa parlare molto bene e pare quasi... mi scusi agente, so che è
molto
strano da sentire, ma sembra essere un alieno, è un ragazzo
particolare e si è
accampato a casa nostra senza dirci nulla di sé... ecco, vorrei...
vorrei che
deste un’occhiata, giusto per stare sicuri – spiegò frettolosamente ma
con le
adeguate pause di formulazione Donald.
–
Ehm... – balbettò l’agente. – ...va bene, arriviamo immediatamente,
indirizzo?
– chiese ancora non perfettamente certo di avere a che fare con una
persona
seria.
Cinque
minuti
più tardi, qualcuno suonò alla porta della casa dei genitori di Rick.
Due uomini in divisa fecero il loro ingresso all’interno.
–
Buongiorno, grazie di essere venuti subito – li accolse la moglie di
Donald. –
il ragazzo è sul divano, si è addormentato poco fa... – spiegò
guidando i due
in salotto.
I
poliziotti non si guardarono attorno, misero immediatamente a fuoco il
corpo
immobile e assopito di Kalut. Quando furono attorno a lui, per prima
cosa
provarono ad identificare le sue fattezze in quelle di un qualche
ricercato, ma
la peculiare capigliatura bianca dello sconosciuto li distolse
immediatamente
da quasi ogni sospetto.
–
Non eliminiamo nessuna alternativa, potrebbe essere una tinta... –
disse uno
dei due allungando meglio gli occhi su tutto il corpo del giovane.
Kalut
era
in una posizione quasi fetale e aveva indosso dei vestiti prestatigli
dal padre
di Rick per dignità, una maglietta bianca con un pennuto nero
disegnato e un
paio di jeans corti, il suo volto era sereno, spogliato di
qualsivoglia
emozione. Inoltre non aveva particolari segni, tagli, tatuaggi o
cicatrici
particolari, almeno non visibili e per il momento nessuna delle sue
caratteristiche era stata associata ad un soggetto già conosciuto in
centrale.
Entrambi
decisero
di svegliarlo.
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Capitolo 9 *** Capitolo 8 - Crescita ***
Capitolo
8 -
Crescita
– Ehi, svegliati.
– Kalut.
– Svegliati, Kalut.
– Svegliati...
Kalut spalancò gli occhi.
Timore,
paura, rabbia, frustrazione, tutto insieme. Emozioni negative e
tensioni
asfissianti nella sua testa fino a colmarla talmente tanto da far
fuoriuscire
quelle sensazioni che non sapeva come spiegare dalla sua bocca. Con un
grido.
Né greve né acuto, né di rabbia né di terrore.
I suoi polmoni si
svuotarono, tutti
si trassero indietro spaventati dalla reazione improvvisa. Kalut aveva
alzato la
schiena, si guardava attorno cercando di capire in mano a chi fosse il
martello
che aveva frantumato la così delicata barriera della sua quiete. Occhi
spalancati, rossi, bocca semichiusa, peli rizzati e pelle d’oca in
ogni punto
del suo corpo, mentre un tremolio lo scuoteva.
– Calmati, Kalut –
sussurrò
avvicinandosi troppo Mary, la madre del ragazzino.
Kalut balzò indietro come
una molla
sul bracciolo del divano per la troppa invadenza dell’essere umano, ma
la sua
schiena toccò qualcos’altro. Si accorse che alle sue spalle stava la
statuaria
figura del marito della donna, Donald.
Si trasse indietro anche
dalla sua
presenza. Ancora terrorizzato, ancora precipitoso.
Voltò la testa e
un’ulteriore
sagoma era comparsa accanto a lui, cercò l’ultima via d’uscita e si
rese conto
che anche quest’ultima era bloccata da un quarto uomo. La sua
pressione
sanguigna aumentò spaventosamente, il suo cuore pompava sangue a
velocità
infraluminale, le ripercussioni fisiologiche del suo stato di terrore
furono
ancor più accentuate dalla sua condizione totalmente ignara di ciò che
stava
accadendo.
Per un momento il ragazzo
dai
capelli bianchi si bloccò, come paralizzato, immobile. Ogni suo
muscolo si tese
e ogni sua giuntura si fermò nella sua posizione.
– Rick... – sussurrò con
la voce
tremante di un violoncello nella mani di un suonatore d’orchestra.
I due uomini che il suo
cervello
non aveva ancora identificato, quelli che lui non sapeva essere due
poliziotti
giunti lì durante il suo sonno, si appropinquarono a lui bruscamente.
Il suo tronco cerebrale
inviò
repentino un segnale al midollo, l’impulso elettrico attraversò rapido
e
indolore la spina dorsale e giunse in un tempo incredibilmente
ristretto ad
ogni singola diramazione del suo sistema nervoso.
Kalut sembrò scomparire
agli occhi
dei presenti, come se si fosse teletrasportato improvvisamente, ma era
solo
sgusciato via da quel cerchio di umani che nel quale era stato
inconsapevolmente inscritto.
– Basta! Via! – esclamò
stupendo i
presenti che più o meno tutti avevano constatato o erano stati
informati del
fatto che quel ragazzo si esprimesse davvero raramente.
Kalut si guardò attorno,
si rese
conto che nel suo cranio vi era un perfetto disegno di quella casa.
Gli era
bastato vederla, esplorarla una volta per memorizzarla. Per questo il
suo
sguardo si indirizzò senza tanti dubbi verso il punto per il quale era
entrato
in quel posto.
– Kalut! – esclamò Rick.
– Fermati, ragazzo! –
aggiunse
deliberatamente uno dei due agenti.
Kalut li guardò appena. Il
suo
obbiettivo era la porta.
Il giovane corse verso
quell’occulto oggetto che scoprendo una via di collegamento, aveva
permesso a
lui e Rick di avere accesso al dedalo degli umani ore prima. Le sue
mani si
scontrarono col legno beige, il suo cervello cercò di spolverare
meglio i ricordi
alla ricerca di un’immagine più concreta che gli permettesse di
comprendere
come il meccanismo che permetteva di tornare all’aperto funzionasse.
Nulla.
Un colpo sullo stipite,
poi fermo.
– Kalut, che cosa stai
facendo?! –
esclamò il ragazzino dietro di lui.
Kalut si girò per un
istante. Rick
intravide leggermente il suo volto. Digrignava i denti, aveva gli
occhi vuoti,
ma terrorizzati, tremava vistosamente.
I due agenti si
avvicinarono, Kalut
si lasciò raggiungere.
– Che cosa ti viene in
mente, ragazzo?
Cerca di stare un po’ calmo – mormorò il primo.
I due voltarono Kalut in
modo che
desse le spalle alla porta. Il giovane si trovò bloccato dietro un
muro
costituito dai due e incastrato contro l’altra parete. I due
poliziotti
cominciarono a parlare. Diversamente dai momenti in cui lui sentiva le
parole
delle altre persone e qualcosa giungeva al suo cervello facendogli
intendere il
significato delle parole pronunciate dagli altri, solo una massa di
suoni
giunse alle sue orecchie dalle lingue dai due uomini.
“Fermo...”
“Stai...”
“Non...”
“Devi...”
“Muoverti...”
“In...”
“Portiamo...”
“Centrale...”
Sentiva tante parole,
tante parole
per così poco spazio. Il verso della sua specie, che ancora egli non
era stato ancora
capace di emettere, compresso nel minimo spazio in cui egli era
costretto,
mandava la sua testa in sovraccarico.
Qualcosa si strappò da
lui, come un
pezzo di corteccia va a separarsi dal resto dell’albero, egli perse
qualcosa.
– Fermi! Basta! Silenzio!
– gridò a
pieni polmoni il ragazzo.
I due agenti non si
tolsero da lui,
anche se per un minimo istante furono intimoriti dalla sua reazione
improvvisa
e brutale.
Kalut si accorse di
questo, un
meccanismo funzionò alla perfezione dentro di lui, un’intuizione
giunse nella
sua testa.
Il ragazzo alzò le braccia
e spinse
i due agenti. Questi indietreggiarono di qualche passo, il loro fiume
di parole
si interruppe. Kalut ebbe modo di voltarsi e tornare a guardare la
porta. Vide
il rettangolo colorato in legno, vide se stesso alcune ore prima, nel
momento
in cui stava entrando in casa. Vide se stesso entrare in casa dando le
spalle
alla porta e dietro di lui Donald, l’uomo che l’aveva bloccato
sull’uscio e che
poi lo aveva lasciato passare tenere in mano quella strana escrescenza
curva
che sorgeva più o meno verso la metà della porta. Vide se stesso
assopito sul
divano, ad occhi chiusi e poco lontano la donna che sembrava chiamarsi
Mary
prendere quell’escrescenza, e ruotarla, per poi aprire la porta.
Non sapeva di ricordare
tutto ciò,
non sapeva come poteva essere possibile. Ma non si fece domande.
La sua mano corse verso
quel’elemento eccessivo della porta, lo afferrò, lo strinse. La
maniglia,
finalmente ne riesumò il nome da qualche recondito canto della sua
memoria,
ruotò sotto la pressione della sua mano. La porta gli seguì il suo
movimento
compiendo un arco lentamente.
A Kalut si aprì il varco.
Lo spazio
per passare, per uscire fuori. Il ragazzo corse, corse eludendo ogni
possibile
ostacolo. Ma fuori era buio.
Kalut si trovò totalmente
immerso
nelle tenebre, ma non si fermò. Ricordava più o meno anche in quel
caso la
strada da prendere, ma si rese conto che se avesse iniziato a correre
alla
cieca i due uomini molto probabilmente lo avrebbero raggiunto.
Gli agenti uscirono fuori
per
seguire il ragazzo. Kalut se li trovò presto alle spalle.
– Fermati!
Kalut ignorò le loro voci,
continuando la sua corsa e giungendo dall’altra parte della strada.
– Kalut! – esclamò ad un
certo
punto una persona conosciuta.
– Rick fermati! – sentì
pure il
ragazzo dai capelli bianchi.
Rick era sfuggito dai suoi
ed era
corso fuori casa, cercando anche lui di raggiungere il suo amico.
Kalut
sentendo la sua voce si immobilizzò e guardò indietro.
Ricordava l’essere che lo
aveva
letteralmente terrorizzato quando era giunto per la prima volta in
città.
Ricordava il suo ruggito. Un brivido percorse la sua spina dorsale
quando
avvertì di nuovo quel suono assordante.
Due luci intensissime
falciavano il
buio notturno e si muovevano sempre incredibilmente rapide lungo la
strada che
lui aveva appena oltrepassato. Dall’altra parte, intento a correre sul
marciapiede, Rick.
– Rick, fermo! – esclamò
Kalut
perdendo otto battiti.
Un suono acre e
fastidioso, le due
luci che correvano sulla strada si immobilizzarono. Con un po’ di
fatica il suono
si chetò e il ruggito dell’essere meccanico scomparve. I fasci
luminosi no,
però.
E questi erano sufficienti
per
illuminare una scena, una scena che Kalut scolpì all’interno della sua
memoria
perché non se ne andasse mai. Non sapeva quale emozione stesse
provando eppure
era qualcosa di forte.
Uno dei due agenti, dai
riflessi
pronti, aveva bloccato Rick passandogli un braccio attorno al torace,
impedendogli di toccare l’asfalto e salvandolo dall’auto in corsa che,
nonostante la frenata brusca, avrebbe comunque colpito il ragazzino.
Kalut trasse un sospiro.
Rick aveva
il fiatone, i due agenti erano immobili, uno dei due stringeva ancora
il
bambino. I genitori di Rick, ancora lontani, erano rimasti
pietrificati.
Tutto era avvolto in una
densa
gelatina trasparente. Nessun movimento, nessuna scossa.
Ma poi, un altro umano
uscì dalla
creatura metallica che emetteva luce.
Kalut riprese un normale
ritmo
cardiaco, compresa la situazione, insieme a Venipede che si accorse di
avere
accanto, voltò le spalle agli altri e scomparve nel buio.
Celia era davanti al bancone del Centro
Pokémon.
L’infermiera era scomparsa, sparita dietro il corridoio che portava alle
camere
dei pazienti. Erano circa le nove e mezza della mattina del primo
settembre e
la ragazza, appena sveglia, aveva per prima cosa chiesto di ritirare
Gible.
Passarono alcuni minuti, poi la ragazza
ricomparve con
una Cura Ball in mano. La bionda prese la sfera e ringraziò
educatamente.
– Ricordi, niente sforzi eccessivi per un po’ –
ribadì
l’infermiera tornando dietro al bancone.
Ma Celia stava pensando a tutt’altro.
Precisamente al
soprannome per il suo nuovo compagno. E l’illuminazione giunse. In quel
preciso
istante, come segnale indicante l’inizio della giornata, il motivetto
tipico
dei Centri Pokémon di tutto il mondo risuonò, come di consuetudine,
all’interno
dell’edificio.
Celia aprì gli occhi.
Lanciò la sfera facendo uscire il Gible e lo
prese in
braccio, il Pokémon intanto faticava a comprendere ciò che gli accadeva
attorno.
– Il tuo nome è Jingle! – esclamò la bionda
tenendolo
tra le braccia. – O anche Jin, mi hanno detto che diventerai molto
forte!
Xavier era sveglio da poco, immobile sul letto
intento a
stiracchiarsi con le braccia e le gambe tese. Il sedicenne balzò in
piedi. A
torso nudo, passò davanti uno specchio, fermandosi un momento a
guardarsi. Il
suo fisico longilineo ma scolpito stava decisamente meglio dopo la lunga
camminata del giorno prima e una notte di sonno profondo. Si sentiva
sciolto,
si sentiva in forma. Xavier aveva voglia di muoversi, di camminare, di
attraversare Sidera. La regione era calda, ma per fortuna si era già
quasi
svuotata dei turisti confluiti in essa per assistere al Pianto delle
Stelle,
troppa popolazione unita alla temperatura torrida estiva diventava
micidiale, le
famiglie non avevano retto e molti avevano deciso di interrompere le
vacanze
causa “troppa gente”. Il ragazzo giudicava il tutto positivo. Conclusa
la
contemplazione di se stesso, Xavier raggiunse il bagno, fece una doccia,
espletò le sue funzioni primarie, si diede una rinfrescata.
Uscì dalla cuccetta fresco e pulito come un
giglio. Ma
con i capelli ancora bagnati, l’asciugacapelli gli avrebbe fatto sudare
l’anima, con i trenta gradi fissi estivi, i capelli bagnati erano una
benedizione.
Uscì dal Centro Pokémon, nel salone principale
davanti
all’entrata incrociò un paio di Allenatori ma nessuna faccia conosciuta.
Quando
fu fuori capì perché così tante persone si trovavano nel centro
nonostante
fosse un orario abbastanza contenuto, per una mattinata estiva. L’aria
torrida
e soffocante avrebbe ucciso un Camerupt adulto, il sole quel giorno
sembrava
davvero incazzato col mondo, Xavier credeva di sentire i suoi occhi
sfrigolare.
Mosse due passi verso la zona d’ombra, cercò il
punto
più fresco. La sua meta era il laboratorio di Willow, a dire il vero lo
rincuorò la certezza e la speranza in un condizionatore a disposizione
del
prof, ma prima di arrivarci doveva incontrarsi con sua sorella. Tutto
gli tornò
in mente, non la sentiva dal giorno precedente, Celia non rispondeva
alle sue
chiamate e secondo l’ultima ricerca, quella condotta la sera prima, lei
si
trovava ancora a Costa Mirach, a qualche chilometro da lì, e
probabilmente vi
aveva passato la notte. Una noia depressa prese a gravare sulla sua
nuca.
Xavier non aveva voglia di aspettare, ma purtroppo era costretto.
Il ragazzo stava mettendo in conto tutte le
alternative
possibili per passare quelle ore prima dell’arrivo della sorella e fino
a quel
momento l’alternativa migliore era “rimani in catalessi su un divanetto
del
Centro Pokémon e goditi il fresco”.
Quando, come un fulmine a ciel sereno, il suo
PokéNet
squillò.
Kalut aveva corso per
tutta la
notte, non aveva idea di dove si trovasse. Sapeva solo che attorno a
lui
c’erano alberi e davanti a lui una strada. Asfalto, ancora, nero e
ruvido.
Al ragazzo venne in mente
che le
strade, portavano alle città, città come quella di Rick. Inizialmente
non era
completamente propenso a prendere quella via. Mise un piede sulla
strada. Era
scalzo, a casa di Rick gli erano stati dati in prestito dei
pantaloncini e una
t-shirt, ma non calzini o scarpe.
Kalut rifletté per qualche
istante,
con calma, col fiatone, affaticato. Venipede era accanto a lui.
Non sapeva se seguirla o
no. Poi si
accorse di non star ragionando come prima. Aveva capito, aveva in
qualche modo
compreso come interagire con certe cose e con certe persone. Mise il
primo
piede sulla strada, il secondo lo seguì.
Era il momento di
crescere.
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Capitolo 10 *** Capitolo 9 - Gioco ***
Capitolo
9 - Gioco
– Capisci perché sono dovuta rimanere
qui?
– Mh, comprendo, ma quanto ci metti ad arrivare
più o
meno?
Celia parlava con Xavier tramite il PokéNet. La
bionda
era appena uscita dal Centro Pokémon di Costa Mirach e anche lei era
rimasta impressionata
dall’estremo calore della giornata. Xavier invece faceva su e giù lungo
la
fascia d’ombra generata da un palazzo nella via principale di Idresia.
- Non so, penso che per oggi pomeriggio riesco
ad essere
lì...
– Cazzo! Non puoi volare su Karma? – chiese
Xavier.
– Come sai che ho preso Karma? – domandò lei
sbigottita.
– Ah, è grazie ad una funzione del PokéNet,
praticamente
tutti gli Allenatori che possiedono il dispositivo, che per ora siamo
io, te e
Willow, sono schedati. È molto comodo. – spiegò lui.
– Wow, il futuro! – Celia rise. – Comunque no,
se
volassi su Karma, tempo un’ora e bollirei, ti ricordo che le sue ali
sono fatte
d’acciaio e l’acciaio diventa rovente... sai, sedermici
sopra... non è proprio il mio sogno. –
rispose alla precedente domanda la bionda.
Xavier annuì,l ma lei non poté vederlo. –
Capisco... -
mormorò. – E allora come facciamo?
– Eh, che ne so, io mi metto in viaggio e tu mi
aspetti... – disse semplicemente Celia.
– Che rottura... va bene, ma intanto vado da
Willow, che
ne dici? – propose lui.
– Uff... ok, ma anche io vorrei parlarci.
– Eh, ci parli, ci parli – concluse Xavier. –
Vabbè, a
dopo, sbrigati.
– Ciao...
Celia era leggermente infastidita dal
comportamento del
fratello, però un po’ si rendeva conto che il ragazzo aveva ragione, non
poteva
mica aspettarla per una mattinata intera rinchiuso in un Centro Pokémon.
Decise di mettersi in viaggio. Tirò fuori
Karma. Il
Pokémon si strusciò subito all’Allenatrice poiché non la vedeva da
parecchio
tempo, lei ricambiò i convenevoli.
– Senti, Karma, facciamo una cosa, passiamo per
il primo
tratto di viaggio in mezzo alla foresta, tanto il sole non è altissimo,
così
stiamo al fresco. Quando sento che inizi a riscaldarti continuò a piedi.
Che ne
dici? – chiese lei.
Karma emise il suo verso acuto come per
acconsentire
felice.
I due partirono, appena uscita dalla cittadina,
Celia
saltò in groppa al suo Pokémon. L’Armuccello
cominciò a fendere l’aria volando a poco più di un metro da terra, in
mezzo
agli alberi, sotto l’ombra delle fronde evitando con perizia e abilità
ogni
ramo o possibile ostacolo che si presentasse sul percorso.
– L’indirizzo dovrebbe essere questo – disse
tra sé e sé
Xavier guardando il display del Pokénet.
Il ragazzo si voltò, era giunto davanti ad una
palazzina
di cinque piani, grigia e triste, in cemento armato. Ma non doveva
stupirsi,
era nella periferia di Idresia, città interna della regione, non dalla
fama
particolarmente positiva riguardo alle sue attrazioni o alla sua
bellezza.
Xavier raggiunse il citofono. Tra i vari nomi
che
comparivano di fianco ai tasti, “Professor
Jason
Willow” scritto sulla plastica col pennarello indelebile saltava
subito all’occhio. Il ragazzo suonò.
– Chi è? – domandò una voce metallica.
– Sono Xavier Levine, uno dei...
– Xavier! - esclamò il prof dall’altra parte. -
Sali,
sali! Mi fa piacere che tu sia qui!
Con uno stridere acre e fastidioso la porta si
aprì. Il
castano la oltrepassò e cominciò a salire i gradini delle rampe di
scale.
Quando, giunto al quarto piano, notò che uno dei portoni era socchiuso e
lesse
sul campanello nuovamente il nome di Willow, bussò per educazione prima
di
entrare nell’appartamento.
Davanti a lui comparve il mondo. Tutto, tutto
l’intero
locale era pieno di macchinari immersi nel caos, computer, ciabatte e
fili
sparsi a terra. Una volta era stato nella casa di Bill, lo sviluppatore
del
sistema PC dei centri Pokémon di Kanto e Johto. Beh, quella era la
camera di
Light Yagami se messa a confronto con l’appartamento di Jason Willow.
Da dietro una scrivania che era diventata un
muro per
quanta strumentazione aveva sopra comparve un uomo che riconobbe essere
lo
stesso nell’ologramma di introduzione al PokéNet, quindi,
presumibilmente, il
professore.
– Xavier, ragazzo, finalmente ti incontro di
persona! – esclamò
questo.
I due si strinsero la mano. Xavier aveva una
strana
espressione in volto, si era trovato davanti questo strano soggetto di
corporatura minuta con una camicia marrone sbiadita e un paio di jeans
troppo
larghi, con gli occhiali che sembravano dover cadere giù dal suo naso da
un
momento all’altro.
– Allora dimmi, come va il viaggio? – chiese
Willow
prendendo delle scartoffie dalla scrivania.
– Molto bene, devo dire che il PokéNet mi
facilità molto
le cose, ma in realtà avevo io un paio di domande da rivolgerle, ha un
po’ di
tempo? – fece Xavier.
– Oh, beh, presumo di sì, vieni allora, andiamo
nell’altro appartamento – lo esortò il professore.
I due tornarono sul pianerottolo, luogo più
fresco della
casa. Xavier comprese che il tipo aveva due locali e uno di questi era
quell’inferno di macchine adibito solo ed unicamente ad
ufficio/fabbrica.
Willow infilò una chiave nella serratura della porta vicina alla sua, in
ogni
piano vi erano due appartamenti in quella palazzina, e girò facendo
risuonare
il rumore metallico dello scatto dell’otturatore. Aprì la porta.
Il primo appartamento dell’uomo non c’entrava
nulla con
il secondo. I due fecero il loro ingresso in quella che dall’interno
poteva
benissimo essere scambiata per una casa totalmente disabitata. Sembrava
vuota,
priva di mobili o comunque di elementi che facessero intendere che un
qualche
essere umano vivesse al suo interno, anonima e spoglia. Tutto ciò fece
intendere al ragazzo che forse il luogo in cui l’uomo passava la maggior
parte
del suo tempo era il laboratorio improvvisato in cui l’aveva trovato,
persino
il campanello col suo nome corrispondeva a quell’appartamento.
– Xavier, vuoi bere qualcosa? – chiese il
professore
avvicinandosi a quella che sembrava la cucina.
– Uhm, sì grazie – rispose il castano molto
accaldato.
– Succo di frutta, acqua o gassosa? – domandò
Willow.
- Vada per il succo.
Il professore si appoggiò al tavolo, facendo
cenno anche
a Xavier di sedersi, con in mano due bicchieri e un cartone di succo ACE
in
mano. Il giovane si accomodò sulla sedia di plastica bianca e prese il
primo
bicchiere riempito dall’uomo che gli sedeva di fronte e lo gettò in gola
tutto
d’un sorso non con poca difficoltà. Odiava il gusto ACE, ma dopo esser
stato
servito, peraltro per una sua imperizia, gli sembrava brutto stare a
premere su
questo particolare.
– Allora, ragazzo, dove va a parare la tua
curiosità? –
chiese Willow dopo aver bevuto anche lui.
Xavier unì le mani sopra la tavola e cercò una
posizione
più comoda per il didietro, apparentemente inesistente su quelle sedie
infernali. – Beh, prima di tutto mi piacerebbe sapere qual è il preciso
scopo
di questa... ricerca in cui siamo stati coinvolti io e Celia. – gettò
fuori
lui.
– Ah, mi fa piacere notare il tuo interesse,
beh, ecco,
devi sapere che lavoro per una federazione chiamata FACES, l’ente che
gestisce
la sicurezza e la salvaguardia dello stato. Mi è stato chiesto di
brevettare
uno strumento che agisse da guida per gli Allenatori, per questo ho
chiesto a
voi di sperimentare, il PokéNet, raccogliendo dati tramite il Glowe,
riesce ad
imparare cosa fa l’Allenatore tipo viaggiando per una regione, questo lo
aiuta
a sviluppare un’intelligenza di base che possa essere sempre pronta ad
aiutare
chi lo indossa – spiegò l’uomo.
– Capisco, e perché ha scelto proprio noi, me e
Celia? –
aggiunse Xavier.
– Beh, perché voi siete perfetti, non avete né
troppa
esperienza nel campo dell’Allenamento né siete dei novellini, avete già
viaggiato in altre regioni, ma non conoscete ancora Sidera, siete divisi
ma vi
tenete in contatto... voglio che questo dispositivo calzi a pennello per
ognuno
e perché lo faccia deve imparare prima le basi, come comportarsi con un
Allenatore medio. – proseguì il professore.
Xavier poggiò l’occhio per un istante sul
dispositivo
che aveva al polso.
– È interessante tutto questo, pensa che i
PokéNet
saranno presto diffusi in tutto il mondo? - domandò poi.
– Mh... – Willow vacillò un istante. –
...sicuramente
saranno presenti a Sidera molto presto, ma prima ricordate che dovete
completare il vostro viaggio tu e Celia! – ripeté con un’aria lievemente
insicura l’uomo.
Xavier poggiò la schiena alla sedia e rilassò i
muscoli.
Aveva davanti un uomo che non sapeva come interpretare, in alcuni
frangenti
dava un’idea di sé molto paterna, mentre in altri momenti sembrava avere
sott’occhio solo il completamento dei compiti assegnati. Ma il ragazzo
non si
fece troppe domande, poteva sentirsi soddisfatto, aveva ottenuto le
informazioni che cercava, si era confrontato di persona con lo studioso
dal
quale era stato reclutato e con il quale non aveva mai scambiato neanche
una
parola. Eppure qualcosa non gli era particolarmente chiaro.
– Come ha fatto a sceglierci? – chiese di nuovo
il
castano con aria da duro.
Willow nascose una smorfia di dubbio dietro le
sue lenti
bifocali. – Che cosa intendi, ragazzo? – la sua voce era più cupa. – Ti
ho
spiegato il motivo della mia sc...
– Ci ha osservati? Siamo stati spiati in
qualche modo? –
domandò Xavier senza un briciolo della leggerezza che aveva
contraddistinto le
sue precedenti domande. – Come faceva a sapere che “eravamo perfetti”?
Che
calzavamo a pennello per un compito simile? Come si è informato su di
noi? – Lo
sguardo serio e tetro del ragazzo lasciava intuire che in cuor suo un
mucchio
di dubbi circa il progetto in cui era stato coinvolto erano sorti fin
dai primi
giorni.
Willow prese due boccate d’aria profonde. La
domanda non
lo aveva spiazzato, era stato infastidito dal fatto che un così evidente
errore
di calcolo avesse generato in Xavier una questione inaspettata.
–
Ci sono degli
scrutatori – proferì d’un fiato. – Dipendenti della FACES che si
aggirano nelle
città per tenere d’occhio... alcune situazioni... – generalizzò.
– Che tipo di situazioni? – proseguì con
l’interrogatorio da “bad cop” Xavier.
– Beh, devi sapere che, dopo un po’ di tempo,
gli
Allenatori che si sono distinti per bravura o altro vengono schedati e
studiati
dall’organizzazione – chiarì l’uomo. – E tu hai conquistato ben
ventiquattro
medaglie, Xavier – precisò.
Il ragazzo lo fissò scuro in volto per qualche
interminabile secondo. Poi i suoi lineamenti si alleggerirono.
– Ok! – sorrise, togliendo dallo stomaco di
Willow quel
groppo fastidioso. – Ho capito.
Il professore distese i muscoli. – Ma dimmi,
ragazzo,
come mai non è venuta anche tua sorella a farmi visita? – domandò per
sviare il
discorso.
– Lei è dovuta rimanere a Costa Mirach per un
contrattempo con un Pokémon, sarà qui per le... – diede uno sguardo al
PokéNet.
– ...ma sì, le tre o le quattro, penso.
– Ah, e allora che ne dite, vi va di fermarvi a
dormire
qui? Ho giusto due letti liberi – propose l’uomo con gli occhiali.
Xavier annuì scrollando le spalle. – Per me è
ok...
Celia era in viaggio. Aveva percorso gran parte
dell’itinerario volando su Skarmory, ma ad un certo punto muoversi su di
lui
era divenuto insopportabile. La ragazza si trovava più o meno a metà
strada tra
Costa Mirach e Idresia ed erano appena scoccate le undici, il clima si
faceva
sempre più torrido e l’aria meno respirabile, ma la ragazza non
intendeva
fermarsi.
Kalut si muoveva
lentamente
sull’asfalto. Sentiva di non avere la stessa padronanza di sé di
quando si
trovava sull’erba, faceva più attenzione ai suoi passi, guardava a
terra e non
davanti o sopra di sé. Si stava lentamente rendendo conto di quelle
piccole
cose che distinguevano il suo muoversi sul tappeto d’erba e sulla
ruvida tavola
urbana. Il ragazzo contava i passi che muoveva sull’asfalto, uno ad
uno, lo
aveva fatto la prima volta, quando era stato portato in città da Rick
e lo stava
facendo anche in quel momento.
Giunse davanti ad un
cartello e lì
i suoi passi si interruppero. Lesse la scritta sulla banda di metallo
retta da
due pali che aveva davanti.
“Borgo Asterion” vi era
scritto. Si
accorse di saperlo leggere, si rese conto di saper decifrare quegli
strani
simboli che gli umani come lui utilizzavano per dare un nome alle
cose,
probabilmente avrebbe saputo persino imitarli. Capiva molte cose, in
effetti,
senza sapere da dove venisse tutta la sua conoscenza. Ignorò i
pensieri troppo
complessi, la sua meta era proprio trovarla, una meta, quindi riprese
il
cammino. Bastarono pochi altri passi perché si ripresentasse a lui la
città,
quell’ambiente tanto strano e sconosciuto al quale era stato
introdotto dal
ragazzino. Kalut vide un uomo camminare lungo il lato opposto della
strada, il
tipo non si curò affatto di lui. Il ragazzo passò avanti, imitando il
suo
menefreghismo.
Kalut, camminando per
un’altra
mezz’ora, giunse a quello che sembrava essere il centro cittadino.
Aveva
compreso la funzione di quegli ambienti stretti e soffocanti, aveva
incontrato
molti umani muovendosi per quelle che venivano chiamate comunemente
“vie”, era
come se i suoi simili si riunissero tutti insieme per vivere in
agglomerati di
case e abitazioni. L’idea lo eccitava non poco, una sorta di tana
comune per
quelli della sua specie.
Il ragazzo si era
ritrovato in una
piazza, i suoi piedi stavano ancora abituandosi al pavé ma i suoi
occhi
ammiravano colmi di una grande emozione le meravigliose costruzioni
che aveva
attorno. Quegli edifici costruiti in pietra erano così perfetti, così
belli al
suo sguardo da sembrargli quasi tutt’uno con il terreno. Stava in
piedi, fermo
al perfetto centro di quel largo spiazzo, col vento che, confluendo
all’interno
dei vicoli del borgo giungeva fino a lui accarezzandolo e togliendogli
di dosso
quella torrida membrana umida che il clima gli aveva appiccicato
addosso.
Kalut era felice di essere
a Borgo
Asterion.
Si mosse di lì, voleva
vedere ogni
singolo posto, ogni angolo di quel labirinto di pietra e mattoni,
cominciò a
camminare tra le vie guardandosi attorno curioso e affascinato.
Girovagò senza
meta per un bel po’ fin quando non raggiunse l’illuminazione. Volle
osservare
il paese dall’alto. Cominciò quindi a guardarsi attorno per cercare un
luogo
che fosse adatto ad una scalata. A fargli avvistare un punto adatto fu
proprio
Venipede, presenza amica di cui Kalut si era completamente
dimenticato. Il
Pokémon Centipede salì su un muro e gli indicò una protuberanza nella
parete,
continuando a salire, poi, evidenziò al compagno, uno dopo l’altro,
più punti
ove poggiare mani o piedi per tirarsi su, il coleottero raggiunse il
tetto di
un palazzo di tre piani mostrando le indicazioni ad un Kalut che era
intento a
guardarlo ma fregandosene totalmente del percorso. La domanda del
ragazzo era
un’altra, com’era possibile che Venipede conoscesse la sua idea di
salire su di
un edificio?
L’insetto agitò le
antenne, Kalut
smise di porsi dubbi e si avvicinò alla parete che l’amico aveva
risalito, il
primo appiglio fu il davanzale di una finestra del piano terra, seguì
un
mattone che fuoriusciva lievemente dalla sua postazione naturale
permettendogli
di aggrapparsi ad esso senza distruggersi le unghie. In poco tempo,
Kalut
raggiunse le grondaie. Fu un poco più difficile per lui appendersi
alle
ringhiere senza scivolare per salire sul tetto, ma non impossibile, il
ragazzo
fu facilmente sopra.
Davanti a lui si mostrava
Borgo
Asterion illuminato dal sole di mezzogiorno in tutta la sua bellezza.
I tetti delle
case, irregolari ma omogenei sorgevano come funghi all’ombra di una
quercia
superati ogni tanto in altezza da una torre, un campanile, una cupola.
Il
ragazzo ammirava quello scenario catturato e quasi ipnotizzato. Era
senza
parole tanto che quando Venipede salì sulla sua spalla lui neanche se
ne
accorse.
Un lieve acciottolare di
stoviglie
cominciava ad intrufolarsi nel silenzio generale, era ora di pranzo
per gli
uomini della città e Kalut lo aveva capito, sentiva anche lui di
doversi
nutrire, ma a quello avrebbe pensato poi.
La sua mente era persa
nella nebbia
di altri pensieri quando, improvvisamente, udì uno strano suono alle
sue
spalle, molto vicino a lui.
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Capitolo 11 *** Capitolo 10 - Interazione ***
Capitolo
10
- Interazione
Xavier era seduto al tavolo di fronte al
padrone di
casa. Il professor Willow aveva proposto al ragazzo di rimanere a pranzo
da lui
e, dopo avergli cucinato un’insipida scaloppina, lo aveva servito
educatamente.
I due mangiavano, entrambi molto affamati, senza distogliere gli occhi
dal
piatto se non per scrutarsi per brevi istanti con gli occhi pregni di
quella
sporca fiducia che ognuno aveva nei confronti altrui. Il cozzare del
coltello
di Xavier contro il piatto di coccio faceva sempre drizzare le antenne
al
professore portandolo a riguardare il ragazzo nascosto dietro i suoi
occhiali
soltanto di striscio.
La silenziosa armonia tra i due si ruppe quando
la
suoneria del PokéNet di Xavier che era stato accuratamente riposto su di
una
mensola della cucina suonò insistentemente. I due si voltarono verso il
dispositivo come spaventati.
– È il mio – commentò il castano pulendosi la
bocca con
il tovagliolo e alzandosi dal tavolo con fare disinvolto.
Il professore smise pure di mangiare ma senza
lasciare
la sua posizione, ma aspettandolo educatamente seduto al proprio posto.
– È Celia – fece Xavier leggendo il nome sullo
schermo.
Effettivamente la bionda possedeva, escluso
Willow,
l’unico altro PokéNet in utilizzo.
– Celia – salutò rispondendo e proiettando
l’ologramma
della ragazza nell’aria.
– Xavier, dove sei? – chiese lei leggermente
stranita.
– Io... sono dal professore... – rispose il
ragazzo con
voce innocente di chi dice un’ovvietà.
– Ma...! – esclamò lei infastidita. – Ma sono
qua sotto
che suono il campanello da dieci minuti e nessuno mi apre! – sfogò.
– Ah, chiedi scusa da parte mia, Xavier, vado
subito ad
aprirle! – intervenne Willow che stava seguendo la chiamata dei due da
dietro
le quinte alzandosi e andando verso il citofono che era accanto alla
porta. –
Perdonami Celia, quarto piano appartamento di destra. – fece alla
cornetta
premendo il tasto contrassegnato dalla chiave stilizzata in rilievo
sulla
plastica bianca accanto.
Xavier riagganciò la chiamata dato che la
sorella si era
distratta rendendosi conto che il portone le si era aperto solo in quel
momento, quindi guardò il professore con sguardo lievemente incantato.
– Eh, lo sai, il campanello col mio nome
corrisponde
all’altro appartamento – si scusò con Xavier l’uomo senza aver ricevuto
accusa
alcuna.
Celia raggiunse il pianerottolo. Vedendo per
primo il
professor Jason Willow si impose di nascondere la sua espressione
stravolta
dall’attesa, dal viaggio e dalle rampe di scale con un sorriso.
– Devi scusarmi, figliola, ma eravamo
nell’altra casa e
non pensavamo che arrivassi così presto a dire il vero – L’uomo le
strinse la
mano.
– Non fa niente, l’importante è che vi ho
trovato –
sdrammatizzò lei con un po’ di fiatone e rispondendo al saluto.
La bionda entrò nell’appartamento e subito i
suoi occhi
caddero su Xavier che era tornato a sedere al tavolo.
– Fratello.
– Sorella.
I due si limitarono a lascivi convenevoli
verbali.
Nonostante facesse strano a entrambi chiamarsi in quel modo, dato che
non erano
veramente uniti da legami di sangue, continuavano a salutarsi con tali
appellativi, poiché faceva ancora più strano ai due chiamarsi per nome.
Quindi
si davano i nomi di “fratello” e “sorella” amichevolmente, come due
storci vicini
di banco.
Xavier buttò l’occhio sulla ragazza. Celia era
giunta
alla metà fradicia di sudore e tutta rossa in faccia, ma era
comprensibile,
aveva percorso parecchi chilometri.
– Celia, benvenuta alla mia umile dimora, se
vuoi
accomodarti, posso preparare anche per te... – propose l’uomo.
– No – intervenne precipitosa lei. – Posso
invece farmi
una doccia? Ne ho davvero bisogno - implorò.
– Oh... certamente, il bagno è la seconda porta
a destra
nel corridoio – indicò Willow.
Celia scomparve alla vista dei due.
– Fammi cucinare anche per lei, va’ – pronunciò
tra sé e
sé il professore.
Messa una seconda fettina a sfrigolare sulla
padella,
l’uomo poté risedersi al suo posto e proseguire il suo pasto.
– Scommetto che lei ha scelto anche Celia come
tester
del PokéNet solo perché è mia sorella, vero? - domandò ad un certo punto
dal
nulla il castano.
Willow si bloccò. – Scusami? - chiese.
– Celia – ripeté il ragazzo. – Non l’avete
scelta per particolari doti da
Allenatore... –
Enfatizzò parecchio le ultime quattro parole per evidenziare la
citazione. –
...lei non è mai stata un asso con i Pokémon, ma era mia sorella e
doveva
essere imparziale, o mi sbaglio? – assottigliò il discorso Xavier.
Il professore sbatté gli occhi rapidamente un
paio di
volte. Posò la forchetta sul piatto rinunciando al boccone che aveva
selezionato.
– Hai proprio ragione – confermò con
espressione piatta.
– Mh. E comunque ha fatto ben poco e ha già due
medaglie, non penso sarà di grande utilità alla ricerca... – proseguì il
castano.
– Ah, lascia stare, lo so...
Il silenzio cadde nella cucina, il sottofondo
della
carne sfrigolante e il tappeto del suono costituito dal rumore dello
scorrere
dell’acqua utilizzata da Celia la facevano da padrone. Xavier era
rimasto
immobilizzato e Willow si sarebbe morso la lingua duecento volte se non
avesse
avuto in bocca quella forchettata di cibo che aveva riesumato ma aveva
comunque
smesso presto di masticare. Il ragazzo alzò leggermente lo sguardo dal
suo
piatto tornando con gli occhi al professore.
– Lo sapeva già? Come è possibile? – domandò
con una
chicca di tono aggressivo e gutturale il giovane.
– Io? Cosa intendi dire?
– Sapeva che mia sorella ha ottenuto due
medaglie senza
sforzo, la cosa non l’ha stupita minimamente!
– Io... – Jason Willow temporeggiò per l’attimo
fatale.
– Io posso monitorare il livello di crescita dei vostri Pokémon tramite
il
Glowe tramite una scansione automatica che raccoglie dati ogniqualvolta
voi
prendiate in mano una Ball, anche quello fa parte della mia ricerca! –
quasi
gridò lo studioso.
La tensione non si fece mai sottile come in
quel
momento. L’aria era pesante, ma gli angoli mentali di Xavier si
arrotondarono.
– Mh... – emise il ragazzo.
– Xavier, perché sei così sospettoso e cerchi
il pelo
nell’uovo per qualsiasi cosa? – domandò l’uomo. – Per caso non ti fidi
di me?
Il castano riprese la concentrazione. – Uno
sconosciuto
ti invia una lettera a casa e degli apparecchi non ancora presenti in
commercio
senza spiegarti perché ma ti chiede di attraversare una regione. Ho il
diritto
di essere diffidente e deve scusarmi se do poca fiducia, ma ho viaggiato
molto
e ho imparato che non sempre tutti hanno buoni propositi in mente. Celia
no,
lei è più giovane e non ne ha passate tante quanto me.
– Capisco, ragazzo... ma ti dico per certo che
di me
puoi fidarti, se proprio debbo dirtelo, alla fine del viaggio ci sarà
una...
chiamiamola... sorpresa, ma non voglio ancora svelarti cosa sarà. Per il
resto,
lavoro per lo stato, di me puoi fidarti, tutto questo non è né una
buffonata né
una fregatura – confermò l’uomo.
Xavier ricambiò il suo sguardo e accennò un
sorriso. –
Va bene, facciamo che io mi fido e lei mi fa vedere gli altri progetti
che ha
di là, nell’appartamento dei computer – propose.
In quel momento lo scorrere dell’acqua
nell’altra stanza
si interruppe.
– Ci sto – sorrise l’uomo.
Dopo alcuni minuti Celia raggiunse la cucina e
anche a
lei fu offerto il pranzo. I tre conclusero il pasto con della frutta,
poi il
professore cominciò a fare domande generiche ai due a proposito dei
luoghi
visitati e del loro rapporto con il dispositivo.
Un confusionario e
fastidioso
sbattere d’ali si manifestò tutto ad un tratto alle spalle del giovane
dai
capelli bianchi. Kalut si voltò rapido allarmato dall’improvviso
rumore.
Dietro di lui uno stormo
di Pokémon
uccello, tra Chatot, Pidgey, Pidove, Fletchling con alcune delle loro
forme
evolute, si innalzò in cielo maestoso ma caotico al tempo stesso.
Qualcosa come
trenta o quaranta pennuti svolazzava sopra alla testa del giovane,
alcuni in
circolo, altri in maniera totalmente casuale, ma tutti si decisero a
posarsi,
sotto lo sguardo attonito di Kalut che seguiva i loro movimenti con un
misto di
spavento e curiosità, attorno al ragazzo in cerchio sulle tegole del
tetto. Come
alunni attorno al loro sensei.
Il loro gracchiare e
cinguettare
diffuso e fastidioso cominciò a chetarsi. Tutto si zittì, come il
Venipede
compagno di Kalut che si ritirò appallottolandosi dietro la schiena
del
ragazzo.
Quindi un Fletchling, da
un angolo
indefinibile del cerchio di discepoli, emise il suo verso. Poi il
silenzio.
Seguì un Tranquill, poi un Pidgeotto e infine un Chatot. A quel punto
tutto il
caos riprese ad esistere e la frenetica conversazione acre e rumorosa
che vi
era all’inizio tornò come il nocciolo di una discussione attorno al
quale si
gira continuamente.
Versi di pennuti dalla
lingua
ingestibile cominciarono a penetrare le orecchie del povero Kalut
facendo
vibrare i suoi timpani. Il ragazzo si tappò istintivamente le
orecchie, ma quel
casino non accennava a fermarsi. La sua soglia di sopportazione era
già stata
raggiunta e senza sapere come e perché si era ritrovato in quella
situazione né
tantomeno la motivazione per cui era stato accerchiato da quei
Pokémon,
esplose.
‑ Silenzio! – gridò
zittendo ogni
becco.
La serenità tornò in lui.
Si rese
conto che i Pokémon gli davano retta. Voleva ritentare. Fissò
intensamente un
Pidgey che era davanti a lui. – Che cosa volete dirmi?
Il Pokémon cinguettò, ma
Kalut
comprese ciò che stava cercando di comunicargli.
Il ragazzo si voltò e
punto il dito
contro un Pidove vicino. – Tu invece?
Anche Pidove rispose.
– Tu, invece, cosa cerchi
di
comunicarmi? – chiese ad un Chatot poco dietro di lui.
Aveva lasciato parlare
alcuni Pokémon
e tutti loro volevano dirgli la stessa cosa:
“Difendili!”
Il ragazzo si mise seduto
a gambe incrociate
tra i presenti. Stava riflettendo sulle richieste che gli erano state
poste.
- Difendili? Chi devo
difendere? –
domandò rivoltò agli uccelli.
Uno solo, quello su cui
aveva
posato l’occhio, parlò.
“Difendili!” ripeteva.
– Chi? Chi devo difendere?
– ripeté
il ragazzo.
“Quelli come te” rispose
qualcuno
dietro di lui.
Kalut si voltò. Dovette
poi alzarsi
in piedi, un po’ per il rispetto che quella comparsa gli aveva
suscitato, un
po’ perché lo Xatu che si era materializzato alle sue spalle superava
il metro
e mezzo.
– Quelli come me? - chiese
Kalut
stupito di essersi trovato davanti un così maestoso esemplare di
Pokémon Magico
e di non averlo visto precedentemente.
“Quelli come te” ripeté
Xatu.
In quell’istante, Kalut si
rese
conto che il Pokémon non stava parlando, sentiva soltanto la voce
nella sua
mente, lo Xatu non emetteva suoni ma parlava tramite telepatia nel suo
cervello. La cosa gli sembrò dapprima leggermente strana, ma si abituò
subito.
– Che cosa vuoi dirmi? –
chiese di
nuovo il ragazzo.
“Lo sai, Kalut, è nel tuo
cervello ancora
coperto dalla nebbia, ma sai bene da cosa devi difendere quelli come
te...”
rispose Xatu.
– Quelli come me?
“Gli umani, così vi
chiamate tra
voi, quelli come te” spiegò Xatu.
– E da che cosa devo
proteggerli? –
proseguì lui.
“Kalut, sei troppo
precipitoso...”
Il ragazzo dai capelli
bianchi udì
di nuovo il rumore dello sbattere delle ali caotico e impacciato,
voltandosi
appena notò che tutto lo stormo di Pokémon alle sue spalle era volato
via come
se niente fosse.
“...ma posso accompagnarti
e
seguire la tua strada.”
– Ma sei stato tu a
venirmi
incontro, e ora vuoi lasciarmi così, con qualche boccone di
informazioni?
“Kalut” il Pokémon lo
fissò dritto
nelle pupille. “Tu stai parlando.”
Per quanto semplice,
quella frase
gli aprì gli occhi. Lui stava parlando. Parlava come un umano con i
Pokémon.
Quell’azione gli era venuta fuori nella totale normalità, come se
avesse sempre
parlato, durante tutta la sua vita, come se fosse stata la cosa più
semplice e
familiare del mondo. Eppure, si era reso conto di non riuscire a
formulare una
frase se non con enorme difficoltà, prima.
Si ricordava di quei
giorni in cui
aveva una testa piena di parole che non riusciva a svuotarsi poiché la
lingua non
l’accompagnava. Kalut si zittì. A forza, si obbligò a tacere, mentre
lo Xatu
continuava a scrutare i suoi pensieri rovistando nella sua mente come
fosse un
archivio, uno schedario.
– Xatu, che cosa significa
quello
che mi stai dicendo? – domandò Kalut dopo l’interminabile attesa.
– Dovrei riuscire ad integrare un’applicazione
simile
nel software del PokéNet, un elenco di tutti gli Allenatori esistenti,
anche
quelli che per qualche motivo non possiedono uno dei miei dispositivi o,
magari, non sono più tra noi – spiegò il professore scrollando un elenco
contenente numerosi dati davanti agli occhi ipnotizzati dal monitor di
Celia e
Xavier.
– E quale sarebbe l’utilità di questa funzione?
–
domandò il ragazzo.
- Beh, vedi, Xavier, il PokéNet, lo strumento
che avete
ai polsi è soltanto un portale. Un dispositivo che riesce a connettervi
alla Rete... e non sto
parlando di internet,
ma di qualcosa di molto più sicuro, come una banca dati in continuo
aggiornamento alla quale ognuno può accedere quando vuole. Pensa ad un
mondo di
uomini e Pokémon totalmente connessi tra loro, niente social, niente
telefoni,
solo la Rete, tu puoi essere ovunque e sapere ogni cosa di ogni luogo,
presente
e passata... nella maniera più semplice possibile. Creare ordine,
salvaguardia,
questo è l’obbiettivo della FACES...
– La FACES? – chiese Celia.
– L’organizzazione che si occupa della
sicurezza
statale, il professore lavora per loro – riassunse distratto Xavier
ormai preso
dalla conversazione.
– Esattamente – approvò l’uomo. – Dovete sapere
che
molte volte l’armonia del nostro mondo ha rischiato di essere sconvolta.
Avrete
sicuramente sentito parlare del Team Rocket, delle catastrofi di Hoenn
ad opera
dei Magma e degli Idro o del Team Galassia...
I due annuirono.
– Per tale motivazione abbiamo anche questo
progetto
sotto mano... – Willow aprì un'altra finestra sul monitor. Un altro
elenco di
persone, la cui icona era ben riconducibile ad una foto segnaletica. – è
ancora
un lavoro in fase embrionale, ma è un catalogo che permette di
visualizzare in
tempo reale la lista dei ricercati, stato di cattura, taglia sulla loro
testa.
– Taglia? – chiese Xavier impressionato.
– Sì, si prevede che sarà data una ricompensa a
coloro
che si renderanno utili per le indagini, ovviamente solo se il ricercato
sarà
catturato – fu la risposta.
– È fantastico... – commentò Celia colpita.
– E in ultimo – introdusse Willow. – Ricordate
la Rete?
Bene, abbiamo pensato di dividere le persone in base a occupazione,
categoria,
livello di esperienza – fece l’uomo.
– Ad esempio, tu Xavier sarai classificato come
un
Allenatore d’elite hai numerose vittorie alle tue spalle, tante sfide in
palestra e tante partecipazioni a tornei e simili, in più, avrai un alto
grado
anche sul fronte esplorazione, hai viaggiato in quante? Tre regioni? –
elencò
il professore digitando sul monitor il nome del ragazzo e aprendo la sua
scheda
ancora in lavorazione ma quasi completa.
– Oh cavolo... ma dove raccogliete questi dati?
–
domandò il castano alle sue spalle.
– Abbiamo accesso alle schede Allenatore delle
diverse
regioni, quelle che le persone hanno registrato all’inizio e alla fine
del
viaggio, noi lentamente ricostruiamo la loro timeline – srotolò l’uomo.
– Ah...
– Allora! – Willow spense il monitor e si voltò
verso le
facce sbigottite dalla complessità del suo lavoro di Xavier e Celia. –
Che ne
pensate?
|
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Capitolo 12 *** Capitolo 11 - Amicizia ***
Capitolo
11
- Amicizia
–
È
un genio
È un pazzo
I
rispettivi pensieri di Celia e Xavier si espressero sottoforma di parole
formulate dalle vibrazioni delle loro corde vocali quasi all’unisono. I
due si
trovavano sulla penultima scalinata intenti ad uscire dalla palazzina in
cui
abitava il professor Willow. Erano da poco scoccate le quindici, la
bionda e il
castano erano d’accordo sul da farsi: riprendere il cammino. Salutato il
professore e raccolta ognuno la propria roba, i due esseri umani si
apprestavano a tornare sulla loro calle.
–
Prossima medaglia? – chiese Xavier.
–
Caspita, mi son ricordata solo adesso, ecco la seconda medaglia Eclissi!
–
esclamò Celia riaprendo la sua borsa.
Xavier
rimase
non poco stupito quando vide la ragazza porgergli una bambola con un
occhio solo, sporca di inchiostro e trafitta da una miriade di spilli.
–
Che cos’è questa cosa? – chiese Xavier senza il coraggio di prendere in
mano il
pupazzo di pezza.
–
Oh, devi vedere la palestra di Luna, a Costa Mirach, è una tipa tutta
strana,
tiene le medaglie attaccate come bottoni alle bambole... – spiegò la
bionda.
–
Ah... in questo senso tutta strana?
–
Non solo, lei non ha voluto combattere ed è... boh, strana, urlava e
piangeva
nascosta nella palestra, diceva qualcosa tipo “attenta alle nubi” o simili, era inquietante...
–
Mah, tanto non devo tornarci – Xavier staccò la medaglia Eclissi dal
volto
della bambola e gettò quest’ultima in un cassonetto. Quindi ripose il
suo
premio nel cofanetto. – Oh, aspetta, Celia – irruppe tutt’un tratto lui.
–
Dovevamo fare una lotta, no?
–
Ah, hai ragione, dobbiamo combattere! – esclamò la ragazza.
–
Ci dovrebbero essere dei campi dietro l’isolato, andiamo là.
–
Va bene.
I
due erano nel frattempo usciti in strada, di nuovo si trovavano in quel
gomitolo di strade intasate da macchine che sfrecciavano a gran velocità
fastidioso e soffocante. In poco tempo aggirarono il palazzo e
raggiunsero il
posto a cui si riferiva Xavier, dei rettangoli di terra battuta
miseramente dal
marciapiede parallelo all’asfalto da una povera recinzione verde.
Entrarono
dalla porta mezza scassata e si disposero ai due estremi del Campo Lotta
professionali e conoscitori delle regole ufficiali della Federazione.
–
Due Pokémon? – domandò Celia.
–
Due Pokémon – affermò Xavier.
Entrambi
presero
le Poké Ball, una per mano.
–
Prima le signore... – sussurrò Xavier.
-
Se insisti, scendi in campo, Karma!
Il
Pokémon
Armuccello fece la sua
comparsa sul campo di battaglia. La sua immagine così aerodinamica,
minacciosa
e pronta ad affettare senza troppi problemi ogni avversario eliminò il
ricordo
più recente che Xavier aveva di quell’essere, ovvero quello del mite
volatile
che nell’allevamento di Julie faceva le fusa quando qualcuno gli
lustrava le
piume d’acciaio.
–
Va bene, Eelektross, tocca a te – fece il castano lanciando la sfera del
Pokémon Elettropesce a sua
volta.
–
Karma, Alacciaio! – ordinò la
ragazza
a bruciapelo prima che l’avversario potesse emettere il suo ruggito di
battaglia.
–
Eelektross, fermalo con Falcecannone
– ribatté Xavier senza fianchi scoperti.
–
Taglia a metà la sfera, difenditi! – fedelissimo agli ordini della sua
Allenatrice, lo Skarmory falciò la bolla di elettricità eludendo
l’attacco e
con le sue ali di metallo giunse a destinazione assestando un violento
colpo
nell’addome dell’avversario.
–
Non distrarti, Lanciafiamme –
Eelektross si riprese e subito lanciò una rovente lingua di fuoco che
partì
dalla sua bocca per centrare il volatile metallico nell’altra metà
dell’arena.
–
Sganciapesi! – esclamò la
ragazza.
Karma
si
concentrò, cominciarono a comparire alcune tracce di ruggine e
ossidazione
sul corpo del Pokémon, la patina si diffuse fino a coprire ogni singola
piuma
per poi staccarsi automaticamente. Davanti al nemico, ora Skarmory
sembrava più
agile e rapido. Celia sorrideva.
–
Non serve dargli accelerazione se non hai colpi da sferrarmi,
Eelektross, Dragartigli! –
disse Xavier. Gli le
unghie dell’anguilla cominciarono ad emettere una fioca luce violacea
mentre
questa scattava serpeggiante in direzione del nemico.
–
Turbosabbia, tiriamo su un po’
di
caos! – Karma prese a sbattere le ali con la rapidità di un colibrì, in
poco
tempo un polverone si era formato sul campo come un vero e proprio muro
come
impedisse a Eelektross di portare a termine il suo attacco.
–
Cavolo! – esclamò Xavier preso alla sprovvista. “Ho capito, vuole
attaccarmi
sfruttando la velocità di Skarmory” pensò il ragazzo. – Non ci
riuscirai, Lanciafiamme,
Eelektross! – il respiro
infernale del Pokémon Elettropesce
riscaldò la già torrida atmosfera.
Ma
non
ci furono riscontri, solo un bagliore che a Xavier parve di intravedere
tra
le fiamme e la terra, una debole luce violacea alla quale il ragazzo non
diede
peso.
–
Comete! – fu l’ordine di
Celia.
Dalla
cappa
di terriccio, scie luminose dalla traiettoria curvata spuntarono dirette
senza pietà verso Eelektross, ma il Pokémon si difese sfaldandole con
Dragartigli.
Ormai
il
muro di Turbosabbia non era
più un
problema, Xavier poteva persino vedere Celia che era all’altra estremità
del
perimetro.
–
Cosa avevi intenzione di fare, Celia? Hai coperto la visuale
solo per sferrare Comete che di per sé è già una mossa infallibile? Stai perdendo
colpi, ragazza... – commentò Xavier. Celia sorrideva.
–
Alacciaio, non dargli tregua!
–
Dragartigli, dai che sei più
forte!
–
Evita!
Stranamente,
secondo
l’ordine dell’Allenatrice, lo Skarmory che si stava dirigendo a tutta
velocità contro l’avversario che pure si apprestava a rispondere in un
corpo a
corpo, cambiò rotta evitando per un soffio le grinfie dell’Elettropesce.
–
Ti diverti? – fece sarcastico Xavier.
–
Scherzi? Ora prendi le botte! Torna, Karma!
Il
Pokémon
Armuccello fu sostituito sul
campo dal Reuniclus appena sceso in campo.
–
Che diavolo stai facendo, sorella? Eelektross, Sgranocchio!
-
Schiva!
La
mossa
fu rapida, il Pokémon di Xavier tentò di chiudere le sue fauci attorno
alla gelatina che costituiva il corpo di Reuniclus avversario, ma
quest’ultimo
fu rapido a scansarsi, poi qualcosa di strano avvenne, una fitta
incredibile
martellò il cervello di Eelektross che di colpo si ritrovò a contorcersi
a
terra come se qualcosa stesse schiacciando ogni suo volere.
–
Che diavolo succede?! – esclamò Xavier.
–
Stordipugno a ripetizione! –
gridò
Celia.
Una
raffica
di potenti cazzotti sferrati dalle forti giunture di Reuniclus stesero
il povero avversario incapace di difendersi e di resistere a causa della
forte
emicrania.
Xavier
non
poteva crederci.
–
Fratello, forse non hai notato che approfittando del polverone ho messo
per un
momento in campo Gel per utilizzare Divinazione sul tuo Pokémon per poi
far
tornare Karma. Sei stato disattento – rivelò mascalzona la ragazza.
Xavier
era
interdetto, da una parte era felice che un’Allenatrice come Celia che
aveva
imparato le basi della lotta Pokémon proprio da lui avesse elaborato una
strategia simile, efficace per quanto grezza, dall’altra si sentiva
spodestato
e non capiva come, quella ragazza che non era mai stata una diva delle
lotte
fosse stata capace di vincere il leader del suo team.
‒
Nessun problema – mentì Xavier. – Pumpkaboo, scendi in campo
Il
Pokémon
Zucca si presentò senza alcune pretese.
‒
Forza Gel, Ps... – Celia si
interruppe, i suoi occhi erano stati catturati dalla visione di uno
strano
figuro che, con le dita che stringevano la ringhiera, si era appoggiato
al
recinzione del campo e osservava i due ragazzi combattere. Era un
ragazzo moro,
non aveva più di vent’anni, ma i due occhi da gufo che erano incastonati
nelle
sue cavità oculari rendevano il suo sguardo molto più longevo di quanto
in
realtà fosse.
‒
Buongiorno ‒ salutò Xavier che aveva a sua volta individuato l’intruso
dopo
aver seguito la linea dello sguardo di Celia. ‒ Serve… serve qualcosa? ‒
chiese
per convenzione.
Il
ragazzo
scosse la testa. Celia taceva.
‒
No, no… continuate pure… io voglio solo stare a guardare ‒ rispose in
ritardò
quello.
‒
Va bene ‒ commentò lievemente scettico Xavier.
‒
Possiamo almeno avere il piacere di conoscere il nome del nostro
spettatore? ‒
domandò Celia in un insolito slancio di favella.
Il
ragazzo
aprì la bocca come per rispondere, ma il suono fuoriuscì parecchio in
ritardo.
‒
Perseo, mi chiamo ‒ sussurrò.
Xavier
drizzò
le orecchie nell’udire quel nome.
‒
Sei mica il Capopalestra…?
‒
Sì ‒ lo prevenne quello. ‒ Capopalestra di Alyanopoli ‒ fece ermetico.
‒
Beh, sei il benvenuto allora, noi due stiamo cercando di raccogliere
tutte le
medaglie di Sidera e non ci dispiacerebbe mica lottare con te una volta
finita
tra noi ‒ fece il castano.
Perseo
scosse
la testa portandosi il codino che prima pendeva dietro la sua schiena
sulla spalla destra. ‒ Non funziona così, ragazzo ‒ la frase era atona e
anche
abbastanza fuori luogo, lui non era molto più vecchio di Xavier.
‒
Come scusa? ‒ domandò la bionda interdetta.
‒
Gli altri combattono, con me è diverso… ‒ accennò il Capopalestra.
‒
Stai scherzando?! ‒ quasi esclamò Xavier.
Nel
frattempo
ognuno aveva dimenticato che ci fosse una lotta Pokémon in corso,
persino Pumpkaboo e Reuniclus si erano calmati e avevano disciolto ogni
tensione.
‒
Gli altri combattono? Cazzo, siete Capopalestra, lottare è il vostro
lavoro! ‒
fece precipitoso il castano di Austropoli.
Celia
era
rimasta zitta, non sapeva come reagire: se non partecipare alla
conversazione o sostenere Xavier.
‒
No, noi siamo Capopalestra, assicurarci che le persone si guadagnino le
medaglie è il nostro lavoro ‒ ribatté Perseo senza neanche guardare
negli occhi
il suo interlocutore.
Ad
innervosire
Xavier non erano state le parole quanto il tono del moro. Le sue
parole fiacche ma certe e la sua indole insofferente erano le cascate
che
rischiavano di far traboccare il vaso al primo colpo. Il castano si
sforzava di
non ribattere.
‒
Intendi che anche tu regali le medaglie? ‒ domandò Celia.
‒
Regalare? ‒ Perseo rise. ‒ No, assolutamente, che ingenua che sei…
La
bionda
scosse la testa e passò lo sguardo a Xavier.
‒
Senti, spiegaci bene, cosa dovremmo fare noi per vincere la tua
medaglia? ‒
domandò limpido quest’ultimo.
‒
Comprarla.
Bastò
quella
parola, nella testa di Xavier una miniatura perfettamente intagliata di
Perseo cominciò a prendere randellate da un suo sosia con in mano un
grosso
martello.
‒
Pumpkaboo, ritorna
‒
Xavier, cosa…?
‒
Non ci sto in questa gabbia di matti, io, che regione del cazzo!
Il
castano
ripose la sua Ball e si diresse verso l’uscita. Perseo si scansò per
lasciar passare l’irascibile Allenatore e rimase impassibile quando lui
gli diresse
contro lo sguardo più tetro che avesse mai visto.
‒
Xavier ‒ Celia, non curandosi minimamente del moro, corse dietro al
fratello. ‒
Oh! Che diavolo ti prende? ‒ esclamò dopo averlo raggiunto.
‒
Non parlarmi, per favore ‒ rispose brusco lui.
‒
Dai!
‒
Cosa vuoi?
‒
Che cosa ti prende? Te ne vai così e lasci pure la lotta in sospeso!
‒
Senti Celia, io non so neanche che cosa ci faccio realmente qua e perché
un
cervellone mi abbia chiesto di fare le cose al suo posto; che diavolo di
regione è Sidera? Capipalestra che non combattono e gente che vende le
medaglie! Io… ‒ il ragazzo si mise la mano destra tra i capelli. ‒ …non
ci sto
capendo niente!
Celia
tacque.
‒
Non so, vado al Centro Pokémon, faccio curare Eelektross e nel frattempo
mi
schiarisco le idee, tu… boh, fai quello che vuoi…
Il
castano
lasciò la sorella con un palmo di naso andandosene e voltandole le
spalle
in malo modo. Celia non ebbe una prima reazione particolarmente
istintiva, il
suo cervello ancora non aveva compreso come fosse stata spezzata così
facilmente la pazienza di Xavier, non aveva dato precedenti segni di
cedimento.
La
bionda
fissava il vuoto.
‒
Ti interessa una medaglia? ‒ chiese una voce non nuova alle sue spalle.
La
risposta
si fece attendere un po’. ‒ Senti… Capopalestra… Perseo… non credo sia
il momento ‒ balbettò lei.
‒
Sai che se non la compri a me non potrai avere gli otto badge necessari
per
accedere alla Lega, vero? ‒ canzonò lui con tono fastidioso.
“Seguimi” ordinò Xatu.
Kalut cominciò a muovere
qualche
passo incerto dietro all’andamento calmo e ritmato del Pokémon Magico;
il
volatile posava le sue zampe artigliate a terra con cadenza precisa al
millisecondo, quasi come il battito del cuore di Dialga.
‒ Proteggerli… ‒ mormorò
Kalut.
“Che cosa stai cercando,
ragazzo?”
domandò Xatu fermandosi sul bordo del tetto su cui stavano.
Kalut lo guardò storto.
“Ho fatto una domanda”
precisò
quello.
‒ Che cosa sto cercando…?
‒ Il
ragazzo non capiva. ‒ Sto cercando di capire cosa vuoi dirmi ‒
semplificò.
“No… cosa stai cercando
tu, tu da
solo?”
‒ Sono andato via da Rick,
mi sto allontanando.
“E perché eri andato da
lui?”
‒ Ci siamo incontrati nel
bosco.
“E perché eri nel bosco?”
Kalut non rispose. Il
volto
scolpito nella roccia eterna del Pokémon Magico sembrava attendere una
reazione
dalla invece morbida espressione di Kalut che aveva mutato la sua
forma varie
volte durante la conversazione con quell’essere.
“Kalut, perché eri nel
bosco?”
ripeté Xatu.
‒ Io… ‒ Nulla. ‒ Io non lo
so… ‒
mugolò.
Xatu lo guardò negli
occhi.
“Infatti…” fece. “Kalut”
il Pokémon
Magico ridestò l’attenzione del ragazzo. “Dietro di te.”
Kalut si voltò.
In un brevissimo istante,
repentino
come nulla, Xatu afferrò il ragazzo dai capelli bianchi per le spalle
con i
suoi artigli conficcandoli nella carne e lo trascinò indietro. Quanto
necessario per portarlo al di fuori del perimetro del tetto e
lasciarlo cadere
nel vuoto.
Kalut non riuscì a gridare
dalla
paura. L’umano sentì la sensazione di vuoto salirgli dall’inguine
lungo la
spina dorsale. Stava cadendo, era terrorizzato, cadere da
quell’altezza
significava morire, stava cadendo.
Kalut chiuse gli occhi.
Si ritrovò sospeso a
mezz’aria, a
pochi centimetri dal terreno. Sopra di lui, affacciati al bordo del
muro, Xatu
e Venipede lo guardavano. E lui levitava sospeso a mezz’aria da una
forza
psichica. Sentiva l’energia scorrergli addosso, lungo la pelle e
sentiva i peli
drizzarsi per essa, avvertiva il filo che lo connetteva alla fonte di
quel
potere telecinetico, avvertiva che era Xatu ad averlo salvato. Era
“non caduto”
in un vicolo stretto e desolato, nessuno aveva potuto assistere al
fenomeno,
solo lui e i due Pokémon.
In un momento, quando il
tamburo di
ventricoli e atrii che aveva in petto si era finalmente calmato, la
forza
psichica di Xatu lo riportò sul tetto. Una volta rimessi i piedi sulle
tegole, Kalut
impiegò un po’ a riadattarsi al terreno.
‒ Perché hai fatto questo?
‒
domandò a Xatu spaventato e tremante.
Xatu non parlava.
‒ Perché lo hai fatto? ‒
ripeté
tastandosi le ferite lasciate dagli artigli del Pokémon sulla sua
carne.
Xatu si voltò. “Aspetta,
Kalut…”
‒ Che cosa?
Il ragazzo avvertì un
lieve prurito
alla spalla, in corrispondenza delle ferite lasciate da Xatu. Provò a
strofinare il palmo della mano sugli squarci per lenirlo senza farsi
del male.
“Non toccare” gli intimò
Xatu.
Kalut, persuaso dalla voce
del
volatile che rimbombava nel suo cervello, tolse la mano. La sua
sorpresa nello
scoprire che la sua carne si era rimarginata fu più unica che
rara.
|
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Capitolo 13 *** Capitolo 12 - Movimento ***
Capitolo
12
– Movimento
‒
Che
cosa succede? ‒ si chiese Kalut a voce alta più rivolto a Xatu che a
se
stesso.
Quel
Pokémon
gli era sembrata una creatura straordinaria, voleva parlare con lui;
quando voleva comunicargli qualcosa non sentiva più quel groppo in
gola che lo
zittiva il più delle volte in presenza dei suoi simili.
“Kalut,
hai
tante domande…” L’eco della voce del volatile nel cranio del ragazzo
aveva
assunto un tono basso e profondo. “…e io ho altrettante risposte”
affermò vago.
Il
ragazzo
dai capelli bianchi aveva ancora la mano sulla spalla, la ferita
profonda lasciata dagli artigli di Xatu si era curata in un istante ma
lui
sentiva come una mancanza, una sensazione di timore scaturita al tatto
da quel
preciso punto del corpo.
‒
Xatu, per favore, spiegami che cosa sta succedendo…. ‒ il suono emesso
da Kalut
fu più un lamento che un’esortazione.
“È
la
prima volta che dici il mio nome, lo sai?” gli fece notare il suo
interlocutore.
Kalut
tacque.
“Cosa
hai
provato cadendo?”
‒
Scusa...? ‒ il Pokémon aveva ridestato la sua attenzione. ‒ Cosa ho
provato
cadendo?
“Aspetto
una
risposta…”
Kalut
rifletté
alcuni secondi.
La
matita si
muoveva rapida sulla carta. Come un aratro nero che arava la sua terra
bianca,
essa seminava umanità nell’arido foglio vergine. Celia scriveva, le era
sempre
stato utile mettere in riga i suoi pensieri per chiarire meglio la sua
mente,
per questo teneva un diario.
“Secondo
te ho
sbagliato, Avril?”
“Che
ne so, sei
tu quella che deve per forza essere onesta… io non mi faccio problemi
simili”
“Tu
sei uguale a
me, sciocca!”
“Dici?”
“Dico,
e adesso
rispondimi, dovrei scusarmi con Xavier o devo stare zitta?”
“Ma
per la prima
o la seconda cosa?”
Celia
posò per
un attimo la matita. L’idillio che vedeva protagoniste lei e il proprio
diario
si concluse.
‒
Sono
un’idiota… ‒ si disse posando la testa tra le mani. La ragazza era
seduta su
una panchina in un parco del centro di Idresia e sulle gambe aveva il
diario a
forma di barretta di cioccolato sul quale posava la ormai calma matita.
‒
Esci fuori,
Jin… ‒ mormorò abbattuta. ‒ Ho bisogno di compagnia.
Il
Pokémon Squaloterra, poco
avvezzo a rapporti con
umani tristi, si posò accanto alla sua Allenatrice e si limitò a
squadrarla
dalla testa ai piedi. Era una ragazzina, ma in confronto a lui sembrava
enorme.
‒
Dici che ho
fatto una stupidaggine?
Gible
mugolò
gutturalmente qualcosa di indecifrabile ma forse per lui estremamente
sensato.
“Celia,
ricordati
che lui ha interrotto la lotta” Da qualche parte spuntò di nuovo
Avril che, con poche parole riuscì a cancellare uno dei drammi
esistenziali
dell’amica.
Celia
risollevò
la testa, i suoi occhi tornarono decisi. ‒ È vero!
“Caspita,
sono
andata a cercare la strategia su internet… ma lui ha abbandonato la
lotta in
difficoltà, quindi siamo pari!”
“Sì…”
fece Avril
mentre il Gible di Celia fissava la mina che scorreva sul foglio
lasciandosi
dietro la scia nera. “…ma come gliela spieghi la barca di soldi spesa
per la
medaglia di Perseo?”
‒
Fottuti
Capipalestra, come diavolo faccio ad Allenare i miei Pokémon in questa
maniera?
‒ Xavier imprecava alla cornetta del telefono del Centro Pokémon in
attesa di
un segno di vita proveniente dall’altra parte del filo.
‒
Pronto,
Allevamento Pok…
‒
Julie! Sono
io! ‒ esclamò il ragazzo all’udire la voce della fidanzata.
‒
Savi! Come
stai, amore? A che punto passi del viaggio? ‒ ribatté felice
quest’ultima.
‒
Eh… ancora c’è
da fare qua. Piuttosto, ti manco un pochino?
‒
Mh… parecchio…
ma sono felice che tu stia bene. ‒ sussurrò lei.
‒
Lo sai di che
cosa ho bisogno? ‒ partì con un altro discorso Xavier.
‒
Di che cosa,
Savi?
‒
Ho bisogno che
tu mi invii tutti i Pokémon che tieni all’Allevamento, tutti e due ‒
spiegò
lui.
Julie
tacque per
un momento.
‒
Julie…?
‒
Va… va bene,
te li invio, sei dove?
‒
Idresia,
Centro Pokémon della periferia ovest.
‒
Perfetto,
provvedo.
‒
Grazie, sei un
tesoro. Ti amo! Ciao!
Xavier
riattaccò
il telefono in faccia ad una povera Julie che non ebbe reazioni
particolarmente
spietate, era solo infastidita da così tante persone che se la
spassavano in
giro per la regione e un po’ invidiosa di loro.
Una
dopo l’altra,
nella capsula di trasporto di Sidera, giunsero le due sfere di diversa
tipologia e di differente colore contenenti i Pokémon che Xavier aveva
conservato dopo i suoi viaggi nelle altre regioni, una Mega Ball e una
Scuro
Ball, una blu con inserti rossi e l’altra verde a macchie nere. Il
ragazzo le
prese, le attaccò alla cintura, quindi fece per uscire dal centro,
quando una
voce lo fermò.
‒
Si trattano
così le fanciulle dalle tue parti?
Xavier
si voltò.
La frase era stata pronunciata da una ragazza appoggiata al muro proprio
accanto alla porta di vetro. La tipa era alta più o meno quanto il
ragazzo,
vestita con una canotta leggera color carbone e degli shorts rossi, lo
scrutava
da dietro i suoi Ray-Ban ambrati.
‒
Così… come? ‒
chiese l’Allenatore immediatamente colpito dalla mise sicuramente poco
timida
della fanciulla.
‒
Mi sei
sembrato abbastanza lascivo, oppure sei uno che fa le cose… in fretta e
furia ‒
chiese questa evidenziando il doppio senso.
Xavier
sbuffò
sorridendo tra un tentativo di nascondere la vergogna e uno di
esorcizzare
l’insinuazione di lei. ‒ Hai la faccia tosta, che vuoi da me?
‒
Niente, mi
aveva solo incuriosito il tuo disprezzo per i Capipalestra della regione
‒ La
ragazza dai capelli castano caramello si rivolse verso la porta
oltrepassando
Xavier e uscendo dal Centro. ‒ Lo sai ‒ Si fermò appena davanti a lui. ‒
che
potrei prenderla sul personale?
Xavier
cambiò la
sua espressione da ebete in qualcosa di simil-serio, avanzò anche lui
sincronizzando
il suo passo con quello della tipa.
‒
Sei una
Capopalestra quindi? ‒ domandò immerso nell’ovvio fino alla fronte.
‒
Ma quale
acume…
‒
Cassandra, o
sbaglio?
‒
Ah, a quanto
pare sono famosa… ‒ Cassandra si immobilizzò. ‒ Il piacere? ‒ fece
inclinando
la testa a destra.
‒
Xavier, vengo
da Delfisia ‒ rispose quello sollevando un sopracciglio.
‒
Oh, sei un
Allenatore itinerante?
‒
No, sono una
cacciatrice di taglie intergalattica ‒ rispose ironico il castano.
I
due avevano
iniziato a camminare uno accanto all’altro.
‒
Divertente, ma
ancora non hai risposto alla mia domanda principale ‒ lo boicottò lei.
‒
Ah, quella sui
Capipalestra?
Cassandra
lo
riguardò con aria di attesa, i suoi occhi penetranti dal colore marrone
chiarissimo oltrepassavano persino le lenti scure degli occhiali per
giungere a
molestare lo sguardo di Xavier.
‒
Eh… ‒ cominciò
quello. ‒ …niente di particolarmente rilevante, solo che è la prima
volta che
viaggio per una regione e due Capipalestra su tre non intendono lottare
con gli
Allenatori per permettere loro di conquistare la medaglia.
Cassandra
seguiva
in silenzio.
‒
È assurdo,
quello le regala, quella le attacca alle bambole e quello vuole pure i
soldi! ‒
cambiò orientamento esplicativo Xavier.
La
Capopalestra
annuiva. I loro sguardi si incontrarono, lui attendeva una risposta e
lei era
fin troppo criptica nella sua espressione vagheggiante.
‒
Hai ragione ‒
ruppe infine il silenzio Cassandra. Era seria, come se avesse preso come
un
rimprovero le frasi del ragazzo.
‒
Scusami?
‒
Hai ragione.
Intendo.
Il
loro passo si
era fermato, lei ora fissava il vuoto e lui era immobile a scrutarla
mentre
rifletteva.
‒
È successo…
qualche mese fa… ‒ cominciò a spiegare lei. ‒ Antares, il nostro capo,
il
Campione della Lega di Sidera ha… licenziato molti dei nostri. Cinque ‒
e
mostrò il palmo della mano. ‒ e dico cinque di noi sono stati
rimpiazzati…
senza alcun motivo poi…
Cassandra
avanzò
di alcuni passi per andare a sedersi su una panchina, i due erano giunti
ad un
parchetto poco lontano dal Centro Pokémon che si estendeva attorno ad
una
fontana a forma di Milotic. Xavier la imitò.
‒
E al posto
loro… sono stati chiamati questi nuovi?
‒
Gente a caso!
‒ esclamò con enfasi lei. ‒ Persone uscite dal nulla cosmico che si dice
pure
che non abbiano neanche completato il test per essere ammessi nelle
palestre!
‒
Davvero?
‒
Non ci credi?
‒ si voltò lei. ‒ Sai che Sidera è sempre stata una meta ambita dagli
Allenatori in cerca di sfida per i suoi Capipalestra duri a cedere?
‒
Sì.
‒
Beh, quali
medaglie hai vinto finora?
‒
Ehm… ho quella
di Luna, quella di Castore e Polluce…
‒
Ecco! I due
ragazzini! Incredibile!
‒
Che cosa?
‒
Sinceramente,
Xavier… ho visto che Pokémon ti sono stati mandati al Centro e non sei
certo un
Allenatore alle prime armi; quanto ti è rimasto difficile vincere quella
medaglia?
Il
castano
ripensò per un istante alla lotta che si era svolta in quella palestra
meravigliosa a Borgo Asterion. Decise di reggere il gioco alla ragazza,
ora che
il discorso si era fatto così interessante: ‒ No, hai ragione. Non è
stato
troppo difficile.
‒
Ecco, perché
quei due non sono Capipalestra! Non dovrebbero essere lì…
Lo
sguardo di
Cassandra si fece più cupo. Xavier fissava il vuoto mentre lei
raccoglieva le
gambe al busto.
‒
Pare che mi
sia salvata solo perché ero una delle più giovani, altrimenti forse
sarei stata
silurata pure io…
Xavier
spostò la
sua attenzione sulla ragazza, togliendo la mente da quel circolare
angolo delle
riflessioni in cui si era incastrato. Se i due Capipalestra erano
“quelli
deboli” allora Cassandra stessa gli avrebbe frantumato il colon a forza
di
manganellate? Probabilmente. Ma la sua testa non pensava più a quello,
la sua
etica specificava che nelle situazioni in cui c’è una bella ragazza
triste, lui
non poteva mica rimanere impassibile. Eh no.
‒
Dai, secondo
me non è così, se ti hanno lasciato il tuo lavoro ci sarà un motivo…
Cassandra
alzò
lo sguardo per ricambiare il suo.
‒
Che idiota che
sono, ti sto rendendo partecipe di queste cose e neanche ti conosco. ‒
fece ad
un certo punto alzandosi dalla panchina e poggiando la testa tra le
mani. ‒
Lascia stare… Xavier, sei simpatico, ma mi aveva solo incuriosito il
fatto che
tu ti fossi reso conto che qualcosa non andava. Grazie per la
chiacchierata…
‒
Aspetta. Non
puoi andartene così in fretta, no? ‒ anche Xavier si era alzato.
Cassandra
si
voltò.
‒
Adesso mi hai
incuriosito, fammi capire di più a proposito di questo… fatto qui dei
Capipalestra licenziati e roba simile.
‒
Io… ‒ la
ragazza pensò per un istante a cosa fare: parlare con un ragazzo che
aveva
appena conosciuto di argomenti lavorativi e anche abbastanza delicati o
fregarsene e tornare alla palestra.
Gli
occhi scuri
del ragazzo le esprimevano sincerità.
‒
Va bene, ti
spiego…
“Si
chiama
paura, Kalut”
Kalut,
esortato
da Xatu, guardava sotto proteso appena oltre il bordo del tetto.
“Nello
specifico,
vertigine. Senti quella strana cosa che hai nello stomaco?”
‒
Sì…
“Ecco,
quella.”
‒
Ed è male?
“Generalmente
no,
ti aiuta a sopravvivere” rispose Xatu. “A non rischiare la vita, per
intenderci”
‒
Ah...
“Dimmi
un
po’, Kalut, che ne dici di un po’ di movimento?” chiese il Pokémon.
‒
Movimento? ‒ il ragazzo rifletté sulla parola.
“Movimento,
prova
ad esempio a saltare su quel tetto” lo esortò Xatu focalizzandosi sula
casa dirimpetto a quella su cui erano loro.
‒
Quello?
“Quello.”
Kalut
saltò,
come spinto da una convinzione innaturale. E ovviamente sprofondò nel
vuoto; Xatu fu abile nel recuperarlo con Psichico per poi riportarlo
accanto a
lui.
“La
rincorsa…”
gli mormorò telepaticamente.
Il
ragazzo,
con ancora tutti i peli ritti sul corpo, fece qualche passo indietro
quindi corse avanti per poi saltare proprio all’ultimo. Giunse sul
secondo
tetto per il rotto della cuffia, atterrando in maniera goffa e poco
dignitosa,
ma comunque raggiungendo la meta.
“Complimenti”
sussurrò
Xatu comparso davanti al ragazzo che ancora era a terra con il cuore a
mille per il salto e i nervi a fior di pelle. “Avanti adesso, hai
un’intera
città a tua disposizione sulla quale puoi saltare…”
‒
Capisci? È
veramente fastidioso! E non per il fatto che non so per quale stralcio
di
motivo io non sia stata rimpiazzata, semplicemente mi sembra stupido
lavorare
ancora per una Lega che mette degli incapaci a fare i Capipalestra!
‒
Beh, ma hai
mai parlato con il Campione di tutte queste cose?
‒
Non vuole
discuterne, ha chiesto di tacere su questi avvenimenti e che ha
semplicemente
fatto quello che doveva fare.
‒
Ci credi
davvero?
‒
…oddio. Non lo
so…
Xavier
tacque. I
due erano tornati a sedere sulla panchina, lei a gambe incrociate e lui
accavallate con la caviglia sinistra che poggiava sul ginocchio destro.
‒
Sinceramente
non so che fare, se dire qualcosa o cercare spiegazioni… o stare
semplicemente
zitta.
Il
castano
rifletté un attimo. ‒ Tu… se fossi il personaggio di una storia e stessi
allo
stesso tempo seguendo quella storia, cosa vorresti che il tuo
personaggio
facesse?
Cassandra
guardò
Xavier negli occhi.
‒
Probabilmente
vorrei che il mio personaggio chiarisse questa vicenda… ‒ mormorò con
voce poco
convinta alimentata da un lieve tocco di sicurezza.
Xavier
sorrise,
tutto sommato non era stato proprio inutile. Stava guardando la ragazza
i cui
occhi si erano invece totalmente smarriti nei pensieri. Ad un certo
punto gli
parve di vedere una figura, e non sbagliava. Celia era appena giunta nel
parco
ed era più che evidentemente diretta verso di lui.
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Capitolo 14 *** Capitolo 13 - Caduta ***
Capitolo
13
– Caduta
‒
Aspetta
un momento ‒ sussurrò Xavier.
Il
castano
si mosse in direzione della sorella che giungeva a passo svelto
fermando Cassandra.
‒
Dobbiamo parlare ‒ esclamò Celia prima che lui potesse aprire bocca.
‒
Dobbiamo parlare? ‒ chiese lui per conferma.
‒
Dobbiamo parlare.
‒
Puoi attendere un attimo…?
Celia
scrutò
appena oltre la sagoma del ragazzo intravedendo la Capopalestra.
‒
Va
bene… ‒ confermò lievemente seccata.
Xavier
la
ringraziò sorridendo, quindi tornò dalla Capopalestra.
‒
Allora, che intendi fare con Antares? ‒ domandò a bruciapelo.
Lei
scosse
la testa. ‒ Penso che andrò a parlarci…
‒
Ottimo, ma prima non scordarti che mi devi una lotta
‒
Ah, e per cosa ti sarei debitrice scusa?
‒
Ti
ho ascoltato tutto il tempo e neanche ci conosciamo.
‒
Oh… va bene signor ascoltatore, ti aspetto alla mia palestra così
vediamo se
sei così duro come sembri ‒ lo attizzò lei.
Xavier
sollevò
un sopracciglio. ‒ Più di quanto sembro…
Cassandra
sorrise
prima di voltarsi e prendere la sua strada ancheggiando. Xavier le
fissò il culo per alcuni istanti prima di vederla girare l’angolo. Poi
concesse
la sua attenzione a Celia.
‒
Ehm… come si suol dire…? Che schifo? ‒ lo provocò la bionda.
‒
Oh
dai, l’hai vista pure tu, no? È una bomba!
‒
Facciamo che io non ne faccio parola con Julie se tu prometti di non
dire a
Marcos che ho gettato via un bel po’ dei soldini che mi aveva dato per
una
medaglia? ‒ tentò di corromperlo lei.
‒
Cosa hai fatto?! ‒ esclamò lui mezzo furioso e mezzo stupito stritolando
tra le
mani il foglio con la ricevuta che aveva improvvisato Perseo prima di
consegnare la medaglia a Celia.
‒
Dai, seriamente… pensaci un attimo ‒ lo prese in contropiede lei
cercando di
calmarlo.
Xavier
le
concesse un istante di pausa dalla furia.
‒
Allora, rifletti, noi dobbiamo arrivare alla Lega ‒ cominciò. ‒ e per
farlo
dobbiamo avere le medaglie ‒ proseguì. ‒ quindi tanto vale spenderli ora
i
soldi e magari più in là li riguadagniamo, no?
Xavier
aveva
tutte le carte in tavola per tirare un sospiro e lasciare il discorso
con
un “ok, sticazzi, ma la cifra scritta a penna su quel foglietto tanto
striminzito e fastidioso gli dicevano che quello che aveva combinato la
ragazza
era male. Ci mise un bel po’ di consapevolezza del fatto che fosse
l’unico modo
per ottenere tutte le medaglie e altrettanto buon senso per convincersi
dell’ovvio.
‒
Va
bene dai… alla fin fine avresti dovuto comunque spenderli quei soldi ‒
mormorò.
Celia
annuì.
‒ Quindi intendi comprarne una anche per te?
‒
Non ora, non subito per lo meno…
L’argomento
si
chiuse in quel momento.
‒
Che si fa quindi ora? Intendi andare in palestra?
‒
Non
subito, domani ci andrò…
‒
E
quindi?
‒
Non so, facciamo che abbiamo una serata libera ‒ propose lui. ‒ Abbiamo
il
tempo di fare quello che ci pare…
Celia
si
focalizzò sulla cosa. ‒ Sì
dai, non
male…
‒
Io
controllo se c’è qualche festa in città ‒ annunciò Xavier allontanandosi
e
portando gli occhi al suo PokéNet.
‒
O-ok…
I muscoli di Kalut sapevano quanto contrarsi e
quando distendersi, gli veniva tutto spontaneo ormai. Il ragazzo
saltava da un
tetto all’altro calpestando le tegole con gran facilità, senza sentire
la
stanchezza ad una prima impressione.
“Ok, continua così” sussurrò Xatu.
Kalu non sentiva gravare il peso del corpo sulle
sue gambe quando atterrava, sapeva come muoversi e lentamente si
rendeva conto
che si stava muovendo come spinto da un istinto sconosciuto.
“Va bene, fermati” ordinò ad un certo punto il
Pokémon.
Il ragazzo interruppe la sua corsa posando i piedi
e non avanzando ulteriormente. Cadde a terra all’istante, respirando a
fatica e
non avvertendo nemmeno il distendersi dei muscoli sfuggevole alla sua
volontà.
Era distrutto, come se avesse recepito tutta la fatica in un solo
istante dopo
essersi fermato. Xatu osservava con un velo di cruccio mentre il
ragazzo
ansimava mezzo morente.
‒
Secondo te quanta gente ci sarà?
Celia,
seduta
sulla branda della camera che era stata il punto di riferimento di
Xavier la notte precedente, aveva davanti il volantino di una festa in
un
locale del centro di Idresia.
‒
Non ne ho idea, ma sembra una roba importante, magari è pieno di gente ‒
rispose semplicemente il fratello che nel frattempo era impegnato a
sistemarsi
il colletto della camicia allo specchio.
Erano
le
ventuno circa, entrambi avevano riposato durante il pomeriggio per poi
cenare alla buona e vestirsi decentemente per andare nel primo club che
ospitasse una festa quella sera, città sconosciuta, posti sconosciuti,
gente
sconosciuta, importava poco quale sarebbe stato il club.
‒
Vabbè, vogliamo muoverci? Mezz’ora la impieghiamo per raggiungere… ‘sto
posto ‒
propose Xavier.
‒
Vai, ti seguo
I
due presero gli ultimi oggetti necessari lasciando nella cuccetta zaini,
borse,
Pokémon e altre strumentazioni e uscirono, Xavier si guardò bene
dall’affidare
la chiave alla reception del Centro Pokémon, decise invece di fare
presente
alla ragazza addetta a ricevere gli Allenatori che sarebbe tornato verso
notte
fonda. Si incamminarono.
‒
Xavier Levine, penso che sarai tu la prima cavia ‒ sussurrava il
professor
Willow seduto sulla poltrona davanti al suo monitor.
Sullo
schermo
del secondo pc si vedeva la figura in movimento del suo Allenatore dai
capelli castani monitorato passo dopo passo dalle telecamere urbane di
Idresia.
Jason Willow picchiettava sulla scrivania con le dita a ritmo
ascendente, il
suono che si creava era ridondante e ossuto.
‒
I
primi che devono diventare nostri alleati sono quelli che potrebbero
essere i
nostri più pericolosi nemici... ‒ La ripresa in tempo reale mostrò il
ragazzo
raggiungere un locale parecchio illuminato dal quale si dipanava lieve e
soffocata dalle mura una musica insistente e sempre uguale. ‒ Sono
sicuro che
non rifiuterai di passare al livello successivo, numero 7…
Luci
stroboscopiche,
musica pompata nelle orecchie a tutto volume dalle casse e una
massa di gente ammucchiata al centro della pista. Chi col drink in mano,
chi
con troppi drink in corpo, chi troppo preso dal dimenarsi a ritmo di
musica per
stare a contare il numero di drink ingeriti. A Celia non piaceva
particolarmente quell’ambiente ma le sembrava figo, tutto sommato si
stava
divertendo, stava tra la folla muovendosi un po’ timidamente senza darsi
troppo
da fare per scansare i corpi che a lei si appiccicavano nel caos
generale. In
mezzo a personaggi sudaticci e poco controllati sembrava fuori posto,
una
ragazzina dai capelli chiari sul metro e sessanta con indosso un
succinto tubino
nero con le spalline sottili e dei tacchi abbastanza contenuti che
comunque non
miglioravano più di tanto la sua statura.
Un
ragazzotto
grosso con una camicia aperta sul petto villoso la fece quasi
rotolare a terra colpendola per errore con la spalla mentre camminava
facendosi
strada tra la folla e tenendo per mano quella che presumibilmente era la
sua
ragazza, una alta e mora vestita di rosso. Celia finì contro un soggetto
con
una t-shirt leggera e una cascata di dreadlocks legati sopra la testa,
il
ragazzo non si scompose, le chiese scusa anche se era stata lei a
colpirlo e si
spostò lievemente. A Celia parve di conoscerlo, ma la confusione portò
subito
la sua attenzione altrove, doveva andare in bagno; la ragazzina con
calma e
senza sbrigarsi troppo raggiunse il bagno riservato alle donne, spostò
il
secondo tossico della serata dalla porta, evitò la toilette in cui si
erano
rinchiusi due piccioncini a discutere dei massimi sistemi e trovò il
modo di
incastrarsi nella seconda cabina.
Intanto,
dall’altra
parte del locale, Xavier seguiva i movimenti di una donzella dai
capelli scuri che aveva adocchiato poco prima, la quale non aveva
boicottato il
tentativo di approccio del bel ragazzo dai capelli castani con indosso
la
stretta camicia nera che evidenziava la forma dei suoi pettorali. I due
si
erano avvicinati sempre più e muovendosi sempre a ritmo di musica finché
lui
non aveva fatto il primo passo offrendo a lei da bere, levatisi dal
bancone
poco dopo con la testa più leggera e il corpo più caldo, avevano
ricominciato a
ballare molto più connessi l’uno vicino all’altra. Probabilmente la
ragazza
stava aspettando la seconda carta da mettere in gioco del ragazzo, ma
lui si
era bloccato in un angolo. Xavier aveva sempre gradito l’attenzione del
gentil sesso,
faceva lo splendido senza problemi con Cassandra e con la prima ragazza
con un
balconcino degno di nota in discoteca ma il problema sorgeva al momento
di
passare oltre il dimostrare il proprio approccio vincente. Lui era
burocraticamente impegnato con Julie.
Intanto
Celia
studiava la drink card con il numerino a tre cifre timbrato sulla carta
unticcia,
la studiava mentre le veniva resa dal barman dopo essere stata
bucherellata, il
Sex On The Beach comparve sopra al bancone davanti al suo sguardo mezzo
sveglio
mezzo no. Lei lo prese in mano, lo aveva ordinato solo perché aveva
imitato il
ragazzo che aveva richiesto da bere prima di lei e le era capitata la
fortuna
di capire le parole precise che componevano il nome del cocktail. Le
sembrava
succo di frutta con del ghiaccio dentro.
“Quattordici
anni,
quattordici anni, quattordici anni, quattordici anni…” le diceva la
ragione. “Al diavolo!” Bevve.
Il
discorso
era differente per il castano che neanche al primo dei tre shottini
gettati giù aveva avuto il rimorso.
‒
Dai, non vuoi divertirti un po’? ‒ chiese la ragazza indicando un luogo
imprecisato
a Xavier.
Lui
aveva
capito pressoché nulla delle sue parole, ma sorrise e annuì. Non era
proprio lucidissimo.
‒
Vieni ‒ proseguì lei.
Il
ragazzo
comprese il messaggio solo grazie al gesto della mano di lei che lo
invitava a seguirla. E lì tornò, come un chiodo estratto da un muro e
ribattuto
nello stesso buco, il dubbio atroce.
“Divanetti.
Parliamo
ma non capisco cosa dice. Mi tiene la mano sulla sua coscia, potrei
macchiarle il vestito con il timbro, che stupido, mi sono fatto timbrare
sotto
il pollice. Oddio, sale un po’ più su. Si alza, camminiamo verso il
bagno.
Aspetta la sto portando io, merda…”
Cinque
minuti
dopo, il ragazzo era fuori dal locale con un occhio gonfio e una gran
voglia di rompere qualcosa. L’erba aveva fatto dimenticare alla ragazza
di
essere fidanzata ma il pugno del suo ragazzo non lo aveva scordato mica.
‒
Vaffanculo… ‒ si sussurrò Xavier tenendosi del ghiaccio gentilmente
offerto dal
barman provvidenziale sul punto della colluttazione. Ma il minuto
necessario
per riprendersi almeno superficialmente, durò dodici secondi.
‒
Aspettate, dovrei avere qualcosa ‒ udì il castano riconoscendo bene la
voce.
Ancora
dolorante
e un po’ rincitrullito dagli avvenimenti, Xavier si voltò. E non
trovò affatto bella la scena di sua sorella che interagiva non proprio
amichevolmente con due ragazzotti vestiti di nero e cercava dei soldi
che non
avrebbe trovato per pagare le bevute.
Il
ragazzo
decise di intervenire.
‒
Savi! ‒ esclamò lei scorgendo appena il fratello al di là del muro di
carne dei
due addetti. ‒ Non è che mi presteresti qualcosa? ‒ La voce rotta
dall’ebbrezza, il tono frivolo e confuso e gli occhi storditi per
l’alcool. Era
ubriaca.
Xavier
pagò
il conto, il prezzo di due cocktail non esattamente adatti ad una
quattordicenne.
‒
Dai, andiamo, Savi! ‒ strillò quella mezza seria mezza no.
‒
Stai calma, ora ti riporto al centro.
‒
No
dai, volevo prendere solo un po’ d’aria, torniamo dentro! ‒ gridò quella
opponendosi con modi infantili.
‒
Ma
hai…! Bah, scordatelo! A dormire.
Il
castano
tirò un po’ la ragazzina per un braccio finché quella, prima decisa ad
opporsi totalmente, cedette sotto il sonno accumulato e l’alcool a cui
era poco
abituata.
‒
Due cocktail ed eri KO, devi starci più attenta ‒ mormorò uno Xavier
mezzo
preoccupato per lei ad una Celia poco attenta alle parole del fratello e
più
addormentata che sveglia. La bionda lo seguiva praticamente
trascinandosi con
fatica e guardando a terra con le palpebre semichiuse.
‒ Perché stavo correndo tra i tetti?
“Kalut, eri completamente cosciente.”
Xatu era immobile di fronte al ragazzo che, scesa
la sera, si era rintanato nella macchia vicina al paese. Seduto alla
base del
ramo di un alto albero, con vicini il Pokémon Magico e Venipede,
scrutava
silenzioso le luci dell’area urbana illuminare lo scuro scenario
notturno.
‒ Xatu ‒ sussurrò il ragazzo.
“Stai sentendo freddo, non è vero?”
‒ Mi tremano le mani.
“E quello significa sentire freddo”
‒ Cosa posso fare per fermarle?
“Devi coprirti, devi stare al caldo”
Kalut soffiò ‒ ah, coprirmi.
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Capitolo 15 *** Capitolo 14 - Dolore ***
Capitolo
14
– Dolore
Kalut
aprì
gli occhi nell’oscurità dell’angolino in cui si era rinchiuso. Il
tronco
cavo di un albero nel quale, dopo essere sceso dal ramo per rubare un
lenzuolo
steso ad asciugare da una casetta vicina, si era rannicchiato per
dormire. La
notte era scorsa in fretta, Venipede si era appisolato sulla corteccia
dell’albero vicino e Xatu che mai avvertiva la morsa del sonno aveva
vegliato
sui due compagni. Il silenzio era comune, tutti e tre lasciavano che
nelle loro
orecchie scorresse calmo il brusio che era il rumore di fondo del
paese che in
quell’istante apriva gli occhi. Il sole mattutino estivo già picchiava
violento
sull’umido pavé e sui corpi ancora non desti dal torpore.
Kalut
per
primo stirò i muscoli, portava ancora addosso i vestiti datigli a casa
di
Rick, i bermuda e la t-shirt, e i capelli bianchissimi, scompigliati e
caotici.
Poco
gradevole il gracidare
della sveglia la mattina dopo la sera in cui non si è chiuso occhio.
Almeno per
Xavier, Celia era caduta fra le braccia di Hypno poco dopo aver messo
piede
nella stanza ed essersi gettata sul letto. Il castano, dal canto suo,
sfoggiava
un grosso livido che mascherava il suo sguardo nervoso dagli occhi
arrossati e
doloranti.
‒
Dio… ‒ mugolò il ragazzo
zittendo la suoneria del PokéNet. Poi guardò sua sorella.
Dormiente,
beata, senza
pensieri in testa e senza problemi dietro. Xavier sospirò. Sua sorella,
rifletté. Non era sua sorella, ma le voleva bene; peraltro, lei stessa
era
cresciuta nella casa di suo padre, aveva festeggiato i compleanni nella
casa di
suo padre, aveva scartato i regali sotto l’albero nella casa di suo
padre, era
diventata signorina nella casa di suo padre, si era trasferita nella
nuova casa
di suo padre. Era sempre stata sua sorella.
Ripensava
al giorno precedente,
alla scena di Celia più ubriaca che lucida che rovistava nella sua borsa
in
cerca di soldi necessari al pagamento di qualcosa che né era adatto ad
una
ragazzina né le era piaciuto. E ne era certo il fratellone X, non si è
biologicamente portati per gradire l’alcool prima di una certa età.
Persino la
sua esperienza personale associava lo champagne di capodanno bevuto per
sembrare adulto al rigurgito fastidioso causato dal bruciare della gola.
Aveva
bevuto due cocktail di
grossa taglia, la bionda. A quattordici anni. Da sola. In un locale in
cui i
meglio intenzionati sono solo gli accompagnatori di un qualche amico che
si
trova lì con lo scopo di curare le proprie piaghe fisiologiche, nella
peggiore
delle aspettative, con il cavo orale di qualche infermiera del luogo.
Il
senso di colpa si affacciò nella
coscienza di Xavier timido e silenzioso come un ragazzino nello scrutare
da
dietro la porta della cucina sua madre che viene schiaffeggiata dal
compagno.
Che fratello di merda si era dimostrato, l’aveva abbandonata subito dopo
essere
entrato. Non sapeva che cosa avesse combinato quella sera, ma solo in
quel
momento capiva che forse non aveva fatto la cosa migliore di tutte.
Immaginava
come fossero andate le cose, magari qualcuno ci aveva pure provato con
lei. Ma
uscito dal locale non aveva avuto l’audacia di domandarglielo, il suo
buon
senso era stato momentaneamente zittito dagli shot e dalla brutta
avventura.
Senza
neanche accorgersene, il
castano si era già vestito e aveva ricomposto alla meno peggio il suo
zaino, il
suo flusso di coscienza era durato abbastanza.
Starsene
a letto ancora un po’
gli era sembrata una prospettiva troppo luculliana: nella fase più
spinta del
masochista che in lui si nascondeva come in ogni individuo della sua
specie,
aveva deciso di alzarsi.
‒
Facciamo che vado da
Cassandra? ‒ si chiese.
Riflessione
breve e concisa.
Xavier
tolse i vestiti e decise
di eseguire quella pratica denominata in quel caso “lavarsi per sicurezza, magari emano un odore non proprio di pino
silvestre e devo far bella figura” più che “doccia”. Tempo venti
minuti ed
era fuori: capelli che sfidavano la forza di gravità grazie al solo
ausilio
dell’asciugacapelli benevolo e innalzatore di anime, zaino in spalla,
PokéNet
al polso e vestiti appena tirati fuori dall’asciugatrice del Centro
Pokémon.
Era uscito dopo aver controllato che sua sorella dormisse ancora e aver
lasciato un biglietto con un paio di rassicurazioni sul tavolino della
camera.
‒
Nove e cinquantatré, orario a
dir poco perfetto ‒ commentò muovendo i primi passi della giornata al
tenore
sapido del sole. L’aria era frizzante, i turisti cominciavano in quel
momento a
spuntare ai lati delle strade con i loro cappelli e gli occhiali da
sole. Era
un buon due settembre.
Nel
frattempo, nella camera del
Centro Pokémon, una ragazza era sdraiata sul letto a braccia conserte e
con gli
occhi fissi sul foglio scritto a penna da suo fratello che ricambiava il
suo
sguardo sottile da sopra il tavolo.
Si
era svegliata col rumore
dell’acqua prodotto da Xavier e non si era mossa dalla sua posizione.
Aveva
seguito le azioni del castano senza far intendere di essere sveglia e lo
aveva
visto uscire, sempre a occhi semiaperti e nervi distesi.
“Non
va bene, Celia” diceva
Avril.
“Sono
stanca pure io” ribatté
Celia.
“Non
intendevo quello…”
“Ah…”
La
ragazza balzò in piedi,
rovinosamente cascò a terra a peso morto. Capogiro infido come un
Seviper che
attende nascosto nella sua tana la preda ignara. Bernoccolo sul lato
destro
della fronte.
‒
Ahia ‒ mugolò la bionda.
Con
ben poca voglia prese il foglietto
e lo lesse mentalmente.
“Sono
andato alla palestra… sì,
sì… ok, vorrei chiederti di non raggiungermi…? Poi ti spiego.”
Inizialmente non
comprese, ma poi pensò che effettivamente il castano era suo fratello.
Magari
aveva un motivo valido, teorizzò che era meglio fargli il favore e
rimanere nel
suo gineceo per quella mattinata, o magari avrebbe potuto uscire e
comprarsi
qualcosa. Ah, no… soldi finiti.
“Sì,
la lettera l’hai letta,
ok. Il brutto arriva ora…” le ricordò Avril poco intercettabile e quasi
muta
dentro di lei.
“Zitta.”
Con
la questione dei soldi le
era tornato in mente un frammento di ciò che era accaduto la sera prima.
Aveva
visto Xavier pagare qualcuno al posto suo. Molto vago come indizio.
“Allora?
Io non c’ero e ho
ritrovato tutto a soqquadro stamattina, che diavolo hai combinato ieri?”
“Caspita,
non riesco a
ricordarmelo…”
“Celia…
dai!”
“Non
riesco ti ho detto!”
Avril
non ribatté.
‒
Diario ‒ le venne in mente.
La
ragazza cercò tra le sue
cose l’agendina-barretta di cioccolato e la trovò, ma aprendola e
leggendo le
ultime righe scritte comprese che nessuna informazione sarebbe permeata
da lei.
Decise comunque di mettere in mezzo pure la sua coscienza cartacea e
cominciò a
scrivere. Trenta secondi contati. Poi la matita interruppe il suo
Indianapolis
tra le curve sinuose della scrittura tipicamente femminile della bionda
e tutto
tornò nella borsa nel caotico ordine iniziale.
“Avril,
non ricordo cosa è
accaduto ieri sera e un vuoto non è mai un bene. Aiutiamoci a vicenda e
recuperiamo informazioni prima che Xavier torni.” E inconsapevolmente la
ragazza aveva trovato un diversivo e un’arma anti-noia per quella
mattinata, la
facevano solo male le serie TV di Fox.
‒
Non ti credevo così
determinato.
‒
Non perdo mai di vista la
palla.
Pavimento
nero opaco, pareti
nero opaco, soffitto nero opaco. Sottili strisce di luci al neon color
fiamma
viva solcavano le facce di quella stanza formando perfetti poligoni
regolari e
rilasciando una fioca luce all’interno della stanza. Da un lato, sul suo
trono
morbido e soffice illuminato alla base da luci simili a quelle che erano
sulle
pareti e sul pavimento, sedeva Cassandra: gambe accavallate a coprire
ciò che
una minigonna di pelle nera avrebbe rivelato e col busto rilassato nella
magliettina leggera e aderente.
Gli
occhi dello Xavier che era
appena entrato in quella fattispecie di covo di cattivi dal retrogusto
cyberpunk erano storditi dal buio sopraggiunto improvvisamente dopo
l’accecante
sole ancora estivo; ma vennero mandati al tappeto dalla vista della femme fatale che lo attendeva
con degli
occhi di un predatore pronto a scorticare vivo, non la preda, ma il
predatore
più grosso di lui.
‒
Allora sei proprio deciso a
farti mangiare vivo… ‒
Il
castano, che alla prima
domanda della Capopalestra aveva risposto prontamente poiché ancora i
suoi
occhi dovevano trovar la luce in quel dedalo di ombre, si trovò a
mormorare un
inadattissimo “sì” in
risposta alla
seconda.
‒
Ah, va bene allora, via con
la carneficina. ‒ Cassandra si alzò gloriosamente in piedi e prese in
mano tre
delle sfere che contenevano i suoi Pokémon.
La
catena di montaggio “stimolo-reazione”
regolante le
relazioni con l’ambiente esterno del ragazzo passò dalla sede delle
gonadi a
quella del cervello, era pronto a ragionare e a lottare.
‒ Ti
do il vantaggio: in campo,
Magmortar! ‒ convocò lei.
Un
gigante dal corpo che
emanava calore al solo guardarlo comparve sul campo dal lato di chi
giocava in
casa. Quel Pokémon Fiamma non era propriamente uno stinco di santo, gli
occhi
assassini ce li aveva, magari pure le mani.
‒
Eelektross ‒ chiamò Xavier
non poco intimorito dal mostro che il suo team leader avrebbe dovuto
fronteggiare.
Pokémon
Elettropesce contro
Pokémon Esplosivo, la lotta ebbe inizio. Un delicato Fuocobomba dalla parte dei casalinghi creò la luce all’interno
della stanza esplodendo in una stella di fiamme a pochi metri da
Eelektross.
Quest’ultimo riuscì a non rimanervi arrostito e rispose con Falcecannone.
Punto, Magmortar era fatto
per colpire, ma schivare non era proprio il suo forte.
Eelektross,
su ordine del suo
Allenatore, proseguì l’assalto intervenendo con Scarica. Altro punto.
Il
gigante di magma non se la
prese così tanto, Stordiraggio,
dal
canto suo. Eelektross confuso. Xavier comprese che quello si sarebbe
potuto
rivelare un problemino bello grosso.
Altro
ordine di Cassandra,
altro Fuocobomba di
Magmortar. Anche
questo esplose poco lontano dal nemico e rinfrescò l’aria innalzando per
un
istante la temperatura di qualcosa come duecento gradi Celsius. A
Eelektross
girava la testa. Gli ordini di Xavier erano per lui voci poco
decifrabili e
messaggi in codice, lanciò un Falcecannone
che si schiantò a terra goffo e impreciso. Intanto, l’altro piatto
della
bilancia alzava il punteggio ancora e ancora, Lavasbuffo. Lingue di fuoco scarlatte si riversarono sulla metà
campo avversaria maligne e sinistre. La Sodoma da quattro soldi terminò
con un
Eelektross sfinito ma ancora in piedi e un Magmortar che soffiava
teatralmente
il fumo dalla punta del cannone micidiale che aveva al posto del
braccio.
Xavier
in quel momento si rese
conto di essere stato preso per i fondelli dalla ragazza che lo fissava
con
occhi strafottenti dall’altro lato della stanza. Le Fuocobomba erano esplose senza danneggiare il suo Pokémon e il Lavasbuffo
aveva fatto terra bruciata ma
lasciando illeso l’avversario.
In
quel momento Eelektross
scosse la testa e riprese coscienza di sé e il gesto fu abbastanza
esplicito da
far comprendere al suo Allenatore che non aveva preso di vista il
bersaglio e
non era rimasto violentemente scosso dagli avvenimenti.
‒ Ma
che cazzo…? ‒ borbottò lui
ancora annebbiato nella percezione reale dei fatti.
Cassandra
scoppiò a ridere.
‒
Magmortar, finiscilo ‒ disse
soltanto.
Fuocobomba.
Eelektross non riuscì a
reagire contro una granata devastante che lo colpì in pieno senza
esplodere
poco prima come le altre, Xavier non fece in tempo a ordinargli di
spostarsi o
di cercare un diversivo. Uno a zero, palla al centro.
“Ti
ha ingannato, l’esca erano
le mosse imprecise e la guardia bassa e l’amo era il calore che non
permette a
Eelektross movimenti rapidi, come punge, eh fratello?” rifletté tra sé e
sé il
castano.
‒
Era.
Tornato
nella sfera Eelektross,
sulla metà campo degli sfidanti comparve fiero e pronto a combattere un
Noivern
parecchio minaccioso. Il dragone ruggì. Violento, scatenato.
La sua presenza non intimorì Magmortar, ma
alzò l’attenzione di Cassandra. La Capopalestra sapeva riconoscere un
Pokémon
forte quando lo aveva davanti.
‒ Lo
sai, spero che lo scontro
si faccia più interessante… ‒ lo provocò lei.
Xavier
non commentò, voleva far
parlare i fatti. ‒ Tifone ‒
disse soltanto.
Il
Pokémon Esplosivo era troppo
sicuro di sé, gli attacchi elettrici dell’avversario precedente lo
avevano
scalfito, ma il gigantesco vortice di venti concentrici evocato dal
lucertolone
con le ali che aveva davanti iniziò a smuoverlo davvero.
‒
Usa Lavasbuffo! ‒ Niente da fare.
Il
vento sfaldò le fiamme in
men che non si dica e cancellò il colpo, Magmortar era in trappola.
‒
Eliminalo, Dragopulsar ‒
proseguì di nuovo atono
Xavier.
Il
Pokémon Ondasonora si infilò
nell’occhio del ciclone, raggiungendo subito il nemico che era bloccato
tra il
forte vento.
Da
fuori, i due Allenatori
videro ben poco. Solo un lampo che sferzò il grigiore del tifone e
un’onda
d’urto che cancellò la sua forza cinetica annullandolo. Poi un Magmortar
KO e
un Noivern illeso e con le fauci ancora infiammate di lingue di fuoco
violacee.
‒
Wow, che ripresa… ‒ commentò
lievemente disturbata la ragazza.
‒ Lo
scontro si è fatto
abbastanza interessante per te? ‒ Fu la domanda sarcastica e pungente
del
castano.
Niente
ribattute, niente
insulti, uno sguardo tra i due che esprimeva sfida sanguinaria e
agonismo da
tutti i pori. Xavier aveva rincarato la sua dose di “so’ cazzuto e me ne vanto” quotidiana, Cassandra si sentiva in
mano l’avversario e in mano all’avversario allo stesso tempo e questa
cosa la
eccitava. Secondo Pokémon anche per la Capopalestra.
‒
Xatu? ‒ chiamò il ragazzo.
“Dimmi,
Kalut.”
‒
Che cosa si fa oggi?
“Oggi?
Niente…”
‒
Niente?
“Hai
sentito
bene, niente.”
‒ E che cosa vuol dire?
“…”
‒
Xatu?
“Dimmi,
Kalut.”
‒
Perché non puoi parlarmi, tu?
Il
pennuto si voltò a guardarlo.
“Sai
bene
la risposta, Kalut.”
Il
ragazzo si era alzato, col caldo e col silenzio, i suoi muscoli
avevano ripreso
a funzionare e mentre parlava con Xatu sedeva sul tetto di un antica
casa di pietra.
“Perché
mi
fai domande di cui sai già la risposta?”
Venipede
stava
vicino a lui, aderente alle tegole, e fissava il vuoto con il proprio
compagno. Silenzio, silenzio e un lieve sottofondo di vita cittadina
tra il
morto e il vivo, ovattata dal silenzio. E ancora silenzio.
‒
Devo sapere la risposta…
“Kalut,
che
cosa sei tu?”
‒
Che cosa sono?
“Che
cosa
sei tu?”
‒
Io sono un umano.
“Credi
di
esserne certo?”
‒
Sì.
“Va
bene,
allora…”
Lentamente,
in
silenzio, Kalut cominciò a piangere.
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Capitolo 16 *** Capitolo 15 - Pianto ***
Capitolo
15
– Pianto
‒
Forza, Heatran!
Xavier
in primis rimase basito
nel sentir pronunciare quel nome, ma l’apparizione del Pokémon Cratere
sulla metà campo opposta alla
sua Noivern gli diede una violenta pacca sulla spalla come per
svegliarlo. Un gigantesco
leggendario dal corpo d’acciaio rovente ruggiva contro il suo compagno
di
squadra: la cosa non gli incuteva timore. Poco.
‒ Pietrataglio! ‒ ordinò la Capopalestra. E due affilatissime lamine
di metallo staccate dal pavimento dai poteri di Heatran furono scagliate
contro
il drago-pipistrello avversario.
Era
evitò uno dei proiettili
quasi per sbaglio mentre l’altro colpì di striscio la membrana della sua
ala
strappandola senza tanti complimenti. Dolore. Un gridò emesso dal
Pokémon fece
vibrare la stanza, un grido non di sofferenza quanto di sensazione di
paura
data dal vedere un’appendice del proprio corpo venire così brutalmente
recisa.
‒
Cazzo! Rientra! ‒ esclamò
d’impulso il castano di Austropoli. ‒ No… non va affatto bene questa
cosa… ‒ si
disse poi da solo.
Cassandra
si mise a ridere.
Xavier
guardava le sue Ball,
quella di Eelektross che aveva patito già abbastanza, quella di Era,
Noivern,
che era appena rientrato in panchina, quella di Pumpkaboo e quella di
Scizor.
Inutili, contro una Capopalestra del genere e stupido lui che aveva
pensato di
cavarsela con due soli Pokémon.
‒
Porco mondo… ‒ imprecò
lanciando nell’arena la Mega Ball contenente Scizor.
Un
Pokémon Chele vulnerabile due volte al tipo Fuoco non era il massimo, ma aveva bisogno di temporeggiare. Di
giocare sulla tattica.
Cassandra
scoppiò ancora più in
lacrime ilari vedendo scendere in campo la terza carta del suo
avversario.
‒ Va
bene, Scizor. ‒ cercò
inutilmente di ignorarla lui. ‒ Adesso facciamo vedere di che pasta
siamo
fatti! ‒ l’essere emise un verso entusiasta e coinvolto nella battaglia.
‒
Heatran, Magmaclisma! ‒ commentò limpida la ragazza dai capelli color
caramello caldo.
Mossa
fatale. Almeno per i
calcoli di Xavier. ‒ Non aver paura, Agilità,
puoi schivarla!
Improvvisamente
la terra
cominciò a tremare. Cassandra sorrideva beffarda e il suo Pokémon,
concentrato
e determinato, la accompagnava. Un’apocalisse di fuoco, magma e fiamme
si
sprigionò dal centro di gravità della tempesta che era il Pokémon di
tipo Fuoco-Acciaio. La luce
prese il posto
del buio per qualche fatidico istante.
‒
Dai, Scizor, puoi riuscirci!
Non
nascose a sé stesso, il
ragazzo, che allontanare il moscerino della sfiducia dalla torta non fu
affatto
facile. Ma quando vide il suo compagno che, concentratissimo, evitava
una dopo
l’altra le plausibili morti che gli si avvicinavano sotto forma di
lingue di
fuoco e vomiti magmatici, si rassicurò. Rapido e preparato, Scizor,
qualità che
aveva mantenuto anche dopo l’evoluzione. Solo una fiamma non riuscì a
evitare e
questa ebbe l’occasione di ricoprire la sua intera chela destra. Ma per
qualche
strano motivo, non si fece male. Xavier assistette al fenomeno e quasi
subito
comprese.
Il
metallo che costituiva
l’esoscheletro di Scizor era separato dal suo corpo vulnerabile, per
questo con
l’evoluzione aveva sviluppato una tale capacità difensiva. Esporre per
un
singolo istante al calore ogni parte del suo corpo ne avrebbe solo
arroventato
lo strato esterno, senza danneggiarlo veramente. Lampadina.
‒
Scizor, adesso ti chiederò di
ricordare una mossa che ti insegnai tempo fa con una MT. ‒ il Pokémon
spalancò
gli occhi. ‒ Cerca di ricordare come si usa Breccia!
Il
compagno di Xavier si sentì
perso. Per un breve momento si staccò dal mondo intero diventando solo
davanti
a migliaia di lotte, allenamenti, tecniche e mosse. Solo di fronte a un
monte
di roba che non poteva ricordare, almeno non perfettamente.
‒
Dai, smettila Xavier, accetta
la sconfitta, Ondacalda! ‒
rientrò
nelle vicende Cassandra.
Lampo.
Xavier non ci credeva
neanche. Il Pokémon Chele dalla
corazza
rossa e dagli occhi determinati scattò contro il nemico prima che
questo potesse reagire e assestò un violentissimo colpo proprio in mezzo
alla
fronte di Heatran, sulla placca di metallo ellissoidale del suo cranio.
L’attacco Ondacalda non fu
mai
lanciato, il Pokémon di Cassandra rimase non poco stordito dalla forte
botta.
‒
Bravissimo, Scizor! Continua!
Un'altra
randellata cafona si
schiantò sull’avversario, questa volta sotto il mento del Pokémon Cratere
riuscendo addirittura a
rovesciarlo completamente. Heatran era in una posizione scomoda, ma
ancora non
mollava.
‒
Wow, sei sempre una sorpresa.
‒ Cassandra si divertiva parecchio. ‒ Ma ti assicuro che non l’avrai
vinta! Geoforza! ‒ ordinò.
Il
leggendario si rovesciò
tornando in posizione e comprimendo il terreno coi suoi arti dalla forma
di
croce, scatenò un potente sisma che fece perdere l’equilibrio a Scizor
infliggendogli anche notevoli danni.
‒
Non ti arrendere, Pugnoscarica!
Un “conc!” inquietantissimo fu il rumore prodotto dal cozzare della
chela d’acciaio di Scizor sul volto di Heatran. Il primo insoddisfatto,
il
secondo illeso.
‒ Magmaclisma!
‒ Breccia, di nuovo!
Altra
randellata nei confronti
di Heatran, il potente attacco di tipo fuoco non riuscì a decollare e la
botta
diede un violento scossone al cervello del Pokémon che si posò a terra
con la
delicatezza che lo contraddistingueva e fu ripreso nella Ball dalla sua
Allenatrice prima che potesse addormentarsi nello svenimento.
‒ Un
applauso, ascoltatore… ‒
commentò la ragazza.
Xavier
gettò fuori l’aria che
si era tenuto nei polmoni per tutta la durata del testa a testa tra il
suo
Pokémon e quello avversario. Non era per nulla soddisfatto di come erano
andate
le cose, ma per ora teneva il vantaggio e ciò era l’importante.
‒ Te
l’ho detto e te lo ripeto,
non sono una preda facile. ‒ sorrise il simpaticone.
‒
Beh, possiamo ancora
parlarne… Volcarona!
Scese
in campo, dal lato
avversario a Xavier, un Pokémon Sole
fiero e maestoso. La luce emessa spontaneamente dal suo corpo affievolì
l’atmosfera e portò una debole luce nella stanza. Il castano, che anni
prima aveva
visto in azione quello di Nardo, non nascose il brivido che minò la
stabilità
della sua spina dorsale conficcandosi come un ago tra le sue vertebre
cervicali.
‒
Vai, Voldifuoco! ‒ esclamò la ragazza.
‒
Scizor…! ‒ Xavier non terminò
mai la frase. Nulla gli venne in mente che non fosse l’anticipare una
mossa
ormai scagliata. Il suo Pokémon Chele
incassò il colpo e cadde a terra stremato. KO.
‒ Ti
ho raggiunto, eh? ‒ fece
beffarda la donzella col tacco dodici premuto sulla dignità del castano.
‒ Mi
hai raggiunto, concludiamo
la lotta allora. Era!
Noivern
tornò in campo: l’ala
ancora strappata un bel po’ ma la forza d’animo sicuramente ancora nelle
vene.
Il dragone ruggì, impassibile Volcarona. Noivern non era particolarmente
affaticata, ma non riusciva a volare o ad allargare l’ala destra per
paura di
allargare ulteriormente lo strappo, sicuramente era in svantaggio.
‒
Distruggilo, usa Tifone ‒ esortò
Cassandra.
‒
Cazzo, Dragopulsar! ‒ si piazzò sulla difensiva Xavier.
Dalle
ali del Pokémon che
giocava in casa si sprigionarono venti violenti e distruttivi che
rapidamente
si diffusero in tutta la stanza. Era non stava volando, e forse era un
bene, ma
comunque fu scaraventata contro una parete laterale da una raffica e la
fiammata sprigionata dalle sue fauci andò a disperdersi in deboli
fiammelle che
furono zittite dal vento.
“Non
posso fare nulla per
fermarlo… Noivern non può contrastare il suo potere di maneggiare l’aria
attorno a sé con l’ala ridotta in quello stato…” rifletté Xavier.
‒ Eterelama! ‒ esclamò il ragazzo. Probabilmente agire da lontano era
l’idea migliore.
Un
rapido movimento dell’ala
sinistra e un invisibile e sottile rasoio d’aria sferzò la distanza che
c’era
tra Era e Volcarona colpendo quest’ultimo.
‒ Ronzio, non facciamoci intimidire!
E fu
così che il violento
battito del Pokémon Sole
cominciò a
sprigionare un fastidioso rumore insistente e martellante. Noivern lo
sentì
prima di tutti, grazie al suo apparato uditivo particolarmente
sviluppato e si
piegò in due dalla sofferenza che tale suono gli causava.
‒ Dragopulsar, lotta! ‒ esclamò Xavier spingendo il suo compagno ad
opporsi a quella morsa.
Era
provò a scatenare la sua
furia, ma tutto ciò che gli uscì fu una fiammella soffocata e smorzata,
piegò i
gomiti dal dolore, ormai stramazzava.
“Cazzo,
hanno trovato l’arma
perfetta contro Era…” pensò preoccupato Xavier. “A meno che…”
‒
Continua, Volcarona! ‒ esclamò
sadica la Capopalestra.
‒ Ondaboato, Era!
L’unica
cosa che riesce bene
durante la tortura, sono le grida. Era un meccanismo risaputo e noto a
tutti…
ma sfruttato da pochissimi. E fu rapido il calcolo, la sofferenza di
Noivern,
convogliata tutta nei suoi nervi distrutti e nei suoi neuroni impazziti,
si
trasformò nella mossa Ondaboato
più
potente che gli fosse mai tirata fuori dagli avversari più pericolosi.
Non solo
il suono sovrastò quello di Ronzio
di
Volcarona, ma quasi riuscì a frantumare i timpani del suo Allenatore che
non si
trovava nella posizione acusticamente più favorita all’ascolto.
Cassandra
dovette coprirsi le orecchie e Volcarona rimase a terra,
semiparalizzato. Si
rialzò a fatica.
Noivern
stanca e Volcarona
pure.
‒
Siamo alla resa dei conti, lo
sai no? ‒ domandò retorica Cassandra.
‒ Ne
sono cosciente. ‒ rispose
Xavier non più tanto farfallone come prima. Si era reso conto che era
impaurito
da quel lato nascosto un po’ sadico e perverso della Capopalestra e,
nonostante
avesse delle curve che la notte non lo avrebbero mai lasciato annoiare,
prima mettiamoli in salvo e poi
diamogli
soddisfazione, agli zebedei.
‒
Era, adesso, Dragopulsar! ‒
provò per la terza volta
il castano.
Il
drago concentrò tutte le sue
forze, un potente colpo di energia blu-violacea investì il nemico che
ancora
doveva riprendersi completamente dall’altra parte del campo.
Buio
e silenzio, il bagliore
delle fiamme draconiche scomparve così come la luce spontanea di
Volcarona e
nessuno emise suono per un istante. E poi la luce della sagoma del
Pokémon di
Cassandra che veniva fatto tornare nella sfera bianca e rossa.
Rientrato,
esausto. Xavier aveva vinto.
“Allora,
sei entrata, c’era la
musica, il tipo con gli occhi azzurri ti fissava… poi?”
“Ho
bevuto…”
“Hai
bevuto. Hai bevuto?!”
“Ho
bevuto…”
“Celia!
Hai quattordici anni,
deficiente!”
“Scusa
ma mi stavo annoiando!”
“Non
hai scuse, bambina… non
credo di poterti più aiutare.”
“No,
cazzo, Avril, dai!”
“Eh
no, capiscimi, sono la tua
coscienza, tu fai stupidaggini e poi devo pagare al posto tuo…! Celia!”
La
ragazza dai capelli chiari
spalancò le palpebre, un fioco ricordo offuscato si era acceso come una
fiaccola bagnata nella sua mente.
“Che
cosa è successo là
dentro…?”
“Aspetta.”
La
stanza era stata rimessa a
posto. I bagagli dei due ragazzi erano stati ricomposti e i letti
rifatti,
Celia quando era nervosa rimetteva a posto, ma la cosa che più le
tornava
difficile riposizionare nel giusto verso era la sua vaga memoria molto
molto
breve e in altri casi la sua morale discutibile. Camminando sulla
moquette con
la paura di andare avanti, raggiunse il letto. Indosso aveva una
minigonna che
aveva messo dopo aver fatto la doccia insieme a una normalissima t-shirt
con
qualche scritta idiota. Si concentrò nel suo compito, via l’intimo,
controllo
approssimativo degno di un ginecologo laureato in scienze politiche. No.
Sospiro
di sollievo automatico
e spontaneo. Non era successo quello che credeva. Sospiro di sollievo
anche
molto breve ed effimero. Ciò non verificava che comunque non fosse
accaduto… altro.
“Quindi…?
Il tipo ti fissava?”
chiese Avril. Stronza, diretta, inadeguata ma decisamente necessaria.
“Non
capisco
ancora dove sia il problema.”
‒
Sai benissimo dov’è il problema…
“Non
ne
sarei così certo, da parte tua.”
‒
Xatu, lo sai che non va bene tutto questo.
Tegole
per
pavimento, da una parte il Pokémon Magico e poco di fronte a lui un
ragazzo
dai capelli bianchi conosciuto come Kalut ai pochi fortunati con un
Venipede in
spalla. Aria calda e frizzante ma piena di elettricità.
Kalut
aveva
pianto, aveva pianto molto dopo aver capito di essere un umano. E non
ne
capiva il motivo. Davanti a lui c’era un vaso, un vaso che conteneva
tutte le
informazioni che lui cercava e ne era certo come era certo che il sole
non
avrebbe mai smesso di splendere. Xatu lo aveva cambiato con poche
parole e
ancora meno azioni. Si era reso conto, aveva compreso che non parlava
come
loro, non pensava come loro e non agiva come loro.
Kalut
era
umano.
‒
E non so dove sia il problema! ‒ esclamò il bianco.
“Credi
che
io possa darti la risposta?” chiese Xatu.
‒
Da te è partito tutto, da te ho appreso che gli umani si fanno del
male e si
uccidono da soli! Perché ti sei dovuto intrufolare nella mia testa e
dirmelo?!
‒ rispose quello.
“Sei
tu
ad esserne convinto, se sei tu a ripeterlo…” commentò il pennuto.
‒
Io… io…
La
favello di Kalut si spezzò lì. Nulla di più nulla di meno. Solo un
ragazzo che
decise di sedersi a terra e pianse, pianse ancora mentre il sole della
mattina
inoltrata vegliava su di lui proteggendolo da lacrime che troppo
presto si
trasformavano in vapore.
“Riflettici,
che
cosa sai degli umani? Quanti ne hai conosciuti?”
‒
Potrei dirti di fare lo stesso, tu hai più esperienza di me…
“Ma
io
non sono umano, Kalut.”
Piume
e
voci interiori.
‒
E che cosa comporta ciò?
“Comporta
che
io non riuscirei a capire molte delle vostre azioni non potendo
pensare
come voi…
‒
Quindi devo essere io a guardare cosa fanno gli umani per capire cosa
non va in
me?
“Tu
trai
pena dall’essere un umano, tu imparerai a distinguere il dolore degli
esseri umani.”
Kalut
annuì
lievemente restio. ‒ Hai ragione.
“Ti
spiego,
Kalut, io posso vedere molte cose… posso guardare dentro l’animo
altrui
e posso studiare il futuro e il passato di ognuno di noi.” Xatu si
avvolse nel
suo piumaggio come se fosse isolato dal resto del mondo. Notte, era
sempre
notte per lui. “Ma una cosa non ho mai compreso: la mente umana. È
fuori dalla
mia concezione di realtà, fuori da tutto. Potrebbe non esistere e
potrebbe
essere troppo semplice per essere compresa da un adulto. Resta il
fatto che
vedo cosa hanno fatto, cosa fanno e cosa faranno le persone… e non
capisco
perché.”
Kalut
seguiva
pendendo dal suo becco.
“Scoprilo,
io
sono stato mandato per essere il tuo custode e guidarti nelle tue
scelte,
non posso svelarti nulla, sono solo la tua guida e il tuo
accompagnatore…”
concluse Xatu. “Scoprilo.”
|
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Capitolo 17 *** Captitolo 16 - Crescita II ***
Capitolo
16
– Crescita II
Un
Noivern ferito gemeva nella
propria Ball, felice della vittoria ma sconfitto nel fisico. Un
Volcarona
distrutto riposava anche lui all’interno della sfera già attaccata alla
cintura
della Capopalestra. Un faro di luce potentissimo di accese in direzione
di
Xavier isolandolo nel suo cono di illuminazione mentre i neon si
spegnevano
facendo piombare gli altri punti della stanza nelle tenebre. Il ragazzo
non si
mosse, ma intuì che la castana che aveva appena sconfitto stava
lentamente camminando
verso di lui. Cassandra lo raggiunse, ma si fermò di fronte al suo
avversario
senza entrare nel cerchio di luce. Xavier si sentiva osservato,
vulnerabile.
‒
Hai vinto, allora… ‒
pronunciò lei dopo un infinito silenzio.
‒ A
quanto pare.
‒ E
meriti una medaglia,
giusto?
‒
Non sei tu l’esperta?
Cassandra
sorrise. Finalmente
l’Allenatore di Austropoli riuscì a distinguerne i tratti facciali.
Quella
donna per lui era un peperoncino nel riso bianco.
‒
Tieni, fai buon uso della
medaglia Sole.
E il
ragazzo rischiò di
saltarle addosso con la delicatezza di un Tauros. La naturale scarica di
testosterone raddoppiò e triplicò nuovamente nel momento in cui, davanti
ai
suoi occhi, Cassandra prese la medaglia che aveva spillato, come ogni
Capopalestra è solito fare, al suo reggiseno.
E
poi la attaccò alla maglia di
un inerme Xavier che si costringeva a tener fermo ogni singolo muscolo
del
corpo.
‒
Vediamoci ogni tanto, se ti
va… ‒ si congedò lei dando le spalle al ragazzo e ancheggiando via fino
a
sparire nel buio.
I
bambini giocano, ridono e si divertono. I bambini non hanno ansie o
preoccupazioni. I bambini vivono in modo semplice.
Ogni
singolo
passo numerato nella sua testa accresceva sempre più quel già
gigantesco numero che Kalut aveva in mente. Contava i passi che
muoveva sul
suolo delle città, ne aveva tenuto il conto fin dal primo che aveva
avanzato.
“Dove
sei
diretto?” domandò Xatu che seguiva il percorso del ragazzo comparendo
silenzioso e magico accanto a lui man mano che andava avanti.
‒
Non ne ho idea?
“Che
cosa
vuoi fare?”
‒
Non lo so ancora…
“Senza
una
meta?”
‒
Senza una meta.
“Lo
sai,
una volta conoscevo un uomo…” proseguì il volatile. “Diceva sempre che
viaggiare per scoprire il mondo è come esplorare noi stessi… e che
sempre ci
sarà qualcosa che non conosciamo.”
‒
Conoscevi un uomo?
“Ah,
sì…
lo sai, Kalut, io sono su questo pianeta da parecchi anni. Ho visto
passare
molti umani prima di te.”
‒
Ah sì?
“Ovviamente,
sai
qual è l’aspettativa di vita media di un Pokémon della mia specie?”
‒ Non essere banale, Xatu.
“Cosa?”
‒
Non essere banale. ‒ lo interruppe l’umano.
“Banale?”
‒
Sai bene cosa intendo, non sei un essere normale, vero?
“Dipende
da
cosa intendi per normale.”
‒
Insomma, per una specie come la tua che può muovere miliardi di
miliardi di
passi e sbattere altrettante volte le ali prima di morire, tu non sei
comunque
normale… ‒ spiegò con cognizione di causa.
“Ah…”
Xatu
rise. “Posso vedere il futuro e il passato di tutti gli uomini ma non
posso divertirmi a scherzare con un ragazzino…”
‒
Dai, forza, raccontami della tua vita.
“La
mia
vita?”
‒
La tua vita.
“Va
bene,
nacqui in una terra molto lontana… in mezzo a uomini che indossavano
maschere di legno pitturate e cantavano attorno a me. Per loro ero una
specie
di dio…”
‒
Celia, sono
io.
‒
Sì lo
intuivo, considerando che siamo le uniche due persone al mondo ad avere
uno di
questi cosi! ‒ rispose sarcastica lei.
‒
Simpatica,
dimmi, sei ancora al Centro?
‒
Più o meno,
stai tornando lì perché?
‒
Sì…
‒
Beh, mi trovi
al parchetto vicino, quello con la fontana.
‒
Sto
arrivando.
Due
minuti
trascorsero rapidi, Xavier comparve dietro alla testa biondissima della
sorella, lei aveva intanto portato fuori dalla stanza, notò il ragazzo,
i vari
bagagli.
‒
Com’è andata?
‒ chiese lei. ‒ Oh. ‒ si rispose rivolgendo lo sguardo al castano che
sfoggiava
fiero la medaglia rossastra della forma di una sfera da cui si
dipanavano
quattro sagome somiglianti a delle ali di un Volcarona in direzione dei
quattro
punti cardinali.
‒
Ha un
Magmortar, un Heatran e un Volcarona, uno più forte dell’altro, non ho
la
minima idea di come io abbia fatto a vincere, non hai idea di come tu
non
riuscirai a vincere ‒ sbrigò lui tutto d’un fiato sedendosi sulla
panchina.
‒
Stronzo,
vedremo.
‒
Ah sì,
vedremo… ‒ ripeté enfatizzando particolarmente l’ultima parola.
‒
Scusa? Che
cos’era quel tono?
‒
Eh, volevo
chiederti… potresti passare alla palestra di Cassandra… tipo… un’altra
volta?
‒
Eh? E perché
mai?
‒
Oddio, puoi
farmi un favore e basta una volta tanto?
Celia
non
accolse particolarmente felice la proposta, ma neanche rispose un no
categorico.
‒
Che cosa ti
serve, Xavier Levine?
‒
Celia, per
favore, a te non costa niente e se vuoi alla prossima città lascio
andare te
per prima alla palestra, ok?
‒
Uff… ‒
incrociò le braccia. ‒ Fai come ti pare, al ritorno da Sidera alta torno
qua e
mi faccio una gita sul fiume dopo aver vinto anche la medaglia della tua
amichetta ‒ si vinse in tono sprezzante.
‒
Grazie,
sorella, ora dammi ‘sta roba e ripartiamo, ti va? ‒ propose lui
riprendendo lo
zaino.
I
due
ricominciarono a camminare fianco a fianco.
‒
Allora,
quando siamo partiti tu sei andato a est e io a ovest, vogliamo
scambiarci
questa volta? ‒ Celia si regolava con la mappa di Sidera digitale sul
PokéNet.
‒
Va bene,
viaggiamo a X per la regione praticamente ‒ approvò il ragazzo.
‒Sì,
quindi tu
Alyanopoli e io Porto Acquario?
‒
Suppongo di…
aspetta… ad Alyanopoli non c’è la palestra di quel deficiente che
abbiamo
incontrato… quello là? ‒ approssimò Xavier.
‒
Caspita, sì,
Perseo.
‒
Io che cosa
vado a fare nella palestra di uno che vende le proprie medaglie? ‒
chiese
retorico il castano.
‒
E anche tu
hai ragione. ‒ commentò Celia. ‒ Oh, vabbè, vogliamo andare entrambi a
Porto
Acquario?
‒
No. ‒ troncò
la domanda lui.
‒
Perché?
‒
No vabbè, ho
deciso che almeno un tentativo devo farlo, magari riesco a convincerlo a
combattere, non penso che sarà totalmente privo di Pokémon, alla fin
fine è pur
sempre un Capopalestra…
Celia
annuì
senza rispondere a voce.
‒
Quando
vogliamo partire? ‒ cambiò orientamento il ragazzo.
‒
Ah, facciamo
pranzo insieme almeno?
‒
Ci sto.
‒
Aspetta un momento. ‒ Kalut interruppe Xatu tutto intento nella sua
narrazione.
“Che
succede?”
‒
Fammi dare un’occhiata…
Il
ragazzo
si era fermato davanti ad un pannello rettangolare a lato della
strada,
una mappa. “Voi siete qui” diceva il puntino rosso in mezzo alla
strada che
portava al sentiero campagnolo fuori dalla cittadina.
“Ah,
quindi
intendi scegliere la tua prossima destinazione?”
‒
Beh, tu più di tutti sai che devo trovare un luogo dove andare perché
qualcuno
non me lo dice. ‒ fece calcando particolarmente sul pronome.
“Che
tono,
fanciullo, che tono…”
‒
Dai, almeno puoi dirmi quanto ci metto approssimativamente ad andare
da… Borgo
Asterion a… ma sì, qua… Delfisia? ‒ chiese lui improvvisando un
itinerario.
“Kalut…”
si
fece teorico dell’ovvio il Pokémon Magico. “Lì è da dove sei venuto…”
‒
Ah. ‒ Il ragazzo tornò alla sua ricerca. ‒ Idresia, voglio vedere
Idresia. Sai
dirmi quanto impiego?
“Circa
sette
ore di cammino.” sparò una cifra totalmente a caso il Pokémon che non
fece affidamento per nulla ai suoi poteri di onniscienza per
rispondere.
‒
Va benissimo, si parte ‒ decise il ragazzo.
“Ah,
proprio
così, su due piedi?”
Kalut
si
immobilizzò un istante. ‒ Ho per caso molto da preparare?
Il
ragazzo
aveva un paio di pantaloncini di qualche taglia in più, una maglia che
tra l’altro non gli piaceva neanche troppo e due Pokémon al seguito. I
suoi
bagagli non erano poi così ingombranti.
“Aspetta,
Kalut,
guarda che è tanta strada, non vorrai mica camminare tutto questo
tempo
nel bosco da solo e… senza posti in cui fermarti…
Kalut
sorrise.
‒ È proprio questo il punto…
Xatu
rimase
a becco aperto.
‒
Anzi, guarda un po’ il lenzuolo di stanotte mi fa pure comodo, andiamo
un po’ a
riprenderlo… ‒ e tornò indietro verso l’angolo in cui si era
addormentato la
sera prima.
‒
Come va il
viaggio? ‒ Julie era leggermente fredda.
‒
Tutto bene,
sono a Idresia e mi trovo a buon punto con le medaglie. Presto sarò
tornato,
piccola. Tu che fai invece senza di me? ‒ rispose Xavier.
‒
Mh ‒ la sua
voce si ammorbidì un po’. ‒ Nessuna novità particolare oggi, ma i
Deerling
iniziano a cambiare pelo e quindi ci diamo da fare per pulire alla ben e
meglio
il giardino. ‒ rise lei.
‒
È parecchio
caldo qua, io mi sono stancato dell’estate, voglio che ritorni il
freddo…
‒
Ma scherzi?! Meno
male che c’è ancora il sole… vorrei durasse fino a gennaio…
Intanto,
Celia,
faceva finta di studiare il suo PokéNet. Vicino a suo fratello occupato
a
parlare con la sua ragazza, in una tavola calda senza troppe pretese, a
pancia
piena grazie ad un pranzo pagato da lui. Le venne in mente di mettersi a
scrivere, non aveva altro da fare, tanto.
Avril
si fece
viva: “Oh, allora?”
“No,
non gliel’ho
chiesto…”
“E
perché mai?”
“So
benissimo
che non saprebbe rispondermi, e non voglio dargli problemi inutili… in
più
potrebbe dirlo a papà…”
“Celia,
ti
preoccupi troppo di queste…”
“Non
è successo
niente di niente con nessuno!” troncò lei. “Va bene?!”
“Ok,
va bene…”
Celia
sbatté
violentemente una delle metà del diario sull’altra nel chiuderlo.
‒
Non avercela
con i libri, sono così innocui, loro. ‒ commentò qualcuno vicino a lei.
La
bionda si
voltò. Un uomo pienotto di mezza età intento a leggere un volume
piuttosto
pesante le sorrideva dal posto adiacente.
‒
Oh,
perdonami, io non…
‒
Non
preoccuparti, era una battuta.
Celia
sorrideva
ebete. Si rese conto di aver già visto quel tipo, da qualche parte, lo
aveva
visto.
Quello
distolse
il suo sguardo dalle parole del libro.
‒
Sembri un’Allenatrice,
sei in viaggio?
‒
Sì, con mio
fratello ‒ rispose lei.
‒
Ah, beati voi
‒ commentò l’uomo alzandosi e lasciando sotto il piattino del caffè che
aveva
bevuto una banconota. ‒ Godetevi la gioventù. ‒ Si accinse ad andarsene.
‒
Adesso però anche io… devo partire. ‒ E facendole un occhiolino, si
avviò verso
la porta. La bionda salutò.
‒
Allora,
partiamo?
Xavier
aveva
riagganciato dopo aver salutato Julie, il conto era stato pagato ed
entrambi
erano pronti a muoversi.
‒
Sì,
immediatamente.
Uscirono
da
quel luogo, fecero un resoconto della situazione e si sistemarono per il
viaggio.
‒
Allora,
ascoltami che è importante ‒ cominciò Xavier scandendo bene le parole. ‒
Ora ti
lascio dei soldi, la metà di quello che ho, va bene?
Celia
annuì.
‒
Ma entrambi
dobbiamo trovare un modo di racimolare qualche spicciolo, ok? Magari dai
una
mano a qualcuno, svolgi un compito per qualche ricercatore, non so…
comunque
non ci bastano questi per il resto del viaggio, dobbiamo averne altri.
Evitiamo
di rubare, magari…
‒
Va bene, poi
ti dico se ci son riuscita, ok?
‒
Ok, brava
Celia.
‒
È il caso che
vada ora…
‒
Sì, pure io…
I
due si
separarono, una verso est, l’altro verso ovest.
Mezzo
frutto
in mano e mezzo nello stomaco, Kalut camminava mangiando e
riacquisendo
zuccheri dalla natura. Il sole batteva, ma vi era una brezza piacevole
quel
giorno. Al suo seguito zampettava Venipede e la presenza di Xatu era
sempre e
comunque percepibile.
Facile
essere
spaventati da un essere del genere e ancor più facile esserne
affascinati. Il ragazzo era entrambi, ma camminava, verso un
obbiettivo che
neanche lui sapeva dove si trovasse. Per il momento conservava strette
poche
certezze.
La
prima
era che camminare scalzo in mezzo all’erba era diventato faticoso. La
seconda
era che una nebbia oscura si era fatta strada nella sua mente, un
brutto
presagio o una cattiva sensazione. I bambini vivono senza
preoccupazioni.
Aveva
capito
che era tornato il momento di crescere.
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Capitolo 18 *** Capitolo 17 - Ribellione ***
Capitolo
17
– Ribellione
“Sta
andando, è già per
strada…” mormorò Xavier tra sé e sé.
Sul
display del suo PokéNet,
l’icona che indicava la posizione di Celia si muoveva lentamente, a
passo
d’uomo, verso il ponte che collegava Idresia alla parte orientale della
regione. Quando la ritenne abbastanza lontana, si alzò dalla panchina su
cui si
era momentaneamente seduto. Cambiò direzione, si diresse verso la
palestra
dalla quale era uscito quella mattina. Si trovava a pochi isolati da lì
ed era
abbastanza semplice per lui orientarsi tra le strade di una periferia.
Raggiunse la costruzione che da fuori appariva come un prefabbricato
nero e
squadrato e attese lì qualche istante a braccia conserte sul petto.
‒
Sei davvero così tenace? ‒
chiese ad un certo punto qualcuno alle sue spalle.
‒
No, davvero? Avevi ancora dei
dubbi? ‒ rispose lui avendo riconosciuto la voce senza neanche voltarsi.
‒
Mh… tutto sommato, no. Ancora
non mi hai mai dato opportunità di dubitarne ‒ sorrise quella.
Splendida,
sotto il sole dei primi
di settembre. Aveva i Ray-Ban che Xavier le aveva visto addosso al loro
primo
incontro e portava un paio di shorts che lasciavano veramente poco
all’immaginazione più una maglietta con il lembo estremo attorcigliato
appena
sopra l’ombelico. Il castano non poteva negare di provare un attrazione
fisica
inarrestabile verso di lei, ma chi non avrebbe avuto l’acquolina in
bocca
davanti ad una fetta di torta al cioccolato. Purtroppo la sua anima gli
avrebbe
consegnato bollette su bollette di senso di colpa se avesse mai deciso
di
assaggiarla e quindi, per amor della propria integrità morale, si
costringeva
ad annusare soltanto il suo dolce aroma. Sempre, parlando della torta,
s’intende.
‒
Più che tenace, cerco di
essere gentile accompagnando una donzella verso la sua meta, le strade
sono
piene di malfattori, madonna ‒ fece ironico lui fingendo un tono di voce
galante ed educato e tenendo un anta del portone da cui lei era appena
uscita
con fare elegante.
Cassandra
rise: ‒ dai,
muoviamoci, abbiamo molta strada da percorrere…
Lui
porse il braccio, lei vi
appese la sua tracolla. Lui sollevò un sopracciglio, lei sorrise
sorniona.
‒
Sei gentile, madama ‒
ironizzò il castano.
‒
Non ti darò la mano,
piuttosto, come stanno i Pokémon che ti ho massacrato?
Xavier
rifletté un istante con
la professionalità di uno specchio ricoperto di carbone in una
discarica. ‒
Bene, si riprenderanno…
Cassandra
si immobilizzò e
voltandosi lentamente verso di lui lo fulminò con lo sguardo. Per un
breve
momento, il ragazzo penso di dover fuggire.
‒
Oh, che hai? ‒ chiese alla
fine.
Mai
domanda fu peggio posta.
‒
Non li hai portati in un
centro Pokémon?
Xavier
non rispose, scosse
lievemente la testa ma non osò contrarre un muscolo in più.
Probabilmente gli
occhi di Cassandra riuscirono pure a fermargli il cuore nel lasso di
tempo
necessario per effettuare qualche battito.
‒
Sei uno scemo incosciente,
porca puttana! ‒ esclamò lei spintonandolo. ‒ Come diavolo tratti i tuoi
compagni di squadra, vai immediatamente al Centro più vicino!
La
sfuriata della Capopalestra
fu talmente convincente che il ragazzo, mormorando un “ok” docile come un bucaneve a dicembre che fa capolino dal manto
candido, alzò le mani quasi fosse minacciato da un uomo armato.
‒
Se percorro questa strada, giungo a Idresia stanotte…
“Ricordi
il
percorso a memoria, Kalut?”
Il
ragazzo dai capelli bianchi stava camminando a passo lento con i piedi
sui fili
d’erba e con il lenzuolo attorcigliato attorno al collo con un lembo
sceso
lungo la spalla a mo’ di cappa.
‒
Sì, me lo ricordo abbastanza bene.
“Anche
se
prendi un’altra strada, sai seguire le direzioni giuste?”
Kalut
guardò
Xatu. ‒ Un’altra strada?
“Quelli
che
tu ricordi sono i percorsi e le strade battute, tu hai preso la via
del
bosco” rispose il Pokémon.
Kalut
annuì
guardando nel vuoto.
“Stai
andando
a caso, non è così?” chiese allora il volatile.
‒
Sto andando a caso ‒ confermò quello. ‒ non è proprio la peggiore
delle
alternative, per uno che non ha una meta.
“Hai
ragione.
Ma ricorda che potresti fare degli incontri… inaspettati, passando per
la macchia” gli ricordò Xatu.
‒
Lo so.
“Perché
non
ti piace calpestare lo stesso suolo che calpestano i tuoi simili?”
‒
Per favore, Xatu.
“Voglio
saperlo,
gli umani che ho conosciuto si sentivano più sicuri nel percorrere un
sentiero già percorso.”
‒
Evidentemente, questi umani non avevano il senso dell’avventura… ‒
sdrammatizzò
il ragazzo.
Xatu
tacque
alcuni istanti “sei sveglio per essere uno nato da poco…” disse poi.
Kalut
scosse
la testa e non rispose.
‒
Hai
appena incontrato una delle
mie peggiori fisse, ragazzo, la tua squadra viene prima di tutto, prima
di te e
prima delle tue palle. La prossima volta che ti becco con un solo
Pokémon di
cui non ti sei preso cura, stai sicuro che ti consumo le guance a suon
di
schiaffi ‒ sussurrò decisa e categorica Cassandra da dietro il collo di
Xavier.
Il
ragazzo in primis ignorò la
minaccia, ma poi la sua incoscienza gli ricordò di quanto fosse semplice
la
situazione e di quanto fosse d’obbligo cercare di giustificarsi: ‒ Non è
che
non volessi farlo, me ne sono dimenticato e avevo lasciato Celia da
sola,
volevo darle una mano a rifare i bagagli… ‒ provò a mormorare lui senza
ricambiare lo sguardo della ragazza.
‒
Dimenticato? ‒ la risposta
dell’imputato le diede sui nervi non poco. ‒ La mamma che dimentica a
casa il
bambino da solo col cassetto dei coltelli aperto non la passa liscia
dicendo
“ho dimenticato”! ‒ e qui scordò il silenzioso per un solo istante.
Tutt’ad
un tratto, nel Centro
Pokémon tutti fissavano loro: lui, rosso in viso e con una cintura delle
Ball
totalmente fuori posto considerando che la ragazza lo aveva, senza
eufemismi,
trascinato là dentro e lei, tutta rossa ma per altri motivi e con due
occhi
tali che se avesse iniziato a sputare fumo dal naso da un momento
all’altro nessuno
si sarebbe spaventato.
‒
Dovrebbero stare tutti meglio
ora. ‒ E l’entrata in scena dell’infermiera del Centro ruppe ogni
silenzio
imbarazzante. ‒ Soltanto Noivern impiegherà un po’ di tempo a riprendere
completa capacità di volo, lo strappo della membrana alare non è un
danno
facile da riparare, ma il suo Pokémon ha un ottimo fattore rigenerativo,
noi le
abbiamo dato i farmaci necessari e lei si rimetterà in sesto in qualche
giorno
‒ assicurò la donna con grembiule e tiara da infermiera posando un
vassoio con
delle scanalature in cui erano state poste le tre Ball consegnategli da
Xavier
sul bancone.
‒
Gr...
‒
Grazie ‒ si precipitò
Cassandra interrompendo il castano e prendendo le Ball al suo posto.
‒ Ira Di Drago!
Dalle
fauci del Gible
fuoriuscirono bluastre fiamme di natura ignota che atterrarono il nemico
Hawlucha.
‒
Che diavolo è preso a questi
Pokémon, è già il terzo che ci attacca… ‒ si lamentò Celia. Il suo
Pokémon Squaloterra aveva il
fiatone, ma stava
sfruttando quell’occasione per riprendersi un po’ dalle disavventure dei
giorni
precedenti, si era ripreso da poco tempo dall’incidente della caverna e
non
sarebbe stato facile raggiungere il livello degli altri compagni di
squadra
senza un po’ di sano impegno.
‒
Rientra, riposati un pochino,
il prossimo spero che si veda bene prima di romperci le scatole – fece
convinta
la bionda.
Per
un momento guardò il corpo
esausto del Pokémon Lottalibera
appena mandato al tappeto. Si chiese se fosse necessario nella sua
squadra un
Hawlucha. Pensò di no, camminò oltre.
La
terza ora del pomeriggio era
passata da un po’ e lei aveva appena oltrepassato il ponte, era sulla
terraferma ma doveva percorrere ancora parecchia strada. A piedi.
‒
Allora, hai finito di
guardarmi storto?
‒
Non ti sto guardando storto.
‒
Non sono della stessa
opinione…
‒
Xavier!
Il
castano sbuffò. ‒ Ok, va
bene, scusa… avrei dovuto pensarci, mamma…
Cassandra,
per la prima volta
dopo l’incazzatura di due ore prima, accennò un sorriso. I due stavano
camminando, lei aveva ripreso la sua borsa e guidava la coppia mentre
lui
seguiva tutto preso dal panorama.
‒
Tiè’ guarda qua.
Svoltarono
un angolo e, come
per magia, si ritrovarono di fronte al ponte ovest di Idresia. Xavier
rimase a
bocca aperta, non tanto per lo spettacolo che gli si era parato davanti
quando
per la titanica misura della struttura. Il gigantesco ponte che
connetteva la
capitale di Sidera alla metà orientale della regione era spuntato
all’improvviso in mezzo al sobborgo modesto e poco monumentale in cui
avevano
camminato fino a quel momento; su di esso si spalleggiavano le numerose
corsie
di quell’enorme strada che era il decumano di Idresia.
‒
Quasi più grosso del Ponte
Propulsione… ‒ commentò lui al precisissimo terzo secondo di
ammirazione.
‒
No, non più grosso… ‒ ribatté
Cassandra senza distogliere lo sguardo dall’obbiettivo.
‒
Dici?
‒
Dai, seriamente tu sei di
Unima? Il Ponte Propulsione è gigantesco rispetto a questo…
‒
Mh… forse hai ragione.
‒
Dove sono?
“Che
cosa
cerchi?”
‒
Dove sono?
“Che
cosa?”
‒
I Pokémon, dove sono?
“L’hai
notato,
allora?”
‒
Te ne eri già accorto?
“Io
sono
sempre al corrente di ciò che sta succedendo, tu piuttosto, hai
impiegato
parecchio prima di renderti conto dell’assenza di qualcosa.”
Kalut
era
salito su un ramo e osservava come un predatore tutto l’ambiente
attorno a
lui. Cercava una presenza, un qualcosa che gli dicesse che non tutte
le
creature erano scomparse. Si stava preoccupando seriamente. Stava
scendendo il
buio, il sole si accingeva a tramontare e il cielo si faceva roseo.
‒
Xatu, che cosa significa che sei sempre al corrente di ciò che sta
succedendo
di preciso? ‒ domandò azzardando un pelino di più Kalut.
“Significa
quel
che significa, ti ho detto che posso vedere qualsiasi cosa che
appartenga
alla nostra realtà…”
‒
E perché… ‒ il ragazzo saltò giù dal ramo. ‒ Riesci ad essere così
calmo?
“La
domanda
è: perché tu sei così agitato?”
Kalut
sbuffò.
‒ Non ne ho idea, sento agitazione dentro di me, sento come se ci
fosse
qualcosa che non va! ‒ esclamò.
“Se
c’è
qualcosa che non va, scopri di che cosa si tratta.”
‒
Facile per te, io non so da dove cominciare, capisci? So che c’è un
problema e
che camminare per un pomeriggio in mezzo ai boschi e non riuscire ad
incontrare
nemmeno un esemplare di niente assoluto mi sembra un pochino strano ‒
spiegò il
suo punto di vista il ragazzo.
“Ti
capisco,
Kalut, per questo penso tu debba almeno provare a cercare la causa di
questo strano fenomeno.”
Il
bianco fisso per un lungo istante Xatu. Era convinto, ma non aveva la
più
pallida idea di come cominciare.
‒
Sono partito da… ‒ si guardò a destra poi a sinistra. ‒ Là. ‒ stabilì
indicando
un punto disperso alle sue spalle. ‒ E sia ieri sia stamattina presto
mi pare
di aver visto dei Pokémon…
“Ciò
vuol
dire…?”
‒
Ciò vuol dire che il problema esiste solo da queste parti, e se esiste
solo da
queste parti significa che ciò che l’ha causato si trova qui vicino,
nessuno ce
la farebbe a far sparire un intero ecosistema di Pokémon da lontano,
giusto?
“Non
fa
una piega.”
‒
E quindi, non ci resta che andare avanti, esattamente come stavamo
facendo
prima ‒ concluse infastidito e lievemente seccato riprendendo il
passo.
Xatu
rimase
immobile per qualche istante.
“Kalut,
devo
dirti una cosa…” lo fermò. “Capisco che tu non ti trovi bene in mezzo
agli
umani, va benissimo, ma ricordati che una buona indagine può essere
condotta
solo tenendo conto di ogni anomalia senza poter credere alle
conseguenze in
alcun caso. E gli umani, quelli che tanto ti infastidiscono” scherzò
“hanno i
più efficienti ed istantanei mezzi di comunicazione esistenti.”
Kalut
non
si mosse.
“È
un suggerimento, il mio.” Precisò Xatu.
‒
Muoviamoci ‒ il ragazzo riprese il cammino.
“Siamo
usciti da Idresia, siamo
diretti verso Alyanopoli e siamo più o meno a metà percorso. Non devo
dare
nell’occhio, lui non deve farsi domande.”
‒
Pensierosa? ‒ domandò il
castano.
‒
No, sto solo riflettendo su
come accamparci e nel caso dormire un po’ ‒ rispose Cassandra.
‒
Oh, hai ragione, vedo se nei
paraggi c’è un qualche Centro Pokémon ‒ si mosse Xavier.
‒
Mh, bravo ‒ sorrise lei.
Stavano
camminando da un bel
po’ avevano parlato del più e del meno, lui le aveva raccontato più o
meno la
sua vita e lei aveva tirato fuori qualche aneddoto qua e là. Le era
stato
insegnato che per conoscere qualcuno per bene bisognava dare poche
semplici
informazioni su di sé per far prendere confidenza e poi lasciarlo
parlare. Fino
a quel momento era andato tutto bene.
‒
Ecco, dovremmo incontrarne
uno tra… un chilometro, si fa, dai ‒ propose l’Allenatore.
‒
Si, va bene, diamoci una
mossa che ho davvero fame! ‒ esclamò quella.
‒
Non aspettarti troppo, in un
Centro al massimo trovi qualche barretta al distributore ‒ la mise in
guardia
il realista Xavier.
‒
Sono fiduciosa, magari è un
Centro ben fornito
Il
castano scrollò le spalle.
Celia
aveva le gambe a pezzi,
non si era mai fermata. Aveva camminato l’intero pomeriggio. Dopo
quell’esperienza un po’ stramba di scontri contro Pokémon selvatici
inquieti
vantava un Gabite in più in squadra e un sonno che le pesava sotto le
palpebre
e sui glutei come un blocco di granito. Ma tutto sommato era
soddisfatta.
“Nessun
Centro Pokémon nel
raggio di… tanto, per raggiungere quello più vicino dovrei arrivare a
Porto
Acquario…” si lamentò con se stessa guardando la mappa sul display del
PokéNet.
“E’
il caso di mettere in
pratica le nozioni di Marcos su come si montano le tende da campeggio?”
chiese
Avril.
Celia
gettò le borse a terra
nel primo angolo sicuro e lievemente isolato che i suoi occhi videro.
“Se
monto la tenda, muoio”
espresse come assioma eterno e incorruttibile della sua vita, la
ragazza.
“Bello.”
“Sacco
a pelo” disse a Avril.
“Ho bisogno di dormire.”
E
così fu, tirò fuori il suo
sacco a pelo, lo stese, mise Gel che aveva sonnecchiato nella Ball per
tutto il
giorno a guardia di quel luogo e gli ordinò di scambiarsi con Karma a
metà
nottata e si addormentò quasi subito stringendo la sua borsa come un
cuscino.
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Capitolo 19 *** Capitolo 18 - Fatica ***
Capitolo
18
– Fatica
Notte
inoltrata.
L’orologio segnava l’una e sette minuti.
Il
mite frinire delle cicale proveniente dall’esterno aleggiava nell’aria
insieme
ad un dolce e delicato aroma di vaniglia. La voce dello speaker del
programma
televisivo PokéNights accompagnava le testimonianze in diretta degli
inviati
della trasmissione che in quel momento si trovavano nelle più
disparate
località del mondo mentre sullo schermo passavano le immagini. Le
lampade
emettevano una luce particolarmente intensa, e una debole aria
condizionata
rinfrescava l’ambiente.
La
Galleria di Transito, o Varco, come erano soliti chiamarla quelli del
mestiere,
era calma quella notte. Juan, addetto alle pulizie, passava lo
straccio a terra
con la voce di Mirta come sottofondo. La donna era solita raccontare
storie durante
i loro turni di lavoro mentre si improvvisava estetista e operava
sulle proprie
unghie armata di smalti e lime. Lei era la prima operatrice lì dentro,
si
occupava delle informazioni, dell’accoglienza e nei suoi incarichi
rientrava
pure quel minimo di controllo necessario in un Varco. Tutto questo,
solo
durante il suo turno di notte.
‒
Raccontano tante cose su di lei, si dice che sia stata pure un membro
del Team
Magma tanto tempo fa, ma sembra che si tratti di voci infondate ‒ fece
lei.
‒
Mah ‒ borbottò Juan posando per un istante il manico dello straccio. ‒
penso
che molte delle cose che girano siano false, spesso questi sono
soggetti creati
proprio dal marketing, il mercato delle Gare Pokémon ha sputato fuori
tantissima
gente che magari è lì solo per il suo bel faccino… ‒ spiegò.
‒
Beh, lei non è brutta proprio per niente ‒ ribatté l’altra.
‒
Direi di no ‒ approvò ridendo.
‒
Ah, mannaggia, dovrebbe stare in TV, tra poco c’è una diretta sul
festival di… Cuoripoli,
ecco! ‒ esclamò Mirta afferrando il telecomando.
PokéNights
scomparve,
la donna cominciò a scorrere tra i canali sullo schermo che per lei
era in una posizione assolutamente di favore, essendo sospeso di
fronte al suo
bancone.
‒
E vediamola, dai… ‒ fece gioviale pure Juan.
‒
Eccola. ‒ Mirta si fermò sul sesto canale.
Sulla
TV
apparve il palco meraviglioso della più famosa Arena delle Virtù di
Sinnoh
addobbato a festa, gli spalti pieni e i riflettori puntati su una
bellissima
donna con in mano un microfono. Camelia, supermodella e Capopalestra
di Unima
chiamata in veste di conduttrice della serata. La trasmissione era
appena
iniziata, erano ancora alle presentazioni.
‒
Ora dovrebbe salire sul palco? ‒ chiese Juan.
‒
Shhh… ‒ lo zittì Mirta.
Tra
le
ovazioni calorose e gli effetti di scena, salì sul palco Rossella,
diva nel
mondo delle Gare Pokémon dell’anno e personaggio più amato dalle
riviste e
dalle trasmissioni televisive. Almeno in quel periodo. La ragazza
cominciò ad
esibirsi, le sue coreografie armoniose e piene di grinta stregarono
totalmente
il pubblico che si zittì per gran parte dell’esibizione esplodendo
letteralmente nei momenti di acme.
‒
E’ bravissima… ‒ commentò a mezza bocca Juan.
Distogliendo
lo
sguardo dallo schermo poiché attirata istintivamente dalle parole
dell’uomo,
Mirta si rese conto che i due non erano più soli in quel Varco. Un
ragazzo dai
capelli bianchi con uno Xatu e un Venipede al suo seguito aveva appena
messo
piede nella galleria.
‒
Salve ‒ salutò quella.
Juan
pure
si rese conto della presenza e riprese atteggiamenti più adatti ad un
galantuomo quale lui, riprendendo in mano lo straccio e liberando il
passaggio
al pellegrino. Kalut non reagì subito, teneva gli occhi fissi anche
lui sullo
schermo e una mano sullo stipite destro della porta.
‒
E’ gradevole l’aria, stanotte ‒ avanzò gioviale Mirta adempiendo al
suo compito
di dispensatrice di sorrisi e buon umore.
Ancora
silenzio.
“Forse
è
il caso che tu risponda…” ipotizzò Xatu nel cervello del ragazzo.
‒
Sì. Si sta bene ‒ fece lui atono.
‒
Oh, beh… c’è qualcosa che posso fare per lei o è soltanto di
passaggio? ‒
proseguì la donna.
‒
Cerco un bagno ‒ rispose Kalut.
Mirta
inizialmente
rimase un pochino scossa dal modo di fare passivo e schivo del
soggetto, ma poi, ripresa in mano la ragione, indicò stancamente col
braccio in
direzione della toilette.
Kalut
si
mosse e scomparve dietro la porta con la scritta WC qualche secondo
dopo,
rimasero indietro i suoi due Pokémon che come una scorta di bodyguard
si
stabilirono presso l’uscio.
“Non
metterci
troppo” si raccomandò telepaticamente Xatu.
Kalut
non
rispose, non poteva, non era capace di parlare con la mente alle altre
persone.
Un
minuto e il ragazzo fu fuori, stavolta Mirta non provò neanche a
bisbigliare
qualcosa, zitta zitta pensava al suo smalto come Juan che aveva quasi
terminato
con le pulizie del pavimento e di lì a poco avrebbe iniziato con la
cura delle
piante.
Kalut
si
sedette su una poltroncina di simil-pelle, socchiuse gli occhi e
aguzzò le
orecchie. La televisione e il suo gracchiare fastidioso non erano
proprio una
manna dal cielo per lui, non riuscì a captare alcunché di
interessante.
“Stai
prendendo
le mie indicazioni troppo alla lettera, ripassa quello che ti ho
detto” suggerì Xatu.
Kalut
sospirò
per far comprendere al suo compagno che era in ascolto.
“Non
parlarmi,
e lo stai svolgendo bene…”
Kalut
incrociò
le braccia.
“Sii
discreto,
ma era troppo difficile per ora…”
Kalut
inclinò
la testa.
“Cerca
informazioni,
e ciò ti autorizza a fare delle domande a qualche altro umano,
non sei in fuga da nessuno e non sei un criminale, ricordalo, sei solo
in
incognito” completò il Pokémon.
Kalut
si
alzò in piedi.
‒
Potrei per caso… ‒ fece rivolto a Mirta. ‒ …cambiare canale?
“Bravo,
bella
trovata!” approvò Xatu.
‒
Oh, certo ‒ rispose la donna porgendo il telecomando al bianco.
Kalut
non
impiegò molto a capire come funzionasse e, spingendo un tasto a caso,
finì
sul canale otto.
“Hai
toppato,
solo televendite…” mormorò il Pokémon Magico.
Spinse
un
altro pulsante: quinto canale
“Film
di
scarsa qualità, niente da fare neanche qui…”
Riprovò:
canale
tre.
“Qua
sembra
decente” approvò Xatu.
Kalut
sbuffò,
solo per far giungere al Pokémon la sua sensazione di fastidio.
Intanto
sullo schermo una presentatrice vestita elegantemente, seduta ad una
scrivania
e rivolta verso la telecamera, introduceva delle notizie mentre i
titoli
riassuntivi passavano in una striscia di colore scuro sotto di lei.
‒
Il notiziario? ‒ domandò retoricamente Mirta.
‒
Sì ‒ fece con prontezza Kalut.
“Che
palle…” pensò Xavier. “Ha
preso la seconda stanza…”
Lui
e la Capopalestra di tipo Fuoco di
Idresia erano giunti al Centro
Pokémon che avevano scoperto essere adibito anche a rifugio per i
viaggiatori e
si erano rifocillati a dovere, ovviamente il ragazzo non aveva potuto
pagare il
conto a entrambi e fare lo splendido e si era accontentato di spartire
la
spesa. In seguito avevano preso due stanze, su scelta casta e pudica di
Cassandra, in cui passare la notte.
Il
castano si trovava sul
balconcino sul tetto del centro, l’aria era gradevole e nulla era troppo
caldo
o troppo freddo. Settembre. Portava i pantaloncini che aveva messo di
giorno ma
a coprire il suo petto e il suo addome vi era solamente una canotta di
riciclo
e di un colore mezzo sbiadito che utilizzava per dormire. Fissava il
cielo che
da Sidera era sempre stato uno spettacolo unico, una tempesta di
minuscoli
puntini luminosi appiccicati al telone nerastro del firmamento, in
particolar
modo da una zona priva di luce artificiale come la terrazza di un Centro
Pokémon immerso nella natura.
‒
Come sei nostalgico stasera…
‒ commentò Cassandra entrando in scena di soppiatto. ‒ …mi ricordi un
film di
merda.
‒
Simpatica, c’è un bel cielo
stasera ‒ evitò l’ironia Xavier.
‒
Mh, hai ragione.
‒
Ah, allora anche tu hai un
cuore.
E
Cassandra non ribatté.
‒
Che cavolo ci fai qua fuori a
quest’ora? ‒ domandò il ragazzo ad un certo punto.
‒
Potrei farti la stessa
domanda.
‒ Io
non ho particolarmente
gradito quei molluschi che abbiamo mangiato a cena… o meglio: io sì ma
il mio
stomaco no ‒ spiegò lui.
‒ Ma
no, li hai seriamente
mangiati? ‒ chiese la ragazza con un velo di critica.
‒
Perché?
‒
Erano stati scongelati, si
vedeva benissimo, io evito sempre la roba surgelata, soprattutto nei
centri
Pokémon in cui non conosci l’età dei prodotti che ti passano.
Xavier
non ribatté.
‒ Io
invece volevo solo farmi
una sigaretta.
E
davanti al ragazzo, Cassandra
prese il pacchetto bianco e argentato che aveva in tasca, ne estrasse
una
sigaretta e se la portò alla bocca. La accese con un clipper nascosto
nel
pacchetto stesso.
‒
Non posso mai fumare quando
sono in servizio e la cosa mi dà si nervi… ‒ spiegò lei.
Ma
Xavier aveva già imboccato
un’altra strada, essendosi girato solo alla parola “sigaretta” di
Cassandra,
solo in quel momento aveva notato che la ragazza era uscita con un
leggerissimo
e cortissimo vestitino da notte con le spalline sottili e che a mala
pena
copriva l’inguine. Il possesso di sé stava venendo posto ad una dura
prova da
parte di quella ipnotica mise in cui si era fatta trovare lei, o meglio,
dalle
grazie che quella mise copriva.
‒
Oh, ci sei? ‒ chiese
Cassandra passati i due minuti di standby del cervello del castano.
‒
Più o meno ‒ rispose quello
ancora ben poco presente.
‒
Oddio, voi uomini, tutti
identici… ‒ commentò quella.
‒
Scusa? ‒ chiese lui
risvegliandosi leggermente da quella fase di vuoto.
‒
Niente, niente ‒ fece
Cassandra. E tirò un’altra boccata.
In
quel momento cambiò il
vento, e l’aria cominciò ad alitare in faccia a Xavier insieme al
fastidioso
odore del fumo.
‒
Puoi spostarti? ‒ chiese lui non
godendo particolarmente della discutibile aroma.
‒
Sì.
E i
due si scambiarono di posto.
‒
Cerca di non fumarmi addosso
‒ raccomandò il ragazzo.
“Stai
guardando
quel TG da mezz’ora, possibile che ancora non abbia trovato nulla?”
Kalut
si
sciolse le spalle.
“Forse,
se
non riesci a trovare quello che tutti conoscono, prova a cercare
quello che
non tutti vedono…” tirò fuori in qualità di perla il volatile.
Kalut
non
rispose ma fece intendere al compagno l’inutilità di tale frase in
quel
momento.
‒
Dovrei chiederle un’informazione ‒ fece il castano rivolto a Mirta.
‒
Oh, certamente, dica
‒
Lei sa se ci sono stati dei problemi con i Pokémon di questa zona?
Quella
rifletté
alcuni istanti prima di rispondere: ‒ No, non che io sappia… ‒ rispose
poi.
“Quello
che
non tutti vedono” ripeté Xatu.
Kalut
si
arrabbiò. ‒ Arrivederci, buon lavoro ‒ salutò entrambi i soggetti
sotto quel
Varco e ne uscì dal lato che indica l’ovest.
Quando
fu
fuori da quel luogo si sentì autorizzato a parlare di nuovo con il suo
accompagnatore: ‒ Cioè, non dovevo cercare lì le informazioni? ‒
chiese
lievemente seccato.
“Ah,
io
non posso dirtelo mica… ma fossi in te non accenderei di nuovo la TV”
proferì il Pokémon Magico.
‒
Proviamo un’altra strada… ‒ commentò soltanto Kalut rassegnato.
Era
tardissimo,
la luna piena fiera in cielo in prima riflessione scrutava da
lontano il mondo e le sue forme di vita possedute in quel momento dal
più
profondo baratro divino e accogliente. Eppure il ragazzo dai capelli
bianchi
non sentiva il bisogno di dormire. Ancora, almeno.
Xavier
fissava il suo zaino
chiuso e abbandonato nell’angolo della cuccetta. Gli aveva dato
particolarmente
fastidio scoprire che Cassandra fumava. Non sapeva perché e non sapeva
per
come, ma conosceva cosa era capace di fargli immediatamente cambiare
opinione
su qualcuno e tra questi fattori vi era la dipendenza dal fumo. Eppure,
avendo
abitato in una grande città in cui le persone ricorrevano a tutto pur di
iniettarsi un pochino di relax nelle arterie, sapeva come fosse avere
persone
che fumano attorno quasi ogni giorno ad ogni ora.
Dormì
amaramente per quella
notte.
Il
mattino giunse.
Una
nuova luce sorse sopra i
tetti di Sidera e una nuova giornata entrò con i moderati applausi del
pubblico.
‒
Diario! ‒ esclamò Celia
svegliandosi di soprassalto anche se in orario biologicamente corretto.
La ragazza
si rese conto che la notte era finita assieme al riposo concesso e che
lei non
era affatto riposata. In più, aveva preso coscienza del fatto che da ben
due
giornate lei non aggiornava i suoi pensieri scritti sulla barretta di
cioccolato.
Sonno?
Pokémon? Diario?
Ovviamente
la bionda afferrò il
taccuino da dentro la sua borsa ancora infilata nel morbido sacco a
pelo. Cominciò
a scrivere, le parole vennero fuori inizialmente con difficoltà e verso
la fine
in maniera molto più semplice.
Le
sue palpebre cadevano e i
suoi muscoli imploravano pietà, ma la sua fede in se stessa le diceva
altro. Finì
di scrivere, aveva riempito la pagina con un flusso di incoscienza puro
e
spontaneo che ovviamente ritrovava la sua voglia di esistere lacunosa
nella
calligrafia dell’autrice.
Poi
il suo corpo non resistette
ancora, Celia tornò a dormire.
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Capitolo 20 *** Capitolo 19 - Pigrizia ***
Capitolo
19 –
Pigrizia
Xavier e
Cassandra si stavano
muovendo da una ventina di minuti, la mattina era giunta come una
vecchia
vicina che passa a chiedere lo zucchero e i due si erano alzati più o
meno alla
stessa ora. Colazione veloce con una brioche e un cappuccino per lei, un
caffè
al ginseng per lui, quindi via verso nuove entusiasmanti avventure.
Il castano
camminava guardandosi
le punte dei piedi e la Capopalestra lo seguiva giochicchiando con la
Poké Ball
che aveva in mano.
‒ Secondo te
quanto manca ancora?
‒ domandò lei.
‒ Non lo so ‒
rispose lui.
‒ Dai, più o
meno… ‒ ribatté lei.
E Xavier sapeva
di star sprecando
tempo, di avere a disposizione qualche momento felice di castissima e
purissima
convivenza con quella ragazza non poco attraente che camminava seguendo
i suoi
passi e di non starli sfruttando. Ma non aveva idea di che cosa causasse
ciò.
Forse la caffeina non era ancora entrata in circolo, forse aveva dormito
meno
di quanto pensasse, forse aveva camminato più di quanto credesse il
giorno prima,
fatto sta che il sentiero che percorreva gli sembrava esattamente uguale
a se
stesso e quei minuti di movimento gli erano parsi ore.
‒ ‘Spe… ‒ di
malavoglia il
castano accese il PokéNet, immediatamente lo schermo gli mostrò la
posizione
della sorella ferma immobile dall’altra parte della regione, lui non ci
fece
caso e spostò la focalizzazione del mappa digitale sul tratto che
avrebbe
dovuto percorrere per giungere ad Alyanopoli. La malinconia della terza
serie
di flessioni in una sessione piramidale lo prese. Vedeva tanta, troppa
strada
davanti a se e ai suoi poveri crociati doloranti, talmente tanta che non
inserì
neanche le coordinate del percorso per verificarne la durata e non diede
neanche un responso alla Cassandra impaziente quanto lui, si limitò ad
un
gemito inumano che doveva simulare un “tanto”.
‒ Senti, io oggi
non ho proprio
voglia di camminare tutto il giorno… e penso neanche tu… che ne dici se
ci
fermiamo e almeno per stamattina ce la prendiamo comoda? ‒ propose lei.
Xavier,
flemmatico, si voltò. ‒
Tu sì che mi capisci… ‒ sussurrò.
‒ Ci dovrebbe
essere un laghetto
qui vicino, controlla un po’ sul tuo orologio fotonico ‒ proseguì quella
con le
proposte allettanti ma col viso ancora martoriato dal sonno.
‒
Non tutti dormono di notte… ‒ commentò infastidito Kalut.
Su
consiglio del suo Pokémon accompagnatore, Xatu, si era adagiato ai
piedi di
un’alta quercia cercando di chiudere gli occhi. Eppure la cosa gli
riusciva fin
troppo difficile. Non sentiva il bisogno di riposare una volta calato
il sole,
ma quasi controvoglia aveva deciso di dare fiducia a una delle frasi
del
volatile che, come diceva sempre, conosceva gli umani da molto più
tempo di
lui.
‒
Non tutti dormono di notte… - ripeté.
“Kalut,
ci sono umani con abitudini differenti dagli altri, io ti ho solo
fatto sapere
la regola generale…” disse Xatu.
‒
Quindi sarei io ad avere abitudini differenti? ‒ chiese con lo stesso
tono il
ragazzo ancora avvolto a braccia conserte nel suo lenzuolo bianco
rubato e con
lo sguardo imbronciato fisso davanti a sé.
“Beh,
dalla media… sì.”
‒
E secondo te perché?
“Sta
a te capirlo, Kalut.”
‒
Sei cosciente del fatto che mi hai detto che sta a me capire
un’enormità di
cose e non ho neanche la più pallida idea di che cosa dovrei scoprire,
da che
cosa dovrei partire, che cosa ci faccio qui.
“Che
cosa ci fai qui? È una domanda che tutti si pongono almeno una volta.”
‒
Ah, bene… e per questo anche io…
“Kalut,
tu non sei come tutti gli altri, spero tu lo sappia…”
‒
Dovrei saperlo?
“Non
hai genitori, non sei nato… tu, Kalut, sei esistito.”
‒
Che cosa significa?
“Gli
esseri umani sono semplicemente animali molto evoluti, al contrario di
quello
che si convincono di essere… loro nascono, crescono, vivono finché non
trovano
qualcuno con cui condividere la propria esistenza, a quel punto
generano altri
esseri umani che cresceranno a loro volta mentre i loro genitori
moriranno…”
spiegò Xatu.
‒
E io invece…?
“Tu
non sei mai nato, ragazzo: un momento prima non c’eri, un momento dopo
c’eri.”
‒
Spiegami, significa che la mia non è una vita?
“No.”
Xatu
tacque per qualche istante.
“Vedi,
ci sono delle forze eterne a questo mondo che sembrano inarrestabili…
delle
forze superiori che tutti temono e che tutti venerano, forze che a
volte
l’uomo, come essere imperfetto, pensa anche di aver inventato e fa
finta di
dimenticare…” riprese solenne il Pokémon Magico. “Altre forze invece,
per
quanto presenti, sono destinate a morire… io sono una di queste forze
per
quanto potente e longevo, io un giorno conoscerò la mia fine.”
‒
E che cosa c’entra questo?
“Beh,
volevo spiegarti che tu, invece, sei un caso eccezionale… tu
semplicemente non
avrai termine, perché non hai avuto inizio.”
Kalut
rifletté sulle parole della saggia creatura. Chiuse gli occhi, tacque
e fece
finta di dormire per ingannare se stesso.
‒
Xatu, puoi farmi un favore? ‒ chiese Kalut.
Il
pennuto gli dette attenzione.
‒
Possiamo rimanere qui oggi? Non ho voglia di muovermi…
Celia era in
piedi, occhi
stravolti, capelli scompigliati e muscoli a pezzi. Ma rifaceva i suoi
bagagli
ricomponendo il suo sacco a pelo e il suo zaino.
“Perché ho
camminato così tanto
ieri, Avril?”
“Non lo so,
magari hai rotto il
fiato ed eri troppo pensierosa per renderti conto che non era il caso di
continuare a quel ritmo…soprattutto con i numerosissimi Pokémon
selvatici
inquieti che si trovavano in giro…”
“Non mi sono
neanche costretta, è
come se fossi caduta in un sonno in movimento e avessi continuato ad
andare
avanti alla cieca.”
“Controlla dove
siamo,
piuttosto.”
E in quel
momento la capacità
esclusiva femminile di pensare a due o più cose contemporaneamente
permise alla
ragazza di comporre con decenza un bagaglio da viaggiatrice con una mano
e di
controllare il PokéNet al suo polso con l’altra.
“Siamo quasi a
metà strada.”
“Perfetto.”
“Che ne dici,
prossimo Centro Pokémon
doccia e latte al cacao, così facciamo colazione?”
“Facciamoci del
male, ci sto.”
Il lieve
scrosciare di una
cascatella e il frinire delle cicale erano il sottofondo melodioso di
quel
panorama naturale. La distesa d’acqua così limpida da far intravedere
ogni
singola pietra sul fondo, pochi e quieti Goldeen nuotavano timidamente
vicino
al fondo mentre dei piccoli gruppi di Surskit pattinavano sul pelo
dell’acqua.
Un piccolo laghetto, con due torrenti, uno che lo riforniva di acqua
scendendo
dal monte e l’altro che lo svuotava allo stesso ritmo dalla parte
opposta.
‒ Che roba, eh?
‒ commentò
Cassandra.
‒ Cazzo,
bellissimo… ‒ approvò
Xavier.
‒ E dove li
trovi questi posti ad
Austropoli?
‒ Infatti…
I due si
appostarono, la ragazza
tirò fuori dal suo zaino un asciugamano in microfibra che ripiegato era
fin
troppo discreto mentre con le sue dimensioni avrebbe fatto
tranquillamente da
coperta per un letto singolo, lo stese ad un angolo dello specchio
d’acqua in perfetta
corrispondenza dei raggi di sole. Dolcemente si adagiò sul tessuto che
aveva
assunto le forme del manto erbaceo sottostante e sistemò gli occhiali da
sole.
‒ Non è più aria
da spiaggia,
sorella ‒ scherzò il castano.
‒ Beh, io direi
di goderci questo
sole finché ce l’abbiamo, e poi ti ricordo che è ancora estate, fratello
‒ lo
imitò sarcastica.
‒ Piuttosto,
ripetimi un po’ qual
è la tua meta ‒ azzardò lui.
‒ Prima vengo
con te ad
Alyanopoli, no?
‒ Mh-mh, ma
perché sei venuta con
me, qual è la tua reale destinazione? ‒ avanzò ulteriormente il ragazzo.
‒ Beh, penso che
andrò alla Lega
a parlare con Antares. Lo sai, quella problema di cui abbiamo discusso
l’altro
ieri… ‒ fece lei.
‒ Vuoi che venga
con te?
‒ No ‒ rispose
precipitosa. ‒ Non
occorre, non preoccuparti.
Il ragazzo annuì
e si sedette sui
fili d’erba.
‒ Secondo te
come sarà l’acqua? ‒
domandò ad un certo punto cambiando discorso.
Il bancone
liscio e pulito da
poco del bar del Centro Pokémon con i porta-bustine-di-zucchero e i
dispensatori di tovagliolini ricordavano alla bionda le stazioni di
servizio
che incontravano lungo l’autostrada quando lei, Xavier e Marcos
scappavano da
Austropoli per una gita del weekend. Il cappuccino e il croissant erano
stati
benzina per il suo corpo, pagò e lasciò a malincuore quell’oasi di calma
e
tranquillità.
‒ Controlliamo
un po’ dove si
trova il fratello…
La mappa del suo
PokéNet mostrava
un puntino sperduto in una zona anonima a metà strada tra Idresia e
Alyanopoli,
fermo. Incuriosita, Celia cliccò sul puntino e immediatamente comparve
davanti
a lei una finestra che descriveva la zona circostante.
Rimase stupita,
vide l’immagine
di un laghetto e accanto una scheda minuziosa e dettagliata nella quale
comparivano persino i riferimenti alle specie Pokémon che vi si potevano
trovare. Allietata da quella novella scoperta, riprese il passo con un
mezzo
sorriso in più.
Kalut
aveva finalmente chiuso gli occhi, Venipede riposava ancora quieto al
suo
fianco e qualche Fletchling cinguettava nella sua zona. Xatu apparve
accanto al
ragazzo addormentato con delle bacche tra le ali e un Growlithe al suo
seguito,
quest’ultimo aveva iniziato a seguirlo dopo averlo visto muoversi tra
le foglie
del suo albero preferito cogliendone i migliori frutti. Il Pokémon
Cagnolino fu
immediatamente catturato dalla presenza dell’umano a cui lo aveva
condotto il
pennuto e, come tipico della sua specie, si accovacciò appresso ad uno
dei
fianchi di Kalut, in primis per capire se questo fosse vivo captandone
il
calore e poi per condividere un po’ del suo calore con lui.
Con
un gemito il ragazzo dai capelli bianchi uscì dal perfetto equilibrio
del suo
sonno a causa del sopraggiungere di quell’essere accanto a lui.
“Shhh…”
lo chetò Xatu riconcedendogli la quiete e il sonno per mezzo dei suoi
poteri
psichici.
Il
Pokémon lo osservò per qualche istante riprendere una posizione comoda
e
tornare all’immobilità.
“Sciocco
come un umano…” commentò poi tra sé e sé. “Ha un potere enorme e non
se rende
neanche conto.”
|
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Capitolo 21 *** Capitolo 20 - Impazienza ***
Capitolo
20 –
Impazienza
Xavier si
trovava in un limbo tra
il sonno e la delicata veglia. Non riceveva stimoli e non avvertiva
quasi la
sua forma materiale, solo un caldo raggio di sole che lo teneva
attaccato al
suolo fresco sembrava connetterlo alla realtà effettiva. Silenzio.
Pace.
Tranquillità. I suoi Pokémon assieme a quelli della Capopalestra
riposavano
pure loro sull’erba soffice. Così anche Cassandra che sdraiata poco
distante da
lui teneva le mani incrociate dietro la nuca. E anche lei taceva. Ah
no…
‒ Raccontano
un mucchio di
storie… ‒ disse ad un certo punto la ragazza. ‒ Su Hoenn, dico.
Il castano
rispose quasi
controvoglia: ‒ Eh, che significa?
‒ Lo sai, no?
Il cataclisma
scampato a seguito delle lotte tra Groudon e Kyogre, il mostro del
Parco Lotta…
raccontano un sacco di storie su quella regione…
“E perché ne
stiamo parlando?” si
chiese mentalmente Xavier, ma la sua vera frase fu: ‒ Sì, è parecchio
lontana
da qui, ma ho sentito qualcosa, secondo me sarebbe strano viverci.
‒ Dipende da
che cosa intendi per
“strano” ‒ fece Cassandra.
‒ Mah,
generalmente qualcosa di
positivo, tipo che sarebbe figo viverci ‒ Il ragazzo corresse il tiro.
‒ Beh,
dei titani che si combattono in mezzo al mare evocando l’apocalisse
sicuramente
la rendono una regione interessante.
Cassandra
sorrise appena. ‒
Dicono che ci siano degli Allenatori molto bravi, in perfetta sintonia
con i
Pokémon… hai mai sentito parlare dei Pokédex Holder?
‒ Non sono i
ragazzi che… vanno
in giro a documentare quell’agenda digitale?
‒ Stai
scherzando? Sono
Allenatori a tutti gli effetti, mi hanno detto che ognuno di loro ha
una forza
nascosta che farebbe invidia al miglior Capopalestra del mondo!
‒ Me la
facevano molto più noiosa
come roba, fare il Dexholder…
‒ Tu sei
informato e disinformato
insieme ‒ lo sfotté quella.
‒ Beh, io non
sono un
Dexholder-fag ‒ ribatté lui.
‒ Simpatico,
eppure scommetto che
un giorno mi confronterò con uno di loro… magari è vero, si può
imparare molto
da una sconfitta ‒ fece entusiasta.
‒ Ti dai già
per vinta? ‒ chiese
Xavier.
‒ Lo sai che
non sono il tipo, ma
penso che con un avversario troppo potente, se in gioco non c’è nulla
di
importante, sia preferibile impegnarsi in una lotta per imparare il
più
possibile e non tanto per inseguire una vittoria irraggiungibile… ‒
spiegò lei.
Xavier tacque
per un momento. Poi
alzò il busto mettendosi seduto.
‒ Puoi
ripetere, scusa? ‒ fece
con tono lievemente più greve.
Cassandra non
capì la retorica.
‒ Tu sostieni
che ci sono lotte
in cui non vale la pena impegnarsi? ‒ volle mettere in chiaro il
maschio di
Unima.
‒ Ehm, sì?
‒ Cassandra,
che cosa cazzo stai
dicendo? ‒ chiese semplicemente. ‒ Porca miseria, tu sei probabilmente
uno dei
più forti avversari che io abbia mai affrontato e snobbi in questa
maniera una
lotta in cui potresti potenzialmente fare a gara coi migliori… non
pensavo
fosse da te, tu sei il personaggio che nei libri per ragazzini non si
arrende
mai ‒ sciolse.
‒ Non capisco…
‒ fece lei che in
realtà stava capendo.
‒ È una
questione di principio, o
prendi sul serio una cosa o non lo fai… e tu finora mi hai dato
dimostrazione
che non prendi sul serio le lotte Pokémon ‒ spiegò alla fine Xavier. ‒
E non
sarebbe un problema se tu non fossi il Capopalestra della maggiore
città di
Sidera, però a quanto pare è proprio così.
‒ Secondo te
io non prendo sul
serio le lotte Pokémon?! ‒ esclamò un bel po’ contrariata lei.
‒ Guarda che
ho visto come mi hai
lasciato vincere in palestra, un Volcarona e un Heatran di quella
portata non
vanno al tappeto così facilmente, li hai ritirati prima che fossero
davvero
stanchi ‒ tagliò netto Xavier.
Glaciale.
L’aria si fece
glaciale. Cassandra non aprì bocca, ma sotto le lenti dei suoi Ray-Ban
i sui
occhi avrebbero parlato da soli. Xavier rimase con lo sguardo fisso
nel vuoto
senza neanche muovere un muscolo.
‒ Non te lo
aspettavi, eh? ‒
domandò lui.
Cassandra non
parlò, si limitò
rivolgergli lo sguardo.
‒ Del resto
non mi sono neanche
arrabbiato, a me sta bene così, mi hai fatto risparmiare tempo anche
se il mio
orgoglio di Allenatore non è proprio al massimo. L’unica cosa da fare
ora è
capire perché mi hai
lasciato la
vittoria ‒ chiarì.
‒ Xavier…
‒ Dimmi.
‒ Niente.
‒ Tranquilla ‒
proferì. ‒ Posso
aspettare.
E il ragazzo
si voltò su un
fianco. Esule da quella situazione di pathos che si era generata tra i
due
presenti, ritiratosi in solitudine nella roccaforte della mente a
riflettere e
a pensare in compagnia del solo se stesso. Cassandra fu ovviamente
lasciata
confinata fuori. Aveva per un solo singolo istante, che si era
rivelato
bastevole a farle pronunciare il nome del ragazzo, di rivelarsi. Aveva
tenuto
nascoste delle cose a tutti: a Xavier, ai venticinque, a tutti gli
altri. Ma
non poteva che trattenersi. O meglio, non ne era sicura. Sentiva
soltanto che
era stata spiazzata da quell’inaspettata esplosione di maturità e
intuizione
che da quel ragazzo che giaceva a pochi metri era scaturita.
“Gli
uomini
giudicano un’eccezione, una scossa al quotidiano tenore, il dormire
di
giorno e lo stare svegli di notte. Eppure ci sono persone che
darebbero oro per
avere a disposizione tale caratteristica. Poiché andrebbe d’accordo
col loro
lavoro e permetterebbe di condurre una vita relativamente normale.
Ad esempio,
Juan e Mirta della zona di transito, loro vorrebbero dormire di
giorno…”
pensava Xatu.
Il
volatile
rifletteva, mentre attorno a lui Venipede non dava segni di
esistenza
reale, Growlithe, ormai in sintonia con il ragazzo dai capelli
bianchi,
sonnecchiava e Kalut invece dormiva di gran gusto. E in quei
momenti, un essere
semi eterno stanco persino del sonno, era solito pensare. Far
rimbalzare
simpatici pensieri e azzardate ipotesi all’interno della sua
rotondeggiante
scatola cranica per il puro gusto di farlo. Senza infastidire
nessuno e senza
neanche sforzarsi fisicamente.
“La
loro
normalità è relativa, la loro semplicità è relativa. Gli esseri
umani sono
esseri tanto banali e scontati quanto complessi e affascinanti…
eppure questo
Kalut, lui è un umano come non ne ho mai visti. Io che sono l’ultimo
della mia
famiglia e ho conosciuto così tante persone diverse… riesco ancora a
stupirmi
per la conoscenza di un essere umano? È così strano, magari lui è
stato
affidato a me proprio perché avendo esperienza con quasi ogni tipo
di uomo
sarei riuscito ad occuparmi di un esemplare tanto singolare.”
‒
Scusami, Xatu… ‒ gemette Kalut dimostrandosi mezzo sveglio ad un
certo punto.
Il
Pokémon
Magico gli prestò attenzione.
‒
Riesci a stare zitto…? ‒ chiese il ragazzo non senza lasciarlo
spiazzato.
Celia era
sola, sola come era
spesso stata. Camminava e molto semplicemente guardava il paesaggio
che aveva
attorno. E pensava, pensava a cosa aveva già fatto e cosa ancora
dovesse fare, il
suo viaggio stava andando bene, tutto sommato.
Per un momento
le tornò in mente
Luna, la Capopalestra inquietante di Costa Mirach. Le tornarono in
mente le sue
frasi e le sue grida.
“Attenta
alle
nubi” aveva
detto.
Non che per lei significasse qualcosa in particolare. Solamente era
inquietante e basta. Nubi…
E poi un altro
pensiero distante
fece saltare il suo cervello di palo in frasca. Le venne in mente ciò
che aveva
promesso a suo fratello/non-fratello Xavier, ossia che prima o poi
sarebbero
andati insieme a Holon. Holon, ricordò.
Da giovani
avevano parlato molto
di quella terra, di quella regione. Per lei aveva sempre rappresentato
una
sorta di sogno, un luogo lontano in cui andavano solo i migliori
Allenatori e
nella quale tutto sembrava una gigantesca avventura. Holon era una
lontana
regione, piccola nelle dimensioni, grande nell’animo. Un’isola
sperduta nel
mare in cui il clima perfetto e il territorio vario e camaleontico
avevano
permesso lo sviluppo di una Lega che contava le sue classiche otto
palestre e
aveva la sua sede principale sulla vetta di un monte. Holon era
ricordata nei
libri di storia per essere una delle prime terre in cui Mew aveva
fatto la sua
comparsa e il culto del leggendario Pokémon era stato tramandato per
generazioni fino a creare il mito di una regione sacra, una sorta di
santuario
in cui l’equilibrio era dato dalla coesistenza di Pokémon di
straordinario
potere e umani dalla altrettanto straordinaria abilità. Holon,
nell’era moderna
era poi stata resa un qualcosa che rispettasse il mito e aveva
guadagnato un
nome più sontuoso. Tutti i Capipalestra, i Superquattro, in generale i
federali
che vi lavoravano erano abilissimi e temibili persino dai Maestri
Pokémon più
preparati, tanto che persino l’accesso alla prima palestra era
limitato a chi
aveva già guadagnato il titolo tanto ambito.
E lei sognava
Holon, quella terra
esotica e lontana che da bambina diceva sarebbe divenuta la sua casa.
Certo,
sicuramente non avrebbe disdegnato una villetta e un posto di lavoro
là, ma nel
frattempo era maturata così come i suoi obbiettivi. E il suo
obbiettivo erano
le lotte. Quindi sapeva che se avesse avuto la possibilità di andare a
Holon lo
avrebbe sicuramente fatto in primis per provare a vincerne le
medaglie. E
quello che aveva compreso il giorno precedente era che se una raffica
di
Pokémon selvatici nervosi era bastata a stremarla in un pomeriggio,
lei avrebbe
dovuto sicuramente allenarsi di più. Altrimenti Holon poteva rimanere
un sogno
lontano.
Prese in quel
momento
un’importante decisione, capì che avrebbe dovuto selezionare un suo
team,
prendere sei Pokémon e portarli sempre con sé allenandoli fino allo
stremo
delle forze. Sarebbe divenuta una professionista.
Altrimenti,
non aveva idea di che
cosa avrebbe potuto combinare della sua vita.
Cassandra
giaceva immobile e
fredda come un iceberg con i raggi del sole addosso che neanche
riuscivano a
scalfire minimamente il suo gelo. Non sapeva che cosa fare, ed era
questo il
suo unico problema. Era una ragazza abbastanza preparata e, sebbene
non molto
previdente, capace di tirarsi fuori dalle brutte situazioni, per tal
motivo
l’unica cosa che riusciva a metterla in difficoltà era l’aggressività
passiva.
Perché non sapeva mai come contrastarla, nessuno sa mai come fare.
‒ È stato
davvero così facile metterti
a disagio? ‒ chiese Xavier nella sua infinità magnanimità.
Si divertiva a
tenere le persone sulle
spine, in tensione, ma non era così sadico da non riconoscere il
limite imposto
dalla sua moralità.
Cassandra non
rispose subito,
mise il broncio: ‒ Non ho motivo di essere a disagio…
‒ Questo lo
sai soltanto tu.
Cassandra
trasse un lungo
respiro. ‒ Vuoi proprio sapere perché ti ho lasciato vincere? ‒ chiese
prendendo una posizione seduta e voltandosi verso il ragazzo.
Xavier pure
cambiò assetto per
poterla guardare meglio mentre veniva fissato da quegli occhi così
profondi. ‒
Beh, sarebbe interessante capirlo…
‒ Ok…
E Cassandra
gli stampò un bacio
sulle labbra che durò qualcosa come cinque secondi netti. Rimase
abbastanza
appiccicata a lui da convincerlo a ricambiare. Quasi ce ne fosse
bisogno.
Inizialmente,
la reazione di
Xavier fu tempestiva e contrastante allo stesso tempo: la parte più
razionale
di lui voleva scansare la donna, il suo emisfero destro al contrario
aveva
deviato quella forza di reazione sui fili d’erba facendogliene
strappare una
manata. Così una volta separatisi, i due si guardarono in malo modo,
lei con il
visino e gli occhi dolci, lui rincitrullito come mai prima. Cercò di
elaborare
nel tempo di percorrenza del suo sistema nervoso da parte di un
impulso
elettrico una nuova teoria sul come le coppie fossero obsolete per le
persone e
uccidessero il vero amore, ma non gli riuscì. Aveva troppa forza
d’animo e
troppa brama carnale in quel preciso istante e le due entità sarebbero
state
capaci di lottare e pareggiare anche giocando in squadra insieme.
‒ Io avrei già
una ragazza… ‒
mormorò in un momento di cedimento.
Kalut
aprì
lentamente gli occhi. Xatu lo guardava ancora con aria di curiosità
mentre
Growlithe e Venipede si limitavano a respirare.
“Buongiorno…”
lo
salutò il volatile.
Kalut
gemette
qualcosa come una risposta. Non aveva terminato il sonno, il suo
orologio biologico invertito rispetto a quello di un essere umano
normale lo
implorava di chiudere di nuovo gli occhi.
‒
Perché non mi lasci dormire in pace? ‒ domandò al suo Pokémon
accompagnatore.
E
immediatamente tornò tra le braccia di Morfeo.
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Capitolo 22 *** Capitolo 21 - Stimolo ***
Capitolo
21 –
Stimolo
‒ Quindi
aspetta, spiegami bene,
se tu avessi vinto io avrei rifiutato di continuare il viaggio con te? ‒
chiese
Xavier un po’ infastidito dalla situazione. ‒ Non hai pensato a quanto
mi
avrebbe dato più fastidio il sentirmi trattato come un bambino o un
Allenatore
alle prime armi?
Cassandra
taceva, testa bassa e
occhi socchiusi, non proferiva parola.
Xavier la fissò
un lungo attimo.
Si chiese perché le stesse dando contro, perché stesse facendo la
persona di
merda con lei. Capì che non aveva apprezzato il suo gesto, ma ci era
passato
subito sopra, mentre ciò che più lo aveva infastidito era il fatto che
lui
fosse già impegnato. Stava reagendo non benissimo ma stava esponendo le
ragioni
sbagliate. E nel momento in cui un ingranaggio del suo cervello gli fece
ricordare che la Capopalestra non sapeva nulla a proposito della sua
relazione
con la lontana Julie, un sorriso nacque sul suo volto e la sua finta
rabbia
riuscì a sbollire.
‒ Scusami… ‒
mormorò lei a
bassissima voce.
‒ Ehi… ‒ il
ragazzo le mise una
mano sulla guancia. Non aprì bocca per qualche istante. ‒ No, scusa tu,
me la
sono presa troppo ‒ disse poi cercando i suoi occhi.
Cassandra ancora
una volta non
parlò.
Celia era
entrata nel Centro
Pokémon. Mezzo vuoto come sempre: qualche ragazzino annoiato dall’attesa
seduto
sui divanetti e due o tre infermiere che si raccontavano pettegolezzi
inutili
per ammazzare il tempo. Cercò con gli occhi e… eccolo, il telefono del
centro.
Si sentiva nel secolo precedente ad inserire la monetina per poter
chiamare, ma
sia lei che Xavier avevano fatto la scelta di non portare dietro i
cellulari
per quel viaggio in modo da concentrarsi più sul dispositivo PokéNet e
capire
tutte le sue potenzialità. Celia attese qualche istante in compagnia
dello
squillo cadenzato nella cornetta. Quindi giunse la risposta.
‒ Allevamento
Pokémon di
Delfisia, come possiamo aiutarla?
‒ Julie, sei tu?
Sono Celia ‒
fece lei.
‒ Ehi, Celia,
ciao… ‒ mormorò la
ragazza dall’altra parte. ‒ come va?
Stavolta decise
di dedicare più
tempo ai convenevoli.
‒ Tutto bene, mi
trovo nel
percorso tra Porto Acquario e Idresia, fa un caldo terribile…
‒ Immagino ‒
rise ‒ da noi si sta
bene, c’è un venticello gradevole.
‒ Il lavoro? ‒
chiese la bionda.
‒ Ah. I Wurmple
si sono evoluti, l’influenza
non gira più, abbiamo già seminato le bacche… non c’è quasi nulla da
fare… ‒
fece lei con voce serena.
‒ Beh, ma allora
potresti passare
a far visita a Xavier, no?
‒ Mh… mi
piacerebbe ‒ ammise. ‒
Non lo so, si vedrà… ‒ e rise di nuovo.
‒ Comunque… ho
bisogno di un
altro grosso favore... ‒ cominciò la ragazza dagli occhi lilla.
‒ Dimmi tutto.
‒ Ecco… ‒ e
Celia prese in mano
il foglietto su cui poco prima si era annotata i nomi di alcuni Pokémon.
Tre,
per la precisione. ‒ Dovresti mandarmi Amber, Sybil e Samurott ‒ disse
soltanto.
‒ Va bene, non
c’è problema ‒
acconsentì l’Allevatrice.
‒ E… un’altra
cosa… ‒ proseguì Celia
con voce greve.
‒ Certo,
ascolto.
‒ Vorrei
rilasciare tutti i miei altri
Pokémon ‒ pronunciò.
Julie tacque per
qualche istante.
‒ Potresti
prepararli alla
liberazione nella maniera più delicata possibile? ‒ chiese la bionda.
‒ Oh… va bene… ‒
rispose un po’
sconsolata Julie.
‒ Grazie mille,
mandali a questa
posizione.
Ancora una
piccola pausa.
‒ Va bene, io li
invio… ci
sentiamo la prossima volta…
Riattaccò.
Celia rimase con
in mano la
cornetta per alcuni secondi, finché non decise di mollarla e rimetterla
al
proprio posto. Si sedette su un divanetto si guardò le spalle. Non c’era
alcun
ragazzo con strani vestiti a dormire con una rivista in faccia come la
volta
precedente. Fissò il dispositivo di trasferimento Pokémon finché su
questo
comparve la prima richiesta di trasferimento da accettare.
Immediatamente acconsentì
e così fece per tutte le altre. Si ritrovò con una Luna Ball e due Poké
Ball
per le mani. Tutte e tre emettevano uno strano calore, un calore ben
conosciuto
e allo stesso tempo nuovo. Le ricordavano casa.
Trasse un
profondo respiro e si
avviò verso l’uscita. Poco prima di fare il primo passo fuori ricordò
che aveva
bisogno di alcune provviste per la giornata e tornò indietro al bancone
del
reparto bar. Ne approfittò anche per riempire la tasca dei rimedi del
suo
zaino. Sapeva, anzi, era certa che ne avrebbe avuto bisogno. Uscita dal
Centro
fece uscire tutti la sua squadra.
“Un Reuniclus,
una Gabite, una
Skarmory, una Clefable, un Flareon e un Samurott” lesse mentalmente i
loro nomi
scorrendo lungo le loro sagome. Rapidi furono i convenevoli con i tre
membri
della squadra che erano appena stati riconvocati dopo tanto tempo.
“Ho scelto solo
voi perché siete
i più forti e i più promettenti, quelli più propensi al miglioramento…”
tossì,
si diede della stupida da sola e ricominciò parlando a voce alta. ‒ Ho
scelto
solo voi perché siete i più forti e i più promettenti, quelli più
propensi al
miglioramento. D’ora in poi sarete la mia squadra, la squadra che mi
porterà a
Holon, ognuno di voi… ‒ si corresse. ‒ …di noi dovrà dare il massimo e
allenarsi fino allo stremo delle forze.
I Pokémon
annuirono, la capacità
di comunicazione tra gli umani e quegli esseri simil-animali aveva
sempre
stupito chiunque, ma mai nessuno si era chiesto quale fosse il segreto
di tale
taciuta intesa.
‒ Chi di voi
vuole fare un po’ di
riscaldamento ‒ chiese poi abbozzando il primo sorriso della giornata.
Xavier
appallottolò quello che
era rimasto del cartoccio del panino, lo ficcò nel sacchetto che avevano
relegato a cestino dei rifiuti in occasione del pranzo e si alzò in
piedi.
‒ Vogliamo
partire? ‒ domandò poi
a Cassandra.
‒ Sì, penso sia
il caso.
Avevano passato
la mattinata
sulla riva del lago, entrambi erano riposati e freschi come appena
svegli,
forse fare qualche chilometro di strada avrebbe giovato sia all’uno che
all’altro.
Tenuto in considerazione anche il fatto che il loro obbiettivo era
ancora
piuttosto lontano e nessuno dei due aveva voglia di passare un’altra
notte in
un sacco a pelo.
I due ripresero
il passo in
maniera cadenzata e silenziosa. Senza spiccicare parola. Del resto
l’imbarazzo
generale che si era creato tra i due dopo il bacio di Cassandra non se
ne
sarebbe andato via facilmente, a meno che uno dei due non avesse fatto
finta di
niente per tentare un passettino avanti nei confronti dell’altro.
‒ Ti sei
ripresa? ‒ domandò
Xavier.
‒ Sì, sto bene ‒
rispose
Cassandra.
Il castano aveva
imparato che
nelle situazioni in cui non si sa bene cosa stia succedendo alle donne,
o
bisogna ignorare quest’ultime facendole sentire ancora più sole, o
bisogna mostrarsi
anche solo apparentemente affettuosi. E lui non aveva scelta, era
l’unico
essere umano che gli faceva compagnia in quel momento.
‒ Senti,
Cassandra, vorrei
chiederti una cosa… ‒ cominciò.
La ragazza lo
guardò negli occhi.
‒ Davvero hai
finto di perdere
per venire con me? ‒ chiese, facendo la stessa domanda con cui l’aveva
“accusata”
prima, ma con un tono soffice e delicato e per nulla infastidito.
La Capopalestra
inghiottì e
guardando a terra rispose affermativamente con una vocina flebile
flebile.
Xavier sorrise,
stando bene
attento a far notare la sua espressione serena alla ragazza in modo da
comunicarle indirettamente la sua gratitudine per quell’attrazione forse
ricambiata. Si maledisse un attimo dopo, aveva visto troppi filmacci
romantici
a casa e al cinema con Julie. Julie. Si morse la lingua.
‒ Forza, Sybil
fammi vedere che
cosa ti ricordi, Magibrillio!
‒
ordinò la bionda.
La sua Clefable
sfogò la sua
energia sotto forma di un fascio di luce accecante che investì
immediatamente
entrambi i suoi avversari.
Come era solita
allenarsi quando
era da sola e quando i Pokémon selvatici locali erano troppo deboli per
lei,
aveva messo due dei suoi compagni che avrebbero agito da soli contro un
altro che
invece sarebbe stato guidato da lei. In questo caso gli avversari erano
Reuniclus e Skarmory, rispettivamente Gel e Karma. I due Pokémon, non
ancora
sconfitti reagirono con Introforza
e Alacciaio.
‒ Minimizzato! ‒ Clefable ridusse la sua dimensione notevolmente
consentendosi di evitare entrambe le mosse avversarie. Quindi tornò alla
normalità.
‒ Fulmine su Skarmory e Palla
Ombra su Reuniclus!
Le due mosse,
scagliate quasi
simultaneamente dal Pokémon Fata,
si
abbatterono con violenza sugli avversari causando loro ingenti danni ma
non
mandandoli al tappeto.
‒ Ottimo lavoro,
Ondasana e poi torna dentro,
vedo che
non sei ancora in forma, bella mia ‒ ammiccò Celia.
Sybil curò Karma
e Gel, quindi
poté rientrare nella Luna Ball.
‒ Amber, ora è
il tuo turno ‒
chiamò all’appello il suo Flareon. Il Pokémon Fiamma entrò in campo
fiero e
avvolto nella sua calda pelliccia fulva.
‒ Rogodenti su Karma!
Il canide partì
all’assalto verso
il pennuto e lo addentò con le sue zanne infuocate. Skarmory subì
parecchio il
colpo e scese a terra per riprendersi. Nel frattempo Amber era già
partito con
la seconda avanzata nei confronti di Reuniclus su ordine della sua
Allenatrice.
Gel aveva tentato di scagliare un attacco Psiconda,
ma quest’ultimo venne evitato da Flareon che subito si gettò in un
violentissimo Fuococarica.
Mentre i suoi
Pokémon
combattevano, Celia tornò con la mente al giorno in cui aveva tenuto tra
le
mani per la prima volta il suo Amber. Si trovava a Kanto assieme a
Xavier e
aveva scambiato con un ragazzino che le aveva proposto di uscire la sua
Ambra
Antica per quell’essere tanto tenero e soffice. Era un Eevee quando lo
conobbe
per la prima volta, e conoscendo bene quella specie, aveva subito deciso
che
non avrebbe forzato la sua evoluzione. Per gli Eevee, evolversi è come
oltrepassare un momento della vita dopo il quale non si può più tornare
indietro, per questo motivo il suo Amber, chiamato così da quel giorno,
aveva
deciso di evolversi solo qualche mese dopo, pronto finalmente a compiere
il
grande passo. Aveva proposto lui stesso la pietra, Celia ricordava bene
quel
giorno. Amber che col suo musetto picchiettava sulla sua borsa proprio
in
corrispondenza della tasca che conteneva quel minerale tanto
particolare. Era rimasta
soddisfatta del suo gesto, Flareon si era da subito rivelato un compagno
affidabile e potentissimo.
‒ Basta così,
via che ripartiamo!
‒ esclamò Celia interrompendo l’allenamento.
I suoi Pokémon
si erano stancati
un pochino, ma nessuno di loro aveva bisogno di un Centro Pokémon o
altro,
farli giacere qualche ora nella Ball sarebbe stato sufficiente. La
bionda diede
un’occhiata alla mappa sul suo Pokénet, la strada rimanente per
raggiungere
Porto Acquario non era lunghissima ma neanche era il tratto della
passeggiata
tra casa sua e il negozio di alimentari della via adiacente. Si fece
coraggio.
‒
Forse è arrivato il momento di andarsene ‒ mormorò Kalut.
“Ne
sei così convinto?”
‒
Anche se vorrei rimanere un altro po’ a dormire… ‒ proseguì.
“Decidi
tu.”
‒
È vero che ho sentito il tuo pensiero nel sonno?
“Sì…
è vero.”
‒
Xatu, ho una brutta sensazione ‒ gemette il ragazzo.
“Che
cosa senti?”
‒
Non lo so, mi sembra di avere un vuoto in pancia, un senso di disagio…
“Questo
tuo sentore ti suggerisce di muoverti?”
‒
Di lasciare questo luogo.
“E
tu vuoi ascoltarlo?”
‒
Penso di sì…
“Perché
vuoi ascoltarlo?”
‒
Perché…? Che domanda è? Ho preso una decisione…
“Perché
vuoi ascoltarlo?”
Kalut
tacque per dei lunghi secondi.
‒
Perché una sensazione irrazionale è l’unica cosa che non può essere
contrastata
dalla ragione…? ‒ tentò il ragazzo dai capelli bianchi.
“Bella
risposta, mi piace.”
‒
Ah, ecco…
“Muoviamoci,
sveglia Growlithe e Venipede.”
Il
ragazzo, il pennuto, l’invertebrato e il canide si mossero tutti
assieme, Kalut
si avvolse il lenzuolo a mo’ di mantello attorno al corpo. Lo faceva
sentire
più sicuro.
“Che
direzione vogliamo prendere, capitano?”
‒
Verso qua.
Si
incamminarono tutti verso nord, Kalut aveva ancora in testa la mappa
impressa
come una fotografia nel suo cervello. Sentiva che qualcosa stava per
accadere,
ma non aveva idea di cosa, quindi per sicurezza prendeva precauzioni.
Erano appena
passate le sei del pomeriggio, essendo il quattro settembre ancora il
sole
illuminava l’atmosfera anche se si accingeva appena a toccare
l’orizzonte. Kalut
non si sentiva sicuro al massimo nel muoversi a quell’ora, preferiva
di gran
lunga il buio, ma decise che non era il momento di sindacare sui gusti
personali.
‒
Xatu, dici che riuscirò a capire quale sia il mio obbiettivo almeno
stanotte? ‒
chiese l’umano.
“Non
so, Kalut” rispose il volatile.
‒
Che cosa credi?
Xatu
lo guardò con occhio curioso.
‒
Secondo me sei troppo abituato ad affidarti a quello che sai, hai
visto cos’è
successo ora? Io avevo una sensazione e l’ho seguita, senza affidarmi
alle mie
conoscenze ‒ spiegò il ragazzo. ‒ Che cosa credi? ‒ ripeté.
“Che
se ti impegni davvero potresti avvicinarti alla meta.”
‒
Non sei così incoraggiante... ‒ rise Kalut.
|
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Capitolo 23 *** Capitolo 22 - Delusione ***
Capitolo
22 –
Delusione
Scesa
la notte, il frinire delle cicale nell’aria dei boschi cominciava a
sovrastare
ogni altro rumore, così come il buio giungeva a vincere la sua tanto
difficoltosa lotta contro la luce. D’estate fa fatica a scendere,
l’oscurità.
‒
Quelle sono le luci di una città? ‒ chiese Kalut.
“Penso
di sì…” fu la risposta di Xatu.
Effettivamente
sull’orizzonte erano comparse come piccole evanescenti lanterne
giallognole.
Lampioni, molto probabilmente.
‒
Ci siamo quasi, allora…
Kalut
con al seguito i suoi compagni: Venipede, Growlithe e Xatu,
camminarono per
altri venti minuti circa prima di capire che cosa fosse il complesso
di fari
che aveva attratto la loro attenzione. Il ragazzo rimase stupito.
Davanti a lui
si era materializzato un gigantesco e imponente ponte. Illuminato
quanto
necessario, ospitava ben quattro corsie e dava accesso alla città di
Idresia
per il lato orientale. L’autostrada era vuota, non un mezzo di
trasporto
passava in quel momento. Kalut guardò comunque torvo Xatu. Non voleva
attraversare quelle zone, lo mettevano a disagio.
“Trovi
ci sia un’altra via?”
‒
Mh… no…
“E
allora ti conviene passare per di qua, no?”
Prima
che la costruzione si erigesse sopra il livello dell’acqua del fiume,
vi erano
due cabine, una per lato. Ovviamente Kalut si avvicinò per curiosare
in quella
più vicina. Un controllore addormentato sulla sedia con la tazza della
tisana
alle erbe ancora in mano. Il tipo era lievemente in sovrappeso e aveva
una
divisa simile a quella indossata da Mirta al varco di qualche
chilometro prima.
Kalut osservò bene facendo tesoro delle informazioni raccolte circa il
funzionamento di quello che le persone chiamavano “lavoro”.
‒
Xatu, dici che riesco ad passare anche a piedi?
“Ovviamente,
quale dovrebbe essere il problema?
‒
Non lo so…
I
compagni giunsero alla prima tratta di ponte. Camminavano sul lato
della
strada, su un marciapiede diviso dalla corsia da una linea disegnata a
terra e
rovinata poi dell’insistente passaggio e dal continuo sfregamento dei
pneumatici delle auto.
Ad
un certo punto, un lontano ronzio si appropinquò alle orecchie dei
viaggiatori,
Kalut lo riconobbe immediatamente e, mentre tutti i suoi Pokémon gli
dettero
minima importanza, lui tese immediatamente i muscoli. Riconobbe il
rumore, lo
aveva già sentito.
‒
Fermi… ‒ sussurrò.
Il
tutto appena prima che in una frazione di secondo il lieve rumore
aumentasse di
intensità fino a divenire il rombo del motore di una macchina che
sfrecciò
sulla corsia a pochi metri dal ragazzo. Kalut era rimasto immobile,
non aveva
voluto reagire nonostante, in seguito alla sua prima esperienza con
delle
automobili, non avesse propriamente un ricordo positivo di queste
ultime. Ma
forse ciò era stato per lui un incentivo, voleva vincere la sua paura.
E non
reagendo e ignorandola bellamente, ce l’avrebbe fatta. Almeno secondo
lui.
‒
Tutto ok, andiamo… ‒ il ragazzo tornò a muoversi.
Xavier e
Cassandra avevano
camminato un bel po’, erano finalmente giunti a Alyanopoli e il viaggio
poteva
dirsi terminato. La città li aveva accolti con decenza, con i suoi
edifici non
di pregiatissima fattura ma di impatto visivo omogeneo: i mattoni scuri,
l’asfalto consumato, i vicoletti contorti e i bidoni dell’immondizia.
Poche
persone per le strade, giusto qualche ragazzetto con i tocchi d’erba
nelle
mutande che attendeva che il sole calasse.
Xavier, che si
sentiva ben
distaccato da quella tipologia di persone, nella sua mente non recensì
con
grande entusiasmo la città, ma sapeva che quella sarebbe stata solo una
meta
temporanea, avrebbe lasciato presto quello schifo.
‒ Un posto in
cui dormire? ‒
domandò retoricamente la ragazza.
Effettivamente
il giorno stava
volgendo proprio al termine.
‒ Troviamolo ‒
approvò il
castano.
I due decisero
dopo
un’approfondita analisi durata più o meno venti secondi di fermarsi
ancora una
volta in un centro Pokémon, Xavier perché era quasi senza soldi e
Cassandra
perché i Motel la facevano sentire una donna poco seria.
I due decisero
di adagiarsi
subito su una branda e quindi entrarono nelle camere senza farsi troppi
problemi di orario. Avevano preso una sola stanza, ma due letti
rigorosamente
separati.
‒ Cassandra ‒ la
convocò Xavier
dopo un lungo silenzio tra i due.
La ragazza, che
stava cercando di
mettere ordine nella sua borsa, alzò un attimo la testa dando attenzione
al
compagno di viaggio.
‒ Vorrei
riprovarci ‒ fece.
La ragazza
arrossì
immediatamente: ‒ Scusami…? ‒ mormorò.
‒ No, non
intendevo quello ‒ si
rincorse subito il ragazzo che riconobbe la reazione di lei.
‒ Oh.
‒ Ecco, volevo
dire… vorrei fare
un’altra lotta con te.
‒ Ah... ‒
Cassandra provò in
tutti i modi a sembrare neutra nel tono e nell’espressione, purtroppo la
cosa
gli riuscì poco.
‒ Che ne dici? ‒
sorrise il
castano con in faccia la convinzione di un bambino.
‒ Beh, certo,
quando vuoi…
In realtà non
era così semplice,
la ragazza non aveva idea di che cosa dovesse fare e non sapeva che cosa
scegliere tra le diverse alternative che la natura della sua missione
gli
poneva davanti.
‒ Domani
lotteremo, allora…
‒ Sì.
‒ Ah, comunque…
scusa per oggi,
io…
Xavier guardò
Cassandra,
Cassandra guardò Xavier. Fu inutile, si capirono abbastanza bene e
entrambi
tacquero.
L’odore di acqua
marina e
salsedine nell’aria e la faccia tosta della città turistica di sera
furono il
bacio di accoglienza per la bionda. Celia era davvero molto stanca,
Porto
Acquario le aveva aperto le sue porte e lei era felice di aver concluso
quella
tratta di strada che sembrava la più difficile di tutto il viaggio, o
che
almeno era divenuta tale. Doveva dormire, e forse era anche ora. Ma
prima
decise di fare una cosa.
La palestra,
secondo le mappe del
PokéNet si trovava poco lontano da lei, decise di passare a darle
un’occhiata.
Giusto per, non aveva intenzione di intraprendere una lotta quella sera,
non ne
aveva le forze.
Svoltò un paio
di angoli e giunse
nel punto che la sua mappa definiva come Palestra
di
Porto Acquario. Rimase a bocca aperta. Una gigantesca struttura di
vetro
si erigeva davanti a lei altezzosa e meravigliosa. Non era un
grattacielo,
aveva le dimensioni e il formato di una palestra classica. Solo, i
materiali
non erano proprio quelli. In più, poco dietro quella monumentale
palestra, si
scorgevano la spiaggia e il mare che, calmissimi, davano a tutto
un’atmosfera
di relax totale. Era settembre, ma sembravano i primi di luglio.
La bionda provò
a dare uno
sguardo all’interno, le strutture erano molto particolari, la palestra
aveva il
piano terra soltanto ed era praticamente un monolocale, più che una
palestra
sembrava un arena. Si era eccitata, non vedeva l’ora di affrontare la
Capopalestra locale là dentro. Prese e si avviò verso il Centro Pokémon,
doveva
dormire, il giorno dopo si sarebbe svegliata presto per tornare in quel
luogo e
fare quello che aveva fatto in tutte le altre sedi di palestre della
regione:
uscirne con la medaglia in mano.
Passarono
un bel po’ di macchine, durante i minuti che Kalut impiegò a
percorrere il
ponte. Non tantissime, ma comunque un numero non indifferente. Ormai
il ragazzo
neanche si girava più, neanche sentiva più il bisogno di reagire.
Aveva
superato la cosa.
I
viaggiatori erano entrati a Idresia, Kalut non aveva però guardato la
città
quanto più le persone. Quella sera le vie erano abbastanza trafficate,
forse
sarebbe stato ottimale muoversi senza un lenzuolo avvolto attorno al
corpo,
aveva già attirato troppi sguardi indiscreti.
O
almeno così diceva Xatu.
Kalut
non era d’accordo, a lui piaceva quel lenzuolo, ma alla settima
persona che gli
scoppiava a ridere in faccia, decise di dare retta al pennuto e deviò
in un
vicolo dove si tolse il mantello e lo gettò in un cassone
dell’immondizia.
Era
diventato un ragazzo normale, con dei pantaloncini e una maglia. Stop.
Riprese
la sua camminata. Si aggirò per il centro per qualche quarto d’ora
senza meta e
senza scopo finché, passando accanto alla porta aperta di un bar, udì
per caso
delle parole dalla tv accesa.
“…uno
strano fenomeno che ha coinvolto la fauna locale che sembra essersi
temporaneamente spostata verso nord…”
Prontamente
il ragazzo afferrò l’istante, si pose accanto alla porta in modo che
lui
potesse sentire la televisione, ma nessuno potesse vederlo. Purtroppo,
il suo
piano non andò in porto, tra il chiacchiericcio generale del locale e
i rumori
di bicchieri, tazzine, piattini e sedie, si rese conto che il
pezzettino di
trasmissione era stato un eccezione.
Non
si diede per vinto, decise di andare a fondo alla questione, aveva già
un
input.
‒
Dov’è che le persone si informano sugli avvenimenti del mondo? ‒
chiese
innocente a Xatu.
“Giornali?”
‒
Mh, dove posso trovarne…?
Xatu
rise “Kalut, i giornali si comprano, ma tu sei senza un soldo… è
divertentissimo guardarti agire senza uno stralcio di speranza…” era
stato
cattivo.
‒
Che cosa intendi, scusa?
“Intendo
che per studiare degli esseri umani, devi prima essere simile a loro…
non puoi
fare il detective di qualcosa che neanche sai cos’è in una grande
città senza
amalgamarti alla città” rispose il volatile.
‒
Che cosa intendi per amalgamarmi?
“Intendo
che dovresti avere un nome, essere un uno dentro un agglomerato di
cittadini.”
‒
Sembra semplice detto da te…
“E
lo è, fidati.”
‒
Dici che dovrei essere come loro?
“Dico
che dovresti essere come loro...” acconsentì Xatu. “O almeno provaci…
non
cammini su queste strade se non sei un essere umano libero…”
‒
Oh. Ok.
“La
cosa non ti aggrada?
‒
La verità?
“Sì.”
‒
No, non particolarmente.
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Capitolo 24 *** Capitolo 23 - Umiliazione ***
Capitolo
23 –
Umiliazione
“Senza
tanti fronzoli, sì, funziona così. Tu sei un cittadino, quindi paghi
la tua
città mentre vieni pagato dalla tua città. Gli esseri umani si
complicano
sempre la vita con i loro soldi…”
‒
Guadagnare soldi. Sembra difficile.
“E
lo è… ma pensaci, il movimento dei soldi assicura una sopravvivenza
alle
persone.”
‒
Un equilibrio che si basa sul movimento? Mi sembra qualcosa di così…
stupido…
Kalut
e Xatu discutevano dei massimi sistemi, uno seduto su una panchina e
l’altro
appollaiato sul lampione rotto lì vicino, erano in un parco, un parco
di
periferia in cui crescevano dei bellissimi fiori, dei bellissimi fiori
a forma
di siringhe usate.
“Un
equilibrio che si basa sul movimento è qualcosa di incredibilmente
stabile,
invece… pensa alla società degli umani come ad una trottola. Se essa
si
trovasse con la punta a contatto col suolo, ma immobile, cadrebbe
all’istante o
al massimo al primo soffio; contrariamente, una trottola in movimento
non solo
si regge sulla punta, ma resiste anche ai colpi che vengono
dall’esterno.”
‒
Non capisco però, per quale motivo una società dovrebbe reggersi su un
punto
solo? Non si potrebbe prendere la trottola a girarla al contrario? ‒
chiese il
curioso Kalut.
“Ma
infatti è uno dei problemi degli esseri umani, per il resto, squadra
che sembra
vincere non si cambia, e una società che sembra funzionare non viene
modificata. Né in meglio né in peggio.”
‒
Xatu, un’ultima domanda.
“Certo.”
‒
Qual è questo punto su cui si regge l’intera società degli esseri
umani.
“Ah,
interessante.”
‒
Mh?
“Beh,
difficile dirlo, per quello che ho potuto vedere, ogni società ne ha
uno
diverso. Alcune volte quel punto è un ideale, altre un interesse
comune, altre
ancora un nome, altre ancora un essere umano stesso è quel punto, vivo
o morto,
altre volte ancora è una certa cultura e altre ancora un sentimento…”
‒
E quale funziona meglio?
“Quale
funziona meglio…” rise Xatu. “…dipende… se per funzionare intendi far
sopravvivere quella società, per ora nessuno.”
‒
Nessuno?
“Nessuno,
non ho mai visto popolazioni scomparse a causa di guerre, attacchi di
altri
popoli o comunque fattori esterni ad esse. Ogni civiltà che ho visto
decadere
si è autodistrutta, da ciò ne deriva che l’umano stesso non abbia
ancora
trovato la formula di una giusta società, magari un giorno potrà
riuscirci, ma
per ora sembra proprio di no…”
Kalut
aveva lo sguardo perso nel vuoto, quasi spento.
‒
Come siamo arrivati a parlare di questa cosa qua?
“Ah,
boh, parlavamo di soldi” rise il Pokémon Magico.
I
due, Kalut e Xatu, si levarono dalle loro posizioni di riposo. Il
volatile non
aveva bisogno di sonno, il ragazzo invece, secondo il suo orologio
biologico,
era perfettamente in piena “fase di lavoro”, entrambi si mossero.
‒
Come mi procuro dei soldi, se devo far finta di essere un cittadino
devo almeno
fare la mia parte… ‒ chiese il bianco.
Xatu
fece spallucce.
‒
Ho un’idea.
Il
volatile volle seguirlo e capire quale fosse tale trovata. Kalut si
incamminò a
caso in mezzo alle vie, prese strade senza criterio e logica e imboccò
vie solo
perché il suo istinto gli diceva così. Finché non trovò il luogo che
cercava.
Era
arrivato davanti ad un piccolo locale, una specie di bar la cui
definizione
poteva essere presa e masticata, tanto era elastica. Il locale era
pieno di
gente, fuori e dentro, e una musica ripetitiva e parecchio aspra
faceva vibrare
l’aria di tutta la via rimbombando insistente.
‒
Com’è che si chiamavano? Portafogli?
“Esatto.”
Kalut
entrò nel bar. Si mosse quasi invisibile tra le persone, un ragazzo
della sua
stazza in mezzo a tanta gente eccentrica, brilla e distratta non
poteva che
essere ignorato. Aveva qualche idea in mente, voleva che riuscisse.
Kalut si
aggirò senza meta nel locale per un po’, quindi, fatto il sopralluogo,
decise
di agire.
Xatu
stava aspettando fuori dal locale da pochi minuti, nascosto dietro
l’angolo con
al suo fianco Growlithe e Venipede, quando vide Kalut ricomparire
davanti a lui
con in mano una banconota da duemila Pokédollari. Il volatile non
disse nulla riguardo
al gesto del ragazzo, solamente alzò il becco e sussurrò
telepaticamente: “come
hai fatto?”
‒
Portano tutti dei pantaloncini attillati, mi è bastato trovarne uno
abbastanza
ubriaco, solo e seduto. Ho fatto cadere il portafoglio vicino a lui,
mi interessavano
solo questi ‒ spiegò con semplicità Kalut.
“Mh”
Xatu non aggiunse altro. “Quindi che cosa intendi fare con questi
soldi?”
‒
Vedrai.
Il
ragazzo si mosse, i suoi Pokémon lo seguirono. Mentre camminavano in
mezzo alla
strada, a Xatu venne in mente una cosa.
“Kalut,
sei scalzo?”
‒
Oh, sì, me ne ero dimenticato ‒ fece il ragazzo.
“Non
sarà il caso che ti compri qualcosa da metterti?”
‒
Probabilmente hai ragione ‒ confermò.
“Il
mio è un consiglio comunque…”
‒
Apprezzo.
Kalut
e i suoi compagni giunsero dopo qualche isolato ad una tavola calda
aperta
notte e giorno. Il ragazzo entrò e i suoi Pokémon lo attesero fuori.
Mise
piede dentro quella bettola e un odore di frittura in olio riciclato
uccise il
suo olfatto per i due minuti seguenti, non era il massimo come primo
passo, ma
si fece coraggio. Il tipo che sedeva dietro il bancone lo squadrò a
fondo, e
Kalut pure squadrò quell’uomo dal grosso pancione la barba incolta e i
capelli
unticci. Il ragazzo dai capelli bianchi non fece una mossa brusca. Con
morbidezza in ogni sua azione si avvicinò alla cassa, indicò uno dei
panini che
erano in mostra sulla tavola di legno del bancone e chiese quanto
costasse.
L’uomo gli disse il prezzo e lui acquistò. Il panino fu servito
incartato e il
ragazzo si mise seduto ad uno dei tavoli a mangiarlo.
“Spiegami,
stai facendo tutto a caso?” disse la voce di Xatu nella sua testa.
“Sì,
certo, e ora come faccio a rispondergli?” pensò Kalut.
“Esattamente
così” confermò Xatu.
“Cosa?
Mi senti?”
“Sì,
la telepatia è complessa da imparare ma estremamente versatile, posso
dare
parola alle persone con cui sono in collegamento e con te è stato
estremamente
facile a dire il vero” spiegò il Pokémon.
“Oh.”
“Rispondi
alla mia domanda…”
“Ah,
eh, sì sto improvvisando in realtà, non ho idea di come funzioni
questa roba,
ma finché la gente non mi guarda strano continuo a fare la prima cosa
che mi
viene in mente…” si confessò Kalut.
“Cavolo…
hai la tattica di un lottatore di sumo che cerca di infilarsi il tutù
di una
ballerina” lo prese in giro il volatile.
“Che
cos’è il sumo?”
“Lascia
stare…” Xatu tacque un attimo. “…piuttosto com’è il panino?”
“Fa
cagare.”
“E
perché continui a mangiarlo?”
“…”
“Mh,
spiegami allora perché avresti fatto finta di dover mangiare?”
“E
chi finge?”
“Avevi
fame davvero?”
“Sì.”
“Pensavo
che la tua priorità fosse l’indagine.”
“E
lo è, ma i motivi per cui preferisco prima mangiare sono ben tre:
primo, a
pancia piena si ragiona meglio, secondo, hai detto che per capirci
qualcosa
devo essere come gli umani e mi sembra che gli umani pensino prima ai
loro
bisogni e poi a tutto il resto, terzo, penso che se perdo tempo alla
fine ti
romperai le scatole e mi darai qualche suggerimento.”
“Eh,
Kalut, io vivo su questa terra da parecchio tempo, non penso che mi
farai
perdere la pazienza così facilmente.”
“Xatu,
io davvero non so da dove cominciare, non ho indizi e sto cercando
qualcosa che
non so cosa sia…” si lamentò Kalut che dall’ironia della sua frase
aveva
ottenuto una mazzata grossa e violenta.
“Kalut,
ti faccio notare una cosa…” e il pennuto fece una pausa di enfasi.
“…appena una
settimana fa non eri capace di parlare, ora ti esprimi come una
persona normale
e conosci nuove parole secondo non so quale criterio, sto cercando di
capirlo
anche io, e inoltre ragioni anche in maniera più sottile e
intelligente della
media degli esseri umani. Ti evolvi a ritmo esponenziale, so che
arriverai a
capire che cosa sei stato mandato a fare su questa terra quanto
prima.”
“…”
“Mi
capisci?”
“Ti
capisco, ma capisci anche tu che la cosa mi infastidisce? Mi dà
profonda
frustrazione.”
“La
necessità aguzza l’ingegno, sbrigati a finire quel panino che qua ci
annoiamo”
chiuse il discorso Xatu.
Kalut
rimase con un palmo di naso, un panino schifoso in mano e
impossibilitato a comunicare
col suo Pokémon. Intanto, lui era appena fuori dalla tavola calda e
rifletteva,
come il novanta per cento del suo tempo. Rifletteva chiedendosi come
Kalut
potesse conoscere parole che mai aveva sentito dire e come avesse
potuto
acquisire abilità come l’aritmetica e la lettura che aveva dimostrato
rispettivamente pagando il tipo della bettola e leggendo il nome del
panino sul
menù. Il Pokémon poteva vedere il futuro, conosceva il motivo per cui
Kalut era
al mondo, ma dopo avergli visto fare certe cose aveva deciso di non
guadare più
ciò che sarebbe successo negli anni seguenti. Lo trovava un soggetto
troppo
interessante da veder crescere.
Nottata marcia,
Xavier aveva
dormito malissimo. Il ragazzo aprì gli occhi sentendo le palpebre
appiccicate
come con la colla e il volto completamente devastato. Si rotolò a fatica
giù
dal letto e raggiunse il bagno, si sciacquò la faccia e la bocca. Bevve
anche
un bel po’.
Tornò indietro.
I suoi occhi si
posarono sul corpo ancora addormentato di Cassandra sinuoso e immobile
sotto il
solo lenzuolo. Se non fosse rimasto schifato dal mondo a causa della
sensazione
di amaro lasciatagli in corpo dal risveglio veramente merdoso, il suo
alzabandiera mattutino sarebbe stato motivato. Eppure sapeva di non
dover avere
certi pensieri, almeno pensava che non sarebbe stato proprio
giustissimo.
Si vestì e uscì
dalla stanza,
doveva prendere un bel po’ d’aria. Subito il cambio di stanza si fece
sentire.
Il suo cervello ricevette una boccata d’ossigeno.
Uscì fuori dal
centro per assorbire
qualche fotone di luce solare. Si fermò con la schiena appoggiata alla
parete a
lato della porta di vetro del centro. Il suo sguardo fini a terra. E
ovviamente
nella generale sporcizia di quelle strade.
Alyanopoli era
proprio un cesso,
questo commento se lo erano risparmiato sia lui che Cassandra al loro
arrivo,
ma era sicuro che l’opinione era condivisa da entrambi. Decise di
muoversi,
aveva bisogno di sgranchire i muscoli e dato che non aveva soldi da
sprecare in
cavillismi quali la colazione, decise di trovare un modo di racimolare
qualche
nichelino.
Non era nel
migliore dei posti
per una roba del genere, ma voleva tentare, sicuro le opportunità non
sarebbero
mancate, la mattina non era praticamente ancora iniziata e la città
dormiva,
così come Cassandra. Ancora non erano scoccate le sei.
Giorno seguente. Celia era tornata quella
mattina presto
alla Palestra di Porto Acquario, la Capopalestra locale l’aveva accolta
in quel
meraviglioso edificio di vetro, trasparente e quasi etereo. Lei, Sirrah,
era
una mora silenziosa e dallo sguardo serio, aveva aperto personalmente le
porte all’Allenatrice
di Delfisia e l’aveva guidata al Campo Lotta senza dire una parola.
Celia
l’aveva squadrata per bene, portava un vestito lungo che cadeva sul suo
corpo
come una tunica. Sembrava una antica dea greca.
‒ Il primo
Pokémon da mandare in
campo dev’essere del Capopalestra ‒ sussurrò la ragazza dai capelli del
colore
della notte lanciando la prima Ball sul campo.
E un docilissimo
Blastoise
comparve nell’arena.
‒ Va bene, gioca
duro, vai
Samurott!
Il Pokémon
Crostaceo e il Pokémon
Dignità si scrutavano magnetici e affilati l’uno pronto a picchiare
l’altro con
decisione. Per ovvie ragioni la loro rivalità era particolarmente
elettrica.
‒ Megacorno! ‒ ordinò
Celia
dando il via alle danze.
‒ Difenditi con
Capocciata!
Il cranio
corazzato di Blastoise
e il corno osseo di Samurott cozzarono con violenza emettendo un suono
aspro e
stridulo. Entrambi ne uscirono doloranti, ma nessuno dei due prevalse.
‒ Cannonflash! ‒ esclamò Sirrah.
‒ Vendetta!
Troppo tardi per
la Capopalestra,
ormai il colpo era stato lanciato dal suo Blastoise, il fascio di luce
metallifera investì il Pokémon Dignità, che si rialzò subito in piedi e
colpì
senza pietà l’avversario con un fendente della sua lama-conchiglia.
Sicuramente
Blastoise aveva incassato più di lui, Celia era decisa a mantenere il
vantaggio.
‒ Ora vai con Nottesferza! ‒ fece la bionda.
‒ Protezione! ‒ Sirrah sapeva come difendersi.
Colpo parato.
‒ Lacerazione! ‒ di nuovo mossa di Samurott.
‒ Morso!
Stavolta le
sorti non erano a
vantaggio di Celia, le fauci del rettile si chiusero attorno alla
conchiglia di
Samurott infrangendola in mille pezzi senza troppi complimenti.
‒ …merda… ‒
commentò la ragazza.
‒ Finito di
scaldarti? ‒ chiese
quindi la Capopalestra con uno sguardo serissimo in volto.
La bionda non fu
proprio felice
di sentire tali parole. Probabilmente aveva pure sottovalutato la sua
avversaria. Autoingannarsi però è comodo, e si convinse che erano i
muscoli di
Samurott che ancora non erano perfettamente caldi.
|
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Capitolo 25 *** Capitolo 24 - Cambiamento ***
Capitolo
24 –
Cambiamento
La
situazione aveva un ago della
bilancia che sembrava in perfetto equilibrio tra Celia e Sirrah, la
sfidante e
la Capopalestra, ma in realtà la prima aveva capito che la
rappresentante di
Porto Acquario stava solamente giocando con il suo Samurott. Blastoise,
Pokémon
avversario, aveva dimostrato di poter tenere testa ai colpi nemici senza
tanti
problemi e di disporre di un’offensiva ben poco sottovalutabile.
‒ Megacorno! ‒ Una delle
conchiglie di Samurott era andata in frantumi, ma il corpo con il suo
corno
frontale non fu altrettanto facile da scartare. Blastoise incassò il
colpo.
‒ Idropompa! ‒ Fu la risposta di Sirrah.
E un violento
getto d’acqua
pressurizzata investì il mammifero acquatico dalla pelliccia blu di casa
Celia.
‒ Vendetta! ‒ il testa a testa avanzava senza esclusione di colpi, fu
per una volta un po’ più fortunato Samurott che riuscì a concludere il
secondo
attacco davvero rilevante per l’avversario. ‒ Ritorna, riposati…
La Capopalestra
vide il Pokémon Dignità
tornare nella sfera della sua
Allenatrice ed essere sostituito da un Clefable. Sybil era il suo nome.
‒ La situazione
si fa
interessante… ‒ commentò la donna che giocava in casa.
Celia aveva
intenzione di far
avverare il piano che aveva in testa, precedentemente lo scontro tra i
due
Pokémon di tipo Acqua si era
limitato
ad un semplice botta e risposta, aveva invece intenzione di pianificare
qualche
strategia più degna di tale nome con in mano il potere meno concentrato
ma più
raffinato del Pokémon Fata.
‒ Vai con Fogliamagica! ‒ E per la prima volta durante quella lotta vide la
sua avversaria esprimere un sentimento attraverso la sua espressione
facciale.
Sirrah aveva capito che le capacità di jolly di Sybil non erano affatto
da
sottovalutare.
Ovviamente il
colpo andò a segno,
ma Blastoise non diede segni di cedimento alcuno.
‒ Blastoise, Focalcolpo! ‒ fu la ribattuta.
Una sfera di
energia pura esplose
contro il corpo di Clefable. Il Pokémon rotolò indietro per qualche
metro per
poi rialzarsi senza troppi problemi.
‒ Metronomo ‒ ordinò Celia rinunciando alla tattica e affidandosi al
caso.
Clefable si
prese un millesimo di
secondo per decidere, poi dal suo corpo scaturì una potente onda di
energia dal
colorito nero-violaceo, un Neropulsar.
Poteva andare peggio, ma Blastoise era ancora in piedi.
‒ Cannonflash, finiscila! ‒ fece Sirrah.
‒ Fogliamagica ancora una volta! ‒ esclamò istintivamente
l’Allenatrice.
E fu fortunata
ancora una volta,
dovendo Sybil lanciare un attacco molto meno pesante da controllare e
che
conosceva già dalla sua forma precedente, riuscì a precedere
l’avversario con
la sua tempesta di foglie iridescenti.
Celia ebbe una
bella sorpresa:
Blastoise che era rimasto impassibile e inscalfibile sotto il fuoco
nemico fino
a quel momento, crollò a terra tutto d’un tratto senza se né ma. Sirrah
era
delusa, glielo si leggeva in volto. La bionda era invece stupita, ma a
quel
punto comprese, i Pokémon della Capopalestra erano abituati a non
mostrare di
avere il fiatone, sopportavano incutendo timore al nemico ma crollavano
alla
fine. Sorrise, la ragazza. Si era rincuorata.
Secondo Pokémon
mandato in campo
dalla Capopalestra: un Vaporeon.
‒ Banale… ‒
commentò Celia.
E la lotta
riprese, un Fogliamagica di
Clefable provò a
stendere il Pokémon Acquajet, ma
quest’ultimo
fu lesto a difendersi con uno Raggiaurora
che congelò le foglie scagliate dall’avversario.
‒ Nube, Vaporeon! ‒ ordinò Sirrah.
Una fitta nebbia
gelida calò
rapidamente sul campo di battaglia. Tutti persero visibilità, in
particolar
modo gli sfidanti.
‒ Adesso Scudo Acido! ‒ proseguì quella.
E non si udirono
rumori né si
videro fenomeni particolari, ma si intuiva tra le fila della squadra di
Celia che
il nemico stava limando gli avamposti di difesa.
‒ Cerca di
colpirlo con Fogliamagica! ‒
esclamò Celia un po’
preoccupata per la situazione.
‒ Non darle
soddisfazione, Acquanello! ‒
ribatté Sirrah.
E lì la bionda
comprese la
straegia avversaria, la Capopalestra aveva sfruttato la nebbia solo per
avere
il tempo di corazzare il suo Vaporeon, Pokémon che non brilla certo per
difensiva. Ma poteva sfruttare il suo diversivo.
‒ Segui le
foglie e colpisci
Vaporeon con Magibrillio! ‒
si
inventò la ragazza.
Fogliamagica
era
un attacco
infallibile, quindi indipendentemente dalla direzione di lancio
impostata da
Clefable, avrebbe colpito il bersaglio. Perciò il Pokémon Fata poté sfruttare il percorso aperto nella bruma dal suo attacco
per trovare in quel labirinto alternativo il suo nemico e lanciargli una
seconda offensiva.
‒ Troppo tardi, Idropulsar! ‒ La luce del
colpo di tipo
Folletto di Sybil fu
squarciata
dall’onda d’urto che era l’attacco del Pokémon nemico. Colpo che,
propagandosi
maggiormente a causa della nebbia fittizia che altro non era che acqua
evaporata dal terreno, ebbe il suo sfacciato effetto sul Clefable.
‒ Riprova, Magibrillio! ‒ esclamò la bionda.
Seconda volta,
il colpo andò a
segno. Vaporeon incassò, ma l’intervallata abilità ristoratrice di
Acquanello
lo rimise in piedi almeno parzialmente.
‒ Mi dispiace, Ultimascelta!
Forte colpo
sfruttato al momento
giusto da Sirrah. Sybil fu investita da un energia pura e variopinta
scaturita
dal piccolo ma resistentissimo corpo di Vaporeon e rovinò a terra pronta
a
cedere. La mossa poteva essere usata solo in certe circostanze, perciò
era poco
versatile, ma quanto a potenza era estremamente pericolosa.
‒ Cazzo, Sybil,
usa Cuorardore... ‒
stratagemma conclusivo
della ragazza, terminale ma efficace. Sybil rinunciò a quei pochi punti
salute
che le rimanevano svenendo e subentrò al suo posto il Samurott del primo
round.
Tale Pokémon fu rifornito di tutta la sua energia vitale dalla mossa del
Clefable.
Sirrah non
nascose il suo
fastidio per tale tecnica, ma neanche pensò di tirarsi indietro. La
sfidante
andava provata, sconfitta se necessario, non tutti meritavano la sua
medaglia.
‒ Lacerazione! ‒ E la lama di Samurott incontrò la carne di Vaporeon.
Non furono
troppo ingenti i
danni, ma come inizio era carino.
‒ Megacorno!
‒
Raggiaurora!
L’aspra contesa
vide un vincitore
solo dopo parecchi violenti scambi di battute a suon di colpi acquatici
e non.
Vaporeon era più agile e si era difeso con le sue mosse di stato, ma
Samurott
era decisamente più forte e resistente. Il Pokémon Dignità ne uscì provato ma a testa alta.
‒ Va bene,
Celia, allora lo
scontro vuole proprio arrivare al termine… ‒ commentò la Capopalestra.
‒ Sei
un’avversaria temibile,
Sirrah.
‒ Anche tu,
ragazza, sarò felice
di sconfiggerti.
‒ Idem.
E l’ultimo
compagno della
Capopalestra si mostrò nella sua interezza. Dalla terza Ball uscì fuori
un
Manaphy dolce e dalle fattezze non predatorie. Quanto sarebbe stato un
errore
giudicarlo dall’apparenza.
‒ Samurott, Conchilama!
Il Pokémon Oceandante nemicò eluse il colpo senza grossi problemi, era
superiore a Samurott, e lo sapeva.
‒ Concludi, Psichico ‒ fece Sirrah.
E, come da
copione, Samurott fu
sottomesso da un energia telecinetica costrittiva incredibilmente
superiore
alle sue capacità difensive.
‒ Mulinello!
E il mammifero
avversario di
Manaphy fu intrappolato in un vortice d’acqua violento e insistente. Non
poteva
muoversi, non intendeva farlo.
‒ Che cosa
intendi fare? ‒ chiese
quindi la Capopalestra alla sfidante.
‒ Farti male,
parecchio… ‒
rispose semplicistica lei. ‒ Lacerazione,
sfrutta la corrente d’acqua.
Le ultime forze
di Samurott gli
permisero di attuare il piano della sua padrona, il Pokémon afferrò
l’unica
delle sue spade rimasta, diede un fendente di cortesia quindi affidò il
suo
controllo al mulinello che lo intrappolava. Con un po’ di spinta vinse
la forza
centrifuga e riuscì a far sfruttare alla lama soltanto quella centripeta
che la
scagliò in linea retta e tangente al cerchio descritto dall’acqua
sparandolo
con precisione millimetrica, grazie al calcolo meticoloso delle
tempistiche,
verso il Manaphy avversario.
Non che la scena
fosse
particolarmente epica, ma la martellata ossea dritta sul cranio del
Pokémon
celeste rimbombò con grande reverbero nella palestra. Samurott KO ma
Manaphy
pure aveva incassato una botta non poco violenta.
L’ultima scelta
di Celia fu
rivelata di lì a poco, era una scommessa, ma una scommessa parecchio
fiduciosa,
Gabite fu felice di scendere in campo.
‒ Manaphy, Ventogelato! ‒ E cominciavano bene.
‒ Fossa, Jin!
Il rettile evito
l’alito glaciale
infilandosi sottoterra, ciò bastava.
‒ Colpisci con Dragartigli! ‒ E tale fu
l’attacco,
Gabite uscì dal sottosuolo fendendo la difesa di Manaphy con le sue
unghie.
‒ Continua, Dragofuria! ‒ La combo non accennava a terminare, Manaphy incassava
senza dare particolari segni di cedimento ma lasciando intravedere la
fatica.
‒ Manaphy, Sub!
E la tattica
spiazzò tutti. La
fossa in cui si era infilato Gabite si colmò d’acqua non appena il
Pokémon vi
entrò, Manaphy si era disciolto nel suo elemento fino a divenire
virtualmente
impercettibile.
‒ Prevedilo, Terremoto! ‒ provò ad opporsi Celia.
‒ Nessun
movimento.
Sirrah aveva
ragione, normalmente
una mossa del genere avrebbe danneggiato in maniera esponenziale un
Pokémon che
si nascondeva sottoterra, ma un Manaphy di forma liquida era inutile da
bersagliare, soprattutto se da una mossa dinamica. Unica nota positiva:
lo
spaccarsi del terreno ruppe il tunnel in cui era contenuta l’acqua
facendola
cominciare a fuoriuscire tutta.
‒ Jin, ho
capito, Ira Di Drago sulla
pozza!
Poco da fare,
Manaphy sapeva già
come contrastarlo, il Pokémon si rimaterializzò proprio dalla parte
opposta a
quella verso cui guardava il drago e lanciò un acuto Supersuono per rincitrullirlo. In quel momento avvenne qualcosa di
particolare che stupì sia Sirrah che Celia.
Probabilmente il
caso aveva
voluto così, ma secondo altre teorie in quel momento la percentuale di
baci al
culo della dea bendata l’ebbe Celia: proprio quando doveva essere
confuso e
quasi inerme, Jin decise che era il momento di evolversi riprendendo la
lucidità e anzi contrastando il nemico con un potente Sgranocchio. Il caro Jingle nelle mani della biondina era diventato
un Garchomp, Pokémon Mach, davanti
ai
suoi occhi.
‒ Vai, sì, Doppiocolpo! ‒ fu l’ordine della ragazza.
E con entrambe
le appendici
taglienti delle braccia, Jin affondò nei confronti di Manaphy
avversario.
‒ Ventogelato, stavolta distruggilo!
‒ Proteggiti!
Jin si oppose
fisicamente
all’attacco di tipo Ghiaccio
resistendo stoico, ma i cristalli di congelamento sul suo corpo
denotavano
l’ingenza dei danni ricevuti.
‒ Psichico! ‒ ancora un colpo impossibile da evitare.
Jin stava
perdendo l’entusiasmo
ottenuto con l’evoluzione.
‒ Dragofuria! ‒ e senza troppi problemi, un violento slam del dragone
che investì con la sua mole l’avversario minuto.
Otto e qualche
minuto, Xavier era
tornato al Centro Pokémon ove aveva lasciato la ragazza ancora dormiente
nel
letto. Prima di rientrare nella camera fece un resoconto: aveva aiutato
in
quattro bar, tre uffici pubblici ed era riuscito a scroccare un lavoro
persino
al tizio dell’autolavaggio. In tasca aveva quei soldi che lo avrebbero
campato
ancora per qualche giorno, ma i suoi progetti erano altri, voleva
ottenere di
più e non solo perché, essendo al verde peggio di un Bulbasaur, non
poteva
permettersi certi strumenti più comodi ma di alta classe, anche per la
semplice
motivazione che lui trovava nella questione personale che il problema
soldi era
divenuta.
E anzi, l’essere
stata causata
non da lui bensì da Celia aveva reso l’emergenza ancor più stimolante
per lui. Scazzato,
sì, ma anche in quel caso gli toccò fare il bravo fratellone.
Decise che
avrebbe mandato metà
degli incassi a sua sorella, le avrebbero fatto comodo.
Rientrò nella
stanza del Centro,
il biglietto in cui aveva avvisato della sua sparizione improvvisa era
ancora
al suo posto, ma Cassandra era sparita.
Panico. Tutte le
sue… no, invece…
Xavier la vide uscire dal bagno con un asciugamano attorno al corpo e
nient’altro addosso, oltre le goccioline sulla pelle che viaggiavano
lungo
itinerari sconosciuti e sinuosi che il ragazzo avrebbe tanto voluto
percorrere
e ripercorrere.
‒ Dove sei
stato? ‒ chiese
sorridente la Capopalestra di Idresia.
‒ In giro,
dovevo vedere certe
cose che avevo intravisto venendo qui con l’ausilio del sole.
‒ Beh, va bene,
ora però forse
dovremmo muoverci ‒ fu la proposta della castana.
Xatu
era senza parole. Aveva visto Kalut bere, mangiare, entrare a feste e
disconoscerle nella loro totalità per via del caos incomprensibile e
della
puzza. Quella notte il ragazzo dai Capelli bianchi aveva sentito il
bisogno di
addormentarsi per un attimo e fare, in termini non propriamente
tecnici, “quel
cazzo che voleva”.
Così
aveva fatto l’umano, qualsiasi parte fosse quella da interpretare. In
quel
momento invece dormiva, nel lenzuolo che aveva posato sulla superficie
di un
tetto; il giorno era tornato.
“Che
diavolo ti è venuto in mente, ragazzo?” pensò il volatile.
Poi
si rese conto che in realtà Kalut comprendesse i suoi pensieri, almeno
durante
il sonno.
E
tacque, tacque per la maggior parte della sua dormita.
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Capitolo 26 *** Capitolo 25 - Crescita III ***
Capitolo
25 –
Crescita III
‒
Continuiamo…
Celia era
stanca, ma non
particolarmente ansiosa. Aveva davanti quella piccola creaturina azzurra
di un
Manaphy, che aveva incassato tante di quelle botte da farla sentire una
maestra
violenta coi bambini ma non aveva ancora dato il minimo segno di
cedimento.
‒ Sei brava,
Celia, ma non sono
ancora convinta che tu possa sconfiggermi ‒ affermò con monumentale
naturalezza
la Capopalestra Sirrah.
‒ Beh, se non ci
proviamo non lo
sapremo mai…
‒ Anche questo è
vero, ma io ti
consiglierei di risparmiare le forze del tuo Pokémon, per evitare che
sia
costretto al ricovero dopo la conclusione della lotta ‒ spiegò la
ragazza.
Celia rimase non
poco interdetta.
‒ Fidati di me,
non sottoporre a
questa tortura il tuo Garchomp…
La bionda si
fece sotto, cercando
di vincere la paura con l’azione: ‒ Dragofuria!
Un altro attacco
incassato in
pieno da Manaphy, un altro attacco che non modificò la situazione.
Manaphy
resisteva, sembrava non sentire neanche i colpi che si schiantavano su
di lui. E
Celia si chiedeva come ciò fosse possibile, ma non riusciva a trovare
risposta.
Momento di
stallo, Manaphy
utilizzò Codadiluce mentre
Garchomp
riprendeva fiato. Fu un attimo, alla ragazza di Austropoli venne
un’idea, aprì
il PokéNet e cercò la pagina dell’Enciclopedia dedicata a Manaphy, la
raggiunse, ivi il Pokémon Oceandante
era
approfondito in ogni senso e in ogni sfaccettatura, ma nessuno dei dati
faceva
riferimento all’incredibile resistenza che stava dimostrando in quello
scontro,
anzi, le statistiche medie che l’Enciclopedia assegnava a Manaphy erano
piuttosto eque.
Quando la
ragazza alzò lo sguardo
dallo schermo del PokéNet, incrociò gli occhi della Capopalestra. Sirrah
la
stava fissando e sembrava non avere altro in testa, la guardava con
un’espressione
assente stampata in volto, sembrava avere la faccia di chi ha appena
ricevuto
una brutta notizia.
Celia fu
talmente empatica da
avvertire il groppo allo stomaco insieme alla mora dall’altra parte
dell’arena.
Ovviamente sfogò urlando: ‒ Terremoto,
vai Jin!
Inaspettatamente,
la Capopalestra
non reagì, lasciò che il suo Manaphy incassasse il colpo. Sembrava
essersi
distratta.
‒ No! Manaphy, Ventogelato!
L’attacco
danneggiò parecchio
Jingle che bloccò per pochissimo la sua grinta. Ormai le sue energie si
avvicinavano agli sgoccioli, era stanco di combattere, ma come un degno
esemplare della sua specie, non avrebbe smesso di utilizzare tutta
l’energia a
lui concessa fino all’ultimo.
Celia era
preoccupata, si era
resa conto anche lei che Sirrah era nettamente superiore come
Allenatrice e che
si erano trovate in parità solo per un paio di scelte infelici della
Capopalestra, ma aveva cercato di fingere che non fosse così. Eppure,
una fioca
di speranza tornò a brillare quando avvenne qualcosa che neanche lei si
sarebbe
mai aspettata.
Garchomp, come
la fiamma della
candela che emana il più luminoso bagliore prima di spegnersi, catalizzò
tutte
le sue energie e gettò fuori un ruggito che fece tremare i vetri di cui
era
composta la Palestra, sia Sirrah che Celia videro delle sostanziose
cariche di
energia splendente concentrarsi davanti alla bocca di Jin per formare
una sfera
che, lanciata in aria dal Pokémon Mach si frammentò in un millisecondo
ricadendo sotto forma di una pioggia brillante e pericolosissima
nell’area di
Manaphy.
La bionda dagli
occhi lilla non
poteva credere ai suoi occhi, il suo Garchomp aveva appena usato Dragobolide,
mossa particolare che aveva
sentito solo alcuni fossero in grado di insegnare ad un élite ristretta
di
Pokémon. Quando le meteore si erano avvicinate al suolo, aveva udito il
grido
di Sirrah che aveva tentato di farsi venire in mente qualcosa per
reagire, ma
poi il frastuono delle esplosioni che risuonavano dall’altra parte del
campo
aveva otturato le sue orecchie.
Un grosso
polverone si era
innalzato a seguito del violento colpo. Un momento di calma era seguito
a quel
disastro, momento che diede il tempo a Garchomp di respirare, a Celia di
digerire l’accaduto, a Sirrah di comprendere la situazione e a Manaphy
di
mollare la presa e cadere a terra arrendendosi.
Il Pokémon Oceandante avversario era KO, Celia aveva conquistato la Medaglia Bussola. Quella più sorpresa
era proprio
lei, che non aveva visto l’ombra del minimo dolore nell’avversario fino
al
momento della sua resa.
Entrambi i
Pokémon rientrarono
nelle loro sfere, le sfidanti si incontrarono al centro dell’arena ormai
ridotta ad uno scavo archeologico, la donna “di casa” mostrò il badge
alla
vincitrice della sua palestra. Una rosa dei venti cerulea in formato
rimpicciolito,
con quattro punte che avrebbero simbolicamente dovuto indicare i quattro
punti
cardinali, era la medaglia Bussola.
‒
Complimenti,
non
mi aspettavo una simile ripresa… ‒ commentò Sirrah.
La donna era di
poche parole,
Celia ringraziò, quindi decise di uscire da quel luogo. Aveva un Pokémon
che si
era evoluto con la lotta, aveva imparato una mossa nuova e le aveva
fatto
guadagnare un’altra medaglia.
Era felice.
‒ Quindi questa
dovrebbe essere
la palestra di Alyanopoli? ‒ domandò sardonico Xavier.
Lui e la castana
si trovavano
davanti ad una porta nera e unta con un paio di scritte lasciate sopra
da
qualcuno che aveva giocato a fare il writer, un cartello troneggiava
appeso
sopra all’ignobile entrata: “Palestra
Gorgone,
Capopalestra: Perseo”. Ovviamente il palazzo non era di qualità
superiore, una infelice palazzina di periferia in mattoncini scuri e
finestre
piccole.
‒ Come siamo
caduti in basso, vero?
‒ fece Cassandra.
‒ Dio… che
schifo ‒ commentò
felicissimo il ragazzo di Austropoli.
‒ Che si fa?
‒ Penso di
poterti risparmiare la
visita, tu vai a… non so, a divertirti magari… qua me la sbrigo io
personalmente
‒ disse il ragazzo.
‒ No, sono anche
io una
Capopalestra e mi sento personalmente chiamata in causa per certe cose,
voglio
rendermi conto della situazione.
‒ Mh… ok ‒
sbuffò Xavier.
‒ ‘ndiamo.
I due aprirono
la porta sudicia,
si ritrovarono compressi in una piccola stanzina dall’aria consumata e
fetida. A
Xavier ricordava molto la Palestra di Velia a Zondopoli, ma lì non si
sentiva
la musica prodotta dalla band della ragazza di sottofondo e soprattutto
non si
respirava quell’aria di bettola rockeggiante. Quella era solo una
stanzina, una
comune e banale stanzina.
Il ragazzo si
guardò attorno per
qualche lungo attimo. I suoi occhi giunsero ad una risposta, sul muro
nero pece
si era infatti un piccolo interruttore quasi impercettibile che si
apprestò a
cliccare. Non passarono due secondi che la parete che fino a quel
momento a
entrambi i presenti era sembrata neutra si spalancò dando la possibilità
ai due
di passare ad un secondo dungeon. Una scalinata scura e poco promettente
si era
parata dinanzi a loro.
‒ Identificatevi
‒ ordinò una
voce registrata risuonante nello stretto locale.
‒ Sono qui per
sfidare la
Palestra di Perseo, sono un Allenatore, lei è con me ‒ rispose
prontamente
Xavier.
‒ Attualmente il
Capopalestra non
può essere a vostra disposizione, siamo spiacenti, provate a ripassare…
‒ Perseo, sono
Cassandra, facci
salire! ‒ partì in contropiede la ragazza.
Momento di
silenzio. Poi si udì
qualcuno smanettare con qualcosa vicino al microfono.
‒ È aperto… ‒
borbottò poi la voce.
Entrambi
sentirono uno scatto
provenire dalla porta che si trovava sulla cima della scalinata. Xavier
e
Cassandra salirono e penetrarono pure l’ultimo portone. Nella stanza che
si
nascondeva dietro quest’ultimo li aspettava uno scenario che mai nessuno
si
sarebbe aspettato da una palestra.
Un ambiente che
ricordava in
tutto e per tutto l’appartamento di un nerd molto disordinato faceva da
prima
stanza di quella che era la Palestra di Perseo. Il ragazzo che Xavier
ricordava
bene e identificava con tale nome li stava aspettando con le braccia
dietro la
schiena davanti all’entrata.
‒ Buongiorno,
collega ‒ salutò il
moro col codino riferendosi alla bella castana.
‒ Che postaccio,
cerchiamo di
fare presto così posso andarmene… ‒ fece per tutta risposta lei
rivolgendosi a
Xavier.
‒ Perseo,
giusto? ‒ chiese il
ragazzo allungando la mano per stringere quella del Capopalestra.
Nessuna reazione.
‒ Vorrei vincere
la medaglia Gorgone, dovremmo
combattere ‒ mormorò
il ragazzo. Ancora nessuna risposta.
‒ Mi dispiace ma
non è possibile…
‒ mormorò il tipo.
Kalut
dormiva, non era accaduto molto, quella notte oltre al cibo e alle
feste a cui
era andato senza intendere cosa fossero ma solamente per capire come
funzionassero gli esseri umani in dei luoghi pubblici.
“Stare
sveglio solo di notte sarà davvero controproducente, non potrai
entrare in
negozi, ristoranti o comunque posti notoriamente aperti solo di
giorno, mi
capisci?”
Xatu
stava parlando con il corpo addormentato di Kalut, sapeva che quando
si sarebbe
rialzato avrebbero avuto più cose da dirsi.
“In
più non condivido appieno la tua scelta del metodo di comprensione
degli umani,
l’improvvisazione non va mai bene quando si tratta di una situazione
così particolare…”
proseguiva il volatile.
“Ma
comunque non fa niente, sono felice che nessuno ti abbia visto o
comunque si
sia accorto della tua presenza, per il resto del mondo non esisti…”
Celia era uscita
dalla palestra,
sedeva su una panchina con il suo diario in una mano e la matita
nell’altra,
stava parlando con Avril delle sue esperienze mattutine, aspettava
solamente di
mettere in chiaro i pensieri a proposito di Jin.
“Ho vinto contro
Sirrah, non me l’aspettavo
proprio se devo dire la verità…”
“Ti è andata
meglio di quanto
pensassi.”
“Hai ragione, ma
penso anche che
una buona dose di fortuna legata all’evoluzione di Jin sia da
ringraziare.”
“Tu lo avevi mandato in campo con la sola speranza di vederlo evolvere?”
“In pratica…”
“Ottimo, ma che
mi dici di
Manaphy?”
“Ah, penso di
aver capito… sembra
che una tecnica intimidatoria molto usata da alcuni combattenti sia
quella di
intimorire l’avversario mettendo in risalto la propria invulnerabilità,
far
credere di essere più forti di quel che si è a volte funziona…”
“Quindi secondo
te Manaphy
avrebbe finto di essere ancora a posto per tutta la lotta finché
l’ultimo colpo
non lo ha sfinito facendolo crollare di punto in bianco…?”
“Esatto.”
“Mh, teoria
molto particolare…”
“E da ciò ho
capito che non solo
la forza conta, ma anche l’attitudine e il proprio modo di proporsi
fanno la
differenza nelle lotte. Bisogna provare ad unire intelligenza ed
estetica,
vorrei davvero tentare appena ne avrò l’occasione.”
|
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Capitolo 27 *** Capitolo 26 - Domanda ***
Capitolo
26 – Domanda
Celia era fuori
dalla struttura
vitrea e traslucida che era la Palestra di Sirrah, si era appena alzata
dalla
sua panchina. Aveva una medaglia in più, tre Pokémon un po’ più sudati,
la gola
leggermente dolorante per le grida e la netta sensazione che qualcosa
non
andasse per il verso giusto.
‒ Celia, chi si
rivede! ‒ fece
una voce greve in lontananza.
La bionda si
voltò. E subito un
sorriso strano spuntò sul suo volto. Antares era comparso con la sua
cascata di
capelli scompigliati e un Absol dal pelo del colore della neve al
seguito.
‒ Antares ‒
salutò mezza convinta
la ragazza.
Il Campione
della Lega mise
amichevolmente la mano sulla spalla di lei senza smettere di muoversi, i
due
cominciarono a camminare nella stessa direzione.
‒ Allora, a che
punto sei con le
medaglie? ‒ chiese l’uomo.
‒ Attualmente
sono a quota tre,
diciamo che me la sto prendendo comoda… ‒ rise lei.
‒ Ah, ma è
giusto che sia così,
dai, devi anche divertirti e distrarti un po’.
Antares
condusse, senza aver mai
pianificato la cosa, la giovane ragazza fino alla sua auto. Celia
neanche se ne
accorse e tra una domanda e l’altra avevano già percorso un paio di
isolati.
‒ Che ne dici,
vuoi un altro strappo?
Magari posso accompagnarti io alla prossima città.
La bionda, che
aveva visto
comparire davanti a sé quel BMW nero cromato, non poté rifiutare.
‒ Però prima
vorrei portare i
miei Pokémon al Centro ‒ sottolineò.
‒ Fai con
comodo, io ho ancora un
paio di commissioni da fare qui attorno, ti passo a prendere
direttamente al
Centro.
I due si
separarono, Celia si
indirizzò verso il centro più vicino, lo raggiunse, quindi affidò le tre
Ball
dei suoi compagni che avevano combattuto in quella lotta all’infermiera.
In
quel momento, con la voce della anchor-woman del tg di sottofondo,
l’odore di
vaniglia del deodorante per ambienti e anche una certa pesantezza delle
palpebre, cominciò a riflettere sulla situazione:
“Avril, sono
alla terza medaglia
di Sidera, ho un fratello dall’altra parte della regione e un padre
adottivo
che mi aspetta a casa ed è ancora estate. La mia squadra è composta da
Pokémon
forti ma che dovrebbero risvegliare in qualche modo la loro voglia di
lavorare
e porto al polso uno strumento davvero molto figo e comodo che però
ancora non
esiste in commercio.”
“Cipolle,
crocchette e
fagiolini?”
“Che?”
“Ah, no scusa,
ah bene, vedo che
siamo messe più o meno allo stesso modo…”
“Scema.”
“Che devo dirti,
la situazione è
questa, perché elenchi cose che già conosco quando vorresti solo
chiedermi se
penso che Antares sia un pedofilo?”
“Vaffanculo.”
“Non puoi
attaccarmi il telefono
in faccia, sono la tua coscienza.”
“Non sei la mia
coscienza, è che
non si ha idee su come farmi comunicare con qualcuno!”
“Oh.”
“Inutile, dai,
almeno rispondi…”
“Essendo la voce
anche del tuo
subconscio, sì lo penso, sono paranoica per natura.”
“E poi un
Campione della Lega che
commissioni deve sbrigare a Porto Acquario?”
“Credo sia
arrivato…”
Celia si voltò,
effettivamente i
vetri oscurati dell’auto di Antares la scrutavano attraverso le porte
trasparenti del luogo di servizio.
“Cazzo, vetri
oscurati.”
“Non essere così
volgare…”
“Smettila, anche
tu hai paura.”
“Sicura?”
“No.”
“Paranoica…”
“Ah, già…”
“…”
“Dai, pensaci,
lui avrebbe potuto
approfittarsene più volte ma non l’ha mai fatto, secondo me fidarsi non
comporterebbe alcun rischio.”
“A posto.”
Avril tacque.
Celia riprese le
sfere e, uscita dal Centro, salì nella macchina con Antares che la
aspettava al
posto di guida per evitare che sostenitori accaniti lo rallentassero
assalendolo. Si adagiò sulla morbida pelle del sedile, il Campione le
sorrideva, al suo posto.
‒ Allora,
destinazione? ‒ chiese
lui.
‒ Oh, a dire il
vero non ci ho
ancora pensato, potrei passare ad Alyanpoli per poi salire verso nord,
andare
direttamente a Telescopia o tornare indietro per passare nelle città più
a sud
che ancora non ho visitato…
‒ Beh, se posso
darti un
consiglio, passare per prima cosa all’estremo nord, a Telescopia e poi
farsi un
unico grosso viaggio a ritroso verso Delfisia non è una cattiva idea.
‒ Mh, forse hai
ragione, vada per
Telescopia.
Antares mise in
moto, il dado di
peluche che teneva appeso allo specchietto sobbalzò a ritmo col motore.
I due
in auto uscirono dalla città e sotto la guida consapevole e sicura
dell’uomo
cominciarono il viaggio che poco non sarebbe durato.
‒ Il Capopalestra affronta gli sfidanti, questo è quello che hanno fatto
tutti i Capipalestra da sempre in ogni luogo del mondo e io devo
confrontarmi
con uno che sostiene che solamente il denaro può vincere la sua
medaglia! ‒
esclamò Xavier.
Il castano e il
moro di
Alyanopoli stavano discutendo da un po’, il Capopalestra aveva la sue
condizioni: la medaglia Gorgone aveva
un
prezzo, un prezzo che solo lui poteva stabilire.
‒ Cazzo, aiutami
Cassandra, tu
che conosci queste cose, è legale chiedere soldi in cambio di una
medaglia?
‒ Tecnicamente
nel regolamento
non si dice nulla a proposito, ma credo che con un po’ di pazienza si
riuscirebbe
a far diventare questa sua usanza assurda un reato di corruzione, un
buon
avvocato ci metterebbe due minuti esatti ‒ ripose lei mantenendo il suo
sguardo
da giaguaro furioso al ragazzo.
‒ Mi dispiace
davvero, ma la
decisione spetta a me e solamente a me in questo caso, e se vuoi la
medaglia
sganci, altrimenti… nulla ‒ ribadì con fare arrancante il Capopalestra.
‒ Senti, Xavier,
mi faresti il
favore di dirmi dove si trova la più vicina centrale di polizia? ‒
chiese
velenosa Celia.
‒ Certo ‒ e il
ragazzo controllò
la mappa sul PokéNet ‒ poco lontano da noi, al confine col quartiere
limitrofo.
‒ Hai sentito,
Perseo?
In quel momento
il volto del
ragazzo dal codino cambiò radicalmente, passò dall’impaurito al penoso,
immediatamente tirò fuori dalla giacca una delle sue medaglie e la
lanciò a
Xavier. Il castano la prese al volo non senza un velo di imbarazzo.
‒ Non chiederti
niente, non farmi
domande. Penso di aver cambiato idea… ‒ spiegò ben poco razionalmente il
Capopalestra.
Xavier non aprì
bocca, si limitò
a seguire la ragazza dagli occhi magnetici che lo invitava ad uscire da
quel
postaccio che era l’indecente palestra di Alyanopoli, con la medaglia
Gorgone a
forma di sfera violacea con un serpente attorcigliato e due piccole
protuberanze che ricordavano molto lontanamente delle ali. Poco prima
che
riprendesse la porta che conduceva fuori da quel luogo, incrociò lo
sguardo di
Perseo che, sedutosi alla sua scrivania aveva aperto Google sul suo PC.
Senza
volerlo, un poco destabilizzato dalla situazione, Xavier volle leggere
ciò che
il ragazzo aveva digitato sulla barra di ricerca; quando lo fece, capì
subito che
quelle tre parole quasi insignificanti erano dirette a lui:
“fatti
due domande”
Trasse un
sospiro.
‒ Sì. Sì, lo
farò ‒ disse sapendo
che Perseo lo stava ascoltando.
Quindi uscì
dalla stanza e chiuse
la porta.
‒ Quindi sei
riuscita a vincere
contro Sirrah? Mi fa piacere, quella donna è un’Allenatrice temibile ‒
commentò
Antares.
Lui e Celia
stavano cercando di
ammazzare il tempo parlando di argomenti che difatti interessavano
veramente
poco a ognuno di loro due, ma è così che funziona quando si vuole
evitare il
silenzio dell’imbarazzo.
‒ Aspetta un
momento ‒ fece la
ragazza. ‒ vorrei controllare dove si trova mio fratello, ora.
E detto ciò
accese il PokéNet e
consultò la mappa. Antares taceva intanto.
Il puntino che
indicava la
posizione di Xavier era fermo ad Alyanopoli, come Celia si aspettava.
‒ Potrei
incontrarlo tornando
verso sud, è una buona idea… ‒ commentò la ragazza.
‒ Dimmi, Celia,
ti trovi bene con
il PokéNet? ‒ chiese atono il Campione.
‒ Beh, devo dire
che è molto
utile, sicuramente dà parecchio una mano ‒ rispose.
‒ Bene, mi fa
piacere… ‒ e
Antares fallì clamorosamente nel nascondere quella smorfia di
disappunto, prima
ci era riuscito bene, ma la palla non va in buca una seconda volta.
Celia lo guardò
incuriosita.
‒ Che succede? ‒
domandò con un
filo di voce appena.
L’uomo scosse
leggermente la
testa ‒ niente, niente ‒ fece.
‒ Antares ‒ la
bionda divenne
serissima. ‒ Che succede?
‒ Come diavolo
hai fatto? ‒
chiese Xavier.
‒ Che cosa? ‒
non capì Cassandra.
‒ A convincerlo
con uno sguardo ‒
spiegò lui.
‒ A, beh,
segreti femminili?
Xavier rise. Ma
con contegno.
‒ Bah, evito
pure di chiedermele
certe cose… ‒ rinunciò.
Eppure, un velo
di sospetto, si
era infilato sottile sottile dietro la sua schiena e, umidiccio e
fastidioso,
gli aveva mandato un brivido di avvertimento.
‒ Allora, dove
si va a pranzare?
‒ Penso di aver
visto un
ristorantino niente male qua vicino… che ne dici?
‒ Paghi tu?
Quella domanda
lo stroncò lì per
lì, si ricordò che avrebbe dovuto mandare dei soldi a Celia, ma la cosa
gli era
completamente uscita da un orecchio. Quella ragazza senza soldi, le
faceva pena
il solo pensiero.
‒ Certo, a una
scroccona così
bella chi non offrirebbe un pranzo?
Imprecò nella
sua mente, gli
tornarono alla luce anche le parole scritte da Perseo che aveva
momentaneamente
dimenticato. “Fatti due domande”.
Di nuovo il
sospetto bagnato e
gelido gli attraversò il midollo. Che cosa voleva dire quel ragazzo?
Sembrava
saperla lunga, ma allo stesso tempo non fregarsene.
‒ Andiamo? ‒ e
porse il braccio
alla castana.
‒ Sì, ma prima
passiamo al
Centro, vorrei togliermi di dosso la periferia…
E in due si
incamminarono.
“Non
so, dimmi tu, Kalut, hai mangiato fino a strafogarti, sei entrato a
ben tre
feste private e ignoro come tu abbia fatto sinceramente, hai lavato e
asciugato
il lenzuolo in una lavanderia aperta ventiquattro ore su ventiquattro,
hai
acquistato tre Poké Ball e penso ti sia anche scolato due tre cocktail
con
altri soldi rubati…” commentò Xatu. “E neanche ti piacevano, mi
spieghi che
cosa intendevi fare stanotte? Perché hai fatto tante cose senza che
nessuna di
loro ti interessasse davvero?”
Il
ragazzo dormiva, il volatile lo sorvegliava. Come prima, tutto
normale.
Eppure
c’era qualcosa di strano nel suo sonno, nel sonno del ragazzo: era
inquieto,
pieno di movimenti bruschi e contorsioni.
Non
stava dormendo bene, e Xatu si rese conto che era la prima volta che
lo vedeva
avere dei problemi durante il sonno. Ebbe un’idea, decise di entrare e
leggere
la sua mente, ciò lo avrebbe aiutato a capire cosa non andasse nel
riposo del
ragazzo.
Il
pennuto chiuse gli occhi.
|
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Capitolo 28 *** Capitolo 27 - Ambizione ***
Capitolo
27 –
Ambizione
L’aria
all’interno dell’auto del
Campione Antares era diventata pesante per il suo proprietario. Lui
stesso
aveva fatto intendere alla ragazza che qualcosa non andasse per il verso
giusto, e lo aveva fatto di proposito.
‒ Hai notato
qualcosa di strano,
vero? ‒ chiese l’uomo alla sua passeggera senza staccare gli occhi dalla
strada.
‒ Sì, ho notato
molte cose strane
‒ rispose Celia.
‒ Mi hanno
chiesto di renderti
partecipe della cosa, ormai è giunto il momento.
‒ Di che cosa?
‒ La FACES.
‒ La federazione
della sicurezza?
Quelli che ci hanno fatto avere i PokéNet?
‒ Esattamente,
di questo voglio
parlarti…
‒ Che cosa c’è?
‒ Devi sapere
che questa
associazione, allo stato attuale, ha in mano un potere economico
incredibile.
Si occupa di salvaguardia e tutela in tutto lo stato e con tutto quello
che è
successo negli ultimi anni, ‒ Antares prese fiato ‒ ha avuto un’attività
e una
richiesta tali da… renderla potentissima.
‒ E tutto questo
che significa? ‒
domandò lei.
‒ Significa che
prima era la Federazione
delle Leghe Pokémon a sovvenzionare la FACES. Ma ormai sono loro che
hanno in
mano non solo la sicurezza pubblica, ma anche le casse dello stato,
basta un
loro sconsiderato schiocco di dita e quasi tutte le regioni cadrebbero.
‒ Continua.
‒ Allora,
ritrovandosi con tutto
questo potere in mano, la FACES ha deciso di avviare un progetto
parecchio
ambizioso, il PokéNet.
‒ Questo
orologio? ‒ chiese lei
mostrando il polso.
‒ Orologio… no,
lo strumento che
hai al polso è solo il prototipo di uno dei terminali che si collegano
al
PokéNet, in realtà sotto questo nome sta il loro progetto di una rete
che
colleghi ogni singolo Allenatore Pokémon del mondo, ogni palestra, ogni
istituzione.
‒ Ma è
bellissimo ‒ ribatté
entusiasta la bionda.
‒ Celia, aspetta
a giudicare,
loro fanno questo per aumentare la sicurezza e la salvaguardia, ma ciò
significa che essere un Allenatore di Pokémon sarà come essere in un
videogioco, creare una perfetta connessione tra ogni angolo della
regione e
ogni Allenatore ha come obbiettivo il limitare la libertà di ognuno. Un
Allenatore capace di Allenare Pokémon troppo potenti potrebbe rivelarsi
potenzialmente pericoloso per la popolazione.
‒ Non capisco,
l’idea della rete
degli Allenatori mi piace, ma non capisco cosa dovrei temere di questo
progetto…
‒ Impedire agli
Allenatori di
diventare un pericolo per la società si traduce in impedire agli
Allenatori,
passati, presenti o futuri che siano, di diventare troppo potenti o di
acquisire troppa esperienza, in altre parole: regolamentare persino
l’attività
di allenamento e crescita dei Pokémon.
‒ Regolamentare?
‒ Dare dei
sentieri, delle linee
guida, dei limiti.
Celia tacque.
‒ Il PokéNet
dev’essere lo
strumento che, diffuso a tutti gli Allenatori, attesti la loro effettiva
esistenza e monitorizzi le loro attività. Come una specie di cartellino
con il
tuo nome sopra che invia rapporti sul tuo lavoro al tuo capo.
‒ E non è bene.
‒ Vogliono
diffonderlo come
strumento innovativo e di comodità, come un nuovo modello di un telefono
o
qualcos’altro, ma il loro scopo è intrufolarsi pian piano sempre più
nella
quotidianità. Per questo motivo hanno bisogno di voi tester, di qualcuno
che
permetta ai loro software di raccogliere informazioni e perfezionarsi,
adattarsi alla vita delle persone… ‒ la fissò con gli occhi vitrei e
atroci di
un caimano. ‒ stanno facendo perfezionamenti, limandosi, tu e Xavier
siete solo
le ennesime pedine; non si crea un’intelligenza dal nulla, il PokéNet
deve
avere basi reali e concrete. Tu e tuo fratello gliele state dando.
Assieme a
tutti gli altri Allenatori itineranti reclutati nelle altre regioni.
‒ Ma non hai
detto che ci hai
scelti personalmente dopo accurate ricerche per proporci alla FACES?
‒ Sì, ma ciò non
significa che
ero d’accordo con tale progetto. Ti ripeto, la FACES potrebbe far cadere
la
Lega da un momento all’altro, per il potere che ha. Ci ha costretti, io
non
sono d’accordo con questo progetto, ma non ho potuto oppormi a loro, mi
tengono
per il collo… ‒ mormorò. ‒ E ti chiedo scusa per ciò che ho cercato di
fare… ‒
fece poi.
Celia lo guardò
interrogativa.
‒ Ho sostituito
molti dei miei
Capipalestra: Perseo, Luna, loro non combattono, da Arturo ti ho fatto
regalare
la medaglia, Castore e Polluce sono due ragazzini, ancora non veramente
all’altezza
del loro ruolo… tutto questo per ridurre l’afflusso di dati raccolti dai
vostri
PokéNet, rallentare il loro lavoro, ingannarli… ‒ spiegò.
‒ Era un tuo
piano?
‒ Così come il
seguirti e
facilitarti gran parte del viaggio, non avevo altro modo, la FACES non
sospetta
niente.
Cadde silenzio
tra i due. Celia
rifletteva sulle informazioni appena ricevute e Antares cercava di far
sparire
l’amaro delle sue parole che gli era rimasto in bocca.
‒ Perché hai
voluto dirmi tutto
solo così tardi? Xavier sa qualcosa?
‒ Mi hanno
chiesto loro di
tenerti all’oscuro dei fatti fino a nuovo ordine e no, tuo fratello non
sa niente,
ma anche lui ha un custode
che presto
lo informerà sulla situazione.
Celia tacque
ancora un istante.
‒ Quindi qual è
la cosa migliore
da fare, ora?
‒ Non lo so,
penso che ora
vorranno fare qualcosa con te, non sono tipi da lasciare le cose in
sospeso ma
neanche gente pericolosa. Forse hanno deciso che è arrivato il momento
di darti
lumi sul loro progetto per darti l’opportunità di unirti a loro. Ma è
solo una
supposizione.
La ragazza, alla
terza pausa,
cercò di fare un recap nella sua mente: il suo viaggio ancora non
terminato a
Sidera era stato una specie di farsa, una società che non piaceva molto
ad
Antares e dalla quale neanche lei era particolarmente allettata la stava
utilizzando come tester di un prodotto non troppo simpatico, presto lei
si
sarebbe confrontata personalmente con questi tipi e probabilmente quella
morsa
che sentiva attorno al cardias dimostrava che la prospettiva non la
rassicurava
più di tanto. Un viaggetto di un paio di giorni con un orologio al polso
e
qualche eufemismo di troppo. E poi si rese conto che qualcosa l’aveva
portata
fino a quel punto, il suo guardo tornò ad Antares, che si accorse di
essere
scrutato e tornò con la sua faccia da uomo
preoccupato
ma non turbato dalla situazione che guarda l’orizzonte. Quell’uomo
così
particolare, simpatico e affabile ma perito e responsabile, era riuscito
ad introdursi nella sua vita con estrema facilità. Si erano incontrati
due o
tre volte e già non gli dava più del lei, come sarebbe stato idoneo,
essendo
lui una delle massime autorità della regione; parlavano senza problemi
di
argomenti così spinosi e lei aveva persino accettato un passaggio da
lui, pure
più volte.
“Se fosse stato
un pedofilo,
sarebbe stato un ottimo pedofilo…” aggiunse Avril.
“Zitta!”
“Tanto so che
anche tu lo pensavi…”
Celia comprese
finalmente che ciò
che sarebbe accaduto a lei, sarebbe dipeso da Antares, sia come colpa,
sia come
merito. Era preoccupata, non poteva negarlo, ma allo stesso tempo un po’
la
presenza del Campione la rassicurava.
“Cosa avevi
pensato? Una gita per
chiudere l’estate in bellezza?” chiuse la sua amica che viveva nel
bilocale che
era il suo cervello.
Xavier e
Cassandra si trovavano
in un parco pieno di siringhe e mozziconi. Entrambi dovevano fare
particolare
attenzione a dove mettevano i piedi, ma Cassandra aveva bisogno di
fermarsi e
accendersi una sigaretta dopo aver mangiato.
Intanto Xavier
la guardava, la
guardava con gli occhi di chi si aspetta qualcosa ma non vede arrivare
nulla,
lei era pensierosa, inquieta e lui impaziente. E un po’ deluso. Si erano
baciati una volta al laghetto, lei si era in qualche modo dichiarata, avevano preso camera insieme differentemente dalla
notte precedente in cui un muro li aveva tenuti lontani… ma poi più
niente, non
ne avevano parlato, lui non aveva osato toccare quell’argomento e lei
tantomeno. Iniziava a pensare di essersi perso un pezzo di qualcosa.
E intanto
dall’altra parte
Cassandra chetava i neuroni viziati che le chiedevano di soddisfare la
sua
dipendenza dando loro quel godibile fumo cartaceo e catramoso che
passava lungo
la sua gola per andare a riempire i polmoni. Odiava fumare, ma si era
costretta
le prime volte e poi aveva dovuto per forza mantenere il ritmo,
soprattutto quando
era nervosa. E in quel momento lo era. Tanto. Aveva ancora i caratteri
del
messaggio che quella mattina aveva letto stampati in testa:
“Diglielo,
non omettere niente.”
E lei si era
resa conto di aver
nascosto il nulla ad una mamma che se anche l’avesse scoperta a rubare
un
intero pacchetto di caramelle non l’avrebbe sgridata. Aveva baciato
Xavier per
fargli credere di avere un solo umano motivo per seguirlo, ed era la
verità, il
problema è che il motivo non era proprio quello.
‒ Senti, penso
che io e te
dovremmo parlare un po’… ‒ disse Xavier.
Cassandra lo
guardò.
‒ Non abbiamo
fatto molti passi
avanti da quello che mi hai detto ieri, secondo me potremmo… ‒ e non
finì la
frase.
Cassandra si
trovò ad un bivio,
scegliere la strada della persona di merda e rivelare tutto senza
neanche un’anestesia
locale o essere una brava ma al contempo una cattiva umana e mentire
ancora. Certe
situazioni la infastidivano, per lei i piccoli problemi erano i drammi,
al
resto era preparata.
‒ Sì,
parliamone. Ma non qui ‒
rispose granitica.
‒ Abbiamo tutto
lo spazio che
vuoi.
Non era una
persona di merda,
tecnicamente quello che aveva fatto era illudere una persona e la cosa
non era
il massimo. Ma faticosamente certe cose si portano a termine. La dieta
non si
inizia da affamati.
‒ No, aspetta,
non parliamone,
senti…
“Non
riesci a dormire decentemente?”
‒
Non riesco a dormire…
Kalut
si era svegliato di soprassalto, aveva avuto un incubo e il suo sonno
non aveva
retto abbastanza. Erano circa le tre del pomeriggio e la sua nottata
si era già
conclusa.
“Ricordi
che cosa hai sognato?” chiese Xatu.
‒
Probabilmente, aspetta…
“Provaci.”
‒
Niente da…
“Kalut?”
‒
Oh, sì, ricordo che cosa ho sognato!
“E
con ciò? Perché ne sei entusiasta?”
‒
Vedrai!
“Io
dicevo per dire di ricordarti, non è che…”
‒
Beh, mi hai fatto venire in mente un’importante informazione.
“…che
hai sognato.”
‒
Che ho sognato.
Il
ragazzo ricostituì alla ben e meglio la sua immagine, strinse le
stringhe delle
scarpe nuove sottratte ad un universitario addormentato nella
lavanderia, scese
dal tetto su cui si era appollaiato per dormire.
‒
Ricordo di aver visto un’immagine, un’immagine che anche ieri mi sono
trovato
davanti ‒ spiegò il ragazzo con semplicità.
“Un’immagine.”
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Capitolo 29 *** Capitolo 28 - Sensibilità ***
Capitolo
28 –
Sensibilità
“Un’immagine…”
‒
Un’immagine…
Kalut
stava osservando le strade della città di Idresia dal tetto ove si era
rannicchiato. Le guardava e tremava.
“So
che cos’hai visto, Kalut, ho potuto vedere anche io” fece Xatu ad un
certo
punto, capendo che il ragazzo, precedentemente preso dal forte
entusiasmo, non
si sarebbe mosso facilmente.
‒
Le nubi, Xatu, le nubi, c’era ghiaccio ovunque e sentivo il gelo sulla
mia
pelle… ‒ spiegò il bianco quasi con le lacrime agli occhi.
“E
allora secondo te questo tuo sogno cosa può voler dire...?” domandò
‒
Che ne so? So solo che qui c’è qualcosa di strano.
“Kalut,
vuoi sapere una cosa?”
Il
ragazzo annuì.
“Gli
esseri umani si interrogano da sempre su un dubbio che hanno insito
nel loro
animo: si domandano se esiste una divinità che regola lo scorrere
degli eventi
e il verificarsi di essi. E forse anche tu, da buon umano, ti saresti
posto
questa domanda se non ne avessi avuto in precedenza la risposta…”
spiegò il
volatile.
‒
Significa che qualcuno mi sta mandando una sorta di messaggio? Un
indizio?
“Significa
che tu hai visto qualcosa in più di tutti gli altri esseri umani e per
questo
potresti avere… una vista migliore della loro.”
‒
Stai metaforizzando?
“Sto
metaforizzando.”
‒
Ghiaccio, gelo e nubi… il turbamento, la paura…
“Ci
stai arrivando.”
‒
Sentivo il bisogno… il bisogno di calore.
“Calore?”
In
quel momento, comprendendo le sue parole, Growlithe si accostò a Kalut
mettendosi in evidenza. Il Pokémon scondinzolava felice.
‒
Growlithe… ‒ mormorò Kalut cercando di trovare un capo e una coda in
quel
groviglio di fili che era la sua testa.
“Vorrebbe
esserti utile” spiegò Xatu. “È un Pokémon fedele.”
‒
Fedele?
“Fino
alla morte, non abbandona mai il suo Allenatore.”
‒
Non mi sembra proprio.
“Come?”
Kalut
aveva lo sguardo fisso nelle pupille ardenti del Pokémon Cagnolino e
vi
guardava dentro come si fa con una sfera di cristallo.
‒
Vedo un altro padrone, Growlithe non era un Pokémon selvatico… ‒
spiegò il
ragazzo.
“Davvero?”
‒
Non eri tu quello di vedere passato e futuro?
“Non
ho guardato il passato di Growlithe e posso farlo solo dalla mia
prospettiva,
non da quella altrui” si scuso il Pokémon Magico.
‒
È strano, perché il suo Allenatore lo ha abbandonato? ‒ si domandò
Kalut
tornando con gli occhi su Growlithe.
“Potresti
chiederlo direttamente a lui…”
Kalut
ebbe un’illuminazione.
‒
Puoi accompagnarci dal tuo vecchio Allenatore? ‒ domandò a Growlithe
carezzandolo sul collo.
In
quell’istante, avvenne un fenomeno al quale Kalut non aveva mai
assistito, una
luce scaturì dal canide e dalla sua pelliccia che cominciò a
infoltirsi; la
massa del Pokémon crebbe e la sua forma mutò in alcuni punti. Kalut
tolse la
mano spaventato. La luce scomparve. Al posto del Growlithe di poco
prima era
apparso un Arcanine fiero e maestoso dalla criniera di pelo morbido e
giallastro che ruggiva con orgoglio.
Il
ragazzo dai capelli bianchi guardò strano Xatu.
La sensazione di
vuoto non se
n’era andata, neanche dopo i chilometri percorsi col silenzio totale
nella
macchina fatta eccezione per una Radio Sidera accesa a bassissimo
volume. Celia
fissava la strada scorrere mangiata pezzo per pezzo dal parafanghi del
BMW.
Qualcosa non andava. Tante cose non andavano.
“Attendere,
bene, attenderemo”
fece Avril.
“Ho paura.”
“Antares ci ha
assicurato che non
c’è nulla da temere, ha detto che non sono pericolosi…”
“Non è come nei
film, vero, dove
la gente che non serve più a nulla viene eliminata?”
“Non penso.”
“Vediamo che
cosa possono
proporci, allora, forse cercare di scappare non è la migliore ipotesi,
evitiamola.”
“Sono
d’accordo…”
E tale dialogo
tra Celia e la sua
coscienza si era svolto più o
meno
sessantatré volte nella testolina della ragazza che ogni volta che
ripeteva
meccanicamente le stesse battute sperava con tutto il suo cuore che
qualcosa
fosse così caritatevole da cambiare. Qualcuno l’avrebbe chiamata folle.
Eppure,
era solo impaurita, non sapeva se fidarsi di un’organizzazione che aveva
nascosto a lei e suo fratello la maggior parte delle loro azioni e aveva
ricattato una Lega Pokémon perché la loro operazione potesse partire.
I due erano
giunti a
destinazione, la piccola cittadina di Telescopia li aveva accolti con un
venticello fresco, un panorama di montagna eccezionale e un timido
torpore da
primo pomeriggio. D’altro canto, erano circa le quattordici.
La bionda non
fece in tempo a
scendere dall’auto: il tempismo era il pallino di certe persone, un
videomessaggio appena ricevuto fece trillare il suo PokéNet. Non vi
erano molti
dubbi su chi fosse il mittente, Xavier non mandava videomessaggi e tutto
il
resto del mondo non aveva un PokéNet. Leggere “Professor Jason Willow” non era una sorpresa.
E immediatamente
le sorse il
dubbio. Il prof era un membro della Faces? O qualcosa di simile?
Decise di
ascoltare dopo il
messaggio e scese dall’auto chiudendo lo sportello alle sue spalle.
Antares
aveva parcheggiato, scese anche lui e le aprì il bagagliaio per prendere
lo
zaino che vi aveva lasciato dentro.
‒ Antares,
un’ultima cosa ‒ fece
afferrando la borsa.
‒ Dimmi.
‒ Il professor
Willow è della
Faces?
Lui raggelò. ‒
Sì.
‒ Quindi anche
lui ci ha… usati
consapevolmente?
Antares la
guardo senza aprire
bocca. ‒ Sì ‒ ripeté.
Celia trasse un
sospiro. Non era
sorpresa dalla cosa, ma sicuramente non era stata una bella notizia per
lei.
‒ Celia, siamo
arrivati, ma tu
hai bisogno di qualcosa? Nel senso, un posto in cui stare… roba del
genere… ‒
domandò Antares con tono distaccato.
‒ Io…
‒ Non fare
complimenti, sai bene
che lo faccio per te ma anche per me.
‒ Va bene,
accetto.
‒ Beh, ho il
vecchio appartamento
di quando ero all’università vicino al centro, se vuoi puoi stare da me
per… il
tempo che ti serve ‒ fece lui.
Celia ringraziò
e insieme si
incamminarono. Giunsero dopo alcuni isolati ad una casa in mattoni
rossicci
inserita in una via poco trafficata. Antares aprì il portone e salì
quattro
rampe di scale, al secondo piano, inserì la chiave nella serratura di un
vecchio uscio che sapeva di casa della nonna. All’interno, l’ambiente
era
accogliente, i mobili erano semplici e poco ingombranti e le pareti
bianchissime. In alcuni punti lo strato di colore era evidentemente
ripassato
in un secondo tempo, ma la ragazza non si fece domande. Il Campione la
invitò a
stabilirsi in una camera adiacente al bagno in cui ella trovò un letto
da una
piazza e mezza, un armadio chiuso a chiave e un comò con varie file di
cassetti
con sopra due foto incorniciate e dei santini. La ragazza guardò le
foto: nella
prima era ritratto Antares il giorno della sua laurea con la corona
d’alloro
attorno alla testa e un papillon a pois estremamente equivoco; nella
seconda un
giovanissimo Antares affiancato da una ragazza dai capelli biondissimi e
dietro
di loro un altro baldo giovane vestito elegante e con una chioma di uno
stranissimo
color celeste chiaro.
‒ Celia, lo bevi
il caffè? ‒
chiese Antares dall’altra parte della casa.
‒ No, grazie ‒
rispose la
ragazza.
‒ Ginseng?
‒ Sì, quello
volentieri.
Distrattasi
dalle immagini, le
tornò in mente il videomessaggio. Decise di aprire l’orologio e di
vederlo.
Comparve l’ologramma di Willow sopra al suo polso come sempre con camice
e
occhiali.
“Celia,
ho un favore da
chiederti, credo che Antares ti abbia già parlato dell’organizzazione
per cui
lavoro, bene, mi hanno detto che vorrebbero dialogare con te di
persona e
quindi hanno mandato un emissario lì a Telescopia. Si chiama Algol,
verrà a
cercarti lui stesso nel primo pomeriggio. Ti prego di ascoltarlo con
attenzione, grazie, buona giornata.”
Parole rapide,
introdussero
degnamente il suono del citofono che trillò per tutte le stanze
dell’appartamento di Antares.
‒ Nessuno sapeva
che ero qua, chi
diavolo…? ‒ fu il commento mormorato di Antares.
Celia rimase in
ascolto, sapeva
bene che la visita fosse per lei, ma non intervenne.
‒ Chi è? ‒
chiese Antares. ‒
Algol, sali, forza! ‒ il Campione aveva cambiato totalmente tono, era
divenuto
gioviale. La ragazza raggiunse l’altra parte della casa, vide dal
corridoio un
tipo dalla pelle e dai capelli del colore della notte e vestito di un
completo
bianchissimo entrare nell’appartamento, aveva un bastone di ebano
stretto nelle
mani e quest’ultime avvolte da morbidi guanti di camoscio.
‒ Campione,
buona giornata, devi
scusarmi per questa visita inaspettata ‒ salutò.
‒ Nessun
problema, Algol, qual
buon vento ti porta? ‒ rispose l’uomo.
‒ Faccende di
lavoro, Antares ‒
aveva una voce profonda ma dolcissima.
‒ Prego,
siediti, caffè?
Algol scosse la
testa e si
appoggiò su una sedia lasciando bastone e giacca su un appendiabiti
vicino alla
porta d’ingresso.
‒ Allora,
faccende di lavoro,
quindi capisco che tu voglia parlarne con me in privato.
‒ In realtà, no,
io…
Antares vide
spuntare dall’altra
stanza Celia. E ovviamente la linea del suo sguardo fu seguita dagli
occhi di
Algol che pure incontrarono la figura della ragazzina.
‒ Celia, lui è
Algol ‒ fece il
Campione ricordandosi di essere lui a dover fare presentazioni. ‒ Algol,
Celia
è un’Allenatrice itinerante e…
‒ Piacere di
conoscerla, Celia ‒
sorrise l’uomo alzandosi in piedi e andando a stringere la mano a
quest’ultima.
‒ Se non erro, lei sapeva già del mio arrivo.
La ragazza non
aveva ancora
aperto bocca.
‒ Sapeva già che
cosa? ‒ domandò
Antares non capendo.
Il silenzio
cadde per pochi
attimi sulla scena, Algol stringeva la mano alla ragazzina, Antares
mischiava
il ginseng all’interno della tazzina con la mano destra e intanto
guardava gli
altri due cercando di intuire la situazione.
‒ Ecco, vorrei
conversare qualche
minuto con lei, sediamoci sul divano, vieni anche tu Antares ‒ spiegò
rapidamente Algol.
L’uomo a capo
della Lega di
Sidera porse la tazzina di ginseng a Celia e si sedette accanto a lei
sul sofà
mentre l’ultimo arrivato prese la poltrona.
‒ Devi sapere,
Celia, posso darti
del tu…?
La ragazza
annuì.
‒ …bene, devi
sapere che non sono
qui in qualità di Superquattro di Sidera, ma vengo come emissario della
Faces
per farti alcune proposte.
A quella frase,
Celia che Antares
spalancarono gli occhi. Lei per aver sentito la parola Superquattro e lui per la parola Faces. Algol era un sottoposto di Antares, ecco il motivo per cui
sembravano conoscersi tanto bene, ma allo stesso tempo era membro
dell’organizzazione
che stava ricattando il suo stesso capo.
‒ Emissario
della Faces? ‒ fece
Antares senza riuscire a dare fede alle sue orecchie.
‒ Xavier, non so
come dirtelo…
Il cinguettio di
alcuni piccoli Pokémon,
il leggero sibilare del vento tra i rami e il silenzioso tepore di quel
giorno
settembrino rendevano l’atmosfera incredibilmente soporifera. Ma la voce
di
Cassandra faceva tutto molto più interessante.
‒ Dirmi che
cosa?
‒ Ecco, lavoro
per la Lega, io…
‒ Lo so, sei
Capopalestra ‒ a
Xavier sembrava ovvio.
‒ No, non
quello… Antares, il
Campione, mi ha chiesto di accompagnarti.
‒ E perché
avrebbe dovuto farlo…?
‒ Perché c’è un
pericolo.
Cassandra si
fermò. Doveva rivelargli
tutto della Faces, del PokéNet, del rapporto di Antares con questa
operazione. Era
arrivato il permesso di farlo dal suo Campione che a sua volta aveva
sicuramente
rivelato tutto a Celia.
Trasse un
sospiro e cominciò la
spiegazione.
|
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Capitolo 30 *** Capitolo 29 - Ostentazione ***
Capitolo
29 –
Ostentazione
“Un’organizzazione
potentissima
che vuole distruggere l’Allenatore come lo conosciamo oggi”, “tiene
per le palle la Lega Pokémon”, “sta sfruttando i tester del PokéNet
per
perfezionare la loro operazione”.
Quante parole
riversate da
Cassandra per spiegare la situazione con la Faces a Xavier. Il ragazzo
aveva
compreso, Faces male, Lega bene. Ma era stonata per lui la parte in cui
il
Campione Antares in persona avrebbe fatto da custode per sua sorelle,
compito
che dalla sua parte, era spettato invece a Cassandra.
‒ Mi hai detto
che per evitare
interferenze e potenziali “pericoli” ti è stato dato l’incarico di
seguirmi? ‒
chiese lui mettendo le cose in chiaro.
Cassandra annuì.
‒ Non è stato
questo quello che
mi hai detto al lago… ‒ fece Xavier crucciato alzandosi e girando i
tacchi.
‒ Xavier,
aspetta! ‒ esclamò lei.
‒ Non potevo dirti tutto subito, era nelle loro condizioni.
‒ E allora
potevi evitare di
dirmelo, invece di mentirmi ‒ disse lui con tono serio senza neanche
voltarsi.
‒ Io non…
‒ Tu non… un
cazzo! Troppo facile
ingannare un uomo con un po’ di figa, dimmi che cosa devo fare con ‘sta
roba
qua della Faces e levati di torno dimenticandoti di esserci parlati, per
favore! ‒ sfuriò tornando a fissarla.
Cassandra tacque
per un momento,
impressionata dal lato violento che il ragazzo non le aveva mai
mostrato.
‒ Verranno a
cercarti loro,
vorranno parlarti e proporti di diventare membro integrante del loro
progetto…
‒ spiegò lei con un filo di voce.
‒ Perfetto,
allora deciderò io
cosa fare ‒ decise il ragazzo. ‒ A mai più, Capopalestra.
E fu così che il
ragazzo, voltate
le spalle, se ne andò. Lo zaino in spalla, la cintura delle Ball attorno
alla
vita e un incredibile senso di repulsione nei confronti della bellissima
ninfa
dagli occhi color caramello dietro di lui e della sua straordinaria
abilità
nell’abbindolare le persone.
Lei, dal suo
canto, era ancora
seduta sulla panchina con lo sguardo fisso sulla figura del ragazzo che
se ne
stava andando senza neanche salutarla e la sensazione di aver
effettivamente
esagerato lasciandolo vincere nella sua palestra, civettando con lui
esplicitamente e facendogli credere di aver fatto tutto per una presunta
attrazione che provava nei suoi confronti. Aveva una sigaretta mezza
finita in
mano e un emisfero del suo cervello la accusava crudelmente per la sua
mancanza
di cura per i sentimenti altrui; l’altro, beh, l’altro sputava fuoco e
fiamme
contro il castano per come era stato capace di trattarla una volta
scoperto
tale cavillo della loro mai iniziata relazione.
E ovviamente,
essendo lei
Cassandra, lasciò prevalere l’emisfero che stava sputando fuoco e
fiamme.
‒ Vaffanculo,
così puoi trattare
al massimo tua sorella ‒ fece indignata gettando la sigaretta e
raccogliendo la
sua borsa per poi andarsene da quel luogo. Xavier era lontano, non
l’aveva
sentita.
‒ Tu lavori per
loro? ‒ chiese
incredulo Antares. ‒ Hai idea di come mi stiano ricattando, ci tengono
in mano,
Algol, sono persone spre…
‒ Ciò non vuol
dire ‒ l’uomo in
bianco interruppe il Campione facendosi serio. ‒ che io non possa
sostenere la
loro causa, Antares, io lavoro per te, ma questa cosa non mi obbliga a
seguire
la tua linea di pensiero.
Il Campione
rimase ancora una
volta senza parole. Si obbligò al silenzio gettando la schiena su un
cuscino
del divano e fissando il vuoto.
‒ Scusaci,
Celia, quello di cui
volevo parlarti è un lavoro vero e proprio come membro della Faces…
vedi,
abbiamo bisogno di mani di Allenatori che sappiano come gestire dei
Pokémon e
della mente di giovani ragazzi come e te e tuo fratello ‒ spiegò Algol.
‒ Io… non penso
di…
‒ Aspetta,
lasciami spiegare una
cosa: siamo coscienti che ciò che vorremmo proporre agli Allenatori può
non sembrare
allettante per qualcuno, è per questo che vogliamo che siate voi
Allenatori a
fare una scelta indipendente.
Celia non
capiva.
‒ Ho intenzione
di spiegarti in
cosa esattamente il nostro progetto si tradurrebbe dimodoché sia tu e
solo tu
ad esprimere un giudizio imparziale ‒ chiarì il Superquattro.
La ragazza
iniziava a seguire.
Antares si alzò per dimostrare la sua disapprovazione e si mise a
camminare su
e giù parallelamente al divano.
‒ Devi sapere
che numerose sono
state le catastrofi che si sono abbattute sul nostro pianeta negli anni
passati, sicuramente avrai sentito dei cataclismi di Hoenn o dell’ascesa
del
Team Rocket nelle regioni di Kanto e Johto ‒ Algol la vide annuire. ‒
Beh, tutto
questo è avvenuto perché ora come ora chiunque, malvagio o buono che
sia,
potrebbe fondare una sua setta e
avere dei seguaci che, con Pokémon sempre più forti e potenti, sarebbero
capaci
persino di sconfiggere le Leghe stesse. I Pokémon sono sempre visti come
compagni di vita degli umani, ma solo le persone buone la pensano così,
ci sono
alcuni esseri umani che li trattano come armi, e prova a sfruttare dei
Pokémon
come armi… stai sicura che il tuo si rivelerà un arsenale imbattibile.
Celia stava
ascoltando.
‒ Ogni volta che
una di queste
organizzazioni riusciva ad ottenere il potere, lo aveva fatto perché per
loro
non c’era nulla da perdere, le loro armi
erano tante e potevano essere sostituite o rimpiazzate, tutto questo
perché gli
Allenatori hanno il vero potere ‒ enunciò l’uomo.
La bionda si
trovò davvero a
riflettere su cosa avesse in testa Algol come tutta l’organizzazione di
cui era
parte. Si stava facendo delle domande, forse quel Superquattro era stato
fin
troppo convincente.
‒ Effettivamen…
‒ Celia ‒ la
interruppe Antares.
‒ Non devi giudicare le loro idee, ma il loro modus operandi ‒ fece. ‒
Chiedigli come intendono effettivamente agire…
La ragazza omise
l’interrogativa,
guardò Algol come aspettandosi delle spiegazioni.
‒ Ecco ‒ fece
lui. ‒ il nostro
obbiettivo ultimo è quello di creare una stabile e sicura rete di
informazioni
che aiuti ogni Allenatore ad identificarsi. Impediremmo a chi agisce
nell’ombra
di raccogliere troppo potere nelle sue mani e di crearsi un impero.
“Il che
significa distruggere la sua
privacy” tentò Avril.
‒ …mettere
insieme un database
che regoli le attività Pokémon nelle regioni per assicurarne la
sicurezza.
“Traduci annientare la possibilità di una crescita secondo un metodo personale.”
‒ …fermare i
potenziali
terroristi, promuovere chi riesce ad eccellere senza trucchi e inganni.
“Ossia trasformare gli Allenatori in divi da Hollywood.”
‒ Mi dispiace! ‒
lo interruppe
Celia con la testa gonfia delle parole di Algol e della sua coscienza
sovrapposte e petulanti. Non si rese conto di aver urlato, mentre i due
uomini
che erano nella sua stessa stanza sì, entrambi la guardarono stupiti. ‒
Mi
dispiace ma penso di dover comunque rifiutare ‒ sputò fuori a velocità
estrema
senza neanche ascoltare le sue parole.
Antares esultò
dentro, Algol
sentì invece un sottile filo di carta vetrata infilarsi nei suoi
ventricoli.
L’uomo della Faces non parlò.
‒ Grazie
comunque per l’offerta…
‒ concluse più dolcemente la ragazza.
Algol si fece
serio, tutta
l’enfasi della sua spiegazione morì nei suoi occhi. ‒ Va bene, Celia, ci
dispiace che non potremo averti tra i nostri collaboratori ‒ l’uomo si
alzò. ‒
Spero che ci rivedremo, un giorno ‒ e le strinse la mano.
‒ Algol, puoi
andare, adesso… ‒
mormorò Antares senza palesare il suo sollievo.
‒ Tolgo subito
il disturbo.
Il Superquattro
si diresse verso
la porta, prese giacca e bastone, indossò la prima e poggiò a terra il
secondo.
‒ Grazie per l’attenzione. Celia… Antares… ‒ salutò quello prima di
aprire
l’uscio, tornare al pianerottolo e sparire dietro il portone.
La ragazzina e
il Campione erano
rimasti immobili al loro posto, immersi in un’irreale silenzio.
‒ Celia,
credimi, hai fatto la
cosa giusta… ‒ sussurrò Antares a bassissima voce. ‒ Ma adesso sarà
meglio per
te darmi retta e fare ciò che ti dico, adesso il pericolo per te è un
altro e
non voglio assolutamente metterti nei guai.
La bionda, colma
di ansia per la
conversazione con Algol, senza l’energia di mostrare il timore appena
sorto
nella sua mente, mugolò con un filo di voce “va
bene” prima di tornare a respirare.
‒
Spiegalo ancora una volta ‒ fece Kalut.
“Certi
Pokémon si evolvono solo tramite le radiazioni emesse da particolari
oggetti,
nel caso di Growlithe c’è bisogno di una Pietrafocaia, ma per lui è
bastato il
tuo solo tocco a permettere l’evoluzione” chiariì Xatu.
I
due, con Venipede che era in spalla a Kalut, erano accodati al Pokémon
Leggenda
che stava facendo loro da cicerone. Correvano lungo il marciapiede
sotto gli
occhi di poche persone che neanche facevano attenzione a loro. Le
strade di
Idresia erano quasi desertiche.
‒
Spiega ancora una volta anche come funziona tra umani e Pokémon, anche
se penso
di saperlo… ‒ fece di nuovo il ragazzo.
“Gli
umani li prendono come compagni, certi li allenano e li usano per
battere le
palestre, altri li crescono oppure li allevano. Più o meno ogni essere
umano ha
dei Pokémon e…”
‒
Ok ‒ lo interruppe Kalut. ‒ ricordavo bene.
Arcanine,
muovendosi allo stesso ritmo del volo del pennuto e della corsa
dell’umano,
riuscì a percorrere quasi venti isolati prima di fermarsi e indicare
un
edificio ai compagni. Kalut non aveva neanche il fiatone, Xatu sentiva
un lieve
formicolio alle ali.
‒
La cosa delle Poké Ball… ‒ mormorò Kalut alla sua guida.
“Gli
uomini le utilizzano per trasportare i…”
‒
Ok.
Il
ragazzo prese le tre Poké Ball acquistate la scorsa notte dalla borsa
di tela
che aveva in spalla che pure era stata rigorosamente acquistata in un
Market.
‒
Mi hai detto di dare poco nell’occhio, forse è il caso che entriate
qui dentro…
‒ propose.
Arcanine
distolse l’attenzione dalla meta a cui aveva condotto la squadra e si
accostò
all’Allenatore, acconsentiva, Venipede non emise suono e si limitò a
percorrere
il braccio su cui stava in direzione delle sfere, Xatu annuì col becco
appoggiando con compostezza la decisione.
Le
tre Ball furono immediatamente colmate, per convenzione, Kalut tentò
infatti
come prima cosa di rimettersi in contatto con Xatu. Non gli riuscì. Lo
tirò
fuori.
‒
Come mai non riusciamo a parlare quando sei nella sfera? ‒ chiese.
“Nella
Poké Ball si cade in un sonno artificiale, gli stimoli esterni sono
assenti o
in rari casi estremamente ovattati” spiegò il volatile.
‒
Neanche tu riesci a rimanere cosciente al suo interno? ‒ domandò
Kalut.
Il
pennuto rise. “Alla fine sono sono uno Xatu come tutti gli altri, io…”
‒
E che Pokémon Eterno sei? ‒ fece Kalut prendendolo in giro.
“Che
faccia tosta…” commentò Xatu. “Piuttosto, siamo giunti a qualche
conclusione?”
‒
Arcanine mi ha portato qui… ‒ fece Kalut.
“La
palestra di Idresia?”
‒
La palestra di Idresia.
Avevano
davanti a loro un edificio scuro e isolato da tutti gli altri. Il
simbolo della
palestra, una gigantesca imitazione della sua medaglia a forma di
sole,
troneggiava fiera sulla facciata appena sopra al portone di ingresso.
Quella
era una delle palestre più longeve di Sidera: fondata, si racconta, da
un Moore,
storica famiglia di Capipalestra di Hoenn, originari di Cuordilava.
‒
Secondo te qua troveremo qualcosa?
“È
una palestra di tipo Fuoco… Arcanine è di tipo Fuoco…”
‒
Banale, entriamo…?
“Vai.”
|
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Capitolo 31 *** Capitolo 30 - Apistia ***
Capitolo
30 –
Apistia
‒
Buongiorno ‒ salutò un adone
sulla quarantina infilato in un completo elegante nero. Le sue spalle e
i suoi
pettorali sembravano dover far esplodere tutti i bottoni della sua
camicia
quando incrociava le mani dietro la schiena.
‒ Salve ‒ e
Kalut lo guardava
strano, era entrato in una palestra nota per avere una Capopalestra
donna dal
grande carisma, ma se quello era soltanto il custode, allora
proporzionalmente
il capo sarebbe dovuto essere una specie di Charizard dall’aspetto solo
vagamente umano.
‒ Posso essere
d’aiuto? ‒ domandò
l’uomo con fare distinto.
Kalut riflettè
per qualche
istante, nel frattempo i suoi occhi cominciarono ad abituarsi al buio
ovattato
dalla unica luce fioca dei neon che aveva trovato all’interno di quel
luogo. ‒
Sì, conosce per caso questo Pokémon? ‒ chiese indicando l’Arcanine al
suo
seguito.
L’uomo lo guardò
per pochi
istanti, piegò appena le ginocchia perché il muso del canide si trovasse
in
esatta corrispondenza con il suo e potessero guardarsi negli occhi allo
stesso
livello.
‒ Gilroy? ‒
domandò ancora
rivolto al Pokémon
Arcanine abbaiò
felice. Kalut non
stava capendo. Allora l’uomo in nero tornò a guardare il ragazzo dritto
negli
occhi e con la sua espressione pacata e calma, sorridendo serenamente,
spiegò:
‒ Il suo nome è Gilroy, ed era soltanto un Growlithe quando lo abbiamo
incaricato di guidarti qui.
‒ Lo avete
incaricato di cosa? ‒
fece Kalut. ‒ Tu sapevi tutto, Xatu?
“Ovvio” annuì il
Pokémon.
L’uomo in nero,
presa coscienza
dei suoi modi troppo rapidi e precipitosi con l’ingenuo ragazzo che
aveva
davanti, pensò di spiegarsi meglio: ‒ Lascia che ti illumini ‒ mise con
fare
paterno la mano sulla spalla di Kalut e lo spinse ad inoltrarsi con lui
in
quell’ambiente scuro seguendo una certa linea di neon. I due, con al
seguito i
tre compagni del bianco, giunsero dopo pochi corridoi ad una stanza in
cui
l’illuminazione era lievemente più intensa. L’uomo fece accomodare un
titubante
Kalut su una poltrona scomodissima in simil-pelle e lo invitò a
rilassarsi.
‒ Lo sai,
aspettavamo da molto
che ti presentassi… ‒ mormorò quello.
‒ Ah sì? Tu e
chi? ‒ domandò
nella sua semplicità il ragazzo.
‒ Io e la
Capopalestra di questo
luogo.
‒ E per quale
motivo mi
aspettavate?
‒ Che tono
ostile…
‒ Puoi darmi
almeno delle risposte?
L’uomo sospirò.
‒ Prima di
tutto, piacere di
conoscerti, io sono Kurao… ‒ fece lui porgendo la mano.
‒ Kalut ‒ il
bianco gliela
strinse.
‒ Ecco, devi
sapere una cosa, lo
Xatu che ti ha accompagnato per quasi tutto il tempo è un Pokémon molto
particolare…
‒ Sì, me ne ha
già parlato, lui è
sulla Terra da parecchio tempo…
‒ Esatto.
Ebbene, proprio lui mi
ha fatto sapere che cosa sarebbe avvenuto il ventottesimo giorno di
agosto di
quest’anno.
‒ Ossia?
‒ Quand’è che ti
sei svegliato,
Kalut?
Il ragazzo annuì
comprendendo.
‒ E perché
dovrebbe essere così
importante la mia nascita, scusami?
‒ Beh, ci sono
molte leggende
sulle persone come te, alcune dicono che siete capaci di svegliarvi in
concomitanza con la morte di un Pokémon Eterno come Xatu, altre che
avete
poteri fuori dalla norma e capacità infinite… a me piace pensare che
siate
capaci di gesti che alle persone normali sembrano impossibili, ma è solo
la mia
visione delle cose.
‒ Io sarei
quindi una sorta di
essere speciale in qualche modo?
‒ Dipende da te…
‒ Che risposta
fastidiosa.
‒ Ecco, quello
che abbiamo fatto
è semplicemente lasciare che Gilroy ti trovasse, in un modo o nell’altro
vi
sareste congiunti dopo un po’.
‒ A quale scopo?
‒ Capire che
cosa abbiamo per le
mani, Kalut, se puoi esserci d’aiuto o no…
‒ Da quando mi
avete per le mani?
‒ Non abbiamo
te, ma il tuo
interesse.
‒ Suscitalo,
allora.
‒ Prima vorrei
essere certo che
tu mi prenda sul serio ‒ mormorò l’uomo divenendo cupo per un istante.
Kalut abbassò lo
sguardo e lo
rialzò subito.
‒ Abbiamo dei
nemici, gente che
vorrebbe cancellare gli Allenatori di Pokémon dalla faccia della
terra... ti ha
spiegato come funziona tra umani e Pokémon? ‒ chiese riferendosi a Xatu.
‒ Sì.
‒ Bene, devi
sapere che questa
realtà rischia di scomparire, queste persone vorrebbero trasformare
questo
mondo in qualcosa di completamente differente ‒ enfatizzò. ‒ Vogliono
distruggerlo e hanno il potere di farlo…
‒ Come? ‒ chiese
Kalut con fare
interessato. Xatu scosse la testa vicino a lui.
‒ Sono
un’organizzazione potente,
sono la Faces, e grazie ad alcuni eventi che li hanno fatti… lavorare
molto negli ultimi anni si sono
radicati fin dentro il cuore delle maggiori Leghe della nazione.
‒ Le Leghe… sì,
penso di sapere
che cosa sono… ‒ commentò Kalut.
‒ Certo che lo
sai ‒ sorrise l’uomo.
Kalut si fece
torvo.
‒ Insomma, avete
paura che
succeda qualcosa all’ecosistema che avete creato con le vostre Poké Ball
e le
vostre medaglie e per questo motivo cercate anche di sovvertire l’unica
legge
della natura: quella del più forte, mettendovi contro ad
un’organizzazione più
grossa di voi?
‒ È cinismo o
rassegnazione ciò
che sento nelle tue parole, Kalut?
‒ Dimmelo tu, io
sono nato
soltanto una settimana fa, non conosco la differenza tra un rassegnato
che non
ha più una strada da prendere e un cinico che se la prende con i
cartelli
stradali poiché non indicano la giusta via… ‒ fece sottilissimo il
bianco.
‒ Sapevamo che
saresti stato una
risorsa preziosa, ma non fino a questo punto.
Xatu era
stupefatto. Kalut si era
dimostrato un raffinatissimo oratore e aveva compreso tutto ciò che
Kurao aveva
detto senza alcun problema. Le sue previsioni future erano sempre giuste
ma
spesso molto ovattate, per questo motivo il carattere del ragazzo che
aveva seguito
nei giorni precedenti lo stava impressionando a tali livelli.
‒ Risorsa? Io
sarei una risorsa?
‒ domandò Kalut.
‒ Beh, ci hanno
parlato delle tue
potenzialità, sappiamo dalle previsioni di Xatu che tu…
‒ Kurao, scusami
se ti
interrompo, ma non so se ti hanno mai detto che a Xatu è vietato rendere
partecipi altre persone della sua lettura del futuro ‒ lo zittì Kalut
con tono
granitico.
Kurao si prese
un attimo per
respirare. La bugia non aveva retto.
‒ Stai per dire
che sono più
acuto di quanto pensassi... ‒ lo prevenne lui.
‒ E avrei pure
ragione.
Altro istante di
silenzio.
‒ Ho capito, non
posso fare
preamboli strani, non penso che ti interessi come siamo venuti a sapere
delle persone come te, voglio
solo chiederti:
vuoi darci una mano? ‒ tagliò corto Kurao.
‒ Io… ‒ Kalut
fece finta di
valutare la scelta. ‒ Non ho altri impegni in agenda, penso proprio di
potervi
dare una mano. D’altronde, non dimentichiamo che ho vagato più di una
settimana
cercando di capire quale fosse l’obbiettivo della mia esistenza, ora mi
ritrovo
per caso a dover mettere le mie presunte capacità superiori a favore di
una
delle due fazioni di una guerra di ideali, cosa potevo chiedere di
meglio?
Kurao sorrise
sempre più
incredulo, il soggetto che aveva davanti era così singolare da farlo
sentire
banale e impotente.
‒ Ma prima,
voglio sapere
esattamente come siete venuti a sapere delle persone come me… ‒ sorrise pungente lui. ‒ E fammi conoscere la
ragazza che comanda dentro questa palestra.
Antares
rovistava nei cassetti
dei mobili di casa sua nervosamente.
‒ Stammi a
sentire di nuovo,
quello che cercano di fare è creare un nuovo fenomeno di massa tutto
calcolato
al millimetro, non vogliono neanche una cellula fuori posto. Per questo
motivo
tu avresti dovuto scegliere di entrare nei loro ranghi, perché nessuno
fuori dal
loro progetto deve conoscere l’obbiettivo che hanno, il PokéNet
dev’essere un
particolare della vita comune che va a infiltrarsi e radicarsi come una
malerba, non una rivoluzione improvvisa.
‒ Capito ‒ annuì
Celia.
‒ Per questo
motivo cercano di
inimicarsi meno gente possibile e prenderla invece con loro, hai visto
Algol?
‒ Tu neanche
sapevi che fosse
parte del progetto.
‒ Lo sospettavo,
ha partecipato a
numerose riunioni del consiglio della Lega, ogni volta il giorno
seguente
arrivava puntuale come la morte una nuova ordinanza restrittiva della
Faces che
cancellava ogni più piccola falla che eravamo riusciti a trovare nei
loro
regolamenti.
‒ Quindi ha
lavorato come
infiltrato?
‒ Esatto, e non
so quanti altri
abbiano agito come lui, considerando che per me la mia Lega era
l’insospettabile.
‒ Quindi non
possiamo ormai
fidarci neanche di loro.
‒ No.
‒ E che intendi
farmi fare ora?
‒ Metterti al
sicuro.
‒ Al sicuro? Da
che cosa?
‒ Vedi, forse
sottovaluti i
tentacoli che la Faces ha infilato in ogni anfratto del governo, sai che
succede nei casi peggiori a chi è al corrente delle loro intenzioni e
non
decide di collaborare con loro?
‒ Cosa?
Antares fissò
Celia negli occhi
con lo sguardo più serio che gli riuscisse in quel momento. Tacque,
lasciò che
il messaggio giungesse a destinazione.
‒ Sul serio?
Sono così
pericolosi?
‒ In realtà non
si hanno prove,
ma penso che tutti i reati che hanno commesso siano stati insabbiati, lo
sai
perché mi hanno costretto a scegliere una cavia come te?
La ragazza
rifletté un momento.
‒ Ho un padre
adottivo che non fa
testo, un fratello che è nella mia stessa situazione e basta, sono
facile da
eliminare senza causare un polverone?
‒ Esatto, stesso
motivo per cui
io, che sono al corrente di tutto questo e sono anche diametralmente e
palesemente opposto ai loro scopi, sono ancora vivo. Non so se l’hai
notato, ma
sono il Campione della Lega ‒ sottolineò lui mezzo compiaciuto e mezzo
intimorito dalle sue stesse parole.
‒ Quindi con
mettermi al sicuro
intendi…
‒ Farti
diventare famosa. È l’unico
modo, vuoi salvarti senza farti andare dalla loro parte, se non vuoi
morire
basta solo che dai alle persone un motivo per non desiderare la tua
morte. E il
gioco è fatto.
Per poco cadde
il silenzio ancora
una volta.
‒ Cosa potrei
fare?
‒ So che hai una
squadra potente.
‒ Non abbastanza
per vincere
tornei o roba del genere…
‒ Nessun torneo
‒ Antares aveva
concluso la ricerca convulsa e febbrile che si era protratta per tutto
il tempo
della loro conversazione, aveva trovato l’oggetto che cercava e lo
teneva tra
le mani come un Santo Graal. ‒ I vincitori dei tornei cambiano ogni
anno, è una
fama che dura poco, tu devi diventare un idolo ‒ proferì mostrando alla
ragazza
il frutto delle sue ricerche: una patch per vestiti che mostrava il
simbolo
della regione di Sidera e la scritta “Apprendista”
in basso a caratteri in rilievo.
Era volava
rapidamente, era una
Noivern fedele e infaticabile, soprattutto nei momenti in cui il suo
Xavier
aveva bisogno di fuggire da una brutta situazione. I problemi erano
divenuti
due per il ragazzo, non solo era stato preso in giro da una ragazza,
cosa che
di per sé lo faceva stare male, ma era anche in dubbio sul da farsi con
quella
vicenda della Faces. Da ciò che aveva compreso, lei doveva custodirlo, ciò significava che senza la Capopalestra al suo fianco
lui era in qualche modo in pericolo?
Non lo sapeva,
le uniche cose
importanti in quel momento erano l’aria che lo sferzava con durezza e
Sagittania
che si faceva sempre più vicina. Aveva intenzione di fare l’unica cosa
che in
quel momento potesse effettivamente fare: continuare il suo
viaggio.
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Capitolo 32 *** Capitolo 31 - Cognizione ***
Capitolo
31 –
Cognizione
Hamal,
Capopalestra di tipo
Acciaio della cittadina di Sagittania. Egli aveva lavorato in una fucina
per
oltre trent’anni, aiutandosi con i suoi Pokémon a forgiare i migliori
metalli
artigianali della regione. Secondo ciò che aveva raccontato Cassandra,
unica
fonte anche se poco attendibile per Xavier, Hamal aveva rimpiazzato il
vecchio
Capopalestra dopo che questi passò all’altro mondo; la comunità
cittadina
considerava il rappresentante della medaglia come una sorta di guru per
tutti
gli Allenatori che avevano lì le loro radici, quindi erano soliti
convocare un
nuovo Capopalestra per votazione. Hamal era stato votato all’unanimità,
più di
tutti incarnava gli ideali della cittadina: gran lavoratore, uomo onesto
e
umile, brava persona anche se ferrea con i suoi discepoli,
tradizionalista.
La sua palestra
aveva mura in
grossi conci squadrati di marmo e un terreno che ricordava un dissestato
puzzle
di piastrelle distrutte. Quella palestra era stata tramandata di
Capopalestra
in Capopalestra e ogni scheggiatura, ogni crepa, ogni tessera della
pavimentazione tolta dal suo incavo nel terreno ricordava la sua storia.
‒ Empoleon, Perforbecco!
‒ Eelektross, Falcecannone!
La lotta
avanzava da pochi
minuti, il numero dei colpi incassati da sfidante e Capopalestra era più
o meno
pari.
‒ Idrocannone!
‒ Scarica!
L’Empoleon di
Hamal, per una
questione di svantaggio di tipo, cominciava a sentire la pressione della
stanchezza. Eppure si piegava ma senza spezzarsi, come una trave di
ferro.
‒ Fulmine!
Primo dei
Pokémon avversari a
terra. Xavier era soddisfatto. Trasse indietro Eelektross, pensando di
farlo
riposare qualche minuto.
‒ Non sei così
male, ma la tua
tecnica è ancora troppo precipitosa, ragazzo ‒ lo ammonì Hamal.
‒ Staremo a
vedere, allora ‒
rispose lui con un velo di arroganza.
‒ Sei troppo
sicuro di te,
insegniamogli le buone maniere, Probopass! ‒ enunciò.
‒ Scizor, tocca
a te ‒ rispose il
ragazzo.
Hamal non era
concentrato, ma
Xavier non se n’era accorto. L’uomo dai capelli argentei e le braccia
grosse
come peculiarità acquisita con gli anni dal suo mestiere guardava fisso
il
volto del suo avversario. Lo aveva riconosciuto, era il ragazzo con il
PokéNet,
ma non lo portava al polso e neanche aveva con sé la sua collega
Cassandra. Era
stato uno degli organizzatori del piano di Antares, si era reso conto
che
qualcosa non stesse andando per il verso giusto.
‒ Gemmoforza! ‒ ordinò Hamal.
‒ Forbice X!
Il Pokémon Chele precedette il suo avversario colpendolo con due fendenti uno
perpendicolare all’altro.
‒ Probopass, Falcecannone! ‒ e una grossa sfera di pura energia elettrica fu
lanciata dal Pokémon Bussola verso
il
crostaceo.
‒ Metaltestata ‒ fu la risposta di Xavier che indovinò in pieno
facendo scontrare il colpo contro il carapace indurito di Scizor
disperdendone
il danno.
‒ Bombagnete!
Probopass creò
un campo magnetico
attorno a se stesso alzando in volo e facendo levitare piccoli e grossi
detriti
di metallo che presto sarebbero stati scagliati addosso a Scizor. Ma il
suo
Allenatore scordò una piccola imperfezione nel suo piano: il Pokémon
nemico
cominciò a barcollare. Xavier comprese immediatamente, Hamal ci arrivò
poco più
tardi.
Scizor perse
l’equilibrio,
rovinando a terra, cercava di tornare in piedi ma il suo corpo non
rispondeva
perfettamente agli stimoli. Il campo magnetico di Probopass stava
facendo
effetto anche su di lui.
‒ Ottimo,
colpiscilo ora ‒
esclamò il Capopalestra al suo Pokémon.
‒ Sfrutta
l’occasione, salta e
evita il danno, Scizor!
Il Pokémon fece
un ultimo sforzo
spingendosi con le gambe verso l’alto, l’elettromagnetismo fece il resto
del
lavoro. Il metallo che Probopass aveva scagliato nella sua direzione si
muoveva
nell’aria perché attratto da un polo che quest’ultimo aveva posto
all’estremo
opposto della stanza, Scizor sfruttò a sua volta quell’attrazione per
muoversi
nell’aria nella stessa direzione delle rocce subendo da queste un
impatto di
forza minima. Il Pokémon Chele finì
sul
muro di sfondo poco dietro il suo Allenatore.
‒ Breccia, chiudi la partita.
E si diede lo
slancio spingendo
sulla parete come un nuotatore che si volta dopo aver concluso la prima
vasca. Saltò
con spinta incredibile verso il Probopass nemico e catapultò su
quest’ultimo un
violentissimo colpo diretto con uno delle sue tenaglie. Probopass cadde
a terra
esausto. Due a zero per lo sfidante.
‒ È un brutto
colpo, Xavier ‒
ammise Hamal.
‒ Io mi sto
divertendo ‒ fece
sgranchendosi le vertebre del collo Xavier.
‒ Il mio ultimo
Pokémon: Bisharp!
Un Pokémon Fildilama fierissimo scese in campo dal lato del Capopalestra. Il
suo
corpo cromato pieno di graffi e lievi incisioni suggerivano che forse
l’età di
quel Pokémon lottatore era paragonabile soltanto a quella del suo
Allenatore. Del
resto, l’Empoleon di Hamal faceva da aiutante nella fucina raffreddando
il
metallo rovente, Probopass spostando grossi carichi di materiale con il
magnetismo, mentre un Bisharp in una fucina era probabilmente ben poco
utile. Forse
era l’unico Pokémon dell’uomo allenato appositamente per la trincea e
gli
sfregi sul suo corpo confermavano questa tesi.
‒ Rimani tu,
Scizor? ‒ chiese
Xavier mettendo lo stato fisico del suo Pokémon prima delle sue
direttive di
Allenatore. Il compagno annuì.
‒ Focalenergia, allora.
Il Pokémon Chele concentrò nel suo sistema nervoso un grosso quantitativo di
adrenalina. Sentiva i suoi arti che fibrillavano letteralmente.
‒ Nottesferza, Bisharp! ‒ ordinò Hamal.
Un fendente
micidiale attraversò il
terreno a velocità incredibile aprendo letteralmente una voragine nella
corazza
inorganica di Scizor in corrispondenza del petto. Il Pokémon subì il
colpo.
‒ Cazzo, Breccia! ‒ cercò di salvarsi Xavier.
Ma l’avversario
era già pronto
con una Metaltestata da
scagliare
direttamente sulla fronte del nemico facendo di nuovo barcollare e
cadere a
terra Scizor.
‒ Dai, usa Ferroscudo! ‒ Xavier era alle ultime.
‒ Ghigliottina ‒ ultimò Hamal.
Fatale, le due
braccia del Pokémon
Fidilama si chiusero come una
morsa
sul collo dell’avversario mandandolo KO in un colpo. Luigi sedicesimo.
‒ Porca miseria…
‒ commentò
Xavier facendo tornare Scizor nella sua sfera. ‒ Quel Bisharp è un
mostro…
‒ Non ti stavi
divertendo,
Xavier? ‒ chiese Hamal senza ironia ma severo come il veterano che
insegna al
principiante.
‒ Vai,
Eelektross ‒ il ragazzo
chiamò sul campo il Pokémon Elettropesce.
‒ Ferrartigli!
‒
Lanciafiamme!
Andò meglio per
lo sfidante, per
forza di cose. I fendenti di Bisharp non potevano vincere contro la
colonna
infuocata scagliatagli contro dalla bocca a ventosa dell’avversario. Il
corpo
in acciaio del team-leader di Hamal si arroventò e il suo contenutò
sensibile
ne soffrì parecchio. Era stato un colpo fortunato.
‒ Di nuovo,
Eelektross, Lanciafiamme!
L’anguilla bissò
il successo
facendo addirittura cadere l’avversario su un ginocchio. Bisharp non
riusciva a
muoversi.
‒ Chiudi il
match, Falcecannone!
Come si suol
dire, squadra che
vince non si cambia, fu clamoroso l’errore di Xavier. Bisharp sfruttò
l’occasione
e con una Nottesferza sfaldò
la sfera
di elettricità come aveva fatto prima Scizor a Probopass. Hamal non
perse tempo
e diede un secondo ordine al suo Pokémon che scattò in avanti contro
Eelektross
e offese a sua volta. Ferrartigli.
E il
rovente acciaio si scontrò con il molle corpo del Pokémon Elettropesce. Bisharp, sicuro di sé, fece in modo di non uccidere
l’avversario
colpendolo con il piatto della lama, eppure non si risparmiò quanto a
violenza:
il secondo soldato di Xavier andò al tappeto all’istante, forse troppo
stordito
dalla manganellata.
Incredulo, il
ragazzo riprese
dalla cintura pure la Ball del suo compagno.
I suoi occhi
fissavano le fessure
giallognole di Bisharp che lo scrutavano da sotto l’elmo metallico del
Pokémon.
Per un momento la sua preoccupazione svanì, vide il dolore e la fatica
negli
occhi del Pokémon e gli tornò in mente la sua, per così dire, arma
segreta. Ebbe un momento per
ripensarci, ma non lo sfruttò.
‒ Pumpkaboo!
E il Pokémon Zucca avrebbe fronteggiato quel gladiatore invincibile che con
pochi colpi aveva messo al tappeto ben due Pokémon che Xavier allenava
da anni.
‒ Pirolancio! ‒ disse Xavier. “O la va o la spacca” pensò invece.
Forse fu lo
sbigottimento di
Hamal che non credeva che Xavier volesse mandargli contro quel Pokémon,
o forse
la stanchezza di Bisharp che iniziava a farsi sentire. Il Pokémon non
riuscì a
spostarsi e il debole colpo di Pumpkaboo fu proprio la goccia che, dopo
i
ripetuti e potenti colpi di Eelektross, fece traboccare il vaso. Il
nemico era
a terra, Xavier aveva vinto.
‒ Sì, dovrai
compilare un paio di
carte.
Antares aveva
condotto Celia al
Centro Pokémon di Telescopia. Lì si sarebbe ufficialmente registrata e
sarebbe
entrata come Membro Primavera nella federazione delle Leghe Pokémon.
Antares
intendeva farla sottoscrivere con la carica di Allieva, come lo era
stata Iris per
Aristide a Unima tempo prima, era una carica che non comportava obblighi
eccetto quello di seguire un allenamento che sarebbe stato impartito dal
suo
tutor che era rappresentato dal Campione in persona. E ovviamente, le
copertine
delle riviste di gossip.
Celia si era
ritenuta fortunata
per il suo bel faccino, una volta che era venuta a conoscenza di questo
piccolo
ma rilevantissimo cavillo. I due si erano recati al banco delegato alla
burocrazia federale al primo piano del Centro. Antares aveva parlato di
persona
con la commessa la quale era stata così gentile da non chiedere un
autografo lì
sul momento e aveva mostrato alla giovane cosa dovesse fare passo dopo
passo.
‒ Celia Ellison,
sei minorenne,
quindi tuo padre dovrà firmare e confermare per te, vogliamo portargli
insieme
i documenti? ‒ propose Antares.
‒ Pensi che sarà
d’accordo? ‒
chiese lei titubante.
‒ Penso che sarà
orgoglioso ‒
fece il Campione.
‒ Va bene,
partiamo immediatam…
La suoneria del
PokéNet li
interruppe.
Xavier, seduto
su una panchina
fuori dalla palestra di Sagittania, giochicchiava con le dita con il
badge
ottenuto da Hamal: la medaglia Scudo metallizzata dalla forma vagamente
triangolare, esattamente come uno scudo gotico. L’altro braccio invece
era lievemente
alzato e permetteva al ragazzo di guardare l’oloproiettore del PokéNet,
in
chiamata c’era sua sorella.
‒ Oh, dimmi… ‒
rispose la
ragazza.
‒ Ciao, cavia.
‒ Bene, ti hanno
parlato del
casino della Faces, allora…
‒ Certo che me
ne hanno parlato.
‒ È stato il tuo
custode? ‒ chiese la ragazza.
Celia vide
Antares, con la
cartella contenente i fogli che avrebbe dovuto firmare Marcos, scendere
di
sotto e farle cenno di raggiungerla appena avrebbe potuto. Lei annuì.
‒ Così si
chiamano, custodi? Io le
chiamavo stronze, una volta…
‒ E per quale…?
Senti, non mi
interessa, tu che hai intenzione di fare?
‒ Io? Non lo so
ancora, ma tanto
che alternative ho?
‒ Beh,
imbarcarti con quelli là
oppure…?
‒ Oppure?
Dimmelo tu?
‒ Non ti ha
proposto nient’altro...
‒ Cassandra?
‒ Era Cassandra
il tuo custode?
‒ Era.
‒ Vabbè,
comunque, non ti ha dato
un’altra possibilità.
‒ Era troppo
impegnata a
prendermi in giro…
Silenzio. Celia
cominciò a
scendere le scale, sapeva che quando la conversazione si faceva appena
fastidiosa, suo fratello tagliava corto appena possibile.
‒ Prenderti in
giro?
‒ Sì, beh,
diciamo che… l’hai
guardata, almeno?
‒ Sì… penso…
‒ Ecco,
all’inizio ci stava…
Celia sbuffò.
‒ Poi niente,
era solo una
stronzata per coprire il suo vero obbiettivo.
‒ Cavolo, Xavier
hai fatto
qualcosa con lei?
‒ Io no,
solamente un bacio…
‒ E dai, e Julie
che cosa
penserà?
‒ Julie cosa
deve pensare?
E la frase non
era stata
pronunciata né da Celia né tantomeno da Xavier. Ma dalla ragazza dai
capelli
corvini e il trolley blu scuro che era seduta all’ingresso del Centro
Pokémon
tanto ma davvero tanto somigliante a Julie che la guardava con occhio
truce. Celia
riattaccò all’istante più per movimento meccanico che per altro. Aveva
fatto un
bel casino. La ragazza di Xavier era comparsa davanti a lei.
‒ Mi hanno appena informato, Kalut, che
Cassandra sta
arrivando sarà lei a spiegarti tutto ‒ fece Kurao.
Kalut si era
sdraiato su uno
scomodissimo divano, vicino a lui Arcanine e Xatu riposavano, il primo
rannicchiato su se stesso e il secondo immobile nella sua eterna posa
totemica.
Con la mano il ragazzo carezzava invece il durissimo esoscheletro del
Whirlipede in cui si era evoluto il suo Pokémon Centipede. Il processo di crescita e di evoluzione era partito non
appena
il ragazzo lo aveva toccato. Ed era accaduta la stessa cosa anche con
Growlithe
poco tempo prima. Kalut cominciava a capire, quella rientrava tra le capacità incredibili di cui
gli aveva parlato
Kurao.
‒ Va bene, tanto
sono abbastanza
abituato ad aspettare…
‒ Penso proprio
che sarà un
incontro interessante ‒ sorrise l’uomo suscitando la curiosità del
giovane.
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Capitolo 33 *** Capitolo 32 - Crescita IV ***
Capitolo
32 –
Crescita IV
‒
Julie… ‒ mormorò Celia
immobile con le gambe che tremavano come fatte di gelatina e gli occhi
che non
riuscivano a trattenere una smorfia di paura.
‒ Celia, che
cosa stavi dicendo
di me? ‒ chiese quella che probabilmente non aveva udito il resto della
conversazione.
‒ Che cosa ci
fai qui?
‒ Ti ho fatto
prima io una
domanda… comunque sono qua per lavoro.
‒ Io stavo
parlando con Xavier… ‒
mugolò la bionda.
‒ Sì, penso di
averlo capito.
‒ Ecco lui… lui…
‒ Celia? Che
cosa sta succedendo?
‒ Senti, non
posso dirtelo io!
‒ Che cosa non
puoi dirmi?!
Fortunatamente
il Centro Pokémon
era vuoto. L’infermiera al bancone principale stava sfogliando senza
alcun
interesse una rivista di Vanity Fair quando la sua attenzione era stata
catturata da quella scenetta così spontanea. Julie e Celia si trovavano
davanti
alle scalette che conducevano al piano superiore, la prima si era alzata
per
avvicinarsi alla seconda e l’aveva raggiunta lasciando il trolley vicino
al
divanetto su cui era seduta.
‒ Julie, mi
dispiace, ma è una
faccenda tra te e Xavier, non voglio immischiarmi in alcun modo, si
trova a
Sagittania ora, chiedi lumi direttamente a lui…
‒ Celia! ‒
sbottò infine lei non
potendo credere alle sue orecchie.
La sua
espressione delusa e i
suoi occhi furenti si sciolsero quasi subito, Julie riprese due Ball che
aveva
lasciato al bancone di cura, si sistemò la felpa, prese la valigia e
lasciò il
Centro. Senza dire una parola, senza aggiungere altro. Celia non osò né
guardarla né salutarla.
Poco dopo la
bionda era già nel
BMW di Antares.
‒ Allora, è
successo qualcosa ‒
affermò con sicurezza il Campione.
‒ Credo di aver
appena rovinato
il rapporto tra mio fratello e la sua ragazza…
‒ Ahia, male…
‒ Sì, male.
‒ Devi sistemare
le cose, parlare
con qualcuno? ‒ domandò Antares.
‒ No, no, ormai
non posso fare
niente ed è inutile perdere altro tempo, dormiamoci su, domani partiremo
per
Delfisia ‒ stabilì lei.
‒ Il che era il
programma
iniziale. Va bene, ma prima vorrei portarti a parlare con una persona ‒
aggiunse Antares.
‒ Nessun
problema ‒ Celia annuì
poco partecipativa.
Il Campione
attraversò mezzo quartiere
fino a giungere all’area circostante al centro storico della cittadina,
parcheggiò di fronte ad una casa con un portone bello grosso,
sicuramente
costruita qualche secolo nel passato. Una targa, sulla sommità del
portale,
enunciava a grossi caratteri:
Club
dei montanari di Sidera
‒ Chi vuoi farmi
incontrare qui?
‒ domandò la bionda non propriamente in vena di sorprese.
‒ Un uomo
potente, Celia ‒
rispose il Campione.
I due scesero
dall’auto. Antares
suonò il campanello e dopo poco il portone si aprì. Una sorta di gigante
dalle
sembianze umane con occhi del colore della nebbia si presentò al
cospetto del
Campione.
‒ Buongiorno,
Ercole ‒ fece i
suoi ossequi lui.
‒ Antares, non
mi hai detto che
saresti venuto oggi ‒ ribatté quello con una voce che ricordava l’eco di
una
grossa esplosione all’interno di una profonda caverna.
‒ Io non avviso
mai, dovresti
ricordartelo…
‒ Infatti, chi è
la ragazzina qui
con te? ‒ chiese poi l’omone.
‒ Tu con un po’
di intuito ci
puoi arrivare ‒ rispose. ‒ Mentre per te, questo energumeno è Ercole,
Capopalestra di tipo Roccia di
Telescopia ‒ disse voltandosi da Celia.
‒ Piacere ‒
mormorò quella un po’
dubbiosa.
‒ Penso di aver
capito chi sei,
Celia, giusto? ‒ tese la mano l’uomo.
La stretta
delicata della bionda
sarebbe stata adatta per due dita della mano dell’uomo, con quest’ultima
Ercole
avrebbe potuto stritolarle la gabbia toracica con lo stesso impegno con
cui lei
strizzava una spugna.
‒ E adesso, il
motivo per cui
siamo qui, che credo entrambi conoscerete… ‒ fece Antares riaprendo il
discorso.
Ercole annuì,
Celia ci arrivò
poco più tardi. Il Capopalestra si voltò e invitò i due ospiti ad
avanzare
all’interno dell’edificio. Passarono per una stanza che sembrava
l’ingresso e
imboccarono la porta che si trovarono a sinistra. Lì dentro era tutto
illuminato da lampade ad olio e torce infuocate e sul soffitto vi erano
dei
fori e delle finestre poste in modo tale da permettere il ricircolo
dell’aria. Fu
in quel momento che Celia ebbe modo di squadrarlo: i suoi occhi
chiarissimi, la
sua carnagione scurita dal sole, le sue spalle e braccia imponenti,
l’uomo
aveva un addome prominente e ciuffi di capelli argentei che spuntavano
dal capo
ma tutto ciò rendeva la sua figura sicuramente più autorevole ed
evidente.
Eppure la ragazza, scrutando bene i suoi tratti somatici, si rese conto
di aver
già visto quel volto da qualche parte.
‒ So che sei già
stata messa al
corrente della situazione, Celia ‒ proferì l’uomo.
‒ Te lo ha detto
Cassandra? ‒
domandò Antares.
‒ Me lo ha detto
mio figlio ‒
rispose quello.
‒ Che lo avrà di
sicuro saputo da
Cassandra…
‒ Suo figlio? ‒
chiese Celia.
‒ Ah, credo tu
lo abbia già
conosciuto, ti ricordi di Arturo?
In quel momento
la ragazza
ricollegò, il Capopalestra di Vulpiapoli, gestore della
palestra-palestra,
amico di Antares, era il figlio del gigante.
‒ Sì, ho capito,
ho già avuto il
piacere…
‒ E penso che
anche lui ti abbia
dato la sua medaglia senza neanche combattere ‒ proseguì lui.
‒ Ehm… sì.
‒ Beh, questa
cosa mi delude
davvero tanto ‒ disse. ‒ Ma d’altronde cos’è più importante, questo o la
nostra
dignità di Allenatori?
Celia non
rispose alla domanda
retorica ma annuì guardando altrove.
‒ Però devi
promettermi che una
volta che avremo risolto questa vicenda della Faces, lotterai con me ‒
puntualizzò Ercole.
La ragazza
rimase per un istante
basita.
‒ Allora, ci
stai? ‒ chiese
l’uomo.
‒ Ehm, certo ‒
mormorò quella.
Ercole si passò
le dita sui
baffi, quindi rivolse lo sguardo ad Antares, che nel frattempo aveva
camminato
accanto a loro lungo quel corridoio che pareva infinito con le mani in
tasca e
gli occhi bassi.
‒ È dalla nostra
parte, Antares?
‒ chiese al Campione riferendosi palesemente a Celia.
Il campione
ricambiò il suo
sguardo fisso: ‒ Per ora, non ha altra scelta, ma sono sicuro che più in
là
anche lei comprenderà cosa vuol dire tutto questo... ‒ rispose.
‒ Va bene,
Celia, dato che ho
fiducia in Antares intendo mostrarti qualcosa ‒ proferì con orgoglio
Ercole.
La ragazza non
sapeva cosa
aspettarsi. Intanto i tre erano giunti al termine del tappeto rosso che
tappezzava il pavimento di quel corridoio illuminato da sceniche torce
accese
appese ai muri e si trovavano davanti ad un secondo portone, di ferro
stavolta.
Ercole lo aprì girando simultaneamente due grandissime manopole
metalliche che
emisero uno acre stridio. Le due ante scorsero sui passanti permettendo
alla
stanza che si nascondeva al di dietro di rivelarsi.
Celia spalancò
gli occhi.
L’ora di cena
era ormai giunta,
un giovane Allenatore di nome Xavier con i capelli corti e castani aveva
le
mani intente a sottrarre svogliatamente qualche nocciolina alla
ciotolina del
bancone del bar interno al Centro Pokémon di Sagittania. I suoi Pokémon
erano
in cura, si era appena fatto una doccia e quella sensazione di caldo e
asciutto
che segue l’asciugatura ovattava i suoi contatti col mondo esterno.
‒ Mi dai un
bicchiere di succo di
lime? ‒ domandò gentilmente alla barista che fino a quel momento gli
aveva
sorriso con l’occhio omicida di chi vorrebbe che i cosiddetti clienti
lasciassero della grana alla sua attività. Aveva di proposito cercato
l’ordine
più insolito che gli fosse venuto in mente.
‒ Freddo o
temperatura ambiente?
Xavier rimase
sorpreso: ‒ Più
gelido possibile, ne ho abbastanza di cose calde per oggi… ‒ mormorò
affranto
il ragazzo.
Era scazzato,
Celia gli aveva
riattaccato il telefono in faccia e non dava segnali di vita da quasi
un’ora e
ancora sentiva lo stomaco contorto per la vicenda di Cassandra.
‒ Ci vuoi due
cubetti di
ghiaccio?
‒ Cubetti di…
senti, gettaci un
po’ di tequila e triple sec e trasformalo in un Margarita con le tue
manine
magiche… ‒ fece lui demotivato.
‒ Sembra che la
giornata non possa
che peggiorare ‒ mormorò la tipa mentre con cominciava a riempire lo
shaker di
ghiaccio.
Xavier emise un
verso amorfo
allungandosi con le spalle sul bancone e mettendo la testa tra le
braccia
incrociate. Per qualche secondo il ragazzo si godé il rumore dei tre
liquidi
che scendevano lentamente sui pezzi di ghiaccio, quindi anche quella
dolce
quiete scomparve.
‒ Ciao, Xavier ‒
Voce conosciuta,
tono triste, brutte notizie.
Il castano si
voltò girando sullo
sgabello.
‒ Julie, mi sei
mancata ‒ sorrise
stanchissimo alzandosi e spingendosi ad abbracciarla.
‒ Anche tu ‒
rispose lei
rispondendo un po’ restia alla stretta.
‒ Che ci fai
qui? ‒ domandò
Xavier.
‒ Ero a
Telescopia per ritirare
un Pokémon per l’Allevamento quando ho sentito Celia parlare con te… di
qualcosa
che non potevo sapere.
I due
milligrammi di felicità
rimasti nel cervello di Xavier evaporarono con tutta la sua giornata
dietro.
‒ …e quando le
ho chiesto di
parlarmi lei ha detto di non poterlo fare ‒ concluse la mora.
‒ Sì ‒ borbottò
il ragazzo.
‒ Che cosa
succede, Xavier? ‒ il
suo tono si era alzato lievemente, era un misto tra il preoccupato e
l’acido.
L’Allenatore si
prese qualche
istante prima di dire: ‒ Niente, amore, va tutto…
‒ Non mentirmi,
sai che non ci
riesci.
Era all’angolo.
Xavier si guardò
le scarpe, ma gli occhi scuri di Julie gli bloccarono lo sguardo come
due
calamite. Odiava quelle situazioni, non che ne avesse vissute chissà
quante, ma
sentirsi impotente e bloccato da un muro di fuoco insuperabile lo faceva
sentire piccolo, troppo piccolo.
‒ Io.
‒ Tu.
‒ Potreiaverbaciatoun'altraragazza… ‒ disse tutto d’un fiato ad una
velocità supersonica.
‒ Che cosa?! ‒
esclamò lei.
‒ Io potrei…
‒ Ho capito
benissimo! Perché
diavolo avresti dovuto farlo?! ‒ esclamò furente quella.
‒ Io... non era
una… lei era…
Capì che “io non volevo”, “non era una
cosa ricambiata” e “lei era
troppo
figa” non lo avrebbero scusato. Le prime due poiché bugie, la
terza poiché
fin troppo sincera.
‒ Cazzo, Xavier,
che ti è venuto
in mente?! ‒ fece Julie facendo somigliare la frase più ad un lamento
che ad
una sgridata. Intanto la mora si era staccata da lui e aveva
completamente
cambiato espressione.
‒ Scusami,
davvero, non sapevo
quello che facevo, io…
‒ Chi è?
‒ Come?
‒ Chi è lei?
‒ Uff… ‒ sospirò
desolato. ‒
Cassandra, la Capopalestra di Idresia ‒ tirò giù.
‒ Con quella?! ‒
esclamò Julie
che, abitando da più tempo a Sidera aveva bene idea di che sex symbol
fosse la
peperina in questione.
‒ Sì, ma non è
stato un…
‒ È successo
altro tra voi?
‒ No.
Silenzio. Il
Centro era
praticamente vuoto, ma il silenzio avrebbe regnato pure se fosse stato
affollatissimo.
‒ Ero venuta a
svolgere una
commissione a nord con la speranza di incontrarti anche se da quando sei
partito non riesco neanche a parlare con te al telefono, ho rimandato
l’appuntamento con un cliente e ho fatto un viaggio in pullman con
l’ansia di
sapere cosa fosse successo… ‒ premise lei. ‒ Per sapere che non solo non
sei
stato capace di trattenerti da una bella ragazza, ma neanche hai avuto
il
coraggio di dirmi una cosa così stupida che se probabilmente sarei anche
riuscita a sopportare ‒ pronunciò lapidaria.
Ogni parola era
una coltellata
nella carne tra occhio e orbita oculare per Xavier, non vedeva speranza
in
quella situazione, solo un mucchio di rotture di scatole che
probabilmente
avrebbero fatto cedere il suo rapporto con Julie solo dopo tanto altro
tempo di
fastidiosi problemi.
‒ Hai ragione ‒
mormorò con un
filo di voce.
Ceffone. Altro
ceffone.
‒ Non seguirmi.
E Julie girò i
tacchi
andandosene. Xavier, impotente, tornò seduto sullo sgabello del bar e
voltò le
spalle anche lui all’immagine della sua probabilmente ex ragazza che se
ne
andava senza guardarsi indietro.
‒ Il tuo
Margarita è pronto… ‒
mormorò la barista con il tono di voce greve idoneo alla scena cui aveva
appena
assistito.
‒ Grazie ‒
sospirò Xavier
fissando il bicchiere a forma di sombrero contenente quel liquido
traslucido
ornato da una corona di sale e una mezza fetta di lime. ‒ Non poteva
andare peggio,
dicevi?
‒ Sta arrivando
‒ pronunciò
Kurao.
‒ Bene ‒ approvò
Kalut.
Il ragazzo era
sdraiato sul
pavimento, prossimo al sonno. O meglio, stanco morto per aver tenuto gli
occhi
aperti nel momento della giornata che il suo corpo definiva come ora
di dormire, ossia il giorno. Accanto
a lui Gilroy, fedele Arcanine e Scolpiede, fase ancora più avanzata del
suo
primo compagno, egli si era evoluto poco prima in seguito al secondo
tocco di
Kalut. Lentamente, sotto gli occhi vigili di Kurao, le sue palpebre si
chiusero
e i suoi muscoli si rilassarono. Kalut sentì il sonno scorrere su di
lui.
‒ Che cosa ha
dimostrato di saper
fare, ancora, oltre al far evolvere i Pokémon solo volendolo? ‒ chiese
allora
l’uomo a Xatu.
“Scolipede l’ha
visto rigenerarsi
da una ferita profonda in un attimo e sopravvivere al suo veleno senza
problemi,
inoltre senza mai allenarsi è ottimo nella ginnastica, ha un equilibrio
perfetto ed ha un’agilità ai limiti umani”
‒ Altro?
“Beh, non so se
hai notato ma
riesce a capire perfettamente e a mettere dalla sua parte qualsiasi
Pokémon.”
‒ Basta?
“Altre parole di
Scolipede, senza
mai aver combattuto prima lo ha fatto lottare con uno Staravia di gran
lunga
più forte sconfiggendolo all’istante.”
‒ È come se
fosse capace di
tirare fuori il meglio di qualsiasi cosa, le sue capacità di essere
umano e
anche quelle dei suoi Pokémon ‒ mormorò Kurao.
‒ Sono proprio
bravo… ‒ fece
Kalut nel sonno come avesse sentito tutto.
L’uomo portò lo
sguardo al
pennuto.
“Sì, sa fare
pure questo…”
ricordò Xatu.
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Capitolo 34 *** Capitolo 33 - Coerenza ***
Capitolo
33 –
Coerenza
‒ Sta arrivando…
‒ mormorò Kalut
ancora addormentato.
Kurao doveva
ancora metabolizzare
quella sua caratteristica, il ragazzo era più sveglio nel sonno che in
qualsiasi altro momento. E ovviamente l’uomo non poté che stupirsi
quando vide
entrare Cassandra dalla porta principale poco dopo il monito di Kalut.
Comunque
la sua attenzione fu catturata dalla pessima cera di lei che sicuramente
non
prometteva bene. Si diresse verso di lei.
‒ Cassandra, che
cos’è successo?
‒ domandò l’uomo.
‒ Niente di
grave, ma ho perso il
secondo soggetto ‒ mormorò lei delusa.
Kurao sbuffò ‒ è
stato per via di
un errore o un’imprecisione?
‒ È stata colpa
mia, lui aveva
dei sospetti e li ho chetati inventandomi di un mio interesse nei suoi
confronti, ovviamente quando ho dovuto svelare la copertura… si è
sentito
colpito nel vivo e ha deciso di non seguirmi ‒ spiegò.
‒ Hai avvertito
gli altri
Capipalestra?
‒ Sì.
‒ Sai se Xavier
intende fare
quello che gli hai consigliato o…
‒ Non gli ho
consigliato niente,
non ho potuto, abbiamo iniziato a litigare prima che potessi concludere
il
discorso ‒ spiegò la ragazza.
‒ Basta così…
I due rimasero
in un silenzio di
intesa reciproco. Non avevano molto altro da dirsi ed avevano ben altro
a cui
pensare. Tipo alla strana creatura che dormiva nell’ufficio della
Capopalestra.
‒ Sa far
evolvere i Pokémon col tocco,
rigenerare il proprio corpo ed è un Allenatore fortissimo. Tra lui e i
Pokémon
che controlla c’è un legame mentale indissolubile. Per il poco tempo che
ho
conversato con lui mi è sembrato di mente estremamente raffinata e in
più pare
che riesca a percepire tutto ciò che lo circonda fino ai minimi
particolari ma
soltanto mentre dorme ‒ argomentò Kurao riferendosi a Kalut.
‒ È fantastico,
hai messo alla
prova le sue capacità?
‒ Ho visto coi
miei occhi solo
l’ultima, le altre sono testimoniate da Xatu.
‒ Va bene ‒
sorrise Cassandra. ‒
allora vediamo di capire di che pasta è fatto.
La ragazza entrò
nel suo ufficio
spalancando la porta e subito posò gli occhi sul ragazzo dai bermuda di
jeans,
la maglietta bianca e i capelli argentei rannicchiato in posizione
fetale a
terra. Prese quindi un foglio dalla sua scrivania e lo avvicinò alla
guancia
destra del giovane, probabilmente intenzionata a lacerarla.
‒ Ferma ‒ fece
impassibile Kalut
aprendo appena gli occhi.
Ed ebbe la prima
prova, il
ragazzo avvertiva la presenza e l’intenzione delle persone vicine
durante il
sonno.
‒ Sarò delicata
‒ sussurrò
quella.
E delicata ma
stronza, tendendo
il foglio scavò appena nella pelle della guancia di Kalut. Vide il
sangue che
non faceva in tempo ad uscire che già i due lembi della ferita si
ricongiungevano come i flutti separati dalla prua di una barca appena
dopo il
suo passaggio. Seconda prova.
‒ Fantastico ‒
commentò la
Capopalestra.
‒ Quindi tu sei
Cassandra… ‒
mormorò Kalut aprendo gli occhi con la voce un poco impastata dal sonno.
‒
Saluti sempre le persone tagliuzzandole?
‒ No ‒ rispose
lei. ‒ Solo certi
soggetti speciali… ti ha fatto evolvere lui, Gilroy? ‒ fece poi la
ragazza
rivolgendosi al suo Arcanine che, in contemporanea con Kalut, aveva
deciso di
svegliarsi. Il canide fece intendere la sua risposta affermativa.
‒ Ma allora sei
davvero così
interessante come mi dice Kurao ‒ fece soave Cassandra.
‒ Sì, sì, ora ti
va di farmici
capire qualcosa in tutto questo però? ‒ domandò con un sottile velo di
fastidio.
‒ Mh ‒ Cassandra
sorrise. ‒ Va
bene.
‒ Parti dal
discorso delle persone come me,
come siete venuti a
conoscenza della mia esistenza?
Cassandra si
sedette alla sua
scrivania, Kurao era in piedi e statuario come sempre proprio accanto a
Xatu,
gli altri Pokémon del bianco stavano a terra poco partecipativi.
‒ Luna è una mia
collega ‒ esordì
Cassandra. ‒ Capopalestra di Costa Mirach. È una ragazza un po’ strana,
quasi
assurda e sinceramente non so come mai abbia ancora il suo ruolo. Un
giorno,
Antare, il nostro Campione, l’uomo che mi ha fatto conoscere la Faces,
mi ha
spiegato perché lei fosse ancora sotto la sua custodia.
‒ Mh, ovvero? ‒
domandò Kalut
attentissimo.
‒ Lei è come te,
molto diversa in
realtà, ma più o meno siete fatti della stessa pasta… soltanto che, lei
non è
riuscita a metabolizzare tutto lo strano potere che ha ricevuto alla
nascita ed
è… come impazzita ‒ spiegò Cassandra mutando espressione.
‒ E perché io
invece no?
‒ Non avete mica
le stesse
capacità, Kalut ‒ In quel momento l’interesse del ragazzo fu catturato
assieme
alla sua attenzione. ‒ basti pensare che lei già all’inizio sapeva di
essere
quello che era ‒ gli occhi di Kalut esprimevano il suo coinvolgimento
personale
nella questione.
‒ Che cosa…
siamo? ‒ fece fatica
ad utilizzare tale parola.
‒ Dei, come mi
piace pensare ‒
rispose secca Cassandra. ‒ Non sono mai stata una particolarmente
religiosa e
quelle entità che le persone normalmente identificano come dei… secondo
me sono
la cosa che più si avvicina a voi.
‒ Dei,
interessante.
‒ Di più, Kalut,
da quello che ho
visto in Luna… è incredibile da pensare, ma è come se lei sapesse tutto
di
qualsiasi cosa e in qualsiasi momento. È lei che nei brevi momenti di
lucidità
che ha avuto ci ha parlato di te.
‒ Io invece?
‒ Tu sai invece
fare qualsiasi cosa, sei come
un umano
portato al massimo delle sue possibilità: la tua mente, il tuo corpo…
‒ Tutto questo
lo sai oppure lo
pensi?
‒ Credo di
esserne certa.
‒ Che frase
ossimorica.
‒ Ne sono certa.
Pausa di ripresa
per entrambi.
Kalut sciolse la
tensione: ‒
Quindi voi avreste mandato a me Xatu…
‒ Luna ha
mandato Xatu, Antares
lo aveva in custodia ma è stata lei a portarlo ‒ corresse Cassandra.
‒ E poi Gilroy,
Arcanine a
cercare Xatu a sua volta?
‒ Beh, in un
certo senso, fatto
sta che alla fine ti abbiamo trovato…
‒ Non poteva
direttamente
portarmi Xatu da voi?
“Ho notato che
il tuo processo di
adattamento era lento, ti rimaneva difficile entrare nella realtà, per
un
attimo ho avuto paura che avessi persino fatto la stessa fine di Luna”
spiegò
Xatu stesso inviando telepaticamente le sue parole a tutti i presenti.
“Inoltre, mi divertiva seguire la tua crescita” confessò poi.
‒ Ho capito, è
interessante
sentirmi un super uomo, ma ora ditemi cosa avete intenzione di fare con
me?
‒ Chiederti di
scegliere se aiutarci
o no.
‒ Mi pare di
aver già accettato,
giusto?
Cassandra guardò
Kurao come per
cercare conferma.
‒ Io e il tuo
amico in giacca e
cravatta abbiamo già parlato, Cassandra ‒ spiegò Kalut. ‒ E sì, mi
interessa
questa sfida che avete da offrirmi, soprattutto dal momento che non ho
molti
altri impegni…
Cassandra
sorrise.
Ercole spalancò
la porta. Davanti
a Celia si aprì lo scorcio su una stanza incredibile: un enorme salotto
in cui
il soffitto sembrava lontanissimo, vi erano numerosi trofei appesi al
muro o
disposti su mensole apposite e a terra il parquet era tutto coperto da
tappeti
di pellicce. La stanza era rustica ed elegante allo stesso tempo, a metà
tra il
colore scuro del legno di noce della mobilia e le tinte più colorate
della collezione
di cappelli tirolesi.
La ragazza fu
catturata dal
fascino di quel luogo, così tanto che non si accorse dei sette omoni che
scrutavano con occhi indagatori la nuova arrivata. Appena la ragazza
abbassò la
testa e mise in tasca lo sguardo meravigliato, intervenne Antares che,
scambiandosi un cenno con il gruppo di uomini, rassicurò Celia.
‒ Questo, Celia
‒ esordì fiero
Ercole. ‒ È il Circolo degli Alpinisti di Sidera, o almeno la sua sede
principale ‒ enunciò.
‒ È fantastico ‒
fece sincera
lei.
‒ Dovresti
vederlo d’inverno
quando teniamo acceso il falò ‒ commentò l’uomo.
Effettivamente
la ragazza guardando
meglio notò un enorme camino scavato nel muro al centro della stanza che
sicuramente avrebbe contenuto un fuoco bastevole a scaldare un intero
appartamento
di medie dimensioni.
‒ E io ti ho
portato qui per un
motivo ben preciso, signorina… ‒ riprese Ercole. ‒ Ma sicuramente sarà
più gradevole
parlarne davanti ad una buona cena, che ne dici?
Tutti furono
invitati a sedere ad
un tavolo di forma rettangolare posto rasente uno dei lati della stanza,
da una
porta quasi invisibile che dava al salotto cominciò a fare via vai una
signora
paffuta tutta sorridente, che poi si rivelò essere la consorte di
Ercole, ogni
volta con un vassoio di vivande bello caldo. Celia, seduta da un lato
con a
destra Antares e a sinistra uno di quegli energumeni panciuti, si
sentiva una
pulce. I primi minuti della cena furono per la ragazza dei lunghi
istanti di
imbarazzo, si sentiva troppo fuori luogo e quei signori, per quanto
educati,
con le loro domande non la aiutavano affatto:
‒ Quindi sei un
Allenatrice, ma
quanti anni hai?
‒ Da quanto
alleni i tuoi
Pokémon, speri un giorno di vincere uno dei tornei della Lega?
‒ Sei stata tu a
scegliere di
trasferirti a Sidera, è una regione calma, hai mai visto i suoi
panorami?
La ragazza
rispondeva con qualche
bisillabo interrotto da un timido morso sferrato all’arrosto succoso che
la
signora di Ercole aveva divinamente cucinato.
‒ Scusate,
signori, la vostra
attenzione ‒ fece ad un certo punto Ercole dalla sua postazione di
capotavola
battendo delicatamente il coltello sul bicchiere colmo di vino rosso. ‒
abbiamo
avuto il tempo di conoscere meglio la nostra gentilissima ospite ‒
sorrise. ‒
ma adesso vorrei che ci concentrassimo sul motivo per cui oggi sediamo a
questo
tavolo assieme ad Antares ed alla sua nuova Allieva, a quanto ho saputo.
Il mormorio di
apprezzamento dei
presenti fece arrossire Celia.
‒ Celia,
scommetto che ti stai
chiedendo perché invece di star combattendo con un Capopalestra sei
seduta in
mezzo a dei montanari a fare cena, ebbene voglio darti tutti i lumi di
cui hai
bisogno.
Antares, senza
intervenire,
sorrideva annuendo. Adorava l’atmosfera di quel luogo.
‒ Il tuo maestro
ti ha parlato della
Faces ‒ Il nome della federazione fu seguito da un borbottio generale. ‒
e dei
suoi piani… folli ‒ Silenzio.
‒ Sì ‒ rispose
Celia facendosi
attendere un poco. ‒ E ho intenzione di mettere le mie forze dalla
vostra parte,
poiché mi rendo conto che allo stato attuale rappresento solo un peso
per voi ‒
mormorò.
‒ Ottimo, mi fa
piacere, ma prima
di tutto voglio parlarti di una cosa: Antares mi ha raccontato dello
spiacevole
evento di Algol nel suo appartamento… beh, in quel caso la Faces ci ha
giocati,
ma stai sicura che non è lei l’unica ad avere degli infiltrati ‒ rise
assieme
alle voci di approvazione dei presenti.
‒ Infiltrati? ‒
domandò Celia.
‒ Fonti sicure
interne all’organizzazione
confermano che oltre alla strategia del PokéNet ci sono altri giochetti
che
quegli uomini vogliono fare con il popolo ‒ spiegò. ‒ e uno di questi è
modificare radicalmente l’impostazione del nostro stato.
Celia fece
fatica a tenere su la
mascella.
‒ Il loro
progetto di ordine e
perfezionamento del sistema, consiste anche in questo, trasformare ogni
regione
in un gigantesco parco Allenatori, ma perché questo avvenga, ogni
regione deve
essere regolata secondo standard precisi… ma soprattutto deve
distinguersi
dalle altre per determinate caratteristiche.
Logico.
‒ E non sappiamo
molto, ma sono
arrivati a noi i progetti circa una regione precisa molto più a nord di
Sidera
‒ proseguì Ercole.
Celia intravide
alle spalle dell’uomo,
appesa al muro e riempita di scritte e segni come una mappa concettuale,
una
cartina di Sinnoh.
‒ La regione di
Sinnoh? ‒ tentò
lei.
‒ Esatto. Non ti
lascio
indovinare in cosa vogliono trasformarla, non riusciresti a metterti in
linea
con la loro follia… ‒ qua l’uomo si fece più cupo.
Celia alzò la
soglia d’attenzione
e Antares abbassò leggermente il capo.
‒ In un parco
Allenatori a tema
inverno ‒ Ercole abbatté la suspense.
‒ Che cosa? ‒
domandò Celia di
getto temendo sul serio di non aver compreso.
‒ Intendono
ricoprirla tutta di
neve e ghiaccio, Sinnoh per i piani di questi uomini deve diventare un
parco
divertimenti invernale.
‒ Far scendere
una glaciazione su
Sinnoh, questa azione ha un duplice scopo ‒ intervenne Antares senza
alzare gli
occhi. ‒ Come ben sai io sono quasi obbligato a sottostare al loro
giogo,
poiché la Faces ora come ora tiene in mano la Lega di Sidera.
Celia annuì.
‒ Ma Sidera è
una regione
piccola, estremamente piccola, comprarla
per
loro è stato possibile, più difficilmente riuscirebbero a tenere in mano
le
casse di Sinnoh, invece. Sinnoh non solo non può essere ricattata come
Sidera,
ma ha a capo una Campionessa che è tutt’altro che facile da gestire.
‒ Camilla?
‒ Proprio lei,
Camilla.
‒ Ancora non
riesco a capire…
‒ Quella donna è
fatta di roccia,
non si è lasciata intimidire da nessuno di loro. Ma la Faces è tenace.
Allora
immagina: freddo eterno su Sinnoh, il turismo scompare, le attività
chiudono,
loro hanno ottenuto un perfetto parco a tema su cui investire
comprandolo a
pochi spiccioli ‒ spiegò papale Antares.
Celia si prese
qualche istante
per riflettere. La Faces intende congelare un’intera regione, devono
essere
tutti impazziti.
‒ Quanto rancore
provano queste
persone nei confronti dell’umanità? ‒ fu Avril, cinica come sempre, a
parlare.
‒ Te ne sei
accorta. In realtà
loro credono di volere il suo bene, ma siamo concordi sul fatto che dare
il
bene al popolo coi metodi sbagliati e di nascosto non è la migliore
delle idee
‒ ribatté Ercole.
‒ Ma nessuno si
sta opponendo in
alcun modo? ‒ chiese Celia.
‒ Certo che sì ‒
nella voce di
Antares c’era un velo di malinconia. ‒ noi non possiamo fare molto,
avendo
membri della Faces pure sotto il culo, e in più ora come ora questo
meccanismo
è così forte e silenzioso da impedire una reale difesa ‒ riprese fiato. ‒ Ma conosco molte persone che stanno
agendo al buio più buio per fermarli.
Celia annuì
comunque poco
soddisfatta della risposta.
‒ Insomma ‒
tornò Ercole. ‒ che
cosa possiamo fare noi, Celia?
‒ Dare una
mano…? ‒ tentò lei.
‒ Esatto,
mettere le nostre
braccia e le nostre gambe a disposizione del popolo. La Faces crede
ancora di
poter manipolare una regione intera come fosse un videogioco, ma non
pensa agli
abitanti che si troveranno a non poter più vedere la luce del sole
coperta
dalle tormente ‒ immagine cruda.
‒ Che cosa
farete di preciso?
‒ Ci stiamo
dividendo le aree di
Sinnoh, agiremo come squadra di soccorso e allo stesso tempo cercheremo
i punti
da cui quei folli intendono far partire la glaciazione. In modo da
bloccarli ‒
spiegò Ercole.
‒ Mi sembra
un’ottima idea ‒ Un
sorriso spontaneo tornò sul viso della giovane.
‒ Il tuo
compito, vuoi
conoscerlo? ‒ domandò Antares tornando anche lui a sorridere.
La cena si
concluse, tutti i
presenti si raccolsero in un unico punto della sala per assistere al
conferimento della medaglia Cratere
alla giovane Allenatrice. Non era niente di speciale, ma Ercole ci
teneva. L’uomo
fece promettere solennemente alla ragazza che una volta conclusa la
vicenda,
avrebbe affrontato sia lui che suo figlio.
‒ Celia, hai più
o meno un anno
di tempo, tempo che sfrutterò personalmente per allenarti fino allo
stremo ‒
predisse Antares.
La ragazza
acconsentì, alla fin
fine era quello l’obbiettivo con cui aveva iniziato il viaggio.
‒ Dovrai
sostenere un po’ di
fama, quello stretto necessario che possa impedirti di essere un
papabile
bersaglio per la Faces. Ma nel frattempo ti trasformerò in una
guerriera, hai
la fortuna di essere uno di quei pochi individui che ancora può lottare
contro
quei bastardi senza rischiare di perdere ciò a cui tieni. Ti senti
pronta? ‒
chiese il Campione.
La ragazza
strinse la medaglia di
forma circolare di colore marrone scuro con due vette innevate incise
sopra.
‒ Sono pronta.
I letti del
centro Pokémon erano
scomodi, lo erano sempre stati. Ma si presta poca attenzione a
particolari
simili quando si pensa alla giornata seguente, alle sfide, alle donne e
ai
Pokémon.
In quel momento,
Xavier si rese
conto di quanto fossero scomodi quei letti.
‒ Vaffanculo
tutti, che schifo.
Era stato messo
nella merda dalla
sorella si era pure beccato la delusione e il due di picche della sua
ragazza
lo stesso giorno. Non sapeva a quel punto cosa fare. Tornare da
Cassandra
sarebbe stato un po’ come dargliela vinta e perdonare il suo animo
stronzo e andare
da Celia sarebbe stato come tornare anche da Julie, essendo lei entrata
a far
parte della famiglia, il che era pure un insulto al suo orgoglio. Come
ultima
possibilità c’era il terminare il viaggio e poi tornare a casa, ma ora
che
sapeva che tutto quello che stava facendo serviva ad uno scopo tanto
sinistro
ad un’organizzazione del genere, non era più così sicuro neanche di
quello.
Un po’ brillo,
stanco della
giornata piena ma improduttiva, si addormentò catturato da un sonno
spigoloso e
privo di sogni. Per la prima volta Xavier chiuse gli occhi senza avere
idea di
che cosa avrebbe fatto da quel momento in poi.
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Capitolo 35 *** Capitolo 34 - Traguardo ***
Capitolo
34 –
Traguardo
Le
giornate di merda, non sempre
iniziano male. Non sempre.
Celia si era
addormentata con il
suo diario a forma di barretta di cioccolato sulla faccia,
risvegliandosi così
con le guance sporche di grafite e due pagine di diario appiccicate alle
labbra. La matita invece era persa, il che non era sicuramente un bene.
La
bionda si alzò e raggiunse il lavabo del bagno per sputare un po’ di
bava
grigiastra. Allo specchio, guardandosi, le era sembrato di vedere uno
straccio
umido con gli occhioni. Si fece la doccia, si sistemò alla ben e meglio,
si
vestì, preparò la sua borsa e il suo zaino. Aveva una t-shirt con motivo
mimetico dalle tinte viola e un paio di shorts di jeans.
Raggiunse la
cucina dove Antares,
con addosso una maglietta nera come la pece e dei pantaloni di felpa
grigi
sorseggiava un intruglio sciacquato che lui chiamava espresso ma che non
avrebbe tenuto sveglio un passerotto per mezz’ora.
‒ Buongiorno,
caffè?
‒ No.
‒ Ginseng?
‒ No.
‒ Non è
giornata, vero?
‒ No.
I due partirono
verso le nove e
mezza, tra loro aleggiava il silenzio dalla sera prima quando erano
tornati
nell’appartamento del campione e non avevano avuto l’energia neanche di
salutarsi. L’uomo aveva mostrato alla giovane la sua stanza e lei vi era
piombata dentro. Avril non era contenta, la discussione sconclusionata
della
sera prima l’aveva fatta sembrare stupida. Nel BMW di Antares si udiva
di
sottofondo il ronzio dei suoi centotrenta chilometri orari fissi, che
poteva
benissimo permettersi in autostrada, insieme al chiacchierio di un
qualche
servizio in diretta sulla radio nazionale.
“Qui
con noi per un intervista esclusiva, il Campione della Lega di Hoenn,
Ruby, che
ha finalmente deciso di concederci qualche parola a proposito della
nuova linea
lanciata dalla sua label, allora…”
‒ Quante
chiacchiere inutili ‒
commentò Antares cambiando stazione radio. Si ritrovò sincronizzato su
una
frequenza che trasmetteva abominevoli pezzi dance anni ottanta.
‒ Quelle del
Campione di Hoenn?
‒ Quelle di
tutto il suo giro…
quel ragazzo infanga il suo titolo.
‒ A me piace… ‒
osò Celia.
Antares guardò
la ragazza seduta
sul sedile passeggero con un occhio lievemente deluso: ‒ è normale ‒
asserì.
‒ Ha stile, va
parecchio di moda
e sicuramente ha gusto per quanto riguarda tutto ciò che fa.
‒ È proprio
questo il problema,
il fatto è che lui dovrebbe essere il Campione di una Lega.
‒ Uff ‒ sbuffò.
‒ voi maschi
sempre fissati col fare a gara a chi è più forte, c’era bisogno di un
po’ di
innovazione, Ruby è seguitissimo, molto più del suo predecessore ‒
ritentò
Celia.
‒ Ho paura ‒
rivelò infine
Antares. ‒ che anche lui sia dei loro…
‒ Loro… loro?
‒ Sì, insomma,
la Faces.
‒ Non penso… ‒
mormorò la
ragazza.
Il discorso
cadde lì proprio come
era sorto.
‒ Lo sai,
qualche volta dimentico
che hai quattordici anni, sai che una volta che sarai ufficialmente la
mia
allieva le migliori etichette faranno a botte per averti come modella? ‒
cambiò
argomento il Campione.
‒ Dici sul
serio?
‒ Certo, te la
senti di posare
per qualche foto?
‒ Oh, ma è
bellissimo!
‒ E poi con
quegli occhioni lilla
che ti ritrovi, sono sicuro che li farai impazzire tutti quanti.
‒ Mh, non eri tu
quello che
dicevi che quelli come me e te devono pensare a lottare prima che
all’aspetto
superficiale? ‒ fece lei birbante.
‒ Beh, nel tuo
caso credo sia
importante coltivare entrambi gli aspetti, no?
Il mattino era
giunto anche a
Idresia, per tutta la notte Kurao e Cassandra avevano parlato a Kalut
delle
strategie con cui l’organizzazione Faces si era accaparrata tutto quel
potere e
quell’influenza sul governo, stavano per passare all’elencazione di
alcuni loro
agenti. Sullo schermo del pc
di
Cassandra scorrevano foto identificative con accanto didascaliche e
ordinate
descrizioni dei soggetti.
‒ Quest’uomo è
Jason Willow, lui
si è occupato dello sviluppo del PokéNet, non sappiamo molto altro, vive
in un
appartamento nella periferia di Idresia, è una pedina, il suo lavoro
l’ha
svolto.
‒ Devo farlo
fuori? ‒ domandò
Kalut grattandosi il mento.
Kurao e
Cassandra si guardarono
un pochino straniti: ‒ Dio, Kalut, non ce n’è bisogno ‒ fece lei.
‒ Mh, credo sia
il caso di chiarire
fin dall’inizio dove arrivano i vostri scrupoli… ‒ mormorò il ragazzo.
‒ Beh ‒ altro
sguardo tra i due
Capipalestra. ‒ Non pensiamo che ci sia bisogno di misure tanto…
drastiche.
‒ E allora io a
che servo?
‒ Non hai detto
che accetti tutti
gli incarichi che ti assegniamo? ‒ ripropose Kurao.
‒ Certo, ma dopo
le mie capacità sarebbero
sprecate, no? Inoltre
voglio divertirmi e non ho altro modo, ma se mi piace fare qualcosa
vorrei
continuare a farlo… ‒ rispose il ragazzo.
‒ E ti piace
uccidere?
‒ Non ci ho mai
provato, ma sento
una vocina dentro di me che lo vorrebbe ‒ asserì inquietantissimo.
Kurao
assottigliò le fessure che
permettevano alle sue pupille di scrutare sul mondo.
‒ Beh ‒ sorrise
sincero il
ragazzo. ‒ penso che si tratti di uno stimolo appartenente a tutti, alla
fine
fa parte della natura umana.
‒ Mi sto
rendendo conto ora di… ‒
cominciò Cassandra.
‒ Di? ‒ chiese
Kurao.
‒ Uff, scusa
Kalut, ci lasci
parlare in privato per un attimo? Perdonaci, ma vorremmo confrontare le
nostre
opinioni, non abbiamo mai avuto tempo di farlo da quando ti abbiamo
incontrato
‒ chiese lei.
‒ Capisco ‒
annuì il ragazzo.
Kalut lasciò la
stanza
chiudendosi la porta alle spalle. Passò un secondo in cui regnò il
silenzio.
‒ Kurao, non ti
fa un po’ paura
la situazione? ‒ domandò Cassandra.
‒ Non lo so, non
so se possiamo
fidarci di lui, nonostante con Luna non sia mai accaduto nulla di
strano…
‒ “Strano” con Luna è l’ordine del giorno, intendi dire che non siamo
mai stati in pericolo.
‒ Sì, insomma, a
me sembra abbastanza
spontaneo, non penso ci stia mentendo, tuttavia non vedo perché dovrebbe
essere
motivato a combattere dalla nostra parte…
‒ Tu che compito
volevi
assegnargli?
‒ La glaciazione
di Sinnoh, la
Faces dovrà fare… qualcosa là, magari installare delle strutture o roba
del
genere… Kalut è perfetto, resistente, forte, non penso che poi si
metterebbe in
pericolo in una situazione simile.
‒ L’hai pensato
ora, no?
‒ Sì, esatto,
per forza.
‒ Non la vedo
tanto bene…
‒ Cassandra, io
non ho idea di
che cosa dovremmo fare ‒ Kurao abbassò gli occhi. ‒ Qui lo dico e qui lo
nego,
ma ora abbiamo un alleato davvero molto potente…
‒ E…?
‒ …e penso che
dovremmo
assegnargli il compito per cui l’avevamo pensato originariamente.
Cassandra,
guardò Kurao
preoccupata: ‒ Zero?
‒ Esatto, la
Faces è nostra
nemica, ma Zero è un alleato che intende agire nella maniera sbagliata…
sai
bene che dovremmo temere più lui che loro.
‒ Ti hanno
parlato con precisione
dei suoi piani?
‒ Abbastanza, so
solo quello che
ti ho detto l’altra volta.
‒ Quindi Zero
attaccherebbe anche
gente come Antares, no?
‒ Esattamente.
‒ Troppo
pericoloso…
‒ Zero è dalla
nostra parte,
vuole sgominare quei bastardi, ma ha fatto l’errore di capire come
funziona, di
aver bisogno di distruggere le fondamenta su cui si regge il palazzo, e
non
avendo scrupoli potrebbe rappresentare una minaccia per chi ha solamente
cercato di salvare la sua regione dalla distruzione economica, non
possiamo
rischiare.
‒ Dobbiamo
tenerlo fermo.
‒ E credo
proprio che Kalut sia
il soggetto perfetto, alla fine non si tratta di competere ad armi pari,
Zero è
folle e instabile e Kalut è un dio, vogliamo scommettere?
Cassandra si
morse l’interno
della guancia cercando un verdetto altamente concentrata. Finché, quasi
involontariamente, annuì.
Il ragazzo fu
invitato a
rientrare.
‒ Kalut, abbiamo
deciso che
compito vorremmo che tu svolgessi ‒ spiegò Kurao.
‒ Ah sì?
‒ Vuoi saperlo
ora o prima
finiamo di istruirti su chi stiamo veramente affrontando?
‒ Vada prima per
la lezione di
storia, prolungare un attesa aumenta la curiosità e la soddisfazione nel
togliersela.
Kurao e
Cassandra si guardarono
ancora più stupefatti. Terminarono in fretta l’excursus sui vari
soggetti che
potevano rappresentare un elemento importante per Kalut, purtroppo per
loro
avevano veramente pochi dati a proposito dei membri della Faces, la
maggio
parte di loro teneva la propria identità celata con attenzione o mandava
dei
portanome al suo posto.
‒ Quindi,
spiegatemi quale
dovrebbe essere il mio compito… ‒ li esortò Kalut entusiasta di aver
raggiunto
quel momento.
‒ Ok, guardalo
bene ‒ fece
Cassandra aprendo sul suo pc aprendo una cartella che portava il nome di
Zachary Edward Roland. Cliccò
sul primo
file.
Sotto gli occhi
di Kalut comparve
la foto di un tipo sui vent’anni, lo scatto era stato sicuramente fatto
di
sfuggita e senza il consenso del soggetto, visti qualità e formato.
Nella foto,
il ragazzo portava un paio di jeans stretti e neri e una felpa dello
stesso
colore, monocromatico; aveva dei capelli scurissimi che sembravano un
groviglio
di rovi sulla sua testa, tanto erano spettinati.
‒ Memorizza bene
il suo volto,
sono poche le persone che lo hanno visto ‒ mormorò enfatizzando
Cassandra.
‒ Lui è Zero, o
meglio, Zachary
Edward Roland, campione della lega di Holon ‒ introdusse Kurao.
‒ E in che modo
dovrei interagire
con lui? ‒ domandò Kalut.
‒ Vedi, lui è
dalla nostra parte,
vuole vincere quelli della Faces, il fatto è che intende farlo uccidendo
coloro
che crede essere loro sostenitori. Con Zero chiunque non si opponga
apertamente
alla Faces, anche il nostro stesso Antares, rischia la vita solamente
perché
dovendo sottostare al loro scacco sono obbligati a fare ciò che
ordinano.
‒ Come mai avete
queste
informazioni? ‒ chiese il bianco.
‒ Informazioni
trapelate dal
consiglio dei Superquattro, io sono Capopalestra ad Holon ‒ spiegò
Kurao.
‒ Adesso è
inoffensivo?
‒ Per ora, per
motivi a noi
sconosciuti ‒ rivelò Cassandra.
‒ Che cosa
dovrei fare io?
‒ Vincerlo.
‒ Diventare
campione di Holon?
‒ Sì.
‒ Per toglierlo
dalla sua
posizione di potere.
‒ Esatto, Holon
è una regione
invalicabile, sono pochi quelli che sono stati capaci di raggiungere il
secondo
Superquattro, inoltre è una regione molto potente e dall’economia
radicata,
neanche la Faces è riuscita ad introdurvisi. Se togliessi a Zero il
controllo,
avremmo un problema in meno a cui pensare ma soprattutto un forte
alleato come
te a capo dei Superquattro e dei Capipalestra più potenti del mondo ‒
concluse
Cassandra.
‒ Nessun altro
può farlo, Zero è
incredibilmente forte e pensiamo che solo tu possa competere davvero con
lui ‒
aggiunse Kurao.
‒ Va bene.
‒ Ci stai?
‒ Penso proprio
di sì, ma voglio
introdurre una condizione.
‒ Illuminaci.
Kalut sorrise.
‒ Voglio la
completa libertà di
azione, mi prenderò la briga di tenere buono Zero, a condizione che mi
diate il
permesso di giocare a modo mio.
Kurao e
Cassandra cercarono uno
l’intesa dell’altro. Ricerca che fu vana.
‒ Rifletteteci,
non ho intenzione
di fallire, ho solamente bisogno di lavorare per conto mio ‒ semplificò
il
ragazzo vista la titubanza dei suoi interlocutori.
Riflessione
breve e silenzioso
accordo tra i due.
‒ Va bene ‒
risposero
praticamente in coro.
Per Kurao e
Cassandra era un
salto nel vuoto e tutti e due ne erano coscienti, ma insieme, come
telepaticamente, avevano deciso di fidarsi ciecamente delle capacità di
Kalut.
‒ Perfetto ‒
sorrise il ragazzo.
Xavier
sorseggiava lentamente un
cattivissimo cappuccino fatto dalla barista del Centro Pokémon. Erano
impressionati quei posti, inizialmente nati come centri di cura, poi
ampliatisi
fino a contenere piccoli market, bar, a volte ristorantini e persino
centri di
comunicazione, scambio e trasferimento globale. E Xavier rimaneva
stupito di
come potessero ancora fare un cappuccino pessimo.
Il ragazzo si
era svegliato da
poco e una doccia aveva aiutato il suo corpo a riprendere coscienza del
mondo.
Stava parecchio male, ma non se ne rendeva ancora conto. In un momento
gli
tornò in mente la Faces, Cassandra, Julie e i due schiaffi da lei
ricevuti.
Facevano ancora
male.
Ebbe per un
secondo l’idea di
gettare quel cappuccino a terra e infrangerne la tazza in mille
minuscoli
frammenti, ma il suo cervello lo trattenne coscienzioso. Accese il suo
PokéNet,
cercando di distrarsi. Nella mappatura che aveva impostato come
schermata
iniziale comparivano come sempre i due puntini indicanti Willow e Celia
sulla
sommaria mappa di Sidera come unici utilizzatori di un terminale simile
al suo.
E a quel punto gli venne un’idea.
Ricordò
dell’interrogatorio a cui
aveva sottoposto Willow il giorno in cui l’aveva incontrato. Quell’uomo
non
aveva mostrato alcun punto debole, ma probabilmente proprio lui era
l’artefice
di tutto quell’intricato programma che starebbe portando avanti la
Faces. D’altronde,
Xavier supponeva che egli fosse davvero l’inventore del PokéNet. Doveva
parlare
con Jason Willow, tornare a Idresia immediatamente. Magari avrebbe
potuto
trarre fuori qualcosa di interessante da quella vicenda.
Pagò in fretta
la barista, mise
il portafogli nello zaino e si voltò intenzionato a lasciare quel posto
per
volare via sul suo Noivern in direzione di Idresia. Ma cambiò subito
idea,
qualcuno aveva giocato d’anticipo.
Davanti a lui
c’era il professor
Willow in persona, senza camice ma con una camicia a quadri non stirata
e un
paio di pantaloni quasi decenti. L’uomo lo fissava con un sorriso
incomprensibile.
‒ Buongiorno,
Xavier ‒ salutò.
‒ Professore,
non mi aspettavo di…
‒ balbettò lui beccato in contropiede.
‒ Forse è il
caso che io e te
parliamo un po’ di lavoro, che ne dici?
‒ Noi… due?
‒ Esattamente.
Capì di aver
perduto sua sorella,
comprese che Celia non andava neanche nominata in quella discussione,
non era
il momento né tantomeno ce n’era il bisogno. Willow guidò Xavier fuori
da quel
Centro e lo fece camminare accanto a lui, i due cominciarono a
percorrere le
aree di sole nelle vie di Sagittania.
‒ Vedi, ragazzo,
io e te non ci
siamo mai conosciuti a fondo… ‒ esordì Willow. ‒ e anche se so un bel
po’ di
cose su di te, non ho mai avuto l’occasione di parlarti da pari a pari.
Xavier annuì.
‒ Quale sarebbe
il tuo obbiettivo
nella vita? Cosa aspireresti a diventare?
‒ Veramente non
ci ho mai pensato
davvero…
‒ Vorresti
comunque sfondare nel
mondo dell’allenamento dei Pokémon? ‒ fu più diretto lui. ‒ Una palestra
tutta
tua, magari una Lega, Pokémon forti e la possibilità di competere
continuamente
‒ fece misticamente il prof.
‒ Non so,
sarebbe sicuramente un’idea
da valutare ‒ giocò di ponderazione Xavier intuendo il suo gioco fatto
da
immagini e promesse.
‒ Beh, non è di
questo che voglio
parlarti ‒ lo sorprese.
‒ Scusi?
‒ Sai,
probabilmente tu avrai
pensato che ora io stia cercando di allettarti con qualche proposta… ‒
l’uomo
scosse la testa. ‒ No, io ho intenzione di chiarire tutti i tuoi dubbi.
‒ Riguardo a?
Willlow sorrise:
‒ Cassandra, la
Faces, il PokéNet… tutto ti è stato proposto come il nemico assoluto.
Xavier si fece
più serio, capì di
dover mantenere i ranghi.
‒ Ecco, diciamo
che il dispositivo
che hai al polso permette non soltanto di osservare, ma anche di
percepire
molto bene cosa sta succedendo attorno a te, sappiamo che alcune persone
non
vorrebbero vederti neanche parlare col professore… ‒ il suo tono si
scurì. ‒ …ma
stai sicuro che tutte queste persone non vogliono quello che è il vero
bene per
gli Allenatori e per le generazioni future.
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Capitolo 36 *** Capitolo 35 - Disperazione ***
Capitolo
35 –
Disperazione
Xavier e
il professor Willow
continuavano a camminare allo stesso passo, il primo con le mani in
tasca e lo
sguardo basso e concentrato, il secondo più rilassato con le mani unite
dietro
la schiena.
‒ In che senso,
professore? ‒
chiese Xavier.
‒ Nel senso che,
per gli oppositori
della Faces, la condizione ideale è soltanto quella immutata attuale ‒
spiegò.
‒ Vedi, avrai di sicuro seguito le spiacevoli vicende degli ultimi anni…
Xavier guardò il
prof come per
incitarlo a continuare.
‒ Kanto, Team
Rocket, una serie
di loschi figuri che cercano di creare una delle più potenti armi
biologiche di
sempre: Mewtwo; Hoenn, Max e Ivan, due pazzi con in mano il potere di
Groudon e
Kyogre rischiano di distruggere l’ecosistema terrestre; Sinnoh, Cyrus
con il
Team Galassia tenta di…
‒ Basta ‒ lo
interruppe Xavier.
‒ Vedi, ragazzo,
basta poco e
subito tutti gli uomini sono pronti per andare contro i propri simili,
spinti
da avidità, vendetta o ideali che mutilano la libertà delle altre
persone. Tutto
questo per la nostra troppa fiducia nelle persone ‒ fece con voce
lontana
Willow.
‒ Vada avanti ‒
resse il gioco
Xavier.
‒ Ciò che
l’essere umano crea
naturalmente con i Pokémon, quel legame di fiducia e sostegno reciproco,
è
sicuramente eccezionale, ma ciò non vuol dire che non vada preservato e
regolato. Ci sono persone che, sfruttando la stessa libertà di voi
onesti
Allenatori, raccolgono potere, forza, seguaci… queste persone sono delle
minacce per la popolazione e la Faces intende impedire a criminali del
genere
di fare ancora del male ‒ spiegò l’uomo.
‒ In che modo
esattamente? ‒
domandò il castano.
‒ Creando una
rete di
informazioni, rendendo tutti partecipi in tempo reale di ciò che sta
accadendo
a chi come loro sta allenando, lottando o viaggiando con i propri
Pokémon,
tutto è nato come un progetto di monitoraggio, ma ci siamo resi conto
che
sarebbe stato come sorvegliare le persone e spiarle di nascosto, per
questo
motivo si è pensato di rendere la nostra tecnologia fruibile da tutti,
in modo che…
‒ Professore, la
Faces manovra le
Leghe privandole delle entrate monetarie e costringendola ad affidarsi
alla sua
politica ‒ sopraggiunse troncando il discorso Xavier.
Silenzio. Il
ragazzo sapeva già
che il progetto PokéNet rispettava i suoi gusti personali, ma il suo
pensiero
subito era tornato al metodo con cui l’organizzazione stava agendo.
‒ Vedi, qui
vorrei veder emergere
la tua maturità, ragazzo ‒ fece Willow. ‒ Capita a volte che sia abbia
bisogno
di qualcuno che sia in grado di guidare le persone e di indirizzarle
verso la
via migliore per loro… si può perdonare un azione fatta all’oscuro di
tutti se
è compiuta per il bene comune.
‒ E quale
sarebbe questo bene? – Xavier
interruppe per la terza
volta Willlow.
‒ Una società
migliore, una
nazione in cui le persone non siano sotto il continuo pericolo di
qualche pazzo
idealista, un mondo sicuro e protetto dalla follia ‒ enunciò il prof.
‒ Io… ‒ mormorò
Xavier.
Aveva abbassato
la guardia, aveva
mostrato il fianco. Si era lasciato persuadere da Willow e in poco
tempo,
quello che subito era stato a lui introdotto come nemico lo aveva quasi convinto a sostenere i suoi ideali.
‒ Professore,
può ora dirmi
perché è venuto a parlare con me? ‒ chiese più docile il ragazzo.
‒ Perché penso
che un Allenatore
come te possa darci una mano… vedi, più che oggettivamente la bandiera
della
giustizia è portata dalla Faces, ora. E tu sei un ragazzo ragionevole,
penso
che un lavoro non ti dispiacerebbe, no? ‒ domandò a conclusione del
discorso il
professor Willow.
‒ Ci siamo
quasi… ‒ mormorò
Antares scrutando l’ambiente attorno all’autostrada che stavano
percorrendo.
Il BMW passò il
casello, si
introdusse in una strada provinciale più tortuosa ma anche più morbida e
giunse
dopo poche curve al paesino di Delfisia. La ragazza dai capelli biondi
guidò il
Campione suo mentore fino alla casa di Marcos. Celia scese dall’auto, il
viaggio non era stato particolarmente lungo ma aspramente
anestetizzante.
Sgranchirsi le gambe per lei fu come vedere il paradiso in terra.
‒ Marcos! Sono a
casa! ‒ esclamò
Celia bussando con ben poca delicatezza all’uscio.
Sentirsi in
terra propria dopo un
viaggio tanto tortuoso quanto strano le faceva un effetto particolare,
la
destabilizzava.
‒ Marcos! ‒
perse quasi subito
l’energia con cui chiamava il suo nome.
‒ Celia, che
succede? ‒ chiese
Antares intervenendo.
‒ Non lo so… io…
‒ Non hai detto
che solitamente
si trova a casa a quest’ora?
‒ Sì, lui…
aspetta!
La ragazza
percorse a ritroso il
vialetto di casa sua facendo il giro della staccionata e giungendo alla
porta
di casa dei vicini. La signora Gray, cordiale pensionata e crudele
avversaria a
carte di Marcos, aprì il portone con indosso un grembiule tutto
infarinato e i
capelli ridotti ad un’esplosione di ciocche grigiastre.
‒ Oh Celia, sei
tu ‒ esclamò
quella con fare affatto naturale. ‒ Cerchiamo di contattarti da ieri
sera, ma
non ci siamo riusciti.
‒ Come scusi? ‒
chiese lei.
‒ Oh, il caro
Marcos, è
all’ospedale, ieri ha avuto un altro attacco mentre annaffiava le
piante, per
fortuna lo ho visto dalla finestre ed ho chiamato i soccorsi… cara, mi
dispiace, sto preparando dei biscotti per quando si rimetterà in sesto ‒
sorrise la donna cercando uno spiraglio di serenità.
‒ Grazie,
signora Gray ‒ Celia
indietreggiò.
‒ Celia, andiamo
immediatamente ‒
si intromise Antares.
I due, sotto gli
occhi
preoccupati della signora Gray, tornarono nell’auto.
‒ L’ospedale
dovrebbe trovarsi di
qua ‒ guidò Celia improvvisandosi cicerone.
‒ Marcos è
malato, ma non pensavo
fosse tanto grave… ‒ commentò Antares.
‒ Neanch’io lo
pensavo, a dire il
vero ‒ ribatté la ragazza stringendo i denti.
‒ Non ha mai
avuto problemi
respiratori simili, prima?
‒ A volte, ma
quando si metteva
sotto sforzo… tuttavia non c’è mai stato bisogno del pronto soccorso ‒
rispose
lei.
Tra i due
aleggiò un sottile
pulviscolo di sospetto.
‒ Andrà tutto
bene, Celia ‒ cercò
di essere positivo Antares.
Dopo pochissimi
minuti erano all’ospedale,
la ragazza scese velocemente e chiese all’addetta all’ingresso dove
fosse il
paziente Marcos Levine. L’infermiera digitò il nome su un computer e
immediatamente poté dare una risposta ansiogena ad una già ansiosa
ragazza.
‒ Si trova in
sala due, sotto
intervento ‒ disse glaciale la donna.
Celia si sentì
mancare. Non riusciva
a credere di essere stata così precisa nel tornare per assistere ad una
scena
simile e soprattutto non riusciva a pensare ad altro che a Xavier.
Quando e
come sarebbe venuto a sapere di tutto quello? Come avrebbe reagito?
Sotto consiglio
di Antares,
trasse un lungo sospiro, si sedette su uno degli scomodissimi divanetti
della
hall e decise di aspettare fino a quando la situazione non sarebbe
mutata
spontaneamente.
‒ È il caso che
avvisi Xavier? ‒
suggerì il Campione.
‒ Sì, sarebbe il
momento… ‒
mormorò lei.
Temporeggiò.
Prese il diario
dalla sua borsa e vi incise letteralmente sopra qualche riga di sfogo
che Avril
non prese benissimo, smise quando la mina della matita con cui stava
scavando
la carta si spezzò a causa della pressione che le stava applicando
sopra.
‒ Calmati, così
non risolverai
niente… ‒ cercò di chetarla il suo Maestro. ‒ Chiama Xavier.
Celia annuì
silenziosamente, si
alzò in piedi senza dire una parola e scomparve dietro la porta del
bagno della
sala d’attesa. Antares la attese pazientemente.
‒ Non ti diremo nulla, sei libero di fare ciò
che
vuoi. Ma ricordati di essere ragionevole e di utilizzare quella testa
geniale
che hai al meglio, per favore… ‒ mormorò Cassandra a bassa voce.
L’aeroporto di
Idresia era uno
dei luoghi più caotici della regione. Sidera era relativamente piccola,
sia la
sua popolazione che la sua estensione erano pari ad un quinto di quelle
della
regione di Kanto, per questo non in tutti gli angoli del suo territorio
vi
erano strutture di servizio come stazioni o, appunto, aeroporti; ragion
per cui
tutti coloro che volevano intraprendere un viaggio particolarmente
esteso
confluivano nella capitale per salire su uno di quei mezzi di metallo
volante
che assicuravano uno spostamento non troppo comodo ma sicuramente
rapido.
Kurao, Cassandra
e Kalut erano ordinatamente
seduti sulle seggioline di plastica, tutti e tre aspettavano che il tipo
che con
cadenza regolare nominava i voli prossimi alla partenza convocasse i
passeggeri
del volo 577 in direzione Holon, più precisamente, Vivalet, capitale
regionale.
La Capopalestra di Idresia era in tenuta classica, vestiti leggeri e
comodi,
era comunque settembre. Kurao si trovava invece in tenuta più
altolocata, camicia
e pantaloni da assessore e una coppola di velluto nero in testa. Kalut
era stato
rifornito non solo di un nuovo cambio, che lo vedeva indossare una
camicia a
maniche corte color carta da zucchero e dei pantaloni di cotone dello
stesso
colore, ma anche un mezzo guardaroba nuovo. Teneva tutto all’interno
della
valigia da stiva che i due Capipalestra gli avevano molto gentilmente
regalato.
Kurao e Kalut
avrebbero preso l’aereo,
Cassandra sarebbe rimasta nella sua patria. Holon aspettava il ritorno
del suo
Capopalestra, ma era ancora ignara, come tutto il resto del mondo,
dell’impellente
arrivo di un personaggio come Kalut.
‒ Tu, da questo
momento in poi,
ti chiami Zachary Edward Roland, esattamente come Zero, è un’identità
che ti
servirà soltanto come copertura per situazioni come questa in cui devi
mostrare
la tua identità. Ovviamente è tutto falso, ma puoi startene sicuro,
nessuno se
ne accorgerà, anche perché in pochi conoscono la vera identità del
Campione di
Holon ‒ spiegò Kurao.
‒ Va bene.
‒ Passaporto,
carta d’imbarco, tutto
in regola, devi soltanto fare quello che ti dicono e non dare
nell’occhio, una
volta saliti sull’aereo io e te non ci conosceremo più. Qualcuno
potrebbe
riconoscermi e non è consigliabile che vedano anche te ‒ proseguì il
Capopalestra.
‒ Ci sono.
‒ E… ultima
cosa… non ti forniamo
nessun Pokémon al di fuori di quelli che hai già, sappiamo che non ne
hai
bisogno, ma ti consiglio di procurarti immediatamente una squadra che ti
protegga, nella valigia hai tutti gli strumenti che porta con sé un
Allenatore,
cerca di fingerti tale… ‒ concluse l’uomo.
‒ Ok.
“I
passeggeri del volo 577 diretto a Vivalet in partenza per le 12:30
sono pregati
di recarsi al gate B1” mormorò
una
voce dalle trasmissioni interne della struttura. Kurao e Kalut si
alzarono
in piedi, si scambiarono un cenno e si separarono. Kurao fece un cenno a
Cassandra per salutarla senza dare troppo nell’occhio, Kalut le sorrise.
La castana
sussurrò senza voce ma con le labbra un buona
fortuna
ad entrambi, quindi abbassò la testa e prese il suo cellulare.
Apri
la chat diretta ad una sua vecchia amica, una ragazza di nome Aurora.
Scrisse due
messaggi: “Sono partiti” quindi
“Ho deciso che dobbiamo fidarci di
Kalut”.
“Fino
a ieri non eri così sicura, signorina” rispose Aurora.
Cassandra non
sapeva se leggere
tale messaggio in tono serio o ironico.
“Ora
lo sono, perciò cerca di esserlo anche tu…” proseguì lei.
“Agli
ordini, generale!” fu
la
risposta.
“Speriamo
vada tutto bene” proseguì.
“Se
ci credi sei a metà dell’opera” fece
l’altra.
“Vorrei
fosse così semplice…” e
chiuse la conversazione.
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Capitolo 37 *** Capitolo 36 - Comprensione ***
Capitolo
36 –
Comprensione
‒ Fatto… ‒
mormorò una glaciale
Celia con gli occhi scavati nel viso e lo sguardo perso nel nulla. ‒ Ho
avvisato Xavier. ‒ proseguì.
‒ È incredibile
‒ borbottò poco
avvezzo a certi avvenimenti Antares.
E tutto passò
nel giro di uno o
due secondi: fu l’avvento di un chirurgo con ancora indosso la cuffia e
la
mascherina da sala operatoria che chiamò qualcuno con il cognome di
Marcos
nella hall a rivoltare quella giornata già abbastanza disastrata.
Antares cercò
di non intromettersi e di mantenere una posizione neutra, Celia sentì
invece le
parole del medico senza però ascoltarle o decifrarle. Le giunse qualcosa
a
proposito di una certa “Pneumopatia…
qualcosa…
cronica… qualcos’altro” e basta. Finché il discorso non troppo
chiaro divenne tale per forza di cose.
‒ Ci dispiace,
Marcos non ce l’ha
fatta…
E Celia, in quel
momento, riuscì
a pensare ad una cosa soltanto: “Ora
chi lo
dice a Xavier?” E si fece schifo per questo. Non aveva realmente
reso il
ragazzo conscio della situazione, aveva finto, si sentiva
immotivatamente in
colpa per quello che stava succedendo e non ci era riuscita.
Le ore seguenti
passarono in poco
tempo, lei dovette firmare qualche carta, le chiesero se volesse
rivedere
Marcos, le chiesero se avesse bisogno di mangiare o bere qualcosa e da
quanto tempo
non toccasse un letto. La ragazza si ritrovò qualche decina di minuti
dopo sola
nel corridoio dell’ospedale con la compagnia dell’odore sintetico e
della
marginale presenza di Antares. Il Campione si sentiva estremamente a
disagio in
quella situazione, non sapeva come né tantomeno se reagire.
‒ Celia… ‒
mormorò ad un certo
punto decidendo di introdursi nel contesto in maniera diagonale.
Quella non diede
segni di vita.
‒ Sai che ora,
poiché tu hai già
firmato le carte per l’assunzione come Allieva, sei legalmente affidata
a me?
Non fu
delicatissimo, le pupille
vuote di lei continuarono ad essere vuote, ma il suo pallore perse un
altro
grado nella scala dei colori. Si rese conto di essere un ottimo
Allenatore, ma
un essere umano decisamente mediocre.
‒ Antares,
Xavier non sa ancora
niente… ‒ sussurrò Celia rivelando al Campione che non aveva fatto ciò
che
avrebbe dovuto, ma sperando in cuor suo di non essere stata udita.
‒ Cosa? ‒ fece
lui sorpreso.
‒ Non l’ho
chiamato… ‒ rivelò.
‒ Celia ‒
mormorò lui. ‒ Dovresti
farlo immediatamente ‒ asserì.
‒ No… ‒ provò a
contestare.
‒ Come no?
Celia, è suo padre.
‒ Io… non ci
riesco…
La ragazza corse
via, fuggì da
quel reticolo di corridoi e corsie, uscì dall’ospedale e si ritrovò nel
parcheggio mezzo vuoto di quest’ultimo con il fiatone e la mano che
aveva
ridotto la borsa ad una poltiglia stringendola con le dita.
Karma, il suo
Skarmory, fu tirato
fuori dalla sfera. La prese in spalla, sbatté le ali e prima che Antares
potesse raggiungerla lei era già tra le nuvole. Il Campione però fu
lesto.
Pochi battiti delle ali squamose del suo Charizard e già la aveva
raggiunta,
fermare Karma fu facile, trarla fuori dalle sue grinfie un po’ meno.
Fortunatamente, quella che sarebbe potuta essere una fuga nervosa che
avrebbe
portato solo problemi nella situazione, era stata sventata. Celia volava
attaccata ad Antares più dalla paura di non cadere che da altro, il suo
Pokémon
Armuccello seguiva Charizard
cercando
di reggere il passo.
La discesa fu
morbida,
atterrarono in mezzo al Bosco Lira, in una radura priva di alberi, come
un
piccolo cerchio di luce in un cono di oscurità. Karma si mise a limare
le sue
penne in giro, Charizard sparì nella Ball del Campione. Antares fissò
Celia,
sconvolta e parzialmente distrutta. Non sembrava riconoscerla, non
riusciva ad
identificarla. La fece sedere a terra e lo fece anche lui.
Per un attimo,
ci fu il silenzio.
Poi la ragazza
scoppiò a piangere
all’improvviso, proprio sulla spalla di Antares.
L’aereo era un
mezzo di trasporto
estremamente silenzioso. Kalut ne era sorpreso. D’altronde di sicuro il
dispendio di energia dei suoi motori era enorme e, come si sa, più è
forte un
motore, più è forte il casino. Generalmente, almeno.
Il ragazzo
rifletteva tra sé e
sé, neanche poteva conversare con Xatu, i suoi Pokémon erano stati tutti
messi
nella stiva-porta-Ball e la telepatia non funzionava dopo una certa
distanza.
Tuttavia riuscì ad avvertire la presenza di numerosi altri esseri
nell’aereo.
Il ragazzo chiuse gli occhi: sotto di lui stava un Dragonair, poco più a
destra
un Accelgor vicino ad un Bronzong e ad un Gloom. Cominciava a
distinguerne le
forme, i versi e i movimenti, addirittura gli pareva di poterne sentire
l’odore. Poi, un piccolo ostacolo sbloccò la sua mente, avvertì una
sensazione
nuova, sentiva di poter comunicare con loro, di parlare con i Pokémon.
Ovviamente,
nessuno di loro
rispondeva ai suoi ordini, tutti si trovavano nel sonno artificiale dato
dalle
Poké Ball, per tale motivo gli stimoli esterni non sembravano toccarli.
Eppure,
si rese conto che alcuni di loro, quelli più attivi e vivaci, si
muovevano
appena quando udivano la voce di Kalut. Cercavano di svegliarsi,
ricevevano
impulsi e li elaboravano anche se non potevano reagire veramente. Si
divertì a
riconoscere i Pokémon che aveva attorno per tutto il viaggio, qualche
volta
andò pure in bagno per allungare il raggio della sua ispezione. A fine
volo, ne
aveva conosciuti parecchi, sapeva cosa gli piaceva e come si
comportavano,
conosceva la loro natura e le loro capacità.
Le ore erano
rapidamente passate,
il ragazzo si divertì parecchio quando l’aereo atterrò, quindi imitò gli
altri
passeggeri e si unì al sonoro applauso collettivo. Pochi minuti e prese
la via
d’uscita, salutò le hostess e i piloti e mise per la prima volta il
piede sul
suolo di Holon. Era in aeroporto, edificio da cui uscì non senza una
dozzina di
problemi dopo aver con fatica ripreso la valigia che aveva messo in
stiva sottraendola
al nastro trasportatore dei bagagli. Cercò con lo sguardo Kurao, lo
trovò tra un
gruppetto di uomini colmi di valige e bagagli ma non lo salutò, anche
lui lo
vide e fece finta di non conoscerlo. Quelli erano gli accordi.
Si ritrovò
finalmente in un
ambiente nuovo: odori nuovi, suoni nuovi, persone nuove. Sentiva attorno
a sé
migliaia di presenze, Pokémon in mano alle persone che lo circondavano.
Camminò
fuori dalla ressa dell’aeroporto, fuggì dalle pericolose strade del
parcheggio,
riuscì a raggiungere un luogo isolato: un giardinetto mezzo diroccato da
cui si
potevano ancora udire i rumori emessi dagli aerei in partenza o in
atterraggio.
In loco tirò fuori la Ball del suo Arcanine, che per abitudine aveva
iniziato
anche lui a chiamare Gilroy, il Pokémon Leggenda
venne fuori scodinzolando per il suo padrone. Xatu invece dormiva ancora
silenzioso assieme a Scolipede. Il ragazzo dai capelli bianchi salì in
groppa a
Gilroy caricandosi in spalla la sua valigia grazie alle bretelle
estraibili di
quest’ultima. Neanche diede l’ordine, l’Arcanine partì di gran carriera
diretto
verso il luogo che il suo Allenatore gli aveva indicato senza formulare
una
sola parola.
‒ Ricorda,
ragazzo, solamente i
membri della Faces possono accedere a queste aree, noi dovrai rivelare a
nessuno ciò che vedi o senti qui dentro… ‒ si raccomandò il professor
Willow.
L’uomo con gli
occhiali aveva
condotto il castano nel commissariato della Guardia Statale di
Sagittania, un
palazzo dal colore triste spostato in disparte rispetto al centro della
città,
privo di finestre mancanti di sicure inferriate. Il professore poté
accedere mostrando
una tessera che teneva sigillata nel portafoglio al sicuro da mani
indiscrete,
quindi spiegò agli addetti alla sicurezza l’identità di Xavier. Due
uomini in
divisa grigiastra lo circondarono, lo compresero tra le loro spalle e lo
scortarono all’interno. Dentro, l’edificio era un normale commissariato
di
quelli che spesso il ragazzo vedeva nei film: scrivanie, gente seduta
davanti
ai propri pc circondata da scartoffie e fotocopie, ventilatori impostati
sulla
massima potenza, luci fredde ma intense, movimento collettivo frenetico
e
disordinato. Tutti guardavano Xavier. Xavier guardava tutti.
Il ragazzo non
si sentiva a
disagio, ma si rese conto di una cosa, nella tensione generale che si
palpava e
che lui aveva incanalato nelle sue vene riuscì a notare una stranezza:
le
uniche guardie presenti in quel luogo erano quelle due che lo stavano
scortando
e un altro paio che si innalzavano statuarie vicino alle varie porte,
tutti i
tipi seduti impegnati a lavorare avevano un fisico inadatto alla
mansione di protettore della
comune serenità e vestivano
per lo più in maniera semplice e quotidiana come Willow, nessuno di loro
portava una divisa. La cosa lo inquietò.
Ebbe un tempo
relativamente breve
per fare le sue considerazioni, il professore che guidava le due guardie
che si
occupavano di Xavier andava a passo svelto. Xavier fu portato in un
ufficio che
se ne stava isolato in un cantuccio dell’edificio, una stanza che da
fuori
poteva anche essere scambiata per il bagno, ma dentro era invece molto
differente.
Una delle
guardie rimase fuori, l’altra
entrò assieme a Xavier e Willow e chiuse la porta alle proprie spalle.
Il buio
avvolse i tre, quell’ufficio non aveva finestre e non era illuminato da
alcuna
lampadina. Le pareti erano pure insonorizzate, notò Xavier, poiché oltre
alla luce
anche i suoni provenienti dal rumoroso ambiente esterno scomparvero.
Silenzio e buio,
per alcuni
istanti. Quindi fioche lampade di neon blu posizionate tatticamente sul
terreno
cominciarono a brillare. Più o meno agli occhi di Xavier si delineò una
stanza
più ampia di quanto pensasse: un grosso ufficio con due scrivanie, una
della
quali sovrastata da un numero superiore alla mezza dozzina di schermi e
un
grosso monitor attaccato al muro laterale comparvero davanti a lui.
All’angolo
della stanza c’era un immancabile macchinetta da caffè, sulla parete di
fondo
invece una larga proiezione del territorio nazionale. Tutti i monitor
presenti
nella stanza di accesero lentamente. Solo a quel punto, con quel poco di
luce
aggiunta, Xavier comprese come mai tutto si fosse impostato su on
non appena loro erano entrati: Willow
aveva posizionato la sua tessera Faces davanti ad un sensore
magnetizzato che
stava proprio accanto alla porta, tale gesto aveva dato il via a tutto.
Il prof si
sedette alla
scrivania, afferrò un mouse, cliccò su un paio di icone e aprì due o tre
finestre, quindi si aprì un mondo sul maxi monitor laterale.
Letteralmente. Una
mappa satellitare ad altissima definizione vi comparve sopra. Willow
mise in
evidenza una singola area della mappa, l’area di Delfisia. Xavier si
stupì. Immediatamente
comparve in rilievo un percorso evidenziato sulla mappa costituito da
diversi
punti presi a pochissima distanza l’uno dall’altro.
‒ Questi ‒
esordì Willow. ‒ sono
i movimenti compiuti nell’ultima ora da Celia.
Xavier spalancò
gli occhi.
‒ Che cosa? ‒
chiese.
‒ Sì ‒ confermò
orgoglioso
Willow. ‒ i vostri PokéNet mappano la vostra posizione una volta ogni
minuto, l’errore
è minimo, ma questa funzione è presente solo nei vostri prototipi, è
facoltativa per gli studi di sviluppo.
‒ E che diavolo
ci fa Celia dall’altra
parte della regione? Non doveva raggiungermi qui?
Willow si
allentò per qualche
secondo. Avrebbe voluto proseguire con la sua spiegazione illuminata, ma
pensò
che stare al gioco di Xavier lo avrebbe messo più a suo agio.
‒ Controlliamo
subito… ‒ mormorò
il prof.
E zoomando entrò
più nei dettagli,
le strade percorse dalla ragazza nella città di Delfisia partivano da
una via
di accesso della circonvallazione e continuavano a gran velocità verso
il
quartiere in cui si trovava casa loro.
‒ Evidentemente
era in auto ‒
spiegò Willow.
Quindi i suoi
movimenti si
fermavano per un breve lasso di tempo davanti alla villetta di Marcos.
‒ Quella è casa
nostra… ‒ mormorò
Xavier.
I passi di Celia
continuarono
fino a raggiungere, di nuovo in auto, l’ospedale generale di Delfisia,
luogo in
cui si era poi fermata per parecchio tempo.
‒ In ospedale? ‒
fece Xavier. ‒ Che
diavolo è successo?!
Willow non
aspettò neanche la
domanda di Xavier, si collegò ad un network interno della Faces e si
introdusse
nel sistema di telecamere di sorveglianza dell’ospedale. Essendo
quest’ultimo
quasi vuoto, trovò pressoché subito una ripresa in cui si vedeva la
ragazzina.
Xavier si stupì
di nuovo, Celia
era in compagnia di un uomo alto dai capelli lunghi e disordinati, un
soggetto
che non aveva mai visto ma che sicuramente non aveva la stessa età di
sua
sorella. Non riusciva a decifrarne il volto, data la scarsa qualità
delle
immagini delle telecamere.
‒ Chi diavolo è
quello? ‒ si
chiese il castano.
‒ Xavier ‒ lo
chiamò quindi
Willow. ‒ penso che tu abbia altro di cui preoccuparti… ‒ mormorò poi
con voce
sensibilmente atterrita.
Il ragazzo si
posizionò al fianco
del professore, il quale lo invitava a guardare i file che aveva aperto
su uno
dei monitor che aveva a disposizione per la sua postazione. Il castano
impiegò
qualche istante per comprendere di che cosa si trattasse, finalmente
lesse “Cartelle cliniche del
giorno 06/09” in
cima sulla barra della finestra.
‒ È di oggi… ‒
mormorò.
Willow lo lasciò
leggere,
comprese che era arrivato alla cartella che voleva mostrargli dal
singhiozzo
irregolare che interruppe la sua respirazione.
“Marcos
Levine, maschio, anni 63,
broncopneumopatia cronica ostruttiva, stato attuale: deceduto alle
11:37”
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Capitolo 38 *** Epilogo - Nostalgia ***
Epilogo
– Nostalgia
Kalut scese da
Arcanine, il
Pokémon Leggenda tornò
docile nella
sua Ball. Vivalet era una città grande, almeno così gli era stata
descritta, eppure
non si sarebbe mai aspettato di vederla tanto movimentata. Il ragazzo
sostava
immobile in mezzo ad una via dell’isola pedonale trafficata e calpestata
da
alcune migliaia di piedi di umani e di zampe di Pokémon. Udiva voci,
schiamazzi, versi, ma non ne distingueva con chiarezza nessuno. E la
cosa lo
infastidiva. Molto.
Decise che prima
di mimetizzarsi
nella città avrebbe dovuto impegnarsi a comprenderla e a capire più o
meno cosa
essa offrisse o contenesse.
Camminò per
alcuni minuti prima
di fermarsi accanto ai tavolini esterni di un bar: una coppia di
ragazze, loro
erano il suo obbiettivo. Finse di iniziare ad allacciarsi le scarpe,
intanto
origliò la loro conversazione.
‒ Tra un anno,
non ricordo in che
periodo preciso, ma vogliono organizzarlo a Vivalet ‒ la sua voce era
entusiasta.
‒ Proprio le
Internazionali? Era
da un po’ che non organizzavano un nuovo torneo… ‒ mormorò la seconda,
prima
sorpresa, quindi titubante.
‒ Lo sai, con
tutti gli eventi
degli ultimi anni, hanno saltato qualche occasione.
‒ Dimmi un po’,
ci sarà anche
Ruby? ‒ chiese poi una delle due con fare più malizioso.
‒ Solitamente,
più per tradizione
che per altro, tutti i Capipalestra dovrebbero partecipare alle
Internazionali.
‒ Mhhh… non vedo
l’ora di vederlo
in azione, dicono che anche quando è in lotta riesca a far brillare i
suoi
Pokémon come in una gara ‒ proseguì quella persa del suo idolo.
‒ Sì, e sai qual
è un’altra cosa
interessante? Ci sarà anche Green di Smeraldopoli!
‒ Oddio, io
adoro anche…
Conversazione
terminata, scarpe
allacciate, Kalut scollegò la sua attenzione. Cercò nella folla qualcuno
che
parlasse dello stesso argomento delle due ragazze, non trovò nessuno.
Secondo
obbiettivo, si accostò a due signori di età avanzata che sembravano
conversare
amabilmente durante un passeggio rilassante. Uno dei due aveva una barba
che
piacque molto a Kalut, bianca e morbida.
‒ È
giovanissimo, ha qualcosa
come vent’anni.
‒ E perché si fa
chiamare Zero?
Kalut affinò
l’udito.
‒ Dicono che sia
un soprannome
che ha fin da ragazzo, altri ipotizzano che serva solo a completare
l’immagine
misteriosa che dà di lui, altri pensano che intimorisca gli avversari.
‒ D’altronde
abbiamo visto tutti
il suo scontro con l’ex Campione, è fortissimo, il suo mestiere sa di
sicuro
farlo…
‒ Sì, e poi
effettivamente è
merito suo se abbiamo la Holon di oggi, alla fine è stato lui a creare
la Lega
per come l’abbiamo allo stato attuale.
‒ Hai ragione,
ha rialzato
parecchio il livello, prendi il Capopalestra Fosco ad esempio, lui a
Hoenn
faceva il Superquattro…
‒ Sì, infatti…
ma poi alla fine
come hai risolto con quel Sawsbuck?
Di nuovo, chiusa
conversazione.
Kalut cambiò strada.
Gli sembrava
qualcosa, decise che
avrebbe continuato con l’ascolto per tutto il resto della giornata, uno
come
lui si trovava a suo agio solo con quel metodo di informazione e dato
che
riusciva tanto bene, perché non utilizzarlo?
Terminò ore
dopo. Il ragazzo si
infilò nel primo vicoletto mezzo nascosto e invisibile che incontrò.
Valigia in
spalla, muscoli rilassati, fece un balzo. Si appese al cornicione della
finestra del piano terra del palazzo, si dette lo slanciò con le braccia
e le
spalle: ancora più su. Proseguì giungendo in cima a quell’edificio di
quattro
piani senza problemi. Lasciò la valigia sul tetto, da quel momento gli
era solo
d’intralcio. Aveva già localizzato la sua metà da quando era a terra,
non gli
restava che scalare un altro po’. Si avvicinò alla torre del palazzo
adiacente
a quello su cui era salito. Salì su di essa senza grosse complicanze,
giunse in
cima e si appostò sul muretto a riprendere fiato. Dopo un minuto era già
fresco
come una rosa. Si alzò in piedi e si mise in bilico proprio sul bordo
della
torre. Davanti a sé aveva Vivalet, città gigante ma che riusciva a farsi
apprezzare in certi momenti e in lontananza riusciva a scorgere il Monte
Roccianera.
‒ Vedi quello,
Xatu?
Il Pokémon Magico, fuoriuscito in totale autonomia dalla Ball che Kalut aveva
lasciato in valigia, quindi una ventina di metri sotto, lo aveva
raggiunto e
gli era comparso alle spalle. Kalut lo aveva percepito, ovviamente.
“Kalut, come ti
senti?” domandò
Xatu.
‒ Non è un po’
presto? Non sono
ancora caduto… ‒ ironizzò il ragazzo.
“Che cosa devo
guardare?” domandò
Xatu comprendendo che non era il momento di essere seri con il suo
Allenatore.
‒ Su quel monte…
‒ si corresse. ‒
Su una vetta di quella catena montuosa che attraversa Holon in tutta la
sua
lunghezza c’è la sede principale della Lega, luogo in cui io sono
diretto ora.
Il sole era già
alto nel cielo,
la brezza calda e soffice dell’estate di Holon che si accingeva a
terminare.
C’era silenzio in cima a quella torre su cui era salito il ragazzo. Solo
un
sottile brusio di fondo proveniente dalle strade sottostanti lo
raggiungeva.
Kalut osservava
in lontananza,
mentre Xatu sorvegliava.
C’era silenzio.
E senza
accorgersene, era giunta la sera. Tra il pranzo, il viaggio, l’arrivo e
lo spostamento,
l’operazione di ascolto delle persone e infine la cena, tutto il tempo
se n’era
andato e anche quel sei settembre giungeva al termine. Si sentiva vivo e
pronto
a correre di nuovo.
Non sapeva
perché lo stesse
facendo, ma supponeva di volerlo fare per un qualche istinto primordiale
all’azione che lo spingeva ad agire e non rimanere immobile.
Irrequietezza
dell’animo. Per un momento fece mente locale e verificò la cifra di
passi che
aveva mosso sul suolo urbano fin dalla sua nascita, più o meno era
quella.
Anzi, di sicuro, bel numero, tante cifre, avrebbe continuato a contare.
Kalut sorrise,
sentiva le voci di
quello che avrebbe vissuto, i rumori che avrebbe udito, i pianti che
avrebbe
ascoltato.
Eppure c’era
silenzio. Ma lui non
se ne rendeva conto.
Lo sguardo
congelato di Celia, le
sue pupille immobili stampate sulla carta dei suoi occhi, le sue lacrime
asciutte lungo le guance e lungo tutto il collo. Era accucciata, seduta
addosso
ad un albero che fissava il vuoto davanti a sé e il bosco immobile nella
sua brulicante
vitalità.
Sidera sembrava
spenta per lei.
Il sole sembrava spento.
Ad un certo
punto prese il suo
fidato diario, compagno di mille momenti e di mille sfoghi e di mille
problemi.
Vi scrisse sopra solo quattro parole.
Fissò Antares.
Lui ricambiò lo
sguardo.
Tornò al diario,
elencò gli
avvenimenti della giornata nella più totale asetticità e infine scrisse
le sue
sensazioni riguardo ad essi. Aggiunse poche righe alla fine, che scrisse
sull’ultima pagina del suo diario a forma di barretta di cioccolato
morsicata,
dove diceva quanto fosse il momento di reagire e fortificarsi. Tutte
frasi
fatte ovviamente, ma le stava riportando solo per darsi la carica.
Era stanca,
voleva riposare e
allo stesso tempo avrebbe voluto gettare giù il mondo per la rabbia che
aveva
dentro. Purtroppo, l’unico compromesso possibile era gettare quante più
parole
poteva sul foglio.
Pensava a
Marcos, pensava ai suoi
genitori allo stesso tempo che ricordava poco e male, ma che aveva
sempre
identificato come mamma e papà
che sono
morti in un incidente e mi hanno lasciato orfana.
Non se ne era
mai curata
particolarmente, era piccola, era ingenua, avrà pianto parecchie volte,
ma non
le era mai mancato l’affetto di una famiglia reale. Non con Marcos e
Xavier
accanto.
Inconsciamente
stava parlando
pure con Avril.
Quattro parole,
soltanto quattro
parole le aveva veramente dedicato, in mezzo a racconti schematici e
frasi
inutili:
“Avril,
sono diventata grande”
E un semplice no venne fuori dalla sua
coscienza. Una
piccola negazione che doveva farle rivalutare la sua frase.
“No, Celia, un
brutto avvenimento
come la morte di uno o più parenti non ti fa diventare grande…” mormorò
Avril
sincera.
“Ah no?” domandò
lei poco
presente.
“No” rispose
marmorea.
Celia versò un
ultima lacrima.
“Un grande
dolore non ti rende
una persona matura, ma ti dà un ostacolo da superare per diventarla”
concluse
Avril.
Celia si
risvegliò dal suo
torpore. E per un momento la ragazzina tornò con la mente a tutto ciò
che aveva
fatto negli ultimi giorni. La sua vita che era mutata completamente e
tutto ciò
che stava attorno a lei che era cambiato e diventato tutt’altro.
Catapultata in
una realtà completamente diversa da quella a cui era abituata, poteva
lasciarsi
travolgere o no, poteva lasciare tutto o no.
Silenzio per un
istante.
Guardò Antares,
suo mentore, lei
era sua allieva, guardò se stessa e quello che era, quindi guardò Avril
e
quello che sarebbe voluta essere. O che sarebbe potuta diventare.
Aveva trovato un
modo per avere
una rivincita con se stessa. Sapeva come gettare tutto quel marcio che
aveva
dentro in un serbatoio per renderlo un potente combustibile.
Tornò indietro,
doveva superare
un ostacolo per diventare una persona matura. Era pronta. O almeno si
sentiva
tale. E forse non erano due cose poi così diverse.
Girò pagina
dietro pagina, finché
non ricomparve davanti a lei la frase che aveva calcato a caratteri
cubitali, quelle
quattro parole che per lei valevano tanto ma che aveva capito non essere
vere.
Rigo sopra, le
riscrisse,
modificando qualcosa:
“Avril,
sto diventando grande”
“Non sono
stelle…”
E Xavier
rifletteva su quanto
tutti avessero dato contro di lui. Si stava facendo schifo da solo,
prima
Cassandra, poi Julie e infine Celia stessa, sua sorella osava pure nascondergli la morte di papà.
Non ne poteva
più, sentiva il
sangue che pulsava sulle tempie e il formicolio dei suoi nervi sulla
punta
delle dita. Aveva dato, nulla gli era tornato indietro e qualcuno aveva
osato
anche prendersi di più.
‒ Accetto ‒
disse soltanto a
Willow. ‒ Qualsiasi cosa vogliate farmi fare, accetto…
Era più una
questione di
principio. Era quasi solamente una questione di principio. Decise che
sarebbe
tornato a Delfisia, a casa sua, di nascosto e avrebbe preso la roba che
gli
serviva scomparendo dalla circolazione. Era la cosa più dignitosa,
d’altronde.
“Non sono
stelle…” intanto
pensava. “Sono ammassi di detriti e ghiaccio, il pianto delle stelle è
in
realtà una buffonata…”
Sentiva il
bisogno di agire, di
sfogarsi contro qualcosa e di litigare con suo padre per essersene
andato in
maniera così grigia e triste durante la sua assenza. Non intendeva
piangere,
sapeva bene che il suo vecchio lo avrebbe preso in giro.
E allora, si
chiese, neanche suo
padre aveva pianto la separazione con sua moglie? Probabilmente sì, ma
forse
aveva desiderato in quel momento un figlio più forte di lui. Migliore di
lui.
Suo padre,
Marcos, non era mai
stato una cima in nulla. Brava persona, bravo cuoco, ma non molto di
più. Aveva
sempre lavorato sodo, dall’alba al tramonto, per riportare a casa un
pasto a
quei due ragazzini che cresceva.
Eppure, non era
mai stato un eroe
moderno, di quelli che si ammazzano di fatica rinunciando alle ferie e
alle
vacanze senza farne sentire il peso a chi gli sta vicino. Lui lo
rinfacciava
spesso, quando era arrabbiato o nervoso, e a volte esagerava anche nelle
sue
reazioni. Comunque rimaneva una brava persona, gli aveva dato le sue
libertà,
non aveva mai cercato di cambiargli la vita, né nel male né nel bene,
non aveva
mai voluto strafare. Una persona semplice, con i suoi pregi e i suoi
difetti.
E uno di questi
difetti era,
appunto, la sua labilità. Se n’era andato.
E Xavier senza
accorgersene
iniziò a piangere un po’ sommessamente, con dignità. Il suo subconscio
aveva
deciso che anche la morte di una persona normale
andava pianta. Persona normale.
Quanto normale possa essere considerato un aggettivo utilizzabile nella
lingua
parlata a livello assoluto è veramente ignoto. Anche lui, tecnicamente,
era una
persona normale. D’altronde
era una
cosa tipica dei tre quarti delle persone, partire per un viaggio in cui
affinare le proprie abilità di Allenatore. E si rese conto, Xavier, che
in
mezzo a quelle persone lui non era mai stato il più forte, il migliore o
il più
intelligente.
Lui era, come
tutti sono, una
persona normale.
Come suo padre,
come sua sorella,
come tutti quanti.
Nessuno è
migliore degli altri
veramente… nessuno emerge… alla fine sei sempre tu, tu in mezzo ad un
mare di
altri tu.
Eppure, in tutto
quel marasma di
pensieri, Xavier, non riusciva ancora a trovare il suo filo di
ottimismo. Ma
sapeva di essere sulla buona strada.
“Non
sono stelle…”
Il
Pianto
Delle Stelle
Fine
Angolo
dell’autore
Mi
fa un
certo effetto leggere quella parola che inizia con la F lì sopra.
E
sì, so
che sono un sentimentalista, ma poco ci fai, è così…
Alla
fine
abbiamo concluso, cioè, abbiamo concluso più o meno quello che possiamo
dire il
“prologo” della serie One Soul, ma siamo già a buon punto dai, ho
iniziato con
il pezzone pesante – IPDS – e spero di andare avanti in discesa, anche
perché
ho roba grossa in serbatoio.
Per
il
resto, sono contento, soddisfatto di tutto, di Courage, di questo, di
quello
che sta per arrivare e più o meno anche di me.
Ringrazio
tutti
coloro che hanno seguito fin dall’inizio o che seguiranno in un secondo
tempo, mi commuove sempre sapere che qualcuno apprezza ciò che combino…
E
avrei
potuto utilizzare tutti i concetti che ho infilato in IPDS e infilerò in
tutte
le storie che seguiranno in delle serie originali… non legate ai
Pokémon…
magari avrei potuto pure venderle e non pubblicarle su internet… ma boh,
alla
fine non sarebbe stata la stessa cosa, non sarebbe stato come fare una
Fan
Fiction. Per vari motivi, per questioni di cuore e questioni di gusto.
Ho
scelto questo e lo porterò a termine.
Grazie
ancora.
Davvero. Soprattutto a te, bro.
Levyan
aka
Luca, per gli amici
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