1. Il Pianto Delle Stelle

di Levyan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Nascita ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Taglio ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Vagito ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - Abbraccio ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - Allattamento ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - Ricerca ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 - Scoperta ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 - Svezzamento ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 - Crescita ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 - Gioco ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 - Interazione ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 - Amicizia ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 - Movimento ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 - Caduta ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 - Dolore ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 - Pianto ***
Capitolo 17: *** Captitolo 16 - Crescita II ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 - Ribellione ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 - Fatica ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19 - Pigrizia ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20 - Impazienza ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21 - Stimolo ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22 - Delusione ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23 - Umiliazione ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24 - Cambiamento ***
Capitolo 26: *** Capitolo 25 - Crescita III ***
Capitolo 27: *** Capitolo 26 - Domanda ***
Capitolo 28: *** Capitolo 27 - Ambizione ***
Capitolo 29: *** Capitolo 28 - Sensibilità ***
Capitolo 30: *** Capitolo 29 - Ostentazione ***
Capitolo 31: *** Capitolo 30 - Apistia ***
Capitolo 32: *** Capitolo 31 - Cognizione ***
Capitolo 33: *** Capitolo 32 - Crescita IV ***
Capitolo 34: *** Capitolo 33 - Coerenza ***
Capitolo 35: *** Capitolo 34 - Traguardo ***
Capitolo 36: *** Capitolo 35 - Disperazione ***
Capitolo 37: *** Capitolo 36 - Comprensione ***
Capitolo 38: *** Epilogo - Nostalgia ***



Capitolo 1
*** Prologo - Nascita ***


Il Pianto Delle Stelle

Prologo - Nascita

 

Nel cielo di Sidera, non c’era l’ombra di una nuvola. Le stelle, dalla coltre oscura, illuminavano quella notte di agosto. La popolazione di tutta la regione aspettava impazientemente. Di Lì a poco sarebbe accaduto qualcosa, qualcosa di spettacolare. Una volta ogni dieci anni si poteva ammirare il Pianto delle Stelle, una surreale pioggia di stelle cadenti che si manifestava a intervalli regolari. Quella notte tra il ventotto e ventinove agosto, stava per accadere di nuovo.

 

Il belvedere della città di Delfisia era stato costruito appositamente per questo evento. Pochi anni prima, sul colle Altare, era stata edificata la terrazza omonima, progettata per ospitare le centinaia di persone che avrebbero corso abbastanza da prendere i posti migliori quella notte. Per onorare le antiche radici della città, il belvedere era stato costruito attorno alla meridiana della Gru, enorme orologio solare di marmo vecchio di oltre duemila anni, mai spostato dalla cima dell’altura, attrazione centrale della terrazza.

La folla, proveniente da Hoenn, Kanto, Kalos e da tutto il resto del mondo, girava per le strade di Sidera da giorni. Delfisia, come ogni altra città, pullulava di turisti che quella notte riempirono la terrazza Altare armati di videocamere, fotocamere e cellulari.

 

– Mamma che ore sono?

– Quasi le due, tesoro...

 

Nemmeno i bambini avevano sonno. Aspettavano lo spettacolo tra le braccia o sulle spalle dei genitori. Sapevano che, se si fossero persi il Pianto delle Stelle quella notte, avrebbero dovuto attendere altri dieci anni per rivederlo.

La folla era ansiosa.

 

Un ragazzo appoggiato alla ringhiera della terrazza aspettava, teso come gli altri, la caduta della prima cometa.

– Xavier! Xavier! Uff... scusi, permesso... – Una biondina particolarmente vispa avanzava zigzagando tra le persone, in direzione del ragazzo dai capelli castani.

– Celia! Sei qui! – Xavier era felice di vederla.

– Sono tornata in tempo! Sono tornata in tempo? – si rettificò trasformando l’esclamazione in una domanda.

– Sì, non è ancora successo...

Fu interrotto dalla voce di un bimbo.

– Mamma! Mamma! Ecco una stella!

Xavier si voltò. Celia si voltò. Tutta la folla si voltò.

In effetti, proprio in quel momento, una cometa falciò il cielo e scomparve tanto repentinamente quanto possibile.

Dalla folla si innalzò un sospiro sorpreso. Le videocamere cominciarono a riprendere, le fotocamere misero a fuoco. Nessuno voleva dimenticare quel momento. Due, tre, quattro... le comete cominciarono a piovere copiosamente.

Entrambi appoggiati alla ringhiera, Celia e Xavier, guardavano stupefatti.

Lei aveva quattordici anni. Il suo fisico iniziava a maturare, un principio di seno germogliava sul suo petto e delle timide curve cominciavano a scolpire i suoi fianchi. Indossava un top con le spalline sottili dello stesso colore dei suoi occhi, viola chiaro, quasi trasparente. Un paio di pantaloncini neri che arrivavano a metà coscia lasciavano le sue gambe libere di muoversi. I suoi capelli, di un biondo talmente chiaro da sembrare bianco, erano legati in una coda semplice e comoda.

Era la persona più vicina a Xavier, da sempre, almeno da quando ricordava. Il ragazzo che ora le stava accanto, per lei, era sempre stato un vero e proprio fratello.

Da ragazzini erano inseparabili, giocavano sempre insieme, ma il loro legame si strinse maggiormente quando i genitori di lei durante un viaggio di lavoro all’estero, scomparvero; Xavier la accolse a casa sua, Marcos, padre del giovane, fece in modo che l’affidamento della ragazzina fosse dato legalmente a lui. Aveva cinque anni, un presunto incidente aereo le aveva tolto le due persone che l’avevano messa alla luce, impiegò parecchio tempo per riprendersi.

Ora, viveva ancora con i due che le avevano dato una casa. L’insolita famiglia, originariamente stabilita a Unima, aveva deciso di trasferirsi a Sidera più o meno un anno prima. L’età dell’uomo si faceva sentire e il medico di famiglia aveva consigliato di lasciare la città di Austropoli per trasferirsi in un luogo dall’aria più pulita, più a contatto con la natura. L’uomo, onesto lavoratore per tutta la vita, aveva messo da parte una piccola somma di denaro che gli aveva permesso di comprare una modesta proprietà proprio in mezzo alla cittadina di Delfisia.

Celia, davanti a quello spettacolo, guardava il cielo. Stimolata dal momento, la ragazza, mise la sua mano su quella di Xavier. Il castano la guardò e sorrise. Le strinse quella sua manina morbida e delicata.

Xavier, sedicenne, era cresciuto contando soltanto sulla figura di suo padre. Marcos aveva avuto il primo figlio ad un’età abbastanza avanzata e non aveva mai raccontato al primogenito chi fosse stata la donna che l’aveva partorito.

Il ragazzo aveva dei capelli castani abbastanza corti che teneva perennemente dritti, alzandoli con l’ausilio dell’asciugacapelli. Era contrario al gel. I suoi occhi sembravano due perle nere. Abbastanza alto, slanciato. Celia, che era moderatamente bassa, arrivava con la fronte al suo petto. Era snello, forse grazie alla sua abitudine di uscire quasi tutte le mattine alle sei, per andare a correre. Faceva dai cinque ai dieci chilometri e tornava a casa, doccia e subito al lavoro. Dava una mano ad un allevamento Pokémon locale.

I ragazzi, fatta eccezione per l’aspetto, sembravano veramente fratelli. Erano uniti da un legame indistruttibile.

Celia, con il volto illuminato dalle stelle cadenti che sfilavano sulla nera passerella del cielo, ammirava in silenzio. Sorrisi, grida di turisti, stelle che cadevano dal cielo come lacrime. Sidera.

 

Intanto, quella notte, poco lontano dal belvedere Altare, nel Bosco Lira, fitta selva che sorgeva proprio sotto la terrazza, un ragazzo apriva gli occhi per la prima volta.

O forse no, non era la prima. Le sue pupille nere si abituarono alla luce delle comete che passavano sopra di lui in poco tempo. Il ragazzo si ritrovò al centro di un prato, completamente senza alberi. Era un piccolo spiazzo circolare vuoto al centro di quel bosco fitto e oscuro. Si alzò in piedi, ciò non gli dette fatica.

Sollevò il mento.

Contemplò quello che tutti chiamavano il Pianto delle Stelle. Sotto la brezza estiva, i suoi capelli lunghi, bianchi, si agitavano come eseguendo una strana danza.

– Chi sei?

Il ragazzo volse lo sguardo verso il bosco.

– Chi sei?

Nessuno.

Il ragazzo ci pensò un attimo.

– Kalut...

– Bene, Kalut, ben svegliato nel mondo degli umani...

 

– Ehi. – Una mano picchiettò sulla spalla di Xavier.

– Julie! – esclamò il ragazzo voltandosi.

Una ragazza dai capelli corvini era comparsa alle spalle dei due. Aveva un enorme sorriso in volto e i suoi occhi scuri e profondi ridevano più di lei.

– Sei arrivata! – fece gaudente il castano portandola alla sua destra e stringendola a sé.

Lei si lasciò cingere dal suo braccio. – Pensavi di liberarti facilmente di me? Ho avuto solo un piccolo contrattempo. – spiegò. – Che mi sono persa?

Uno “shhh” giunse dalla folla alle loro spalle. Nello stesso istante, un’altra stella cadente sferzò il buio spezzando quella sorta di fase di stallo in cui per alcuni minuti non era caduta la pioggia.

– Wow... – commentò estasiata la mora. – Da qui è tutta un’altra cosa... – proseguì lei che aveva intravisto la prima parte dello spettacolo dall’allevamento, appena prima di correre alla terrazza. Lei era la figlia del gestore dell’allevamento dove lavorava Xavier.

Celia, nel frattempo, era rimasta in silenzio. Aveva sorriso all’arrivo di Julie, ma nulla di più. Quando i suoi occhi chiari si incrociarono con quelli neri come l’oblio della ragazza alla destra di Xavier, i quali avevano compiuto una breve gita passando dal volto felice ma marchiato dal sonno dello stesso ragazzo castano, fino a concludere il viaggio con lei, la sua espressione fece la contorsionista circense.

– Ok, vi lascio un po’ da soli – disse sforzandosi di sorridere nei confronti di suo fratello.

Xavier ricambiò il suo sguardo. La bionda fissò ancora il cielo, quindi si allontanò dileguandosi silenziosamente tra le persone e prendendo posizione accanto alla telecamera di un inviata di Sinnoh Tv pochi metri più in là.

Era stata una sparizione più concettuale che materiale, Julie e Xavier si trovavano ancora in mezzo al marasma di gente, non erano affatto soli. Ma la unica presenza di Celia, logorava il momento di intimità dei due.

Qualche istante e Julie si prese lo spazio per stringere forte al suo corpo il braccio di Xavier. – è fantastico... – commentò suadente.

Le stelle, in quel momento cadevano numerose e il silenzio quasi surreale che si era creato opprimendo, come un topo che sottomette un leone, il chiasso generato dalla massa era il sottofondo perfetto per quel momento magico in cui le labbra dei due si incontrarono.

Passarono circa tre quarti d’ora tra effusioni e contemplazione del cielo; la gente aveva iniziato a stancarsi anche se, secondo la tradizione popolare, il Pianto Delle Stelle doveva durare dalle due della notte fino alle sei della mattina. La folla cominciava a diradarsi, le madri erano le prime ad andarsene, i figli si stufavano subito e toccava alle donne portarli via, i papà dovevano sempre dimostrare di essere uomini con in volto quell’espressione da “intanto vai tu, femmina, io sono maschio e resto a guardare” interrotta a brevi intervalli da profondi sbadigli. Quelli che se ne andavano per secondi erano i teenagers e i ragazzi poco più grandi, diretti verso bar, locali e pub assetati di alcol. Sulla terrazza si erano aperti dei buchi tra la folla che uno dopo l’altro si dilatavano facendola sembrare un colabrodo.

Dopo le due ore, i buchi della terrazza erano diventati i gruppetti di persone, il corpo del colabrodo era il pavimento rimasto vuoto. Piccole comitive, inviati delle televisioni, fotografi professionisti, scienziati e filosofi erano le razze rimaste, tutti rigorosamente sdraiati o seduti, in massa o da soli; il fatto è che dopo una cert’ora non si correva più il pericolo di estinzione, si aveva invece la certezza che coloro che erano rimasti lì fino a quel momento tanto lontano, non se ne sarebbero andati prima della fine.

– Savi... – fece infantile la mora strusciando la tempia al petto del fidanzato, i due si erano concessi di adagiarsi a terra. – ...andiamo...? – proseguì con un sorriso sbarazzino in volto.

– Nel nostro angolo? – chiese il ragazzo voltando appena lo sguardo.

– Nel nostro angolo – acconsenti quella.

Come due ombre si dileguarono da quel luogo, silenziosi e illuminati a tratti dalle comete, scomparvero sotto dallo sguardo vigile e quasi intristito di Celia. Discesero una scala, si portarono, mano nella mano, su un piccolo balconcino che nasceva al di sotto della terrazza Altare come una cellula-figlio in un processo di gemmazione.

Giunti a destinazione, i due si unirono di nuovo in un bacio, si abbandonarono su un lettino inclinato di pietra levigata posto lì al momento della costruzione. I loro occhi si chiusero e i loro corpi si unirono in quella calda notte, la notte dei poeti e degli assassini.

 

Nel frattempo, nel cielo, oscurata dalla luce bianca e pura delle altre stelle, passava l’unica scia viola di quella sera. Una stella cadente dal colore scuro sopra le teste di Xavier, Celia, Kalut. Sopra tutta Sidera.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Taglio ***


Capitolo 1 - Taglio

 

 


Il ragazzo camminava con passo insicuro nel bosco. Le sue mani, guidate dall’ingenua curiosità, sfioravano tutto ciò che avevano attorno. Incerto, passò i polpastrelli lungo le venature ruvide della corteccia di un pino. Una sostanza vischiosa e appiccicosa rimase sulle sue dita.
Per un momento i suoi occhi vitrei si spalancarono, come impauriti, ma poi la ragione prese possesso della sua mente e dei suoi recettori, concludendo che, forse, quel qualcosa non rappresentava una minaccia.
– Kalut – ripeté meccanicamente il ragazzo.
Nessuno rispose.
I suoi capelli bianchi neanche sembravano avere più la vita concessa loro dal vento. Tutto si era zittito, in quell’istante.
– Kalut! – ripeté, a voce leggermente più alta.
Mosse due passi all’indietro. Una fronda si mosse, probabilmente sotto il peso di un qualche piccolo Pokémon nascosto. Lui avvertì il rumore. Si voltò e fulmineo inquadrò il punto da cui gli era sembrato provenire il fruscio. Tremava nervosamente, il suo respiro era irregolare. Il suo tallone si sollevò da terra.
In un istante era giunto in mezzo agli arbusti, spostava furiosamente i rami più bassi degli alberi e dei cespugli, furente, accecato da una rabbia terrorizzata. Continuò la sua caotica opera di ricerca, finché un piccolo Ledyba uscì dalle fronde di un rametto dell’albero a lui vicino, probabilmente infastidito dal disordine. Kalut, alzando lo sguardo, si accorse di lui. Si bloccò.
Fissava quella particolare creatura volante con un volto stupefatto e inquieto. Il Pokémon gli si avvicinò. Kalut non diede immediatamente fiducia al Pokémon e prese distanza. Ledyba riprovò ad avvicinarsi, ma il ragazzo si fece ancora una volta indietro.
Per un momento i due si scrutarono. Alla fine, il Ledyba volò via. Kalut fece una smorfia e cercò di capire dove fosse sparito l’essere.
– Ledyba... – mormorò.
 
“29 agosto” segnava la sveglia accanto al letto di Xavier, “14:18” diceva anche.
Il ragazzo si strofinò il cuscino in faccia, sbadigliò, stropicciò gli occhi. Quindi saltò giù dal letto.
Aveva indosso un paio di boxer. Le notti estive sanno essere terribili. Mise in fretta dei pantaloncini e una maglietta senza maniche e scese al piano di sotto.
Un ben identificabile “buongiorno” proveniente dalla cucina giunse alle sue orecchie.
– Da quanto sei sveglio? – chiese lui senza rispondere al saluto.
La domanda era rivolta all’uomo che stava cuocendo due uova in padella il cui profumo si era diffuso per tutta la stanza principale, suo padre Marcos. Che il giorno prima si era preso la comodità di gustarsi la pioggia di stelle dal balcone di casa propria.
– Da quando ha bussato alla porta l’assistente del Professor Willow, biondo – In realtà il ragazzo non era biondo, ma il soprannome che il padre gli aveva appioppato da giovanissimo quando il suo crine era ancora di un giallognolo da neonato era rimasto al suo posto per ben sedici anni. – Ti cercava, ma ho preferito non svegliare l’adolescente che dorme – rise il genitore.
L’uomo, un po’ in sovrappeso, portava una camicia hawaiana e dei bermuda abbinati. Ai piedi aveva delle infradito verdi. Sul suo volto gioviale si riscontravano leggermente le tracce lasciate dai suoi sessantatre anni, ma la barba perfettamente azzerata e il sorriso sereno compensavano quei particolari come piccole rughe e capelli ingrigiti o mancanti.
– Il Professor Willow? – ripeté curioso Xavier stiracchiandosi e sedendosi al tavolo della cucina. – Quello che abita a Idresia?
– Esatto – annuì Marcos. – Uova? – chiese mostrando al figlio il contenuto della padella ancora sfrigolante. Era un orario anonimo, quel pasto non sarebbe stato definibile né una colazione né un pranzo.
Xavier annuì leccandosi le labbra. – Dai, dimmi che voleva! – ripeté il castano.
Marcos sorrise, prese un piatto e vi adagiò le uova. – Aspetta – Pose il piatto sotto lo sguardo affamato di Xavier fece quindi scendere un filo d’olio sulla padella e ruppe altre due uova al suo interno. Il sottofondo di cibo che sfrigola tornò a diffondersi nella stanza.
Xavier fece il primo boccone recidendo direttamente la pietanza con il lato sottile della forchetta che aveva appena preso dal cassetto accanto ai fornelli.
– Dai un’occhiata tu stesso – sussurrò con voce calda il genitore appoggiando un pacco nero e anonimo sul tavolo e facendolo scivolare lentamente davanti agli occhi del figlio. – Ho come l’impressione che avrai da divertirti.
Xavier, senza esternare particolari emozioni, ma più con un piglio titubante, si ficcò in bocca un'altra forchettata di uovo e cominciò a togliere il coperchio della scatola.
Il contenitore rettangolare di colore scuro celava due strumenti somiglianti a dei semplici guanti, uno nero e uno bianco, aventi ognuno attaccato un bracciale dello stesso colore che andava a stringersi attorno al polso.
Xavier li scrutò con uno sguardo interrogativo che da solo valeva come mille “cosa siete?”.
Parzialmente convinto, né indossò uno, quello nero. Calzava perfettamente. Notò, ridando un occhio all’altro guanto, che erano due sinistri. Non fece commenti.
Studiò quello che aveva indosso. Il tessuto di indefinibile materiale aveva la parte corrispondente al dorso della mano liscia, mentre quella del palmo leggermente più irregolare, in modo da fare attrito e ritornare utile nella presa degli oggetti; cinque sottili linee celesti attraversavano il guanto partendo da un solo punto al centro del palmo e, rispetto alla fisionomia della mano, giungendo fino ai polpastrelli dove si perdevano, come immissari di un lago, in dei cerchietti anch’essi celesti corrispondenti proprio al centro, alla parte più sensibile dei polpastrelli. Sembravano avere una qualche utilità e non essere solamente decorativi.
Il guanto era morbido, elastico, non impediva in nessun modo i movimenti e faceva respirare la mano. La parte di esso che abbracciava il polso, dello stesso colore del guanto ma di un materiale gommoso simile al silicone, aveva un piccolo schermo quadrato di circa due pollici, ma sembrava essere spento. Probabilmente si sarebbe acceso se Xavier avesse premuto il piccolo interruttore a sfioramento appena visibile che era sotto il display.
– Che è ‘sta cosa? – chiese Celia comparendo improvvisamente alle spalle del fratello.
– Non so dirtelo... buongiorno comunque... – rispose quello con fare disattento.
– Mi sa che ce n’è uno anche per te, Celia – aggiunse Marcos spostando la scatola contenente il secondo esemplare dello strumento, quello bianco, verso la bionda.
Celia prima rubò il piatto di uova a Xavier, poi si interessò al guanto e indossò anche lei il suo. Intanto, il ragazzo aveva finito di esaminare l’oggetto e aveva ripreso in mano la scatola.
– C’è un biglietto qua – mormorò.
– Leggilo – lo esortò il padre mentre si occupava delle uova che sfrigolavano in padella.
Il castano, attirando anche l’attenzione di Celia, tirò fuori dal pacco un piccolo cartoncino e iniziò a leggere a voce alta.
 
“Carissimi Xavier Levine e Celia Ellison,
vorrei proporvi di intraprendere un viaggio, di attraversare Sidera e svolgere alcuni compiti per mio conto. Tenendo premuto l’interruttore sottostante al display del bracciale, il PokéNet si accenderà e partirà immediatamente un video esplicativo.
Cordiali saluti
Prof. Jason Willow.”
 
Xavier, terminata la lettura, sorrise alla bionda la quale ricambiò il suo sguardo.
– Che aspettiamo? – fece entusiasta.
Xavier seguì le istruzioni sul biglietto e poggiò un dito sull’interruttore. Quel piccolo led celeste raffigurante una Poké Ball in stile minimal si illuminò e una frazione di secondo più tardi anche il display stesso lo fece, su di lui comparve un’altra Ball, ma colorata.
– Buongiorno – salutò una vocina proveniente dal dispositivo. – prima di iniziare, consiglio di sfiorare il lato destro dello schermo e seguire la spiegazione olografica.
Xavier alzò un sopracciglio, ma seguì l’istruzione e, passando delicatamente il dito lungo lo spigolo del display, si vide proiettare davanti una piccola immagine tridimensionale di un uomo più o meno della stessa età di suo padre, ma più magro, con un paio di occhiali che poggiavano sul setto nasale e un camice che gli dava quel tono intelligente da professore. Era la sua la voce. Xavier e Celia si scambiarono uno sguardo stupito.
– Ripeto, buongiorno, vi prego di seguire con attenzione questa spiegazione perché non si ripeterà – disse come premessa.
Nello stesso momento Marcos si voltò e si servì le uova.
– Bene, io sono il Professor Willow, questo dispositivo è chiamato PokéNet ed è il frutto di lunghe e profonde ricerche da parte di molti scienziati sparsi in tutto il mondo. I vostri sono i primi ad essere stati diffusi, consideratevi dei tester fortunati. – qui mise le mani sui fianchi fieramente. – Presto sarà messo sul mercato, ma vi rimarrà comunque l’esclusiva del Glowe, ovvero il guanto collegato al PokéNet.
Xavier annuì. Celia si appoggiò sul suo palmo.
– È uno strumento dalle grandissime capacità ma non è di questo che voglio parlarvi...
– E meno male – intervenne Marcos da dietro le quinte.
– ...questi strumenti mi sono stati forniti dalla Federazione a fini di ricerca, io ho voluto scegliere voi tra tanti Allenatori, dopo accurate ricerche, e designarvi per un importante compito – Si prese un attimo di pausa. – Vorrei che voi viaggiaste per Sidera.
– Io avevo già intenzione di farlo... – mormorò il castano.
– Tu, Xavier, hai già conquistato parecchie medaglie e potresti viaggiare per battere le palestre di questa regione – Era come se la registrazione avesse stesse rispondendo alle parole del castano. – Celia, vorrei che anche tu intraprendessi questo viaggio – disse meno formalmente. – Non dovete avere per forza un obbiettivo, potete fare quello che volete, partecipare alle gare o puntare alla Lega, il compito richiede soltanto che voi la attraversiate. In casi estremi dovreste tenervi a disposizione come assistenti di ricerca diretta in modo da darmi una mano sul campo.
I due ragazzi si scambiarono un’altra occhiata.
– Se siete interessati, continuate a vedere questo video, altrimenti potete anche spegnere i dispositivi e riconsegnarli al mio assistente che tornerà questa sera a chiedervi la risposta – affermò l’ologramma.
Silenzio. Xavier e Celia si guardarono un’ennesima volta, scrutarono Marcos, che nel frattempo aveva terminato le uova e li fissava sorridente, si guardarono di nuovo, annuirono in sincronia e riportarono l’attenzione al PokéNet.
– Se siete arrivati fino a questo punto, significa che siete interessati alla missione. Bene, sapevo di aver scelto le persone giuste, ma adesso vi do qualche nozione sul PokéNet. Innanzitutto, come vedete, ha alcune funzioni dell’Holovox e del...
 
– Julie!
Diciotto e tre quarti in punto, la ragazza si trovava nel cortile dell’allevamento, stava pulendo le foglie di un Hoppip. Xavier si avvicinò alla staccionata, sentendo la sua voce, la ragazza si era alzata e, preso in braccio il Pokémon, si era diretta verso di lui.
– Ehi, che ci fai qui? Avevamo un appuntamento? – chiese lei sorridendo.
– In realtà volevo dirti che sono stato incaricato dal Professor Willow di farmi una gita lungo tutta la regione, batterò le palestre e mi dirigerò alla Lega. Ho già preparato le cose, parto domani, ti va di venire? – spiegò tutto d’un fiato.
La mora storse la bocca e sollevo un sopracciglio. – Diamine... non ne ho idea. Qua hanno bisogno di me... – mugolò lei inclinando il capo.
– Dai, non puoi proprio accompagnarmi? – insistette il castano. – Posso percorrerla tutta in poco tempo – aggiunse.
– Non lo so, Savi, posso raggiungerti ogni tanto, magari quando non c’è troppo da fare... – rispose Julie.
Xavier si passò la mano tra i capelli, aveva un’espressione poco soddisfatta. – Uff... va bene, vediamo, comunque domani passo a salutarti, ok?
– Ovviamente – sorrise la ragazza.
Hoppip emise il suo verso e, uscendo dall’abbraccio dell’allevatrice, le salì in testa. Lei lo accolse gioviale.
 
Attorno alle sette, il campanello di casa Levine trillò, Marcos corse ad aprire. Sulla soglia, lo stesso ragazzo che quella mattina aveva consegnato la scatola dei PokéNet.
L’assistente di Willow fu accolto in casa, vide immediatamente Celia e Xavier impegnati a prendere confidenza con i loro rispettivi apparecchi, quelli concessero al ragazzo pochi istanti in cui dissero di essere entusiasti di partire. Marcos gli offrì un caffè, in meno di due minuti dalla sua entrata, l’assistente del professore si trovava di nuovo alla porta.
– Xavier e Celia – li nominò poco prima di uscire.
Quelli lo guardarono distratti.
– Il Professor Willow vi fa i suoi più sentiti auguri – disse. E uscì.
Il resto della serata scorse noiosa e colma di attesa per i due. La cena fu sostanziosa, ma non pesante, quindi si diressero verso le loro stanze, si erano promessi di andare a dormire presto.
– Buonanotte! – esclamò Celia sulla soglia della sua camera.
Un “notte” e un “dormi” da lontano giunsero in risposta. Lei sorrise e si chiuse alle spalle la porta della sua camera. La sua stanza era stata appena rimessa a posto, voleva lasciarla in ordine prima di partire.
Si sedette alla scrivania bianca che era all’angolo tra il letto e il muro. Prese un piccolo taccuino somigliante per intero ad una barretta di cioccolato morsa ad un angolo. Adorava quel quaderno.
“Nuovo viaggio, nuovo diario.” Fu il suo pensiero.
Aprì il taccuino. La prima pagina si presentò bianca e pura davanti alla sua matita. Celia la fissò per un lungo attimo, quindi si decise a violare il foglio vergine con la rude grafite.
 
Era da poco sorta l’alba del 30 agosto.
– Ci vediamo, pa’.
– Vedi di non strafare, biondo – l’uomo lo strinse a sé.
– Hai detto che Celia mi aspetta alla terrazza?
Marcos annuì. Xavier sorrise e, ricambiato l’abbraccio con l’atteggiamento più virile che riusciva a venirgli fuori, si dileguò.
Marcos rimase sull’uscio a guardare da lontano la sagoma del giovane che si allontanava a passo rapido. Tutto sommato era felice di vederlo così attivo.
– Divertiti... – mormorò come se potesse ancora sentirlo.
Il ragazzo giunse in pochi minuti all’allevamento, erano circa le sei di mattina e quasi tutti in quella sede erano svegli da un bel po’. Non suonò neanche, Julie comparve alla porta quasi subito, lo aspettava. Aveva addosso un vestitino leggero e semi-trasparente che lasciava intravedere la sua biancheria intima. Il ragazzo fece una smorfia di approvazione non appena la vide.
– Allora, come sta il mio futuro campione? – chiese lei mettendogli le braccia sulle spalle.
– Mah, non mi lamento... – I due si baciarono. – Non mi lamento affatto... – precisò.
– Penso che per un po’ sentirò molto la tua mancanza – affermò lei, una volta staccatasi dalle sue labbra, con una vena scherzosamente malinconica.
– Beh, se vuoi posso rimandare di una mezz’oretta la partenza per stare un altro po’ insieme – propose lui sottolineando con l’espressione il vero senso della frase.
– No, dai, voglio pensare a te ricordandomi l’altra notte, quella sì che è stata magica – rispose lei sorridendo e baciandolo di nuovo.
Non passarono molto altro tempo appiccicati, il giorno era giunto da poco, ma il castano voleva partire prima possibile. Si salutarono poco dopo e lui si diresse verso il belvedere, luogo di partenza dove la bionda lo stava aspettando.
 
­– Allora? – chiese Celia.
Xavier era appena giunto al suo fianco, i due, immobili sulla Terrazza Altare, guardavano il sole appena sorto. Il momento era mistico.
– Allora cosa? – ribatté il castano.
– Vogliamo partire o rimaniamo qui come due ebeti? – fece lei sorridendo.
– Io nord per Borgo Asterion e tu ovest per Vulpiapoli? – chiese Xavier.
– Ci sto – annuì la bionda.
– Hai preso Gel? – domandò il castano dopo alcuni istanti di silenzio.
Celia prese una Poké Ball dalla sua cintura e la mostrò a Xavier. Attraverso la trasparenza del guscio, il ragazzo riuscì ad intravedere l’esemplare di Reuniclus assopito al suo interno. Dormiva, proprio come il primo giorno, quando Marcos, per il sesto compleanno di Celia, le aveva fatto trovare la Poké Ball di un Solosis sotto il cuscino. Primo suo Pokémon.
Entrambi portavano il PokéNet, affascinati da quel dispositivo di cui avevano imparato tanto bene le funzioni, attendevano con ansia di poterlo usare sul campo.
Il castano annuì. – Voglio proprio vedere come andrà a finire...
 
I due presero ognuno la propria strada. Celia aveva lasciato uscire Gel dalla sua Ball, il Pokémon la seguiva fluttuando spensierato. Xavier camminava lento guardandosi attorno e studiando ogni particolare che gli si parava davanti. Due persone diverse e tanto legate che prendevano due strade separate.
Il cordone era stato tagliato.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Vagito ***


Capitolo 2 - Vagito

 


Bosco Lira. Kalut si muoveva tastando il terreno soffice ad ogni passo. Gustava il solletico dell’erba fresca e morbida sotto le piante dei suoi piedi. Ogni tanto, durante le soste, qualche minuscolo animaletto saliva tra le sue dita, saltando via e scomparendo al suo minimo movimento. Quel posto magico lo ipnotizzava.
Per un momento si fermò. Guardò alle sue spalle, guardò a destra, a sinistra, guardò in basso. Tutto lo affascinava, non aveva mai visto nulla di simile.
Riprese a camminare finché, ad un certo punto, proprio davanti a lui un Venipede spuntò fuori da un cespuglio e iniziò a scalare la corteccia di un albero limitrofo. Il ragazzo si immobilizzò, gli occhi fissi sulla strana creatura che stava sfilando davanti al suo sguardo pietrificato.
Vinto il timore, Kalut mosse una mano per toccare il Pokémon, affascinato dalla sua rilucente e liscia corazza. Il Venipede, per natura difensivo e poco fiducioso nel prossimo, si ritrasse più che poté nel suo esoscheletro, ma quando le dita dell’umano lo sfiorarono, egli reagì immediatamente sfoderando i suoi aculei veleniferi.
Un grido risuonò in tutto il bosco. Persino il Pokémon, terrorizzato dal forte suono improvviso, si rinchiuse nella corazza appallottolandosi e cadendo a terra innocuo ma difeso. Kalut, terrorizzato, era caduto all’indietro. Stringeva il polso corrispondente alla mano dolorante, fissando con orrore le venature violacee che circondavano il punto perforato. Sentì un brivido che gli diede come l’impulso di allontanarsi da quell’arto avvelenato, iniziò freneticamente a scalciare come per prendere le distanza dalla sua stessa mano, ma notò immediatamente che la sua strategia era inutile. Strinse ancora di più il polso, sentiva il bisogno di staccarlo, di separarsene. Neanche quello gli riuscì, il suo istinto contrastante per natura l’autolesionismo gli impedì il gesto estremo.
Avvertì qualcosa premere sopra i suoi zigomi, poi il bisogno di strizzare gli occhi, di stropicciare le palpebre. Cominciò a piangere.
 
Celia si trovava all’entrata est del Ponte Sirma, costruzione che permetteva l’attraversamento del fiume Eridano, arteria principale di Sidera, lungo corso d’acqua che la tagliava in due metà. Per un attimo chiuse gli occhi, immaginò tutto il suo viaggio. Poi un leggero tocco sulla spalla da parte di Gel, il suo Reuniclus che la seguiva fluttuando, la riportò alla realtà.
– Andiamo... – sussurrò lei annuendo al compagno.
Celia percorse il ponte tutto di corsa, trattenendo il respiro. Al termine di questo, venne avvolta dalla natura, gli alberi sembravano crescere attorno a lei mano a mano che i suoi stivaletti calpestavano il terreno. La sua direzione era Vulpiapoli e ogni tanto il suo occhio  tornava alla Mappa Città implementata come una delle tante funzioni del PokéNet. Non voleva perdere di vista l’obbiettivo.
Mantenne un ritmo costante per tutto il tragitto, fino all’ora di pranzo. Lì si fermò e, tirati fuori dei sandwich per lei e dei poffin per Gel, desinò seduta su una roccia coperta di muschio secco. Rialzandosi, avvertì immediatamente un lieve dolore ai polpacci, ma non gli dette così tanta importanza. Il suo cammino, come una perfetta esecuzione orchestrale ogni tanto sporcata dalle aspre note di uno o due violinisti disattenti, riprese toccato a intervalli regolari dal lieve stress muscolare fin quando, attorno alle quattro del pomeriggio, la ragazza decise di fermarsi, riconoscere e possibilmente medicare finalmente quel male che minacciava di attentare alla sua positività.
– Uff... – sospirò Celia sedendosi ai piedi della corteccia di un albero cavo.
Rapidamente identificò la fascia muscolare che le procurava quel fastidio in continua crescita. Cominciò un inesperto ma efficace massaggio e in poco tempo quel nodo decise di sciogliersi. Provò a liberare entrambe le gambe. Dopo qualche minuto, quando il dolore fu apparentemente scomparso, Celia tornò in piedi.
– Facciamo che questa è la prima e l’ultima volta che mi fa male, ok? – parlò alle sue gambe.
La ragazza mosse appena due passi, sollevò lo sguardo e si trovò davanti un uomo. Questi sostava ad un paio di metri di distanza da lei, guardandola con fare leggermente interdetto.
Celia in un primo momento non ebbe reazioni, quindi rivolse al tipo un sorriso imbarazzato.
– Buongiorno – la salutò l’uomo in tono gioviale.
– Salve – ricambiò lei con voce un poco ebete.
La bionda squadrò il soggetto, il tipo la fissava dai suoi occhi scuri celati sotto una cascata di capelli blu, aveva una corporatura muscolosa e un volto liscio e pulito. Con una mano stringeva una sacca che passava sopra la sua spalla e gli cadeva appoggiata alla schiena, morbida, come fosse vuota. I suoi vestiti erano semplici, una canotta scura senza maniche e priva di scritte o disegni e un paio di pantaloni larghi, pantaloni da dojo, stretti alle caviglie, anch’essi scuri.
Celia non staccò gli occhi dall’uomo per una manciata di secondi. Quello approcciò. – Perdonami se ti ho infastidito mentre intrattenevi un animato discorso con le tue gambe, io sono Antares. – sorrise avvicinandosi a lei e porgendole la mano.
La ragazza si accorse di aver già sentito quel nome. Le sue sinapsi si ricollegarono rapidamente e, dopo alcuni millisecondi, lei si rese conto di aver davanti il Campione della Lega di Sidera.
– Oh cavolo, ma tu sei il Campione! – esclamò stringendogli l’arto intero più che la mano.
Antares annuì. Aveva imparato come funzionava, quando diceva il suo nome arrivava immediatamente il vento della fama a scompigliare i suoi lunghi capelli blu.
– Che cosa ci fai in questo posto? – chiese invadente Celia.
– Avevo delle... – spostò tutto sul vago. – ...cose da fare. Tu, piuttosto, sei mica... – dette uno sguardo al dispositivo che la ragazza portava al polso. – ...l’Allenatrice scelta da Willow?
Con una faccia un poco incredula un poco ammaliata, Celia annuì.
– Ah! Sei Celia! Ragazza, non sai quante ricerche fatte su di te dal Professore ho dovuto leggere e approvare perché fossi tu quella destinata a prendere quel PokéNet – esclamò espansivo e sorridente. – Allora? Hai intenzione di battere le palestre? – domandò interessato l’uomo.
– Eh, sì, pensavo di iniziare da Vulpiapoli, sono diretta lì a dire il vero... – rispose la bionda.
– Ma perché dovresti perdere tempo? Vieni, ti ci porto io! – propose Antares.
L’uomo prese una Ball dalla sua cintura e in un attimo un gigantesco Charizard si interpose tra i due. Celia, senza neanche riflettere, accettò e si fece caricare dal lucertolone. Dieci minuti scarsi e una traversata rapidissima della campagna che li separava da Vulpiapoli e la ragazza era davanti alla palestra di Arturo, maestro di tipo Normale della regione.
– Diamoci una mossa! – fece entusiasta Antares.
I due entrarono nella struttura la quale si presentava esternamente come uno scatolone, un cubo di colore rosso scuro. All’interno invece rivelava la sua identità: la palestra Pokémon di Vulpiapoli ospitava una vera e propria palestra, quella con i bilancieri e i tapis roulant. Casistica impossibile più che improbabile. I due, entrando, furono subito avvolti da quell’odore aspro e metallico misto all’aroma di olio da muscoli e a un retrogusto di sudore. Il tutto però purificato dalla benevolenza cara e dolce dell’aria condizionata impostata a livello plutone.
Celia rimase interrogativa e un pizzico a disagio. Lei, piccola ragazzina in mezzo ai quei colossi pompati con i bicipiti unti e scolpiti, si sentiva un piccolo Wooper in mezzo a dei Bouffalant.
– Arturo! – esclamò Antares facendo un gesto con la mano in direzione di un bancone nascosto in un angolo poco lontano dall’entrata. – Vieni a vedere chi ho qui! – proseguì il Campione.
Da dietro quella sorta di scrivania, un ragazzo massiccio e muscoloso si eresse fiero e marmoreo. Capelli rasati quasi a zero, una barba biondiccia e disimpegnata e dei bicipiti scolpiti. Celia era interdetta. Arturo, il Capopalestra, era a petto nudo con un asciugamano appoggiato sulle sue spalle larghe, la sua pelle lucida di sudore faceva capire che il ragazzo stava facendo esercizi o che aveva smesso da poco. In una mano stringeva un foglio scarabocchiato e nell’altra una penna, che fu posata alcuni istanti dopo.
– Antares! – salutò sorridente il biondo riconoscendo il Campione che era entrato nella sua palestra e dirigendosi verso di lui. – ...tieni, questa è la scheda, deltoidi e tricipiti per questa settimana... – sussurrò poi rivolto ad uno dei ragazzi a lui vicini e porgendogli il foglio scarabocchiato. – Allora, come vanno le cose nei piani alti? – chiese entusiasta tornando a concentrarsi sull’ospite.
– Tutto bene, era da un po’ che mi ero riproposto di venire a farti visita, ho bisogno anche io di muovermi un pochino – scherzò Antares.
In tutto questo Celia era rimasta piccola piccola nel suo silenzio senza osare intromettersi tra i due.
– Eh... – Arturo, ormai prossimo al Campione, si mise a studiare il soggetto che aveva davanti. – Devi lavorare un po’ di più sul petto... – mormorò serissimo.
– Dai, roccia, a questo pensiamo un’altra volta, guarda invece chi ti ho portato! – esclamò sorridente Antares prendendo sotto braccio la bionda e indicandola con la mano libera al Capopalestra.
Arturo la scrutò per un interminabile minuto con occhi titubanti e un pizzico delusi. – Ma è maggiorenne? – chiese ancor più serio di prima.
– Lei è Celia – ribatté con aria anti-sarcastica il Campione. – Una degli Allenatori scelti da Willow. – aggiunse.
– Oh! – concretizzò Arturo con la faccia contorta in una smorfia imbarazzata e prolungando quel oh per una decina di secondi buoni. – Hai fatto bene a portarmela, così mi rendo conto di chi si tratta... – cercò espedienti.
– Salve – salutò a bassa voce Celia con volto sorridente per convenzione ancora stritolata dal braccio di Antares.
– Allora, vogliamo darle una medaglia? – chiese il Campione stupendo non poco la ragazza.
Per un primo momento nessuna risposta venne fuori dall’espressione atona di Arturo. – Ovviamente, deve solo venire con me... – sorrise poi.
La scenetta andò avanti, la magia si ruppe solo per un istante quando l’uomo, giunto al bancone seguito come un ombra poco sicura da Celia, presa da un cassetto una medaglia raffigurante una specie di V di colore bianco con il primo braccio più largo del secondo, vagamente somigliante ad un arto nell’atto della contrazione del bicipite, proferì un “tieni” talmente greve da far quasi asciugare il sudore che gli imperlava la fronte.
Ma Celia non lo notò, lei prese la medaglia Centauro felice, senza ascoltare il Capopalestra, orgogliosa come se avesse vinto lei, grazie al suo talento, quella targhetta tanto ambita.
La bionda si diresse da Antares, lo ringraziò educatamente e scomparve oltrepassando per la seconda volta la porta di quella palestra-palestra.
Arturo la fissò fino all’ultimo secondo, così come il Campione. E anche quando ella fu finalmente scomparsa alla loro vista, i due continuarono a guardare nella stessa direzione, con volto serio, come avessero davanti il più bel tramonto della storia. Uno accanto all’altro.
Antares lasciò andare un sospiro. Arturo lo imitò.
Il Capopalestra aprì timidamente bocca: – Il professore...
– È una carogna – lo interruppe precipitosamente il Campione della Lega di Sidera. Con voce greve. – Ha quattordici anni...! – esclamò con voce soffocata e fare altamente incazzato gettando a terra la sacca che aveva in spalla.
 
“Bosco Lira oltrepassato!” pensava Xavier mentre guardava la Ball del Pumpkaboo appena catturato attaccata alla sua cintura.
Aveva impiegato tutta la mattinata e altre ore dopo il pranzo per attraversare la fitta selva che era il Bosco Lira. Si era rivelato un viaggio semplice ma al contempo un po’ noioso, quindi il ragazzo aveva deciso di sconfiggere alcuni Pokémon selvatici. Nel farlo, gli era venuto in mente di catturare un esemplare da aggiungere alla sua squadra e quel Pumpkaboo lo aveva convinto. Accanto al suo Eelektross, compagno di ogni sua avventura e unico Pokémon che aveva deciso di portarsi dietro, sembrava un po’ deboluccio, ma Xavier si era ripromesso di allenarlo con cura in modo da rendere la sua squadra una delle più potenti di Sidera. Puntava alla Lega, lui.
Il bosco era finito, ma c’era ancora un bel pezzo di strada da fare. Inoltre, il caldo si faceva sentire. Il ragazzo aveva percorso la prima metà del viaggio all’ombra della chioma degli alberi, ma dopo quella lo attendevano almeno altre tre ore di cammino sotto il sole cocente. Tre ore durante le quali sarebbe stato impossibilitato all’uso di Eelektross, poiché esporre la sua pelle umida alla troppa luce solare si sarebbe potuto rivelare fatale, e ciò lo avrebbe invalidato sul fronte delle lotte.
Intelligente e propenso alla riflessione e all’analisi, il ragazzo aveva deciso di fermarsi nel primo Centro Pokémon e ricominciare il viaggio al calar del sole.
Provvidenza. Un complesso di un paio di edifici dal tetto rosso si presentò davanti a lui dopo soli altri due minuti di cammino. Era un grande Centro Pokémon adibito all’accoglienza di viaggiatori. Non aveva neanche chiesto al PokéNet se ce ne fosse uno nelle vicinanze, la sua presenza rientrava in una di quelle certezze che si acquisiscono dopo anni di vagabondaggio nelle regioni.
Xavier entrò spalancando col pensiero, come adorava pensarla, la porta di vetro automatica.
Davanti a lui tutto si mostrò un intricato reticolo di corridoi, terrazze, banconi, il tutto sparso e distribuito su tre diversi piani di altezza. Non era pienissimo, ma delle persone c’erano, Allenatori principianti intenti a negoziare con le cassiere dei market a proposito del prezzo troppo alto delle Iperpozioni e esploratori necessitanti di indumenti da trekking nuovi. Xavier aveva le sue belle convinzioni circa quei soggetti. D’estate iniziano a viaggiare per le regioni cani e porci, dagli Allenatori itineranti più scarsi a tutta una serie di persone che il ragazzo non riteneva degna di tenere in mano una Ultra Ball. Era quindi sicuro di non voler mischiarsi con quella gentaglia là dentro e rimanere il più possibile fuori da ogni gruppetto di persone.
“Ragazzini...” pensava.
Subito si mise alla ricerca di un bar. Lo trovò poco dopo, un caffè della stessa catena di quelli che vendevano Conostropoli a Unima. Prese un gelato, era agosto. Per un momento sentì nostalgia della frenetica e caotica Austropoli. Dopo un po’ anche l’ultima punta di cono andò giù. Si sentiva più fresco dopo quel piccolo spuntino.
Xavier si diresse verso i bagni. Entrò, espletò le funzioni primarie, quindi si sciacquo il volto e si diede una rinfrescata al corpo. Portava una maglia leggera e dei bermuda abbinati, ma l’acqua era l’unica cosa che veramente lo salvava dalla autocombustione spontanea.
Il ragazzo decise di fermarsi per un po’. Trovò una poltrona in una sala d’attesa, affidò con tutta calma i suoi due Pokémon ad un infermiera e prese tra le mani una rivista, con l’intenzione di occupare quelle ore che lo separavano dal tramonto.
Si trovò a leggere “Chicret”, rivista volta all’informazione e all’aggiornamento nell’ambito della moda. Notò un articolo riguardante una nuova promessa delle gare Pokémon di Hoenn, chiamata Orthilla, la foto della ragazza lo aveva colpito. Adorava quelle col visino innocente, la maggior parte delle volte si rivelavano essere quelle più perverse. Il resto del magazine lo annoiava.
“Professor Willow?” udì poi poco lontano.
Xavier tese l’orecchio.
“Lo conosci?” udì ancora.
Cercò di dare uno sguardo e capire che stesse parlando del prof. Con la coda dell’occhio intravide due Picnic Girl. Ragazzine di età che si aggirava tra i dieci e gli undici anni.
– Dicono sia l’unico Professor Pokémon che non abbia mai formato dei Pokédex Holder – rise la prima, quella più bassa.
– Magari è solo incapace, non ho mai letto un articolo sui Pokémon scritto da questo Jason Willow... – aggiunse l’altra.
Xavier le ascoltava divertito mentre con il dito carezzava il suo PokéNet nuovo di zecca.
“Vedrete chi è che chiamerete incapace una volta che questo gioiello sarà messo sul mercato...” pensava.
 
Kalut fissava la sua mano. Ormai aveva smesso di cercare di separarsene e stava lottando mentalmente per evitare di farsi spaventare ancora. Le lacrime gli si erano asciugate, o forse gli erano finite. Il Venipede, lasciato il suo assetto difensivo, sostava dietro un cespuglio, lontano dall’umano e lo fissava, lo fissava come ipnotizzato.
Il ragazzo dai capelli bianchi era abbattuto, non sapeva come reagire, non sapeva cosa fare e non sapeva cosa inventarsi. Non  avvertiva più dolore ma il suo codice genetico non gli permetteva di smettere di preoccuparsi per le ferite. Il poco sangue che era sgorgato si era ormai raggrumato sulla sua mano. Lui attendeva, un altro colpo, un aiuto, attendeva.
Ad un certo punto. Senti qualcosa muoversi dietro il suo collo, qualcosa vibrare, come un leggero fremere. Automaticamente, per autodifesa, portò la mano al collo e, non trovandovi niente sostenne inconsciamente che quella sensazione fosse sparita. Non era così.
I suoi occhi iniziarono a farsi preoccupati, il suo sguardo sempre meno sicuro, le sue lacrime pronte a uscire di nuovo.
– Venipede! – gridò senza volerlo.
Il Pokémon, come attratto da un richiamo primordiale, si avvicinò all’umano. Kalut non lo accolse, ma nemmeno lo scacciò. Piccoli passi, attenti e docili, condussero il coleottero al suo braccio, il braccio che, soltanto quando tornò a guardare seguendo il movimento del Venipede, notò essere guarito.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 - Abbraccio ***


Capitolo 3 - Abbraccio

 

Kalut si era alzato in piedi, la strana sensazione che avvertiva dietro al collo era scomparsa. Camminava, camminava, cercando di distanziare quel Venipede che lo seguiva tanto insistentemente, ma senza lasciarlo intendere. Andava solo qua e là, senza una meta, muovendosi in direzione opposta al Pokémon. La creatura, invece, con tutta la calma del mondo seguiva i suoi passi ad un ritmo costante e trovava il modo di recuperare terreno anche quando il ragazzo scattava staccandosi da lui. Gli andava dietro, attratto come il ferro dalla calamita, da qualcosa che neanche lui sapeva riconoscere.

 
Il Centro Pokémon di Vulpiapoli pullulava di Allenatori e viaggiatori. La struttura era gigantesca, ospitava una decina di nuclei di cura e altrettanti reparti di primo soccorso, due o tre Pokémon Market estremamente forniti, delle camere, un bar e un ristorante. In un modo o nell’altro, Celia riuscì a trovare una stanza in cui alloggiare, vi entrò grazie alla chiave magnetica offerta alla reception.
Immediatamente si gettò sulla branda, e buttò la borsa a terra. Reuniclus, che la seguiva fluttuando calmo e pacato, restò a fissarla con occhi tristi per un po’. La ragazza lo notò quasi immediatamente. – Ehi, Gel, che hai? – chiese.
Il Pokémon fece alcuni versi e gesticolò con le sue braccia gommose lasciando andare nell’aria delle scintille fucsia.
Celia lo scrutò per alcuni istanti. Seria. In silenzio. – Volevi combattere? – domandò poi.
Il Pokémon annuì, sorridendo.
– Ma dai! Abbiamo preso la medaglia senza sforzo, meglio così, no? – esclamò la ragazza osservando felice la targhetta.
La ragazza fece una doccia, uscì dalla stanza per mangiare qualcosa e poi decise di riposarsi. Prima di chiudere gli occhi, prese in mano il suo diario a forma di barretta di cioccolato, con calma vi annotò il resoconto della giornata, i pensieri, le idee e le speranze. Poi andò felicemente a dormire.
 
Il sole stava calando. Xavier aveva sonnecchiato lievemente e si stava preparando ad uscire di nuovo. Eelektross fremeva all’interno della sua sfera e Pumpkaboo, più calmo, sembrava anche lui pronto a combattere.
– Grazie, arrivederci! – lo salutò l’infermiera principale.
Xavier fece un cenno con la testa e uscì dal centro. Camminò in mezzo per tutta la sera, lo stridere delle cicale iniziava a diffondersi nell’aria. La luna già alta nel cielo si preparava al turno di guardia notturno. Xavier stava già pensando ad una strategia da utilizzare contro i Capipalestra gemelli di Borgo Asterion in base alle informazioni che aveva ottenuto circa i loro Pokémon dal PokéNet.
“Hanno usato tre coppie di Pokémon diverse, Accelgor e Escavalier, Ninjask e Shedinja, Heracross e Pinsir.” rifletteva il castano. “Mh, un Pokémon di tipo Fuoco mi farebbe comodo...”
Il suo piede destro si appoggiò a qualcosa di molle. Xavier, in allerta fece impulsivamente un passo indietro ritirandolo. Prima scrutò il terreno poi si guardò attorno. Aveva calpestato una chiazza di melma, una melma densa e di color viola.
Comprese, capì di essere circondato. – Venite fuori! – esclamò senza timore.
Passarono pochi istanti. La chiazza su cui aveva messo il piede si rivelò essere un Goomy, altri esemplari simili e anche alcuni Sliggoo vennero fuori pronti a colpire, in ultimo, un enorme Goodra comparve al suo cospetto. Tutti loro erano usciti dalle fronde vicine.
Effettivamente, notò Xavier solo dopo essere finito in quella specie di agguato, si trovava molto vicino alle anse del fiume Eridano, la zona era umida e paludosa e proprio in quel punto, limitrofo alla tana di quei Pokémon, vi era una grande presenza di acqua, persino il sentiero era costellato di pozze e la terra era umida e irregolare. Avrebbe dovuto capirlo, lui, di trovarsi nei quartieri di quel Goodra e del suo clan, ma era stato troppo occupato a leggere informazioni su Borgo Asterion e sui suoi Capipalestra dal PokéNet. e adesso si trovava circondato da un gruppo abbastanza numeroso di draghi.
– Bene, mi stavo giusto annoiando. – Ed era vero.
In un attimo Eelektross e Pumpkaboo erano fuori dalle Ball.
Dragartigli – ordinò al suo Pokémon Elettropesce. – Tu, Pumpkaboo, usa Halloween su Goodra.
La rissa scoppiò. Eelektross, in totale sintonia con il suo Allenatore, non aveva avuto bisogno di indicazioni precise circa il bersaglio designato e aveva iniziato a fare strage di Goomy e Sliggoo utilizzando i suoi artigli irradiati da una potente energia violacea. Xavier aveva fatto il possibile per evitare colpi di Pokémon selvatici che dirigevano i loro attacchi verso di lui e non verso i suoi compagni adibiti alla lotta. Il Pokémon Zucca, invece aveva utilizzato con successo la tecnica sul Goodra boss del gruppo. Ora il corpo molliccio della creatura esalava ogni tanto dei sottili fumi sul viola scuro, come a dimostrazione del fittizio tipo Spettro impostogli dal Pumpkaboo. Reagì immediatamente scagliando un Dragopulsar verso di lui.
– Eelektross! – esclamò Xavier.
Il Pokémon di tipo Elettro intuì immediatamente e difese il compagno di squadra con un Lanciafiamme che deviò il raggio di energia scagliato dal Goodra. Pumpkaboo era fuori pericolo.
Xavier diede uno sguardo al PokéNet, si accorse che, tenendo in mano la Ball di un Pokémon della sua squadra con il Glowe, tutte le info a lui relative comparivano sul display. Attualmente poteva leggere quelle di Pumpkaboo, rimase un pelo stupito, ma in testa gli si accese una lampadina. – Ok, ho un’idea! – esclamò il castano correndo verso i suoi Pokémon. – Qui con me, tutti e due. – ordinò loro.
I tre si reclusero in un solo punto al centro della mischia. Proprio il punto più pericoloso.
– Ora, Pumpkaboo, usa Bruciatutto e Eelektross, tu vai con Lanciafiamme, non li colpite, riscaldate solo l’ambiente – ordinò.
I due colpi incandescenti si limitarono a colpire il terreno e l’aria, creando una sorta di barriera infuocata tra i Pokémon selvatici e Xavier e la sua squadra. Ciò impediva agli avversari di colpirli.
Dopo un paio di minuti, il ragazzo tastò il corpo di Eelektross. Lo trovò asciutto. – Rientra! – disse richiamando il Pokémon Elettropesce nella sfera bianca e rossa. – Pumpkaboo, tieni vivo il fuoco, manca ancora poco... – fece.
Purtroppo, il secondo membro della sua squadra era affaticato, si rese conto che aveva sprecato molte energie per sputare quella schiera di fiammate così contrastanti il suo elemento madre, l’erba.
Con uno strenuo ultimo sforzo, Pumpkaboo alimentò ancora un po’ il fuoco, prima di accasciarsi a terra, stanchissimo. Xavier lo accolse nella sfera e poco dopo si accorse che la sua tattica aveva funzionato, i Goomy, gli Sliggoo e persino il Goodra si stavano dileguando.
Aveva inteso che quelle creature erano uscite per cacciare di notte proprio perché, durante il giorno, il sole era stato talmente intenso da rendergli pericolosa la permanenza fuori dall’acqua, stessa storia di Eelektross, insomma. Avevano cercato prede per sfamarsi, “Ma ci avevano provato con quelle sbagliate.” rideva tra sé e sé, inconscio del fatto di essere stato attaccato, in realtà, solo perché le creature lo avevano visto calpestare uno dei cuccioli del gruppo.
Aveva quindi scelto una semplice tecnica, far alzare di nuovo la temperatura e levarsi di torno quegli avversari indesiderati in modo da non doverli mettere KO uno dopo l’altro. E aveva fatto tornare nella sfera anche Eelektross in modo che quella barriera di calore non si rivelasse un’arma a doppio taglio.
Soltanto una cosa non gli quadrava. Prese di nuovo con la mano sinistra la sfera di Pumpkaboo e diede un occhio allo schermo del PokéNet. “Perché conosci la mossa Bruciatutto? Soltanto tramite MT puoi impararla e io ti ho catturato nel Bosco Lira poco fa.” pensò come se stesse domandando ciò direttamente al Pokémon.
Il primo dubbio era fondato, ma l’orgoglio generato dall’aver notato un’imperfezione così nascosta superò per grandezza la vera curiosità, così, lì per lì non se ne preoccupò davvero, non era il tipo. Proseguì la sua marcia e non ricevette più alcun fastidio fino a quando, attorno alla mezzanotte, varcò le porte di Borgo Asterion.
 
Era Ferragosto. La suoneria del PokéNet destò Celia dal suo profondo sonno. “Otto meno dieci, baby.” diceva ironicamente il display. La ragazza staccò il volto dal cuscino, trascinò le gambe fuori dal letto e su di esse si sollevò. Avvertì immediatamente la fastidiosa sensazione di impedimento che l’acido lattico le dava e con rabbia sbuffò. Con gran flemma si portò in bagno, si fece una doccia e si asciugò come meglio poté.
Non aveva voglia di camminare, non con l’acido lattico. Le venne un’idea. Guardò il PokéNet, le previsioni segnavano addirittura dei picchi di quaranta gradi nella sua zona. Aveva tutti i requisiti necessari, uscì immediatamente dal centro e corse verso la palestra di Arturo, lo trovò intento a riaggiustare un macchinario da leg curl.
All’inizio un po’ intimidita, si schiarì la voce e salutò l’uomo dalla porta d’ingresso. Il Capopalestra alzò lo sguardo e mormorò un “ehi” tornando subito a concentrarsi sul suo lavoro. – Come mai qui? – domandò poi dopo aver bloccato la molla del macchinario.
– Sai per caso dove si trova Antares? – chiese la bionda.
– Si è fermato da me a dormire, è sceso da poco, se sei fortunata lo trovi ancora al bar qui a fianco a fare colazione... – rispose Arturo.
Celia annuì e ringraziò: – Ok, grazie mille e buon lavoro! – lo salutò. Si accinse ad uscire, ma si fermò un istante con i piedi già sullo zerbino esterno e guardò di nuovo Arturo. – Grazie ancora per la medaglia di ieri! – esclamò sparendo dietro la porta.
Si sentì una forte botta metallica, il Capopalestra, sentendo quella frase, aveva mollato uno dei cilindri dell’apparecchio lasciando la barra in balia della molla che la aveva spinta addosso al suo pollice e provocandogli un dolore atroce. Arturo si soffocò le imprecazioni nella trachea.
Il bar vicino alla palestra era pieno di persone, molte di queste si dirigevano verso il bancone, altre al loro tavolo, ma la maggior parte sostava vicino ad un certo soggetto dai capelli blu. Fan, chi in cerca di un autografo su una loro Ball, chi solo di una stretta di mano, chi di una foto.
Celia cercò di introdurvisi per raggiungerlo. Quando Antares la vide, in mezzo alla folla che piccola come era cercava una fessura nella quale infiltrarsi, subito fece allargare il gruppo di ammiratori per farla passare. La invitò a sedersi di fronte a lui.
– Ora lasciatemi un secondo, dopo... – Dette un morso al suo cornetto ripieno di miele. – ...vi fifmo gli autogfafi – proseguì a bocca piena.
Le persone, tra la delusione generale e l’ostilità nei confronti della biondina, si diradarono, rimanendo comunque nei paraggi, in agguato, come dei Noctowl, intenti a scrutare il Campione con i loro occhi lunghi.
– Allora, come mai sei venuta a cercarmi? – Antares bevve un sorso di latte, della schiuma gli rimase sospesa sul labbro superiore.
– Ecco... – Celia cercò le parole. – Oggi fa caldo e io devo fare ancora tanta strada per arrivare a Costa Mirach... – spiegò con una vocina da bimba annoiata.
– Ferma, vuoi che ti accompagni per un altro pezzo di strada? – chiese l’uomo per arrivare al punto.
Celia mugolò un “mh” inclinando la testa e evitando il suo sguardo fisso.
Antares sorrise. – Non c’è problema, ragazza, dopo ti porto io! – sorrise il Campione.
Lei imitò la sua espressione gioviale.
– Hai fatto colazione? – domandò poi lui.
La ragazza scosse la testa accompagnando il movimento a un “neh”. Antares le offrì una brioche e un cappuccino, lei non pensò neanche un momento di rifiutare. I due si alzarono poco dopo al termine del pasto, l’uomo pagò al bancone e proprio nell’esatto istante in cui rimise il portafoglio nella sacca, venne assalito di nuovo dagli ammiratori. Celia stessa impiegò una decina di minuti prima di uscire da quella matassa di braccia e un tondo quarto d’ora dopo si trovava sul dorso del Charizard di Antares, fuori dal bar e pronta a volare via sotto la supersonica, ma esperta guida di quel soggetto eccentrico e stravagante.
Venti minuti e si trovavano a Costa Mirach, città, appunto, costiera, pullulante più di Vulpiapoli e Delfisia messe assieme di turisti e visitatori. Era il più famoso sito adibito alla balneazione di Sidera e le persone, attratte nella regione dallo straordinario evento del Pianto Delle Stelle, avevano ben pensato di fermarsi una settimana intera ed approfittarne per andare in spiaggia. Le coste sabbiose di Sidera erano famose per la loro amenità e il mare stesso per la sua trasparenza.
Quando i due Allenatori giunsero a destinazione atterrando, come di convenzione, davanti al Centro Pokémon della città, si resero conto di essere arrivati proprio “nell’ora di punta”, momento in cui tutti i vacanti si riversavano nelle strade armati di borsa, ombrellone e sdraio portatili, diretti verso la spiaggia. I due guardavano divertiti quel grande torrente di bikini, costumi a pantaloncino e pareo.
– Va bene, le nostre strade si separano quindi? – chiese il Campione.
– Penso di sì, ma scusami, non ti ho chiesto se ti do fastidio facendomi accompagnare, tu dove sei diretto? – fece la ragazza.
– Io... – rifletté l’uomo. – ...sto vagando senza meta per la regione, quindi no, non mi infastidisci – sorrise lui.
Celia annuì felice, i due si salutarono informalmente e presero due strade differenti, lei verso la palestra e lui verso... un altro posto.
 
Xavier, nel frattempo, varcava la soglia della palestra dei gemelli di Borgo Asterion, cittadina ferma nel tempo in un periodo imprecisato della storia, caratteristica e molto attaccata alle tradizioni. L’ironia stava nel fatto che essa fosse rappresentata da due giovani ragazzi, maestri del tipo Coleottero.
L’edificio della palestra si mostrava da fuori come una struttura completamente a tema col resto della città, in pietra, sfumature tra il marrone scuro e il rosso, di semplice fattura. Quando il ragazzo vi entrò dentro, invece, si trovò davanti una specie di ecosistema miscelato.
Rimase basito di fronte al prato non curato e pieno di erbacce che costituiva il pavimento, al soffitto bucato che permetteva ad un po’ di luce di entrare e inverdire i fili d’erba, alle rovine di una vecchia casa, infilata nella palestra in stile matrioska, che spuntavano dal terreno come fossero nate da esso. Le mura di pietra abbattute, diroccate e colonizzate completamente da ragnatele e insetti creavano un atmosfera particolare, soprattutto se uniti al fresco clima che vi era all’interno della palestra, al cantare delle cicale pure in pieno giorno e all’ombra fitta che ricopriva ogni spigolo interno, eccetto quel cerchio centrale che veniva irradiato dal sole.
Il ragazzo ammirò in silenzio lo scenario.
Per ovvie ragioni, i suoi occhi scorsero fino all’altro estremo della stanza, dove due ragazzi erano intenti a far combattere un Heracross e un Pinsir. Xavier, sempre sulla guardia, si annotò mentalmente che una delle coppie di Pokémon che aveva letto appartenere ai due Capipalestra era esclusa, poiché nessuno avrebbe mai fatto lottare due Pokémon già affaticati per l’allenamento.
Quando i gemelli lo notarono, lui stava seguendo la loro lotta da una decina di minuti circa. I due sorrisero, Castore e Polluce erano i loro nomi.
 
Kalut stava camminando da tutto il giorno. I piedi gli dolevano, ma finalmente aveva trovato il suo perfetto equilibrio. Si rese conto di non avere più quel passo stentato e un po’ barcollante di prima. Ma restava sempre il problema del Venipede, che sembrava essersi talmente attaccato a lui da ricomparire ogni volta che il ragazzo prendeva un’altra strada.
Kalut perse la pazienza, si voltò verso il Pokémon e iniziò a gridargli contro le uniche tre parole che pensava di conoscere: “Kalut”, “Ledyba” e “Venipede” ogni tanto smetteva, rendendosi conto di essere rimasto senza fiato, quindi tornava a farlo, ricominciava a gridare. Alcuni Pokémon uccello, infastiditi dal caos, lasciavano i rami su cui stavano appoggiati e svolazzavano via. Anche alcuni esseri terrestri, come Weedle, Spinarak e Wurmple se ne andavano seccati, turbati nella loro quiete.
Venipede no. Lui restava fermo al suo posto, davanti a Kalut, fronteggiava la sua ira teorica con coraggio e fermezza. Fin quando il ragazzo stesso smise di strillare, non ricordando il motivo per cui aveva iniziato.
In quello stesso istante, la fatica per i chilometri percorsi, lo stress per gli avvenimenti traumatici avvenuti dalla notte in cui aveva aperto gli occhi, si riversarono tutti in una volta sul giovane e poco temprato corpo del ragazzo. Kalut crollò a terra, stanchissimo e senza preoccuparsi della luce, socchiuse gli occhi con naturalezza, istintivamente.
Pensò negli ultimi momenti della sua lucidità a che cosa gli stesse accadendo e, preoccupato, non volle più chiudere le palpebre. Gli ricordava... il prima, quello che c’era prima, una fitta nebbia, scura, tetra, soffocante. Gli sembrava di aver avuto a disposizione un solo giorno, un lasso di tempo limitato per rinascere, per ricominciare tutto da capo e di averlo sprecato. Di aver gettato quell’opportunità.
Sentiva di star tornando indietro, di star tornando al prima, al sonno.
Lottò, lottò con tutte le sue forze per sconfiggere il suo orologio biologico. Ma nulla, l’uomo non vince sulla natura. L’ultima cosa che avvertì fu il corpo del Venipede stringersi al suo, abbracciarlo, stargli vicino.

E stavolta, il suo contatto non lo intimorì.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 - Allattamento ***


Capitolo 4 - Allattamento

 

Celia si trovò davanti uno spettacolo agghiacciante. L’interno cupo e buio della palestra era identico all’interno di una piccola casa delle bambole... con tanto di bambole. Un numero indefinibile di pupazzi di pezza con dei bottoni come occhi e tempestati di spilli su ogni parte del corpo giaceva dentro quella palestra. Alcune bambole gettate a terra, altre appoggiate sulle numerose mensole, sui mobili, altre ancora persino inchiodate al muro.

Eppure c’era qualcos’altro in quella stanza.
Ovunque, letteralmente ovunque, in quella palestra vi erano degli schizzi, delle macchie, dei disegni o delle scritte indecifrabili fatte con dell’inchiostro nero. Era come se un pittore impazzito avesse preso in mano un pennello di grosse dimensioni, iniziando a macchiarci i muri, i pavimenti, le bambole stesse, il soffitto... Proprio guardando in alto, Celia rimase a bocca aperta. Una gigantesca stella a sette punte era stata disegnata sul bianco intonaco di quella stanza, in alto, passando sopra al lampadario infranto, e giungendo a toccare ogni lato del soffitto.
La ragazza cercò di riprendersi, si era lasciata andare in un “oh Dio...” ma anche quello le era morto in gola. Era indecisa, si trovava ad un bivio, entrare in quel lugubre e inquietante posto o uscire di lì.
Si preparò a muovere il primo passo all’interno, quando avvertì un pianto, il pianto di una ragazza i cui mugolii lamentosi e rotti risuonavano all’interno della palestra.
Celia scomparve, uscì dalla palestra e si chiuse la porta alle spalle, il sole la irradiò di nuovo, a dire il vero le dette anche un po’ fastidio e fu costretta in un primo momento a strizzare gli occhi.  Si accorse di avere il fiatone, decise di calmarsi e riprendere fiato. Sarebbe rientrata nella palestra, in qualche modo sarebbe rientrata.
 
– Il mio nome è Xavier, ho appena iniziato il mio viaggio lungo questa regione e sono approdato qui – dichiarò il castano davanti ai due sguardi interrogativi e sorridenti dei Capipalestra. – vorrei sfidare questa palestra – concluse.
I due si scambiarono un’occhiata. Xavier seguì i loro sguardi, in fase di attesa.
– Ok – rispose semplicemente uno dei due con il sorriso stampato sul volto.
Il ragazzo rimase un momento immobile, come se dovesse accadere qualcos’altro. In quel frangente ebbe modo di studiare l’aspetto con cui si presentavano i due soggetti. Entrambi avevano dei lunghi capelli neri, fluenti, ma uno li aveva legati in una coda dietro la nuca, quest’ultimo era vestito a tema, pantaloni da safari, casacca sbracciata da pigliamosche, pieno di tasche e con degli scarponcini ai piedi; l’altro, invece, portava una felpa legata alla vita e dei pantaloni più educati, bianchi, ancora Xavier non era riuscito a realizzare come il loro colore non fosse ancora stato macchiato dall’erba, e infine una camicia, anch’essa bianca, avvolgeva la parte superiore del suo corpo. I due avevano una corporatura simile, non particolarmente alti, ma dal fisico tonico, giovanile.
Non trascorsero più di due istanti, Castore e Polluce presero la loro posizione a bordo campo, nell’estremità del Capopalestra. Xavier imitò la loro iniziativa e decise di prendere posto dall’altro lato.
– Ti propongo una cosa prima di iniziare, sfidante, noi sappiamo dare ordini anche al Pokémon dell’altro... che ne dici se rendessimo questa lotta un tantino più complessa chiamando per nome il Pokémon al quale ordiniamo di attaccare? In modo che tu non sappia da quale dei due nemici proviene il colpo. – ideò uno dei due, quello vestito elegante coi capelli sciolti.
– Sono d’accordo – il fratello gli batté il cinque. – Ci stai, Xavier? – chiese quello con i capelli legati, chiamandolo per nome.
Il castano si rese conto che effettivamente non sarebbe riuscito a vincere tanto facilmente se avesse rispettato quelle condizioni, ma, orgoglioso, annuì. Stette a pentirsene e a rimuginare sull’accaduto per i due millesimi di secondo seguenti, si morse il labbro e si stabilì di stare attentissimo per quella lotta, almeno finché non avesse scoperto il set di mosse avversario.
– Venite fuori! – esclamò Xavier lanciando le Ball di Eelektross e Pumpkaboo. I due esemplari fecero il loro ingresso in campo.
I due Capipalestra rimasero stupiti – Mandi in campo i Pokémon prima di vedere quelli dei Capipalestra? – chiese Codino.
– Temerario – commentò Capellisciolti.
– Ho con me solo questi due compagni, quindi potete mettere quel che volete, la mia scelta non cambia – rispose Xavier a entrambi con la faccia spavalda di chi contraddice sicuro di aver ragione.
– Ma così faciliti a noi la nostra, di scelta – ribatté Codino.
Xavier, che fino a un momento prima si stava martoriando il labbro, si morse la lingua. Non sapeva da dove gli fosse arrivata quell’ondata di disattenzione che gli stava compromettendo previdenza e riflessione.
I gemelli risero. Per evitagli eventuali agevolazioni, voltarono le spalle allo sfidante, fecero intendere di starsi scambiando le rispettive sfere un numero indefinibile di volte, in modo da non far capire chi fosse a lanciare il Pokémon di chi e quindi per nascondergli persino la sua appartenenza.
Infine si voltarono, si misero in posizione e tirarono le Ball.
 
“Buona l’acqua fresca” pensava Guido tornando alla palestra di Costa Mirach a passo lento sorseggiando una bottiglia di H2O con qualche minerale dentro. Stava facendo ritorno alla palestra dopo essere andato a rinfrescarsi.
Celia, che in quel momento era tornata ad avere un ritmo cardiaco naturale, lo vide giungere alla sua destra. Non saltò in aria per miracolo, ma si voltò furente verso l’uomo, che aveva riconosciuto essere la guida presente in ogni santa palestra del mondo e adibita all’introdurre essa ad ogni sfidante.
– Mi può spiegare che cosa succede là dentro?! – esclamò la bionda facendo trasalire e quasi strozzare l’uomo con la sua acqua. – Ci sono bambole che piangono e spilli e muri macchiati ed è buio! – proseguì con lo stesso piglio.
– Ehi, ehi, signorina, si calmi – la placò l’uomo. – Vuole dell’acqua fresca? – chiese mostrando la bottiglia.
– Non voglio dell’acqua fresca! – rispose lei ancora incazzata.
– Se proprio vuole sapere perché questa palestra è così particolare, le spiego – cominciò Guido ridestando la sua attenzione e in parte anche la sua calma. – ...Luna, la Capopalestra, è una veggente ed ha sempre avuto un carattere particolare e un po’... eh-eh... lunatico... e quello è il suo regno. Lo addobba come vuole e i suoi gusti cambiano in base al tempo. Una volta entri nella sua stanza ed è tutto arcobaleni e fiori, il periodo primavera di petali, e la volta dopo ci sono poster raffiguranti cadaveri sventrati e borchie, il periodo metallara gore – riassunse quello.
– Ah – si calmò Celia. – ...e adesso in che periodo è? – domandò.
– Eh – mormorò Guido. – ...non lo so, a dire il vero è la prima volta che si comporta così, in più questa sua fase sta durando da un bel po’ ormai... a pensarci bene ancora non le ho dato un nome... vediamo – L’uomo cominciò a tirare fuori denominazioni a caso che riassumessero lo stato mentale di Luna in quel periodo, ma Celia aveva smesso di ascoltarlo e lui aveva sottratto la sua attenzione alla ragazza.
La bionda di Austropoli era pronta a rientrare in quella palestra. Con un po’ di coraggio, prese e aprì la porta, in un momento venne catapultata di nuovo all’interno di quel fantomatico mondo fatto di bambole martoriate, spilli e inchiostro nero. Camminò lenta e facendo attenzione a non calpestare nulla, ma impiegò del tempo prima di riabituarsi al buio pesto.
Di nuovo giunse alle sue orecchie il pianto, Celia fece una smorfia e cercò di ignorarlo.
Si muoveva con calma, come si trovasse in mezzo ad un campo minato, col cuore a mille e i nervi tesi, in cerca della Capopalestra. Ad un certo punto le parve di raggiungere una meta. In quel punto l’ammasso di bambole era più grande e sembrava celare qualcosa che si muoveva, qualcosa da cui provenivano i singhiozzi.
Non impiegò molto a capire che si trattasse di Luna, allora con calma, senza essere troppo invadente, mormorò un debole e timido “Salve...” che venne contrastato dal pianto forte mutato in un gridare acuto della ragazza che, giunto tutto d’un colpo alle orecchie di Celia, la fece trasalire.
– Andatevene, nubi! – iniziò a gridare la donna immersa nelle bambole spillettate e celata dal buio – Andatevene!
Celia doveva ancora riprendersi dallo shock, non ebbe il tempo di ascoltarla e di decifrare le sue parole.
– Luna! – gridò quando il suo cervello tornò a funzionare.
– Attenta alle nubi! Stai attenta! – gridò la Capopalestra tra un singhiozzo e l’altro.
– Luna! – chiamò di nuovo Celia.
La bionda, più per nervosismo destato dal timore che per rabbia, iniziò a scuoterla stringendola per le spalle, aveva individuato il suo corpo e faceva di tutto per risvegliarla da quella sua furia cieca.
– Le nubi, le nubi, Celia! – gridò un’ultima volta la Capopalestra.
– Luna, voglio vincere una tua medaglia! – esclamò tutto d’un fiato la bionda sovrastando persino la sua voce e dandole uno scossone talmente forte da zittirla.
I singhiozzi si fecero più lenti e le lacrime isteriche si trasformarono in un pianto calmo e doloroso. Per un attimo la bionda ebbe il timore di averle fatto del male, per questo non si mosse.
Durante quel frangente di calma riuscì a definire la fisionomia della ragazza che aveva davanti. Luna aveva, a occhio e croce, poco più di lei, ma era magra, con la pelle chiara e vestita di un abito da cameriera completamente nero, pitturato, probabilmente con gli stessi colori che sporcavano i muri. Il che aveva appunto lasciato numerosi segni sul suo corpo e anche sulle mani di Celia quando lei l’aveva afferrata. I capelli della ragazza erano di colore scuro, disordinati, anch’essi probabilmente macchiati di tempera.
Il singhiozzare amaro di Luna proseguì per breve tempo, poi la ragazza smise e rimase in silenzio. – ...tieni – sussurrò quindi a Celia prendendo una bambola a caso dal mucchio, e mettendogliela in mano. – ...ognuno dei loro occhi è una medaglia... la medaglia Eclissi – sussurrò a voce ancora più bassa.
– Ma come? Neanche tu combatti? – esclamò un po’ stupita ma affatto preoccupata Celia.
La risposta si fece attendere, poiché quando la bionda prese in mano la bambola, Luna si girò su un fianco e smise di parlare e di muoversi.
– Luna...? – riprovò dopo alcuni istanti la bionda.
– Le nubi, Celia, stai attenta alle nubi – concluse la Capopalestra con voce bassissima, appena udibile, ancora scossa dal precedente pianto.
Celia rinunciò, strinse la bambola per quanto gli spilli conficcati in essa glielo impedissero e si avvicinò alla porta.
Proprio mentre il vetro oscurato e scorrevole si apriva, le venne in mente che la ragazza la aveva chiamata per nome, senza che lei le avesse mai rivelato la sua identità. Le fece strano, ma la luce del sole che la accecò per almeno dieci secondi le fece passare di testa quel pensiero che, nato nel freddo e buio antro dei dubbi del suo cervello, per coprirsi dai raggi solari indossò un mantello bianco con su scritto “facciamo finta che, in realtà, quella donna non abbia mai detto il mio nome”. E tanti cari saluti.
Guido vide la bambola e sorrise alla bionda che, appena uscita dalla spelonca cupa e inquietante che era la palestra di Costa Mirach, doveva ancora abituarsi alla luce.
– Sai che ho trovato che nome dare a questo periodo? – le disse.
– Ah sì? – chiese sarcastica lei – E quale sarebbe? – domandò senza in realtà avere il minimo interesse riguardo quell’argomento.
– L’ho chiamato periodo notte dei poeti e degli assassini – sorrise Guido dando un altro sorso alla bottiglia di acqua.
Celia lo guardò, scrutò la sua immagine a fondo ora che la sua vista glielo permetteva riuscendo solo a vedere al posto di quell’uomo un ammasso di cose di cui non le interessava una minima pagliuzza. Fece una smorfia strana. – Orribile – commentò schifata. E andò via.
 
Due Pokémon comparvero sul terreno avversario, un Escavalier e un Accelgor. Quella fu la scelta dei due Capipalestra. Erano due esseri particolari, Xavier era originario di Unima, perciò ne aveva visti a bizzeffe, ma quelli che aveva davanti sembravano più fieri, più allenati.
– Prima mossa a te, sfidante... – sorrise Codino.
Xavier si preparò mentalmente versando l’aria che aveva nei polmoni all’infuori.
– Pumpkaboo, Bruciatutto, crea un muro di fuoco! - ordinò.
Il Pokémon eseguì, un’ondata di fiamme caotica e imprevedibile colpì in direzione dei due coleotteri avversari i quali furono costretti a tirarsi indietro per non essere colpiti da un attacco che avrebbe potuto infliggere loro parecchi danni. Una nuvola di fiamme rimase nel punto in cui Bruciatutto aveva avuto il suo momento di massima espansione, per il tempo necessario per coprire il secondo attacco di Xavier. Un potente Falcecannone occultato dal fuoco, infatti, spuntò davanti all’Accelgor nemico che non fece in tempo a schivare l’attacco.
Xavier conosceva bene la velocità di un Accelgor, aveva ben pensato di danneggiare entrambi gli avversari con Bruciatutto e allo stesso tempo di sfruttare la mossa per non permettere ad Accelgor di vedere e schivare il secondo colpo.
– Non è malaccio – commentò Codino.
– Assolutamente, ha studiato bene, direi... – sostenne Capellisciolti.
– Gli diamo sul groppone?
– Gli diamo sul groppone.
Doppioteam! – ordinò uno dei due.
Accelgor rispose ai suoi comandi, Xavier annotò mentalmente.
Il Pokémon si sdoppiò in numerose sue immagini speculari, una dozzina di Accelgor comparvero ad un paio di metri dal terreno, sopra le teste dei due avversari.
Doppio Ago! – esclamò lo stesso Capopalestra.
Xavier rimase confuso, un Accelgor non era capace di utilizzare quella mossa. Capì il tranello che era troppo tardi.  Dal basso, Escavalier, passando nel punto cieco di Eelektross e Pumpkaboo che erano occupati a tenere d’occhio i minacciosi Accelgor sopra di loro, aveva assestato ben due colpi centrando entrambi gli avversari con le sue due lance. Violenza pura. Eelektross cadde all’indietro e Pumkaboo fu sbattuto molto più lontano.
Il centro della lotta si era spostato, ormai non si trovava più in corrispondenza del cerchio di luce solare ma poco all’infuori. L’erba si era leggermente bruciata al contatto col precedente colpo di Pumpkaboo, ma nulla di grave.
– Eelektross, Sgranocchio su Accelgor! Pumpkaboo, Halloween su Escavalier!
– Rispondi con Acidobomba! – ordinò Capellisciolti.
Mentre Eelektross veniva intercettato dalla mossa di tipo Veleno di Accelgor, il colpo di Pumpkaboo andava a buon fine, ora Escavalier aveva tre tipi, Coleottero, Acciaio e Spettro, ed era mediamente vulnerabile alle mosse di quest’ultimo.
– Fanculo, togliamo di mezzo Accelgor, Pumpkaboo Stordiraggio su Escavalier! – fece Xavier che si era reso conto che la velocità del Pokémon Sgusciato stava dandogli parecchio filo da torcere e aveva deciso di lasciar stare la sua strategia basata su Halloween.
Una flebile lucina dondolante raggiunse Escavalier che non poté per forza di cose difendersi, il Pokémon rimase stordito.
Entomoblocco su Pumpkaboo! – ordinò Codino.
– Scordatelo, Lanciafiamme e Bruciatutto, voi due! – esclamò Xavier.
Effettivamente, il nemico fu colto impreparato. Due fasci di fuoco, uno più grande, l’altro più modesto, circondarono il Pokémon Sgusciato che si trovò, ironicamente, proprio tra due fuochi. I colpi andarono a segno, Accelgor cadde a terra quasi esausto.
Sdoppiatore – ordinò Capellisciolti.
I Pokémon di Xavier non se ne resero conto, neanche Xavier a dirla tutta, ma Escavalier era tutt’altro che confuso.
Ci fu un impatto violentissimo, il Pokémon Cavaliere, con addosso la sua armatura pesante di metallo, si scagliò con tutta la sua mole addosso a Pumpkaboo che fu scagliato vicino all’Accelgor nemico.
– Cazzo, Eelektross, Sgranocchio! – fece preoccupato Xavier, leggermente in tensione.
Contropiede – rispose Codino.
Escavalier fu colpito dalle fauci del Pokémon Elettropesce, ma rispose immediatamente con un rude colpo con il lato della lancia che fece piegare Eelektross in due.
– Ci vuole ben altro per far perdere la concentrazione ad Escavalier, Xavier! - esclamò con un ghigno soddisfatto uno dei due Capipalestra. Il ragazzo di Unima si rese conto che non era stato previdente concentrandosi solo su uno dei due avversari. Escavalier non era rapido quanto il suo compagno, ma sicuramente lo batteva in potenza. In tutta questa combo, il tanto ostico Accelgor era rimasto a terra, mentre Pumpkaboo aveva trovato la forza di rialzarsi.
– Finiscilo con Metaltestata – ordinò Capellisciolti riferito al Pokémon Zucca.
Escavalier si lanciò contro di lui di gran carriera.
– Perfetto, usa Malcomune! – ribatté Xavier.
La carica del Pokémon Acciaio/Coleottero fu intercettata dalla forza psichica di Pupkaboo. Escavalier si contorse, il Pokémon di Xavier stava sottraendogli energia a distanza in modo da pareggiare la loro forza vitale rimanente. Ed era molto ampio il divario tra i due, considerando che Pumpkaboo ne aveva prese, e anche molte, mentre Escavalier era sì e no stato toccato da un colpo anche piuttosto debole.
Improvvisamente, Escavalier fu più stanco mentre Pumpkaboo si ristabilì quasi del tutto. Xavier era soddisfatto della sua mossa.
– Non ci riesci, Gigassorbimento! – ordinò un Capopalestra.
Repentino come un fulmine, Accelgor si rialzò da terra e bloccò Pumpkaboo da dietro mummificandolo con le due bende che aveva attorno al collo. Un bagliore verde si manifestò nel punto d’incontro tra i due Pokémon. Accelgor mollò Pumpkaboo che cadde a terra rovinosamente. Esausto.
Xavier non fu affatto felice di ciò, aveva perso un Pokémon e aveva a disposizione solo Eelektross che era anche abbastanza stanco, mentre doveva fronteggiare un Escavalier con metà delle sue energie e un Accelgor appena tornato nel pieno delle forze. Per colpa sua, in più.
Fece rientrare il Pokémon Zucca. In quel momento si accorse di una cosa, un brandello di una sottile membrana nera cadde davanti a lui svolazzando nell’aria, un brandello della fasciatura di Accelgor, lo riconobbe subito. Capì immediatamente, ricordò che gli Accelgor devono tenersi sempre idratati e potevano creare una membrana umida per farlo da soli, ma evidentemente quello del suo avversario non ne aveva avuto il tempo. Inoltre dopo esser stato circondato dai due fuochi ed essere rimasto fermo sotto il fascio di luce per un bel po’... si era evidentemente “seccato”.
Sorrise.
– Eelektross, Lanciafiamme, incendia tutto!
Il Pokémon raccolse le sue forze e sputò un getto infuocato potentissimo che colpì Escavalier per primo, essendo il più vicino a lui, poi di striscio anche Accelgor. Il colpo arroventò l’atmosfera.
– Continua, mira ad Accelgor!
Altro fascio di fiamme. I due Capipalestra furono rimasero stupiti, Xavier conosceva bene i Pokémon e i loro punti deboli, e sapeva pure sfruttare quei punti a suo vantaggio, sicuramente avevano trovato un degno avversario. Eppure successe qualcosa di imprevedibile, Escavalier si schierò davanti al compagno che stava per essere colpito, Accelgor perdendo acqua, aveva perso anche velocità di movimento. Il Lanciafiamme colpì in pieno il Pokémon Cavaliere che rovinò a terra esausto.
– Ma allora non dovevo preoccuparmi più di tanto, elimina anche Accelgor, usa Colpo! – ordinò Xavier.
Capellisciolti stava ritirando Escavalier nella sfera, Codino entrò in soccorso del Pokémon Sgusciato. – Attacco Rapido! – ordinò.
Accelgor si scagliò repentino contro Eelektross. Ma servì a poco e niente, la sua effettiva forza fisica era imparagonabile a quella avversaria, il corpo a corpo non era per Accelgor. Il Pokémon fu intercettato da Eelektross che lo stordì prima di tutto con una capocciata, quindi iniziò a massacrarlo a forza di colpi devastanti con i suoi artigli senza dargli un momento di tregua. Quando Accelgor perse conoscenza, il Pokémon Elettropesce pose fine al suo momento berserk, concludendo la lotta.
Xavier aveva vinto.
 
Kalut aprì gli occhi, vide l’erba, prima di tutto, l’erba che aveva davanti e l’erba sulla quale si era addormentato. Quindi avvertì la presenza di Venipede, ancora stretto al suo corpo. La sua mente impiegò un po’ a comprendere che non era morto. Kalut sorrise, sorrise davvero, con gusto, un sorriso che proveniva dal suo ventricolo destro. Si alzò in piedi, mossa che svegliò Venipede. Si guardò attorno, guardò il suo corpo, lo toccò, strinse i suoi capelli. Si accorse di essere vivo.
Si rese conto che il sonno era finito.
Il ragazzo balzò in piedi, si sentiva carico e pronto a qualsiasi cosa, era felice, soddisfatto, ma... tutto in un momento, questo finì. Una scossa attraversò tutto il suo corpo, una specie di contrazione, un dolore, da alcuni punti di vista. Lui si piegò in due, mugolò premendosi con una mano l’addome.
Aveva fame, sentiva il bisogno di mangiare.
Venipede si accostò a lui, probabilmente il Pokémon aveva compreso. Subito si diresse verso un albero e cominciò a salire sulla sua corteccia, Kalut, distratto dal morso allo stomaco, lo seguì con lo sguardo. Venipede scomparve tra le foglie dell’albero, il ragazzo avvertì il rumore di alcuni rami che venivano mossi, il fruscio delle foglie giungere alle sue orecchie.
Dall’albero cadde una Baccapesca che precipitò a terra, tra l’erba. Kalut rimase leggermente basito. Venipede tornò a fare capolino dalle foglie, come per richiamare il ragazzo. Quindi tornò indietro e fece cadere altre due Bacchepesca. Kalut comprese, si abbassò e le raccolse, le strinse tra le mani. La quarta Baccapesca la prese al volo.

Si convinse e le diede un morso.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 - Ricerca ***


Capitolo 5 - Ricerca

 

Un salto. Niente. Un altro salto. Niente.

Le bacche erano troppo in alto perché Kalut riuscisse a raggiungerle. Venipede comprese il suo disagio e la sua fame, decise quindi di tornare sull’albero e facilitare il gioco al ragazzo lasciandogli cadere altri frutti. La creatura cominciò a salire lungo la corteggia, lentamente, con calma. Il ragazzo lo fissò con occhi spiritati, coinvolti fino all’ultima cellula. Ovviamente si avvicinò alla corteccia e provò anche lui a scalarla, mise un piede su di essa, una mano, poi un altro piede un po’ più in alto... si accorse troppo tardi di non avere appigli e rovinò miseramente a terra spellandosi leggermente il ginocchio e la coscia. Non demorse, riprovò e si fece di nuovo male.
 
Celia fissava la bambola che aveva in mano.
Nel frattempo, attorno a lei, plotoni di persone tra clienti e camerieri si muovevano freneticamente. Vassoi che scorrevano agilmente tra gli sguardi sperduti di potenziali clienti appena entrati nel ristorante che scrutavano tra la coltre di teste e pietanze in cerca di un tavolo vuoto adatto ad essere inquinato dalla loro presenza. Ogni tanto un bambino sfuggiva dalla campana di vetro dei genitori, cominciava a correre tra le gambe della folla fino a sbattere con le gambe di un qualche cameriere che, obbligato dal suo mestiere ad essere sempre sorridente, eludeva giovialmente il bambino come si fa con l’assillante richiesta di un mendicante e continuava per la sua strada. Un chiacchierare entusiasta e acuto aleggiava nell’aria, l’acciottolare dei piatti era il tappeto.
La ragazza si decise, era ancora ferma al tavolo su cui aveva consumato il suo pranzo, ma poco gliene importava, i camerieri erano troppo impegnati per preoccuparsi di una ragazza che occupava un solo posticino ad un angolo buio e sperduto della sala. Celia prese un coltello e tagliò alla meno peggio il filo che teneva attaccati gli occhi-bottoni della bambola alla sua testa, ne rimosse uno, dopo aver liberato quel punto da tutti gli spilli che vi erano conficcati. Quel pezzo di metallo che le rimase in mano aveva la parvenza di un bottone ma la sua forma era leggermente più complessa, i quattro buchi che vi erano aperti al suo interno erano decorati in modo strano e tutti i bordi erano rifiniti. Diede un’occhiata all’altro “occhio”. Stessa cosa. Aveva tra le mani ben due medaglie Eclissi una delle quali ancora attaccata alla bambola di pezza macchiata di inchiostro.
Le venne in mente di chiamare Xavier e regalargliela.
Impiegò alcuni minuti a trovare il suo contatto sul PokéNet, lo strumento era talmente intuitivo da risultare a volte fastidioso all’uso, e lo chiamò. Il ragazzo rispose in video, si vedeva chiaramente dal piccolo display che aveva la bocca piena e un panino tra le mani.
– Oh, Celia, dimmi – rispose il castano.
– ...’spetta... – la ragazza era intenta a cercare l’interruttore a sfioramento, individuò il punto, ci passò sopra il polpastrello e immediatamente l’immagine di Xavier mutò in una sua proiezione olografica. – Ok, ci sono, volevo dirti... – rimuginò un istante.
– A parole tue – incentivò lui.
– A quante medaglie sei? – domandò Celia.
– Una.
– Io tre – ribatté lei assistendo al più radicale mutamento di espressione che avesse mai visto fare a Xavier.
– Tre?! – chiese incredulo lui. – Caspita sei stata via un giorno e mezzo...
Celia rise. – Ma aspetta, non è così semplice, due sono uguali, ho due medaglie Eclissi, ne vuoi mica una? – spiegò.
– Eh... – Xavier non capiva perfettamente, ma cercò di mandar giù la notizia allo stesso modo. – Presumo di sì? – Era più una domanda che una risposta.
– Dai, tanto la Capopalestra è una pazza, non ti chiede di combattere, ti dà la medaglia e via...  – affermò Celia.
– Come? Non combatte?
– No, e io sono stata fortunata, non ho dovuto sconfiggere neanche Arturo, sul percorso ho incontrato il Campione Antares e lui mi ha dato uno strappo fin qui facendomi anche prendere la medaglia di Vulpiapoli senza sfidare il Capopalestra – sorrise gaia lei.
– Davvero...? – chiese il ragazzo un po’ deluso e un po’ infastidito.
– Davvero – confermò lei.
– Mh... – Pausa. – Vabbè... il resto come va?
– Tutto bene, io sono abbastanza avanti e mi sto divertendo, tu invece?
– Anche io, i Capipalestra qua a Borgo Asterion sono ossi duri, però, in compenso... – dette un morso al panino che brandiva come un trofeo. – ...si mangia bene.
– Vedo.
– La squadra? – domandò a bruciapelo lui.
– Oh cavolo, devo ancora trovare un compagno a Gel... – ricordò lei un poco allarmata.
– Ah, io ho un Pumpkaboo! – sfotté lui.
– Un Pumpkaboo...? – domandò lei lasciando trapelare il sarcasmo.
– È un Pokémon molto forte – ribatté Xavier.
– Mh, vabbè, adesso dove sei diretto tu? – chiese la bionda cambiando argomento.
– Penso... penso che andrò a Idresia – rispose.
– Ah, anche io avevo idea di andare lì, siamo più o meno alla stessa distanza. Facciamo una cosa...
Xavier aguzzò l’attenzione.
– Passiamo dal Professor Willow e poi andiamo a battere il Capopalestra insieme, il primo di noi che arriva aspetta l’altro, così ti do anche la medaglia, che ne dici?
Il ragazzo annuì. – Ci sto, magari lottiamo anche.
La loro chiamata terminò.
Celia rifletté un istante su ciò che aveva detto il castano. Pensò che effettivamente lei aveva a disposizione soltanto Gel e Xavier conosceva bene le sue mosse. In più i Reuniclus sono vulnerabili al tipo Spettro dei Pumpkaboo. Aveva bisogno urgente di un nuovo Pokémon.
La ragazza pagò il conto e si diresse immediatamente fuori, volle ripartire subito. Guardò sul PokéNet e notò che le mancavano diverse ore di cammino per giungere al fiume Eridano. Idresia si trovava su un isoletta che sorgeva al centro di un lago formato dal rigonfiarsi del fiume stesso al centro della regione. Ancora sentiva l’acido lattico di quella mattina, ma poco gliene importava. Si mise in cammino con Gel che le galleggiava accanto, ma non prima di aver dormito una mezz’ora.
 
Xavier accartocciò la busta che conteneva l’hamburger appena consumato e la gettò nel più prossimo cestino. Prese il passo, la direzione era Idresia e la sua squadra, appena ritirata al bancone del Centro Pokémon, gli sorrideva radiosa.
Tirò fuori il PokéNet e impostò la destinazione nel programma Navigatore. Secondo i calcoli del dispositivo avrebbe impiegato sette ore circa di cammino per raggiungere la cittadina. Era pronto ad affrontare la scarpinata.
 
Kalut era steso a terra, Venipede gli girava attorno mentre lui fissava il cielo. Calmo, sereno, silenzioso. Il Bosco Lira sembrava privo di vita, eppure ogni istante un nuovo e sconosciuto suono giungeva alle sue orecchie.
“Kricketune, Roselia, Combee...” pensava lui man mano che il suo cervello identificava la specie che emetteva il verso. Si accorse di saper dare un nome a quei Pokémon, si rese conto di conoscerli. Era come se nel suo cervello ci fosse qualcosa di già scritto, qualcosa che andava scoperto di nuovo. Ma era troppo complesso e troppo nascosto perché lui ci riuscisse.
– Venipede! – esclamò, nella sua spensieratezza. Il Pokémon ridestò la sua attenzione, sentendo il richiamo. Kalut rise, rise di gusto, senza motivo, ma rise.
Ad un certo punto la sua serenità fu minata da un rumore, il muoversi di un ramo improvvisamente. Di nuovo.
Si alzò in piedi.
Eppure, il ragazzo non provò timore, la prima sensazione che giunse alle sue sinapsi non fu l’ansia né tantomeno la paura. Si sentiva dentro, si sentiva attratto da quella sensazione di sconosciuto che aveva intravisto in quel suono. Sentiva di voler capire di che cosa si trattasse.
Fece un gesto a Venipede per intimargli di seguirlo e cominciò a camminare.
 
– Quello? Ti piace? – chiese Celia rivolta a Gel mostrando un Cherrim col display del suo PokéNet. Il dispositivo era fornito di un database contenente informazioni riguardanti tutti i Pokémon trovabili a Sidera ordinati in base alla zona. Il Pokémon la fissò con occhi delusi. – No, infatti, neanche a me... – si rispose la ragazza.
La bionda si muoveva lungo il sentiero da un paio d’ore, il sonno lo aveva recuperato e si sentiva pronta a concludere il viaggio verso Idresia in un giorno, proprio per questo nel tempo limite di un arco solare doveva trovare un Pokémon da aggiungere al suo team.
– Quello invece? – Un Purugly, stavolta, era mostrato nello schermo. Il Reuniclus non le rispose neanche. Celia scosse di riflesso la testa.
In quel momento le venne un’idea. Secondo le mappe nei pressi del punto dove stava camminando in quel momento vi era un antro poco profondo. Lei sapeva per certo, per una di quelle credenze che si acquisiscono da bambini e poi faticano ad andarsene nel corso degli anni, che nelle grotte si trovavano sempre dei Pokémon interessanti. Decise di incamminarsi verso questo luogo e magari esplorare questa caverna per capire quali esemplari esotici si potessero catturare al suo interno.
Non impiegò molto a trovarla, non mancava di senso dell’orientamento, una fessura in un massiccio vicino si apriva quasi ad accogliere gli allenatori in cerca di rogne. Camminò per un po’ in tondo all’interno della prima stanza della grotta, sempre rimanendo nei pressi della sagoma di luce disegnata a terra dalla porta, dato che era sprovvista di una torcia, indecisa se inoltrarsi ancora o cercare cose interessanti in quel punto. Decise di spingersi un po’ oltre. Ad un certo punto udì il gutturale verso di un Pokémon giungerle alle orecchie. Si voltò e con lei Reuniclus.
Probabilmente infastidito dalla loro presenza, un Gible aveva abbandonato il nido e, battagliero come tipico della sua specie, era venuto ad affrontare l’intruso.
Il Pokémon piacque alla bionda che fece un semplice calcolo, Terra: resistente a Eelektross e Drago: resistente a Pumpkaboo. Non ci pensò due volte.
Psichico, Gel! – ordinò.
Una pressa invisibile cominciò a spremere le tempie del Pokémon Squaloterra che, ancor più incazzato, si lasciò sfuggire un Riduttore con cui centrò il Reuniclus troppo impegnato a strizzargli la materia grigia.
Stordipugno! – il suo ordine risuonò nella caverna.
Le forti braccia di Gel incontrarono il corpo di Gible ancora scosso dal contraccolpo che tentò di contrattaccare con Lacerazione ma fu vinto dalla potenza avversaria. Cadde a terra stanco ma non esausto. Celia voleva prima sfinirlo, quindi ordinò al suo Reuniclus di utilizzare Psiconda.
Una sorta di immagine violacea dalla sagoma simile a quella del Pokémon Espansione partì dal corpo gelatinoso di lui per colpire l’avversario emanando una luce accecante. Gible rimase sconfitto, ma il bagliore diede per un istante a Celia la possibilità di vedere che appesi al soffitto vi erano numerosi Zubat e Woobat. Non ebbe il tempo di calcolare la gravità della situazione, la luce improvvisa spinse l’insolito stormo di Pokémon Pipistrello a riversarsi, innervositi dalla sveglia indesiderata, all’interno della caverna e a sbattere le ali freneticamente creando una fattispecie di vortice svolazzante attorno a Celia e Gel. La ragazza si spaventò ma il suo Pokémon  fu lesto a creare una barriera psichica attorno a loro due per impedire ai Pokémon selvatici di colpirli.
Celia, all’interno della bolla, sentiva i corpi degli Zubat cozzare contro le pareti traslucide e poi subito dopo il più debole ma ripetuto sbattere delle loro ali nello stesso punto, i Woobat invece erano più controllati e attaccavano una volta, due al massimo, prima di gettare la spugna e lasciare che la barriera rimanesse al suo posto.
La furia di alette e dentini si concluse poco dopo. Alcuni di quei Pokémon erano usciti dalla grotta per affrontare il sole e altri invece si erano rifugiati spingendosi nei visceri più profondi e reconditi dell’antro. Celia e Gel erano al sicuro. Il Pokémon lasciò che la barriera si dissolvesse.
– Che cavolo... – commentò la ragazza mentre il suo cervello faceva mente locale. – Oh no! – esclamò. Le era tornato in mente Gible. Si voltò.
Il Pokémon era disteso a terra, pieno di graffi e ferite, totalmente devastato. Lo stormo aveva attaccato ciò che poteva attaccare, l’unico Pokémon esterno allo scudo psichico di Reuniclus.  La ragazza si appropinquò a lui. Poteva perfettamente udire il suo respiro affannato e rotto. Era ancora vivo.  Celia prese il Gible tra le braccia e corse fuori dalla caverna.
La luce investì i suoi occhi costringendola a strizzarli per i primi momenti. Le venne in mente che la cittadina più vicina era Costa Mirach, da cui lei era partita, ed era ad un’ora e mezza di cammino. – Merda... – In un primo momento non vide la salvezza per quel Pokémon che aveva in braccio, poi una lampadina a risparmio energetico si accese nel suo cervello. La ragazza diede Gible a Gel e aprì la borsa.
Ben cosciente del fatto che non sarebbe bastata a ristabilirlo completamente, tirò fuori una Cura Ball dalla tasca laterale e, attivandola, la poggiò delicatamente sul corpo del Pokémon Squaloterra. La sfera si aprì e lo risucchiò al suo interno. Il Pokémon era stato catturato, neanche aveva provato ad opporsi.
– Andiamo! – esclamò la bionda prendendo a correre verso il sentiero che aveva seguito nell’intento di ripercorrerlo tutto al contrario.
 
Era tardo pomeriggio e Xavier si trovava a metà strada, Borgo Asterion era leggermente più vicino a Idresia rispetto a Costa Mirach, lui era certo che l’avrebbe raggiunta prima di Celia. Il ragazzo guardò l’orario e iniziò a prendersi il viaggio alla maniera più comoda. Sconfisse qualche Pokémon selvatico, allenò i suoi due compagni di squadra, Eelektross e Pumpkaboo e si preparò ulteriormente sia alla lotta con Celia che a quella con la Capopalestra di Idresia.
 
Kalut era in posizione di guardia. Scrutava l’ambiente circostante con attenzione e un broncio di concentrazione in volto, accanto a lui Venipede. Un ramo sopra di lui si mosse ancora, i suoi occhi si diressero tra quelle fronde da cui, dopo alcuni istanti, uscì uno Staravia pronto all’attacco, in cerca di prede. Kalut si tirò indietro in modo da eludere il becco del Pokémon mentre Venipede si preparava a ricevere ordini di attacco.
– Staravia... – sussurrò Kalut. – Venipede! – esclamò tendendo il braccio al suo Pokémon. Il Centipede si aggrappò alla mano del ragazzo, salì sul suo arto e, passando sopra le spalle, giunse all’altro braccio da cui, come se avesse inteso perfettamente le intenzioni di Kalut, si gettò attaccando con Rotolamento il Pokémon avversario. Staravia incassò il colpo ma non ne rimase danneggiato gravemente, quindi rispose con Attacco Rapido, ma Venipede resistette.
Kalut annuì, in qualche modo, sapeva di star comunicando le mosse al Pokémon, ma non aveva idea di come il suo cervello potesse conoscere così tante strategie, tecniche, possibilità di combattimento. Seguiva nel frattempo la lotta con occhi smarriti, troppo occupati a studiare quello che aveva davanti e ogni possibile suo esito. La sua mente come un computer elaborava gli avvenimenti e ne elencava le possibili risposte alternative, in conclusione sceglieva sempre quella più conveniente. Tutto in pochi millisecondi.
Il ragazzo gridava rendendosi conto che Venipede stava per essere colpito a sinistra da Aeroassalto, lui usava Ricciolscudo e si difendeva. Chiamava il nome del Pokémon quando Staravia mostrava il fianco, un Velenocoda subito veniva sferrato da questi andando perfettamente a segno.
Il Pokémon Centipede colpì un’altra volta l’avversario, Staravia barcollò, ma non si arrese. Le sue ali si illuminarono e per un istante i suoi occhi si diressero verso Venipede. Kalut lo notò, ma senza un reale motivo non fece nulla per allertare il suo Pokémon e quest’ultimo incassò un Attacco D’Ala. Il messaggio lo raggiunse, coniò ufficialmente la sua sicurezza del fatto che il Venipede si basasse sui suoi avvertimenti per attaccare e difendersi. Kalut sorrise.
Staravia si avvicinò per un secondo attacco, il ragazzo avvertì il Pokémon un ultima volta. Protezione. Quindi Rulloduro. E l’avversario era a terra.
Kalut ispirò, permise a Venipede di riavvicinarsi tenendo gli occhi fissi sul Pokémon uccello svenuto ai suoi piedi. Aveva vinto.

Cacciò un grido di sfogo e felicità insieme.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 - Scoperta ***


Capitolo 6 - Scoperta

 

“Cureremo il Pokémon, faremo del nostro meglio.” aveva detto in tono rassicurante l’infermiera.

Celia era nella sala d’attesa del Centro Pokémon. La sera stava scendendo su Sidera e lei aspettava, aspettava che un qualche aggiornamento giungesse dall’equipe di dottori che si stavano occupando di Gible ormai da diverso tempo. Tra le mani aveva un bicchiere di polistirolo dal quale aveva bevuto poco prima. Odiava quei bicchieri, capiva che la loro peculiarità nell’essere di quel materiale così poco resistente stesse proprio nell’essere usa e getta, in modo da prevenire la diffusione di un possibile morbo giustamente contraibile in luogo come un ospedale, ma li odiava. Le davano un senso di precarietà, di debolezza, di fragilità, e in quel momento lei aveva bisogno di sicurezza, sicurezza d’acciaio.
Attorno a lei c’erano poltrone vuote. Un solo ragazzo, sdraiato su una di esse, giaceva immobile con una rivista in faccia. Sembrava addormentato.
Celia gesticolava nervosa giochicchiando col bicchiere che aveva in mano, generando un rumore abbastanza fastidioso.
 
– Ti pagano mica per il concertino? – mormorò sarcastico il ragazzo da sotto la sua rivista, ad un certo punto.
Celia si voltò verso di lui. Impiegò un po’ per capire che la domanda fosse rivolta a lei.
– Scusa...? – domandò insicura.
– Ti pagano per svegliarmi a suon di polistirolo? – precisò l’individuo sollevandosi e togliendosi la rivista dal volto.
Celia lo scrutò. Era giovane, le sorrideva, portava una felpa nera con la scritta “One Soul”, e dei jeans larghi, era castano, con gli occhi nocciola.
– ...n-no... – balbettò disattenta. Un particolare aveva catturato la sua attenzione. I suoi occhi non la ingannavano, da dietro la felpa del ragazzo, spuntava un nodo di cravatta, un colletto inamidato e una giacca nera elegante.
Fissò il collo della persona che aveva davanti come per accertarsi che ciò che vedeva non fosse uno scherzo della sua vista.
Lui ovviamente lo notò. – Cerchi qualcosa? – domandò sorridente abbassandosi e intercettando la linea del suo sguardo.
Celia venne colta alla sprovvista. – Io? No, non... non è nulla... – La ragazza si alzò in piedi e raccolse la sua borsa.
– Ehi, ma dove...?
– Scusami, ma ho da fare. – tagliò corto la bionda.
Abbandonò il ragazzo che non prese proprio benissimo la cosa e si chiuse nel bagno. Trasse un sospiro. Era ancora appoggiata alla porta. Si sciacquò il volto, fece mente locale, chiarì momentaneamente la confusione. Si accorse che non era poi così orribile la situazione, stava andando bene, era solo un Gible selvatico quello per cui si stava preoccupando tanto. Tecnicamente era il suo, l’aveva catturato, ma soltanto da alcune ore.
Uscì dal bagno dopo dieci minuti contati. La prima cosa che vide fu il ragazzo-giacca-sotto-la-felpa conversare con un medico.
– È entrata nel bagno, dovrebbe essere di ritorno a br... - diceva il castano.
– Dottore, come sta Gible? – intervenne Celia spuntando alle spalle dell’uomo in camice.
Il medico si voltò.
– Signorina, il suo Pokémon si sta rimettendo, – La bionda poté liberarsi di un peso che gravava sul suo stomaco. – è stato molto fortunato, gli effetti della sua Cura Ball le hanno molto probabilmente salvato la vita – confermò il medico.
– Grazie mille, quando posso ritirarlo? – chiese Celia stringendo la mano all’uomo.
– Mh, io le consiglierei di farle passare la notte in pace, domani potrete ripartire, ma mi raccomando, non sottoporla ad uno sforzo eccessivo per i primi tempi, occupati di lei. – raccomandò il medico.
– Uh? È femmina? – domandò la bionda.
– Ed è anche giovanissima, lei è un’Allenatrice signorina...?
– Celia, mi chiamo Celia. Sì, sono in viaggio per vincere le medaglie di Sidera – rispose.
– Beh, sicuramente una volta che si sarà evoluta avrà un Pokémon davvero forte e fedele in squadra – il medico fece per andarsene. Si girò verso la bionda all’ultimo momento. – Ha la pellaccia dura – concluse prima di voltarsi e sparire nel corridoio.
Celia raggiunse la stanza in cui stava riposando il secondo membro della sua squadra. Gible era in un lettino ricurvo studiato appositamente per i Pokémon di piccole dimensioni, aveva un’espressione serena in volto. Alcune bende erano avvolte attorno ai punti più delicati come le giunture o la pinna che aveva sopra la testa, ma non vi era traccia di emorragie o ferite gravi. Era felice che stesse bene, ma non lo aveva catturato per “non sottoporlo ad uno sforzo eccessivo”. Aveva bisogno di un compagno che la aiutasse nelle lotte.
– Mi serve Karma... – sussurrò tra sé e sé.
 
Julie stava mettendo a dormire i Wurmple. Curava i loro bozzoli bianchi e lilla appena iniziati, faceva sì che nessuna scoria, foglia secca o rametto si impigliasse nella seta da loro prodotta. Una voce giunse dallo stabilimento dell’allevamento. “Julie, ti cercano al telefono!”.
Era sua mamma.
– Arrivo ma’! – rispose lei.
Percorse velocemente tutto il prato, Volbeat e Illumise le facevano strada con le loro luci nell’oscurità della notte.
Giunse da sua mamma che, in vestaglia, la aspettava con la cornetta in mano. Julie fece un gesto alla madre con la mano come per chiedere chi fosse a cercarla a quell’ora, il labiale della madre le rispose il nome “Celia”.
– Celia, dimmi, come va il viaggio? – salutò la castana.
– Tutto bene, grazie per l’interessamento – rispose la bionda dall’altro capo, parlando alla cornetta del telefono del Centro Pokémon. – Julie, mi serve Karma – tagliò corto. – Puoi mica mandarmelo al Centro Pokémon Ospedaliero di Costa Mirach? – domandò.
– Ehm... va bene, te lo invio immediatamente se vuoi... – rispose Julie.
– Grazie mille, ti devo salutare adesso, sei dolcissima, ciao! – Celia riattaccò.
Julie rimase un momento interdetta per la brevità della telefonata, la bionda sorella di Xavier non era mai stata così precipitosa, non che lei ricordasse.
La mora raggiunse un mobile al lato della sala, lo aprì e iniziò a cercare. Esso conteneva le Ball degli Allenatori che avevano lasciato i loro Pokémon all’allevamento, tutte ordinate e disposte correttamente, ognuna di esse aveva una targhetta con su scritti i dati essenziali riguardanti l’esemplare di appartenenza.
Prese in mano una Ultra Ball con attaccato un’etichetta cartacea bianca con su scritto “Celia Ellison, Skarmory, femmina, Karma”. Tornò fuori.
Si diresse verso la parte di giardino in cui avevano disposto dei giganteschi massi per far adattare i Pokémon più abituati ad un ambiente montano.
– Karma! – chiamò senza gridare troppo.
Pochi secondi e poi un potente Pokémon Armuccello con due battiti d’ali sorse da dietro il massiccio per atterrare, spostando ingenti quantità d’aria, davanti a lei. Emise il suo verso acuto.
– La tua allenatrice ha bisogno di te, bella... – gli sussurrò l’Allevatrice carezzandola e poggiando sul suo corpo la Ball. La Skarmory scomparve all’interno della sfera.
 
Celia attendeva davanti al dispositivo di trasferimento Pokémon. Aveva già chiesto il permesso di utilizzarlo all’infermiera che aveva il turno al bancone principale quella notte. Aspettava la sua Skarmory, Pokémon che aveva catturato a Johto accompagnando Xavier in uno dei suoi viaggi. Insieme avevano attraversato le regioni di Unima, Johto e Kanto, lei aveva persino ottenuto le medaglie di quest’ultima, oltre quelle della sua regione originaria. Ovviamente durante questi itinerari lontani da casa aveva approfittato per costruirsi un team coi fiocchi con il quale aveva viaggiato praticamente sempre. Prima di iniziare la gita a Sidera, però, aveva deciso di ricominciare tutto da capo e lasciare tutta la sua squadra, escluso Gel, all’allevamento della ragazza di suo fratello. Cosa simile aveva fatto Xavier che diversamente, aveva catturato molti più Pokémon in ogni regione attraversata, ma ne aveva liberata la maggior parte alla conclusione del viaggio. Si era ritrovato alla fine con tre soli esemplari tra le mani e uno di questi era il suo Eelektross. Diceva di volersi costruire una squadra composta dai “membri più forti delle squadre”.
Un suono svegliò Celia dal suo flusso di coscienza. La richiesta di trasferimento da parte dell’Allevamento Pokémon di Delfisia richiedeva di essere accettata sul monitor del dispositivo. Lei premette il tasto OK.
Avvertì un ronzio leggero, una luce all’interno della capsula di trasferimento, quindi la sua Ultra Ball si materializzò nel dispositivo. La ragazza la prese in mano, la sua pelle fu solleticata dall’elettricità statica quando entrò in contatto con la sfera nera e gialla. Lo sguardo di Celia oltrepassò il vetro traslucido, un’assopita Skarmory riposava serena nella sua mano. La sua compagna così possente si faceva così minuscola una volta chiusa dentro la sua capsula
La ragazza mise la Ball a posto nella borsa, accanto a quella con dentro Gel e a quella vuota assegnata a Gible. Aveva sonno. Voleva andare a dormire. Le indicazioni per trovare le stanze da letto per i viaggiatori all’interno del complesso dedalo che era quell’enorme Centro Pokémon Ospedaliero gli furono date dall’infermiera. Ripassando nella sala d’accoglienza, la bionda si accorse che il ragazzo con i capelli castani era scomparso, nessuno sedeva più sui divanetti rossi. Una triste atmosfera cupa aleggiava in quella stanza, rallegrata solamente dal brusio prodotto dal Tg notturno in onda sul maxi schermo sopra il bancone centrale, il suo volume era stato drasticamente abbassato. Si rese conto che era estremamente inquietante il panorama, guardando fuori attraverso il vetro della porta e delle finestre si vedeva soltanto il nero, il buio ambiente circostante era del tutto occultato agli occhi di chi si trovava all’interno del centro dalle luci artificiali perennemente accese. Le venne un brivido, e ciò basto a farla correre alla sua cuccetta. La ragazza si spogliò, indossò un leggero “pigiama di fortuna” che le impedisse di sudare l’anima durante la calda notte di quel trentunesimo giorno di agosto, si sdraiò sulla branda.
Afferrò il diario a forma di tavoletta di cioccolato morsicata e una matita.
“Non so ancora che soprannome dare a Gible, Avril, non ho neanche scambiato uno sguardo con lui. Penso che dovrei essere preoccupata per le sue condizioni, è comunque un mio Pokémon...” scrisse. “...è molto caldo stanotte, il PokéNet dice che ci sono trentatre gradi. Domani non ho voglia di rifare tutta la mattinata in cammino sotto il sole, spero di incontrare di nuovo Antares...” Qui inserì una faccina sorridente. “Se si offrisse di nuovo per accompagnarmi potrei davvero pensare male...”
“Ma scherzi? Secondo me è un pedofilo, guardati le spalle la prossima volta che lo incontri!” si rispose.
“Smettila! È una brava persona!”
“Celia, ricordi cosa diceva la mamma, non devi mai dare completa fiducia a nessuno” si ricordò.
Per un istante Celia smise di scrivere. La sua coscienza tacque, Avril tacque.
“Oggi ho incontrato un ragazzo molto particolare, portava un vestito da matrimonio nascosto sotto una felpa da skater... sulla felpa aveva scritto One Soul... chissà cosa vuol dire...” proseguì.
“Sotto la felpa? Non stava morendo di caldo?”
“L’ho pensato anch’io... ma, a parte gli scherzi, credo di aver sudato più oggi che in tutta la mia vita per quella corsa con la Cura Ball in mano.”
“Mh... devi farti una doccia, odori di cadavere di Psyduck morto in maniera atroce.” si sfotté.
“Hai ragione...”
“Magari è per quello che il ragazzo è fuggito non appena ti sei allontanata” Commentò sarcastica.
Celia aggiunse un teschietto al posto del punto in quella frase, chiuse il diario, si alzò e si diresse verso il bagno per lavarsi.
 
Xavier era nelle stanze da letto del centro Pokémon della città di Idresia, era steso sulla branda, intento ad utilizzare il suo PokéNet tenendolo in mano, non attorno al polso come di consuetudine. Aveva chiamato Celia più di una volta, ma non aveva ricevuto alcuna risposta. Le prime chiamate andavano a vuoto, le ultime invece non partivano neanche poiché la tipa in segreteria diceva che il dispositivo del ricevente era spento.
“Impostazioni, Servizio satellitare” Il ragazzo navigava tra le impostazioni del suo dispositivo leggendo mentalmente le scritte sul display. “Radar Allenatori... dovrebbe essere questo” pensava.
Si aprì un interfaccia olografica che ricordava molto una mappa minimale di colore scuro in mezzo alla quale sorgeva un puntino più chiaro. Con estrema probabilità i puntini non indicavano gli Allenatori stessi, bensì gli Allenatori dotati di PokéNet. Era ambiziosa come approssimazione.
“Questa è Idresia, e questo sono io...” ragionò Xavier riferendosi al puntino. “E nei paraggi Celia non c’è...”
Fece un gesto con le dita stringendo pollice e medio in prossimità dello schermo del PokéNet, sfiorandolo appena, e l’effetto si riversò sull’ologramma, la cui immagine si restrinse, inquadrando una fetta di terreno maggiore. Ora Xavier poteva vedere la mappa di tutta Idresia. Scorse un altro punto, più a nord di lui, indicante un secondo esemplare di PokéNet. Cliccò sul display e una piccola finestra si aprì uscendo dall’icona indicante se stesso. La videata mostrava suoi dati Allenatore, la sua scheda, le sue medaglie, la sua età, i Pokémon che attualmente aveva in squadra, e altre sue informazioni poco importanti.
– Wow... – Il ragazzo rimase stupito dall’efficienza dello strumento. Ma non era se stesso che cercava, sposto l’area interessata muovendosi sul display e centrò il secondo puntino. Cliccò.
“Professor Jason Willow, profilo bloccato.” recitava la videata.
– Ah – sorrise Xavier. – Già prendi contromisure. – fece sarcastico.
Continuò la sua ricerca, gironzolando in tondo attorno alla zona della città-isola di Idresia. Non scorse nulla. Quindi si decise e digitò il nome “Celia” sulla barra di ricerca.
L’area di interessamento della mappa fece un enorme salto e inquadrò la chiazzetta chiara al centro della città di Costa Mirach.
– È ancora là?! – esclamò il castano.
Cliccò sul puntino. Diceva “Celia Ellison, femmina, 23 febbraio...” E tanti altri dati scritti nella finestra. “In squadra: Reuniclus, Skarmory, Gible” Diceva anche.
 
Kalut sorrideva, si era gettato a terra. Il sole era ancora alto nel cielo, era da poco passato mezzogiorno. Aveva sconfitto il suo primo avversario insieme al suo primo Pokémon compagno, ne andava fiero.
– Dado! Dado! Perché mi scappi sempre?! – udì ad un certo punto.
Lo sgambettare tra le fronde lo mise all’erta, qualcos’altro si stava avvicinando, ma stavolta non riconosceva alcun verso. Alla voce lontana, lo Staravia esausto caduto a terra rispose con un lieve cenno del capo e un mugolio stanco. Kalut intese che tra l’essere in avvicinamento e il Pokémon sconfitto c’era un qualche collegamento.
– Dado! Dove sei? – continuava la voce avvicinandosi sempre più.
Lo Staravia, rinvenendo un po’, riuscì ad emettere un cinguettio più acuto che giunse all’ignoto soggetto. Il ragazzino tacque e si diresse verso il luogo in cui giaceva il suo Pokémon uccello.
Kalut fece appena in tempo a rialzarsi in piedi.
– Dado, sei qui! Smetti di non darmi retta, non devi sparire cos... – il bimbo si interruppe.
Il suo sguardo incrociò quello di Kalut. Entrambi erano stupiti dalla presenza altrui.
Kalut si trovò davanti una figura infantile, più piccola di lui, per la quale non riuscì a provare spavento. Non era inquieto, si sentiva un morso allo stomaco, un calore indesiderato alle punte delle dita. Si vergognava di essere davanti ad un essere così particolare.
I due si scrutarono per un interminabile istante.
– Perché sei nudo? – chiese ad un certo punto il ragazzino.
Kalut socchiuse gli occhi. Un qualcosa era giunto al suo cervello, un messaggio, una domanda. Sapeva cosa aveva detto il ragazzino, lo aveva capito.
– Chi sei? – insistette lui.
Il ragazzo non rispondeva, i suoi occhi erano persi nel vuoto e la sua lingua dormiente nella sua gola. Venipede era fermo dietro di lui, mentre Staravia giaceva ancora a terra. il bambino mosse alcuni passi verso Kalut, che indietreggiò di pochi millimetri, giusto per sicurezza, quindi si avvicinò al suo Pokémon.
– Dado... come stai? – chiese il bimbo.
Il Pokémon emise un debole mormorio. Era esausto, si trattava di un naturale svenimento da lotta.
– Ha combattuto con te? – chiese il ragazzino rivolto di nuovo a Kalut.
Il ragazzo dai capelli bianchi non rispose ma, poco fiducioso, si appropinquò allo Staravia. Mise delicatamente una mano sul suo piumaggio, lo carezzò sotto lo sguardo attento del bambino.
– Dado... – mormorò Kalut.
Il ragazzino annuì, imitando la carezza dell’altro. – È il suo nome – confermò.
– Staravia... – proseguì.
– Sì, si è evoluto da poco.
Le voci dei due erano tanto simili. Kalut sentiva le parole del bambino e capiva che erano uguali alle sue. Voleva sentirne ancora, voleva sentirlo parlare. Voleva sentire quei suoni così particolari, così delicati e definiti. Adorava ascoltare i versi dei Pokémon, ma udire la voce umana era tutta un’altra cosa alle sue orecchie.
– Io mi chiamo Richard, ma tutti mi chiamano Rick - si presentò innocente il bambino. - Tu invece come ti chiami? - chiese.

Il ragazzo dai capelli bianchi si bloccò. La sua mano si sollevò dallo Staravia, i suoi occhi smisero di guardare il vuoto. Si diressero verso il bambino. – Kalut – rispose.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 - Svezzamento ***


Capitolo 7 - Svezzamento

 

– Ma sei qui da solo? – domandò Rick.

Kalut si guardò attorno per trovare il suo Pokémon. Venipede si stava nascondendo dietro un cespuglio, probabilmente intimorito dalla presenza altrui. Il ragazzo dai capelli bianchi sedeva a terra con l’asciugamano da mare color pulcino di Rick avvolto attorno alla vita. Il bambino lo aveva portato nello zaino e aveva deciso di prestarglielo in modo da permettergli di coprirsi ed apparire pubblicamente accettabile. Il ragazzo non aveva capito bene perché, ma lo aveva ascoltato.
– Venipede – chiamò Kalut.
Il Pokémon Coleottero-Veleno si avvicinò.
– Ehi... – mormorò Rick. – È tuo? – domandò.
Kalut alzò lo sguardo, nel frattempo il Pokémon Centipede saliva sulla sua spalla passando lungo il braccio. Molto, molto vagamente, Kalut annuì.
– È un bel Pokémon... – commentò il ragazzino.
Dado, lo Staravia di Rick, era stato curato dal suo Allenatore con alcuni rimedi e sopra le loro teste, tornato pienamente in forze dopo un po’ di tempo, svolazzava allegramente.
– Kalut, io devo tornare indietro – disse a un certo punto Rick.
Kalut lo fissò.
– Se vuoi posso lasciarti il mio asciugamano – aggiunse alzandosi con atteggiamenti fuggitivi.
– Rick... – si allarmò Kalut alzandosi anch’esso.
– Che c’è? – chiese il ragazzino.
Kalut scosse la testa.
– Non... – Rick cercò una scusa. – ...non vuoi che vada? – chiese.
Kalut si mise alla ricerca di una risposta, fece largo nella sua mente e provò a capire quale fosse la parole che cercava. Faceva qua e là con gli occhi sotto lo sguardo attonito di Rick che attendeva una reazione. La trovò.
– Resta – pronunciò il ragazzo.
Tra i due si creò il silenzio. Rick l’aveva sentito pronunciare solo i loro nomi e il nome del suo Pokémon, ed era rimasto con lui tutta la mattinata. E poi quella parola.
– Devo essere a casa per pranzo, Kalut... – Il ragazzo guardò a terra.
Il ragazzino tacque per qualche secondo.
– Se vuoi puoi venire con me – fece entusiasta Rick.
Un velo di speranza tornò sul volto di Kalut che sorrise e annuì gioioso.
 
I due si incamminarono, il bosco era fresco e caldo allo stesso tempo. Il sole picchiava, ma una piacevole brezza soffiava tra gli alberi facendo danzare le chiome fitte e verdeggianti degli stessi e carezzando delicatamente i corpi accaldati dei due. Venipede camminava strettamente vicino a Kalut, mentre Staravia volava in corrispondenza del suo Allenatore ma a più di nove metri da terra. Il Bosco Lira era un posto affascinante, e Kalut trovava ogni cinque metri il motivo per fermarsi. Da un Joltik sceso sulla corteccia di un albero a una Baccapesca caduta a terra, fino ad un’impronta di Bouffalant in mezzo al sentiero, cosa che per altro sortiva un totalmente differente effetto su Rick, allarmandolo.
Il ragazzo dai capelli bianchi si stupiva di qualsiasi cosa, tutto era nuovo per lui e differente da ciò che aveva visto durante il poco tempo che aveva passato nella selva. Rick assecondava le sue “scoperte” per i primi dieci secondi, dopo di questi lo esortava a continuare la camminata.
 
I due giunsero a Delfisia che il sole era alto allo zenith.
– Andiamo, Kalut, casa mia è da questa parte! – esclamò Richard.
Il ragazzo dai capelli bianchi si era fermato. Erano giunti da un momento all’altro, seguendo quello strano sentiero nero, ruvido e pungente, in un ambiente totalmente diverso. Dalla terra non sorgevano più alberi, o meglio, le piante stesse erano davvero rare. Invece numerose “case”, come le chiamava Rick, tempestavano il terreno quasi creando barricate tra i sentieri percorribili e il mondo esterno. Kalut si chiedeva come mai tutto fosse così diverso da come lo avesse visto fino a poco tempo prima.
Ancora non si sentiva a suo agio.
Le strade erano vuote, era mezzogiorno, nessuno usciva a quell’ora, e anche i due ragazzi avvertivano sulla loro  pelle l’elemento che aveva spinto tutti a rientrare a casa: il caldo. Kalut stava sudando. E ciò lo inquietava.
Ad un certo punto, dopo alcuni minuti di cammino incerto dietro al passo rapido di Rick, il ragazzo dai capelli bianchi iniziò a sentire un rumore che mai era giunto alle sue orecchie prima di quel momento. Improvvisamente, un’automobile sfrecciò sull’asfalto a gran velocità generando un rombo rapido, greve e fastidioso.
Kalut ne fu terrorizzato, balzò indietro dallo spavento e cadde addosso dirimpetto ad una parete a lato della strada.
– Kalut! – esclamò Rick accorgendosi della sua reazione e tornando indietro per soccorrerlo.
Il ragazzo dai capelli bianchi aveva il cuore che batteva tremendamente rapido nel petto e il respiro corto. Digrignò i denti per un attimo, ripercorse ciò che aveva visto. Uno spaventoso essere di metallo gli era appena passato a pochi metri a gran velocità. Il suo istinto di sopravvivenza si era immediatamente messo in allarme.
Quando si fu calmato, anche con l’arrivo di Rick che cominciò a parlargli per rassicurarlo, Kalut si guardò attorno. Era seduto sul lastricato e con la schiena sulla parete di uno strano edificio dal tetto rosso.
Era un Centro Pokémon, ma non poteva saperlo.
– Kalut, stai bene? – chiese Rick ad un certo punto.
Kalut non gli rispose. I suoi occhi avevano incontrato la porta di vetro del Centro. Proprio accanto a lui. L’immagine ivi riflessa lo aveva ipnotizzato.
C’era un altro. Kalut spostò la testa e l’altro fece lo stesso. Kalut si alzò e l’altro fece lo stesso. Kalut si mosse e l’altro fece lo stesso.
Capì che l’immagine che aveva davanti altro non era che il suo riflesso. Si vide per la prima volta. In principio la sensazione che provò fu di stupore, ma poi un’emozione positiva si intromise in lui. Era felice di se stesso, felice di vedersi.
Mosse un braccio, una gamba, inclinò il collo. Si divertiva guardando l’immagine sul vetro imitarlo. Era affascinato da quello strano fenomeno. Ma poi... vide altro. Accanto a lui, o meglio poco dietro di lui, Rick lo guardava attonito. Tuttavia ad interessargli non era la sua espressione... quanto il suo aspetto.
Grazie all’immagine proiettata sulla lucida porta del Centro Pokémon, poté mettere a paragone la sua immagine con quella del ragazzino.
Erano uguali, speculari, stessa forma del corpo, stesso numero di braccia, di gambe, stessa forma della testa. Rick era un essere appartenente alla sua stessa specie.
Lui aveva incontrato un suo simile.
Kalut era felice, aveva realizzato di essere una creatura simile a Rick e ciò lo faceva sentire più a suo agio in compagnia del ragazzino. Ma qualcosa si intromise nel suo momento di serenità.
Il vetro scorse, la porta si aprì. Dal centro Pokémon uscì un signore sulla quarantina vestito di nero, alto che si trovò davanti il ragazzo dai capelli bianchi avvolto nel suo asciugamano giallo.
Kalut rimase immobile, paralizzato, un terzo esemplare della sua specie si era presentato a lui come niente fosse. Il signore, interdetto, si fermò. Insicuro sul da farsi salutò educatamente e passò avanti eludendo Kalut e Rick.
Il ragazzo non si mosse e non proferì parola. Rimase col suo sguardo da ebete con la bocca socchiusa e gli occhi stupiti a fissare il vuoto.
– Kalut, c’è qualcosa che non va? – chiese Rick che era ancora alle sue spalle.
Kalut si voltò lentamente. Fissò Rick, sorrise. Lo vide meglio, vide il suo simile, un suo simile molto più piccolo, più debole di lui, più fragile.
Qualcosa si mosse nel suo cervello per poi essere trasformato in un impulso elettrico che presto si diffuse in tutto il corpo. Doveva occuparsi di quel ragazzino, era un essere uguale a lui, ma lui sentiva il dovere di prendersene cura.
Kalut tese la mano.
Rick, ormai abituato ai comportamenti insoliti del suo nuovo amico, la strinse.
I due ripresero il cammino.
 
– Dovrebbe essere qui a momenti, gli ho detto che doveva tornare a casa per l’ora di pranzo – affermò Mary, la madre di Rick, impegnata a badare ai fornelli.
Il marito annuì, immerso nella lettura del quotidiano sulla poltrona del salotto.
Qualcuno suonò il campanello.
Mary si avviò verso la porta, la aprì sorrise al figlio e poi le saltò all’occhio anche la figura più grande che era dietro di lui. Per un momento, un brivido le corse lungo la schiena.
– Ricky, chi è il tuo amico? – chiese poco sicura della sua domanda.
Intuendo la presenza di un altro individuo, anche Donald, padre di Rick, si alzò in piedi e abbandonò il giornale per appropinquarsi all’uscio.
– Mamma, lui è Kalut, l’ho conosciuto nel Bosco Lira – rispose sorridente il ragazzino.
Il ragazzo appena presentato alla donna aveva un espressione stupita ma sorridente in volto.
– Oh... – mormorò la donna, facendosi leggermente indietro. – ...e che cosa ci fa avvolto con il tuo asciugamano? – Di tutte le domande che voleva porgli, aveva scelto la più banale.
– Eh, non aveva vestiti, ho pensato di dagli quello – rispose il figlio.
Mary fece una smorfia incredula di chi si preoccupa di non aver sentito bene le parole altrui. – Puoi venire un attimo, Richard? – domandò.
Nel frattempo anche il marito era giunto sulla scena e con fare da pater familias lasciò passare il figlio e si diresse verso l’intruso che automaticamente si accingeva a seguire il suo unico amico lì presente, bloccandolo sulla porta e iniziando a scrutarlo come un agente di un equipe di perquisizione.
– Com’è che ti chiami? – chiese a braccia conserte e con fare serio.
Nel frattempo, giunta in cucina, Mary rivolse l’interrogatorio materno al figlio.
– Scusami, Richard, ma che cosa ci fa qui quel ragazzo?
– Mamma, te l’ho detto, ho incontrato Kalut nel bosco, era solo e senza vestiti. Voleva compagnia e ho pensato di portarlo a pranzo con noi...
– Ma hai la minima idea di chi possa essere?
– No, lui mi ha detto solo il suo nome, è una delle poche cose che riesce a pronunciare.
La donna rimase interdetta.
– Una delle poche cose che riesce a pronunciare? – chiese per assicurarsi di ciò che aveva sentito.
– Sì, parla poco per essere più grande di me...
Mary scosse la testa volgendo la testa verso la porta e intravedendo il marito intento a perquisire l’intruso sullo zerbino. Lo raggiunse intimando al figlio di restare in cucina.
– Che ti ha detto? – domandò all’uomo comparendo alle sue spalle.
L’uomo sbuffò togliendo le mani da Kalut. – Ben poco, non è particolarmente comunicativo, ma sicuramente è disarmato.
I due si guardarono.
– Secondo me è un tossico – affermò il genitore. – Questi ragazzi non sanno proprio come passare il tempo... – commentò scuotendo la testa.
– Che dovremmo fare? – chiese Mary.
Donald scrollò le spalle. – Non so... non possiamo mica lasciarlo nudo per strada...
La donna si fermò a riflettere. Il suo occhi cadde oltre la figura del ragazzo, sullo Staravia del figlio accovacciato a terra vicino ad un Venipede.
– Quello è tuo? – chiese al ragazzo dai capelli bianchi leggermente infastidita dalla presenza del Pokémon Centipede nel suo giardino.
Kalut si voltò e, con volto leggermente insicuro, annuì alla domanda della donna. Il ragazzo si sentiva in dovere di stare calmo, troppe presenze attorno a lui lo stavano schiacciando.
– Lo portiamo dentro? – domandò infine Mary riferendosi al ragazzo.
– Non penso che potremmo fare altrimenti... – rispose il marito.
Kalut, guidato all’interno dell’abitazione da Rick sotto la stretta vigilanza dei genitori, si trovò in una terra completamente nuova. I colori, le forme, le cose che vedeva attorno a sé erano così particolari, così nuovi per lui. Persino i due adulti si stupirono vedendo un ragazzo come lui rimanere incantato da tanti elementi che erano parte della loro quotidianità. Iniziarono a dubitare della loro teoria, mettendo in dubbio il fatto che Kalut fosse un drogato.
Fecero pranzo offrendone, per forza di cose, anche al nuovo arrivato che fu affascinato dal sapore del cibo e ne mangiò con gusto. Kalut continuò l’esplorazione di quello strano universo pure il pomeriggio finché, attorno alle otto, cadde addormentato sul divano del salotto portato in paradiso dalla stanchezza e dalla morbidezza della superficie di quest’ultimo.
 
La centrale di polizia statale era immersa nell’afoso e dolce far nulla della sera del trentuno di agosto. Martin, addetto alla segreteria, era seduto comodo comodo sulla sua sedia leggermente inclinata all’indietro, con i piedi sulla scrivania, il ventilatore puntato in faccia, come tutti lì dentro, e la mano destra intenta a scoppiare caramelline a Candy Crush sul suo cellulare. Dire che Sidera fosse una regione calma era un eufemismo, eppure, in quel periodo sembrava che improvvisamente tutti i criminali si fossero presi una bella vacanza per andare al mare. Due suoi colleghi, seduti su scrivanie limitrofe, si divertivano a lanciarsi aereoplanini di carta fatti con le pagine dell’agenda fornita ad ogni agente dalla banca nazionale, altri due erano presissimi da una partita a dama su una scacchiera portatile. Semplicemente, ognuno ammazzava il tempo come meglio poteva.
Ad un certo punto Martin tolse i piedi da sopra il tavolo, riprese una posizione verticale ed ergonomicamente corretta, ripose il suo cellulare e mosse il mouse per riattivare lo schermo. Cominciò a far scorrere il cursore bianco sul desktop muovendo il dispositivo wireless sul tappetino bianco con la prorompente scritta nera “FACES” in mezzo. Fece appena in tempo a digitare “come diagnosticare il” su Google Chrome che un suono nuovo fece il suo ingresso nell’aere precedentemente così silenziosa e pacifica.
Un paio di sguardi increduli viaggiarono tra i volti dei poliziotti presenti. Lo stesso Martin, dapprima non proprio sicuro delle sue orecchie, cercò in giro visi a cui appellarsi, unì le mani e le scosse leggermente come per dimostrare lieve disappunto per ciò che stava sentendo.
Intanto il telefono fisso trillava insistente sulla sua scrivania e sotto occhi ed orecchie di tutti.
L’uomo finalmente si convinse e, mosso dagli sguardi approssimativi dei colleghi, decise di alzare la cornetta.
 
Dall’altro capo, Donald, con il cellulare attaccato all’orecchio, attendeva battendo nervosamente il piede. Quella era una delle giornate da passare tutto il giorno in mutande in casa ad annoiarsi e a guardare film brutti con la famiglia, a lui invece era toccato uno sconosciuto incapace di esprimersi in casa.
Il genitore avvertì quel suono metallico che si sente quando l’interlocutore risponde alla telefonata.
– Pronto, polizia, mi dica – rispose poi una voce assonnata dall’altro capo.
– Buonasera, ecco... stamattina, mio figlio ha condotto a casa un ragazzo sui sedici, diciassette anni. Dice di averlo incontrato nel bosco, questo ragazzo non sa parlare molto bene e pare quasi... mi scusi agente, so che è molto strano da sentire, ma sembra essere un alieno, è un ragazzo particolare e si è accampato a casa nostra senza dirci nulla di sé... ecco, vorrei... vorrei che deste un’occhiata, giusto per stare sicuri – spiegò frettolosamente ma con le adeguate pause di formulazione Donald.
– Ehm... – balbettò l’agente. – ...va bene, arriviamo immediatamente, indirizzo? – chiese ancora non perfettamente certo di avere a che fare con una persona seria.
 
Cinque minuti più tardi, qualcuno suonò alla porta della casa dei genitori di Rick. Due uomini in divisa fecero il loro ingresso all’interno.
– Buongiorno, grazie di essere venuti subito – li accolse la moglie di Donald. – il ragazzo è sul divano, si è addormentato poco fa... – spiegò guidando i due in salotto.
I poliziotti non si guardarono attorno, misero immediatamente a fuoco il corpo immobile e assopito di Kalut. Quando furono attorno a lui, per prima cosa provarono ad identificare le sue fattezze in quelle di un qualche ricercato, ma la peculiare capigliatura bianca dello sconosciuto li distolse immediatamente da quasi ogni sospetto.
– Non eliminiamo nessuna alternativa, potrebbe essere una tinta... – disse uno dei due allungando meglio gli occhi su tutto il corpo del giovane.
Kalut era in una posizione quasi fetale e aveva indosso dei vestiti prestatigli dal padre di Rick per dignità, una maglietta bianca con un pennuto nero disegnato e un paio di jeans corti, il suo volto era sereno, spogliato di qualsivoglia emozione. Inoltre non aveva particolari segni, tagli, tatuaggi o cicatrici particolari, almeno non visibili e per il momento nessuna delle sue caratteristiche era stata associata ad un soggetto già conosciuto in centrale.

Entrambi decisero di svegliarlo.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 - Crescita ***


Capitolo 8 - Crescita

 

– Ehi, svegliati.

– Kalut.
– Svegliati, Kalut.
– Svegliati...
Kalut spalancò gli occhi. Timore, paura, rabbia, frustrazione, tutto insieme. Emozioni negative e tensioni asfissianti nella sua testa fino a colmarla talmente tanto da far fuoriuscire quelle sensazioni che non sapeva come spiegare dalla sua bocca. Con un grido. Né greve né acuto, né di rabbia né di terrore.
I suoi polmoni si svuotarono, tutti si trassero indietro spaventati dalla reazione improvvisa. Kalut aveva alzato la schiena, si guardava attorno cercando di capire in mano a chi fosse il martello che aveva frantumato la così delicata barriera della sua quiete. Occhi spalancati, rossi, bocca semichiusa, peli rizzati e pelle d’oca in ogni punto del suo corpo, mentre un tremolio lo scuoteva.
– Calmati, Kalut – sussurrò avvicinandosi troppo Mary, la madre del ragazzino.
Kalut balzò indietro come una molla sul bracciolo del divano per la troppa invadenza dell’essere umano, ma la sua schiena toccò qualcos’altro. Si accorse che alle sue spalle stava la statuaria figura del marito della donna, Donald.
Si trasse indietro anche dalla sua presenza. Ancora terrorizzato, ancora precipitoso.
Voltò la testa e un’ulteriore sagoma era comparsa accanto a lui, cercò l’ultima via d’uscita e si rese conto che anche quest’ultima era bloccata da un quarto uomo. La sua pressione sanguigna aumentò spaventosamente, il suo cuore pompava sangue a velocità infraluminale, le ripercussioni fisiologiche del suo stato di terrore furono ancor più accentuate dalla sua condizione totalmente ignara di ciò che stava accadendo.
Per un momento il ragazzo dai capelli bianchi si bloccò, come paralizzato, immobile. Ogni suo muscolo si tese e ogni sua giuntura si fermò nella sua posizione.
– Rick... – sussurrò con la voce tremante di un violoncello nella mani di un suonatore d’orchestra.
I due uomini che il suo cervello non aveva ancora identificato, quelli che lui non sapeva essere due poliziotti giunti lì durante il suo sonno, si appropinquarono a lui bruscamente.
Il suo tronco cerebrale inviò repentino un segnale al midollo, l’impulso elettrico attraversò rapido e indolore la spina dorsale e giunse in un tempo incredibilmente ristretto ad ogni singola diramazione del suo sistema nervoso.
Kalut sembrò scomparire agli occhi dei presenti, come se si fosse teletrasportato improvvisamente, ma era solo sgusciato via da quel cerchio di umani che nel quale era stato inconsapevolmente inscritto.
– Basta! Via! – esclamò stupendo i presenti che più o meno tutti avevano constatato o erano stati informati del fatto che quel ragazzo si esprimesse davvero raramente.
Kalut si guardò attorno, si rese conto che nel suo cranio vi era un perfetto disegno di quella casa. Gli era bastato vederla, esplorarla una volta per memorizzarla. Per questo il suo sguardo si indirizzò senza tanti dubbi verso il punto per il quale era entrato in quel posto.
– Kalut! – esclamò Rick.
– Fermati, ragazzo! – aggiunse deliberatamente uno dei due agenti.
Kalut li guardò appena. Il suo obbiettivo era la porta.
Il giovane corse verso quell’occulto oggetto che scoprendo una via di collegamento, aveva permesso a lui e Rick di avere accesso al dedalo degli umani ore prima. Le sue mani si scontrarono col legno beige, il suo cervello cercò di spolverare meglio i ricordi alla ricerca di un’immagine più concreta che gli permettesse di comprendere come il meccanismo che permetteva di tornare all’aperto funzionasse. Nulla.
Un colpo sullo stipite, poi fermo.
– Kalut, che cosa stai facendo?! – esclamò il ragazzino dietro di lui.
Kalut si girò per un istante. Rick intravide leggermente il suo volto. Digrignava i denti, aveva gli occhi vuoti, ma terrorizzati, tremava vistosamente.
I due agenti si avvicinarono, Kalut si lasciò raggiungere.
– Che cosa ti viene in mente, ragazzo? Cerca di stare un po’ calmo – mormorò il primo.
I due voltarono Kalut in modo che desse le spalle alla porta. Il giovane si trovò bloccato dietro un muro costituito dai due e incastrato contro l’altra parete. I due poliziotti cominciarono a parlare. Diversamente dai momenti in cui lui sentiva le parole delle altre persone e qualcosa giungeva al suo cervello facendogli intendere il significato delle parole pronunciate dagli altri, solo una massa di suoni giunse alle sue orecchie dalle lingue dai due uomini.
“Fermo...”
“Stai...”
“Non...”
“Devi...”
“Muoverti...”
“In...”
“Portiamo...”
“Centrale...”
Sentiva tante parole, tante parole per così poco spazio. Il verso della sua specie, che ancora egli non era stato ancora capace di emettere, compresso nel minimo spazio in cui egli era costretto, mandava la sua testa in sovraccarico.
Qualcosa si strappò da lui, come un pezzo di corteccia va a separarsi dal resto dell’albero, egli perse qualcosa.
– Fermi! Basta! Silenzio! – gridò a pieni polmoni il ragazzo.
I due agenti non si tolsero da lui, anche se per un minimo istante furono intimoriti dalla sua reazione improvvisa e brutale.
Kalut si accorse di questo, un meccanismo funzionò alla perfezione dentro di lui, un’intuizione giunse nella sua testa.
Il ragazzo alzò le braccia e spinse i due agenti. Questi indietreggiarono di qualche passo, il loro fiume di parole si interruppe. Kalut ebbe modo di voltarsi e tornare a guardare la porta. Vide il rettangolo colorato in legno, vide se stesso alcune ore prima, nel momento in cui stava entrando in casa. Vide se stesso entrare in casa dando le spalle alla porta e dietro di lui Donald, l’uomo che l’aveva bloccato sull’uscio e che poi lo aveva lasciato passare tenere in mano quella strana escrescenza curva che sorgeva più o meno verso la metà della porta. Vide se stesso assopito sul divano, ad occhi chiusi e poco lontano la donna che sembrava chiamarsi Mary prendere quell’escrescenza, e ruotarla, per poi aprire la porta.
Non sapeva di ricordare tutto ciò, non sapeva come poteva essere possibile. Ma non si fece domande.
La sua mano corse verso quel’elemento eccessivo della porta, lo afferrò, lo strinse. La maniglia, finalmente ne riesumò il nome da qualche recondito canto della sua memoria, ruotò sotto la pressione della sua mano. La porta gli seguì il suo movimento compiendo un arco lentamente.
A Kalut si aprì il varco. Lo spazio per passare, per uscire fuori. Il ragazzo corse, corse eludendo ogni possibile ostacolo. Ma fuori era buio.
Kalut si trovò totalmente immerso nelle tenebre, ma non si fermò. Ricordava più o meno anche in quel caso la strada da prendere, ma si rese conto che se avesse iniziato a correre alla cieca i due uomini molto probabilmente lo avrebbero raggiunto.
Gli agenti uscirono fuori per seguire il ragazzo. Kalut se li trovò presto alle spalle.
– Fermati!
Kalut ignorò le loro voci, continuando la sua corsa e giungendo dall’altra parte della strada.
– Kalut! – esclamò ad un certo punto una persona conosciuta.
– Rick fermati! – sentì pure il ragazzo dai capelli bianchi.
Rick era sfuggito dai suoi ed era corso fuori casa, cercando anche lui di raggiungere il suo amico. Kalut sentendo la sua voce si immobilizzò e guardò indietro.
Ricordava l’essere che lo aveva letteralmente terrorizzato quando era giunto per la prima volta in città. Ricordava il suo ruggito. Un brivido percorse la sua spina dorsale quando avvertì di nuovo quel suono assordante.
Due luci intensissime falciavano il buio notturno e si muovevano sempre incredibilmente rapide lungo la strada che lui aveva appena oltrepassato. Dall’altra parte, intento a correre sul marciapiede, Rick.
– Rick, fermo! – esclamò Kalut perdendo otto battiti.
Un suono acre e fastidioso, le due luci che correvano sulla strada si immobilizzarono. Con un po’ di fatica il suono si chetò e il ruggito dell’essere meccanico scomparve. I fasci luminosi no, però.
E questi erano sufficienti per illuminare una scena, una scena che Kalut scolpì all’interno della sua memoria perché non se ne andasse mai. Non sapeva quale emozione stesse provando eppure era qualcosa di forte.
Uno dei due agenti, dai riflessi pronti, aveva bloccato Rick passandogli un braccio attorno al torace, impedendogli di toccare l’asfalto e salvandolo dall’auto in corsa che, nonostante la frenata brusca, avrebbe comunque colpito il ragazzino.
Kalut trasse un sospiro. Rick aveva il fiatone, i due agenti erano immobili, uno dei due stringeva ancora il bambino. I genitori di Rick, ancora lontani, erano rimasti pietrificati.
Tutto era avvolto in una densa gelatina trasparente. Nessun movimento, nessuna scossa.
Ma poi, un altro umano uscì dalla creatura metallica che emetteva luce.
Kalut riprese un normale ritmo cardiaco, compresa la situazione, insieme a Venipede che si accorse di avere accanto, voltò le spalle agli altri e scomparve nel buio.
 
Celia era davanti al bancone del Centro Pokémon. L’infermiera era scomparsa, sparita dietro il corridoio che portava alle camere dei pazienti. Erano circa le nove e mezza della mattina del primo settembre e la ragazza, appena sveglia, aveva per prima cosa chiesto di ritirare Gible.
Passarono alcuni minuti, poi la ragazza ricomparve con una Cura Ball in mano. La bionda prese la sfera e ringraziò educatamente.
– Ricordi, niente sforzi eccessivi per un po’ – ribadì l’infermiera tornando dietro al bancone.
Ma Celia stava pensando a tutt’altro. Precisamente al soprannome per il suo nuovo compagno. E l’illuminazione giunse. In quel preciso istante, come segnale indicante l’inizio della giornata, il motivetto tipico dei Centri Pokémon di tutto il mondo risuonò, come di consuetudine, all’interno dell’edificio.
Celia aprì gli occhi.
Lanciò la sfera facendo uscire il Gible e lo prese in braccio, il Pokémon intanto faticava a comprendere ciò che gli accadeva attorno.
– Il tuo nome è Jingle! – esclamò la bionda tenendolo tra le braccia. – O anche Jin, mi hanno detto che diventerai molto forte!
 
Xavier era sveglio da poco, immobile sul letto intento a stiracchiarsi con le braccia e le gambe tese. Il sedicenne balzò in piedi. A torso nudo, passò davanti uno specchio, fermandosi un momento a guardarsi. Il suo fisico longilineo ma scolpito stava decisamente meglio dopo la lunga camminata del giorno prima e una notte di sonno profondo. Si sentiva sciolto, si sentiva in forma. Xavier aveva voglia di muoversi, di camminare, di attraversare Sidera. La regione era calda, ma per fortuna si era già quasi svuotata dei turisti confluiti in essa per assistere al Pianto delle Stelle, troppa popolazione unita alla temperatura torrida estiva diventava micidiale, le famiglie non avevano retto e molti avevano deciso di interrompere le vacanze causa “troppa gente”. Il ragazzo giudicava il tutto positivo. Conclusa la contemplazione di se stesso, Xavier raggiunse il bagno, fece una doccia, espletò le sue funzioni primarie, si diede una rinfrescata.
Uscì dalla cuccetta fresco e pulito come un giglio. Ma con i capelli ancora bagnati, l’asciugacapelli gli avrebbe fatto sudare l’anima, con i trenta gradi fissi estivi, i capelli bagnati erano una benedizione.
Uscì dal Centro Pokémon, nel salone principale davanti all’entrata incrociò un paio di Allenatori ma nessuna faccia conosciuta. Quando fu fuori capì perché così tante persone si trovavano nel centro nonostante fosse un orario abbastanza contenuto, per una mattinata estiva. L’aria torrida e soffocante avrebbe ucciso un Camerupt adulto, il sole quel giorno sembrava davvero incazzato col mondo, Xavier credeva di sentire i suoi occhi sfrigolare.
Mosse due passi verso la zona d’ombra, cercò il punto più fresco. La sua meta era il laboratorio di Willow, a dire il vero lo rincuorò la certezza e la speranza in un condizionatore a disposizione del prof, ma prima di arrivarci doveva incontrarsi con sua sorella. Tutto gli tornò in mente, non la sentiva dal giorno precedente, Celia non rispondeva alle sue chiamate e secondo l’ultima ricerca, quella condotta la sera prima, lei si trovava ancora a Costa Mirach, a qualche chilometro da lì, e probabilmente vi aveva passato la notte. Una noia depressa prese a gravare sulla sua nuca. Xavier non aveva voglia di aspettare, ma purtroppo era costretto.
Il ragazzo stava mettendo in conto tutte le alternative possibili per passare quelle ore prima dell’arrivo della sorella e fino a quel momento l’alternativa migliore era “rimani in catalessi su un divanetto del Centro Pokémon e goditi il fresco”.
Quando, come un fulmine a ciel sereno, il suo PokéNet squillò.
 
Kalut aveva corso per tutta la notte, non aveva idea di dove si trovasse. Sapeva solo che attorno a lui c’erano alberi e davanti a lui una strada. Asfalto, ancora, nero e ruvido.
Al ragazzo venne in mente che le strade, portavano alle città, città come quella di Rick. Inizialmente non era completamente propenso a prendere quella via. Mise un piede sulla strada. Era scalzo, a casa di Rick gli erano stati dati in prestito dei pantaloncini e una t-shirt, ma non calzini o scarpe.
Kalut rifletté per qualche istante, con calma, col fiatone, affaticato. Venipede era accanto a lui.
Non sapeva se seguirla o no. Poi si accorse di non star ragionando come prima. Aveva capito, aveva in qualche modo compreso come interagire con certe cose e con certe persone. Mise il primo piede sulla strada, il secondo lo seguì.

Era il momento di crescere.

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 - Gioco ***


Capitolo 9 - Gioco

 

– Capisci perché sono dovuta rimanere qui?
– Mh, comprendo, ma quanto ci metti ad arrivare più o meno?
Celia parlava con Xavier tramite il PokéNet. La bionda era appena uscita dal Centro Pokémon di Costa Mirach e anche lei era rimasta impressionata dall’estremo calore della giornata. Xavier invece faceva su e giù lungo la fascia d’ombra generata da un palazzo nella via principale di Idresia.
- Non so, penso che per oggi pomeriggio riesco ad essere lì...
– Cazzo! Non puoi volare su Karma? – chiese Xavier.
– Come sai che ho preso Karma? – domandò lei sbigottita.
– Ah, è grazie ad una funzione del PokéNet, praticamente tutti gli Allenatori che possiedono il dispositivo, che per ora siamo io, te e Willow, sono schedati. È molto comodo. – spiegò lui.
– Wow, il futuro! – Celia rise. – Comunque no, se volassi su Karma, tempo un’ora e bollirei, ti ricordo che le sue ali sono fatte d’acciaio e l’acciaio diventa rovente... sai, sedermici  sopra... non è proprio il mio sogno. – rispose alla precedente domanda la bionda.
Xavier annuì,l ma lei non poté vederlo. – Capisco... - mormorò. – E allora come facciamo?
– Eh, che ne so, io mi metto in viaggio e tu mi aspetti... – disse semplicemente Celia.
– Che rottura... va bene, ma intanto vado da Willow, che ne dici? – propose lui.
– Uff... ok, ma anche io vorrei parlarci.
– Eh, ci parli, ci parli – concluse Xavier. – Vabbè, a dopo, sbrigati.
– Ciao...
Celia era leggermente infastidita dal comportamento del fratello, però un po’ si rendeva conto che il ragazzo aveva ragione, non poteva mica aspettarla per una mattinata intera rinchiuso in un Centro Pokémon.
Decise di mettersi in viaggio. Tirò fuori Karma. Il Pokémon si strusciò subito all’Allenatrice poiché non la vedeva da parecchio tempo, lei ricambiò i convenevoli.
– Senti, Karma, facciamo una cosa, passiamo per il primo tratto di viaggio in mezzo alla foresta, tanto il sole non è altissimo, così stiamo al fresco. Quando sento che inizi a riscaldarti continuò a piedi. Che ne dici? – chiese lei.
Karma emise il suo verso acuto come per acconsentire felice.
I due partirono, appena uscita dalla cittadina, Celia saltò in groppa al suo Pokémon. L’Armuccello cominciò a fendere l’aria volando a poco più di un metro da terra, in mezzo agli alberi, sotto l’ombra delle fronde evitando con perizia e abilità ogni ramo o possibile ostacolo che si presentasse sul percorso.
 
– L’indirizzo dovrebbe essere questo – disse tra sé e sé Xavier guardando il display del Pokénet.
Il ragazzo si voltò, era giunto davanti ad una palazzina di cinque piani, grigia e triste, in cemento armato. Ma non doveva stupirsi, era nella periferia di Idresia, città interna della regione, non dalla fama particolarmente positiva riguardo alle sue attrazioni o alla sua bellezza.
Xavier raggiunse il citofono. Tra i vari nomi che comparivano di fianco ai tasti, “Professor Jason Willow” scritto sulla plastica col pennarello indelebile saltava subito all’occhio. Il ragazzo suonò.
– Chi è? – domandò una voce metallica.
– Sono Xavier Levine, uno dei...
– Xavier! - esclamò il prof dall’altra parte. - Sali, sali! Mi fa piacere che tu sia qui!
Con uno stridere acre e fastidioso la porta si aprì. Il castano la oltrepassò e cominciò a salire i gradini delle rampe di scale. Quando, giunto al quarto piano, notò che uno dei portoni era socchiuso e lesse sul campanello nuovamente il nome di Willow, bussò per educazione prima di entrare nell’appartamento.
Davanti a lui comparve il mondo. Tutto, tutto l’intero locale era pieno di macchinari immersi nel caos, computer, ciabatte e fili sparsi a terra. Una volta era stato nella casa di Bill, lo sviluppatore del sistema PC dei centri Pokémon di Kanto e Johto. Beh, quella era la camera di Light Yagami se messa a confronto con l’appartamento di Jason Willow.
Da dietro una scrivania che era diventata un muro per quanta strumentazione aveva sopra comparve un uomo che riconobbe essere lo stesso nell’ologramma di introduzione al PokéNet, quindi, presumibilmente, il professore.
– Xavier, ragazzo, finalmente ti incontro di persona! – esclamò questo.
I due si strinsero la mano. Xavier aveva una strana espressione in volto, si era trovato davanti questo strano soggetto di corporatura minuta con una camicia marrone sbiadita e un paio di jeans troppo larghi, con gli occhiali che sembravano dover cadere giù dal suo naso da un momento all’altro.
– Allora dimmi, come va il viaggio? – chiese Willow prendendo delle scartoffie dalla scrivania.
– Molto bene, devo dire che il PokéNet mi facilità molto le cose, ma in realtà avevo io un paio di domande da rivolgerle, ha un po’ di tempo? – fece Xavier.
– Oh, beh, presumo di sì, vieni allora, andiamo nell’altro appartamento – lo esortò il professore.
I due tornarono sul pianerottolo, luogo più fresco della casa. Xavier comprese che il tipo aveva due locali e uno di questi era quell’inferno di macchine adibito solo ed unicamente ad ufficio/fabbrica. Willow infilò una chiave nella serratura della porta vicina alla sua, in ogni piano vi erano due appartamenti in quella palazzina, e girò facendo risuonare il rumore metallico dello scatto dell’otturatore. Aprì la porta.
Il primo appartamento dell’uomo non c’entrava nulla con il secondo. I due fecero il loro ingresso in quella che dall’interno poteva benissimo essere scambiata per una casa totalmente disabitata. Sembrava vuota, priva di mobili o comunque di elementi che facessero intendere che un qualche essere umano vivesse al suo interno, anonima e spoglia. Tutto ciò fece intendere al ragazzo che forse il luogo in cui l’uomo passava la maggior parte del suo tempo era il laboratorio improvvisato in cui l’aveva trovato, persino il campanello col suo nome corrispondeva a quell’appartamento.
– Xavier, vuoi bere qualcosa? – chiese il professore avvicinandosi a quella che sembrava la cucina.
– Uhm, sì grazie – rispose il castano molto accaldato.
– Succo di frutta, acqua o gassosa? – domandò Willow.
- Vada per il succo.
Il professore si appoggiò al tavolo, facendo cenno anche a Xavier di sedersi, con in mano due bicchieri e un cartone di succo ACE in mano. Il giovane si accomodò sulla sedia di plastica bianca e prese il primo bicchiere riempito dall’uomo che gli sedeva di fronte e lo gettò in gola tutto d’un sorso non con poca difficoltà. Odiava il gusto ACE, ma dopo esser stato servito, peraltro per una sua imperizia, gli sembrava brutto stare a premere su questo particolare.
– Allora, ragazzo, dove va a parare la tua curiosità? – chiese Willow dopo aver bevuto anche lui.
Xavier unì le mani sopra la tavola e cercò una posizione più comoda per il didietro, apparentemente inesistente su quelle sedie infernali. – Beh, prima di tutto mi piacerebbe sapere qual è il preciso scopo di questa... ricerca in cui siamo stati coinvolti io e Celia. – gettò fuori lui.
– Ah, mi fa piacere notare il tuo interesse, beh, ecco, devi sapere che lavoro per una federazione chiamata FACES, l’ente che gestisce la sicurezza e la salvaguardia dello stato. Mi è stato chiesto di brevettare uno strumento che agisse da guida per gli Allenatori, per questo ho chiesto a voi di sperimentare, il PokéNet, raccogliendo dati tramite il Glowe, riesce ad imparare cosa fa l’Allenatore tipo viaggiando per una regione, questo lo aiuta a sviluppare un’intelligenza di base che possa essere sempre pronta ad aiutare chi lo indossa – spiegò l’uomo.
– Capisco, e perché ha scelto proprio noi, me e Celia? – aggiunse Xavier.
– Beh, perché voi siete perfetti, non avete né troppa esperienza nel campo dell’Allenamento né siete dei novellini, avete già viaggiato in altre regioni, ma non conoscete ancora Sidera, siete divisi ma vi tenete in contatto... voglio che questo dispositivo calzi a pennello per ognuno e perché lo faccia deve imparare prima le basi, come comportarsi con un Allenatore medio. – proseguì il professore.
Xavier poggiò l’occhio per un istante sul dispositivo che aveva al polso.
– È interessante tutto questo, pensa che i PokéNet saranno presto diffusi in tutto il mondo? - domandò poi.
– Mh... – Willow vacillò un istante. – ...sicuramente saranno presenti a Sidera molto presto, ma prima ricordate che dovete completare il vostro viaggio tu e Celia! – ripeté con un’aria lievemente insicura l’uomo.
Xavier poggiò la schiena alla sedia e rilassò i muscoli. Aveva davanti un uomo che non sapeva come interpretare, in alcuni frangenti dava un’idea di sé molto paterna, mentre in altri momenti sembrava avere sott’occhio solo il completamento dei compiti assegnati. Ma il ragazzo non si fece troppe domande, poteva sentirsi soddisfatto, aveva ottenuto le informazioni che cercava, si era confrontato di persona con lo studioso dal quale era stato reclutato e con il quale non aveva mai scambiato neanche una parola. Eppure qualcosa non gli era particolarmente chiaro.
– Come ha fatto a sceglierci? – chiese di nuovo il castano con aria da duro.
Willow nascose una smorfia di dubbio dietro le sue lenti bifocali. – Che cosa intendi, ragazzo? – la sua voce era più cupa. – Ti ho spiegato il motivo della mia sc...
– Ci ha osservati? Siamo stati spiati in qualche modo? – domandò Xavier senza un briciolo della leggerezza che aveva contraddistinto le sue precedenti domande. – Come faceva a sapere che “eravamo perfetti”? Che calzavamo a pennello per un compito simile? Come si è informato su di noi? – Lo sguardo serio e tetro del ragazzo lasciava intuire che in cuor suo un mucchio di dubbi circa il progetto in cui era stato coinvolto erano sorti fin dai primi giorni.
Willow prese due boccate d’aria profonde. La domanda non lo aveva spiazzato, era stato infastidito dal fatto che un così evidente errore di calcolo avesse generato in Xavier una questione inaspettata.
 – Ci sono degli scrutatori – proferì d’un fiato. – Dipendenti della FACES che si aggirano nelle città per tenere d’occhio... alcune situazioni... – generalizzò.
– Che tipo di situazioni? – proseguì con l’interrogatorio da “bad cop” Xavier.
– Beh, devi sapere che, dopo un po’ di tempo, gli Allenatori che si sono distinti per bravura o altro vengono schedati e studiati dall’organizzazione – chiarì l’uomo. – E tu hai conquistato ben ventiquattro medaglie, Xavier – precisò.
Il ragazzo lo fissò scuro in volto per qualche interminabile secondo. Poi i suoi lineamenti si alleggerirono.
– Ok! – sorrise, togliendo dallo stomaco di Willow quel groppo fastidioso. – Ho capito.
Il professore distese i muscoli. – Ma dimmi, ragazzo, come mai non è venuta anche tua sorella a farmi visita? – domandò per sviare il discorso.
– Lei è dovuta rimanere a Costa Mirach per un contrattempo con un Pokémon, sarà qui per le... – diede uno sguardo al PokéNet. – ...ma sì, le tre o le quattro, penso.
– Ah, e allora che ne dite, vi va di fermarvi a dormire qui? Ho giusto due letti liberi – propose l’uomo con gli occhiali.
Xavier annuì scrollando le spalle. – Per me è ok...
 
Celia era in viaggio. Aveva percorso gran parte dell’itinerario volando su Skarmory, ma ad un certo punto muoversi su di lui era divenuto insopportabile. La ragazza si trovava più o meno a metà strada tra Costa Mirach e Idresia ed erano appena scoccate le undici, il clima si faceva sempre più torrido e l’aria meno respirabile, ma la ragazza non intendeva fermarsi.
 
Kalut si muoveva lentamente sull’asfalto. Sentiva di non avere la stessa padronanza di sé di quando si trovava sull’erba, faceva più attenzione ai suoi passi, guardava a terra e non davanti o sopra di sé. Si stava lentamente rendendo conto di quelle piccole cose che distinguevano il suo muoversi sul tappeto d’erba e sulla ruvida tavola urbana. Il ragazzo contava i passi che muoveva sull’asfalto, uno ad uno, lo aveva fatto la prima volta, quando era stato portato in città da Rick e lo stava facendo anche in quel momento.
Giunse davanti ad un cartello e lì i suoi passi si interruppero. Lesse la scritta sulla banda di metallo retta da due pali che aveva davanti.
“Borgo Asterion” vi era scritto. Si accorse di saperlo leggere, si rese conto di saper decifrare quegli strani simboli che gli umani come lui utilizzavano per dare un nome alle cose, probabilmente avrebbe saputo persino imitarli. Capiva molte cose, in effetti, senza sapere da dove venisse tutta la sua conoscenza. Ignorò i pensieri troppo complessi, la sua meta era proprio trovarla, una meta, quindi riprese il cammino. Bastarono pochi altri passi perché si ripresentasse a lui la città, quell’ambiente tanto strano e sconosciuto al quale era stato introdotto dal ragazzino. Kalut vide un uomo camminare lungo il lato opposto della strada, il tipo non si curò affatto di lui. Il ragazzo passò avanti, imitando il suo menefreghismo.
Kalut, camminando per un’altra mezz’ora, giunse a quello che sembrava essere il centro cittadino. Aveva compreso la funzione di quegli ambienti stretti e soffocanti, aveva incontrato molti umani muovendosi per quelle che venivano chiamate comunemente “vie”, era come se i suoi simili si riunissero tutti insieme per vivere in agglomerati di case e abitazioni. L’idea lo eccitava non poco, una sorta di tana comune per quelli della sua specie.
Il ragazzo si era ritrovato in una piazza, i suoi piedi stavano ancora abituandosi al pavé ma i suoi occhi ammiravano colmi di una grande emozione le meravigliose costruzioni che aveva attorno. Quegli edifici costruiti in pietra erano così perfetti, così belli al suo sguardo da sembrargli quasi tutt’uno con il terreno. Stava in piedi, fermo al perfetto centro di quel largo spiazzo, col vento che, confluendo all’interno dei vicoli del borgo giungeva fino a lui accarezzandolo e togliendogli di dosso quella torrida membrana umida che il clima gli aveva appiccicato addosso.
Kalut era felice di essere a Borgo Asterion.
Si mosse di lì, voleva vedere ogni singolo posto, ogni angolo di quel labirinto di pietra e mattoni, cominciò a camminare tra le vie guardandosi attorno curioso e affascinato. Girovagò senza meta per un bel po’ fin quando non raggiunse l’illuminazione. Volle osservare il paese dall’alto. Cominciò quindi a guardarsi attorno per cercare un luogo che fosse adatto ad una scalata. A fargli avvistare un punto adatto fu proprio Venipede, presenza amica di cui Kalut si era completamente dimenticato. Il Pokémon Centipede salì su un muro e gli indicò una protuberanza nella parete, continuando a salire, poi, evidenziò al compagno, uno dopo l’altro, più punti ove poggiare mani o piedi per tirarsi su, il coleottero raggiunse il tetto di un palazzo di tre piani mostrando le indicazioni ad un Kalut che era intento a guardarlo ma fregandosene totalmente del percorso. La domanda del ragazzo era un’altra, com’era possibile che Venipede conoscesse la sua idea di salire su di un edificio?
L’insetto agitò le antenne, Kalut smise di porsi dubbi e si avvicinò alla parete che l’amico aveva risalito, il primo appiglio fu il davanzale di una finestra del piano terra, seguì un mattone che fuoriusciva lievemente dalla sua postazione naturale permettendogli di aggrapparsi ad esso senza distruggersi le unghie. In poco tempo, Kalut raggiunse le grondaie. Fu un poco più difficile per lui appendersi alle ringhiere senza scivolare per salire sul tetto, ma non impossibile, il ragazzo fu facilmente sopra.
Davanti a lui si mostrava Borgo Asterion illuminato dal sole di mezzogiorno in tutta la sua bellezza. I tetti delle case, irregolari ma omogenei sorgevano come funghi all’ombra di una quercia superati ogni tanto in altezza da una torre, un campanile, una cupola. Il ragazzo ammirava quello scenario catturato e quasi ipnotizzato. Era senza parole tanto che quando Venipede salì sulla sua spalla lui neanche se ne accorse.
Un lieve acciottolare di stoviglie cominciava ad intrufolarsi nel silenzio generale, era ora di pranzo per gli uomini della città e Kalut lo aveva capito, sentiva anche lui di doversi nutrire, ma a quello avrebbe pensato poi.
La sua mente era persa nella nebbia di altri pensieri quando, improvvisamente, udì uno strano suono alle sue spalle, molto vicino a lui.

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 - Interazione ***


Capitolo 10 - Interazione

 

Xavier era seduto al tavolo di fronte al padrone di casa. Il professor Willow aveva proposto al ragazzo di rimanere a pranzo da lui e, dopo avergli cucinato un’insipida scaloppina, lo aveva servito educatamente. I due mangiavano, entrambi molto affamati, senza distogliere gli occhi dal piatto se non per scrutarsi per brevi istanti con gli occhi pregni di quella sporca fiducia che ognuno aveva nei confronti altrui. Il cozzare del coltello di Xavier contro il piatto di coccio faceva sempre drizzare le antenne al professore portandolo a riguardare il ragazzo nascosto dietro i suoi occhiali soltanto di striscio.
La silenziosa armonia tra i due si ruppe quando la suoneria del PokéNet di Xavier che era stato accuratamente riposto su di una mensola della cucina suonò insistentemente. I due si voltarono verso il dispositivo come spaventati.
– È il mio – commentò il castano pulendosi la bocca con il tovagliolo e alzandosi dal tavolo con fare disinvolto.
Il professore smise pure di mangiare ma senza lasciare la sua posizione, ma aspettandolo educatamente seduto al proprio posto.
– È Celia – fece Xavier leggendo il nome sullo schermo.
Effettivamente la bionda possedeva, escluso Willow, l’unico altro PokéNet in utilizzo.
– Celia – salutò rispondendo e proiettando l’ologramma della ragazza nell’aria.
– Xavier, dove sei? – chiese lei leggermente stranita.
– Io... sono dal professore... – rispose il ragazzo con voce innocente di chi dice un’ovvietà.
– Ma...! – esclamò lei infastidita. – Ma sono qua sotto che suono il campanello da dieci minuti e nessuno mi apre! – sfogò.
– Ah, chiedi scusa da parte mia, Xavier, vado subito ad aprirle! – intervenne Willow che stava seguendo la chiamata dei due da dietro le quinte alzandosi e andando verso il citofono che era accanto alla porta. – Perdonami Celia, quarto piano appartamento di destra. – fece alla cornetta premendo il tasto contrassegnato dalla chiave stilizzata in rilievo sulla plastica bianca accanto.
Xavier riagganciò la chiamata dato che la sorella si era distratta rendendosi conto che il portone le si era aperto solo in quel momento, quindi guardò il professore con sguardo lievemente incantato.
– Eh, lo sai, il campanello col mio nome corrisponde all’altro appartamento – si scusò con Xavier l’uomo senza aver ricevuto accusa alcuna.
Celia raggiunse il pianerottolo. Vedendo per primo il professor Jason Willow si impose di nascondere la sua espressione stravolta dall’attesa, dal viaggio e dalle rampe di scale con un sorriso.
– Devi scusarmi, figliola, ma eravamo nell’altra casa e non pensavamo che arrivassi così presto a dire il vero – L’uomo le strinse la mano.
– Non fa niente, l’importante è che vi ho trovato – sdrammatizzò lei con un po’ di fiatone e rispondendo al saluto.
La bionda entrò nell’appartamento e subito i suoi occhi caddero su Xavier che era tornato a sedere al tavolo.
– Fratello.
– Sorella.
I due si limitarono a lascivi convenevoli verbali. Nonostante facesse strano a entrambi chiamarsi in quel modo, dato che non erano veramente uniti da legami di sangue, continuavano a salutarsi con tali appellativi, poiché faceva ancora più strano ai due chiamarsi per nome. Quindi si davano i nomi di “fratello” e “sorella” amichevolmente, come due storci vicini di banco.
Xavier buttò l’occhio sulla ragazza. Celia era giunta alla metà fradicia di sudore e tutta rossa in faccia, ma era comprensibile, aveva percorso parecchi chilometri.
– Celia, benvenuta alla mia umile dimora, se vuoi accomodarti, posso preparare anche per te... – propose l’uomo.
– No – intervenne precipitosa lei. – Posso invece farmi una doccia? Ne ho davvero bisogno - implorò.
– Oh... certamente, il bagno è la seconda porta a destra nel corridoio – indicò Willow.
Celia scomparve alla vista dei due.
– Fammi cucinare anche per lei, va’ – pronunciò tra sé e sé il professore.
Messa una seconda fettina a sfrigolare sulla padella, l’uomo poté risedersi al suo posto e proseguire il suo pasto.
– Scommetto che lei ha scelto anche Celia come tester del PokéNet solo perché è mia sorella, vero? - domandò ad un certo punto dal nulla il castano.
Willow si bloccò. – Scusami? - chiese.
– Celia – ripeté il ragazzo. – Non l’avete scelta per particolari doti da Allenatore... – Enfatizzò parecchio le ultime quattro parole per evidenziare la citazione. – ...lei non è mai stata un asso con i Pokémon, ma era mia sorella e doveva essere imparziale, o mi sbaglio? – assottigliò il discorso Xavier.
Il professore sbatté gli occhi rapidamente un paio di volte. Posò la forchetta sul piatto rinunciando al boccone che aveva selezionato.
– Hai proprio ragione – confermò con espressione piatta.
– Mh. E comunque ha fatto ben poco e ha già due medaglie, non penso sarà di grande utilità alla ricerca... – proseguì il castano.
– Ah, lascia stare, lo so...
Il silenzio cadde nella cucina, il sottofondo della carne sfrigolante e il tappeto del suono costituito dal rumore dello scorrere dell’acqua utilizzata da Celia la facevano da padrone. Xavier era rimasto immobilizzato e Willow si sarebbe morso la lingua duecento volte se non avesse avuto in bocca quella forchettata di cibo che aveva riesumato ma aveva comunque smesso presto di masticare. Il ragazzo alzò leggermente lo sguardo dal suo piatto tornando con gli occhi al professore.
– Lo sapeva già? Come è possibile? – domandò con una chicca di tono aggressivo e gutturale il giovane.
– Io? Cosa intendi dire?
– Sapeva che mia sorella ha ottenuto due medaglie senza sforzo, la cosa non l’ha stupita minimamente!
– Io... – Jason Willow temporeggiò per l’attimo fatale. – Io posso monitorare il livello di crescita dei vostri Pokémon tramite il Glowe tramite una scansione automatica che raccoglie dati ogniqualvolta voi prendiate in mano una Ball, anche quello fa parte della mia ricerca! – quasi gridò lo studioso.
La tensione non si fece mai sottile come in quel momento. L’aria era pesante, ma gli angoli mentali di Xavier si arrotondarono.
– Mh... – emise il ragazzo.
– Xavier, perché sei così sospettoso e cerchi il pelo nell’uovo per qualsiasi cosa? – domandò l’uomo. – Per caso non ti fidi di me?
Il castano riprese la concentrazione. – Uno sconosciuto ti invia una lettera a casa e degli apparecchi non ancora presenti in commercio senza spiegarti perché ma ti chiede di attraversare una regione. Ho il diritto di essere diffidente e deve scusarmi se do poca fiducia, ma ho viaggiato molto e ho imparato che non sempre tutti hanno buoni propositi in mente. Celia no, lei è più giovane e non ne ha passate tante quanto me.
– Capisco, ragazzo... ma ti dico per certo che di me puoi fidarti, se proprio debbo dirtelo, alla fine del viaggio ci sarà una... chiamiamola... sorpresa, ma non voglio ancora svelarti cosa sarà. Per il resto, lavoro per lo stato, di me puoi fidarti, tutto questo non è né una buffonata né una fregatura – confermò l’uomo.
Xavier ricambiò il suo sguardo e accennò un sorriso. – Va bene, facciamo che io mi fido e lei mi fa vedere gli altri progetti che ha di là, nell’appartamento dei computer – propose.
In quel momento lo scorrere dell’acqua nell’altra stanza si interruppe.
– Ci sto – sorrise l’uomo.
Dopo alcuni minuti Celia raggiunse la cucina e anche a lei fu offerto il pranzo. I tre conclusero il pasto con della frutta, poi il professore cominciò a fare domande generiche ai due a proposito dei luoghi visitati e del loro rapporto con il dispositivo.
 
Un confusionario e fastidioso sbattere d’ali si manifestò tutto ad un tratto alle spalle del giovane dai capelli bianchi. Kalut si voltò rapido allarmato dall’improvviso rumore.
Dietro di lui uno stormo di Pokémon uccello, tra Chatot, Pidgey, Pidove, Fletchling con alcune delle loro forme evolute, si innalzò in cielo maestoso ma caotico al tempo stesso. Qualcosa come trenta o quaranta pennuti svolazzava sopra alla testa del giovane, alcuni in circolo, altri in maniera totalmente casuale, ma tutti si decisero a posarsi, sotto lo sguardo attonito di Kalut che seguiva i loro movimenti con un misto di spavento e curiosità, attorno al ragazzo in cerchio sulle tegole del tetto. Come alunni attorno al loro sensei.
Il loro gracchiare e cinguettare diffuso e fastidioso cominciò a chetarsi. Tutto si zittì, come il Venipede compagno di Kalut che si ritirò appallottolandosi dietro la schiena del ragazzo.
Quindi un Fletchling, da un angolo indefinibile del cerchio di discepoli, emise il suo verso. Poi il silenzio. Seguì un Tranquill, poi un Pidgeotto e infine un Chatot. A quel punto tutto il caos riprese ad esistere e la frenetica conversazione acre e rumorosa che vi era all’inizio tornò come il nocciolo di una discussione attorno al quale si gira continuamente.
Versi di pennuti dalla lingua ingestibile cominciarono a penetrare le orecchie del povero Kalut facendo vibrare i suoi timpani. Il ragazzo si tappò istintivamente le orecchie, ma quel casino non accennava a fermarsi. La sua soglia di sopportazione era già stata raggiunta e senza sapere come e perché si era ritrovato in quella situazione né tantomeno la motivazione per cui era stato accerchiato da quei Pokémon, esplose.
‑ Silenzio! – gridò zittendo ogni becco.
La serenità tornò in lui. Si rese conto che i Pokémon gli davano retta. Voleva ritentare. Fissò intensamente un Pidgey che era davanti a lui. – Che cosa volete dirmi?
Il Pokémon cinguettò, ma Kalut comprese ciò che stava cercando di comunicargli.
Il ragazzo si voltò e punto il dito contro un Pidove vicino. – Tu invece?
Anche Pidove rispose.
– Tu, invece, cosa cerchi di comunicarmi? – chiese ad un Chatot poco dietro di lui.
Aveva lasciato parlare alcuni Pokémon e tutti loro volevano dirgli la stessa cosa:
“Difendili!”
Il ragazzo si mise seduto a gambe incrociate tra i presenti. Stava riflettendo sulle richieste che gli erano state poste.
- Difendili? Chi devo difendere? – domandò rivoltò agli uccelli.
Uno solo, quello su cui aveva posato l’occhio, parlò.
“Difendili!” ripeteva.
– Chi? Chi devo difendere? – ripeté il ragazzo.
“Quelli come te” rispose qualcuno dietro di lui.
Kalut si voltò. Dovette poi alzarsi in piedi, un po’ per il rispetto che quella comparsa gli aveva suscitato, un po’ perché lo Xatu che si era materializzato alle sue spalle superava il metro e mezzo.
– Quelli come me? - chiese Kalut stupito di essersi trovato davanti un così maestoso esemplare di Pokémon Magico e di non averlo visto precedentemente.
“Quelli come te” ripeté Xatu.
In quell’istante, Kalut si rese conto che il Pokémon non stava parlando, sentiva soltanto la voce nella sua mente, lo Xatu non emetteva suoni ma parlava tramite telepatia nel suo cervello. La cosa gli sembrò dapprima leggermente strana, ma si abituò subito.
– Che cosa vuoi dirmi? – chiese di nuovo il ragazzo.
“Lo sai, Kalut, è nel tuo cervello ancora coperto dalla nebbia, ma sai bene da cosa devi difendere quelli come te...” rispose Xatu.
– Quelli come me?
“Gli umani, così vi chiamate tra voi, quelli come te” spiegò Xatu.
– E da che cosa devo proteggerli? – proseguì lui.
“Kalut, sei troppo precipitoso...”
Il ragazzo dai capelli bianchi udì di nuovo il rumore dello sbattere delle ali caotico e impacciato, voltandosi appena notò che tutto lo stormo di Pokémon alle sue spalle era volato via come se niente fosse.
“...ma posso accompagnarti e seguire la tua strada.”
– Ma sei stato tu a venirmi incontro, e ora vuoi lasciarmi così, con qualche boccone di informazioni?
“Kalut” il Pokémon lo fissò dritto nelle pupille. “Tu stai parlando.”
Per quanto semplice, quella frase gli aprì gli occhi. Lui stava parlando. Parlava come un umano con i Pokémon. Quell’azione gli era venuta fuori nella totale normalità, come se avesse sempre parlato, durante tutta la sua vita, come se fosse stata la cosa più semplice e familiare del mondo. Eppure, si era reso conto di non riuscire a formulare una frase se non con enorme difficoltà, prima.
Si ricordava di quei giorni in cui aveva una testa piena di parole che non riusciva a svuotarsi poiché la lingua non l’accompagnava. Kalut si zittì. A forza, si obbligò a tacere, mentre lo Xatu continuava a scrutare i suoi pensieri rovistando nella sua mente come fosse un archivio, uno schedario.
– Xatu, che cosa significa quello che mi stai dicendo? – domandò Kalut dopo l’interminabile attesa.
 
– Dovrei riuscire ad integrare un’applicazione simile nel software del PokéNet, un elenco di tutti gli Allenatori esistenti, anche quelli che per qualche motivo non possiedono uno dei miei dispositivi o, magari, non sono più tra noi – spiegò il professore scrollando un elenco contenente numerosi dati davanti agli occhi ipnotizzati dal monitor di Celia e Xavier.
– E quale sarebbe l’utilità di questa funzione? – domandò il ragazzo.
- Beh, vedi, Xavier, il PokéNet, lo strumento che avete ai polsi è soltanto un portale. Un dispositivo che riesce a connettervi alla Rete... e non sto parlando di internet, ma di qualcosa di molto più sicuro, come una banca dati in continuo aggiornamento alla quale ognuno può accedere quando vuole. Pensa ad un mondo di uomini e Pokémon totalmente connessi tra loro, niente social, niente telefoni, solo la Rete, tu puoi essere ovunque e sapere ogni cosa di ogni luogo, presente e passata... nella maniera più semplice possibile. Creare ordine, salvaguardia, questo è l’obbiettivo della FACES...
– La FACES? – chiese Celia.
– L’organizzazione che si occupa della sicurezza statale, il professore lavora per loro – riassunse distratto Xavier ormai preso dalla conversazione.
– Esattamente – approvò l’uomo. – Dovete sapere che molte volte l’armonia del nostro mondo ha rischiato di essere sconvolta. Avrete sicuramente sentito parlare del Team Rocket, delle catastrofi di Hoenn ad opera dei Magma e degli Idro o del Team Galassia...
I due annuirono.
– Per tale motivazione abbiamo anche questo progetto sotto mano... – Willow aprì un'altra finestra sul monitor. Un altro elenco di persone, la cui icona era ben riconducibile ad una foto segnaletica. – è ancora un lavoro in fase embrionale, ma è un catalogo che permette di visualizzare in tempo reale la lista dei ricercati, stato di cattura, taglia sulla loro testa.
– Taglia? – chiese Xavier impressionato.
– Sì, si prevede che sarà data una ricompensa a coloro che si renderanno utili per le indagini, ovviamente solo se il ricercato sarà catturato – fu la risposta.
– È fantastico... – commentò Celia colpita.
– E in ultimo – introdusse Willow. – Ricordate la Rete? Bene, abbiamo pensato di dividere le persone in base a occupazione, categoria, livello di esperienza – fece l’uomo.
– Ad esempio, tu Xavier sarai classificato come un Allenatore d’elite hai numerose vittorie alle tue spalle, tante sfide in palestra e tante partecipazioni a tornei e simili, in più, avrai un alto grado anche sul fronte esplorazione, hai viaggiato in quante? Tre regioni? – elencò il professore digitando sul monitor il nome del ragazzo e aprendo la sua scheda ancora in lavorazione ma quasi completa.
– Oh cavolo... ma dove raccogliete questi dati? – domandò il castano alle sue spalle.
– Abbiamo accesso alle schede Allenatore delle diverse regioni, quelle che le persone hanno registrato all’inizio e alla fine del viaggio, noi lentamente ricostruiamo la loro timeline – srotolò l’uomo.
– Ah...
– Allora! – Willow spense il monitor e si voltò verso le facce sbigottite dalla complessità del suo lavoro di Xavier e Celia. – Che ne pensate?

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 - Amicizia ***


Capitolo 11 - Amicizia

 

– È un genio
– È un pazzo
I rispettivi pensieri di Celia e Xavier si espressero sottoforma di parole formulate dalle vibrazioni delle loro corde vocali quasi all’unisono. I due si trovavano sulla penultima scalinata intenti ad uscire dalla palazzina in cui abitava il professor Willow. Erano da poco scoccate le quindici, la bionda e il castano erano d’accordo sul da farsi: riprendere il cammino. Salutato il professore e raccolta ognuno la propria roba, i due esseri umani si apprestavano a tornare sulla loro calle.
– Prossima medaglia? – chiese Xavier.
– Caspita, mi son ricordata solo adesso, ecco la seconda medaglia Eclissi! – esclamò Celia riaprendo la sua borsa.
Xavier rimase non poco stupito quando vide la ragazza porgergli una bambola con un occhio solo, sporca di inchiostro e trafitta da una miriade di spilli.
– Che cos’è questa cosa? – chiese Xavier senza il coraggio di prendere in mano il pupazzo di pezza.
– Oh, devi vedere la palestra di Luna, a Costa Mirach, è una tipa tutta strana, tiene le medaglie attaccate come bottoni alle bambole... – spiegò la bionda.
– Ah... in questo senso tutta strana?
– Non solo, lei non ha voluto combattere ed è... boh, strana, urlava e piangeva nascosta nella palestra, diceva qualcosa tipo “attenta alle nubi” o simili, era inquietante...
– Mah, tanto non devo tornarci – Xavier staccò la medaglia Eclissi dal volto della bambola e gettò quest’ultima in un cassonetto. Quindi ripose il suo premio nel cofanetto. – Oh, aspetta, Celia – irruppe tutt’un tratto lui. – Dovevamo fare una lotta, no?
– Ah, hai ragione, dobbiamo combattere! – esclamò la ragazza.
– Ci dovrebbero essere dei campi dietro l’isolato, andiamo là.
– Va bene.
I due erano nel frattempo usciti in strada, di nuovo si trovavano in quel gomitolo di strade intasate da macchine che sfrecciavano a gran velocità fastidioso e soffocante. In poco tempo aggirarono il palazzo e raggiunsero il posto a cui si riferiva Xavier, dei rettangoli di terra battuta miseramente dal marciapiede parallelo all’asfalto da una povera recinzione verde. Entrarono dalla porta mezza scassata e si disposero ai due estremi del Campo Lotta professionali e conoscitori delle regole ufficiali della Federazione.
– Due Pokémon? – domandò Celia.
– Due Pokémon – affermò Xavier.
Entrambi presero le Poké Ball, una per mano.
– Prima le signore... – sussurrò Xavier.
- Se insisti, scendi in campo, Karma!
Il Pokémon Armuccello fece la sua comparsa sul campo di battaglia. La sua immagine così aerodinamica, minacciosa e pronta ad affettare senza troppi problemi ogni avversario eliminò il ricordo più recente che Xavier aveva di quell’essere, ovvero quello del mite volatile che nell’allevamento di Julie faceva le fusa quando qualcuno gli lustrava le piume d’acciaio.
– Va bene, Eelektross, tocca a te – fece il castano lanciando la sfera del Pokémon Elettropesce a sua volta.
– Karma, Alacciaio! – ordinò la ragazza a bruciapelo prima che l’avversario potesse emettere il suo ruggito di battaglia.
– Eelektross, fermalo con Falcecannone – ribatté Xavier senza fianchi scoperti.
– Taglia a metà la sfera, difenditi! – fedelissimo agli ordini della sua Allenatrice, lo Skarmory falciò la bolla di elettricità eludendo l’attacco e con le sue ali di metallo giunse a destinazione assestando un violento colpo nell’addome dell’avversario.
– Non distrarti, Lanciafiamme – Eelektross si riprese e subito lanciò una rovente lingua di fuoco che partì dalla sua bocca per centrare il volatile metallico nell’altra metà dell’arena.
Sganciapesi! – esclamò la ragazza.
Karma si concentrò, cominciarono a comparire alcune tracce di ruggine e ossidazione sul corpo del Pokémon, la patina si diffuse fino a coprire ogni singola piuma per poi staccarsi automaticamente. Davanti al nemico, ora Skarmory sembrava più agile e rapido. Celia sorrideva.
– Non serve dargli accelerazione se non hai colpi da sferrarmi, Eelektross, Dragartigli! – disse Xavier. Gli le unghie dell’anguilla cominciarono ad emettere una fioca luce violacea mentre questa scattava serpeggiante in direzione del nemico.
Turbosabbia, tiriamo su un po’ di caos! – Karma prese a sbattere le ali con la rapidità di un colibrì, in poco tempo un polverone si era formato sul campo come un vero e proprio muro come impedisse a Eelektross di portare a termine il suo attacco.
– Cavolo! – esclamò Xavier preso alla sprovvista. “Ho capito, vuole attaccarmi sfruttando la velocità di Skarmory” pensò il ragazzo. – Non ci riuscirai, Lanciafiamme, Eelektross! – il respiro infernale del Pokémon Elettropesce riscaldò la già torrida atmosfera.
Ma non ci furono riscontri, solo un bagliore che a Xavier parve di intravedere tra le fiamme e la terra, una debole luce violacea alla quale il ragazzo non diede peso.
Comete! – fu l’ordine di Celia.
Dalla cappa di terriccio, scie luminose dalla traiettoria curvata spuntarono dirette senza pietà verso Eelektross, ma il Pokémon si difese sfaldandole con Dragartigli.
Ormai il muro di Turbosabbia non era più un problema, Xavier poteva persino vedere Celia che era all’altra estremità del perimetro.
– Cosa avevi intenzione di fare, Celia? Hai coperto la visuale solo per sferrare Comete che di per sé è già una mossa infallibile? Stai perdendo colpi, ragazza... – commentò Xavier. Celia sorrideva.
Alacciaio, non dargli tregua!
Dragartigli, dai che sei più forte!
– Evita!
Stranamente, secondo l’ordine dell’Allenatrice, lo Skarmory che si stava dirigendo a tutta velocità contro l’avversario che pure si apprestava a rispondere in un corpo a corpo, cambiò rotta evitando per un soffio le grinfie dell’Elettropesce.
– Ti diverti? – fece sarcastico Xavier.
– Scherzi? Ora prendi le botte! Torna, Karma!
Il Pokémon Armuccello fu sostituito sul campo dal Reuniclus appena sceso in campo.
– Che diavolo stai facendo, sorella? Eelektross, Sgranocchio!
- Schiva!
La mossa fu rapida, il Pokémon di Xavier tentò di chiudere le sue fauci attorno alla gelatina che costituiva il corpo di Reuniclus avversario, ma quest’ultimo fu rapido a scansarsi, poi qualcosa di strano avvenne, una fitta incredibile martellò il cervello di Eelektross che di colpo si ritrovò a contorcersi a terra come se qualcosa stesse schiacciando ogni suo volere.
– Che diavolo succede?! – esclamò Xavier.
Stordipugno a ripetizione! – gridò Celia.
Una raffica di potenti cazzotti sferrati dalle forti giunture di Reuniclus stesero il povero avversario incapace di difendersi e di resistere a causa della forte emicrania.
Xavier non poteva crederci.
– Fratello, forse non hai notato che approfittando del polverone ho messo per un momento in campo Gel per utilizzare Divinazione sul tuo Pokémon per poi far tornare Karma. Sei stato disattento – rivelò mascalzona la ragazza.
Xavier era interdetto, da una parte era felice che un’Allenatrice come Celia che aveva imparato le basi della lotta Pokémon proprio da lui avesse elaborato una strategia simile, efficace per quanto grezza, dall’altra si sentiva spodestato e non capiva come, quella ragazza che non era mai stata una diva delle lotte fosse stata capace di vincere il leader del suo team.
‒ Nessun problema – mentì Xavier. ­– Pumpkaboo, scendi in campo
Il Pokémon Zucca si presentò senza alcune pretese.
‒ Forza Gel, Ps... – Celia si interruppe, i suoi occhi erano stati catturati dalla visione di uno strano figuro che, con le dita che stringevano la ringhiera, si era appoggiato al recinzione del campo e osservava i due ragazzi combattere. Era un ragazzo moro, non aveva più di vent’anni, ma i due occhi da gufo che erano incastonati nelle sue cavità oculari rendevano il suo sguardo molto più longevo di quanto in realtà fosse.
‒ Buongiorno ‒ salutò Xavier che aveva a sua volta individuato l’intruso dopo aver seguito la linea dello sguardo di Celia. ‒ Serve… serve qualcosa? ‒ chiese per convenzione.
Il ragazzo scosse la testa. Celia taceva.
‒ No, no… continuate pure… io voglio solo stare a guardare ‒ rispose in ritardò quello.
‒ Va bene ‒ commentò lievemente scettico Xavier.
‒ Possiamo almeno avere il piacere di conoscere il nome del nostro spettatore? ‒ domandò Celia in un insolito slancio di favella.
Il ragazzo aprì la bocca come per rispondere, ma il suono fuoriuscì parecchio in ritardo.
‒ Perseo, mi chiamo ‒ sussurrò.
Xavier drizzò le orecchie nell’udire quel nome.
‒ Sei mica il Capopalestra…?
‒ Sì ‒ lo prevenne quello. ‒ Capopalestra di Alyanopoli ‒ fece ermetico.
‒ Beh, sei il benvenuto allora, noi due stiamo cercando di raccogliere tutte le medaglie di Sidera e non ci dispiacerebbe mica lottare con te una volta finita tra noi ‒ fece il castano.
Perseo scosse la testa portandosi il codino che prima pendeva dietro la sua schiena sulla spalla destra. ‒ Non funziona così, ragazzo ‒ la frase era atona e anche abbastanza fuori luogo, lui non era molto più vecchio di Xavier.
‒ Come scusa? ‒ domandò la bionda interdetta.
‒ Gli altri combattono, con me è diverso… ‒ accennò il Capopalestra.
‒ Stai scherzando?! ‒ quasi esclamò Xavier.
Nel frattempo ognuno aveva dimenticato che ci fosse una lotta Pokémon in corso, persino Pumpkaboo e Reuniclus si erano calmati e avevano disciolto ogni tensione.
‒ Gli altri combattono? Cazzo, siete Capopalestra, lottare è il vostro lavoro! ‒ fece precipitoso il castano di Austropoli.
Celia era rimasta zitta, non sapeva come reagire: se non partecipare alla conversazione o sostenere Xavier.
‒ No, noi siamo Capopalestra, assicurarci che le persone si guadagnino le medaglie è il nostro lavoro ‒ ribatté Perseo senza neanche guardare negli occhi il suo interlocutore.
Ad innervosire Xavier non erano state le parole quanto il tono del moro. Le sue parole fiacche ma certe e la sua indole insofferente erano le cascate che rischiavano di far traboccare il vaso al primo colpo. Il castano si sforzava di non ribattere.
‒ Intendi che anche tu regali le medaglie? ‒ domandò Celia.
‒ Regalare? ‒ Perseo rise. ‒ No, assolutamente, che ingenua che sei…
La bionda scosse la testa e passò lo sguardo a Xavier.
‒ Senti, spiegaci bene, cosa dovremmo fare noi per vincere la tua medaglia? ‒ domandò limpido quest’ultimo.
‒ Comprarla.
Bastò quella parola, nella testa di Xavier una miniatura perfettamente intagliata di Perseo cominciò a prendere randellate da un suo sosia con in mano un grosso martello.
‒ Pumpkaboo, ritorna
‒ Xavier, cosa…?
‒ Non ci sto in questa gabbia di matti, io, che regione del cazzo!
Il castano ripose la sua Ball e si diresse verso l’uscita. Perseo si scansò per lasciar passare l’irascibile Allenatore e rimase impassibile quando lui gli diresse contro lo sguardo più tetro che avesse mai visto.
‒ Xavier ‒ Celia, non curandosi minimamente del moro, corse dietro al fratello. ‒ Oh! Che diavolo ti prende? ‒ esclamò dopo averlo raggiunto.
‒ Non parlarmi, per favore ‒ rispose brusco lui.
‒ Dai!
‒ Cosa vuoi?
‒ Che cosa ti prende? Te ne vai così e lasci pure la lotta in sospeso!
‒ Senti Celia, io non so neanche che cosa ci faccio realmente qua e perché un cervellone mi abbia chiesto di fare le cose al suo posto; che diavolo di regione è Sidera? Capipalestra che non combattono e gente che vende le medaglie! Io… ‒ il ragazzo si mise la mano destra tra i capelli. ‒ …non ci sto capendo niente!
Celia tacque.
‒ Non so, vado al Centro Pokémon, faccio curare Eelektross e nel frattempo mi schiarisco le idee, tu… boh, fai quello che vuoi…
Il castano lasciò la sorella con un palmo di naso andandosene e voltandole le spalle in malo modo. Celia non ebbe una prima reazione particolarmente istintiva, il suo cervello ancora non aveva compreso come fosse stata spezzata così facilmente la pazienza di Xavier, non aveva dato precedenti segni di cedimento.
La bionda fissava il vuoto.
‒ Ti interessa una medaglia? ‒ chiese una voce non nuova alle sue spalle.
La risposta si fece attendere un po’. ‒ Senti… Capopalestra… Perseo… non credo sia il momento ‒ balbettò lei.
‒ Sai che se non la compri a me non potrai avere gli otto badge necessari per accedere alla Lega, vero? ‒ canzonò lui con tono fastidioso.
 
“Seguimi” ordinò Xatu.
Kalut cominciò a muovere qualche passo incerto dietro all’andamento calmo e ritmato del Pokémon Magico; il volatile posava le sue zampe artigliate a terra con cadenza precisa al millisecondo, quasi come il battito del cuore di Dialga.
‒ Proteggerli… ‒ mormorò Kalut.
“Che cosa stai cercando, ragazzo?” domandò Xatu fermandosi sul bordo del tetto su cui stavano.
Kalut lo guardò storto.
“Ho fatto una domanda” precisò quello.
‒ Che cosa sto cercando…? ‒ Il ragazzo non capiva. ‒ Sto cercando di capire cosa vuoi dirmi ‒ semplificò.
“No… cosa stai cercando tu, tu da solo?”
‒ Sono andato via da Rick, mi sto allontanando.
“E perché eri andato da lui?”
‒ Ci siamo incontrati nel bosco.
“E perché eri nel bosco?”
Kalut non rispose. Il volto scolpito nella roccia eterna del Pokémon Magico sembrava attendere una reazione dalla invece morbida espressione di Kalut che aveva mutato la sua forma varie volte durante la conversazione con quell’essere.
“Kalut, perché eri nel bosco?” ripeté Xatu.
‒ Io… ‒ Nulla. ‒ Io non lo so… ‒ mugolò.
Xatu lo guardò negli occhi.
“Infatti…” fece. “Kalut” il Pokémon Magico ridestò l’attenzione del ragazzo. “Dietro di te.”
Kalut si voltò.
In un brevissimo istante, repentino come nulla, Xatu afferrò il ragazzo dai capelli bianchi per le spalle con i suoi artigli conficcandoli nella carne e lo trascinò indietro. Quanto necessario per portarlo al di fuori del perimetro del tetto e lasciarlo cadere nel vuoto.
Kalut non riuscì a gridare dalla paura. L’umano sentì la sensazione di vuoto salirgli dall’inguine lungo la spina dorsale. Stava cadendo, era terrorizzato, cadere da quell’altezza significava morire, stava cadendo.
Kalut chiuse gli occhi.
Si ritrovò sospeso a mezz’aria, a pochi centimetri dal terreno. Sopra di lui, affacciati al bordo del muro, Xatu e Venipede lo guardavano. E lui levitava sospeso a mezz’aria da una forza psichica. Sentiva l’energia scorrergli addosso, lungo la pelle e sentiva i peli drizzarsi per essa, avvertiva il filo che lo connetteva alla fonte di quel potere telecinetico, avvertiva che era Xatu ad averlo salvato. Era “non caduto” in un vicolo stretto e desolato, nessuno aveva potuto assistere al fenomeno, solo lui e i due Pokémon.
In un momento, quando il tamburo di ventricoli e atrii che aveva in petto si era finalmente calmato, la forza psichica di Xatu lo riportò sul tetto. Una volta rimessi i piedi sulle tegole, Kalut impiegò un po’ a riadattarsi al terreno.
‒ Perché hai fatto questo? ‒ domandò a Xatu spaventato e tremante.
Xatu non parlava.
‒ Perché lo hai fatto? ‒ ripeté tastandosi le ferite lasciate dagli artigli del Pokémon sulla sua carne.
Xatu si voltò. “Aspetta, Kalut…”
‒ Che cosa?
Il ragazzo avvertì un lieve prurito alla spalla, in corrispondenza delle ferite lasciate da Xatu. Provò a strofinare il palmo della mano sugli squarci per lenirlo senza farsi del male.
“Non toccare” gli intimò Xatu.
Kalut, persuaso dalla voce del volatile che rimbombava nel suo cervello, tolse la mano. La sua sorpresa nello scoprire che la sua carne si era rimarginata fu più unica che rara.

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 - Movimento ***


Capitolo 12 – Movimento

 

‒ Che cosa succede? ‒ si chiese Kalut a voce alta più rivolto a Xatu che a se stesso.
Quel Pokémon gli era sembrata una creatura straordinaria, voleva parlare con lui; quando voleva comunicargli qualcosa non sentiva più quel groppo in gola che lo zittiva il più delle volte in presenza dei suoi simili.
“Kalut, hai tante domande…” L’eco della voce del volatile nel cranio del ragazzo aveva assunto un tono basso e profondo. “…e io ho altrettante risposte” affermò vago.
Il ragazzo dai capelli bianchi aveva ancora la mano sulla spalla, la ferita profonda lasciata dagli artigli di Xatu si era curata in un istante ma lui sentiva come una mancanza, una sensazione di timore scaturita al tatto da quel preciso punto del corpo.
‒ Xatu, per favore, spiegami che cosa sta succedendo…. ‒ il suono emesso da Kalut fu più un lamento che un’esortazione.
“È la prima volta che dici il mio nome, lo sai?” gli fece notare il suo interlocutore.
Kalut tacque.
“Cosa hai provato cadendo?”
‒ Scusa...? ‒ il Pokémon aveva ridestato la sua attenzione. ‒ Cosa ho provato cadendo?
“Aspetto una risposta…”
Kalut rifletté alcuni secondi.
 
La matita si muoveva rapida sulla carta. Come un aratro nero che arava la sua terra bianca, essa seminava umanità nell’arido foglio vergine. Celia scriveva, le era sempre stato utile mettere in riga i suoi pensieri per chiarire meglio la sua mente, per questo teneva un diario.
“Secondo te ho sbagliato, Avril?”
“Che ne so, sei tu quella che deve per forza essere onesta… io non mi faccio problemi simili”
“Tu sei uguale a me, sciocca!”
“Dici?”
“Dico, e adesso rispondimi, dovrei scusarmi con Xavier o devo stare zitta?”
“Ma per la prima o la seconda cosa?”
Celia posò per un attimo la matita. L’idillio che vedeva protagoniste lei e il proprio diario si concluse.
‒ Sono un’idiota… ‒ si disse posando la testa tra le mani. La ragazza era seduta su una panchina in un parco del centro di Idresia e sulle gambe aveva il diario a forma di barretta di cioccolato sul quale posava la ormai calma matita.
‒ Esci fuori, Jin… ‒ mormorò abbattuta. ‒ Ho bisogno di compagnia.
Il Pokémon Squaloterra, poco avvezzo a rapporti con umani tristi, si posò accanto alla sua Allenatrice e si limitò a squadrarla dalla testa ai piedi. Era una ragazzina, ma in confronto a lui sembrava enorme.
‒ Dici che ho fatto una stupidaggine?
Gible mugolò gutturalmente qualcosa di indecifrabile ma forse per lui estremamente sensato.
“Celia, ricordati che lui ha interrotto la lotta” Da qualche parte spuntò di nuovo Avril che, con poche parole riuscì a cancellare uno dei drammi esistenziali dell’amica.
Celia risollevò la testa, i suoi occhi tornarono decisi. ‒ È vero!
“Caspita, sono andata a cercare la strategia su internet… ma lui ha abbandonato la lotta in difficoltà, quindi siamo pari!”
“Sì…” fece Avril mentre il Gible di Celia fissava la mina che scorreva sul foglio lasciandosi dietro la scia nera. “…ma come gliela spieghi la barca di soldi spesa per la medaglia di Perseo?”
 
‒ Fottuti Capipalestra, come diavolo faccio ad Allenare i miei Pokémon in questa maniera? ‒ Xavier imprecava alla cornetta del telefono del Centro Pokémon in attesa di un segno di vita proveniente dall’altra parte del filo.
‒ Pronto, Allevamento Pok…
‒ Julie! Sono io! ‒ esclamò il ragazzo all’udire la voce della fidanzata.
‒ Savi! Come stai, amore? A che punto passi del viaggio? ‒ ribatté felice quest’ultima.
‒ Eh… ancora c’è da fare qua. Piuttosto, ti manco un pochino?
‒ Mh… parecchio… ma sono felice che tu stia bene. ‒ sussurrò lei.
‒ Lo sai di che cosa ho bisogno? ‒ partì con un altro discorso Xavier.
‒ Di che cosa, Savi?
‒ Ho bisogno che tu mi invii tutti i Pokémon che tieni all’Allevamento, tutti e due ‒ spiegò lui.
Julie tacque per un momento.
‒ Julie…?
‒ Va… va bene, te li invio, sei dove?
‒ Idresia, Centro Pokémon della periferia ovest.
‒ Perfetto, provvedo.
‒ Grazie, sei un tesoro. Ti amo! Ciao!
Xavier riattaccò il telefono in faccia ad una povera Julie che non ebbe reazioni particolarmente spietate, era solo infastidita da così tante persone che se la spassavano in giro per la regione e un po’ invidiosa di loro.
Una dopo l’altra, nella capsula di trasporto di Sidera, giunsero le due sfere di diversa tipologia e di differente colore contenenti i Pokémon che Xavier aveva conservato dopo i suoi viaggi nelle altre regioni, una Mega Ball e una Scuro Ball, una blu con inserti rossi e l’altra verde a macchie nere. Il ragazzo le prese, le attaccò alla cintura, quindi fece per uscire dal centro, quando una voce lo fermò.
‒ Si trattano così le fanciulle dalle tue parti?
Xavier si voltò. La frase era stata pronunciata da una ragazza appoggiata al muro proprio accanto alla porta di vetro. La tipa era alta più o meno quanto il ragazzo, vestita con una canotta leggera color carbone e degli shorts rossi, lo scrutava da dietro i suoi Ray-Ban ambrati.
‒ Così… come? ‒ chiese l’Allenatore immediatamente colpito dalla mise sicuramente poco timida della fanciulla.
‒ Mi sei sembrato abbastanza lascivo, oppure sei uno che fa le cose… in fretta e furia ‒ chiese questa evidenziando il doppio senso.
Xavier sbuffò sorridendo tra un tentativo di nascondere la vergogna e uno di esorcizzare l’insinuazione di lei. ‒ Hai la faccia tosta, che vuoi da me?
‒ Niente, mi aveva solo incuriosito il tuo disprezzo per i Capipalestra della regione ‒ La ragazza dai capelli castano caramello si rivolse verso la porta oltrepassando Xavier e uscendo dal Centro. ‒ Lo sai ‒ Si fermò appena davanti a lui. ‒ che potrei prenderla sul personale?
Xavier cambiò la sua espressione da ebete in qualcosa di simil-serio, avanzò anche lui sincronizzando il suo passo con quello della tipa.
‒ Sei una Capopalestra quindi? ‒ domandò immerso nell’ovvio fino alla fronte.
‒ Ma quale acume…
‒ Cassandra, o sbaglio?
‒ Ah, a quanto pare sono famosa… ‒ Cassandra si immobilizzò. ‒ Il piacere? ‒ fece inclinando la testa a destra.
‒ Xavier, vengo da Delfisia ‒ rispose quello sollevando un sopracciglio.
‒ Oh, sei un Allenatore itinerante?
‒ No, sono una cacciatrice di taglie intergalattica ‒ rispose ironico il castano.
I due avevano iniziato a camminare uno accanto all’altro.
‒ Divertente, ma ancora non hai risposto alla mia domanda principale ‒ lo boicottò lei.
‒ Ah, quella sui Capipalestra?
Cassandra lo riguardò con aria di attesa, i suoi occhi penetranti dal colore marrone chiarissimo oltrepassavano persino le lenti scure degli occhiali per giungere a molestare lo sguardo di Xavier.
‒ Eh… ‒ cominciò quello. ‒ …niente di particolarmente rilevante, solo che è la prima volta che viaggio per una regione e due Capipalestra su tre non intendono lottare con gli Allenatori per permettere loro di conquistare la medaglia.
Cassandra seguiva in silenzio.
‒ È assurdo, quello le regala, quella le attacca alle bambole e quello vuole pure i soldi! ‒ cambiò orientamento esplicativo Xavier.
La Capopalestra annuiva. I loro sguardi si incontrarono, lui attendeva una risposta e lei era fin troppo criptica nella sua espressione vagheggiante.
‒ Hai ragione ‒ ruppe infine il silenzio Cassandra. Era seria, come se avesse preso come un rimprovero le frasi del ragazzo.
‒ Scusami?
‒ Hai ragione. Intendo.
Il loro passo si era fermato, lei ora fissava il vuoto e lui era immobile a scrutarla mentre rifletteva.
‒ È successo… qualche mese fa… ‒ cominciò a spiegare lei. ‒ Antares, il nostro capo, il Campione della Lega di Sidera ha… licenziato molti dei nostri. Cinque ‒ e mostrò il palmo della mano. ‒ e dico cinque di noi sono stati rimpiazzati… senza alcun motivo poi…
Cassandra avanzò di alcuni passi per andare a sedersi su una panchina, i due erano giunti ad un parchetto poco lontano dal Centro Pokémon che si estendeva attorno ad una fontana a forma di Milotic. Xavier la imitò.
‒ E al posto loro… sono stati chiamati questi nuovi?
‒ Gente a caso! ‒ esclamò con enfasi lei. ‒ Persone uscite dal nulla cosmico che si dice pure che non abbiano neanche completato il test per essere ammessi nelle palestre!
‒ Davvero?
‒ Non ci credi? ‒ si voltò lei. ‒ Sai che Sidera è sempre stata una meta ambita dagli Allenatori in cerca di sfida per i suoi Capipalestra duri a cedere?
‒ Sì.
‒ Beh, quali medaglie hai vinto finora?
‒ Ehm… ho quella di Luna, quella di Castore e Polluce…
‒ Ecco! I due ragazzini! Incredibile!
‒ Che cosa?
‒ Sinceramente, Xavier… ho visto che Pokémon ti sono stati mandati al Centro e non sei certo un Allenatore alle prime armi; quanto ti è rimasto difficile vincere quella medaglia?
Il castano ripensò per un istante alla lotta che si era svolta in quella palestra meravigliosa a Borgo Asterion. Decise di reggere il gioco alla ragazza, ora che il discorso si era fatto così interessante: ‒ No, hai ragione. Non è stato troppo difficile.
‒ Ecco, perché quei due non sono Capipalestra! Non dovrebbero essere lì…
Lo sguardo di Cassandra si fece più cupo. Xavier fissava il vuoto mentre lei raccoglieva le gambe al busto.
‒ Pare che mi sia salvata solo perché ero una delle più giovani, altrimenti forse sarei stata silurata pure io…
Xavier spostò la sua attenzione sulla ragazza, togliendo la mente da quel circolare angolo delle riflessioni in cui si era incastrato. Se i due Capipalestra erano “quelli deboli” allora Cassandra stessa gli avrebbe frantumato il colon a forza di manganellate? Probabilmente. Ma la sua testa non pensava più a quello, la sua etica specificava che nelle situazioni in cui c’è una bella ragazza triste, lui non poteva mica rimanere impassibile. Eh no.
‒ Dai, secondo me non è così, se ti hanno lasciato il tuo lavoro ci sarà un motivo…
Cassandra alzò lo sguardo per ricambiare il suo.
‒ Che idiota che sono, ti sto rendendo partecipe di queste cose e neanche ti conosco. ‒ fece ad un certo punto alzandosi dalla panchina e poggiando la testa tra le mani. ‒ Lascia stare… Xavier, sei simpatico, ma mi aveva solo incuriosito il fatto che tu ti fossi reso conto che qualcosa non andava. Grazie per la chiacchierata…
‒ Aspetta. Non puoi andartene così in fretta, no? ‒ anche Xavier si era alzato.
Cassandra si voltò.
‒ Adesso mi hai incuriosito, fammi capire di più a proposito di questo… fatto qui dei Capipalestra licenziati e roba simile.
‒ Io… ‒ la ragazza pensò per un istante a cosa fare: parlare con un ragazzo che aveva appena conosciuto di argomenti lavorativi e anche abbastanza delicati o fregarsene e tornare alla palestra.
Gli occhi scuri del ragazzo le esprimevano sincerità.
‒ Va bene, ti spiego…
 
“Si chiama paura, Kalut”
Kalut, esortato da Xatu, guardava sotto proteso appena oltre il bordo del tetto.
“Nello specifico, vertigine. Senti quella strana cosa che hai nello stomaco?”
‒ Sì…
“Ecco, quella.”
‒ Ed è male?
“Generalmente no, ti aiuta a sopravvivere” rispose Xatu. “A non rischiare la vita, per intenderci”
‒ Ah...
“Dimmi un po’, Kalut, che ne dici di un po’ di movimento?” chiese il Pokémon.
‒ Movimento? ‒ il ragazzo rifletté sulla parola.
“Movimento, prova ad esempio a saltare su quel tetto” lo esortò Xatu focalizzandosi sula casa dirimpetto a quella su cui erano loro.
‒ Quello?
“Quello.”
Kalut saltò, come spinto da una convinzione innaturale. E ovviamente sprofondò nel vuoto; Xatu fu abile nel recuperarlo con Psichico per poi riportarlo accanto a lui.
“La rincorsa…” gli mormorò telepaticamente.
Il ragazzo, con ancora tutti i peli ritti sul corpo, fece qualche passo indietro quindi corse avanti per poi saltare proprio all’ultimo. Giunse sul secondo tetto per il rotto della cuffia, atterrando in maniera goffa e poco dignitosa, ma comunque raggiungendo la meta.
“Complimenti” sussurrò Xatu comparso davanti al ragazzo che ancora era a terra con il cuore a mille per il salto e i nervi a fior di pelle. “Avanti adesso, hai un’intera città a tua disposizione sulla quale puoi saltare…”
 
‒ Capisci? È veramente fastidioso! E non per il fatto che non so per quale stralcio di motivo io non sia stata rimpiazzata, semplicemente mi sembra stupido lavorare ancora per una Lega che mette degli incapaci a fare i Capipalestra!
‒ Beh, ma hai mai parlato con il Campione di tutte queste cose?
‒ Non vuole discuterne, ha chiesto di tacere su questi avvenimenti e che ha semplicemente fatto quello che doveva fare.
‒ Ci credi davvero?
‒ …oddio. Non lo so…
Xavier tacque. I due erano tornati a sedere sulla panchina, lei a gambe incrociate e lui accavallate con la caviglia sinistra che poggiava sul ginocchio destro.
‒ Sinceramente non so che fare, se dire qualcosa o cercare spiegazioni… o stare semplicemente zitta.
Il castano rifletté un attimo. ‒ Tu… se fossi il personaggio di una storia e stessi allo stesso tempo seguendo quella storia, cosa vorresti che il tuo personaggio facesse?
Cassandra guardò Xavier negli occhi.
‒ Probabilmente vorrei che il mio personaggio chiarisse questa vicenda… ‒ mormorò con voce poco convinta alimentata da un lieve tocco di sicurezza.
Xavier sorrise, tutto sommato non era stato proprio inutile. Stava guardando la ragazza i cui occhi si erano invece totalmente smarriti nei pensieri. Ad un certo punto gli parve di vedere una figura, e non sbagliava. Celia era appena giunta nel parco ed era più che evidentemente diretta verso di lui.

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 - Caduta ***


Capitolo 13 – Caduta

 

‒ Aspetta un momento ‒ sussurrò Xavier.
Il castano si mosse in direzione della sorella che giungeva a passo svelto fermando Cassandra.
‒ Dobbiamo parlare ‒ esclamò Celia prima che lui potesse aprire bocca.
‒ Dobbiamo parlare? ‒ chiese lui per conferma.
‒ Dobbiamo parlare.
‒ Puoi attendere un attimo…?
Celia scrutò appena oltre la sagoma del ragazzo intravedendo la Capopalestra.
‒ Va bene… ‒ confermò lievemente seccata.
Xavier la ringraziò sorridendo, quindi tornò dalla Capopalestra.
‒ Allora, che intendi fare con Antares? ‒ domandò a bruciapelo.
Lei scosse la testa. ‒ Penso che andrò a parlarci…
‒ Ottimo, ma prima non scordarti che mi devi una lotta
‒ Ah, e per cosa ti sarei debitrice scusa?
‒ Ti ho ascoltato tutto il tempo e neanche ci conosciamo.
‒ Oh… va bene signor ascoltatore, ti aspetto alla mia palestra così vediamo se sei così duro come sembri ‒ lo attizzò lei.
Xavier sollevò un sopracciglio. ‒ Più di quanto sembro…
Cassandra sorrise prima di voltarsi e prendere la sua strada ancheggiando. Xavier le fissò il culo per alcuni istanti prima di vederla girare l’angolo. Poi concesse la sua attenzione a Celia.
‒ Ehm… come si suol dire…? Che schifo? ‒ lo provocò la bionda.
‒ Oh dai, l’hai vista pure tu, no? È una bomba!
‒ Facciamo che io non ne faccio parola con Julie se tu prometti di non dire a Marcos che ho gettato via un bel po’ dei soldini che mi aveva dato per una medaglia? ‒ tentò di corromperlo lei.
‒ Cosa hai fatto?! ‒ esclamò lui mezzo furioso e mezzo stupito stritolando tra le mani il foglio con la ricevuta che aveva improvvisato Perseo prima di consegnare la medaglia a Celia.
‒ Dai, seriamente… pensaci un attimo ‒ lo prese in contropiede lei cercando di calmarlo.
Xavier le concesse un istante di pausa dalla furia.
‒ Allora, rifletti, noi dobbiamo arrivare alla Lega ‒ cominciò. ‒ e per farlo dobbiamo avere le medaglie ‒ proseguì. ‒ quindi tanto vale spenderli ora i soldi e magari più in là li riguadagniamo, no?
Xavier aveva tutte le carte in tavola per tirare un sospiro e lasciare il discorso con un “ok, sticazzi”, ma la cifra scritta a penna su quel foglietto tanto striminzito e fastidioso gli dicevano che quello che aveva combinato la ragazza era male. Ci mise un bel po’ di consapevolezza del fatto che fosse l’unico modo per ottenere tutte le medaglie e altrettanto buon senso per convincersi dell’ovvio.
‒ Va bene dai… alla fin fine avresti dovuto comunque spenderli quei soldi ‒ mormorò.
Celia annuì. ‒ Quindi intendi comprarne una anche per te?
‒ Non ora, non subito per lo meno…
L’argomento si chiuse in quel momento.
‒ Che si fa quindi ora? Intendi andare in palestra?
‒ Non subito, domani ci andrò…
‒ E quindi?
‒ Non so, facciamo che abbiamo una serata libera ‒ propose lui. ‒ Abbiamo il tempo di fare quello che ci pare…
Celia si focalizzò sulla cosa.  ‒ Sì dai, non male…
‒ Io controllo se c’è qualche festa in città ‒ annunciò Xavier allontanandosi e portando gli occhi al suo PokéNet.
‒ O-ok…
 
I muscoli di Kalut sapevano quanto contrarsi e quando distendersi, gli veniva tutto spontaneo ormai. Il ragazzo saltava da un tetto all’altro calpestando le tegole con gran facilità, senza sentire la stanchezza ad una prima impressione.
“Ok, continua così” sussurrò Xatu.
Kalu non sentiva gravare il peso del corpo sulle sue gambe quando atterrava, sapeva come muoversi e lentamente si rendeva conto che si stava muovendo come spinto da un istinto sconosciuto.
“Va bene, fermati” ordinò ad un certo punto il Pokémon.
Il ragazzo interruppe la sua corsa posando i piedi e non avanzando ulteriormente. Cadde a terra all’istante, respirando a fatica e non avvertendo nemmeno il distendersi dei muscoli sfuggevole alla sua volontà. Era distrutto, come se avesse recepito tutta la fatica in un solo istante dopo essersi fermato. Xatu osservava con un velo di cruccio mentre il ragazzo ansimava mezzo morente.
 
‒ Secondo te quanta gente ci sarà?
Celia, seduta sulla branda della camera che era stata il punto di riferimento di Xavier la notte precedente, aveva davanti il volantino di una festa in un locale del centro di Idresia.
‒ Non ne ho idea, ma sembra una roba importante, magari è pieno di gente ‒ rispose semplicemente il fratello che nel frattempo era impegnato a sistemarsi il colletto della camicia allo specchio.
Erano le ventuno circa, entrambi avevano riposato durante il pomeriggio per poi cenare alla buona e vestirsi decentemente per andare nel primo club che ospitasse una festa quella sera, città sconosciuta, posti sconosciuti, gente sconosciuta, importava poco quale sarebbe stato il club.
‒ Vabbè, vogliamo muoverci? Mezz’ora la impieghiamo per raggiungere… ‘sto posto ‒ propose Xavier.
‒ Vai, ti seguo
I due presero gli ultimi oggetti necessari lasciando nella cuccetta zaini, borse, Pokémon e altre strumentazioni e uscirono, Xavier si guardò bene dall’affidare la chiave alla reception del Centro Pokémon, decise invece di fare presente alla ragazza addetta a ricevere gli Allenatori che sarebbe tornato verso notte fonda. Si incamminarono.
 
‒ Xavier Levine, penso che sarai tu la prima cavia ‒ sussurrava il professor Willow seduto sulla poltrona davanti al suo monitor.
Sullo schermo del secondo pc si vedeva la figura in movimento del suo Allenatore dai capelli castani monitorato passo dopo passo dalle telecamere urbane di Idresia. Jason Willow picchiettava sulla scrivania con le dita a ritmo ascendente, il suono che si creava era ridondante e ossuto.
‒ I primi che devono diventare nostri alleati sono quelli che potrebbero essere i nostri più pericolosi nemici... ‒ La ripresa in tempo reale mostrò il ragazzo raggiungere un locale parecchio illuminato dal quale si dipanava lieve e soffocata dalle mura una musica insistente e sempre uguale. ‒ Sono sicuro che non rifiuterai di passare al livello successivo, numero 7…
 
Luci stroboscopiche, musica pompata nelle orecchie a tutto volume dalle casse e una massa di gente ammucchiata al centro della pista. Chi col drink in mano, chi con troppi drink in corpo, chi troppo preso dal dimenarsi a ritmo di musica per stare a contare il numero di drink ingeriti. A Celia non piaceva particolarmente quell’ambiente ma le sembrava figo, tutto sommato si stava divertendo, stava tra la folla muovendosi un po’ timidamente senza darsi troppo da fare per scansare i corpi che a lei si appiccicavano nel caos generale. In mezzo a personaggi sudaticci e poco controllati sembrava fuori posto, una ragazzina dai capelli chiari sul metro e sessanta con indosso un succinto tubino nero con le spalline sottili e dei tacchi abbastanza contenuti che comunque non miglioravano più di tanto la sua statura.
Un ragazzotto grosso con una camicia aperta sul petto villoso la fece quasi rotolare a terra colpendola per errore con la spalla mentre camminava facendosi strada tra la folla e tenendo per mano quella che presumibilmente era la sua ragazza, una alta e mora vestita di rosso. Celia finì contro un soggetto con una t-shirt leggera e una cascata di dreadlocks legati sopra la testa, il ragazzo non si scompose, le chiese scusa anche se era stata lei a colpirlo e si spostò lievemente. A Celia parve di conoscerlo, ma la confusione portò subito la sua attenzione altrove, doveva andare in bagno; la ragazzina con calma e senza sbrigarsi troppo raggiunse il bagno riservato alle donne, spostò il secondo tossico della serata dalla porta, evitò la toilette in cui si erano rinchiusi due piccioncini a discutere dei massimi sistemi e trovò il modo di incastrarsi nella seconda cabina.
Intanto, dall’altra parte del locale, Xavier seguiva i movimenti di una donzella dai capelli scuri che aveva adocchiato poco prima, la quale non aveva boicottato il tentativo di approccio del bel ragazzo dai capelli castani con indosso la stretta camicia nera che evidenziava la forma dei suoi pettorali. I due si erano avvicinati sempre più e muovendosi sempre a ritmo di musica finché lui non aveva fatto il primo passo offrendo a lei da bere, levatisi dal bancone poco dopo con la testa più leggera e il corpo più caldo, avevano ricominciato a ballare molto più connessi l’uno vicino all’altra. Probabilmente la ragazza stava aspettando la seconda carta da mettere in gioco del ragazzo, ma lui si era bloccato in un angolo. Xavier aveva sempre gradito l’attenzione del gentil sesso, faceva lo splendido senza problemi con Cassandra e con la prima ragazza con un balconcino degno di nota in discoteca ma il problema sorgeva al momento di passare oltre il dimostrare il proprio approccio vincente. Lui era burocraticamente impegnato con Julie.
Intanto Celia studiava la drink card con il numerino a tre cifre timbrato sulla carta unticcia, la studiava mentre le veniva resa dal barman dopo essere stata bucherellata, il Sex On The Beach comparve sopra al bancone davanti al suo sguardo mezzo sveglio mezzo no. Lei lo prese in mano, lo aveva ordinato solo perché aveva imitato il ragazzo che aveva richiesto da bere prima di lei e le era capitata la fortuna di capire le parole precise che componevano il nome del cocktail. Le sembrava succo di frutta con del ghiaccio dentro.
“Quattordici anni, quattordici anni, quattordici anni, quattordici anni…” le diceva la ragione. “Al diavolo!” Bevve.
Il discorso era differente per il castano che neanche al primo dei tre shottini gettati giù aveva avuto il rimorso.
‒ Dai, non vuoi divertirti un po’? ‒ chiese la ragazza indicando un luogo imprecisato a Xavier.
Lui aveva capito pressoché nulla delle sue parole, ma sorrise e annuì. Non era proprio lucidissimo.
‒ Vieni ‒ proseguì lei.
Il ragazzo comprese il messaggio solo grazie al gesto della mano di lei che lo invitava a seguirla. E lì tornò, come un chiodo estratto da un muro e ribattuto nello stesso buco, il dubbio atroce.
“Divanetti. Parliamo ma non capisco cosa dice. Mi tiene la mano sulla sua coscia, potrei macchiarle il vestito con il timbro, che stupido, mi sono fatto timbrare sotto il pollice. Oddio, sale un po’ più su. Si alza, camminiamo verso il bagno. Aspetta la sto portando io, merda…”
Cinque minuti dopo, il ragazzo era fuori dal locale con un occhio gonfio e una gran voglia di rompere qualcosa. L’erba aveva fatto dimenticare alla ragazza di essere fidanzata ma il pugno del suo ragazzo non lo aveva scordato mica.
‒ Vaffanculo… ‒ si sussurrò Xavier tenendosi del ghiaccio gentilmente offerto dal barman provvidenziale sul punto della colluttazione. Ma il minuto necessario per riprendersi almeno superficialmente, durò dodici secondi.
‒ Aspettate, dovrei avere qualcosa ‒ udì il castano riconoscendo bene la voce.
Ancora dolorante e un po’ rincitrullito dagli avvenimenti, Xavier si voltò. E non trovò affatto bella la scena di sua sorella che interagiva non proprio amichevolmente con due ragazzotti vestiti di nero e cercava dei soldi che non avrebbe trovato per pagare le bevute.
Il ragazzo decise di intervenire.
‒ Savi! ‒ esclamò lei scorgendo appena il fratello al di là del muro di carne dei due addetti. ‒ Non è che mi presteresti qualcosa? ‒ La voce rotta dall’ebbrezza, il tono frivolo e confuso e gli occhi storditi per l’alcool. Era ubriaca.
Xavier pagò il conto, il prezzo di due cocktail non esattamente adatti ad una quattordicenne.
‒ Dai, andiamo, Savi! ‒ strillò quella mezza seria mezza no.
‒ Stai calma, ora ti riporto al centro.
‒ No dai, volevo prendere solo un po’ d’aria, torniamo dentro! ‒ gridò quella opponendosi con modi infantili.
‒ Ma hai…! Bah, scordatelo! A dormire.
Il castano tirò un po’ la ragazzina per un braccio finché quella, prima decisa ad opporsi totalmente, cedette sotto il sonno accumulato e l’alcool a cui era poco abituata.
‒ Due cocktail ed eri KO, devi starci più attenta ‒ mormorò uno Xavier mezzo preoccupato per lei ad una Celia poco attenta alle parole del fratello e più addormentata che sveglia. La bionda lo seguiva praticamente trascinandosi con fatica e guardando a terra con le palpebre semichiuse.
 
‒ Perché stavo correndo tra i tetti?
“Kalut, eri completamente cosciente.”
Xatu era immobile di fronte al ragazzo che, scesa la sera, si era rintanato nella macchia vicina al paese. Seduto alla base del ramo di un alto albero, con vicini il Pokémon Magico e Venipede, scrutava silenzioso le luci dell’area urbana illuminare lo scuro scenario notturno.
‒ Xatu ‒ sussurrò il ragazzo.
“Stai sentendo freddo, non è vero?”
‒ Mi tremano le mani.
“E quello significa sentire freddo”
‒ Cosa posso fare per fermarle?
“Devi coprirti, devi stare al caldo”
Kalut soffiò ‒ ah, coprirmi.

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 - Dolore ***


Capitolo 14 – Dolore

 

Kalut aprì gli occhi nell’oscurità dell’angolino in cui si era rinchiuso. Il tronco cavo di un albero nel quale, dopo essere sceso dal ramo per rubare un lenzuolo steso ad asciugare da una casetta vicina, si era rannicchiato per dormire. La notte era scorsa in fretta, Venipede si era appisolato sulla corteccia dell’albero vicino e Xatu che mai avvertiva la morsa del sonno aveva vegliato sui due compagni. Il silenzio era comune, tutti e tre lasciavano che nelle loro orecchie scorresse calmo il brusio che era il rumore di fondo del paese che in quell’istante apriva gli occhi. Il sole mattutino estivo già picchiava violento sull’umido pavé e sui corpi ancora non desti dal torpore.
Kalut per primo stirò i muscoli, portava ancora addosso i vestiti datigli a casa di Rick, i bermuda e la t-shirt, e i capelli bianchissimi, scompigliati e caotici.
 
Poco gradevole il gracidare della sveglia la mattina dopo la sera in cui non si è chiuso occhio. Almeno per Xavier, Celia era caduta fra le braccia di Hypno poco dopo aver messo piede nella stanza ed essersi gettata sul letto. Il castano, dal canto suo, sfoggiava un grosso livido che mascherava il suo sguardo nervoso dagli occhi arrossati e doloranti.
­­­­­‒ Dio… ‒ mugolò il ragazzo zittendo la suoneria del PokéNet. Poi guardò sua sorella.
Dormiente, beata, senza pensieri in testa e senza problemi dietro. Xavier sospirò. Sua sorella, rifletté. Non era sua sorella, ma le voleva bene; peraltro, lei stessa era cresciuta nella casa di suo padre, aveva festeggiato i compleanni nella casa di suo padre, aveva scartato i regali sotto l’albero nella casa di suo padre, era diventata signorina nella casa di suo padre, si era trasferita nella nuova casa di suo padre. Era sempre stata sua sorella.
Ripensava al giorno precedente, alla scena di Celia più ubriaca che lucida che rovistava nella sua borsa in cerca di soldi necessari al pagamento di qualcosa che né era adatto ad una ragazzina né le era piaciuto. E ne era certo il fratellone X, non si è biologicamente portati per gradire l’alcool prima di una certa età. Persino la sua esperienza personale associava lo champagne di capodanno bevuto per sembrare adulto al rigurgito fastidioso causato dal bruciare della gola.
Aveva bevuto due cocktail di grossa taglia, la bionda. A quattordici anni. Da sola. In un locale in cui i meglio intenzionati sono solo gli accompagnatori di un qualche amico che si trova lì con lo scopo di curare le proprie piaghe fisiologiche, nella peggiore delle aspettative, con il cavo orale di qualche infermiera del luogo.
Il senso di colpa si affacciò nella coscienza di Xavier timido e silenzioso come un ragazzino nello scrutare da dietro la porta della cucina sua madre che viene schiaffeggiata dal compagno. Che fratello di merda si era dimostrato, l’aveva abbandonata subito dopo essere entrato. Non sapeva che cosa avesse combinato quella sera, ma solo in quel momento capiva che forse non aveva fatto la cosa migliore di tutte. Immaginava come fossero andate le cose, magari qualcuno ci aveva pure provato con lei. Ma uscito dal locale non aveva avuto l’audacia di domandarglielo, il suo buon senso era stato momentaneamente zittito dagli shot e dalla brutta avventura.
Senza neanche accorgersene, il castano si era già vestito e aveva ricomposto alla meno peggio il suo zaino, il suo flusso di coscienza era durato abbastanza.
Starsene a letto ancora un po’ gli era sembrata una prospettiva troppo luculliana: nella fase più spinta del masochista che in lui si nascondeva come in ogni individuo della sua specie, aveva deciso di alzarsi.
‒ Facciamo che vado da Cassandra? ‒ si chiese.
Riflessione breve e concisa.
Xavier tolse i vestiti e decise di eseguire quella pratica denominata in quel caso “lavarsi per sicurezza, magari emano un odore non proprio di pino silvestre e devo far bella figura” più che “doccia”. Tempo venti minuti ed era fuori: capelli che sfidavano la forza di gravità grazie al solo ausilio dell’asciugacapelli benevolo e innalzatore di anime, zaino in spalla, PokéNet al polso e vestiti appena tirati fuori dall’asciugatrice del Centro Pokémon. Era uscito dopo aver controllato che sua sorella dormisse ancora e aver lasciato un biglietto con un paio di rassicurazioni sul tavolino della camera.
‒ Nove e cinquantatré, orario a dir poco perfetto ‒ commentò muovendo i primi passi della giornata al tenore sapido del sole. L’aria era frizzante, i turisti cominciavano in quel momento a spuntare ai lati delle strade con i loro cappelli e gli occhiali da sole. Era un buon due settembre.
Nel frattempo, nella camera del Centro Pokémon, una ragazza era sdraiata sul letto a braccia conserte e con gli occhi fissi sul foglio scritto a penna da suo fratello che ricambiava il suo sguardo sottile da sopra il tavolo.
Si era svegliata col rumore dell’acqua prodotto da Xavier e non si era mossa dalla sua posizione. Aveva seguito le azioni del castano senza far intendere di essere sveglia e lo aveva visto uscire, sempre a occhi semiaperti e nervi distesi.
“Non va bene, Celia” diceva Avril.
“Sono stanca pure io” ribatté Celia.
“Non intendevo quello…”
“Ah…”
La ragazza balzò in piedi, rovinosamente cascò a terra a peso morto. Capogiro infido come un Seviper che attende nascosto nella sua tana la preda ignara. Bernoccolo sul lato destro della fronte.
‒ Ahia ‒ mugolò la bionda.
Con ben poca voglia prese il foglietto e lo lesse mentalmente.
“Sono andato alla palestra… sì, sì… ok, vorrei chiederti di non raggiungermi…? Poi ti spiego.” Inizialmente non comprese, ma poi pensò che effettivamente il castano era suo fratello. Magari aveva un motivo valido, teorizzò che era meglio fargli il favore e rimanere nel suo gineceo per quella mattinata, o magari avrebbe potuto uscire e comprarsi qualcosa. Ah, no… soldi finiti.
“Sì, la lettera l’hai letta, ok. Il brutto arriva ora…” le ricordò Avril poco intercettabile e quasi muta dentro di lei.
“Zitta.”
Con la questione dei soldi le era tornato in mente un frammento di ciò che era accaduto la sera prima. Aveva visto Xavier pagare qualcuno al posto suo. Molto vago come indizio.
“Allora? Io non c’ero e ho ritrovato tutto a soqquadro stamattina, che diavolo hai combinato ieri?”
“Caspita, non riesco a ricordarmelo…”
“Celia… dai!”
“Non riesco ti ho detto!”
Avril non ribatté.
‒ Diario ‒ le venne in mente.
La ragazza cercò tra le sue cose l’agendina-barretta di cioccolato e la trovò, ma aprendola e leggendo le ultime righe scritte comprese che nessuna informazione sarebbe permeata da lei. Decise comunque di mettere in mezzo pure la sua coscienza cartacea e cominciò a scrivere. Trenta secondi contati. Poi la matita interruppe il suo Indianapolis tra le curve sinuose della scrittura tipicamente femminile della bionda e tutto tornò nella borsa nel caotico ordine iniziale.
“Avril, non ricordo cosa è accaduto ieri sera e un vuoto non è mai un bene. Aiutiamoci a vicenda e recuperiamo informazioni prima che Xavier torni.” E inconsapevolmente la ragazza aveva trovato un diversivo e un’arma anti-noia per quella mattinata, la facevano solo male le serie TV di Fox.
 
‒ Non ti credevo così determinato.
‒ Non perdo mai di vista la palla.
Pavimento nero opaco, pareti nero opaco, soffitto nero opaco. Sottili strisce di luci al neon color fiamma viva solcavano le facce di quella stanza formando perfetti poligoni regolari e rilasciando una fioca luce all’interno della stanza. Da un lato, sul suo trono morbido e soffice illuminato alla base da luci simili a quelle che erano sulle pareti e sul pavimento, sedeva Cassandra: gambe accavallate a coprire ciò che una minigonna di pelle nera avrebbe rivelato e col busto rilassato nella magliettina leggera e aderente.
Gli occhi dello Xavier che era appena entrato in quella fattispecie di covo di cattivi dal retrogusto cyberpunk erano storditi dal buio sopraggiunto improvvisamente dopo l’accecante sole ancora estivo; ma vennero mandati al tappeto dalla vista della femme fatale che lo attendeva con degli occhi di un predatore pronto a scorticare vivo, non la preda, ma il predatore più grosso di lui.
‒ Allora sei proprio deciso a farti mangiare vivo… ‒
Il castano, che alla prima domanda della Capopalestra aveva risposto prontamente poiché ancora i suoi occhi dovevano trovar la luce in quel dedalo di ombre, si trovò a mormorare un inadattissimo “sì” in risposta alla seconda.
‒ Ah, va bene allora, via con la carneficina. ‒ Cassandra si alzò gloriosamente in piedi e prese in mano tre delle sfere che contenevano i suoi Pokémon.
La catena di montaggio “stimolo-reazione” regolante le relazioni con l’ambiente esterno del ragazzo passò dalla sede delle gonadi a quella del cervello, era pronto a ragionare e a lottare.
‒ Ti do il vantaggio: in campo, Magmortar! ‒ convocò lei.
Un gigante dal corpo che emanava calore al solo guardarlo comparve sul campo dal lato di chi giocava in casa. Quel Pokémon Fiamma non era propriamente uno stinco di santo, gli occhi assassini ce li aveva, magari pure le mani.
‒ Eelektross ‒ chiamò Xavier non poco intimorito dal mostro che il suo team leader avrebbe dovuto fronteggiare.
Pokémon Elettropesce contro Pokémon Esplosivo, la lotta ebbe inizio. Un delicato Fuocobomba dalla parte dei casalinghi creò la luce all’interno della stanza esplodendo in una stella di fiamme a pochi metri da Eelektross. Quest’ultimo riuscì a non rimanervi arrostito e rispose con Falcecannone. Punto, Magmortar era fatto per colpire, ma schivare non era proprio il suo forte.
Eelektross, su ordine del suo Allenatore, proseguì l’assalto intervenendo con Scarica. Altro punto.
Il gigante di magma non se la prese così tanto, Stordiraggio, dal canto suo. Eelektross confuso. Xavier comprese che quello si sarebbe potuto rivelare un problemino bello grosso.
Altro ordine di Cassandra, altro Fuocobomba di Magmortar. Anche questo esplose poco lontano dal nemico e rinfrescò l’aria innalzando per un istante la temperatura di qualcosa come duecento gradi Celsius. A Eelektross girava la testa. Gli ordini di Xavier erano per lui voci poco decifrabili e messaggi in codice, lanciò un Falcecannone che si schiantò a terra goffo e impreciso. Intanto, l’altro piatto della bilancia alzava il punteggio ancora e ancora, Lavasbuffo. Lingue di fuoco scarlatte si riversarono sulla metà campo avversaria maligne e sinistre. La Sodoma da quattro soldi terminò con un Eelektross sfinito ma ancora in piedi e un Magmortar che soffiava teatralmente il fumo dalla punta del cannone micidiale che aveva al posto del braccio.
Xavier in quel momento si rese conto di essere stato preso per i fondelli dalla ragazza che lo fissava con occhi strafottenti dall’altro lato della stanza. Le Fuocobomba erano esplose senza danneggiare il suo Pokémon e il Lavasbuffo aveva fatto terra bruciata ma lasciando illeso l’avversario.
In quel momento Eelektross scosse la testa e riprese coscienza di sé e il gesto fu abbastanza esplicito da far comprendere al suo Allenatore che non aveva preso di vista il bersaglio e non era rimasto violentemente scosso dagli avvenimenti.
‒ Ma che cazzo…? ‒ borbottò lui ancora annebbiato nella percezione reale dei fatti.
Cassandra scoppiò a ridere.
‒ Magmortar, finiscilo ‒ disse soltanto.
Fuocobomba. Eelektross non riuscì a reagire contro una granata devastante che lo colpì in pieno senza esplodere poco prima come le altre, Xavier non fece in tempo a ordinargli di spostarsi o di cercare un diversivo. Uno a zero, palla al centro.
“Ti ha ingannato, l’esca erano le mosse imprecise e la guardia bassa e l’amo era il calore che non permette a Eelektross movimenti rapidi, come punge, eh fratello?” rifletté tra sé e sé il castano.
‒ Era.
Tornato nella sfera Eelektross, sulla metà campo degli sfidanti comparve fiero e pronto a combattere un Noivern parecchio minaccioso. Il dragone ruggì. Violento, scatenato.  La sua presenza non intimorì Magmortar, ma alzò l’attenzione di Cassandra. La Capopalestra sapeva riconoscere un Pokémon forte quando lo aveva davanti.
‒ Lo sai, spero che lo scontro si faccia più interessante… ‒ lo provocò lei.
Xavier non commentò, voleva far parlare i fatti. ‒ Tifone ‒ disse soltanto.
Il Pokémon Esplosivo era troppo sicuro di sé, gli attacchi elettrici dell’avversario precedente lo avevano scalfito, ma il gigantesco vortice di venti concentrici evocato dal lucertolone con le ali che aveva davanti iniziò a smuoverlo davvero.
‒ Usa Lavasbuffo! ‒ Niente da fare.
Il vento sfaldò le fiamme in men che non si dica e cancellò il colpo, Magmortar era in trappola.
‒ Eliminalo, Dragopulsar ‒ proseguì di nuovo atono Xavier.
Il Pokémon Ondasonora si infilò nell’occhio del ciclone, raggiungendo subito il nemico che era bloccato tra il forte vento.
Da fuori, i due Allenatori videro ben poco. Solo un lampo che sferzò il grigiore del tifone e un’onda d’urto che cancellò la sua forza cinetica annullandolo. Poi un Magmortar KO e un Noivern illeso e con le fauci ancora infiammate di lingue di fuoco violacee.
‒ Wow, che ripresa… ‒ commentò lievemente disturbata la ragazza.
‒ Lo scontro si è fatto abbastanza interessante per te? ‒ Fu la domanda sarcastica e pungente del castano.
Niente ribattute, niente insulti, uno sguardo tra i due che esprimeva sfida sanguinaria e agonismo da tutti i pori. Xavier aveva rincarato la sua dose di “so’ cazzuto e me ne vanto” quotidiana, Cassandra si sentiva in mano l’avversario e in mano all’avversario allo stesso tempo e questa cosa la eccitava. Secondo Pokémon anche per la Capopalestra.
 
‒ Xatu? ‒ chiamò il ragazzo.
“Dimmi, Kalut.”
‒ Che cosa si fa oggi?
“Oggi? Niente…”
‒ Niente?
“Hai sentito bene, niente.”
‒ E che cosa vuol dire?
“…”
‒ Xatu?
“Dimmi, Kalut.”
‒ Perché non puoi parlarmi, tu?
Il pennuto si voltò a guardarlo.
“Sai bene la risposta, Kalut.”
Il ragazzo si era alzato, col caldo e col silenzio, i suoi muscoli avevano ripreso a funzionare e mentre parlava con Xatu sedeva sul tetto di un antica casa di pietra.
“Perché mi fai domande di cui sai già la risposta?”
Venipede stava vicino a lui, aderente alle tegole, e fissava il vuoto con il proprio compagno. Silenzio, silenzio e un lieve sottofondo di vita cittadina tra il morto e il vivo, ovattata dal silenzio. E ancora silenzio.
‒ Devo sapere la risposta…
“Kalut, che cosa sei tu?”
‒ Che cosa sono?
“Che cosa sei tu?”
‒ Io sono un umano.
“Credi di esserne certo?”
‒ Sì.
“Va bene, allora…”
Lentamente, in silenzio, Kalut cominciò a piangere.

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 - Pianto ***


Capitolo 15 – Pianto

 

‒ Forza, Heatran!
Xavier in primis rimase basito nel sentir pronunciare quel nome, ma l’apparizione del Pokémon Cratere sulla metà campo opposta alla sua Noivern gli diede una violenta pacca sulla spalla come per svegliarlo. Un gigantesco leggendario dal corpo d’acciaio rovente ruggiva contro il suo compagno di squadra: la cosa non gli incuteva timore. Poco.
Pietrataglio! ‒ ordinò la Capopalestra. E due affilatissime lamine di metallo staccate dal pavimento dai poteri di Heatran furono scagliate contro il drago-pipistrello avversario.
Era evitò uno dei proiettili quasi per sbaglio mentre l’altro colpì di striscio la membrana della sua ala strappandola senza tanti complimenti. Dolore. Un gridò emesso dal Pokémon fece vibrare la stanza, un grido non di sofferenza quanto di sensazione di paura data dal vedere un’appendice del proprio corpo venire così brutalmente recisa.
‒ Cazzo! Rientra! ‒ esclamò d’impulso il castano di Austropoli. ‒ No… non va affatto bene questa cosa… ‒ si disse poi da solo.
Cassandra si mise a ridere.
Xavier guardava le sue Ball, quella di Eelektross che aveva patito già abbastanza, quella di Era, Noivern, che era appena rientrato in panchina, quella di Pumpkaboo e quella di Scizor. Inutili, contro una Capopalestra del genere e stupido lui che aveva pensato di cavarsela con due soli Pokémon.
‒ Porco mondo… ‒ imprecò lanciando nell’arena la Mega Ball contenente Scizor.
Un Pokémon Chele vulnerabile due volte al tipo Fuoco non era il massimo, ma aveva bisogno di temporeggiare. Di giocare sulla tattica.
Cassandra scoppiò ancora più in lacrime ilari vedendo scendere in campo la terza carta del suo avversario.
‒ Va bene, Scizor. ‒ cercò inutilmente di ignorarla lui. ‒ Adesso facciamo vedere di che pasta siamo fatti! ‒ l’essere emise un verso entusiasta e coinvolto nella battaglia.
‒ Heatran, Magmaclisma! ‒ commentò limpida la ragazza dai capelli color caramello caldo.
Mossa fatale. Almeno per i calcoli di Xavier. ‒ Non aver paura, Agilità, puoi schivarla!
Improvvisamente la terra cominciò a tremare. Cassandra sorrideva beffarda e il suo Pokémon, concentrato e determinato, la accompagnava. Un’apocalisse di fuoco, magma e fiamme si sprigionò dal centro di gravità della tempesta che era il Pokémon di tipo Fuoco-Acciaio. La luce prese il posto del buio per qualche fatidico istante.
‒ Dai, Scizor, puoi riuscirci!
Non nascose a sé stesso, il ragazzo, che allontanare il moscerino della sfiducia dalla torta non fu affatto facile. Ma quando vide il suo compagno che, concentratissimo, evitava una dopo l’altra le plausibili morti che gli si avvicinavano sotto forma di lingue di fuoco e vomiti magmatici, si rassicurò. Rapido e preparato, Scizor, qualità che aveva mantenuto anche dopo l’evoluzione. Solo una fiamma non riuscì a evitare e questa ebbe l’occasione di ricoprire la sua intera chela destra. Ma per qualche strano motivo, non si fece male. Xavier assistette al fenomeno e quasi subito comprese.
Il metallo che costituiva l’esoscheletro di Scizor era separato dal suo corpo vulnerabile, per questo con l’evoluzione aveva sviluppato una tale capacità difensiva. Esporre per un singolo istante al calore ogni parte del suo corpo ne avrebbe solo arroventato lo strato esterno, senza danneggiarlo veramente. Lampadina.
‒ Scizor, adesso ti chiederò di ricordare una mossa che ti insegnai tempo fa con una MT. ‒ il Pokémon spalancò gli occhi. ‒ Cerca di ricordare come si usa Breccia!
Il compagno di Xavier si sentì perso. Per un breve momento si staccò dal mondo intero diventando solo davanti a migliaia di lotte, allenamenti, tecniche e mosse. Solo di fronte a un monte di roba che non poteva ricordare, almeno non perfettamente.
‒ Dai, smettila Xavier, accetta la sconfitta, Ondacalda! ‒ rientrò nelle vicende Cassandra.
Lampo. Xavier non ci credeva neanche. Il Pokémon Chele dalla corazza rossa e dagli occhi determinati scattò contro il nemico prima che questo potesse reagire e assestò un violentissimo colpo proprio in mezzo alla fronte di Heatran, sulla placca di metallo ellissoidale del suo cranio. L’attacco Ondacalda non fu mai lanciato, il Pokémon di Cassandra rimase non poco stordito dalla forte botta.
‒ Bravissimo, Scizor! Continua!
Un'altra randellata cafona si schiantò sull’avversario, questa volta sotto il mento del Pokémon Cratere riuscendo addirittura a rovesciarlo completamente. Heatran era in una posizione scomoda, ma ancora non mollava.
‒ Wow, sei sempre una sorpresa. ‒ Cassandra si divertiva parecchio. ‒ Ma ti assicuro che non l’avrai vinta! Geoforza! ‒ ordinò.
Il leggendario si rovesciò tornando in posizione e comprimendo il terreno coi suoi arti dalla forma di croce, scatenò un potente sisma che fece perdere l’equilibrio a Scizor infliggendogli anche notevoli danni.
‒ Non ti arrendere, Pugnoscarica!
Un “conc!” inquietantissimo fu il rumore prodotto dal cozzare della chela d’acciaio di Scizor sul volto di Heatran. Il primo insoddisfatto, il secondo illeso.
Magmaclisma!
Breccia, di nuovo!
Altra randellata nei confronti di Heatran, il potente attacco di tipo fuoco non riuscì a decollare e la botta diede un violento scossone al cervello del Pokémon che si posò a terra con la delicatezza che lo contraddistingueva e fu ripreso nella Ball dalla sua Allenatrice prima che potesse addormentarsi nello svenimento.
‒ Un applauso, ascoltatore… ‒ commentò la ragazza.
Xavier gettò fuori l’aria che si era tenuto nei polmoni per tutta la durata del testa a testa tra il suo Pokémon e quello avversario. Non era per nulla soddisfatto di come erano andate le cose, ma per ora teneva il vantaggio e ciò era l’importante.
‒ Te l’ho detto e te lo ripeto, non sono una preda facile. ‒ sorrise il simpaticone.
‒ Beh, possiamo ancora parlarne… Volcarona!
Scese in campo, dal lato avversario a Xavier, un Pokémon Sole fiero e maestoso. La luce emessa spontaneamente dal suo corpo affievolì l’atmosfera e portò una debole luce nella stanza. Il castano, che anni prima aveva visto in azione quello di Nardo, non nascose il brivido che minò la stabilità della sua spina dorsale conficcandosi come un ago tra le sue vertebre cervicali.
‒ Vai, Voldifuoco! ‒ esclamò la ragazza.
‒ Scizor…! ‒ Xavier non terminò mai la frase. Nulla gli venne in mente che non fosse l’anticipare una mossa ormai scagliata. Il suo Pokémon Chele incassò il colpo e cadde a terra stremato. KO.
‒ Ti ho raggiunto, eh? ‒ fece beffarda la donzella col tacco dodici premuto sulla dignità del castano.
‒ Mi hai raggiunto, concludiamo la lotta allora. Era!
Noivern tornò in campo: l’ala ancora strappata un bel po’ ma la forza d’animo sicuramente ancora nelle vene. Il dragone ruggì, impassibile Volcarona. Noivern non era particolarmente affaticata, ma non riusciva a volare o ad allargare l’ala destra per paura di allargare ulteriormente lo strappo, sicuramente era in svantaggio.
‒ Distruggilo, usa Tifone ‒ esortò Cassandra.
‒ Cazzo, Dragopulsar! ‒ si piazzò sulla difensiva Xavier.
Dalle ali del Pokémon che giocava in casa si sprigionarono venti violenti e distruttivi che rapidamente si diffusero in tutta la stanza. Era non stava volando, e forse era un bene, ma comunque fu scaraventata contro una parete laterale da una raffica e la fiammata sprigionata dalle sue fauci andò a disperdersi in deboli fiammelle che furono zittite dal vento.
“Non posso fare nulla per fermarlo… Noivern non può contrastare il suo potere di maneggiare l’aria attorno a sé con l’ala ridotta in quello stato…” rifletté Xavier.
Eterelama! ‒ esclamò il ragazzo. Probabilmente agire da lontano era l’idea migliore.
Un rapido movimento dell’ala sinistra e un invisibile e sottile rasoio d’aria sferzò la distanza che c’era tra Era e Volcarona colpendo quest’ultimo.
Ronzio, non facciamoci intimidire!
E fu così che il violento battito del Pokémon Sole cominciò a sprigionare un fastidioso rumore insistente e martellante. Noivern lo sentì prima di tutti, grazie al suo apparato uditivo particolarmente sviluppato e si piegò in due dalla sofferenza che tale suono gli causava.
Dragopulsar, lotta! ‒ esclamò Xavier spingendo il suo compagno ad opporsi a quella morsa.
Era provò a scatenare la sua furia, ma tutto ciò che gli uscì fu una fiammella soffocata e smorzata, piegò i gomiti dal dolore, ormai stramazzava.
“Cazzo, hanno trovato l’arma perfetta contro Era…” pensò preoccupato Xavier. “A meno che…”
‒ Continua, Volcarona! ‒ esclamò sadica la Capopalestra.
Ondaboato, Era!
L’unica cosa che riesce bene durante la tortura, sono le grida. Era un meccanismo risaputo e noto a tutti… ma sfruttato da pochissimi. E fu rapido il calcolo, la sofferenza di Noivern, convogliata tutta nei suoi nervi distrutti e nei suoi neuroni impazziti, si trasformò nella mossa Ondaboato più potente che gli fosse mai tirata fuori dagli avversari più pericolosi. Non solo il suono sovrastò quello di Ronzio di Volcarona, ma quasi riuscì a frantumare i timpani del suo Allenatore che non si trovava nella posizione acusticamente più favorita all’ascolto. Cassandra dovette coprirsi le orecchie e Volcarona rimase a terra, semiparalizzato. Si rialzò a fatica.
Noivern stanca e Volcarona pure.
‒ Siamo alla resa dei conti, lo sai no? ‒ domandò retorica Cassandra.
‒ Ne sono cosciente. ‒ rispose Xavier non più tanto farfallone come prima. Si era reso conto che era impaurito da quel lato nascosto un po’ sadico e perverso della Capopalestra e, nonostante avesse delle curve che la notte non lo avrebbero mai lasciato annoiare, prima mettiamoli in salvo e poi diamogli soddisfazione, agli zebedei.
‒ Era, adesso, Dragopulsar! ‒ provò per la terza volta il castano.
Il drago concentrò tutte le sue forze, un potente colpo di energia blu-violacea investì il nemico che ancora doveva riprendersi completamente dall’altra parte del campo.
Buio e silenzio, il bagliore delle fiamme draconiche scomparve così come la luce spontanea di Volcarona e nessuno emise suono per un istante. E poi la luce della sagoma del Pokémon di Cassandra che veniva fatto tornare nella sfera bianca e rossa. Rientrato, esausto. Xavier aveva vinto.
 
“Allora, sei entrata, c’era la musica, il tipo con gli occhi azzurri ti fissava… poi?”
“Ho bevuto…”
“Hai bevuto. Hai bevuto?!”
“Ho bevuto…”
“Celia! Hai quattordici anni, deficiente!”
“Scusa ma mi stavo annoiando!”
“Non hai scuse, bambina… non credo di poterti più aiutare.”
“No, cazzo, Avril, dai!”
“Eh no, capiscimi, sono la tua coscienza, tu fai stupidaggini e poi devo pagare al posto tuo…! Celia!”
La ragazza dai capelli chiari spalancò le palpebre, un fioco ricordo offuscato si era acceso come una fiaccola bagnata nella sua mente.
“Che cosa è successo là dentro…?”
“Aspetta.”
La stanza era stata rimessa a posto. I bagagli dei due ragazzi erano stati ricomposti e i letti rifatti, Celia quando era nervosa rimetteva a posto, ma la cosa che più le tornava difficile riposizionare nel giusto verso era la sua vaga memoria molto molto breve e in altri casi la sua morale discutibile. Camminando sulla moquette con la paura di andare avanti, raggiunse il letto. Indosso aveva una minigonna che aveva messo dopo aver fatto la doccia insieme a una normalissima t-shirt con qualche scritta idiota. Si concentrò nel suo compito, via l’intimo, controllo approssimativo degno di un ginecologo laureato in scienze politiche. No.
Sospiro di sollievo automatico e spontaneo. Non era successo quello che credeva. Sospiro di sollievo anche molto breve ed effimero. Ciò non verificava che comunque non fosse accaduto… altro.
“Quindi…? Il tipo ti fissava?” chiese Avril. Stronza, diretta, inadeguata ma decisamente necessaria.
 
“Non capisco ancora dove sia il problema.”
‒ Sai benissimo dov’è il problema…
“Non ne sarei così certo, da parte tua.”
‒ Xatu, lo sai che non va bene tutto questo.
Tegole per pavimento, da una parte il Pokémon Magico e poco di fronte a lui un ragazzo dai capelli bianchi conosciuto come Kalut ai pochi fortunati con un Venipede in spalla. Aria calda e frizzante ma piena di elettricità.
Kalut aveva pianto, aveva pianto molto dopo aver capito di essere un umano. E non ne capiva il motivo. Davanti a lui c’era un vaso, un vaso che conteneva tutte le informazioni che lui cercava e ne era certo come era certo che il sole non avrebbe mai smesso di splendere. Xatu lo aveva cambiato con poche parole e ancora meno azioni. Si era reso conto, aveva compreso che non parlava come loro, non pensava come loro e non agiva come loro.
Kalut era umano.
‒ E non so dove sia il problema! ‒ esclamò il bianco.
“Credi che io possa darti la risposta?” chiese Xatu.
‒ Da te è partito tutto, da te ho appreso che gli umani si fanno del male e si uccidono da soli! Perché ti sei dovuto intrufolare nella mia testa e dirmelo?! ‒ rispose quello.
“Sei tu ad esserne convinto, se sei tu a ripeterlo…” commentò il pennuto.
‒ Io… io…
La favello di Kalut si spezzò lì. Nulla di più nulla di meno. Solo un ragazzo che decise di sedersi a terra e pianse, pianse ancora mentre il sole della mattina inoltrata vegliava su di lui proteggendolo da lacrime che troppo presto si trasformavano in vapore.
“Riflettici, che cosa sai degli umani? Quanti ne hai conosciuti?”
‒ Potrei dirti di fare lo stesso, tu hai più esperienza di me…
“Ma io non sono umano, Kalut.”
Piume e voci interiori.
‒ E che cosa comporta ciò?
“Comporta che io non riuscirei a capire molte delle vostre azioni non potendo pensare come voi…
‒ Quindi devo essere io a guardare cosa fanno gli umani per capire cosa non va in me?
“Tu trai pena dall’essere un umano, tu imparerai a distinguere il dolore degli esseri umani.”
Kalut annuì lievemente restio. ‒ Hai ragione.
“Ti spiego, Kalut, io posso vedere molte cose… posso guardare dentro l’animo altrui e posso studiare il futuro e il passato di ognuno di noi.” Xatu si avvolse nel suo piumaggio come se fosse isolato dal resto del mondo. Notte, era sempre notte per lui. “Ma una cosa non ho mai compreso: la mente umana. È fuori dalla mia concezione di realtà, fuori da tutto. Potrebbe non esistere e potrebbe essere troppo semplice per essere compresa da un adulto. Resta il fatto che vedo cosa hanno fatto, cosa fanno e cosa faranno le persone… e non capisco perché.”
Kalut seguiva pendendo dal suo becco.
“Scoprilo, io sono stato mandato per essere il tuo custode e guidarti nelle tue scelte, non posso svelarti nulla, sono solo la tua guida e il tuo accompagnatore…” concluse Xatu. “Scoprilo.”

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Capitolo 17
*** Captitolo 16 - Crescita II ***


Capitolo 16 – Crescita II

 

Un Noivern ferito gemeva nella propria Ball, felice della vittoria ma sconfitto nel fisico. Un Volcarona distrutto riposava anche lui all’interno della sfera già attaccata alla cintura della Capopalestra. Un faro di luce potentissimo di accese in direzione di Xavier isolandolo nel suo cono di illuminazione mentre i neon si spegnevano facendo piombare gli altri punti della stanza nelle tenebre. Il ragazzo non si mosse, ma intuì che la castana che aveva appena sconfitto stava lentamente camminando verso di lui. Cassandra lo raggiunse, ma si fermò di fronte al suo avversario senza entrare nel cerchio di luce. Xavier si sentiva osservato, vulnerabile.
‒ Hai vinto, allora… ‒ pronunciò lei dopo un infinito silenzio.
‒ A quanto pare.
‒ E meriti una medaglia, giusto?
‒ Non sei tu l’esperta?
Cassandra sorrise. Finalmente l’Allenatore di Austropoli riuscì a distinguerne i tratti facciali. Quella donna per lui era un peperoncino nel riso bianco.
‒ Tieni, fai buon uso della medaglia Sole.
E il ragazzo rischiò di saltarle addosso con la delicatezza di un Tauros. La naturale scarica di testosterone raddoppiò e triplicò nuovamente nel momento in cui, davanti ai suoi occhi, Cassandra prese la medaglia che aveva spillato, come ogni Capopalestra è solito fare, al suo reggiseno.
E poi la attaccò alla maglia di un inerme Xavier che si costringeva a tener fermo ogni singolo muscolo del corpo.
‒ Vediamoci ogni tanto, se ti va… ‒ si congedò lei dando le spalle al ragazzo e ancheggiando via fino a sparire nel buio.
 
I bambini giocano, ridono e si divertono. I bambini non hanno ansie o preoccupazioni. I bambini vivono in modo semplice.
Ogni singolo passo numerato nella sua testa accresceva sempre più quel già gigantesco numero che Kalut aveva in mente. Contava i passi che muoveva sul suolo delle città, ne aveva tenuto il conto fin dal primo che aveva avanzato.
“Dove sei diretto?” domandò Xatu che seguiva il percorso del ragazzo comparendo silenzioso e magico accanto a lui man mano che andava avanti.
‒ Non ne ho idea?
“Che cosa vuoi fare?”
‒ Non lo so ancora…
“Senza una meta?”
‒ Senza una meta.
“Lo sai, una volta conoscevo un uomo…” proseguì il volatile. “Diceva sempre che viaggiare per scoprire il mondo è come esplorare noi stessi… e che sempre ci sarà qualcosa che non conosciamo.”
‒ Conoscevi un uomo?
“Ah, sì… lo sai, Kalut, io sono su questo pianeta da parecchi anni. Ho visto passare molti umani prima di te.”
‒ Ah sì?
“Ovviamente, sai qual è l’aspettativa di vita media di un Pokémon della mia specie?”
‒ Non essere banale, Xatu.
“Cosa?”
‒ Non essere banale. ‒ lo interruppe l’umano.
“Banale?”
‒ Sai bene cosa intendo, non sei un essere normale, vero?
“Dipende da cosa intendi per normale.”
‒ Insomma, per una specie come la tua che può muovere miliardi di miliardi di passi e sbattere altrettante volte le ali prima di morire, tu non sei comunque normale… ‒ spiegò con cognizione di causa.
“Ah…” Xatu rise. “Posso vedere il futuro e il passato di tutti gli uomini ma non posso divertirmi a scherzare con un ragazzino…”
‒ Dai, forza, raccontami della tua vita.
“La mia vita?”
‒ La tua vita.
“Va bene, nacqui in una terra molto lontana… in mezzo a uomini che indossavano maschere di legno pitturate e cantavano attorno a me. Per loro ero una specie di dio…”
 
‒ Celia, sono io.
‒ Sì lo intuivo, considerando che siamo le uniche due persone al mondo ad avere uno di questi cosi! ‒ rispose sarcastica lei.
‒ Simpatica, dimmi, sei ancora al Centro?
‒ Più o meno, stai tornando lì perché?
‒ Sì…
‒ Beh, mi trovi al parchetto vicino, quello con la fontana.
‒ Sto arrivando.
Due minuti trascorsero rapidi, Xavier comparve dietro alla testa biondissima della sorella, lei aveva intanto portato fuori dalla stanza, notò il ragazzo, i vari bagagli.
‒ Com’è andata? ‒ chiese lei. ‒ Oh. ‒ si rispose rivolgendo lo sguardo al castano che sfoggiava fiero la medaglia rossastra della forma di una sfera da cui si dipanavano quattro sagome somiglianti a delle ali di un Volcarona in direzione dei quattro punti cardinali.
‒ Ha un Magmortar, un Heatran e un Volcarona, uno più forte dell’altro, non ho la minima idea di come io abbia fatto a vincere, non hai idea di come tu non riuscirai a vincere ‒ sbrigò lui tutto d’un fiato sedendosi sulla panchina.
‒ Stronzo, vedremo.
‒ Ah sì, vedremo… ‒ ripeté enfatizzando particolarmente l’ultima parola.
‒ Scusa? Che cos’era quel tono?
‒ Eh, volevo chiederti… potresti passare alla palestra di Cassandra… tipo… un’altra volta?
‒ Eh? E perché mai?
‒ Oddio, puoi farmi un favore e basta una volta tanto?
Celia non accolse particolarmente felice la proposta, ma neanche rispose un no categorico.
‒ Che cosa ti serve, Xavier Levine?
‒ Celia, per favore, a te non costa niente e se vuoi alla prossima città lascio andare te per prima alla palestra, ok?
‒ Uff… ‒ incrociò le braccia. ‒ Fai come ti pare, al ritorno da Sidera alta torno qua e mi faccio una gita sul fiume dopo aver vinto anche la medaglia della tua amichetta ‒ si vinse in tono sprezzante.
‒ Grazie, sorella, ora dammi ‘sta roba e ripartiamo, ti va? ‒ propose lui riprendendo lo zaino.
I due ricominciarono a camminare fianco a fianco.
‒ Allora, quando siamo partiti tu sei andato a est e io a ovest, vogliamo scambiarci questa volta? ‒ Celia si regolava con la mappa di Sidera digitale sul PokéNet.
‒ Va bene, viaggiamo a X per la regione praticamente ‒ approvò il ragazzo.
‒Sì, quindi tu Alyanopoli e io Porto Acquario?
‒ Suppongo di… aspetta… ad Alyanopoli non c’è la palestra di quel deficiente che abbiamo incontrato… quello là? ‒ approssimò Xavier.
‒ Caspita, sì, Perseo.
‒ Io che cosa vado a fare nella palestra di uno che vende le proprie medaglie? ‒ chiese retorico il castano.
‒ E anche tu hai ragione. ‒ commentò Celia. ‒ Oh, vabbè, vogliamo andare entrambi a Porto Acquario?
‒ No. ‒ troncò la domanda lui.
‒ Perché?
‒ No vabbè, ho deciso che almeno un tentativo devo farlo, magari riesco a convincerlo a combattere, non penso che sarà totalmente privo di Pokémon, alla fin fine è pur sempre un Capopalestra…
Celia annuì senza rispondere a voce.
‒ Quando vogliamo partire? ‒ cambiò orientamento il ragazzo.
‒ Ah, facciamo pranzo insieme almeno?
‒ Ci sto.
 
‒ Aspetta un momento. ‒ Kalut interruppe Xatu tutto intento nella sua narrazione.
“Che succede?”
‒ Fammi dare un’occhiata…
Il ragazzo si era fermato davanti ad un pannello rettangolare a lato della strada, una mappa. “Voi siete qui” diceva il puntino rosso in mezzo alla strada che portava al sentiero campagnolo fuori dalla cittadina.
“Ah, quindi intendi scegliere la tua prossima destinazione?”
‒ Beh, tu più di tutti sai che devo trovare un luogo dove andare perché qualcuno non me lo dice. ‒ fece calcando particolarmente sul pronome.
“Che tono, fanciullo, che tono…”
‒ Dai, almeno puoi dirmi quanto ci metto approssimativamente ad andare da… Borgo Asterion a… ma sì, qua… Delfisia? ‒ chiese lui improvvisando un itinerario.
“Kalut…” si fece teorico dell’ovvio il Pokémon Magico. “Lì è da dove sei venuto…”
‒ Ah. ‒ Il ragazzo tornò alla sua ricerca. ‒ Idresia, voglio vedere Idresia. Sai dirmi quanto impiego?
“Circa sette ore di cammino.” sparò una cifra totalmente a caso il Pokémon che non fece affidamento per nulla ai suoi poteri di onniscienza per rispondere.
‒ Va benissimo, si parte ‒ decise il ragazzo.
“Ah, proprio così, su due piedi?”
Kalut si immobilizzò un istante. ‒ Ho per caso molto da preparare?
Il ragazzo aveva un paio di pantaloncini di qualche taglia in più, una maglia che tra l’altro non gli piaceva neanche troppo e due Pokémon al seguito. I suoi bagagli non erano poi così ingombranti.
“Aspetta, Kalut, guarda che è tanta strada, non vorrai mica camminare tutto questo tempo nel bosco da solo e… senza posti in cui fermarti…
Kalut sorrise. ‒ È proprio questo il punto…
Xatu rimase a becco aperto.
‒ Anzi, guarda un po’ il lenzuolo di stanotte mi fa pure comodo, andiamo un po’ a riprenderlo… ‒ e tornò indietro verso l’angolo in cui si era addormentato la sera prima.
 
 
‒ Come va il viaggio? ‒ Julie era leggermente fredda.
‒ Tutto bene, sono a Idresia e mi trovo a buon punto con le medaglie. Presto sarò tornato, piccola. Tu che fai invece senza di me? ‒ rispose Xavier.
‒ Mh ‒ la sua voce si ammorbidì un po’. ‒ Nessuna novità particolare oggi, ma i Deerling iniziano a cambiare pelo e quindi ci diamo da fare per pulire alla ben e meglio il giardino. ‒ rise lei.
‒ È parecchio caldo qua, io mi sono stancato dell’estate, voglio che ritorni il freddo…
‒ Ma scherzi?! Meno male che c’è ancora il sole… vorrei durasse fino a gennaio…
Intanto, Celia, faceva finta di studiare il suo PokéNet. Vicino a suo fratello occupato a parlare con la sua ragazza, in una tavola calda senza troppe pretese, a pancia piena grazie ad un pranzo pagato da lui. Le venne in mente di mettersi a scrivere, non aveva altro da fare, tanto.
Avril si fece viva: “Oh, allora?”
“No, non gliel’ho chiesto…”
“E perché mai?”
“So benissimo che non saprebbe rispondermi, e non voglio dargli problemi inutili… in più potrebbe dirlo a papà…”
“Celia, ti preoccupi troppo di queste…”
“Non è successo niente di niente con nessuno!” troncò lei. “Va bene?!”
“Ok, va bene…”
Celia sbatté violentemente una delle metà del diario sull’altra nel chiuderlo.
‒ Non avercela con i libri, sono così innocui, loro. ‒ commentò qualcuno vicino a lei.
La bionda si voltò. Un uomo pienotto di mezza età intento a leggere un volume piuttosto pesante le sorrideva dal posto adiacente.
‒ Oh, perdonami, io non…
‒ Non preoccuparti, era una battuta.
Celia sorrideva ebete. Si rese conto di aver già visto quel tipo, da qualche parte, lo aveva visto.
Quello distolse il suo sguardo dalle parole del libro.
‒ Sembri un’Allenatrice, sei in viaggio?
‒ Sì, con mio fratello ‒ rispose lei.
‒ Ah, beati voi ‒ commentò l’uomo alzandosi e lasciando sotto il piattino del caffè che aveva bevuto una banconota. ‒ Godetevi la gioventù. ‒ Si accinse ad andarsene. ‒ Adesso però anche io… devo partire. ‒ E facendole un occhiolino, si avviò verso la porta. La bionda salutò.
‒ Allora, partiamo?
Xavier aveva riagganciato dopo aver salutato Julie, il conto era stato pagato ed entrambi erano pronti a muoversi.
‒ Sì, immediatamente.
Uscirono da quel luogo, fecero un resoconto della situazione e si sistemarono per il viaggio.
‒ Allora, ascoltami che è importante ‒ cominciò Xavier scandendo bene le parole. ‒ Ora ti lascio dei soldi, la metà di quello che ho, va bene?
Celia annuì.
‒ Ma entrambi dobbiamo trovare un modo di racimolare qualche spicciolo, ok? Magari dai una mano a qualcuno, svolgi un compito per qualche ricercatore, non so… comunque non ci bastano questi per il resto del viaggio, dobbiamo averne altri. Evitiamo di rubare, magari…
‒ Va bene, poi ti dico se ci son riuscita, ok?
‒ Ok, brava Celia.
‒ È il caso che vada ora…
‒ Sì, pure io…
I due si separarono, una verso est, l’altro verso ovest.
 
Mezzo frutto in mano e mezzo nello stomaco, Kalut camminava mangiando e riacquisendo zuccheri dalla natura. Il sole batteva, ma vi era una brezza piacevole quel giorno. Al suo seguito zampettava Venipede e la presenza di Xatu era sempre e comunque percepibile.
Facile essere spaventati da un essere del genere e ancor più facile esserne affascinati. Il ragazzo era entrambi, ma camminava, verso un obbiettivo che neanche lui sapeva dove si trovasse. Per il momento conservava strette poche certezze.
La prima era che camminare scalzo in mezzo all’erba era diventato faticoso. La seconda era che una nebbia oscura si era fatta strada nella sua mente, un brutto presagio o una cattiva sensazione. I bambini vivono senza preoccupazioni.
Aveva capito che era tornato il momento di crescere.

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Capitolo 18
*** Capitolo 17 - Ribellione ***


Capitolo 17 – Ribellione

 

“Sta andando, è già per strada…” mormorò Xavier tra sé e sé.
Sul display del suo PokéNet, l’icona che indicava la posizione di Celia si muoveva lentamente, a passo d’uomo, verso il ponte che collegava Idresia alla parte orientale della regione. Quando la ritenne abbastanza lontana, si alzò dalla panchina su cui si era momentaneamente seduto. Cambiò direzione, si diresse verso la palestra dalla quale era uscito quella mattina. Si trovava a pochi isolati da lì ed era abbastanza semplice per lui orientarsi tra le strade di una periferia. Raggiunse la costruzione che da fuori appariva come un prefabbricato nero e squadrato e attese lì qualche istante a braccia conserte sul petto.
‒ Sei davvero così tenace? ‒ chiese ad un certo punto qualcuno alle sue spalle.
‒ No, davvero? Avevi ancora dei dubbi? ‒ rispose lui avendo riconosciuto la voce senza neanche voltarsi.
‒ Mh… tutto sommato, no. Ancora non mi hai mai dato opportunità di dubitarne ‒ sorrise quella.
Splendida, sotto il sole dei primi di settembre. Aveva i Ray-Ban che Xavier le aveva visto addosso al loro primo incontro e portava un paio di shorts che lasciavano veramente poco all’immaginazione più una maglietta con il lembo estremo attorcigliato appena sopra l’ombelico. Il castano non poteva negare di provare un attrazione fisica inarrestabile verso di lei, ma chi non avrebbe avuto l’acquolina in bocca davanti ad una fetta di torta al cioccolato. Purtroppo la sua anima gli avrebbe consegnato bollette su bollette di senso di colpa se avesse mai deciso di assaggiarla e quindi, per amor della propria integrità morale, si costringeva ad annusare soltanto il suo dolce aroma. Sempre, parlando della torta, s’intende.
‒ Più che tenace, cerco di essere gentile accompagnando una donzella verso la sua meta, le strade sono piene di malfattori, madonna ‒ fece ironico lui fingendo un tono di voce galante ed educato e tenendo un anta del portone da cui lei era appena uscita con fare elegante.
Cassandra rise: ‒ dai, muoviamoci, abbiamo molta strada da percorrere…
Lui porse il braccio, lei vi appese la sua tracolla. Lui sollevò un sopracciglio, lei sorrise sorniona.
‒ Sei gentile, madama ‒ ironizzò il castano.
‒ Non ti darò la mano, piuttosto, come stanno i Pokémon che ti ho massacrato?
Xavier rifletté un istante con la professionalità di uno specchio ricoperto di carbone in una discarica. ‒ Bene, si riprenderanno…
Cassandra si immobilizzò e voltandosi lentamente verso di lui lo fulminò con lo sguardo. Per un breve momento, il ragazzo penso di dover fuggire.
‒ Oh, che hai? ‒ chiese alla fine.
Mai domanda fu peggio posta.
‒ Non li hai portati in un centro Pokémon?
Xavier non rispose, scosse lievemente la testa ma non osò contrarre un muscolo in più. Probabilmente gli occhi di Cassandra riuscirono pure a fermargli il cuore nel lasso di tempo necessario per effettuare qualche battito.
‒ Sei uno scemo incosciente, porca puttana! ‒ esclamò lei spintonandolo. ‒ Come diavolo tratti i tuoi compagni di squadra, vai immediatamente al Centro più vicino!
La sfuriata della Capopalestra fu talmente convincente che il ragazzo, mormorando un “ok” docile come un bucaneve a dicembre che fa capolino dal manto candido, alzò le mani quasi fosse minacciato da un uomo armato.
 
‒ Se percorro questa strada, giungo a Idresia stanotte…
“Ricordi il percorso a memoria, Kalut?”
Il ragazzo dai capelli bianchi stava camminando a passo lento con i piedi sui fili d’erba e con il lenzuolo attorcigliato attorno al collo con un lembo sceso lungo la spalla a mo’ di cappa.
‒ Sì, me lo ricordo abbastanza bene.
“Anche se prendi un’altra strada, sai seguire le direzioni giuste?”
Kalut guardò Xatu. ‒ Un’altra strada?
“Quelli che tu ricordi sono i percorsi e le strade battute, tu hai preso la via del bosco” rispose il Pokémon.
Kalut annuì guardando nel vuoto.
“Stai andando a caso, non è così?” chiese allora il volatile.
‒ Sto andando a caso ‒ confermò quello. ‒ non è proprio la peggiore delle alternative, per uno che non ha una meta.
“Hai ragione. Ma ricorda che potresti fare degli incontri… inaspettati, passando per la macchia” gli ricordò Xatu.
‒ Lo so.
“Perché non ti piace calpestare lo stesso suolo che calpestano i tuoi simili?”
‒ Per favore, Xatu.
“Voglio saperlo, gli umani che ho conosciuto si sentivano più sicuri nel percorrere un sentiero già percorso.”
‒ Evidentemente, questi umani non avevano il senso dell’avventura… ‒ sdrammatizzò il ragazzo.
Xatu tacque alcuni istanti “sei sveglio per essere uno nato da poco…” disse poi.
Kalut scosse la testa e non rispose.
 
Hai appena incontrato una delle mie peggiori fisse, ragazzo, la tua squadra viene prima di tutto, prima di te e prima delle tue palle. La prossima volta che ti becco con un solo Pokémon di cui non ti sei preso cura, stai sicuro che ti consumo le guance a suon di schiaffi ‒ sussurrò decisa e categorica Cassandra da dietro il collo di Xavier.
Il ragazzo in primis ignorò la minaccia, ma poi la sua incoscienza gli ricordò di quanto fosse semplice la situazione e di quanto fosse d’obbligo cercare di giustificarsi: ‒ Non è che non volessi farlo, me ne sono dimenticato e avevo lasciato Celia da sola, volevo darle una mano a rifare i bagagli… ‒ provò a mormorare lui senza ricambiare lo sguardo della ragazza.
‒ Dimenticato? ‒ la risposta dell’imputato le diede sui nervi non poco. ‒ La mamma che dimentica a casa il bambino da solo col cassetto dei coltelli aperto non la passa liscia dicendo “ho dimenticato”! ‒ e qui scordò il silenzioso per un solo istante.
Tutt’ad un tratto, nel Centro Pokémon tutti fissavano loro: lui, rosso in viso e con una cintura delle Ball totalmente fuori posto considerando che la ragazza lo aveva, senza eufemismi, trascinato là dentro e lei, tutta rossa ma per altri motivi e con due occhi tali che se avesse iniziato a sputare fumo dal naso da un momento all’altro nessuno si sarebbe spaventato.
‒ Dovrebbero stare tutti meglio ora. ‒ E l’entrata in scena dell’infermiera del Centro ruppe ogni silenzio imbarazzante. ‒ Soltanto Noivern impiegherà un po’ di tempo a riprendere completa capacità di volo, lo strappo della membrana alare non è un danno facile da riparare, ma il suo Pokémon ha un ottimo fattore rigenerativo, noi le abbiamo dato i farmaci necessari e lei si rimetterà in sesto in qualche giorno ‒ assicurò la donna con grembiule e tiara da infermiera posando un vassoio con delle scanalature in cui erano state poste le tre Ball consegnategli da Xavier sul bancone.
‒ Gr...
‒ Grazie ‒ si precipitò Cassandra interrompendo il castano e prendendo le Ball al suo posto.
 
Ira Di Drago!
Dalle fauci del Gible fuoriuscirono bluastre fiamme di natura ignota che atterrarono il nemico Hawlucha.
‒ Che diavolo è preso a questi Pokémon, è già il terzo che ci attacca… ‒ si lamentò Celia. Il suo Pokémon Squaloterra aveva il fiatone, ma stava sfruttando quell’occasione per riprendersi un po’ dalle disavventure dei giorni precedenti, si era ripreso da poco tempo dall’incidente della caverna e non sarebbe stato facile raggiungere il livello degli altri compagni di squadra senza un po’ di sano impegno.
‒ Rientra, riposati un pochino, il prossimo spero che si veda bene prima di romperci le scatole – fece convinta la bionda.
Per un momento guardò il corpo esausto del Pokémon Lottalibera appena mandato al tappeto. Si chiese se fosse necessario nella sua squadra un Hawlucha. Pensò di no, camminò oltre.
La terza ora del pomeriggio era passata da un po’ e lei aveva appena oltrepassato il ponte, era sulla terraferma ma doveva percorrere ancora parecchia strada. A piedi.
 
‒ Allora, hai finito di guardarmi storto?
‒ Non ti sto guardando storto.
‒ Non sono della stessa opinione…
‒ Xavier!
Il castano sbuffò. ‒ Ok, va bene, scusa… avrei dovuto pensarci, mamma…
Cassandra, per la prima volta dopo l’incazzatura di due ore prima, accennò un sorriso. I due stavano camminando, lei aveva ripreso la sua borsa e guidava la coppia mentre lui seguiva tutto preso dal panorama.
‒ Tiè’ guarda qua.
Svoltarono un angolo e, come per magia, si ritrovarono di fronte al ponte ovest di Idresia. Xavier rimase a bocca aperta, non tanto per lo spettacolo che gli si era parato davanti quando per la titanica misura della struttura. Il gigantesco ponte che connetteva la capitale di Sidera alla metà orientale della regione era spuntato all’improvviso in mezzo al sobborgo modesto e poco monumentale in cui avevano camminato fino a quel momento; su di esso si spalleggiavano le numerose corsie di quell’enorme strada che era il decumano di Idresia.
‒ Quasi più grosso del Ponte Propulsione… ‒ commentò lui al precisissimo terzo secondo di ammirazione.
‒ No, non più grosso… ‒ ribatté Cassandra senza distogliere lo sguardo dall’obbiettivo.
‒ Dici?
‒ Dai, seriamente tu sei di Unima? Il Ponte Propulsione è gigantesco rispetto a questo…
‒ Mh… forse hai ragione.
 
‒ Dove sono?
“Che cosa cerchi?”
‒ Dove sono?
“Che cosa?”
‒ I Pokémon, dove sono?
“L’hai notato, allora?”
‒ Te ne eri già accorto?
“Io sono sempre al corrente di ciò che sta succedendo, tu piuttosto, hai impiegato parecchio prima di renderti conto dell’assenza di qualcosa.”
Kalut era salito su un ramo e osservava come un predatore tutto l’ambiente attorno a lui. Cercava una presenza, un qualcosa che gli dicesse che non tutte le creature erano scomparse. Si stava preoccupando seriamente. Stava scendendo il buio, il sole si accingeva a tramontare e il cielo si faceva roseo.
‒ Xatu, che cosa significa che sei sempre al corrente di ciò che sta succedendo di preciso? ‒ domandò azzardando un pelino di più Kalut.
“Significa quel che significa, ti ho detto che posso vedere qualsiasi cosa che appartenga alla nostra realtà…”
‒ E perché… ‒ il ragazzo saltò giù dal ramo. ‒ Riesci ad essere così calmo?
“La domanda è: perché tu sei così agitato?”
Kalut sbuffò. ‒ Non ne ho idea, sento agitazione dentro di me, sento come se ci fosse qualcosa che non va! ‒ esclamò.
“Se c’è qualcosa che non va, scopri di che cosa si tratta.”
‒ Facile per te, io non so da dove cominciare, capisci? So che c’è un problema e che camminare per un pomeriggio in mezzo ai boschi e non riuscire ad incontrare nemmeno un esemplare di niente assoluto mi sembra un pochino strano ‒ spiegò il suo punto di vista il ragazzo.
“Ti capisco, Kalut, per questo penso tu debba almeno provare a cercare la causa di questo strano fenomeno.”
Il bianco fisso per un lungo istante Xatu. Era convinto, ma non aveva la più pallida idea di come cominciare.
‒ Sono partito da… ‒ si guardò a destra poi a sinistra. ‒ Là. ‒ stabilì indicando un punto disperso alle sue spalle. ‒ E sia ieri sia stamattina presto mi pare di aver visto dei Pokémon…
“Ciò vuol dire…?”
‒ Ciò vuol dire che il problema esiste solo da queste parti, e se esiste solo da queste parti significa che ciò che l’ha causato si trova qui vicino, nessuno ce la farebbe a far sparire un intero ecosistema di Pokémon da lontano, giusto?
“Non fa una piega.”
‒ E quindi, non ci resta che andare avanti, esattamente come stavamo facendo prima ‒ concluse infastidito e lievemente seccato riprendendo il passo.
Xatu rimase immobile per qualche istante.
“Kalut, devo dirti una cosa…” lo fermò. “Capisco che tu non ti trovi bene in mezzo agli umani, va benissimo, ma ricordati che una buona indagine può essere condotta solo tenendo conto di ogni anomalia senza poter credere alle conseguenze in alcun caso. E gli umani, quelli che tanto ti infastidiscono” scherzò “hanno i più efficienti ed istantanei mezzi di comunicazione esistenti.”
Kalut non si mosse.
“È un suggerimento, il mio.” Precisò Xatu.
‒ Muoviamoci ‒ il ragazzo riprese il cammino.
 
“Siamo usciti da Idresia, siamo diretti verso Alyanopoli e siamo più o meno a metà percorso. Non devo dare nell’occhio, lui non deve farsi domande.”
‒ Pensierosa? ‒ domandò il castano.
‒ No, sto solo riflettendo su come accamparci e nel caso dormire un po’ ‒ rispose Cassandra.
‒ Oh, hai ragione, vedo se nei paraggi c’è un qualche Centro Pokémon ‒ si mosse Xavier.
‒ Mh, bravo ‒ sorrise lei.
Stavano camminando da un bel po’ avevano parlato del più e del meno, lui le aveva raccontato più o meno la sua vita e lei aveva tirato fuori qualche aneddoto qua e là. Le era stato insegnato che per conoscere qualcuno per bene bisognava dare poche semplici informazioni su di sé per far prendere confidenza e poi lasciarlo parlare. Fino a quel momento era andato tutto bene.
‒ Ecco, dovremmo incontrarne uno tra… un chilometro, si fa, dai ‒ propose l’Allenatore.
‒ Si, va bene, diamoci una mossa che ho davvero fame! ‒ esclamò quella.
‒ Non aspettarti troppo, in un Centro al massimo trovi qualche barretta al distributore ‒ la mise in guardia il realista Xavier.
‒ Sono fiduciosa, magari è un Centro ben fornito
Il castano scrollò le spalle.
 
Celia aveva le gambe a pezzi, non si era mai fermata. Aveva camminato l’intero pomeriggio. Dopo quell’esperienza un po’ stramba di scontri contro Pokémon selvatici inquieti vantava un Gabite in più in squadra e un sonno che le pesava sotto le palpebre e sui glutei come un blocco di granito. Ma tutto sommato era soddisfatta.
“Nessun Centro Pokémon nel raggio di… tanto, per raggiungere quello più vicino dovrei arrivare a Porto Acquario…” si lamentò con se stessa guardando la mappa sul display del PokéNet.
“E’ il caso di mettere in pratica le nozioni di Marcos su come si montano le tende da campeggio?” chiese Avril.
Celia gettò le borse a terra nel primo angolo sicuro e lievemente isolato che i suoi occhi videro.
“Se monto la tenda, muoio” espresse come assioma eterno e incorruttibile della sua vita, la ragazza.
“Bello.”
“Sacco a pelo” disse a Avril. “Ho bisogno di dormire.”
E così fu, tirò fuori il suo sacco a pelo, lo stese, mise Gel che aveva sonnecchiato nella Ball per tutto il giorno a guardia di quel luogo e gli ordinò di scambiarsi con Karma a metà nottata e si addormentò quasi subito stringendo la sua borsa come un cuscino.

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Capitolo 19
*** Capitolo 18 - Fatica ***


Capitolo 18 – Fatica

 

Notte inoltrata. L’orologio segnava l’una e sette minuti.
Il mite frinire delle cicale proveniente dall’esterno aleggiava nell’aria insieme ad un dolce e delicato aroma di vaniglia. La voce dello speaker del programma televisivo PokéNights accompagnava le testimonianze in diretta degli inviati della trasmissione che in quel momento si trovavano nelle più disparate località del mondo mentre sullo schermo passavano le immagini. Le lampade emettevano una luce particolarmente intensa, e una debole aria condizionata rinfrescava l’ambiente.
La Galleria di Transito, o Varco, come erano soliti chiamarla quelli del mestiere, era calma quella notte. Juan, addetto alle pulizie, passava lo straccio a terra con la voce di Mirta come sottofondo. La donna era solita raccontare storie durante i loro turni di lavoro mentre si improvvisava estetista e operava sulle proprie unghie armata di smalti e lime. Lei era la prima operatrice lì dentro, si occupava delle informazioni, dell’accoglienza e nei suoi incarichi rientrava pure quel minimo di controllo necessario in un Varco. Tutto questo, solo durante il suo turno di notte.
‒ Raccontano tante cose su di lei, si dice che sia stata pure un membro del Team Magma tanto tempo fa, ma sembra che si tratti di voci infondate ‒ fece lei.
‒ Mah ‒ borbottò Juan posando per un istante il manico dello straccio. ‒ penso che molte delle cose che girano siano false, spesso questi sono soggetti creati proprio dal marketing, il mercato delle Gare Pokémon ha sputato fuori tantissima gente che magari è lì solo per il suo bel faccino… ‒ spiegò.
‒ Beh, lei non è brutta proprio per niente ‒ ribatté l’altra.
‒ Direi di no ‒ approvò ridendo.
‒ Ah, mannaggia, dovrebbe stare in TV, tra poco c’è una diretta sul festival di… Cuoripoli, ecco! ‒ esclamò Mirta afferrando il telecomando.
PokéNights scomparve, la donna cominciò a scorrere tra i canali sullo schermo che per lei era in una posizione assolutamente di favore, essendo sospeso di fronte al suo bancone.
‒ E vediamola, dai… ‒ fece gioviale pure Juan.
‒ Eccola. ‒ Mirta si fermò sul sesto canale.
Sulla TV apparve il palco meraviglioso della più famosa Arena delle Virtù di Sinnoh addobbato a festa, gli spalti pieni e i riflettori puntati su una bellissima donna con in mano un microfono. Camelia, supermodella e Capopalestra di Unima chiamata in veste di conduttrice della serata. La trasmissione era appena iniziata, erano ancora alle presentazioni.
‒ Ora dovrebbe salire sul palco? ‒ chiese Juan.
‒ Shhh… ‒ lo zittì Mirta.
Tra le ovazioni calorose e gli effetti di scena, salì sul palco Rossella, diva nel mondo delle Gare Pokémon dell’anno e personaggio più amato dalle riviste e dalle trasmissioni televisive. Almeno in quel periodo. La ragazza cominciò ad esibirsi, le sue coreografie armoniose e piene di grinta stregarono totalmente il pubblico che si zittì per gran parte dell’esibizione esplodendo letteralmente nei momenti di acme.
‒ E’ bravissima… ‒ commentò a mezza bocca Juan.
Distogliendo lo sguardo dallo schermo poiché attirata istintivamente dalle parole dell’uomo, Mirta si rese conto che i due non erano più soli in quel Varco. Un ragazzo dai capelli bianchi con uno Xatu e un Venipede al suo seguito aveva appena messo piede nella galleria.
‒ Salve ‒ salutò quella.
Juan pure si rese conto della presenza e riprese atteggiamenti più adatti ad un galantuomo quale lui, riprendendo in mano lo straccio e liberando il passaggio al pellegrino. Kalut non reagì subito, teneva gli occhi fissi anche lui sullo schermo e una mano sullo stipite destro della porta.
‒ E’ gradevole l’aria, stanotte ‒ avanzò gioviale Mirta adempiendo al suo compito di dispensatrice di sorrisi e buon umore.
Ancora silenzio.
“Forse è il caso che tu risponda…” ipotizzò Xatu nel cervello del ragazzo.
‒ Sì. Si sta bene ‒ fece lui atono.
‒ Oh, beh… c’è qualcosa che posso fare per lei o è soltanto di passaggio? ‒ proseguì la donna.
‒ Cerco un bagno ‒ rispose Kalut.
Mirta inizialmente rimase un pochino scossa dal modo di fare passivo e schivo del soggetto, ma poi, ripresa in mano la ragione, indicò stancamente col braccio in direzione della toilette.
Kalut si mosse e scomparve dietro la porta con la scritta WC qualche secondo dopo, rimasero indietro i suoi due Pokémon che come una scorta di bodyguard si stabilirono presso l’uscio.
“Non metterci troppo” si raccomandò telepaticamente Xatu.
Kalut non rispose, non poteva, non era capace di parlare con la mente alle altre persone.
Un minuto e il ragazzo fu fuori, stavolta Mirta non provò neanche a bisbigliare qualcosa, zitta zitta pensava al suo smalto come Juan che aveva quasi terminato con le pulizie del pavimento e di lì a poco avrebbe iniziato con la cura delle piante.
Kalut si sedette su una poltroncina di simil-pelle, socchiuse gli occhi e aguzzò le orecchie. La televisione e il suo gracchiare fastidioso non erano proprio una manna dal cielo per lui, non riuscì a captare alcunché di interessante.
“Stai prendendo le mie indicazioni troppo alla lettera, ripassa quello che ti ho detto” suggerì Xatu.
Kalut sospirò per far comprendere al suo compagno che era in ascolto.
“Non parlarmi, e lo stai svolgendo bene…”
Kalut incrociò le braccia.
“Sii discreto, ma era troppo difficile per ora…”
Kalut inclinò la testa.
“Cerca informazioni, e ciò ti autorizza a fare delle domande a qualche altro umano, non sei in fuga da nessuno e non sei un criminale, ricordalo, sei solo in incognito” completò il Pokémon.
Kalut si alzò in piedi.
‒ Potrei per caso… ‒ fece rivolto a Mirta. ‒ …cambiare canale?
“Bravo, bella trovata!” approvò Xatu.
‒ Oh, certo ‒ rispose la donna porgendo il telecomando al bianco.
Kalut non impiegò molto a capire come funzionasse e, spingendo un tasto a caso, finì sul canale otto.
“Hai toppato, solo televendite…” mormorò il Pokémon Magico.
Spinse un altro pulsante: quinto canale
“Film di scarsa qualità, niente da fare neanche qui…”
Riprovò: canale tre.
“Qua sembra decente” approvò Xatu.
Kalut sbuffò, solo per far giungere al Pokémon la sua sensazione di fastidio. Intanto sullo schermo una presentatrice vestita elegantemente, seduta ad una scrivania e rivolta verso la telecamera, introduceva delle notizie mentre i titoli riassuntivi passavano in una striscia di colore scuro sotto di lei.
‒ Il notiziario? ‒ domandò retoricamente Mirta.
‒ Sì ‒ fece con prontezza Kalut.
 
“Che palle…” pensò Xavier. “Ha preso la seconda stanza…”
Lui e la Capopalestra di tipo Fuoco di Idresia erano giunti al Centro Pokémon che avevano scoperto essere adibito anche a rifugio per i viaggiatori e si erano rifocillati a dovere, ovviamente il ragazzo non aveva potuto pagare il conto a entrambi e fare lo splendido e si era accontentato di spartire la spesa. In seguito avevano preso due stanze, su scelta casta e pudica di Cassandra, in cui passare la notte.
Il castano si trovava sul balconcino sul tetto del centro, l’aria era gradevole e nulla era troppo caldo o troppo freddo. Settembre. Portava i pantaloncini che aveva messo di giorno ma a coprire il suo petto e il suo addome vi era solamente una canotta di riciclo e di un colore mezzo sbiadito che utilizzava per dormire. Fissava il cielo che da Sidera era sempre stato uno spettacolo unico, una tempesta di minuscoli puntini luminosi appiccicati al telone nerastro del firmamento, in particolar modo da una zona priva di luce artificiale come la terrazza di un Centro Pokémon immerso nella natura.
‒ Come sei nostalgico stasera… ‒ commentò Cassandra entrando in scena di soppiatto. ‒ …mi ricordi un film di merda.
‒ Simpatica, c’è un bel cielo stasera ‒ evitò l’ironia Xavier.
‒ Mh, hai ragione.
‒ Ah, allora anche tu hai un cuore.
E Cassandra non ribatté.
‒ Che cavolo ci fai qua fuori a quest’ora? ‒ domandò il ragazzo ad un certo punto.
‒ Potrei farti la stessa domanda.
‒ Io non ho particolarmente gradito quei molluschi che abbiamo mangiato a cena… o meglio: io sì ma il mio stomaco no ‒ spiegò lui.
‒ Ma no, li hai seriamente mangiati? ‒ chiese la ragazza con un velo di critica.
‒ Perché?
‒ Erano stati scongelati, si vedeva benissimo, io evito sempre la roba surgelata, soprattutto nei centri Pokémon in cui non conosci l’età dei prodotti che ti passano.
Xavier non ribatté.
‒ Io invece volevo solo farmi una sigaretta.
E davanti al ragazzo, Cassandra prese il pacchetto bianco e argentato che aveva in tasca, ne estrasse una sigaretta e se la portò alla bocca. La accese con un clipper nascosto nel pacchetto stesso.
‒ Non posso mai fumare quando sono in servizio e la cosa mi dà si nervi… ‒ spiegò lei.
Ma Xavier aveva già imboccato un’altra strada, essendosi girato solo alla parola “sigaretta” di Cassandra, solo in quel momento aveva notato che la ragazza era uscita con un leggerissimo e cortissimo vestitino da notte con le spalline sottili e che a mala pena copriva l’inguine. Il possesso di sé stava venendo posto ad una dura prova da parte di quella ipnotica mise in cui si era fatta trovare lei, o meglio, dalle grazie che quella mise copriva.
‒ Oh, ci sei? ‒ chiese Cassandra passati i due minuti di standby del cervello del castano.
‒ Più o meno ‒ rispose quello ancora ben poco presente.
‒ Oddio, voi uomini, tutti identici… ‒ commentò quella.
‒ Scusa? ‒ chiese lui risvegliandosi leggermente da quella fase di vuoto.
‒ Niente, niente ‒ fece Cassandra. E tirò un’altra boccata.
In quel momento cambiò il vento, e l’aria cominciò ad alitare in faccia a Xavier insieme al fastidioso odore del fumo.
‒ Puoi spostarti? ‒ chiese lui non godendo particolarmente della discutibile aroma.
‒ Sì.
E i due si scambiarono di posto.
‒ Cerca di non fumarmi addosso ‒ raccomandò il ragazzo.
 
“Stai guardando quel TG da mezz’ora, possibile che ancora non abbia trovato nulla?”
Kalut si sciolse le spalle.
“Forse, se non riesci a trovare quello che tutti conoscono, prova a cercare quello che non tutti vedono…” tirò fuori in qualità di perla il volatile.
Kalut non rispose ma fece intendere al compagno l’inutilità di tale frase in quel momento.
‒ Dovrei chiederle un’informazione ‒ fece il castano rivolto a Mirta.
‒ Oh, certamente, dica
‒ Lei sa se ci sono stati dei problemi con i Pokémon di questa zona?
Quella rifletté alcuni istanti prima di rispondere: ‒ No, non che io sappia… ‒ rispose poi.
“Quello che non tutti vedono” ripeté Xatu.
Kalut si arrabbiò. ‒ Arrivederci, buon lavoro ‒ salutò entrambi i soggetti sotto quel Varco e ne uscì dal lato che indica l’ovest.
Quando fu fuori da quel luogo si sentì autorizzato a parlare di nuovo con il suo accompagnatore: ‒ Cioè, non dovevo cercare lì le informazioni? ‒ chiese lievemente seccato.
“Ah, io non posso dirtelo mica… ma fossi in te non accenderei di nuovo la TV” proferì il Pokémon Magico.
‒ Proviamo un’altra strada… ‒ commentò soltanto Kalut rassegnato.
Era tardissimo, la luna piena fiera in cielo in prima riflessione scrutava da lontano il mondo e le sue forme di vita possedute in quel momento dal più profondo baratro divino e accogliente. Eppure il ragazzo dai capelli bianchi non sentiva il bisogno di dormire. Ancora, almeno.
 
Xavier fissava il suo zaino chiuso e abbandonato nell’angolo della cuccetta. Gli aveva dato particolarmente fastidio scoprire che Cassandra fumava. Non sapeva perché e non sapeva per come, ma conosceva cosa era capace di fargli immediatamente cambiare opinione su qualcuno e tra questi fattori vi era la dipendenza dal fumo. Eppure, avendo abitato in una grande città in cui le persone ricorrevano a tutto pur di iniettarsi un pochino di relax nelle arterie, sapeva come fosse avere persone che fumano attorno quasi ogni giorno ad ogni ora.
Dormì amaramente per quella notte.
 
Il mattino giunse.
Una nuova luce sorse sopra i tetti di Sidera e una nuova giornata entrò con i moderati applausi del pubblico.
‒ Diario! ‒ esclamò Celia svegliandosi di soprassalto anche se in orario biologicamente corretto. La ragazza si rese conto che la notte era finita assieme al riposo concesso e che lei non era affatto riposata. In più, aveva preso coscienza del fatto che da ben due giornate lei non aggiornava i suoi pensieri scritti sulla barretta di cioccolato.
Sonno? Pokémon? Diario?
Ovviamente la bionda afferrò il taccuino da dentro la sua borsa ancora infilata nel morbido sacco a pelo. Cominciò a scrivere, le parole vennero fuori inizialmente con difficoltà e verso la fine in maniera molto più semplice.
Le sue palpebre cadevano e i suoi muscoli imploravano pietà, ma la sua fede in se stessa le diceva altro. Finì di scrivere, aveva riempito la pagina con un flusso di incoscienza puro e spontaneo che ovviamente ritrovava la sua voglia di esistere lacunosa nella calligrafia dell’autrice.
Poi il suo corpo non resistette ancora, Celia tornò a dormire.

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Capitolo 20
*** Capitolo 19 - Pigrizia ***


Capitolo 19 – Pigrizia

 

Xavier e Cassandra si stavano muovendo da una ventina di minuti, la mattina era giunta come una vecchia vicina che passa a chiedere lo zucchero e i due si erano alzati più o meno alla stessa ora. Colazione veloce con una brioche e un cappuccino per lei, un caffè al ginseng per lui, quindi via verso nuove entusiasmanti avventure.
Il castano camminava guardandosi le punte dei piedi e la Capopalestra lo seguiva giochicchiando con la Poké Ball che aveva in mano.
‒ Secondo te quanto manca ancora? ‒ domandò lei.
‒ Non lo so ‒ rispose lui.
‒ Dai, più o meno… ‒ ribatté lei.
E Xavier sapeva di star sprecando tempo, di avere a disposizione qualche momento felice di castissima e purissima convivenza con quella ragazza non poco attraente che camminava seguendo i suoi passi e di non starli sfruttando. Ma non aveva idea di che cosa causasse ciò. Forse la caffeina non era ancora entrata in circolo, forse aveva dormito meno di quanto pensasse, forse aveva camminato più di quanto credesse il giorno prima, fatto sta che il sentiero che percorreva gli sembrava esattamente uguale a se stesso e quei minuti di movimento gli erano parsi ore.
‒ ‘Spe… ‒ di malavoglia il castano accese il PokéNet, immediatamente lo schermo gli mostrò la posizione della sorella ferma immobile dall’altra parte della regione, lui non ci fece caso e spostò la focalizzazione del mappa digitale sul tratto che avrebbe dovuto percorrere per giungere ad Alyanopoli. La malinconia della terza serie di flessioni in una sessione piramidale lo prese. Vedeva tanta, troppa strada davanti a se e ai suoi poveri crociati doloranti, talmente tanta che non inserì neanche le coordinate del percorso per verificarne la durata e non diede neanche un responso alla Cassandra impaziente quanto lui, si limitò ad un gemito inumano che doveva simulare un “tanto”.
‒ Senti, io oggi non ho proprio voglia di camminare tutto il giorno… e penso neanche tu… che ne dici se ci fermiamo e almeno per stamattina ce la prendiamo comoda? ‒ propose lei.
Xavier, flemmatico, si voltò. ‒ Tu sì che mi capisci… ‒ sussurrò.
‒ Ci dovrebbe essere un laghetto qui vicino, controlla un po’ sul tuo orologio fotonico ‒ proseguì quella con le proposte allettanti ma col viso ancora martoriato dal sonno.
 
‒ Non tutti dormono di notte… ‒ commentò infastidito Kalut.
Su consiglio del suo Pokémon accompagnatore, Xatu, si era adagiato ai piedi di un’alta quercia cercando di chiudere gli occhi. Eppure la cosa gli riusciva fin troppo difficile. Non sentiva il bisogno di riposare una volta calato il sole, ma quasi controvoglia aveva deciso di dare fiducia a una delle frasi del volatile che, come diceva sempre, conosceva gli umani da molto più tempo di lui.
‒ Non tutti dormono di notte… - ripeté.
“Kalut, ci sono umani con abitudini differenti dagli altri, io ti ho solo fatto sapere la regola generale…” disse Xatu.
‒ Quindi sarei io ad avere abitudini differenti? ‒ chiese con lo stesso tono il ragazzo ancora avvolto a braccia conserte nel suo lenzuolo bianco rubato e con lo sguardo imbronciato fisso davanti a sé.
“Beh, dalla media… sì.”
‒ E secondo te perché?
“Sta a te capirlo, Kalut.”
‒ Sei cosciente del fatto che mi hai detto che sta a me capire un’enormità di cose e non ho neanche la più pallida idea di che cosa dovrei scoprire, da che cosa dovrei partire, che cosa ci faccio qui.
“Che cosa ci fai qui? È una domanda che tutti si pongono almeno una volta.”
‒ Ah, bene… e per questo anche io…
“Kalut, tu non sei come tutti gli altri, spero tu lo sappia…”
‒ Dovrei saperlo?
“Non hai genitori, non sei nato… tu, Kalut, sei esistito.”
‒ Che cosa significa?
“Gli esseri umani sono semplicemente animali molto evoluti, al contrario di quello che si convincono di essere… loro nascono, crescono, vivono finché non trovano qualcuno con cui condividere la propria esistenza, a quel punto generano altri esseri umani che cresceranno a loro volta mentre i loro genitori moriranno…” spiegò Xatu.
‒ E io invece…?
“Tu non sei mai nato, ragazzo: un momento prima non c’eri, un momento dopo c’eri.”
‒ Spiegami, significa che la mia non è una vita?
“No.”
Xatu tacque per qualche istante.
“Vedi, ci sono delle forze eterne a questo mondo che sembrano inarrestabili… delle forze superiori che tutti temono e che tutti venerano, forze che a volte l’uomo, come essere imperfetto, pensa anche di aver inventato e fa finta di dimenticare…” riprese solenne il Pokémon Magico. “Altre forze invece, per quanto presenti, sono destinate a morire… io sono una di queste forze per quanto potente e longevo, io un giorno conoscerò la mia fine.”
‒ E che cosa c’entra questo?
“Beh, volevo spiegarti che tu, invece, sei un caso eccezionale… tu semplicemente non avrai termine, perché non hai avuto inizio.”
Kalut rifletté sulle parole della saggia creatura. Chiuse gli occhi, tacque e fece finta di dormire per ingannare se stesso.
‒ Xatu, puoi farmi un favore? ‒ chiese Kalut.
Il pennuto gli dette attenzione.
‒ Possiamo rimanere qui oggi? Non ho voglia di muovermi…
 
Celia era in piedi, occhi stravolti, capelli scompigliati e muscoli a pezzi. Ma rifaceva i suoi bagagli ricomponendo il suo sacco a pelo e il suo zaino.
“Perché ho camminato così tanto ieri, Avril?”
“Non lo so, magari hai rotto il fiato ed eri troppo pensierosa per renderti conto che non era il caso di continuare a quel ritmo…soprattutto con i numerosissimi Pokémon selvatici inquieti che si trovavano in giro…”
“Non mi sono neanche costretta, è come se fossi caduta in un sonno in movimento e avessi continuato ad andare avanti alla cieca.”
“Controlla dove siamo, piuttosto.”
E in quel momento la capacità esclusiva femminile di pensare a due o più cose contemporaneamente permise alla ragazza di comporre con decenza un bagaglio da viaggiatrice con una mano e di controllare il PokéNet al suo polso con l’altra.
“Siamo quasi a metà strada.”
“Perfetto.”
“Che ne dici, prossimo Centro Pokémon doccia e latte al cacao, così facciamo colazione?”
“Facciamoci del male, ci sto.”
 
Il lieve scrosciare di una cascatella e il frinire delle cicale erano il sottofondo melodioso di quel panorama naturale. La distesa d’acqua così limpida da far intravedere ogni singola pietra sul fondo, pochi e quieti Goldeen nuotavano timidamente vicino al fondo mentre dei piccoli gruppi di Surskit pattinavano sul pelo dell’acqua. Un piccolo laghetto, con due torrenti, uno che lo riforniva di acqua scendendo dal monte e l’altro che lo svuotava allo stesso ritmo dalla parte opposta.
‒ Che roba, eh? ‒ commentò Cassandra.
‒ Cazzo, bellissimo… ‒ approvò Xavier.
‒ E dove li trovi questi posti ad Austropoli?
‒ Infatti…
I due si appostarono, la ragazza tirò fuori dal suo zaino un asciugamano in microfibra che ripiegato era fin troppo discreto mentre con le sue dimensioni avrebbe fatto tranquillamente da coperta per un letto singolo, lo stese ad un angolo dello specchio d’acqua in perfetta corrispondenza dei raggi di sole. Dolcemente si adagiò sul tessuto che aveva assunto le forme del manto erbaceo sottostante e sistemò gli occhiali da sole.
‒ Non è più aria da spiaggia, sorella ‒ scherzò il castano.
‒ Beh, io direi di goderci questo sole finché ce l’abbiamo, e poi ti ricordo che è ancora estate, fratello ‒ lo imitò sarcastica.
‒ Piuttosto, ripetimi un po’ qual è la tua meta ‒ azzardò lui.
‒ Prima vengo con te ad Alyanopoli, no?
‒ Mh-mh, ma perché sei venuta con me, qual è la tua reale destinazione? ‒ avanzò ulteriormente il ragazzo.
‒ Beh, penso che andrò alla Lega a parlare con Antares. Lo sai, quella problema di cui abbiamo discusso l’altro ieri… ‒ fece lei.
‒ Vuoi che venga con te?
‒ No ‒ rispose precipitosa. ‒ Non occorre, non preoccuparti.
Il ragazzo annuì e si sedette sui fili d’erba.
‒ Secondo te come sarà l’acqua? ‒ domandò ad un certo punto cambiando discorso.
 
Il bancone liscio e pulito da poco del bar del Centro Pokémon con i porta-bustine-di-zucchero e i dispensatori di tovagliolini ricordavano alla bionda le stazioni di servizio che incontravano lungo l’autostrada quando lei, Xavier e Marcos scappavano da Austropoli per una gita del weekend. Il cappuccino e il croissant erano stati benzina per il suo corpo, pagò e lasciò a malincuore quell’oasi di calma e tranquillità.
‒ Controlliamo un po’ dove si trova il fratello…
La mappa del suo PokéNet mostrava un puntino sperduto in una zona anonima a metà strada tra Idresia e Alyanopoli, fermo. Incuriosita, Celia cliccò sul puntino e immediatamente comparve davanti a lei una finestra che descriveva la zona circostante.
Rimase stupita, vide l’immagine di un laghetto e accanto una scheda minuziosa e dettagliata nella quale comparivano persino i riferimenti alle specie Pokémon che vi si potevano trovare. Allietata da quella novella scoperta, riprese il passo con un mezzo sorriso in più.
 
Kalut aveva finalmente chiuso gli occhi, Venipede riposava ancora quieto al suo fianco e qualche Fletchling cinguettava nella sua zona. Xatu apparve accanto al ragazzo addormentato con delle bacche tra le ali e un Growlithe al suo seguito, quest’ultimo aveva iniziato a seguirlo dopo averlo visto muoversi tra le foglie del suo albero preferito cogliendone i migliori frutti. Il Pokémon Cagnolino fu immediatamente catturato dalla presenza dell’umano a cui lo aveva condotto il pennuto e, come tipico della sua specie, si accovacciò appresso ad uno dei fianchi di Kalut, in primis per capire se questo fosse vivo captandone il calore e poi per condividere un po’ del suo calore con lui.
Con un gemito il ragazzo dai capelli bianchi uscì dal perfetto equilibrio del suo sonno a causa del sopraggiungere di quell’essere accanto a lui.
“Shhh…” lo chetò Xatu riconcedendogli la quiete e il sonno per mezzo dei suoi poteri psichici.
Il Pokémon lo osservò per qualche istante riprendere una posizione comoda e tornare all’immobilità.
“Sciocco come un umano…” commentò poi tra sé e sé. “Ha un potere enorme e non se rende neanche conto.”

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Capitolo 21
*** Capitolo 20 - Impazienza ***


Capitolo 20 – Impazienza

 
Xavier si trovava in un limbo tra il sonno e la delicata veglia. Non riceveva stimoli e non avvertiva quasi la sua forma materiale, solo un caldo raggio di sole che lo teneva attaccato al suolo fresco sembrava connetterlo alla realtà effettiva. Silenzio. Pace. Tranquillità. I suoi Pokémon assieme a quelli della Capopalestra riposavano pure loro sull’erba soffice. Così anche Cassandra che sdraiata poco distante da lui teneva le mani incrociate dietro la nuca. E anche lei taceva. Ah no…
‒ Raccontano un mucchio di storie… ‒ disse ad un certo punto la ragazza. ‒ Su Hoenn, dico.
Il castano rispose quasi controvoglia: ‒ Eh, che significa?
‒ Lo sai, no? Il cataclisma scampato a seguito delle lotte tra Groudon e Kyogre, il mostro del Parco Lotta… raccontano un sacco di storie su quella regione…
“E perché ne stiamo parlando?” si chiese mentalmente Xavier, ma la sua vera frase fu: ‒ Sì, è parecchio lontana da qui, ma ho sentito qualcosa, secondo me sarebbe strano viverci.
‒ Dipende da che cosa intendi per “strano” ‒ fece Cassandra.
‒ Mah, generalmente qualcosa di positivo, tipo che sarebbe figo viverci ‒ Il ragazzo corresse il tiro. ‒ Beh, dei titani che si combattono in mezzo al mare evocando l’apocalisse sicuramente la rendono una regione interessante.
Cassandra sorrise appena. ‒ Dicono che ci siano degli Allenatori molto bravi, in perfetta sintonia con i Pokémon… hai mai sentito parlare dei Pokédex Holder?
‒ Non sono i ragazzi che… vanno in giro a documentare quell’agenda digitale?
‒ Stai scherzando? Sono Allenatori a tutti gli effetti, mi hanno detto che ognuno di loro ha una forza nascosta che farebbe invidia al miglior Capopalestra del mondo!
‒ Me la facevano molto più noiosa come roba, fare il Dexholder…
‒ Tu sei informato e disinformato insieme ‒ lo sfotté quella.
‒ Beh, io non sono un Dexholder-fag ‒ ribatté lui.
‒ Simpatico, eppure scommetto che un giorno mi confronterò con uno di loro… magari è vero, si può imparare molto da una sconfitta ‒ fece entusiasta.
‒ Ti dai già per vinta? ‒ chiese Xavier.
‒ Lo sai che non sono il tipo, ma penso che con un avversario troppo potente, se in gioco non c’è nulla di importante, sia preferibile impegnarsi in una lotta per imparare il più possibile e non tanto per inseguire una vittoria irraggiungibile… ‒ spiegò lei.
Xavier tacque per un momento. Poi alzò il busto mettendosi seduto.
‒ Puoi ripetere, scusa? ‒ fece con tono lievemente più greve.
Cassandra non capì la retorica.
‒ Tu sostieni che ci sono lotte in cui non vale la pena impegnarsi? ‒ volle mettere in chiaro il maschio di Unima.
‒ Ehm, sì?
‒ Cassandra, che cosa cazzo stai dicendo? ‒ chiese semplicemente. ‒ Porca miseria, tu sei probabilmente uno dei più forti avversari che io abbia mai affrontato e snobbi in questa maniera una lotta in cui potresti potenzialmente fare a gara coi migliori… non pensavo fosse da te, tu sei il personaggio che nei libri per ragazzini non si arrende mai ‒ sciolse.
‒ Non capisco… ‒ fece lei che in realtà stava capendo.
‒ È una questione di principio, o prendi sul serio una cosa o non lo fai… e tu finora mi hai dato dimostrazione che non prendi sul serio le lotte Pokémon ‒ spiegò alla fine Xavier. ‒ E non sarebbe un problema se tu non fossi il Capopalestra della maggiore città di Sidera, però a quanto pare è proprio così.
‒ Secondo te io non prendo sul serio le lotte Pokémon?! ‒ esclamò un bel po’ contrariata lei.
‒ Guarda che ho visto come mi hai lasciato vincere in palestra, un Volcarona e un Heatran di quella portata non vanno al tappeto così facilmente, li hai ritirati prima che fossero davvero stanchi ‒ tagliò netto Xavier.
Glaciale. L’aria si fece glaciale. Cassandra non aprì bocca, ma sotto le lenti dei suoi Ray-Ban i sui occhi avrebbero parlato da soli. Xavier rimase con lo sguardo fisso nel vuoto senza neanche muovere un muscolo.
‒ Non te lo aspettavi, eh? ‒ domandò lui.
Cassandra non parlò, si limitò rivolgergli lo sguardo.
‒ Del resto non mi sono neanche arrabbiato, a me sta bene così, mi hai fatto risparmiare tempo anche se il mio orgoglio di Allenatore non è proprio al massimo. L’unica cosa da fare ora è capire perché mi hai lasciato la vittoria ‒ chiarì.
‒ Xavier…
‒ Dimmi.
‒ Niente.
‒ Tranquilla ‒ proferì. ‒ Posso aspettare.
E il ragazzo si voltò su un fianco. Esule da quella situazione di pathos che si era generata tra i due presenti, ritiratosi in solitudine nella roccaforte della mente a riflettere e a pensare in compagnia del solo se stesso. Cassandra fu ovviamente lasciata confinata fuori. Aveva per un solo singolo istante, che si era rivelato bastevole a farle pronunciare il nome del ragazzo, di rivelarsi. Aveva tenuto nascoste delle cose a tutti: a Xavier, ai venticinque, a tutti gli altri. Ma non poteva che trattenersi. O meglio, non ne era sicura. Sentiva soltanto che era stata spiazzata da quell’inaspettata esplosione di maturità e intuizione che da quel ragazzo che giaceva a pochi metri era scaturita.
 
“Gli uomini giudicano un’eccezione, una scossa al quotidiano tenore, il dormire di giorno e lo stare svegli di notte. Eppure ci sono persone che darebbero oro per avere a disposizione tale caratteristica. Poiché andrebbe d’accordo col loro lavoro e permetterebbe di condurre una vita relativamente normale. Ad esempio, Juan e Mirta della zona di transito, loro vorrebbero dormire di giorno…” pensava Xatu.
Il volatile rifletteva, mentre attorno a lui Venipede non dava segni di esistenza reale, Growlithe, ormai in sintonia con il ragazzo dai capelli bianchi, sonnecchiava e Kalut invece dormiva di gran gusto. E in quei momenti, un essere semi eterno stanco persino del sonno, era solito pensare. Far rimbalzare simpatici pensieri e azzardate ipotesi all’interno della sua rotondeggiante scatola cranica per il puro gusto di farlo. Senza infastidire nessuno e senza neanche sforzarsi fisicamente.
“La loro normalità è relativa, la loro semplicità è relativa. Gli esseri umani sono esseri tanto banali e scontati quanto complessi e affascinanti… eppure questo Kalut, lui è un umano come non ne ho mai visti. Io che sono l’ultimo della mia famiglia e ho conosciuto così tante persone diverse… riesco ancora a stupirmi per la conoscenza di un essere umano? È così strano, magari lui è stato affidato a me proprio perché avendo esperienza con quasi ogni tipo di uomo sarei riuscito ad occuparmi di un esemplare tanto singolare.”
‒ Scusami, Xatu… ‒ gemette Kalut dimostrandosi mezzo sveglio ad un certo punto.
Il Pokémon Magico gli prestò attenzione.
‒ Riesci a stare zitto…? ‒ chiese il ragazzo non senza lasciarlo spiazzato.
 
Celia era sola, sola come era spesso stata. Camminava e molto semplicemente guardava il paesaggio che aveva attorno. E pensava, pensava a cosa aveva già fatto e cosa ancora dovesse fare, il suo viaggio stava andando bene, tutto sommato.
Per un momento le tornò in mente Luna, la Capopalestra inquietante di Costa Mirach. Le tornarono in mente le sue frasi e le sue grida.
“Attenta alle nubi” aveva detto. Non che per lei significasse qualcosa in particolare. Solamente era inquietante e basta. Nubi…
E poi un altro pensiero distante fece saltare il suo cervello di palo in frasca. Le venne in mente ciò che aveva promesso a suo fratello/non-fratello Xavier, ossia che prima o poi sarebbero andati insieme a Holon. Holon, ricordò.
Da giovani avevano parlato molto di quella terra, di quella regione. Per lei aveva sempre rappresentato una sorta di sogno, un luogo lontano in cui andavano solo i migliori Allenatori e nella quale tutto sembrava una gigantesca avventura. Holon era una lontana regione, piccola nelle dimensioni, grande nell’animo. Un’isola sperduta nel mare in cui il clima perfetto e il territorio vario e camaleontico avevano permesso lo sviluppo di una Lega che contava le sue classiche otto palestre e aveva la sua sede principale sulla vetta di un monte. Holon era ricordata nei libri di storia per essere una delle prime terre in cui Mew aveva fatto la sua comparsa e il culto del leggendario Pokémon era stato tramandato per generazioni fino a creare il mito di una regione sacra, una sorta di santuario in cui l’equilibrio era dato dalla coesistenza di Pokémon di straordinario potere e umani dalla altrettanto straordinaria abilità. Holon, nell’era moderna era poi stata resa un qualcosa che rispettasse il mito e aveva guadagnato un nome più sontuoso. Tutti i Capipalestra, i Superquattro, in generale i federali che vi lavoravano erano abilissimi e temibili persino dai Maestri Pokémon più preparati, tanto che persino l’accesso alla prima palestra era limitato a chi aveva già guadagnato il titolo tanto ambito.
E lei sognava Holon, quella terra esotica e lontana che da bambina diceva sarebbe divenuta la sua casa. Certo, sicuramente non avrebbe disdegnato una villetta e un posto di lavoro là, ma nel frattempo era maturata così come i suoi obbiettivi. E il suo obbiettivo erano le lotte. Quindi sapeva che se avesse avuto la possibilità di andare a Holon lo avrebbe sicuramente fatto in primis per provare a vincerne le medaglie. E quello che aveva compreso il giorno precedente era che se una raffica di Pokémon selvatici nervosi era bastata a stremarla in un pomeriggio, lei avrebbe dovuto sicuramente allenarsi di più. Altrimenti Holon poteva rimanere un sogno lontano.
Prese in quel momento un’importante decisione, capì che avrebbe dovuto selezionare un suo team, prendere sei Pokémon e portarli sempre con sé allenandoli fino allo stremo delle forze. Sarebbe divenuta una professionista.
Altrimenti, non aveva idea di che cosa avrebbe potuto combinare della sua vita.
 
Cassandra giaceva immobile e fredda come un iceberg con i raggi del sole addosso che neanche riuscivano a scalfire minimamente il suo gelo. Non sapeva che cosa fare, ed era questo il suo unico problema. Era una ragazza abbastanza preparata e, sebbene non molto previdente, capace di tirarsi fuori dalle brutte situazioni, per tal motivo l’unica cosa che riusciva a metterla in difficoltà era l’aggressività passiva. Perché non sapeva mai come contrastarla, nessuno sa mai come fare.
‒ È stato davvero così facile metterti a disagio? ‒ chiese Xavier nella sua infinità magnanimità.
Si divertiva a tenere le persone sulle spine, in tensione, ma non era così sadico da non riconoscere il limite imposto dalla sua moralità.
Cassandra non rispose subito, mise il broncio: ‒ Non ho motivo di essere a disagio…
‒ Questo lo sai soltanto tu.
Cassandra trasse un lungo respiro. ‒ Vuoi proprio sapere perché ti ho lasciato vincere? ‒ chiese prendendo una posizione seduta e voltandosi verso il ragazzo.
Xavier pure cambiò assetto per poterla guardare meglio mentre veniva fissato da quegli occhi così profondi. ‒ Beh, sarebbe interessante capirlo…
‒ Ok…
E Cassandra gli stampò un bacio sulle labbra che durò qualcosa come cinque secondi netti. Rimase abbastanza appiccicata a lui da convincerlo a ricambiare. Quasi ce ne fosse bisogno.
Inizialmente, la reazione di Xavier fu tempestiva e contrastante allo stesso tempo: la parte più razionale di lui voleva scansare la donna, il suo emisfero destro al contrario aveva deviato quella forza di reazione sui fili d’erba facendogliene strappare una manata. Così una volta separatisi, i due si guardarono in malo modo, lei con il visino e gli occhi dolci, lui rincitrullito come mai prima. Cercò di elaborare nel tempo di percorrenza del suo sistema nervoso da parte di un impulso elettrico una nuova teoria sul come le coppie fossero obsolete per le persone e uccidessero il vero amore, ma non gli riuscì. Aveva troppa forza d’animo e troppa brama carnale in quel preciso istante e le due entità sarebbero state capaci di lottare e pareggiare anche giocando in squadra insieme.
‒ Io avrei già una ragazza… ‒ mormorò in un momento di cedimento.
 
Kalut aprì lentamente gli occhi. Xatu lo guardava ancora con aria di curiosità mentre Growlithe e Venipede si limitavano a respirare.
“Buongiorno…” lo salutò il volatile.
Kalut gemette qualcosa come una risposta. Non aveva terminato il sonno, il suo orologio biologico invertito rispetto a quello di un essere umano normale lo implorava di chiudere di nuovo gli occhi.
‒ Perché non mi lasci dormire in pace? ‒ domandò al suo Pokémon accompagnatore.
E immediatamente tornò tra le braccia di Morfeo.

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Capitolo 22
*** Capitolo 21 - Stimolo ***


Capitolo 21 – Stimolo

 

‒ Quindi aspetta, spiegami bene, se tu avessi vinto io avrei rifiutato di continuare il viaggio con te? ‒ chiese Xavier un po’ infastidito dalla situazione. ‒ Non hai pensato a quanto mi avrebbe dato più fastidio il sentirmi trattato come un bambino o un Allenatore alle prime armi?
Cassandra taceva, testa bassa e occhi socchiusi, non proferiva parola.
Xavier la fissò un lungo attimo. Si chiese perché le stesse dando contro, perché stesse facendo la persona di merda con lei. Capì che non aveva apprezzato il suo gesto, ma ci era passato subito sopra, mentre ciò che più lo aveva infastidito era il fatto che lui fosse già impegnato. Stava reagendo non benissimo ma stava esponendo le ragioni sbagliate. E nel momento in cui un ingranaggio del suo cervello gli fece ricordare che la Capopalestra non sapeva nulla a proposito della sua relazione con la lontana Julie, un sorriso nacque sul suo volto e la sua finta rabbia riuscì a sbollire.
‒ Scusami… ‒ mormorò lei a bassissima voce.
‒ Ehi… ‒ il ragazzo le mise una mano sulla guancia. Non aprì bocca per qualche istante. ‒ No, scusa tu, me la sono presa troppo ‒ disse poi cercando i suoi occhi.
Cassandra ancora una volta non parlò.
 
Celia era entrata nel Centro Pokémon. Mezzo vuoto come sempre: qualche ragazzino annoiato dall’attesa seduto sui divanetti e due o tre infermiere che si raccontavano pettegolezzi inutili per ammazzare il tempo. Cercò con gli occhi e… eccolo, il telefono del centro. Si sentiva nel secolo precedente ad inserire la monetina per poter chiamare, ma sia lei che Xavier avevano fatto la scelta di non portare dietro i cellulari per quel viaggio in modo da concentrarsi più sul dispositivo PokéNet e capire tutte le sue potenzialità. Celia attese qualche istante in compagnia dello squillo cadenzato nella cornetta. Quindi giunse la risposta.
‒ Allevamento Pokémon di Delfisia, come possiamo aiutarla?
‒ Julie, sei tu? Sono Celia ‒ fece lei.
‒ Ehi, Celia, ciao… ‒ mormorò la ragazza dall’altra parte. ‒ come va?
Stavolta decise di dedicare più tempo ai convenevoli.
‒ Tutto bene, mi trovo nel percorso tra Porto Acquario e Idresia, fa un caldo terribile…
‒ Immagino ‒ rise ‒ da noi si sta bene, c’è un venticello gradevole.
‒ Il lavoro? ‒ chiese la bionda.
‒ Ah. I Wurmple si sono evoluti, l’influenza non gira più, abbiamo già seminato le bacche… non c’è quasi nulla da fare… ‒ fece lei con voce serena.
‒ Beh, ma allora potresti passare a far visita a Xavier, no?
‒ Mh… mi piacerebbe ‒ ammise. ‒ Non lo so, si vedrà… ‒ e rise di nuovo.
‒ Comunque… ho bisogno di un altro grosso favore... ‒ cominciò la ragazza dagli occhi lilla.
‒ Dimmi tutto.
‒ Ecco… ‒ e Celia prese in mano il foglietto su cui poco prima si era annotata i nomi di alcuni Pokémon. Tre, per la precisione. ‒ Dovresti mandarmi Amber, Sybil e Samurott ‒ disse soltanto.
‒ Va bene, non c’è problema ‒ acconsentì l’Allevatrice.
‒ E… un’altra cosa… ‒ proseguì Celia con voce greve.
‒ Certo, ascolto.
‒ Vorrei rilasciare tutti i miei altri Pokémon ‒ pronunciò.
Julie tacque per qualche istante.
‒ Potresti prepararli alla liberazione nella maniera più delicata possibile? ‒ chiese la bionda.
‒ Oh… va bene… ‒ rispose un po’ sconsolata Julie.
‒ Grazie mille, mandali a questa posizione.
Ancora una piccola pausa.
‒ Va bene, io li invio… ci sentiamo la prossima volta…
Riattaccò.
Celia rimase con in mano la cornetta per alcuni secondi, finché non decise di mollarla e rimetterla al proprio posto. Si sedette su un divanetto si guardò le spalle. Non c’era alcun ragazzo con strani vestiti a dormire con una rivista in faccia come la volta precedente. Fissò il dispositivo di trasferimento Pokémon finché su questo comparve la prima richiesta di trasferimento da accettare. Immediatamente acconsentì e così fece per tutte le altre. Si ritrovò con una Luna Ball e due Poké Ball per le mani. Tutte e tre emettevano uno strano calore, un calore ben conosciuto e allo stesso tempo nuovo. Le ricordavano casa.
Trasse un profondo respiro e si avviò verso l’uscita. Poco prima di fare il primo passo fuori ricordò che aveva bisogno di alcune provviste per la giornata e tornò indietro al bancone del reparto bar. Ne approfittò anche per riempire la tasca dei rimedi del suo zaino. Sapeva, anzi, era certa che ne avrebbe avuto bisogno. Uscita dal Centro fece uscire tutti la sua squadra.
“Un Reuniclus, una Gabite, una Skarmory, una Clefable, un Flareon e un Samurott” lesse mentalmente i loro nomi scorrendo lungo le loro sagome. Rapidi furono i convenevoli con i tre membri della squadra che erano appena stati riconvocati dopo tanto tempo.
“Ho scelto solo voi perché siete i più forti e i più promettenti, quelli più propensi al miglioramento…” tossì, si diede della stupida da sola e ricominciò parlando a voce alta. ‒ Ho scelto solo voi perché siete i più forti e i più promettenti, quelli più propensi al miglioramento. D’ora in poi sarete la mia squadra, la squadra che mi porterà a Holon, ognuno di voi… ‒ si corresse. ‒ …di noi dovrà dare il massimo e allenarsi fino allo stremo delle forze.
I Pokémon annuirono, la capacità di comunicazione tra gli umani e quegli esseri simil-animali aveva sempre stupito chiunque, ma mai nessuno si era chiesto quale fosse il segreto di tale taciuta intesa.
‒ Chi di voi vuole fare un po’ di riscaldamento ‒ chiese poi abbozzando il primo sorriso della giornata.
 
Xavier appallottolò quello che era rimasto del cartoccio del panino, lo ficcò nel sacchetto che avevano relegato a cestino dei rifiuti in occasione del pranzo e si alzò in piedi.
‒ Vogliamo partire? ‒ domandò poi a Cassandra.
‒ Sì, penso sia il caso.
Avevano passato la mattinata sulla riva del lago, entrambi erano riposati e freschi come appena svegli, forse fare qualche chilometro di strada avrebbe giovato sia all’uno che all’altro. Tenuto in considerazione anche il fatto che il loro obbiettivo era ancora piuttosto lontano e nessuno dei due aveva voglia di passare un’altra notte in un sacco a pelo.
I due ripresero il passo in maniera cadenzata e silenziosa. Senza spiccicare parola. Del resto l’imbarazzo generale che si era creato tra i due dopo il bacio di Cassandra non se ne sarebbe andato via facilmente, a meno che uno dei due non avesse fatto finta di niente per tentare un passettino avanti nei confronti dell’altro.
‒ Ti sei ripresa? ‒ domandò Xavier.
‒ Sì, sto bene ‒ rispose Cassandra.
Il castano aveva imparato che nelle situazioni in cui non si sa bene cosa stia succedendo alle donne, o bisogna ignorare quest’ultime facendole sentire ancora più sole, o bisogna mostrarsi anche solo apparentemente affettuosi. E lui non aveva scelta, era l’unico essere umano che gli faceva compagnia in quel momento.
‒ Senti, Cassandra, vorrei chiederti una cosa… ‒ cominciò.
La ragazza lo guardò negli occhi.
‒ Davvero hai finto di perdere per venire con me? ‒ chiese, facendo la stessa domanda con cui l’aveva “accusata” prima, ma con un tono soffice e delicato e per nulla infastidito.
La Capopalestra inghiottì e guardando a terra rispose affermativamente con una vocina flebile flebile.
Xavier sorrise, stando bene attento a far notare la sua espressione serena alla ragazza in modo da comunicarle indirettamente la sua gratitudine per quell’attrazione forse ricambiata. Si maledisse un attimo dopo, aveva visto troppi filmacci romantici a casa e al cinema con Julie. Julie. Si morse la lingua.
 
‒ Forza, Sybil fammi vedere che cosa ti ricordi, Magibrillio! ‒ ordinò la bionda.
La sua Clefable sfogò la sua energia sotto forma di un fascio di luce accecante che investì immediatamente entrambi i suoi avversari.
Come era solita allenarsi quando era da sola e quando i Pokémon selvatici locali erano troppo deboli per lei, aveva messo due dei suoi compagni che avrebbero agito da soli contro un altro che invece sarebbe stato guidato da lei. In questo caso gli avversari erano Reuniclus e Skarmory, rispettivamente Gel e Karma. I due Pokémon, non ancora sconfitti reagirono con Introforza e Alacciaio.
Minimizzato! ‒ Clefable ridusse la sua dimensione notevolmente consentendosi di evitare entrambe le mosse avversarie. Quindi tornò alla normalità.
Fulmine su Skarmory e Palla Ombra su Reuniclus!
Le due mosse, scagliate quasi simultaneamente dal Pokémon Fata, si abbatterono con violenza sugli avversari causando loro ingenti danni ma non mandandoli al tappeto.
‒ Ottimo lavoro, Ondasana e poi torna dentro, vedo che non sei ancora in forma, bella mia ‒ ammiccò Celia.
Sybil curò Karma e Gel, quindi poté rientrare nella Luna Ball.
‒ Amber, ora è il tuo turno ‒ chiamò all’appello il suo Flareon. Il Pokémon Fiamma entrò in campo fiero e avvolto nella sua calda pelliccia fulva.
Rogodenti su Karma!
Il canide partì all’assalto verso il pennuto e lo addentò con le sue zanne infuocate. Skarmory subì parecchio il colpo e scese a terra per riprendersi. Nel frattempo Amber era già partito con la seconda avanzata nei confronti di Reuniclus su ordine della sua Allenatrice. Gel aveva tentato di scagliare un attacco Psiconda, ma quest’ultimo venne evitato da Flareon che subito si gettò in un violentissimo Fuococarica.
Mentre i suoi Pokémon combattevano, Celia tornò con la mente al giorno in cui aveva tenuto tra le mani per la prima volta il suo Amber. Si trovava a Kanto assieme a Xavier e aveva scambiato con un ragazzino che le aveva proposto di uscire la sua Ambra Antica per quell’essere tanto tenero e soffice. Era un Eevee quando lo conobbe per la prima volta, e conoscendo bene quella specie, aveva subito deciso che non avrebbe forzato la sua evoluzione. Per gli Eevee, evolversi è come oltrepassare un momento della vita dopo il quale non si può più tornare indietro, per questo motivo il suo Amber, chiamato così da quel giorno, aveva deciso di evolversi solo qualche mese dopo, pronto finalmente a compiere il grande passo. Aveva proposto lui stesso la pietra, Celia ricordava bene quel giorno. Amber che col suo musetto picchiettava sulla sua borsa proprio in corrispondenza della tasca che conteneva quel minerale tanto particolare. Era rimasta soddisfatta del suo gesto, Flareon si era da subito rivelato un compagno affidabile e potentissimo.
‒ Basta così, via che ripartiamo! ‒ esclamò Celia interrompendo l’allenamento.
I suoi Pokémon si erano stancati un pochino, ma nessuno di loro aveva bisogno di un Centro Pokémon o altro, farli giacere qualche ora nella Ball sarebbe stato sufficiente. La bionda diede un’occhiata alla mappa sul suo Pokénet, la strada rimanente per raggiungere Porto Acquario non era lunghissima ma neanche era il tratto della passeggiata tra casa sua e il negozio di alimentari della via adiacente. Si fece coraggio.
 
‒ Forse è arrivato il momento di andarsene ‒ mormorò Kalut.
“Ne sei così convinto?”
‒ Anche se vorrei rimanere un altro po’ a dormire… ‒ proseguì.
“Decidi tu.”
‒ È vero che ho sentito il tuo pensiero nel sonno?
“Sì… è vero.”
‒ Xatu, ho una brutta sensazione ‒ gemette il ragazzo.
“Che cosa senti?”
‒ Non lo so, mi sembra di avere un vuoto in pancia, un senso di disagio…
“Questo tuo sentore ti suggerisce di muoverti?”
‒ Di lasciare questo luogo.
“E tu vuoi ascoltarlo?”
‒ Penso di sì…
“Perché vuoi ascoltarlo?”
‒ Perché…? Che domanda è? Ho preso una decisione…
“Perché vuoi ascoltarlo?”
Kalut tacque per dei lunghi secondi.
‒ Perché una sensazione irrazionale è l’unica cosa che non può essere contrastata dalla ragione…? ‒ tentò il ragazzo dai capelli bianchi.
“Bella risposta, mi piace.”
‒ Ah, ecco…
“Muoviamoci, sveglia Growlithe e Venipede.”
Il ragazzo, il pennuto, l’invertebrato e il canide si mossero tutti assieme, Kalut si avvolse il lenzuolo a mo’ di mantello attorno al corpo. Lo faceva sentire più sicuro.
“Che direzione vogliamo prendere, capitano?”
‒ Verso qua.
Si incamminarono tutti verso nord, Kalut aveva ancora in testa la mappa impressa come una fotografia nel suo cervello. Sentiva che qualcosa stava per accadere, ma non aveva idea di cosa, quindi per sicurezza prendeva precauzioni. Erano appena passate le sei del pomeriggio, essendo il quattro settembre ancora il sole illuminava l’atmosfera anche se si accingeva appena a toccare l’orizzonte. Kalut non si sentiva sicuro al massimo nel muoversi a quell’ora, preferiva di gran lunga il buio, ma decise che non era il momento di sindacare sui gusti personali.
‒ Xatu, dici che riuscirò a capire quale sia il mio obbiettivo almeno stanotte? ‒ chiese l’umano.
“Non so, Kalut” rispose il volatile.
‒ Che cosa credi?
Xatu lo guardò con occhio curioso.
‒ Secondo me sei troppo abituato ad affidarti a quello che sai, hai visto cos’è successo ora? Io avevo una sensazione e l’ho seguita, senza affidarmi alle mie conoscenze ‒ spiegò il ragazzo. ‒ Che cosa credi? ‒ ripeté.
“Che se ti impegni davvero potresti avvicinarti alla meta.”
‒ Non sei così incoraggiante... ‒ rise Kalut.

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Capitolo 23
*** Capitolo 22 - Delusione ***


Capitolo 22 – Delusione

 

Scesa la notte, il frinire delle cicale nell’aria dei boschi cominciava a sovrastare ogni altro rumore, così come il buio giungeva a vincere la sua tanto difficoltosa lotta contro la luce. D’estate fa fatica a scendere, l’oscurità.
‒ Quelle sono le luci di una città? ‒ chiese Kalut.
“Penso di sì…” fu la risposta di Xatu.
Effettivamente sull’orizzonte erano comparse come piccole evanescenti lanterne giallognole. Lampioni, molto probabilmente.
‒ Ci siamo quasi, allora…
Kalut con al seguito i suoi compagni: Venipede, Growlithe e Xatu, camminarono per altri venti minuti circa prima di capire che cosa fosse il complesso di fari che aveva attratto la loro attenzione. Il ragazzo rimase stupito. Davanti a lui si era materializzato un gigantesco e imponente ponte. Illuminato quanto necessario, ospitava ben quattro corsie e dava accesso alla città di Idresia per il lato orientale. L’autostrada era vuota, non un mezzo di trasporto passava in quel momento. Kalut guardò comunque torvo Xatu. Non voleva attraversare quelle zone, lo mettevano a disagio.
“Trovi ci sia un’altra via?”
‒ Mh… no…
“E allora ti conviene passare per di qua, no?”
Prima che la costruzione si erigesse sopra il livello dell’acqua del fiume, vi erano due cabine, una per lato. Ovviamente Kalut si avvicinò per curiosare in quella più vicina. Un controllore addormentato sulla sedia con la tazza della tisana alle erbe ancora in mano. Il tipo era lievemente in sovrappeso e aveva una divisa simile a quella indossata da Mirta al varco di qualche chilometro prima. Kalut osservò bene facendo tesoro delle informazioni raccolte circa il funzionamento di quello che le persone chiamavano “lavoro”.
‒ Xatu, dici che riesco ad passare anche a piedi?
“Ovviamente, quale dovrebbe essere il problema?
‒ Non lo so…
I compagni giunsero alla prima tratta di ponte. Camminavano sul lato della strada, su un marciapiede diviso dalla corsia da una linea disegnata a terra e rovinata poi dell’insistente passaggio e dal continuo sfregamento dei pneumatici delle auto.
Ad un certo punto, un lontano ronzio si appropinquò alle orecchie dei viaggiatori, Kalut lo riconobbe immediatamente e, mentre tutti i suoi Pokémon gli dettero minima importanza, lui tese immediatamente i muscoli. Riconobbe il rumore, lo aveva già sentito.
‒ Fermi… ‒ sussurrò.
Il tutto appena prima che in una frazione di secondo il lieve rumore aumentasse di intensità fino a divenire il rombo del motore di una macchina che sfrecciò sulla corsia a pochi metri dal ragazzo. Kalut era rimasto immobile, non aveva voluto reagire nonostante, in seguito alla sua prima esperienza con delle automobili, non avesse propriamente un ricordo positivo di queste ultime. Ma forse ciò era stato per lui un incentivo, voleva vincere la sua paura. E non reagendo e ignorandola bellamente, ce l’avrebbe fatta. Almeno secondo lui.
‒ Tutto ok, andiamo… ‒ il ragazzo tornò a muoversi.
 
Xavier e Cassandra avevano camminato un bel po’, erano finalmente giunti a Alyanopoli e il viaggio poteva dirsi terminato. La città li aveva accolti con decenza, con i suoi edifici non di pregiatissima fattura ma di impatto visivo omogeneo: i mattoni scuri, l’asfalto consumato, i vicoletti contorti e i bidoni dell’immondizia. Poche persone per le strade, giusto qualche ragazzetto con i tocchi d’erba nelle mutande che attendeva che il sole calasse.
Xavier, che si sentiva ben distaccato da quella tipologia di persone, nella sua mente non recensì con grande entusiasmo la città, ma sapeva che quella sarebbe stata solo una meta temporanea, avrebbe lasciato presto quello schifo.
‒ Un posto in cui dormire? ‒ domandò retoricamente la ragazza.
Effettivamente il giorno stava volgendo proprio al termine.
‒ Troviamolo ‒ approvò il castano.
I due decisero dopo un’approfondita analisi durata più o meno venti secondi di fermarsi ancora una volta in un centro Pokémon, Xavier perché era quasi senza soldi e Cassandra perché i Motel la facevano sentire una donna poco seria.
I due decisero di adagiarsi subito su una branda e quindi entrarono nelle camere senza farsi troppi problemi di orario. Avevano preso una sola stanza, ma due letti rigorosamente separati.
‒ Cassandra ‒ la convocò Xavier dopo un lungo silenzio tra i due.
La ragazza, che stava cercando di mettere ordine nella sua borsa, alzò un attimo la testa dando attenzione al compagno di viaggio.
‒ Vorrei riprovarci ‒ fece.
La ragazza arrossì immediatamente: ‒ Scusami…? ‒ mormorò.
‒ No, non intendevo quello ‒ si rincorse subito il ragazzo che riconobbe la reazione di lei.
‒ Oh.
‒ Ecco, volevo dire… vorrei fare un’altra lotta con te.
‒ Ah... ‒ Cassandra provò in tutti i modi a sembrare neutra nel tono e nell’espressione, purtroppo la cosa gli riuscì poco.
‒ Che ne dici? ‒ sorrise il castano con in faccia la convinzione di un bambino.
‒ Beh, certo, quando vuoi…
In realtà non era così semplice, la ragazza non aveva idea di che cosa dovesse fare e non sapeva che cosa scegliere tra le diverse alternative che la natura della sua missione gli poneva davanti.
‒ Domani lotteremo, allora…
‒ Sì.
‒ Ah, comunque… scusa per oggi, io…
Xavier guardò Cassandra, Cassandra guardò Xavier. Fu inutile, si capirono abbastanza bene e entrambi tacquero.
 
L’odore di acqua marina e salsedine nell’aria e la faccia tosta della città turistica di sera furono il bacio di accoglienza per la bionda. Celia era davvero molto stanca, Porto Acquario le aveva aperto le sue porte e lei era felice di aver concluso quella tratta di strada che sembrava la più difficile di tutto il viaggio, o che almeno era divenuta tale. Doveva dormire, e forse era anche ora. Ma prima decise di fare una cosa.
La palestra, secondo le mappe del PokéNet si trovava poco lontano da lei, decise di passare a darle un’occhiata. Giusto per, non aveva intenzione di intraprendere una lotta quella sera, non ne aveva le forze.
Svoltò un paio di angoli e giunse nel punto che la sua mappa definiva come Palestra di Porto Acquario. Rimase a bocca aperta. Una gigantesca struttura di vetro si erigeva davanti a lei altezzosa e meravigliosa. Non era un grattacielo, aveva le dimensioni e il formato di una palestra classica. Solo, i materiali non erano proprio quelli. In più, poco dietro quella monumentale palestra, si scorgevano la spiaggia e il mare che, calmissimi, davano a tutto un’atmosfera di relax totale. Era settembre, ma sembravano i primi di luglio.
La bionda provò a dare uno sguardo all’interno, le strutture erano molto particolari, la palestra aveva il piano terra soltanto ed era praticamente un monolocale, più che una palestra sembrava un arena. Si era eccitata, non vedeva l’ora di affrontare la Capopalestra locale là dentro. Prese e si avviò verso il Centro Pokémon, doveva dormire, il giorno dopo si sarebbe svegliata presto per tornare in quel luogo e fare quello che aveva fatto in tutte le altre sedi di palestre della regione: uscirne con la medaglia in mano.
 
Passarono un bel po’ di macchine, durante i minuti che Kalut impiegò a percorrere il ponte. Non tantissime, ma comunque un numero non indifferente. Ormai il ragazzo neanche si girava più, neanche sentiva più il bisogno di reagire. Aveva superato la cosa.
I viaggiatori erano entrati a Idresia, Kalut non aveva però guardato la città quanto più le persone. Quella sera le vie erano abbastanza trafficate, forse sarebbe stato ottimale muoversi senza un lenzuolo avvolto attorno al corpo, aveva già attirato troppi sguardi indiscreti.
O almeno così diceva Xatu.
Kalut non era d’accordo, a lui piaceva quel lenzuolo, ma alla settima persona che gli scoppiava a ridere in faccia, decise di dare retta al pennuto e deviò in un vicolo dove si tolse il mantello e lo gettò in un cassone dell’immondizia.
Era diventato un ragazzo normale, con dei pantaloncini e una maglia. Stop.
Riprese la sua camminata. Si aggirò per il centro per qualche quarto d’ora senza meta e senza scopo finché, passando accanto alla porta aperta di un bar, udì per caso delle parole dalla tv accesa.
“…uno strano fenomeno che ha coinvolto la fauna locale che sembra essersi temporaneamente spostata verso nord…”
Prontamente il ragazzo afferrò l’istante, si pose accanto alla porta in modo che lui potesse sentire la televisione, ma nessuno potesse vederlo. Purtroppo, il suo piano non andò in porto, tra il chiacchiericcio generale del locale e i rumori di bicchieri, tazzine, piattini e sedie, si rese conto che il pezzettino di trasmissione era stato un eccezione.
Non si diede per vinto, decise di andare a fondo alla questione, aveva già un input.
‒ Dov’è che le persone si informano sugli avvenimenti del mondo? ‒ chiese innocente a Xatu.
“Giornali?”
‒ Mh, dove posso trovarne…?
Xatu rise “Kalut, i giornali si comprano, ma tu sei senza un soldo… è divertentissimo guardarti agire senza uno stralcio di speranza…” era stato cattivo.
‒ Che cosa intendi, scusa?
“Intendo che per studiare degli esseri umani, devi prima essere simile a loro… non puoi fare il detective di qualcosa che neanche sai cos’è in una grande città senza amalgamarti alla città” rispose il volatile.
‒ Che cosa intendi per amalgamarmi?
“Intendo che dovresti avere un nome, essere un uno dentro un agglomerato di cittadini.”
‒ Sembra semplice detto da te…
“E lo è, fidati.”
‒ Dici che dovrei essere come loro?
“Dico che dovresti essere come loro...” acconsentì Xatu. “O almeno provaci… non cammini su queste strade se non sei un essere umano libero…”
‒ Oh. Ok.
“La cosa non ti aggrada?
‒ La verità?
“Sì.”
‒ No, non particolarmente.

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Capitolo 24
*** Capitolo 23 - Umiliazione ***


Capitolo 23 – Umiliazione

 

“Senza tanti fronzoli, sì, funziona così. Tu sei un cittadino, quindi paghi la tua città mentre vieni pagato dalla tua città. Gli esseri umani si complicano sempre la vita con i loro soldi…”
‒ Guadagnare soldi. Sembra difficile.
“E lo è… ma pensaci, il movimento dei soldi assicura una sopravvivenza alle persone.”
‒ Un equilibrio che si basa sul movimento? Mi sembra qualcosa di così… stupido…
Kalut e Xatu discutevano dei massimi sistemi, uno seduto su una panchina e l’altro appollaiato sul lampione rotto lì vicino, erano in un parco, un parco di periferia in cui crescevano dei bellissimi fiori, dei bellissimi fiori a forma di siringhe usate.
“Un equilibrio che si basa sul movimento è qualcosa di incredibilmente stabile, invece… pensa alla società degli umani come ad una trottola. Se essa si trovasse con la punta a contatto col suolo, ma immobile, cadrebbe all’istante o al massimo al primo soffio; contrariamente, una trottola in movimento non solo si regge sulla punta, ma resiste anche ai colpi che vengono dall’esterno.”
‒ Non capisco però, per quale motivo una società dovrebbe reggersi su un punto solo? Non si potrebbe prendere la trottola a girarla al contrario? ‒ chiese il curioso Kalut.
“Ma infatti è uno dei problemi degli esseri umani, per il resto, squadra che sembra vincere non si cambia, e una società che sembra funzionare non viene modificata. Né in meglio né in peggio.”
‒ Xatu, un’ultima domanda.
“Certo.”
‒ Qual è questo punto su cui si regge l’intera società degli esseri umani.
“Ah, interessante.”
‒ Mh?
“Beh, difficile dirlo, per quello che ho potuto vedere, ogni società ne ha uno diverso. Alcune volte quel punto è un ideale, altre un interesse comune, altre ancora un nome, altre ancora un essere umano stesso è quel punto, vivo o morto, altre volte ancora è una certa cultura e altre ancora un sentimento…”
‒ E quale funziona meglio?
“Quale funziona meglio…” rise Xatu. “…dipende… se per funzionare intendi far sopravvivere quella società, per ora nessuno.”
‒ Nessuno?
“Nessuno, non ho mai visto popolazioni scomparse a causa di guerre, attacchi di altri popoli o comunque fattori esterni ad esse. Ogni civiltà che ho visto decadere si è autodistrutta, da ciò ne deriva che l’umano stesso non abbia ancora trovato la formula di una giusta società, magari un giorno potrà riuscirci, ma per ora sembra proprio di no…”
Kalut aveva lo sguardo perso nel vuoto, quasi spento.
‒ Come siamo arrivati a parlare di questa cosa qua?
“Ah, boh, parlavamo di soldi” rise il Pokémon Magico.
I due, Kalut e Xatu, si levarono dalle loro posizioni di riposo. Il volatile non aveva bisogno di sonno, il ragazzo invece, secondo il suo orologio biologico, era perfettamente in piena “fase di lavoro”, entrambi si mossero.
‒ Come mi procuro dei soldi, se devo far finta di essere un cittadino devo almeno fare la mia parte… ‒ chiese il bianco.
Xatu fece spallucce.
‒ Ho un’idea.
Il volatile volle seguirlo e capire quale fosse tale trovata. Kalut si incamminò a caso in mezzo alle vie, prese strade senza criterio e logica e imboccò vie solo perché il suo istinto gli diceva così. Finché non trovò il luogo che cercava.
Era arrivato davanti ad un piccolo locale, una specie di bar la cui definizione poteva essere presa e masticata, tanto era elastica. Il locale era pieno di gente, fuori e dentro, e una musica ripetitiva e parecchio aspra faceva vibrare l’aria di tutta la via rimbombando insistente.
‒ Com’è che si chiamavano? Portafogli?
“Esatto.”
Kalut entrò nel bar. Si mosse quasi invisibile tra le persone, un ragazzo della sua stazza in mezzo a tanta gente eccentrica, brilla e distratta non poteva che essere ignorato. Aveva qualche idea in mente, voleva che riuscisse. Kalut si aggirò senza meta nel locale per un po’, quindi, fatto il sopralluogo, decise di agire.
Xatu stava aspettando fuori dal locale da pochi minuti, nascosto dietro l’angolo con al suo fianco Growlithe e Venipede, quando vide Kalut ricomparire davanti a lui con in mano una banconota da duemila Pokédollari. Il volatile non disse nulla riguardo al gesto del ragazzo, solamente alzò il becco e sussurrò telepaticamente: “come hai fatto?”
‒ Portano tutti dei pantaloncini attillati, mi è bastato trovarne uno abbastanza ubriaco, solo e seduto. Ho fatto cadere il portafoglio vicino a lui, mi interessavano solo questi ‒ spiegò con semplicità Kalut.
“Mh” Xatu non aggiunse altro. “Quindi che cosa intendi fare con questi soldi?”
‒ Vedrai.
Il ragazzo si mosse, i suoi Pokémon lo seguirono. Mentre camminavano in mezzo alla strada, a Xatu venne in mente una cosa.
“Kalut, sei scalzo?”
‒ Oh, sì, me ne ero dimenticato ‒ fece il ragazzo.
“Non sarà il caso che ti compri qualcosa da metterti?”
‒ Probabilmente hai ragione ‒ confermò.
“Il mio è un consiglio comunque…”
‒ Apprezzo.
Kalut e i suoi compagni giunsero dopo qualche isolato ad una tavola calda aperta notte e giorno. Il ragazzo entrò e i suoi Pokémon lo attesero fuori.
Mise piede dentro quella bettola e un odore di frittura in olio riciclato uccise il suo olfatto per i due minuti seguenti, non era il massimo come primo passo, ma si fece coraggio. Il tipo che sedeva dietro il bancone lo squadrò a fondo, e Kalut pure squadrò quell’uomo dal grosso pancione la barba incolta e i capelli unticci. Il ragazzo dai capelli bianchi non fece una mossa brusca. Con morbidezza in ogni sua azione si avvicinò alla cassa, indicò uno dei panini che erano in mostra sulla tavola di legno del bancone e chiese quanto costasse. L’uomo gli disse il prezzo e lui acquistò. Il panino fu servito incartato e il ragazzo si mise seduto ad uno dei tavoli a mangiarlo.
“Spiegami, stai facendo tutto a caso?” disse la voce di Xatu nella sua testa.
“Sì, certo, e ora come faccio a rispondergli?” pensò Kalut.
“Esattamente così” confermò Xatu.
“Cosa? Mi senti?”
“Sì, la telepatia è complessa da imparare ma estremamente versatile, posso dare parola alle persone con cui sono in collegamento e con te è stato estremamente facile a dire il vero” spiegò il Pokémon.
“Oh.”
“Rispondi alla mia domanda…”
“Ah, eh, sì sto improvvisando in realtà, non ho idea di come funzioni questa roba, ma finché la gente non mi guarda strano continuo a fare la prima cosa che mi viene in mente…” si confessò Kalut.
“Cavolo… hai la tattica di un lottatore di sumo che cerca di infilarsi il tutù di una ballerina” lo prese in giro il volatile.
“Che cos’è il sumo?”
“Lascia stare…” Xatu tacque un attimo. “…piuttosto com’è il panino?”
“Fa cagare.”
“E perché continui a mangiarlo?”
“…”
“Mh, spiegami allora perché avresti fatto finta di dover mangiare?”
“E chi finge?”
“Avevi fame davvero?”
“Sì.”
“Pensavo che la tua priorità fosse l’indagine.”
“E lo è, ma i motivi per cui preferisco prima mangiare sono ben tre: primo, a pancia piena si ragiona meglio, secondo, hai detto che per capirci qualcosa devo essere come gli umani e mi sembra che gli umani pensino prima ai loro bisogni e poi a tutto il resto, terzo, penso che se perdo tempo alla fine ti romperai le scatole e mi darai qualche suggerimento.”
“Eh, Kalut, io vivo su questa terra da parecchio tempo, non penso che mi farai perdere la pazienza così facilmente.”
“Xatu, io davvero non so da dove cominciare, non ho indizi e sto cercando qualcosa che non so cosa sia…” si lamentò Kalut che dall’ironia della sua frase aveva ottenuto una mazzata grossa e violenta.
“Kalut, ti faccio notare una cosa…” e il pennuto fece una pausa di enfasi. “…appena una settimana fa non eri capace di parlare, ora ti esprimi come una persona normale e conosci nuove parole secondo non so quale criterio, sto cercando di capirlo anche io, e inoltre ragioni anche in maniera più sottile e intelligente della media degli esseri umani. Ti evolvi a ritmo esponenziale, so che arriverai a capire che cosa sei stato mandato a fare su questa terra quanto prima.”
“…”
“Mi capisci?”
“Ti capisco, ma capisci anche tu che la cosa mi infastidisce? Mi dà profonda frustrazione.”
“La necessità aguzza l’ingegno, sbrigati a finire quel panino che qua ci annoiamo” chiuse il discorso Xatu.
Kalut rimase con un palmo di naso, un panino schifoso in mano e impossibilitato a comunicare col suo Pokémon. Intanto, lui era appena fuori dalla tavola calda e rifletteva, come il novanta per cento del suo tempo. Rifletteva chiedendosi come Kalut potesse conoscere parole che mai aveva sentito dire e come avesse potuto acquisire abilità come l’aritmetica e la lettura che aveva dimostrato rispettivamente pagando il tipo della bettola e leggendo il nome del panino sul menù. Il Pokémon poteva vedere il futuro, conosceva il motivo per cui Kalut era al mondo, ma dopo avergli visto fare certe cose aveva deciso di non guadare più ciò che sarebbe successo negli anni seguenti. Lo trovava un soggetto troppo interessante da veder crescere.
 
Nottata marcia, Xavier aveva dormito malissimo. Il ragazzo aprì gli occhi sentendo le palpebre appiccicate come con la colla e il volto completamente devastato. Si rotolò a fatica giù dal letto e raggiunse il bagno, si sciacquò la faccia e la bocca. Bevve anche un bel po’.
Tornò indietro. I suoi occhi si posarono sul corpo ancora addormentato di Cassandra sinuoso e immobile sotto il solo lenzuolo. Se non fosse rimasto schifato dal mondo a causa della sensazione di amaro lasciatagli in corpo dal risveglio veramente merdoso, il suo alzabandiera mattutino sarebbe stato motivato. Eppure sapeva di non dover avere certi pensieri, almeno pensava che non sarebbe stato proprio giustissimo.
Si vestì e uscì dalla stanza, doveva prendere un bel po’ d’aria. Subito il cambio di stanza si fece sentire. Il suo cervello ricevette una boccata d’ossigeno.
Uscì fuori dal centro per assorbire qualche fotone di luce solare. Si fermò con la schiena appoggiata alla parete a lato della porta di vetro del centro. Il suo sguardo fini a terra. E ovviamente nella generale sporcizia di quelle strade.
Alyanopoli era proprio un cesso, questo commento se lo erano risparmiato sia lui che Cassandra al loro arrivo, ma era sicuro che l’opinione era condivisa da entrambi. Decise di muoversi, aveva bisogno di sgranchire i muscoli e dato che non aveva soldi da sprecare in cavillismi quali la colazione, decise di trovare un modo di racimolare qualche nichelino.
Non era nel migliore dei posti per una roba del genere, ma voleva tentare, sicuro le opportunità non sarebbero mancate, la mattina non era praticamente ancora iniziata e la città dormiva, così come Cassandra. Ancora non erano scoccate le sei.
 
Giorno seguente. Celia era tornata quella mattina presto alla Palestra di Porto Acquario, la Capopalestra locale l’aveva accolta in quel meraviglioso edificio di vetro, trasparente e quasi etereo. Lei, Sirrah, era una mora silenziosa e dallo sguardo serio, aveva aperto personalmente le porte all’Allenatrice di Delfisia e l’aveva guidata al Campo Lotta senza dire una parola. Celia l’aveva squadrata per bene, portava un vestito lungo che cadeva sul suo corpo come una tunica. Sembrava una antica dea greca.
‒ Il primo Pokémon da mandare in campo dev’essere del Capopalestra ‒ sussurrò la ragazza dai capelli del colore della notte lanciando la prima Ball sul campo.
E un docilissimo Blastoise comparve nell’arena.
‒ Va bene, gioca duro, vai Samurott!
Il Pokémon Crostaceo e il Pokémon Dignità si scrutavano magnetici e affilati l’uno pronto a picchiare l’altro con decisione. Per ovvie ragioni la loro rivalità era particolarmente elettrica.
Megacorno!  ‒ ordinò Celia dando il via alle danze.
‒ Difenditi con Capocciata!
Il cranio corazzato di Blastoise e il corno osseo di Samurott cozzarono con violenza emettendo un suono aspro e stridulo. Entrambi ne uscirono doloranti, ma nessuno dei due prevalse.
Cannonflash! ‒ esclamò Sirrah.
Vendetta!
Troppo tardi per la Capopalestra, ormai il colpo era stato lanciato dal suo Blastoise, il fascio di luce metallifera investì il Pokémon Dignità, che si rialzò subito in piedi e colpì senza pietà l’avversario con un fendente della sua lama-conchiglia. Sicuramente Blastoise aveva incassato più di lui, Celia era decisa a mantenere il vantaggio.
‒ Ora vai con Nottesferza! ‒ fece la bionda.
Protezione! ‒ Sirrah sapeva come difendersi.
Colpo parato.
Lacerazione! ‒ di nuovo mossa di Samurott.
Morso!
Stavolta le sorti non erano a vantaggio di Celia, le fauci del rettile si chiusero attorno alla conchiglia di Samurott infrangendola in mille pezzi senza troppi complimenti.
‒ …merda… ‒ commentò la ragazza.
‒ Finito di scaldarti? ‒ chiese quindi la Capopalestra con uno sguardo serissimo in volto.
La bionda non fu proprio felice di sentire tali parole. Probabilmente aveva pure sottovalutato la sua avversaria. Autoingannarsi però è comodo, e si convinse che erano i muscoli di Samurott che ancora non erano perfettamente caldi.

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Capitolo 25
*** Capitolo 24 - Cambiamento ***


Capitolo 24 – Cambiamento

 

La situazione aveva un ago della bilancia che sembrava in perfetto equilibrio tra Celia e Sirrah, la sfidante e la Capopalestra, ma in realtà la prima aveva capito che la rappresentante di Porto Acquario stava solamente giocando con il suo Samurott. Blastoise, Pokémon avversario, aveva dimostrato di poter tenere testa ai colpi nemici senza tanti problemi e di disporre di un’offensiva ben poco sottovalutabile.
Megacorno!  ‒ Una delle conchiglie di Samurott era andata in frantumi, ma il corpo con il suo corno frontale non fu altrettanto facile da scartare. Blastoise incassò il colpo.
Idropompa! ‒ Fu la risposta di Sirrah.
E un violento getto d’acqua pressurizzata investì il mammifero acquatico dalla pelliccia blu di casa Celia.
Vendetta! ‒ il testa a testa avanzava senza esclusione di colpi, fu per una volta un po’ più fortunato Samurott che riuscì a concludere il secondo attacco davvero rilevante per l’avversario. ‒ Ritorna, riposati…
La Capopalestra vide il Pokémon Dignità tornare nella sfera della sua Allenatrice ed essere sostituito da un Clefable. Sybil era il suo nome.
‒ La situazione si fa interessante… ‒ commentò la donna che giocava in casa.
Celia aveva intenzione di far avverare il piano che aveva in testa, precedentemente lo scontro tra i due Pokémon di tipo Acqua si era limitato ad un semplice botta e risposta, aveva invece intenzione di pianificare qualche strategia più degna di tale nome con in mano il potere meno concentrato ma più raffinato del Pokémon Fata.
‒ Vai con Fogliamagica! ‒ E per la prima volta durante quella lotta vide la sua avversaria esprimere un sentimento attraverso la sua espressione facciale. Sirrah aveva capito che le capacità di jolly di Sybil non erano affatto da sottovalutare.
Ovviamente il colpo andò a segno, ma Blastoise non diede segni di cedimento alcuno.
‒ Blastoise, Focalcolpo! ‒ fu la ribattuta.
Una sfera di energia pura esplose contro il corpo di Clefable. Il Pokémon rotolò indietro per qualche metro per poi rialzarsi senza troppi problemi.
Metronomo ‒ ordinò Celia rinunciando alla tattica e affidandosi al caso.
Clefable si prese un millesimo di secondo per decidere, poi dal suo corpo scaturì una potente onda di energia dal colorito nero-violaceo, un Neropulsar. Poteva andare peggio, ma Blastoise era ancora in piedi.
Cannonflash, finiscila! ‒ fece Sirrah.
Fogliamagica ancora una volta! ‒ esclamò istintivamente l’Allenatrice.
E fu fortunata ancora una volta, dovendo Sybil lanciare un attacco molto meno pesante da controllare e che conosceva già dalla sua forma precedente, riuscì a precedere l’avversario con la sua tempesta di foglie iridescenti.
Celia ebbe una bella sorpresa: Blastoise che era rimasto impassibile e inscalfibile sotto il fuoco nemico fino a quel momento, crollò a terra tutto d’un tratto senza se né ma. Sirrah era delusa, glielo si leggeva in volto. La bionda era invece stupita, ma a quel punto comprese, i Pokémon della Capopalestra erano abituati a non mostrare di avere il fiatone, sopportavano incutendo timore al nemico ma crollavano alla fine. Sorrise, la ragazza. Si era rincuorata.
Secondo Pokémon mandato in campo dalla Capopalestra: un Vaporeon.
‒ Banale… ‒ commentò Celia.
E la lotta riprese, un Fogliamagica di Clefable provò a stendere il Pokémon Acquajet, ma quest’ultimo fu lesto a difendersi con uno Raggiaurora che congelò le foglie scagliate dall’avversario.
Nube, Vaporeon! ‒ ordinò Sirrah.
Una fitta nebbia gelida calò rapidamente sul campo di battaglia. Tutti persero visibilità, in particolar modo gli sfidanti.
‒ Adesso Scudo Acido! ‒ proseguì quella.
E non si udirono rumori né si videro fenomeni particolari, ma si intuiva tra le fila della squadra di Celia che il nemico stava limando gli avamposti di difesa.
‒ Cerca di colpirlo con Fogliamagica! ‒ esclamò Celia un po’ preoccupata per la situazione.
‒ Non darle soddisfazione, Acquanello! ‒ ribatté Sirrah.
E lì la bionda comprese la straegia avversaria, la Capopalestra aveva sfruttato la nebbia solo per avere il tempo di corazzare il suo Vaporeon, Pokémon che non brilla certo per difensiva. Ma poteva sfruttare il suo diversivo.
‒ Segui le foglie e colpisci Vaporeon con Magibrillio! ‒ si inventò la ragazza.
Fogliamagica era un attacco infallibile, quindi indipendentemente dalla direzione di lancio impostata da Clefable, avrebbe colpito il bersaglio. Perciò il Pokémon Fata poté sfruttare il percorso aperto nella bruma dal suo attacco per trovare in quel labirinto alternativo il suo nemico e lanciargli una seconda offensiva.
‒ Troppo tardi, Idropulsar! ‒ La luce del colpo di tipo Folletto di Sybil fu squarciata dall’onda d’urto che era l’attacco del Pokémon nemico. Colpo che, propagandosi maggiormente a causa della nebbia fittizia che altro non era che acqua evaporata dal terreno, ebbe il suo sfacciato effetto sul Clefable.
‒ Riprova, Magibrillio! ‒ esclamò la bionda.
Seconda volta, il colpo andò a segno. Vaporeon incassò, ma l’intervallata abilità ristoratrice di Acquanello lo rimise in piedi almeno parzialmente.
‒ Mi dispiace, Ultimascelta!
Forte colpo sfruttato al momento giusto da Sirrah. Sybil fu investita da un energia pura e variopinta scaturita dal piccolo ma resistentissimo corpo di Vaporeon e rovinò a terra pronta a cedere. La mossa poteva essere usata solo in certe circostanze, perciò era poco versatile, ma quanto a potenza era estremamente pericolosa.
‒ Cazzo, Sybil, usa Cuorardore... ‒ stratagemma conclusivo della ragazza, terminale ma efficace. Sybil rinunciò a quei pochi punti salute che le rimanevano svenendo e subentrò al suo posto il Samurott del primo round. Tale Pokémon fu rifornito di tutta la sua energia vitale dalla mossa del Clefable.
Sirrah non nascose il suo fastidio per tale tecnica, ma neanche pensò di tirarsi indietro. La sfidante andava provata, sconfitta se necessario, non tutti meritavano la sua medaglia.
Lacerazione! ‒ E la lama di Samurott incontrò la carne di Vaporeon.
Non furono troppo ingenti i danni, ma come inizio era carino.
Megacorno!
‒ Raggiaurora!
L’aspra contesa vide un vincitore solo dopo parecchi violenti scambi di battute a suon di colpi acquatici e non. Vaporeon era più agile e si era difeso con le sue mosse di stato, ma Samurott era decisamente più forte e resistente. Il Pokémon Dignità ne uscì provato ma a testa alta.
‒ Va bene, Celia, allora lo scontro vuole proprio arrivare al termine… ‒ commentò la Capopalestra.
‒ Sei un’avversaria temibile, Sirrah.
‒ Anche tu, ragazza, sarò felice di sconfiggerti.
‒ Idem.
E l’ultimo compagno della Capopalestra si mostrò nella sua interezza. Dalla terza Ball uscì fuori un Manaphy dolce e dalle fattezze non predatorie. Quanto sarebbe stato un errore giudicarlo dall’apparenza.
‒ Samurott, Conchilama!
Il Pokémon Oceandante nemicò eluse il colpo senza grossi problemi, era superiore a Samurott, e lo sapeva.
‒ Concludi, Psichico ‒ fece Sirrah.
E, come da copione, Samurott fu sottomesso da un energia telecinetica costrittiva incredibilmente superiore alle sue capacità difensive.
Mulinello!
E il mammifero avversario di Manaphy fu intrappolato in un vortice d’acqua violento e insistente. Non poteva muoversi, non intendeva farlo.
‒ Che cosa intendi fare? ‒ chiese quindi la Capopalestra alla sfidante.
‒ Farti male, parecchio… ‒ rispose semplicistica lei. ‒ Lacerazione, sfrutta la corrente d’acqua.
Le ultime forze di Samurott gli permisero di attuare il piano della sua padrona, il Pokémon afferrò l’unica delle sue spade rimasta, diede un fendente di cortesia quindi affidò il suo controllo al mulinello che lo intrappolava. Con un po’ di spinta vinse la forza centrifuga e riuscì a far sfruttare alla lama soltanto quella centripeta che la scagliò in linea retta e tangente al cerchio descritto dall’acqua sparandolo con precisione millimetrica, grazie al calcolo meticoloso delle tempistiche, verso il Manaphy avversario.
Non che la scena fosse particolarmente epica, ma la martellata ossea dritta sul cranio del Pokémon celeste rimbombò con grande reverbero nella palestra. Samurott KO ma Manaphy pure aveva incassato una botta non poco violenta.
L’ultima scelta di Celia fu rivelata di lì a poco, era una scommessa, ma una scommessa parecchio fiduciosa, Gabite fu felice di scendere in campo.
‒ Manaphy, Ventogelato! ‒ E cominciavano bene.
Fossa, Jin!
Il rettile evito l’alito glaciale infilandosi sottoterra, ciò bastava.
‒ Colpisci con Dragartigli! ‒ E tale fu l’attacco, Gabite uscì dal sottosuolo fendendo la difesa di Manaphy con le sue unghie.
‒ Continua, Dragofuria! ‒ La combo non accennava a terminare, Manaphy incassava senza dare particolari segni di cedimento ma lasciando intravedere la fatica.
‒ Manaphy, Sub!
E la tattica spiazzò tutti. La fossa in cui si era infilato Gabite si colmò d’acqua non appena il Pokémon vi entrò, Manaphy si era disciolto nel suo elemento fino a divenire virtualmente impercettibile.
‒ Prevedilo, Terremoto! ‒ provò ad opporsi Celia.
‒ Nessun movimento.
Sirrah aveva ragione, normalmente una mossa del genere avrebbe danneggiato in maniera esponenziale un Pokémon che si nascondeva sottoterra, ma un Manaphy di forma liquida era inutile da bersagliare, soprattutto se da una mossa dinamica. Unica nota positiva: lo spaccarsi del terreno ruppe il tunnel in cui era contenuta l’acqua facendola cominciare a fuoriuscire tutta.
‒ Jin, ho capito, Ira Di Drago sulla pozza!
Poco da fare, Manaphy sapeva già come contrastarlo, il Pokémon si rimaterializzò proprio dalla parte opposta a quella verso cui guardava il drago e lanciò un acuto Supersuono per rincitrullirlo. In quel momento avvenne qualcosa di particolare che stupì sia Sirrah che Celia.
Probabilmente il caso aveva voluto così, ma secondo altre teorie in quel momento la percentuale di baci al culo della dea bendata l’ebbe Celia: proprio quando doveva essere confuso e quasi inerme, Jin decise che era il momento di evolversi riprendendo la lucidità e anzi contrastando il nemico con un potente Sgranocchio. Il caro Jingle nelle mani della biondina era diventato un Garchomp, Pokémon Mach, davanti ai suoi occhi.
‒ Vai, sì, Doppiocolpo! ‒ fu l’ordine della ragazza.
E con entrambe le appendici taglienti delle braccia, Jin affondò nei confronti di Manaphy avversario.
Ventogelato, stavolta distruggilo!
‒ Proteggiti!
Jin si oppose fisicamente all’attacco di tipo Ghiaccio resistendo stoico, ma i cristalli di congelamento sul suo corpo denotavano l’ingenza dei danni ricevuti.
Psichico! ‒ ancora un colpo impossibile da evitare.
Jin stava perdendo l’entusiasmo ottenuto con l’evoluzione.
Dragofuria! ‒ e senza troppi problemi, un violento slam del dragone che investì con la sua mole l’avversario minuto.
 
Otto e qualche minuto, Xavier era tornato al Centro Pokémon ove aveva lasciato la ragazza ancora dormiente nel letto. Prima di rientrare nella camera fece un resoconto: aveva aiutato in quattro bar, tre uffici pubblici ed era riuscito a scroccare un lavoro persino al tizio dell’autolavaggio. In tasca aveva quei soldi che lo avrebbero campato ancora per qualche giorno, ma i suoi progetti erano altri, voleva ottenere di più e non solo perché, essendo al verde peggio di un Bulbasaur, non poteva permettersi certi strumenti più comodi ma di alta classe, anche per la semplice motivazione che lui trovava nella questione personale che il problema soldi era divenuta.
E anzi, l’essere stata causata non da lui bensì da Celia aveva reso l’emergenza ancor più stimolante per lui. Scazzato, sì, ma anche in quel caso gli toccò fare il bravo fratellone.
Decise che avrebbe mandato metà degli incassi a sua sorella, le avrebbero fatto comodo.
Rientrò nella stanza del Centro, il biglietto in cui aveva avvisato della sua sparizione improvvisa era ancora al suo posto, ma Cassandra era sparita.
Panico. Tutte le sue… no, invece… Xavier la vide uscire dal bagno con un asciugamano attorno al corpo e nient’altro addosso, oltre le goccioline sulla pelle che viaggiavano lungo itinerari sconosciuti e sinuosi che il ragazzo avrebbe tanto voluto percorrere e ripercorrere.
‒ Dove sei stato? ‒ chiese sorridente la Capopalestra di Idresia.
‒ In giro, dovevo vedere certe cose che avevo intravisto venendo qui con l’ausilio del sole.
‒ Beh, va bene, ora però forse dovremmo muoverci ‒ fu la proposta della castana.
 
Xatu era senza parole. Aveva visto Kalut bere, mangiare, entrare a feste e disconoscerle nella loro totalità per via del caos incomprensibile e della puzza. Quella notte il ragazzo dai Capelli bianchi aveva sentito il bisogno di addormentarsi per un attimo e fare, in termini non propriamente tecnici, “quel cazzo che voleva”.
Così aveva fatto l’umano, qualsiasi parte fosse quella da interpretare. In quel momento invece dormiva, nel lenzuolo che aveva posato sulla superficie di un tetto; il giorno era tornato.
“Che diavolo ti è venuto in mente, ragazzo?” pensò il volatile.
Poi si rese conto che in realtà Kalut comprendesse i suoi pensieri, almeno durante il sonno.
E tacque, tacque per la maggior parte della sua dormita.

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Capitolo 26
*** Capitolo 25 - Crescita III ***


Capitolo 25 – Crescita III

 

‒ Continuiamo…
Celia era stanca, ma non particolarmente ansiosa. Aveva davanti quella piccola creaturina azzurra di un Manaphy, che aveva incassato tante di quelle botte da farla sentire una maestra violenta coi bambini ma non aveva ancora dato il minimo segno di cedimento.
‒ Sei brava, Celia, ma non sono ancora convinta che tu possa sconfiggermi ‒ affermò con monumentale naturalezza la Capopalestra Sirrah.
‒ Beh, se non ci proviamo non lo sapremo mai…
‒ Anche questo è vero, ma io ti consiglierei di risparmiare le forze del tuo Pokémon, per evitare che sia costretto al ricovero dopo la conclusione della lotta ‒ spiegò la ragazza.
Celia rimase non poco interdetta.
‒ Fidati di me, non sottoporre a questa tortura il tuo Garchomp…
La bionda si fece sotto, cercando di vincere la paura con l’azione: ‒ Dragofuria!
Un altro attacco incassato in pieno da Manaphy, un altro attacco che non modificò la situazione. Manaphy resisteva, sembrava non sentire neanche i colpi che si schiantavano su di lui. E Celia si chiedeva come ciò fosse possibile, ma non riusciva a trovare risposta.
Momento di stallo, Manaphy utilizzò Codadiluce mentre Garchomp riprendeva fiato. Fu un attimo, alla ragazza di Austropoli venne un’idea, aprì il PokéNet e cercò la pagina dell’Enciclopedia dedicata a Manaphy, la raggiunse, ivi il Pokémon Oceandante era approfondito in ogni senso e in ogni sfaccettatura, ma nessuno dei dati faceva riferimento all’incredibile resistenza che stava dimostrando in quello scontro, anzi, le statistiche medie che l’Enciclopedia assegnava a Manaphy erano piuttosto eque.
Quando la ragazza alzò lo sguardo dallo schermo del PokéNet, incrociò gli occhi della Capopalestra. Sirrah la stava fissando e sembrava non avere altro in testa, la guardava con un’espressione assente stampata in volto, sembrava avere la faccia di chi ha appena ricevuto una brutta notizia.
Celia fu talmente empatica da avvertire il groppo allo stomaco insieme alla mora dall’altra parte dell’arena. Ovviamente sfogò urlando: ‒ Terremoto, vai Jin!
Inaspettatamente, la Capopalestra non reagì, lasciò che il suo Manaphy incassasse il colpo. Sembrava essersi distratta.
‒ No! Manaphy, Ventogelato!
L’attacco danneggiò parecchio Jingle che bloccò per pochissimo la sua grinta. Ormai le sue energie si avvicinavano agli sgoccioli, era stanco di combattere, ma come un degno esemplare della sua specie, non avrebbe smesso di utilizzare tutta l’energia a lui concessa fino all’ultimo.
Celia era preoccupata, si era resa conto anche lei che Sirrah era nettamente superiore come Allenatrice e che si erano trovate in parità solo per un paio di scelte infelici della Capopalestra, ma aveva cercato di fingere che non fosse così. Eppure, una fioca di speranza tornò a brillare quando avvenne qualcosa che neanche lei si sarebbe mai aspettata.
Garchomp, come la fiamma della candela che emana il più luminoso bagliore prima di spegnersi, catalizzò tutte le sue energie e gettò fuori un ruggito che fece tremare i vetri di cui era composta la Palestra, sia Sirrah che Celia videro delle sostanziose cariche di energia splendente concentrarsi davanti alla bocca di Jin per formare una sfera che, lanciata in aria dal Pokémon Mach si frammentò in un millisecondo ricadendo sotto forma di una pioggia brillante e pericolosissima nell’area di Manaphy.
La bionda dagli occhi lilla non poteva credere ai suoi occhi, il suo Garchomp aveva appena usato Dragobolide, mossa particolare che aveva sentito solo alcuni fossero in grado di insegnare ad un élite ristretta di Pokémon. Quando le meteore si erano avvicinate al suolo, aveva udito il grido di Sirrah che aveva tentato di farsi venire in mente qualcosa per reagire, ma poi il frastuono delle esplosioni che risuonavano dall’altra parte del campo aveva otturato le sue orecchie.
Un grosso polverone si era innalzato a seguito del violento colpo. Un momento di calma era seguito a quel disastro, momento che diede il tempo a Garchomp di respirare, a Celia di digerire l’accaduto, a Sirrah di comprendere la situazione e a Manaphy di mollare la presa e cadere a terra arrendendosi.
Il Pokémon Oceandante avversario era KO, Celia aveva conquistato la Medaglia Bussola. Quella più sorpresa era proprio lei, che non aveva visto l’ombra del minimo dolore nell’avversario fino al momento della sua resa.
Entrambi i Pokémon rientrarono nelle loro sfere, le sfidanti si incontrarono al centro dell’arena ormai ridotta ad uno scavo archeologico, la donna “di casa” mostrò il badge alla vincitrice della sua palestra. Una rosa dei venti cerulea in formato rimpicciolito, con quattro punte che avrebbero simbolicamente dovuto indicare i quattro punti cardinali, era la medaglia Bussola.
Complimenti, non mi aspettavo una simile ripresa… ‒ commentò Sirrah.
La donna era di poche parole, Celia ringraziò, quindi decise di uscire da quel luogo. Aveva un Pokémon che si era evoluto con la lotta, aveva imparato una mossa nuova e le aveva fatto guadagnare un’altra medaglia.
Era felice.
 
‒ Quindi questa dovrebbe essere la palestra di Alyanopoli? ‒ domandò sardonico Xavier.
Lui e la castana si trovavano davanti ad una porta nera e unta con un paio di scritte lasciate sopra da qualcuno che aveva giocato a fare il writer, un cartello troneggiava appeso sopra all’ignobile entrata: “Palestra Gorgone, Capopalestra: Perseo”. Ovviamente il palazzo non era di qualità superiore, una infelice palazzina di periferia in mattoncini scuri e finestre piccole.
‒ Come siamo caduti in basso, vero? ‒ fece Cassandra.
‒ Dio… che schifo ‒ commentò felicissimo il ragazzo di Austropoli.
‒ Che si fa?
‒ Penso di poterti risparmiare la visita, tu vai a… non so, a divertirti magari… qua me la sbrigo io personalmente ‒ disse il ragazzo.
‒ No, sono anche io una Capopalestra e mi sento personalmente chiamata in causa per certe cose, voglio rendermi conto della situazione.
‒ Mh… ok ‒ sbuffò Xavier.
‒ ‘ndiamo.
I due aprirono la porta sudicia, si ritrovarono compressi in una piccola stanzina dall’aria consumata e fetida. A Xavier ricordava molto la Palestra di Velia a Zondopoli, ma lì non si sentiva la musica prodotta dalla band della ragazza di sottofondo e soprattutto non si respirava quell’aria di bettola rockeggiante. Quella era solo una stanzina, una comune e banale stanzina.
Il ragazzo si guardò attorno per qualche lungo attimo. I suoi occhi giunsero ad una risposta, sul muro nero pece si era infatti un piccolo interruttore quasi impercettibile che si apprestò a cliccare. Non passarono due secondi che la parete che fino a quel momento a entrambi i presenti era sembrata neutra si spalancò dando la possibilità ai due di passare ad un secondo dungeon. Una scalinata scura e poco promettente si era parata dinanzi a loro.
‒ Identificatevi ‒ ordinò una voce registrata risuonante nello stretto locale.
‒ Sono qui per sfidare la Palestra di Perseo, sono un Allenatore, lei è con me ‒ rispose prontamente Xavier.
‒ Attualmente il Capopalestra non può essere a vostra disposizione, siamo spiacenti, provate a ripassare…
‒ Perseo, sono Cassandra, facci salire! ‒ partì in contropiede la ragazza.
Momento di silenzio. Poi si udì qualcuno smanettare con qualcosa vicino al microfono.
È aperto… ‒ borbottò poi la voce.
Entrambi sentirono uno scatto provenire dalla porta che si trovava sulla cima della scalinata. Xavier e Cassandra salirono e penetrarono pure l’ultimo portone. Nella stanza che si nascondeva dietro quest’ultimo li aspettava uno scenario che mai nessuno si sarebbe aspettato da una palestra.
Un ambiente che ricordava in tutto e per tutto l’appartamento di un nerd molto disordinato faceva da prima stanza di quella che era la Palestra di Perseo. Il ragazzo che Xavier ricordava bene e identificava con tale nome li stava aspettando con le braccia dietro la schiena davanti all’entrata.
‒ Buongiorno, collega ‒ salutò il moro col codino riferendosi alla bella castana.
‒ Che postaccio, cerchiamo di fare presto così posso andarmene… ‒ fece per tutta risposta lei rivolgendosi a Xavier.
‒ Perseo, giusto? ‒ chiese il ragazzo allungando la mano per stringere quella del Capopalestra. Nessuna reazione.
‒ Vorrei vincere la medaglia Gorgone, dovremmo combattere ‒ mormorò il ragazzo. Ancora nessuna risposta.
‒ Mi dispiace ma non è possibile… ‒ mormorò il tipo.
 
Kalut dormiva, non era accaduto molto, quella notte oltre al cibo e alle feste a cui era andato senza intendere cosa fossero ma solamente per capire come funzionassero gli esseri umani in dei luoghi pubblici.
“Stare sveglio solo di notte sarà davvero controproducente, non potrai entrare in negozi, ristoranti o comunque posti notoriamente aperti solo di giorno, mi capisci?”
Xatu stava parlando con il corpo addormentato di Kalut, sapeva che quando si sarebbe rialzato avrebbero avuto più cose da dirsi.
“In più non condivido appieno la tua scelta del metodo di comprensione degli umani, l’improvvisazione non va mai bene quando si tratta di una situazione così particolare…” proseguiva il volatile.
“Ma comunque non fa niente, sono felice che nessuno ti abbia visto o comunque si sia accorto della tua presenza, per il resto del mondo non esisti…”
 
Celia era uscita dalla palestra, sedeva su una panchina con il suo diario in una mano e la matita nell’altra, stava parlando con Avril delle sue esperienze mattutine, aspettava solamente di mettere in chiaro i pensieri a proposito di Jin.
“Ho vinto contro Sirrah, non me l’aspettavo proprio se devo dire la verità…”
“Ti è andata meglio di quanto pensassi.”
“Hai ragione, ma penso anche che una buona dose di fortuna legata all’evoluzione di Jin sia da ringraziare.”
“Tu lo avevi mandato in campo con la sola speranza di vederlo evolvere?”
“In pratica…”
“Ottimo, ma che mi dici di Manaphy?”
“Ah, penso di aver capito… sembra che una tecnica intimidatoria molto usata da alcuni combattenti sia quella di intimorire l’avversario mettendo in risalto la propria invulnerabilità, far credere di essere più forti di quel che si è a volte funziona…”
“Quindi secondo te Manaphy avrebbe finto di essere ancora a posto per tutta la lotta finché l’ultimo colpo non lo ha sfinito facendolo crollare di punto in bianco…?”
“Esatto.”
“Mh, teoria molto particolare…”
“E da ciò ho capito che non solo la forza conta, ma anche l’attitudine e il proprio modo di proporsi fanno la differenza nelle lotte. Bisogna provare ad unire intelligenza ed estetica, vorrei davvero tentare appena ne avrò l’occasione.”

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Capitolo 27
*** Capitolo 26 - Domanda ***


Capitolo 26 – Domanda
 
Celia era fuori dalla struttura vitrea e traslucida che era la Palestra di Sirrah, si era appena alzata dalla sua panchina. Aveva una medaglia in più, tre Pokémon un po’ più sudati, la gola leggermente dolorante per le grida e la netta sensazione che qualcosa non andasse per il verso giusto.
‒ Celia, chi si rivede! ‒ fece una voce greve in lontananza.
La bionda si voltò. E subito un sorriso strano spuntò sul suo volto. Antares era comparso con la sua cascata di capelli scompigliati e un Absol dal pelo del colore della neve al seguito.
‒ Antares ‒ salutò mezza convinta la ragazza.
Il Campione della Lega mise amichevolmente la mano sulla spalla di lei senza smettere di muoversi, i due cominciarono a camminare nella stessa direzione.
‒ Allora, a che punto sei con le medaglie? ‒ chiese l’uomo.
‒ Attualmente sono a quota tre, diciamo che me la sto prendendo comoda… ‒ rise lei.
‒ Ah, ma è giusto che sia così, dai, devi anche divertirti e distrarti un po’.
Antares condusse, senza aver mai pianificato la cosa, la giovane ragazza fino alla sua auto. Celia neanche se ne accorse e tra una domanda e l’altra avevano già percorso un paio di isolati.
‒ Che ne dici, vuoi un altro strappo? Magari posso accompagnarti io alla prossima città.
La bionda, che aveva visto comparire davanti a sé quel BMW nero cromato, non poté rifiutare.
‒ Però prima vorrei portare i miei Pokémon al Centro ‒ sottolineò.
‒ Fai con comodo, io ho ancora un paio di commissioni da fare qui attorno, ti passo a prendere direttamente al Centro.
I due si separarono, Celia si indirizzò verso il centro più vicino, lo raggiunse, quindi affidò le tre Ball dei suoi compagni che avevano combattuto in quella lotta all’infermiera. In quel momento, con la voce della anchor-woman del tg di sottofondo, l’odore di vaniglia del deodorante per ambienti e anche una certa pesantezza delle palpebre, cominciò a riflettere sulla situazione:
“Avril, sono alla terza medaglia di Sidera, ho un fratello dall’altra parte della regione e un padre adottivo che mi aspetta a casa ed è ancora estate. La mia squadra è composta da Pokémon forti ma che dovrebbero risvegliare in qualche modo la loro voglia di lavorare e porto al polso uno strumento davvero molto figo e comodo che però ancora non esiste in commercio.”
“Cipolle, crocchette e fagiolini?”
“Che?”
“Ah, no scusa, ah bene, vedo che siamo messe più o meno allo stesso modo…”
“Scema.”
“Che devo dirti, la situazione è questa, perché elenchi cose che già conosco quando vorresti solo chiedermi se penso che Antares sia un pedofilo?”
“Vaffanculo.”
“Non puoi attaccarmi il telefono in faccia, sono la tua coscienza.”
“Non sei la mia coscienza, è che non si ha idee su come farmi comunicare con qualcuno!”
“Oh.”
“Inutile, dai, almeno rispondi…”
“Essendo la voce anche del tuo subconscio, sì lo penso, sono paranoica per natura.”
“E poi un Campione della Lega che commissioni deve sbrigare a Porto Acquario?”
“Credo sia arrivato…”
Celia si voltò, effettivamente i vetri oscurati dell’auto di Antares la scrutavano attraverso le porte trasparenti del luogo di servizio.
“Cazzo, vetri oscurati.”
“Non essere così volgare…”
“Smettila, anche tu hai paura.”
“Sicura?”
“No.”
“Paranoica…”
“Ah, già…”
“…”
“Dai, pensaci, lui avrebbe potuto approfittarsene più volte ma non l’ha mai fatto, secondo me fidarsi non comporterebbe alcun rischio.”
“A posto.”
Avril tacque. Celia riprese le sfere e, uscita dal Centro, salì nella macchina con Antares che la aspettava al posto di guida per evitare che sostenitori accaniti lo rallentassero assalendolo. Si adagiò sulla morbida pelle del sedile, il Campione le sorrideva, al suo posto.
‒ Allora, destinazione? ‒ chiese lui.
‒ Oh, a dire il vero non ci ho ancora pensato, potrei passare ad Alyanpoli per poi salire verso nord, andare direttamente a Telescopia o tornare indietro per passare nelle città più a sud che ancora non ho visitato…
‒ Beh, se posso darti un consiglio, passare per prima cosa all’estremo nord, a Telescopia e poi farsi un unico grosso viaggio a ritroso verso Delfisia non è una cattiva idea.
‒ Mh, forse hai ragione, vada per Telescopia.
Antares mise in moto, il dado di peluche che teneva appeso allo specchietto sobbalzò a ritmo col motore. I due in auto uscirono dalla città e sotto la guida consapevole e sicura dell’uomo cominciarono il viaggio che poco non sarebbe durato.
 
‒ Il Capopalestra affronta gli sfidanti, questo è quello che hanno fatto tutti i Capipalestra da sempre in ogni luogo del mondo e io devo confrontarmi con uno che sostiene che solamente il denaro può vincere la sua medaglia! ‒ esclamò Xavier.
Il castano e il moro di Alyanopoli stavano discutendo da un po’, il Capopalestra aveva la sue condizioni: la medaglia Gorgone aveva un prezzo, un prezzo che solo lui poteva stabilire.
‒ Cazzo, aiutami Cassandra, tu che conosci queste cose, è legale chiedere soldi in cambio di una medaglia?
‒ Tecnicamente nel regolamento non si dice nulla a proposito, ma credo che con un po’ di pazienza si riuscirebbe a far diventare questa sua usanza assurda un reato di corruzione, un buon avvocato ci metterebbe due minuti esatti ‒ ripose lei mantenendo il suo sguardo da giaguaro furioso al ragazzo.
‒ Mi dispiace davvero, ma la decisione spetta a me e solamente a me in questo caso, e se vuoi la medaglia sganci, altrimenti… nulla ‒ ribadì con fare arrancante il Capopalestra.
‒ Senti, Xavier, mi faresti il favore di dirmi dove si trova la più vicina centrale di polizia? ‒ chiese velenosa Celia.
‒ Certo ‒ e il ragazzo controllò la mappa sul PokéNet ‒ poco lontano da noi, al confine col quartiere limitrofo.
‒ Hai sentito, Perseo?
In quel momento il volto del ragazzo dal codino cambiò radicalmente, passò dall’impaurito al penoso, immediatamente tirò fuori dalla giacca una delle sue medaglie e la lanciò a Xavier. Il castano la prese al volo non senza un velo di imbarazzo.
‒ Non chiederti niente, non farmi domande. Penso di aver cambiato idea… ‒ spiegò ben poco razionalmente il Capopalestra.
Xavier non aprì bocca, si limitò a seguire la ragazza dagli occhi magnetici che lo invitava ad uscire da quel postaccio che era l’indecente palestra di Alyanopoli, con la medaglia Gorgone a forma di sfera violacea con un serpente attorcigliato e due piccole protuberanze che ricordavano molto lontanamente delle ali. Poco prima che riprendesse la porta che conduceva fuori da quel luogo, incrociò lo sguardo di Perseo che, sedutosi alla sua scrivania aveva aperto Google sul suo PC. Senza volerlo, un poco destabilizzato dalla situazione, Xavier volle leggere ciò che il ragazzo aveva digitato sulla barra di ricerca; quando lo fece, capì subito che quelle tre parole quasi insignificanti erano dirette a lui:
“fatti due domande”
Trasse un sospiro.
‒ Sì. Sì, lo farò ‒ disse sapendo che Perseo lo stava ascoltando.
Quindi uscì dalla stanza e chiuse la porta.
 
‒ Quindi sei riuscita a vincere contro Sirrah? Mi fa piacere, quella donna è un’Allenatrice temibile ‒ commentò Antares.
Lui e Celia stavano cercando di ammazzare il tempo parlando di argomenti che difatti interessavano veramente poco a ognuno di loro due, ma è così che funziona quando si vuole evitare il silenzio dell’imbarazzo.
‒ Aspetta un momento ‒ fece la ragazza. ‒ vorrei controllare dove si trova mio fratello, ora.
E detto ciò accese il PokéNet e consultò la mappa. Antares taceva intanto.
Il puntino che indicava la posizione di Xavier era fermo ad Alyanopoli, come Celia si aspettava.
‒ Potrei incontrarlo tornando verso sud, è una buona idea… ‒ commentò la ragazza.
‒ Dimmi, Celia, ti trovi bene con il PokéNet? ‒ chiese atono il Campione.
‒ Beh, devo dire che è molto utile, sicuramente dà parecchio una mano ‒ rispose.
‒ Bene, mi fa piacere… ‒ e Antares fallì clamorosamente nel nascondere quella smorfia di disappunto, prima ci era riuscito bene, ma la palla non va in buca una seconda volta.
Celia lo guardò incuriosita.
‒ Che succede? ‒ domandò con un filo di voce appena.
L’uomo scosse leggermente la testa ‒ niente, niente ‒ fece.
‒ Antares ‒ la bionda divenne serissima. ‒ Che succede?
 
‒ Come diavolo hai fatto? ‒ chiese Xavier.
‒ Che cosa? ‒ non capì Cassandra.
‒ A convincerlo con uno sguardo ‒ spiegò lui.
‒ A, beh, segreti femminili?
Xavier rise. Ma con contegno.
‒ Bah, evito pure di chiedermele certe cose… ‒ rinunciò.
Eppure, un velo di sospetto, si era infilato sottile sottile dietro la sua schiena e, umidiccio e fastidioso, gli aveva mandato un brivido di avvertimento.
‒ Allora, dove si va a pranzare?
‒ Penso di aver visto un ristorantino niente male qua vicino… che ne dici?
‒ Paghi tu?
Quella domanda lo stroncò lì per lì, si ricordò che avrebbe dovuto mandare dei soldi a Celia, ma la cosa gli era completamente uscita da un orecchio. Quella ragazza senza soldi, le faceva pena il solo pensiero.
‒ Certo, a una scroccona così bella chi non offrirebbe un pranzo?
Imprecò nella sua mente, gli tornarono alla luce anche le parole scritte da Perseo che aveva momentaneamente dimenticato. “Fatti due domande”.
Di nuovo il sospetto bagnato e gelido gli attraversò il midollo. Che cosa voleva dire quel ragazzo? Sembrava saperla lunga, ma allo stesso tempo non fregarsene.
‒ Andiamo? ‒ e porse il braccio alla castana.
‒ Sì, ma prima passiamo al Centro, vorrei togliermi di dosso la periferia…
E in due si incamminarono.
 
“Non so, dimmi tu, Kalut, hai mangiato fino a strafogarti, sei entrato a ben tre feste private e ignoro come tu abbia fatto sinceramente, hai lavato e asciugato il lenzuolo in una lavanderia aperta ventiquattro ore su ventiquattro, hai acquistato tre Poké Ball e penso ti sia anche scolato due tre cocktail con altri soldi rubati…” commentò Xatu. “E neanche ti piacevano, mi spieghi che cosa intendevi fare stanotte? Perché hai fatto tante cose senza che nessuna di loro ti interessasse davvero?”
Il ragazzo dormiva, il volatile lo sorvegliava. Come prima, tutto normale.
Eppure c’era qualcosa di strano nel suo sonno, nel sonno del ragazzo: era inquieto, pieno di movimenti bruschi e contorsioni.
Non stava dormendo bene, e Xatu si rese conto che era la prima volta che lo vedeva avere dei problemi durante il sonno. Ebbe un’idea, decise di entrare e leggere la sua mente, ciò lo avrebbe aiutato a capire cosa non andasse nel riposo del ragazzo.
Il pennuto chiuse gli occhi.

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Capitolo 28
*** Capitolo 27 - Ambizione ***


Capitolo 27 – Ambizione

 

L’aria all’interno dell’auto del Campione Antares era diventata pesante per il suo proprietario. Lui stesso aveva fatto intendere alla ragazza che qualcosa non andasse per il verso giusto, e lo aveva fatto di proposito.
‒ Hai notato qualcosa di strano, vero? ‒ chiese l’uomo alla sua passeggera senza staccare gli occhi dalla strada.
‒ Sì, ho notato molte cose strane ‒ rispose Celia.
‒ Mi hanno chiesto di renderti partecipe della cosa, ormai è giunto il momento.
‒ Di che cosa?
‒ La FACES.
‒ La federazione della sicurezza? Quelli che ci hanno fatto avere i PokéNet?
‒ Esattamente, di questo voglio parlarti…
‒ Che cosa c’è?
‒ Devi sapere che questa associazione, allo stato attuale, ha in mano un potere economico incredibile. Si occupa di salvaguardia e tutela in tutto lo stato e con tutto quello che è successo negli ultimi anni, ‒ Antares prese fiato ‒ ha avuto un’attività e una richiesta tali da… renderla potentissima.
‒ E tutto questo che significa? ‒ domandò lei.
‒ Significa che prima era la Federazione delle Leghe Pokémon a sovvenzionare la FACES. Ma ormai sono loro che hanno in mano non solo la sicurezza pubblica, ma anche le casse dello stato, basta un loro sconsiderato schiocco di dita e quasi tutte le regioni cadrebbero.
‒ Continua.
‒ Allora, ritrovandosi con tutto questo potere in mano, la FACES ha deciso di avviare un progetto parecchio ambizioso, il PokéNet.
‒ Questo orologio? ‒ chiese lei mostrando il polso.
‒ Orologio… no, lo strumento che hai al polso è solo il prototipo di uno dei terminali che si collegano al PokéNet, in realtà sotto questo nome sta il loro progetto di una rete che colleghi ogni singolo Allenatore Pokémon del mondo, ogni palestra, ogni istituzione.
‒ Ma è bellissimo ‒ ribatté entusiasta la bionda.
‒ Celia, aspetta a giudicare, loro fanno questo per aumentare la sicurezza e la salvaguardia, ma ciò significa che essere un Allenatore di Pokémon sarà come essere in un videogioco, creare una perfetta connessione tra ogni angolo della regione e ogni Allenatore ha come obbiettivo il limitare la libertà di ognuno. Un Allenatore capace di Allenare Pokémon troppo potenti potrebbe rivelarsi potenzialmente pericoloso per la popolazione.
‒ Non capisco, l’idea della rete degli Allenatori mi piace, ma non capisco cosa dovrei temere di questo progetto…
‒ Impedire agli Allenatori di diventare un pericolo per la società si traduce in impedire agli Allenatori, passati, presenti o futuri che siano, di diventare troppo potenti o di acquisire troppa esperienza, in altre parole: regolamentare persino l’attività di allenamento e crescita dei Pokémon.
‒ Regolamentare?
‒ Dare dei sentieri, delle linee guida, dei limiti.
Celia tacque.
‒ Il PokéNet dev’essere lo strumento che, diffuso a tutti gli Allenatori, attesti la loro effettiva esistenza e monitorizzi le loro attività. Come una specie di cartellino con il tuo nome sopra che invia rapporti sul tuo lavoro al tuo capo.
‒ E non è bene.
‒ Vogliono diffonderlo come strumento innovativo e di comodità, come un nuovo modello di un telefono o qualcos’altro, ma il loro scopo è intrufolarsi pian piano sempre più nella quotidianità. Per questo motivo hanno bisogno di voi tester, di qualcuno che permetta ai loro software di raccogliere informazioni e perfezionarsi, adattarsi alla vita delle persone… ‒ la fissò con gli occhi vitrei e atroci di un caimano. ‒ stanno facendo perfezionamenti, limandosi, tu e Xavier siete solo le ennesime pedine; non si crea un’intelligenza dal nulla, il PokéNet deve avere basi reali e concrete. Tu e tuo fratello gliele state dando. Assieme a tutti gli altri Allenatori itineranti reclutati nelle altre regioni.
‒ Ma non hai detto che ci hai scelti personalmente dopo accurate ricerche per proporci alla FACES?
‒ Sì, ma ciò non significa che ero d’accordo con tale progetto. Ti ripeto, la FACES potrebbe far cadere la Lega da un momento all’altro, per il potere che ha. Ci ha costretti, io non sono d’accordo con questo progetto, ma non ho potuto oppormi a loro, mi tengono per il collo… ‒ mormorò. ‒ E ti chiedo scusa per ciò che ho cercato di fare… ‒ fece poi.
Celia lo guardò interrogativa.
‒ Ho sostituito molti dei miei Capipalestra: Perseo, Luna, loro non combattono, da Arturo ti ho fatto regalare la medaglia, Castore e Polluce sono due ragazzini, ancora non veramente all’altezza del loro ruolo… tutto questo per ridurre l’afflusso di dati raccolti dai vostri PokéNet, rallentare il loro lavoro, ingannarli… ‒ spiegò.
‒ Era un tuo piano?
‒ Così come il seguirti e facilitarti gran parte del viaggio, non avevo altro modo, la FACES non sospetta niente.
Cadde silenzio tra i due. Celia rifletteva sulle informazioni appena ricevute e Antares cercava di far sparire l’amaro delle sue parole che gli era rimasto in bocca.
‒ Perché hai voluto dirmi tutto solo così tardi? Xavier sa qualcosa?
‒ Mi hanno chiesto loro di tenerti all’oscuro dei fatti fino a nuovo ordine e no, tuo fratello non sa niente, ma anche lui ha un custode che presto lo informerà sulla situazione.
Celia tacque ancora un istante.
‒ Quindi qual è la cosa migliore da fare, ora?
‒ Non lo so, penso che ora vorranno fare qualcosa con te, non sono tipi da lasciare le cose in sospeso ma neanche gente pericolosa. Forse hanno deciso che è arrivato il momento di darti lumi sul loro progetto per darti l’opportunità di unirti a loro. Ma è solo una supposizione.
La ragazza, alla terza pausa, cercò di fare un recap nella sua mente: il suo viaggio ancora non terminato a Sidera era stato una specie di farsa, una società che non piaceva molto ad Antares e dalla quale neanche lei era particolarmente allettata la stava utilizzando come tester di un prodotto non troppo simpatico, presto lei si sarebbe confrontata personalmente con questi tipi e probabilmente quella morsa che sentiva attorno al cardias dimostrava che la prospettiva non la rassicurava più di tanto. Un viaggetto di un paio di giorni con un orologio al polso e qualche eufemismo di troppo. E poi si rese conto che qualcosa l’aveva portata fino a quel punto, il suo guardo tornò ad Antares, che si accorse di essere scrutato e tornò con la sua faccia da uomo preoccupato ma non turbato dalla situazione che guarda l’orizzonte. Quell’uomo così particolare, simpatico e affabile ma perito e responsabile, era riuscito ad introdursi nella sua vita con estrema facilità. Si erano incontrati due o tre volte e già non gli dava più del lei, come sarebbe stato idoneo, essendo lui una delle massime autorità della regione; parlavano senza problemi di argomenti così spinosi e lei aveva persino accettato un passaggio da lui, pure più volte.
“Se fosse stato un pedofilo, sarebbe stato un ottimo pedofilo…” aggiunse Avril.
“Zitta!”
“Tanto so che anche tu lo pensavi…”
Celia comprese finalmente che ciò che sarebbe accaduto a lei, sarebbe dipeso da Antares, sia come colpa, sia come merito. Era preoccupata, non poteva negarlo, ma allo stesso tempo un po’ la presenza del Campione la rassicurava.
“Cosa avevi pensato? Una gita per chiudere l’estate in bellezza?” chiuse la sua amica che viveva nel bilocale che era il suo cervello.
 
Xavier e Cassandra si trovavano in un parco pieno di siringhe e mozziconi. Entrambi dovevano fare particolare attenzione a dove mettevano i piedi, ma Cassandra aveva bisogno di fermarsi e accendersi una sigaretta dopo aver mangiato.
Intanto Xavier la guardava, la guardava con gli occhi di chi si aspetta qualcosa ma non vede arrivare nulla, lei era pensierosa, inquieta e lui impaziente. E un po’ deluso. Si erano baciati una volta al laghetto, lei si era in qualche modo dichiarata, avevano preso camera insieme differentemente dalla notte precedente in cui un muro li aveva tenuti lontani… ma poi più niente, non ne avevano parlato, lui non aveva osato toccare quell’argomento e lei tantomeno. Iniziava a pensare di essersi perso un pezzo di qualcosa.
E intanto dall’altra parte Cassandra chetava i neuroni viziati che le chiedevano di soddisfare la sua dipendenza dando loro quel godibile fumo cartaceo e catramoso che passava lungo la sua gola per andare a riempire i polmoni. Odiava fumare, ma si era costretta le prime volte e poi aveva dovuto per forza mantenere il ritmo, soprattutto quando era nervosa. E in quel momento lo era. Tanto. Aveva ancora i caratteri del messaggio che quella mattina aveva letto stampati in testa:
“Diglielo, non omettere niente.”
E lei si era resa conto di aver nascosto il nulla ad una mamma che se anche l’avesse scoperta a rubare un intero pacchetto di caramelle non l’avrebbe sgridata. Aveva baciato Xavier per fargli credere di avere un solo umano motivo per seguirlo, ed era la verità, il problema è che il motivo non era proprio quello.
‒ Senti, penso che io e te dovremmo parlare un po’… ‒ disse Xavier.
Cassandra lo guardò.
‒ Non abbiamo fatto molti passi avanti da quello che mi hai detto ieri, secondo me potremmo… ‒ e non finì la frase.
Cassandra si trovò ad un bivio, scegliere la strada della persona di merda e rivelare tutto senza neanche un’anestesia locale o essere una brava ma al contempo una cattiva umana e mentire ancora. Certe situazioni la infastidivano, per lei i piccoli problemi erano i drammi, al resto era preparata.
‒ Sì, parliamone. Ma non qui ‒ rispose granitica.
‒ Abbiamo tutto lo spazio che vuoi.
Non era una persona di merda, tecnicamente quello che aveva fatto era illudere una persona e la cosa non era il massimo. Ma faticosamente certe cose si portano a termine. La dieta non si inizia da affamati.
‒ No, aspetta, non parliamone, senti…
 
“Non riesci a dormire decentemente?”
‒ Non riesco a dormire…
Kalut si era svegliato di soprassalto, aveva avuto un incubo e il suo sonno non aveva retto abbastanza. Erano circa le tre del pomeriggio e la sua nottata si era già conclusa.
“Ricordi che cosa hai sognato?” chiese Xatu.
‒ Probabilmente, aspetta…
“Provaci.”
‒ Niente da…
“Kalut?”
‒ Oh, sì, ricordo che cosa ho sognato!
“E con ciò? Perché ne sei entusiasta?”
‒ Vedrai!
“Io dicevo per dire di ricordarti, non è che…”
‒ Beh, mi hai fatto venire in mente un’importante informazione.
“…che hai sognato.”
‒ Che ho sognato.
Il ragazzo ricostituì alla ben e meglio la sua immagine, strinse le stringhe delle scarpe nuove sottratte ad un universitario addormentato nella lavanderia, scese dal tetto su cui si era appollaiato per dormire.
‒ Ricordo di aver visto un’immagine, un’immagine che anche ieri mi sono trovato davanti ‒ spiegò il ragazzo con semplicità.
“Un’immagine.”

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Capitolo 29
*** Capitolo 28 - Sensibilità ***


Capitolo 28 – Sensibilità

 

“Un’immagine…”
‒ Un’immagine…
Kalut stava osservando le strade della città di Idresia dal tetto ove si era rannicchiato. Le guardava e tremava.
“So che cos’hai visto, Kalut, ho potuto vedere anche io” fece Xatu ad un certo punto, capendo che il ragazzo, precedentemente preso dal forte entusiasmo, non si sarebbe mosso facilmente.
‒ Le nubi, Xatu, le nubi, c’era ghiaccio ovunque e sentivo il gelo sulla mia pelle… ‒ spiegò il bianco quasi con le lacrime agli occhi.
“E allora secondo te questo tuo sogno cosa può voler dire...?” domandò
‒ Che ne so? So solo che qui c’è qualcosa di strano.
“Kalut, vuoi sapere una cosa?”
Il ragazzo annuì.
“Gli esseri umani si interrogano da sempre su un dubbio che hanno insito nel loro animo: si domandano se esiste una divinità che regola lo scorrere degli eventi e il verificarsi di essi. E forse anche tu, da buon umano, ti saresti posto questa domanda se non ne avessi avuto in precedenza la risposta…” spiegò il volatile.
‒ Significa che qualcuno mi sta mandando una sorta di messaggio? Un indizio?
“Significa che tu hai visto qualcosa in più di tutti gli altri esseri umani e per questo potresti avere… una vista migliore della loro.”
‒ Stai metaforizzando?
“Sto metaforizzando.”
‒ Ghiaccio, gelo e nubi… il turbamento, la paura…
“Ci stai arrivando.”
‒ Sentivo il bisogno… il bisogno di calore.
“Calore?”
In quel momento, comprendendo le sue parole, Growlithe si accostò a Kalut mettendosi in evidenza. Il Pokémon scondinzolava felice.
‒ Growlithe… ‒ mormorò Kalut cercando di trovare un capo e una coda in quel groviglio di fili che era la sua testa.
“Vorrebbe esserti utile” spiegò Xatu. “È un Pokémon fedele.”
‒ Fedele?
“Fino alla morte, non abbandona mai il suo Allenatore.”
‒ Non mi sembra proprio.
“Come?”
Kalut aveva lo sguardo fisso nelle pupille ardenti del Pokémon Cagnolino e vi guardava dentro come si fa con una sfera di cristallo.
‒ Vedo un altro padrone, Growlithe non era un Pokémon selvatico… ‒ spiegò il ragazzo.
“Davvero?”
‒ Non eri tu quello di vedere passato e futuro?
“Non ho guardato il passato di Growlithe e posso farlo solo dalla mia prospettiva, non da quella altrui” si scuso il Pokémon Magico.
‒ È strano, perché il suo Allenatore lo ha abbandonato? ‒ si domandò Kalut tornando con gli occhi su Growlithe.
“Potresti chiederlo direttamente a lui…”
Kalut ebbe un’illuminazione.
‒ Puoi accompagnarci dal tuo vecchio Allenatore? ‒ domandò a Growlithe carezzandolo sul collo.
In quell’istante, avvenne un fenomeno al quale Kalut non aveva mai assistito, una luce scaturì dal canide e dalla sua pelliccia che cominciò a infoltirsi; la massa del Pokémon crebbe e la sua forma mutò in alcuni punti. Kalut tolse la mano spaventato. La luce scomparve. Al posto del Growlithe di poco prima era apparso un Arcanine fiero e maestoso dalla criniera di pelo morbido e giallastro che ruggiva con orgoglio.
Il ragazzo dai capelli bianchi guardò strano Xatu.
 
La sensazione di vuoto non se n’era andata, neanche dopo i chilometri percorsi col silenzio totale nella macchina fatta eccezione per una Radio Sidera accesa a bassissimo volume. Celia fissava la strada scorrere mangiata pezzo per pezzo dal parafanghi del BMW. Qualcosa non andava. Tante cose non andavano.
“Attendere, bene, attenderemo” fece Avril.
“Ho paura.”
“Antares ci ha assicurato che non c’è nulla da temere, ha detto che non sono pericolosi…”
“Non è come nei film, vero, dove la gente che non serve più a nulla viene eliminata?”
“Non penso.”
“Vediamo che cosa possono proporci, allora, forse cercare di scappare non è la migliore ipotesi, evitiamola.”
“Sono d’accordo…”
E tale dialogo tra Celia e la sua coscienza si era svolto più o meno sessantatré volte nella testolina della ragazza che ogni volta che ripeteva meccanicamente le stesse battute sperava con tutto il suo cuore che qualcosa fosse così caritatevole da cambiare. Qualcuno l’avrebbe chiamata folle. Eppure, era solo impaurita, non sapeva se fidarsi di un’organizzazione che aveva nascosto a lei e suo fratello la maggior parte delle loro azioni e aveva ricattato una Lega Pokémon perché la loro operazione potesse partire.
I due erano giunti a destinazione, la piccola cittadina di Telescopia li aveva accolti con un venticello fresco, un panorama di montagna eccezionale e un timido torpore da primo pomeriggio. D’altro canto, erano circa le quattordici.
La bionda non fece in tempo a scendere dall’auto: il tempismo era il pallino di certe persone, un videomessaggio appena ricevuto fece trillare il suo PokéNet. Non vi erano molti dubbi su chi fosse il mittente, Xavier non mandava videomessaggi e tutto il resto del mondo non aveva un PokéNet. Leggere “Professor Jason Willow” non era una sorpresa.
E immediatamente le sorse il dubbio. Il prof era un membro della Faces? O qualcosa di simile?
Decise di ascoltare dopo il messaggio e scese dall’auto chiudendo lo sportello alle sue spalle. Antares aveva parcheggiato, scese anche lui e le aprì il bagagliaio per prendere lo zaino che vi aveva lasciato dentro.
‒ Antares, un’ultima cosa ‒ fece afferrando la borsa.
‒ Dimmi.
‒ Il professor Willow è della Faces?
Lui raggelò. ‒ Sì.
‒ Quindi anche lui ci ha… usati consapevolmente?
Antares la guardo senza aprire bocca. ‒ Sì ‒ ripeté.
Celia trasse un sospiro. Non era sorpresa dalla cosa, ma sicuramente non era stata una bella notizia per lei.
‒ Celia, siamo arrivati, ma tu hai bisogno di qualcosa? Nel senso, un posto in cui stare… roba del genere… ‒ domandò Antares con tono distaccato.
‒ Io…
‒ Non fare complimenti, sai bene che lo faccio per te ma anche per me.
‒ Va bene, accetto.
‒ Beh, ho il vecchio appartamento di quando ero all’università vicino al centro, se vuoi puoi stare da me per… il tempo che ti serve ‒ fece lui.
Celia ringraziò e insieme si incamminarono. Giunsero dopo alcuni isolati ad una casa in mattoni rossicci inserita in una via poco trafficata. Antares aprì il portone e salì quattro rampe di scale, al secondo piano, inserì la chiave nella serratura di un vecchio uscio che sapeva di casa della nonna. All’interno, l’ambiente era accogliente, i mobili erano semplici e poco ingombranti e le pareti bianchissime. In alcuni punti lo strato di colore era evidentemente ripassato in un secondo tempo, ma la ragazza non si fece domande. Il Campione la invitò a stabilirsi in una camera adiacente al bagno in cui ella trovò un letto da una piazza e mezza, un armadio chiuso a chiave e un comò con varie file di cassetti con sopra due foto incorniciate e dei santini. La ragazza guardò le foto: nella prima era ritratto Antares il giorno della sua laurea con la corona d’alloro attorno alla testa e un papillon a pois estremamente equivoco; nella seconda un giovanissimo Antares affiancato da una ragazza dai capelli biondissimi e dietro di loro un altro baldo giovane vestito elegante e con una chioma di uno stranissimo color celeste chiaro.
‒ Celia, lo bevi il caffè? ‒ chiese Antares dall’altra parte della casa.
‒ No, grazie ‒ rispose la ragazza.
‒ Ginseng?
‒ Sì, quello volentieri.
Distrattasi dalle immagini, le tornò in mente il videomessaggio. Decise di aprire l’orologio e di vederlo. Comparve l’ologramma di Willow sopra al suo polso come sempre con camice e occhiali.
“Celia, ho un favore da chiederti, credo che Antares ti abbia già parlato dell’organizzazione per cui lavoro, bene, mi hanno detto che vorrebbero dialogare con te di persona e quindi hanno mandato un emissario lì a Telescopia. Si chiama Algol, verrà a cercarti lui stesso nel primo pomeriggio. Ti prego di ascoltarlo con attenzione, grazie, buona giornata.”
Parole rapide, introdussero degnamente il suono del citofono che trillò per tutte le stanze dell’appartamento di Antares.
‒ Nessuno sapeva che ero qua, chi diavolo…? ‒ fu il commento mormorato di Antares.
Celia rimase in ascolto, sapeva bene che la visita fosse per lei, ma non intervenne.
‒ Chi è? ‒ chiese Antares. ‒ Algol, sali, forza! ‒ il Campione aveva cambiato totalmente tono, era divenuto gioviale. La ragazza raggiunse l’altra parte della casa, vide dal corridoio un tipo dalla pelle e dai capelli del colore della notte e vestito di un completo bianchissimo entrare nell’appartamento, aveva un bastone di ebano stretto nelle mani e quest’ultime avvolte da morbidi guanti di camoscio.
‒ Campione, buona giornata, devi scusarmi per questa visita inaspettata ‒ salutò.
‒ Nessun problema, Algol, qual buon vento ti porta? ‒ rispose l’uomo.
‒ Faccende di lavoro, Antares ‒ aveva una voce profonda ma dolcissima.
‒ Prego, siediti, caffè?
Algol scosse la testa e si appoggiò su una sedia lasciando bastone e giacca su un appendiabiti vicino alla porta d’ingresso.
‒ Allora, faccende di lavoro, quindi capisco che tu voglia parlarne con me in privato.
‒ In realtà, no, io…
Antares vide spuntare dall’altra stanza Celia. E ovviamente la linea del suo sguardo fu seguita dagli occhi di Algol che pure incontrarono la figura della ragazzina.
‒ Celia, lui è Algol ‒ fece il Campione ricordandosi di essere lui a dover fare presentazioni. ‒ Algol, Celia è un’Allenatrice itinerante e…
‒ Piacere di conoscerla, Celia ‒ sorrise l’uomo alzandosi in piedi e andando a stringere la mano a quest’ultima. ‒ Se non erro, lei sapeva già del mio arrivo.
La ragazza non aveva ancora aperto bocca.
‒ Sapeva già che cosa? ‒ domandò Antares non capendo.
Il silenzio cadde per pochi attimi sulla scena, Algol stringeva la mano alla ragazzina, Antares mischiava il ginseng all’interno della tazzina con la mano destra e intanto guardava gli altri due cercando di intuire la situazione.
‒ Ecco, vorrei conversare qualche minuto con lei, sediamoci sul divano, vieni anche tu Antares ‒ spiegò rapidamente Algol.
L’uomo a capo della Lega di Sidera porse la tazzina di ginseng a Celia e si sedette accanto a lei sul sofà mentre l’ultimo arrivato prese la poltrona.
‒ Devi sapere, Celia, posso darti del tu…?
La ragazza annuì.
‒ …bene, devi sapere che non sono qui in qualità di Superquattro di Sidera, ma vengo come emissario della Faces per farti alcune proposte.
A quella frase, Celia che Antares spalancarono gli occhi. Lei per aver sentito la parola Superquattro e lui per la parola Faces. Algol era un sottoposto di Antares, ecco il motivo per cui sembravano conoscersi tanto bene, ma allo stesso tempo era membro dell’organizzazione che stava ricattando il suo stesso capo.
‒ Emissario della Faces? ‒ fece Antares senza riuscire a dare fede alle sue orecchie.
 
‒ Xavier, non so come dirtelo…
Il cinguettio di alcuni piccoli Pokémon, il leggero sibilare del vento tra i rami e il silenzioso tepore di quel giorno settembrino rendevano l’atmosfera incredibilmente soporifera. Ma la voce di Cassandra faceva tutto molto più interessante.
‒ Dirmi che cosa?
‒ Ecco, lavoro per la Lega, io…
‒ Lo so, sei Capopalestra ‒ a Xavier sembrava ovvio.
‒ No, non quello… Antares, il Campione, mi ha chiesto di accompagnarti.
‒ E perché avrebbe dovuto farlo…?
‒ Perché c’è un pericolo.
Cassandra si fermò. Doveva rivelargli tutto della Faces, del PokéNet, del rapporto di Antares con questa operazione. Era arrivato il permesso di farlo dal suo Campione che a sua volta aveva sicuramente rivelato tutto a Celia.
Trasse un sospiro e cominciò la spiegazione.

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Capitolo 30
*** Capitolo 29 - Ostentazione ***


Capitolo 29 – Ostentazione

 

“Un’organizzazione potentissima che vuole distruggere l’Allenatore come lo conosciamo oggi”, “tiene per le palle la Lega Pokémon”, “sta sfruttando i tester del PokéNet per perfezionare la loro operazione”.
Quante parole riversate da Cassandra per spiegare la situazione con la Faces a Xavier. Il ragazzo aveva compreso, Faces male, Lega bene. Ma era stonata per lui la parte in cui il Campione Antares in persona avrebbe fatto da custode per sua sorelle, compito che dalla sua parte, era spettato invece a Cassandra.
‒ Mi hai detto che per evitare interferenze e potenziali “pericoli” ti è stato dato l’incarico di seguirmi? ‒ chiese lui mettendo le cose in chiaro.
Cassandra annuì.
‒ Non è stato questo quello che mi hai detto al lago… ‒ fece Xavier crucciato alzandosi e girando i tacchi.
‒ Xavier, aspetta! ‒ esclamò lei. ‒ Non potevo dirti tutto subito, era nelle loro condizioni.
‒ E allora potevi evitare di dirmelo, invece di mentirmi ‒ disse lui con tono serio senza neanche voltarsi.
‒ Io non…
‒ Tu non… un cazzo! Troppo facile ingannare un uomo con un po’ di figa, dimmi che cosa devo fare con ‘sta roba qua della Faces e levati di torno dimenticandoti di esserci parlati, per favore! ‒ sfuriò tornando a fissarla.
Cassandra tacque per un momento, impressionata dal lato violento che il ragazzo non le aveva mai mostrato.
‒ Verranno a cercarti loro, vorranno parlarti e proporti di diventare membro integrante del loro progetto… ‒ spiegò lei con un filo di voce.
‒ Perfetto, allora deciderò io cosa fare ‒ decise il ragazzo. ‒ A mai più, Capopalestra.
E fu così che il ragazzo, voltate le spalle, se ne andò. Lo zaino in spalla, la cintura delle Ball attorno alla vita e un incredibile senso di repulsione nei confronti della bellissima ninfa dagli occhi color caramello dietro di lui e della sua straordinaria abilità nell’abbindolare le persone.
Lei, dal suo canto, era ancora seduta sulla panchina con lo sguardo fisso sulla figura del ragazzo che se ne stava andando senza neanche salutarla e la sensazione di aver effettivamente esagerato lasciandolo vincere nella sua palestra, civettando con lui esplicitamente e facendogli credere di aver fatto tutto per una presunta attrazione che provava nei suoi confronti. Aveva una sigaretta mezza finita in mano e un emisfero del suo cervello la accusava crudelmente per la sua mancanza di cura per i sentimenti altrui; l’altro, beh, l’altro sputava fuoco e fiamme contro il castano per come era stato capace di trattarla una volta scoperto tale cavillo della loro mai iniziata relazione.
E ovviamente, essendo lei Cassandra, lasciò prevalere l’emisfero che stava sputando fuoco e fiamme.
‒ Vaffanculo, così puoi trattare al massimo tua sorella ‒ fece indignata gettando la sigaretta e raccogliendo la sua borsa per poi andarsene da quel luogo. Xavier era lontano, non l’aveva sentita.
 
‒ Tu lavori per loro? ‒ chiese incredulo Antares. ‒ Hai idea di come mi stiano ricattando, ci tengono in mano, Algol, sono persone spre…
‒ Ciò non vuol dire ‒ l’uomo in bianco interruppe il Campione facendosi serio. ‒ che io non possa sostenere la loro causa, Antares, io lavoro per te, ma questa cosa non mi obbliga a seguire la tua linea di pensiero.
Il Campione rimase ancora una volta senza parole. Si obbligò al silenzio gettando la schiena su un cuscino del divano e fissando il vuoto.
‒ Scusaci, Celia, quello di cui volevo parlarti è un lavoro vero e proprio come membro della Faces… vedi, abbiamo bisogno di mani di Allenatori che sappiano come gestire dei Pokémon e della mente di giovani ragazzi come e te e tuo fratello ‒ spiegò Algol.
‒ Io… non penso di…
‒ Aspetta, lasciami spiegare una cosa: siamo coscienti che ciò che vorremmo proporre agli Allenatori può non sembrare allettante per qualcuno, è per questo che vogliamo che siate voi Allenatori a fare una scelta indipendente.
Celia non capiva.
‒ Ho intenzione di spiegarti in cosa esattamente il nostro progetto si tradurrebbe dimodoché sia tu e solo tu ad esprimere un giudizio imparziale ‒ chiarì il Superquattro.
La ragazza iniziava a seguire. Antares si alzò per dimostrare la sua disapprovazione e si mise a camminare su e giù parallelamente al divano.
‒ Devi sapere che numerose sono state le catastrofi che si sono abbattute sul nostro pianeta negli anni passati, sicuramente avrai sentito dei cataclismi di Hoenn o dell’ascesa del Team Rocket nelle regioni di Kanto e Johto ‒ Algol la vide annuire. ‒ Beh, tutto questo è avvenuto perché ora come ora chiunque, malvagio o buono che sia, potrebbe fondare una sua setta e avere dei seguaci che, con Pokémon sempre più forti e potenti, sarebbero capaci persino di sconfiggere le Leghe stesse. I Pokémon sono sempre visti come compagni di vita degli umani, ma solo le persone buone la pensano così, ci sono alcuni esseri umani che li trattano come armi, e prova a sfruttare dei Pokémon come armi… stai sicura che il tuo si rivelerà un arsenale imbattibile.
Celia stava ascoltando.
‒ Ogni volta che una di queste organizzazioni riusciva ad ottenere il potere, lo aveva fatto perché per loro non c’era nulla da perdere, le loro armi erano tante e potevano essere sostituite o rimpiazzate, tutto questo perché gli Allenatori hanno il vero potere ‒ enunciò l’uomo.
La bionda si trovò davvero a riflettere su cosa avesse in testa Algol come tutta l’organizzazione di cui era parte. Si stava facendo delle domande, forse quel Superquattro era stato fin troppo convincente.
‒ Effettivamen…
‒ Celia ‒ la interruppe Antares. ‒ Non devi giudicare le loro idee, ma il loro modus operandi ‒ fece. ‒ Chiedigli come intendono effettivamente agire…
La ragazza omise l’interrogativa, guardò Algol come aspettandosi delle spiegazioni.
‒ Ecco ‒ fece lui. ‒ il nostro obbiettivo ultimo è quello di creare una stabile e sicura rete di informazioni che aiuti ogni Allenatore ad identificarsi. Impediremmo a chi agisce nell’ombra di raccogliere troppo potere nelle sue mani e di crearsi un impero.
“Il che significa distruggere la sua privacy” tentò Avril.
‒ …mettere insieme un database che regoli le attività Pokémon nelle regioni per assicurarne la sicurezza.
“Traduci annientare la possibilità di una crescita secondo un metodo personale.”
‒ …fermare i potenziali terroristi, promuovere chi riesce ad eccellere senza trucchi e inganni.
“Ossia trasformare gli Allenatori in divi da Hollywood.”
‒ Mi dispiace! ‒ lo interruppe Celia con la testa gonfia delle parole di Algol e della sua coscienza sovrapposte e petulanti. Non si rese conto di aver urlato, mentre i due uomini che erano nella sua stessa stanza sì, entrambi la guardarono stupiti. ‒ Mi dispiace ma penso di dover comunque rifiutare ‒ sputò fuori a velocità estrema senza neanche ascoltare le sue parole.
Antares esultò dentro, Algol sentì invece un sottile filo di carta vetrata infilarsi nei suoi ventricoli. L’uomo della Faces non parlò.
‒ Grazie comunque per l’offerta… ‒ concluse più dolcemente la ragazza.
Algol si fece serio, tutta l’enfasi della sua spiegazione morì nei suoi occhi. ‒ Va bene, Celia, ci dispiace che non potremo averti tra i nostri collaboratori ‒ l’uomo si alzò. ‒ Spero che ci rivedremo, un giorno ‒ e le strinse la mano.
‒ Algol, puoi andare, adesso… ‒ mormorò Antares senza palesare il suo sollievo.
‒ Tolgo subito il disturbo.
Il Superquattro si diresse verso la porta, prese giacca e bastone, indossò la prima e poggiò a terra il secondo. ‒ Grazie per l’attenzione. Celia… Antares… ‒ salutò quello prima di aprire l’uscio, tornare al pianerottolo e sparire dietro il portone.
La ragazzina e il Campione erano rimasti immobili al loro posto, immersi in un’irreale silenzio.
‒ Celia, credimi, hai fatto la cosa giusta… ‒ sussurrò Antares a bassissima voce. ‒ Ma adesso sarà meglio per te darmi retta e fare ciò che ti dico, adesso il pericolo per te è un altro e non voglio assolutamente metterti nei guai.
La bionda, colma di ansia per la conversazione con Algol, senza l’energia di mostrare il timore appena sorto nella sua mente, mugolò con un filo di voce “va bene” prima di tornare a respirare.
 
‒ Spiegalo ancora una volta ‒ fece Kalut.
“Certi Pokémon si evolvono solo tramite le radiazioni emesse da particolari oggetti, nel caso di Growlithe c’è bisogno di una Pietrafocaia, ma per lui è bastato il tuo solo tocco a permettere l’evoluzione” chiariì Xatu.
I due, con Venipede che era in spalla a Kalut, erano accodati al Pokémon Leggenda che stava facendo loro da cicerone. Correvano lungo il marciapiede sotto gli occhi di poche persone che neanche facevano attenzione a loro. Le strade di Idresia erano quasi desertiche.
‒ Spiega ancora una volta anche come funziona tra umani e Pokémon, anche se penso di saperlo… ‒ fece di nuovo il ragazzo.
“Gli umani li prendono come compagni, certi li allenano e li usano per battere le palestre, altri li crescono oppure li allevano. Più o meno ogni essere umano ha dei Pokémon e…”
‒ Ok ‒ lo interruppe Kalut. ‒ ricordavo bene.
Arcanine, muovendosi allo stesso ritmo del volo del pennuto e della corsa dell’umano, riuscì a percorrere quasi venti isolati prima di fermarsi e indicare un edificio ai compagni. Kalut non aveva neanche il fiatone, Xatu sentiva un lieve formicolio alle ali.
‒ La cosa delle Poké Ball… ‒ mormorò Kalut alla sua guida.
“Gli uomini le utilizzano per trasportare i…”
‒ Ok.
Il ragazzo prese le tre Poké Ball acquistate la scorsa notte dalla borsa di tela che aveva in spalla che pure era stata rigorosamente acquistata in un Market.
‒ Mi hai detto di dare poco nell’occhio, forse è il caso che entriate qui dentro… ‒ propose.
Arcanine distolse l’attenzione dalla meta a cui aveva condotto la squadra e si accostò all’Allenatore, acconsentiva, Venipede non emise suono e si limitò a percorrere il braccio su cui stava in direzione delle sfere, Xatu annuì col becco appoggiando con compostezza la decisione.
Le tre Ball furono immediatamente colmate, per convenzione, Kalut tentò infatti come prima cosa di rimettersi in contatto con Xatu. Non gli riuscì. Lo tirò fuori.
‒ Come mai non riusciamo a parlare quando sei nella sfera? ‒ chiese.
“Nella Poké Ball si cade in un sonno artificiale, gli stimoli esterni sono assenti o in rari casi estremamente ovattati” spiegò il volatile.
‒ Neanche tu riesci a rimanere cosciente al suo interno? ‒ domandò Kalut.
Il pennuto rise. “Alla fine sono sono uno Xatu come tutti gli altri, io…”
‒ E che Pokémon Eterno sei? ‒ fece Kalut prendendolo in giro.
“Che faccia tosta…” commentò Xatu. “Piuttosto, siamo giunti a qualche conclusione?”
‒ Arcanine mi ha portato qui… ‒ fece Kalut.
“La palestra di Idresia?”
‒ La palestra di Idresia.
Avevano davanti a loro un edificio scuro e isolato da tutti gli altri. Il simbolo della palestra, una gigantesca imitazione della sua medaglia a forma di sole, troneggiava fiera sulla facciata appena sopra al portone di ingresso. Quella era una delle palestre più longeve di Sidera: fondata, si racconta, da un Moore, storica famiglia di Capipalestra di Hoenn, originari di Cuordilava.
‒ Secondo te qua troveremo qualcosa?
“È una palestra di tipo Fuoco… Arcanine è di tipo Fuoco…”
‒ Banale, entriamo…?
“Vai.”

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Capitolo 31
*** Capitolo 30 - Apistia ***


Capitolo 30 – Apistia

 

 

‒ Buongiorno ‒ salutò un adone sulla quarantina infilato in un completo elegante nero. Le sue spalle e i suoi pettorali sembravano dover far esplodere tutti i bottoni della sua camicia quando incrociava le mani dietro la schiena.
‒ Salve ‒ e Kalut lo guardava strano, era entrato in una palestra nota per avere una Capopalestra donna dal grande carisma, ma se quello era soltanto il custode, allora proporzionalmente il capo sarebbe dovuto essere una specie di Charizard dall’aspetto solo vagamente umano.
‒ Posso essere d’aiuto? ‒ domandò l’uomo con fare distinto.
Kalut riflettè per qualche istante, nel frattempo i suoi occhi cominciarono ad abituarsi al buio ovattato dalla unica luce fioca dei neon che aveva trovato all’interno di quel luogo. ‒ Sì, conosce per caso questo Pokémon? ‒ chiese indicando l’Arcanine al suo seguito.
L’uomo lo guardò per pochi istanti, piegò appena le ginocchia perché il muso del canide si trovasse in esatta corrispondenza con il suo e potessero guardarsi negli occhi allo stesso livello.
‒ Gilroy? ‒ domandò ancora rivolto al Pokémon
Arcanine abbaiò felice. Kalut non stava capendo. Allora l’uomo in nero tornò a guardare il ragazzo dritto negli occhi e con la sua espressione pacata e calma, sorridendo serenamente, spiegò: ‒ Il suo nome è Gilroy, ed era soltanto un Growlithe quando lo abbiamo incaricato di guidarti qui.
‒ Lo avete incaricato di cosa? ‒ fece Kalut. ‒ Tu sapevi tutto, Xatu?
“Ovvio” annuì il Pokémon.
L’uomo in nero, presa coscienza dei suoi modi troppo rapidi e precipitosi con l’ingenuo ragazzo che aveva davanti, pensò di spiegarsi meglio: ‒ Lascia che ti illumini ‒ mise con fare paterno la mano sulla spalla di Kalut e lo spinse ad inoltrarsi con lui in quell’ambiente scuro seguendo una certa linea di neon. I due, con al seguito i tre compagni del bianco, giunsero dopo pochi corridoi ad una stanza in cui l’illuminazione era lievemente più intensa. L’uomo fece accomodare un titubante Kalut su una poltrona scomodissima in simil-pelle e lo invitò a rilassarsi.
‒ Lo sai, aspettavamo da molto che ti presentassi… ‒ mormorò quello.
‒ Ah sì? Tu e chi? ‒ domandò nella sua semplicità il ragazzo.
‒ Io e la Capopalestra di questo luogo.
‒ E per quale motivo mi aspettavate?
‒ Che tono ostile…
‒ Puoi darmi almeno delle risposte?
L’uomo sospirò.
‒ Prima di tutto, piacere di conoscerti, io sono Kurao… ‒ fece lui porgendo la mano.
‒ Kalut ‒ il bianco gliela strinse.
‒ Ecco, devi sapere una cosa, lo Xatu che ti ha accompagnato per quasi tutto il tempo è un Pokémon molto particolare…
‒ Sì, me ne ha già parlato, lui è sulla Terra da parecchio tempo…
‒ Esatto. Ebbene, proprio lui mi ha fatto sapere che cosa sarebbe avvenuto il ventottesimo giorno di agosto di quest’anno.
‒ Ossia?
‒ Quand’è che ti sei svegliato, Kalut?
Il ragazzo annuì comprendendo.
‒ E perché dovrebbe essere così importante la mia nascita, scusami?
‒ Beh, ci sono molte leggende sulle persone come te, alcune dicono che siete capaci di svegliarvi in concomitanza con la morte di un Pokémon Eterno come Xatu, altre che avete poteri fuori dalla norma e capacità infinite… a me piace pensare che siate capaci di gesti che alle persone normali sembrano impossibili, ma è solo la mia visione delle cose.
‒ Io sarei quindi una sorta di essere speciale in qualche modo?
‒ Dipende da te…
‒ Che risposta fastidiosa.
‒ Ecco, quello che abbiamo fatto è semplicemente lasciare che Gilroy ti trovasse, in un modo o nell’altro vi sareste congiunti dopo un po’.
‒ A quale scopo?
‒ Capire che cosa abbiamo per le mani, Kalut, se puoi esserci d’aiuto o no…
‒ Da quando mi avete per le mani?
‒ Non abbiamo te, ma il tuo interesse.
‒ Suscitalo, allora.
‒ Prima vorrei essere certo che tu mi prenda sul serio ‒ mormorò l’uomo divenendo cupo per un istante.
Kalut abbassò lo sguardo e lo rialzò subito.
‒ Abbiamo dei nemici, gente che vorrebbe cancellare gli Allenatori di Pokémon dalla faccia della terra... ti ha spiegato come funziona tra umani e Pokémon? ‒ chiese riferendosi a Xatu.
‒ Sì.
‒ Bene, devi sapere che questa realtà rischia di scomparire, queste persone vorrebbero trasformare questo mondo in qualcosa di completamente differente ‒ enfatizzò. ‒ Vogliono distruggerlo e hanno il potere di farlo…
‒ Come? ‒ chiese Kalut con fare interessato. Xatu scosse la testa vicino a lui.
‒ Sono un’organizzazione potente, sono la Faces, e grazie ad alcuni eventi che li hanno fatti… lavorare molto negli ultimi anni si sono radicati fin dentro il cuore delle maggiori Leghe della nazione.
‒ Le Leghe… sì, penso di sapere che cosa sono… ‒ commentò Kalut.
‒ Certo che lo sai ‒ sorrise l’uomo.
Kalut si fece torvo.
‒ Insomma, avete paura che succeda qualcosa all’ecosistema che avete creato con le vostre Poké Ball e le vostre medaglie e per questo motivo cercate anche di sovvertire l’unica legge della natura: quella del più forte, mettendovi contro ad un’organizzazione più grossa di voi?
‒ È cinismo o rassegnazione ciò che sento nelle tue parole, Kalut?
‒ Dimmelo tu, io sono nato soltanto una settimana fa, non conosco la differenza tra un rassegnato che non ha più una strada da prendere e un cinico che se la prende con i cartelli stradali poiché non indicano la giusta via… ‒ fece sottilissimo il bianco.
‒ Sapevamo che saresti stato una risorsa preziosa, ma non fino a questo punto.
Xatu era stupefatto. Kalut si era dimostrato un raffinatissimo oratore e aveva compreso tutto ciò che Kurao aveva detto senza alcun problema. Le sue previsioni future erano sempre giuste ma spesso molto ovattate, per questo motivo il carattere del ragazzo che aveva seguito nei giorni precedenti lo stava impressionando a tali livelli.
‒ Risorsa? Io sarei una risorsa? ‒ domandò Kalut.
‒ Beh, ci hanno parlato delle tue potenzialità, sappiamo dalle previsioni di Xatu che tu…
‒ Kurao, scusami se ti interrompo, ma non so se ti hanno mai detto che a Xatu è vietato rendere partecipi altre persone della sua lettura del futuro ‒ lo zittì Kalut con tono granitico.
Kurao si prese un attimo per respirare. La bugia non aveva retto.
‒ Stai per dire che sono più acuto di quanto pensassi... ‒ lo prevenne lui.
‒ E avrei pure ragione.
Altro istante di silenzio.
‒ Ho capito, non posso fare preamboli strani, non penso che ti interessi come siamo venuti a sapere delle persone come te, voglio solo chiederti: vuoi darci una mano? ‒ tagliò corto Kurao.
‒ Io… ‒ Kalut fece finta di valutare la scelta. ‒ Non ho altri impegni in agenda, penso proprio di potervi dare una mano. D’altronde, non dimentichiamo che ho vagato più di una settimana cercando di capire quale fosse l’obbiettivo della mia esistenza, ora mi ritrovo per caso a dover mettere le mie presunte capacità superiori a favore di una delle due fazioni di una guerra di ideali, cosa potevo chiedere di meglio?
Kurao sorrise sempre più incredulo, il soggetto che aveva davanti era così singolare da farlo sentire banale e impotente.
‒ Ma prima, voglio sapere esattamente come siete venuti a sapere delle persone come me… ‒ sorrise pungente lui. ‒ E fammi conoscere la ragazza che comanda dentro questa palestra.
 
Antares rovistava nei cassetti dei mobili di casa sua nervosamente.
‒ Stammi a sentire di nuovo, quello che cercano di fare è creare un nuovo fenomeno di massa tutto calcolato al millimetro, non vogliono neanche una cellula fuori posto. Per questo motivo tu avresti dovuto scegliere di entrare nei loro ranghi, perché nessuno fuori dal loro progetto deve conoscere l’obbiettivo che hanno, il PokéNet dev’essere un particolare della vita comune che va a infiltrarsi e radicarsi come una malerba, non una rivoluzione improvvisa.
‒ Capito ‒ annuì Celia.
‒ Per questo motivo cercano di inimicarsi meno gente possibile e prenderla invece con loro, hai visto Algol?
‒ Tu neanche sapevi che fosse parte del progetto.
‒ Lo sospettavo, ha partecipato a numerose riunioni del consiglio della Lega, ogni volta il giorno seguente arrivava puntuale come la morte una nuova ordinanza restrittiva della Faces che cancellava ogni più piccola falla che eravamo riusciti a trovare nei loro regolamenti.
‒ Quindi ha lavorato come infiltrato?
‒ Esatto, e non so quanti altri abbiano agito come lui, considerando che per me la mia Lega era l’insospettabile.
‒ Quindi non possiamo ormai fidarci neanche di loro.
‒ No.
‒ E che intendi farmi fare ora?
‒ Metterti al sicuro.
‒ Al sicuro? Da che cosa?
‒ Vedi, forse sottovaluti i tentacoli che la Faces ha infilato in ogni anfratto del governo, sai che succede nei casi peggiori a chi è al corrente delle loro intenzioni e non decide di collaborare con loro?
‒ Cosa?
Antares fissò Celia negli occhi con lo sguardo più serio che gli riuscisse in quel momento. Tacque, lasciò che il messaggio giungesse a destinazione.
‒ Sul serio? Sono così pericolosi?
‒ In realtà non si hanno prove, ma penso che tutti i reati che hanno commesso siano stati insabbiati, lo sai perché mi hanno costretto a scegliere una cavia come te?
La ragazza rifletté un momento.
‒ Ho un padre adottivo che non fa testo, un fratello che è nella mia stessa situazione e basta, sono facile da eliminare senza causare un polverone?
‒ Esatto, stesso motivo per cui io, che sono al corrente di tutto questo e sono anche diametralmente e palesemente opposto ai loro scopi, sono ancora vivo. Non so se l’hai notato, ma sono il Campione della Lega ‒ sottolineò lui mezzo compiaciuto e mezzo intimorito dalle sue stesse parole.
‒ Quindi con mettermi al sicuro intendi…
‒ Farti diventare famosa. È l’unico modo, vuoi salvarti senza farti andare dalla loro parte, se non vuoi morire basta solo che dai alle persone un motivo per non desiderare la tua morte. E il gioco è fatto.
Per poco cadde il silenzio ancora una volta.
‒ Cosa potrei fare?
‒ So che hai una squadra potente.
‒ Non abbastanza per vincere tornei o roba del genere…
‒ Nessun torneo ‒ Antares aveva concluso la ricerca convulsa e febbrile che si era protratta per tutto il tempo della loro conversazione, aveva trovato l’oggetto che cercava e lo teneva tra le mani come un Santo Graal. ‒ I vincitori dei tornei cambiano ogni anno, è una fama che dura poco, tu devi diventare un idolo ‒ proferì mostrando alla ragazza il frutto delle sue ricerche: una patch per vestiti che mostrava il simbolo della regione di Sidera e la scritta “Apprendista” in basso a caratteri in rilievo.
 
Era volava rapidamente, era una Noivern fedele e infaticabile, soprattutto nei momenti in cui il suo Xavier aveva bisogno di fuggire da una brutta situazione. I problemi erano divenuti due per il ragazzo, non solo era stato preso in giro da una ragazza, cosa che di per sé lo faceva stare male, ma era anche in dubbio sul da farsi con quella vicenda della Faces. Da ciò che aveva compreso, lei doveva custodirlo, ciò significava che senza la Capopalestra al suo fianco lui era in qualche modo in pericolo?
Non lo sapeva, le uniche cose importanti in quel momento erano l’aria che lo sferzava con durezza e Sagittania che si faceva sempre più vicina. Aveva intenzione di fare l’unica cosa che in quel momento potesse effettivamente fare: continuare il suo viaggio.

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Capitolo 32
*** Capitolo 31 - Cognizione ***


Capitolo 31 – Cognizione

 

Hamal, Capopalestra di tipo Acciaio della cittadina di Sagittania. Egli aveva lavorato in una fucina per oltre trent’anni, aiutandosi con i suoi Pokémon a forgiare i migliori metalli artigianali della regione. Secondo ciò che aveva raccontato Cassandra, unica fonte anche se poco attendibile per Xavier, Hamal aveva rimpiazzato il vecchio Capopalestra dopo che questi passò all’altro mondo; la comunità cittadina considerava il rappresentante della medaglia come una sorta di guru per tutti gli Allenatori che avevano lì le loro radici, quindi erano soliti convocare un nuovo Capopalestra per votazione. Hamal era stato votato all’unanimità, più di tutti incarnava gli ideali della cittadina: gran lavoratore, uomo onesto e umile, brava persona anche se ferrea con i suoi discepoli, tradizionalista.
La sua palestra aveva mura in grossi conci squadrati di marmo e un terreno che ricordava un dissestato puzzle di piastrelle distrutte. Quella palestra era stata tramandata di Capopalestra in Capopalestra e ogni scheggiatura, ogni crepa, ogni tessera della pavimentazione tolta dal suo incavo nel terreno ricordava la sua storia.
‒ Empoleon, Perforbecco!
‒ Eelektross, Falcecannone!
La lotta avanzava da pochi minuti, il numero dei colpi incassati da sfidante e Capopalestra era più o meno pari.
Idrocannone!
Scarica!
L’Empoleon di Hamal, per una questione di svantaggio di tipo, cominciava a sentire la pressione della stanchezza. Eppure si piegava ma senza spezzarsi, come una trave di ferro.
Fulmine!
Primo dei Pokémon avversari a terra. Xavier era soddisfatto. Trasse indietro Eelektross, pensando di farlo riposare qualche minuto.
‒ Non sei così male, ma la tua tecnica è ancora troppo precipitosa, ragazzo ‒ lo ammonì Hamal.
‒ Staremo a vedere, allora ‒ rispose lui con un velo di arroganza.
‒ Sei troppo sicuro di te, insegniamogli le buone maniere, Probopass! ‒ enunciò.
‒ Scizor, tocca a te ‒ rispose il ragazzo.
Hamal non era concentrato, ma Xavier non se n’era accorto. L’uomo dai capelli argentei e le braccia grosse come peculiarità acquisita con gli anni dal suo mestiere guardava fisso il volto del suo avversario. Lo aveva riconosciuto, era il ragazzo con il PokéNet, ma non lo portava al polso e neanche aveva con sé la sua collega Cassandra. Era stato uno degli organizzatori del piano di Antares, si era reso conto che qualcosa non stesse andando per il verso giusto.
Gemmoforza! ‒ ordinò Hamal.
Forbice X!
Il Pokémon Chele precedette il suo avversario colpendolo con due fendenti uno perpendicolare all’altro.
‒ Probopass, Falcecannone! ‒ e una grossa sfera di pura energia elettrica fu lanciata dal Pokémon Bussola verso il crostaceo.
Metaltestata ‒ fu la risposta di Xavier che indovinò in pieno facendo scontrare il colpo contro il carapace indurito di Scizor disperdendone il danno.
Bombagnete!
Probopass creò un campo magnetico attorno a se stesso alzando in volo e facendo levitare piccoli e grossi detriti di metallo che presto sarebbero stati scagliati addosso a Scizor. Ma il suo Allenatore scordò una piccola imperfezione nel suo piano: il Pokémon nemico cominciò a barcollare. Xavier comprese immediatamente, Hamal ci arrivò poco più tardi.
Scizor perse l’equilibrio, rovinando a terra, cercava di tornare in piedi ma il suo corpo non rispondeva perfettamente agli stimoli. Il campo magnetico di Probopass stava facendo effetto anche su di lui.
‒ Ottimo, colpiscilo ora ‒ esclamò il Capopalestra al suo Pokémon.
‒ Sfrutta l’occasione, salta e evita il danno, Scizor!
Il Pokémon fece un ultimo sforzo spingendosi con le gambe verso l’alto, l’elettromagnetismo fece il resto del lavoro. Il metallo che Probopass aveva scagliato nella sua direzione si muoveva nell’aria perché attratto da un polo che quest’ultimo aveva posto all’estremo opposto della stanza, Scizor sfruttò a sua volta quell’attrazione per muoversi nell’aria nella stessa direzione delle rocce subendo da queste un impatto di forza minima. Il Pokémon Chele finì sul muro di sfondo poco dietro il suo Allenatore.
Breccia, chiudi la partita.
E si diede lo slancio spingendo sulla parete come un nuotatore che si volta dopo aver concluso la prima vasca. Saltò con spinta incredibile verso il Probopass nemico e catapultò su quest’ultimo un violentissimo colpo diretto con uno delle sue tenaglie. Probopass cadde a terra esausto. Due a zero per lo sfidante.
‒ È un brutto colpo, Xavier ‒ ammise Hamal.
‒ Io mi sto divertendo ‒ fece sgranchendosi le vertebre del collo Xavier.
‒ Il mio ultimo Pokémon: Bisharp!
Un Pokémon Fildilama fierissimo scese in campo dal lato del Capopalestra. Il suo corpo cromato pieno di graffi e lievi incisioni suggerivano che forse l’età di quel Pokémon lottatore era paragonabile soltanto a quella del suo Allenatore. Del resto, l’Empoleon di Hamal faceva da aiutante nella fucina raffreddando il metallo rovente, Probopass spostando grossi carichi di materiale con il magnetismo, mentre un Bisharp in una fucina era probabilmente ben poco utile. Forse era l’unico Pokémon dell’uomo allenato appositamente per la trincea e gli sfregi sul suo corpo confermavano questa tesi.
‒ Rimani tu, Scizor? ‒ chiese Xavier mettendo lo stato fisico del suo Pokémon prima delle sue direttive di Allenatore. Il compagno annuì.
Focalenergia, allora.
Il Pokémon Chele concentrò nel suo sistema nervoso un grosso quantitativo di adrenalina. Sentiva i suoi arti che fibrillavano letteralmente.
Nottesferza, Bisharp! ‒ ordinò Hamal.
Un fendente micidiale attraversò il terreno a velocità incredibile aprendo letteralmente una voragine nella corazza inorganica di Scizor in corrispondenza del petto. Il Pokémon subì il colpo.
‒ Cazzo, Breccia! ‒ cercò di salvarsi Xavier.
Ma l’avversario era già pronto con una Metaltestata da scagliare direttamente sulla fronte del nemico facendo di nuovo barcollare e cadere a terra Scizor.
‒ Dai, usa Ferroscudo! ‒ Xavier era alle ultime.
Ghigliottina ‒ ultimò Hamal.
Fatale, le due braccia del Pokémon Fidilama si chiusero come una morsa sul collo dell’avversario mandandolo KO in un colpo. Luigi sedicesimo.
‒ Porca miseria… ‒ commentò Xavier facendo tornare Scizor nella sua sfera. ‒ Quel Bisharp è un mostro…
‒ Non ti stavi divertendo, Xavier? ‒ chiese Hamal senza ironia ma severo come il veterano che insegna al principiante.
‒ Vai, Eelektross ‒ il ragazzo chiamò sul campo il Pokémon Elettropesce.
Ferrartigli!
‒ Lanciafiamme!
Andò meglio per lo sfidante, per forza di cose. I fendenti di Bisharp non potevano vincere contro la colonna infuocata scagliatagli contro dalla bocca a ventosa dell’avversario. Il corpo in acciaio del team-leader di Hamal si arroventò e il suo contenutò sensibile ne soffrì parecchio. Era stato un colpo fortunato.
‒ Di nuovo, Eelektross, Lanciafiamme!
L’anguilla bissò il successo facendo addirittura cadere l’avversario su un ginocchio. Bisharp non riusciva a muoversi.
‒ Chiudi il match, Falcecannone!
Come si suol dire, squadra che vince non si cambia, fu clamoroso l’errore di Xavier. Bisharp sfruttò l’occasione e con una Nottesferza sfaldò la sfera di elettricità come aveva fatto prima Scizor a Probopass. Hamal non perse tempo e diede un secondo ordine al suo Pokémon che scattò in avanti contro Eelektross e offese a sua volta. Ferrartigli. E il rovente acciaio si scontrò con il molle corpo del Pokémon Elettropesce. Bisharp, sicuro di sé, fece in modo di non uccidere l’avversario colpendolo con il piatto della lama, eppure non si risparmiò quanto a violenza: il secondo soldato di Xavier andò al tappeto all’istante, forse troppo stordito dalla manganellata.
Incredulo, il ragazzo riprese dalla cintura pure la Ball del suo compagno.
I suoi occhi fissavano le fessure giallognole di Bisharp che lo scrutavano da sotto l’elmo metallico del Pokémon. Per un momento la sua preoccupazione svanì, vide il dolore e la fatica negli occhi del Pokémon e gli tornò in mente la sua, per così dire, arma segreta. Ebbe un momento per ripensarci, ma non lo sfruttò.
‒ Pumpkaboo!
E il Pokémon Zucca avrebbe fronteggiato quel gladiatore invincibile che con pochi colpi aveva messo al tappeto ben due Pokémon che Xavier allenava da anni.
Pirolancio! ‒ disse Xavier. “O la va o la spacca” pensò invece.
Forse fu lo sbigottimento di Hamal che non credeva che Xavier volesse mandargli contro quel Pokémon, o forse la stanchezza di Bisharp che iniziava a farsi sentire. Il Pokémon non riuscì a spostarsi e il debole colpo di Pumpkaboo fu proprio la goccia che, dopo i ripetuti e potenti colpi di Eelektross, fece traboccare il vaso. Il nemico era a terra, Xavier aveva vinto.
 
‒ Sì, dovrai compilare un paio di carte.
Antares aveva condotto Celia al Centro Pokémon di Telescopia. Lì si sarebbe ufficialmente registrata e sarebbe entrata come Membro Primavera nella federazione delle Leghe Pokémon. Antares intendeva farla sottoscrivere con la carica di Allieva, come lo era stata Iris per Aristide a Unima tempo prima, era una carica che non comportava obblighi eccetto quello di seguire un allenamento che sarebbe stato impartito dal suo tutor che era rappresentato dal Campione in persona. E ovviamente, le copertine delle riviste di gossip.
Celia si era ritenuta fortunata per il suo bel faccino, una volta che era venuta a conoscenza di questo piccolo ma rilevantissimo cavillo. I due si erano recati al banco delegato alla burocrazia federale al primo piano del Centro. Antares aveva parlato di persona con la commessa la quale era stata così gentile da non chiedere un autografo lì sul momento e aveva mostrato alla giovane cosa dovesse fare passo dopo passo.
‒ Celia Ellison, sei minorenne, quindi tuo padre dovrà firmare e confermare per te, vogliamo portargli insieme i documenti? ‒ propose Antares.
‒ Pensi che sarà d’accordo? ‒ chiese lei titubante.
‒ Penso che sarà orgoglioso ‒ fece il Campione.
‒ Va bene, partiamo immediatam…
La suoneria del PokéNet li interruppe.
 
Xavier, seduto su una panchina fuori dalla palestra di Sagittania, giochicchiava con le dita con il badge ottenuto da Hamal: la medaglia Scudo metallizzata dalla forma vagamente triangolare, esattamente come uno scudo gotico. L’altro braccio invece era lievemente alzato e permetteva al ragazzo di guardare l’oloproiettore del PokéNet, in chiamata c’era sua sorella.
‒ Oh, dimmi… ‒ rispose la ragazza.
‒ Ciao, cavia.
‒ Bene, ti hanno parlato del casino della Faces, allora…
‒ Certo che me ne hanno parlato.
 
‒ È stato il tuo custode? ‒ chiese la ragazza.
Celia vide Antares, con la cartella contenente i fogli che avrebbe dovuto firmare Marcos, scendere di sotto e farle cenno di raggiungerla appena avrebbe potuto. Lei annuì.
‒ Così si chiamano, custodi? Io le chiamavo stronze, una volta…
‒ E per quale…? Senti, non mi interessa, tu che hai intenzione di fare?
‒ Io? Non lo so ancora, ma tanto che alternative ho?
‒ Beh, imbarcarti con quelli là oppure…?
‒ Oppure? Dimmelo tu?
‒ Non ti ha proposto nient’altro...
‒ Cassandra?
‒ Era Cassandra il tuo custode?
‒ Era.
‒ Vabbè, comunque, non ti ha dato un’altra possibilità.
‒ Era troppo impegnata a prendermi in giro…
Silenzio. Celia cominciò a scendere le scale, sapeva che quando la conversazione si faceva appena fastidiosa, suo fratello tagliava corto appena possibile.
‒ Prenderti in giro?
‒ Sì, beh, diciamo che… l’hai guardata, almeno?
‒ Sì… penso…
‒ Ecco, all’inizio ci stava…
Celia sbuffò.
‒ Poi niente, era solo una stronzata per coprire il suo vero obbiettivo.
‒ Cavolo, Xavier hai fatto qualcosa con lei?
‒ Io no, solamente un bacio…
‒ E dai, e Julie che cosa penserà?
‒ Julie cosa deve pensare?
E la frase non era stata pronunciata né da Celia né tantomeno da Xavier. Ma dalla ragazza dai capelli corvini e il trolley blu scuro che era seduta all’ingresso del Centro Pokémon tanto ma davvero tanto somigliante a Julie che la guardava con occhio truce. Celia riattaccò all’istante più per movimento meccanico che per altro. Aveva fatto un bel casino. La ragazza di Xavier era comparsa davanti a lei.
 
Mi hanno appena informato, Kalut, che Cassandra sta arrivando sarà lei a spiegarti tutto ‒ fece Kurao.
Kalut si era sdraiato su uno scomodissimo divano, vicino a lui Arcanine e Xatu riposavano, il primo rannicchiato su se stesso e il secondo immobile nella sua eterna posa totemica. Con la mano il ragazzo carezzava invece il durissimo esoscheletro del Whirlipede in cui si era evoluto il suo Pokémon Centipede. Il processo di crescita e di evoluzione era partito non appena il ragazzo lo aveva toccato. Ed era accaduta la stessa cosa anche con Growlithe poco tempo prima. Kalut cominciava a capire, quella rientrava tra le capacità incredibili di cui gli aveva parlato Kurao.
‒ Va bene, tanto sono abbastanza abituato ad aspettare…
‒ Penso proprio che sarà un incontro interessante ‒ sorrise l’uomo suscitando la curiosità del giovane.

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Capitolo 33
*** Capitolo 32 - Crescita IV ***


Capitolo 32 – Crescita IV

 

­­­­­­­­‒ Julie… ‒ mormorò Celia immobile con le gambe che tremavano come fatte di gelatina e gli occhi che non riuscivano a trattenere una smorfia di paura.
‒ Celia, che cosa stavi dicendo di me? ‒ chiese quella che probabilmente non aveva udito il resto della conversazione.
‒ Che cosa ci fai qui?
‒ Ti ho fatto prima io una domanda… comunque sono qua per lavoro.
‒ Io stavo parlando con Xavier… ‒ mugolò la bionda.
‒ Sì, penso di averlo capito.
‒ Ecco lui… lui…
‒ Celia? Che cosa sta succedendo?
‒ Senti, non posso dirtelo io!
‒ Che cosa non puoi dirmi?!
Fortunatamente il Centro Pokémon era vuoto. L’infermiera al bancone principale stava sfogliando senza alcun interesse una rivista di Vanity Fair quando la sua attenzione era stata catturata da quella scenetta così spontanea. Julie e Celia si trovavano davanti alle scalette che conducevano al piano superiore, la prima si era alzata per avvicinarsi alla seconda e l’aveva raggiunta lasciando il trolley vicino al divanetto su cui era seduta.
‒ Julie, mi dispiace, ma è una faccenda tra te e Xavier, non voglio immischiarmi in alcun modo, si trova a Sagittania ora, chiedi lumi direttamente a lui…
‒ Celia! ‒ sbottò infine lei non potendo credere alle sue orecchie.
La sua espressione delusa e i suoi occhi furenti si sciolsero quasi subito, Julie riprese due Ball che aveva lasciato al bancone di cura, si sistemò la felpa, prese la valigia e lasciò il Centro. Senza dire una parola, senza aggiungere altro. Celia non osò né guardarla né salutarla.
Poco dopo la bionda era già nel BMW di Antares.
‒ Allora, è successo qualcosa ‒ affermò con sicurezza il Campione.
‒ Credo di aver appena rovinato il rapporto tra mio fratello e la sua ragazza…
‒ Ahia, male…
‒ Sì, male.
‒ Devi sistemare le cose, parlare con qualcuno? ‒ domandò Antares.
‒ No, no, ormai non posso fare niente ed è inutile perdere altro tempo, dormiamoci su, domani partiremo per Delfisia ‒ stabilì lei.
‒ Il che era il programma iniziale. Va bene, ma prima vorrei portarti a parlare con una persona ‒ aggiunse Antares.
‒ Nessun problema ‒ Celia annuì poco partecipativa.
Il Campione attraversò mezzo quartiere fino a giungere all’area circostante al centro storico della cittadina, parcheggiò di fronte ad una casa con un portone bello grosso, sicuramente costruita qualche secolo nel passato. Una targa, sulla sommità del portale, enunciava a grossi caratteri:
Club dei montanari di Sidera
‒ Chi vuoi farmi incontrare qui? ‒ domandò la bionda non propriamente in vena di sorprese.
‒ Un uomo potente, Celia ‒ rispose il Campione.
I due scesero dall’auto. Antares suonò il campanello e dopo poco il portone si aprì. Una sorta di gigante dalle sembianze umane con occhi del colore della nebbia si presentò al cospetto del Campione.
‒ Buongiorno, Ercole ‒ fece i suoi ossequi lui.
‒ Antares, non mi hai detto che saresti venuto oggi ‒ ribatté quello con una voce che ricordava l’eco di una grossa esplosione all’interno di una profonda caverna.
‒ Io non avviso mai, dovresti ricordartelo…
‒ Infatti, chi è la ragazzina qui con te? ‒ chiese poi l’omone.
‒ Tu con un po’ di intuito ci puoi arrivare ‒ rispose. ‒ Mentre per te, questo energumeno è Ercole, Capopalestra di tipo Roccia di Telescopia ‒ disse voltandosi da Celia.
‒ Piacere ‒ mormorò quella un po’ dubbiosa.
‒ Penso di aver capito chi sei, Celia, giusto? ‒ tese la mano l’uomo.
La stretta delicata della bionda sarebbe stata adatta per due dita della mano dell’uomo, con quest’ultima Ercole avrebbe potuto stritolarle la gabbia toracica con lo stesso impegno con cui lei strizzava una spugna.
‒ E adesso, il motivo per cui siamo qui, che credo entrambi conoscerete… ‒ fece Antares riaprendo il discorso.
Ercole annuì, Celia ci arrivò poco più tardi. Il Capopalestra si voltò e invitò i due ospiti ad avanzare all’interno dell’edificio. Passarono per una stanza che sembrava l’ingresso e imboccarono la porta che si trovarono a sinistra. Lì dentro era tutto illuminato da lampade ad olio e torce infuocate e sul soffitto vi erano dei fori e delle finestre poste in modo tale da permettere il ricircolo dell’aria. Fu in quel momento che Celia ebbe modo di squadrarlo: i suoi occhi chiarissimi, la sua carnagione scurita dal sole, le sue spalle e braccia imponenti, l’uomo aveva un addome prominente e ciuffi di capelli argentei che spuntavano dal capo ma tutto ciò rendeva la sua figura sicuramente più autorevole ed evidente. Eppure la ragazza, scrutando bene i suoi tratti somatici, si rese conto di aver già visto quel volto da qualche parte.
‒ So che sei già stata messa al corrente della situazione, Celia ‒ proferì l’uomo.
‒ Te lo ha detto Cassandra? ‒ domandò Antares.
‒ Me lo ha detto mio figlio ‒ rispose quello.
‒ Che lo avrà di sicuro saputo da Cassandra…
‒ Suo figlio? ‒ chiese Celia.
‒ Ah, credo tu lo abbia già conosciuto, ti ricordi di Arturo?
In quel momento la ragazza ricollegò, il Capopalestra di Vulpiapoli, gestore della palestra-palestra, amico di Antares, era il figlio del gigante.
‒ Sì, ho capito, ho già avuto il piacere…
‒ E penso che anche lui ti abbia dato la sua medaglia senza neanche combattere ‒ proseguì lui.
‒ Ehm… sì.
‒ Beh, questa cosa mi delude davvero tanto ‒ disse. ‒ Ma d’altronde cos’è più importante, questo o la nostra dignità di Allenatori?
Celia non rispose alla domanda retorica ma annuì guardando altrove.
‒ Però devi promettermi che una volta che avremo risolto questa vicenda della Faces, lotterai con me ‒ puntualizzò Ercole.
La ragazza rimase per un istante basita.
‒ Allora, ci stai? ‒ chiese l’uomo.
‒ Ehm, certo ‒ mormorò quella.
Ercole si passò le dita sui baffi, quindi rivolse lo sguardo ad Antares, che nel frattempo aveva camminato accanto a loro lungo quel corridoio che pareva infinito con le mani in tasca e gli occhi bassi.
‒ È dalla nostra parte, Antares? ‒ chiese al Campione riferendosi palesemente a Celia.
Il campione ricambiò il suo sguardo fisso: ‒ Per ora, non ha altra scelta, ma sono sicuro che più in là anche lei comprenderà cosa vuol dire tutto questo... ‒ rispose.
‒ Va bene, Celia, dato che ho fiducia in Antares intendo mostrarti qualcosa ‒ proferì con orgoglio Ercole.
La ragazza non sapeva cosa aspettarsi. Intanto i tre erano giunti al termine del tappeto rosso che tappezzava il pavimento di quel corridoio illuminato da sceniche torce accese appese ai muri e si trovavano davanti ad un secondo portone, di ferro stavolta. Ercole lo aprì girando simultaneamente due grandissime manopole metalliche che emisero uno acre stridio. Le due ante scorsero sui passanti permettendo alla stanza che si nascondeva al di dietro di rivelarsi.
Celia spalancò gli occhi.
 
L’ora di cena era ormai giunta, un giovane Allenatore di nome Xavier con i capelli corti e castani aveva le mani intente a sottrarre svogliatamente qualche nocciolina alla ciotolina del bancone del bar interno al Centro Pokémon di Sagittania. I suoi Pokémon erano in cura, si era appena fatto una doccia e quella sensazione di caldo e asciutto che segue l’asciugatura ovattava i suoi contatti col mondo esterno.
‒ Mi dai un bicchiere di succo di lime? ‒ domandò gentilmente alla barista che fino a quel momento gli aveva sorriso con l’occhio omicida di chi vorrebbe che i cosiddetti clienti lasciassero della grana alla sua attività. Aveva di proposito cercato l’ordine più insolito che gli fosse venuto in mente.
‒ Freddo o temperatura ambiente?
Xavier rimase sorpreso: ‒ Più gelido possibile, ne ho abbastanza di cose calde per oggi… ‒ mormorò affranto il ragazzo.
Era scazzato, Celia gli aveva riattaccato il telefono in faccia e non dava segnali di vita da quasi un’ora e ancora sentiva lo stomaco contorto per la vicenda di Cassandra.
‒ Ci vuoi due cubetti di ghiaccio?
‒ Cubetti di… senti, gettaci un po’ di tequila e triple sec e trasformalo in un Margarita con le tue manine magiche… ‒ fece lui demotivato.
‒ Sembra che la giornata non possa che peggiorare ‒ mormorò la tipa mentre con cominciava a riempire lo shaker di ghiaccio.
Xavier emise un verso amorfo allungandosi con le spalle sul bancone e mettendo la testa tra le braccia incrociate. Per qualche secondo il ragazzo si godé il rumore dei tre liquidi che scendevano lentamente sui pezzi di ghiaccio, quindi anche quella dolce quiete scomparve.
‒ Ciao, Xavier ‒ Voce conosciuta, tono triste, brutte notizie.
Il castano si voltò girando sullo sgabello.
‒ Julie, mi sei mancata ‒ sorrise stanchissimo alzandosi e spingendosi ad abbracciarla.
‒ Anche tu ‒ rispose lei rispondendo un po’ restia alla stretta.
‒ Che ci fai qui? ‒ domandò Xavier.
‒ Ero a Telescopia per ritirare un Pokémon per l’Allevamento quando ho sentito Celia parlare con te… di qualcosa che non potevo sapere.
I due milligrammi di felicità rimasti nel cervello di Xavier evaporarono con tutta la sua giornata dietro.
‒ …e quando le ho chiesto di parlarmi lei ha detto di non poterlo fare ‒ concluse la mora.
‒ Sì ‒ borbottò il ragazzo.
‒ Che cosa succede, Xavier? ‒ il suo tono si era alzato lievemente, era un misto tra il preoccupato e l’acido.
L’Allenatore si prese qualche istante prima di dire: ‒ Niente, amore, va tutto…
‒ Non mentirmi, sai che non ci riesci.
Era all’angolo. Xavier si guardò le scarpe, ma gli occhi scuri di Julie gli bloccarono lo sguardo come due calamite. Odiava quelle situazioni, non che ne avesse vissute chissà quante, ma sentirsi impotente e bloccato da un muro di fuoco insuperabile lo faceva sentire piccolo, troppo piccolo.
‒ Io.
‒ Tu.
Potreiaverbaciatoun'altraragazza… ‒ disse tutto d’un fiato ad una velocità supersonica.
‒ Che cosa?! ‒ esclamò lei.
‒ Io potrei…
‒ Ho capito benissimo! Perché diavolo avresti dovuto farlo?! ‒ esclamò furente quella.
‒ Io... non era una… lei era…
Capì che “io non volevo”, “non era una cosa ricambiata” e “lei era troppo figa” non lo avrebbero scusato. Le prime due poiché bugie, la terza poiché fin troppo sincera.
‒ Cazzo, Xavier, che ti è venuto in mente?! ‒ fece Julie facendo somigliare la frase più ad un lamento che ad una sgridata. Intanto la mora si era staccata da lui e aveva completamente cambiato espressione.
‒ Scusami, davvero, non sapevo quello che facevo, io…
‒ Chi è?
‒ Come?
‒ Chi è lei?
‒ Uff… ‒ sospirò desolato. ‒ Cassandra, la Capopalestra di Idresia ‒ tirò giù.
‒ Con quella?! ‒ esclamò Julie che, abitando da più tempo a Sidera aveva bene idea di che sex symbol fosse la peperina in questione.
‒ Sì, ma non è stato un…
‒ È successo altro tra voi?
‒ No.
Silenzio. Il Centro era praticamente vuoto, ma il silenzio avrebbe regnato pure se fosse stato affollatissimo.
‒ Ero venuta a svolgere una commissione a nord con la speranza di incontrarti anche se da quando sei partito non riesco neanche a parlare con te al telefono, ho rimandato l’appuntamento con un cliente e ho fatto un viaggio in pullman con l’ansia di sapere cosa fosse successo… ‒ premise lei. ‒ Per sapere che non solo non sei stato capace di trattenerti da una bella ragazza, ma neanche hai avuto il coraggio di dirmi una cosa così stupida che se probabilmente sarei anche riuscita a sopportare ‒ pronunciò lapidaria.
Ogni parola era una coltellata nella carne tra occhio e orbita oculare per Xavier, non vedeva speranza in quella situazione, solo un mucchio di rotture di scatole che probabilmente avrebbero fatto cedere il suo rapporto con Julie solo dopo tanto altro tempo di fastidiosi problemi.
‒ Hai ragione ‒ mormorò con un filo di voce.
Ceffone. Altro ceffone.
‒ Non seguirmi.
E Julie girò i tacchi andandosene. Xavier, impotente, tornò seduto sullo sgabello del bar e voltò le spalle anche lui all’immagine della sua probabilmente ex ragazza che se ne andava senza guardarsi indietro.
‒ Il tuo Margarita è pronto… ‒ mormorò la barista con il tono di voce greve idoneo alla scena cui aveva appena assistito.
‒ Grazie ‒ sospirò Xavier fissando il bicchiere a forma di sombrero contenente quel liquido traslucido ornato da una corona di sale e una mezza fetta di lime. ‒ Non poteva andare peggio, dicevi?
 
‒ Sta arrivando ‒ pronunciò Kurao.
‒ Bene ‒ approvò Kalut.
Il ragazzo era sdraiato sul pavimento, prossimo al sonno. O meglio, stanco morto per aver tenuto gli occhi aperti nel momento della giornata che il suo corpo definiva come ora di dormire, ossia il giorno. Accanto a lui Gilroy, fedele Arcanine e Scolpiede, fase ancora più avanzata del suo primo compagno, egli si era evoluto poco prima in seguito al secondo tocco di Kalut. Lentamente, sotto gli occhi vigili di Kurao, le sue palpebre si chiusero e i suoi muscoli si rilassarono. Kalut sentì il sonno scorrere su di lui.
‒ Che cosa ha dimostrato di saper fare, ancora, oltre al far evolvere i Pokémon solo volendolo? ‒ chiese allora l’uomo a Xatu.
“Scolipede l’ha visto rigenerarsi da una ferita profonda in un attimo e sopravvivere al suo veleno senza problemi, inoltre senza mai allenarsi è ottimo nella ginnastica, ha un equilibrio perfetto ed ha un’agilità ai limiti umani”
‒ Altro?
“Beh, non so se hai notato ma riesce a capire perfettamente e a mettere dalla sua parte qualsiasi Pokémon.”
‒ Basta?
“Altre parole di Scolipede, senza mai aver combattuto prima lo ha fatto lottare con uno Staravia di gran lunga più forte sconfiggendolo all’istante.”
‒ È come se fosse capace di tirare fuori il meglio di qualsiasi cosa, le sue capacità di essere umano e anche quelle dei suoi Pokémon ‒ mormorò Kurao.
‒ Sono proprio bravo… ‒ fece Kalut nel sonno come avesse sentito tutto.
L’uomo portò lo sguardo al pennuto.
“Sì, sa fare pure questo…” ricordò Xatu.

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Capitolo 34
*** Capitolo 33 - Coerenza ***


Capitolo 33 – Coerenza
 
‒ Sta arrivando… ‒ mormorò Kalut ancora addormentato.
Kurao doveva ancora metabolizzare quella sua caratteristica, il ragazzo era più sveglio nel sonno che in qualsiasi altro momento. E ovviamente l’uomo non poté che stupirsi quando vide entrare Cassandra dalla porta principale poco dopo il monito di Kalut. Comunque la sua attenzione fu catturata dalla pessima cera di lei che sicuramente non prometteva bene. Si diresse verso di lei.
‒ Cassandra, che cos’è successo? ‒ domandò l’uomo.
‒ Niente di grave, ma ho perso il secondo soggetto ‒ mormorò lei delusa.
Kurao sbuffò ‒ è stato per via di un errore o un’imprecisione?
‒ È stata colpa mia, lui aveva dei sospetti e li ho chetati inventandomi di un mio interesse nei suoi confronti, ovviamente quando ho dovuto svelare la copertura… si è sentito colpito nel vivo e ha deciso di non seguirmi ‒ spiegò.
‒ Hai avvertito gli altri Capipalestra?
‒ Sì.
‒ Sai se Xavier intende fare quello che gli hai consigliato o…
‒ Non gli ho consigliato niente, non ho potuto, abbiamo iniziato a litigare prima che potessi concludere il discorso ‒ spiegò la ragazza.
‒ Basta così…
I due rimasero in un silenzio di intesa reciproco. Non avevano molto altro da dirsi ed avevano ben altro a cui pensare. Tipo alla strana creatura che dormiva nell’ufficio della Capopalestra.
‒ Sa far evolvere i Pokémon col tocco, rigenerare il proprio corpo ed è un Allenatore fortissimo. Tra lui e i Pokémon che controlla c’è un legame mentale indissolubile. Per il poco tempo che ho conversato con lui mi è sembrato di mente estremamente raffinata e in più pare che riesca a percepire tutto ciò che lo circonda fino ai minimi particolari ma soltanto mentre dorme ‒ argomentò Kurao riferendosi a Kalut.
‒ È fantastico, hai messo alla prova le sue capacità?
‒ Ho visto coi miei occhi solo l’ultima, le altre sono testimoniate da Xatu.
‒ Va bene ‒ sorrise Cassandra. ‒ allora vediamo di capire di che pasta è fatto.
La ragazza entrò nel suo ufficio spalancando la porta e subito posò gli occhi sul ragazzo dai bermuda di jeans, la maglietta bianca e i capelli argentei rannicchiato in posizione fetale a terra. Prese quindi un foglio dalla sua scrivania e lo avvicinò alla guancia destra del giovane, probabilmente intenzionata a lacerarla.
‒ Ferma ‒ fece impassibile Kalut aprendo appena gli occhi.
Ed ebbe la prima prova, il ragazzo avvertiva la presenza e l’intenzione delle persone vicine durante il sonno.
‒ Sarò delicata ‒ sussurrò quella.
E delicata ma stronza, tendendo il foglio scavò appena nella pelle della guancia di Kalut. Vide il sangue che non faceva in tempo ad uscire che già i due lembi della ferita si ricongiungevano come i flutti separati dalla prua di una barca appena dopo il suo passaggio. Seconda prova.
‒ Fantastico ‒ commentò la Capopalestra.
‒ Quindi tu sei Cassandra… ‒ mormorò Kalut aprendo gli occhi con la voce un poco impastata dal sonno. ‒ Saluti sempre le persone tagliuzzandole?
‒ No ‒ rispose lei. ‒ Solo certi soggetti speciali… ti ha fatto evolvere lui, Gilroy? ‒ fece poi la ragazza rivolgendosi al suo Arcanine che, in contemporanea con Kalut, aveva deciso di svegliarsi. Il canide fece intendere la sua risposta affermativa.
‒ Ma allora sei davvero così interessante come mi dice Kurao ‒ fece soave Cassandra.
‒ Sì, sì, ora ti va di farmici capire qualcosa in tutto questo però? ‒ domandò con un sottile velo di fastidio.
‒ Mh ‒ Cassandra sorrise. ‒ Va bene.
‒ Parti dal discorso delle persone come me, come siete venuti a conoscenza della mia esistenza?
Cassandra si sedette alla sua scrivania, Kurao era in piedi e statuario come sempre proprio accanto a Xatu, gli altri Pokémon del bianco stavano a terra poco partecipativi.
‒ Luna è una mia collega ‒ esordì Cassandra. ‒ Capopalestra di Costa Mirach. È una ragazza un po’ strana, quasi assurda e sinceramente non so come mai abbia ancora il suo ruolo. Un giorno, Antare, il nostro Campione, l’uomo che mi ha fatto conoscere la Faces, mi ha spiegato perché lei fosse ancora sotto la sua custodia.
‒ Mh, ovvero? ‒ domandò Kalut attentissimo.
‒ Lei è come te, molto diversa in realtà, ma più o meno siete fatti della stessa pasta… soltanto che, lei non è riuscita a metabolizzare tutto lo strano potere che ha ricevuto alla nascita ed è… come impazzita ‒ spiegò Cassandra mutando espressione.
‒ E perché io invece no?
‒ Non avete mica le stesse capacità, Kalut ‒ In quel momento l’interesse del ragazzo fu catturato assieme alla sua attenzione. ‒ basti pensare che lei già all’inizio sapeva di essere quello che era ‒ gli occhi di Kalut esprimevano il suo coinvolgimento personale nella questione.
‒ Che cosa… siamo? ‒ fece fatica ad utilizzare tale parola.
‒ Dei, come mi piace pensare ‒ rispose secca Cassandra. ‒ Non sono mai stata una particolarmente religiosa e quelle entità che le persone normalmente identificano come dei… secondo me sono la cosa che più si avvicina a voi.
‒ Dei, interessante.
‒ Di più, Kalut, da quello che ho visto in Luna… è incredibile da pensare, ma è come se lei sapesse tutto di qualsiasi cosa e in qualsiasi momento. È lei che nei brevi momenti di lucidità che ha avuto ci ha parlato di te.
‒ Io invece?
‒ Tu sai invece fare qualsiasi cosa, sei come un umano portato al massimo delle sue possibilità: la tua mente, il tuo corpo…
‒ Tutto questo lo sai oppure lo pensi?
‒ Credo di esserne certa.
‒ Che frase ossimorica.
‒ Ne sono certa.
Pausa di ripresa per entrambi.
Kalut sciolse la tensione: ‒ Quindi voi avreste mandato a me Xatu…
‒ Luna ha mandato Xatu, Antares lo aveva in custodia ma è stata lei a portarlo ‒ corresse Cassandra.
‒ E poi Gilroy, Arcanine a cercare Xatu a sua volta?
‒ Beh, in un certo senso, fatto sta che alla fine ti abbiamo trovato…
‒ Non poteva direttamente portarmi Xatu da voi?
“Ho notato che il tuo processo di adattamento era lento, ti rimaneva difficile entrare nella realtà, per un attimo ho avuto paura che avessi persino fatto la stessa fine di Luna” spiegò Xatu stesso inviando telepaticamente le sue parole a tutti i presenti. “Inoltre, mi divertiva seguire la tua crescita” confessò poi.
‒ Ho capito, è interessante sentirmi un super uomo, ma ora ditemi cosa avete intenzione di fare con me?
‒ Chiederti di scegliere se aiutarci o no.
‒ Mi pare di aver già accettato, giusto?
Cassandra guardò Kurao come per cercare conferma.
‒ Io e il tuo amico in giacca e cravatta abbiamo già parlato, Cassandra ‒ spiegò Kalut. ‒ E sì, mi interessa questa sfida che avete da offrirmi, soprattutto dal momento che non ho molti altri impegni…
Cassandra sorrise.
 
Ercole spalancò la porta. Davanti a Celia si aprì lo scorcio su una stanza incredibile: un enorme salotto in cui il soffitto sembrava lontanissimo, vi erano numerosi trofei appesi al muro o disposti su mensole apposite e a terra il parquet era tutto coperto da tappeti di pellicce. La stanza era rustica ed elegante allo stesso tempo, a metà tra il colore scuro del legno di noce della mobilia e le tinte più colorate della collezione di cappelli tirolesi.
La ragazza fu catturata dal fascino di quel luogo, così tanto che non si accorse dei sette omoni che scrutavano con occhi indagatori la nuova arrivata. Appena la ragazza abbassò la testa e mise in tasca lo sguardo meravigliato, intervenne Antares che, scambiandosi un cenno con il gruppo di uomini, rassicurò Celia.
‒ Questo, Celia ‒ esordì fiero Ercole. ‒ È il Circolo degli Alpinisti di Sidera, o almeno la sua sede principale ‒ enunciò.
‒ È fantastico ‒ fece sincera lei.
‒ Dovresti vederlo d’inverno quando teniamo acceso il falò ‒ commentò l’uomo.
Effettivamente la ragazza guardando meglio notò un enorme camino scavato nel muro al centro della stanza che sicuramente avrebbe contenuto un fuoco bastevole a scaldare un intero appartamento di medie dimensioni.
‒ E io ti ho portato qui per un motivo ben preciso, signorina… ‒ riprese Ercole. ‒ Ma sicuramente sarà più gradevole parlarne davanti ad una buona cena, che ne dici?
Tutti furono invitati a sedere ad un tavolo di forma rettangolare posto rasente uno dei lati della stanza, da una porta quasi invisibile che dava al salotto cominciò a fare via vai una signora paffuta tutta sorridente, che poi si rivelò essere la consorte di Ercole, ogni volta con un vassoio di vivande bello caldo. Celia, seduta da un lato con a destra Antares e a sinistra uno di quegli energumeni panciuti, si sentiva una pulce. I primi minuti della cena furono per la ragazza dei lunghi istanti di imbarazzo, si sentiva troppo fuori luogo e quei signori, per quanto educati, con le loro domande non la aiutavano affatto:
‒ Quindi sei un Allenatrice, ma quanti anni hai?
‒ Da quanto alleni i tuoi Pokémon, speri un giorno di vincere uno dei tornei della Lega?
‒ Sei stata tu a scegliere di trasferirti a Sidera, è una regione calma, hai mai visto i suoi panorami?
La ragazza rispondeva con qualche bisillabo interrotto da un timido morso sferrato all’arrosto succoso che la signora di Ercole aveva divinamente cucinato.
‒ Scusate, signori, la vostra attenzione ‒ fece ad un certo punto Ercole dalla sua postazione di capotavola battendo delicatamente il coltello sul bicchiere colmo di vino rosso. ‒ abbiamo avuto il tempo di conoscere meglio la nostra gentilissima ospite ‒ sorrise. ‒ ma adesso vorrei che ci concentrassimo sul motivo per cui oggi sediamo a questo tavolo assieme ad Antares ed alla sua nuova Allieva, a quanto ho saputo.
Il mormorio di apprezzamento dei presenti fece arrossire Celia.
‒ Celia, scommetto che ti stai chiedendo perché invece di star combattendo con un Capopalestra sei seduta in mezzo a dei montanari a fare cena, ebbene voglio darti tutti i lumi di cui hai bisogno.
Antares, senza intervenire, sorrideva annuendo. Adorava l’atmosfera di quel luogo.
‒ Il tuo maestro ti ha parlato della Faces ‒ Il nome della federazione fu seguito da un borbottio generale. ‒ e dei suoi piani… folli ‒ Silenzio.
‒ Sì ‒ rispose Celia facendosi attendere un poco. ‒ E ho intenzione di mettere le mie forze dalla vostra parte, poiché mi rendo conto che allo stato attuale rappresento solo un peso per voi ‒ mormorò.
‒ Ottimo, mi fa piacere, ma prima di tutto voglio parlarti di una cosa: Antares mi ha raccontato dello spiacevole evento di Algol nel suo appartamento… beh, in quel caso la Faces ci ha giocati, ma stai sicura che non è lei l’unica ad avere degli infiltrati ‒ rise assieme alle voci di approvazione dei presenti.
‒ Infiltrati? ‒ domandò Celia.
‒ Fonti sicure interne all’organizzazione confermano che oltre alla strategia del PokéNet ci sono altri giochetti che quegli uomini vogliono fare con il popolo ‒ spiegò. ‒ e uno di questi è modificare radicalmente l’impostazione del nostro stato.
Celia fece fatica a tenere su la mascella.
‒ Il loro progetto di ordine e perfezionamento del sistema, consiste anche in questo, trasformare ogni regione in un gigantesco parco Allenatori, ma perché questo avvenga, ogni regione deve essere regolata secondo standard precisi… ma soprattutto deve distinguersi dalle altre per determinate caratteristiche.
Logico.
‒ E non sappiamo molto, ma sono arrivati a noi i progetti circa una regione precisa molto più a nord di Sidera ‒ proseguì Ercole.
Celia intravide alle spalle dell’uomo, appesa al muro e riempita di scritte e segni come una mappa concettuale, una cartina di Sinnoh.
‒ La regione di Sinnoh? ‒ tentò lei.
‒ Esatto. Non ti lascio indovinare in cosa vogliono trasformarla, non riusciresti a metterti in linea con la loro follia… ‒ qua l’uomo si fece più cupo.
Celia alzò la soglia d’attenzione e Antares abbassò leggermente il capo.
‒ In un parco Allenatori a tema inverno ‒ Ercole abbatté la suspense.
‒ Che cosa? ‒ domandò Celia di getto temendo sul serio di non aver compreso.
‒ Intendono ricoprirla tutta di neve e ghiaccio, Sinnoh per i piani di questi uomini deve diventare un parco divertimenti invernale.
‒ Far scendere una glaciazione su Sinnoh, questa azione ha un duplice scopo ‒ intervenne Antares senza alzare gli occhi. ‒ Come ben sai io sono quasi obbligato a sottostare al loro giogo, poiché la Faces ora come ora tiene in mano la Lega di Sidera.
Celia annuì.
‒ Ma Sidera è una regione piccola, estremamente piccola, comprarla per loro è stato possibile, più difficilmente riuscirebbero a tenere in mano le casse di Sinnoh, invece. Sinnoh non solo non può essere ricattata come Sidera, ma ha a capo una Campionessa che è tutt’altro che facile da gestire.
‒ Camilla?
‒ Proprio lei, Camilla.
‒ Ancora non riesco a capire…
‒ Quella donna è fatta di roccia, non si è lasciata intimidire da nessuno di loro. Ma la Faces è tenace. Allora immagina: freddo eterno su Sinnoh, il turismo scompare, le attività chiudono, loro hanno ottenuto un perfetto parco a tema su cui investire comprandolo a pochi spiccioli ‒ spiegò papale Antares.
Celia si prese qualche istante per riflettere. La Faces intende congelare un’intera regione, devono essere tutti impazziti.
‒ Quanto rancore provano queste persone nei confronti dell’umanità? ‒ fu Avril, cinica come sempre, a parlare.
‒ Te ne sei accorta. In realtà loro credono di volere il suo bene, ma siamo concordi sul fatto che dare il bene al popolo coi metodi sbagliati e di nascosto non è la migliore delle idee ‒ ribatté Ercole.
‒ Ma nessuno si sta opponendo in alcun modo? ‒ chiese Celia.
‒ Certo che sì ‒ nella voce di Antares c’era un velo di malinconia. ‒ noi non possiamo fare molto, avendo membri della Faces pure sotto il culo, e in più ora come ora questo meccanismo è così forte e silenzioso da impedire una reale difesa ‒ riprese fiato. ‒ Ma conosco molte persone che stanno agendo al buio più buio per fermarli.
Celia annuì comunque poco soddisfatta della risposta.
‒ Insomma ‒ tornò Ercole. ‒ che cosa possiamo fare noi, Celia?
‒ Dare una mano…? ‒ tentò lei.
‒ Esatto, mettere le nostre braccia e le nostre gambe a disposizione del popolo. La Faces crede ancora di poter manipolare una regione intera come fosse un videogioco, ma non pensa agli abitanti che si troveranno a non poter più vedere la luce del sole coperta dalle tormente ‒ immagine cruda.
‒ Che cosa farete di preciso?
‒ Ci stiamo dividendo le aree di Sinnoh, agiremo come squadra di soccorso e allo stesso tempo cercheremo i punti da cui quei folli intendono far partire la glaciazione. In modo da bloccarli ‒ spiegò Ercole.
‒ Mi sembra un’ottima idea ‒ Un sorriso spontaneo tornò sul viso della giovane.
‒ Il tuo compito, vuoi conoscerlo? ‒ domandò Antares tornando anche lui a sorridere.
La cena si concluse, tutti i presenti si raccolsero in un unico punto della sala per assistere al conferimento della medaglia Cratere alla giovane Allenatrice. Non era niente di speciale, ma Ercole ci teneva. L’uomo fece promettere solennemente alla ragazza che una volta conclusa la vicenda, avrebbe affrontato sia lui che suo figlio.
‒ Celia, hai più o meno un anno di tempo, tempo che sfrutterò personalmente per allenarti fino allo stremo ‒ predisse Antares.
La ragazza acconsentì, alla fin fine era quello l’obbiettivo con cui aveva iniziato il viaggio.
‒ Dovrai sostenere un po’ di fama, quello stretto necessario che possa impedirti di essere un papabile bersaglio per la Faces. Ma nel frattempo ti trasformerò in una guerriera, hai la fortuna di essere uno di quei pochi individui che ancora può lottare contro quei bastardi senza rischiare di perdere ciò a cui tieni. Ti senti pronta? ‒ chiese il Campione.
La ragazza strinse la medaglia di forma circolare di colore marrone scuro con due vette innevate incise sopra.
‒ Sono pronta.
 
I letti del centro Pokémon erano scomodi, lo erano sempre stati. Ma si presta poca attenzione a particolari simili quando si pensa alla giornata seguente, alle sfide, alle donne e ai Pokémon.
In quel momento, Xavier si rese conto di quanto fossero scomodi quei letti.
‒ Vaffanculo tutti, che schifo.
Era stato messo nella merda dalla sorella si era pure beccato la delusione e il due di picche della sua ragazza lo stesso giorno. Non sapeva a quel punto cosa fare. Tornare da Cassandra sarebbe stato un po’ come dargliela vinta e perdonare il suo animo stronzo e andare da Celia sarebbe stato come tornare anche da Julie, essendo lei entrata a far parte della famiglia, il che era pure un insulto al suo orgoglio. Come ultima possibilità c’era il terminare il viaggio e poi tornare a casa, ma ora che sapeva che tutto quello che stava facendo serviva ad uno scopo tanto sinistro ad un’organizzazione del genere, non era più così sicuro neanche di quello.
Un po’ brillo, stanco della giornata piena ma improduttiva, si addormentò catturato da un sonno spigoloso e privo di sogni. Per la prima volta Xavier chiuse gli occhi senza avere idea di che cosa avrebbe fatto da quel momento in poi.

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Capitolo 35
*** Capitolo 34 - Traguardo ***


Capitolo 34 – Traguardo

 

Le giornate di merda, non sempre iniziano male. Non sempre.
Celia si era addormentata con il suo diario a forma di barretta di cioccolato sulla faccia, risvegliandosi così con le guance sporche di grafite e due pagine di diario appiccicate alle labbra. La matita invece era persa, il che non era sicuramente un bene. La bionda si alzò e raggiunse il lavabo del bagno per sputare un po’ di bava grigiastra. Allo specchio, guardandosi, le era sembrato di vedere uno straccio umido con gli occhioni. Si fece la doccia, si sistemò alla ben e meglio, si vestì, preparò la sua borsa e il suo zaino. Aveva una t-shirt con motivo mimetico dalle tinte viola e un paio di shorts di jeans.
Raggiunse la cucina dove Antares, con addosso una maglietta nera come la pece e dei pantaloni di felpa grigi sorseggiava un intruglio sciacquato che lui chiamava espresso ma che non avrebbe tenuto sveglio un passerotto per mezz’ora.
‒ Buongiorno, caffè?
‒ No.
‒ Ginseng?
‒ No.
‒ Non è giornata, vero?
‒ No.
I due partirono verso le nove e mezza, tra loro aleggiava il silenzio dalla sera prima quando erano tornati nell’appartamento del campione e non avevano avuto l’energia neanche di salutarsi. L’uomo aveva mostrato alla giovane la sua stanza e lei vi era piombata dentro. Avril non era contenta, la discussione sconclusionata della sera prima l’aveva fatta sembrare stupida. Nel BMW di Antares si udiva di sottofondo il ronzio dei suoi centotrenta chilometri orari fissi, che poteva benissimo permettersi in autostrada, insieme al chiacchierio di un qualche servizio in diretta sulla radio nazionale.
“Qui con noi per un intervista esclusiva, il Campione della Lega di Hoenn, Ruby, che ha finalmente deciso di concederci qualche parola a proposito della nuova linea lanciata dalla sua label, allora…”
‒ Quante chiacchiere inutili ‒ commentò Antares cambiando stazione radio. Si ritrovò sincronizzato su una frequenza che trasmetteva abominevoli pezzi dance anni ottanta.
‒ Quelle del Campione di Hoenn?
‒ Quelle di tutto il suo giro… quel ragazzo infanga il suo titolo.
‒ A me piace… ‒ osò Celia.
Antares guardò la ragazza seduta sul sedile passeggero con un occhio lievemente deluso: ‒ è normale ‒ asserì.
‒ Ha stile, va parecchio di moda e sicuramente ha gusto per quanto riguarda tutto ciò che fa.
‒ È proprio questo il problema, il fatto è che lui dovrebbe essere il Campione di una Lega.
‒ Uff ‒ sbuffò. ‒ voi maschi sempre fissati col fare a gara a chi è più forte, c’era bisogno di un po’ di innovazione, Ruby è seguitissimo, molto più del suo predecessore ‒ ritentò Celia.
‒ Ho paura ‒ rivelò infine Antares. ‒ che anche lui sia dei loro…
‒ Loro… loro?
‒ Sì, insomma, la Faces.
‒ Non penso… ‒ mormorò la ragazza.
Il discorso cadde lì proprio come era sorto.
‒ Lo sai, qualche volta dimentico che hai quattordici anni, sai che una volta che sarai ufficialmente la mia allieva le migliori etichette faranno a botte per averti come modella? ‒ cambiò argomento il Campione.
‒ Dici sul serio?
‒ Certo, te la senti di posare per qualche foto?
‒ Oh, ma è bellissimo!
‒ E poi con quegli occhioni lilla che ti ritrovi, sono sicuro che li farai impazzire tutti quanti.
‒ Mh, non eri tu quello che dicevi che quelli come me e te devono pensare a lottare prima che all’aspetto superficiale? ‒ fece lei birbante.
‒ Beh, nel tuo caso credo sia importante coltivare entrambi gli aspetti, no?
 
Il mattino era giunto anche a Idresia, per tutta la notte Kurao e Cassandra avevano parlato a Kalut delle strategie con cui l’organizzazione Faces si era accaparrata tutto quel potere e quell’influenza sul governo, stavano per passare all’elencazione di alcuni loro agenti. Sullo schermo del pc di Cassandra scorrevano foto identificative con accanto didascaliche e ordinate descrizioni dei soggetti.
‒ Quest’uomo è Jason Willow, lui si è occupato dello sviluppo del PokéNet, non sappiamo molto altro, vive in un appartamento nella periferia di Idresia, è una pedina, il suo lavoro l’ha svolto.
‒ Devo farlo fuori? ‒ domandò Kalut grattandosi il mento.
Kurao e Cassandra si guardarono un pochino straniti: ‒ Dio, Kalut, non ce n’è bisogno ‒ fece lei.
‒ Mh, credo sia il caso di chiarire fin dall’inizio dove arrivano i vostri scrupoli… ‒ mormorò il ragazzo.
‒ Beh ‒ altro sguardo tra i due Capipalestra. ‒ Non pensiamo che ci sia bisogno di misure tanto… drastiche.
‒ E allora io a che servo?
‒ Non hai detto che accetti tutti gli incarichi che ti assegniamo? ‒ ripropose Kurao.
‒ Certo, ma dopo le mie capacità sarebbero sprecate, no? Inoltre voglio divertirmi e non ho altro modo, ma se mi piace fare qualcosa vorrei continuare a farlo… ‒ rispose il ragazzo.
‒ E ti piace uccidere?
‒ Non ci ho mai provato, ma sento una vocina dentro di me che lo vorrebbe ‒ asserì inquietantissimo.
Kurao assottigliò le fessure che permettevano alle sue pupille di scrutare sul mondo.
‒ Beh ‒ sorrise sincero il ragazzo. ‒ penso che si tratti di uno stimolo appartenente a tutti, alla fine fa parte della natura umana.
‒ Mi sto rendendo conto ora di… ‒ cominciò Cassandra.
‒ Di? ‒ chiese Kurao.
‒ Uff, scusa Kalut, ci lasci parlare in privato per un attimo? Perdonaci, ma vorremmo confrontare le nostre opinioni, non abbiamo mai avuto tempo di farlo da quando ti abbiamo incontrato ‒ chiese lei.
‒ Capisco ‒ annuì il ragazzo.
Kalut lasciò la stanza chiudendosi la porta alle spalle. Passò un secondo in cui regnò il silenzio.
‒ Kurao, non ti fa un po’ paura la situazione? ‒ domandò Cassandra.
‒ Non lo so, non so se possiamo fidarci di lui, nonostante con Luna non sia mai accaduto nulla di strano…
“Strano” con Luna è l’ordine del giorno, intendi dire che non siamo mai stati in pericolo.
‒ Sì, insomma, a me sembra abbastanza spontaneo, non penso ci stia mentendo, tuttavia non vedo perché dovrebbe essere motivato a combattere dalla nostra parte…
‒ Tu che compito volevi assegnargli?
‒ La glaciazione di Sinnoh, la Faces dovrà fare… qualcosa là, magari installare delle strutture o roba del genere… Kalut è perfetto, resistente, forte, non penso che poi si metterebbe in pericolo in una situazione simile.
‒ L’hai pensato ora, no?
‒ Sì, esatto, per forza.
‒ Non la vedo tanto bene…
‒ Cassandra, io non ho idea di che cosa dovremmo fare ‒ Kurao abbassò gli occhi. ‒ Qui lo dico e qui lo nego, ma ora abbiamo un alleato davvero molto potente…
‒ E…?
‒ …e penso che dovremmo assegnargli il compito per cui l’avevamo pensato originariamente.
Cassandra, guardò Kurao preoccupata: ‒ Zero?
‒ Esatto, la Faces è nostra nemica, ma Zero è un alleato che intende agire nella maniera sbagliata… sai bene che dovremmo temere più lui che loro.
‒ Ti hanno parlato con precisione dei suoi piani?
‒ Abbastanza, so solo quello che ti ho detto l’altra volta.
‒ Quindi Zero attaccherebbe anche gente come Antares, no?
‒ Esattamente.
‒ Troppo pericoloso…
‒ Zero è dalla nostra parte, vuole sgominare quei bastardi, ma ha fatto l’errore di capire come funziona, di aver bisogno di distruggere le fondamenta su cui si regge il palazzo, e non avendo scrupoli potrebbe rappresentare una minaccia per chi ha solamente cercato di salvare la sua regione dalla distruzione economica, non possiamo rischiare.
‒ Dobbiamo tenerlo fermo.
‒ E credo proprio che Kalut sia il soggetto perfetto, alla fine non si tratta di competere ad armi pari, Zero è folle e instabile e Kalut è un dio, vogliamo scommettere?
Cassandra si morse l’interno della guancia cercando un verdetto altamente concentrata. Finché, quasi involontariamente, annuì.
Il ragazzo fu invitato a rientrare.
‒ Kalut, abbiamo deciso che compito vorremmo che tu svolgessi ‒ spiegò Kurao.
‒ Ah sì?
‒ Vuoi saperlo ora o prima finiamo di istruirti su chi stiamo veramente affrontando?
‒ Vada prima per la lezione di storia, prolungare un attesa aumenta la curiosità e la soddisfazione nel togliersela.
Kurao e Cassandra si guardarono ancora più stupefatti. Terminarono in fretta l’excursus sui vari soggetti che potevano rappresentare un elemento importante per Kalut, purtroppo per loro avevano veramente pochi dati a proposito dei membri della Faces, la maggio parte di loro teneva la propria identità celata con attenzione o mandava dei portanome al suo posto.
‒ Quindi, spiegatemi quale dovrebbe essere il mio compito… ‒ li esortò Kalut entusiasta di aver raggiunto quel momento.
‒ Ok, guardalo bene ‒ fece Cassandra aprendo sul suo pc aprendo una cartella che portava il nome di Zachary Edward Roland. Cliccò sul primo file.
Sotto gli occhi di Kalut comparve la foto di un tipo sui vent’anni, lo scatto era stato sicuramente fatto di sfuggita e senza il consenso del soggetto, visti qualità e formato. Nella foto, il ragazzo portava un paio di jeans stretti e neri e una felpa dello stesso colore, monocromatico; aveva dei capelli scurissimi che sembravano un groviglio di rovi sulla sua testa, tanto erano spettinati.
‒ Memorizza bene il suo volto, sono poche le persone che lo hanno visto ‒ mormorò enfatizzando Cassandra.
‒ Lui è Zero, o meglio, Zachary Edward Roland, campione della lega di Holon ‒ introdusse Kurao.
‒ E in che modo dovrei interagire con lui? ‒ domandò Kalut.
‒ Vedi, lui è dalla nostra parte, vuole vincere quelli della Faces, il fatto è che intende farlo uccidendo coloro che crede essere loro sostenitori. Con Zero chiunque non si opponga apertamente alla Faces, anche il nostro stesso Antares, rischia la vita solamente perché dovendo sottostare al loro scacco sono obbligati a fare ciò che ordinano.
‒ Come mai avete queste informazioni? ‒ chiese il bianco.
‒ Informazioni trapelate dal consiglio dei Superquattro, io sono Capopalestra ad Holon ‒ spiegò Kurao.
‒ Adesso è inoffensivo?
‒ Per ora, per motivi a noi sconosciuti ‒ rivelò Cassandra.
‒ Che cosa dovrei fare io?
‒ Vincerlo.
‒ Diventare campione di Holon?
‒ Sì.
‒ Per toglierlo dalla sua posizione di potere.
‒ Esatto, Holon è una regione invalicabile, sono pochi quelli che sono stati capaci di raggiungere il secondo Superquattro, inoltre è una regione molto potente e dall’economia radicata, neanche la Faces è riuscita ad introdurvisi. Se togliessi a Zero il controllo, avremmo un problema in meno a cui pensare ma soprattutto un forte alleato come te a capo dei Superquattro e dei Capipalestra più potenti del mondo ‒ concluse Cassandra.
‒ Nessun altro può farlo, Zero è incredibilmente forte e pensiamo che solo tu possa competere davvero con lui ‒ aggiunse Kurao.
‒ Va bene.
‒ Ci stai?
‒ Penso proprio di sì, ma voglio introdurre una condizione.
‒ Illuminaci.
Kalut sorrise.
‒ Voglio la completa libertà di azione, mi prenderò la briga di tenere buono Zero, a condizione che mi diate il permesso di giocare a modo mio.
Kurao e Cassandra cercarono uno l’intesa dell’altro. Ricerca che fu vana.
‒ Rifletteteci, non ho intenzione di fallire, ho solamente bisogno di lavorare per conto mio ‒ semplificò il ragazzo vista la titubanza dei suoi interlocutori.
Riflessione breve e silenzioso accordo tra i due.
‒ Va bene ‒ risposero praticamente in coro.
Per Kurao e Cassandra era un salto nel vuoto e tutti e due ne erano coscienti, ma insieme, come telepaticamente, avevano deciso di fidarsi ciecamente delle capacità di Kalut.
‒ Perfetto ‒ sorrise il ragazzo.
 
Xavier sorseggiava lentamente un cattivissimo cappuccino fatto dalla barista del Centro Pokémon. Erano impressionati quei posti, inizialmente nati come centri di cura, poi ampliatisi fino a contenere piccoli market, bar, a volte ristorantini e persino centri di comunicazione, scambio e trasferimento globale. E Xavier rimaneva stupito di come potessero ancora fare un cappuccino pessimo.
Il ragazzo si era svegliato da poco e una doccia aveva aiutato il suo corpo a riprendere coscienza del mondo. Stava parecchio male, ma non se ne rendeva ancora conto. In un momento gli tornò in mente la Faces, Cassandra, Julie e i due schiaffi da lei ricevuti.
Facevano ancora male.
Ebbe per un secondo l’idea di gettare quel cappuccino a terra e infrangerne la tazza in mille minuscoli frammenti, ma il suo cervello lo trattenne coscienzioso. Accese il suo PokéNet, cercando di distrarsi. Nella mappatura che aveva impostato come schermata iniziale comparivano come sempre i due puntini indicanti Willow e Celia sulla sommaria mappa di Sidera come unici utilizzatori di un terminale simile al suo. E a quel punto gli venne un’idea.
Ricordò dell’interrogatorio a cui aveva sottoposto Willow il giorno in cui l’aveva incontrato. Quell’uomo non aveva mostrato alcun punto debole, ma probabilmente proprio lui era l’artefice di tutto quell’intricato programma che starebbe portando avanti la Faces. D’altronde, Xavier supponeva che egli fosse davvero l’inventore del PokéNet. Doveva parlare con Jason Willow, tornare a Idresia immediatamente. Magari avrebbe potuto trarre fuori qualcosa di interessante da quella vicenda.
Pagò in fretta la barista, mise il portafogli nello zaino e si voltò intenzionato a lasciare quel posto per volare via sul suo Noivern in direzione di Idresia. Ma cambiò subito idea, qualcuno aveva giocato d’anticipo.
Davanti a lui c’era il professor Willow in persona, senza camice ma con una camicia a quadri non stirata e un paio di pantaloni quasi decenti. L’uomo lo fissava con un sorriso incomprensibile.
‒ Buongiorno, Xavier ‒ salutò.
‒ Professore, non mi aspettavo di… ‒ balbettò lui beccato in contropiede.
‒ Forse è il caso che io e te parliamo un po’ di lavoro, che ne dici?
‒ Noi… due?
‒ Esattamente.
Capì di aver perduto sua sorella, comprese che Celia non andava neanche nominata in quella discussione, non era il momento né tantomeno ce n’era il bisogno. Willow guidò Xavier fuori da quel Centro e lo fece camminare accanto a lui, i due cominciarono a percorrere le aree di sole nelle vie di Sagittania.
‒ Vedi, ragazzo, io e te non ci siamo mai conosciuti a fondo… ‒ esordì Willow. ‒ e anche se so un bel po’ di cose su di te, non ho mai avuto l’occasione di parlarti da pari a pari.
Xavier annuì.
‒ Quale sarebbe il tuo obbiettivo nella vita? Cosa aspireresti a diventare?
‒ Veramente non ci ho mai pensato davvero…
‒ Vorresti comunque sfondare nel mondo dell’allenamento dei Pokémon? ‒ fu più diretto lui. ‒ Una palestra tutta tua, magari una Lega, Pokémon forti e la possibilità di competere continuamente ‒ fece misticamente il prof.
‒ Non so, sarebbe sicuramente un’idea da valutare ‒ giocò di ponderazione Xavier intuendo il suo gioco fatto da immagini e promesse.
‒ Beh, non è di questo che voglio parlarti ‒ lo sorprese.
‒ Scusi?
‒ Sai, probabilmente tu avrai pensato che ora io stia cercando di allettarti con qualche proposta… ‒ l’uomo scosse la testa. ‒ No, io ho intenzione di chiarire tutti i tuoi dubbi.
‒ Riguardo a?
Willlow sorrise: ‒ Cassandra, la Faces, il PokéNet… tutto ti è stato proposto come il nemico assoluto.
Xavier si fece più serio, capì di dover mantenere i ranghi.
‒ Ecco, diciamo che il dispositivo che hai al polso permette non soltanto di osservare, ma anche di percepire molto bene cosa sta succedendo attorno a te, sappiamo che alcune persone non vorrebbero vederti neanche parlare col professore… ‒ il suo tono si scurì. ‒ …ma stai sicuro che tutte queste persone non vogliono quello che è il vero bene per gli Allenatori e per le generazioni future.

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Capitolo 36
*** Capitolo 35 - Disperazione ***


Capitolo 35 – Disperazione

 

Xavier e il professor Willow continuavano a camminare allo stesso passo, il primo con le mani in tasca e lo sguardo basso e concentrato, il secondo più rilassato con le mani unite dietro la schiena.
‒ In che senso, professore? ‒ chiese Xavier.
‒ Nel senso che, per gli oppositori della Faces, la condizione ideale è soltanto quella immutata attuale ‒ spiegò. ‒ Vedi, avrai di sicuro seguito le spiacevoli vicende degli ultimi anni…
Xavier guardò il prof come per incitarlo a continuare.
‒ Kanto, Team Rocket, una serie di loschi figuri che cercano di creare una delle più potenti armi biologiche di sempre: Mewtwo; Hoenn, Max e Ivan, due pazzi con in mano il potere di Groudon e Kyogre rischiano di distruggere l’ecosistema terrestre; Sinnoh, Cyrus con il Team Galassia tenta di…
‒ Basta ‒ lo interruppe Xavier.
‒ Vedi, ragazzo, basta poco e subito tutti gli uomini sono pronti per andare contro i propri simili, spinti da avidità, vendetta o ideali che mutilano la libertà delle altre persone. Tutto questo per la nostra troppa fiducia nelle persone ‒ fece con voce lontana Willow.
‒ Vada avanti ‒ resse il gioco Xavier.
‒ Ciò che l’essere umano crea naturalmente con i Pokémon, quel legame di fiducia e sostegno reciproco, è sicuramente eccezionale, ma ciò non vuol dire che non vada preservato e regolato. Ci sono persone che, sfruttando la stessa libertà di voi onesti Allenatori, raccolgono potere, forza, seguaci… queste persone sono delle minacce per la popolazione e la Faces intende impedire a criminali del genere di fare ancora del male ‒ spiegò l’uomo.
‒ In che modo esattamente? ‒ domandò il castano.
‒ Creando una rete di informazioni, rendendo tutti partecipi in tempo reale di ciò che sta accadendo a chi come loro sta allenando, lottando o viaggiando con i propri Pokémon, tutto è nato come un progetto di monitoraggio, ma ci siamo resi conto che sarebbe stato come sorvegliare le persone e spiarle di nascosto, per questo motivo si è pensato di rendere la nostra tecnologia fruibile da tutti, in modo che…
‒ Professore, la Faces manovra le Leghe privandole delle entrate monetarie e costringendola ad affidarsi alla sua politica ‒ sopraggiunse troncando il discorso Xavier.
Silenzio. Il ragazzo sapeva già che il progetto PokéNet rispettava i suoi gusti personali, ma il suo pensiero subito era tornato al metodo con cui l’organizzazione stava agendo.
‒ Vedi, qui vorrei veder emergere la tua maturità, ragazzo ‒ fece Willow. ‒ Capita a volte che sia abbia bisogno di qualcuno che sia in grado di guidare le persone e di indirizzarle verso la via migliore per loro… si può perdonare un azione fatta all’oscuro di tutti se è compiuta per il bene comune.
‒ E quale sarebbe questo bene? – Xavier interruppe per la terza volta Willlow.
‒ Una società migliore, una nazione in cui le persone non siano sotto il continuo pericolo di qualche pazzo idealista, un mondo sicuro e protetto dalla follia ‒ enunciò il prof.
‒ Io… ‒ mormorò Xavier.
Aveva abbassato la guardia, aveva mostrato il fianco. Si era lasciato persuadere da Willow e in poco tempo, quello che subito era stato a lui introdotto come nemico lo aveva quasi convinto a sostenere i suoi ideali.
‒ Professore, può ora dirmi perché è venuto a parlare con me? ‒ chiese più docile il ragazzo.
‒ Perché penso che un Allenatore come te possa darci una mano… vedi, più che oggettivamente la bandiera della giustizia è portata dalla Faces, ora. E tu sei un ragazzo ragionevole, penso che un lavoro non ti dispiacerebbe, no? ‒ domandò a conclusione del discorso il professor Willow.
 
‒ Ci siamo quasi… ‒ mormorò Antares scrutando l’ambiente attorno all’autostrada che stavano percorrendo.
Il BMW passò il casello, si introdusse in una strada provinciale più tortuosa ma anche più morbida e giunse dopo poche curve al paesino di Delfisia. La ragazza dai capelli biondi guidò il Campione suo mentore fino alla casa di Marcos. Celia scese dall’auto, il viaggio non era stato particolarmente lungo ma aspramente anestetizzante. Sgranchirsi le gambe per lei fu come vedere il paradiso in terra.
‒ Marcos! Sono a casa! ‒ esclamò Celia bussando con ben poca delicatezza all’uscio.
Sentirsi in terra propria dopo un viaggio tanto tortuoso quanto strano le faceva un effetto particolare, la destabilizzava.
‒ Marcos! ‒ perse quasi subito l’energia con cui chiamava il suo nome.
‒ Celia, che succede? ‒ chiese Antares intervenendo.
‒ Non lo so… io…
‒ Non hai detto che solitamente si trova a casa a quest’ora?
‒ Sì, lui… aspetta!
La ragazza percorse a ritroso il vialetto di casa sua facendo il giro della staccionata e giungendo alla porta di casa dei vicini. La signora Gray, cordiale pensionata e crudele avversaria a carte di Marcos, aprì il portone con indosso un grembiule tutto infarinato e i capelli ridotti ad un’esplosione di ciocche grigiastre.
‒ Oh Celia, sei tu ‒ esclamò quella con fare affatto naturale. ‒ Cerchiamo di contattarti da ieri sera, ma non ci siamo riusciti.
‒ Come scusi? ‒ chiese lei.
‒ Oh, il caro Marcos, è all’ospedale, ieri ha avuto un altro attacco mentre annaffiava le piante, per fortuna lo ho visto dalla finestre ed ho chiamato i soccorsi… cara, mi dispiace, sto preparando dei biscotti per quando si rimetterà in sesto ‒ sorrise la donna cercando uno spiraglio di serenità.
‒ Grazie, signora Gray ‒ Celia indietreggiò.
‒ Celia, andiamo immediatamente ‒ si intromise Antares.
I due, sotto gli occhi preoccupati della signora Gray, tornarono nell’auto.
‒ L’ospedale dovrebbe trovarsi di qua ‒ guidò Celia improvvisandosi cicerone.
‒ Marcos è malato, ma non pensavo fosse tanto grave… ‒ commentò Antares.
‒ Neanch’io lo pensavo, a dire il vero ‒ ribatté la ragazza stringendo i denti.
‒ Non ha mai avuto problemi respiratori simili, prima?
‒ A volte, ma quando si metteva sotto sforzo… tuttavia non c’è mai stato bisogno del pronto soccorso ‒ rispose lei.
Tra i due aleggiò un sottile pulviscolo di sospetto.
‒ Andrà tutto bene, Celia ‒ cercò di essere positivo Antares.
Dopo pochissimi minuti erano all’ospedale, la ragazza scese velocemente e chiese all’addetta all’ingresso dove fosse il paziente Marcos Levine. L’infermiera digitò il nome su un computer e immediatamente poté dare una risposta ansiogena ad una già ansiosa ragazza.
‒ Si trova in sala due, sotto intervento ‒ disse glaciale la donna.
Celia si sentì mancare. Non riusciva a credere di essere stata così precisa nel tornare per assistere ad una scena simile e soprattutto non riusciva a pensare ad altro che a Xavier. Quando e come sarebbe venuto a sapere di tutto quello? Come avrebbe reagito?
Sotto consiglio di Antares, trasse un lungo sospiro, si sedette su uno degli scomodissimi divanetti della hall e decise di aspettare fino a quando la situazione non sarebbe mutata spontaneamente.
‒ È il caso che avvisi Xavier? ‒ suggerì il Campione.
‒ Sì, sarebbe il momento… ‒ mormorò lei.
Temporeggiò. Prese il diario dalla sua borsa e vi incise letteralmente sopra qualche riga di sfogo che Avril non prese benissimo, smise quando la mina della matita con cui stava scavando la carta si spezzò a causa della pressione che le stava applicando sopra.
‒ Calmati, così non risolverai niente… ‒ cercò di chetarla il suo Maestro. ‒ Chiama Xavier.
Celia annuì silenziosamente, si alzò in piedi senza dire una parola e scomparve dietro la porta del bagno della sala d’attesa. Antares la attese pazientemente.
 
Non ti diremo nulla, sei libero di fare ciò che vuoi. Ma ricordati di essere ragionevole e di utilizzare quella testa geniale che hai al meglio, per favore… ‒ mormorò Cassandra a bassa voce.
L’aeroporto di Idresia era uno dei luoghi più caotici della regione. Sidera era relativamente piccola, sia la sua popolazione che la sua estensione erano pari ad un quinto di quelle della regione di Kanto, per questo non in tutti gli angoli del suo territorio vi erano strutture di servizio come stazioni o, appunto, aeroporti; ragion per cui tutti coloro che volevano intraprendere un viaggio particolarmente esteso confluivano nella capitale per salire su uno di quei mezzi di metallo volante che assicuravano uno spostamento non troppo comodo ma sicuramente rapido.
Kurao, Cassandra e Kalut erano ordinatamente seduti sulle seggioline di plastica, tutti e tre aspettavano che il tipo che con cadenza regolare nominava i voli prossimi alla partenza convocasse i passeggeri del volo 577 in direzione Holon, più precisamente, Vivalet, capitale regionale. La Capopalestra di Idresia era in tenuta classica, vestiti leggeri e comodi, era comunque settembre. Kurao si trovava invece in tenuta più altolocata, camicia e pantaloni da assessore e una coppola di velluto nero in testa. Kalut era stato rifornito non solo di un nuovo cambio, che lo vedeva indossare una camicia a maniche corte color carta da zucchero e dei pantaloni di cotone dello stesso colore, ma anche un mezzo guardaroba nuovo. Teneva tutto all’interno della valigia da stiva che i due Capipalestra gli avevano molto gentilmente regalato.
Kurao e Kalut avrebbero preso l’aereo, Cassandra sarebbe rimasta nella sua patria. Holon aspettava il ritorno del suo Capopalestra, ma era ancora ignara, come tutto il resto del mondo, dell’impellente arrivo di un personaggio come Kalut.
‒ Tu, da questo momento in poi, ti chiami Zachary Edward Roland, esattamente come Zero, è un’identità che ti servirà soltanto come copertura per situazioni come questa in cui devi mostrare la tua identità. Ovviamente è tutto falso, ma puoi startene sicuro, nessuno se ne accorgerà, anche perché in pochi conoscono la vera identità del Campione di Holon ‒ spiegò Kurao.
‒ Va bene.
‒ Passaporto, carta d’imbarco, tutto in regola, devi soltanto fare quello che ti dicono e non dare nell’occhio, una volta saliti sull’aereo io e te non ci conosceremo più. Qualcuno potrebbe riconoscermi e non è consigliabile che vedano anche te ‒ proseguì il Capopalestra.
‒ Ci sono.
‒ E… ultima cosa… non ti forniamo nessun Pokémon al di fuori di quelli che hai già, sappiamo che non ne hai bisogno, ma ti consiglio di procurarti immediatamente una squadra che ti protegga, nella valigia hai tutti gli strumenti che porta con sé un Allenatore, cerca di fingerti tale… ‒ concluse l’uomo.
‒ Ok.
“I passeggeri del volo 577 diretto a Vivalet in partenza per le 12:30 sono pregati di recarsi al gate B1” mormorò una voce dalle trasmissioni interne della struttura. Kurao e Kalut si alzarono in piedi, si scambiarono un cenno e si separarono. Kurao fece un cenno a Cassandra per salutarla senza dare troppo nell’occhio, Kalut le sorrise. La castana sussurrò senza voce ma con le labbra un buona fortuna ad entrambi, quindi abbassò la testa e prese il suo cellulare. Apri la chat diretta ad una sua vecchia amica, una ragazza di nome Aurora.
Scrisse due messaggi: “Sono partiti” quindi “Ho deciso che dobbiamo fidarci di Kalut”.
“Fino a ieri non eri così sicura, signorina” rispose Aurora.
Cassandra non sapeva se leggere tale messaggio in tono serio o ironico.
“Ora lo sono, perciò cerca di esserlo anche tu…” proseguì lei.
“Agli ordini, generale!” fu la risposta.
“Speriamo vada tutto bene” proseguì.
“Se ci credi sei a metà dell’opera” fece l’altra.
“Vorrei fosse così semplice…” e chiuse la conversazione.

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Capitolo 37
*** Capitolo 36 - Comprensione ***


Capitolo 36 – Comprensione

 

‒ Fatto… ‒ mormorò una glaciale Celia con gli occhi scavati nel viso e lo sguardo perso nel nulla. ‒ Ho avvisato Xavier. ‒ proseguì.
‒ È incredibile ‒ borbottò poco avvezzo a certi avvenimenti Antares.
E tutto passò nel giro di uno o due secondi: fu l’avvento di un chirurgo con ancora indosso la cuffia e la mascherina da sala operatoria che chiamò qualcuno con il cognome di Marcos nella hall a rivoltare quella giornata già abbastanza disastrata. Antares cercò di non intromettersi e di mantenere una posizione neutra, Celia sentì invece le parole del medico senza però ascoltarle o decifrarle. Le giunse qualcosa a proposito di una certa “Pneumopatia… qualcosa… cronica… qualcos’altro” e basta. Finché il discorso non troppo chiaro divenne tale per forza di cose.
‒ Ci dispiace, Marcos non ce l’ha fatta…
E Celia, in quel momento, riuscì a pensare ad una cosa soltanto: “Ora chi lo dice a Xavier?” E si fece schifo per questo. Non aveva realmente reso il ragazzo conscio della situazione, aveva finto, si sentiva immotivatamente in colpa per quello che stava succedendo e non ci era riuscita.
Le ore seguenti passarono in poco tempo, lei dovette firmare qualche carta, le chiesero se volesse rivedere Marcos, le chiesero se avesse bisogno di mangiare o bere qualcosa e da quanto tempo non toccasse un letto. La ragazza si ritrovò qualche decina di minuti dopo sola nel corridoio dell’ospedale con la compagnia dell’odore sintetico e della marginale presenza di Antares. Il Campione si sentiva estremamente a disagio in quella situazione, non sapeva come né tantomeno se reagire.
‒ Celia… ‒ mormorò ad un certo punto decidendo di introdursi nel contesto in maniera diagonale.
Quella non diede segni di vita.
‒ Sai che ora, poiché tu hai già firmato le carte per l’assunzione come Allieva, sei legalmente affidata a me?
Non fu delicatissimo, le pupille vuote di lei continuarono ad essere vuote, ma il suo pallore perse un altro grado nella scala dei colori. Si rese conto di essere un ottimo Allenatore, ma un essere umano decisamente mediocre.
‒ Antares, Xavier non sa ancora niente… ‒ sussurrò Celia rivelando al Campione che non aveva fatto ciò che avrebbe dovuto, ma sperando in cuor suo di non essere stata udita.
‒ Cosa? ‒ fece lui sorpreso.
‒ Non l’ho chiamato… ‒ rivelò.
‒ Celia ‒ mormorò lui. ‒ Dovresti farlo immediatamente ‒ asserì.
‒ No… ‒ provò a contestare.
‒ Come no? Celia, è suo padre.
‒ Io… non ci riesco…
La ragazza corse via, fuggì da quel reticolo di corridoi e corsie, uscì dall’ospedale e si ritrovò nel parcheggio mezzo vuoto di quest’ultimo con il fiatone e la mano che aveva ridotto la borsa ad una poltiglia stringendola con le dita.
Karma, il suo Skarmory, fu tirato fuori dalla sfera. La prese in spalla, sbatté le ali e prima che Antares potesse raggiungerla lei era già tra le nuvole. Il Campione però fu lesto. Pochi battiti delle ali squamose del suo Charizard e già la aveva raggiunta, fermare Karma fu facile, trarla fuori dalle sue grinfie un po’ meno. Fortunatamente, quella che sarebbe potuta essere una fuga nervosa che avrebbe portato solo problemi nella situazione, era stata sventata. Celia volava attaccata ad Antares più dalla paura di non cadere che da altro, il suo Pokémon Armuccello seguiva Charizard cercando di reggere il passo.
La discesa fu morbida, atterrarono in mezzo al Bosco Lira, in una radura priva di alberi, come un piccolo cerchio di luce in un cono di oscurità. Karma si mise a limare le sue penne in giro, Charizard sparì nella Ball del Campione. Antares fissò Celia, sconvolta e parzialmente distrutta. Non sembrava riconoscerla, non riusciva ad identificarla. La fece sedere a terra e lo fece anche lui.
Per un attimo, ci fu il silenzio.
Poi la ragazza scoppiò a piangere all’improvviso, proprio sulla spalla di Antares.
 
L’aereo era un mezzo di trasporto estremamente silenzioso. Kalut ne era sorpreso. D’altronde di sicuro il dispendio di energia dei suoi motori era enorme e, come si sa, più è forte un motore, più è forte il casino. Generalmente, almeno.
Il ragazzo rifletteva tra sé e sé, neanche poteva conversare con Xatu, i suoi Pokémon erano stati tutti messi nella stiva-porta-Ball e la telepatia non funzionava dopo una certa distanza. Tuttavia riuscì ad avvertire la presenza di numerosi altri esseri nell’aereo. Il ragazzo chiuse gli occhi: sotto di lui stava un Dragonair, poco più a destra un Accelgor vicino ad un Bronzong e ad un Gloom. Cominciava a distinguerne le forme, i versi e i movimenti, addirittura gli pareva di poterne sentire l’odore. Poi, un piccolo ostacolo sbloccò la sua mente, avvertì una sensazione nuova, sentiva di poter comunicare con loro, di parlare con i Pokémon.
Ovviamente, nessuno di loro rispondeva ai suoi ordini, tutti si trovavano nel sonno artificiale dato dalle Poké Ball, per tale motivo gli stimoli esterni non sembravano toccarli. Eppure, si rese conto che alcuni di loro, quelli più attivi e vivaci, si muovevano appena quando udivano la voce di Kalut. Cercavano di svegliarsi, ricevevano impulsi e li elaboravano anche se non potevano reagire veramente. Si divertì a riconoscere i Pokémon che aveva attorno per tutto il viaggio, qualche volta andò pure in bagno per allungare il raggio della sua ispezione. A fine volo, ne aveva conosciuti parecchi, sapeva cosa gli piaceva e come si comportavano, conosceva la loro natura e le loro capacità.
Le ore erano rapidamente passate, il ragazzo si divertì parecchio quando l’aereo atterrò, quindi imitò gli altri passeggeri e si unì al sonoro applauso collettivo. Pochi minuti e prese la via d’uscita, salutò le hostess e i piloti e mise per la prima volta il piede sul suolo di Holon. Era in aeroporto, edificio da cui uscì non senza una dozzina di problemi dopo aver con fatica ripreso la valigia che aveva messo in stiva sottraendola al nastro trasportatore dei bagagli. Cercò con lo sguardo Kurao, lo trovò tra un gruppetto di uomini colmi di valige e bagagli ma non lo salutò, anche lui lo vide e fece finta di non conoscerlo. Quelli erano gli accordi.
Si ritrovò finalmente in un ambiente nuovo: odori nuovi, suoni nuovi, persone nuove. Sentiva attorno a sé migliaia di presenze, Pokémon in mano alle persone che lo circondavano. Camminò fuori dalla ressa dell’aeroporto, fuggì dalle pericolose strade del parcheggio, riuscì a raggiungere un luogo isolato: un giardinetto mezzo diroccato da cui si potevano ancora udire i rumori emessi dagli aerei in partenza o in atterraggio. In loco tirò fuori la Ball del suo Arcanine, che per abitudine aveva iniziato anche lui a chiamare Gilroy, il Pokémon Leggenda venne fuori scodinzolando per il suo padrone. Xatu invece dormiva ancora silenzioso assieme a Scolipede. Il ragazzo dai capelli bianchi salì in groppa a Gilroy caricandosi in spalla la sua valigia grazie alle bretelle estraibili di quest’ultima. Neanche diede l’ordine, l’Arcanine partì di gran carriera diretto verso il luogo che il suo Allenatore gli aveva indicato senza formulare una sola parola.
 
‒ Ricorda, ragazzo, solamente i membri della Faces possono accedere a queste aree, noi dovrai rivelare a nessuno ciò che vedi o senti qui dentro… ‒ si raccomandò il professor Willow.
L’uomo con gli occhiali aveva condotto il castano nel commissariato della Guardia Statale di Sagittania, un palazzo dal colore triste spostato in disparte rispetto al centro della città, privo di finestre mancanti di sicure inferriate. Il professore poté accedere mostrando una tessera che teneva sigillata nel portafoglio al sicuro da mani indiscrete, quindi spiegò agli addetti alla sicurezza l’identità di Xavier. Due uomini in divisa grigiastra lo circondarono, lo compresero tra le loro spalle e lo scortarono all’interno. Dentro, l’edificio era un normale commissariato di quelli che spesso il ragazzo vedeva nei film: scrivanie, gente seduta davanti ai propri pc circondata da scartoffie e fotocopie, ventilatori impostati sulla massima potenza, luci fredde ma intense, movimento collettivo frenetico e disordinato. Tutti guardavano Xavier. Xavier guardava tutti.
Il ragazzo non si sentiva a disagio, ma si rese conto di una cosa, nella tensione generale che si palpava e che lui aveva incanalato nelle sue vene riuscì a notare una stranezza: le uniche guardie presenti in quel luogo erano quelle due che lo stavano scortando e un altro paio che si innalzavano statuarie vicino alle varie porte, tutti i tipi seduti impegnati a lavorare avevano un fisico inadatto alla mansione di protettore della comune serenità e vestivano per lo più in maniera semplice e quotidiana come Willow, nessuno di loro portava una divisa. La cosa lo inquietò.
Ebbe un tempo relativamente breve per fare le sue considerazioni, il professore che guidava le due guardie che si occupavano di Xavier andava a passo svelto. Xavier fu portato in un ufficio che se ne stava isolato in un cantuccio dell’edificio, una stanza che da fuori poteva anche essere scambiata per il bagno, ma dentro era invece molto differente.
Una delle guardie rimase fuori, l’altra entrò assieme a Xavier e Willow e chiuse la porta alle proprie spalle. Il buio avvolse i tre, quell’ufficio non aveva finestre e non era illuminato da alcuna lampadina. Le pareti erano pure insonorizzate, notò Xavier, poiché oltre alla luce anche i suoni provenienti dal rumoroso ambiente esterno scomparvero.
Silenzio e buio, per alcuni istanti. Quindi fioche lampade di neon blu posizionate tatticamente sul terreno cominciarono a brillare. Più o meno agli occhi di Xavier si delineò una stanza più ampia di quanto pensasse: un grosso ufficio con due scrivanie, una della quali sovrastata da un numero superiore alla mezza dozzina di schermi e un grosso monitor attaccato al muro laterale comparvero davanti a lui. All’angolo della stanza c’era un immancabile macchinetta da caffè, sulla parete di fondo invece una larga proiezione del territorio nazionale. Tutti i monitor presenti nella stanza di accesero lentamente. Solo a quel punto, con quel poco di luce aggiunta, Xavier comprese come mai tutto si fosse impostato su on non appena loro erano entrati: Willow aveva posizionato la sua tessera Faces davanti ad un sensore magnetizzato che stava proprio accanto alla porta, tale gesto aveva dato il via a tutto.
Il prof si sedette alla scrivania, afferrò un mouse, cliccò su un paio di icone e aprì due o tre finestre, quindi si aprì un mondo sul maxi monitor laterale. Letteralmente. Una mappa satellitare ad altissima definizione vi comparve sopra. Willow mise in evidenza una singola area della mappa, l’area di Delfisia. Xavier si stupì. Immediatamente comparve in rilievo un percorso evidenziato sulla mappa costituito da diversi punti presi a pochissima distanza l’uno dall’altro.
‒ Questi ‒ esordì Willow. ‒ sono i movimenti compiuti nell’ultima ora da Celia.
Xavier spalancò gli occhi.
‒ Che cosa? ‒ chiese.
‒ Sì ‒ confermò orgoglioso Willow. ‒ i vostri PokéNet mappano la vostra posizione una volta ogni minuto, l’errore è minimo, ma questa funzione è presente solo nei vostri prototipi, è facoltativa per gli studi di sviluppo.
‒ E che diavolo ci fa Celia dall’altra parte della regione? Non doveva raggiungermi qui?
Willow si allentò per qualche secondo. Avrebbe voluto proseguire con la sua spiegazione illuminata, ma pensò che stare al gioco di Xavier lo avrebbe messo più a suo agio.
‒ Controlliamo subito… ‒ mormorò il prof.
E zoomando entrò più nei dettagli, le strade percorse dalla ragazza nella città di Delfisia partivano da una via di accesso della circonvallazione e continuavano a gran velocità verso il quartiere in cui si trovava casa loro.
‒ Evidentemente era in auto ‒ spiegò Willow.
Quindi i suoi movimenti si fermavano per un breve lasso di tempo davanti alla villetta di Marcos.
‒ Quella è casa nostra… ‒ mormorò Xavier.
I passi di Celia continuarono fino a raggiungere, di nuovo in auto, l’ospedale generale di Delfisia, luogo in cui si era poi fermata per parecchio tempo.
‒ In ospedale? ‒ fece Xavier. ‒ Che diavolo è successo?!
Willow non aspettò neanche la domanda di Xavier, si collegò ad un network interno della Faces e si introdusse nel sistema di telecamere di sorveglianza dell’ospedale. Essendo quest’ultimo quasi vuoto, trovò pressoché subito una ripresa in cui si vedeva la ragazzina.
Xavier si stupì di nuovo, Celia era in compagnia di un uomo alto dai capelli lunghi e disordinati, un soggetto che non aveva mai visto ma che sicuramente non aveva la stessa età di sua sorella. Non riusciva a decifrarne il volto, data la scarsa qualità delle immagini delle telecamere.
‒ Chi diavolo è quello? ‒ si chiese il castano.
‒ Xavier ‒ lo chiamò quindi Willow. ‒ penso che tu abbia altro di cui preoccuparti… ‒ mormorò poi con voce sensibilmente atterrita.
Il ragazzo si posizionò al fianco del professore, il quale lo invitava a guardare i file che aveva aperto su uno dei monitor che aveva a disposizione per la sua postazione. Il castano impiegò qualche istante per comprendere di che cosa si trattasse, finalmente lesse “Cartelle cliniche del giorno 06/09” in cima sulla barra della finestra.
‒ È di oggi… ‒ mormorò.
Willow lo lasciò leggere, comprese che era arrivato alla cartella che voleva mostrargli dal singhiozzo irregolare che interruppe la sua respirazione.
“Marcos Levine, maschio, anni 63, broncopneumopatia cronica ostruttiva, stato attuale: deceduto alle 11:37”

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Capitolo 38
*** Epilogo - Nostalgia ***


Epilogo – Nostalgia
 
Kalut scese da Arcanine, il Pokémon Leggenda tornò docile nella sua Ball. Vivalet era una città grande, almeno così gli era stata descritta, eppure non si sarebbe mai aspettato di vederla tanto movimentata. Il ragazzo sostava immobile in mezzo ad una via dell’isola pedonale trafficata e calpestata da alcune migliaia di piedi di umani e di zampe di Pokémon. Udiva voci, schiamazzi, versi, ma non ne distingueva con chiarezza nessuno. E la cosa lo infastidiva. Molto.
Decise che prima di mimetizzarsi nella città avrebbe dovuto impegnarsi a comprenderla e a capire più o meno cosa essa offrisse o contenesse.
Camminò per alcuni minuti prima di fermarsi accanto ai tavolini esterni di un bar: una coppia di ragazze, loro erano il suo obbiettivo. Finse di iniziare ad allacciarsi le scarpe, intanto origliò la loro conversazione.
‒ Tra un anno, non ricordo in che periodo preciso, ma vogliono organizzarlo a Vivalet ‒ la sua voce era entusiasta.
‒ Proprio le Internazionali? Era da un po’ che non organizzavano un nuovo torneo… ‒ mormorò la seconda, prima sorpresa, quindi titubante.
‒ Lo sai, con tutti gli eventi degli ultimi anni, hanno saltato qualche occasione.
‒ Dimmi un po’, ci sarà anche Ruby? ‒ chiese poi una delle due con fare più malizioso.
‒ Solitamente, più per tradizione che per altro, tutti i Capipalestra dovrebbero partecipare alle Internazionali.
‒ Mhhh… non vedo l’ora di vederlo in azione, dicono che anche quando è in lotta riesca a far brillare i suoi Pokémon come in una gara ‒ proseguì quella persa del suo idolo.
‒ Sì, e sai qual è un’altra cosa interessante? Ci sarà anche Green di Smeraldopoli!
‒ Oddio, io adoro anche…
Conversazione terminata, scarpe allacciate, Kalut scollegò la sua attenzione. Cercò nella folla qualcuno che parlasse dello stesso argomento delle due ragazze, non trovò nessuno. Secondo obbiettivo, si accostò a due signori di età avanzata che sembravano conversare amabilmente durante un passeggio rilassante. Uno dei due aveva una barba che piacque molto a Kalut, bianca e morbida.
‒ È giovanissimo, ha qualcosa come vent’anni.
‒ E perché si fa chiamare Zero?
Kalut affinò l’udito.
‒ Dicono che sia un soprannome che ha fin da ragazzo, altri ipotizzano che serva solo a completare l’immagine misteriosa che dà di lui, altri pensano che intimorisca gli avversari.
‒ D’altronde abbiamo visto tutti il suo scontro con l’ex Campione, è fortissimo, il suo mestiere sa di sicuro farlo…
‒ Sì, e poi effettivamente è merito suo se abbiamo la Holon di oggi, alla fine è stato lui a creare la Lega per come l’abbiamo allo stato attuale.
‒ Hai ragione, ha rialzato parecchio il livello, prendi il Capopalestra Fosco ad esempio, lui a Hoenn faceva il Superquattro…
‒ Sì, infatti… ma poi alla fine come hai risolto con quel Sawsbuck?
Di nuovo, chiusa conversazione. Kalut cambiò strada.
Gli sembrava qualcosa, decise che avrebbe continuato con l’ascolto per tutto il resto della giornata, uno come lui si trovava a suo agio solo con quel metodo di informazione e dato che riusciva tanto bene, perché non utilizzarlo?
Terminò ore dopo. Il ragazzo si infilò nel primo vicoletto mezzo nascosto e invisibile che incontrò. Valigia in spalla, muscoli rilassati, fece un balzo. Si appese al cornicione della finestra del piano terra del palazzo, si dette lo slanciò con le braccia e le spalle: ancora più su. Proseguì giungendo in cima a quell’edificio di quattro piani senza problemi. Lasciò la valigia sul tetto, da quel momento gli era solo d’intralcio. Aveva già localizzato la sua metà da quando era a terra, non gli restava che scalare un altro po’. Si avvicinò alla torre del palazzo adiacente a quello su cui era salito. Salì su di essa senza grosse complicanze, giunse in cima e si appostò sul muretto a riprendere fiato. Dopo un minuto era già fresco come una rosa. Si alzò in piedi e si mise in bilico proprio sul bordo della torre. Davanti a sé aveva Vivalet, città gigante ma che riusciva a farsi apprezzare in certi momenti e in lontananza riusciva a scorgere il Monte Roccianera.
‒ Vedi quello, Xatu?
Il Pokémon Magico, fuoriuscito in totale autonomia dalla Ball che Kalut aveva lasciato in valigia, quindi una ventina di metri sotto, lo aveva raggiunto e gli era comparso alle spalle. Kalut lo aveva percepito, ovviamente.
“Kalut, come ti senti?” domandò Xatu.
­­‒ Non è un po’ presto? Non sono ancora caduto… ‒ ironizzò il ragazzo.
“Che cosa devo guardare?” domandò Xatu comprendendo che non era il momento di essere seri con il suo Allenatore.
‒ Su quel monte… ‒ si corresse. ‒ Su una vetta di quella catena montuosa che attraversa Holon in tutta la sua lunghezza c’è la sede principale della Lega, luogo in cui io sono diretto ora.
Il sole era già alto nel cielo, la brezza calda e soffice dell’estate di Holon che si accingeva a terminare. C’era silenzio in cima a quella torre su cui era salito il ragazzo. Solo un sottile brusio di fondo proveniente dalle strade sottostanti lo raggiungeva.
Kalut osservava in lontananza, mentre Xatu sorvegliava.
C’era silenzio. E senza accorgersene, era giunta la sera. Tra il pranzo, il viaggio, l’arrivo e lo spostamento, l’operazione di ascolto delle persone e infine la cena, tutto il tempo se n’era andato e anche quel sei settembre giungeva al termine. Si sentiva vivo e pronto a correre di nuovo.
Non sapeva perché lo stesse facendo, ma supponeva di volerlo fare per un qualche istinto primordiale all’azione che lo spingeva ad agire e non rimanere immobile. Irrequietezza dell’animo. Per un momento fece mente locale e verificò la cifra di passi che aveva mosso sul suolo urbano fin dalla sua nascita, più o meno era quella. Anzi, di sicuro, bel numero, tante cifre, avrebbe continuato a contare.
Kalut sorrise, sentiva le voci di quello che avrebbe vissuto, i rumori che avrebbe udito, i pianti che avrebbe ascoltato.
Eppure c’era silenzio. Ma lui non se ne rendeva conto.
 
Lo sguardo congelato di Celia, le sue pupille immobili stampate sulla carta dei suoi occhi, le sue lacrime asciutte lungo le guance e lungo tutto il collo. Era accucciata, seduta addosso ad un albero che fissava il vuoto davanti a sé e il bosco immobile nella sua brulicante vitalità.
Sidera sembrava spenta per lei. Il sole sembrava spento.
Ad un certo punto prese il suo fidato diario, compagno di mille momenti e di mille sfoghi e di mille problemi. Vi scrisse sopra solo quattro parole.
Fissò Antares. Lui ricambiò lo sguardo.
Tornò al diario, elencò gli avvenimenti della giornata nella più totale asetticità e infine scrisse le sue sensazioni riguardo ad essi. Aggiunse poche righe alla fine, che scrisse sull’ultima pagina del suo diario a forma di barretta di cioccolato morsicata, dove diceva quanto fosse il momento di reagire e fortificarsi. Tutte frasi fatte ovviamente, ma le stava riportando solo per darsi la carica.
Era stanca, voleva riposare e allo stesso tempo avrebbe voluto gettare giù il mondo per la rabbia che aveva dentro. Purtroppo, l’unico compromesso possibile era gettare quante più parole poteva sul foglio.
Pensava a Marcos, pensava ai suoi genitori allo stesso tempo che ricordava poco e male, ma che aveva sempre identificato come mamma e papà che sono morti in un incidente e mi hanno lasciato orfana.
Non se ne era mai curata particolarmente, era piccola, era ingenua, avrà pianto parecchie volte, ma non le era mai mancato l’affetto di una famiglia reale. Non con Marcos e Xavier accanto.
Inconsciamente stava parlando pure con Avril.
Quattro parole, soltanto quattro parole le aveva veramente dedicato, in mezzo a racconti schematici e frasi inutili:
“Avril, sono diventata grande”
E un semplice no venne fuori dalla sua coscienza. Una piccola negazione che doveva farle rivalutare la sua frase.
“No, Celia, un brutto avvenimento come la morte di uno o più parenti non ti fa diventare grande…” mormorò Avril sincera.
“Ah no?” domandò lei poco presente.
“No” rispose marmorea.
Celia versò un ultima lacrima.
“Un grande dolore non ti rende una persona matura, ma ti dà un ostacolo da superare per diventarla” concluse Avril.
Celia si risvegliò dal suo torpore. E per un momento la ragazzina tornò con la mente a tutto ciò che aveva fatto negli ultimi giorni. La sua vita che era mutata completamente e tutto ciò che stava attorno a lei che era cambiato e diventato tutt’altro. Catapultata in una realtà completamente diversa da quella a cui era abituata, poteva lasciarsi travolgere o no, poteva lasciare tutto o no.
Silenzio per un istante.
Guardò Antares, suo mentore, lei era sua allieva, guardò se stessa e quello che era, quindi guardò Avril e quello che sarebbe voluta essere. O che sarebbe potuta diventare.
Aveva trovato un modo per avere una rivincita con se stessa. Sapeva come gettare tutto quel marcio che aveva dentro in un serbatoio per renderlo un potente combustibile.
Tornò indietro, doveva superare un ostacolo per diventare una persona matura. Era pronta. O almeno si sentiva tale. E forse non erano due cose poi così diverse.
Girò pagina dietro pagina, finché non ricomparve davanti a lei la frase che aveva calcato a caratteri cubitali, quelle quattro parole che per lei valevano tanto ma che aveva capito non essere vere.
Rigo sopra, le riscrisse, modificando qualcosa:
“Avril, sto diventando grande”
 
“Non sono stelle…”
E Xavier rifletteva su quanto tutti avessero dato contro di lui. Si stava facendo schifo da solo, prima Cassandra, poi Julie e infine Celia stessa, sua sorella osava pure nascondergli la morte di papà.
Non ne poteva più, sentiva il sangue che pulsava sulle tempie e il formicolio dei suoi nervi sulla punta delle dita. Aveva dato, nulla gli era tornato indietro e qualcuno aveva osato anche prendersi di più.
‒ Accetto ‒ disse soltanto a Willow. ‒ Qualsiasi cosa vogliate farmi fare, accetto…
Era più una questione di principio. Era quasi solamente una questione di principio. Decise che sarebbe tornato a Delfisia, a casa sua, di nascosto e avrebbe preso la roba che gli serviva scomparendo dalla circolazione. Era la cosa più dignitosa, d’altronde.
“Non sono stelle…” intanto pensava. “Sono ammassi di detriti e ghiaccio, il pianto delle stelle è in realtà una buffonata…”
Sentiva il bisogno di agire, di sfogarsi contro qualcosa e di litigare con suo padre per essersene andato in maniera così grigia e triste durante la sua assenza. Non intendeva piangere, sapeva bene che il suo vecchio lo avrebbe preso in giro.
E allora, si chiese, neanche suo padre aveva pianto la separazione con sua moglie? Probabilmente sì, ma forse aveva desiderato in quel momento un figlio più forte di lui. Migliore di lui.
Suo padre, Marcos, non era mai stato una cima in nulla. Brava persona, bravo cuoco, ma non molto di più. Aveva sempre lavorato sodo, dall’alba al tramonto, per riportare a casa un pasto a quei due ragazzini che cresceva.
Eppure, non era mai stato un eroe moderno, di quelli che si ammazzano di fatica rinunciando alle ferie e alle vacanze senza farne sentire il peso a chi gli sta vicino. Lui lo rinfacciava spesso, quando era arrabbiato o nervoso, e a volte esagerava anche nelle sue reazioni. Comunque rimaneva una brava persona, gli aveva dato le sue libertà, non aveva mai cercato di cambiargli la vita, né nel male né nel bene, non aveva mai voluto strafare. Una persona semplice, con i suoi pregi e i suoi difetti.
E uno di questi difetti era, appunto, la sua labilità. Se n’era andato.
E Xavier senza accorgersene iniziò a piangere un po’ sommessamente, con dignità. Il suo subconscio aveva deciso che anche la morte di una persona normale andava pianta. Persona normale.
Quanto normale possa essere considerato un aggettivo utilizzabile nella lingua parlata a livello assoluto è veramente ignoto. Anche lui, tecnicamente, era una persona normale. D’altronde era una cosa tipica dei tre quarti delle persone, partire per un viaggio in cui affinare le proprie abilità di Allenatore. E si rese conto, Xavier, che in mezzo a quelle persone lui non era mai stato il più forte, il migliore o il più intelligente.
Lui era, come tutti sono, una persona normale.
Come suo padre, come sua sorella, come tutti quanti.
Nessuno è migliore degli altri veramente… nessuno emerge… alla fine sei sempre tu, tu in mezzo ad un mare di altri tu.
Eppure, in tutto quel marasma di pensieri, Xavier, non riusciva ancora a trovare il suo filo di ottimismo. Ma sapeva di essere sulla buona strada.
“Non sono stelle…”
 
 
Il Pianto Delle Stelle
Fine
 
Angolo dell’autore
Mi fa un certo effetto leggere quella parola che inizia con la F lì sopra.
E sì, so che sono un sentimentalista, ma poco ci fai, è così…
Alla fine abbiamo concluso, cioè, abbiamo concluso più o meno quello che possiamo dire il “prologo” della serie One Soul, ma siamo già a buon punto dai, ho iniziato con il pezzone pesante – IPDS – e spero di andare avanti in discesa, anche perché ho roba grossa in serbatoio.
Per il resto, sono contento, soddisfatto di tutto, di Courage, di questo, di quello che sta per arrivare e più o meno anche di me.
Ringrazio tutti coloro che hanno seguito fin dall’inizio o che seguiranno in un secondo tempo, mi commuove sempre sapere che qualcuno apprezza ciò che combino…
E avrei potuto utilizzare tutti i concetti che ho infilato in IPDS e infilerò in tutte le storie che seguiranno in delle serie originali… non legate ai Pokémon… magari avrei potuto pure venderle e non pubblicarle su internet… ma boh, alla fine non sarebbe stata la stessa cosa, non sarebbe stato come fare una Fan Fiction. Per vari motivi, per questioni di cuore e questioni di gusto. Ho scelto questo e lo porterò a termine.
Grazie ancora. Davvero. Soprattutto a te, bro.
 
Levyan aka Luca, per gli amici

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