Mind's shades

di Arlie_S
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Nuovo esperimento! Spero vi piaccia… e spero di essere in grado di trattare gli argomenti come si deve! Ormai ho preso l’abitudine a scrivere due righe in cima al capitolo, ma non voglio dilungarmi troppo, quindi vi lascio alla lettura e ci vediamo in fondo, dove troverete tutte le delucidazioni (spero) riguardo questo primo capitolo!

 

Capitolo 1

 

 

 

 

- Eric! Vieni immediatamente qui! – gridò una giovane donna dai capelli neri legati dietro la testa, indirizzando la voce verso il fondo dello spazio riservato ai bambini.

Un bambino di circa quattro anni si alzò dal fondo del grande stanzone facendo leva sulle mani e si diresse trotterellando verso la donna che l’aveva chiamato. La stanza era stata adibita per accogliere i figli del personale, bambini con parenti ricoverati e piccoli pazienti che necessitavano di un momento di svago.

Elizabeth guardò con impazienza il bambino, sperando che si velocizzasse: aveva passato l’ultimo quarto d’ora a sentire le lamentele dell’addetta ai bambini, e prima obbligava il figlio a chiederle scusa per quella benedetta pedata, prima avrebbe potuto prendere lui e il fratello e tornarsene a casa. Possibile che suo figlio non riuscisse a stare fermo e buono nemmeno per mezzo pomeriggio?

E fortuna che non c’erano state emergenze o mancanza di personale quel giorno, o né lei né tantomeno il marito avrebbero potuto correre a prendere i figli.

Il bambino era quasi arrivato al cancelletto in legno che divideva l’atrio asettico dall’area colorata e sicuramente più vivace in cui si trovava lui, quando rallentò l’andatura, si fermo, ed alzò gli occhioni grigi sulla madre e sulla responsabile dei bambini, la signora Lovelace.

Elizabeth lo squadrò dalla testa ricoperta di capelli nerissimi, fino alla punta delle scarpe da ginnastica, e storse la bocca. Le sembrava un po’ troppo.. in ordine.

- William, tesoro, non ci provare nemmeno. – gli disse rapidamente, facendolo fermare sul posto con aria spaesata.

Il bambino le lanciò un’occhiata perplessa guardandosi poi alle spalle, come se si aspettasse di vedere qualcun altro.

Eccellente: i suoi figli non andavano ancora ai Livelli Inferiori, e già pensavano a come raggirare lei e con ogni probabilità suo marito.

- Ma… - iniziò a protestare il piccolo, prendendosi le mani e guardandola come se si aspettasse che la madre correggesse il proprio errore.

- Vai a dire a tuo fratello che sono arrivata, d’accordo? – gli disse, lanciandogli uno sguardo che non ammetteva repliche, nonostante il tono fosse accomodante.

- Va bene… - acconsentì William, senza troppa convinzione, tornando rapidamente sui suoi passi e svoltando nella stanza laterale a quella principale.

Elizabeth si armò di pazienza: fino a quando entrambi non fossero stati lì, e lei non avesse avuto una buona scusa per liberarsi della signora Lovelace, avrebbe dovuto sopportare le lamentele di quest’ultima sul figlio; “e quanto è agitato, e perché non dorme il pomeriggio come gli altri bambini, e come mai non ascolta i rimproveri, e che si distrae in continuazione..”

Intanto, William era di ritorno. L’aria fin troppo soddisfatta per il compito che aveva svolto da solo.

Lo guardò le sopracciglia scure e ben delineate inarcate in un’espressione perplessa.

- Ho fatto mamma! – le comunicò lui con entusiasmo, la voce intrisa della soddisfazione di chi si aspetta di sentirsi dire quanto è stato bravo, mentre spostava il peso da una gamba all’altra.

Elizabeth lo guardò, stringendo leggermente le labbra, come se stesse cercando di far capire al figlio come stavano le cose senza sgonfiarlo come un palloncino.

- Hai fatto cosa, ehm… tesoro? – gli domandò titubante, mentre l’entusiasmo del bambino lasciava il suo viso per fare spazio all’espressione confusa di chi non capisce dove ha sbagliato.

William sbuffò gonfiando le guance paffute, come se dovesse rispiegare qualcosa di terribilmente ovvio a qualcuno di terribilmente lento a capire e non ne avesse la minima voglia.

- Ho detto a Eic che sei arrivata! – spiegò cantilenante.

- E… dov’è? – lo incalzò la donna, incerta. Nonostante fosse un’Erudita, non era per niente sicura di voler sapere la risposta a quella domanda.

Il bambino girò il busto e indicò con l’indice verso la stanza in cui era sparito poco prima, guardando le due donne quasi turbato dalla lentezza con cui stavano seguendo i suoi ragionamenti.

- Ha detto che lo sa, che sei arrivata! – specificò sorridendo, come se avesse finalmente capito, come mai le due donne non riuscissero a comprendere quello che stava cercando di spiegare.

Si scambiarono tutti e tre uno sguardo silenzioso, che rimbalzò da William alla madre, dalla madre alla signora Lovelace, e dalla signora Lovelace nuovamente al bambino.

Le possibilità, secondo Elizabeth, erano due: o i suoi figli erano due idioti, uno più dell’altro, oppure erano già due piccole menti diaboliche e geniali. In ogni caso potevano solo peggiorare, ed una risposta del genere era esattamente quello che si poteva definire una risposta preoccupante. Se già a quell’età facevano dei discorsi del genere, non osava nemmeno immaginare cosa le avrebbero riservato una volta cresciuti.

Elizabeth aprì il cancelletto in legno  si abbassò verso il bambino, si sedette sui talloni, e gli accarezzò un guancia.

- William, amore della mamma… - iniziò, guardandolo pazientemente e scostandogli dagli occhi grigi come l’acciaio i capelli corvini.

Venne interrotta dalla signora Lovelace che si schiarì la voce, preannunciando dei passetti rapidi e lievi, probabilmente attutiti dal tappeto, che si dirigevano verso di loro.

Alzando lo sguardò incrociò gli occhi grigi di Eric, che dopo aver osservato per un momento la madre, lanciò un’occhiata carica di ostilità alla signora Lovelace, ancora in piedi alle spalle della madre.

Elizabeth si tirò in piedi, si lisciò la gonna blu scura che indossava sotto il camice chiuso solo per un paio di bottoni agganciati sulla pancia, e si spostò dietro le orecchie un paio di ciuffi neri e lisci che erano sfuggiti all’acconciatura. Poi guardò intensamente il figlio.

- Eric, vuoi chiedere scusa alla signora Lovelace, per averle tirato un calcio? – gli domandò duramente, con un tono che faceva chiaramente intendere che più che una richiesta, fosse proprio un ordine. Mal sopportava Lilian Lovelace, e trovarsi in condizione di doversi scusare la rendeva notevolmente nervosa.

Il bambino non sembrava particolarmente impressionato dal tono alterato della madre, mentre sembrava riflettere sulla risposta da rifilarle, e osservava il fratellino sedersi per terra ed estrarre dalla tasca principale dello zaino, un libricino.

- No. – rispose dopo alcuni secondi, usando lo stesso tono con cui avrebbe potuto rispondere in caso la madre gli avesse chiesto se aveva fame.

Elizabeth alzò gli occhi al cielo. La prossima volta che Thomas, suo marito, avesse provato a dire che era lei ad essere poco accomodante e poco paziente con i bambini, l’avrebbe abbandonato con i piccoli mostri per almeno quarantotto ore.

- Eric, chiedi scusa alla signorina Lovelace per averle tirato un calcio. –riformulò, in tono più autoritario.

- No. –

Fece un respiro profondo, e si strinse tra due tira la sommità del naso, massaggiandosi il punto in cui ci sarebbero dovuti essere i segnetti degli occhiali. Chiuse gli occhi, come se fosse troppo stanca per tenerli aperti, e scosse leggermente le testa.

- Perché no? – chiese, in un sospiro a metà tra lo stanco e l’esasperato.

- Perché è brutta. – rispose il bambino, lanciando una strana occhiata alla donna accanto alla madre.

- Lasci stare, signora Turner. – intervenne la signora Lovelace guardando con accondiscendenza il bambino.

Eric, prendendo per terminata la discussione, raggiunse il cancellino in legno e lo oltrepassò. Poi, si diresse insieme al fratello fino alle sedie della saletta d’attesa dell’atrio.

Le pareti della stanza erano immacolate, talmente bianche da far quasi male agli occhi nelle giornate di sole, mentre le sedie erano azzurro chiaro come in tutto il resto dell’ospedale. Alcuni giochi per bambini erano sparpagliati sul pavimento o eventualmente sui tavolino bassi, mentre altri erano stipati tra gli scaffali delle pareti in ordine di “utilità”.

I due bambini posarono gli zainetti, uno blu e uno nero, su due sedie una accanto all’altra. Uno di loro, William, frugò nel proprio zainetto e ritirò fuori il libricino per bambini, raggiunse il fratello e si sedette, mentre l’altro si attrezzava con quello che trovava.

Elizabeth osservò William lanciare occhiate curiose al fratello e ogni tanto girarsi verso di lei con aria un po’ preoccupata. Probabilmente era preoccupato dal fatto che Eric stesse combinando qualcosa con lei nei paraggi. Eric era scalmanato e pestifero, ma non era certo un bambino stupido. Anche se negli ultimi giorni era stato più immusonito del solito, non avrebbe combinato niente, sapendo che era arrabbiata con lui.

- Mi spiace per mio figlio. – si scusò, girandosi verso la signora Lovelace e cercando di non apparire forzata.

La donna scosse la testa, come a dire che non importava. Quindi per cosa l’aveva tormentata fino a quel momento?

- Dispiace a me, signora. Cercherò di avere più pazienza, sa, io li riconosco subito i casi disperati. –

Elizabeth s’irrigidì e indurì lo sguardo, lanciando un’occhiata raggelante all’altra. Come si permetteva quel metro e venti d’imbecillità?

Calmati. Conta fino a dieci: uno, due, tre..

Meglio se arrivo a cento.

- Come prego? – chiese freddamente, fingendo di non aver capito.

- È talmente agitato e incostante, signora, che non so davvero come farà! Ed io difficilmente mi sbaglio sui bambini di cui mi occupo - le disse in tono confidenziale. Molto bene; quella era sicuramente, da un punto di vista di ricerca, la frase che comprovava la sua teoria: quella donna era un’idiota.

- Lo diceva anche della figlia del dottor Evenson, il primario. – le fece notare, cercando di contare fino a cento prima di dire o fare qualcosa di cui sicuramente non si sarebbe pentita, ma che avrebbe potuto crearle non pochi problemi.

Suo marito le aveva raccontato qualche aneddoto sull’adorata figlioletta dell’attuale primario. Anche se sospettava volesse fargli sembrare Eric meno tremendo di quello che in realtà era, messo a confronto con quella bambina agitata e pestifera.

La signora Lovelace rabbrividì. Eric era un angioletto; un adorabile, tranquillo e posato bambino se messo a confronto con quel piccolo, terribile, mostro sotto mentite spoglie dell’ultima genita del primario dell’ospedale. Se non le era venuto un esaurimento nervoso con la piccola, dolce e adorabile figlioletta di Jonathan Evenson, non le sarebbe venuto sicuramente mai più.

Il piccolo mostro, oltre ad essere saccente e irriverente, era anche adorata e viziata dal padre e dai fratelli maggiori. Avrebbe potuto, fino a qualche anno prima, lamentarsi con il primario, ma l’anziano predecessore del padre della pargoletta, stravedeva per il suo giovane e promettente vice. E anche per la mostriciattola, e per questo tendeva a sminuire ogni malefatta o ogni capello bianco che le aveva fatto venire quella delinquente.

E poi il padre si chiedeva come mai non trovasse una baby-sitter. Aveva prognosticato, quando ancora si occupava il pomeriggio di lei, che la piccola Kaithlyn non avrebbe compicciato granché durante la scuola a causa del suo caratteraccio; purtroppo invece, durante i corsi estivi di preparazione ai Livelli Inferiori, che ovviamente le avevano fatto frequentare, si era rivelata più brillante di tutti i suoi compagni di corso messi insieme, rapida nell’apprendere e con una mente estremamente vivace e reattiva. E pareva anche che il padre la considerasse ancora svogliata e poco dedita allo studio.

- Già! Una delle poche volte in cui mi sono sbagliata! – affermò, non trovando nient’altro da dire.

Un sorrisetto soddisfatto le increspò le labbra, mentre la signora Lovelace sembrava ancora pensare alla figlia minore degli Evenson.

- Suo figlio è più chiuso e irrequieto del solito, comunque. – le comunico, come per riproiettare il discorso sul bambino. - Il mio Frederick, invece è sempre così tranquillo e ben educato.. – disse, vantandosi con aria soddisfatta.

Elizabeth inarcò le sopracciglia. Le stava forse provando a insinuare che non aveva insegnato l’educazione ai suoi figli?

Cento e uno, centodue, centotre…

Un’assurdità del genere come il contare poteva funzionare solo con suo marito, ovviamente.

Non colpirla, non colpirla, non colpirla.

- Ho notato. È successo qualcosa durante il dopo scuola, che lei sappia? – domandò, non dando peso, anche se con un certo sforzo, alla seconda parte del discorso.

- Vuole che le elenchi quello che combina suo figlio sotto la mia supervisione, o preferisce che le mandi un mail stasera? – le domandò l’altra, con una nota di sarcasmo che le fece venire voglia di prenderla a schiaffi. Provò a immaginarsi il marito che le diceva di restare calma e di non abbassarsi al suo livello, ma non era sicura che potesse funzionare con lei quel bel giochetto.

Si massaggiò le tempie, stanca. Aveva avuto il turno di notte e con due bambini piccoli, uno dei quali esagitato, non era affatto facile riuscire a tenere tutto sotto controllo. Suo marito si dava da fare, certo, ma anche lui aveva i suoi impegni improrogabili e le sue ore da fare. Soprattutto ora che lavorava in maternità. Avrebbe potuto lasciare i figli con la suocera, ma non voleva nemmeno sorbirsi anche i suoi consigli su come gestire i suoi figli. Poteva occuparsene lei, si diceva. Era sicura che avrebbe trovato il tempo e le energie per fare tutto, ma ultimamente, in particolari in momenti come quello, non ne era più così certa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Entrò nell’atrio un uomo sulla trentina, alto e attraente. Il camice immacolato faceva risaltare i capelli neri pettinati all’indietro e gli occhi azzurri. Dal taschino del camice, al quale era attaccato il cartellino di riconoscimento, spuntava una penna colorata e la mano destra reggeva una valigetta da lavoro.

Si sistemò gli occhiali rettangolari sul naso e lasciò vagare lo sguardo nella stanza, fino a quando non individuò i figli giocare sul pavimento, e la moglie parlare con la signora Lovelace davanti allo “Spazio bimbi”.

Le fece un cenno, per farle capire che era arrivato. Elizabeth si girò smettendo di controllare i bambini e dedicando tutto la sua attenzione all’altra donna, facendo intendere al marito che l’aveva visto.

Thomas si avvicinò ai bambini, sedendosi sulla sedia alla destra dello zainetto nero di Eric. Aveva cercato di arrivare il prima possibile, ma era stato trattenuto.

La sua maggiore preoccupazione, mentre si sbrigava per arrivare fin lì, era stata il temperamento poco tranquillo della moglie: certo, dai tempi della scuola e dell’iniziazione si era tranquillizzata parecchio, ma preferiva prevenire ogni eventuale sbalzo d’umore o, trattandosi proprio di Lilian Lovelace, ogni possibile episodio di tentato omicidio.

- Ciao papà! – lo salutò, quello che era abbastanza sicuro fosse William. Non perché ci fosse qualche differenza nell’aspetto dei suoi figli: erano due perfette gocce d’acqua, identici fino all’ultimo capello e perfino lui e sua moglie alle volte faticavano a riconoscerli, ma gli sembrò un po’ improbabile che William di mettesse a fare le torri con i giocattoli e poi si divertisse a distruggerle, quindi andò per esclusione.

Thomas stirò le labbra in un sorriso, mentre il bambino gli andava incontro con il librino che gli aveva dato quella mattina. Molti bambini Eruditi iniziavano a leggere già a quell’età e, né William né Eric, avevano fatto eccezione anche se tra i due il più interessato ad apprendere, almeno fino a quel momento, sembrava William.

Eric sembrava prediligere il mandare fuori di testa sua moglie e chiunque non gli andasse a genio.

Per quel che lo riguardava, per come la vedeva lui, la spiegazione per la costante agitazione del figlio era talmente ovvia da risultare quasi stupida. Anche se per il momento Elizabeth sembrava preferire il far finta di nulla, o più semplicemente ignorare la cosa. Eppure tra qualche anno avrebbe dovuto fare i conti anche lei con le inclinazioni del figlio, era inutile fingere di non vedere per convincersi che non fossero già più che evidenti.

- Che fa tuo fratello? – chiese distrattamente a William, che nel frattempo si era seduto a gambe incrociate davanti a lui e si rigirava distrattamente il libro tra le mani.

A quanto pareva non lo sapeva nemmeno lui perché si girò, ruotando sul sedere, verso il fratello e lo guardò incuriosito.

Poco più in là rispetto a dov’erano loro, Eric, dopo aver buttato in terra e sparpagliato tutti i giocattoli a cui era riuscito ad arrivare, si era messo d’impegno nel fare una torre con dei cubetti di lego colorati, e sembrava non essersi minimamente accorto del suo arrivo. Anche se probabilmente lo stava semplicemente ignorando, concentrato com’era nel suo intento.

Quando la “torre” fu diventata alta all’incirca come il bambino, Eric si alzò, la contemplò un momento senza particolare entusiasmo, e poi le tirò una pedata con rabbia, facendo sparpagliare tutti i pezzi per terra.

Guardò senza allegria il disastro che aveva combinato, e i mattoncini di lego sparpagliati in blocchi più o meno grandi sul pavimento. Poi, si diresse senza dire una parola verso di lui, lanciandogli un’occhiata vuota e cupa. Quando fu abbastanza vicino, Eric, prese il suo zainetto e senza rendere conto a nessuno si diresse verso la porta a vetri che conduceva verso le scale.

Thomas lanciò un’occhiata veloce in direzione della moglie, che a quanto pare, contando sul fatto che ci fosse lui con i bambini non si era accorta di nulla. Si girò verso William, sperando che non gli venisse voglia di emulare il fratello e che continuasse a trovare interessante il librino che si era portato dietro tutto il giorno e che gli rimise immediatamente tra le mani.

- Aspetta qui, d’accordo? E non ti allontanare per nessun motivo, se hai bisogno di qualcosa chiedi alla mamma – disse, alzandosi e tirando su da sotto le braccia il bambino per metterlo a sedere dove fino a secondo prima stava lui.

Si girò, e quasi si aspettava di vedere Eric attraverso la porta a vetri, ma non fu così.

Povero illuso. Figurati se quella peste aspettava i suoi comodi.

A quanto pare, il piccolo delinquente, aveva deciso di darsi alla fuga. Non che fosse la prima volta. Ebbe un moto di preoccupazione: poteva essersi infilato ovunque, e se Elizabeth si fosse accorta che uno dei due bambini mancava all’appello, sarebbero stati nei guai tutti e tre.

Si diresse, quasi correndo, verso l’uscita e poi giù per le scale, sperando che il piccolo mostriciattolo non fosse arrivato già all’uscita dell’edificio: era ancora piccolo, e aveva paura decidesse di attraversare la strada da solo, rischiando di essere investito.

Quando arrivò al quinto piano, gli venne sbarrata la strada da una giovane infermiera dai capelli biondi legati in un chignon.

- Ha visto per caso un bambino alto all’incirca così – iniziò, prima che lei potesse aprire bocca, segnando con una mano l’altezza del bambino. – con i cappelli neri e gli occhi grigi, passare dal reparto? Ha uno zainetto nero e una felpa blu.

- No mi spiace dottore, io.. – iniziò la ragazza, gentilmente, guardandosi intorno.

Thomas girò, forse sentendosi osservato, la testa verso la fine delle scale: eccolo, il fuggiasco. Lui e il figlio si scambiarono uno sguardo di un paio di secondi, poi il bambino iniziò a correre giù per le scale a tutta velocità.

- La ringrazio. – disse sbrigativamente, mentre si lanciava all’inseguimento del bambino che, per essere così piccolo, prometteva già di essere un ottimo corridore. Per lui era più difficile scansare medici, infermieri e pazienti che salivano e scendevano le scale affollate, mentre Eric poteva benissimo passare sotto le braccia degli adulti e farsi spazio più agevolmente di un uomo di oltre un metro e novanta come lui.

- Buongiorno, dottore! – lo fermò una donna sulla sessantina con i capelli brizzolati, mentre scendeva rapidamente le scale tra il quarto e il terzo piano. Era la segretaria del suo reparto, quello di Maternità, e non era in grado di tenere la bocca tutta insieme per più di un paio di minuti. Forse anche meno.

- Bello avere giovani intelligenti e di talento, vero? – disse rivolgendosi all’amica, che sembrava, solo a vederla, tanto chiacchierone quanto lei. – Lei come sta? Sua moglie? Il dottore ha due gemellini così bellini, Ally, dove sono ora? –

Uno mi è appena scappato giù per le scale, probabilmente diretto verso l’uscita.

- Uno se ne sta andando giù per le scale. Vi lascio alle vostre chiacchiere.. – disse sbrigativamente, aggirando le due donne che tuttavia non si scomposero.

- Ma certo, non si preoccupi! – la sentì rispondere, con la stessa nota rilassata nella voce di chi non ha impegni nell’immediato. Come inseguire per l’ospedale un bambino di quattro anni esagitato e senza la minima considerazione delle regole.

Fece i gradini due alla volta rischiando anche di inciampare su una barella poi, finalmente, dopo aver urtato inavvertitamente alcuni colleghi, ed essersi quasi rotto l’osso del collo – fortuna che era già all’ospedale - arrivò all’uscita e vide Eric attraverso i vetri trasparenti della porta girevole, aspettare che si fermassero le macchine.

- Eric! – lo chiamò, iniziando ad alterarsi. S’infilò rapidamente tra due pannelli della porta e un attimo dopo era fuori. Aveva quasi il fiatone per la corsa e il figlio non sembrava volerlo degnare di attenzione, mentre seguiva con la testa lo scorrere dei veicoli sulla strada a tre corsie.

Si mise sulle ginocchia, per arrivare all’altezza di Eric e poterlo guardare in faccia. Quando lo girò verso di sé il bambino immusonito più del solito, gli lanciò uno sguardo accusatorio.

Che c’era adesso?

- Quante volte ti abbiamo detto di non allontanarti da solo? – lo sgridò, afferrandolo per un braccio e stringendolo leggermente per assicurarsi che non scappasse in mezzo al traffico. – Vuoi essere investito? Si può sapere che ti prende ultimamente? –

Prima che potesse finire di sgridarlo e il figlio potesse formulare una risposta, notò che c’era qualcosa che non andava nel bambino: aveva un’ombra, dietro gli occhioni grigi che non avrebbe dovuto esserci, ne era sicuro. Questo, lo fece esitare sui suoi propositi di sfuriata.

C’era qualcosa di maledettamente sbagliato nel modo in cui lo stavo guardando suo figlio.

Ebbe conferma dei suoi sospetti due secondi dopo, quando lo vide strattonare il braccio e, non riuscendoci, gli occhi gli si riempirono di lacrimoni.

Dannazione. Non piangere, non piangere, non piangere.

Cerco di recuperare la calma, facendo un bel respiro e passandosi la mano libera tra i capelli mossi, ripettinandoli all’indietro e cercando di riacquistare il suo comportamento tranquillo.

- Mi ha sgridato anche la mamma… - mormorò il bambino con voce tremolante, mentre posava a terra lo zainetto e si guardava intorno nervoso, come se si aspettasse di essere visto fare qualcosa che non avrebbe dovuto.

- E perché la mamma ti ha sgridato? – gli domandò con più calma, allentando la presa sul braccio del bambino e massaggiandoglielo lentamente. Non voleva fargli male, per nessuna ragione al mondo.

Dopo essersi guardato nuovamente intorno con l’ansia dipinta sul viso, piantò gli occhioni grigi sul suo viso e deglutì, come se avesse paura e dire qualcosa che l’avrebbe messo nei guai.

- Pecché ho tirato un calcio alla signora … - iniziò insicuro, fermandosi prima del nome con le sopracciglia aggrottate in un’espressione concentrata. Forse non sapeva come dirlo, in fin dei conti aveva solo quattro anni.

- La signora Lovelace, Eric?– gli suggerì. Eric annuì timidamente, guardandolo con occhi colpevoli.

- Perché ti sei comportato male con lei? - gli chiese gentilmente, mentre afferrava lo zainetto del figli e si rimetteva in piedi, porgendo una mano al bambino che la guardò sospettoso.

Il fatto che Eric scuotesse la testa in quel modo e fosse così confuso lo turbò. Aveva una strana sensazione a cui non riusciva a dare un nome, più tardi ne avrebbe discusso con la moglie, poco ma sicuro.

Afferrò comunque la mano del bambino, dato che lui non sembrava intenzionato a prendere l’iniziativa, permettendogli di stringergli due dita e si avviarono verso l’entrata dell’ospedale.

- Ti va di fare merenda? – lo tentò, mentre camminavano nell’atrio.

Eric annuì con la testa mentre si sforzava di trotterellare accanto al padre che aveva le gambe molto più lunghe delle sue.

Vedendo la difficoltà del bambino, rallentò un po’ l’andatura.

Si fermarono poco dopo, in mezzo all’ingresso, e Thomas si chinò per rinfilare lo zainetto al figlio. Lo guardò in viso, l’espressione tranquilla.

- Perché hai tirato un calcio alla signora Lovelace? – chiese ancora, con calma. Il bambino parve arrabbiarsi, mentre gli occhi grigi si infiammavano. Quando faceva così, gli ricordava in modo quasi inquietante Elizabeth ai tempi della scuola, quando si erano conosciuti e si detestavano come poche persone al mondo avevano fatto. Il che, considerando la diversità di carattere, era anche comprensibile. Poi si erano sposati e avevano messo al mondo due bambini, ma questo era un altro discorso.

- Perché è stata brutta! – gli disse arrabbiato il bambino, stringendo i pugnetti e assumendo un’aria corrucciata.

Thomas sospirò. Se c’era un’altra cosa che sicuramente Eric aveva ereditato da sua moglie, era il fatto di dovergli tirar fuori le cose con le pinze. Oltre all’adorabile temperamento.

Thomas si rimise in piedi, e condusse il figlio fino alla fine dello spaziosissimo ingresso.

Svoltarono a destra, proseguendo per un largo corridoio, fino ad arrivare al bar. Prese in braccio il bambino ed entrò, mentre Eric si sedeva comodo sul braccio del padre e si gingillava nervosamente la mani, guardandosi in torno con aria vigile.

- Buongiorno dottor Turner! – lo salutò la barista quando arrivò al bancone. Camille era una ragazza sulla ventina dagli occhi verdi e dai capelli castani legati in una crocchia dietro la testa. Le sorrise cortesemente.

- E lui chi è? William o Eric? – domandò guardando il bambino, che alzò il visino imbronciato su di lei riservandole un’occhiata diffidente.

- Eric. – rispose Thomas, facendolo dondolare su e giù con il braccio su cui Eric era comodamente seduto.

- Ma certo! Ciao, Eric! – lo salutò sporgendosi verso di lui cercando di intercettare lo sguardo del bambino che, per tutta risposta, si strinse al suo collo facendola scoppiare a ridere.

- Non ha molta voglia di chiacchierare, oggi. Vero? – disse Thomas, indirizzando l’ultima parola nell’orecchio del bambino che scosse la testa, mogio. Il padre gli passò una mano sulla schiena, come quando aveva mal di pancia e voleva essere tranquillizzato.

- Ma scommetto che ti va di bere qualcosa, vero? – gli chiese ammiccante la ragazza, poggiando un braccio sul bancone e guardandolo gentilmente.

- Lei vuole qualcosa, dottore? – chiese, rivolgendosi al dottor Turner.

Annuì, mentre cercava di stimolare il bambino a girarsi. - Per me un cappuccino, grazie Camille. –

Camille sorrise un po’ a quella scena mentre faceva partire la macchina del caffè, e preparava la schiuma con il latte. Quando ebbe finito, posò la tazza davanti all’uomo che, nel frattempo, si era seduto su uno dei panchetti facendo accomodare il bambino sulle proprie gambe. Eric non sembrava molto entusiasta di quella soluzione, ma la sua attenzione fu catturata dalla schiuma bianca della bevanda.

Camille vide Eric lanciare un’occhiata al padre, che sembrava momentaneamente troppo preso dai suoi pensieri, e infilare un dito nella schiuma per poi ciucciarlo. Le venne da ridere a quella scena.

- Guarda che ti ho visto! – scherzò la ragazza, guardandolo con un’espressione di finto rimprovero.

- Anche io! – decretò il bambino, infilando un’altra volta un ditino nella schiuma e spalmandolo il tutto sulla guancia del padre.

- Eric! – lo riprese, prendendo un tovagliolo per pulirsi. – Non è divertente! – lo ammonì, non riuscendo tutta via a nascondere un sorrisetto vedendo l’espressione seria del bambino. Almeno sembrava più tranquillo e non aveva più i lucciconi, anche se non sembrava ancora rilassato.

- Anche tu, cosa? – indagò gentilmente Camille, rivolgendosi al bambino.

- Cchiuma! – esclamò, indicando la tazza del padre.

- Non sei un po’ piccolo per il cappuccino, tesoro? – lo prese in giro la ragazza, sorridendo vedendo l’espressione risentita del bambino che aveva iniziato ad agitarsi per sedersi un po’ più in su sulla gamba del padre.

- Vuole darlo a me, dottore? – chiese la ragazza, vedendo il padre di Eric in difficoltà.

- Grazie! – le disse, passandoglielo sopra il bancone. Eric non sembrava molto d’accordo con quello scambio, ma si fece prendere in braccio e posare a terra senza protestare.

Si guardò intorno, incuriosito. Gli sembrava quasi un altro mondo dietro il bancone, ma il fatto di sentirsi ancora più piccolo del solito lo metteva in agitazione.

 La ragazza si sedette sui talloni, per provare parlargli.

- Ti va di bere qualcosa? – gli chiese gentilmente, passandogli una mano su un braccio.

Eric la guardò diffidente, ma poi annuì un paio di volte con la testa.

- Allora vieni con me – gli disse prendendolo per mano e conducendolo poco più avanti, davanti al mini frigo.

- Guarda… si preme qui, - gli spiegò, prendendo il bottone di apertura. All’interno del frigo c’erano varie bibite. Eric la guardava con attenzione. - …e, secondo me, a te va un bel succo di frutta! Che dici? –

Il bambino annuì un po’. Quella “signorina”, come gli diceva sempre di chiamare le ragazze giovani la mamma, iniziava a piacergli. E lui si sentiva un po’ meglio, ora che iniziava a distrarsi e il suo papà era lì vicino.

- Che gusto vuoi? – gli chiese Camille, facendolo mettere davanti al contenitore per scegliere.

- Pera – rispose, guardandola.

- Guarda, è quello laggiù. – gli indicò, permettendogli di prendersi la bibita da solo. Il bambino s’infilò nel frigo, con l’aria un po’ più contenta rispetto a quella che aveva quando era arrivato. Per prendere il succo si dovette quasi infilare del tutto dentro il frigo, ma riuscì a cavarsela e a riemergere con il barattolino in vetro in mano.

Camille gli prese la bevanda dalle mani e la sbatté un paio di volte sul palmo della sua mano per agitarlo, tolse il tappo, prese una cannuccia azzurra e lo diede in mano al bambino, che iniziò a bere con una certa soddisfazione.

Eric sorseggiò il succo fresco, tenendo con una mano il recipiente e con l’altra la cannuccia. Si guardò intorno di nuovo, girandosi e cercando di allungarsi sulle punte dei piedi verso il punto in cui avrebbe dovuto esserci, anche se non lo vedeva, il padre. Non che potesse andare molto lontano.

- Il tuo papà è qui dietro, stai tranquillo - gli spiegò Camille indicandogli un punto alla sua destra, anche se in quel momento il bambino non sembrava agitato o turbato dall’assenza della figura paterna; sembrava più incuriosito che altro. Lei, dal canto suo, non vedeva l'ora di terminare il percorso di studi in psicologia infantile. Adorava i bambini.

- Un po’ di pizza, ti va? – aggiunse, quando il bambino ebbe finito il succo di frutta.

Eric annuì, passando il barattolo vuoto a Camille che aprì con il piede un piccolo cestino sotto il bancone e ce lo buttò. Gli scaldò un quadrato di pizza margherita, mentre il bambino si guardava intorno. Chissà com’era stare lì dietro, essere così piccoli, e dover guardare tutto dal basso verso l’alto.

Avvolse il pezzetto di pizza in due tovaglioli, in modo che non si bruciasse e gliela passò.

Eric mangiò in silenzio, continuando a girellare senza una meta precisa, fino a quando non sentì la voce del padre spostarsi verso l’altra parte del bancone. Si allungò nuovamente per vedere dove stava andando, non voleva rimanere lì da solo.

- Vai d’accordo con tuo fratello? – gli domandò Camille, cercando sia di distrarlo dalla momentanea assenza del padre sia di stimolarlo a parlare.

Eric annuì con la testa, poi parve riflettere su qualcosa e la inclinò prima a destra e poi a sinistra, come a dire “così e così”.

Quando ebbe finito di mangiare, di diresse verso il cestino, lo aprì e ci buttò dentro i tovagliolini, strofinando le mani tra loro per mandar via le ultime briciole di pizza. Poi tese seriamente le braccia verso Camille, per farsi tirare su.

Lei, sempre sorridendo, si chinò e lo prese in braccio tenendogli una mano sotto in modo che stesse seduto. Afferrò un tovagliolino da uno dei recipienti in metallo e lo passò al bambino, che si pulì la bocca, con calma. A quanto pare non era di molte parole; lo mise seduto sul bancone, le gambe rivolte verso di lei.

- Come si dice, Eric? – gli chiese il padre che aveva appena pagato alla cassa e si stava sedendo nuovamente sullo sgabello.

Il bambino si mordicchiò il labbro inferiore e lanciò un’occhiata un po’ timida a Camille che continuava a sorridergli gentilmente.

- Grazie.. – cantilenò con voce mogia, dondolando le gambe che poi sollevò e passò dall’altra parte del tavolo, verso il padre.

- Eric. – lo chiamò il padre, facendolo girare. – sei sicuro che non c’è niente che mi vuoi dire? – chiese, guardandolo intensamente, come a intimargli di dire la verità. Quel comportamento altalenante cominciava a preoccuparlo. Un momento prima era tranquillo, e un attimo dopo era triste e ombroso.

Il sorriso sparì subito dalla faccia del bambino, che scoccò un’occhiata all’uomo e scosse la testa di un cenno affermativo, mentre teneva gli occhi puntati alle spalle del padre.

Stava passando un uomo sulla quarantina con i capelli color paglia e l’aria arrogante che li degnò di una rapida occhiata e proseguì, probabilmente diretto verso gli ascensori.

Thomas, che avendo intercettato lo sguardo turbato del bambino si era girato per vedere cosa aveva richiamato la sua attenzione, avrebbe potuto non trovarci niente di strano, se non per il fatto che Eric, vedendo passare l’uomo, aveva tirato le gambe sul bancone del bar e aveva messo su un’espressione ostile e, anche se non ne era sicuro, forse anche un po’ spaventata.

- Eric? Che c’è? – insistette ancora, questa volta guardandolo severamente. Sapeva che era inutile insistere troppo con lui, perché era tremendamente cocciuto e avrebbe preferito fare lo sciopero della fame piuttosto che fare qualcosa contro voglia, ma cominciava a spazientirsi.

Il bambino storse un po’ la bocca, costringendolo a rigirarsi, quasi esasperato. Perché non parlava? Suo fratello non teneva mai la bocca tutta insieme, mentre lui ultimamente non spiccicava parola.

Camille alzò gli occhi, guardando anche lei nella stessa direzione dei due: stava entrando, tenendo per mano l’esatta fotocopia di Eric, una donna sulla trentina che doveva essere senza dubbio la madre dei due; aveva gli stessi occhi grigio chiaro dei figli, e per quanto la somiglianza con il padre fosse marcata, entrambi i bambini aveva qualcosa nell’espressione che avrebbe tolto ogni dubbio a chiunque.

Elizabeth si avvicinò, ancora irritata dalla conversazione appena avuta con quella menomata, ignorante e stupida della signora Lovelace. Thomas avrebbe dovuto essere fiero di lei, poiché era riuscita a non cedere alla provocazione, cosa che le era costata un certo sforzo, e a trattarla con sufficienze senza perdere le”staffe”.

Lanciò uno sguardo penetrante a Eric, che ricambiò con l’espressione di chi si aspetta una bella lavata di testa. Il bambino inarcò un po’ le sopracciglia, cercando di fare tenerezza alla madre, ma non parve funzionare granché. Doveva essere proprio arrabbiata, anche se era abituato a essere sgridato, specialmente da lei.

Elizabeth inarcò un sopracciglio: ora faceva il pentito? Appena fossero arrivati a casa, l’avrebbe sentita, che Thomas fosse d’accordo oppure no.

Il fatto che anche lei avesse avuto l’impulso di prendere a calci la signora Lovelace, non implicava necessariamente che fosse una cosa corretta e che approvasse che fosse suo figlio a farlo. E poi non sopportava di dover delle scuse a quella.

- Beh, andiamo? – chiese spiccia all’indirizzo del marito, mentre lasciava il bambino che teneva per mano e si avvicinava a Eric per farlo scendere dal bancone. Lo prese da sotto le braccia e lo posò a terra, scoccandogli un’occhiata di rimprovero.

Lo prese sbrigativamente per mano, controllando che avesse preso tutto e che fosse tutto in ordine. Respirò pesantemente dal naso: Eric e la parola “ordine” non andavano bene nemmeno nella stessa frase. Scosse leggermente la testa, mentre aspettava che il marito prendesse l’altro bambino. Fece un cenno di saluto alla giovane barista ed uscirono.

- Ciao, Camille! – sentì salutare il marito. Ecco, ci mancava solo che si mettesse a fare conversazione. Non andavano di fretta?

Uscirono dall’edificio e si ritrovarono tutti e quattro ad attendere che le macchine che percorrevano la via si fermassero. Quando venne il momento di attraversare intimò ad Eric di non schizzare via come al solito e si mosse rapida verso l’altro lato della strada.

Quando furono tutti e quattro sul marciapiede opposto ed ebbero fatto due passi in direzione del parcheggio riservato ai dipendenti dell’ospedale, abbassò gli occhi sul bambino che, a quanto pareva, non aveva intenzione di proseguire oltre. Sembrava gli si fossero incollati i piedi a terra. E adesso che diamine c’era?

Thomas e William erano un po’ più avanti, a una decina di metri dall’ingresso del parcheggio.

Provò a tirarlo, senza metterci troppa forza per spronarlo a muoversi. Desiderò di non averlo mai fatto: il bambino, con lo sguardo abbassato a terra, sporse un po’ il labbro inferiore e sembrò essere sull’orlo delle lacrime, mentre con una mano si strusciava gli occhi.

Strattonò la mano dalla presa della mamma e tirò su con il naso.

L’irritazione che aveva provato fino a  quel momento svanì all’istante come una nuvola di vapore, sostituita dalla preoccupazione.

Elizabeth s’inginocchiò davanti al bambino e gli accarezzò la testa, cercando di capire cosa c’era che non andava.

- Che hai amore? Ti ho fatto male? – gli chiese preoccupata, scostandogli i capelli dal viso per vederlo in faccia.

- Mi fa male la pancia. – piagnucolò il bambino, mettendosi una mano sul ventre e sviando lo sguardo della madre.

Si avvicinò un po’ di più a lui, passando con la mano nel punto in cui si era toccato.

- E la testa..- aggiunse in un lamento, mentre iniziava a piangere disperato, spalle scosse dai singhiozzi.

Lo attirò più vicino a sé, e gli posò le labbra sulla fronte, lasciandogli un bacio e accarezzandogli i capelli per tranquillizzarlo.

- La febbre non ce l’hai tesoro… - disse, incerta. – dove senti male? Qui? – gli chiese massaggiandogli con una mano la schiena mentre con l’altra continuava ad accarezzargli i capelli.

- Sì.. – singhiozzò lui, facendo cadere due lacrimoni sul pavimento, mentre lei sentiva crescere l’ansia. Eric piangeva così di rado che non appena lo faceva, lei andava subito nel panico pensando che avesse chissà cosa.

- Così tanto? – domandò ancora preoccupata, prendendolo in braccio e stringendoselo contro il petto, mentre il bambino le stringeva le braccia intorno al collo e annuiva contro la sua spalla.

Continuò a massaggiargli la schiena, cercando di calmarlo.

- Va tutto bene tesoro, ora andiamo a casa.. – cercò di rassicuralo, mentre raggiungeva il marito che la stava aspettando vicino all’autoveicolo.

Thomas le lanciò un’occhiata interrogativa, come a chiederle spiegazioni, e lei gli face segno di lasciar stare.

Andò dalla parte del guidatore ed aprì lo sportello posteriore, infilando cautamente il bambino sul seggiolone e sedendosi sul bordo del sedile posteriore.

- Facciamo così: appena arriviamo a casa ti preparo una bella tisana calda, ti va amore? – gli domandò, mentre lo sistemava in modo che stesse comodo per il tragitto di ritorno.

Il bambino annuì, asciugandosi gli occhi con la manica della felpa e tirando un po’ su con il naso mentre si rannicchiava sul seggiolone sofferente.

Elizabeth gli passò il pollice sulla guancia, e il dorso dell’indice sull’altra per asciugargli i lacrimoni che stavano ancora scendendo, poi estrasse un fazzoletto dalla borsa e gli pulì il viso con delicatezza lasciandoglielo poi sulle gambe, nel caso avesse avuto bisogno durante il tragitto.

Nel frattempo il marito aveva sistemato William dall’altro lato: avevano deciso, per una volta di comune accordo, di sistemare Eric dietro il guidatore in modo che la madre lo avesse sott’occhio, e William dietro il posto del passeggero.

Elizabeth schioccò un altro bacio sulla fronte del figlio, prima di fare il giro, montare in macchina e allacciarsi la cintura, il viso ancora preoccupato.

L’unico rumore che si sentì in auto dopo la partenza fu il tirare su con il naso di Eric, che se ne stava mogio sul su seggiolino, mentre il fratello lo guardava interrogativo e cercava di attirare la sua attenzione senza successo.

- Come stai? – chiese dopo un po’ Thomas, guardando il bambino dallo specchietto retrovisore. Vedeva giusto la testolina scura e spettinata di Eric appoggiata allo schienale, mentre William sembrava in procinto di addormentarsi beatamente.

Eric si strusciò gli occhi con le mani, e si spostò un ciuffo di capelli dagli occhi.

- Insomma.. – mugugnò, senza alzare gli occhi. Thomas addolcì un po’ lo sguardo.

- Perché non dormi un pochino anche tu? Vi portiamo su io e la mamma. – gli consigliò, mentre si fermava a un semaforo e la moglie si slacciava la cintura per sistemare William sul seggiolone dal quale stava scivolando.

Eric annuì un po’, lasciandosi scappare anche uno sbadiglio e, più rapidamente di quanto entrambi i genitori si sarebbero aspettati, scivolò anche lui nel sonno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Elizabeth lanciò un’occhiata dietro, per vedere cosa facevano i bambini mentre entravano nella strada di casa: William sembrava tranquillo, mentre Eric, costatò un po’ serena, era imbronciato anche nel sonno.

Si slacciò rapidamente la cintura, ancora prima che il marito avesse spento la macchina, e l’avesse finita di parcheggiare davanti al garage situato nella parte rivestita di pietra del giardino condominiale.

Aprirono quasi in simultanea le portiere, mentre Thomas slacciava e prendeva in collo Eric, e lei si occupava di William. Ce la faceva ancora a prenderli in braccio, anche se iniziavano a diventare abbastanza pesanti entrambi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Infilò William nel suo lettino, quello più in basso, mentre il marito sistemava Eric nel suo, più in alto.

Si assicurò che entrambi fossero sistemati e diete un bacio a William, mentre ad Eric, non arrivando fin sopra e non volendolo svegliare, fece una carezza sui capelli scompigliati, poi lei e il marito uscirono in silenzio e si misero al tavolo della cucina a finire di lavorare.

- Hai parlato con la signora Lovelace, Elizabeth? – chiese distrattamente il marito mentre guardava alcune cartelle cliniche.

- Sì.. – sospirò in risposta, mentre metteva in ordine alfabetico i pazienti. – a parte le scemenze che le escono nove volte su dieci dalla bocca, non mi ha saputo spiegare perché Eric si è comportato così; ha detto che sembrava tranquillo quando è arrivato dopo la scuola. Ed io le ho detto che ero perfettamente consapevole di come avevo lasciato mio figlio lì da lei… dopo l’ennesima risatina da decerebrata ho preso William e sono venuta a cercarvi… e non sono più nemmeno tanto sicura di volerlo sgridare. Prova a starci tutto il giorno, con quella. – raccontò, senza staccare gli occhi da quello che stava facendo.

Thomas sorrise un po’: per quante ne potesse fare Eric, non sarebbero mai state abbastanza da far provare a sua moglie solidarietà verso la signora Lovelace; e come il bambino aveva detto di stare poco bene, ovviamente, il rimprovero che era piuttosto che certo stesse preparando per quando sarebbero stati a casa, era sfumato in una secondo. Forse anche meno.

- A te ha detto niente? – domandò guardando attentamente il marito, che sospirò mentre appuntava qualcosa.

- Eric? – domandò, senza riflettere. Elizabeth annuì.

- No, niente. Ma si è comportato in modo strano per tutto il tempo… altalenante. È passato in continuazione dalla tranquillità all’ansia nel quarto d’ora che è stato con me, non ha quasi spiccicato parola, e quando l’ho trattenuto fuori dall'ospedale si è quasi messo a piangere. –raccontò, posando la penna e appoggiando entrambe le mani sulla tavola.

Elizabeth inarcò le sopracciglia. Quello sì che era strano: non tanto il “tentativo di fuga”, quello era un classico di suo figlio, ma quanto il fatto che piangesse senza motivo e che fosse addirittura più agitato e incostante del solito.

- Magari è stata solo una giornataccia… vediamo domani come vanno le cose, che dici? – propose, anche se non sembrava troppo convinta di quello che diceva nemmeno lei.

- D’accordo.. – acconsentì il marito, tornando alla sua occupazione mentre lei si alzava e andava a controllare i bambini: era piuttosto sicura di aver sentito qualcuno mugugnare la parola “mamma”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Salve a tutti, sono sempre io!

Tanto per cominciare vi volevo ringraziare TUTTI/E per aver apprezzato la scorsa one-shot (“It’s Women’s Day also for you”) perché sul serio non me lo aspettavo, quindi GRAZIE, GRAZIE, GRAZIE E ANCORA GRAZIE!

In particolare voglio ringraziare Kaimy_11, Adeus, Fabi96, i love evanescence e awkward_girl per aver recensito la storia e avermi detto cosa ne pensavano… era esattamente quello di cui avevo bisogno! Poi, ringrazio anche Lordy Voldy_girl, Adeus (di nuovo) e Memory Eaton per averla inserita tra i “Preferiti”, DarthGiuly e Adeus per averla messa tra le “Ricordate”, ed infine Ally_78 per averla messa tra le seguite!

Ho parecchie idee in cantiere (forse anche troppe!) ma l’altro giorno, mentre scrivevo l’aggiornamento della mia long “Braveheart”, mi è venuta l’ispirazione e mi sono messa a scrivere questa storiella; non ho ancora deciso quanto farla lunga, ma spero la apprezzerete ugualmente! Sarà a tratti comica, perché si parla della mia versione di Eric in formati mini, ma tratterà anche di argomenti di un certo spessore e di una certa gravità. Ho voluto provare a dare una spiegazione al perché Eric sia così chiuso e cattivo con tutti e mi sono inventata, di sana pianta, “l’inizio” dei suoi problemi.

Passiamo alle mie domande da scrittrice esaurita: come vi sembrano i nuovi personaggi? Ovviamente devono ancora svilupparsi, ma io ho già in mente come fargli evolvere. Qualcuno ha capito la mia idea per la fic? O sono stata brava? Fatemi sapere che ne pensate, che sia una cosa positiva, negativa, un consiglio, un insul… insomma, avete capito!

 

 

*il nome Lovelace, viene citato da Quattro in “Four – una scelta può liberarlo” durante la Cerimonia della Scelta, quando viene chiamato un ragazzo tutto vestito di blu che rimane negli Eruditi.

Il resto, nomi, cognomi, personaggi e quant’altro è frutto della mia mente bacata.

Spero che abbiate apprezzato questo primo capitolo, e che la lettura non risulti noiosa, e che vogliate farmi sapere con una recensione (positiva o negativa che sia) o con un messaggio o eventualmente con un segnale di fumo (?) cosa ne pensate!

Vi lascio anche il link della mia pagine facebook: https://www.facebook.com/pages/Kaithlyn-J-Evenson/865334640156569?ref=hl

A presto,

Kaithlyn.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Avviso: ho rivisto il primo capitolo, aggiungendo dettagli e sistemando i dialoghi perché mi sono resa conto di alcune imprecisioni che mi erano sfuggite. Vi consiglio di rileggerlo, appena avete un minuto! J

 

 

Capitolo 2

 

 

 

- Vieni! – disse William battendo la mano sul libro aperto davanti a sé, e guardando ostinatamente il fratello, il cipiglio inquietantemente simile a quello della madre.

Eric gli rivolse un’occhiata poco convinta.

No, decisamente non gli andava di sentire le “spiegazioni” di Will, che poteva tranquillamente durare tutto il pomeriggio a parlare di qualsiasi cosa senza chiudere la bocca nemmeno per un secondo. Lui voleva andarsene a casa, non gli piaceva nemmeno un po’ quel posto.

Eric deglutì, rendendosi conto del tacito accordo che aveva con il fratello: William prima si era prestato a giocare con lui, a scorrazzare per la stanza e fare la lotta anche se non gli piaceva molto. Ora toccava a lui assecondare il fratello, che gli piacesse o no.

Fece alcuni passi incerti verso l’altro, guardandolo quasi implorante, ma l’unica cosa che ottenne fu un’occhiata insistente.

- ‘Kay.. – borbottò, mettendosi accanto a William a gambe incrociate e tenendo uniti i piedi con le mani. Si dondolò un po’ sul posto, ancora indeciso sul darsi alla fuga o meno, ma vedendo l’espressione dell’altro decise che avrebbe resistito. La mamma sarebbe venuta a prenderli quando i primi due numerini del suo orologio fossero stati uno e sei. In quel momento erano uno e due, e tra poco sarebbero andati a fare il pisolino pomeridiano. Poteva farcela.

Dall’altra parte della stanza, seduta alla scrivania posta sotto la mensola che faceva tutt’uno con la parete mobile in legno chiaro dello spazio bimbi, Lilian Davis, coniugata in Lovelace, guardava in due bambini con sospetto.

Erano stati fin troppo tranquilli quel giorno, e la cosa non le piaceva granché; in genere, quando erano così… mansueti, si preparavano per combinare un disastro epico verso l’ora di chiusura, ed era meglio non perderli d’occhio. Soprattutto Eric, agitato e bizzoso com’era. Davvero non sapeva come facesse la madre a sopportarlo.

Cuore di mamma.

Da quando le aveva tirato quella pedata, che aveva ovviamente fatto notare alla madre insieme al resto delle malefatte che aveva omesso fino a quel momento, erano già passate un paio di settimane e il piccolo mostro era stato insolitamente cupo e tranquillo; uno strano connubio di stati d’animo che l’aveva reso, per sua grande gioia, anche silenzioso e meno incline e tormentarla.

Almeno per il momento.

Girò il polso per controllare l’orologio, mentre con l’indice dell’altra mano si spingeva sul naso gli occhiali ovali. A momenti avrebbe portato i bambini a riposare, e avrebbe finalmente avuto un paio d’ore di pace. Non che non le piacessero i bambini, o sarebbe andata a fare altro, ma alle volte, soprattutto con bambini come il piccolo Turner faceva veramente fatica ad essere paziente.

In quel momento, fece il suo ingresso il dottor Green. Era un uomo sulla quarantina, dai capelli color paglia e gli occhi chiari che, quando non lavorava agli ambulatori come pediatra, si prestava volentieri a guardarle i bambini che non dormivano durante l’orario pomeridiano. Lei aveva perso ogni speranza di convincere un ristretto gruppo di bambini testoni a dormire… e aveva risolto il problema con una supplenza di un paio d’ore, dato che fare su e giù non era proponibile.

- Buon pomeriggio, Lilian. – la salutò affabilmente, avvicinandosi al cancellino d’entrata.

- Buon pomeriggio, dottor Green! Tra un momento porto i bambini a dormire nell’altra stanza, mi dia solo un secondo! –rispose, parlando più velocemente del dovuto e alzandosi per rivolgersi ai bambini, impegnati a giocare, chiacchierare o semplicemente, in particolare i più piccoli, a sonnecchiare sul posto.

- Bambini, è l’ora del riposino… - iniziò. Alcuni bambini si alzarono subito, come se non vedessero l’ora di sentire quelle parole, mentre altri non sembravano troppo convinti sul da farsi. – Tu Eric che fai? – chiese, guardando i bambino da sopra gli occhiali. Il fratello era già in piedi, l’ennesimo libro sotto braccio. Probabilmente lo usava al posto del pupazzo.

- Allora? – insisté in tono scocciato e sbrigativo, non ricevendo risposta.

Eric fece un cenno di diniego non troppo convinto, ma colse comunque l’occasione per sfuggire al fratellino, che lo guardò imbronciato andare via, passando lo sguardo da Eric al libro.

Mentre guardava immusonito un punto imprecisato poco più avanti, dove poco prima era transitato il fratello, gli scappò uno sbadiglio. Camminando frettolosamente la raggiunse all’uscita mentre nella stanza rimanevano Eric, il signor Green e altri tre bambini.

 

 

 

 

 

 

 

 

- No! – gridò ostinatamente per l’ennesima volta il bambino, strattonando con forza il braccio dalla mano della signora Lovelace e guardandola corrucciato.

- Via, Eric non fare i capricci! – disse, facendo un passo avanti e incombendo su di lui. Eric non sembrò minimamente intimorito dalla figura che torreggiava su di lei, e in tutta risposta batté con forza un piede a terra. - Voglio proprio vedere se farai così anche quando arriverà tua madre! – lo minacciò, ammonendolo con un dito.

Nonostante l’espressione severa e arrabbiata della donna, Eric si limitò a incrociare le braccia davanti a sé e a lanciarle uno sguardo di sfida, che cozzava in modo singolare con i tratti ancora rotondeggianti e infantili del bambino.

- Mi ha fatto chiamare? –

Lilian si voltò, e vide entrare a passo svelto la madre del piccolo mostro che aveva battuto i piedi per le ultime due ore, schiamazzando e facendo i dispetti a tutti coloro che gli erano capitati a tiro, fratello incluso, anche se William non si era scomposto e l’aveva lasciato pazientemente fare.

Elizabeth si fermò oltre il cancellino di legno e la squadrò dalla testa ai piedi, con aria scettica: aveva i capelli scarruffati, e qualche ciuffo sembrava essere sfuggito all’acconciatura severa che portava in genere; gli occhiali ovali, le erano scivolati quasi sulla punta del naso, e sembrava aver lotteggiato fino a quel momento, dato lo stato scombinato dei suoi vestiti.

Cercò di guardarla educatamente come a chiederle come mai l’avesse chiamata strepitando come una gallina, anche se temeva di sapere già la risposta. Le era bastato vedere il numero dello Spazio Bimbi per avere già un quadro piuttosto completo della situazione.

- Certo, come al solito! Questo… - respirò pesantemente, come se stesse cercando di riprendere il controllo della situazione, passandosi le mani ai lati della testa per portarsi indietro i capelli.

- Suo figlio – ricominciò, in tono più fermo e duro. – non mi chieda per quale assurda ragione, non vuole muoversi da lì. Ho provato a prenderlo in braccio ma, come vede, non è stato molto d’accordo e mi ha anche strattonato i vestiti! – terminò in tono vagamente isterico.

Elizabeth si passò una mano sul viso, stanca. Quando era stata chiamata, come al solito, sapeva già cosa le sarebbe stato riferito e di quale dei due bambini si trattasse. Eppure, in quell’ultimo periodo più che mai, durante il quale non aveva avuto un solo momento di riposo, quelle scenate di Eric le pesava più del solito.

- Ha capito?! – strepitò nuovamente la signora Lovelace.

Ma non chiudeva mai quella boccaccia?

- Certo, non sono mica sorda. – ribatté lapidaria, facendo scivolare la mano che aveva sugli occhi, lungo il fianco e guardando sconsolata il bambino, che gli rimandò un’occhiata cupa e corrucciata.

Si avviò in direzione del figlio, decisa a tornarsene a casa il prima possibile. Non aveva nessuna voglia di discutere, ed era ormai al limite dell’esasperazione: badare a due bambini piccoli, alla casa ed avere quei turni massacranti non era semplice, anche se doveva riconoscere che sarebbe stato anche peggio senza suo marito che l’aiutava.

- Avanti Eric, andiamo a casa. – lo incitò quando fu a un passo da lui, facendogli cenno di perderle la mano.

Per tutta risposta il bambino scosse la testa e batté un piede per terra. – No! – gridò con vemenza, stringendo i pugni lungo i fianchi.

Inspirò profondamente, cercando un modo per non perdere la poca pazienza che le era rimasta.

- Stammi a sentire, Eric: sono già abbastanza stanca, quindi non fare i capricci e comportati per bene. – gli disse sbrigativamente, piegandosi sui talloni per raggiungere la sua altezza.

Eric rincrociò le braccia davanti a sé, scuotendo la testa e piantandosi esattamente dov’era.

Poteva mettere al mondo un bambino più ostinato?

Si risolleverò in piedi, le gambe doloranti per aver corso da una parte all’altra dell’ospedale per quasi ventiquattr’ore, mentre il bambino le lanciava uno sguardo temerario dal suo metro scarso d’altezza.

No, probabilmente no.

Esasperata, si piegò un po’ per afferrarlo per un braccio e tirarlo verso l’uscita, ma Eric strattonò con forza il braccio dalla presa della madre emettendo un verso contrariato a metà tra un “no” e un mugolio di protesta.

Spazientita, Elizabeth lo riagguantò dal gomito, la presa un po’ più salda, e lo tirò vicino a sé per prenderlo in braccio e portarlo di peso verso l’uscita. Nel momento in cui Eric si sentì sollevare dal pavimento, iniziò a scalciare e premere le mani sulle spalle della madre per allontanarla, gridando e dimenandosi.

Elizabeth, ormai prossima a perdere definitivamente la pazienza, cercò di tenerlo fermo nonostante il figlio non sembrasse minimamente intenzionato a collaborare. Mentre lotteggiavano, Eric le strinse la giacchetta agguantando anche alcuni capelli, e tirò strappandoglieli.

Complice la fitta alla testa e la stanchezza, Elizabeth perse definitivamente la pazienza; posò bruscamente il figlio a terra e gli tirò due sculaccioni mentre lo teneva fermo per un braccio.

Quando ebbe finito seguirono alcuni secondi di silenzio, durante i quali si risistemò la giacca e si rilegò i capelli, mentre il bambino la guardava dal basso con gli occhi lucidi e pieni di risentimento per la sculacciata appena ricevuta.

- Avanti, muoviti. – ordinò duramente, mentre prendeva senza troppa cura la mano del bambino e lo trascinava fuori, dove lì stava aspettando, con l’immancabile libricino sulle gambe, William.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Intercettò la moglie che scendeva rapidamente le scale dalla reception del terzo piano. Non sembrava particolarmente allegra, anzi; sembrava piuttosto arrabbiata, e dall’occhiata di rimprovero che lanciò a quello che era senza dubbio Eric, ne comprese all’istante anche il perché.

- Elizabeth? – la chiamò, camminando a passo svelto verso di lei.

La moglie si fermò, senza lasciare il polso di Eric, che cercava di strattonarsi dalla presa della madre senza tuttavia riuscirci.

- Che è successo? – chiese dopo lungo momento di silenzio.

Sua moglie sembrava sul punto di avere una crisi di nervi o una crisi isterica, che dir si voglia. La capiva, era stanco e stressato anche lui, ma non avrebbe volto essere presente all’esplosione per niente al mondo.

- Eric si è guadagnato una bella sculacciata – lo informò, la voce fin troppo controllata.

In quello stesso momento, William si allontanò dirigendosi verso le sedie stipate ai lati del corridoio asettico. Eric fece per seguirlo quasi istantaneamente, ma la madre glielo impedì, rafforzando un po’ la presa sul figlio, che si lasciò scivolare a terra ciondolando imbronciato.

C’era qualcosa che ancora non gli tornava, nel modo in cui si comportava Eric: era dispettoso, confusionario e sicuramente poco ubbidiente… ma non era mai stato un bambino bizzoso, o che batteva i piedi per terra quando voleva qualcosa.

La guardò sorpreso, corrugando le sopracciglia. - Addirittura? –

Era piuttosto strano: in genere Elizabeth sbraitava e dava di matto, ma non alzava mai le mani sui bambini. Preferiva di gran lunga metterli in punizione o sgridarli per poi “riappacificarsi”, anche perché sapeva che poi si sentiva in colpa, con loro.  

Forse era più esasperata di quanto desse a vedere; nelle ultime due settimane, un’epidemia d’influenza aveva praticamente decimato il personale medico, e loro si erano visti sommersi di straordinari per coprire le ore dei colleghi a casa per malattia. Ed avere due bambini piccoli da gestire non era assolutamente una cosa semplice… soprattutto se si mettevano anche a rotolarsi per terra dopo un doppio turno di lavoro.

- Alzati da terra! – intimò la moglie guardando verso Eric, che nel frattempo si dondolava dal braccio che gli teneva la madre con fare annoiato, lo sguardo concentrato sul fratello.

- Eric, non ne posso più! Ora, o ti alzi o… -iniziò la voce tremante per la rabbia che cercava di nascondere.

Aveva già capito come sarebbe evoluta la cosa, e conoscendo la moglie era meglio correre immediatamente ai ripari.

Si piegò sui talloni, le braccia appoggiate sulle ginocchia, e guardò severamente il figlio. Poi, prima che la moglie potesse proferire parola, infilò le mani sotto le braccia del bambino e lo mise in piedi; si prese tutto il tempo per spolverargli il dietro dei pantaloni e sistemargli la felpa sulle spalle.

Eric guardava immusonito per terra, e Thomas avrebbe dato qualsiasi cosa per sapere cosa gli passava per quella testolina mora e scarruffata dai capricci che aveva fatto fino a quel momento.

- Vai a sederti due minuti con tuo fratello, che parlo un attimo con la mamma? – chiese al bambino, indicandogli la sedia accanto a quella di William e porgendogli lo zainetto. Difficilmente alzava la voce con i bambini, al contrario della moglie, ma entrambi sapevano sempre quando la sua pazienza era in procinto di finire e arrivava il momento di ubbidire senza discussioni.

Eric non protestò; si mise lo zainetto in spalla e raggiunse il fratello, arrampicandosi sulla sedia alla sinistra di quella di William.

Mentre si alzava da terra, incrociò lo sguardo esasperato della moglie: urgevano tre giorni di ferie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

- Ah, quindi ora sarebbe colpa mia?! Sono io quella esaurita? – gli strillò contro, stringendo i pugni e guardandolo furente.

Si passò entrambe le mani tra i capelli, cercando di mantenere la calma che lo contraddistingueva e non peggiorare la situazione.

Il viaggio di ritorno verso caso era stato silenzioso e teso; sua moglie non aveva gradito il suo intervento con Eric e il fatto che le avesse semplicemente fatto notare che, forse, ma proprio forse, non era solo colpa del bambino, ma era anche lei ad essere arrivata al limite.

Non l’avesse mai fatto.

Ogni tanto si chiedeva ancora cosa diavolo gli era passato per la testa, dieci anni prima, quando aveva chiesto a Elizabeth Lawrence di sposarlo. E aveva pure preparato tutti nei minimi dettagli, con candele, cena, anello ed entusiasmo... e si era addirittura messo in ginocchio al momento di farle la fatidica domanda. Strano che non gli fosse arrivata una pedata nei denti, a quel punto. Doveva essere ubriaco, o aver assunto qualche sostanza psicotropa, dell’LSD, o qualcosa di simile. Eppure non aveva mai fatto uso di droghe... al massimo fumava una sigaretta ogni tanto. Forse era stata sua madre a mettergli qualcosa nel piatto, per togliersi di torno definitivamente sia lui che Elizabeth. Essere giovane, stupido e innamorato non gli sembrava una scusa abbastanza convincente. Gli sembrava piuttosto, in quel momento, che stessero apertamente sfidando le convenzionali norme che prevedevano una convivenza pacifica tra coniugi… e lui non aveva nessuna voglia di ripetere l’esperienza dell’ultima, epica, litigata durante la quale aveva seriamente temuto per la propria incolumità. Quasi come nel periodo in cui erano stati fidanzati.

- Mi stai ascoltando? – si sentì sibilare contro. Sua moglie era dall’altra parte del tavolo della cucina, in piedi e con i palmi delle mani appoggiate sulla superficie del tavolo coperto dalla tovaglia.

- Sì, Elizabeth. Consiglierei una visita da un bravo otorino a chiunque non ti avesse sentito da qui alla Recinzione. – rispose, stancatamene.

Pessima risposta. Ma dato che la frittata è fatta, tanto valeva proseguire con la discussione.

- Che detto tra noi, se anche tu cercassi di essere un po’ più tranquilla e di moderare il tuo temperamento, probabilmente lui non si sentirebbe autorizzato a battere i piedi per qualsiasi scemenza. –

Elizabeth era evidentemente furiosa, ed anche lui iniziava ad alterarsi seriamente. Uno, perché non sopportava di discutere in quel modo davanti ai figli, secondo, perché era impossibile andare d’accordo con sua moglie. Soprattutto quando faceva così, convinta di aver ragione, e non voleva sentire ragioni di sorta.

Nel frattempo William ed Eric, mentre finivano di mangiare, si rimbalzavano occhiate che andavano dal divertito al perplesso da una parte all’altra del tavolo, ridendo e tirandosi palline di pane che a turno mangiavano o rimandavano al mittente.

Eric aveva anche fatto una specie di barriera, e aveva ideato un prototipo di catapulta con una forchetta e un tappo in sughero.

- Smettetela immediatamente. – sibilò a entrambi Elizabeth. - Eric, posa all’istante quella mollica di pane e stai composto! –

Eric intanto aveva fatto a pezzi un paio di fette di pane, e si era rifornito di munizioni per colpire il fratello dall’altra parte del tavolo, che comunque non era da meno. Udendo il rimprovero alzò gli occhi sulla madre, in un’espressione fintamente innocente; come a chiedersi cosa ci fosse che non andava bene, nel lanciarsi palline di pane a tavola mentre loro due discutevano.

- Anche Will! – ribatté, incrociando le braccia e poggiandosi allo schienale immusonito.

Thomas guardò perplesso la moglie, mentre si metteva dietro il figlio, gli infilava le mani sotto le braccia e faceva per tirarlo su. Ovviamente, la collaborazione tendeva allo zero.

Eric, una volta seduto per bene, si lasciò riscivolare in giù, facendo ridere il fratello che tuttavia lanciò un’occhiata inquieta alla madre.

- Elizabeth, lasciali fare…. – tentò, raddrizzandosi sulla sedia. Era stanco e nervoso, e non aveva nessuna voglia di riiniziare una discussione sul comportamento dei bambini.

- Non dirmi che devo fare! Solo perché tu gli consenti qualsiasi cosa, non significa che debba farlo anch’io! –

- Come, scusa?! Ti senti quando parli? Hanno quattro anni, cosa vuoi che facciano? Che si comportino come adulti? Se è così, può… - iniziò, sentendo montare la rabbia tutta insieme.

- Non ho det.. – iniziò a gridargli contro la moglie che ora gli stava di fronte, in piedi.

Pazienza esaurita.

- Fammi parlare! – urlò, a sua volta, sbattendo una mano sul tavolo.

Regnò il silenzio per alcuni secondi, durante i quali si sentì addosso lo sguardo dei bambini, sorpresi. Difficilmente si arrabbiata, specie alla presenza dei figli e ancor più difficilmente ricorreva a mezzi prepotenti come sbattere una mano sul tavolo per farsi ascoltare dalla moglie.

Il primo suono a rompere il silenzio carico di tensione che si era creato, fu un mugolio proveniente dalla sua destra, dove sedeva Eric.

Si girò lentamente verso il figlio per chiedergli cos’altro ci fosse che non gli tornava ma quando lo guardò, sentì il senso di colpa crescergli nel petto.

Eric guardava il suo piatto con gli occhi lucidi e l’aria spaventata, mentre si tormentava le mani.

Girò la testa verso la moglie, leggendole sul viso la stessa espressione incredula che doveva avere lui.

Senza perdere un secondo si accovacciò accanto al bambino, e girò la sedia verso sé stesso, in modo da portelo guardare.

- Eric? Che c’è? – chiese, posandogli le mani sulle gambe e cercando di capire cosa gli fosse passato per la testa. Non gli piaceva per niente tutta quella suscettibilità del figlio, e non voleva nel modo più assoluto spaventarlo.

Il bambino si strofinò il pugno chiuso su un occhio, evitando accuratamente di guardarlo, e poi scoppiò a piangere. Di nuovo.

- Te e la mamma litigate per colpa mia… - mugolò, singhiozzando disperato.

- Ma no, tesoro… - iniziò, prendendolo in braccio e facendosi stringere le braccia intorno al collo.

- … perché sono cattivo! – insisté, piangendo contro il suo collo.

Gli massaggiò la schiena con la mano che non lo reggeva, a disagio. Lo stesso disagio di cui sembrava essere preda Elizabeth, che al posto del solito sguardo battagliero, aveva un’espressione colpevole e si mordeva nervosamente il labbro inferiore.

Si avviò verso il soggiorno, continuando a passargli la mano sulla schiena per cercare di consolarlo.

- Non è colpa tua Eric. – lo rassicurò, scostandoselo dal collo per guardarlo; Eric sembrava in preda a chissà cosa, mentre sviava lo sguardo del padre e continuava a torcersi le mani, i lacrimoni che gli rigavano il viso.

- No? – gli chiese incerto, mentre facevano il giro del salotto e tornavano indietro.

- No. Ti ricordi quando ti ho detto che la mamma è una *femmina? – gli sussurrò in un orecchio, in tono confidenziale.

Eric annuì gravemente. Era stato quasi un trauma, quando gli aveva spiegato che la mamma non era un maschio, e si ricordava che entrambi i bambini avevano guardato storto la moglie per giorni aspettandosi chissà che cosa.

- Ecco. Vedi alle femmine…. Alle donne, bisogna voler bene e ascoltarle, ma hanno il grosso difetto di voler sempre aver ragione, anche se qualche volta hanno torto. – gli spiegò, pazientemente, senza tuttavia risparmiarsi dallo scoccare un’occhiata eloquente alla moglie.

Ogni riferimento a persone o cose è del tutto casuale.

Eric lo ascoltava attentamente, il viso corrucciato e gli occhi lucidi.

- Il problema, è che quando pensano di aver ragione, non ascoltano mai. E allora bisogna alzare un po’ la voce. –

Ogni riferimento a Elizabeth Lawrence è puramente casuale.

Eric parve riflettere un attimo sulle parole del padre, che nel frattempo aveva rifatto il giro del salotto e si era ridiretto verso la cucina adiacente, separata solo da un muretto basso.

- Allora è colpa della mamma! – decretò alla fine, quasi rincuorato, guardando la madre come a dirgli “Visto?”.

Parve rabbuiarsi mentre lo sguardo gli si faceva nuovamente pensoso. – Però, non battere più la mano su tavolo.. – gli disse, in un filo di voce, mordicchiandosi l’interno delle guance.

Nonostante l’interdizione che quella domanda aveva suscitato, sorrise al figlio. – Va bene, la prossima volta ti avviso, okay? – lo rassicurò. Eric annuì, un po’ più contento e fece per scendergli dalle braccia, ma Thomas lo trattenne. – Non vuoi proprio dirmi cosa c’è, eh? È successo qualcosa a scuola? – gli sussurrò, in modo che solo lui potesse sentirlo in orecchio. Eric scosse la testa con vigore e si riaggrappò al collo del padre, che gli baciò la testa.

Approfittando della distrazione del bambino, scoccò un’occhiata alla moglie. Dovevano parlare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quando entrò in camera, trovo il marito seduto sul bordo del letto con già i pantaloni blu scuri e la maglietta a mezze maniche del pigiama addosso. Aveva le mani intrecciate davanti a sé, e sembrava non essersi minimante accorto del suo arrivo, preso com’era dai suoi pensieri.

- Thomas? – lo chiamò, camminando verso di lui e sedendoglisi accanto, mentre si stringeva addosso la felpa che gli aveva rubato poco prima. Come facesse suo marito a stare a mezze maniche con quel freddo, lo sapeva solo lui.

L’uomo parve riemergere dall’abisso dei suoi pensieri e la guardò, mentre lei gli passava le mani intorno al braccio e appoggiava la testa sulla sua spalla.

- Tesoro? Che hai? Sei preoccupato? – chiese titubante mentre passava distrattamente le dita sulla pelle scoperta del marito.

- Un po’, - ammise. – questa.. cosa, il fatto che Eric sia così nervoso e pianga così spesso non mi piace, Liz. Hai visto come ha reagito prima? Non so come spiegarmi in modo chiaro, ma ho una strana sensazione. –

Anche lei aveva notato lo strano comportamento del figlio, che in genere non era così schizzato. Certo, era esagitato e iperattivo, ma piangeva veramente di rado.

Nell’ultimo periodo, per quando non fosse mai andato pazzo per la scuola, si inventava scuse su scuse non restare a casa… l’aveva accontentato un paio di volte, permettendo anche a William di fargli compagnia, ma la situazione stava diventato quasi esasperante. Come se lei e suo marito non ne avessero già fin sopra la testa.

A lei sembravano solo capricci, ed era convinta che fosse solo una fase. Eppure, il dubbio che Thomas avesse ragione, la tormentava.

- Pensi ancora che ci sia una causa scatenante? – chiese, mordendosi le labbra nervosamente. – Se fosse successo qualcosa di grave, ce lo direbbe no? Nessuno dei due si è mai tenuto niente dentro, e quando è capitato che avessero domande hanno sempre chiesto. –

Thomas storse la bocca; non sembrava molto convinto, ed anche a lei sembrava di starsi arrampicando sugli specchi. Eppure era convinta di quello che aveva appena detto.

- Sì, forse hai ragione. – concluse lui, dopo un attimo di silenzio.

Si sentiva un po’ rincuorata: forse davvero non c’era niente di più ed erano semplicemente stanchi e nervosi, tanto da ingigantire qualsiasi comportamento infantile. Alla fine dei conti, Eric aveva solo quattro anni… era normale che battesse i piedi, indipendente da quanto lei fosse propensa ad ascoltare e sopportare le sue bizze.

- Scusami per prima, non volevo spaventare i bambini.. –

Suo marito era un padre attento, presente e disponibile a seguire i figli in qualsiasi assurdità venisse loro in mente di fare. in genere, mentre lei preparava la cena, Thomas si piazzava in soggiorno con i figli e si prestava a qualsiasi assurdità gli venisse proposta, per quanto illogica potesse essere.

- Lo so. Forse dovremo davvero prenderci un paio di giorni di riposo, tutti e due. – sospirò, alzandosi per sedersi sulle gambe del marito e passandogli una mano tra i capelli.

Thomas annuì un po’, passandole una mano sulla schiena.

Lei lo baciò sulle labbra, accarezzandogli il collo con le dita e stringendosi un po’ più a lui.

Sentì le dita del marito passarle dietro la nuca, facendole venire la pelle d’oca, mentre in un moto di entusiasmo gli montava cavalcioni sopra, stringendogli le gambe intorno ai fianchi e spingendolo a stendersi sul materasso.

Non era sicura che fosse un granché come idea, dedicarsi a certe attività a quell’ora dato che non aveva la certezza che i bambini dormissero, ma non ebbe tempo di far presente i suoi dubbi che si sentì sollevare di peso e trascinare fino ai cuscini.

Mugolò, stringendo le braccia intorno al collo del marito, quando sentì una mano calda accarezzarle dolcemente un fianco e lui scese a baciarle il collo.

Premette le labbra sulle sue, schiudendo la bocca per approfondire il bacio, un po’ più rilassata. Aveva ragione, si preoccupava troppo di tutto. Se avesse continuato così, sarebbe diventata pazza.

Tanto valeva farsi coinvolgere e spegnere per un apio d’ore il cervello.

- Mamma! –

… come non detto.

Gonfiò le guance, la bocca ancora premuta su quella del marito che scoppiò inevitabilmente a ridere, appoggiando la fronte sul cuscino vicino alla sua testa.

Beato lui che si divertiva.

- Arrivo.. – urlò, per farsi sentire dal figlio. – e tu levati, - borbottò al marito, che la agevolò nel farlo rotolare sulla schiena.

Indispettita, afferrò uno dei cuscini che avrebbe dovuto sistemare in salotto e lo lanciò in faccia al marito, che non si mosse di un millimetro mentre lei correva dai bambini.

Entrò nella camera di William ed Eric, e per poco non le venne un colpo: Eric era seduto per terra, la schiena appoggiata al letto del fratello ed era bianco come un cencio.

Un secondo dopo era inginocchiata accanto a lui, una mano sulla fronte del bambino. Non era caldo, ma era evidente che non si sentisse bene.

- Mal di pancia.. – mugolò stringendosi lo stomaco, le gambe piegate contro il petto.

Si sedette accanto al bambino, appoggiando anche lei la schiena al letto di William, e lo invitò a sedersi sulle sue gambe. Eric gattonò fino alla madre, e si rannicchiò contro di lei il viso mogio per il malessere.

William, più agitato del solito, si accoccolò dall’altro lato, guardando preoccupato il fratellino dondolarsi sul posto.

- Vi va una tisana? – chiese a entrambi, mentre lì coccolava. – te la senti tesoro? – aggiunse, rivolta ad Eric che annuì un po’.

In quel momento si affacciò alla porta Thomas, in ciabatte. – Che succede, qui? –

- Eric ha mal di pancia.. ora gli faccio una camomilla. –

Il marito annuì. – Ci penso io. – e sparì nuovamente, diretto verso la cucina.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Si svegliò infastidita da un rumore persistente proveniente dal comodino del marito. Si passò una mano sugli occhi, per acquistare un po’ di lucidità, e puntò gli occhi grigio chiaro nella direzione del rumore: era il telefono portatile che suonava disperatamente. Forse un’emergenza all’ospedale.. eppure non Thomas non era di turno. Anche se in quel periodo, con la disorganizzazione che c’era all’ospedale, non si sarebbe sorpresa per un cambio dell’ultimo secondo.

Si avvicinò rapidamente all’uomo, scuotendolo leggermente. – Thomas? Tesoro svegliati! – lo chiamò.

Il marito aprì gli occhi, confuso. – Che c’è? – biascicò mezzo addormentato. Doveva essere proprio a pezzi, per non sentire quello squillo infernale.. considerando che aveva il sonno, in genere, più leggero del suo.

Era anche vero che avevano passato la serata con i bambini, aspettando che a Eric passasse la nausea e che William si calmasse. In tutto avevano dormito meno di tre ore, era normale che fosse stanco e meno reattivo del solito.

- Il telefono, amore! –

Thomas si girò su un fianco e afferrò, muovendo la mano a tentoni il telefono portatile. – Pronto? – disse con voce impastata. Si schiarì la voce. – Pronto?? – ripeté, con voce più chiara.

Seguirono un paio di secondi di silenzio. L’unica cosa che riusciva a sentire, da lì, era il ronzio concitato della voce dall’altro capo del telefono.

- Stavo dormento, cosa vuole che faccia alle tre e quarantacinque di notte? – rispose il marito. Seguirono altri secondi di silenzio. – Il chirurgo di turno dov’è? – chiese con voce stanca, anche se si era già alzato in piedi.

- No, ho capito. Arrivo il prima possibile, intanto preparate la sala operatoria e fate un’ecografia…. Sì, sarò lì tra massimo mezz’ora. – e riattaccò.

- Che è successo? – domandò, mettendosi a sedere mentre guardava il marito dirigersi in tutta fretta verso l’armadio e raccattare velocemente un cambio.

- Era l’ospedale. È arrivata una paziente all’ottavo mese con un sospetto distacco della placenta, e non c’è il chirurgo di turno, quindi hanno chiamato me. – spiegò sbrigativamente prima di uscire e dirigersi in bagno.

Elizabeth aspettò un po’ seduta sul letto, le ginocchia piegate davanti a sé, prima che la porta si riaprisse e suo marito entrasse vestito di tutto punto.

- Vado, ci vediamo dopo tesoro! – la salutò, avvicinandosi e schioccandole un bacio sulle labbra prima di afferrare la valigetta posata sulla cassettiera e precipitarsi fuori. Sentì i suoi passi frettolosi  passare per l’ingresso, e la porta chiudersi alle sue spalle.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

* è un riferimento alla mia one-shot “It’s Women’s Day also for you?”, che ho scritto per la “Festa della Donna” che è ambientata poco prima di questa long (sì, ho deciso di fare una cosa un po’ più lunga del previsto.)!

 

 

Eccoci qua!

Vi anticipo che ho intenzione di alternare gli aggiornamenti di Braveheart e di questa fic, quindi dovrete avere un po’ di pazienza in questo periodo super impegnatissimo!

Dunque, dunque, dunque…Cosa ne pensate del capitolo e dei genitori di Eric e Will? (Non sapete la fatica che ho fatto a scrivere sempre “William”… ma agli Eruditi non piacciono i diminutivi xD)

Ho cercato di creare a entrambi un carattere ben definito e delle caratteristiche precise, in modo che possiate avere già un’idea di loro per il momento in cui compariranno in “Braveheart”! (Spoilero ovunque! xD)

Che altro? Aspetto i vostri pareri, commenti e opinioni belle o brutte che siano! Come pensate che si evolverà la vicenda?  Io dico che qualcuno già indovina qualcosa!

Vi chiedo scusa se non ringrazio tutti come al solito ma sono di corsa, sappiate comunque che  ogni lettura, commento o inserimento tra preferite/seguite/ricordate/quellochevipare, mi sempre felice come una bambina a Natale!

 

Alla prossima,

Kaithlyn

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


 

Capitolo 3

 

 

Quella mattina, quando si era alzata, ricordandosi del malessere di Eric, aveva avuto la malsana idea di permettere a lui e al fratello, poiché nessuno dei sue faceva un passo senza l’altro, di rimanere a casa.

Il risultato di quella brillante idea era che le era toccato prendere mezza giornata per non lasciare sua suocera tutto il giorno in balia dei nipotini, che quel giorno in particolare sembravano più propensi del solito a fare baldoria. Persino William, in genere molto più posato del fratello, scorrazzava da una parte all’altra della casa seguendo Eric in ogni malefatta che quel cervellino da piccolo Erudito riusciva a concepire. Per evitare disastri, aveva preventivamente chiuso a chiave lo studio.

Aveva provato a rincorrerli, sgridarli e minacciare di metterli entrambi in punizione, ma si era anche resa conto che, forse, rinchiuderli in camera e permettendogli così di confabulare senza interruzioni non fosse una grande idea dopotutto. Inoltre quello che diceva ai due piccoli mostri, sembrava entrare dall’orecchio di uno e uscire dall’orecchio opposto dell’altro.

Si lasciò cadere sul divano, coprendosi il viso con le mani e tendendo le orecchie per captare eventuali rumori di vetri in frantumi, testate o borbottii sospetti. Thomas sarebbe tornato a momenti per il pranzo e poi si sarebbero diretti insieme verso l’ospedale, lasciando i figli con la nonna paterna… che non invidiava per nulla. Per quanto William fosse calmo e misurato, quando si metteva in combutta con Eric, la cosa più furba da fare era darsela a gambe o disporre di una paio di camice di forza formato bambino particolarmente resistenti, perché oltre ad essere indiscutibilmente attivi ed energetici, i due erano anche particolarmente ostinati in qualsiasi cosa si mettessero in testa di fare.

L’unica consolazione di quella mattinata allucinante era che Eric sembrava stare meglio ed essere un po’ più allegro, forse anche troppo, rispetto alla sera prima.

Avevano passato quasi l’intera nottata seduti sul divano in attesa che Eric si sentisse un po’ meglio, riuscendo a farli addormentare entrambi solo a notte inoltrata. Due ore dopo, Thomas era dovuto correre all’ospedale per un’emergenza, quindi sapeva già che quella sera sarebbe stato stanco e irritabile mentre le due piccole canaglie avrebbero sprizzato energia da ogni poro. Forse avrebbe voluto dirglielo.

Alla fine Thomas poteva cavarsela, si sarebbe ingegnato per gestire i piccoli in qualche modo e farli stare tranquilli, ma era comunque nervosa. Non era mai stata fuori tutta la notte da quando erano nati, un po’ perché sia lei che il marito stavano terminando la specializzazione in quei mesi, un po’ perché era stata sempre sostituita da marito e colleghi per via dei figli.

Si passò le mani sul viso, prossima all’esaurimento. Forse suo marito non aveva proprio tutti i torti del mondo quando le diceva di prendersi qualche giorno di riposo in cui preoccuparsi solo di quei due piccoli delinquenti che avevano messo al mondo. Non che da loro due potessero venire fuori due agnellini, s’intendeva, ma non credeva neanche che le sarebbero venuti due piccoli mostri geniali di quella portata.

Si tolse la felpa, rimanendo a maniche corte e cercò di rilassarsi il più possibile chiudendo gli occhi. Poi un pensiero, come un lampo, le attraversò la mente provocandole una strana sensazione d’inquietudine.

C’era un dettaglio di cui non si era resa pienamente conto fino a quel momento e che avrebbe dovuto farle immeditatamente suonare un campanello d’allarme gigantesco.

Il silenzio.

Intorno a lei regnava il più assoluto silenzio e non era mai un buon segno quando i piccoli mostri non si sentivano. Sapeva che erano capaci di essere silenziosi e scaltri nell’evitare di rendere evidente ciò che imbastivano, ma dopo il caos che avevano creato fino a mezz’ora prima, quel silenzio poteva essere sinonimo esclusivamente di due cose: o si erano addormenti, cosa di cui conoscendo i suoi figli dubitava fortemente, o avevano combinato un guaio e cercavano di rimediare nel modo più silenzioso possibile per non essere sgridati.

Cercò di captare un suono, una parola o anche il rumore di qualcosa che cascava o si rompeva, ma non percepì niente se non un leggerissimo ruscellare proveniente dal corridoio; rumore che fino a quel momento le era sfuggito, tanto era lieve.

- Eric? William? – provò a chiamarli a voce alta, senza tuttavia ricevere risposta.

Si alzò lentamente e si diresse, inquieta, verso il bagno che stava davanti alla camera dei figli. Da lì sentiva il rumore dell’acqua che scorreva nella stanza, ma niente sembrava indicare la presenza dei bambini al suo interno.  

- Ragazzi?! – ritentò, mettendo una mano sulla porta, pronta ad aprirla.

Non ottenendo risposta, provò a bussare e udì quasi istantaneamente dei movimenti all’interno della stanza.

Provò ad aprire, ma la porta era bloccata dall’interno.  – Aprite immediatamente! Eric, William! –.

Qualcuno si fermò dall’altra parte della porta. – Sì? Abbiamo da fare! – la informò quello che riconobbe come Eric. Non sembrava molto convinto.

- Apri. Adesso. – gli impose, cercando per quanto possibile di mantenere la calma. Era troppo stanca anche per arrabbiarsi e con due elementi del genere, anche mettersi a discutere diventava un’impresa.

 – No. –rispose candidamente.

Prima che potesse ribattere, sentì William dire qualcosa al fratello con voce quasi inudibile ma concitata e due secondi dopo udì la chiave che veniva sfilata dall’interno.

In quel momento fu felice che i suoi figli fossero ancora piccoli e non pensassero che, levando la chiave all’interno, lei avrebbe potuto aprire da fuori.

Si diresse con passo felpato verso la porta della stanza che condivideva con il marito, lotteggiò per qualche secondo con la serratura per sfilare la chiave e tornò davanti alla porta del bagno.

Inserì la chiave nella serratura e la fece scattare lentamente, ma qualcosa, alla base della porta, ne ostacolava l’apertura. Facendo maggior pressione riuscì a entrare e lo spettacolo che si ritrovò davanti la lasciò per un attimo senza parole, impalata sull’ingresso della stanza dalle pareti chiare.

Lo specchio alla sua destra era completamente appannato e la vasca alla sua sinistra traboccava d’acqua che si stava riversando sul pavimento, sommergendo il tappeto bianco e azzurro davanti al lavandino, dal quale scendeva una sorta di cascata di acqua a schiuma. Capì cosa aveva fatto da ostacolo alla sua entrata, quando si sentì infradiciare le ciabatte e i piedi: a quanto pare, per evitare che l’acqua allagasse tutta la casa, i suoi adorabili figlioletti, avevano piazzato alcuni asciugamani davanti allo spiraglio della porta, mentre gli altri, accappatoi compresi, erano ridotti a dei cumuli di tessuto fradicio per il bagno.

Sul pavimento erano sparsi disordinatamente il bagnoschiuma e diversi campioncini per il bagno e, notò con orrore, le pareti erano imbrattate di rossetto. C’era anche un forte odore che le ricordava il suo profumo nell’aria, ma non aveva idea da dove provenisse.

Al centro della stanza, bagnato dalla testa ai piedi, William la guardava dal basso verso l’alto con aria colpevole e con le mani dietro la schiena. Il fratello invece era seduto nell’acqua, in fondo alla stanza, poco più indietro rispetto al lavandino, completamente bagnato dalla testa ai piedi anche lui e con le maniche della maglietta tirate fino al gomito. Sembrava si fosse immobilizzato in quella posizione, con le mani leggermente protese in avanti di fronte al mobile in cui teneva i prodotti da bagno. Notò con incredulità che a tutti i rubinetti mancavano le manopole.

Non era possibile. Non potevano essere due bambini di quattro anni. Che cosa avrebbero fatto a dieci, a quindici? Dato fuoco a tutta la casa?

Si portò le mani sul viso, incapace di dire qualcosa di fronte a quel disastro e alternò un paio di volte lo sguardo tra i figli. – Perché? – esalò, senza neanche prendersi la briga di alzare la voce.

I bambini si scambiarono un’occhiata, come a cercare la risposta nel viso dell’altro e tornarono a fissarla.

Entrò del tutto nel bagno e si diresse verso la parete, fortunatamente fino a una certa altezza mattonellata, per recuperare i suoi trucchi distrutti. Trovò anche la fonte del profumo: in terra c’era una boccetta trasparente, con il tappo di un viola chiarissimo, in frantumi. Il suo profumo, appunto.

- Quello è caduto per sballio… - si giustificò William, andandole accanto per osservare il danno.

- Zitto. Appena tornerà vostro padre faremo due chiacchiere... – lo zittì, secca.

Si voltò verso Eric, ancora inginocchiato a terra davanti al mobile da bagno, e assottigliò lo sguardo. – E tu, - sibilò, - tira immediatamente fuori le manopole dei rubinetti o ti giuro, Eric Turner che resterai in punizione fino al Giorno della Scelta! – concluse furente di rabbia, all’indirizzo del figlio che parve pensare un attimo al da farsi.

In quel momento sentì la porta dell’ingresso aprirsi e il saluto del marito affievolirsi di botto nel costatare che in casa sembrava non esserci nessuno.

- Siamo in bagno, Thomas! Vieni a vedere cosa hanno combinato i tuoi figli. – urlò, per farsi sentire facendo due passi indietro per affacciarsi alla porta che dava sul corridoio.

S’incrociarono sull’ingresso. Nonostante fosse vestito di tutto punto, esattamente uguale a come l’aveva visto quando era uscito di casa in piena notte, aveva un’aria profondamente stanca.

Si sporse oltre la sua spalla e scandagliò senza particolare interesse il disastro, soffermandosi solo un paio di secondi in più sui figli, rimasti impalati nelle stesse posizioni.

William, intercettando lo sguardo del padre si morse la bocca e lo guardò dal basso verso l’alto la sua miglior espressione innocente. Thomas spostò lentamente e senza nessuna particolare espressione lo sguardo su Eric che, nel frattempo, aveva aperto il mobiletto e sembrava alla ricerca di qualcosa.

- Cosa stai cercando, tesoro? – sibilò Elizabeth, seguendo i movimenti del bambino che, intanto, si era piazzato davanti al mobiletto dei prodotti da bagno e si stava infilando con la testa dentro il mobile.

Sentirono il rumore di qualcosa di metallico che cozzava e si scambiarono uno sguardo stanco.

Suo marito scosse la testa e si appoggiò allo stipite della porta, massaggiandosi gli occhi con una mano da sotto gli occhiali. Sembrava esausto, prosciugato di ogni energie e ne era la riprova il fatto che ancora non avesse commentato l’operato dei figli.

Eric li guardò innocentemente dal bordo superiore dello sportellino aperto. – Niente, mamma. – affermò tranquillamente.

- Dopo acciugamo. – aggiunse William, riferendosi al pavimento, come se quello mettesse a posto le cose e loro fossero liberi di andarsene come niente fosse.

Si passò le mani sul viso. –Siete in punizione. – decretò, guardandoli severamente, la voce calma e misurata. – E non solo asciugherete tutto, ma rimetterete ogni cosa al suo posto prima che arrivi la nonna, che non deve durare fatica a rimediare a un guaio che avete combinato voi. –

Gli occhioni grigi di Eric riapparvero, vigili, dal bordo superiore dello sportellino. – In punizione? Niente ccuola? – chiese, evidentemente speranzoso.

Rise, con una nota d’isteria nella voce. - No, certo che no. Andrete a scuola e passerete anche il pomeriggio al doposcuola, senza polemiche per tutto il resto dell’anno, esclusa l’eventualità che uno di voi prenda la febbre. – assicurò, intransigentemente.

Eric assunse un’espressione contrita. – Papà? – chiese, girandosi insieme al fratello a fissare il padre che, fino a quel momento, non aveva detto una parola.

L’unica cosa che ottenne fu un’occhiata severa, di quelle che gli riservava esclusivamente quando non aveva più la pazienza per assecondarli.

Nonostante lei si arrabbiasse molto di più e avesse un livello di sopportazione decisamente inferiore a quello del compagno, i figli erano molto più ubbidienti con lui che con lei e quando il padre li guardava così, in genere, si limitavano a ubbidire senza storie, consapevoli di aver raggiunto il limite massimo.

- Non guardatemi così. Avete sentito la mamma. – decretò, fissandoli severamente.

Vide Eric deglutire e aggrapparsi con le dita di entrambe la mani al mobiletto. – Che c’è che non ti convince, Eric? – gli chiese Elizabeth, assottigliando lo sguardo e mettendosi le mani suoi fianchi.

- Non vollio andare a ccuola. E neanche Will deve. – asserì, con una convinzione, quasi fosse lui a decidere chi faceva cosa.

Inarcò le sopracciglia. – Questo non lo decidi te, signorino. –

- Ma… -

Alzò una mano per zittirlo, mentre Thomas andava, o almeno sperava stesse andando, a prendere degli asciugamani. – Era la mia ultima parola. –

Il bambino si morse il labbro, in silenzio, e la guardò con gli occhioni grigi spalancati e il labbro inferiore sporgente.

Scosse la testa. – Non ci provare nemmeno. Hai sentito tuo padre, no? -.

Eric abbassò gli occhi e corrugò le sopracciglia come se fosse sul punto di scoppiare in lacrime. Poi si alzò, sbatté con forza lo sportello del mobiletto e le passò accanto urtandola, prima di correre in camera sua.

Si girò per riprenderlo, ma lo trovò con il sedere per terra, davanti al marito che tornava con alcuni asciugamani in mano. – Eric. Dove vai così di fretta? – gli chiese lui porgendogli una mano per aiutarlo ad alzarsi.

Eric, con grande perplessità sia da parte sua che del padre, allontanò la mano con uno schiaffo e corse nella camera che divideva con il fratello.

Lei e il compagno si scambiarono uno sguardo stranito, lui con la mano ancora protesa verso il basso e lei in piedi davanti alla porta del bagno.

- Eric? – lo chiamò, alterata dal comportamento del bambino, avviandosi dietro di lui.

- Aspetta. – mormorò Thomas, afferrandola per un braccio per impedirle di raggiungere il bambino.

Lo guardò incredula: sapeva che l’uomo che aveva sposato era estremamente tranquillo, equilibrato e acuto, eppure non era mai stato molto tollerante con certi comportamenti. Che sapesse qualcosa in più di lei?

Thomas sembrava pensoso, concentrato su chissà cosa, con la stesse espressione che avrebbe avuto se si fosse trovato a analizzare qualcosa di particolarmente complicato e a metterne insieme i pezzi.

Finalmente le lasciò il braccio. – Prendi questi, - le disse, porgendole degli asciugamani puliti. – Torno subito. –

Lo osservò, ancora confusa, sparire nella camera dei bambini, mentre lei restava in mezzo al breve corridoio come un’idiota con gli asciugamani tra le braccia.

Si sentì tirare per i pantaloni e abbassò lo sguardo. – Sì? –

William le fece un sorrisetto di scuse dal suo metro scarso di altezza e le strinse le gambe.

- Non fare il ruffiano come tuo fratello, non funziona. – lo avvertì, scoccandogli un’occhiata risentita e chinandosi davanti a lui per avvolgerlo nell’asciugamano.

- Ho fame! – comunicò il bambino, mentre gli strofinava i capelli per cercare di asciugarli il più in fretta possibile.

- Se tu e tuo fratello non aveste allagato tutto il bagno, fatto a pezzi i miei cosmetici, dipinto le piastrelle con i miei rossetti e non vi foste conciati in questo modo, saremo già a tavola da un bel po’. – lo riprese con stizza, sfilandogli la maglietta e asciugandolo anche addosso.

- Dimmi una cosa: perché questo disastro? – chiese severamente dopo alcuni secondi di silenzio durante i quali William si era fatto passivamente asciugare senza tante storie.

Il bambino sorrise, - Volevamo fare una piscina! – spiegò, guardandola come se avesse dovuto fargli un applauso seduta stante per la splendida e innovativa trovata.

- In bagno? – domandò, stringendo appena le labbra.

- Sì! In camera no c’è l’acqua. – mormorò, come se fosse una cosa riprovevole.

Eccellente, quindi il piano originale era quello di allagare la camera. Buona a sapersi, ne avrebbe tenuto conto, magari sigillando, da quel momento, tutte le stanze.

- E ti sembra una cosa logica da fare? – chiese incredula, sfilando anche i pantaloncini del bambino e asciugandogli le gambe.

William corrugò le sopracciglia, pensoso, proprio come faceva sempre suo marito quando non gli tornava qualcosa. – No. Ma è divettente!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

- Eric? – lo chiamò, entrando silenziosamente nella camera e individuando raggomitolato sotto le coperte.

- No. – rispose da sotto il fagotto di coperte che si era creato.

Raggiunse l’impalcatura del letto a castello e lo osservò dalle sbarre orizzontali che delimitavano il letto superiore.

-‘No’, cosa? – chiese pacatamente, passando una mano su quella che, al tatto, gli sembrava la schiena.

Eric si ritirò un po’, prima di rigirarsi sotto le coperte. Dopo qualche secondo face capolino da sotto la coperta, disfando lateralmente il letto e affacciandosi appena, i lenzuoli tirati fin sopra il naso.

- Non vollio andare a scuola. – ripeté, senza muovere un muscolo e guardandolo fisso.

Annuì. - Mmh... posso salire? – chiese, mentre metteva giù la scaletta, portandosi avanti.

Una massa di capelli neri tutti scompigliati uscì dalle coperte e fece un cenno di diniego, prima di sparire nuovamente.

Era certo che ci fosse qualcosa che non andava. Non tanto in Eric, quanto nel suo comportamento: era sempre stato, per certi versi, più introverso del gemello. In genere quando c’era qualcosa che non gli tornava diventava taciturno piuttosto che chiedere chiarimenti, come invece faceva William, a lui o alla madre. Nonostante questo, aveva la sensazione che ci fosse altro: aveva pensato che le coliche che aveva avuto recentemente fossero a causa della sua scarsa propensione ad andare a scuola o che fossero causate dal fatto che andava poco d’accordo con gli altri bambini e che lo escludessero per questo. Poteva essere una teoria valida, ma nelle ultime due settimana la situazione aveva iniziato a degenerare: negli ultimi tre giorni era diventato quasi inappetente, oltre che bizzoso e arrabbiato con tutti. L’unico che sembrava essere sulla stessa lunghezza d’onda era William, che riusciva a interpretare gli atteggiamenti ambigui del fratello.

Aveva provato a parlarne con Elizabeth, ma non erano addivenuti a nulla se non a lunghe discussioni sul tempo che riuscivano a trascorrere con i bambini e sulle evidenti inclinazioni poco erudite di Eric che sua moglie si rifiutava di vedere. Era normale che ci soffrisse, che non volesse che uno dei due, un giorno, si allontanasse da lei, era naturale, ma era anche altrettanto giusto assecondare il bambino. Così gli avevano insegnato, e così stava facendo con i suoi figli: ognuno ha le proprie attitudini, anche tra gli Eruditi, e ogni attitudine si sviluppa in modo diverso. Ne consegue che ogni individuo ha esigenze differenti e metodi di ragionamento propri.

Era la stessa ragione per cui tutte le sere, indipendentemente dal fatto che ritenesse quello che avevano in mente i figli produttivo o meno, si metteva in salotto e li assecondava. Certo non si divertiva a trent’anni a fare i castelli con i cubetti o a leggere un libro fin troppo colorato e con cellule parlanti, ma lo faceva…

Un tonfo sordo e metallico lo distrasse dai suoi pensieri, seguito da un mugolio sofferente.

- Ahi… - mormorò una vocina sottile da sotto le coperte.

Arrivò davanti al punto in cui, teoricamente, avrebbe dovuto trovarsi testa e bernoccolo del bambino e scostò le coperte.

Eric riemerse e si mise impacciatamente a sedere con le gambe incrociate, tenendosi la testa con entrambe le mani, le dita infilate tra i capelli e gli occhi lucidi.

Scosse appena la testa e lo tirò giù dal lettino, infilandogli le mani sotto le braccia e mettendolo a terra senza sforzo. Scostò con delicatezza i capelli, osservando il punto in cui doveva aver battuto e premette appena.

- Ahi! – protestò Eric, guardandolo corrucciato.

- Scusa, - mormorò, - volevo vedere dove hai battuto. –

Eric non sembrò molto convinto ma annuì e fece per riarrampicarsi sul letto. La fuga durò meno di un paio di secondi, perché non appena Thomas si accorse del tentativo di ritirata del bambino lo riprese di peso e lo fece sedere sulle sue gambe.

Eric si divincolò. – Su! – protestò, incrociando le braccia e cercando, nel contempo, di liberarsi, inutilmente.

Per evitare ulteriori discussioni, lo afferrò per l’ennesima volta da sotto le braccia e lo mise a sedere sul bordo del letto superiore. Il bambino parve soddisfatto da quella piccola vittoria, anche se aveva ancora l’aria cupa e pensosa.

- Non muoverti, torno subito. – mormorò, prima di uscire e tornare nel corridoio a prendere alla moglie l’altro asciugamano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Eric aspettò nervosamente che il padre tornasse, dondolando le gambe oltre il bordo del letto e cambiando posizione alle braccia in continuazione. Non sapeva come mettersi e non riusciva a stare comodo in nessun modo. E iniziava fargli male la pancia, di nuovo.

Si massaggiò il ventre, mentre iniziava evidentemente a diventare ansioso per il mancato ritorno del padre.

Stava quasi per scendere da dove gli era stato ordinato di rimanere, quando la porta si riaprì e richiuse rapidamente e fu avvolto in un asciugamano pulito. Aveva un buon profumo. Gli ricordava quello della mamma, anche se si arrabbiava sempre con lui.

Forse aveva ragione quel signore, quando gli diceva quelle cose.

Quei pensieri tristi e l’espressione preoccupata di suo padre gli fecero venire voglia di piangere di nuovo, anche se non gli piaceva.

Però, se si fosse messo a piangere, forse, il suo papà avrebbe convinto la mamma a non farli andare, a restare a casa. Avrebbe fatto anche il bravo.

Abbassò gli occhi, prima di sentire la mano calda dell’uomo posarsi al lato della sua testa e accarezzargli piano i capelli. – Eric, che c’è che non va? – gli chiese, guardandolo in quel modo.

Quando lo guardava così lo metteva un po’ in soggezione. Più della mamma, perché lui era meno severo di lei, quindi quando li guardava in quel modo dovevano comportarsi bene. Era meglio.

Sentì le labbra tremolargli e lo stomaco contorcersi di nuovo, chiuso.

- Non… - iniziò, debolmente, guardando con diffidenza il genitore.

- Non? – lo incalzò incoraggiandolo con un cenno del capo.

Eric fece un bel respirone profondo, come quando era nervoso ma sapeva di doversi calmare per fare qualcosa. Si tormentò le mani, stringendosi le dita.

Tirò su con il naso, mentre gli saliva un nodo alla gola. – Non mi piace. – boccheggiò, passandosi l’asciugamano che aveva sulle spalle sugli occhi brucianti di lacrime.

Non gli piaceva piangere. Ancora meno, davanti a suo padre. Lui era grande.

- Per quale ragione? –lo spronò, mentre gli spostava i capelli bagnati dal viso e gli passava con delicatezza l’asciugamano addosso per asciugarlo.

Eric non rispose, ma quando suo padre gli coprì la testa con l’asciugamano, come se fosse stato una mantellina e i capelli gli finirono sugli occhi, sentì il nodo che prima aveva allo stomaco risalirgli in gola.

Si portò immediatamente le mani stretta a pugno ad asciugarsi gli occhi, mentre un smorfia gli increspava le labbra.

- Ehi... – gli mormorò suo padre, passandogli i pollici delle mani calde sotto gli occhi. – Che c’è? -.

Eric sentiva il labbro inferiore tremare e la vista ormai era appannata di lacrime. Tese le braccia verso il padre, mentre un singhiozzo gli si gonfiava nel petto.

Quando si sentì abbracciare e fu aggrappato al petto del padre, il viso nascosto nel suo collo, scoppiò a piangere.

Non sapeva neanche lui perché piangeva. Forse perché gli veniva e basta e si sentiva triste. Non voleva tornare lì. Voleva restare a casa, dove c’era la sua mamma che però non era arrabbiata con lui.

La mano calda di suo padre sulla schiena era confortevole e il massaggio lo faceva stare un pochino meglio, ma non gli stava facendo passare la voglia di piangere.

- No... no vollio… - singhiozzò disperato, aggrappandosi con tutte le sue forze al padre, che gli accarezzò i capelli, mentre lo dondolava, e gli diede un bacio sulla testa.

- Eric? – lo chiamò, piano, staccandoselo dal collo e guardarlo severamente.

Eric deglutì, anche se non il suo papà non sembrava arrabbiato con lui.

Thomas strinse le labbra, cercando le parole giuste da dire. – Lo sai che puoi dire tutto a me e alla mamma, giusto? – chiese, passandogli un pollice sulla guancia e sedendosi sul lettino inferiore.

Eric annuì un po’, appoggiando la testa sulla spalla del genitore. Gli stava tornando mal di test e non voleva parlare.

 

 

 

 

 

 

 

 

- È successo qualcosa a scuola? Qualche compagno con cui hai litigato, un’insegnante con cui non ti trovi bene…? – azzardò, alzandosi per prendere dei vestiti puliti.

Eric abbassò gli occhi e fece spallucce.

- Allora? – lo spronò, con un velo d’impazienza.

Eric si guardò nervosamente intorno. – Le maettre… io non gli piaccio. – mormorò, ritirando le gambe contro il petto e circondandosele con le braccia.

- A no? E cosa te lo fa pensare? -.

- Ho sentito che dicevano, di me, che sono ttrano e che volevano che io, no Will, solo io, andassi via presto. Con te o con mamma. – spiegò incespicando nelle parole.

Avrebbe dovuto far passare un brutto quarto d’ora alle insegnati, in quel caso dato che aveva già avvertito del carattere insicuro del bambino.

- E.. – aggiunse, prima che potesse interromperlo. – anche gli attri bambini… -.

Assottigliò lo sguardo. – Sicuro? Nient’altro? – insistette, mentre lo metteva in piedi e iniziava a sfilargli i vestiti per cambiarlo.

Il bambino annuì, forse un po’ troppo vigorosamente.

- D’accordo. Vado a vedere se la mamma e William hanno… che c’è? -.

Eric sembrava nuovamente nervoso mentre si guardava intorno con aria preoccupata.

- Papà? -.

- Sì? -.

- Non dire a mamma che ho pianto… - mormorò Eric.

Thomas aggrottò le sopracciglia, per un momento spaesato. – Perché? Non c’è niente di male a… - disse. Eric scosse la testa con vigore, mantenendo lo sguardo sul padre e facendo oscillare i capelli davanti al viso.

- Si arrabbia sempre. –

Avrebbe dovuto fare due chiacchiere anche con sua moglie.

Eric gli trotterellò dietro con poco entusiasmo fino alla porta del bagno.

- Era l’ora! Dove eravate finiti voi due? – proruppe Elizabeth, alternando lo sguardo dall’uno all’altro un paio di volte.

Sua moglie era intenta a cercare, a quanto pare, di asciugare il pavimento e togliere i graffiti di rossetto dalle piastrelle. Era stata una fortuna che non se la fossero presa direttamente con il muro rimbiancato da poco. Sembrava ancora nervosa, anche se meno rispetto a qualche minuto fa: s’infiammava velocemente tanto quanto sbolliva.

- Abbiamo fatto due chiacchiere – disse in tono ricco di sottintesi.

Sua moglie si girò a guardarlo in faccia e scosse appena la testa non comprendendo il significato nascosto in quell’affermazione e incitandolo a spiegarsi.

Gli fece cenno che glielo avrebbe spiegato più tardi, quando non ci fossero state orecchie scomode nei paraggi. Lei annuì con poca convinzione prima di osservare Eric seminascosto dietro le gambe del padre.

- Che fai lì dietro? È inutile che mi guardi con quel visino tenero… no, non provare a farmi “labbrino”, domani facciamo come dico io e senza discussioni! – disse, mentre Eric, dietro le sue gambe, rifilava una serie di espressioni da cane bastonato alla madre.

Il bambino alzò la testa verso di lui e lo fissò, prima di scuotere la testa, come a dire che almeno ci aveva provato.

- Metti il Delinquente a tavola, io finisco qua, mi lavo le mani e arrivo! –.

- Hai già fatto tutto? – chiese, colpito.

Elizabeth scosse la testa. – Certamente, per chi mi hai presa? Non sono mica un uomo! – lo rimbeccò, mentre si alzava e, tamponandosi con un asciugamano li sorpassava e andava a infilarsi nella loro camera.

- Che vuol dire? – domandò Eric tirandogli i pantaloni con espressione interrogativa.

- Non preoccupartene ora, né avrai tutto il tempo più avanti! – lo liquido, prima di dirigersi verso la cucina seguito dal bambino, sempre più perplesso.

In quel momento, qualcuno suonò al portone.

Si diresse verso l’ingresso e aprì e, senza avere il tempo di dire nulla, si ritrovò la madre in casa. – Ciao mamma. Pranzi con noi? – chiese, richiudendo il portone, mentre la donna posava il cappotto all’attaccapanni.

- No tesoro, ti ringrazio ma ho già pranzato. Siete un po’ in ritardo? Posso fare qualcosa? -. Domandò dandogli un bacio su una guancia ruvida.

Scosse la testa. – No, vai a sederti… anzi, Elizabeth ed io siamo già in ritardo. Ti dispiace pensare ai bambini? Noi prendiamo qualcosa per la strada. – si corresse guardando l’orologio che portava al polso.

Sua madre annuì. – Ma certo caro, non preoccuparti. Elizabeth? È a cambiarsi? – indagò, sorridendo a Eric, ancora attaccato alla stoffa dei suoi pantaloni.

- Ciao Eric. Cos’è quella faccia? – gli chiese, avvicinandosi e prendendolo in braccio. – È successo qualcosa? – aggiunse, rivolgendosi a entrambi.

Eric guardava la nonna con gli occhioni spalancati, vagamente preoccupato, ma scosse la testa. – Stai male tesoro? Papà mi ha detto che hai un po’ di mal di pancia ultimamente… vuoi un po’ di risino? – chiese, dolcemente, massaggiandogli la schiena.

Il bambino scosse la testa e si aggrappò al collo della nonna.

Forse un po’ di svago gli avrebbe fatto bene e, se conosceva un po’ sua madre, nel pomeriggio gli avrebbe portati al Parco.

Sua madre gli rivolse un’occhiata attenta. – C’è qualcosa che devo sapere, per oggi? Devono fare qualcosa in particolare come dei compiti… -.

- No. – rispose fin troppo velocemente Eric, guardando seriamente la nonna.

Lei rimase per un attimo interdetta e fissò il nipotino, prima di voltarsi verso di lui e chiedere conferma.

- Solo i compiti. – confermò, consapevole che, una volta che sua moglie avesse scoperto che aveva deliberatamente omesso il castigo dei figli l’avrebbe fatto dormire sul pianerottolo per settimana.

Forse sarebbe riuscito a trattare una riduzione della pena, se avesse fatto presente alla donna che, recludere i bambini in casa, a quell’età, equivaleva alla distruzione della casa.

Sì, poteva essere un buon compromesso, tutto sommato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

- Nonna! Nonna! –

Abbassò gli occhi azzurri sul nipotino e si scostò un ciuffo di capelli castani strati di grigio dietro l’orecchio, mentre il bambino la scrutava seriamente dal basso con l’aria di chi pretende qualcosa. – Sì, tesoro? – chiese, smettendo di asciugare il ripiano della cucina.

Il bambino incrociò le braccia. – Abbiamo finito! – dichiarò annuendo.

Tese le labbra in un sorriso e gli passo una mano sui capelli scuri. – Mi sembra il minimo, dopo il disastro che avete combinato tu e tuo fratello. Avete da fare qualcosa per la scuola? – chiese, tornando a passare l’asciughino.

Vide con la coda dell’occhio il nipote storcere la bocca in una smorfia scocciata. - Sì… ma non mi va! – disse, alla fine con risoluzione.

- Male! -.

Ritornò a fissare il bambino e la sua espressione amareggiata. – Non guardarmi in quel modo, fila a fare i compiti insieme a tuo fratello e non tornare in qua fino a quando non avrai finito. – insistette, sospingendolo con delicatezza verso l’ingresso.

Come se non l’avesse neanche sentita, il bambino si morse il labbro inferiore e inarcò le sopracciglia, portando le mani dietro la schiena in un atteggiamento che aveva il chiaro intento di suscitarle tenerezza.

Sospirò, rassegnata. – Sei tremendo… - borbottò tra sé, prima di voltarsi e guardarlo seriamente ma senza poter evitare di sorridere appena. – D’accordo Eric, facciamo così: tu ora vai a finire quello che hai da fare ed io dopo vi porto al Parco. Che dici? -.

- Ma la maestra ha detto che lì doveva fare solo chi vuole! Non siamo con i bambini dei livelli grandi! – protestò, corrugando le sopracciglia e abbandonando l’espressione tenera di poco prima.

- Immagino tesoro, ma tu sei un Erudito e più impari fin da subito, meglio ti troverai più avanti, capisci? E ora fila di là... – disse, sospingendolo verso la stanza che divideva con il fratello.

Eric annuì un pochino. – Va bene, ma poi voglio giocare al Parco! – decretò, guardandola sospettoso, come se temesse di non giungere a un accordo.

- Va bene. Ma prima… -.

Lo guardò mentre si dirigeva, imbronciato e contrariato per la sconfitta, verso la camera che condivideva con il fratello.

Posò il panno che aveva usato per asciugare il ripiano della cucina e si diresse verso il bagno.

Forse, considerando il temperamento del nipotino, era più saggio prendere una cassettina del pronto soccorso e portasela dietro: l’ultima volta che aveva azzardato a uscire con i nipoti, Eric si era quasi rotto una gamba arrampicandosi su un albero e non teneva particolarmente a ripetere l’esperienza.

Suo figlio e la moglie erano fin troppo impegnati e a lei faceva piacere occuparsi dei nipotini… per quanto fossero agiatati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Infilò le chiavi nella toppa della serratura ed entrò, affacciandosi all’ingresso per controllare se c’era ancora qualcuno in casa. Di suocera e figli, neanche l’ombra. Sgusciò in casa e richiuse, accompagnando con la mano la porta d’ingresso. Poi, il più silenziosamente possibile, si diresse verso il bagno che la mattina i figli si erano divertiti ad allagare senza la minima considerazione per lei e suo marito. Quando entrò, sentì un moto di gratitudine per la madre di suo marito, che per quando alle volte fosse invadente e logorroica la aiutava molto più di quanto avrebbe dovuto; la stanza era asciutta e in perfetto ordine, forse anche più di come l’aveva lasciata lei prima dell’allagamento ed erano stati cambiati tutti gli asciugamani.

Dopo un’ultima occhiata di perlustrazione si diresse verso la stanza che condivideva con il marito. Camminò fino alla cassettiera, dove appoggiò la borsa prima di sfilarsi il cappotto leggero.

Si tolse le scarpe con un moto di sollievo, le afferrò con due dita e le infilò nella scarpiera marrone chiaro situata dietro la porta della stanza, prima di lasciarsi cadere sul letto.

Finalmente.

Solo al pensiero di dove tornare indietro, si sentiva male.

Si rimise seduta, avvertendo un certo fastidio dietro la nuca. Con una smorfia intrisa di stanchezza portò le mani dietro la testa e sciolse i capelli, passandoci poi le dita per districare eventuali nodi e massaggiarsi la nuca dolorante per la costrizione del fermaglio.

Si passò le mani sui pantaloni scuri mentre si sgranchiva il collo indolenzito, prima di lasciarsi nuovamente cadere all’indietro, lasciando che i capelli formassero un ventaglio nero intorno al viso pallido.

Restò per un po’ così: stesa, con le gambe piegate oltre il bordo del letto e le mani sulla pancia a bearsi del silenzio e della tranquillità che regnavano in casa.

Ogni tanto sentiva la mancanza del periodo in cui erano solo lei e Thomas. Le mancava il silenzio, la tranquillità di poter fare le cose senza fretta, di potersi prendere tutto il tempo per alzarsi la mattina o decidere di rimanere a letto, abbracciata all’uomo che aveva sposato a sonnecchiare e fare l’amore. Le due pesti avevano stravolto completamente la quotidianità cui erano abituati, ma né lei né suo marito sarebbero mai voluti tornare indietro, per niente al mondo.

Mentre rimuginava, sentì le palpebre diventare improvvisamente pesanti e, lentamente, scivolò nel sonno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un gran trambusto, fuori della porta, annunciò il rientro dei bambini e della suocera.

Elizabeth era in piedi, davanti ai fornelli, intenta a mettere insieme la cena in modo che suo marito non avesse anche da compiere l’ardua impresa di sfamare i piccoli mostri. Non sarebbe sopravvissuto dopo quindici ore di turno.

Aggirò la tavola, pulendosi distrattamente le mani su un panno asciutto. Doveva ancora ricominciare a connettere, dopo aver passato un paio d’ore a letto nel pomeriggio.

Fece giusto in tempo ad allontanarsi dalla cucina quel tanto che bastava per ritrovarsi davanti al portone d’ingresso, prima di venire travolta da una piccola sagoma vestita di blu.

- Mamma! Ciao! La nonna ci ha portati al parco! – esclamò Eric, guardandola dal basso e stringendosi alle sue gambe. Quella era un’abitudine venuta da chissà dove che avevano entrambi sia con lei sia con Thomas.

Squadrò il bambino dalla testa ai piedi, notando che la maglia blu aveva abbandonato la tinta unita per convertirsi al maculato.

- Davvero, tesoro? Non mi dire… e pensare che siete pure in castigo! - mormorò ironicamente cercando di capire di cosa esattamente, fossero quelle macchie.

Eric doveva essersi letteralmente rotolato in una pozzanghera, perché non avrebbe saputo in quale altro modo spiegarsi i capelli irrigiditi dalla melma e sparati in ogni direzioni e le condizioni di abiti e viso.

Sotto lo strato marrone sembrava leggermente graffiato sul viso, ma non poteva esserne certa. Non finché vedeva, a conti fatti, solo gli occhi del bambino.

- Ciao Elizabeth! – la salutò la suocera, raggiungendola seguita da William.

La madre di Thomas aveva ancora l’aria giovanile di quindici anni prima, quando si erano conosciuti, e in gioventù doveva essere stata piuttosto carina.

 – Mi spiace per come si è ridotto Eric… - esordì, -e non ero a conoscenza che non avessero il permesso per uscire, essendo in punizione. Thomas mi ha detto che avevano da fare solo i compiti e così è stato. Gli ho anche preso un pensierino! – si giustificò.

- Non si preoccupi, ci saremo fraintesi. – la rassicurò, mentre si appuntava mentalmente di piazzare cuscino e coperte sul divano.

Avrebbe voluto vedere la sua faccia nel momento in cui si fosse reso conto, senza che lei lo avesse avvisato, di dove pensare ai bambini.

Elizabeth riabbassò gli occhi sul bambino notando con orrore crescente che in terra, tra i suoi piedi e quelli del figlio, c’era un bel pallone che un tempo doveva essere stato bianco. O almeno credeva.

Eccolo, in pensierino che avrebbe distrutto la casa.

Eric si chinò a raccattarlo e se lo tenne contro la pancia con aria soddisfatta, come fosse un trofeo.

Sua suocera aveva appena firmato la loro condanna.

Notò che su un lato del collo c’erano alcuni taglietti e riuscì a scorgere, dopo averlo osservato per diversi secondi, anche altre lesioni leggere sparse su viso e mani del bambino. Doveva essere caduto più volte o, ancora più probabilmente, la piccola mente diabolica aveva pensato bene di buttarsi in un cespuglio di rovi nel tentativo di far aumentare i capelli bianchi di sua nonna. E i suoi. Se avesse continuato così, si sarebbe ritrovata nel giro di cinque anni a sembrare un’ultraottantenne.

Quando incrociò il suo sguardo, Eric le rivolse un sorriso a ventotto denti* intriso di tanto entusiasmo e felicità da farle stirare le labbra di riflesso. Era strano vederlo tanto allegro, ma era esattamente così che sarebbe dovuto essere ogni giorno.

- Hai visto mamma? – le chiese saltellando un po’ sul posto, quasi non riuscisse a contenere la contentezza dirompente del momento. – la nonna mi ha preso il pallone! -.

- Sì… sì, tesoro lo vedo… - disse, passandogli il pollice sulla guancia chiazzata di terra. – ehm… bello! – aggiunse, per dargli soddisfazione e non smorzare tanto raro entusiasmo.

- Io ho un libro! – intervenne William, presentandosi con un libro di scienze, a giudicare dalla copertina colorata, semplificato per i figli piccoli degli Eruditi.

- Wow! Oggi avete fatto acquisti… come mai? – chiese in tono sorpreso, mentre William si avvicinava al fratello risparmiandosi, però, dal toccarlo. Era veramente in delle condizioni pietose.

- Sono stati bravi, ed ho pensato di premiarli! – intervenne Rose, tirando un pizzicotto sulla guancia di William.

- Davvero? – chiese, sorpresa.

Strano.

- Mamma! – la chiamò Eric tirandole, e imbrattandole, la camicia bianca con le mani sporche di terra.

– Sì? – chiese titubante, temendo già la prossima richiesta del bambino.

L’ultima volta che Eric aveva avuto tra le mani un pallone, aveva fatto più danni della grandine sia in casa che per strada e per quel che la riguardava non ci teneva particolarmente a ripetere l’esperienza, dato che tra i danni fatti dalla piccola peste, figurava anche la vetrata del soggiorno che portava sulla terrazza e il vetro della macchina di uno dei condomini che aveva avuto al sventurata idea di lasciarla proprio sotto il loro terrazzo. Era stata una fortuna che non ci fosse nessuno all’interno, o i danni sarebbero stati molto più seri di un vetro in frantumi e una banale discussione tra condomini.

- Dopo giochi con me? -.

Ecco, appunto.

- Tesoro, io dopo non ci sono. Stasera resto all’ospedale… - iniziò, appoggiandogli le mani su viso e passandogli i pollici sulle guance sporche di terra.

Eric corrugò le sopracciglia, perplesso. – E noi cosa facciamo? – chiese, storcendo un po’ la bocca e imbronciandosi mentre spostava il pallone dal suo stomaco a sotto un braccio.

- Voi resterete qui con papà – spiegò in tono pratico, - tornerò domani mattina, non preoccuparti. – aggiunse un po’ più dolcemente, facendogli due grattini alla base del collo.

- Quando vai via? – chiese William, nervosamente.

Girò il polso per controllare l’ora. – Tra un paio d’ore… quindi abbiamo tempo per un bel bagnetto, che dite? -.

Sentì Eric scostarsi un po’ da lei e fare due passetti indietro. – Non ci provare nemmeno. – sibilò, rivolta al figlio pestifero.

Il bambino si morse il labbro inferiore, nuovamente in “modalità tremendo”, prima di schizzarle accanto e fiondarsi verso le terrazza da cui di accedeva tramite la vetrata del soggiorno.

Si giro un attimo dopo per corrergli dietro, verso il terrazzo. Per essere ancora piccolo era già fin troppo scattante e in men che non si dica aveva tirato giù la maniglia della vetrata a due imposte, ed era fuori.

- Eric, vieni immediatamente qui. – gli intimò, mentre cercava di capire cosa avesse intenzione di fare: sembrava pensoso, come se stesso architettando la prossima malefatta ma fosse indeciso su cosa fare.

- No! – rise, stringendosi il pallone sulla pancia e piegandosi leggermente in avanti, mentre portava una gamba indietro preparandosi, secondo lei, a scattare di nuovo verso casa.

Si rimboccò le maniche e si avvicinò, costringendolo a indietreggiare quasi fino alla fine della terrazza.

Se aspettava un altro po’, probabilmente il bambino sarebbe finito in un vaso, e sarebbe stato anche divertente se non avesse avuto fretta.

- Eric… -

- No! –

Senza darle il minimo preavviso, Eric mise il pallone a terra e gli tirò un calcio, indirizzando il giocattolo verso di lei.

Fortunatamente aveva buoni riflessi e riuscì a prenderlo appena prima che finisse contro la vetrata che conduceva al soggiorno.

Il salvataggio le costò una bella caduta sul sedere.

Respirò seccamente e si rigirò il pallone tra le mani, tirandosi i capelli via dal viso con un gesto stizzito. Si alzo con circospezione, tendendo d’occhio il figlio che, senza scomporsi, aveva già nascosto le mani dietro al schiena e si dondolava sui talloni.

Aprì la bocca per dirgli di smettere di fare i capricci, ma la richiuse un attimo dopo: si rimboccò le maniche della camicia imbrattata di fango e si avvicinò a lui.

Eric si mise immeditatamente all’erta e provò a schivarla, ma lei fu più veloce: faceva le finte da molto prima di lui.

Riuscì ad agguantarlo per il busto e a caricarselo sotto un braccio come un sacco di patate particolarmente indisponente e si diresse di nuovo verso la vetrata del soggiorno.

Eric si dimenava e rideva, tanto che dopo pochi secondi lo sentì scivolare dalla sua presa; prima che potesse battere l’ennesima testata, quella volta sul pavimento mattonellato in pietra grigia della terrazza, lo afferrò con l’altro braccio, trasportandolo a testa in giù fin dentro casa, per poi dirigersi lotteggiando verso il bagno.

Fortunatamente sua suocera era una donna previdente, e aveva già riempito la vasca di acqua calda.

Avrebbe dovuto invitarla a cena, una di quelle sere.

Rimise dritto Eric e cercò, invano, di aggiustargli la maglia. Quando alzò lo sguardò su di lui, lo vide sporgere un po’ il labbro e rifilarle la classica aria da cucciolo indifeso.

- Non attacca – gli comunicò, sorridendo un po’ e iniziando a spogliarlo.

- Uffa. – sbuffò il bambino incrociando le braccia e mettendo su un’espressione corrucciata.

- Eric, non essere ridicolo. Ti voglio solo dare una pulita, non ti sto certo mandando in guerra. – gli disse pratica, mentre lo aiutava a sfilarsi pantaloncini e biancheria e lo prendeva in braccio per immergerlo nella vasca.

I suoi vestiti ormai erano da cambiare, ed era inutile tentare di salvare il salvabile, quindi non si fece troppi problemi ad abbassarsi verso la superficie dell’acqua leggermente ricoperta da schiuma chiara.

Eric non sembrava essere dello stesso avviso, perché appena toccò con un piede l’acqua calda e fumante, saltò su come se si fosse bruciato e si aggrappò al suo collo. – No. Brucia! – protestò, guardandola come se stesse cercando di infilarlo in forno.

Si scambiò un’occhiata diffidente con il bambino e infilò l’avambraccio pallido nella vasca chiara. Era perfetta, altro che calda!

Avrebbe ucciso per passare un’ora indisturbata nella vasca dal bagno.

Si rese conto troppo tardi del suo errore, quando il figlio approfittò del momento di distrazione per divincolarsi e correre fuori dal bagno completamente nudo.

Si passò una mano sul viso, ricordando quando, un anno prima, Eric si era fiondato nudo come giù dalle scale ed era andato, ingenuamente, a suonare ai due distinti signori che vivevano al piano inferiore.

Thomas si era lanciato all’inseguimento con solo un asciugamano in vita, e quando era tornato a casa, con il bambino in braccio che si succhiava il pollice, era più rosso di un semaforo per l’imbarazzante incontro.

Lei aveva riso per un buon quarto d’ora, ignorando i borbottii dell’uomo e prolungando quella storia per giorni, fino a quando suo marito non aveva sbottato. Era stato divertente.

Quando uscì dal bagno, senza neanche troppa fretta, le arrivò la voce della suocera. – Tesoro… ma dove vai tutto nudo? – la sentì chiedere in tono sorpreso e divertito. – Dai, torniamo di là… -.

Scosse la testa. Suo marito doveva essere stato un tipino tranquillo, forse un po’ petulante ma disciplinato e ubbidiente. Un perfetto bimbo erudito, curioso e amante dello studio. Il contrario della terrificante progenie che rispondeva al nome di Eric.

Fece un paio di passi nel breve corridoio che conduceva al soggiorno, sul quale si affacciò appoggiandosi alla parete.

La scena che le si presentò davanti agli occhi le provocò un misto di ilarità e di disperazione; non sapeva se ridere per la faccia imbronciata di Eric, piantato con i piedi per terra e per sua suocera che cercava di farlo camminare tirandolo per una mano, o mettersi a piangere in previsione degli anni futuri. Una cosa era certa: poteva solo peggiorare.

Si avvicinò ai due e fece per prenderlo di peso, ma il bambino divincolò il braccio dalla presa della nonna e si precipitò di nuovo nella terrazza e lei dietro di lui.

In quell’occasione era una vera fortuna vivere all’ultimo piano. – Proprio non ti vergogni, eh? – domandò raggiungendolo, mentre lui raccattava il pallone da terra e tornava verso si lei.

- Non ci pensare nemmeno. È sporco, non puoi portarlo nella vasca! – lo ammonì.

Eric si morse il labbro inferiore e assunse un’aria pensosa. – Ma se lo metto nella vasca poi è pulito! – protestò.

Apri e richiuse la bocca.

Giusta osservazione.

Scosse la testa, mentre il bambino cercava evidentemente di rigiocarsi la carta dell’espressione da cane bastonato.

- Okay, facciamo un compromesso. – iniziò, sedendosi sui talloni e mettendogli le mani sulle braccia.

Eric la guardò confuso. – Cos’è un co… contromesso? – chiese, guardandola come se gli fosse spuntato un terzo occhio in mezzo alla fronte.

Rise in un po’, sistemandosi meglio. – Compromesso, tesoro. Significa che io ti permetto di fare qualcosa che ti rende contento, a patto che tu faccia qualcosa che rende contenta me. Capito? - gli spiegò, cercando di rendere il concetto accessibile a un bambino di quattro anni.

Eric sembrò pensarci un po’ su, diffidente, prima di annuire lentamente.

- D’accordo. Allora, dimmi se ti va bene: stasera papà giocherà a palla con te, solo se ora vieni a farti  il bagno. -.

Il bambino annuì nuovamente, senza tuttavia mollare il pallone. – Prometti. – le disse, guardandola come sfidandola a rimangiarsi quello che aveva appena detto.

Elizabeth sospirò cercando di non perdere la pazienza, perché ne avrebbe avuto bisogno quella notte, quando sarebbe stato l’unico neurochirurgo del reparto.

- Promesso. – concesse, - stasera papà giocherà con te. –

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Si versò un po’ di shampoo sulle mani e insaponò i capelli scuri del bambino, che nonostante fosse riuscita a infilare nella vasca, non ne voleva sapere di stare fermo.

- Eric, quando… - iniziò, afferrandolo e cercando di rimetterlo seduto. - ... quando mi hai detto che saresti venuto a fare il bagno senza lamentarti, era sottinteso che dovessi rimanere anche fermo. – brontolò, mentre riusciva finalmente a impedirgli di alzarsi in continuazione.

Non era sicuramente la prima ad avere un figlio iperattivo, agiato e testone… eppure sembrava quasi impossibile che lui e William fossero nati dalle stesse due cellule.

William era tranquillo, tranne quando decideva che fosse opportuno assecondare il fratello, e adorava leggere e imparare… bastava vedere come s’interessava a tutto ciò che lo circondava. Eric dal canto suo era agiato, incostante e borioso. Eppure quei due riuscivano a comunicare a capirsi in un modo che a lei a suo marito rimaneva quasi sconosciuto.

Proprio in quel momento fece il suo trionfale ingresso William, che vedendo il fratello nella vasca iniziò a spogliarsi con calma. Ripiegò come poteva i vestiti via via che se li toglieva e, una volta finita quell’operazione, li andò ad appoggiare sul panchetto infondo alla stanza.

Poi tornò trotterellando verso di lei e provò a scavalcare il bordo della vasca, scivolandoci dentro con poca grazia.

Altra differenza tra i suoi figli era l’evidente negazione per l’attività fisica di William. Spesso era impacciato, mentre il fratello correva e saltava ovunque, indipendentemente dal dove, dal come e dal perché.

Si riscosse da suoi pensieri quando le arrivò un’ondata d’acqua in pieno viso seguita dalle risate dei figli.

Okay.

- Vi state divertendo vero? Vedremo quanto riderete domani, quando dovrete svegliarmi presto per… – insinuò ammutolendo immediatamente entrambi i bambini.

- Non ci torno! – decretò Eric, interrompendola. – E neanche Will! – aggiunse, come se fosse lui a decidere e il fratello fosse quasi una sua esclusiva.

- E invece sì. Tu stai benissimo e a tuo fratello piace andare a scuola. Fine della discussione. – decretò, mentre passava il bagnoschiuma a William che, con calma, se né verso un noce sulle mani e iniziò a strofinarle tra loro creando un po’ di schiuma.

Mentre strofinava Eric con una spugna morbida notò che quelli che gli aveva fatto vedere prima erano solo un piccola parte dei graffi che si era procurato.

- Eric come te li sei procurati tutti questi tagli? – chiese, esaminandogli un braccio e facendo scorrere lo sguardo sulle gambe escoriate.

- Allora… questo… - iniziò girandosi verso di lei reggendosi alla vasca e indicandosi un ginocchio con una brutta sbucciatura. – me lo sono fatto perché correvo. – spiegò.

- Questo… perché sono caduto ancora… - proseguì, indicandosi un fianco su cui s’intravedeva già un livido. – come questi! – disse, piegando le braccia e mostrandole i gomiti alla madre.

- Ma qua ti sei fatto male! Fammi vedere! Come hai fatto? – esclamò, lasciando la spugna dell’acqua e afferrando il gomito del bambino per esaminarlo meglio. Non sembrava niente di troppo serio, ma aveva davvero una brutta sbucciatura anche poco rimarginata.

Come diavolo aveva fatto a non accorgersene?

- Appetta, appetta! No ho finito! – protestò, divincolandosi un po’ dalla sua presa. – Questi perché mi sono arrampicato su un gioco dove bisognava stare appesi con le mani e andare dall’altra parte, sempre appesi, e mi sono scivolate le mani e sono caduto! – spiegò, gesticolando come a ricostruire la scena, allargando le braccia come se fossi ancora stranito dal fatto di essere scivolato.

- Be’, dovresti stare più attento, prima di farti male sul serio. – lo ammonì. – E tutti questi graffi? -.

- Stavo giocando con la palla che ha preso la nonna, solo che ho tirato lontano ed è finita in un ceppuglio con le ppine! Tante! – raccontò, tutto contento e concentrato sul suo entusiastico racconto.

Beato lui che si divertiva!

Lasciò il braccino del bambino e gli ispezionò con cura il viso graffiato.

Possibile che non gli facesse male?

Prese un panchettino e si sedette accanto alla vasca, mentre i due bambini finivano di lavarsi da soli, prima di asciugarsi le mani sui pantaloni scuri, tirarli fuori dalla vasca e avvolgerli ognuno nel proprio accappatoio.

- Ecco fatto. – mormorò, strofinando i capelli a William con un asciugamano pulito. – Sei un po’ taciturno, tesoro. Va tutto bene? – gli domandò, vedendolo più pensoso del solito.

- Sì. Ho sonno. Dopo papà mi legge il libro nuovo? – chiese, lasciandosi asciugare e osservando il fratello che nel frattempo si stava strofinando energicamente i capelli con il cappuccio dell’accappatoio.

- Ehm... certo tesoro. Ma prima fate riposare un po’ papà, sarà stanco… - disse, cercando di salvare il marito dalla serata “impegnata” che lo aspettava e che lei stessa aveva contribuito a organizzargli.

Promettere qualcosa a uno dei suoi figli l’equivalente di firmare un patto col sangue.

In realtà lasciarli la rendeva nervosa: da quando erano nati, non li aveva mai lasciati soli tutta la notte, e non sapeva bene come organizzare tutto per evitare di ritrovare Thomas più esaurito del solito il mattino dopo. Non era certa che fosse una buona idea lasciarlo in balia dei figli tutta la notte; sapeva che quando non c’era diventavano più irrequieti, soprattutto Eric, e lui aveva bisogno di riposare.

D’altro canto non poteva nemmeno tirarsi indietro, data la disorganizzazione dell’ospedale in quel periodo. Contava sul fatto che suo marito era un uomo abbastanza intelligente da escogitare un modo per sopravvivere fino al suo ritorno.

Finì di asciugare e sistemare entrambi con cura, prima di portarli nella camera che condividevano per vestirli “da casa”, in modo che stessero comodi e, soprattutto, che il marito potesse distinguerli con un solo colpo d’occhio.

Durante tutta la vestizione furono stranamente tranquilli, lasciandosi strapazzare senza proteste mentre gli infilava i pantaloni della tuta e cercava di sistemargli i capelli, che non erano ricci e mossi come quelli di Thomas, ma neanche lisci come i suoi.

Quando ebbe finito, li mise entrambi a sedere sul letto di William. – Va bene, io tra poco devo uscire, voi state tranquilli con papà e non fatelo ammattire, d’accordo? – lì avvisò, sedendosi tra loro e guardandoli a turno.

- Kay... – acconsentì William, annuendo un po’ con la testa e buttandosi giù dal letto. Camminò fino alla porta prima di voltarsi verso il fratello e guardarlo in attesa.

Eric gli lanciò un’occhiata, annuì e lo raggiunse.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sì, lo so. Sono pessima… mesi per scrivere un capitolo, questo è il mio nuovissimo record (che sinceramente spero non ritrovarmi a battere!).

Avrete notato, sicuramente, qualche parola scritta in modo “errato” nei dialoghi di Eric e William, e un linguaggio sicuramente infantile nei pensieri di Eric. Sappiate che non ho perso quelle poche proprietà lessicali di cui dispongo, non ho avuto momenti improvvisi di regressione all’infanzia… sono voluti!

Questo capitolo, complice lo scarsissimo tempo che mi è rimasto per scrivere, non mi ha messa in difficoltà. Di più!

Vi chiedo scusa mille volte per possibili errori… purtroppo a forza di leggere una cosa la si impara quasi a memoria e diventa difficile individuare le imprecisioni. Ovviamente, dato che ogni tanto rileggo i miei capitoli (per vedere se ho lasciato qualche strafalcione) semmai ne troverò provvederò immediatamente a correggerli.

Spero di riuscire ad aggiornare anche questa storia – riprendere ad aggiornare, più che altro – con una parvenza di regolarità anche se temo che il prossimo capitolo arriverà tra un mesetto. Purtroppo sono sopraffatta dalla sessione invernale e sono un po’ indietro con gli esami…

In compenso, dato che mi piace complicarmi la vita, al massimo domani pubblicherò un raccolta di “missing moment” delle due storie.

Il titolo dovrebbe essere, se non mi parte un altro treno stanotte, Drops of memory evviva la fantasia. Vi piace?

Vi ringrazio tutti per le recensioni, i preferiti, l’inserimento tra le seguite/ricordate e per ogni lettura!

Aspetto i vostri commenti!

A presto!

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