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Lista capitoli: Capitolo 1: *** Prologo|Go, Catch a Chance; *** Capitolo 2: *** 1| Friends will be strangers *** Capitolo 3: *** 2| Chasing Memories *** Capitolo 4: *** 3| On the road to Home *** Capitolo 5: *** Epilogo | Going Back ***
Premessa.
Questa storia è l’ultima di una serie di storie raccolte sotto il titolo “We Might Fall –
La Cometa di Halley”. È il seguito de “La Cometa del
Distretto 12”, ma può anche venir letta singolarmente. È ambientata a
qualche anno di distanza dall’epilogo: Katniss vive con Peeta al
Distretto 12 e ha avuto con lui due bambini. Gale vive nel Distretto 2
con suo figlio Joel e convive con Johanna Mason. In questa
mini-long Gale è tornato per la prima volta da quasi quindici anni nel
Distretto 12 per assistere al passaggio della cometa di Halley, come aveva
promesso al padre e a Katniss quando erano ragazzi. In questa storia Gale e
Katniss si parleranno finalmente per la prima volta dopo tutti questi anni. E…
Niente, sono un po’ emozionata perché sono passati più di due anni dalla
pubblicazione delle prime tre storie della serie e mi sembra strano riuscire
finalmente a darle una conclusione. So che è un po’ impossibile che qualcun si
ricordi ancora di Joel
Jr, di Hal(l)ey
Mellark o della Cometa del Distretto 12, ma ci tenevo a dare una conclusione
a questa serie, perché il momento in cui Katniss e Gale si riconciliano è un po’
il fulcro di tutto il mio head-canon.
Grazie infinite a chiunque passerà di qui a
leggere! Per me significa tantissimo!
“The
boy saw the comet and he felt as though his life had meaning. And when it went
away, he waited his entire life for it to come back to him."
One
Tree Hill.
Il ritorno della cometa
Prologo |Go, Catch afalling starChance
La
bambina sorrise, ammirando il disegno a cui aveva lavorato tutto il pomeriggio.
Il
blu del cielo sul foglio era intervallato da una spessa striscia gialla e, in
basso, due uomini visti di schiena la stavano indicando con la mano. La
ragazzina annuì fra sé e scrisse a matita quattro parole nell'angolo destro del
foglio: Haley Mellark, 7 anni. Arricciò le labbra in una smorfia impensierita,
prima di aggiungere una quinta parola fra parentesi: Halley.
Posò
poi la matita e balzò giù dalla sedia, per raggiungere il soggiorno.
Trovò
sua madre sulla poltrona, con un libro aperto sulle ginocchia. Sbirciò oltre la
spalla di Katniss e riconobbe nella pagina a nel volume il ritratto di suo
nonno Caleb; le assomigliava. Aveva i capelli neri come i suoi, ma gli occhi
erano grigi, come quelli della mamma e di suo fratello Rowan. La pagina a
fianco a quella con il ritratto era vuota; Haley sorrise e lisciò bene il suo
disegno, prima di appoggiarlo sul foglio bianco.
"Papà
ha detto che potevo metterlo" spiegò poi a Katniss.
Disegnare
non le piaceva molto, ma era orgogliosa di quella sua piccola opera. Ci teneva
a dare un contributo per arricchire il libro dei suoi genitori, specialmente in
una giornata speciale come quella: non stava più nella pelle, ormai, al
pensiero che da lì a poche ore avrebbe finalmente visto la cometa di Halley.
Joel Hawthorne le aveva raccontato che in quella scia luminosa c'era qualcosa
di magico, in grado di cambiare il futuro delle persone che l'avvistavano. E
poi, rifletté con un sorriso, si chiamava quasi come lei: per quello l'aveva
disegnata. Avrebbe potuto aggiungere il suo disegno in una delle ultime pagine
del libro, dove c'era più spazio, ma alla fine aveva deciso di incollarlo
vicino al ritratto di nonno Caleb perché anche lui, da giovane, aveva sognato
di assistere al passaggio della cometa.
Sua
madre annuì, distogliendo lo sguardo dalla figura del padre per osservare il
nuovo disegno; aveva l'aria triste e Haley non poté fare a meno di sentirsi
dispiaciuta per l'assenza di un sorriso sul suo volto. Un po' la capiva: anche
lei sarebbe stata triste, se non avesse avuto il suo papà con sé la notte del
passaggio della cometa. O il suo fratellino.
Avrebbe
voluto dirle che, probabilmente, nonno Caleb e la zia Prim avrebbero aspettato
Halley assieme a loro, solo che invece di guardare in su avrebbero rivolto lo
sguardo verso il basso, perché si trovavano già in cielo. E che veder passare
la cometa sarebbe stato talmente bello che la tristezza se ne sarebbe andata
via in un soffio, proprio come succedeva a lei quando metteva il broncio per
qualcosa e il papà le faceva il solletico. Avrebbe voluto dirle tutto questo,
invece si limitò a tenderle la mano.
"Andiamo?"
chiese titubante, abbozzando un sorriso.
Katniss
la osservò per un istante, prima di annuire e chiudere il libro.
Katniss percorse lentamente la
decina di metri che ancora la separava dalla bocca delle miniere. Di fronte a
lei sua figlia saltellava irrequieta, voltandosi di tanto in tanto per chiedere
ai due genitori di accelerare. In un altro momento, probabilmente, l’impazienza
della bambina l’avrebbe fatta sorridere. Quella sera, tuttavia, la tensione era
tale da renderle faticoso perfino guardarsi attorno: non voleva frugare con lo
sguardo il gruppetto di presenti appostato di fronte alle miniere cercando
qualcuno che, in fondo, non era nemmeno sicura di voler vedere. Né sperava di imbattersi
all’improvviso nelle due persone che sua figlia era così impaziente di
incontrare.
Attraversò comunque il prato che
distanziava lei e la sua famiglia dal resto dei presenti, stringendo più forte
la mano del piccolo Rowan. Non metteva piede in quella zona del Distretto da
anni: dopo la rivolta le miniere erano state chiuse e non le avevano più
riaperte. Tuttavia, si era ripromessa che avrebbe aspettato la cometa di Halley
lì, dove suo nonno Michael e Samuel Hawthorne l’avevano avvistata per la prima
volta. Un’ombra di malinconia velò il suo sguardo, mentre la donna ripensava all’entusiasmo
con cui suo padre raccontava quella storia a lei e a Prim quando erano piccole.
“Che storia è?” domandò
Katniss.
“La storia di una cometa“
rispose il padre con un sorriso enigmatico. “Si chiama cometa di Halley’”.
“Tu l’hai mai vista, papà?”
“Non ancora. Ma tuo nonno
Michael sì, ed è sua la storia che voglio raccontarti.”[1]
“Katniss?”
La voce di Peeta la distolse da quei
pensieri; sbatté le palpebre e si convinse a guardarsi attorno: Haley si era
già staccata da loro e stava correndo verso le miniere. Anche Rowan aveva incominciato
a camminare più in fretta, deciso a raggiungere la sorella.
“Sto bene” mormorò infine la donna, incrociando
lo sguardo del marito.
Esitò, prima di lasciare la mano del
secondogenito. Il bambino le rivolse un sorriso luminoso, dopodiché si lanciò
all’inseguimento di Haley. I due fratelli si avviarono spediti verso un
capannello di ragazzini. A Katniss bastò una rapida occhiata in quella
direzione per intuire che fossero tutti degli Hawthorne: si somigliavano molto
gli uni con gli altri. Riconobbe facilmente i tre figli di Vick: i due
gemellini, che coinvolsero subito Rowan nel loro gioco, e la bambina, June, che
invece si precipitò a raggiungere Haley. La piccola Mellark, tuttavia, sembrava
distratta: ricambiò frettolosamente l’abbraccio dell’amica e riprese a guardarsi
attorno.
“È là” mormorò a quel punto Peeta, indicando
a Katniss tre persone sedute su una roccia.
D’istinto, la donna s’irrigidì, ma la
tensione venne meno, quando riconobbe Posy e il suo fidanzato, Dru, intenti a chiacchierare
con un ragazzino seduto in mezzo a loro: Joel Hawthorne Jr. sorrideva alla zia
con espressione vivace, facendo spallucce di tanto in tanto. Le somiglianze fra
il bambino e i suoi cugini erano innegabili, eppure c’era qualcosa nel suo
sguardo maturo, nel suo atteggiamento così controllato, che lo rendeva diverso
dai coetanei. Aveva un che di antico, che la riportava con la mente al passato:
alla polvere di carbone che le sporcava i vestiti da piccola, grigia come gli
occhi della gente del Giacimento; occhi come i suoi e come quelli del bambino.
Occhi come quelli di Gale, che era presente in suo figlio tanto quanto Rowan
ricordava Peeta.
Katniss
si convinse a distogliere lo sguardo dal ragazzino per guardarsi attorno. Le
dita di Peeta s’intrecciarono alle sue e la donna si aggrappò a quella presa
per trarne conforto.
La
piccola folla sparpagliata di fronte alle miniere era composta quasi
interamente dai membri della famiglia Hawthorne: avvicinandosi, Katniss incontrò
lo sguardo di Vick, che le sorrise, mentre sua moglie Danielle salutava lei e
Peeta con la mano. Vick era stato, fra i tre fratelli di Gale, quello con cui
la donna era riuscita a mantenere un rapporto migliore: continuava a essere il
giovane dalla personalità mite e gentile che era stato da ragazzino, sempre
pronto a tendere la mano verso gli altri e a sorridere anche quando le cose
faticavano ad andare per il verso giusto. Anche con Posy aveva un buon
rapporto, ma a costruirlo c’era voluto del tempo: la piccola di casa Hawthorne
era per Katniss il promemoria costante di ciò che aveva perso. In lei e nel
fortino di legno azzurro che Peeta aveva aiutato a costruire quando era
bambina, la donna rivedeva l’innocenza di Prim, il suo amore per il cielo e i
pomeriggi trascorsi dalle due bambine a farsi il solletico nel prato di fronte
a casa Everdeen. Posy tuttavia alla fine era cresciuta, proprio come i suoi
fratelli. Era diventata una giovane donna vispa e combattiva, testarda come
solo gli Hawthorne potevano essere, ma incapace di portare rancore troppo a
lungo.
Katniss
esaminò il gruppetto di persone, individuando anche Hazelle e la moglie di
Rory, Eileen. Anche in lei non c’era più molto della ragazzina timida, ma sempre
sorridente, che per anni era stata una delle migliori amiche di Prim. Incrociò
il suo sguardo e rispose al suo saluto con un lieve cenno della mano, prima di
venire distratta dalla voce squillante di Haley. Era di nuovo vicino a lei, ma l’attenzione
della bambina era completamente rapita dal ragazzino che stava correndo loro
incontro.
“C’è
Joel!” annunciò, tirando con forza la mano del padre, prima di raggiungere il
compagno di giochi. Il suo sorriso riuscì a cancellare almeno per un istante la
tensione di Katniss.
“Ehi,
Halley!” esclamò il bambino, fermandosi per riprendere fiato. “Sei venuta!”
“Certo
che sì!” ribatté la ragazzina, mettendosi le mani sui fianchi. “Mica potevo stare
a casa, se stanotte passa una cometa che si chiama come me!”
Joel
sorrise, mettendo le mani in tasca. Spostò poi la sua attenzione verso i
genitori della bambina.
“Salve,
signori Mellark” aggiunse, tendendo il braccio verso di Peeta.
L’uomo
ricambiò il sorriso e la stretta di mano nella stessa maniera rilassata con cui
l’aveva fatto il giorno precedente, in panetteria.
Uno
dei capi-famiglia Hawthorne, che aveva assistito alla scena da poco distante, li
raggiunse e circondò il collo di Joel con un braccio. Ancora una volta Katniss
non poté fare a meno di irrigidirsi nell’incrociare i familiari occhi grigi
dell’uomo, prima di realizzare che si trattava di Rory e non del maggiore dei
fratelli.
“Come
siamo educati!” scherzò il nuovo arrivato, arruffando i capelli del nipotino. “Che
direbbe Johanna, se ti sentisse parlare così?”
Le
parole di Rory riuscirono a turbare Katniss, più per la sorpresa che provò nel
sentirle che non per il loro contenuto. Una fitta di malessere le stuzzicò il
petto, mentre un dubbio incominciava a farsi strada fra i suoi pensieri: era
di Johanna Mason che Rory stava parlando?Che cosa c’entrava lei con
quel bambino?
Joel
arrossì.
“Direbbe…”
incominciò, prima di abbozzare un sorrisetto malandrino. “…Direbbe: vedi di
parlare come un marmocchio della tua età, Hawthorne!” esclamò infine, scimmiottando
un tono di voce brusco.
Lo
zio si mise a ridere e perfino Peeta abbozzò un sorriso. Katniss non ci riuscì:
l’imitazione del ragazzino aveva accentuato il suo presentimento e le bastò
ricambiare lo sguardo di Rory per intuire che la provocazione fosse dovuta. Che
il riferimento a Johanna fosse stato inserito nella sua frase per assicurarsi
che Katniss capisse, che venisse colta dal dubbio, per istigarla a domandarsi
quale relazione ci fosse fra la Mason e il padre del bambino. Voleva pungerla sul
vivo, e a farle più male in quel momento fu la sorpresa nel realizzare che ci
fosse riuscito.
Distolse
lo sguardo da Rory, decisa a ignorare le sue provocazioni; il suo rapporto con lui
si era sgretolato sempre di più dopo la fine della Rivolta; ne erano una prova la
freddezza con cui Rory era solito rivolgersi a lei o a Peeta. Inizialmente
Katniss aveva provato rabbia nei confronti di quel suo nuovo modo di fare, ma
con il tempo aveva imparato a comprenderlo: era il suo modo di dimostrare che
lui, al contrario di Vick, o di Posy, la riteneva responsabile almeno in parte
per la dipartita di Gale. Ed era anche la sua maniera di prendersi cura della
famiglia, ora che aveva smesso di giocare a fare il grande per diventare a
tutti gli effetti l’uomo di casa. Ora che, secondo il suo punto di vista,
toccava a lui prendersi cura del fratello maggiore, invertendo i ruoli che
avevano avuto in passato.
Katniss
tornò a guardare Haley, che stava salutando Rory con la mano: nonostante il
distacco esistente fra l’uomo e i coniugi Mellark, la ragazzina aveva sempre
provato simpatia nei suoi confronti, probabilmente perché andava molto
d’accordo con sua figlia, di poco più piccola di lei.
“Ciao,
papà di Prim!” esclamò allegra, rivolgendogli un sorriso birichino.
Il
nodo in gola di Katniss si intensificò e la stretta di mano di Peeta si fece
più salda. Rory fece l’occhiolino alla piccola Mellark e scompigliò i capelli
del nipote, prima di allontanarsi a mani in tasca verso il resto della sua
famiglia.
Fu
in quel momento che Katniss lo vide: appoggiato alla parete rocciosa che un
tempo indicava l’ingresso delle miniere. Se ne stava in disparte con il
cappello calcato sugli occhi e le braccia conserte, dettagli che sottolineavano
la distanza che intendeva mantenere con ciò che lo circondava. Hazelle era al
suo fianco e gli stava parlando, ma la preoccupazione che velava i suoi occhi
tradiva il lieve sorriso che le incurvava le labbra.
Katniss
distolse lo sguardo, ignorando il proprio battito accelerato. Tuttavia, poco
dopo non poté fare a meno di voltarsi nuovamente verso Gale; l’attenzione
dell’uomo, adesso, era rivolta a una bambina dai capelli biondi e lo sguardo
timido, che lo stava fissando semi-nascosta dietro una delle rocce. Era lì da
un po’, ma Katniss non le aveva fatto veramente caso fino a quel momento. La riconobbe
subito e, nel farlo, il nodo alla gola che già avvertiva si strinse
ulteriormente: era la figlia di Rory, l’unica fra i nipoti di Hazelle a non
aver ereditato i capelli scuri tipici degli Hawthorne.
Gale
indicò la bambina alla madre con il capo, prima di arrendersi a un lieve
sorriso. Era il primo che Katniss vedeva sul suo volto da quando era tornato e sembrava
quasi fuori luogo, se accostato alla sua espressione spenta e distante.
“Mi
stai seguendo?” chiese a quel punto Gale, chinandosi per essere all’altezza
della nipotina. La bimba gli sorrise, ma fece un passo indietro per nascondere
il volto nella maglietta del padre, che li aveva appena raggiunti.
“Fa
la timidona, ma credo che voglia dirti qualcosa” commentò Rory,
accarezzando i capelli della figlia. “Vero, amore?”
La
bambina annuì, tornando a sorridere in direzione di Gale: lo zio della piccola
aveva lo sguardo conteso fra la tenerezza e qualcosa di terribilmente simile al
disagio. A Katniss stranì vederlo così impacciato: se l’era sempre cavata bene
con i suoi fratelli, quando erano piccoli. Immaginò che il nome della ragazzina
dovesse pesare su di lui tanto quanto accadeva con lei.
“Domani
tu e Joel potete venire di nuovo a casa nostra?” chiese a quel punto la
bambina, giocherellando con la mano del padre. Gale le sorrise una seconda
volta, ma la tristezza tornò a premere sul suo sguardo.
“Purtroppo
no: io e Joel partiamo domani mattina presto. Lui deve tornare a scuola e io ho
il lavoro, non possiamo fermarci più a lungo” spiegò, accarezzandole i capelli.
La
ragazzina guardò speranzosa il padre, come se pensasse che lui avrebbe saputo
fargli cambiare idea, ma Rory di si limitò a darle un bacio sulla testa.
Indirizzò poi una rapida occhiata in direzione di Katniss, che distolse subito
lo sguardo.
“Ma
poi torni?” domandò ancora la bimba, rivolta allo zio.
Gale
non le rispose. Il suo sguardo vagò in direzione del figlio, che stava giocando
in compagnia di Haley e June.
“Sei
contenta di vedere la cometa, biondina?” chiese, tornando a rivolgersi alla
nipote. La ragazzina annuì.
“Sì,
ma però perché mi chiami sempre biondina?” lo interrogò poi, incuriosita. “Io
sono Prim, è questo il mio nome!”
Quella
frase riuscì a spegnere il sorriso che si era arrampicato a fatica sulle labbra
di Gale. L’uomo si allontanò dalla nipotina e, per un istante, il suo sguardo
incontrò quello di Katniss. La donna s’irrigidì, colta di sorpresa, ma non fece
nemmeno in tempo a guardare altrove che Gale le stava già dando le spalle.
“Lo
zio Gale è arrabbiato con me?” chiese impensierita la bambina, indirizzando
un’occhiata apprensiva alla nonna. Sia Hazelle che Rory si affrettarono a
scuotere la testa.
“Certo
che no” spiegò la donna, abbozzando un sorriso. “Tuo zio è solo un po’ stanco;
ha fatto un viaggio molto lungo per venire a trovarci.”
“E
ha guidato lui, sai?” le venne in aiuto Rory, accovacciandosi di fronte alla
figlioletta. “Zio Gale è un pilota come quelli dei film: scommetto che, se
glielo chiedi, la prossima volta che andiamo a trovarlo ti porta con sé a
volare.”
L’espressione
della bambina tornò serena.
“Davvero?”
esclamò, cercando Gale con lo sguardo.
In
quel momento, anche la piccola sembrò accorgersi di Katniss: incrociò il suo
sguardo e le rivolse uno dei suoi soliti sorrisi timidi. La sua indole pacata e
i capelli biondi che le incorniciavano il viso esile concordavano con il nome
della bambina al punto tale da ferire la donna ogni volta che la osservava. Quando
Katniss aveva scoperto che Rory ed Eileen avevano chiamato la figlia come la
loro migliore amica d’infanzia, aveva provato rabbia; e dolore, al pensiero di
essere costretta a sentir nominare il nome di sua sorella così spesso. Si era
infastidita, perché nessuno, nemmeno Rory, aveva il diritto di piangere o
commemorare sua sorella quanto lei. Con il tempo, tuttavia, aveva imparato ad
accettarlo. Primrose era stata amata da molti, e lei e sua madre non erano
state le uniche a dover incassare il lutto. Condividere il dolore della perdita
con chi aveva voluto bene a sua sorella le aveva fatti bene: l’aveva aiutata a
lenire, almeno in parte, il bisogno di piangerla quotidianamente.
Le
sue dita strinsero con più forza quella di Peeta, cercandolo istintivamente. La
cometa non era ancora passata, eppure Katniss stava già incominciando a pensare
che quella situazione fosse troppo pesante da sostenere. Il marito le sorrise
rassicurante; fece scorrere il pollice lungo il dorso della sua mano e quel
semplice gesto l’aiutò a sentire un po’ della tensione scivolare via. Bastò
quella carezza per aiutarla a sentirsi meno atterrita e per farla tornare,
almeno per un istante, a casa. Lei che tutto a un tratto, in mezzo a coloro che
un tempo considerava una seconda famiglia, si sentiva smarrita.
Si
voltò verso i bambini, perché guardare loro e dare le spalle al passato era un
po’ meno doloroso. Joel e Haley si stavano sfidando a una gara di velocità e June
li inseguiva schiamazzando.
Nel
veder i due compagni di gioco ridere a quel modo, la tenerezza di Katniss venne
graffiata da una punta di fastidio: c’era qualcosa nel modo in cui sua figlia
cercava Joel, nella vivacità con cui lo guardava, che le faceva male. Perché,
anche se Haley era sempre stata una bambina solare, nulla le aveva mai fatto
brillare gli occhi in quella maniera, quasi avesse appena ritrovato un pezzo di
sé che nemmeno sapeva di aver perso. Non avrebbe saputo direse quel
tassello di puzzle risiedesse nel piccolo Hawthorne, oppure nell’attesa del
passaggio di una cometa. L’unica cosa che le pareva evidente era che tutto
riconducesse a lui: alla sua presenza nel Distretto 12; al suo ritorno,
dopo tutti quegli anni.
Avrebbe
voluto sentirsi felice, condividere lo stesso entusiasmo della sua bambina.
Tuttavia, quei dieci metri di prato che la separavano dal suo passato – da Gale
- in quel momento glielo impedivano; perché facevano male almeno quanto i dieci
Distretti che li avevano tenuti lontani nel corso degli ultimi anni.
Forse
in quel momento anche lui venne folgorato dallo stesso pensiero, perché per un
istante incrociò lo sguardo della donna. Katniss sbarrò gli occhi, incapace di
interrompere quel contatto. Lo sentì indugiare a lungo su di sé come se la
stesse sondando, in cerca di qualcosa. Lo vide esaminare anche Peeta e poi le
loro dita intrecciate, con espressione indecifrabile.
Infine,
proprio nel momento in cui sembrava sul punto di arretrare, l’uomo si mosse in
avanti. Incominciò a camminare, le mani in tasca e la schiena dritta, a metà fra
il ragazzo che era stato e il militare che era diventato in seguito. I suoi erano
passi lenti e calcolati, ma decisi: i passi di un soldato in missione, di un
cacciatore appostato dietro la preda. Passi diretti verso di lei.
Katniss
rimase immobile, contesa tra l’impulso di fuggire e quello di condividere il
suo sforzo di avvicinarla, di raggiungerla. Il suo sguardo teso continuò a
sostenere quello di Gale, così come non riusciva a fare andandogli incontro.
La
distanza fra di loro si era ormai dimezzata, quando la voce eccitata di Haley
costrinse entrambi a interrompere il gioco di sguardi.
“Eccola,
eccola!” stava gridando la ragazzina, l’indice puntato verso il cielo.
Note
Finali.
Ed ecco qui il primo capitolo
di questo racconto; ecco che finalmente vengono introdotti anche i membri della
famiglia Hawthorne ormai cresciuti e, in particolare, i loro bimbetti. I cugini
Prim, June e Joel Jr. Ma anche Haley e il suo fratellino Rowan,
sono stati già introdotti e approfonditi in altre storie (specialmente S.O.S. Hawthorne
e Un
Barattolo di Cielo per quanto riguarda Joel e le tre femminucce), ma
erano necessari anche qui per completare il quadro che collega passato,
presente e futuro. Prim Junior porta questo nome per via di una serie di motivi
che sono stati raccontati nella storia E.Y.E.S.
O.P.E.N., incentrata sul rapporto fra Rory e Prim (Everdeen).
Per quanto riguarda Joel e Halley… beh, la loro intesa era già stata
accennata ne “La
Cometa del Distretto 12”, dove si sono conosciuti, e qui ho cercato di
approfondirla almeno in parte, nonostante la storia sia incentrata sulle
riflessioni di Katniss. Nel prossimo capitolo assisteremo finalmente al
passaggio della cometa e ci sarà anche un breve cambio di prospettiva con un
frammento di storia raccontato dal punto di vista di Gale.
Spero tanto che questa prima
parte possa esservi piaciuta – nonostante la sua spropositata
lunghezza/lentezza!
Un abbraccio e buona befana in anticipo! *manda
Sae la Zozza a lanciare in giro caramelle e carbone – quello di certo saprà
dove trovarlo!*
Laura
[1]Il passaggio in corsivo è
un paragrafo tratto dalla prima storia di questa serie: The Miner Saw a
Comet.
La
distanza fra di loro si era ormai dimezzata, quando la voce eccitata di Haley
costrinse entrambi a interrompere il gioco di sguardi.
“Eccola,
eccola!” stava gridando la ragazzina, l’indice puntato verso il cielo.
Il
silenzio coprì gradualmente gli schiamazzi dei bambini. Dru si affrettò a guardare
nel telescopio, mentre gli sguardi dei presenti si sollevavano.
Ancora
una volta Katniss piombò nello smarrimento, colta alla sprovvista da ciò che
stava accadendo. Il suo sguardò vagò confuso per il cielo per una frazione di
secondo, fino a quando Peeta non le cinse la vita con un braccio, indicandole
con la mano libera un punto in alto alla loro destra.
Il
fascio di luce bianco che aveva sognato di vedere da anni era disegnato nel
cielo, piccolo ma visibile grazie al cielo terso di quella notte. L’emozione al
pensiero di avere di fronte la cometa intravista da suo nonno più di settanta
anni prima le attorcigliò lo stomaco; i suoi occhi incominciarono a bruciare,
quasi parte di quella luce si fosse insinuata sotto le sue palpebre.
Una
lacrima le rigò lo zigomo, mentre la rabbia graffiava l’allegria di ciò che le
vorticava attorno: i piccoli Hawthorne che parlavano entusiasti uno sopra
l’altro, le dita rivolte verso l’alto. Rowan sulle spalle di Peeta, che
sorrideva incantato. Haley e Joel che si tenevano per mano, sorridendosi
complici per qualcosa di quel momento che apparteneva solo a loro due.
Era
un quadro quasi magico, pieno di sguardi accalorati dall’eccitazione, ma uno
squarcio ne sfregiava la bellezza e il significato.
Perché
in quel quadro mancavano la saggezza di Caleb Everdeen e l’ottimismo di Prim.
“La guardiamo tornare assieme, quando passa?” chiese la bambina.
Il padre annuì.
“Saremo in prima fila, Katniss” promise, incastrandole una ciocca
di capelli sfuggita a una treccia dietro l’orecchio.
“Io, te, Prim e la mamma.”
Suo
padre, sua sorella e perfino sua madre erano macchie nere su quella tela
intarsiata di stelle e ne rovinavano la lucentezza. Stropicciavano la promessa
nascosta nella carta su cui era stato dipinto.
“Saremo
in prima fila, Katniss.”
Me
l’avevi promesso, pensò
fra sé,lasciando la mano di Peeta.
D’istinto
chinò lo sguardo per cercare Gale e s’irrigidì nell’individuarlo a pochi passi
di distanza, la testa ancora sollevata verso l’alto. Non la guardava eppure era
lì, vicino come non lo era più stato da oltre quindici anni. Se solo Katniss avesse
teso la mano, avrebbe potuto toccarlo e inspirare il suo odore; scoprire se
sapeva ancora di legna e di arance e se le sue dita rimanevano cosparse di tagli
e cicatrici, come quando era ragazzo.
Si
sorprese a ricordare le tante volte in cui, prima di sposare Peeta, aveva
chiuso gli occhi e contato fino a dieci, seduta sulla roccia che per anni era
stata il loro punto di incontro. Giocava a immaginare che, a palpebre riaperte,
l’avrebbe trovato lì e che forse, con lui a fianco, anche lei sarebbe tornata a
essere quella di una volta: la Katniss che sorrideva soltanto nei boschi, ma
che ricordava ancora cosa significasse essere felice. Perché a volte, in quei
boschi con lui, lo era stata per davvero. Quella Katniss ormai non c’era più e
nemmeno la ragazzina ingenua che ogni tanto sperava nel ritorno del suo
migliore amico. A fissare il cielo, aggrappata a una scia di luce, c’era solo
una donna stanca; una madre, una moglie, una figlia distrutta e poi ricomposta
a fatica grazie allo scorrere del tempo. Una persona piena di vuoti, che era comunque
riuscita a ritrovare il suo equilibrio e perfino a sorridere, qualche volta.
In
quel momento, tuttavia, si sorprese a vacillare. Il ricordo della promessa
fatta a un padre e a una sorella che non c’erano più la strattonò con violenza.
C’era solo una persona che avrebbe potuto comprendere quel dolore: qualcuno che
forse stava avendo pensieri simili ai suoi.
“Sai della cometa?”
Katniss ricostruisce in un istanteil ricordo di una se stessa bambina, accoccolata
sulle ginocchia del padre.
“Papà me ne parlava sempre, quando ero piccola” risponde. “Mio
nonno, da giovane, l’ha vista”.
Distende pigramente le gambe nell’erba, voltandosi verso il
ragazzo: si accorge che ha gli occhi socchiusi e sembra sul punto di prendere
sonno.
“Non sarebbe bello vederla, Catnip? La cometa di Halley.”
Aveva
bisogno di Gale, in quel momento. Era un desiderio stupido e incoerente, eppure
era così che si sentiva. La speranza che la cometa aveva infuso alla sua
famiglia da generazioni stava svanendo in fretta e voleva raggiungere l’amico prima
che quella sensazione svanisse. Se non poteva avere suo padre con sé in quel
momento, allora voleva lui.
Gale,
però, non c’era più.
Si
guardò attorno, esaminando la decina di presenti così somiglianti fra loro, ma
non lo vide da nessuna parte. Interrogò Hazelle con lo sguardo e notò i suoi
occhi lucidi, mentre la donna scuoteva il capo, suggerendole ciò che aveva già
ipotizzato da sé. Un nodo le serrò la gola e il freddo della sera le avviluppò
il petto: se ne era andato.
Guardò
ancora in alto, sforzandosi di ignorare la delusione che le bruciava negli
occhi; la cometa era ormai sul punto di confondersi con le altre stelle. Quasi
come un’illusione ottica, uno gioco di luce, un inganno. Sfuggevole come dei
passi rivolti verso qualcuno che tutto a un tratto s’interrompono, svanendo
assieme al proprietario.
Fissando
il cielo Katniss non riuscì a ricacciare indietro il ricordo di due adolescenti
sdraiati nell’erba, intenti a guardare le stelle. Due ragazzi impegnati a
domandarsi che effetto possa fare vedere una cometa che sparisce ogni
settant’anni.
“Dovremmo aspettarla, quando tornerà”proponeinfine
Katniss, voltandosi verso di lui.
“All’ingresso delle miniere. Mio padre e tuo padre l’avrebbero
fatto, se fossero stati ancora vivi.”
Il ragazzo sembra riflettere sulle sue parole per qualche istante.
“Promettilo e basta, Gale. Prometti che aspetteremo la cometa
assieme.”
“Lo prometto,Catnip” risponde lui, reprimendo a stento uno sbadiglio.
“Te lo prometto.”
Eppure
Gale, ancora una volta, se n’era andato. Katniss si sentiva tradita, proprio
come era successo la prima volta che l’aveva cercato nei boschi, di ritorno dai
Settantaquattresimi, e non l’aveva trovato. Il suo abbandono faceva più male di
quello del padre, impossibilitato ad esserci per via dalle ingiustizie del
passato. Faceva male perché, per un attimo, lei si era illusa che tendendo la
mano avrebbe trovato quella del suo migliore amico, proprio come un tempo.
Invece lui se ne era andato e Katniss in quel momento fu certa di
avere appena spento l’ultima possibilità di riconciliazione con lui. Era certa
che non l’avrebbe più rivisto, così come non avrebbe più rivisto la cometa di Halley.
Delusione e risentimento si mescolarono dietro ai suoi occhi,
prima di scivolare fuori per appannarglieli, nascondendole così l’ultimo
scorcio della cometa. A qualche passo di distanza, Joel e Haley commentavano
eccitati lo spettacolo a cui avevano appena assistito, le mani ancora
intrecciate.
Quattro parole cariche di amarezza accarezzarono le labbra di
Katniss, prima di uscire allo scoperto per unirsi alle sue lacrime.
Me
l’avevi promesso.
***
La scia di luce che tagliò il cielo quella sera
fu meno appariscente rispetto a come Gale se l’era sempre immaginata da
bambino; durò solo una manciata di secondi, un tempo a malapena sufficiente per
sollevare lo sguardo e richiamare alla mente la voce bonaria di suo padre, per
sentirselo accanto in un momento speciale come quello.
Quel breve istante riuscì comunque a sfasare il
ritmo dei suoi battiti. Sentì gli occhi inumidirsi al pensiero di quanto un
momento del genere avrebbe significato per il Gale del passato: il ragazzo che
per anni si era sforzato di vivere onorando gli insegnamenti di suo padre,
rispettando ogni promessa che gli aveva fatto.
Tuttavia, il tempo l’aveva cambiato; non era più
la stessa persona cresciuta ai margini di quelle miniere. Le sue scelte
l’avevano trascinato lontano, in un posto dove i ricordi bruciavano un po’
meno. Un luogo dove non aveva poi così importanza il fatto che avesse tradito più
promesse di quelle che era riuscito a mantenere.
Quella sera, però, si era sforzato di onorare
uno dei patti più importanti, fra quelli stretti da ragazzo. L’aveva fatto per
suo figlio, perché sapeva che tenerlo lontano dalla storia della sua famiglia
non sarebbe stato giusto. L’aveva fatto per suo padre, perché era certo che se
non fosse tornato nel Dodici almeno per vedere la Cometa, avrebbe perso ogni
occasione di onorare la sua memoria.
E, forse, l’aveva fatto anche per lei:
perché l’aveva delusa così tante volte che si sentiva in dovere di rimediare, a
costo di peggiorare le cose. A costo di tirare in ballo una promessa ormai non
più valida o caduta nel dimenticatoio. A costo di ferirsi o di fare del
male anche a lei.
Se non altro, non sarebbe rimasto così a lungo
da causare dei danni permanenti.
Ne era stato certo sin dal momento in cui aveva
incrociato lo sguardo di Katniss per la prima volta dopo anni, il mattino
precedente. Ormai erano due estranei: era scritto a chiare lettere nel volto
della sua amica d’infanzia e la cometa l’aveva appena confermato; non erano
riusciti a parlarsi neppure in un momento come quello, l’attimo che avevano
atteso sin da quando erano bambini.
Si erano cercati, ma senza trovarsi; erano
rimasti isolati, due pianeti vicini ma intenti a roteare su se stessi, senza
mai sfiorarsi né collidere.
Per questo, mentre la cometa tagliava il cielo
catturando l’attenzione dei presenti, Gale incominciò ad arretrare. Si sentiva
freddo, privo dell’impulsività e dell’istinto ad agire che l’avevano mosso fin
da piccolo.
Si allontanò dai parenti, deciso a ritrarsi da
quell’istante che aveva atteso così tanto e che invece non gli aveva trasmesso
nulla.
Ho mantenuto la promessa, papà, pensò fra sé,
indirizzando un’ultima occhiata indietro: guardò suo figlio per qualche istante
e le sue labbra sorrisero amare nel contemplare l’allegria di Joel e la
vivacità con cui scuoteva la mano di Haley, ancora stretta alla sua. Ma ora
devo andare.
Attraversò il Prato con andatura rapida,
meccanica; era diretto verso casa di Rory, ma quando raggiunse il punto in cui
aveva abitato in passato si bloccò. Da quella posizione riusciva a intravedere
il fortino di legno di Posy, la casetta che sua sorella aveva costruito da
piccola con l’aiuto di alcuni abitanti del Distretto. I suoi nipoti
l’adoravano, mentre lui si era sempre sentito a disagio anche solo sentendone
parlare. Quella casetta blu gli ricordava la sua assenza nella vita dei
fratelli durante gli anni difficili del dopo-guerra; a irritarlo ulteriormente
era il pensiero che una delle persone che avevano contribuito al progetto del
fortino fosse stato Peeta Mellark: non era facile per lui ricordare che Peeta era
stato vicino a diverse persone a cui voleva bene.
Non aveva ancora visto la casetta da vicino,
così decise di approfittare dell’assenza dei parenti per darci un’occhiata. La
luce pallida delle stelle filtrava attraverso le assi del fortino, ricamando
spiragli di luce sull’erba. Ai piedi della piattaforma su cui era adagiata la
casa, un cartello recitava in una grafia infantile e sbavata dalle intemperie quello
che con il tempo era diventato il motto della piccola di casa Hawthorne: il
cielo non crolla (ed io nemmeno)[1].
Un lieve sorriso si arrischiò a piegare le
labbra dell’uomo. Era sul punto di arrampicarsi sulla piattaforma, quando un
movimento improvviso lo fece sobbalzare.
Gale arretrò di qualche passo e rincorse con lo
sguardo l’intruso che, scoprì presto, non era altro che un gatto.
L’osservò mentre agitava inquieto la punta della
coda, chino in una posizione di agguato. Gale impiegò qualche istante per
capire cosa stesse facendo l’animale: con uno scatto, il felino si fiondò
contro uno dei coni di luce proiettato dagli spiragli fra gli assi di legno.
Quell’immagine – la corsa del felino intento a
rincorrere un fascio di luce – fece scattare qualcosa nella mente di Gale: il
ricordo di un altro gatto alle prese con un simile gioco si spiegò nella sua
testa. Ricordò una fredda serata invernale e sei ragazzini radunati in una casa
del Giacimento, intenti a passarsi una vecchia torcia. Evocò le risate dei suoi
fratelli e quella di Prim, mentre un gatto dal pelo arruffato e l’aria
imbronciata – Ranuncolo – si gettava da una parte all’altra della stanza,
per cercare di afferrare il fascio luminoso: una cometa. Cercava di
afferrare una cometa.
Nel ricordo, al centro di tutto questo
trambusto, due adolescenti giocavano a palle di neve, dimenticandosi per un
istante dell’aspetto cagionevole dei rispettivi fratelli o della magrezza del
bottino di caccia di quel pomeriggio. E ridevano, quei due ragazzi. Perché
erano assieme e si guardavano le spalle a vicenda; perché non aveva senso
arrendersi e rassegnarsi, quando si era in due a dare la caccia a una cometa
magica[2].
Ricordò tutto questo, Gale, e ad un tratto
l’amarezza che l’aveva accompagnato per l’intera giornata venne meno.
Incominciò a correre, cogliendo di sorpresa il
gatto, che sobbalzò con un soffio stizzito.
Corse come il vento di cui portava il nome,
perché questa volta non voleva arrivare tardi: questa volta avrebbe acchiappato
la sua cometa.
***
Note
Finali.
Finalmente,
con un clamoroso ritardo, giungo a pubblicare il secondo capitolo! Ormai siamo
a metà percorso: mancano solo più l’ultimo capitolo ed infine l’epilogo. Ormai
manca pochissimo all’incontro fra Gale e Katniss: lo so, questa
storia è un agglomerato di noiosissime e inutile pare mentali fatte dai due
protagonisti; tuttavia, non riesco a fare a meno di immaginarli ormai così. Con
la testa piena di rimpianti, di risentimento, di voglia di riunirsi e di paura
e orgoglio che impediscono loro di fare quel passo. Katniss, soprattutto, è
famosa per il suo rimuginare costante e quindi non sono riuscita proprio a
trattenermi. Prometto che nell’ultima parte ci sarà finalmente un bel po’ di
dialogo – stessa cosa per quanto riguarda l’epilogo, che avrà come protagonista
Gale assieme al piccolo Joel. Ci tenevo ad aprire la storia con mamma e
figlia e concluderla con papà e figlio. In questo modo si va a creare una sorta
di struttura circolare, poiché la prima storia della serie sulla Cometa (The Miner Saw a
Comet) alternava il PoV di papà Everdeen e la piccola Katniss con
quello di papà Hawthorne con mini Gale.
Ringrazio
di cuore le persone che hanno letto i capitoli precedenti e, in particolare,
Amortentia2610 e Sfiorarsi, che hanno seguito ogni capitolo di questa
storia! Non so come ringraziarvi, davvero! Se continuo a pubblicarla è
sicuramente in gran parte grazie a voi!
Un abbraccio e buon week-end!
Laura
[1]La storia del fortino di
legno di Posy, del suo amore per il cielo e del modo in cui la piccola di casa
Hawthorne ha vissuto i bombardamenti e la guerra viene raccontata in “Il cielo non
crolla (ed io nemmeno)”.
[2]Il ricordo di Gale fa
riferimento alla storia “How to catch a
Comet”, dove viene raccontata la sera in cui Katniss, Prim e i fratelli
Hawthorne (più Ranuncolo!) inventarono il gioco del gatto matto.
“Nonno Michael e Samuel erano appena usciti dalle
miniere, quando videro la cometa.
Rimasero di sasso tutti e due, a bocca aperta
quasi, quando videro quella codina bianca nel cielo.
Sembravano intontiti, come se avessero appena
visto passare la donna più bella del mondo.”
“Vuoi
che torniamo a casa?”
Peeta
si sistemò fra le braccia il figlio mezzo addormentato e scrutò con attenzione
la moglie. Katniss scosse la testa; non riusciva a distogliere lo sguardo da
Haley, che continuava a girare su se stessa con le braccia distese. Joel la
stava imitando e, di tanto in tanto, Haley lo afferrava per farlo cadere con
sé nell’erba alta: nessuno dei due riusciva a smettere di ridere.
“Se
ce ne andassimo adesso non me lo perdonerebbe mai” osservò, una punta di dolore
non del tutto mascherata nella voce. “Restate ancora un po’. Io incomincio ad
andare.”
Peeta
fece per ribattere, ma qualcosa nello sguardo della moglie lo spinse a cambiare
idea.
Katniss
accarezzò la testa di Rowan, prima di dirigersi verso casa. Aveva bisogno di
stare sola, di gironzolare per un po’ senza essere costretta a mascherare la
delusione mista a dolore che le vorticava dentro.
Attraversò
il Prato con le braccia strette al petto: era una tiepida serata d’Agosto,
eppure sentiva freddo e non riusciva a spiegarsi il perché. Mentre camminava,
il suo sguardo puntò istintivamente i margini del bosco. Si chiese se Gale
fosse andato a rifugiarsi da quelle parti: un tempo era quello il posto dove l’avrebbe
sempre trovato. Si fermò, incerta se proseguire o meno verso quella direzione.
Alla fine, si convinse a lasciar perdere.
Continuò
a camminare fino a quando non raggiunse il cortile di casa sua, a pochi decine
di metri dalla nuova panetteria Mellark. Non aveva nemmeno raggiunto i gradini
d’ingresso, quando un’ombra alla sua destra la costrinse a voltarsi.
Gale
era lì, di fronte a lei, il fiato corto e le guance arrossate: forse aveva
corso.
“Ed
era velocissima, quella cometa. Attraversò il cielo come se stesse correndo,
come se avesse fretta; magari era in ritardo per qualcosa, però era lì: era lì per
loro.”
Si
squadrarono per qualche istante, entrambi alla ricerca delle parole giuste da
scegliere. Katniss, che era stanca di tutti quei silenzi, scelse a bruciapelo
una delle domande che le ronzavano in testa e la sputò fuori prima che il
buonsenso la bloccasse.
“È
Johanna Mason sua madre?”
Gale
la osservò confuso per qualche istante, prima di dar cenno di aver compreso.
“Fra
tutte le cose che avresti potuto chiedermi è questo che ti interessa sapere?”
Katniss
continuò a sostenere il suo sguardo con decisione.
“Questa
era la domanda più facile.”
Gale
sospirò. Tornò a incrociare le braccia sul petto, ripristinando il distacco fra
sé e ciò che lo circondava.
“No,
non è lei” concluse, con una nota di durezza nella voce. Per un attimo sembrò
sul punto di aggiungere qualcosa, ma poi tornò silenzioso.
Katniss
ne fu infastidita.
“Perché
non sei più tornato?” chiese, la delusione a malapena riconoscibile attraverso
la freddezza con cui parlò.
Gale
scosse la testa.
“Un
soldato lo capisce, quando è costretto ad annunciare la ritirata.”
“Ma
tu non eri un soldato” ribatté la donna. “Eri un cacciatore. ”
E
il mio migliore amico,
aggiunse mentalmente con una fitta di delusione.
“Lo
ero…” confermò lui, azzardando un passo avanti. “… E lo eri anche tu, ma poi?
Ho perso, Katniss” dichiarò secco, tornando a scuotere la testa. “Fine della
storia. Non c’era più nulla per me al Distretto 12, nulla per cui valesse la
pena cercare di rimettere insieme i pezzi.”
“C’era
la tua famiglia” gli fece notare Katniss.
Gale
tornò a distogliere lo sguardo.
“Loro
sono stati meglio senza di me.”
“Ne
sei sicuro?” replicò fredda la donna: non poteva essere lui, il ragazzo che era
cresciuto assieme a lei nei boschi. Non poteva essere lui il giovanotto
disposto a sacrificare tutto pur di prendersi cura della sua famiglia. “E tuo
figlio? È stato meglio senza di loro?”
Tutto
a un tratto, lo sguardo di Gale venne attraversato da un dolore autentico; la
decisione sfumò dal suo volto.
“No…”
mormorò il soldato, lasciando scivolare le braccia lungo i fianchi. “No, per
niente.”
La
sua espressione ferita riuscì a fare breccia nella mente di Katniss; d’un
tratto si sentì in colpa e il risentimento generò rabbia. Non voleva pentirsi
di averlo ferito: il suo ragionamento era sbagliato. Eppure…
“Ho
visto come lo guardi…” esclamò all’improvviso Gale, infilandosi le mani in
tasca. “Mio figlio” precisò, in risposta allo sguardo confuso di Katniss. “Non
devi avercela con lui: non è colpa sua se ha stretto amicizia con tua figlia,
non sapeva che ci conoscessimo...”
“Non
ce l’ho con lui” lo interruppe Katniss. “Sono solo preoccupata per Haley. Sa
che non lo rivedrà più, eppure non fa altro che parlare di lui… Come se si
conoscessero da sempre.”
Gale
si strinse nelle spalle.
“Sono
solo bambini” osservò: non sembrava condividere le sue preoccupazioni.
Katniss
non era della stessa opinione. L’intesa fra Haley e Joel non sembrava il frutto
di una di quelle amicizie casuali fra bambini destinate a durare qualche
giorno. Per Haley, Joel era stato come una cometa: aveva buttato luce su alcuni
dettagli del suo passato che nemmeno sapeva esistessero. Dettagli che facevano
parte della storia di entrambi.
"In ogni caso
non dovrai preoccuparti troppo a lungo” riprese Gale, dopo essersi schiarito la
voce. “Domani mattina ce ne andiamo. La cometa è passata, non c’è più nulla che
ci trattenga qui.”
Non lo disse con
freddezza o antipatia; c’era persino una nota malinconica nel suo tono di voce,
tuttavia questo non impedì a Katniss di arrabbiarsi.
“Sì, bravo, vattene”
esclamò, incrociando a sua volta le braccia contro il petto. Una collera fredda
e calcolata le modellò lo sguardo. “Fai la cosa che ti riesce meglio."
Gale reagì con
sorpresa a quella sfuriata, ma non ribatté. Il dolore tornò a contrarre i
lineamenti del suo volto e, se non fosse stato così buio, Katniss avrebbe
giurato di aver visto i suoi occhi farsi lucidi.
Quando l’ex-soldato tornò
a parlare, tuttavia, il suo tono risultò risoluto.
“Non ha senso che
resti” dichiarò, cercando conferma nel suo sguardo. “Sei cambiata, Katniss. Adesso
sei una donna, hai una famiglia: un marito e dei bambini tuoi. Non hai più
bisogno di me.”
Fece una pausa, come
se stesse aspettando una sua smentita.
Vero o Falso?
Katniss scosse la
testa.
“Stai sviando” ribatté con rabbia. “Cerchi di rigirare i fatti come se fossi
stata io ad allontanare te, ma sappiamo entrambi che non è stato così.”
“Non mi volevi
attorno” ribatté con freddezza Gale, il dolore tramutato tutto a un tratto in
collera. “Quando ci siamo parlati l’ultima volta me l’hai fatto capire
chiaramente.”
“Potevi insistere”
replicò ancora Katniss, alzando il tono di voce. Una pioggia di immagini le
rovinò addosso, ricordandole ciò che per anni aveva cercato di seppellire in un
angolo della mente. “Potevamo parlarne e cercare di aggiustare quello che si
era rotto, ma no, tu hai deciso di tagliare i ponti” concluse, scacciando una
lacrima con un gesto brusco del polso.
“Sapevo che non
saresti stata sola” rispose Gale in tono di voce asciutto.
Katniss lo freddò con
lo sguardo.
“Ma io ero sola.”
La sua voce
s’incrinò, mentre cercava di dare ordine e filo logico alle parole successive
da pronunciare. “Lei era morta, Gale! Era morta e tu te ne sei andato,
mia madre se n’era andata! La mia intera famiglia era scomparsa!”
Quelle parole
sembrarono risvegliare qualcosa in Gale, perché la sua espressione incominciò a
mutare. La sua compostezza svanì e i suoi occhi si imperlarono di un dolore che
aveva l’aria antica, diverso da quello che li aveva avvolti fino a pochi minuti
prima.
“Mi dispiace…”
replicò infine con voce talmente bassa che Katniss l’udì a stento. “… Ma che
altro potevo fare? Un’unica cosa mi avevi chiesto di fare…” proseguì, indurendo
la sua espressione. “… Una sola: proteggere la tua famiglia. E lei… lei è morta
per causa mia.”
Ormai nemmeno il buio
era sufficiente a mascherare le lacrime sul volto di Gale. Un singhiozzo lottò
con prepotenza per uscire dalla gola di Katniss, e alla fine la donna lo lasciò
andare.
“Con che coraggio potevo
ancora abbracciarti, starti accanto? Prendermi cura di te non poteva più essere
compito mio: non ero più in grado di badare a nessuno, a stento riuscivo a farlo
con me stesso.”
Katniss scosse la testa, cercando
di scacciare dalla mente le parole del giovane. Le lacrime ripresero a
scivolare lungo il suo volto, imperlate dalla luce pallida delle stelle.
“Lei avrebbe dovuto
esserci oggi” mormorò infine con voce rotta. Gale arretrò di nuovo, quasi le
sue parole gli avessero provocato una ferita fisica. “Amava la storia della
cometa tanto quanto noi”.
“Mi dispiace” ripeté
il soldato, la voce spezzata dal dolore.
Katniss fece un passo
avanti e poi un altro ancora; in pochi secondi fu così vicina a Gale da poter
percepire il calore delle sue lacrime. Provò a fare una cosa che aveva fatto
una sola volta prima di allora: cercò di immaginare i loro ruoli invertiti.
Pensò a Posy, alla piccola Posy, e al suo corpicino fatto a brandelli da
un’arma che lei stessa aveva contribuito a ideare. Come si sarebbe sentita?
Distrutta,
probabilmente. Marchiata a fuoco in maniera irrimediabile; indegna di rivolgere
a Gale o a sua madre anche solo uno sguardo.
Un
senso di orrore le impregnò la bocca dello stomaco; forse, in fondo, non era
nemmeno così difficile immaginare come si sentisse Gale. Parte di quel senso di
colpa l’aveva sempre provato, anche se per proteggersi aveva continuamente
cercato di rimuoverlo, di spingerlo da parte. Perché era stato più facile
associare la morte di sua sorella e il ricordo delle bombe a lui, che non alla
guerra in sé. Alla rivolta, e a chi l’aveva scatenata rifiutandosi di morire in
primo luogo.
Era
più facile limitarsi ad odiare lui, evitando di domandarsi se Prim avesse perso
la vita solamente per colpa di chi aveva costruito quelle bombe. In fondo era
davvero così?
Tutti
quei bambini a Capitol City…
I colpevoli della loro morte erano davvero coloro che avevano ideato o
sganciato le bombe? Oppure ogni cosa riconduceva a chi aveva dato inizio a
quella carneficina? A lei?
“Non ti ho mai
incolpato per quello che è successo a Prim” ammise infine, la voce
inspiegabilmente rauca. “All’inizio non riuscivo a separare l’idea delle bombe
da te, ma è una cosa diversa” ribadì, allungando una mano verso il suo volto.
Esitò, nel notare ancora una sua volta le sue lacrime. Alla fine, ritirò il
braccio. “Era semplicemente più facile così. Meno doloroso. Meno…”
Non riuscì a
completare la frase; si aggrappò alla speranza che Gale, proprio come un tempo,
sarebbe riuscito a capire lo stesso. E quando tornò a incrociare lo sguardo, fu
certa che ci fosse riuscito: c’era ancora dolore nei suoi occhi, ma anche una
nuova, lieve, punta di consapevolezza.
“Era più semplice
collegare a me il ricordo della sua morte, vero?” chiese, in tono di voce
stranamente pacato. “Tenendo lontano me avresti allontanato anche il senso di
colpa.”
Qualcosa dentro
Katniss sembrò andare in frantumi. La maschera di certezze che aveva tenuto
insieme con fatica per anni si era sgretolata con un unico colpo ben assestato.
“Avrei dovuto
capirlo” mormorò infine, con un filo di voce. “Avrei dovuto proteggerla.
Continuo a pensare… Continuo a ripetermi…” s’interruppe per riprendere fiato:
le lacrime le rendevano difficile proseguire. “Continuo a mettere in fila tutti
i miei passi falsi: cosa sarebbe successo mi fossi limitata a offrirmi
volontaria per salvarla e basta? Se non avessi dato quelle bacche a Peeta, se
avessi convinto Snow del mio amore per lui in tempo, se non avessi scoccato
quella freccia contro il campo di forza… Se, se, sempre solo se…”
“Si sentì strano. Gli
sembrò quasi di avere paura, tanto gli batteva forte il cuore.
Ma era una paura
bella, che lo faceva sentire bene. Samuel Hawthorne non aveva occhi che per
quella cometa.”
Il contatto freddo
con le sue dita la fece rabbrividire: Gale le stava sfiorando una guancia con
una delicatezza tale da farle dubitare che stesse succedendo per davvero. Aveva
un tocco leggero, evanescente, come se fosse destinato a scomparire da un
momento all’altro. Proprio come aveva fatto luiin passato.
“Dimmelo, Gale” lo
supplicò all’improvviso, cercando il suo sguardo. Aveva paura di ciò che stava
chiedendo, ma sentiva che lui avrebbe capito, che non c’era altra persona in
grado di infonderle la certezza che stava cercando in quel momento. Gale era
l’unico che avrebbe potuto aiutarla ad alleggerire quel dolore. Perché era la
cosa di cui anche lui aveva un disperato bisogno. “Per favore.”
E Gale capì. Le
afferrò una mano e ne accarezzò il dorso con il pollice.
“Non è stata colpa
tua, Katniss” dichiarò infine con sguardo fermo. La sua voce tremò appena,
sopraffatta dall’emozione.
Quel Katniss risuonò
strano dalle sue labbra: non si addiceva alla sua voce. Lei per Gale era sempre
stata Catnip. Tutto a un tratto venne attraversata da un fiotto di
nostalgia; avrebbe voluto dirgli che le mancava sentirsi chiamare così, ma
ancora una volta non trovò le parole per farlo.
“Avrebbe
voluto gridarle qualcosa, qualcosa come: «Eccomi, sono qui! Sei venuta per me?
Ti aspettavo! »”
“Quello che hai fatto
ci ha salvato” proseguì Gale. “Ha salvato tutti, inclusi Prim e i miei
fratelli. Inclusi i nostri figli” aggiunse in un tono tutto a un tratto più
controllato.
Il peso che da sempre
gravava sullo stomaco di Katniss si affievolì: il cambiamento fu leggero, ma
sufficiente a permetterle di respirare regolarmente per la prima volta da ore.
Si sentiva
tranquilla, adesso; forse un po’ smarrita, come qualcuno che ha fra le mani
qualcosa di antico e non sa come maneggiarlo per paura di romperlo. Tuttavia,
non si sentiva arrabbiata, né spaventata. Non aveva più paura di Gale e dei
quindici anni che li avevano tenuti separati.
Per questo, quando il
soldato allentò la presa sulla sua mano, Katniss lo trattenne.
“Adesso dimmelo tu”
mormorò a quel punto l’uomo, guardandola con insistenza.
Le lacrime avevano
smesso di scendere, ma ne era rimasta qualcuna appesa alle sue ciglia; nel
guardarlo meglio, alla poca luce che le stelle le concedevano, Katniss, si
accorse che aveva conservato la bellezza di quando era ragazzo. C’era qualcosa
nel suo sguardo, tuttavia, che rendeva il suo bell’aspetto spento, sfiorito.
Forse era il risentimento, così riconoscibile nei suoi occhi cerchiati dal
dolore.
“Non è stata colpa
tua” sussurrò infine, con tutta la sicurezza riuscì a imprimere in quelle cinque
parole.
“In quel momento, Samuel incominciò a sentirsi
improvvisamente leggero come se, assieme alla cometa, se ne stessero andando
anche le cose brutte che portava lì dentro, nel petto, e che si portava dietro
sin da quando era piccolo.”
“Che
genere di cose?”
“Cose
come la paura, o la tristezza, o i sensi di colpa. Le cose che ti schiacciano,
sai, quelle che ti buttano giù.”
Una lacrima solitaria
tornò a rigare il volto dell’ ex-soldato.
In quel momento Gale
le sorrise; era la prima volta da quindici anni che lo faceva e una stretta
allo stomaco avvisò Katniss della familiarità di quel gesto: il suo sorriso era
rimasto lo stesso di un tempo. Era ancora in grado di trasformarlo da qualcosa
di minaccioso a qualcuno che avresti desiderato conoscere.[1]
Con improvviso impaccio,
Katniss tese una mano per accarezzare il volto dell’amico: attraverso il suo
sguardo, tutto a un tratto più disteso, riusciva quasi a intravedere il
fardello del suo senso di colpa. Quel peso che si portava sulle spalle ormai da
anni e che probabilmente gli avrebbe gravato addosso per sempre,così
come sarebbe accaduto a lei. Quella sera, tuttavia, erano riusciti a disfarsi
di parte di quel carico. Erano tornati ad aiutarsi, a condividere come
facevano un tempo, quando erano responsabili delle rispettive famiglie.
“Adesso dovresti
perdonarti” mormorò infine Gale, stringendosi nelle spalle. “Così forse, prima
o poi, riuscirò a fare lo stesso con me.”
Katniss annuì.
“Mi perdono” azzardò,
asciugandosi il volto con una manica del golfino. “Io… ci perdono.”
Gale le sorrise di
nuovo.
“Mi sei mancata, Catnip”
ammise infine, tornando a mettersi le mani in tasca.
Il nomignolo le svolazzò
dentro più volte, provocandole un piacevole sfarfallio all’altezza del petto.
Questa volta sorrise anche
lei.
“Mi sei mancato
anche tu” rivelò, appoggiando la fronte al suo torace.
Gale la strinse a sé,
e per un attimo fu come se non nessuno dei due avesse mai cessato di esistere
nella vita dell’altro. Fu come se fossero stati sempre e solo loro due, il
ragazzo e la ragazza che un giorno si erano incontrati per caso nei boschi e
avevano finito per diventare inseparabili.
“Quellacometa doveva proprio avere qualcosa di magico, perché fece
qualcosa di strano a tuo nonno: lo cambiò un po’ dentro, lo rese più ottimista.
Ogni sera Michael guardava il cielo, nella speranza di veder passare di nuovoHalley. Perché, nel momento in cui
l’aveva vista per la prima volta, il nonno si era sentito come se l’avesse
attesa da sempre, quella cometa. E quando se ne era andata, lui aveva capito
subito che avrebbe continuato ad aspettarla per sempre.
Katniss allacciò le braccia
al collo di Gale e inspirò il suo odore, che non era poi così diverso rispetto
a quello di una volta. Sapeva ancora di legna e arance, ma anche di soldato, di
uomo. Sapeva di sicurezza, di qualcosa di familiare.
E in quel momento, vicina
al suo migliore amico come non lo era più stata da anni, avvertì finalmente
quel calore che aveva sperato di provare al passaggio della cometa: fu come se
Halley stesse passando una seconda volta sopra le loro teste per cambiare il
loro destino in meglio, come aveva fatto più di settant’anni prima con i loro
nonni. Per ricordare a entrambi che in passato si erano appartenuti a vicenda e
che avrebbero potuto continuare a essere una squadra, non importava quanto
fossero cambiate le loro vite.
“Ehi, Gale…”
Katniss sorrise, separandosi
dall’amico. Cercò di imitare il tono scherzoso del Gale adolescente e lui si
passò imbarazzato una mano dietro la nuca.
“Certe
persone pensarono che si fosse un po’ ammattito. Forse, un po’ matto, lo era
diventato sul serio. Ma che importanza aveva? Era felice.”
Tutto a un tratto, scoppiarono
entrambi a ridere. Il momento d’ilarità durò a lungo e senza ragione apparente,
ma questo non impedì loro di andare avanti fino a quando non dovettero riprendere
fiato. Nel giro di un minuto i loro occhi avevano ripreso a lacrimare, ma
nessuno dei due avrebbe saputo dire se quella reazione fosse dovuta al troppo
riso oppure a qualcos’altro.
“D’accordo” fu una delle
ultime cose che Gale mormorò all’orecchio dell’amica, prima di salutarla.
Katniss gli credette.
E quella sera, senza nemmeno rendersene
conto, incominciò ad aspettarlo.
“Vedi,
Katniss, in fondo tutto ciò di cui tuo nonno aveva bisogno era un po’ di
speranza. Qualcosa che gli suggerisse che alla fine tutto sarebbe andato a
posto: che sarebbe stato bene. E quel qualcosa fu la cometa di Halley.”
***
Note Finali.
Ed ecco che finalmente, dopo
averci girato intorno per capitoli e capitoli, Gale e Katniss finalmente si
incontrano. Non so se il mio punto di vista sul motivo per cui questi due
abbiano finito per distanziarsi sia condivido o meno, ma io ho sempre visto
negli atteggiamenti di Katniss questo egoismo spesso inconsapevole; sono sicura
che si sia sentita in colpa per la morte di Prim e credo anche che allontanare
Gale e incolparlo per la storia delle bombe l’abbia aiutata a sentire meno questo
dolore. In sostanza non penso che abbia mai davvero pensato che la colpa fosse
sua (anche perché non lo è). In un certo senso lo si intuisce anche da ciò che
viene raccontato negli ultimi capitoli, sia durante il loro ultimo incontro che
quando Katniss torna a casa. Quando trova sollievo nel sentir dire da Sae la
Zozza che si è trasferito nel Due, ma al tempo stesso lo aspetta e prova
fastidio quando lo pensa distante e intento a baciare un altro paio di labbra.
Gale invece incolpa se stesso, per questo ci tenevo proprio che ci fosse quel
momento di rassicurazione in cui i due si perdonano a vicenda.
E niente, questo era l’ultimo
capitolo vero e proprio: il prossimo sarà più breve, essendo l’epilogo. Nell’epilogo
troveremo, come accennato in precedenza, Gale e il suo figlioletto, Joel.
Grazie mille a Sfiorarsi per aver
continuato a seguire questa storia! Questo capitolo è tutto per te!
Un abbraccio e buona domenica!
Laura
[1] Questo passaggio è una citazione
tratta da “Hunger Games”: Katniss nel libro stava raccontando della prima volta
in cui aveva visto Gale sorridere.
[2]Questo è un riferimento
alla mia primissima Gale!centric intitolata appunto “Torna a casa”,
dove è Gale, mentre segue gli Hunger Games dal televisore di casa Everdeen, a
mormorare la stressa frase, desiderando che Katniss torni a casa.
Il vialetto che
portava a casa di Rory sembrava molto più familiare del solito, così
ombreggiato dal buio notturno.
Gale lo percorse
senza fretta, prendendosi il tempo per riflettere su ciò che era appena
successo.
Quando giunse nel
giardino d’ingresso di suo fratello, trovò qualcuno ad aspettarlo.
Un sorriso piegò
istintivamente le sue labbra; Joel stava facendo dei palleggi con una pallina
di plastica.
“Ehi…” richiamò
l’attenzione del bambino, chiudendosi alle spalle il cancelletto.
Nel vedere il padre,
il volto di Joel s’illuminò.
“Eccoti!” esclamò,
lanciandogli la palla.
Gale la prese al
volo, prima di far cenno al figlio di sedersi sui gradini assieme a lui.
“Dov’eri andato?”
chiese il ragazzino, appoggiandosi al suo fianco.
“A fare una
passeggiata.”
Joel gli passò una
mano sulla guancia; il suo sguardo, da allegro, si fece crucciato.
“Hai pianto, papà?”
Il senso di colpa
pungolò lo sterno di Gale.
“Sto bene, Joey” lo
rassicurò, facendogli una carezza. “Non preoccuparti per me.”
Il ragazzino tornò a
sorridere.
“Lo so che stai
bene…” rivelò, appoggiando la testa alla sua spalla. “… Sorridi. È la prima
volta che fai un sorriso vero da quando siamo arrivati.”
Il padre gli arruffò
i capelli.
“Beh, abbiamo appena avvistato una
cometa che non si faceva vedere da settantasei anni… Un evento del genere si
merita un sorriso, no?”
“Ben più di un sorriso!” confermò Joel
prendendo la mira per lanciare la pallina nel canestro posto in cortile. Esitò
per qualche istante, quasi fosse indeciso se aggiungere qualcosa o meno.
“Anche la nonna aveva gli occhi lucidi
quando mi ha dato la buonanotte” ammise infine, tornando ad appoggiarsi al
padre. “Non mi piace vederla piangere.”
“Alla nonna manchi tanto, quando non ti
vede per molto tempo” spiegò Gale, accarezzandogli i capelli. “È triste perché
sa che domani partiamo e non potrà vederci per un po’.”
Joel rimase in silenzio per qualche
istante, prima di riprendere il discorso.
“Anche io sono triste…” rivelò cauto,
quasi si sentisse indeciso se pronunciare quelle parole o meno. “… Posso essere
triste?”
Gale gli rivolse un’occhiata sorpresa;
gli sollevò poi con delicatezza il mento per poterlo guardare il bambino
negli occhi.
“Certo che puoi” lo rassicurò. Sapeva
che ogni tanto Joel frenava le proprie emozioni per paura di ferirlo e la cosa
non gli piaceva affatto: era il risvolto negativo dell’avere un figlio troppo
consapevole delle conseguenze della guerra. “Anch’io sono triste, qualche
volta.”
Joel annuì; prese una mano del padre e
ci appoggiò sopra le sua, come se volesse metterle a confronto.
“Papà…” riprese all’improvviso,
voltandosi verso di lui. “… Tu ci credi ai poteri della cometa?”
Gale aggrottò le sopracciglia.
“Quali poteri?”
“Quelli di cui parlava nonno Joel:
diceva che chi guarda la cometa poi si sente più leggero e le cose per lui
incominciano a cambiare. Secondo te è vero che cambieranno?”
Gale tacque per qualche istante.
“Tu come vorresti che cambiassero?”
chiese infine.
Joel non rispose subito: non amava
molto quel genere di domande.
“Niente più incubi” mormorò infine,
sollevando lo sguardo verso l’alto; il cielo era pulito e pieno di stelle, ma
in apparenza era lo stesso di sempre. Non v’era segno del passaggio della
cometa di Halley. “Né per te, né per Johanna.”
Ancora una volta, Gale avvertì una
morsa di dolore all’altezza del petto. Strinse a sé il bambino e lo cullò per
qualche istante, come faceva quando era più piccolo. Joel chiuse gli occhi e lo
lasciò fare, la nuca adagiata contro il suo torace. Gale l’osservò in silenzio,
contemplando con tenerezza quell’unico risvolto positivo delle sue azioni. Joel
era il frutto di un errore, ma aveva concluso per trasformarsi nell’unica cosa
veramente giusta nella sua vita.
“E oltre a questo… Che cosa
cambieresti?” insistette.
Joel si staccò da lui per guardarsi
attorno, lo sguardo velato dall’indecisione.
“Vorrei tornare qui un’altra volta…”
ammise infine, senza guardare il padre negli occhi. “Con te. Lo so che hai
detto che non ci saremmo più venuti e che siamo qui solo per la cometa. È solo
che…”
“Sei felice, qui…” lo interruppe Gale,
cercando il suo sguardo. “… Vero?”
Il bambino diede una scrollata di
spalle.
“Mi piace tanto stare con la nostra
famiglia” ammise infine, arrossendo. “Ma sono felice anche a casa.”
Era evidente che stesse cercando di
minimizzare per non farlo sentire in colpa.
Gale gli sorrise; si chinò in avanti
per sussurrargli qualcosa nell’orecchio.
“Ti andrebbe di tornare qui il prossimo
week-end?”
Lo sguardo del bambino si animò di
stupore.
“Possiamo? Davvero?” chiese conferma,
una nuova luce di vivacità a negli occhi.
Quando il padre annuì, Joel esultò e
gli gettò le braccia al collo. Gale ricambiò l’abbraccio: leggere l’entusiasmo
nel volto di suo figlio gli fece comprendere di aver preso la decisione giusta.
“Tutto ciò che voglio è vederti felice,
Joey” dichiarò infine, appoggiando il mento ai suoi capelli. “Solo questo. Lo
sai, vero?”
Il bambino annuì.
“Ed io sono felice, papà” lo rassicurò,
separandosi dall’abbraccio per poterlo guardare negli occhi. “Davvero: perché
ho te.”
Si sorrisero a lungo, prima che Joel
distogliesse lo sguardo per tornare a guardare il cielo, subito imitato dal
padre.
Il freddo stava incominciando a farsi
sentire, me nessuno dei due ci badò; rimasero a lungo sui gradini d’ingresso,
gli occhi rivolte alle stelle e la mente assorta nel pensiero di quella cometa
che, ne erano certi, stava per cambiare in meglio le loro vite.
Sicuri che, da qualche parte a poche centinaia di metri
di distanza, qualcun altro stesse facendo lo stesso: erano una donna del
Giacimento e sua figlia. Erano il passato e il presente della loro storia, il
punto da cui tutto era cominciato.