The lass in the pretty rose glass

di theuncommonreader
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** We know what we are, not what we may be ***
Capitolo 2: *** Dreaming is a form of planning ***
Capitolo 3: *** The lass through the looking-glass ***
Capitolo 4: *** When it's too hard to stand, kneel ***
Capitolo 5: *** Epilogo: Let's go crazy together, hand in hand ***



Capitolo 1
*** We know what we are, not what we may be ***


capitolo I


 

 

“Beware of the lass

In the pretty rose glass

She will swallow your mind

She will poison your life

There’s no fighting her

She’s already inside.”

 

 

 

 

The lass in the pretty rose glass

 

 

 

 

 

 

I:

We know what we are, not what we may be

 

 

“Mia cara, siamo oneste tra noi: che la vostra pupilla conduca una vita tanto reclusa non è normale. O sano, per una ragazza della sua età. Perdonate la franchezza, ma certe cose vanno dette.”

Accostare il viso per gettare un’occhiata dentro avrebbe comportato farsi scoprire, ma la ragazza in questione riusciva anche senza vederla a immaginare la donna di mezza età appollaiata sulla vecchia poltrona fiorata di Toile de Jouy [1] che tanto favoriva, il sottile manico ad ansa di una tazzina da tè tra le dita grassocce.

Madeline se ne figurava il viso sfiorito segnato da linee di preoccupazione sulla fronte bassa, mentre quella continuava il suo pontificare: “Siamo già a metà Stagione: ai miei tempi, ero tanto inondata di inviti che raramente mi si trovava in casa dopo l’ora del tè. La piccola Madeline, invece… mi si spezza il cuore a pensare al rigoglio della sua età più verde che si secca nel grigiore della solitudine. ”

Una breve pausa in cui il silenzio venne riempito dall’ululare del vento fuori dalla finestra, e poi: “Comprenderei se il viaggio fino a Londra vi incomodasse troppo, se… vi mancassero i fondi. Tuttavia, vi conosco abbastanza da sapere che non siete voi quella in preda a certe pigrizie e capricci. Vi consiglio di esercitare più polso sulla ragazza: ricordatele che è già alla sua seconda Stagione [2] e raramente ce n’è una terza. Il pericolo dello…” seguì un mormorio indistinguibile mentre pronosticava un futuro impronunciabile di zitellaggio, “… È sempre in agguato. Finiranno davvero per crederla una pazza lunatica, se non inizierete seriamente a curare la sua vita sociale.”

Lo sbuffo impaziente di zia Martha sarebbe stata una replica sufficiente; ma sua zia non era il tipo da tener per sé le sue opinioni.

“Vi ringrazio per i vostri savi consigli, ma credo di saper gestire da sola mia nipote: dopo tutti questi anni spero di avere imparato come si sta al mondo, Jane cara. Dunque non preoccupatevi: ce la caveremo perfettamente.”

Il tintinnare più energico di una tazzina sul piatto, come il martelletto di legno di un giudice, mise fine alla discussione.                         

 

     

 

Checché la zia Martha ne dicesse in merito parlandone alle amiche, Madeline già sapeva che l’avrebbe messa in croce fino a che non avesse capitolato – non si fosse scrollata la perenne cappa di stanchezza di dosso, lasciandosi convincere ad accettare almeno qualcuno (meglio se tutti), degli inviti che, contrariamente alle insinuazioni di Mrs. Barlow, erano arrivati eccome nella forma di eleganti biglietti profumati crema e lavanda, griffati d’oro e d’argento.

Era una creatura peculiare, la zia Martha.

Amava la solitudine, eppure raramente si perdeva una festa – e l’occasione di sfoggiare abiti e gioielli troppo lussuosi per le loro finanze non poi tanto floride. Pareva avere anche la bizzarra idea di poter esibire sua nipote con la medesima facilità cui, abbandonando casualmente una mano sul bracciolo di un’elegante poltroncina, avrebbe offerto le dita preziosamente inanellate allo sguardo invidioso della gente dabbene di Richmond.

Il suo secondo matrimonio era stato vantaggioso sino a che era durato – così le diceva in confidenza. Anche ora non erano certo ridotte alla miseria, ma la carne si stava facendo sempre più rada alla loro tavola, e i bei vestiti che indossavano negli ultimi tempi provenivano dai rigattieri di Londra, scovati dall’occhio savio della loro unica cameriera, Kate.

Madeline sfiorò con un dito la seta lisa del morbido abito da tè [3] di seconda mano, seguendo col polpastrello il ricamo un poco sfatto di una rosa rossa su sfondo scuro.

Sospirò, raggomitolandosi e portando le ginocchia al petto, lo sguardo perso verso la porzione vuota di parete di fronte al letto.

Avrebbe voluto accontentarla, chiaramente. Si augurava di non essere una pupilla tanto indegna da contrariare di proposito la sua sola benefattrice.

La zia era sempre stata così buona con lei. Se l’era presa in casa quando nessuno la voleva e aveva provveduto a darle l’educazione di una gran signora – o di un’ottima governante, a seconda del giro di fortuna, come non mancava di ripeterle.

C’era molto di cui esser grati, eppure Madeline non riusciva a compiere questo piccolo sacrificio per lei. E che sforzo era, poi, lasciare che la cameriera l’abbigliasse decentemente e le sistemasse i capelli, piuttosto che girare per casa in vestaglia come una sciatta anima in pena, la chioma simile alla criniera di un leone d’Africa, la testa scompigliata troppo piena di pensieri?

Spinto dal vento, un ramo batteva contro il vetro della finestra, le foglie appena nate che grattavano sul vetro.

Gli ultimi uccelli avevano cessato di cinguettare; i soli rumori erano quelli che provenivano dabbasso, dove Kate doveva essere alle prese con la cena nel cucinino ingombro.

Pure l’idea di alzarsi e mettersi a tavola, affrontare i muti (e poi meno muti), rimproveri incisi sul volto di sua zia, le toglieva la voglia di abbandonare il comodo materasso in cui il suo corpo sgraziato affondava come in un bozzolo di lana e piume d’oca.

Aveva ragione Mrs. Barlow: si stava davvero comportando come una bambina capricciosa. Ma che senso aveva, tentare? Le feste, i frizzi e i lazzi erano per giovani Vecchie Regine dai boccoli biondi e dalle doti sostanziose; la lanosa chioma color topo di Madeline difficilmente avrebbe attirato qualche sguardo, e così la sua mancanza di mezzi.

A che pro prendersi tanti disturbi, allora, se già dentro era rassegnata all’esistenza di governante dei figli di altri? Non era neppure più una cupa prospettiva, questa, per lei.

Lo era stata all’inizio, quando aveva visto le compagne convolare a giuste nozze una dopo l’altra, due Stagioni prima; adesso era semplicemente rassegnata a un destino ineluttabile – fato a cui, sotto le coperte, poteva sottrarsi ancora per un poco.

Nella camera della sua infanzia, tappezzata di chintz macchiato della muffa che neanche la mano sapiente di Kate sapeva mandar via tanto era ostinata, sfuggire allo scorrere dei giorni non era per nulla arduo.

Di certo, meno difficile che evitare la zia.

Il bussare alla porta, che la fece sussultare e mettere a sedere di soprassalto, non era quello discreto della cameriera, ma l’energica fanfara della padrona di casa   che entrò senza attendere di essere invitata, com’era suo costume.

“Madeline cara, è quasi ora di cena. Alzati e vieni dabbasso, e bada che non tollererò l’ennesima richiesta di un brodino di pollo in camera. Non sei né vecchia né invalida: se vuoi mangiare, lo farai con me di sotto.”

Non c’era vera irritazione nella sua voce, ma il tono di comando spinse Madeline a sollevare mite il busto libero dal corsetto e a mettersi diritta, scostando dal viso le ciocche ricadute sulla fronte. La lampada a gas che illuminava il corridoio disegnava sul pavimento di legno l’ombra della zia, che si allungava come per ghermirla.

“Lavati la faccia e scendi, coraggio.”

La porta si richiuse alle spalle di zia Martha improvvisamente come s’era aperta; Madeline si fece forza, infilando i piedi nelle babbucce e avvicinandosi alla cassettiera di legno scuro dove l’attendeva, già pieno all’orlo, un catino d’acqua ormai gelida. Avrebbe dovuto metterla sul fuoco per stiepidirla, ma le fiamme già deboli si erano spente da un pezzo nel camino; dunque si chinò, immerse le dita e si spruzzò l’acqua sul viso, premendosele sulle guance sino a che non le avvertì formicolare e poi bruciare contro la pelle insensibile dei palmi.

 

 

 

 

“Ho un regalo per te,” annunciò la zia qualche pomeriggio più tardi.

Febbraio avrebbe presto lasciato spazio a marzo: il mese della primavera gentile [4], del Leprotto Bisestile [5], delle piogge improvvise, di lunatici e pazzi – e di Madeline Moon [6], che era entrambe le cose.

Quel giorno in particolare, Madeline sembrava quasi felice.

“Ma zia!” esclamò la ragazza in un raro slancio di entusiasmo, scostando la sedia imbottita per voltarsi verso la porta spalancata, le dita della mano destra ancora sui tasti del pianoforte. “Mancano ancora due settimane al mio compleanno.”

Un vociare maschile la interruppe, mentre zia Martha si faceva di lato per permettere il passaggio di due enormi spalle e una schiena robusta, imprigionata nel tessuto grezzo di una camicia macchiata di terra – e il Cielo sapeva che altro.

Un afrore di traspirazione si diffuse nella stanza mentre l’uomo procedeva all’indietro, due braccia forti che tenevano ben sollevato un oggetto oblungo e piatto, alto quasi quanto lui, avvolto in carta da pacchi marrone.

“Trasportarlo su per le scale sarà un bel problema,” sentì borbottare la zia, che pure pareva abbastanza orgogliosa di questo ultimo acquisto londinese – le guance ancora più rubiconde dopo aver assaggiato l’aria malsana della capitale. “Orbene, ci penseranno questi gentili signori.” Indirizzò un luminoso sorriso ai due manovali – un altro, più giovane e meno scuro, aveva seguito il primo, la pelle color noce del volto increspata per la fatica e imperlata da minuscole gocce di sudore.

In preda a una curiosità che generalmente non le apparteneva, Madeline si avvicinò, evitando accuratamente ogni contatto con i due che, sbuffando e grugnendo, stavano depositando sul pavimento il loro fardello, con un pesante tonfo attutito dalla spessa moquette a disegni bianchi, neri e rossi.

“Piano, piano! Usate delicatezza!” li rimproverò la zia, improvvisamente aspra, ma la sua voce era solo un sottofondo lontano per Madeline, intenta a osservare ogni piega della carta marrone nel tentativo di indovinare cosa celasse al disotto.

“Ah, mia cara, l’ho adocchiato stamane su una bancarella in Portobello Road, buttato in un angolo assieme ad altre cianfrusaglie, e ho deciso che dovevo averlo per te. Ho persino strappato un prezzo di favore, ci crederesti? Il rigattiere dice che continuano a restituirglielo. La gente è folle.”

Scosse la testa come a condannare la pazzia dei londinesi, mentre con un braccio faceva segno agli uomini di fatica di spostare il pacco poco più al centro, così che la luce morente del pomeriggio potesse colpirlo in pieno.

Madeline voltò il capo in direzione di zia Martha, di nuovo sorridente e compiaciuta mentre i due manovali si massaggiavano con discrezione le reni doloranti, soffocando i grugniti. “Posso già vedere di cosa si tratta?” domandò, con un’impazienza febbrile che non avrebbe saputo ben dire da dove venisse.

Era uno dei suoi giorni buoni, quello – così la zia definiva quei rari momenti in cui a Madeline il letto non pareva un rifugio accogliente ma una gabbia, una prigione. Non avvertiva un briciolo di stanchezza addosso; il solito torpore le era scivolato dalle spalle come una mantella male allacciata; quel corpo che così spesso le era insopportabile trascinare da una stanza all’altra, pareva privo di peso.

Ricambiò il cenno affermativo della zia con un sorriso che le stirò le labbra tanto da risultarle doloroso. A quell’ordine tacito, gli uomini presero a strappare via la carta senza alcuna delicatezza, denudando un oggetto imponente, ritto su quelle che si rivelarono possenti zampe di legno intagliato.

Rapidamente, svelarono la pesante cornice di mogano intarsiato con ghirigori – rose in bassorilievo tanto realistiche che Madeline poteva immaginarne i petali bagnarsi nella rugiada del mattino; uno strappo alla volta, in modo quasi osceno, scoprirono la superficie riflettente, opaca e macchiata dal tempo di un’antica specchiera.

“Non è un gioiello, bimba mia?” La voce di zia Martha tremava d’orgoglio, neppure avesse plasmato con le sue mani quello che doveva essere un capolavoro di falegnameria del secolo scorso.

Madeline non poteva che concordare mentre percorreva con lo sguardo la magnificenza di fronte a lei; allo stesso tempo, avvertiva spegnersi l’entusiasmo poco a poco, come un focherello soffocato dall’umidità.

La zia si spostò dietro di lei. Aveva un passo lesto e leggero per la sua età non più giovanile – e per essere una donna rotonda avvolta in velluto e crinoline troppo ampie per andare ancora di moda, che le ondeggiavano attorno ai piedini frusciando a ogni movimento.

Incurante della presenza degli uomini affannati ma ritti sulle gambe, coi cappellacci tra le mani scure e rovinate – eppure, Madeline lo sapeva bene, profondamente consapevole di ogni sguardo di troppo all’argenteria lasciata in bella vista, al prezioso orologio d’oro che ticchettava sul pianoforte, ai leziosi pastorelli di ceramica disseminati su ogni pezzo di mobilio disponibile nella stanza ingombra – le posò le mani ancora avvolte nei guanti di lana leggera sulle spalle. “Quale modo migliore di invogliarti a farti bella che uno specchio altrettanto bello in cui rimirare il tuo riflesso?”

Accennò con il mento alla specchiera come a sottolineare il concetto, e Madeline, sempre ubbidiente, si lasciò guidare fino a posare gli occhi sulla propria immagine.

“Davvero è possibile, cara, che tu non comprenda il tuo potenziale? Quanto potresti essere graziosa con un corsetto più stretto, la chioma domata, un accenno di porpora alle guance?”

Il rossore non le mancava, invero. Le saliva dal collo sottile fino alla faccia a mela, colorandole gli zigomi solitamente esangui. Vedeva una ragazza osservarla timidamente – occhi scuri e schivi, un naso privo di carattere, una bocca piccola e pallida, sottile e rugosa come una prugna secca – avvolta nel suo abito da tè troppo stretto sulle spalle, le maniche a sbuffo che le rendevano le braccia simili a due cosci di maiale che culminavano in avambracci rinsecchiti.

Un sospiro sfuggì alle labbra della zia mentre la lasciava lì a osservarsi e prendeva accordi con i due manovali per trasportare in camera sua la specchiera (“Ora che la vedo in casa, è davvero un’enormità. Spero vivamente che passi per la sua porta!”).

Appena le voltò le spalle, Madeline distolse lo sguardo girando il capo verso il vetro della finestra e fissandolo sulla macchia verde scuro del giardino ancora spoglio.

Mentre avvertiva la contentezza del giorno buono scivolare via e la solita nebbia dei giorni cattivi tornare a pesarle sulla testa chiara, le parve di cogliere un movimento con la coda dell’occhio – ma quando si voltò a indagare non trovò che Kate sulla soglia della stanza, che esprimeva la sua meraviglia per la bellezza del regalo di compleanno (“Complimenti, miss Maddie, uno spettacolo davvero,” diceva con quel suo strascicato accento irlandese).

Non ci pensò più, dunque – non finché la notte non calò su Vine Cottage, portando via con sé le ultime luci della bella giornata – e ogni sua certezza.

 

 

 

 

NOTE

[1]: Si tratta di un cotone inizialmente prodotto a Jouy-en-Josas, a partire dal XVIII° secolo che divenne molto popolare in Francia e in Inghilterra.

[2]: La Stagione era un periodo dell’anno che andava da aprile ad agosto, in cui era costume che le classi più agiate si riunissero a Londra in numerosi eventi sociali. Era l’occasione per i giovani di buona famiglia di venire presentati in società (debutto), e di combinare un buon matrimonio.

[3]: Si tratta di un abito dalle linee morbide e dalle ampie maniche, ispirato ai kimono giapponesi e indossato sopra camice leggere. Viene definito come a metà tra un vestito elegante e un elegante veste da camera, e aveva la peculiarità di poter essere indossato senza corsetto o l’aiuto di una cameriera. Era un capo di abbigliamento generalmente molto costoso.

[4]: Una citazione da Springtime, di Gertrude Tooley Buckingham.

[5]: Personaggio del celebre Alice nel Paese delle Meraviglie, di Carroll.

[6]: La scelta del nome di Madeline non è casuale: la prima sillaba, “mad”, può essere tradotta come “pazzo”; “Moon”, luna, dà origine all’aggettivo “lunatico” – “lunatic”, in inglese, sinonimo di “folle”.

DISCLAIMER: L’immagine iniziale, da me modificata, appartiene nella forma originale alla sua creatrice, Tsukiji Nao.

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Capitolo 2
*** Dreaming is a form of planning ***


 

III.

Dreaming is a form of planning

 

 

Madeline sedeva a terra, le gambe incrociate e il busto chinato in avanti. Il collo piegato dolorosamente, strizzava gli occhi, concentrata.

Tra le dita, i gambi di rose si incurvavano docilmente, lasciandosi intrecciare senza troppa difficoltà. Le spine si conficcavano nella carne come sottilissimi spilli, ma Madeline non provava alcun dolore. Inalava profondamente l’odore pungente dei fiori, lasciandosene inebriare.

“Perché le rose, Alice?”

“Come “perché”? Non sono il tuo fiore preferito?”

Madeline arrossì in risposta, levando lo sguardo su quello limpido di Alice per poi riportarlo sul bocciolo intrappolato tra pollice e indice, i petali ancora stropicciati. “Nei tempi antichi si credeva che fosse nata dal sangue mortale e lacrime di dea [1],” spiegò anche se si sentiva sciocca a confidarle ad alta voce pensieri che Alice conosceva già.

“È il simbolo dell’amore che trionfa sulle avversità, ma della Vergine, di Gesù Cristo e dei martiri.”

Ricordava vividamente il discorso di commiato del reverendo Plumptre [2] alle Regine uscenti – più di qualcuna con le lacrime agli occhi, e Madeline non aveva fatto eccezione. Nella vecchia aula tirata a lucido, aveva lasciato che le lacrime le rotolassero sul viso liberamente e tirato su col naso senza un briciolo di decenza.

Il preside le aveva rimproverate bonariamente – Madeline rammentava lo sguardo gentile negli occhi appesantiti da sopracciglia folte – augurando loro di crescere forti come la rosa d’Inghilterra. “Ci hanno tirato su per essere rose inglesi [3] ma il massimo a cui posso aspirare, temo, è quella di Natale [4].”

Alice allungò una mano per sfiorarle il volto in una amorosa carezza.

“Ti sottovaluti, Maddie, come in ogni altra cosa. Di fronte a me vedo una giovane donna bella e intelligente – non certo una timida gramigna di campagna.” Raccolse dalle sue mani la rosa, portandosela al naso grazioso.  “E se anche fosse?” concluse, strofinando il bocciolo sulle labbra incurvate di Madeline, “Ciascun fiore ha i suoi pregi.”

 

 

 

 

Nella nebbia mattutina una sagoma si muoveva lentamente, trascinandosi lungo la schiena arcuata del ponte in pietra di Portland. I lampioni spenti gettavano ombre lunghe sulla pavimentazione di un grigio pallido, mentre la figura, un passo dopo l’altro, si faceva più vicina al parapetto, leggermente ingobbita – come gravata da un peso.

Madeline la vide arrestarsi, i nastri del cappellino nero che ondeggiavano nel vento gravido. Nella destra guantata di rosso stringeva i manici rigidi di una borsa Gladstone [5] di pelle invecchiata, non dissimile da quella che zia Martha usava portarsi dietro nei suoi brevi soggiorni londinesi a casa di amici. La dragona [6] che la fermava era tesa, quasi il contenuto premesse per evadere dai suoi confini. 

Con uno sforzo evidente, la giovane donna – perché di una giovane si trattava, la gonna dell’abito che si apriva ampia sulla vita sottile, gonfiandosi attorno agli stivaletti lucidi – si sporse appena col busto oltre il parapetto, riuscendo a sollevare la borsa e tenendola sospesa per lunghi attimi sulle acque limacciose del Tamigi, di un verde nerastro, che scorrevano chetamente sotto di loro.

La borsa ne perforò la superficie con un tonfo sordo, un rumore liquido che riecheggiò nelle orecchie sensibili di Madeline, mentre lo sguardo le scivolava sulle dita della ragazza, abbandonate sul corrimano.

Si rese conto allora di essere caduta in errore: non era un guanto di seta quello che aderiva alle dita lunghe e affusolate, ma un sottile, lucido strato di sangue non ancora rappreso.

Madeline spalancò gli occhi con tanto impeto da farseli dolere: dalla stufa emanava un bagliore aranciato che l’accecò per qualche momento, costringendola a battere le palpebre una, due, tre volte.

Il freddo della parete penetrava oltre il tessuto dell’abito da tè, gelandole la schiena quanto il fuoco le accaldava le guance, facendola sudare sotto le ascelle e tra i seni.

Inspirò profondamente, impiegando qualche attimo per comprendere dove si trovasse. Riconobbe la stanza quando mise a fuoco la grossa credenza di legno addossata al muro, i piatti di porcellana impilati ordinatamente sulla mensola e gli ingombranti barattoli di conserva ben etichettati uno affianco all’altro sul piano in acero. Non ricordava di essere scesa in cucina – rammentava i richiami di Kate, che, chissà per quale ragione, aveva insistito affinché scendesse dal letto e la raggiungesse dabbasso.

Si stropicciò la pelle sottile sopra gli zigomi, avvertendola gonfia di sonno, guardandosi attorno alla ricerca della cameriera – la sentiva intonare una canzonaccia, forse da qualche parte nel retrocucina.

Di malavoglia, si sollevò dalla sedia di legno, staccando la schiena dal candido muro nudo a mattoncini.

Sul tavolo al centro della piccola stanza era posato il vassoio per il tè, dove la teiera fumava placida in compagnia delle tazzine ordinatamente disposte l’una accanto all’altra, due soldatini che imbracciavano i cucchiai di porcellana come fucili, scortati dalla zuccheriera e dai piattini per i bignè.

Mrs. Barlow doveva essere arrivata per le solite chiacchiere del venerdì: Madeline era certa se avesse mosso qualche passo nel corridoio e teso l’orecchio, avrebbe colto la sua vocetta petulante in preda alla solita, irritante risatina – o peggio, i lamenti sussurrati sul futuro di zitellaggio che il buon Dio aveva in serbo per lei.

Alice aveva ragione su quella matrona perdigiorno: non aveva altro da fare, ora che il figlio s’era sposato, se non venire a mettere pulci nell’orecchio di zia Martha. Come doveva godere, come doveva sentirsi superiore alla sua amica, ora che quella perla di giovanotto aveva messo l’anello al dito della piccola Houghton.  

Uno sbuffo lieve le sfuggì dalle labbra; cercò con gli occhi la finestra, trovando con lo sguardo il profilo dolce della collina rinverdita dalla primavera.

Il suo compleanno si avvicinava – il loro compleanno – e la vivacità di Alice, che era tutta un fremito all’idea, aveva finito per contagiare un poco anche lei: con la mente già lontana ai loro progetti per quella fatidica notte, Madeline si accorse a malapena di non essere più sola.

Il respiro trafelato di Kate, con le guance arrossate per la fatica e il caldo del retrocucina [7], la spinse a voltarsi di scatto, nascondendo le mani dietro la schiena.

“Miss Maddie!” La cameriera le regalò un’occhiata perplessa. “Che fate qui in cucina? Vi serviva qualche cosa?”

Confusa, Madeline aggrottò la fronte, mentre l’altra si srotolava le maniche sollevate fino ai gomiti, senza curarsi di abbottonare i polsini troppo stretti.

Non era forse stata lei a chiamarla di sotto?

La domanda che le prudeva sulle labbra rimase incastrata in gola, mentre un senso di vergogna le stringeva lo stomaco sotto il vestito. In fede sua, nonostante se lo ricordasse chiaramente, non era così sicura di poter fare reale affidamento sulla propria memoria.

A dirla tutta, non sarebbe stata la prima volta che si fosse ritrovata in una delle stanze della casa senza apparente motivo, quasi il suo corpo avesse una propria volontà e si divertisse a ingannarla.

Ma no, non stava diventando pazza. Strinse gli occhi osservando la cameriera, studiando la sua reazione stolida alla propria presenza. A volte era certa che Kate e la zia si prendessero gioco delle ritrovate energie che la compagnia di Alice le aveva riguadagnato, assieme alla voglia di scendere dal letto, chiamandola da un lato all’altro della casa come una palla impazzita.

Le giornate erano sempre troppo lunghe, ma poteva spenderle tratteggiando su carta il bel volto di Alice, o muovendo agilmente le dita sui tasti del pianoforte, nella speranza che il suono le arrivasse oltre lo specchio.

Forse, vedendola così rinvigorita, quelle due avevano deciso di testarla, come si mette alla prova un bambino che affermi di esser malato per saltare la scuola. Si accorse di aver posato lo sguardo sulle tende a scacchi alla finestra. Riportò l’attenzione su Kate.

“Nulla, Kate,” fece dunque, cauta. “Avevo un languore e sono scesa per sgranchire le ossa,” continuò, prevenendo la domanda sul perché non avesse semplicemente suonato il campanello. “Mrs. Barlow è arrivata?”

“Ah sì, Miss Maddie, devo portare il tè. Se avete pazienza, tra qualche minuto torno e vi taglio una fetta di crostata. L’ho fatta con l’ultimo barattolo di conserva, sentirete che bendidio.”

Il tono era allegro, ma a Madeline non sfuggì la nota forzata dietro quel cinguettio ostinatamente gioioso. Annuì brevemente, mentre la cameriera si affrettava a prendere il vassoio tra le braccia, attenta a tenere in equilibrio le delicate porcellane, e si dirigeva fuori dalla cucina, imboccando il corridoio già illuminato dai lucernari a gas.

Madeline la seguì acquattata come un gatto.

Non una risatina tagliente, non un brusio eccitato dal pettegolezzo le giunse alle orecchie mentre si faceva vicina al salotto da disegno, abbastanza da sbirciare all’interno quando Kate fu sparita oltre la soglia. Madeline si concesse un’occhiata veloce.

Le due amiche tenevano vicine le teste: i riverberi del candelabro che faceva luce nella stanza colpivano quella grigia e incuffiata di Mrs. Barlow e quella rossa della zia, sospese sopra il tavolo basso dove facevano mostra delicati piattini di biscotti e canditi, e sottili fette di pane imburrato rimaste intoccate. Persino il cioccolato che la zia tanto favoriva giaceva abbandonato, senza un’occhiata dalla zia Martha, evidentemente troppo occupata a confabulare.

Kate si chinò a versare il tè, ma le due non parvero badarle: parlavano fitto, e Madeline sentì pronunciare il suo nome in un sussurro cospiratorio.

Parlano di noi alle nostre spalle.

La voce di Alice sembrava venire da qualche parte nella testa, bisbigliandole all’orecchio.

Odo ciò che tu non cogli, testarda ragazza. Quante volte devo ripetertelo ancora? Non possiamo fidarci di loro.

Dicono che siamo strane, anormali. Che abbiamo la faccia di un morto, che per giorni digiuniamo e poi ci ingozziamo di cibo come pozzi senza fondo; che passiamo da una stanza all’altra silenziose e spiritate, simili a fantasmi; che nel sonno scendiamo dal letto e passeggiamo in preda al delirio.

Lunghi brividi le percorrevano la schiena, arricciandole la pelle sotto la seta. Madeline strinse le mani l’una nell’altra fino a ficcarsi le unghie corte nella carne, marchiandola di dieci mezzelune violacee e perfette.

La Barlow le sta consigliando il dottore che possa aprirti il cranio e guardarci dentro.

 

 

 

 

“Alice, non può essere possibile. Non ci posso credere.”

Madeline teneva nelle proprie le mani della gemella, rigide e ghiacce.

Come l’acqua e l’olio, la luce del sole morente fuori dalla finestra non riusciva a mescolarsi con quella ultraterrena che accompagnava le visite di Alice da oltre lo specchio. La sua candida brillantezza feriva le iridi di Madeline, facendole pulsare la testa.

Mrs. Barlow non se n’era andata da molto e aveva poco tempo prima di scendere per la cena. Il profumo di pesce si insinuava dalla fessura tra il pavimento e la porta serrata, ma lo stomaco di Madeline era stretto nel guanto di ferro della preoccupazione.

“È certamente così. La zia Martha è sempre stata tanto cara con noi, ci ha sempre voluto bene. Tuttavia, non ci comprende, Maddie. Solo noi riusciamo a capire il legame che ci unisce, quanto indissolubile esso sia.”

Gli occhi di Alice erano asciutti ma liquidi. Pareva stesse per scoppiare in lacrime.

“Ci vogliono separare.”

Madeline si liberò, voltandole la schiena. Il dubbio le martellava la fronte e le tempie dall’interno del cranio e lei scrollò il capo nel tentativo di cacciarlo via. Incrociò le braccia sul petto, stringendosi nella camicia da notte.

“Vai via, Alice.”

Un silenzio gravido seguì a queste parole, pronunciate con una voce tanto gelida che a fatica Madeline la riconobbe propria. Ai suoi piedi, le rose presero a ritirarsi in un fruscio serpentino, i tralci che si scansavano come di fronte a una bestia feroce che non desideravano eccitare.

Il fiato le grattava in gola mentre combatteva i singhiozzi.

“Vattene via!”

Questa volta non un mormorio, ma un urlo, di cui si pentì l’attimo stesso in cui sfuggì dalla prigione delle labbra. Ruotò su se stessa, un braccio teso verso la gemella, ma solo la specchiera ricambiava stolida il suo sguardo.

Desolata da quella vista, Madeline emise un gemito profondo come provenisse dal profondo di sé.

 

 

 

 

Madeline avvertiva il peso dello sguardo di Kate gravarle sulle spalle.

La cameriera stava ritta dietro la sua schiena – era certa che la stesse fissando con quei suoi occhi di cagna. Maledetta lei che si era lasciata sorprendere e maledetto il tremendo tempismo della cameriera. Furtiva, strofinò un occhio arrossato, mentre la lingua di zia Martha riempiva il silenzio del salotto, coprendo l’ululato del vento.

“… ci potresti credere, mia cara? Piccola ingrata di una Barlow, sono certa che neanche mi avrebbe detto che sarebbe partita… Madeline, tesoro, che succede ora?”

L’impazienza nel suo tono costrinse Madeline a raddrizzare le spalle e a stiracchiare un sorriso.

Se in passato la sua esistenza non era stata altro che un’altalena di giornate buone e cattive, avrebbe sacrificato una mano per tornare a quella vita, quando Alice non esisteva e la specchiera non stava a guardarla agitarsi nel letto senza risposte né consolazione.

Il dolore abissale che la tormentava avrebbe potuto prevederlo; la collera che le bolliva dentro – un’ira cieca contro il mondo – per nulla.

“Cerca di stare su, figliola: è pur sempre la tua festa, santo Cielo.”

 Vent’anni, priva di prospettive e irrimediabilmente zitella: Madeline non capiva proprio cosa ci fosse da stare allegri.

“Vi ringrazio, zia, ma non vedo per quale motivo dovrei esserne contenta.”

Si alzò in piedi di scatto, con un’energia che non credeva di possedere, facendo cozzare una forchetta d’argento contro il piatto semipieno. “Sono certa che pensiate di fare il mio bene, spronandomi a questo modo, ma vi assicuro che non mi aiutate!”

Si drizzò con impeto, una mano che si abbatteva sul cristallo del bicchiere mandandolo in frantumi sul tavolo apparecchiato con la tovaglia buona.

La zia la fissava come se le fosse spuntata un’altra testa.

“Sono stanca di essere pungolata continuamente a fare meglio, a fare di più, a scendere dal letto. Lasciatemi vivere in pace!” urlò, mentre un controcanto di singulti isterici le faceva tremare la gola.

Raccolse le gonne, incespicando sulla gamba della sedia che fece rovinare a terra, e corse di sopra, gli ammonimenti di Alice che riecheggiavano nella mente come un rombo di tuono lontano.  

 

 

 

 

Quando la zia richiese la sua presenza in salotto, Madeline scese senza una protesta, pure se la collera che era esplosa a tavola ancora le ribolliva dentro, facendole stringere i pugni chiusi, la pelle che tirava sulle nocche.

Zia Martha la osservava grave, accomodata sulla poltrona dietro la scrivania. Un raggio di sole le cadeva sulla fronte, esaltando le pieghe di preoccupazione che la solcavano.

“Non sarei voluta arrivare a questo, Madeline,” principiò solenne. “Tuttavia, vedo che tu mi costringi. Ho preso appuntamento con un professore, a Londra – uno che si occupa dei mali della testa.”

Nella tiepida luce di metà marzo, Madeline prese a tremare.

  

 

 

 

NOTE

[1]: Si riferisce alla leggenda della morte di Adone, giovane principe frigio pianto dalla sua innamorata Afrodite.

[2]: Edward Hayes Plumptre era un famoso reverendo e professore del tempo, realmente preside del Queen’s College fino al 1879.

[3]: La rosa è il simbolo dell’Inghilterra ma indica anche la pelle chiara tipica del paese.

[4]: L’elleboro, pianta ornamentale dal fiore a cinque petali, estremamente velenoso.

[5]: L’antenata della valigia, una borsa larga generalmente in pelle.

[6]: Cordino in tessuto intrecciato.

[7]: Locale in cui, nella casa vittoriana, veniva fatto il bucato e lavati i piatti.

 

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Capitolo 3
*** The lass through the looking-glass ***


 

 

II:

The lass through the looking-glass

 

 

Ricordava il ticchettio gentile della pioggia sulle imposte chiuse, il calore delle coperte avvolte attorno al corpo come un bozzolo, e la stanchezza appesa alle ciglia che le appesantiva le palpebre mentre il sonno la inghiottiva lentamente.

Rammentava tutto questo, eppure la sua stanza era piena di luce: un candore ultraterreno più brillante di quello della neve che in inverno cadeva copiosa, stendendo su Vine Cottage la sua mano pallida.

Un attimo le pareva di essere ancora sdraiata sul materasso, nella sua camicia da notte accollata; un attimo dopo era in piedi, scalza sul legno del pavimento che le gelava la pelle accaldata.

Madeline era sola, al sicuro sotto la vecchia trapunta patchwork odorosa di canfora e lavanda; era anche in compagnia, e una figura solitaria le si ergeva di fronte, minuta e familiare, mentre un intenso profumo di rosa le solleticava il naso, delicato come la carezza di una morbida piuma – e parimenti insopportabile.

Fu solo quando si svegliò che ebbe la certezza di aver sognato.

Tra le dita, la stoffa della trapunta si increspava sotto la sua stretta convulsa e sudata; il respiro le sfuggiva lento dalle labbra, mentre le membra tremolavano tutte come la fiamma di una candela smossa da un lieve soffio di fiato.

Madeline si sedette a fatica, tentando di scuotersi via quella sensazione di formicolio che affondava fin dentro la carne. Sedendosi sul materasso affossato al centro, tirò le gambe al petto nell’oscurità totale, incrociandole di fronte a sé come a farne uno scudo.

Ogni traccia di sonno sembrava sparita.

Non aveva idea di che ora fosse ma il mattino doveva essere ancora un sogno lontano.

Respirava con cautela, attenta a non emettere rumore alcuno – fuori, la pioggia si era placata, lasciando posto all’ululare straziato del vento che si insinuava nelle fessure delle imposte producendo un suono simile a un basso gemito di gola.

Nel camino, il focolare era spento – bastano le coperte a scaldarti, Madeline cara, sprecar legna la notte non è follia da gente di senno come noi – ma le sarebbe bastato allungare la destra e cercare la candela che, ricordava bene, era ancora accesa prima che la stanchezza la vincesse; invece, teneva le mani l’una nell’altra, le dita intrecciate – così immobile sul letto da farsi dolere schiena e giunture sotto la lana della camicia.

In una vana attesa.

I primi raggi di sole si insinuarono timidamente dalla finestra, gettando nella stanza uno scialbo cono di luce. La possente ombra di una zampa della specchiera prese ad allungarsi.

Il profilo delle rose che si inerpicavano sulla cornice fiorì sul pavimento. Madeline teneva lo sguardo fisso sul vetro opaco, la sua faccia smunta che ricambiava l’occhiata.

 

 

 

 

Un giorno cattivo, due giorni, cattivi, tre. 

Le notti di attesa la logoravano – in attesa di cosa, non avrebbe saputo dire.

Forse, di quei dolci brividi di timore e anticipazione, della sensazione di venire osservata da occhi bramosi e benevoli. Solo il riflesso nello specchio ricambiava il suo sguardo che percorreva la stanza – come se la presenza che, ne aveva la totale certezza, si celava da qualche parte negli anfratti bui, nelle ombre spigolose gettate dalla cassettiera e dal letto sfatto, potesse sgusciar fuori da un momento all’altro.

Al mattino era tanto esausta da non trovare energia sufficiente neppure per scendere dabbasso – mantenersi in esercizio al piano, terminare la lettura di Dietro lo specchio [1], perfezionare i suoi schizzi sulla figura umana.

La strisciante sensazione di essere una pupilla profondamente ingrata non frenava Madeline dal dare poco conto ai commenti di zia Martha sulle occhiaie violacee sul viso troppo pallido; al furtivo segnarsi di Kate mentre, varcata la soglia della sua camera col vassoio tra le braccia forti e floride, strette nella lana scura dell’uniforme, passava davanti alla enorme specchiera intarsiata con un frusciare di crinolina. 

Madeline se ne rimaneva raggomitolata nella trapunta, senza neppure la forza o la voglia di assaggiare l’arrosto di vitello che spandeva il suo profumo succulento nell’aria pesante di chiuso.

“Guardate che vi ho portato, Miss Madeline,” cinguettava la cameriera, tirando le labbra sui denti troppo grandi – il vano tentativo di incoraggiarla a buttar giù un boccone. Madeline era profondamente consapevole di quanto fosse costato, alla zia, affondare le mani nelle tasche per procurarle qualcosa di buono al posto del solito piatto di pesce del venerdì [2], affinché le rinvigorisse l’appetito.

Ne era consapevole, ma voltava la schiena dall’altra parte, sperando che Kate sbocconcellasse un tozzo di pane e qualche pezzo di carne tenera al suo posto.

I giorni erano lunghi: il sole non calava mai abbastanza in fretta.

 

 

 

 

Di nuovo, la sera.

Con le dita, Madeline tormentava la stoffa floreale della coperta. La vivacità del disegno suscitava in lei un’ira sottile e senza nome, che intrecciava le sue spire a quel formicolare vago di timore e anticipazione che serpeggiava sotto la pelle.

Vibrava come le corde del pianoforte; aveva caldo, aveva freddo. Sudava, ma brividi creavano una trama di pelle d’oca sulla sua carne; ogni pelo del corpo era ritto sulle braccia, sulle cosce; i sottili capelli pallidi sulla nuca fremevano di anticipazione.

Provava l’acuto desiderio di alzarsi in piedi, di percorrere a grandi passi la stanza che, sentiva, le andava stretta, la soffocava; sul vassoio di porcellana candida, il brodo di pollo si era ormai freddato senza che lei ne avesse messa in corpo una goccia. Non aveva le energie di muovere un passo, ma lo stomaco se ne restava stretto in una morsa, la lingua riarsa che passava sulle labbra secche e incartapecorite.

L’agitazione la tirava allo spasimo. Gli occhi chiusi, la testa assente e lontana, il pensiero sopito; quando una mano fredda, dalle lunghe dita affusolate, si allungò a posarsi sulla sua fronte, le parve che i polpastrelli arrivassero a carezzarla nel cranio.

Levare un braccio, tendere la destra per afferrarla, le tolse quelle poche forze che non aveva idea di possedere ancora; quando la strinse tra le dita, sotto lo strato sottile di pelle gelata avvertì ossa fragili come vetro.

Madeline sollevò le palpebre incollate a fatica, percependo il fiato freddo solleticarle le guance. Il viso che incombeva su di lei era come una luna sorridente.

 

 

 

 

Ritta in piedi, Madeline la osservava incantata – intimidita da una bellezza che pari aveva visto risplendere solo da lontano mentre, nelle scintillanti sale da ballo illuminate da lampadari di cristallo di rocca, le altre Vecchie Regine [2] danzavano tra le braccia di cavalieri impomatati verso un futuro radioso.

Il profumo di rosa nell’aria era pungente, opprimente: si insinuava nelle narici di Madeline, tese a coglierne ogni sfumatura. Su di loro, il cielo era bianco come prima della pioggia, ma una luce senza fonte si irradiava tutta attorno.

Il legno del pavimento era sparito, coperto da tralci sottili di un roseto i cui fiori allargavano i petali impudicamente, inerpicandosi sulle gambe in ferro battuto del letto, sbocciando sulla trapunta patchwork, sopra la sua modesta cassettiera.

La sua spoglia camera si era fatta giardino – e la giovane di fronte a lei non era anche lei che una rosa rovesciata: lo stelo del busto avvolto strettamente nel satin nero dell’abito, le mani intrecciate alle sue come delicate foglioline pallide che spuntavano dai pizzi arricciati delle maniche; la gonna era un’ampia corolla setosa sulla crinolina.

Guardarla, le serrava il cuore in una morsa dolorosa. 

Le stava sorridendo, e il volto era, per Madeline, la parte più sconvolgente di tutte.

Era il suo.

Il suo, se un pittore le avesse affinato i tratti e dato lucentezza alle guance spente e agli occhi troppo infossati, conferito una sfumatura più profonda alla sua chioma scialba; il suo, se uno scultore le avesse levigato la pelle, addolcito la curva della bocca fino a farne un bocciolo, se le avesse lisciato i ricci della criniera.

Davvero non vedi che donna potresti essere?

Riusciva a scorgerlo, rispose Madeline muta all’eco della voce della zia.

A vederlo e a toccarlo.

“Vieni, Madeline?”

La sua voce era dolce e bassa come il mormorare della pioggia di marzo. Madeline deglutì il groppo che le serrava la gola, lasciandosi tirare dalla spinta gentile fino a terra. Le rose la inghiottivano, la annegavano nella loro fragranza dolcissima.

“Come conosci il mio nome?” bisbigliò strozzata, tremante come un uccellino.

La ragazza le sorrise con calore.

“Come potrei non conoscerlo?” Staccò una mano dalla sua, indicando la specchiera con un ampio movimento del braccio. “Da tanto tempo ti osservo, oltre lo specchio, da prima che tu avessi memoria di me. Mi chiamo Alice.”

Le fece una graziosa riverenza, posandole le labbra fredde sulle guance roventi.

Si chiamava Alice, e viveva dietro lo specchio.

 

 

 

 

A Vine Cottage, il sollievo aleggiava nell’aria ancora pesante di pioggia e si insinuava in ogni stanza dalle finestre spalancate. Era giorno di pulizie – dal piano terra, Madeline riusciva a sentire la canzonetta sconcia che Kate cantava a pieni polmoni, mentre batteva la biancheria sporca prima di gettarla nella stufa per il bucato.

Era un giorno buono. Madeline, seduta su uno sgabello, il viso rivolto al sole che splendeva oltre la collina – per quanto possibile in Inghilterra – approfittava della luce mattutina per mettere mano al foglio da disegno.

Il viso accostato alla carta ruvida, strizzava gli occhi e teneva saldamente il carboncino tra il pollice e l’indice; la mano si muoveva da sé, senza sforzo alcuno, schizzando linee precise e delicate sul volto della figura.

Aveva lasciato per ultimi i lineamenti del viso, concentrandosi sugli infiniti dettagli della giovane ritratta di profilo: gli impalpabili merletti e i pizzi che si arricciavano, sbocciando dai polsini stretti delle maniche; la coccarda di satin appollaiata sulla bassa schiena, lì dove le gale di stoffa liscia e grigia sfioravano i lunghi capelli lisci, liberi se non per poche ciocche tirate da nastri setosi, intrecciati di fiori; e poi, le rose in boccio o del tutto aperte, i minuti rami spinosi, i tralci da cui la giovane donna ritratta sembrava sbocciare anch’essa, che si inerpicavano sul parasole che ella teneva tra le dita sottili, l’asta graziosamente posata su una spalla esile.

Madeline strizzava gli occhi, riandando con la mente all’attimo che stava portando su carta – l’ultimo istante prima che Alice raccogliesse la gonna dell’abito con la mano libera, tuffandosi oltre superficie impietosa dello specchio.

“Ci rivedremo?” aveva chiesto Madeline con urgenza, la gola secca per l’anticipazione.

Alice le aveva indirizzato un sorriso dolce e triste, incurvando le labbra sui piccoli denti regolari. “Domani notte…”

La destra danzava sul foglio al ritmo di una melodia senza suono.

“Chi è?”

La voce di zia Martha arrestò improvvisamente il movimento sicuro del polso, facendo sussultare Madeline sull’imbottitura dello sgabello.  

“Una tua amica?”

Madeline si voltò infastidita, trovandosi di fronte la zia con ancora la mantella sulle spalle, che si stava sfilando i guanti. Le guance vizze erano arrossate per il medesimo vento che scompigliava il giardino.

“Ah… si può dire così, zia,” mormorò in risposta, appena esitante.

Non avrebbe saputo dare una migliore definizione di Alice. In realtà non era neppure certa che la ragazza non fosse un frammento della sua immaginazione.

Io sono te, le aveva riposto, quando le aveva domandato spiegazioni – per metà inorridita, per metà ammaliata da quella presenza che le teneva la mano così fermamente.

“Uhm…”

La zia Martha si chinò per osservare il disegno, e Madeline provò l’ardente desiderio di strapparlo violentemente via al suo scrutinio.

“Non ricordo di averla conosciuta, mia cara. Ma guarda…”

Da vicino, la pelle rugosa della zia, macchiata d’età sotto lo strato di cipria che vi applicava in barba alle convenzioni, sembrava ancora più raggrinzita attorno agli occhi – non era poi così vecchia, ma Madeline si ritrovò a fare il paragone con l’incarnato liscio di Alice.

“Potreste essere gemelle.”

 

 

 

 

Il buio oltre la finestra non riusciva a penetrare nella stanza, avvolta nella luminosità ultraterrena che calava quando Alice sollevava le pesanti gonne e scavalcava la cornice della specchiera, raggiungendo una Madeline già in attesa.

Sedevano sulla trapunta stesa a terra – come in uno strano picnic entro le mura della villa.

La sua gemella l’aveva fatta sdraiare, la testa posata sulle ginocchia piegate avvolte in liscio satin. Le mani immerse nella chioma di Madeline, con le unghie grattava leggera lo scalpo in un massaggio gentile e districava le ciocche con delicatezza.

“Raccontami ancora di te, vuoi?”

Madeline aggrottò lievemente un sopracciglio, increspando la fronte in onde di carne. “Non sai forse tutto quello che c’è da sapere?”

“Voglio sentirlo ancora dalla tua voce…”

Più ci si rompeva la testa, più tutto quello che accadeva in camera sua, quando la notte calava su Vine Cottage e Kate e la zia Martha se ne andavano a dormire, mancava di senso logico – più Madeline l’attendeva con ansia.

Aveva avuto delle amiche, i primi anni di collegio – ragazze di buona famiglia che l’avevano invitata a trascorrere con loro il Natale, la Pasqua e le vacanze estive in eleganti dimore nei quartieri alti della capitale, reggie in cui finiva per perdersi, tanto erano grandi in confronto alla sua villetta – dove servitori in livrea e cameriere in uniformi inamidate, una per ogni momento della giornata, esaudivano qualunque desiderio.

Ricordava splendide serate in camere ampie due volte la sua, a bere cioccolata calda in tazze bianche come la neve; le gite con le loro chaperon fino a Mayfair, Privy Gardens, Spring Gardens [3]; con cui era sgattaiolata dal collegio in Harley Street fino a Baker Street, Grosvenor Square – persino a Piccadilly [4], quando si sentivano particolarmente avventurose, per ammirare gli imponenti palazzi dei potenti che sorgevano fianco a fianco ai caffè stranieri, dove le donne cadute [5] ammiccavano ai damerini impomatati che avrebbero sposato virginali signorine come loro, prima o poi.

Eppure, era come se una mano invisibile avesse strofinato i polpastrelli sul carboncino della sua memoria, sbiadendola e confondendone i contorni.

“Sai tutto,” replicò, sentendo qualcosa sciogliersi dentro il petto.

Sì. Dei suoi genitori, dell’influenza che se li era portati via; dei parenti che se l’erano passata come un pacco indesiderato, fino a che le amorevoli braccia di zia Martha – e dello zio numero uno – non l’avevano accolta nel loro cerchio, per poi spedirla al collegio più costoso di Londra.

Gliele aveva confidate, tutte queste cose: lo aveva fatto senza parole, col cuore, perché Alice aveva domandato solo con gli occhi. A volte, si chiedeva se le frasi davvero uscissero dalle sue labbra, oppure fossero confinate tutte nella testa.

Quando l’alba carezzava il pavimento della stanza, e Madeline si svegliava inginocchiata davanti alla specchiera come la fedele sulla panca di una chiesa, si domandava se i suoi sogni avessero ormai oltrepassato il confine del sonno, sconfinando nella realtà.

Alice le sfiorò una guancia con le nocche – delicate eppure taglienti sulla pelle. Madeline sorrise, osservando dal basso la curva gentile del suo mento. “Sono io a volere sapere di te. Hai detto che sei me ma com’è possibile? Siamo così diverse.”

L’altra chinò il viso su di lei, lo sguardo scuro che incontrò quello di Madeline colmo di dolcezza.

“Quello che ha detto nostra zia è la verità, Madeline. Potresti somigliarmi di più, se volessi; ma non ne hai bisogno: è questo che lei non vede.”

Madeline deglutì lentamente, lasciando che la saliva scivolasse giù per la gola. “Non ne ho bisogno…?”

“No. Devi solo imparare a vederti attraverso i miei occhi. Ho aspettato tanto prima di farmi avanti e venire a trovarti.” Intrecciò un dito sottile a un ricciolo di Madeline, inanellandolo. “Vederti triste e sfiduciata era un fardello sul cuore che non potevo più sopportare. Per fortuna, lo specchio mi ha aiutata a esaudire questo mio desiderio.”

Con delicatezza, Alice la spinse a raddrizzarsi e si alzò in un fruscio di gonne, facendole segno di seguirla. Sulla trapunta che copriva il pavimento, i suoi passi non producevano alcun rumore. Madeline le andò dietro più goffa, i piedi che affondavano nella stoffa morbida, mentre Alice le faceva segno di accucciarsi dietro la specchiera.

Madeline avvicinò il viso, tanto che il fiato che le sfuggiva dalle labbra si condensava sul legno lucido, rendendolo opaco. Nella luce innaturale della stanza, l’iscrizione scavata sulla superficie liscia si leggeva distintamente, come vergata dalla mano elegante di una signora: Ti mostro non quello che sei, ma quello che vuoi. [6]

 

 

 

 

NOTE

[1]: Il libro di Lewis Carroll era stato pubblicato nel 1871.

[2]: Così venivano chiamate le ex-alunne del Queen’s College di Londra, fondato nel 1848, patrocinato dalla regina Vittoria. L’istituzione divenne pioniera nel campo dell’educazione femminile.

[3]: Quartieri eleganti di Londra, abitati e frequentati dalle classi più agiate.

[4]: Inizialmente un quartiere a luci rosse (il nome deriva dallo spagnolo “peccadillos”), in epoca vittoriana esso ospitò innumerevoli locali e caffè stranieri, in cui la buona società si mescolava alle fasce più basse. Erano frequenti l’esercizio della prostituzione e le risse.

[5]: Letteralmente, “fallen women”. Così venivano chiamate le donne che avevano perso la reputazione oppure esercitavano la prostituzione.

[6]: Una citazione ispirata alla frase incisa sullo Specchio delle Brame in Harry Potter e la Pietra Filosofale.

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Capitolo 4
*** When it's too hard to stand, kneel ***


IV:

When it’s too hard to stand, kneel

 

 

 

“Sei una piccola sciocca.”

Le dita di Alice erano gentili tra i suoi capelli. Avvolta nella trapunta come potesse proteggerla dal mondo, Madeline soffocava i singhiozzi che le scuotevano le spalle nel cuscino.

Alice continuava a carezzarla rassicurante, la mano che scendeva sulla schiena in cerchi concentrici.

“Cosa devo fare?” mormorò Madeline con voce spezzata e implorante, sollevandosi appena dalla stoffa morbida per parlarle. “Se consulterà il dottore sarà la fine! Crederà che sono malata!” Non era affatto pazza, lei, no: solo speciale.

E tutto grazie allo specchio, lo aveva detto Alice: doveva essere magico – per questo le sue rose erano del viola dell’incanto [1], per questo nessuno l’aveva voluto. Madeline era come l’Alice di Mr. Carroll, intrappolata in un mondo a cui non apparteneva: che avrebbe dato per scivolare con la sua gemella oltre lo specchio, in una stanza speculare alla propria, ricoperta di splendidi fiori.

“Mi credi, adesso?” le domandò Alice. Pure se la stava confortando, nel suo tono c’era ancora una punta di tagliente freddezza. “Devi sempre fidarti di me poiché tutto ciò che dico è vero.”

Madeline la guardò con gli occhi gonfi di lacrime, tirando sul col naso. “Che cosa facciamo, Alice?” Gettò una rapida occhiata allo specchio. “Ci separeranno…”

Alice la osservava da sotto le ciglia lunghe e nel suo sguardo c’era qualcosa di torbido e sconosciuto che le fece passare un brivido lungo la schiena. Le rose fremettero.

“Non se la fermiamo prima che possa accadere.”

“Che… che cosa vuoi dire con questo?”

“La verità è che vuole liberarsi di te. Di noi.”

I brividi sulla pelle di Madeline divennero tremori mentre la voce di Alice si trasfigurava, divenendo quella di uno spirito maligno delle fiabe, gelida come pietra. “Non vede il tuo valore, e ora che è certa che non potrai mai sposarti e che sarai per sempre un peso sulle sue spalle, vuole mandarti via per poter tornare a essere libera come un tempo. Non ha passato l’età per prender marito, dopotutto. Riuscirebbe a trovare benissimo qualche vedovo attempato che la ritenga abbastanza piacente. Hai forse dimenticato quanto ami la compagnia maschile, fare vita sociale, viaggiare per il mondo?”

Non faceva una piega: il ritratto che Alice stava componendo era proprio quello della zia Martha. Forse sarebbe stato più facile illudersi ancora, se la zia non avesse mostrato la sua vera faccia, ma per loro oramai non aveva più nulla da nascondere.

Alice non aveva ancora terminato.

“Dunque, l’unica maniera perché sia certo che rimarremo insieme per sempre è che tu ottenga la tua libertà. Tra un anno sarà troppo tardi. [2]

Madeline si rannicchiò in posizione fetale, le mani sul viso mentre terribili scenari venivano evocati dalle parole di Alice. Si premette i palmi sugli occhi per non vedere, ma le immagini erano incise nelle palpebre, tentatrici.

Era così facile figurarsi finalmente libera, padrona di se stessa e di una casa propria, senza più dover sottostare alle richieste impossibili di una zia capricciosa – Alice al suo fianco di giorno e di notte, l’unica creatura che l’amasse per com’era senza riserve.

Affondò le dita nella pelle, strofinando i polpastrelli sulle sopracciglia sottili. Le labbra le fremevano, intrappolavano la domanda che prudeva sulla punta della lingua.

C’era un solo modo possibile perché tutto ciò si realizzasse – troppo terribile per pronunciarlo a voce alta.

“Chiaramente, dovresti farlo passare per un incidente.”

Madeline avrebbe potuto portarsi le mani alle orecchie e non sentire, ma la voce di Alice era fuori e dentro la testa e non era possibile sfuggirle.

“La zia non sarà forse così vecchia, ma non è neppure un fiore di primavera e la scalinata è alta e ripida…”

Basta, basta!

“Io non potrei mai,” mugolò, dondolandosi sul materasso. “Non potrei mai, dovresti farlo tu.”

Che cosa stava dicendo?

“Sai bene che non è fattibile.” Il cinismo nel tono di Alice si tagliava col coltello. “Non ho corpo fuori da questa stanza, e no, non posso prendere il tuo in prestito. Sono te, certo, ma non del tutto.”

A Madeline sfuggì un gemito riottoso – dietro le palpebre, vedeva l’immagine del volto della zia, non più rubizzo ma illividito dalla morte, gli occhi spalancati in un’espressione di sorpresa e tradimento.

La mano di Alice le sfiorò la nuca, amorevole. “Lei ha già vissuto la sua vita, Maddie. Deve lasciare che viviamo la nostra.”

 

 

 

 

“Non è proprio possibile, Kate. Non in questa situazione, sciocca ragazza.”

La voce della zia Martha era un sussurro aspro ma Madeline riusciva ugualmente a udirla, acquattata oltre la soglia del retrocucina col viso accostato alla porta socchiusa.

La pentola che bolliva rumorosa sulla stufa accanto a lei, spandendo nell’aria l’odore di fagioli, nulla poteva fare per coprire i mormorii cospiratori di Kate e della zia.

“Ma Madam, è la mia unica parente…”

“Ho bisogno di te qui, Kate. Con Madeline in queste condizioni, mi serve che mi aiuti a prendermi cura di lei. Nessuno deve sapere delle nostre disgrazie, non posso mettermi in casa qualcun altro in attesa che torni chissà da dove…”

“Belfast, Madam…”

“Ah, che importa. Mi servi qui, il discorso è chiuso.”

Kate si tormentava il grembiule ingiallito, spiegazzando la stoffa con le unghie mangiate. “Lasciate che ve lo dica, Madam. Secondo me quel dottorone della testa non servirà a niente. Miss Maddie è posseduta.”

“Che baggianate vai dicendo?”

Questa volta, zia Martha aveva alzato i toni e fu Kate a portarsi un dito alle labbra facendo rispettosamente cenno di abbassare la voce.

“Ne sono certa: è quello specchio che la sta facendo andare fuori di senno.” Kate si segnò rapida, indietreggiando intimorita dalle sue stesse parole. “Le sta avvelenando l’anima. Ci parla, lo carezza, lo abbraccia. Le sta rubando l’anima, vi dico!”

Madeline deglutì lentamente, gli occhi fissi sul cipiglio della zia – l’orrore che aumentava mentre il suo viso si faceva sempre più scuro, le sopracciglia vicine e un dito a tormentarsi il mento.

“Dunque, secondo te, facendo sparire quella maledetta specchiera potrei riavere mia nipote indietro. Che follia!”

“Sarà folle, Madam, ma avete visto Miss Maddie: lei ci crede, e la sta consumando! Casca dentro ai vestiti, ormai; un giorno è felice, un giorno vuole morire. Così non può andare e lo specchio non la aiuta, date retta a me. Bisogna che glielo togliamo.”

Fu in quell’attimo di silenzio sospeso in cui le due donne parevano star raccogliendo i pensieri che le sfuggì un singulto. Madeline si premette una mano sulla bocca traditrice, ma era troppo tardi. Le vide voltare i capi all’unisono verso la porta, i lineamenti composti in un’identica espressione di sorpresa.

L’avevano sentita.

“Madeline!” “Miss!”

Nel petto, il cuore stava per esploderle.

Madeline!

Alice. Alice. Alice. Alice. Alice. Alice. Alice. Alice. Alice. Alice. Alice. ALICE.

Corri!

 

 

 

 

 

Madeline corse a perdifiato, inciampando nelle gonne che teneva raccolte nella presa spasmodica delle dita. Mentre si lanciava su per la scala, i gradini andarono a cozzare dolorosamente contro una caviglia, lacerando la calza sottile e facendola sanguinare; ignorò la sofferenza, il cuore che tambureggiava nel petto e il respiro che le doleva in gola.

Sentiva i loro passi dietro di sé: un paio di piedi che si muovevano a falcate concitate, attutite dalla moquette; altri, più lenti, che seguivano a ruota, accompagnati da un controcanto stonato di respiro affannoso.

Si gettò nella sua camera senza voltarsi indietro, chiudendosi la porta alle spalle e concedendosi solo una frazione di secondo per posarvi la schiena. Nelle orecchie, il grido di Alice perforava i timpani, sottraendole quella poca ragione che le rimaneva.

Gli occhi impazziti, Madeline si guardò attorno alla disperata ricerca di un peso da spingere contro il legno: era consapevole di essere in trappola, ma non si sarebbe arresa senza lottare. Lacrimando copiosamente, si staccò dalla porta girando attorno al letto e chinandosi – le stecche del busto che si conficcavano sotto i seni facendola gridare.

Digrignò i denti per lo sforzo, il sudore che colava dalla fronte, sul petto, sotto le ascelle. Le voci si facevano sempre più vicine – riusciva a sentire la parlata strascicata di Kate e il tono di comando della zia, rotto appena dalla fatica di salire per le scale.

Le sue braccia esili nulla poterono contro il pesante letto, che non si smosse dalla posizione originale. Con un gemito disperato, Madeline abbandonò quello sforzo vano, mordendosi le labbra e slanciandosi verso la porta per bloccarla col proprio corpo…

Si ritrovò riversa a terra, allungata sul pavimento; un ronzio copriva le grida di Alice e un rivolo di liquido caldo le colava dalla fronte, accecandole l’occhio destro. Con l’altro, socchiuso e umido, non poté che assistere impotente mentre la cameriera e la zia entravano nella stanza, infine – Kate che scavalcava il suo corpo e la zia che la afferrava per il polso, lacerando il pizzo consumato della manica e strappando via un bottone.

Imprigionata tra le braccia ferree della zia, emise un solo gemito mentre Kate premeva il corpo contro il legno della specchiera fino a sbilanciarla sulle zampe intarsiate – rovinando a terra con un agghiacciante frastuono di vetro spezzato.

 

 

 

 

La mano della zia sulla fronte era calda.

Le dita grassocce le carezzavano le tempie come a scacciare la sofferenza che la faceva martellare, pulsare sotto i polpastrelli.

Madeline fissava sul soffitto uno sguardo vuoto, morente come gli estremi raggi del sole al tramonto che penetravano dalla finestra.

La fascia attorno alla testa la stringeva troppo, ma lei non se ne curava granché. Sotto la coperta teneva un pugno chiuso mentre la destra tremava lievemente.

“Starai bene, piccola mia.”

La voce di zia Martha era quasi carezzevole, più dolce di quanto l’avesse sentita da anni.

Le dita risalirono fino alla sommità del capo, seguendo la piega dei riccioli ribelli in un tocco gentile e materno.

Madeline serrò il pugno con più decisione, incurante del sottile dolore della pelle che si lacerava, bruciando debolmente mentre la grossa scheggia di vetro penetrava a fondo nella carne.

 

 

 

NOTE

[1]: Nel linguaggio dei fiori, il significato dela rosa viola, introdotta in Europa nel XIX° secolo, è quello di “incantesimo”.

[2]: In Inghilterra, la maggiore età si raggiunge solo al compimento dei ventuno anni.

 

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Capitolo 5
*** Epilogo: Let's go crazy together, hand in hand ***


 

EPILOGO:

Go crazy together, hand in hand

 

 

Nella solitudine di Vine Cottage, Madeline sedeva allo scrittoio di fronte alla finestra, il Times aperto alla pagina delle inserzioni e una stilografica in mano.

Percorreva con occhio scrupoloso le offerte, le palpebre strizzate: da quando Kate se ne era andata, la vita in casa si era fatta troppo ardua per loro due sole. Aveva bisogno di un aiuto – di qualcuna che ci sapesse fare, non di una ragazzotta di Richmond con tanto appetito e poco cervello.

Era stato un sacrificio lasciare che la cameriera partisse per la nativa Belfast: Madeline provava un’acuta mancanza della sua crostata di pere, ma supponeva che non si potesse evitare.

Sorrise alla figura seduta sulla poltrona, scostandosi una ciocca dalla fronte. “Troveremo qualcuno che faccia al caso nostro quanto prima.”

I fondi per una stipendiata decente non le mancavano – i gioielli della zia, quelli che non si erano rivelati fondi di bottiglia, avevano fruttato bene. Abbastanza per mandare avanti la vita alla villa come era sempre stata. Magari non mangiavano rognone in crosta, ma il venerdì era ancora giorno di pesce e il brodo di pollo le era sempre piaciuto.

Con una sola bocca da sfamare, poi, i costi si erano sensibilmente ridotti. Se la sarebbero cavata.

“Ricorda di firmare quei documenti, Maddie cara.”

Un sorriso dolce.

“Diventi sempre più abile a imitare la sua grafia: persino io fatico a riconoscere la tua mano, oramai.”

Lusingata, Madeline ricambiò il sorriso e si alzò con un lieve sospiro, abbandonando la ricerca della cameriera, almeno per il momento.

“Vieni, tienimi compagnia,” propose, sollevando dalla poltrona un frammento di specchio appuntito, che le scavò nella carne sottili solchi scheggiati. Alice si sollevò nel medesimo istante, camminandole al fianco e canticchiando a bassa voce fino ai locali del retrocucina.

La consueta ondata di calore umido investì Madeline, imperlandole la fronte di minuscole gocce. Si slacciò i polsini dell’abito, con una veloce occhiata fuori dalla finestrella. Il sole di aprile era ben più intenso di quello marzolino, e i suoi raggi disegnavano la sua ombra sul pavimento della stanza candida.

“Dobbiamo sbrigarci,” considerò Madeline, tirando la stoffa delle maniche fino al gomito. “Presto sarà ora di pranzo, e vorrei che qui fosse tutto pulito e sistemato, prima di preparare.” Silenziosamente, ringraziò l’ottima educazione del Queens College, che aveva previsto corsi di cucina.

“Non è rimasto molto,” replicò Alice, seduta sul davanzale, dove Madeline aveva posato la scheggia distrattamente.

China sul grosso baule accanto alla stufa, Madeline le prestò poca attenzione, concentrata com’era a sollevare il voluminoso involto di carta scura. Con un brivido di disgusto, scacciò il ricordo del primo affondo di coltello nella carne grassa e lorda di sangue rappreso.

Quasi senza guardare, buttò il brano di coscia nella stufa da bucato, il grosso coperchio circolare di legno sollevato a esporne il ventre di mattoni colmo d’acqua in ebollizione. Emise un gorgoglio sinistro e uno sbuffo di vapore quando la carne finì sul fondo fondo. Madeline cercò di non pensare, mentre il muscolo prendeva a separarsi dall’osso.

“Non credevo che la zia fosse così grassa sotto tutte quelle gonne,” fece Alice in tono pensoso, allungandosi per carezzare amorevolmente il capelli di Madeline. “Qualche notizia di Kate?”

“Suppongo sia ancora a Belfast dalla sua parente. Se è intelligente si affretterà a tornare per mantenere il suo impiego, e tutto si risolverà per il meglio.”

Alice ghignò furbescamente, giocando coi nastri dell’abito. “Del resto, è mai partita davvero?”

Non a sentire i vicini, che la vedevano stendere i panni, battere i tappeti, salutare i rari passanti a cavallo o a piedi – Madeline scappava sempre in casa prima che venisse loro in mente di avvicinarsi e ficcanasare. Immaginava le chiacchiere sulle pessime maniere della cameriera di Martha Thompson, nei bei salotti di Richmond.

Avevano pianificato il da farsi nei minimi particolari. La salma di zia Martha non era ancora fredda sul pavimento dell’ingresso, lì dove era caduta (dove era stata spinta dalla tromba delle scale), una fredda espressione di sorpresa sul volto illividito, che Alice le aveva già suggerito per filo e per segno cosa fare.

L’uniforme di Kate le andava stretta e i suoi capelli leonini faticavano a farsi costringere nella cuffia quando andava in giardino a stendere il bucato, ma ne sarebbe valsa la pena.

Nessuna pietà per i traditori.

Aveva già raccolto le più grandi tra le borse della zia, controllato la coincidenza per viaggiare fino al centro di Richmond, preso contatto con gli uomini di fatica.

Nessuno avrebbe testimoniato in favore di Kate, semmai i poveri resti della zia fossero riemersi dalla bocca del Tamigi.

E la sventurata nipote? Ah, inferma, dolce creatura. Bloccata a letto da una lunga malattia – già riusciva a sentire i mugugni della povera Mrs. Barlow – non avrebbe potuto accorgersi di nulla mentre quella ingrata irlandese, tirata sul dal niente, lavata, vestita, sfamata, rivolgeva il coltello contro la mano gentile della sua padrona.

L’odore di carne bollita riempì la stanza, insinuandosi nelle narici di Madeline. Arricciò il naso e lo strofinò con un dito, mentre si chinava a raccogliere un altro quarto di coscia flaccida.

 

 

 

 

Nella nebbia mattutina una sagoma si muoveva lentamente, trascinandosi lungo la schiena arcuata del ponte in pietra di Portland. I lampioni spenti gettavano ombre lunghe sulla pavimentazione di un grigio pallido, mentre la figura, un passo dopo l’altro, si faceva più vicina al parapetto, leggermente ingobbita – come gravata da un peso.

Si arrestò, i nastri del cappellino nero che ondeggiavano nel vento gravido. Nella destra guantata di lana stringeva i manici rigidi di una borsa Gladstone di pelle invecchiata. La dragona che la fermava era tesa, quasi il contenuto premesse per evadere dai suoi confini. 

Con uno sforzo evidente, la giovane donna, la gonna dell’abito modesto che si apriva sulla vita sottile gonfiandosi attorno agli stivaletti consumati, si sporse appena col busto oltre il parapetto, riuscendo a sollevare la borsa e tenendola sospesa per lunghi attimi sulle acque limacciose del Tamigi, di un verde nerastro, che scorrevano chetamente sotto di lei.

La borsa ne perforò la superficie con un tonfo sordo, un rumore liquido che riecheggiò nel silenzio imperfetto del ponte, già trafficato di prima mattina. Le dita abbandonate sul corrimano, la giovane lasciò vagare lo sguardo sul pelo increspato dell’acqua, che inghiottì la borsa e la trascinò verso il fondo.

Levò il volto al cielo bianco: presto, maggio sarebbe venuto e avrebbe portato le rose.

Sorrise al pensiero.

 

 

fin

 

 

 

 

 

POSTFAZIONE

 

 

Questa breve storia è basata su un caso di cronaca risalente al 1879 verificatosi proprio a Richmond upon Thames, nel Surrey: l’omicidio di una donna di mezza età, Julia Martha Thomas, per mano della sua cameriera di origini irlandesi, Kate Webster. Il fatto scosse la buona società britannica, finendo sulle prime pagine dei giornali inglesi e irlandesi.

Da quanto venne ricostruito dell’omicidio dopo la cattura di Kate in Irlanda, Mrs. Thomas venne colpita o spinta violentemente, fratturandosi il cranio; la cameriera ne fece a pezzi il cadavere, bollendolo in una stufa da cucina per poi liberarsene nel fiume con l’inconsapevole aiuto di alcuni vecchi amici, prima di fuggire in Irlanda.

Ho trovato notizia di questi fatti per caso, cercando informazioni sui tardi anni Settanta dell’Ottocento – guidata dalla foggia dell’abito indossato dalla giovane nell’immagine usata come prompt, ascrivibile proprio a quel periodo.

Per l’occasione, ho ripreso questo caso mantenendo le dinamiche base dell’omicidio, mantenendo l’ambientazione, i nomi delle protagoniste (e in parte quanto si conosce della loro indole) ma cambiando il cognome di Mrs. Thomas; Mrs. Barlow è altresì ispirata a un’amica della vittima, ma il personaggio di Madeline è totalmente di mia invenzione.

In lei ho cercato di riportare fedelmente i sintomi della schizofrenia paranoide, che includono: allucinazioni, deliri (fra gli altri di persecuzione e nichilistici), progressivo allontanamento dalle relazioni sociali, scarsa comunicazione e apatia. Si tratta di un disturbo cronico con un decorso anche rapido, che può verificarsi anche in tempi brevissimi, come nel caso di Madeline.

L’interpretazione sovrannaturale viene comunque lasciata ambigua: siete liberi di

Infine, un enorme ringraziamento va a Flora, per l’accuratezza e l’infinita pazienza (nonostante le ripetute – ma meritatissime – minacce di morte).

   

 

 

 

 

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