Ti brucerò il cuore

di Marilia__88
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il gioco ricomincia ***
Capitolo 2: *** Incubi ***
Capitolo 3: *** Rivelazioni ***
Capitolo 4: *** La prima mossa ***
Capitolo 5: *** Omicidi (parte prima) ***
Capitolo 6: *** Omicidi (parte seconda) ***
Capitolo 7: *** Risvegli ***
Capitolo 8: *** Barbarossa ***
Capitolo 9: *** La storia si ripete ***
Capitolo 10: *** La trappola ***
Capitolo 11: *** Amore fraterno ***
Capitolo 12: *** Sentimenti ***
Capitolo 13: *** Il vento dell'est ***
Capitolo 14: *** Niente è come sembra ***
Capitolo 15: *** L'agguato ***
Capitolo 16: *** Parole che fanno male ***
Capitolo 17: *** Leinster Gardens ***
Capitolo 18: *** Un triste addio ***
Capitolo 19: *** Ritorno a Baker Street ***
Capitolo 20: *** La lapide nera ***
Capitolo 21: *** Finalmente a casa ***



Capitolo 1
*** Il gioco ricomincia ***


              Ti brucerò il cuore


                                          Il gioco ricomincia




Appena scesi dall’aereo Sherlock, Mary e John si diressero verso l’auto nera che li aspettava e che li avrebbe portati a Baker Street.
“Sherlock, aspetta, spiegami… Moriarty è vivo allora?” disse John mentre cercava di tenere il passo dell’amico.
“Non ho detto che è vivo, ho detto che è tornato” rispose Sherlock, fermandosi e voltandosi verso di lui.
“Quindi è morto?” intervenne Mary per cercare di capirci qualcosa.
“Certo che è morto! Gli è esploso il cervello, nessuno sopravvivrebbe!” esclamò Sherlock con il suo solito tono di chi deve spiegare qualcosa di ovvio. “Mi sono quasi sparato un’overdose per dimostrarlo” aggiunse quasi imbarazzato, abbassando lo sguardo con la scusa di mettersi i guanti. Era troppo difficile guardare John mentre diceva quella frase. Era troppo difficile leggere la delusione nei suoi occhi. “Moriarty si è suicidato, non ci sono dubbi… ma l’importante è che so esattamente che cosa farà dopo” concluse, riprendendo il controllo di sé e mostrando il suo solito sorriso compiaciuto ed eccitato.
Salirono tutti e tre nell’auto, diretti a Baker Street. Per tutto il tragitto si sentirono solo le voci di Mary e John che cercavano di fare congetture e teorie su chi potesse essere coinvolto. Stranamente Sherlock rimase in silenzio. Osservava la strada dal finestrino con una strana espressione sul viso. Mary, a cui non sfuggiva mai niente, smise improvvisamente di parlare e iniziò a guardare il consulente investigativo con uno sguardo indagatore. Si accorse che, oltre a quella strana espressione, aveva non solo il volto più pallido del solito, ma anche il respiro leggermente accelerato.
“Sherlock sei sicuro di stare bene? Io sono sempre dell’idea che dovresti andare in ospedale per un controllo” esclamò Mary all’improvviso, dando un’occhiata al marito.
“Ha ragione Mary, Sherlock. Non hai una bella cera” continuò John che, improvvisamente, si era reso conto delle condizioni del suo amico.
“Sto bene non preoccupatevi” rispose secco il detective non riuscendo, però, a nascondere un leggero tremore di voce.
I coniugi si guardarono tra loro con un’espressione preoccupata, ma decisero di non insistere oltre.
Appena arrivati davanti al 221B, Sherlock scese di corsa dall’auto, ignorando un’entusiasta signora Hudson contenta del suo ritorno e salì di corsa le scale. In un attimo era già nell’appartamento. Si tolse cappotto e sciarpa, lanciandoli sgraziatamente sul divano ed afferrò carte e fascicoli dalla scrivania, cospargendo di fogli l’intero soggiorno. Appena Mary e John entrarono, lo trovarono seduto sul tappeto sommerso da quel caos che aveva creato intorno a lui in quei pochi minuti. Stava cercando freneticamente qualcosa, o almeno così sembrava guardandolo. In un primo momento rimasero ad osservarlo senza proferire parola, sicuri che non avrebbe dato retta a nessuno immerso com’era in quella disperata ricerca. Dopo circa un’ora, Sherlock si destò all’improvviso, alzandosi di scatto e lanciando con rabbia una cartellina verso la mensola del camino, facendo così cadere tutto quello che vi era sopra, teschio compreso. Si mise le mani nei capelli e iniziò a camminare freneticamente per la stanza. Mary e John rimasero turbati da quel comportamento, ma non sapevano se chiedere spiegazioni o meno a riguardo. Inaspettatamente, fu Mary a rompere il silenzio e lo strano clima che si era creato.
“Sherlock che succede? Possiamo esserti di aiuto in qualche modo?” chiese in tono calmo e gentile.
“N-no non… non riesco a trovare il nesso… n-non capisco d-dove ho sbagliato!” rispose il detective balbettando e ansimando leggermente. Se non si fosse trattato di Sherlock Holmes, i due avrebbero visto in quel comportamento un velo di paura e smarrimento.
“Senti Sherlock, se ti calmassi e ci spiegassi cosa stai cercando, potremmo fare qualcosa!” esclamò spazientito John “Hai detto che sai quale sarà la prossima mossa di Moriarty e se ti degnassi gentilmente di illuminarci con le tue brillanti deduzioni, invece di dare sempre tutto per scontato, te ne saremmo davvero grati!” continuò senza rendersi conto di aver quasi urlato le ultime parole. Il consulente investigativo si fermò, sorpreso dal tono usato dall’amico. Si lasciò cadere sulla sua poltrona, sospirò ed iniziò a parlare.
“E’ vero, so quale sarà la sua prossima mossa, o meglio, so che chiunque stia continuando il progetto di Moriarty ha il suo stesso obiettivo: colpire me e ciò che mi sta più a cuore. Nei due anni in cui mi sono finto morto ero sicuro di aver smantellato la sua intera rete criminale, ma a quanto pare mi sbagliavo” disse tutto di un fiato Sherlock, abbassando lo sguardo e mostrando un’espressione sconfitta mentre diceva l’ultima frase. “Devo riuscire a capire cosa possa essermi sfuggito” continuò, alzandosi di scatto dalla poltrona “D-devo farmi trovare pronto… d-devo dedurre… d-devo…” iniziò di nuovo a balbettare, passandosi nervosamente le mani sul viso e ansimando come se fosse sull’orlo di un attacco di panico.
“Sherlock, per favore calmati. Riusciremo a venirne a capo, ma devi cercare di rimanere lucido. Ora siediti, vado a preparare un po’ di tè e, insieme, riprendiamo a lavorare sul caso. Ok?” disse John alzandosi dal divano e avvicinandosi al detective per calmarlo. Vedendo, però, che l’amico continuava a dargli le spalle, non accennando alcuna risposta, lo afferrò delicatamente da un braccio e lo fece voltare verso di lui. Quello che vide sul volto del consulente investigativo lo lasciò senza parole. Aveva un’espressione sofferente, gli occhi lucidi come se stesse per piangere da un momento all’altro e il respiro si era ulteriormente accelerato, in un vano tentativo di prendere aria. Da quando lo conosceva, lo aveva visto così sconvolto solo una volta, a Baskerville e, da quello che ricordava, non ne era uscito niente di buono. “Sherlock mi stai ascoltando?... Stai bene?” continuò allora John con un tono di voce dolce e preoccupato al tempo stesso.
“Sto bene… sto bene” urlò il detective scattando improvvisamente come attraversato da un’improvvisa scarica elettrica, riprendendo a percorrere la stanza nervosamente. Mary, allora, che inizialmente era stata in disparte ad assistere alla scena, si alzò con l’intento di aiutare il marito. Non fece in tempo a parlare che Sherlock si fermò di colpo e collassò sul pavimento privo di sensi.
Al suo risveglio, il detective si ritrovò sdraiato sul divano con un tremendo mal di testa. Cercò subito di alzarsi, ma un forte capogiro lo costrinse a rimettersi giù e a chiudere gli occhi. “Cosa credi di fare razza di idiota! Rimani sdraiato. Non sei in condizione di alzarti!” esclamò John mentre usciva dalla cucina e si dirigeva verso di lui. Il consulente investigativo riaprì di nuovo gli occhi e osservò con aria interrogativa il suo amico.
“Cos’è successo?” chiese confuso.
“Stavi parlando e sei improvvisamente svenuto. Grazie a te, inoltre, alla signora Hudson è quasi preso un colpo vedendoti a terra, mentre portava dei biscotti. Ora Mary è di sotto con lei per tranquillizzarla. Comunque appena ti riprendi, ti porto in ospedale per dei controlli” rispose John con il solito tono da soldato che non ammetteva repliche.
“Oh, per l’amor del cielo, John! Non essere ridicolo! Sto bene, non ho bisogno di nessun ospedale” replicò Sherlock, riuscendo a mettersi seduto.
“Ah, io sarei quello ridicolo? E’ la seconda volta che svieni nell’arco di poche ore a causa di tutte quelle schifezze che hai ingerito e io sarei quello ridicolo?” sbottò il medico, tirando un calcio al tavolino. “Sarai pure un genio, ma sai cosa ti dico? Per me sei un completo idiota!” continuò, andandosi a sedere sulla sua poltrona per riprendere il controllo.
“Non capisco perché te la prendi tanto” rispose Sherlock con un cenno di superiorità.
“Perché me la prendo tanto? Perché, se ancora non ti fosse chiaro, sono il tuo migliore amico e, al contrario di te, tengo alla tua salute, dannazione!” urlò il dottore, scattando nuovamente in piedi. “Tu sei migliore di così, Sherlock! Santo cielo, non hai bisogno di quella robaccia!” continuò, cercando di abbassare leggermente il tono di voce.
“Cosa intendi per migliore, John? Io sono così. Sono sempre stato così. Tu hai idealizzato la mia immagine come quella di un eroe attraverso il tuo blog. Nella tua mente risulto migliore di così, ma la verità è che non lo sono. Te l’ho già detto tanto tempo fa John, gli eroi non esistono e comunque non sarei uno di loro” rispose a tono il detective.
“Invece penso di aver capito più cose io su di te, di quanto ne abbia potute cogliere tu con il tuo geniale cervello” rispose il dottore con amarezza. “Comunque c’è una cosa che devo sapere e voglio che tu mi risponda con sincerità stavolta: quando hai ricominciato?” continuò, mostrando uno sguardo deluso.
“Oh, John! Possibile che ancora non ti è chiaro? Io non ho ricominciato… non ho mai smesso!”




Angolo dell'autrice

Salve a tutti! Mi chiamo Maria e sono pazza di Sherlock! Questa è la prima fanfiction che provo a scrivere, quindi vi prego di essere clementi :) ... Spero che vi piaccia e mi auguro di non uscire troppo dal carattere dei personaggi. Tengo a precisare, comunque, che il personaggio di Sherlock in questa ff tende ad essere più "umano" e sentimentale rispetto a quello che abbiamo visto nel telefilm, questo perchè è così che vorrei vederlo nelle prossime puntate della nuova stagione. Essendo per me una cosa nuova, accetto volentieri commenti, suggerimenti e, perchè no, anche correzioni. Vi ringrazio per aver letto il risultato delle mie deliranti fantasie... A presto con il prossimo capitolo.

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Capitolo 2
*** Incubi ***


                Ti brucerò il cuore





                                                   Incubi


... “Oh, John! Possibile che ancora non ti è chiaro? Io non ho ricominciato… non ho mai smesso!”




Ciò che disse Sherlock lasciò John completamente senza parole. Alla delusione si aggiunse, nuovamente, la rabbia e un velo di tristezza. Pensava davvero di essere riuscito a cambiare il suo migliore amico a tal punto da farlo smettere e, invece, era stata soltanto un'illusione. Si sentiva tradito dal fatto che, per tutto il tempo in cui avevano convissuto, chissà quante volte aveva pensato che lui fosse soltanto immerso nel suo "palazzo mentale" mentre, invece, era sicuramente strafatto di qualche sostanza senza che lui lo sapesse. Non poteva credere di non essersene accorto, d'altronde è un medico, avrebbe dovuto capire cosa c'era dietro gli stati catatonici del detective. O forse si fidava di lui così ciecamente da non voler vedere oltre. Avrebbe voluto saltargli addosso e spaccargli il naso come la sera del suo geniale ritorno, ma non riusciva a muoversi. Rimase fermo ad osservarlo senza proferire parola.
D'altro canto Sherlock era sorpreso dalla reazione del medico. Si era preparato ad essere attaccato a suon di pugni e non capiva se quel comportamento dovesse preoccuparlo o meno. In fondo non era bravo a gestire i sentimenti e, soprattutto, non era bravo a capire le reazioni della cosiddetta “natura umana”.
Quel silenzioso e infuocato gioco di sguardi venne prontamente interrotto da Mary che rientrò all’improvviso nell'appartamento.
“La signora Hudson si è finalmente tranquillizzata. Le ho detto che hai avuto un banale calo di zuccheri per non farla preoccupare oltre” esclamò la donna con tono tranquillo, ma vedendo che entrambi continuavano a guardarsi intensamente senza muovere un muscolo, si bloccò sulla soglia con aria perplessa e rimase lì, con la porta aperta e la maniglia ancora in mano. “Mi sono persa qualcosa?” riprese Mary, cercando di attenuare la tensione che si era creata nella stanza “Tutto bene?” continuò, vedendo che nessuno dei due le dava retta.
“Si, si… tutto bene!” rispose secco John, continuando a guardare il detective “Prendi il cappotto, Mary, dobbiamo andare. Sherlock ha bisogno di pensare e io devo prendere un po’ d’aria” concluse, afferrando la giacca e uscendo dall’appartamento senza aggiungere altro.
Mary, decisamente spiazzata dalla scena, guardò il consulente investigativo, che intanto aveva abbassato lo sguardo, e seguì il marito con l’intento di capire cosa fosse successo.
Sherlock rimase immobile sul divano con lo sguardo perso nel vuoto. Non voleva che andasse così con John. Non voleva deluderlo più di quanto avesse già fatto su quell’aereo. La sua frase era stata sincera, ma non era completa. Avrebbe voluto aggiungere che si, non aveva mai smesso del tutto, ma da quando il dottore era entrato nella sua vita, non ne aveva avuto così tanto bisogno. Avrebbe voluto dirgli che, nel tempo in cui hanno convissuto, si rifugiava nella droga solo quelle poche volte in cui John non era con lui. Avrebbe voluto chiarire il fatto che lui non era una persona migliore da solo, ma lo era soltanto quando c’era il suo blogger a fargli da spalla. Avrebbe voluto dirgli che aveva aumentato dosi e frequenza solo quando per due anni era stato lontano, in posti sperduti e senza il suo personale portatore di luce e che, successivamente, non era più riuscito a controllarsi, ritrovandosi di nuovo a vivere da solo e dovendo accettare che John avesse trovato una vita felice anche senza di lui. Avrebbe voluto dirgli tante cose… ma lui, d’altronde, nonostante avesse una mente geniale, non era mai riuscito ad esprimere i propri sentimenti. Era tutto più semplice quando pensava di non averne. Di tutte le cose che avrebbe voluto dire, quindi, non riuscì a pronunciare una sola parola; riuscì soltanto ad abbassare lo sguardo, mentre il suo migliore amico se ne andava via, lasciandolo da solo, con un improvviso dolore nel cuore.

Erano passati cinque giorni da quel litigio a Baker Street e John non aveva notizie del suo amico, né tantomeno aveva intenzione di contattarlo. La delusione e la rabbia erano ancora troppo vive. Non aveva voglia di un nuovo confronto con lui. Era in giro con Mary a fare spese, quando improvvisamente il suo telefono squillò. Lo prese dalla tasca e rispose senza neanche vedere chi fosse.
“Pronto?” disse con tono decisamente seccato.
“Oh, John, caro… mi dispiace disturbarti, ma sono davvero preoccupata e non so a chi altro rivolgermi!” rispose un’ansiosa e imbarazzata signora dall’altra parte.
“Signora Hudson! No, non si preoccupi, non mi disturba. Mi dica, cos’è successo?” esclamò il medico.
“Si tratta di Sherlock. Da cinque giorni non esce dal suo appartamento, non vuole mangiare, non parla e nelle ultime tre notti l’ho sentito lamentarsi e urlare nel sonno; credo si tratti di incubi. Ho provato a parlare con lui, ma è intrattabile più del solito” raccontò la donna tutto di un fiato.
“Ora si calmi. Io e Mary verremo lì il prima possibile” rispose dolcemente il dottore.
In fondo questa era la storia della sua vita da quando conosceva quel sociopatico. Nonostante ce l’avesse a morte con lui, rimaneva comunque il suo migliore amico e, se Sherlock aveva bisogno del suo aiuto, John avrebbe messo da parte il rancore e si sarebbe precipitato, come sempre, in suo soccorso.
Arrivati al 221B, i due coniugi salutarono velocemente la padrona di casa e si diressero di sopra alla ricerca del detective. L’appartamento sembrava apparentemente disabitato. Nel soggiorno regnava il solito caos, mentre la cucina era un completo disastro. Sembrava che nella stanza si fosse abbattuto un uragano: le provette, che solitamente erano sul tavolo, erano in mille pezzi sul pavimento; il microscopio era stato lanciato in malo modo contro la parete e c’erano, ovunque, piatti e bicchieri rotti. Ciò che preoccupò di più il dottore, però, furono le piccole macchie di sangue che, partendo dalla cucina, arrivavano fino alla camera del consulente investigativo.
E’ li che lo trovarono. Inizialmente fecero fatica a vederlo, perché la stanza era completamente immersa nel buio. Era seduto sul pavimento con le gambe strette al petto e la testa poggiata su di esse. Aveva una mano avvolta in uno strofinaccio insanguinato; probabilmente si era ferito nel tentativo di distruggere la cucina.
“Santo cielo, Sherlock stai bene?” esclamò improvvisamente il dottore.
“John?... Mary?” il detective alzò solo allora lo sguardo e sembrava quasi che non riconoscesse chi aveva di fronte.
“Si, siamo qui! Ma cosa diavolo è successo?” chiese preoccupata Mary, mentre entrambi si avvicinavano a lui.
“I-io… non ricordo… n-non…” cercò di parlare, ma non riusciva a formulare una frase di senso compiuto. Si mise le mani sulle tempie, facendo quasi sbiancare le nocche e chiuse gli occhi respirando a fatica. Stava avendo un attacco di panico, entrambi ne avevano visti tanti e sapevano riconoscerne i sintomi. Cercarono di farlo calmare aiutandolo a controllare i propri respiri, ma sembrava non funzionare. Non voleva essere toccato e non riuscirono neanche a convincerlo a mettersi a letto per medicare quella ferita.
John era disperato. Come medico e come amico non si era mai sentito così impotente. Non sapeva come aiutarlo e, improvvisamente, decise di fare l’unica cosa che gli passò per la testa: chiamare Mycroft. Sperava solo di non peggiorare le cose, ma doveva tentare.
“Dottor Watson, quale onore ricevere una sua telefonata!” rispose Mycroft con il suo solito tono di superiorità.
“Mycroft, devi venire subito a Baker Street. Credo che Sherlock stia avendo un attacco di panico e non riusciamo a calmarlo in nessun modo” rispose tutto di un fiato John.
“Arrivo subito” esclamò il politico riagganciando la telefonata.

Dopo pochi minuti, Mycroft fece il suo ingresso nell’appartamento, dirigendosi immediatamente nella camera del fratello.
“Sherlock!” lo chiamò con cautela.
“Mycroft? C-cosa ci fai qui?” rispose il detective apparentemente più lucido.
“Sono ricominciati gli incubi” non era una domanda, ma una costatazione “Avresti dovuto informarmi e lo sai” continuò il politico con tono duro.
Sherlock abbassò lo sguardo e si limitò ad annuire senza proferire parola. Mycroft si avvicinò a lui, lo prese delicatamente per un braccio e lo portò nel soggiorno, sul divano, facendolo sedere. Il consulente investigativo fece tutto senza opporre resistenza, mantenendo lo sguardo basso e rimanendo stranamente in silenzio. Il politico, allora, si poggiò con le spalle al camino, facendo cenno a John e a Mary di accomodarsi sulle due poltrone. Era il momento di alcune rivelazioni, che al fratello piacesse o no.






Angolo dell'autrice:
Eccovi il secondo capitolo. Spero vi possa piacere. La storia inizia a prendere forma e, da come si capisce ci sono parecchie cose che dovranno essere svelate. Ho talmente tante idee che spero di riuscire a esprimerle nel corso della storia in modo più chiaro possibile. Commentate pure e grazie di nuovo a chi ha lasciato un suo pensiero nel primo capitolo. Alla prossima.

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Capitolo 3
*** Rivelazioni ***


              Ti brucerò il cuore



    

                                            Rivelazioni





… Il politico, allora, si poggiò con le spalle al camino, facendo cenno a John e a Mary di accomodarsi sulle due poltrone. Era il momento di alcune rivelazioni, che al fratello piacesse o no.






“Sherlock, allora, ti decidi finalmente a parlare con il tuo migliore amico? O vuoi che ci pensi io?” disse di colpo Mycroft, guardandolo intensamente.
Il detective alzò lo sguardo su di lui e sembrava combattuto su cosa dire. Aveva gli occhi lucidi, ma per il resto sembrava tornato completamente in sé. “Mycroft, ti prego” rispose con voce rotta.
“No, Sherlock! Ora basta!” urlò il politico “Non puoi affrontare sempre tutto da solo. Posso anche accettare il fatto che tu non voglia il mio aiuto, ma qui ci sono due persone che farebbero di tutto per te” continuò, abbassando il tono di voce.
“Non ho bisogno di aiuto! E’ solo un periodo di stress, gli incubi se ne andranno da soli come l’ultima volta” disse il consulente investigativo, cercando di convincere il fratello e soprattutto se stesso.
“Si può sapere di cosa state parlando?” chiese John sempre più confuso. Poi si voltò verso l’amico e lo guardò, sperando che fosse lui a parlare. “Sherlock, non so cosa ti stia succedendo. Sinceramente non sono più sicuro di cosa ti passi per la testa, ma di una cosa sono certo: sono il tuo migliore amico e vorrei soltanto che tu fossi sincero con me” continuò il dottore, cercando di scegliere le parole con attenzione. “Mi hai messo da parte troppe volte, mi hai ingannato, mi hai mentito, ma almeno per una volta permettimi di entrare nella tua vita, permettimi di aiutarti” concluse trattenendo a stento le lacrime.
Il detective rimase colpito da quelle parole. John era sempre stato presente per lui e non meritava di soffrire in quel modo a causa sua. Ma d’altro canto, non era pronto ad affrontare quel discorso, non era ancora il momento. Si alzò dal divano, prendendo il cappotto e andò verso la porta.
“Si può sapere dove pensi di andare?” esclamò seccato Mycroft.
Sherlock si bloccò con la mano sulla maniglia. Fece un profondo sospiro e si voltò a guardare il suo migliore amico.
“Mi dispiace John, credimi, mi dispiace tanto” riuscì a dire solo questo, lasciò cadere a terra lo strofinaccio insanguinato e uscì dall’appartamento senza degnare il fratello di una risposta.
Nella stanza calò il silenzio. John, soprattutto, era confuso e incredulo per quello che era appena successo. Mary, che fino a quel momento era stata in silenzio, interruppe i pensieri dei due uomini.
“Se Sherlock non vuole darci una spiegazione, ce la dia lei, Mycroft” disse con impazienza.
“Va bene…” rispose il politico con un sospiro “E’ iniziato tutto dopo la sua finta morte. Sapevo che sarebbe stato difficile per lui abbandonare tutto e tutti, ma non credevo così tanto. Ho iniziato a capirlo il giorno del suo funerale. Sembrava distrutto mentre la osservava parlare davanti alla sua tomba vuota…” si fermò un secondo a guardare John, poi continuò “…ma mi ero illuso che l’immenso lavoro che lo attendeva, lo avrebbe distratto. In parte fu così. Quando era completamente immerso in una missione, sembrava il solito Sherlock, ma nei periodi di stallo o quando doveva spostarsi da un luogo all’altro, il suo atteggiamento cambiava radicalmente. Il piano prevedeva che io rimanessi a Londra per non destare sospetti, ma lo feci affiancare da una squadra di uomini fidati che mi teneva sempre aggiornato. Mi comunicarono che iniziava a comportarsi in modo strano, di notte lo sentivano spesso lamentarsi come in preda a dolorosi incubi e di giorno era taciturno e intrattabile. Pensavo fosse una fase passeggera e non gli diedi molta importanza… Io non commetto mai errori, ma non so perché, quando si tratta di mio fratello, non faccio altro che sbagliare…” su quella frase Mycroft dovette fermarsi. Si sentiva improvvisamente vulnerabile e cercò di concentrarsi per riprendere il controllo di sé. Intanto John e Mary lo fissavano in silenzio, pendendo completamente dalle sue labbra.
Appena il politico si riprese continuò a raccontare. “Il primo anno passò tra alti e bassi, ma più tempo passava e più Sherlock peggiorava. Iniziò a commettere errori di valutazione e, spesso, i miei uomini si trovarono costretti a tirarlo fuori da situazioni potenzialmente fatali. Nell’ultima missione che precedette il suo ritorno a Londra, però, non ebbe tanta fortuna. Si era infiltrato in una cellula serba, che risultava essere il tassello conclusivo della rete di Moriarty. Lo sbaglio che commise, quella volta, costò la vita all’intera squadra e la sua cattura nelle fila nemiche. Ricevette le torture fisiche e mentali più brutali di quanto potessi mai immaginare e rimase nelle loro mani per quasi un mese…”
“Un mese?” urlò improvvisamente John, facendo sussultare Mycroft e Mary. “Come hai potuto lasciarlo nelle loro mani per tutto questo tempo?” continuò, alzandosi di scatto e fronteggiando il politico.
“Lei era un soldato, dottor Watson. Dovrebbe sapere che mettere insieme una squadra di soccorso e infiltrarsi nelle loro fila non è di certo cosa da poco. E poi, per evitare errori, capitanai personalmente l’intera operazione e dovetti anche giustificare, in modo credibile, il mio improvviso allontanamento da Londra. Era in gioco la vita di mio fratello e sarebbe bastato un solo errore per perderlo per sempre!” replicò Mycroft, urlando a sua volta.
I due rimasero a fronteggiarsi con lo sguardo per alcuni istanti. Poi il dottore si lasciò cadere sconfitto sulla poltrona e fece cenno all’altro di continuare.
“Quando riuscii a tirarlo fuori di lì, lo riportai subito a Londra, lasciando che la mia squadra terminasse il lavoro con la cellula serba. Sherlock venne affidato ai migliori medici del paese e, se le ferite fisiche guarirono in fretta, quelle psicologiche faticarono a rimarginarsi. Di certo non lo aiutò la sua gentile accoglienza, dottor Watson!” disse quella frase guardando John con sguardo critico. “Non che gliene faccia una colpa, sia chiaro” si affrettò ad aggiungere, vedendo che il soldato era pronto a scattare di nuovo.
“Le cose migliorarono, però, quando tra di voi ci fu una riconciliazione. Risolvere di nuovo casi insieme lo risollevò in modo sorprendente. Gli incubi man mano diminuirono, fino a scomparire quasi del tutto. D’altronde la prima volta che vi vidi insieme…” continuò, rivolgendosi interamente a John “…affermai che lei sarebbe stato, per mio fratello, la soluzione o la rovina definitiva. Ora so con certezza che si trattava della prima. In fondo, anche se mi costa ammetterlo, lei è riuscito dove io ho sempre fallito” disse, sospirando con amarezza.
“In realtà,non sono più sicuro di essere riuscito a fare molto…” rispose il dottore con un filo di voce, quasi come se lo stesse dicendo a se stesso.
“Non convinto, però, di questo incredibile recupero…” continuò Mycroft, ignorando il commento di John “...parlai con degli specialisti, i quali mi dissero che era tutto perfettamente normale, ma aggiunsero che, per continuare a stare bene, Sherlock avrebbe dovuto evitare situazioni ad alto rischio di stress. Per questo non volevo che si confrontasse con Magnussen. Sapevo che uno scontro diretto con un uomo di quella portata, lo avrebbe distrutto nuovamente… e, visto come si è conclusa la vicenda, non mi sbagliavo affatto” disse, abbassando lo sguardo.
“E naturalmente il ritorno di Moriarty e, il dover ritornare con la mente a quei due anni, non ha di certo aiutato la sua situazione” esclamò Mary, afferrando immediatamente la conclusione del politico.
All’improvviso John si alzò di scatto dalla sua poltrona e afferrò velocemente la giacca.
“Dove stai andando?” chiese la moglie confusa.
“Vado a cercarlo. Devo assolutamente parlare con lui” rispose secco il dottore.
Mary, allora, fece per alzarsi, ma il marito la bloccò con un gesto della mano.
“E’ una cosa che devo fare da solo. Ma stai tranquilla, ti terrò aggiornata” disse dolcemente John, dandole un bacio.
“Sei sicuro?” domandò lei preoccupata.
Il dottore annuì, regalandole un caloroso sorriso e si precipitò di corsa giù per le scale. Doveva trovarlo, anche se non sapeva da dove cominciare. Tentò di chiamarlo al cellulare, ma, com’era prevedibile, non ricevette risposta. Allora optò per un messaggio.

-Sherlock, dove sei? Ti prego rispondimi. JW

Non ricevendo alcuna risposta, si mise a correre all’impazzata senza capire dove stesse andando. Poi, all’improvviso, il telefono suonò: un nuovo messaggio.

-Mycroft ti ha detto tutto. SH

Come al suo solito non era una domanda.

-Per favore dimmi dove sei. Ho bisogno di parlarti. JW

Passò qualche minuto prima che John ricevette finalmente una risposta. Anche se non era ciò che si aspettava.

-Sono dove tutto è cominciato. SH

Il dottore si bloccò confuso da quella strana frase. “Perché con Sherlock doveva essere sempre tutto così complicato?” pensò tra sé. Cercò di concentrarsi “Pensa, John, pensa” si ripeteva cercando di fare un’associazione mentale di idee.


Il racconto di Mycroft...

… L’inizio della storia...

… La finta morte...

… La caduta...


… Il tetto del Barts!

Arrivò a quella conclusione sentendosi raggelare il sangue. Non poteva accadere di nuovo. Sembrava un incubo. “Cristo!” esclamò terrorizzato e si mise nuovamente a correre diretto verso l’ospedale. Non conosceva le intenzioni di Sherlock, ma il fatto che si trovasse lì non faceva sperare niente di buono. Era una lotta contro il tempo. Qualsiasi cosa volesse fare il suo amico, doveva impedirglielo. Questa volta, almeno, doveva provarci.






Angolo dell'autrice:
Eccovi il terzo capitolo. E' un pò più statico rispetto agli altri visto che una buona parte è occupata dal racconto di Mycroft, ma spero di essere almeno riuscita a movimentare il finale per ricreare, nuovamente, un clima di suspense. Comunque le idee per questo capitolo provengono dalla puntata 3X01, in cui si vede Sherlock che viene torturato. Non so perchè, ma la mia fantasiosa mente ha sempre pensato che per lui quei due anni non devono essere stati molto belli lontano da John, dagli amici, da Londra e dal suo lavoro (praticamente lontano da tutto ciò che ama!) e per questo sono convinta che lo abbiano segnato parecchio (anche se nella terza stagione non viene accennato a niente di tutto ciò). Spero vi sia piaciuto. Accetto sempre recensioni e ringrazio ancora chi ha lasciato un pensiero nei precedenti capitoli. Grazie anche a chi ha messo la storia tra le preferite e tra le seguite. Al prossimo capitolo... :)

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Capitolo 4
*** La prima mossa ***


                 Ti brucerò il cuore





                                           La prima mossa




… Arrivò a quella conclusione sentendosi raggelare il sangue. Non poteva accadere di nuovo. Sembrava un incubo. “Cristo!” esclamò terrorizzato e si mise nuovamente a correre, diretto verso l’ospedale. Non conosceva le intenzioni di Sherlock, ma il fatto che si trovasse lì, non faceva sperare niente di buono. Era una lotta contro il tempo. Qualsiasi cosa volesse fare il suo amico, doveva impedirglielo. Questa volta, almeno, doveva provarci.






Mentre correva, John si rese conto che stava cercando di arrivare all’ospedale a piedi. “Santo cielo! Devo prendere un taxi o non arriverò mai!” esclamò con il fiatone. Ne fermò uno che passava giusto in quel momento e diede la destinazione al conducente. Durante il tragitto venne investito da numerosi pensieri, uno più terrificante dell’altro. Ansimava pesantemente e non riusciva a capire se fosse per colpa della corsa o se fosse a causa della paura che si stava ramificando in ogni fibra del suo corpo. Arrivato a destinazione, pagò il tassista e scese velocemente dalla vettura. All’improvviso, però, si bloccò. Si rese conto di trovarsi nello stesso punto di qualche anno prima, di quel maledetto giorno. Si sentiva terrorizzato all’idea di alzare gli occhi verso il tetto e vederlo di nuovo li, pronto a saltare e a cadere nel vuoto. Aveva rivisto quella scena nei suoi incubi così tante volte e non era pronto a riviverla di nuovo di persona.
Cercò di darsi coraggio nonostante tutto. Fece un profondo respiro e alzò lo sguardo. Fu allora che lo vide. Era di nuovo li, ma questa volta era seduto con le gambe che penzolavano nel vuoto, le braccia lungo i fianchi e le mani poggiate sul cornicione. Sembrava immerso in chissà quali pensieri. All’idea che sarebbe bastato un movimento brusco o una leggera folata di vento a fargli perdere l’equilibrio, si sentì nuovamente mancare il respiro.
Si mise di nuovo a correre, pronto a raggiungerlo su quel maledetto tetto. Arrivato in cima, decisamente stremato, si avvicinò con cautela all’amico e cercò di parlare nonostante il fiatone.
“Sherlock, Cristo Santo! Che ci fai qui?” disse, mentre cercava di prendere aria. “Ehi…” provò di nuovo, vedendo che l’altro non accennava alcuna risposta.
Solo in quel momento il consulente investigativo si accorse della presenza dell’amico. Voltò per un attimo la testa verso di lui e gli regalò un sorriso che racchiudeva, però, un’infinita tristezza. Poi continuò a guardare davanti a sé senza dire una parola.
John, allora, si sedette di fianco a lui, ma dando le spalle al vuoto.
“Sherlock…” provò di nuovo il medico “…che stai facendo qui?” chiese di nuovo.
“Sei senza fiato. Sicuramente hai corso per buona parte del tragitto e, allo stremo delle forze, finalmente ti sei ricordato che a Londra esistono i taxi. Avverto ancora una certa dose di paura nei tuoi occhi. Da questo deduco che, quando hai capito dove fossi, eri stranamente convinto che avessi intenzione di buttarmi di nuovo da qui” disse improvvisamente il detective, parlando velocemente e tutto di un fiato.
“E’ inutile dirti che hai ragione e spiegarti il motivo per cui avevo paura di cosa potessi fare. Non sono qui per parlare di me. E’ il momento di parlare di te adesso!” rispose John con tono fermo, avendo ripreso completamente il controllo dei propri respiri.
“Cosa vuoi che ti dica?! Mycroft ti avrà già detto tutto quello che c’è da sapere!” esclamò scontroso il moro.
“Dannazione Sherlock! Vuoi smetterla di comportarti così?!” urlò improvvisamente il dottore “Sai che ti dico? Ho sbagliato a venire qui. Volevo solo aiutarti. Ho sempre voluto soltanto aiutarti e tu ogni volta, con la tua presunzione del cazzo, mi hai sempre trattato come un deficiente! Ora basta! Mi sono stancato di correrti dietro come un cagnolino. Se avessi bisogno di me, sai dove cercarmi. Altrimenti vai pure al diavolo!” concluse, continuando ad urlare. Si alzò e fece per andarsene, ma il detective lo afferrò per un braccio, trattenendolo sul posto.
“Ti prego, aspetta…” disse improvvisamente Sherlock con un filo di voce. John si voltò a guardarlo e vide che aveva gli occhi lucidi. Si liberò dalla presa e tornò a sedersi vicino a lui, aspettando che continuasse.
“Sono venuto qui, perché è qui che tutto è cambiato…” cominciò il detective, sospirando con tristezza e abbassando lo sguardo sul marciapiede di sotto “…è qui che io sono cambiato” concluse la frase come se le parole venissero fuori a fatica.
“Perché non mi hai mai parlato di cosa ti è successo? Ho vissuto gli stessi problemi e lo sai, avrei potuto aiutarti” incalzò il medico.
“Perché dal mio ritorno non hai mai voluto parlare della mia finta morte e di quei due anni. E, sia chiaro, non te ne faccio una colpa. E poi, in ogni caso, non volevo buttarti addosso anche i miei problemi. Da quel giorno ti ho causato già abbastanza dolore” rispose il detective, continuando a guardare altrove.
“Sai Sherlock, dovresti smetterla di decidere per la mia vita! Sono capace di prendere da solo le mie decisioni e non puoi escludermi a tuo piacimento solo per proteggermi o perché lo ritieni più giusto!” disse il dottore, cercando di mascherare una vena di rancore nel tono di voce.
“Mi dispiace John, sai quanto sia difficile per me parlare di queste cose. Ho sempre pensato di non avere un cuore e di non provare sentimenti, ma a quanto pare mi sbagliavo. In questi anni sono cambiato così tanto che, a volte, stento a riconoscermi e, per quanto mi costi ammetterlo, io… io ho paura…” confessò Sherlock con un lieve tremore nella voce.
“Ehi…” lo chiamò dolcemente il dottore, invitandolo a guardarlo negli occhi “E’ normale avere paura, anche per una mente geniale come la tua. Non hai niente di cui vergognarti. E poi, non sei solo. Come ha detto Mycroft, non devi affrontare tutto da solo. Io sono qui per qualsiasi cosa, sarò sempre qui. Non dimenticarlo mai” concluse, mettendo una mano su quella del detective.
Sherlock sorrise guardandolo negli occhi, poi spostò lo sguardo sulla mano di John che stringeva la sua e, improvvisamente, si sentì meglio. Si rese conto che ciò che gli aveva detto era vero. Questa volta era tutto diverso. Non era più solo come anni prima su quel tetto, non era più solo come in quei due anni di inferno, ora c’era il suo migliore amico con lui e sapeva che non lo avrebbe mai abbandonato. Ma c’era ancora una cosa che doveva riuscire a dire.
“John…” lo chiamò dopo minuti di silenzio “riguardo alla discussione dell’altro giorno… io…” cercò di parlare, quando venne interrotto dal dottore.
“Non c’è bisogno che dici niente, Sherlock! Non ho voglia di ritornare su quell’argomento. Lasciamo stare” sbottò l’altro, leggermente irritato.
“E’ già abbastanza difficile per me, John. Non rendermelo ancora più complicato!” esclamò il detective, alzando un po’ il tono di voce. Il medico rimase colpito da quella frase e fece cenno all’altro di continuare.
“Ti ho detto che non ho mai smesso con la droga ed è vero. Ha sempre fatto parte di me. Mi ha spesso aiutato in varie circostanze. Ma c’è una cosa che, come al solito, non hai capito. Io non sono migliore, come tu hai sempre pensato… io sono migliore soltanto quando ci sei tu a guidarmi. Come dissi al tuo matrimonio… io sono un uomo ridicolo, John, riscattato solo dal calore e dalla costanza della tua amicizia. Quando vivevi a Baker Street non avevo smesso completamente, è vero, ma non ne sentivo così tanto il bisogno, a parte qualche rara occasione in cui l’impulso era più forte ed io mi ritrovavo da solo a combatterlo. Dalla caduta, però, la tentazione cresceva ogni giorno di più ed io… io ero sempre da solo… e anche dopo essere tornato, non sono riuscito più a controllarmi… nonostante risolvessimo di nuovo casi insieme, la sera, quando mi ritrovavo immerso in quell’appartamento vuoto… era tutto ciò che avevo… era tutto ciò che mi era rimasto… io non…” dovette improvvisamente fermarsi. Una lacrima rigò il suo viso e, vergognandosi di quella sua debolezza, voltò di scatto la testa dall’altro lato.
John era completamente sconvolto. Non aveva mai visto Sherlock così fragile. Non avrebbe mai pensato che lo ritenesse così fondamentale per la sua vita. Ricordava solo due occasioni in cui lo aveva visto vulnerabile, su quel tetto anni prima e nel discorso del suo matrimonio. Ma, a parte quelle due occasioni, non gli aveva mai parlato così, con il cuore in mano… con lo stesso cuore che aveva sempre cercato di nascondere a tutti e, perfino, a se stesso. Non riuscì a dire niente. Lo prese per un braccio e lo fece voltare verso di se. “Vieni qui” disse. Poi lo abbracciò con tutto l’affetto che provava per lui. Era un abbraccio pieno di significato, così come lo era stato quel giorno: il giorno del suo matrimonio.

La suoneria del cellulare di John, interruppe, improvvisamente, quel momento.
“Sarà sicuramente Mary. Le avevo detto che l’avrei chiamata” spiegò staccandosi dall’amico e rispondendo senza vedere chi fosse “Pronto?” disse.
“Si può sapere cosa diavolo ci fate abbracciati sul tetto del Bart’s?” esclamò l’uomo dall’altra parte, con un tono tra il sorpreso e il divertito.
“Greg! Oh… è una lunga storia, lasciamo stare” rispose il dottore imbarazzato, spostando lo sguardo verso l’ispettore che li guardava dal marciapiede.
“Stavo per venire da Sherlock per parlare con lui del video di Moriarty” disse Greg “…spero comunque di non aver interrotto niente di compromettente” concluse, enfatizzando l’ultima parola e scoppiando a ridere di gusto.
“Ah, Ah… molto divertente!” rispose John con sarcasmo “Comunque stavamo giusto per tornare a Baker Street. Se ci aspetti, ci dai un passaggio” aggiunse serio.
Arrivati giù, salirono nella macchina dell’ispettore, che intanto continuava a ridere di gusto ripensando alla scena a cui aveva assistito. Appena l’auto si fermò davanti al 221B, scesero tutti e tre e salirono di sopra nell’appartamento di Sherlock. Trovarono solo Mary ad aspettarli. Mycroft era andato via subito dopo John.
“Tutto bene?” chiese la donna con apprensione.
“Oh si, certo, tutto bene” rispose Greg facendo l’occhiolino a John e rimettendosi a ridere.
“Greg, per favore smettila” disse John rassegnato “…Tutto bene! Ti racconto dopo” concluse rivolgendosi alla moglie, che era alquanto confusa.
Sherlock era l’unico che ancora non aveva proferito parola. Si andò a sedere sul divano sospirando, poggiò la testa sulla spalliera e chiuse gli occhi. Sembrava esausto.
“Allora Gavin, cosa vuoi sapere?” disse con il suo solito tono calmo.
“Greg!” lo corresse, come sempre, l’ispettore.
“Si, quello che è…” rispose il detective con superficialità.
“Cosa sai di quel video? La stampa mi sta massacrando. Si chiedono se Moriarty sia vivo o no” chiese l’ispettore sorvolando sulla questione del nome.
“Moriarty è morto. Non ci sono dubbi” precisò Sherlock, mantenendo sempre quella posizione.
“E allora chi c’è dietro? Avrai sicuramente delle teorie!” esclamò Lestrade impaziente.
Il detective stava per rispondere, quando un’allegra signora Hudson fece il suo ingresso.
“Cù-cù… scusate il disturbo” disse dolcemente “Sherlock, caro, è arrivato questo per lei” concluse, entrando e porgendogli un pacchetto.
Il consulente investigativo aprì improvvisamente gli occhi e scattò dal divano, afferrandolo con foga. “Oh, grazie. Può andare!” rispose in modo sgarbato. Sembrava tornato il solito Sherlock.
“Che cos’è?” domandò John incuriosito, mentre l’amico lo apriva con attenzione.
Si trattava di una strana scatolina. Il detective non rispose e alzò delicatamente il coperchio mostrandone il contenuto. Rimasero tutti senza parole. Nella scatola c’era un cuore umano carbonizzato e un biglietto su cui c’era scritto: Ti brucerò il cuore.
“Cosa diavolo significa?” esclamò confuso Lestrade.
“La scacchiera è pronta… le pedine si muovono… e questa è la prima mossa. Il gioco è cominciato!” rispose Sherlock.



Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il quarto capitolo. E' stato un pò più complicato da scrivere, perchè volevo finalmente mostrare uno Sherlock umano che riuscisse, in parte, ad esprimere i propri sentimenti, ma non volevo sforare troppo fuori dal suo personaggio. Spero vi piaccia come è venuto fuori. Io vorrei tanto vederlo così "esposto" nelle nuove puntate avvenire della serie.
Anche questo capitolo, come il precedente, è soprattutto dialogato e non ci sono molti colpi di scena... a parte sempre qualcosa nel finale. Prevedo, negli altri capitoli un pò più di movimento.
ANTICIPAZIONE: Tengo a chiarire che per il resto della storia mi baso molto su alcune dichiarazioni di Moffat e Gatiss in cui affermano: "Sarà una stagione ancora più brutale, più dark, e in qualche modo risuonerà un senso di ritorno delle cose che fanno male, ciò che torna a torturarli. Credo che il nostro piano è devastante, abbiamo praticamente ridotto in lacrime l'intero cast quando gli abbiamo rivelato cosa abbiamo intenzione di fare".
Quindi preparatevi al peggio. Ahahahhaah... alla prossima e grazie ancora a chi ha recensito e a chi ha voglia di lasciare un'opinione.

 

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Capitolo 5
*** Omicidi (parte prima) ***


                Ti brucerò il cuore






                                         Omicidi (parte prima)





… Nella scatola c’era un cuore umano carbonizzato e un biglietto su cui c’era scritto: Ti brucerò il cuore.
“Cosa diavolo significa?” esclamò confuso Lestrade.
“La scacchiera è pronta… le pedine si muovono… e questa è la prima mossa. Il gioco è cominciato!” rispose Sherlock.






Ricevere quella scatola fu per Sherlock una scarica di pura adrenalina. La sua eccitazione, però, venne momentaneamente interrotta da John.
“Ma che razza di idiota!” esclamò, rivolgendosi al detective “…guarda quella mano com’è ridotta! Hai ripreso a sanguinare, te ne sei reso conto? Siediti sul divano che ti metto dei punti” concluse, andando in bagno a prendere l’occorrente.
“Oh, John, non essere noioso! Non ho tempo per queste sciocchezze!” rispose Sherlock irritato.
“Se non fai quello che ti dico di tua spontanea volontà, posso sempre convincerti in modo poco gentile” disse John, uscendo dal bagno con un sorriso sadico e sottolineando le ultime due parole con perfidia.
Il consulente investigativo colse la minaccia “velata” e, con il suo solito comportamento da bambino capriccioso, si sedette sul divano, sbuffando pesantemente. “Almeno sbrigati!” borbottò scontroso.
Mary e Lestrade, intanto, assistevano divertiti alla scena, lanciandosi occhiate e ridendo sommessamente.
Finito il lavoro da medico, John lasciò andare Sherlock, il quale prese di nuovo la scatola e si diresse verso la cucina.
“Devo analizzarne tutto il contenuto” esclamò il detective “Ci saranno sicuramente degli indizi nascosti” concluse, bloccandosi improvvisamente.
“Oh…!” riuscì soltanto ad aggiungere. Si era completamente dimenticato di come aveva ridotto quella stanza solo poche ore prima.
“Signora Hudson!” gridò a squarciagola.
La donna, che intanto era scesa a preparare del tè, salì di corsa le scale ed entrò allarmata.
“Che succede, caro?” domandò con l’affanno.
“Venga a pulire la cucina! E’ un completo disastro!” comandò il detective con urgenza.
“Ma che modi sono? Si ricordi che non sono la sua governante!” precisò la signora Hudson.
“Si certo, si sbrighi” continuò il consulente investigativo.
“Sherlock!” lo rimproverò John.
“Per favore…” aggiunse l’altro con un falso sorriso.
Mentre una rassegnata padrona di casa riordinava quel trambusto, Sherlock poggiò la scatola sulla scrivania in salotto e andò a recuperare quello che rimaneva del suo microscopio. Lo analizzò attentamente, ma di certo non ci voleva una mente geniale per capire che era ormai irrecuperabile.
“Cosa gli è successo?” domandò un curioso Lestrade, indicando l’oggetto distrutto. Vedendo, però, lo sguardo furioso che gli lanciò il detective, decise di non chiedere oltre.
Mentre il consulente investigativo prendeva il cappotto per andare al laboratorio del Bart’s, la signora Hudson sbucò improvvisamente dalla cucina.
“Oh, Sherlock! Stavo quasi dimenticando… E’ arrivato un altro pacco per lei. E’ di sotto. E’ un pò pesante per me e non sono riuscita a salirlo” esclamò, ritornando poi nelle sue faccende.
Il detective, allora, lasciò perdere il cappotto e corse di sotto incuriosito. Salì un minuto dopo con un pacco di media grandezza. Iniziò a scartarlo e, con sua grande sorpresa, vi trovò all'interno un microscopio nuovo di zecca. Era l’ultimo modello in commercio e, ne era certo, costava una fortuna. In allegato al regalo c’era un biglietto: Ho pensato che te ne servisse uno nuovo. 
“Hai idea di chi possa avertelo mandato?” chiese John, analizzando il biglietto.
Ci furono un paio di minuti di silenzio, prima che l’amico si decidesse a rispondere.
“Mio fratello…” rispose poi Sherlock, ancora sconvolto da quel gesto.
“Oh, che pensiero dolce!” esclamò Mary sorridente.
“Mmh…” borbottò il detective con superficialità, posizionando il microscopio sul tavolo e iniziando a lavorare.
Lo conoscevano tutti fin troppo bene da sapere che sarebbe rimasto lì per ore senza dare altre spiegazioni. Lestrade, intanto, ricevette una telefonata dal distretto e salutò tutti velocemente diretto a Scotland Yard. “Avvisami se hai novità” disse al detective prima di andarsene.
John, invece, accompagnò Mary a casa a riposare con l’intenzione di ritornare più tardi dall’amico per aiutarlo.

Era quasi sera quando il medico tornò a Baker Street. Era sicuro di trovare il detective ancora al lavoro e, invece, era sdraiato sul divano con gli occhi chiusi e le mani congiunte sotto il mento nella sua classica posizione meditativa.
“Trovato qualcosa?” chiese John, chiudendosi la porta alle spalle.
Il detective si alzò di scatto, afferrò sei semi di arancio dal tavolino e li porse al dottore senza dire niente.
“E questi cosa significano?” domandò confuso l’altro.
“Li ho trovati nel cuore carbonizzato. In America i semi d’arancio sono il tradizionale avvertimento di una morte per vendetta. Il fatto che siano sei non è sicuramente un caso. Indicano sei avvertimenti. Accadrà presto qualcosa...” spiegò Sherlock tutto di un fiato.

Dopo una settimana dall’arrivo di quella scatola, però, non era ancora accaduto niente. Il detective era sempre più teso e irritabile. Lestrade e Mycroft, tra l’altro, non erano per niente di aiuto con le continue pressioni per sapere novità sul caso. John era decisamente preoccupato. Passava molto tempo con Sherlock a Baker Street, sia per aiutarlo, sia per tenerlo sotto controllo: non voleva rischiare un altro crollo di nervi dell’amico o, ancora peggio, non voleva rischiare che cadesse nuovamente nelle sue pericolose tentazioni.
“Perché ancora non è successo niente!? Dannazione!” urlò il consulente investigativo, lanciando un sopramobile contro il muro.
“Santo cielo, vuoi calmarti!?” esclamò John.
Improvvisamente, però, il cellulare del detective squillò. Sherlock guardò lo schermo intensamente: era l’ispettore.
“Dimmi Lestrade” disse con tono annoiato.
“Abbiamo bisogno di te a Crawford Street. C’è stato un omicidio e abbiamo uno strano messaggio” rispose Greg.
“Arriviamo subito” esclamò eccitato Sherlock, chiudendo la telefonata.

Dopo qualche minuto erano sulla scena del crimine che, curiosamente, non era molto lontana dall’appartamento del detective. La scena che si presentava era macabra e decisamente strana. La vittima era una donna vestita in modo molto provocante, ma non volgare. Accanto al corpo c’era un frustino sadomaso e delle foto scandalistiche sparse, apparentemente, a caso. John e Sherlock si avvicinarono al cadavere per esaminarlo.
“Donna, 40 anni circa, è morta da appena 12 ore. Causa della morte: un colpo di arma da fuoco alla nuca” disse il dottore “… sembra quasi…” cercò di continuare, ma venne interrotto.
“Un’esecuzione!” concluse per lui il detective.
“Cosa mi puoi dire?” chiese Lestrade.
“Si tratta sicuramente di una prostituta. O meglio, vista l’ottima qualità dei suoi vestiti, direi più precisamente una prostituta di lusso. Il frustino e le foto scandalistiche non sono dei veri e propri indizi, sono stati messi qui di proposito, come per dare un tocco teatrale all’intera scena” spiegò Sherlock “Dov’è il messaggio di cui mi parlavi?” domandò improvvisamente.
Lestrade spostò un cassonetto dell’immondizia e apparve una scritta insanguinata: Get Sherlock!
Il riferimento a Moriarty era evidente. John, vedendo quella scritta, pensò che chiunque stesse conducendo il gioco, sapeva esattamente come fare le sue mosse. E tutto ciò era inquietante.
Il detective, invece, più che dalla scritta, venne attratto dal numero che era tracciato poco più a destra, sempre con il sangue. Era il numero 3.
Improvvisamente, come preso da un raptus omicida, si voltò verso Lestrade, lo prese per le spalle e lo sbatté contro il muro.
“Cosa diavolo ti prende?” esclamò intontito l’ispettore.
“Concentrati Gavin! Chiunque si nasconda dietro Moriarty, mi ha avvisato che ci sarebbero stati sei avvertimenti. Questo non è il primo! Lo vedi il numero? Questo è il terzo! Devono esserci stati altri due omicidi prima di questo! Perché non mi hai avvisato?” gli urlò contro il detective, continuando a tenerlo contro il muro.
“Sherlock, dannazione, lasciami! Non c’è stato nessun’altro omicidio da quando abbiamo parlato l’ultima volta a casa tua” spiegò Lestrade, cercando di liberarsi dalla presa.
“Non è possibile… non ha senso” borbottò il consulente investigativo, mollando la presa sull’ispettore “Aspetta!” esclamò all’improvviso “…hai detto che non c’è stato nessun omicidio oltre a questo ma c’è stato qualcos’altro!” concluse con uno strano sguardo.
“Ci sono stati soltanto due suicidi. Uno due giorni fa e un altro quattro giorni fa. Ma cosa c'entra?” domandò Lestrade sempre più confuso.
“… due suicidi…” ripeté pensieroso il detective “… andiamo a Scotland Yard. Ho bisogno di vedere subito i fascicoli!” ordinò poi con urgenza, dirigendosi verso la macchina dell’ispettore.
John e Greg, sempre più sconvolti, non poterono far altro che seguirlo senza capirci niente.


Dopo circa mezz’ora passata ad esaminare tutta la documentazione sui casi, Sherlock si alzò si scattò dalla poltrona di Lestrade.
“Siete una massa di idioti!” urlò, riferendosi all’ispettore “Possibile che non abbiate capito che non si trattava di suicidi!? Sono entrambi omicidi! E’ tutto così ovvio!” continuò, sempre più furioso.
“Non è possibile. Abbiamo trovato anche i biglietti di addio vicino ai cadaveri” affermò Greg con insicurezza.
“Intendi questi?” chiese Sherlock, sventolando i due pezzi di carta “…questi non sono biglietti di addio, questi sono indizi! Sono indizi per me!” affermò, facendo cenno a lui e a John di avvicinarsi “Guardate qui: la prima vittima era un uomo, 50 anni, tassista. Apparentemente si è ucciso ingoiando una pillola di veleno. Ma osservate questa foto, vedete i segni che ha sui polsi? Era stato chiaramente legato e dal colore dei lividi, è evidente che sia stato slegato soltanto dopo la sua morte. Non ha preso da solo la pillola, come avrebbe potuto? Gliel’hanno fatta ingoiare. Ora guardate il messaggio: ricordatemi ormai sempre allegro… Quale idiota scriverebbe un addio del genere? Prendete le prime lettere di ogni parola. Ricordatemi Ormai Sempre Allegro, cosa viene fuori? ROSA! … John, non ti ricorda niente? Un tassista, una pillola di veleno, il colore rosa…. il primo caso che abbiamo risolto insieme!” Sherlock diede quelle spiegazioni, parlando a raffica e lasciando i due decisamente sbalorditi.
“Fantastico!” esclamò il dottore.
Il detective sorrise compiaciuto, poi continuò.
“Ora analizziamo la seconda vittima. Sempre un uomo, 48 anni, banchiere. Apparentemente si è ucciso con un colpo di arma da fuoco alla tempia destra. Ora guardate le foto. La vittima portava l’orologio sul polso destro e presentava macchie d'inchiostro sulla mano sinistra. Era chiaramente un mancino. Un mancino che si uccide, impugnando la pistola con la mano destra? E osservate il messaggio: lascio ora tutto opportunamente, non esiste rassegnazione ormai. Prendiamo anche qui le prime lettere di ogni parola: Lascio Ora Tutto Opportunamente, Non Esiste Rassegnazione Ormai… Cosa viene fuori? LOTO NERO! … John, anche questo, cosa ti ricorda? … Un banchiere mancino che si uccide con la mano destra e che, in realtà, è un contrabbandiere della società segreta il Loto Nero. Un altro caso che abbiamo risolto. Ora capite cosa sta facendo? Sta prendendo i casi più importanti a cui ho lavorato, commette gli omicidi, lasciando indizi per me e si diverte a creare una vera e propria scenetta teatrale ben architettata” il detective concluse tutto d'un fiato la seconda parte delle sue deduzioni.
“Straordinario!” esclamò di nuovo John. Poi ritornando in sé chiese “…e la prostituta trovata oggi?”
“Quella è ancora più ovvia! Concentrati! Una prostituta di lusso, un frustino, delle foto scandalistiche compromettenti…” Sherlock lasciò la frase volutamente in sospeso.
“Il caso di Irene Adler!” urlò entusiasta il medico.
“E il messaggio sul muro?” chiese incuriosito Lestrade.
“Quello era per voi idioti di Scontland Yard! Visto che i primi due omicidi vi erano sfuggiti, nonostante li aveste sotto il naso, questa volta vi è stato suggerito di chiamarmi per evitare altri stupidi errori!” rispose il detective leggermente irritato. “Ora non ci resta che cercare di anticipare le sue mosse. La prima vittima è stata uccisa quattro giorni fa, la seconda due giorni fa e la terza oggi. E' chiaro che sta seguendo uno schema! Abbiamo due giorni per capire dove e come colpirà la prossima volta!” concluse Sherlock.
“Ma è quasi impossibile capire quale caso userà la prossima volta. Anche se utilizzasse soltanto i casi più importanti, sarebbero comunque troppi!” esclamò il dottore con disperazione.
“Non è impossibile, John! Bisogna solo capire la sua tattica di gioco” rispose il detective con l’aria di chi sa più di quello che dice “Devo andare subito a Baker Street. Devo fare delle ricerche e non abbiamo tempo da perdere!” concluse, correndo fuori dal distretto.
Lestrade rimase immobile, ancora sbalordito da tutte quelle informazioni. John, invece, salutò e si mise anche lui a correre, cercando di tenere il passo dell’amico. Gli sembrava tutto così confuso e sperava soltanto che Sherlock riuscisse a sbrogliare la situazione. Come sempre era tutto nelle sue mani.




Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il quinto capitolo. Inizialmente era stato progettato come un capitolo unico, ma mi sono accorta che stava diventando troppo lungo rispetto agli altri e non mi piaceva molto l'idea. E poi non volevo sovraccaricare un solo capitolo di troppe informazioni. Finalmente la storia inizia a prendere una piega più "alla Sherlock": omicidi, investigazione, deduzioni e un qualche psicopatico che gioca con lui. Che ne pensate di questo Sherlock un pò più aggressivo e nervoso? Sarà in grado di rimanere lucido nelle indagini o, per questo, commetterà qualche errore di valutazione? Questo è quello che ci sarà nel prossimo capitolo... e tra l'altro verrà svelato un personaggio che si nasconde dietro questo gioco perverso, ma non sarà l'unico. Spero vi piaccia. Sappiate che è stato difficilissimo ragionare "alla Sherlock", perchè solo lui ci riesce. Ma spero di esserci andata almeno un pò vicina. Grazie a chi a recensito e a chi vuole commentare con idee e consigli. Il prossimo capitolo, comunque, essendo l'altra metà di questo, verrà pubblicato prima possibile... se riesco anche entro domani sera. Ciao alla prossima! ;)

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Capitolo 6
*** Omicidi (parte seconda) ***


                 Ti brucerò il cuore




                                          Omicidi (parte seconda)





… Lestrade rimase immobile ancora sbalordito da tutte quelle informazioni. John, invece, salutò e si mise anche lui a correre cercando di tenere il passo dell’amico. Gli sembrava tutto così confuso e sperava soltanto che Sherlock riuscisse a sbrogliare la situazione. Come sempre… era tutto nelle sue mani.





Arrivato a Baker Street, Sherlock si mise subito al lavoro. Iniziò a tappezzare la porzione di muro sul divano con carte, foto e messaggi delle tre scene del crimine. Doveva trovare un elemento in comune. Doveva capire la linea di gioco del nemico prima che uccidesse ancora.
John, intanto, chiamò Mary per aggiornarla sullo stato delle indagini. La moglie aveva colto l’occasione per andare da un’amica fuori città per qualche giorno; sapeva che i due uomini avevano bisogno di più tranquillità possibile nel corso delle loro ricerche e non voleva essere d'intralcio in alcun modo.
Il consulente investigativo rimase in piedi a fissare quel mosaico di carte per tutto il pomeriggio e per tutta la sera. Improvvisamente, però, John interruppe quel piacevole silenzio.
“Sherlock, vieni a mangiare. Sono passato dal cinese qui vicino a prendere qualcosa di commestibile” disse il medico.
“Non ho fame! Lo sai che la digestione mi rallenta e devo rimanere concentrato” rispose il detective, rimanendo sempre nella stessa posizione.
“E’ quasi una settimana che non mangi un pasto decente. Preferisci morire di fame?” esclamò il dottore irritato e preoccupato al tempo stesso.
“Ti ripeto che non ho fame, John…” ribadì nuovamente l’altro.
“Sherlock Holmes, vieni subito a mangiare o ti prendo di peso e te lo faccio ingoiare con la forza!” ordinò il medico con il suo solito tono da soldato.
“Dannazione, John! Smettila!” urlò improvvisamente il consulente investigativo, tirando un calcio al tavolino che aveva di fronte con estrema violenza “…vuoi lasciarmi in pace una buona volta? Lasciatemi tutti in pace!” continuò, alzando ulteriormente il tono di voce.
Il dottore rimase di stucco. Avevano sempre avuto quei battibecchi per il cibo e di solito, dopo aver usato il suo magico tono da soldato, il detective aveva sempre ceduto rassegnato. Non aveva mai reagito in quel modo.
“Sherlock, si può sapere che ti prende? Non ti sei mai comportato così. Oggi pomeriggio hai quasi preso a pugni Greg senza motivo e ora stai dando di matto per una cavolata. Cosa c’è che non va?” chiese John con apprensione.
Il detective non rispose. Sospirò, si avvicinò alla finestra e si mise ad osservare la strada con tristezza.
“Ho notato che sei più stanco e più irritabile del solito. Non stai dormendo, lo so. E non è solo per il caso…” continuò John con dolcezza “… ancora incubi?” chiese infine.
“Sto bene” rispose secco l’altro.
“Sherlock non mentirmi” implorò il medico.
“E’ solo un periodo, passerà! Ho soltanto bisogno di dedicarmi a questo caso e di risolverlo prima possibile. Per favore, lasciami fare” disse il detective, voltandosi verso John. Poi ritornò davanti al suo schema senza aggiungere altro.
John, a malincuore, lo lasciò stare. Avrebbe dovuto mangiare qualcosa, lo sapeva, ma non era il caso di insistere oltre. Ci avrebbe riprovato in un altro momento.

La mattina dopo, il telefono del detective squillò di buon ora.
“Lestrade che vuoi? Non ho ancora informazioni per te, non mi tormentare!” rispose Sherlock irritato, dopo aver letto il nome dell’ispettore sul display del cellulare.
“Nervoso già di prima mattina?” ironizzò Greg “…comunque non ti ho chiamato per informazioni. Abbiamo trovato la quarta vittima e un messaggio che potrebbe interessarti. E’ in Dorset Street” concluse serio.
Sherlock riagganciò senza neanche rispondere. Rimase bloccato con il telefono in mano e lo sguardo perso nel vuoto.
“Che voleva Greg?” chiese John dalla cucina “Sherlock?” lo chiamò, non ricevendo risposta.
“C’è stato un quarto omicidio, ma non ha senso” rispose il detective perplesso.
“Ma non dovevamo avere ancora 24 ore?” domandò il dottore, uscendo dalla cucina.
“A quanto pare ha cambiato i suoi piani. Deve aver avuto paura che io riuscissi ad arrivare a lui prima di finire il suo gioco. Quindi sta facendo in modo di accelerare le sue mosse” disse il consulente investigativo pensieroso “Andiamo, Lestrade ci aspetta!” esclamò infine.

La scena del crimine si presentava decisamente più macabra delle precedenti. La vittima era un ragazzo, o almeno così sembrava dai pochi resti rimasti.
“Da quello che rimane del cadavere, direi che è stato sbranato da un animale feroce. Credo si tratti di un ragazzo. Probabilmente non avrà avuto più di 20 anni, ma non posso dirlo con certezza” analizzò John con attenzione.
Sherlock, intanto, non sembrava interessato alla vittima. Era concentrato sulla frase insanguinata lasciata sul muro: ho osservato un noioso detective.
Appena il dottore e l’ispettore si avvicinarono a lui, si voltò di scatto con una strana espressione compiaciuta.
“Devo ammetterlo, ha un notevole senso dell’umorismo” esclamò Sherlock “…lasciando stare il fatto che mi abbia dato del noioso, avete visto cosa viene fuori facendo lo stesso gioco con le prime lettere?” domandò, aspettando che fossero loro a rispondere.
Ho Osservato Un Noioso Detective… HOUND!” rispose improvvisamente John “…il caso del mastino di Baskerville!” concluse incredulo.
“Ma c’è una cosa che non capisco…” disse Greg “… a che scopo sta facendo questo? Dove vuole arrivare?” domandò confuso.
“E’ ovvio!” disse il detective “Sta giocando con me. Mi fornisce gli indizi, mi da il tempo di capire lo schema e, subito dopo, cambia tutte le regole. Sta cercando di distrarmi o di sviarmi…” rispose Sherlock, riprendendo a guardare la scritta e portandosi le mani congiunte sotto il mento “…questa volta ci ha fornito il quarto avvertimento dopo solo 24 ore. Abbiamo pochissimo tempo prima che ci fornisca il quinto!” esclamò, ridestandosi da quella posizione “…andiamo John, credo di avere una teoria, ma ho bisogno di fare delle ricerche per verificarla!” concluse infine.
Il dottore e il consulente investigativo stavano per andarsene, quando inaspettatamente il telefono dell’ispettore squillò. Entrambi si fermarono incuriositi.
“Lestrade!” rispose Greg “…cosa?! Dove? Ok, arrivo!” chiuse la telefonata con un espressione incredula sul volto.
“Cos’è successo?” domandò John impaziente.
“Una cosa che non vi piacerà. Hanno appena segnalato un cadavere non molto lontano da qui. In Blandford Street” rispose l’ispettore.

Arrivati sul posto, scesero immediatamente dall’auto per verificare cosa fosse successo. Era ciò che temevano. Un’altra teatrale scena del crimine e l’ennesimo messaggio sul muro. La vittima era un uomo di mezza età che indossava una divisa militare da cerimonia.
“Uomo, 50 anni circa, dai gradi presenti sulla divisa si trattava di un capitano delle forze armate. Stranamente indossa la divisa da cerimonia riservata alle serate di Gala. Causa della morte: una coltellata alla schiena all’altezza della cintura” esaminò John, ancora leggermente confuso dagli avvenimenti.
Intanto Sherlock era corso verso l’ennesimo messaggio per lui. Questa volta più che un indizio sembrava una vera e propria presa in giro. Il messaggio diceva: trovami idiota! Anche se, per esperienza, tralasci troppe osservazioni!
Il detective iniziò ad agitarsi e a blaterare cose apparentemente prive di senso. Greg e John si avvicinarono a lui per calmarlo, ma riuscirono solo a renderlo ancora più irrequieto.
“Ma cosa sta facendo?! Cosa diavolo sta facendo!?” esclamò Sherlock furioso, prendendo a calci un cassonetto dell’immondizia “Si sta prendendo gioco di me, dannazione!” continuò, tirando con rabbia un pugno contro il muro.
“Santo cielo, Sherlock! Calmati!” disse il medico, cercando di tranquillizzarlo.
“Calmarmi!? Lo vedi cosa sta facendo? Come faccio a calmarmi?!” rispose il detective, continuando ad urlare e massaggiandosi la mano che aveva appena scontrato contro il muro.
“Ehi ragazzi!” esclamò Lestrade “…se anche qui vale il gioco delle prime lettere, c’è un altro messaggio nascosto” concluse l’ispettore.
Trovami Idiota! Anche Se, Per Esperienza, Tralasci Troppe Osservazioni” lesse John con attenzione “…TI ASPETTO!” esclamò “Sherlock, questa cosa non mi piace!” continuò terrorizzato.
Il consulente investigativo parve illuminato dalla parole del dottore.
“Oh, John! Sei fantastico!” esclamò entusiasta il detective “…stavamo quasi dimenticando la vittima! Un uomo in divisa accoltellato alla schiena: il caso dell’uomo effimero! Ricordi qual’era l’elemento chiave, John? La cintura!” concluse, andando verso il cadavere e slacciandola dalla vita. All’interno vi trovò un biglietto: spero che ormai tu abbia capito dove mi trovo. Vieni da me a mezzanotte, da solo. E come diceva l’ultimo messaggio…Ti Aspetto!.
Il medico e l’ispettore erano spaventati dalla piega che stava prendendo tutta quella situazione. Sherlock, invece, sembrava stranamente eccitato.
“Quindi dove si trova?” chiese Lestrade.
“Non ne ho idea” rispose il detective “…ma, come dicevo prima, ho qualche teoria che devo verificare! Ti avviso appena scopro qualcosa. John, andiamo!” concluse con urgenza.
“Sherlock, mi raccomando, non fare niente di avventato” si raccomandò Greg.
“Tranquillo Gavin, non sono mica un idiota” rispose l’altro con fare teatrale prima di incamminarsi verso casa insieme all’amico.

Tornati a Baker Street, John era decisamente irrequieto.
“Quindi? Quale sarebbe questa tua teoria?” chiese all’improvviso.
“Devo prima verificarla, lasciami lavorare!” lo liquidò il detective, mettendosi davanti al portatile.
Il dottore dovette reprimere la tentazione di tirargli un pugno in faccia e, pazientemente, si accomodò sulla sua poltrona aspettando che l’amico si degnasse di renderlo partecipe.
Sherlock passò tutto il pomeriggio e parte della serata immerso a lavorare freneticamente. Erano circa le 22:00 quando si alzò di scatto, facendo sobbalzare l’amico. “Ci sono!” urlò eccitato.
“Quando ti ricordi di rendermi partecipe, io sono qui!” rispose sarcastico l’altro.
“Hai ragione, John! Dai, per farmi perdonare vado a preparare del tè, così ti spiego tutto e chiamiamo Lestrade!” esclamò il detective in modo stranamente gentile.
“A volte ti prederei a pugni, mentre a volte mi fai rimanere completamente senza parole!” rispose il dottore, decisamente confuso.
Qualche minuto dopo, Sherlock si presentò con due tazze di tè ed uno strano sorriso. John, ancora incredulo dal repentino cambio di umore dell’amico, prese a sorseggiare la bevanda, squadrandolo con fare sospettoso. Dopo qualche sorso, però, il medico iniziò a sentirsi strano e fu allora che tutto gli fu chiaro. Stava per avventarsi contro l’amico, ma le gambe cedettero, la vista si offuscò e cadde addormentato sul pavimento. Il detective lo adagiò con cura sul divano, indossò cappotto e sciarpa, poi lo guardò di nuovo. “Mi dispiace, John…!” sussurrò dolcemente, prima di uscire dall’appartamento.
Sherlock aveva finalmente capito lo schema del gioco. I casi e gli indizi non erano altro che elementi di distrazione. Si accorse che erano i luoghi ad essere importanti. Fino ad ora c’erano stati 5 omicidi in 5 vie ben precise: Bickenhall Street, York Street, Crawford Street, Dorset Street e Blandford Street. Erano tutte strade parallele tra loro con una particolarità: ogni strada incontrava Baker Street sul lato destro, percorrendo la via verso Portman Square. Il resto era ovvio. C’era solo un’altra strada che aveva le stesse caratteristiche delle altre: George Street. Ed era li che stava andando.
Arrivò in quella via e si rese conto che la strada era completamente immersa nel buio. In fondo, poco lontano, c’era una figura che lo aspettava. Non riusciva a distinguerne i lineamenti, ma credeva di sapere chi fosse.
“Sebastian Moran…” esclamò convinto il detective.
“Il famoso Sherlock Holmes. Che onore averla qui!” rispose l’altro, avvicinandosi per mostrare il viso.
“Credevi che non avessi capito che c’eri tu dietro tutto? L’ho sempre sospettato” disse il consulente investigativo con tono altezzoso.
“Io non riderei se fossi al suo posto, signor Holmes! Perché in fondo lei non ha capito un bel niente. Io sono solo una pedina di questo gioco. Erano tutte delle pedine: Moriarty, Magnussen, Janine… In fondo lui aveva ragione, lei sembrerà pure un genio, ma è sempre stato così lento…” affermò tutto con sicurezza.
“Lui chi?” chiese Sherlock, decisamente confuso.
“William…!” lo chiamò una voce alle sue spalle.
Quella voce fece gelare il sangue del detective. C’era solo una persona che lo chiamava così… e quella voce era così familiare. Ma non poteva essere lui. Era in prigione, in una cella di massima sicurezza.
“Ti sono mancato?” aggiunse.
Non fece in tempo a voltarsi che qualcosa lo colpì pesantemente alla testa. Cadde a terra e l’oscurità lo avvolse.







Angolo dell'autrice:
Salve! Ecco il sesto capitolo... o meglio la seconda parte di quello precedente! Come promesso l'ho pubblicato prima possibile. Eccoci qui con il primo vero e proprio colpo di scena. Ebbene si, questo misterioso personaggio era dietro a tutto ciò e a quanto pare era dietro e parecchie altre cose, che naturalmente verranno svelate più in la nella storia. Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Questo Sherlock metà emotivo e metà “se stesso” come vi sembra?
E poi che dire… povero John, avrebbe dovuto capire che non deve mai fidarsi della strana gentilezza del nostro consulente investigativo. Che succederà a Sherlock? E chi sarà lo strano personaggio? Sono le domande a cui risponderò nel prossimo capitolo. Grazie sempre a chi ha recensito e a chi vuole lasciare un commento o un consiglio. Alla prossima ;)

PS: Le strade che ho preso in cosiderazione le ho prese esattamente dalla cartina di Londra. Se andate a cercare, vi renderete conto di come siano tutte e 6 parallele e come incrocino tutte con Baker Street.

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Capitolo 7
*** Risvegli ***


               Ti brucerò il cuore



                                                    Risvegli





… “William…!” lo chiamò una voce alle sue spalle.
Quella voce fece gelare il sangue del detective. C’era solo una persona che lo chiamava così… e quella voce era così familiare. Ma non poteva essere lui. Era in prigione, in una cella di massima sicurezza.
“Ti sono mancato?” aggiunse.
Non fece in tempo a voltarsi che qualcosa lo colpì pesantemente alla testa. Cadde a terra e l’oscurità lo avvolse.




Era quasi mezzanotte e Lestrade era molto agitato. Non aveva avuto più notizie da Sherlock e John e l’appuntamento con l’assassino era sempre più vicino. Provò a telefonare ad entrambi, ma i cellulari squillavano a vuoto. Aveva un brutto presentimento. L’unica cosa che poteva fare, era quella di recarsi a Baker Street.
Arrivato davanti al 221B bussò alla porta, ma inizialmente nessuno rispose. Dopo un paio di minuti, un’assonnata signora Hudson aprì.
“Oh, ispettore! Come mai qui a quest’ora? E’ successo qualcosa?” chiese preoccupata.
“Spero di no…” rispose velocemente Greg, correndo su per le scale ed entrando di corsa nell’appartamento del detective.
Sherlock sembrava non essere in casa e John stava dormendo sul divano. C’era qualcosa di strano. Ma non capiva cosa. Si avvicinò al dottore per svegliarlo, ma non rispondeva a nessuno stimolo. Iniziò a chiamarlo e a scuoterlo vivamente, ma continuava a dormire. Allora andò in cucina, riempì un bicchiere d’acqua e glielo gettò addosso.
“Cosa diavolo succede?” esclamò John ancora intontito.
“Buongiorno! Stavo per chiederti la stessa cosa. Dov’è Sherlock?” chiese Greg impaziente.
Il volto del medico si tramutò in una maschera di terrore. Iniziava a ricordare tutto.
“Santo cielo!” urlò, alzandosi di scatto dal divano “…mi ha messo qualcosa nel tè ed è andato sicuramente all’appuntamento!” continuò nel panico.
“Cristo Santo” esclamò Lestrade “… e non sai dov’è andato?” domandò disperato.
“No, dannazione!” rispose John, mettendosi le mani tra i capelli “…aspetta, stava lavorando al computer…” disse avvicinandosi al portatile di Sherlock, sperando che l’avesse lasciato acceso. La fortuna era dalla sua parte. Si mise a cercare nella cronologia e l’ultima cosa che il detective aveva visualizzato era la cartina di Londra. Era alquanto strano, considerando che l’amico aveva sempre detto di avere l’intera la mappa della città impressa nella sua mente. Forse Sherlock aveva lasciato un indizio per lui, per sapere dove trovarlo. John si alzò di scatto, andò allo schema che era sul muro e si mise a cercare tutte le vie dei delitti confrontandole sulla cartina. Gli sembrava una cosa stupida, ma non gli veniva in mente nient’altro. Appena vide la particolarità delle strade, però, capì subito tutto.
“Credo di sapere dove si trova!” esclamò eccitato il dottore “…spero solo che non sia troppo tardi!” concluse preoccupato, uscendo immediatamente dall’appartamento con l’ispettore che lo seguiva confuso.


Sherlock si svegliò con un gran mal di testa. Si ritrovò in una stanza completamente buia e cercò di raccogliere tutte le informazioni possibili. Capì di avere un leggero trauma cranico, si trovava seduto a terra con la schiena contro una parete della stanza, le mani e i piedi erano legati, ma la bocca era libera. Sicuramente si trovava in un posto dove urlare non sarebbe servito a molto. Improvvisamente sentì dei passi e qualcuno entrò da una porta in fondo.
“William… finalmente ti sei svegliato!” disse di nuovo la voce inquietante.
Era troppo buio perchè il detective potesse distinguerne i suoi lineamenti, ma ormai non aveva dubbi. Era sicuramente lui.
“Sherrinford…” disse Sherlock, cercando di mantenere una voce calma “…come hai fatto a scappare?” chiese poi semplicemente.
“Oh, fratellino! Così mi deludi! Più di tutti dovresti conoscere le mie abilità, ma non siamo qui per parlare di me!” disse l’altro con tono divertito.
“Non hai intenzione di uccidermi, altrimenti lo avresti già fatto. Cosa vuoi?” chiese il detective irritato.
“Credevo che ormai lo avessi capito. Pensavo che il mio regalino fosse abbastanza chiaro! Ma d’altronde sei sempre stato così lento…” rispose Sherrinford, fingendo un’espressione triste. Poi si avvicinò a Sherlock, si inginocchiò in modo da ritrovarsi faccia a faccia con lui e sorrise con perfidia.
“E’ semplice, fratellino. Io ti brucerò, ti brucerò il cuore!” concluse, mettendosi a ridere.
“Qualcun altro mi ha già fatto questa promessa una volta, ma non c’è riuscito!” disse il detective con tono di sfida.
“Ah, Moriarty! Era davvero geniale. Mi è dispiaciuto tanto doverlo sacrificare, ma ero così curioso di vedere come avresti salvato i tuoi amici su quel tetto. Sono rimasto un po’ deluso, devo dirtelo, pensavo davvero che ti suicidassi! E invece, tu e l’altro caro fratellone avete elaborato una messa in scena davvero degna di nota. Hai sacrificato due anni a smantellare una rete criminale di poca importanza, considerando che ero io a gestire tutto. I tuoi amici sono rimasti vivi, perché io ho voluto così. Mi è piaciuto giocare con te e mandarti sempre nuove sfide. Volevo vedere com’eri cresciuto e devo dirtelo, eri una delusione da bambino e lo sei tutt’ora. Erano tutti dei giochi, mio caro William: l’attentato sotterraneo guidato da Sebastian, Magnussen… Oh, anche Charles era geniale, ma credi che potesse scoprire tutte quelle cose su di te da solo? Sei stato davvero deludente, soprattutto uccidendolo in quel modo! Sai, dopo Barbarossa pensavo che ti fosse passata quella tua mania di affezionarti, ma a quanto pare non cambi mai. Peccato!” fece quel monologo terrificante, camminando su e giù per la stanza ancora buia.
Sherlock, per la prima volta in vita sua, era senza parole. Quindi Moran non aveva mentito. Facevano tutti parte di un grande gioco architettato dal suo sadico fratello per divertirsi. Non riusciva a credere di non aver sospettato mai niente di tutto questo. Improvvisamente, mentre era immerso nei suoi pensieri, Sherrinford si avvicinò di nuovo a lui.
“Ti ho osservato bene in questi anni e tutte queste sfide mi hanno fornito il tuo profilo completo. Ora condurrò personalmente un gioco progettato proprio per te. Ti divertirai, fratellino… o forse sarò io a divertirmi…” gli sussurrò queste parole all’orecchio. Poi si alzò e prese una pistola dalla tasca.
“Ah, prima che mi dimentichi. Ti ricordi cosa è successo a Barbarossa vero? Beh, caro William, se fossi in te terrei d’occhio i nostri cari genitori, non si sa mai!” concluse, continuando a ridere. Infine afferrò la pistola dalla canna e colpì di nuovo il detective alla testa.
Sherlock non fece in tempo a ribattere, che l’oscurità lo avvolse per la seconda volta.
Prima di lasciare la stanza, però, Sherrinford prese il cellulare del consulente investigativo e inoltrò un messaggio a Mycroft.

- Il piccolo William si trova nel seminterrato del 121 di George Street. Vieni a prenderlo. SH

Dopo aver mandato quel messaggio, rimise il telefono nella tasca del detective e uscì, accendendo la luce e chiudendo la porta a chiave.


Mycroft venne svegliato dal suono del suo cellulare. Si trovava a casa e si era appisolato sulla sua comoda poltrona davanti al camino. Quando vide il mittente, rimase decisamente sorpreso, soprattutto considerata l’ora.
Appena lesse il contenuto del messaggio, si alzò di scatto dalla poltrona e dovette rileggerlo più volte prima di essere sicuro del significato. C’era solo una persona che chiamava Sherlock in quel modo, ma era chiuso in prigione, o almeno sperava che fosse ancora così. Dopo un veloce giro di telefonate, scoprì che la cella era stata trovata vuota poche ore prima. Per la prima volta in vita sua, l’uomo di ghiaccio venne assalito dal panico. Cercando di riprendere la lucidità, provò a chiamare il fratello, ma il telefono squillava a vuoto. Così provò con John.
“Mycroft!?” rispose sorpreso John.
“Dottor Watson… dov’è Sherlock?” chiese con urgenza.
“E’ una lunga storia. L’assassino che stavamo cercando gli ha dato un appuntamento a mezzanotte in George Street. Naturalmente l’idiota è andato da solo. Io e Greg stiamo andando lì a cercarlo” cercò di spiegare il dottore in modo più breve possibile.
“Si trova precisamente nel seminterrato del 121. Aspettatemi lì, io sto arrivando!” concluse di fretta, riagganciando senza dare all’altro la possibilità di rispondere.
Mycroft si diresse di corsa verso la sua auto nera, che era già pronta fuori per lui. Poteva essere una trappola, lo sapeva, ma se Sherlock era lì, doveva andare; doveva arrivare prima che fosse troppo tardi.


Sherlock si svegliò per la seconda volta in quella stanza. Il mal di testa era aumentato e aveva la vista leggermente offuscata. C’era qualcosa di diverso dall’ultima volta che si era risvegliato li. La stanza non era più al buio e, cosa strana, aveva mani e piedi di nuovo liberi. Provò a mettersi in piedi, ma un forte capogiro lo obbligò a tenersi poggiato alla parete. Si sentiva debole ed esausto, sicuramente era a causa di tutto il sangue che stava perdendo dalla profonda ferita alla testa. Provò di nuovo a mettersi dritto, ma quel brusco movimento gli provocò un conato di vomito e si abbandonò a terra in ginocchio con le mani sul pavimento. Sentiva ogni parte del corpo tremare e cominciava ad avere freddo. La ferita doveva essere più grave di quello che pensava inizialmente. Cercò il cellulare nella tasca e, con molta fatica, inoltrò la chiamata a John.
“Sherlock!?” urlò il dottore dall’altra parte.
“John…io…” cercò di parlare, ma ogni minimo movimento gli provocava delle intense fitte alla testa “…ho…bisogno…di te!” concluse, non riuscendo a dire altro.
“Stiamo arrivando! Mycroft ci ha detto dove sei. Saremo lì tra pochi minuti. Sei ferito?” disse il medico velocemente e con enorme preoccupazione.
“…alla testa…” si sforzò di rispondere il detective.
“Cerca di rimanere sveglio, mi hai capito?” esclamò John con terrore, ma non ricevette più risposta.
Sherlock mollò la presa sul telefono e cercò di mettersi di nuovo seduto con le spalle alla parete come poco prima. Appena ci riuscì, cercò di riaprire gli occhi e fu allora che lo vide. Non se n’era accorto prima a causa del buio, ma ora, con la luce accesa, vide che sulla parete di fronte a lui c’erano delle scritte insanguinate. Spostò lo sguardo un po’ più a destra e lo vide. “Barbarossa!?” si chiese tra sé. La scena che aveva davanti era troppo dolorosa da guardare, ma non riusciva a distogliere lo sguardo. Alcune lacrime gli rigarono il viso e sperava soltanto che qualcuno lo portasse via da quel terribile incubo.







Angolo dell'autrice:
Salve! Eccoci con il settimo capitolo. Allora il personaggio misterioso è dunque il famoso terzo fratello su cui tanto si sta ipotizzando. Ho voluto mantenere il nome Sherrinford, perchè secondo le voci, è il nome più probabile (ma chi lo sa!). La mia teoria quindi è in parte svelata. Ho sempre immaginato che in fondo a capo di tutto ci fosse questo fantomatico fratello perverso e che tutti i "cattivi", affrontati fino ad ora da Sherlock, non fossero altro che pedine nelle sue mani. Mah, forse un pò azzardata come teoria, ma la mia mente ne partorisce di cose strane! Questa teoria comunque mi è venuta in mente sia dalla famosa frase di Mycroft alla terza puntata della terza stagione "...sa cos'è successo all'altro" (riferendosi ad un possibile terzo fratello) e poi secondo elemento, è stata la scena tagliata di Magnussen che va a trovare Sherlock in ospedale, dopo che Mary gli ha sparato. Non so se l'avete vista (comunque sotto vi metto il link), ma Magnussen, entrando nella stanza, elenca i fiori che hanno mandato al detective e dice più o meno che "i garofani sono da Scotland Yard... una singola rosa è da W (che si presume stia per the Woman)... e infine una corona nera dal blocco C di Pentonville" ... Tra l'altro aggiunge "Non sono sicuro che l'intento fosse del tutto gentile". E da qui la mia fantasia ha preso un volo allucinante, pensando che fosse proprio questo terzo fratello, in prigione, ad aver mandato una brutta corona di fiori neri al fratello. Ok, credo che abbiate capito che sono un pò svalvolata... Ahahahaha... spero che il capitolo vi sia piaciuto e grazie ancora a chi ha recensito e a chi voglia sempre farlo...
Anzi mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate di tutto ciò. ;)
Grazie anche a chi ha inserito la storia tra le preferite e tra le seguite.
Al prossimo capitolo.
https://www.youtube.com/watch?v=eE3yLRRJJ20 (link scena tagliata Magnussen-Sherlock... tra l'altro un pò inquietante).

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Capitolo 8
*** Barbarossa ***


             Ti brucerò il cuore



                                             Barbarossa





… Sherlock mollò la presa sul telefono e cercò di mettersi di nuovo seduto con le spalle alla parete, come poco prima. Appena ci riuscì, cercò di riaprire gli occhi e fu allora che lo vide. Non se n’era accorto prima a causa del buio, ma ora, con la luce accesa, vide che sulla parete di fronte a lui c’erano delle scritte insanguinate. Spostò lo sguardo un po’ più a destra e lo vide. “Barbarossa!?” si chiese tra sé. La scena che aveva davanti era troppo dolorosa da guardare, ma non riusciva a distogliere lo sguardo. Alcune lacrime gli rigarono il viso e sperava soltanto che qualcuno lo portasse via da quel terribile incubo.






Mycroft e Sherrinford erano due fratelli molto legati. Il fatto che si passassero soltanto due anni, li rendeva affiatati in ogni cosa che facessero insieme. Sherrinford, soprattutto, era molto affezionato al fratello maggiore: quello che provava per lui, non era solo affetto, ma una profonda ammirazione.
Le cose, però, iniziarono a cambiare quando, in casa Holmes, venne data la lieta notizia: un piccolo nuovo membro stava per fare il suo arrivo in famiglia.
“Ragazzi, dobbiamo darvi una bellissima notizia” disse il signor Holmes, facendo cenno ai due figli di avvicinarsi “…presto avrete un altro fratellino” concluse con un enorme sorriso.
Tutti quanti erano entusiasti di quest’annuncio, tutti tranne Sherrinford. Questa sua avversione derivava dalla paura che, il nuovo arrivato, potesse rovinare il rapporto che aveva con Mycroft, privandolo di buona parte del tempo che avrebbe potuto passare con lui. E, purtroppo, fu proprio così che andarono le cose.
Il piccolo Sherlock era, già da neonato, un bambino molto particolare e bisognoso di attenzioni. Mamma e papà Holmes davano a lui gran parte del loro affetto e Mycroft, in particolare, sembrava innamorato del suo nuovo fratellino, tanto da passare con lui quasi tutto il suo tempo libero. In fondo Sherrinford aveva soltanto 5 anni e desiderava tanto che la sua famiglia ritornasse com’era prima: com’era prima della nascita di Sherlock.
Con il passare degli anni le cose non migliorarono anzi, andarono sempre peggio. Sherlock era un bambino dotato di un’intelligenza molto sviluppata, così come i suoi due fratelli; la sua particolarità, però, stava nel suo carattere scontroso, ma al tempo stesso fragile. Era trattato dagli altri bambini con diffidenza e non riusciva a farsi degli amici come i suoi coetanei. Lo avevano etichettato come “strambo” e, non solo lo escludevano dalle attività di gioco, ma spesso lo prendevano di mira per picchiarlo e per divertirsi. Il piccolo Sherlock tornava a casa quasi sempre piangendo, si chiudeva nella sua cameretta e passava il pomeriggio a singhiozzare nel suo letto. Ripeteva sempre che gli altri bambini era tutti stupidi, ma in fondo l’unica cosa che desiderava, era di essere come loro: di essere “normale”. Mycroft, vedendo le difficoltà del fratellino, sviluppò nei suoi confronti un forte senso di protezione. Era l’unico che riuscisse a calmarlo e, quando Sherlock era particolarmente triste, stava ore ed ore con lui a giocare ai pirati che tanto amava solo per vederlo sorridere. Sherrinford, intanto, riusciva a passare sempre meno tempo da solo con il fratello maggiore, perchè c’era sempre di mezzo quello “stupido bambino”, come lo definiva lui.
Man mano che il tempo passava, l’intolleranza di Sherrinford si trasformò in vero e proprio odio. Inizialmente cominciò a diventare aggressivo con i suoi compagni. Mamma e papà Holmes, infatti, erano spesso chiamati a scuola per i suoi comportamenti violenti. Le punizioni sembravano non dare alcun risultato anzi, non fecero altro che aumentare la perenne rabbia che caratterizzava il loro secondogenito. Successivamente la cattiveria di Sherrinford si concentrò sulla causa di tutta quella rabbia repressa: Sherlock. In quel periodo i tre fratelli avevano rispettivamente 7, 12 e 14 anni. Il fratellino minore era spesso vittima di strani incidenti che in un primo momento vennero attribuiti al suo carattere irrequieto e iperattivo, ma poi cominciarono a diventare sospetti. Mycroft, in particolare, si accorse che qualcosa non quadrava; come quella volta in cui Sherlock stava scendendo dalla scaletta della sua casa sull’albero e fece un volo di 4 metri a causa di un gradino che si ruppe all'improvviso. Analizzando la scaletta, il fratello maggiore si accorse che il gradino in realtà era stato leggermente segato per potersi rompere non appena il fratellino vi avesse messo il piede sopra. Per fortuna Sherlock quel giorno si fratturò solo il polso destro, ma Mycroft iniziò ad osservare Sherrinford con diffidenza e, appena si accorse che c’era proprio lui dietro tutto, lo accusò apertamente davanti ai suoi genitori. Tutto questo, purtroppo, fece aumentare l’odio che il secondogenito provava per il fratellino ed estenderlo anche nei confronti dell’intera famiglia Holmes.
Un giorno, però, inaspettatamente, i sentimenti di Sherrinford parvero cambiare. Quel pomeriggio chiese ai suoi due fratelli e ai genitori di riunirsi tutti in soggiorno per fare un importante annuncio.
“Siamo tutti qui perché ho una cosa importante da dire” iniziò il secondogenito con tono serio “… volevo chiedervi scusa per come mi sono comportato in quest’ultimo periodo. Le mie scuse vanno soprattutto a te, Sherlock” continuò, rivolgendosi al fratellino “…ero geloso, lo ammetto, ma sono davvero dispiaciuto per il mio terribile comportamento. Per dimostrarti quanto ti voglio bene, ho questo regalo per te” terminò il suo piccolo discorso, poi andò in cucina e tornò con un cucciolo di setter irlandese in mano “…questo è per te fratellino. L’ho chiamato Barbarossa come il pirata che tanto ammiri, spero ti piaccia” aggiunse poi, porgendogli il cane e sorridendo.
Mamma e papà Holmes erano contentissimi nel vedere il loro secondogenito finalmente amorevole ed affettuoso.
Sherlock, senza parole, prese il cane e gli regalò un enorme sorriso “Grazie Sherrinford, è bellissimo” disse entusiasta.
Mycroft, invece, assisteva alla scena con una profonda diffidenza. Non poteva credere che il fratello avesse cambiato il suo atteggiamento da un giorno all’altro e aveva paura che, in fondo, avesse qualche sadico piano nascosto. Proprio per questo motivo, cercò in tutti i modi di impedire al fratellino di affezionarsi troppo a quel cane “Sherlock, non dovresti passare tutto il tuo tempo con Barbarossa, te l’ho sempre detto che affezionarsi non è un vantaggio e se dovesse morire o capitargli qualcosa potresti soffrirne” gli ripeteva sempre.
“Ma Mycroft, lui è il mio migliore amico. Non preoccuparti, è un grande pirata e non gli accadrà mai niente!” rispondeva ingenuamente Sherlock.

Da quel giorno passarono tre anni, tre anni apparentemente tranquilli. Sherlock e Barbarossa erano ormai diventati una cosa sola: stretti da un legame speciale che li vedeva sempre insieme in ogni occasione. Mycroft, ormai, si era convinto della benevolenza di Sherrinford e iniziava a pensare che quel cane avesse fatto davvero bene al fratellino: era più socievole, era sempre allegro, non stava più così tanto chiuso in camera sua e, qualche volta, quando lo portava al parco, riusciva persino ad iniziare delle conversazioni con gli altri bambini. Tutto sembrava andare per il verso giusto.
Un giorno, però, a casa Holmes arrivò una telefonata.
“Pronto?” rispose la mamma.
“Salve, signora Holmes, sono l’insegnate di Sherlock. Volevo avvisarla che, purtroppo, vostro figlio è stato picchiato davanti scuola da alcuni compagni più grandi ed è stato portato in ospedale” disse la donna dall’altra parte.
“Oh, mio Dio… e come sta?” esclamò impaurita mamma Holmes.
“Non si preoccupi niente di grave, ma non so dirle di più purtroppo” rispose mortificata l’insegnante.
“Grazie… andiamo subito!” disse l’altra chiudendo la chiamata.

Tutta la famiglia si recò d’urgenza in ospedale. Per fortuna il piccolo Sherlock aveva solo una gamba rotta, due costole inclinate e qualche livido. Appena entrati nella sua stanza, andarono tutti ad abbracciarlo, sollevati nel vederlo cosciente.
“Avrei bisogno di parlare con Mycroft da solo. Potete scusarci?” chiese il bambino, rivolgendosi agli altri tre.
“Certo caro” rispose dolcemente mamma Holmes, mentre tutti uscivano.
“Mycroft, ho bisogno che tu faccia una cosa per me” disse Sherlock.
“Dimmi, cosa vuoi che faccia?” domandò il fratello maggiore.
“Quegli idioti che mi hanno picchiato hanno detto che la prossima volta sarebbe toccato a Barbarossa. I dottori dicono che mi dimetteranno tra due giorni, perciò devi farmi una promessa, devi promettermi che lo terrai al sicuro e che lo proteggerai” disse Sherlock con un tono serio e preoccupato.
“Te lo prometto” rispose Mycroft, sorridendo.
Sherrinford, intanto, aveva ascoltato l’intera conversazione da dietro la porta. Fece un sadico sorriso e se ne andò.

Il primo a ritornare a casa fu Mycroft. Appena entrò nel soggiorno, trovò Sherrinford seduto su una poltrona davanti al camino con una strana espressione sul viso.
“Sai fratellone, non dovresti mai fare promesse che non puoi mantenere” esclamò improvvisamente il secondogenito.
“Di che stai parlando?” rispose Mycroft confuso, ma l’altro non lo degnò di una risposta anzi, iniziò a ridere di gusto “…dov’è Barbarossa?” aggiunse, allora, in preda al panico.
“In giardino!” rispose semplicemente Sherrinford, continuando a ridere.
Il fratello maggiore andò subito sul retro della casa e quello che vide lo lasciò senza parole. Il cane giaceva sull’erba con la gola tagliata in un mare di sangue. La rabbia iniziò ad impadronirsi di lui a tal punto che rientrò, prese l’altro per la maglia e lo buttò a terra, iniziando a colpirlo con pugni al viso e allo stomaco.
Mamma e papà Holmes entrarono poco dopo e si precipitarono a stagliare i due. Sconvolti, però, dal racconto di Mycroft portarono il loro secondogenito in camera sua, chiudendolo a chiave. Avrebbero deciso più tardi il da farsi: molto probabilmente avrebbero optato per un istituto per minori con problemi psicosociali.
“Fratellone caro, ora divertiti nel dire a Sherlock di Barbarossa. Mi dispiace soltanto che non potrò assistere alla scena!” gridò Sherrinford dall’interno della sua stanza, continuando a ridere di gusto.
Mycroft era disperato. Avrebbe parlato con il fratellino la mattina dopo e, per la prima volta in vita sua, non sapeva cosa fare.

Quando la mattina dopo Mycroft entrò nella stanza di Sherlock, lo trovò a guardare il soffitto, perso in chissà quali pensieri. Appena si accorse della sua presenza, il piccolo si mise a sedere e gli regalò un meraviglioso sorriso. In quel momento pensò che forse quello sarebbe stato l’ultimo che gli avrebbe rivolto. Sapeva che il responsabile di tutto era Sherrinford, ma in fondo era stato lui ad avergli fatto quella promessa e sentiva di aver penosamente fallito.
“Sherlock, c’è una cosa che devo dirti” disse Mycroft, facendosi coraggio.
“Cos’è successo?” esclamò preoccupato il bambino. Era decisamente intelligente per la sua età e riusciva a capire le cose già prima che gli venissero dette.
“Si tratta di Barbarossa… lui… lui è… io non…” balbettò il fratello maggiore, cercando di mettere insieme una frase di senso compiuto.
Sherlock, però, aveva già capito tutto senza bisogno di aggiungere altro. Il suo viso si tramutò in una maschera di dolore e odio.
“Avevi promesso che sarebbe stato al sicuro, lo avevi promesso!” urlò il bambino con rabbia, mentre le lacrime iniziavano a bagnargli il viso.
“Sherlock…” tentò di chiamarlo l’altro, ma venne interrotto.
“Vattene! Vattene via!” gli ordinò il bambino, urlando ancora più forte.
Mycroft uscì da quella stanza distrutto e con il cuore a pezzi.

Da quel giorno Sherlock non gli rivolse più né i suoi meravigliosi sorrisi, né i suoi affettuosi abbracci. Si chiuse sempre di più in se stesso. Passò dalla passione per i pirati, al morboso interesse per la criminologia e per degli strani e macabri esperimenti. Venne portato da numerosi psicologi che confermarono un'unica diagnosi: il bambino era affetto da una grave forma di sociopatia. Ma Mycroft lo sapeva, quello di suo fratello non era un problema patologico, quella era una corazza che si era messo addosso per proteggersi da tutto e da tutti, compresa la sua stessa famiglia. Quella maschera l’avrebbe indossata per tutta la sua crescita, portandolo ad isolarsi e ad allontanarsi sempre di più dal mondo intero. La droga, poi, a cui si dedicò già nella sua adolescenza, avrebbe fatto il resto, rendendolo ciò che lui voleva essere: un sociopatico senza cuore.
Molti anni dopo, solo un uomo sarebbe riuscito a scalfire quella corazza: John Hamish Watson.




John e Greg arrivarono di corsa al 121 di George Street. Appena scesero dall’auto, cercarono Mycroft con lo sguardo, ma non era ancora arrivato. Non c’era tempo per aspettarlo, Sherlock aveva bisogno urgentemente di aiuto. Entrarono nell’appartamento dirigendosi nel seminterrato con le pistole in mano.
Entrati nella stanza ciò che videro li lasciò di stucco. Sul muro c’era una scritta insanguinata: Questo è per te fratellino. L’ho chiamato Barbarossa, come il pirata che tanto ammiri, spero ti piaccia. A terra, un po’ più a destra, c’era un setter irlandese con la gola tagliata in un mare di sangue. Poco più in fondo c’era il detective. Era seduto a terra con gli occhi chiusi e il sangue che gli colava copiosamente dalla testa. Singhiozzava ed ansimava pesantemente.
“Sherlock!” urlò John, avvicinandosi a lui preoccupato “… Santo cielo, Greg chiama subito un’ambulanza!” continuò terrorizzato “…Sherlock mi senti?” chiese, rivolgendosi all’amico.
“John, portami via da qui, ti prego…” disse il consulente investigativo con molta fatica.
“Stai tranquillo l’ambulanza sarà qui a minuti” rispose il medico cercando di calmarlo.
“No, voglio andare via, per favore…” ripeté Sherlock, continuando ad ansimare, mentre altre lacrime gli rigavano il viso. Vedendo, però, che l’amico non gli dava ascolto, tentò da solo di alzarsi per andare fuori di lì.
“Sherlock, che diavolo stai facendo? Rimani seduto, dannazione!” esclamò John con apprensione. Non fece in tempo a dire altro, che il detective gli cadde addosso svenuto. Lo prese al volo e, aiutato da Greg, lo adagiò con delicatezza sul pavimento in attesa dei soccorsi. Sperava solo che arrivassero prima possibile.
Intanto sulla porta Mycroft, che era appena arrivato, si guardò intorno nella stanza e, vedendo le condizioni del fratello, si sentì distrutto e con il cuore a pezzi come molti anni prima. “Oh, Sherlock!” esclamò semplicemente.








Angolo dell'autrice:
Salve! Ecco l'ottavo capitolo. E' quasi tutto caratterizzato dalla storia di Barbarossa, ma serviva a spiegare cosa ha significato per lui e come sia arrivato Sherrinford ad odiarlo tanto (anche se alla base c'è chiaramente un disturbo psicologico). Il fatto di Barbarossa mi ha sempre incuriosito, soprattutto dopo lo speciale. Per quanto anche io abbia un cane che adoro, ho sempre pensato che dietro il cane di Sherlock ci fosse una storia più drammatica e particolare, rispetto ad una semplice morte dell'animale per vecchiaia e l'ho pensato vedendo come ha reagito nella terza stagione le due volte che l'hanno nominato. Nello speciale poi, quando Watson gli chiede "cosa vi ha reso così?" e lui risponde "oh, Watson, nulla mi ha reso così, mi sono fatto da solo" e poi sente i passi di un cane e dice Barbarossa, ho pensato che proprio questo tassello della sua infanzia sia stata la causa del suo trasformarsi in un "fantomatico sociopatico"(che sinceramente penso che sia solo una maschera).
Ecco un pò spiegato cosa potrebbe esserci dietro lo strano rapporto tra Sherlock e Mycroft. Mah ,una teoria un pò azzardata, ma mi piace pensarla così.
Inoltre la frase di Lady Carmichael che, riferendosi al marito, dice a Sherlock, "avevate promesso che sarebbe stato al sicuro, lo avevate promesso", non so perchè ma ho pensato che potesse essere legato a qualche ricordo del nostro detective, magari proprio a Barbarossa... in fondo in quel punto della storia siamo nella sua mente! Mah... forse mi faccio troppi film mentali... Ahahahah...
Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Aspetto i vostri commenti... Grazie per chi segue la storia... alla prossima ;)

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Capitolo 9
*** La storia si ripete ***


               Ti brucerò il cuore




                                               La storia si ripete




… Intanto sulla porta, Mycroft, che era appena arrivato, si guardò intorno nella stanza e vedendo le condizioni del fratello si sentì distrutto e con il cuore a pezzi, come molti anni prima. “Oh, Sherlock!” esclamò semplicemente.






“Barbarossa!” urlò Sherlock, svegliandosi di colpo. Si sentiva confuso e con la testa dolorante. Cercò di mettere a fuoco l’ambiente circostante e capì di essere in ospedale. Improvvisamente dalla porta della sua stanza entrò una figura familiare.
“Sherlock!” esclamò John entusiasta “…finalmente ti sei svegliato! Non sai che paura ci hai fatto prendere!” continuò, avvicinandosi al suo letto.
“Da quanto tempo sono qui?” chiese confuso il detective, notando lo stato in cui era l’amico. Era decisamente stanco, segno che era rimasto in ospedale per molte ore.
“Da due giorni” rispose serio il medico “…hai un lieve trauma cranico. Appena arrivato, ti hanno dovuto fare una trasfusione d’urgenza a causa di tutto il sangue che avevi perso. Ti hanno messo un bel po’ di punti, ma per fortuna non hai subìto danni cerebrali” spiegò il dottore con fare professionale “…e comunque sei un completo idiota! Come ti è saltato in mente di andare da solo!?” continuò, iniziando a gridare.
Il detective abbassò lo sguardo e non rispose. Era al quanto strano considerando che, di solito, ci teneva sempre ad avere l’ultima parola in un discorso. John lo guardò in silenzio con apprensione.
“Mycroft ti ha raccontato tutto. Di Sherrinford e di…” disse improvvisamente, tenendo ancora lo sguardo basso e lasciando la frase in sospeso. Era sempre difficile pronunciare il nome di Barbarossa, faceva riemergere ricordi e sensazioni che aveva sempre cercato di tenere da parte e che ora sembravano più vive che mai.
“Si…” rispose semplicemente il medico. Non sapeva come avesse fatto a capirlo, ma in fondo lui sapeva sempre tutto ed era inutile mentire “…non mi avevi mai detto di avere un altro fratello…” concluse poi con amarezza.
“Beh, è già difficile ammettere di avere un fratello odioso come Mycroft… figurati uno psicopatico che ha sempre avuto come scopo quello di farmi del male!” cercò di sdrammatizzare Sherlock, abbozzando un mezzo sorriso.
John sorrise a sua volta, guardando l’amico dritto negli occhi. Si rese conto,che nello sguardo del detective c’era qualcosa di strano: quegli occhi di solito freddi e taglienti, erano ora pieni di dolore e di tristezza. Nonostante lui cercasse di apparire distaccato come al solito, si poteva leggere dalla sua espressione che stava lentamente cadendo a pezzi. Doveva ammetterlo, Sherrinford era uno psicopatico, ma sapeva esattamente dove colpire.
“Mycroft è qui?” chiese improvvisamente Sherlock.
“Sì, te lo chiamo…” rispose confuso il dottore “…vuoi che vi lasci soli?” domandò poi incerto.
“No, ti prego! L’ultima cosa che voglio adesso è rimanere solo con lui. Fallo entrare, devo solo chiedergli una cosa” esclamò il detective,con il solito tono tagliente e teatrale che riservava solo al fratello maggiore.
Mycroft entrò nella stanza seguito dal dottore. C’era una strana atmosfera nell’aria. I due rimasero a guardarsi negli occhi per alcuni minuti. John si sentiva fuori luogo in quel clima così teso. Poi d’un tratto il detective parlò.
“Ho bisogno che tu faccia una cosa per me” disse serio.
“Dimmi, cosa vuoi che faccia?” rispose il fratello maggiore.
“Sherrinford mi ha fatto intendere chiaramente che potrebbe fare del male ai nostri genitori…” iniziò Sherlock con uno sguardo irritato “…io non posso lavorare al caso e tenerli d’occhio nello stesso momento. Devi promettermi che li terrai al sicuro e che li proteggerai. Questa volta, almeno, vedi di non deludermi” concluse con voce carica di risentimento.
Mycroft ci mise un po’ a rispondere. Per la prima volta da quando lo conosceva, John lo vide in difficoltà.
“Te lo prometto” rispose infine.
“Ora puoi andare” ordinò secco il detective.
Il fratello maggiore abbassò lo sguardo e uscì dalla stanza senza dire altro. Si sentiva distrutto, ma al tempo stesso era deciso a mantenere quella promessa. Questa volta doveva riuscirci.

Sherlock venne dimesso due giorni dopo contro il parere dei medici dell’ospedale. Era impossibile trattenerlo oltre e John garantì che lo avrebbe tenuto d’occhio. Gli raccomandarono di stare a riposo e di evitare gli sforzi eccessivi.
Tornarono di corsa a Baker Street e, appena entrarono nell’appartamento, trovarono ad attenderli una preoccupata signora Hudson e Mary. Quest’ultima, appena i due entrarono, andò subito ad abbracciare Sherlock, poi salutò il marito con un bacio.
“Possibile che non posso lasciarvi da soli senza che uno dei due finisca in ospedale?” ironizzò Mary con un sorriso.
“E’ la storia della nostra vita a quanto pare…” rispose John, ridendo.
Il detective sorrise e si andandò a sedere sulla sua poltrona nella sua classica posa meditativa. Era strano vederlo così silenzioso, ma dopo ciò che aveva passato, non si poteva pretendere di più.

Mycroft in quei due giorni non aveva avuto più contatti con Sherlock. Era impegnato ad assoldare gli uomini migliori che aveva a disposizione per tenere i genitori sotto controllo. Avrebbe voluto trasferirli in una casa più sicura, ma la madre non aveva intenzione di lasciare la sua abitazione, perciò doveva riuscire a proteggerli permettendogli di rimanere lì.
Mentre era intento a lavorare nel suo ufficio, al Diogenes Club, venne distratto dal suono del suo telefono. Era arrivato un messaggio. Per un momento sperò che fosse Sherlock: avrebbe tanto voluto sapere come stava dopo ciò che gli era successo.
Il mittente, però, era sconosciuto e il messaggio diceva: I nostri genitori sono stati cosi gentili da offrirmi un tè. Vorresti unirti a noi?
Mycroft si sentì raggelare. Non voleva avvisare Sherlock, poteva essere una trappola per entrambi. Decise che sarebbe andato a casa dei suoi genitori da solo. Era il momento di affrontare Sherrinford una volta per tutte.

Era passata qualche ora e Sherlock era ancora fermo sulla sua poltrona. Mary era sul divano e John era seduto davanti a lui. Il dottore voleva dargli spazio, ma al tempo stesso era desideroso di saperne di più su tutta quella storia.
“Sherlock…” lo chiamò improvvisamente.
“Mmh…” rispose semplicemente il detective, continuando a mantenere gli occhi chiusi.
“Ci sono alcune cose che non mi sono chiare” disse John confuso.
“Non sarebbe la prima volta!” esclamò Sherlock, aprendo gli occhi e sorridendo.
“Molto simpatico, come sempre!” rispose il dottore, ridendo anche lui. Sembrava più rilassato rispetto a prima e questo gli diede la spinta per continuare il discorso “…quindi dietro tutto c’era Sherrinford? E Moriarty cosa c'entrava?” chiese, tornando serio.
“La questione è molto più complessa, John. Sherrinford è sempre stato la mente di tutto. Ricordi quando Moriarty ha colpito simultaneamente la Banca d’Inghilterra, la Torre di Londra e la prigione di Pentonville? Su quel tetto mi ha svelato che non c’era nessun codice, ma che aveva sempre qualcuno infiltrato in ogni luogo. Mentre progettava di distruggermi, Moriarty deve aver saputo di Sherrinford e, tramite il suo contatto nella prigione, si è presentato da lui come consulente criminale. Quale migliore occasione per il mio sadico fratello di complottare contro di me, avendo un alleato che mi odiava allo stesso modo? … Ha perciò assunto Moriarty per i suoi piani e, naturalmente, ha preso tra la sue fila anche il braccio destro di Jim: Sebastian Moran. Il piano prevedeva che, se io non mi fossi buttato da quel tetto, Moriarty sarebbe arrivato anche ad uccidersi pur di costringermi, pur di vedermi distrutto. La cosa che mi fa più rabbia, è che ho finto la mia morte ed ho passato due anni a smantellare la rete di Jim, quando invece sarebbe bastato concentrarmi sull’unica persona che stava manovrando tutto: Sherrinford. Successivamente, non avendo più Moriarty dalla sua parte, ha trovato un’altra persona abbastanza influente e intelligente da mandarmi contro: Magnussen. Non ho ancora scoperto come abbia fatto a scappare, ma sicuramente Moran e il contatto di Moriarty nella prigione hanno avuto la loro parte all’intero piano. E intanto che lui scappava indisturbato, Moran, per conto suo, metteva in atto quel gioco degli omicidi per distrarmi dal vero problema…” Sherlock fece quel discorso, parlando velocemente e riassumendo un’espressione decisamente irritata.
“Santo cielo…!” esclamò John senza riuscire a dire altro.
“Quindi usare il volto di Moriarty e lasciarti messaggi come avrebbe potuto fare lui era soltanto un gioco?” chiese Mary pensierosa.
“Ha visto l’effetto che Moriarty ha sempre avuto su di me e, usando lui, mi ha distratto dal vero colpevole… da se stesso” rispose amareggiato il detective. Era sempre stato difficile per lui ammettere di aver commesso un errore e l’idea di aver sbagliato quasi tutto negli ultimi anni lo faceva sentire deluso e infuriato come non mai.

Mycroft, a bordo della sua auto nera, arrivò davanti casa dei genitori. Nel tragitto aveva provato a mettersi in contatto con gli uomini che erano lì di guardia, ma non aveva ricevuto alcuna risposta. Appena scese dalla macchina capì subito il perché. Erano tutti morti, trucidati con numerosi colpi di arma da fuoco. Aveva davanti un vero massacro.
Entrò nell’abitazione con cautela e trovò Sherrinford seduto su una poltrona davanti al camino. Quella scena era così familiare, sembrava la stessa di tanti anni prima. Al suo fianco Moran puntava un fucile contro di lui.
Mycroft si avvicinò al fratello lentamente e senza dire una parola, aspettava che fosse lui a parlare.
“Fratellone, sono contento che tu ci abbia degnato della tua presenza. Però devo dirtelo, sono un po’ deluso. Pensavo che dopo Barbarossa avessi imparato e invece continui a fare promesse che non puoi mantenere” disse improvvisamente Sherrinford, iniziando a ridere.
Mycroft cercò di mantenere la calma, ma si accorse che le mani gli tremavano in modo incontrollabile “Dove sono?” domandò riferendosi ai genitori. Aveva davvero paura della risposta.
“In cucina!” rispose il secondogenito, continuando a ridere.
Il politico si diresse titubante nella stanza e ciò che vide lo lasciò senza fiato. I genitori erano a terra con la gola tagliata in un mare di sangue. Per un momento si sentì venir meno e dovette poggiarsi allo stipite della porta per non cadere a terra. Non poteva accadere di nuovo. Non poteva aver fallito una seconda volta. Sentì una rabbia improvvisa assalirlo fino all’anima, avrebbe voluto prenderlo e ucciderlo a suon di pugni come quel maledetto giorno, ma stavolta il pazzo aveva calcolato tutto: aveva chi gli guardava le spalle con un fucile pronto a sparare non appena avesse provato a sfiorarlo. Riuscì solo a guardarlo con tutto l’odio di cui era capace, non trovava le parole adatte ad esprimere tutto ciò che stava provando in quel momento.
“Beh, è meglio che vada” disse Sherrinford con naturalezza “…avrai parecchio da fare. Ti aspetta un bel discorso con il nostro caro fratellino. Credo che anche questa volta non la prenderà bene…” continuò con un falso tono dispiaciuto “…andiamo Sebastian!” concluse, rivolgendosi all’amico.
Mycroft si ritrovò da solo in quella casa. Crollò a terra in ginocchio disperato. Lui era sempre stato capace di non farsi sopraffare dalle emozioni, ma in quel momento la rabbia e il dolore erano così forti che persino lui, l’uomo di ghiaccio, si sentì cadere a pezzi.
Appena riuscì a ricomporsi, iniziò a pensare a come affrontare quella situazione. Gli serviva qualcuno di fidato e di abbastanza discreto da occuparsi dei corpi dei suoi genitori mentre lui andava a parlare con Sherlock. L’unica persona di cui poteva fidarsi in quel momento era l’ispettore: Gregory Lestrade. Lo pregò di raggiungerlo con degli uomini fidati e gli raccontò tutto ciò che era successo. Non dovevano trapelare notizie, almeno non fino a quando non avesse detto lui stesso tutto al fratello.

Sherlock era in cucina ad armeggiare con i suoi soliti esperimenti. Non aveva idea di quale potesse essere la prossima mossa di Sherrinford, ma era sicuro che gli avrebbe mandato presto un messaggio. Intanto cercava di tenersi occupato come meglio poteva. Era così teso che c’era solo una cosa che avrebbe potuto calmarlo, ma non poteva farlo davanti a John.
Il dottore, prevedendo le possibili reazioni dell’amico a tutto quello stress, si era momentaneamente trasferito con la moglie di nuovo a Baker Street. Anche Mary era d’accordo, lasciarlo da solo in quella situazione non avrebbe portato a niente di buono.
Improvvisamente Mycroft fece il suo ingresso nell’appartamento del detective. John notò che era molto pallido. Non ci voleva di certo il genio di Sherlock Holmes per capire che non portava affatto buone notizie.
“Sherlock…” disse il politico con voce tremante.
“Oh, perfetto! Ci mancavi solo tu a completare questa bellissima giornata!” esclamò tagliente il consulente investigativo, uscendo dalla cucina con una provetta ancora in mano.
Il fratello maggiore non disse niente. Si mise a guardare l’altro dritto negli occhi senza riuscire a formulare nessuna frase. Aprì più volte la bocca per parlare, ma le parole non volevano saperne di uscire.
Sherlock, intanto, parve leggere tutto ciò che c’era da sapere sul volto del fratello. La provetta gli cadde dalle mani, frantumandosi a terra.
“No.. no… no… non puoi averlo fatto di nuovo” blaterò il detective, mettendosi le mani nei capelli con disperazione.
“Sherlock, ho fatto il possibile credimi, ma lui aveva già calcolato tutto… io…” cercò di spiegare Mycroft, ma venne brutalmente interrotto.
“Sono stato un idiota a pensare di potermi fidare di nuovo di te! In tutta la tua vita non sei mai riuscito a mantenere una promessa… una dannata promessa!” urlò il consulente investigativo furioso.
John era sconvolto da quella scena. Non aveva mai visto l’amico così arrabbiato in vita sua.
“Sherlock, per favore, siediti. Sei ancora convalescente e non dovresti agitarti così” disse il dottore con cautela.
“Vattene via da questa casa!” urlò il detective, così forte che dovette tenersi alla spalliera della poltrona di John a causa di un improvviso capogiro.
Il medico si alzò di scatto per sorreggere l’amico. Era sbiancato in modo preoccupante e ansimava pesantemente.
Ad un tratto, però, fu Mycroft ad urlare. Non poteva più trattenersi.
“Santo cielo, Sherlock! Non capisci cosa sta facendo Sherrinford? Sta cercando di metterci l’uno contro l’altro, perché sa che insieme saremmo forti abbastanza da batterlo. L’hai detto anche tu che su quel tetto aveva previsto che ti saresti suicidato, non avrebbe mai pensato che io e te ci alleassimo per escogitare un piano che andasse contro le sue previsioni. Per favore, devi ascoltarmi! Devi fidarti di me!” urlò con tutto il fiato che aveva in corpo.
“Fidarmi di te?” rispose Sherlock ridendo con sarcasmo “…ho smesso di farlo ormai! Non ho bisogno di te per batterlo, posso farlo benissimo da solo! E ora vai fuori di qui!” concluse, continuando ad ansimare.
“Sherlock…” provò di nuovo il fratello maggiore.
“Fuori!” urlò furioso il detective, poggiandosi sempre di più a John.
Il medico fece cenno al politico di andare. L’amico non era di certo nelle condizioni di continuare quella discussione. Circondò la vita di Sherlock con un braccio e lo accompagnò sul divano facendolo sedere prima che crollasse a terra svenuto.
Mycroft, capendo che non avrebbe potuto dire nient’altro per convincere il fratello, se ne andò dall’appartamento sbattendo la porta. Non voleva che le cose andassero così. Lui voleva soltanto proteggerlo e invece non aveva ottenuto altro che perderlo per sempre.

Sherrinford intanto, con il suo fedele compagno, era sul tetto del palazzo di fronte e guardava compiaciuto il fratello maggiore andare via distrutto a bordo della sua auto nera.
“Bene, Sebastian. La prima parte del piano è riuscita alla perfezione. Ora che abbiamo allontanato Mycroft, resta solo una persona da colpire per far sì che il mio caro fratellino si ritrovi tutto solo e indifeso: John Watson” disse, ridendo di gusto.










Angolo dell'autrice:
Salve! Ecco il nono capitolo. Avrei voluto pubblicarlo ieri sera, ma non ho avuto tempo! Ecco un pò chiarita dal nostro Sherlock la mia teoria Moriarty/Sherrinford/Moran. Spero che ora sia un pò più chiara rispetto ai capitoli precedenti. Beh, che dire! Il nostro povero Sherlock sta lentamente cadendo a pezzi: riuscirà a resistere a tutte queste pressioni? Inoltre qui abbiamo un vero e proprio scontro tra fratelli (povero Mycroft!)... e purtroppo il mirino si è sposato sulla persona che il nostro consulente ama di più. Cosa prevede la seconda parte del piano di Sherrinford? Questo lo scoprirete nei prossimi capitoli...
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e, come sempre, accetto volentieri commenti e pensieri a riguardo. Grazie a tutti quelli che stanno seguendo la mia storia. Alla prossima ;)

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Capitolo 10
*** La trappola ***


               Ti brucerò il cuore




                                                  La trappola





… Intanto Sherrinford, con il suo fedele compagno, era sul tetto del palazzo di fronte e guardava compiaciuto il fratello maggiore andare via distrutto a bordo della sua auto nera.
“Bene, Sebastian. La prima parte del piano è riuscita alla perfezione. Ora che abbiamo allontanato Mycroft, resta solo una persona da colpire per far sì che il mio caro fratellino si ritrovi tutto solo e indifeso: John Watson” disse, ridendo di gusto.




Era il giorno del funerale dei suoi genitori e Sherlock stava finendo di prepararsi nella sua stanza. Erano passati due giorni dal litigio con suo fratello e non lo aveva più sentito da allora. L’unico contatto che avevano indirettamente avuto, era stato il giorno prima quando Mycroft gli aveva fatto sapere, tramite Molly, che se voleva poteva andare in obitorio a fare visita a sua madre e a suo padre. Sherlock declinò l’invito; non era dell’umore adatto per affrontare il fratello maggiore e soprattutto non se la sentiva di vedere da vicino gli orrori di cui era capace Sherrinford. Appena finito di vestirsi, andò in soggiorno dove lo attendevano John, Mary e un’addolorata signora Hudson. Erano stati davvero molto apprensivi con lui in quei giorni e il detective si sentiva decisamente asfissiato da tutte quelle attenzioni e premure. Desiderava soltanto di essere lasciato un po’ in pace. Non si era mai sentito così debole e abbattuto in vita sua e questo suo essere così vulnerabile lo spaventava. Per fortuna almeno la ferita alla testa era guarita quasi completamente: John aveva tolto, quella mattina, tutti i punti con successo e il mal di testa era decisamente migliorato. Quello che provava in quel momento, però, non era un male fisico, ma era un dolore che proveniva dal profondo della sua anima.
“Sei pronto?” chiese John all’amico prima di uscire di casa.
“Si…” rispose semplicemente il detective. Pensò comunque che nessuno potesse essere davvero pronto a seppellire i propri genitori, neanche il grande Sherlock Holmes.

Arrivati al cimitero, il consulente investigativo vide che c’erano proprio tutti, pronti a partecipare a quel triste momento: Molly, Lestrade, Billy e persino Anderson e Donovan. C’era anche un’auto nera parcheggiata a bordo strada da cui scese ben presto un serissimo Mycroft.
I due fratelli incrociarono i loro profondi sguardi, ma non dissero niente. Rimasero in silenzio durante tutta la funzione: nessuna lacrima, solo due maschere di finta indifferenza. Entrambi cercarono di apparire forti e distaccati come solo degli Holmes saprebbero fare, ma i loro occhi, nonostante tutto, lasciavano trasparire una profonda sofferenza, condita con un velo di pura rabbia.
Quando tutto finì, Mycroft cercò di avvicinarsi a Sherlock per parlargli, ma quest’ultimo gli diede improvvisamente le spalle, incamminandosi verso casa senza dargliene l’occasione. John provò a fermarlo.
“Non ti sembra di essere troppo duro con lui?” disse sottovoce all’amico mentre camminavano.
“John…” riuscì a rispondere soltanto il detective. Solo il suo nome, pronunciato come una supplica, che racchiudeva una marea di significati ed emozioni. Non aveva chiaramente la voglia e l’umore di parlarne e il medico non poté fare altro che accettare la sua scelta.
Mycroft, intanto, rimase immobile a guardare il fratello scomparire dentro ad un taxi. Fu in quel momento che promise a se stesso che, nonostante tutto, avrebbe continuato a proteggerlo che lui avesse voluto o no. Fece un profondo sospiro e si diresse silenzioso verso la sua auto.

Arrivati a Baker Street, Sherlock era decisamente irrequieto. Andava avanti e indietro nel soggiorno, mettendosi le mani nei capelli e passandole nervosamente sul viso sotto gli occhi confusi di John e Mary. Si rese conto, in quel momento, che tutto quello che era successo era troppo anche per lui: Barbarossa, il funerale, Sherrinford, Mycroft, gli incubi notturni e la crisi di astinenza che iniziava a farsi pesante. Le parole del fratello maggiore, che aveva pronunciato qualche giorno prima, aleggiavano prepotentemente nella sua testa: “Non capisci cosa sta facendo Sherrinford? Sta cercando di metterci l’uno contro l’altro, perché sa, che insieme, saremmo forti abbastanza da batterlo… Per favore, devi ascoltarmi… devi fidarti di me!” Quelle parole facevano male e, al tempo stesso, sembravano avere un senso. “E se Mycroft avesse ragione?” si chiedeva tra sé e sé. Ma la sua mente, in quel momento, era così piena e confusa che non riusciva a ragionare lucidamente e questo non faceva altro che irritarlo. Sherrinford era riuscito ad attaccare l’unica cosa che lo rendeva forte e sicuro: la ragione.
“Basta…basta!” urlò improvvisamente il detective, mettendosi le dita sulle tempie e facendo sbiancare le nocche. Prese ad ansimare, si sentiva soffocare assalito da tutti quei pensieri.
Mary e John si lanciarono degli sguardi preoccupati, non sapevano davvero come comportarsi per non peggiorare la situazione. Non dovettero pensarci molto, poiché Sherlock tutto d’un tratto si voltò e si chiuse in camera sua, sbattendo la porta.
Il consulente investigativo si buttò esausto sul letto. Aveva bisogno di rimanere solo e di fare ordine in quel caos che aveva nella testa. C’era una cosa che poteva aiutarlo: la sua soluzione al 7%. Peccato che la scatolina fosse rimasta in un cassetto della scrivania in soggiorno. Dopo questa ennesima sconfitta, si avvolse tra le coperte e si lasciò andare in un sonno profondo.

Dopo qualche minuto il cellulare di Mary squillò. Erano alcune sue amiche che la invitavano a passare qualche ora al centro commerciale a fare shopping.
“Se vuoi che rimanga qui con te, posso non andare” chiese premurosa, rivolgendosi al marito.
“No, vai tranquilla. Visto com’era ridotto, di certo non uscirà di lì prima di qualche ora” rispose John, guardando con tristezza verso la porta della camera del detective.
“Perché non vieni anche tu? Ti farebbe bene prendere un po’ d’aria” chiese dolcemente Mary.
“No, preferisco rimanere qui nel caso avesse bisogno di me…” disse il medico, dando un bacio alla moglie e invitandola ad andare.

John passò le ore successive seduto sulla sua poltrona a fissare il vuoto. Pensava a tutto quello che era successo e si sentiva inutile. Sherrinford non solo stava distruggendo Sherlock, ma stava portando il caos nella vita di tutti quelli che gli stavano intorno. Avrebbe voluto fare qualcosa per aiutare il suo migliore amico, ma non aveva la più pallida idea di cosa potesse fare. I suoi profondi pensieri vennero interrotti dal suono del suo cellulare. Era un messaggio. Il telefono era nella tasca della giacca e per un momento fu tentato di ignorare chiunque lo cercasse. Poi, pensando che potesse trattarsi di Mary, si alzò stancamente dalla poltrona e andò a leggerlo: Hai una moglie davvero graziosa. Se vuoi che non le accada niente, vieni al 121 di George Street. Se tenti di avvisare qualcuno, soprattutto Sherlock, lei morirà.
Il mittente era sconosciuto, ma il dottore capì subito chi era ad averlo mandato. Lo invitava nello stesso luogo dove aveva attirato Sherlock per il suo sadico gioco. Era decisamente una trappola, lo sapeva, ma se Mary era in pericolo, doveva andare. Andò a controllare Sherlock e vide che dormiva profondamente. La fortuna era dalla sua parte, almeno in quello. Prese la giacca e la pistola e lasciò un biglietto al suo amico per giustificare la sua assenza nell’eventualità che si fosse svegliato: Sono con Mary a fare compere. Torneremo presto. John.
Il dottore arrivò in taxi nel posto dell’appuntamento. La porta dell’appartamento era socchiusa. Prese un profondo respiro, afferrò saldamente la pistola nella mano destra ed entrò. All’intero era tutto buio. Improvvisamente sentì dei passi alle sue spalle, ma non fece in tempo a voltarsi che venne colpito alla testa e cadde a terra privo di sensi.

Sherlock si svegliò confuso nel suo letto. Guardò dalla finestra e si accorse che era il tramonto. Aveva dormito troppo e questo era controproducente per la sua mente ancora troppo attiva. Si trascinò stancamente in soggiorno e, con enorme sollievo, vide di essere da solo. Quel desiderio era diventato sempre più forte e, nonostante sapeva che avrebbe deluso di nuovo il suo migliore amico, non aveva la forza di opporsi. Aprì velocemente il cassetto della scrivania, afferrò la scatolina e si andò a sedere sulla sua poltrona. Era una sequenza fin troppo familiare: prese la siringa, la riempì della soluzione già preparata, si alzò la manica della camicia, legò il laccio emostatico al braccio, cercò con cura la vena, inserì l’ago e premette lo stantuffo senza pensarci. Per un momento si sentì in colpa per la sua debolezza, ma appena la soluzione iniziò a fluirgli nelle vene, chiuse gli occhi e si lasciò andare finalmente a quella pace che tanto aveva desiderato.
Mentre era ancora immerso in quello stato di beatitudine, qualcuno entrò nell’appartamento.
“Morfina o cocaina?” chiese una voce delusa.
Sherlock aprì gli occhi e mise a fuoco la figura che aveva di fronte. Pensava fosse John, invece era qualcuno che non si aspettava.
“Cosa vuoi Mycroft?” sputò con acidità.
“Morfina o cocaina?” domandò di nuovo il fratello.
“Cocaina” rispose rassegnato il detective.
“Su quell’aereo ti avevo chiesto di farmi una promessa, Sherlock” disse Mycroft con rimprovero.
“Beh, come vedi non l’ho mantenuta. Deve essere un vizio di famiglia…” esclamò tagliente il consulente investigativo.
Il politico cercò di non rispondere a quella provocazione, usando tutto il suo autocontrollo; sapeva che buona parte di quell’acidità era data anche dalla droga che aveva in circolo. Si guardò intorno e gli sembrò decisamente strano il fatto che né John e né Mary fossero in casa. Si erano momentaneamente trasferiti a Baker Street per tenere Sherlock sotto controllo e non aveva senso il fatto che l’avessero lasciato solo proprio il giorno del funerale dei genitori quando ne aveva più bisogno. Doveva essere successo qualcosa.
“Dove sono il dottor Watson e la sua signora?” chiese Mycroft, usando il tono di chi vuole suggerire qualcosa.
Nonostante la droga, al detective non sfuggì quell’insinuazione. Si alzò di scatto dalla poltrona preso improvvisamente da un tremendo dubbio. Vide solo in quel momento il biglietto sul tavolo e capì subito che qualcosa non quadrava.
“Dannazione deve essere successo qualcosa” esclamò agitato Sherlock, fissando attentamente il pezzo di carta “…conosco perfettamente la grafia di John e posso affermare con certezza che, quando ha scritto questo biglietto, le mani gli tremavano…” continuò preoccupato, ma compiaciuto di essere riuscito a dedurre con più lucidità “…dobbiamo trovarli!” concluse infine, rivolgendosi al fratello.
“Aspetta, faccio qualche telefonata. Tramite i video di sorveglianza della città potremmo sapere dove sono andati” rispose serio Mycroft.
Dopo alcuni minuti il politico aveva il quadro completo della situazione.
“Allora, Mary è uscita di qui verso mezzogiorno ed è stata prelevata di forza da un auto nera di cui si sono perse le tracce. John è uscito da qui ore dopo e sappiamo dove si è diretto…” spiegò il fratello maggiore, lasciando la frase in sospeso.
“Beh? Dov’è andato?” chiese il detective impaziente.
“Al 121 di George Street…” rispose cautamente il politico.
Sul volto del consulente investigativo apparve un’espressione di terrore.
“No…no…no… John…” blaterò in preda al panico, afferrando di scatto il cappotto.
Mycroft si parò davanti al fratello, afferrandolo per le spalle a guardandolo dritto negli occhi.
“Sherlock, lo so che è difficile, ma devi mantenere la calma. Devi restare lucido…” disse affettuosamente “…guardami!” ordinò, vedendo che il fratello aveva abbassato lo sguardo.
Il detective alzò gli occhi e incrociò quelli del politico.
“Te l’ho detto anche su quell’aereo…” continuò Mycroft “…nonostante tutto, io sono qui per te, sarò sempre qui per te e insieme lo salveremo, te lo prometto!” concluse con voce tremante.
Sherlock non riuscì a dire niente. Annuì semplicemente ed uscirono di corsa diretti a George Street.
Durante il tragitto avvisarono Lestrade che si mise subito in moto con altre due pattuglie.

Arrivarono tutti sul posto quasi contemporaneamente. Entrarono nell’appartamento: i due fratelli avanti e Greg, con i suoi uomini al seguito. L’abitazione sembrava deserta. Si diressero verso il seminterrato, dove giorni prima avevano trovato Sherlock, buttarono giù la porta e li trovarono. Erano al centro della stanza, legati e imbavagliati l’uno all’altra. Il detective ebbe una brutta sensazione nel ritrovarsi li nonostante l’ambiente fosse stato completamente ripulito. Ma ignorando il suo stato d'animo, si precipitò verso i due amici e li liberò velocemente.
“State bene?” chiese preoccupato, tastandoli per capire se avessero qualche ferita.
“Sherlock, calmati… stiamo bene!” rispose John, sorridendo con affetto.
“Stai sanguinando…” constatò il consulente investigativo, vedendo un taglio vicino alla tempia dell’amico.
“Non è niente. Mi hanno solo colpito in testa con qualcosa. Al massimo mi nascerà un bel bernoccolo!” sdrammatizzò il dottore, vedendo le mani tremanti dell’amico.
Appena i due coniugi furono completamente liberati, si avviarono tutti verso l’uscita dell’appartamento. Non c’era traccia né di Sherrinford e né di Moran. Sherlock era confuso e pensieroso.
“Cosa c’è?” chiese Greg, avvicinandosi a lui.
“C’è qualcosa di strano. Perché Sherrinford li ha lasciati qui?” chiese il detective, più a se stesso che all’ispettore.
“Può essere che lo abbiamo anticipato. Magari non pensava che li avremmo trovati così presto” cercò di spiegare Lestrade.
“No, è tutto troppo semplice…” esclamò preoccupato Sherlock, guardandosi intorno.
Fu allora che il consulente investigativo lo vide. Il puntino rosso di un mirino di precisione sulla testa di John. E in quel momento capì che lo scopo non era semplicemente quello di fare del male al suo amico, ma era quello di ucciderlo davanti ai suoi occhi. Si rese conto, però, di essere troppo lontano da lui per evitare che venisse colpito.
“Joooohn…” gridò il detective con tutto il fiato che aveva.
Purtroppo il dottore non fece in tempo a capire cosa stesse succedendo, che il colpo partì diretto verso il suo bersaglio.







Angolo dell'autrice:

Salve! Eccomi qua con il decimo capitolo. Sono decisamente in anticipo, lo so, ma questa volta avevo le idee così chiare su cosa dovesse succedere che sono riuscita a scriverlo quasi di getto. Mi sono meravigliata di me stessa per la velocità. Comunque povero John... riuscirà a schivare il proiettile? Mah... sicuramente è Moran che impugna l'arma e per quello che si sa non sbaglia facilmente.
Qui il nostro caro Mycroft ha dato prova di tutto il suo affetto e, devo dirlo, mentre scrivevo la parte in cui ha parlato con Sherlock, mi sono commossa di tanta dolcezza! (sono un caso disperato..lo so!)
Il nostro Sherlock poverino è distrutto e ci sta che si sia lasciato tentare... in fondo il suo conduttore di luce non c'era... ma comunque a volte sembra ritornare un pò in sè! Meno male che ha un fratello fantastico come Mycroft ad aiutarlo...! Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto. Grazie sempre a chi vuole lasciare un commento e a chi l'ha già fatto e soprattutto grazie sempre a tutti quelli che seguono la mia storia.
Alla prossima ;)

 

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Capitolo 11
*** Amore fraterno ***


                 Ti brucerò il cuore




                                                Amore fraterno





… Fu allora che il consulente investigativo lo vide. Il puntino rosso di un mirino di precisione sulla testa di John. E in quel momento capì che lo scopo non era semplicemente quello di fare del male al suo amico, ma era quello di ucciderlo davanti ai suoi occhi. Si rese conto, però, di essere troppo lontano da lui per evitare che venisse colpito.
“Joooohn…” gridò il detective con tutto il fiato che aveva.
Purtroppo il dottore non fece in tempo a capire cosa stesse succedendo, che il colpo partì diretto verso il suo bersaglio.





John si ritrovò a terra. Non era morto, ne era sicuro. Eppure il proiettile doveva averlo colpito da qualche parte, ma non sentiva niente. Solo poco dopo si rese conto di avere qualcuno addosso e capì subito che quel qualcuno doveva avergli fatto da scudo. Tra tutte le persone che avrebbero potuto salvargli la vita, lui era l’ultimo che si sarebbe mai aspettato.
“Mycroft!?” esclamò incredulo.
Il politico sembrava non reagire agli stimoli. Sherlock, intanto, era accorso verso di loro terrorizzato. Appena si rese conto di quello che era successo, aiutò John ad adagiare il fratello sull’asfalto, cercando di non danneggiare ulteriormente la ferita che aveva all’altezza del petto. Era avvenuto tutto così in fretta da non riuscire a metabolizzare ciò che aveva davanti agli occhi.
Il dottore, con fare professionale, si mise subito a valutare i danni, cercando di fermare l’emorragia premendo sulla ferita e chiamandolo per farlo rimanere cosciente.
“Greg, chiama subito un ambulanza!” urlò il medico con urgenza.
Sherlock intanto era in ginocchio vicino al fratello, dall’altro lato rispetto al medico. Era immobile, pietrificato sul posto con lo sguardo perso. Era decisamente sotto shock.
All'improvviso Mycroft aprì gli occhi, incontrando quelli azzurri del detective e sorrise, trattenendo una smorfia di dolore.
“Sherlock…” disse con fatica, porgendo la mano al fratello.
Il consulente investigativo sembrò ridestarsi da quello stato di trans e prese subito la sua mano, stringendola tra le sue. Si accorse che stava tremando in modo incontrollabile mentre cercava di reprimere alcune lacrime che gli inumidivano gli occhi.
“Sono qui…” rispose il detective, accentuando la stretta.
“Hai visto? Ci sono riuscito finalmente… ho mantenuto la promessa… John è salvo!” esclamò Mycroft, ansimando e iniziando a contorcersi dal dolore.
“Si, l’hai mantenuta…” rispose Sherlock sorridendo, mentre una lacrima gli rigava il volto.
“Io volevo…” il politico cercò di parlare, ma venne interrotto dal detective.
“Shh… Non parlare, non devi sforzarti” gli disse dolcemente.
“Ti prego, lasciami parlare…” esclamò Mycroft, cercando di regolarizzare il proprio respiro “…volevo chiederti scusa... per Barbarossa, per i nostri genitori. Io ho sempre voluto proteggerti e invece sono riuscito solo a farti del male!” continuò con gli occhi lucidi.
Sherlock non aveva mai visto il fratello aprirsi così nei suoi confronti. Sentire quelle parole e vedere nel suo sguardo tutto il dolore e il rimpianto che provava in quel momento, fu come una coltellata dritta nel cuore. Tutte le lacrime che fino ad allora aveva cercato di trattenere, uscirono prepotentemente, bagnandogli completamente il volto.
“Non devi scusarti di niente! Sono io che devo scusarmi per come ti ho trattato. Non avevo capito niente, sono stato uno stupido…” rispose Sherlock tra le lacrime, reprimendo un singhiozzo.
John, intanto, continuava a mantenere le mani salde sulla ferita. Era rimasto senza parole. Da quando conosceva i due fratelli, non avrebbe mai pensato di poter assistere ad una scena del genere.
“Oh, Sherlock, non piangere!” esclamò Mycroft con tristezza “…c’è un’altra cosa che ho sempre voluto dirti, ma non ne sono mai stato capace…ho provato a dimostrartelo, ma non sono riuscito neanche in quello…” continuò con la voce tremante “…ti voglio bene, fratellino. Tu non immagini quanto! Ti ho sempre detto che i sentimenti non sono un vantaggio, ma mi sbagliavo. Sono così orgoglioso di te! Al contrario mio, tu hai trovato degli amici che farebbero di tutto per te e posso andarmene sapendo che sei in buone mani” concluse, lanciando un breve sguardo a John e ritornando poi sul fratello. Una fitta improvvisa lo travolse e iniziò a tossire, cercando di resistere a tutto quel dolore. Si sentiva debole e tenere gli occhi aperti era diventato uno sforzo sovraumano.
Sherlock assisteva a quella sofferenza sentendosi impotente. Sperava solo che i soccorsi arrivassero in tempo. “Perché ci mettono tanto?” pensò disperato tra sé e sé. Vedendo che il fratello stava chiudendo gli occhi, lo scosse leggermente.
“Mycroft! Mi senti? Ti prego, rimani sveglio. Resta con me, per favore! Non puoi lasciarmi! E’ vero, ho degli amici che farebbero di tutto per me, ma tu sei mio fratello! Sei la mia famiglia, sei tutto ciò che mi è rimasto! Ho sempre avuto bisogno di te e avrò sempre bisogno di te!” esclamò disperato il detective. Non era mai riuscito a dirgli quelle cose, ma le pensava davvero, le aveva sempre pensate nel profondo del suo cuore.
Mycroft sorrise dolcemente al fratello e, per la prima volta, una lacrima rigò anche il suo viso. Poi chiuse gli occhi e non li riaprì più.
In quel momento l’ambulanza arrivò. Caricarono a bordo il politico, sfrecciando verso l’ospedale. Sherlock rimase in ginocchio sull’asfalto, piangendo e singhiozzando come non avrebbe mai immaginato. Improvvisamente si sentì di nuovo quel bambino indifeso che tutti i giorni tornava a casa in lacrime e, proprio come allora, sentiva un disperato bisogno del suo fratello maggiore: del suo conforto, del suo affetto e della forza che solo lui riusciva a dargli per rimettersi in piedi ed affrontare il mondo.
John, vedendo il dolore dell’amico, si avvicinò a lui e lo abbracciò con tutta la forza di cui era capace.
“Andrà tutto bene. Ce la farà, vedrai” gli disse, cercando di consolarlo. Sperava davvero che le cose andassero bene, ma era un medico e sapeva che le probabilità non erano di certo dalla sua parte “…vieni! Greg ci porterà in ospedale da lui” continuò, facendolo alzare e accompagnandolo verso l’auto dell’ispettore.

Arrivati in ospedale chiesero subito informazioni. Vennero a sapere che Mycroft era stato portato d’urgenza in sala operatoria. I medici non si pronunciarono molto a riguardo, ma il detective poté leggere dai loro volti quanto fosse grave la situazione. Bisognava solo aspettare.
Sherlock, sopraffatto da tutto quello che era successo, si poggiò con la schiena alla parete della sala d’aspetto e si lasciò scivolare a terra, piegando le ginocchia al petto e prendendosi il volto tra le mani. Non ce la faceva più a sopportare tutto quel dolore. Non aveva mai creduto in Dio, ma in quel momento si mise a pregare verso una qualsiasi entità esistente pur di riavere suo fratello sano e salvo.

Mary e Greg si erano abbandonati, sfiniti anche loro, sulle scomode sedute della sala d’aspetto. John, invece, si avvicinò al suo amico e si inginocchiò accanto a lui.
“Sherlock…” cercò di chiamarlo dolcemente “…hai bisogno di qualcosa? Vuoi andare fuori a prendere un po’ d’aria?” continuò premuroso.
Il detective, rimanendo nella stessa posizione, negò con il capo. Il medico, allora, si sedette a terra accanto a lui, cercando di fargli sentire tutta la sua vicinanza.

Dopo molte ore di attesa, finalmente, un chirurgo arrivò con delle notizie. Il consulente investigativo prese le ultime forze che aveva e si alzò, andandogli incontro.
“Signor Holmes, l’intervento è andato benissimo. Suo fratello ce l’ha fatta. Con il tempo necessario si riprenderà del tutto. Se vuole può vederlo. E’ sveglio, ma è ancora sotto l’effetto della morfina, quindi non lo faccia sforzare molto” disse il chirurgo, sorridendo.
Sherlock ringraziò e corse nella stanza del fratello. Entrò velocemente e lo vide. Era sveglio e stava bene. I loro sguardi si incontrarono con un’intensità e un affetto che non avevano mai pensato di provare nuovamente. Sembravano ritornati alla loro infanzia, quando il loro rapporto era unico e speciale. In un attimo erano spariti tutti i rancori, i rimpianti e il dolore degli anni trascorsi.
Il detective si avvicinò al letto del fratello con cautela. Appena fu abbastanza vicino gli sorrise e lo abbracciò con forza.
Il fratello maggiore ricambiò semplicemente la stretta. Finalmente negli occhi di Sherlock riusciva a vedere di nuovo il suo dolce fratellino, quello che era scomparso molti anni prima e che credeva di non poter più rivedere.
“Mi sei mancato…” disse Mycroft, sorridendo.
“Anche tu…” rispose Sherlock.

Intanto Sherrinford nel suo quartier generale urlava e imprecava contro i fratelli. Era furioso.
“Dannazione! Perché quell’idiota di Mycroft era lì?! Stava andando tutto alla perfezione e invece di riuscire a separarli, ho permesso che si riavvicinassero!” urlò verso Moran con tutta la rabbia che provava in quel momento. Prese un bicchiere che si trovava sul tavolo vicino e lo scaraventò con forza contro il muro.
“Sherrinford, metteremo in atto un altro piano. Quei due saranno anche insieme adesso, ma noi siamo più forti! Li distruggeremo!” rispose Moran con convinzione.
“Hai ragione. Questa volta, però, il piano deve essere perfetto ed elaborato in tutti i suoi dettagli. Daremo loro un po’ di pace e quando colpiremo non saranno ammessi errori!” esclamò l’altro, riprendendo il controllo e sorridendo in modo malvagio.

Mycroft venne dimesso dopo quasi un mese. Sherlock aveva trascorso gran parte delle sue giornate a fargli visita, intrattenendolo spesso con qualche suonata di violino.
John era davvero felice nel vedere i due fratelli così affiatati. Era la prima volta da quando li conosceva. Tra i due, quello che ne aveva tratto più benefici era Sherlock. Sembrava ritornato se stesso: era più calmo, più lucido e sembrava aver ripreso il controllo sulla sua mente geniale. Aveva anche accantonato il desiderio di drogarsi.
Naturalmente John venne a sapere che, il giorno in cui venne salvato, il detective aveva ceduto a quella dannata tentazione. Lo scoprì quando tornarono a casa dopo aver saputo che il politico era fuori pericolo, perché vide tutti “gli attrezzi” che l’amico aveva lasciato sul tavolino in soggiorno. Quel giorno, infatti, Sherlock era uscito così di fretta per salvare il dottore, da dimenticarsi di occultare le prove della sua debolezza. Si può benissimo immaginare la gigantesca sfuriata di John nel vedere quella roba in bella vista. Dopo molte urla e una violenta scazzottata tra i due, però, la pace era ritornata anche a Baker Street.

Mary, intanto, il giorno delle dimissioni di Mycroft, andò in ospedale per l’ultima visita prima della scadenza del termine. Il ginecologo informò i coniugi che la bambina stava bene, ma che bisognava intervenire tramite parto cesareo. Venne programmato per il 27 di quel mese: esattamente una settimana dopo. L’euforia di John e Mary portò quel tocco di allegria di cui tutti, chi più e chi meno, avevano bisogno. L’idea di una nuova vita che stava per nascere era un pensiero capace di rallegrare i cuori.
Naturalmente, in cuor loro, tutti sapevano che si trattava di una tregua momentanea e che presto Sherrinford avrebbe fatto la sua mossa, ma intanto erano decisi a godersi, almeno per il momento, quel periodo di pace.










Angolo dell'autrice:
Salve! Eccoci con l'undicesimo capitolo! In questi tre giorni mi sono accorta di aver pubblicato un capitolo al giorno...wow! Ho cercato di scrivere questo capitolo il prima possibile, anche per farmi perdonare di aver creato un'ondata di panico per il futuro di John! Ho capito che non sono la sola che ci tiene a non farlo morire (anche se credo che Sherrinford ci riproverà! Mah!).
Questo capitolo è quasi interamente dedicato ai due fratelli Holmes. Questo tipo di riavvicinamento è proprio il "sogno" che ho per quarta stagione. Forse un pò troppo sentimentale, ma mi piacerebbe vederli finalmente complici e amorevoli l'un l'altro. Mi piace pensare che prima che si allontanassero, il loro rapporto fosse speciale (così come ho descritto nel capitolo di Barbarossa) e mi piacerebbe che si ritrovassero a vivere di nuovo la complicità di una volta senza rancori e rimpianti.
Devo dirlo... inizialmente l'idea prevedeva la morte di Mycroft. Nello speciale la frase di raccomandazione che fa a John con gli occhi lucidi, mi ha messo un pallino in testa. Aleggia nella mia mente una brutta sensazione che nella quarta stagione possa morire, perchè quel "please" sembra detto come se sapesse che lui non potrà più badare al fratello. Io mi auguro che il presentimento sia sbagliato... in ogni caso questa volta sono andata contro le mie teorie, perchè sinceramente non ce l'ho fatta proprio ad ucciderlo... mi piace troppo come personaggio!
Questa volta il finale ve l'ho lasciato più sereno... spero vi sia paciuto! Grazie sempre a chi vuole commentare e grazie di seguire la storia! Al prossimo capitolo! ;)

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Capitolo 12
*** Sentimenti ***


                 Ti brucerò il cuore

 


                                                       Sentimenti





… Naturalmente, in cuor loro, tutti sapevano che si trattava di una tregua momentanea e che presto Sherrinford avrebbe fatto la sua mossa, ma intanto erano decisi a godersi, almeno per il momento, quel periodo di pace.






Quella settimana di fremente attesa passò velocemente. Era il giorno prima del cesareo e Mary e John erano in preda al panico nell'impresa di comprare tutto ciò che fosse necessario per la loro bambina in arrivo. Quella mattina Sherlock invitò i due coniugi a tornare nel loro appartamento: era contentissimo di averli a Baker Street, ma sapeva che, con la nascita della bambina, la famiglia Watson aveva bisogno dell’intimità e del calore della loro casa. Inizialmente John era un po’ titubante a lasciarlo da solo in quell’appartamento, ma ora che il rapporto con Mycroft si era nuovamente consolidato, si convinse che, quando lui non poteva, ci sarebbe stato anche il fratello a tenerlo d’occhio.
“Sei sicuro che te la senti di rimanere solo? Ho notato che alcune notti gli incubi ti perseguitano ancora. Se vuoi che rimanga, basta che me tu lo dica…lo sai!” chiese John premuroso.
“Sono sicuro, non preoccuparti! Ora devi pensare a tua moglie e a tua figlia. Starò bene…” rispose il detective, accennando un sorriso.
Il dottore, allora, anche se non proprio convinto, continuò a raccogliere le ultime cose rimaste in giro.
Sherlock si rese conto che, guardare John mentre prendeva le sue cose per tornare a casa, era decisamente doloroso. Non pensava di starci così male, in fondo lo sapeva che si trattava di una situazione temporanea, sapeva che ormai l’amico aveva una casa tutta sua dove, prima o poi, avrebbe fatto ritorno.
Quando era ritornato, dopo la sua finta morte, John aveva già traslocato mesi prima e, nonostante facesse male vedere l’appartamento vuoto, si era almeno risparmiato la tortura di vederlo andare via. Questa volta, però, mentre se ne stava seduto sulla sua poltrona, era costretto ad assistere a quel triste momento. Era strano, ma più cose il dottore raccoglieva da quella casa e più lui si sentiva svuotato dentro. Nonostante questo asfissiante nodo in gola, decise che doveva sforzarsi di apparire tranquillo e rilassato. Sapeva bene che se John si fosse accorto del suo stato, non se ne sarebbe più andato e questo non era giusto né per lui, né per la sua famiglia. In fondo lui era Sherlock Holmes: aveva mentito così tanto nella sua vita, riuscendo a far credere a tutti di essere un sociopatico senza cuore, che non fu difficile, in quell’occasione, indossare una maschera di indifferenza e tranquillità. Sperava soltanto che l’amico non lo avrebbe guardato negli occhi, perché quella era l’unica parte di sé che ormai sembrava comunicare tutto ciò che aveva nel cuore senza che lui riuscisse ad evitarlo. Per sua fortuna il medico era così preso ed emozionato dalla svolta che avrebbe avuto la sua vita il giorno seguente, da non accorgersi di niente.
Lo scatto della valigia che si chiudeva, fece ridestare Sherlock dai suoi pensieri.
“Beh, allora vado…” disse John, leggermente titubante.
Mary aveva salutato il detective una ventina di minuti prima ed era già in macchina ad aspettare il marito.
Il consulente investigativo non riuscì a dire niente. Rimanendo seduto sulla sua poltrona, apparentemente rilassato, fece cenno di sì con il capo, sorridendo con finta convinzione.
“Ci vediamo domani mattina in ospedale… vieni anche tu vero?” aggiunse il medico, temporeggiando.
“Certo, ci vediamo lì…” rispose semplicemente Sherlock.
John, allora, sospirò pesantemente e si voltò diretto alla porta. Si rese conto che andarsene da quell’appartamento era doloroso quasi come lo era stato anni prima. Era felicissimo di essere sposato con una donna straordinaria come Mary, che amava pazzamente, era contento dell’imminente nascita di sua figlia, ma nello stesso tempo sapeva che quell’appartamento a Baker Street era il posto in cui, per la prima volta, si era sentito davvero a casa e lasciarlo nuovamente riaprì vecchie ferite che sembravano ormai rimarginate. Senza indugiare oltre, aprì la porta ed uscì; capì che doveva farlo subito, altrimenti la tentazione di restare avrebbe avuto la meglio.
Sherlock, intanto, non si era mosso da quella poltrona. Appena vide la porta chiudersi, si alzò e si diresse alla finestra. Con discrezione, cercando di non farsi vedere, scostò la tendina e guardò il suo amico andare via. Appena la macchina sparì dalla sua visuale, si voltò a guardare l’appartamento e si sentì più solo di come avrebbe mai potuto immaginare. Pensò di dedicarsi a qualche strano esperimento, ricordandosi di avere ancora delle dita mozzate in frigo con cui avrebbe potuto fare qualcosa, ma si rese conto di non averne alcuna voglia. Si sentì soffocare ed iniziò ad ansimare. Disse a sé stesso che non era proprio il momento di avere un attacco di panico, perciò afferrò sciarpa e cappotto e uscì di corsa da quel luogo asfissiante. C’era solo un posto dove poteva andare per calmarsi. Fermò un taxi e si diresse verso casa di Mycroft.


Appena arrivato davanti all’imponente villa del fratello, si diresse verso la porta e rimase immobile per qualche minuto  indeciso se bussare o andarsene. Optò per la prima e aspettò impaziente. Mycroft aprì la porta e, vedendo Sherlock sulla soglia, sul suo viso apparve un’espressione tra il felice e il sorpreso: nonostante avessero recuperato il loro rapporto, erano anni che il fratello minore non si recava lì a casa sua. Ricordava che averlo sempre trascinato con la forza o con qualche ricatto.
“Sherlock!” esclamò il politico “…vieni, entra…” continuò un po’ titubante.
Il detective accennò un sorriso ed entrò senza dire niente. In quel momento Mycroft si accorse dalla sua espressione che c’era qualcosa che non andava. Era un po’ più pallido del solito e sembrava avere il respiro corto, come se faticasse a prendere aria.
“Cos’è successo?” chiese preoccupato al fratello minore.
“Niente, ero passato per un saluto…” rispose il consulente investigativo, in modo non proprio convincente.
“Ti rendi almeno conto di non essere credibile, vero?” domandò Mycroft, sorridendo con tenerezza “…dimmi…” continuò serio.
“John…” disse tristemente Sherlock, abbassando lo sguardo. Non riuscì a dire altro, solo il suo nome.
“Oh, è domani... il gran giorno” esclamò il politico “...e deduco che, da bravo amico, tu lo abbia invitato a tornarsene a casa!” continuò con la sicurezza di chi ha già capito tutto.
Il detective non rispose. Fece solo un cenno di assenso con il capo, accompagnandolo da uno sforzato sorriso.
“Oh, Sherlock” disse Mycroft con dolcezza “...è inutile che ti dica che fatto la scelta giusta” concluse, cercando di consolarlo.
“Lo so...” rispose serio l'altro.
“Ho un'idea da proporti. Perché questa notte non la passi qui e domani andiamo insieme in ospedale?” domandò il politico.
Sherlock rimase sconvolto da quella proposta. Un pensiero come quello non era decisamente da lui.
“Cosa?!” esclamò sorpreso.
“Dannazione Sherlock, non farmelo ripetere! Hai capito benissimo!” rispose secco Mycroft.
“Quindi tu...vuoi che rimanga qui...e domani …verresti con me in ospedale...?” chiese lentamente il detective, cercando di afferrare il senso di quelle frasi.
“Si, mi sembra di aver detto proprio questo!” rispose con un velo di ironia il fratello maggiore.
“Ma tu odi queste cose! Le persone, la felicità, il mondo...” esclamò Sherlock con sarcasmo.
“E' vero! Ma lo farei per te...” rispose Mycroft, sorridendo.
Il consulente investigativo rimase colpito da quella frase. Non si era ancora abituato a queste manifestazioni d’affetto da parte del fratello.
“Sai, Mycroft, devo dirtelo: i sentimenti non ti si addicono!” esclamò Sherlock scherzosamente.
“Neanche a te, fratellino” rispose il politico a tono.
“Ho notato che hai il pantalone più nuovo rispetto alla giacca. Sei ingrassato di nuovo!” disse improvvisamente il detective con un finto tono tagliente.
“Non ci crederai, ma sono dimagrito!” esclamò Mycroft con lo stesso tono.
Restarono a fronteggiarsi l’uno di fronte a l’altro con un’espressione di sfida per alcuni secondi. Poi entrambi scoppiarono a ridere.
Fu in quel momento che Sherlock si accorse di sentirsi improvvisamente meglio. Dovette ammettere che il fratello aveva ragione: insieme erano forti abbastanza da affrontare tutto e tutti e questo pensiero gli diede una forza nuova.

Il giorno dopo entrambi i fratelli Holmes si recarono in ospedale. Trovarono lì già tutti: Molly, Greg, la signora Hudson e John. Quest’ultimo era decisamente irrequieto mentre camminava su e giù nella sala d’attesa. Mary era appena entrata in sala operatoria.
Appena il medico vide i due fratelli arrivare insieme, rimase sorpreso, ma al tempo stesso fu contento di vedere che Sherlock aveva qualcun altro a cui appoggiarsi, almeno quando lui non poteva stargli vicino.
Dopo qualche ora di fremente attesa, finalmente i medici comunicarono che la bambina era nata. Madre e figlia stavano benissimo e il padre fu il primo ad andare dentro per vederle entrambe. Successivamente anche gli altri andarono a dare il loro saluto. Appena Sherlock entrò nella stanza, rimase colpito dalla scena che aveva di fronte: vedere Mary con una bellissima bambina in braccio e di fianco un eccitato John che le guardava con adorazione fu una visione paradisiaca e, al tempo stesso, lo fece sentire nuovamente vuoto come la sera del matrimonio prima che se ne andasse a casa. Lì di fronte aveva la chiara dimostrazione che la frase pronunciata nel discorso da testimone era tra le più false che avesse mai detto: sono totalmente indifferente di fronte alla felicità. In quel momento, infatti, provava di tutto fuorché indifferenza.
I due coniugi fecero cenno a Sherlock di avvicinarsi.
“Congratulazioni!” disse il detective, dando un bacio a Mary e mettendo una mano sulla spalla di John.
“Volevamo che fossi il primo a sapere il nome della bambina” affermò la donna, sorridendo.
“Volevamo chiamarla come te, ma Sherlock non è chiaramente un nome femminile!” intervenne John scherzosamente, riferendosi alla loro conversazione davanti all’aereo “…perciò Mary ha cercato un nome che potesse comunque avvicinarsi al tuo” concluse, guardando la moglie.
“Sherlock, ti presentiamo Sherlyn Watson!” esclamò la donna con tenerezza.
Il detective era profondamente colpito da tutte quelle parole. L’idea che non solo avessero preso in considerazione di usare il suo nome per la loro figlia, ma che si fossero addirittura impegnati a trovarne uno che lo ricordava, gli sembrò un gesto bellissimo. Si sentì come il giorno in cui John gli chiese di fargli da testimone, in cui scoprì di essere considerato da qualcuno il suo migliore amico. Proprio come allora, era rimasto senza parole. Riuscì solo a guardare i tre e a sorridere come un idiota.
“Non so cosa dire…” riuscì a pronunciare poco dopo Sherlock.
“Beh, questo sì che è un evento raro!” scherzò John.
Tutti e tre si misero a ridere di gusto, presi da tutta quella varietà di emozioni che aleggiavano in quel momento tra loro.


Dopo qualche ora passata lì a festeggiare, tutti iniziarono ad andarsene a casa. Mary doveva riposare e John aveva giustamente bisogno di un po' di intimità con sua moglie e sua figlia. Sherlock chiese a Mycroft di accompagnarlo a Baker Street. Sentiva il bisogno di rimanere solo. Da quando era uscito da quella stanza, non faceva che pensare a quella conversazione immaginaria che aveva avuto con il suo Watson mentale mentre cercava di “risolvere” il caso di Emilia Ricoletti. Sapeva che in fondo quello con cui aveva parlato non era realmente John, ma era una voce nella sua coscienza.
“Perché avete bisogno di stare da solo?” aveva chiesto il suo Watson mentale.
“Se vi riferite ad un romantico intreccio, Waston, come credo voi stiate facendo, io vi ho spesso spiegato che sono disgustato da tutte le emozioni, sono come polvere su uno strumento delicato, un’incrinatura sulla lente…” aveva cercato di rispondere a quella domanda.
[…]
“…il cervello senza cuore, la macchina calcolatrice…i lettori se la bevono, ma io non ci credo! Voi siete un uomo che vive e respira, avete vissuto una vita, avete un passato… […]…dovete aver avuto esperienze. Dannazione Holmes, voi siete un uomo in carne ed ossa, avete dei sentimenti, dovreste avere degli impulsi…” aveva risposto a tono il suo Watson mentale.
Effettivamente quelle parole provenivano da una parte di sé stesso che per anni aveva cercato di tenere nascosta in un angolo del suo essere. Ma ora, dopo aver visto John felice con la sua famiglia, quella domanda aleggiava prepotentemente nella sua testa: perché avete bisogno di stare da solo? Nella sua mente, allora, aveva provato ad abbozzare una risposta, ma adesso non sapeva più cosa rispondere. Nel corso degli ultimi anni si era lasciato andare ad emozioni come l’affetto e l’amicizia. Perché si ostinava ancora a rifiutare l’idea dell’amore nel termine più romantico del termine? Fu allora che gli venne in mente lei: la donna, l’unica donna. Non sapeva definire con certezza se quello che aveva provato per lei fosse  stato effettivamente amore, ma analizzando i propri comportamenti, non trovava altra definizione: in fondo era l’unica donna che avesse mai trovato interessante e intelligente, era arrivato ad infiltrarsi in una cellula terroristica per salvarla ed era sempre stata nei suoi pensieri per tutti quegli anni. Si fece tutto quel discorso nella sua mente mentre tornava a casa. Appena arrivato davanti al 221B, salutò il fratello e si diresse di sopra ancora pensieroso. Nell’istante in cui aprì la porta si accorse di non essere solo: una figura familiare era in piedi nel suo soggiorno e lo guardava sorridendo.
“Signor Holmes…” disse la donna davanti a lui.
“Miss Adler…” rispose il detective sorpreso.
“...Ceniamo insieme?” domandò Irene con malizia.











Angolo dell'autrice:
Salve! Eccoci con il dodicesimo capitolo! Dovevo pubblicarlo ieri, lo so, ma ho avuto dei grossi problemi con il computer. In questa storia, come ho annunciato nelle note del primo capitolo, vediamo uno Sherlock più sentimentale. Beh, qui anche lui stesso comincia ad interrogarsi sul tema sentimenti e a valutare il pensiero che ormai facciano parte, in un modo o nell'altro, della sua vita. Sherrinford non è presente in questo capitolo, ovviamente sta architettando chissà quale piano malvagio...
Spero che vi sia piaciuto. Sono sempre ben accetti i commenti e grazie a chi sta continuando a seguire la storia. Alla prossima ;)

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Capitolo 13
*** Il vento dell'est ***


                Ti brucerò il cuore




                                              Il vento dell'est




… Nell’istante in cui aprì la porta, si accorse di non essere solo: una figura familiare era in piedi nel suo soggiorno e lo guardava sorridendo.
“Signor Holmes…” disse la donna davanti a lui.
“Miss Adler…” rispose il detective sorpreso.
“...Ceniamo insieme?” domandò Irene con malizia.






Sherlock rimase per qualche secondo immobile a guardare la donna che aveva di fronte.
“Perché?” rispose serio, mentre chiudeva la porta alle sue spalle e si avvicinava a lei.
“Perché avrà fame…” incalzò Irene.
“No!” esclamò il detective quasi in automatico. Nonostante fossero passati anni, ricordava bene i loro scambi di battute.
“Bene…” disse la donna, sorridendo.
“Perché dovrei voler cenare con lei, se io non ho fame?” chiese Sherlock, continuando a guardarla negli occhi.
“Oh, signor Holmes, l’ho pensata così tanto in tutto questo tempo…” esclamò Irene, avvicinandosi sempre di più al viso del detective.
Il consulente investigativo rimase immobile mentre lei annullava la distanza tra loro. Non riusciva a capire come potesse fargli quell’effetto.
La donna, vedendo che lui rimaneva fermo, ne approfittò per poggiare le labbra sulle sue. Il bacio che si scambiarono non fu molto profondo, ma fu sicuramente carico di intensità.
Il detective si sentì attraversare da una sensazione simile ad una scarica elettrica. “Dannazione Holmes, voi siete un uomo in carne ed ossa, dovreste avere degli impulsi” disse nuovamente il suo Watson mentale. Effettivamente, ora più che mai, riusciva a capire a quali impulsi si riferiva il dottore nella sua testa. Le loro labbra erano ancora unite quando qualcuno entrò nell’appartamento.
“Sherlock, sono venuto a vedere come stavi” disse John, fermandosi improvvisamente sulla soglia stupito da quella scena. I due si separarono e il detective si voltò verso di lui.
“John…” esclamò sorpreso il consulente investigativo.
“Dottor Watson…da quanto tempo!” incalzò la donna divertita.
“Io non…cioè voi…ma lei non era…?” cercò di dire il medico balbettando.
“John, per favore respira e cerca di formulare almeno una frase di senso compiuto!” disse il detective con sarcasmo “... come mai sei qui?” aggiunse curioso.
“Te l’ho detto! Ti ho visto strano in ospedale e volevo essere sicuro che stessi bene!” rispose ancora più confuso il medico, continuando a guardare Irene.
“Beh, signor Holmes, io tolgo il disturbo” disse improvvisamente la donna, riavvicinandosi al detective “…questo è il mio nuovo numero…” aggiunse, mettendogli un bigliettino nella tasca della giacca “…ho saputo chi si è messo contro di lei e ho delle informazioni che potrebbero esserle molto utili. Non appena vorrà parlarne, mi chiami…” concluse, dandogli un bacio sulla guancia e salutando il dottore con un cenno della mano. Poi uscì senza dire altro.
Sherlock e John rimasero a guardarsi per alcuni istanti. Poi fu il medico ad interrompere il silenzio.
“Sbaglio o hai parecchie cose da spiegarmi?” esclamò un po' nervoso.
Il consulente investigativo allora raccontò tutta la storia di molti anni prima. Di come aveva salvato Irene e di come si era assicurato che fosse al sicuro, dandole una nuova identità tramite alcune conoscenze fidate. Alla fine del racconto, sul viso di John c’era un’espressione ancora più irritata.
“Ti rendi conto di come sia stato difficile per me doverti mentire sulla sua morte per non farti soffrire!? Chissà quante altre cose mi hai tenuto nascoste per tutto questo tempo! Ne esce fuori sempre una!” urlò con rabbia.
“John…” rispose semplicemente Sherlock.
Il medico stava per ribattere, quando il telefono del detective si mise a squillare. Era l’ispettore.
“Dimmi Lestrade!” rispose seccato.
“Sherlock, devi venire subito qui a Scotland Yard. È appena arrivato un pacco con sopra il tuo nome. Intanto lo stiamo facendo controllare per assicurarci che non ci sia niente di esplosivo” disse serio Greg.
“Arrivo subito” esclamò il detective, riagganciando la telefonata.
“Cos’è successo?” chiese John curioso.
“È arrivato qualcosa per me a Scotland Yard. Tu vai da Mary, ti tengo aggiornato” rispose Sherlock, uscendo dall’appartamento di corsa.
“Oh, no! Io vengo con te!” esclamò il dottore in tono categorico, correndogli dietro.


Arrivati alla centrale di polizia, si diressero subito nell’ufficio di Greg. L’ispettore li aspettava impaziente con un pacchetto poggiato sulla sua scrivania. Era abbastanza piccolo ed era incartato con una delicata carta da regalo rosa ed un grande fiocco bianco in cima. Quel gioco di colori parve turbare il detective.
“Non lo abbiamo aperto, ci siamo solo assicurati che non contenesse niente di pericoloso” disse Greg serio.
“Non c’è il mittente, ma ovviamente so chi lo ha mandato. Sarà sicuramente un indizio sulla sua prossima mossa…” borbottò Sherlock tra sé e sé mentre scartava con cura il pacchetto.
Quello che vi trovò all’interno riuscì a mandare tutti e tre nel panico più assoluto: il pacco conteneva una tutina rosa da neonata completamente macchiata di sangue. In allegato vi era anche un biglietto: Ciao fratellino, il vento dell’est sta venendo a prendere te e a distruggere tutto ciò che ami. Porgi al tuo caro dottor Watson le mie congratulazioni per la sua graziosa bambina.
Sherlock, dopo aver letto quel messaggio, guardò subito John che intanto era sbiancato dal terrore.
“…Sherlyn…!” esclamò il detective, mentre correva fuori dall’ufficio diretto in ospedale. John e Greg lo seguirono, sperando solo di arrivare in tempo.


Arrivati in ospedale, i tre si diressero velocemente nella stanza di Mary, aspettandosi già il peggio. Quello che li sorprese, però, fu che la donna era tranquilla nel suo letto e teneva in braccio una serena Sherlyn addormentata.
“Mary stai bene? Sherlyn sta bene?” urlò John, entrando come un pazzo nella stanza seguito dagli altri due altrettanto agitati.
“Certo che stiamo bene, che diamine vi prende?” chiese la donna confusa.
“Oh, grazie al cielo!” esclamò Greg, sospirando.
Sherlock, intanto, si era poggiato con la schiena alla parete, cercando di prendere aria e di controllare il ritmo dei propri respiri. Sentiva ancora il corpo pervaso dai tremori della paura che lo aveva assalito, pensando che Sherrinford avesse fatto del male a Mary e a Sherlyn.
“Ehi, tutto bene?” domandò John preoccupato, avvicinandosi a lui.
Il detective fece sì con la testa senza riuscire a dire niente. Era già difficile respirare, parlare sembrava quasi impensabile. Non riuscendo a riprendere il controllo di sé, si precipitò fuori dall’edificio e, sostenendosi con una mano alla parete, vomitò lo scarso contenuto del suo stomaco: il tè e i pochi biscotti che aveva ingerito quella mattina da Mycroft.
“Sherlock!” urlò il dottore che intanto lo aveva raggiunto.
“Sto bene…” disse il consulente investigativo, iniziando a riprendersi.
“Sei sicuro? Hai un aspetto orribile!” chiese premuroso John.
“Sono sicuro…” rispose voltandosi verso di lui “…devo chiamare Mycroft! Dobbiamo mettere degli uomini di guardia per Mary e Sherlyn! Non possiamo permettere che Sherrinford faccia loro del male!” continuò poi tutto d’un fiato.
John fece un cenno di assenso. Sherlock aveva ragione e lui avrebbe protetto sua moglie e sua figlia a costo della sua stessa vita. Le avrebbe tenute al sicuro.


Dopo qualche giorno, Mary e la piccola Sherlyn vennero dimesse dall’ospedale. Erano state tenute sotto sorveglianza giorno e notte da alcuni uomini dell’MI5. Anche John e Sherlock erano stati spesso lì a tenere la situazione sotto controllo. La cosa strana, però, era che Sherrinford non aveva né provato ad avvicinarsi a loro, né si era più fatto sentire. Questo comportamento fece innervosire Sherlock a tal punto da renderlo di nuovo irrequieto e nervoso.
Quel giorno Mary, Sherlyn e John vennero scortati nella loro abitazione, seguiti da un’altra auto nera con Mycroft e Sherlock. Appena arrivati, la casa venne messa completamente in sicurezza: degli uomini si sarebbero alternati per garantire l’incolumità dell’intera famiglia Watson.
Nonostante queste precauzioni, però, Sherlock non era tranquillo. Sapeva che Sherrinford aveva i mezzi per arrivare a loro nonostante la presenza di un intero esercito dell’MI5 a proteggerli. Ancora pieno di preoccupazioni, si fece accompagnare a Baker Street. C’era una persona che diceva di avere informazioni ultili nella lotta contro Sherrinford e Moran; doveva saperne di più prima della loro prossima mossa. Mandò così un messaggio a lei: Irene Adler.

-Dobbiamo parlare. Venga subito a Baker Street. SH

Un paio di ore dopo, una sensuale Irene fece il suo ingresso nell’appartamento del detective. Aveva un vestito bianco molto corto e aderente nei punti giusti. I capelli erano raccolti come al suo solito e sul viso mostrava la solita espressione maliziosa.
“Signor Holmes. Non sa che piacere mi ha fatto il suo invito…” disse la donna mentre si accomodava sulla poltrona di John, accavallando le gambe in modo sensuale.
“Miss Adler, non ho intenzione di girarci intorno. Mi dica quello che sa…” disse serio Sherlock mentre stava seduto sulla sua poltrona e la fissava intensamente.
“Noto con piacere che è ritornato sé stesso. Freddo e tagliente proprio come piace a me. Anche se devo dirglielo, la versione di sé dell’altro giorno, più incline a lasciarsi andare, non mi era dispiaciuta!” rispose la donna, sorridendo.
Il consulente investigativo intanto la guardava serio, aspettando che rispondesse alla sua richiesta.
“Comunque ho delle informazioni, è vero. Tramite alcuni miei contatti, sono venuta a sapere delle notizie molto interessanti che potrebbero esserle utili. Purtroppo riguardo a suo fratello non so molto, ma Moran lo conosco bene, so cosa gli piace e so, soprattutto, come gli piace giocare…” continuò Irene.
“Cosa vuole in cambio di queste informazioni? E soprattutto, perché dovrebbe rischiare tanto nel restare qui a Londra, sapendo che potrebbero rintracciarla ed ucciderla?” domandò Sherlock pensieroso.
“Mi dispiace vedere che ancora non si fida completamente di me, anche se l’altro giorno mi ha mostrato il contrario. Ho notato con piacere che anche lei, come me, prova ancora qualcosa nei miei confronti: sentimenti, attrazione...” rispose Irene con un velo di presunzione “…comunque, che ci creda o no, sono qui per ricambiare il favore. Anni fa ha messo a rischio la sua vita per salvarmi ed ora vorrei fare ciò che posso per aiutarla e sdebitarmi. Non chiedo alcuna ricompensa, anche se forse avrei una mezza idea su cosa potrebbe darmi… sempre se lo voglia anche lei, sia chiaro” concluse poi, ripresentando la sua espressione maliziosa e sensuale.
Sherlock cercò di non pensare a quella provocazione. Trovò quella proposta stranamente allettante e si stupì della cosa. Non era il momento per certi pensieri, c’erano altre cose più importanti: Mary e Sherlyn avevano la precedenza su tutto.
“Bene, voglio fidarmi. La ascolto” disse il detective con un’espressione di sfida.


Sherrinford intanto era nel suo quartier generale e stava dando un ultimo sguardo alla marea di carte e documenti che aveva sulla sua scrivania. Stava riguardando il piano in tutti i suoi dettagli per assicurarsi che, questa volta, niente andasse storto. Appena si accorse che tutto quadrava alla perfezione, alzò lo sguardo verso Moran e iniziò a sorridere.
“Bene Sebastian, questa volta abbiamo fatto davvero un ottimo lavoro” disse compiaciuto.
“Hai ragione Sherrinford, stavolta niente e nessuno potrà fermarci. Non ora che abbiamo lei nel nostro piano” rispose Moran con un sorriso altrettanto soddisfatto.
“Sì, e il bello è che si fideranno di lei e sarà proprio lei che ci aiuterà a dare lo scacco matto che ci permetterà di vincere la partita.” concluse Sherrinford, ridendo di gusto.










Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il tredicesimo capitolo! La storia inizia a riprendere il tono di prima. Il periodo di calma è ormai finito e Sherrinford inizia a fare le sue prossime mosse.
Voglio chiarire una cosa sul nostro Sherlock. In questa storia è decisamente più emotivo, ma ciò non toglie che non voglio arrivare a stravolgere il suo personaggio a tal punto da fargli fare cose che troverei assurde per lui (come sposarsi o avere dei figli). Penso però che, arrivato a questo punto, lui si stia interrogando su tutto ciò che riguarda la sua vita: in fondo ha sempre vissuto senza sentimenti, quindi adesso si sente un pò sopraffatto e confuso da tutto ciò che prova. Alla fine riuscirà a mettere ordine anche nel suo cuore e a capire molte cose su di sè e sulla sua vita. Per ora tutto ciò che fa sembra essere una contraddizione continua (naturalmente voluta) proprio per far capire che sta sperimentando e sta cercando di capire cosa può far parte della sua vita e cosa invece no! Spero di avervi chiarito un pò di più il suo punto di vista. ;)
Purtoppo ad essere nel mirino di Sherrinford adesso è la piccola Sherlyn. Cosa prevede il piano del pazzo? Riusciranno a tenerla al sicuro? E Sherlock e company si fideranno delle persone giuste? Dal finale del capitolo direi che quest'ultima domanda si risponda da sola. Per le altre dovrete aspettare il prossimo capitolo! Grazie a chi vuole lasciare un commento (sempre molto gradito) e a chi sta continuando a seguire la storia. Alla prossima ;)

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Capitolo 14
*** Niente è come sembra ***


               Ti brucerò il cuore



                                    Niente è come sembra



… “Bene, Sebastian…questa volta abbiamo fatto davvero un ottimo lavoro…” disse compiaciuto.
“Hai ragione Sherrinford…stavolta niente e nessuno potrà fermarci…non ora che abbiamo lei nel nostro piano” rispose Moran, con un sorriso altrettanto soddisfatto.
“Si…e il bello è che si fideranno di lei…e sarà proprio lei che ci aiuterà a dare lo scacco matto, che ci permetterà di vincere la partita.” concluse Sherrinford, ridendo di gusto.



Sherlock era sulla sua poltrona in attesa che Irene si decidesse a fornirgli, finalmente, quelle importanti informazioni.
“Ho conosciuto Sebastian Moran molti anni fa, nello stesso periodo in cui incontrai lei, signor Holmes. Moriarty mi aiutò ad usare quelle informazioni riservate e, allora, lui era il suo braccio destro…” iniziò la donna con calma, ma venne improvvisamente interrotta.
“La prego cerchi di omettere i fatti irrilevanti e noiosi e vada al sodo!” esclamò secco il detective.
“È quello che sto cercando di fare…” rispose Irene a tono “…comunque, quando conobbi Moran, venni a conoscenza di alcune informazioni su di lui; a quanto pare aveva una relazione nascosta con una donna ricercata: un’ex-spia di origine irlandese che si era trasferita a Londra con l’intento di cambiare identità. La storia non funzionò, ma i due rimasero comunque in contatto. Moriarty la usò per alcuni lavori sporchi e, a quanto pare, successivamente iniziò a lavorare anche per Magnussen. Da quello che mi dissero, però, era tenuta da quest’ultimo sotto ricatto a causa del suo passato. Posso garantirle da fonti certe che Moran ha ripreso a vederla e, sicuramente, lui e suo fratello l’avranno ingaggiata per qualche sadico piano da mettere in atto conto di lei e i suoi amici…” concluse la donna in tono serio.
“Ma senza un nome, non vedo come questo possa aiutarmi…” disse Sherlock deluso e irritato.
“Non so quale sia il suo vero nome…ma conosco la falsa identità che aveva assunto qui a Londra…si chiama…” stava per completare la frase quando, all’improvviso, un uomo entrò nell’appartamento.
“Sherlock…ci sono novità? Sherrinford si è fatto vivo?” domandò John con ansia. Solo dopo qualche minuto, si accorse della presenza della donna sulla sua poltrona.
“Dottor Watson…lieta di rivederla!” lo salutò Irene con il suo solito tono divertito.
“Oh…se sei impegnato, posso passare più tardi…” disse il dottore leggermente infastidito. Quella donna non gli era mai piaciuta, aveva fatto solo del male al suo amico e la sua presenza lì, lo irritava parecchio.
“Non essere ridicolo John!” esclamò Sherlock “…la signora Adler mi stava giusto dicendo il nome di una possibile pedina di Sherrinford e Moran…potremmo cercare di anticipare le sue mosse…” continuò, facendo cenno all’amico di sedersi sul divano.
John si accomodò e guardò la donna con interesse. In fondo, era la vita di sua figlia ad essere a rischio e qualsiasi informazione poteva essere utile per salvarla.
“Le stavo dicendo…” riprese Irene “…la falsa identità che questa donna ha assunto qui a Londra è: Janine Hawkins” concluse, aspettando una reazione del detective.
Sherlock era sconvolto nel sentire quel nome. Non credeva possibile che non si fosse accorto di niente mentre la usava per arrivare a Magnussen. Fu in quel momento che si ricordò della sera in cui lo uccise, quando si divertiva a tirare delle “schicchere” a John solo per mostrargli che lui aveva il potere di farlo, poiché sapeva di Mary. Si ricordò, in particolare, della frase che disse quando il suo amico non riusciva a tenere l’occhio aperto mentre lo colpiva: Janine c’è riuscita una volta ed ha emesso un suono stranissimo. In quel momento non aveva dato peso a quella frase ma, ripensandoci adesso, Magnussen gli aveva fornito un’informazione preziosissima. Se Janine subiva quel trattamento da lui senza opporsi, voleva dire che, come John, anche lei doveva farlo solo perché lui sapeva qualcosa, qualcosa che poteva usare per distruggerla. Un uomo come Magnussen non avrebbe mai perso tempo a ricattare qualcuno se le informazioni che aveva sul suo conto non fossero state scottanti. “Perché non ci ho pensato prima?” si chiese Sherlock tra sé e sé. Si voltò subito verso John per condividere con lui i suoi pensieri, ma si accorse che l’amico era scattato in piedi ed era decisamente impallidito.
“Oh, Cristo!” esclamò il medico in preda al panico.
“Che succede?” chiese il detective, alzandosi di riflesso dalla poltrona.
“Mary e Sherlyn… sono a casa…” cercò di dire John, ma venne interrotto.
“Sempre a precisare l’ovvio come al solito!” esclamò Sherlock irritato.
“No, razza di idiota! Mary e Sherlyn sono a casa…con Janine!” urlò il dottore furioso.
“Dannazione!” imprecò il consulente investigativo, prendendo il cappotto e correndo fuori dall’appartamento seguito da John. Lasciarono una confusa Irene ancora seduta sulla poltrona senza darle spiegazioni.


Arrivarono davanti casa di John con un taxi. Durante il tragitto Sherlock aveva avvisato anche Mycroft e Lestrade, pregandoli di raggiungerli lì. Appena scesi dalla vettura, si diressero verso la porta d’ingresso dell’abitazione. Ciò che videro, non fece sperare niente di buono. I due agenti dell’MI5 che erano di guardia alla porta erano stati brutalmente uccisi con un colpo d’arma da fuoco dritto in fronte: sicuramente, vista la precisione millimetrica, era opera di Moran. La porta dell’appartamento era stata forzata ed era rimasta socchiusa. Sherlock e John entrarono con cautela, non sapendo cosa aspettarsi. La casa sembrava vuota. Ad un tratto la videro: Mary. Era distesa a terra e del sangue le fuoriusciva dalla testa. I due si precipitarono su di lei e, con loro sollievo, capirono che era soltanto svenuta: probabilmente era stata colpita con qualche oggetto pesante.
Mentre John tentava di farla svegliare, Sherlock iniziò a cercare Sherlyn per casa, ma di lei non c’era traccia. Nella culla vuota della bambina trovò un’altra tutina identica a quella che gli era arrivata in quel pacco, sempre insanguinata e con l’ennesimo biglietto: Il vento dell’est è arrivato e la figlia di Watson è solo l’inizio. Ho visto che ti sei trovato una ragazza…pessima mossa, fratellino!
“Dov’è Sherlyn?” chiese preoccupato John, entrando nella stanzetta.
“Sherrinford…” rispose soltanto Sherlock, mostrandogli il biglietto.
“No…no…no…Santo cielo!” esclamò il dottore in preda al panico.
“La troveremo John! Fidati di me…” disse il detective, afferrando l’amico per le spalle per farlo calmare “…Sherrinford la pagherà per essersi spinto così oltre…” aggiunse furioso.
“Ok…” rispose John “…ma a che si riferisce l’altra parte del biglietto?” chiese poi confuso.
Solo in quel momento Sherlock concentrò la sua attenzione su quella frase. Lesse di nuovo il biglietto e guardò l’amico preoccupato.
“In questi giorni deve avermi spiato…Irene!” esclamò all’improvviso “…tu pensa a Mary, io ritorno a Baker Street!” concluse, uscendo di corsa dall’abitazione.


Appena arrivato al 221B, scese velocemente dal taxi e si precipitò nell’appartamento. Il soggiorno era completamente distrutto, reduce da un’evidente e violenta colluttazione. Irene Adler era stata uccisa con numerose coltellate all’addome e al petto. Ma Sherrinford non si era fermato lì: l’aveva impiccata con una corda al soffitto del soggiorno e il corpo penzolava, privo di vita, mentre una macchia di sangue di espandeva sotto di lei.
Sherlock si sentì mancare l’aria. La brutalità di quella scena lo aveva colpito come una stilettata dritta al cuore. Si inginocchiò a terra e, privo di forze, rimase lì ad osservarla mentre alcune lacrime gli rigavano il viso.
Qualche minuto dopo, il detective si sentì afferrare dalle spalle da qualcuno che lo aiutò ad alzarsi e lo accompagnò fuori dall’appartamento. Era decisamente sotto shock, perso come se si trovasse in uno stato di trans.
“Sherlock, guardami…” gli urlò l’uomo, scuotendolo dalle spalle.
Il consulente investigativo alzò finalmente lo sguardo e mise a fuoco chi aveva di fronte. Era Mycroft.
“Mycroft!?” disse il detective decisamente confuso. Si accorse di avere il battito accelerato, sudava freddo e ansimava pericolosamente.
“Fai respiri profondi…sei sotto shock!” esclamò preoccupato il fratello.
Il politico, però, non fece in tempo a finire la frase, che Sherlock gli cadde addosso privo di sensi.
“Sherlock!” urlò John, uscendo terrorizzato dall’auto di Greg che si era appena fermata davanti all’appartamento.
“Chiamate un’ambulanza…presto!” ordinò Mycroft, sedendosi cautamente a terra mentre teneva il fratello dalla parte superiore del corpo. Lì, tra le sue braccia, aveva il suo cuore, che si stava sgretolando davanti ai suoi occhi senza che riuscisse ad impedirlo.


Sherlock si risvegliò confuso. Capì di essere in ospedale e si rese conto che, nell'ultimo periodo, si era risvegliato lì troppe volte per i suoi gusti.
“Ehi, come ti senti?” chiese una voce preoccupata vicino a lui.
“John…” rispose a fatica il detective, mentre cercava di mettersi seduto.
“Non sforzarti, devi riposarti…hai avuto un collasso in seguito allo shock…” spiegò John con fare professionale.
“Non c’è tempo per riposare…dobbiamo trovare Sherlyn!” esclamò Sherlock, cercando di scendere dal letto. Si sentiva estremamente debole e dovette, subito dopo, poggiarsi alla spalla dell’amico per non cadere.
“Non fare l’idiota! Non sei in condizione di andare da nessuna parte!” urlò il medico sostenendolo.
Il detective, naturalmente, non era il tipo da ascoltare i consigli altrui, almeno non quando aveva già deciso cosa fare per conto suo. Mentre cercava di rimanere in piedi, Mycroft, Greg e Mary fecero il loro ingresso nella stanza. Il fratello maggiore si avvicinò subito a lui.
“Come stai?” gli chiese preoccupato, mentre poggiava la mano sulla sua spalla.
“Sto bene…” rispose il detective “…ho solo bisogno di andarmene da qui” continuò, facendo cenno a John di passargli i vestiti. Non aveva intenzione di rimanere in quel posto, voleva solo tornare a casa, a Baker Street.
Solo nel momento in cui finì di rivestirsi Sherlock si ricordò di ciò che era successo ad Irene. Lo aveva momentaneamente rimosso dalla sua mente, forse a causa dello shock. Un tremore gli attraversò il corpo, ma cercò di controllarsi.
“Voglio vederla…” disse all’improvviso, rivolgendosi al fratello.
“Sherlock, non mi sembra il caso, viste le tue condizioni…” rispose Mycroft serio.
“Per favore…” lo pregò il detective.

Dopo aver firmato le carte per le dimissioni, naturalmente contro il parere dei medici dell’ospedale, si diressero tutti e cinque all’obitorio, nella stanza in cui giaceva il corpo di Irene. Mycroft, Greg e Mary rimasero fuori e Sherlock entrò seguito da John. Vedere il corpo della donna disteso su quel tavolo d’obitorio, gli fece ritornare, momentaneamente, quella fitta al cuore. Per un momento, ricordandosi di quando la donna aveva finto la sua morte, sperò che quel corpo, in fondo, non fosse il suo. Questa volta, però, non c’erano dubbi: nessun inganno, nessuna finzione.
Fu allora che il suo Watson mentale gli fece di nuovo quella domanda: Perché avete bisogno di stare da solo? Finalmente aveva una risposta e giaceva proprio davanti ai suoi occhi. Anche volendo, non poteva permettersi di legarsi a qualcuno. Non solo, non poteva perché tutto quello non faceva per lui. Stravolgere la sua vita così come aveva fatto John, significava dover rinunciare ad essere non solo un consulente investigativo, ma se stesso, Sherlock Holmes. John, al contrario suo, nonostante necessitasse di dosate scariche di adrenalina nella sua vita, aveva un’altra identità a cui fare affidamento: l’essere un medico. Questo gli permetteva, di poter vivere tranquillamente una vita con la propria famiglia e, nel tempo libero, di dedicarsi al “passatempo” legato ai crimini e all’investigazione. Lui, invece, era solo questo. Scegliere di legarsi a qualcuno, avrebbe significato rinunciare a sé stesso, alla propria identità. E questo non avrebbe potuto mai farlo. In fondo, anche se voleva dire rinunciare a molte cose, lui amava essere Sherlock Holmes e non aveva intenzione di essere qualcun altro.
“Andiamo, John…” disse improvvisamente all’amico. Era ora di mettere i sentimenti da parte e pensare a salvare la bambina “…riprenderò Sherlyn dalle sudice mani di Sherrinford…fosse l’ultima cosa che faccio!” concluse, avviandosi fuori, deciso e agguerrito come non mai.





Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il quattordicesimo capitolo. Beh, come dice anche il titolo, niente è come sembra...e la nostra povera Irene questa volta era davvero in buona fede. Sapeva di rischiare la vita ritornando a Londra, ma per Sherlock ha rischiato lo stesso. Volevo un pò riscattare il suo personaggio, facendole fare, finalmente qualcosa di buono e di sincero verso il nostro caro Sherlock. Beh, lui poverino non l'ha presa bene, ma almeno è riuscito a fare un pò di chierezza nei suoi pensieri...almeno in parte!
La piccola Sherlyn purtroppo è nelle mani di Sherrinford...riusciranno a salvarla prima che sia troppo tardi?
La traditrice, alla fine era Janine. A parte che non mi è mai piaciuta...ma da quando Magnussen ha detto quella frase su di lei nella 3X03, ho iniziato a farmi una marea di film mentali, sul perchè l'avesse detto. Beh, la mia conclusione è questa...forse un pò azzardata, ma dovete ammettere che la cosa puzza parecchio su di lei.
Alla fine del capitolo il nostro Sherlock sembra più agguerrito che mai...che abbia intenzione di fare qualcosa di impulsivo nel suo solito stile? Queste risposte le avrete nel prossimo capitolo. Spero vi sia piaciuto. Accetto sempre volentieri i vostri commenti e grazie a chi ha aggiunto la storia tra le preferite e le seguite.
Alla prossima ;)




 

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Capitolo 15
*** L'agguato ***


               Ti brucerò il cuore



                                                 L'agguato



… “Andiamo, John…” disse improvvisamente all’amico. Era ora di mettere i sentimenti da parte e pensare a salvare la bambina “…riprenderò Sherlyn dalle sudice mani di Sherrinford…fosse l’ultima cosa che faccio!” concluse, avviandosi fuori, deciso e agguerrito come non mai.




Sherlock era irrequieto e camminava su e giù nel soggiorno di Baker Street, finalmente ripulito dopo l’omicidio di Irene Adler. Quel pomeriggio, aveva convocato tutti al 221B per esporre nei dettagli,il piano da mettere in atto contro Sherrinford per salvare Sherlyn. John e Mary erano seduti sulle due poltrone, mentre Greg e Mycroft erano sul divano. Tutti e quattro stavano in silenzio, in attesa che il detective iniziasse a parlare.
“Allora…questa volta saremo noi ad attirare Sherrinford e Moran in una trappola. Ho studiato il piano nei minimi dettagli ed ognuno deve fare bene la propria parte per far sì che Sherlyn ritorni a casa sana e salva” iniziò Sherlock, serio e determinato “…intanto ho bisogno di attirarli nel luogo dell’appuntamento, che sarà George Street, tramite l’unico mezzo che abbiamo a disposizione” concluse guardando Mycroft.
“Cosa devo fare?” rispose prontamente il fratello.
“Devi trasmettere un mio videomessaggio su tutte le reti televisive della città” ordinò il detective.
“Sherlock, non credi che sia pericoloso esporsi così tanto ed attirali in una potenziale trappola? Quei pazzi hanno Sherlyn e non sai se la porteranno con loro. Se la lasciassero da qualche parte come faremo a salvarla?” chiese John preoccupato.
“Stai tralasciando un dettaglio importante, John! Sherrinford tutto sommato è un Holmes. Porterà Sherlyn con lui. Non rinuncerebbe mai a mettersi in mostra!” rispose il consulente investigativo convinto.
Il dottore non faceva altro che guardare l’amico con apprensione. Se da un lato era confortante vederlo così agguerrito, dall’altro quell'espressione gli faceva paura. In fondo sapeva che dietro quella corazza di freddezza che aveva indossato c’era un uomo quasi completamente distrutto. Riusciva a leggerlo nei suoi occhi. Quello che lo terrorizzava di più, era la consapevolezza che, in quelle condizioni, avrebbe potuto fare qualcosa di troppo avventato, che avrebbe messo letteralmente la sua vita in gioco pur di vincere la partita. Naturalmente voleva salvare sua figlia, ma non poteva accettare l’idea di veder sacrificare il suo migliore amico, di nuovo, nel tentativo di riuscirci.
I pensieri di John vennero interrotti da Sherlock che, improvvisamente, si mise ad esporre tutti i dettagli dell’agguato. Non accennò molto al ruolo che lui avrebbe avuto, ma dalle parti che aveva dato ad ognuno, il dottore si accorse che il piano era letteralmente un suicidio. Ma d'altro canto non avevano scelta. Avrebbero dovuto fidarsi di lui con la speranza di ritornare tutti sani e salvi a casa.


Sherlock era pronto a registrare il video che avrebbe mandato in onda subito dopo. Fece cenno a John di avviare la registrazione. Il detective aveva un’espressione compiaciuta ed uno strano sorrisino sul viso che mantenne per tutta la durata del messaggio. Era decisamente inquietante.
Ciao Sherrinford. Il tempo dei giochi è finito. È giunto il momento, per te, di affrontarmi. Questa volta senza inganni…solo tu ed io. Ti aspetto questa sera…nel posto in cui il tuo gioco ha avuto inizio.
Terminata la registrazione, il dottore diede il video a Mycroft, il quale avrebbe provveduto a trasmetterlo prima possibile.
L’esca era stata lanciata. Ora non restava che aspettare che il nemico abboccasse all’amo.


Erano circa le 22:00 e tutti erano già pronti ai loro posti in George Street. Stavano aspettando da un paio d’ore, ma di Sherrinford non c’era ancora traccia. Speravano solo che si presentasse e che non avesse già fatto del male a Sherlyn. In mezzo alla strada, davanti al 121, c’era visibile solo Sherlock. Gli altri erano nelle posizioni strategiche che il detective aveva stabilito.
Dopo un’altra ora, finalmente, una figura si fece avanti. Era Sherrinford e, come previsto dal consulente investigativo, aveva in braccio Sherlyn.
“Mi ha sorpreso questa tua mossa, William!” esclamò il secondogenito, facendosi più vicino.
“E questa ti sorprenderà ancora di più!” disse Sherlock, prendendo la pistola dalla tasca e puntandola contro di lui.
“Credevi davvero che fossi così stupido da venire qui senza avere le spalle coperte?” rispose Sherrinford ridendo, mentre un puntino rosso si fermava sul detective all’altezza del cuore.
“E tu credevi che anche io fossi così stupido, da non considerare questa eventualità?” esclamò Sherlock, ridendo a sua volta, mentre un puntino rosso si fermava all’altezza della testa dell’avversario.
“Oh, dimenticavo…la signora Watson! Cecchino esperto quasi quanto il mio…sono colpito!” ribatté Sherrinford divertito.
“John…!” disse il detective, mentre il dottore usciva dall’oscurità e si avvicinava a loro “…dai la bambina a lui” continuò, rivolgendosi all’avversario “…questa è una faccenda tra me e te…lei non c'entra…affrontami da solo se ne hai il coraggio!” concluse, tenendo sempre la pistola puntata contro di lui.
“Va bene, fratellino. Voglio fare il tuo gioco” rispose Sherrinford, dando Sherlyn a John “…ma le regole le stabilisco io!” aggiunse, mentre il puntino rosso si spostava dal petto di Sherlock, alla testa della bambina “…se il dottor Watson muove solo un passo, sua figlia muore” concluse ridendo.
Il medico rimase lì, immobile, con Sherlyn in braccio. Le mani gli tremavano ed iniziava a sudare freddo. Guardava i due che aveva di fronte, alternando lo sguardo tra loro con preoccupazione.
“C’è una cosa che ho sempre voluto chiederti…perché mi odi così tanto? Cosa ti ho fatto?” chiese Sherlock con un velo di tristezza sul volto.
“Cosa mi hai fatto?! Mi hai rovinato la vita! La nostra famiglia era perfetta prima che tu arrivassi! Io ero felice prima che tu nascessi!... Tu ti sei preso tutto! L’affetto dei nostri genitori e quello di Mycroft! A me non è rimasto più niente…e tutto per colpa tua!” urlò Sherrinford con un’espressione da pazzo.
“Mi dispiace…non ho mai voluto farti soffrire” disse il consulente investigativo serio “…ma questo non giustifica tutto il male che mi hai fatto e tutte le vite che hai tolto!” aggiunse, guardandolo con rammarico.
“Oh, non usare la carta della compassione! Questi sporchi trucchetti non funzionano con me, fratellino!” esclamò l’avversario ridendo.
“Bene…allora…basta trucchi…basta giochi…prendila” rispose Sherlock, avvicinandosi a lui e porgendogli la pistola.
Il secondogenito rimase davvero colpito da quel gesto. Continuò a guardare il fratello senza però riuscire a muoversi. Per la prima volta era stato colto di sorpresa.
“Che stai facendo?!” chiese poi confuso.
“Ti sto dando l’opportunità di chiudere i conti una volta per tutte” disse serio il detective “…in fondo è questo che vuoi…volevi bruciarmi il cuore e ti garantisco che ci sei riuscito molto bene fino ad ora…ti rimane solo una cosa per vincere la partita…uccidimi…e non fare del male più a nessun’altro…!” aggiunse, continuando a porgergli la pistola.
John era sconvolto. Non era a conoscenza dell’idea dell’amico e rimase di sasso. Sapeva che Sherlock avrebbe dovuto distrarre Sherrinford in qualche modo, ma non pensava che si sarebbe spinto così oltre. Sperava solo che quel pazzo non accettasse l’arma che gli stava porgendo.


Mycroft si trovava dietro il palazzo di fronte. Aveva individuato Janine, nascosta dietro dei cassonetti dell’immondizia. Si avvicinò alle sue spalle lentamente, senza che lei si accorgesse di nulla.
“Fine dei giochi…” esclamò il politico, afferrandola dalle braccia e costringendola ad inginocchiarsi a terra.
“Io non canterei vittoria troppo presto…” rispose lei, liberandosi dalla presa e afferrando un coltello che aveva nel cappotto.
La donna si avventò su di lui e tra loro iniziò una violenta colluttazione. Finirono a terra e, nella lotta, Mycroft riuscì ad afferrare il braccio con cui Janine teneva il coltello e a bloccarla sotto di lui.
“La sua parte in questo gioco è durata anche troppo, per i miei gusti…” le sussurrò il politico all’orecchio. Improvvisamente, affondò il coltello, ancora nella sua mano, nell’addome della donna. Poi si alzò, si pulì il vestito con naturalezza e la guardò mentre esalava l’ultimo respiro.
“Fuori una…!” esclamò, prima di sparire nell’oscurità, diretto alla seconda parte del piano.


Moran era sul tetto del 121 di George Street. Stava tenendo sotto tiro Sherlyn, nelle braccia di John, in attesa che il suo capo gli facesse il segnale per fare fuoco. Qualcuno nell’ombra, si avvicinava dietro di lui.
“Sposta quel mirino dalla testa di mia figlia, bastardo!” esclamò Mary, puntandogli una pistola alla testa.
L’uomo si voltò e la guardò sorpreso.
“Ma se tu sei qui…chi diamine tiene sotto tiro Sherrinford?” chiese confuso.
“Un ispettore di polizia molto intraprendente!” rispose lei sorridendo.
Moran, all’improvviso, lasciò il fucile e si avventò su di lei. Finirono a terra e l’uomo cercò di prendere la mano la pistola che Mary impugnava, per puntargliela contro. La donna si accorse che l’uomo era molto più forte di lei e non riuscì ad opporsi. Moran stava per far partire il colpo, quando qualcosa lo colpì in testa e cadde a terra privo di sensi.
Mary, ancora stordita dalla colluttazione, si alzò lentamente e mise a fuoco la figura che l’aveva salvata da quella situazione.
“Lieta di vederla, signor Holmes…la ringrazio!” disse sorpresa.
“A quanto pare mi riesce bene salvare i membri della famiglia Watson!” esclamò Mycroft con ironia “…vada a prendere il fucile, presto! Sherrinford è così distratto dalla mossa di Sherlock che non si è accorto di niente! Punti di nuovo il mirino su sua figlia!” concluse, prendendo la pistola che aveva Mary per puntarla verso lo svenuto Moran. Doveva essere pronto nel caso si fosse risvegliato.


Sherrinford, intanto, non si era accorto di niente. Continuava a guardare confuso il fratello, cercando di capire se stesse bluffando o meno.
All’improvviso, si sentì un fischio provenire dal tetto. Era il segnale di Mary. John fece un cenno a Sherlock per far partire l’altra parte del piano.
“Beh, peccato! Hai avuto la tua occasione!” esclamò il detective, impugnando la pistola e puntandola sulla testa del suo avversario.
Sherrinford cercò di fare il segnale a Moran, ma non accadde niente.
“Spiacente, il suo cecchino non deve essere disponibile al momento!” disse John, allontanandosi con la bambina in braccio.
Quello che accadde dopo, però, non era previsto nel piano. Sherlyn, che fino a quel momento aveva dormito beata e ignara di tutto, si svegliò iniziando a piangere. Sherlock distratto improvvisamente dal pianto della bambina, abbassò la guardia e ciò permise a Sherrinford di afferrarlo dal braccio con cui teneva la pistola. Lo attirò a sé, gli cinse un braccio intorno al collo e prese l’arma, puntandogliela alla tempia.
“Sei sempre troppo lento, fratellino” esclamò il secondogenito ridendo.
“Sparategli...sparategli, dannazione!” urlò Sherlock, cercando di liberarsi dalla presa.
Mary e Greg, che avevano i due fucili puntati sul nemico, non riuscirono a sparare nemmeno un colpo. Anche riuscendo a colpire soltanto Sherrinford, lui avrebbe avuto quei pochi secondi di tempo per sparare a Sherlock. Nessuno dei due se la sentì di rischiare così tanto.
Il secondogenito, allora, sempre facendosi scudo con il detective, si avviò verso la parte non illuminata della via, gli tirò un colpo alla testa con il manico della pistola e scappò, volatilizzandosi nell’oscurità.
Tutti e quattro si precipitarono dal consulente investigativo, che era seduto a terra e si teneva con la mano la ferita alla testa. John lasciò la bambina a Mary e lo aiutò ad alzarsi per ritornare sotto la luce per controllare i danni del colpo subìto. Mycroft, intanto, aveva legato Moran, che era ancora svenuto, e lo aveva trascinato giù dal tetto con l’aiuto di Greg.
“Ma che diamine vi è preso!?” urlò Sherlock furioso, mentre si reggeva al medico. Il colpo non era stato forte, ma aveva dei leggeri capogiri.
“Sherlock, non potevamo rischiare di prendere anche te. E poi, anche colpendo lui, avrebbe potuto spararti…” cercò di giustificarsi Mary.
“Ha ragione Mary…era troppo pericoloso” incalzò Greg.
“Siete degli idioti!” urlò nuovamente il detective “…anche se mi avesse sparato, almeno adesso sarebbe morto!” continuò con disprezzo.
“Non puoi parlare sul serio” intervenne John “…e poi il piano prevedeva di salvare Sherlyn e ci siamo riusciti. Lo prenderemo un’altra volta. Abbiamo preso comunque Moran e ci condurrà da lui” disse con calma John, cercando di calmare l’amico.
“Lasciami!” esclamò Sherlock, dando uno spintone al medico, che per poco non cadde a terra. Poi si avviò verso casa senza dire una parola.
Tutti restarono di stucco dal suo comportamento. Lo seguirono in silenzio, portandosi dietro il prigioniero. Appena sveglio, lo avrebbero fatto parlare e avrebbe svelato il luogo del nascondiglio di Sherrinford che avesse voluto o no.





Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il quindicesimo capitolo...con mio rammarico stiamo arrivando quasi alla fine della storia! Credo di prevedere massimo altri due o tre capitoli prima della fine! :(
Comunque qui abbiamo finalmente uno Sherlock più agguerrito, più sè stesso, ma decisamente più nervoso. Che le parole di Sherrinford lo abbiano in fondo colpito? Mah...
La piccola Sherlyn per ora è salva... Moran è nelle mani dei nostri eroi e Janine è morta (Siiiiii...!)... Purtroppo Sherrinford è ancora a piede libero. Anche da solo sarà abbastanza pericoloso? Credo di si...Chissà cosa si inventerà!
In questo capitolo abbiamo anche un'altra figura che spicca: Mycroft. Mi piacerebbe vederlo in qualche puntata così aggressivo per una volta. E poi non dimentichiamo che gli hanno toccato il caro fratellino, quindi l'aggressività ci sta tutta...mai toccare Sherlock! *.*
Mi sento di fare solo un'unica precisazione sul capitolo precedente (perchè ci tengo che riusciate a cogliere bene i discorsi e le sfumature di Sherlock). Il fatto che lui rinunci ad avere qualcuno vicino a sè (in senso amoroso) non è tanto perchè amava Irene e non vorrebbe nessun altro...il discorso è un pò più ampio. Quello che è successo ad Irene gli fa ricordare che l'essere Sherlock Holmes, gli porterà ad avere sempre nemici intorno e capisce che, mantenendo la sua identità, una sua potenziale famiglia sarebbe sempre in pericolo e questo lui non potrebbe mai permetterlo. Quindi preferisce rimanere solo e se stesso. Riprendendo alcune parole che disse prima di buttarsi dal tetto del Bart's a John: Rimanere da solo è l'unico modo che ha per proteggersi! Un pò triste come pensiero. Ma Sherlock è fatto così in fondo. Grazie a chi vuole lasciare un commento e a chi sta continuando a seguire la storia. Alla prossima ;)

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Capitolo 16
*** Parole che fanno male ***


                Ti brucerò il cuore




                                       Parole che fanno male



… “Lasciami!” esclamò Sherlock, dando uno spintone al medico, che per poco non cadde a terra. Poi si avviò verso casa senza dire una parola.
Tutti restarono di stucco dal suo comportamento. Lo seguirono in silenzio, portandosi dietro il prigioniero. Appena sveglio lo avrebbero fatto parlare e avrebbe svelato il luogo del nascondiglio di Sherrinford, che avesse voluto o no.




Moran si svegliò e si ritrovò legato su una sedia nel soggiorno di Baker Street. Di fronte a lui, Sherlock e John lo osservavano seduti sulle rispettive poltrone. Mary era di sotto con Sherlyn e la signora Hudson. Mycroft e Greg stavano cercando tracce di Sherrinford: il primo tramite le registrazioni di videosorveglianza della città e il secondo ispezionando la città insieme ad altre due pattuglie.
“Buongiorno!” disse il detective con un finto sorriso.
“Dove mi trovo?” chiese confuso il cecchino.
“Nel tuo incubo peggiore!” esclamò Sherlock, alzandosi dalla poltrona e avvicinandosi minacciosamente a lui.
“Crede davvero di farmi paura?” rispose Moran ridendo.
“Dove si nasconde Sherrinford?” chiese il detective, ignorando la sua domanda.
Il cecchino, però, non rispose. Continuò a ridere di gusto, fissandolo negli occhi divertito.
Sherlock, allora, afferrò il coltello che era piantato sulla mensola del camino e lo infilzò con forza nella gamba dell’avversario. Moran lanciò un urlo di dolore che echeggiò in tutto l’appartamento.
“Ti ripeto la domanda...dove si nasconde Sherrinford?” ripeté il detective.
“Non te lo dirò mai…” rispose il cecchino con una smorfia di dolore.
Il consulente investigativo, con una finta calma, sfilò sgraziatamente il coltello dalla gamba dell’avversario e glielo piantò nell’altra con la stessa forza di prima. Moran si contorse dal dolore, cercando, questa volta, di non urlare.
“Sherlock…” lo chiamò semplicemente John. Pensava che fosse giusto spaventare il prigioniero per farlo parlare, ma quella crudeltà e, soprattutto, quell’espressione da pazzo che l’amico aveva sul volto, lo stavano davvero preoccupando.
“Che vuoi?” domandò il detective in modo sgarbato.
“Vieni un attimo in cucina…devo parlarti” disse il dottore, alzandosi dalla poltrona.
“Lasciami in pace…ho da fare, adesso” rispose Sherlock, continuando a guardare il cecchino, mentre iniziava a sanguinare dalle due ferite.
“Per l’amor del cielo, Sherlock! Vuoi ascoltarmi una buona volta?” urlò John, attirando l’attenzione dell’amico.
Il consulente investigativo, anche se controvoglia, lo seguì in cucina.
“Si può sapere che ti prende?” chiese il medico con apprensione.
Il detective, però, non rispose. Distolse lo sguardo e sospirò, innervosito dalla domanda.
“Sherlock…per favore…guardami” lo incoraggiò John “…è da quando Sherrinford c’è scappato che ti stai comportando così…parlami…cosa c’è che non va?” aggiunse dolcemente, cercando di incontrare il suo sguardo.
Sherlock, allora, come sopraffatto da tutta la tensione della notte appena passata, si lasciò andare su una sedia della cucina, poggiando i gomiti sul tavolo e prendendosi la testa tra le mani. Non rispose alla domanda, si limitò a sospirare pesantemente.
“Ehi…” lo chiamò il medico, sedendosi sulla sedia vicino alla sua e poggiandogli la mano sul braccio.
Il detective continuava a non rispondere, fissando un punto indefinito del tavolo.
“Se è per quello che ti ha detto Sherrinford…sul perché ti odia…non devi neanche pensarci…sono le parole di un pazzo assassino e nient’altro!” disse John, interpretando i pensieri dell’amico.
Sherlock alzò finalmente lo sguardo su di lui. Uno sguardo stanco e abbattuto, che diede un colpo al cuore del medico.
“Saranno anche le parole di un pazzo…ma ha ragione!” rispose il detective con un filo di voce.
“Ma che diamine stai dicendo?” esclamò sorpreso John.
“Pensaci, John…alla fine dei conti, la colpa è tutta mia! La mia semplice esistenza ha causato tutto questo! Se non fossi mai nato, Mycroft non avrebbe rischiato di morire, i miei genitori e Irene sarebbero ancora vivi e, ora, tu e la tua famiglia non vi trovereste a rischiare costantemente la vita…” disse il consulente investigativo, passandosi le mani sul viso.
“Santo cielo, Sherlock! Ma ti rendi conto delle idiozie che stai dicendo!?” urlò il medico all’improvviso “…come puoi pensare una cosa del genere!?...La colpa è di Sherrinford, non tua!” continuò, alzando ancora di più la voce “…ti rendi conto di cosa ti sta facendo quel pazzo? Sta cercando di confonderti…sta cercando in tutti i modi di distorcere la realtà!” aggiunse avvicinandosi a lui “…non voglio sentirti dire più queste cazzate, sono stato chiaro!?” concluse con il suo solito tono da amico-soldato e puntando il dito sul tavolo con fare minaccioso.
Sherlock lo guardò intensamente, sorpreso da quella reazione. Si limitò a sospirare e ad annuire in modo poco convincente. John, allora, mise la mano sulla sua, che era poggiata sul tavolo e la strinse leggermente, sorridendogli con affetto. L’amico gli sorrise a sua volta e rimasero lì, per alcuni secondi, persi uno nello sguardo confortante dell’altro.
“Sei pronto?” gli chiese poi il medico serio.
“Pronto!” rispose il detective, avviandosi con l’amico nuovamente verso Moran.


Greg, intanto, stava girando da ore per la città alla ricerca di qualche indizio che potesse condurlo al nascondiglio di Sherrinford. Purtroppo, però, la ricerca non stava portando i frutti desiderati.
“Possibile che si sia volatilizzato nel nulla?” si ripeteva tra sé e sé.

Dall’altro lato della città, invece, un attento Mycroft analizzava tutti i video di sorveglianza.
“Dove sei finito…?!” esclamò, tenendo gli occhi incollati sugli schermi. Doveva ammettere che il suo sadico fratello sapeva bene come sparire nel nulla. Non riusciva a spiegarsi come avesse fatto, ma era riuscito ad evitare con attenzione tutte le telecamere, facendo completamente perdere le proprie tracce.


Sherlock, ritornato quasi completamente in sé, si parò di nuovo davanti a Moran con John al suo fianco.
“Beh…ti decidi a dirci dove si trova Sherrinford?” chiese il medico, precedendo l’amico.
“Possibile che ancora non vi è chiaro? Non vi dirò mai niente…e poi…” rispose il cecchino, lasciando la frase in sospeso e sorridendo.
“E poi, cosa?” incalzò subito il detective.
“E poi…non avete bisogno di cercare Sherrinford, perché, al calar del sole, sarà lui a venire da voi…ha sbagliato a provocarlo così tanto, signor Holmes…e questo errore le costerà molto caro…” esclamò divertito Moran, iniziando a ridere di gusto.
Il consulente investigativo, cercando di mantenere la calma, si avvicinò a lui, lo prese per il collo della camicia e mise il volto in corrispondenza del suo.
“Non mi sono mai piaciuti gli indovinelli…” gli ringhiò sul viso.
“Beh, dovrà abituarsi…” rispose prontamente il cecchino, prendendo di scatto il coltello che aveva ancora conficcato nella gamba e infilzandolo nel braccio di Sherlock.
In tutta quella situazione, c’era una cosa che era sfuggita ai due amici. Mentre si trovavano in cucina a parlare di Sherrinford, Moran, con un abile trucco imparato nell’esercito, riuscì, con un brusco movimento, a slogarsi una spalla e a riuscire a liberarsi dalle corde. Poi, poco prima del loro ritorno se l’era riavvolte attorno al corpo per non destare sospetti.
Sherlock, dopo il colpo subìto, si inginocchiò a terra, tenendosi il braccio ferito. John, come sempre pronto all’attacco, si precipitò verso il cappotto per prendere la pistola. Il loro avversario, però, non gliene diede il tempo e si fiondò su di lui, prendendolo alle spalle. Dopo una violenta colluttazione, il cecchino riuscì a stordire il medico, sferrandogli un pugno in pieno volto. Anche se a fatica, considerate le due ferite alle gambe, arrancò verso la porta dell’appartamento e si precipitò giù per le scale, uscendo e scomparendo nel trambusto cittadino.
Il detective, ignorando il dolore della ferita, si precipitò su John, che giaceva a terra svenuto. Iniziò a scuoterlo, tirandogli dei piccoli schiaffetti sul viso per farlo riprendere.
“John…John…mi senti?” lo chiamava preoccupato.
All’improvviso, Mary entrò di corsa nell’appartamento, spalancando la porta che era rimasta socchiusa dopo la fuga del cecchino.
“Ma che state combinando? Si sente un trambusto provenire da qui!” chiese confusa “…Santo cielo, John!” aggiunse poi, accorgendosi del marito a terra “…cos’è successo?” domandò allarmata al detective.
“Moran…è scappato!” esclamò il consulente investigativo furioso, trattenendo una smorfia di dolore.
Solo in quel momento la donna si accorse del coltello che aveva conficcato nel braccio destro. Stava per avvicinarsi a lui per verificare la ferita, quando John si risvegliò confuso.
“Sherlock…Mary!?” chiese stordito, mettendosi seduto “…Cristo, il tuo braccio!” esclamò, rivolgendosi al detective.
“Sto bene…sto bene!” urlò Sherlock, scostandosi dall’amico. Guardando bene la ferita, però, si accorse della gravità della situazione. Stava sanguinando copiosamente. Con molta probabilità la lama, nell’attraversare il braccio, aveva lacerato un’arteria. Cominciava a sentirsi debole ed affaticato. Si sedette a terra ed iniziò ad ansimare e a trattenere dei gemiti per le improvvise fitte di dolore.
“Sei il solito idiota, dannazione!” gli urlò contro il medico “…Mary, presto…aiutami a metterlo sul divano…dobbiamo chiamare subito un’ambulanza!” aggiunse con urgenza.
“Non ho nessuna intenzione di rientrare in un ospedale!” ringhiò Sherlock furioso “…pensaci tu! Ma non chiamare nessuna ambulanza!” continuò, alzando il tono di voce.
“Sherlock, non fare il bambino…non so di che entità sia la lesione e qui non ho gli attrezzi giusti per aiutarti” rispose John disperato dalla cocciutaggine dell’amico.
“Beh, sei un medico militare o sbaglio? Arrangiati!” esclamò acido il detective, mentre i due coniugi lo aiutavano a sdraiarsi sul divano “…anzi, prima avvisa Mycroft e Lestrade…devono riuscire a ritrovare Moran prima che faccia perdere le sue tracce di nuovo!” continuò, trattenendo una smorfia di dolore.


Mycroft e Greg si precipitarono di corsa a Baker Street. Appena entrati, trovarono Sherlock, ancora dolorante, sdraiato sul divano. Non aveva per niente un bell’aspetto: era pallido e sudava freddo a causa dell’incessante dolore. John, almeno, era riuscito a fermare l’emorragia e, con delle suture arrangiate, aveva sistemato, per quanto possibile, la lieve lesione e la ferita.
“Sherlock, cos’è successo?” chiese il politico, avvicinandosi al fratello.
“A quanto vedo…non avete ritrovato Moran!” sputò tagliente, ignorando la sua domanda.
“Volatilizzato…come il suo capo…!” rispose Greg abbattuto.
Il detective sbuffò innervosito e lasciò cadere di nuovo la testa sul bracciolo del divano.
John fece cenno a Mycroft di non insistere. Conosceva bene Sherlock e, in quelle condizioni, sarebbe stato inutile provare ad avere una conversazione sensata con lui.

Erano tutti irrequieti nel soggiorno del 221B, quando il telefono del consulente investigativo squillò, distraendoli dai loro pensieri. John si precipitò a prenderlo e lo passò all’amico che era già pronto, con il braccio sano, ad afferrarlo. Era un messaggio.
Ciao fratellino. Hai decisamente sbagliato la tua mossa. Non avresti dovuto giocare sporco proprio con me. Se davvero vuoi regolare i conti una volta per tutte, vieni stasera a Leinster Gardens. So che è un posto che ami particolarmente. Questa volta, però, vieni da solo.

Il detective parve illuminarsi alla vista di quell’invito. Si alzò lentamente dal divano e indossò, con un po' di fatica, sciarpa e cappotto.
“E adesso dove pensi di andare?” gli urlò contro il medico.
“Devo fare una cosa prima dell’appuntamento di questa sera” rispose vago Sherlock.
“Tu non vai da nessuna parte! Né stasera e né adesso!” esclamò l’amico, continuando ad urlare.
“E sentiamo, sarai tu ad impedirmelo?” rispose il detective con aria di sfida.
“Sherlock, basta! Adesso smettila di comportarti così! Metteremo in atto un piano e andremo tutti all’appuntamento di questa sera” incalzò Mycroft, urlando a sua volta.
“Siete voi che dovete smetterla! Andrò da Sherrinford da solo… è una questione tra me e lui!” ringhiò il consulente investigativo furioso.
“Dannazione, Sherlock! Non sei nelle condizioni di dettare regole!” ribatté John “…ti ho medicato quella ferita in modo provvisorio…devi assolutamente andare in ospedale o rischi che si riapra da un momento all’altro!” aggiunse disperato.
“Lo capisci che non ho tempo per queste sciocchezze adesso?” rispose il detective a tono.
“Non hai tempo!? Se la ferita si riapre, rischi un’emorragia… e tu dici che non hai tempo!?” urlò il medico, reprimendo l’impulso di prendere l’amico a pugni.
“Non mi importa, John! Questo non è tra le mie priorità adesso…devo pensare a Sherrinford…è l’unica cosa che conta…quindi lasciami in pace!” esclamò tagliente il consulente investigativo, mentre apriva la porta per uscire.
“Sherlock…” lo chiamò Mycroft, sperando che almeno a lui desse ascolto.
Il fratello parve fermarsi con la maniglia della porta ancora in mano. Poi, senza neanche rispondere, sospirò ed uscì di corsa fuori dall’appartamento.
John era sbalordito da quel comportamento. Non poteva credere che le parole di Sherrinford lo avessero colpito così tanto. Lo avrebbe lasciato andare, per il momento, per farlo calmare. Sperava solo che, alla fine, sarebbe ritornato in sé senza fare niente di avventato.




Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il sedicesimo capitolo! Moran è scappato...d'altronde con questo Sherlock che a volte c'è e a volte si perde, c'era da aspettarselo! Il nostro consulente investigativo sembra aver subito parecchio il colpo datogli dalle parole di Sherrinford. In fondo, Sherlock per tutti quegli anni ha potuto solo immaginare il motivo di tanto odio nei suoi confronti e, probabilmente, non si aspettava che tutto fosse scaturito da tanta sofferenza, che lui stesso aveva causato. Questo non ha fatto altro che portarlo a pensare che, alla fine, tutte le persone intorno a lui soffrano o, addirittura muoiano, a causa sua. Questo Sherlock confuso sarà utile nella lotta finale contro Sherrinford? O il sadico fratello ne approfitterà? Questo lo scoprirete nel prossimo capitolo. Spero che vi sia piaciuto. Grazie a chi continua a seguire la storia...Alla prossima ;)

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Capitolo 17
*** Leinster Gardens ***


                Ti brucerò il cuore


                                             


                                          Leinster Gardens




… “Sherlock…” lo chiamò Mycroft, sperando che almeno a lui desse ascolto.
Il fratello parve fermarsi con la maniglia della porta ancora in mano. Poi, senza neanche rispondere, sospirò ed uscì di corsa fuori dall’appartamento.
John era sbalordito da quel comportamento. Non poteva credere che le parole di Sherrinford lo avessero colpito così tanto. Lo avrebbe lasciato andare, per il momento, per farlo calmare. Sperava solo che, alla fine, sarebbe ritornato in sé senza fare niente di avventato.






Sherlock stava vagando per la città senza una meta precisa. Aveva mentito a John, dicendo di avere qualcosa da fare. In realtà, aveva solo bisogno di uscire di casa. Si sentiva la testa completamente intasata da mille pensieri e sapeva che solo un pò solitudine lo avrebbe aiutato a mettere ordine in quell’enorme caos. Le parole di Sherrinford lo avevano davvero colpito. In fondo, non si era mai realmente chiesto il motivo per cui il fratello ce l’avesse con lui. I genitori gli avevano sempre detto che, già da piccolo, aveva avuto dei problemi psicosociali, che lo avevano portato ad odiare tutto e tutti e che, successivamente, aveva preso di mira proprio lui, poiché era il membro più piccolo e debole della famiglia. Non aveva mai considerato l’idea che, invece, Sherrinford avesse sofferto a causa sua e che il suo odio non fosse altro che rancore accumulato per anni e anni. Con questo non intendeva affatto giustificarlo. Sembrava, però, delinearsi nella sua mente un quadro ben preciso: chiunque gli fosse stato vicino era destinato, inequivocabilmente, a soffrire o a morire. E gli eventi degli ultimi mesi ne erano la prova lampante. Questa volta non avrebbe coinvolto nessuno nella sua lotta contro Sherrinford. Nessuno avrebbe più rischiato la vita a causa sua. Avrebbe affrontato la sua guerra da solo e avrebbe vinto senza mietere altre vittime e sofferenze. C’era un unico problema: John aveva ragione. Non era per niente in buona forma. Si sentiva debole, sicuramente a causa di tutto il sangue perso ed il braccio gli dava delle fitte di dolore lancinanti. Nonostante tutto, avrebbe strinto i denti e si sarebbe avviato, quella sera, verso la chiusura definitiva di quella storia. Avrebbe chiuso i conti con suo fratello una volta per tutte.


Era il tramonto e l’ora dell’appuntamento era sempre più vicina.
John, ancora a Baker Street, con Mary, Greg e Mycroft, era irrequieto e preoccupato. Aveva provato a chiamare il suo migliore amico, ad inviargli numerosi messaggi, ma nessuno dei suoi tentativi aveva ricevuto risposta.
“Non capisco cosa gli sia preso…” borbottò tra sé e sé, mentre percorreva il soggiorno avanti e indietro.
“Dottor Watson, sa meglio di me com’è fatto mio fratello! Gli passerà…” rispose tranquillo Mycroft.
“No, il problema è quello che gli ha detto Sherrinford. Lo ha colpito più di quanto credessi” disse il medico pensieroso.
“Sherrinford!? Cosa gli ha detto?” domandò il politico confuso.
Solo allora John si ricordò che, quando i due ebbero quella conversazione per strada, Mycroft si trovava con Mary sul tetto a tenere a bada Moran e, naturalmente, non aveva sentito niente di ciò che si erano detti.
“Mentre Sherlock cercava di distrarlo, gli ha chiesto il motivo per cui lui lo odiasse così tanto…” iniziò serio il dottore “…e Sherrinford gli ha risposto che lui gli aveva rovinato la vita, che era felice prima che nascesse e che si era preso il tuo affetto e quello dei vostri genitori, lasciandolo da solo e senza niente a cui aggrapparsi” aggiunse cercando di ricordare, meglio che poteva, le parole esatte “…poi quando eravamo qui ad interrogare Moran, Sherlock mi ha detto che aveva ragione, che in fondo lui era la causa di tutte le morti e delle sofferenze che ognuno di noi aveva patito” concluse con tristezza.
“Oh, Sherlock…” esclamò Mycroft, passandosi le mani sul viso, in segno di disperazione.
“Che succede?” gli chiese John apprensivo.
“Conoscendo mio fratello, allora, andrà davvero da solo a quell’appuntamento. Penserà che allontanando tutti, nessuno rischierà più la vita a causa sua” rispose il politico, prendendo il cellulare e provando, a sua volta, a chiamare Sherlock.
“Il solito idiota!” esclamò il medico, sospirando pesantemente “…beh, che lui lo voglia o meno, noi andremo lì questa sera e gli guarderemo le spalle” aggiunse con fermezza, raccogliendo il consenso di tutti i presenti.


Era ormai sera e Sherlock era appena arrivato a Leinster Gardens. Si era fermato tra i numeri 23 e 24: se Sherrinford lo aveva attirato lì, sicuramente sapeva che quello era uno dei suoi nascondigli preferiti. Non dovette aspettare molto, prima che una figura uscisse dall’ombra con un malefico sorriso.
“William, sono contento che tu sia venuto. Devo dirtelo, fratellino…non hai una bella cera! Deve essere a causa del regalino che ti ha lasciato Sebastian…” disse divertito.
In effetti Sherlock non poteva negarlo. Non si sentiva affatto bene. Era quasi sicuro che la ferita si stesse pian piano riaprendo. Sperava solo che la sutura provvisoria di John, avrebbe resistito un altro po', almeno fino a quando non avesse concluso la faccenda.
“Sto bene, non preoccuparti! Beh, come vuoi procedere?” chiese il detective con freddezza.
“Sai, ho pensato molto a quello che hai detto l’altra sera e devo ammettere che hai ragione. Il nostro gioco è durato anche troppo, come hai detto tu, mi resta da fare solo una cosa per vincere la partita…ucciderti!” esclamò Sherrinford, prendendo la pistola che aveva nella giacca e puntandola contro il fratello.
Il consulente investigativo si rese conto, solo in quel momento, di essere uscito di casa, quel pomeriggio, senza neanche prendere la pistola. “Che razza di idiota!” esclamò tra sé e sé. Si disse che solo un imbecille si sarebbe presentato ad un incontro con un pazzo assassino semplicemente disarmato. Cercò, allora, di prendere tempo come meglio poteva, in attesa che gli venisse una qualche idea geniale che potesse salvarlo da quella situazione.
“Sai Sherrinford…così mi deludi! Chiudere la partita in un modo così poco elegante non è proprio da te!” disse poi, cercando di non far trasparire la preoccupazione che lo stava assalendo.
“Si, hai ragione! Non è per niente elegante! Ma devo dirtelo: mi sono stancato di giocare…quindi adesso, dì pure addio alla tua patetica vita, fratellino” rispose il secondogenito, caricando la pistola.
“Non azzardarti a sparare, bastardo, se non vuoi ritrovarti con un proiettile nel cervello!” esclamò John, uscendo dall’oscurità alle spalle di Sherrinford. Il nemico era così preso dalla conversazione con il fratello che non aveva sentito il medico avvicinarsi furtivamente dietro di lui.
“John, che ci fai qui?!” chiese Sherlock contrariato.
“Ti salvo la vita…come al solito!” rispose il dottore, accennando un sorriso.
“Bene, bene…anche il dottor Watson si unisce a noi…quale onore!” esclamò Sherrinford con sarcasmo.
“Getta la pistola a terra!” ordinò John con il suo tono da soldato.
“Beh, non lo so…fammi pensare un attimo…alla fine potrei comunque uccidere Sherlock…tu mi spereresti, lo so…ma tutto sommato morirei soddisfatto…almeno saprei di portare con me, all’altro mondo, anche il mio caro fratellino…è un’idea allettante, davvero!” rispose il secondogenito con un’espressione da pazzo sul viso.
John, nel sentire quelle parole, parve perdere momentaneamente la sua freddezza da soldato. Sapeva che avrebbe potuto farlo. In fondo, anche lui, come Moriarty, era capace di sacrificare la sua vita pur di raggiungere il suo scopo.


Mycroft e Greg, intanto, erano in giro a cercare Moran. Sapevano che Sherrinford non sarebbe mai venuto davvero da solo, almeno non senza il suo cecchino che gli guardava le spalle. Lo videro appostato tra alcune siepi, leggermente distante dal suo capo, con il fucile già pronto per mirare e sparare. I due si fiondarono su di lui, prendendolo alle spalle e immobilizzandolo al suolo.
“Eccoti qui! Ci rivediamo…” esclamò Mycroft “…questo è per aver osato toccare mio fratello!” aggiunse, sferrandogli un potente gancio destro sul viso che gli ruppe il naso.
Greg guardava il politico con un’espressione sorpresa. In tutti quegli anni, si era abituato a vederlo sempre calmo e pacato, nel suo costoso completo elegante, mentre dava semplicemente ordini senza muovere un dito. E ora, nel vederlo così aggressivo, non gli sembrava neanche più lui.
“Bel colpo!” riuscì soltanto a dire, non riuscendo a nascondere la sua espressione sorpresa.
“La ringrazio, ispettore!” rispose Mycroft “…beh, ora occupiamoci di lui, garantendoci che questa volta non possa più scappare” aggiunse con uno strano sorriso sul viso.

Mary, invece, era appostata dal lato opposto della strada rispetto a dove si trovava Moran. Era armata e pronta, aspettando il momento in cui il marito gli avesse fatto cenno di intervenire. Per ora, si limitava ad osservare la scena a debita distanza.


Sherlock, Sherrinford e John erano rimasti immobili nelle loro posizioni. Ognuno era fermo, aspettando la mossa dell’altro.
Il medico cercò di pensare velocemente ad un modo per sbloccare quella situazione. Gli venne in mente solo un’idea: era decisamente pericolosa, ma rimanere fermi, in attesa che l’avversario si convincesse ad uccidere il fratello a sangue freddo, lo era maggiormente. Fece un cenno a Sherlock, sperando che capisse le sue intenzioni. Con uno scatto repentino, afferrò il braccio con cui Sherrinford teneva la pistola, facendogliela cadere dalle mani, poi lo afferrò da dietro, cingendogli il collo con il braccio libero e puntandogli l’arma alla tempia. Sherlock, intanto, si precipitò ad afferrare la pistola caduta al fratello e gliela puntò contro.
“Davvero un’ottima mossa, dottor Watson!” esclamò Sherrinford divertito “…peccato che non abbia considerato un elemento importante” aggiunse, facendo un segnale nella direzione di Moran. Nel momento in cui si rese conto che non accadeva niente, il sorriso sparì dal suo volto. Questa volta fu il turno del medico di ridere.
“Mi sa che il suo cecchino non è di nuovo disponibile!” rispose con sarcasmo.
Il volto del secondogenito si tramutò in una maschera di rabbia e frustrazione. Non poteva credere che fossero riusciti a fregarlo una seconda volta.
Mary, intanto, dopo aver assistito a tutta quella scena, uscì dal nascondiglio e si avvicinò a loro. Questa volta Sherrinford non aveva scampo. Lo avrebbero immobilizzato e lo avrebbero rinchiuso di nuovo in cella, assicurandosi questa volta che nessuno avesse potuto aiutarlo a scappare. Sembrava tutto risolto per il meglio, ma come spesso accade, anche i piani migliori a volte non riescono a prevedere tutte le eventualità.
Quello che accadde nei minuti seguenti, non era decisamente previsto. Sherlock, che fino a quel momento era riuscito a controllare il dolore della ferita, cadde a terra in ginocchio, gemendo e tenendosi il braccio, lasciando andare la pistola. John, nel vedere l’amico crollare, ebbe un attimo di esitazione, che permise a Sherrinford di disarmarlo e di colpirlo, con una gomitata nello stomaco, facendolo finire al suolo. Il secondogenito impugnò la pistola del medico puntandola verso Sherlock. John, allora, con uno scatto repentino, si alzò e si avventò sulle spalle dell’avversario, nel tentativo di fermarlo. Mary, che era decisamente vicina alla scena, cercò di mirare verso il nemico, ma con il marito su di lui, non poteva rischiare di sbagliare. Fu in quel momento che partirono due colpi a distanza di alcuni secondi l’uno dall’altro. Tutti si ritrovarono a terra senza capire, però, chi avessero colpito.





Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il diciassettesimo capitolo! Avevo intenzione, come da programma, di finirlo e pubblicarlo entro domani, ma se ad alcuni le notti insonni portano consigli, a me, a quanto pare portano ispirazione. Visto che l'ho finito prima, ve lo anticipo! Questa volta il finale è un pò cattivello... Ma un pò di suspense ci sta!
Comunque qui abbiamo, all'inizio, il punto di vista di Sherlock e successivamente, il massimo dell'idiozia che tutta questa storia gli ha portato! (se lo dice pure da solo, infatti!).
La scena di Mycroft che rompe il naso a Moran, come vendetta per aver ferito il fratello, è stata quella che mi è piaciuta di più scrivere! *.*
Il nostro caro John, come sempre, è quello adatto a salvare la situazione per quello che può naturalmente. Quindi, sono partiti due colpi: uno sicuramente dalla pistola di Sherrinford diretto al nostro consulente investigativo e l'altro? Mary ha avuto il coraggio di sparare alla fine? O è stato Sherlock? O qualcun'altro? Beh, questo lo scoprirete nel prossimo capitolo.
Grazie come sempre a chi continua a seguire la storia. Alla prossima ;)

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Capitolo 18
*** Un triste addio ***


                 Ti brucerò il cuore






                                                  Un triste addio



… Il secondogenito impugnò la pistola del medico puntandola verso Sherlock. John, allora, con uno scatto repentino, si alzò e si avventò sulle spalle dell’avversario, nel tentativo di fermarlo. Mary, che era decisamente vicina alla scena, cercò di mirare verso il nemico, ma con il marito su di lui, non poteva rischiare di sbagliare. Fu in quel momento che partirono due colpi a distanza di alcuni secondi l’uno dall’altro. Tutti si ritrovarono a terra, senza capire, però, chi avessero colpito.






John si ritrovò a terra sopra Sherrinford. Era completamente ricoperto di sangue e, cercò di mettersi in piedi e tastarsi, per capire se fosse suo o meno. Nel momento in cui guardò il nemico, però, vide che aveva un foro di proiettile in mezzo alla fronte. Era morto e, naturalmente, capì che il sangue proveniva da lì. Il suo primo pensiero fu Sherlock. Alzò lo sguardo e lo vide accasciato a terra con qualcun altro sopra di lui.

Il consulente investigativo si ritrovò anch’egli a terra. La ferita al braccio aveva ripreso a sanguinare copiosamente ed iniziava ad avere freddo. Nel tentativo di alzarsi, però, si accorse di avere qualcuno addosso. Capì subito che, questo qualcuno, si era buttato su di lui per fargli da scudo contro il proiettile di Sherrinford. Quello che riconobbe immediatamente fu il suo profumo: Claire de la lune.
“Mary!?” esclamò allarmato.
Vedendo che la donna non rispondeva, raccolse le poche forze che aveva, per adagiarla sull’asfalto e controllare dove fosse ferita. In questo frattempo, si precipitò anche John su di loro.
“Sherlock…Mary!” esclamò il medico terrorizzato. Da lontano non aveva capito chi dei due fosse stato colpito, poi, appena vide la donna a terra priva di sensi, si accorse della ferita da arma da fuoco che aveva all’addome.
Le cose erano andate così: Mary si era resa conto che, da quell’angolazione, non poteva sparare a Sherrinford senza rischiare di colpire il marito. Decise, così, di fare l’unica cosa che potesse salvare Sherlock, mettersi davanti a lui e intercettare lo sparo del nemico. Dopo essere stata colpita, prima di crollare sul detective, si accorse di essere nella posizione giusta per poter colpire l’avversario. Così, prese la mira e sparò quel corpo mortale.

John, con fare professionale, iniziò a controllare la ferita e diede alla moglie dei colpetti al viso per cercare di farle riprendere conoscenza.
Il detective, invece, era in ginocchio accanto a loro, si teneva il braccio ferito e li guardava quasi sotto shock. Era andato a quell’appuntamento da solo proprio per evitare che qualcuno ci andasse di mezzo al posto suo e, nonostante tutto, non era riuscito nel suo intento.
Mary, sollecitata dai colpetti del marito, aprì gli occhi lentamente.
“Sherlock…” fu la prima cosa che disse.
“Sono qui…sto bene!” rispose subito il consulente investigativo, capendo che la donna voleva assicurarsi di aver fatto bene da scudo su di lui.
“Non avresti dovuto farlo…perché l’hai fatto?” chiese Sherlock con gli occhi pieni di lacrime.
“Ti ho restituito il favore…tu hai sacrificato tutto te stesso per proteggere me e la mia famiglia da Magnussen, hai fatto di tutto per convincere John a perdonarmi…nonostante io ti avessi sparato e, per poco, anche ucciso…” rispose Mary con voce tremante, trattenendo una smorfia di dolore.
John, intanto, aveva chiamato un’ambulanza e stava cercando di fermare l’emorragia. Ma c’era così tanto sangue che non riusciva neanche a vedere il foro d’entrata. Era un medico. Capiva la gravità della situazione, ma non voleva arrendersi.
“John…” lo chiamò lei, guardandolo negli occhi “…lascia stare…sai meglio di me che non c’è più niente da fare…” aggiunse, mentre una lacrima cadeva sull’asfalto.
“No…no…non dire così… tu ce la farai…devi farcela…per me…per Sherlyn…!” esclamò il marito, iniziando a piangere.
“John…” lo chiamò di nuovo, invitandolo a guardarla negli occhi “…ti prego, basta…” aggiunse, riuscendo ad alzare il braccio e a mettere la mano su quelle del marito che premevano sul suo petto.
Fu in quel momento che il medico alzò lo sguardo e la guardò in viso. Vide che gli stava sorridendo. Anche in quell’occasione stava cercando di rassicurarlo, con quello sguardo che voleva dirgli che tutto sarebbe andato bene. Ma come poteva andare tutto bene? Come avrebbe fatto a crescere Sherlyn da solo senza di lei?
“Non puoi lasciarmi…” disse tra i singhiozzi che iniziavano a scuotere il suo corpo “…come faremo senza di te? Come posso crescere nostra figlia da solo?” aggiunse, riuscendo a tramutare i pensieri in parole.
“Ce la farai...sei un uomo straordinario, John!” rispose la moglie, sorridendo e piangendo allo stesso tempo “…e poi non sei solo…” aggiunse, volgendo lo sguardo verso Sherlock.
“Ti prenderai cura di lui per me?” chiese al detective.
Il consulente investigativo sorrise tra le lacrime. Si ricordò che quella era la stessa domanda che lui le fece, prima di salire su quel maledetto aereo.
“Non preoccuparti, lo terrò impegnato” rispose, usando le stesse parole che la donna gli disse quel giorno.
“Bravo ragazzo” incalzò lei, riprendendo l’espressione che lui gli rivolse su quella pista. Gli regalò un enorme sorriso. Poi guardò di nuovo verso John.
“Sei stato il marito migliore che avessi mai potuto desiderare…so che darai a nostra figlia tutta la felicità che sei riuscito a dare a me…” disse al marito, con il respiro decisamente affannato “…dai un bacio a Sherlyn…da parte mia…dille che le voglio bene…” aggiunse, contorcendosi per una fitta di dolore “…ti amo, John…” concluse, sorridendogli e chiudendo definitivamente gli occhi.
“Ti amo anch’io…” riuscì a rispondere soltanto il medico, poggiando la testa sul suo petto e iniziando a piangere disperato.

Sherlock osservava impotente la disperazione del suo amico. Avrebbe voluto consolarlo in qualche modo, ma sapeva che non c’era niente che avrebbe potuto dire per alleviare il suo dolore. Improvvisamente, un’altra fitta lancinante gli percosse tutto il braccio come una forte scarica elettrica. Un gemito gli sfuggì dalle labbra, mentre si piegava leggermente in avanti e si stringeva il braccio con forza. Il freddo si era ormai impadronito di lui, tremava in modo incontrollato e tutto iniziò a diventare sfocato.
John, sentendo il lamento dell’amico, alzò il viso ancora pieno di lacrime su di lui. Fu allora che si accorse che, sul lato destro del detective, in corrispondenza del braccio ferito, si era creata una piccola pozza di sangue. Preso dal suo istinto di medico, accantonò come meglio poteva il suo dolore per soccorrere Sherlock. Gli tolse il cappotto e la giacca per capire cosa stesse succedendo e la vide: la manica della camicia bianca era diventata completamente rossa; non solo la ferita si era riaperta completamente, ma stava perdendo molto sangue.
Il detective, sforzandosi di rimanere inginocchiato davanti all’amico, si poggiò a lui con il braccio sano e cercò di alzare la testa per guardarlo negli occhi.
“Mi dispiace, John…è tutta colpa mia…ti prego, perdonami…” disse tra le lacrime, mentre veniva sopraffatto da un’altra fitta di dolore.
“Shh…non dire così, Sherlock…per favore…” rispose John, anch’egli tra le lacrime.
Subito dopo, il consulente investigativo gli cadde addosso privo di sensi.
Il medico non riuscì più a muoversi. Rimase fermo lì, con la moglie morta di fianco, il migliore amico morente tra le braccia e lo sguardo perso nel vuoto dei suoi pensieri.
In quel momento, due figure si avvicinarono di corsa. Erano Mycroft e Greg. Avevano consegnato Moran ad una squadra dell’MI5 ed erano accorsi appena sentiti gli spari. Quando, però, si resero conto di tutto quello che era successo, rimasero paralizzati dal terrore.
“Cristo…” esclamò Greg, mettendosi le mani nei capelli.
“Sherlock!” urlò Mycroft, prendendo il fratello dalle braccia dell’amico e adagiandolo con cura sull’asfalto.
Lestrade, intanto, si era avvicinato a John per aiutarlo a mettersi in piedi. Si rese conto che era sotto shock: aveva il battito accelerato, sudava e ansimava pesantemente.
“John…cerca di respirare lentamente…John!” continuava a ripetergli l’ispettore, senza avere da lui nessuna reazione. Subito dopo, il medico gli crollò svenuto tra le braccia.
L’ambulanza arrivò pochi minuti più tardi. Non poterono fare altro che costatare la morte di Mary, così caricarono Sherlock e, alcuni paramedici rimasero con John in attesa dell’arrivo di un altro mezzo di soccorso.


Il dottore si risvegliò all’improvviso. Si sentiva la testa pesante. Capì di essere in ospedale e si ricordò di tutto ciò che era successo. Cercò di mettersi seduto, ma una figura accanto a lui lo fermò.
“Non muoverti, John…devi riposare” gli disse l’uomo dolcemente.
“Greg!?” esclamò il medico, cercando di mettere a fuoco chi aveva di fronte “…ho avuto un collasso in seguito allo shock, vero?” aggiunse poi, sapendo già la risposta.
L’ispettore si limitò a sorridergli annuendo. Non sapeva cos’altro dirgli.
“Mary è…” riprese John, non riuscendo a continuare la frase. Sapeva che per la moglie non c’era più niente da fare, ma doveva esserne certo.
“Si…mi dispiace…” rispose tristemente Greg.
Il medico chiuse gli occhi ed annuì. Cercò di trattenere le lacrime e di non crollare di nuovo davanti all’amico. Si disse che non era proprio il momento di mostrarsi così debole. Improvvisamente, ricordandosi del suo migliore amico, aprì di scatto gli occhi e si voltò terrorizzato verso l’ispettore.
“Come sta Sherlock?” chiese con voce tremante. Aveva paura della risposta. Appena vide che Lestrade aveva abbassato lo sguardo, iniziò a pensare il peggio “…ti prego, Greg rispondimi…non dirmi che anche lui è…” aggiunse in preda al panico.
“No, no…è vivo…calmati!” rispose subito l’altro.
“E allora? Come sta?” chiese di nuovo il dottore.
“John, devi stare tranquillo…non devi agitarti nelle tue condizioni…” disse l’ispettore con calma “…lo hanno operato d’urgenza, aveva una grave lesione ad un’arteria, sembra abbiano detto all’arteria brachiale…hanno dovuto fargli delle trasfusioni a causa di tutto il sangue che aveva perso…l’intervento è andato bene…ma, purtroppo…non sanno se e quando si sveglierà…” aggiunse, cercando di spiegare tutto con precisione.
“È in coma!?” domandò disperato.
Greg annuì, abbassando lo sguardo e iniziando a fissare il pavimento.
John, allora, lasciò cadere la testa sul cuscino e si mise le mani sul viso. Aveva provato in tutti i modi a contenersi, ma dopo quest’ennesima notizia, le lacrime iniziarono ad uscire prepotentemente e si ritrovò a singhiozzare, perdendo completamente il controllo di sé.

Il giorno dopo il dottore venne dimesso dall’ospedale. La prima cosa che fece, fu quella di andare in obitorio a dare un ultimo saluto a sua moglie. Appena arrivò, una triste Molly gli fece le condoglianze e gli indicò la stanza dove giaceva il cadavere. Era lì, distesa su quel tavolo. A vederla sembrava quasi che dormisse. Si avvicinò e si mise ad osservarla con tristezza. Poi si schiarì la voce e parlò.
“Mary, c’è una cosa che non sono riuscito a dirti…anche tu sei stata la moglie migliore che avessi mai potuto desiderare…mi hai fatto il dono più grande che potessi mai ricevere…mi hai regalato la gioia di diventare padre…non finirò mai di ringraziarti, per quello che hai fatto per me in quei due anni in cui Sherlock era… ora capisco perché l’hai fatto…perché hai deciso di fargli da scudo…hai visto, allora, quanto la sua perdita mi avesse distrutto e volevi impedirmi di crollare di nuovo…ma sai, anche la tua morte fa male…! Quello che ti prometto è che sarò forte…sarò forte per Sherlyn e non ti deluderò…te lo giuro!” fece questo monologo davanti al corpo senza vita della moglie. Qualche lacrima gli rigò il viso, poi fece un profondo respiro e, con il suo atteggiamento da soldato, si voltò, pronto ad affrontare la vita anche senza di lei.
Appena uscito dall’obitorio, andò nella stanza di Sherlock. Le condizioni erano stabili, ma i medici non osavano pronunciarsi su un suo possibile risveglio. Su una sedia accanto al suo letto c’era uno stanco Mycroft, che aveva la testa poggiata sul braccio sano del fratello, mentre gli stringeva la mano.
“Mycroft…” lo chiamò il medico, entrando nella stanza.
“John…” rispose il politico alzando la testa. Era decisamente distrutto. Aveva perso anche il solito tono formale con cui soleva rivolgersi a lui.
“Novità?” chiese John, guardando l’amico.
“No…” rispose tristemente Mycroft, abbassando lo sguardo rassegnato.
“Vai a riposarti un po'…rimango io con lui” disse il medico.
Il politico non si oppose. Era senza forze. Sapeva che non avrebbe potuto riposare con il fratello in quelle condizioni, ma, almeno, gli avrebbe fatto bene rinfrescarsi un po'.
“Ritorno più tardi…” disse, dando un bacio a Sherlock sulla fronte ed uscendo dalla stanza.
John si sedette sulla sedia accanto al letto. Prese la mano dell’amico e iniziò a stringerla tra le sue. Non poteva vederlo in quelle condizioni, faceva troppo male, quasi da togliere il respiro.
“Sherlock…” lo chiamò, mentre una lacrima gli rigava il viso e cadeva sulle mani intrecciate "…ti prego…torna da me…non lasciarmi anche tu…per favore…” aggiunse, portandosi la mano dell’amico sulla fronte e iniziando a singhiozzare.
La mano del detective, all’improvviso, parve avere uno spasmo. John alzò di scatto la testa e iniziò a fissarlo in fremente attesa. Non poteva esserselo immaginato.
“Sherlock…” lo chiamò nuovamente.
Il consulente investigativo iniziò a muoversi e lentamente aprì gli occhi. Si voltò piano verso di lui e lo guardò intensamente con i suoi occhi chiari e penetranti. Quella, per John, fu la scena più bella e confortante che avesse potuto desiderare dopo tutto quello che era successo.
“John…” disse con fatica il detective.
“Sherlock!” urlò il dottore, alzandosi di scatto dalla sedia, facendola cadere a terra e abbracciandolo con tutta la forza che aveva.
“Piano…piano…” rispose Sherlock con una smorfia di dolore.
“Oh, scusami…” esclamò John allontanandosi da lui, ridendo a piangendo allo stesso tempo.
Il consulente investigativo gli sorrise a sua volta; poi, però, abbassò lo sguardo, iniziando a fissare un punto indefinito del pavimento.
“John…io…” iniziò con voce tremante, cercando di trovare le parole giuste “…mi dispiace…davvero tanto…io non…è stata tutta colpa mia…non volevo che…” aggiunse, senza riuscire ad articolare una frase completa.
“Sherlock…non è stata colpa tua! È successo e basta!” rispose il dottore con un tono un po' duro.
Il detective avrebbe voluto dirgli tante cose, ma le parole non volevano saperne di uscire. Voleva dirgli che desiderava davvero di essere morto al posto di Mary. Quella sera, infatti, era andato da solo all’appuntamento proprio per quello. Nonostante una parte di lui era intenzionata a vincere contro Sherrinford, un’altra parte, nel più profondo, quasi sperava che il fratello lo uccidesse sul serio, che ponesse fine a tutto quel dolore, a tutto quel caos che, ormai, regnavano dentro di lui. Era stanco di soffrire, era stanco che le persone morissero a causa sua. Se non avesse fatto quella promessa a Mary, aveva quasi la tentazione di ritentare quel cocktail di sostanze che aveva assunto prima di salire su quell’aereo con la speranza, stavolta, di chiudere gli occhi per sempre. Di tutto questo, però, non disse niente. Rimase in silenzio con un senso di colpa che quasi lo lacerava all’interno.
John, intanto, era andato ad avvisare del suo risveglio i medici e Mycroft, lasciandolo da solo nei suoi più profondi ed oscuri pensieri.




Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il diciottesimo capitolo! Beh, un pò struggente lo ammetto, ma la mia teoria sulla quarta stagione prevede una morte importante! Secondo me a giocarsela sono Mycroft e Mary (tra l'altro la morte di Mary è anche presente nelle storie di Doyle)...tra i due era il male minore, per così dire!
Beh, voglio chiarire ciò che John dice davanti alla moglie morta. E' come se Mary avesse fatto una scelta. Sa quanto la morte di Sherlock avrebbe potuto influire sul marito (in fondo lui ha bisogno di ciò che l'amico gli offre e si nota quando dopo il matrimonio non lo vede da un mese e ritornano gli incubi e il tremore alla mano), quindi in un certo senso preferisce sacrificare la sua vita, perchè sa che il marito anche senza di lei può andare avanti (per Sherlyn), ma senza Sherlock crollerebbe come quando l'ha conosciuto. Discorso un pò triste, ma secondo me ha capito che Sherlock e John hanno bisogno l'uno dell'altro allo stesso modo!
Sherlock è sopravvissuto, ma come ne è uscito da questa situazione? Se già prima di affrontare Sherrinford si era convinto che le persone intorno a lui fossero destinate a soffrire o a morire, dopo che Mary ha sacrificato la sua vita per lui, cosa penserà? Riuscirà ad uscire da questa oscurità psicologica che lo sta avvolgendo? Sherrinford sarà stato anche sconfitto, ma ora Sherlock ha una battaglia ancora più importante...quella con se stesso!
Spero vi sia piaciuto... Grazie di seguire la storia come sempre... Alla prossima ;)

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Capitolo 19
*** Ritorno a Baker Street ***


                  Ti brucerò il cuore


 



                                                 Ritorno a Baker Street




… Era stanco di soffrire, era stanco che le persone morissero a causa sua. Se non avesse fatto quella promessa a Mary, aveva quasi la tentazione di ritentare quel cocktail di sostanze che aveva assunto prima di salire su quell’aereo con la speranza, stavolta, di chiudere gli occhi per sempre. Di tutto questo, però, non disse niente. Rimase in silenzio con un senso di colpa che quasi lo lacerava all’interno.
John, intanto, era andato ad avvisare del suo risveglio i medici e Mycroft, lasciandolo da solo nei suoi più profondi ed oscuri pensieri.








Il giorno dopo il risveglio di Sherlock si svolse il funerale di Mary. Fu una funzione molto intima e semplice. Parteciparono tutti: Molly, Lestrade, la signora Hudson, Anderson, Donovan, Sarah e perfino Mycroft e Sherlock. Quest’ultimo avrebbe dovuto passare almeno un’altra settimana in osservazione, ma gli venne concessa un’ora di libertà con la promessa di non sforzarsi e di tornare, subito dopo, in ospedale. Non poteva mancare al funerale di Mary, non dopo quello che aveva fatto per lui. E poi desiderava stare vicino a John e a Sherlyn, anche se era ancora troppo piccola per capire cosa fosse successo.
John, per tutta la funzione, assunse la sua rigida postura da soldato, cercando di apparire forte. Aveva Sherlyn in braccio e, di tanto in tanto, la osservava, quasi come se quei dolci e teneri occhietti riuscissero a dargli la forza che gli serviva in quel momento.
Sherlock aveva un tutore al braccio ferito e non riusciva ancora a stare in piedi completamente da solo. Si reggeva al braccio del fratello, con cui era venuto dall’ospedale, e stava vicino al suo migliore amico, guardandolo di tanto in tanto e restando in un rispettoso silenzio.
Appena la funzione finì, tutti diedero nuovamente le condoglianze a John, salutarono Sherlyn e ritornarono a casa. Il detective, sempre sostenuto dal fratello, rimase fino alla fine anche dopo che tutti se n’erano andati. Si avvicinò al dottore e salutò la piccolina con un sorriso un po' tirato.
“Ciao piccola…” disse a Sherlyn, cercando di sembrare più naturale possibile. La verità, però, era che, vederla tra le braccia di John, non faceva altro che ricordargli che, quell’innocente bambina, non avrebbe avuto più la possibilità di rivedere sua madre e, tutto questo, a causa sua.
“Sono contento che tu sia venuto…come ti senti?” esclamò il medico, guardando dolcemente l’amico e sorridendogli con affetto.
“Bene…” rispose semplicemente Sherlock, abbassando lo sguardo. In quello stesso momento, però, gli venne un piccolo capogiro e dovette reggersi ulteriormente al fratello. Si era sforzato decisamente troppo nel restare in piedi tutto quel tempo.
“Sherlock, che succede?” chiese Mycroft, sentendolo poggiarsi con più forza sul suo braccio.
“Niente…niente…sono solo un po' stanco…” rispose il detective, sbiancando visibilmente.
Il politico e John iniziarono a guardarlo con apprensione. Dal pallore che aveva assunto sembrava che stesse per svenire da un momento all’altro.
“Dannazione, sei bianco come un cencio…devi tornare subito in ospedale!” esclamò apprensivo il medico, reggendo Sherlyn con un solo braccio e passando l’altro intorno alla vita del consulente investigativo in modo da aiutare Mycroft a portarlo verso la macchina. Salì anche lui con i due fratelli. Era intenzionato a lasciare sua figlia dalla signora Hudson e andare con loro in ospedale. Quella donna era diventata un saldo punto di riferimento per lui: non solo era, ormai, la sua baby-sitter di fiducia, ma si comportava con la piccola come una nonna apprensiva e amorevole. Se non fosse stato per lei, avrebbe avuto enormi difficoltà ad occuparsi di Sherlyn e di Sherlock nello stesso momento.


Quella settimana passò velocemente con John e Mycroft che si alternavano, costantemente, in ospedale. Il detective era ritornato in forze, anche se ancora aveva bisogno del tutore per sostenere meglio il braccio e non provare molto dolore. Quel giorno, preso da uno dei suoi soliti attacchi di cocciutaggine, firmò le proprie dimissioni, come sempre, contro il parere dei medici dell’ospedale. Ma, in fondo, era rimasto lì anche oltre il suo limite di sopportazione.
John, per tenere d’occhio il suo migliore amico, ancora convalescente, decise di trasferirsi con Sherlyn momentaneamente a Baker Street, almeno fino a quando non fosse guarito del tutto.
“Non devi sentirti obbligato a restare, John…sto bene…posso cavarmela anche da solo…” gli disse Sherlock, mentre il medico portava un pesante borsone e le cose necessarie per la bimba nella sua vecchia camera di sopra.
“Sherlock, non intendo ritornare sull’argomento! Resterò qui fino a quando non ti sarai ripreso completamente!” rispose John con un tono che non ammetteva repliche.
Il detective dovette arrendersi, sospirando e abbandonandosi sulla sua comoda poltrona.



Era passata un’altra settimana e Sherlock aveva completamente riacquistato la funzionalità del braccio. Quella mattina aveva detto definitivamente addio al tutore e a tutti gli antidolorifici che era stato costretto a prendere per le costanti fitte. Se fisicamente, però, era guarito del tutto, psicologicamente peggiorava di giorno in giorno. Era silenzioso, affabile e anche troppo disponibile a tutte le richieste di John. Di certo non erano comportamenti che gli si addicevano.
Il dottore si accorse che, davanti a lui, manteneva sempre un finto sorriso, nonostante il suo sguardo trasmettesse ben altro. Cominciò così ad osservarlo di nascosto e, in quel modo, riuscì a vedere quanto la situazione fosse grave. In quei momenti, infatti, assumeva un’espressione completamente vuota. Nei mesi passati, durante la lotta contro Sherrinford, aveva visto il suo volto attraversato da una miriade di emozioni diverse: rabbia, tristezza, dolore, rassegnazione. Adesso, invece, non riusciva a leggere niente: il suo sguardo, completamente vuoto, non solo faceva paura, ma era la prova evidente che qualcosa si era rotto dentro di lui e che, questo qualcosa, lo stava divorando lentamente nel profondo. Come se non bastasse, gli incubi erano ritornati e, dai lamenti che sentiva provenire dalla sua camera, erano molto più terrificanti di prima. La mattina lo trovava seduto sulla sua poltrona, distrutto e sconvolto dalla notte appena passata. Non suonava più il violino, non faceva i suoi soliti esperimenti, non si lamentava per casa blaterando e sparando all’impazzata. Sembrava diventato l’ombra di sé stesso.
Una mattina John, stanco di vederlo così, si andò a sedere sulla sua poltrona di fronte a lui e decise di affrontare l’argomento.
“Sherlock…” lo chiamò semplicemente, attirando la sua attenzione.
“Dimmi!” rispose lui, mostrando il suo solito sorriso di circostanza.
“Oh, per favore…smettila di indossare quella maschera con me!” esclamò duramente il medico.
“Maschera? Non capisco di cosa stai parlando, John!” ribatté prontamente il detective.
“Credi davvero che non abbia notato come cambi espressione quando pensi che io non ti veda? Credi che non ti senta di notte lamentarti a causa degli incubi?... Non ti riconosco più, Sherlock! Non riesci più a suonare. Ti ho visto l’altra volta, provare a poggiare l’archetto sulle corde e non riuscire a produrre nemmeno un suono. Non ti dedichi più ai tuoi strani esperimenti, non blateri in preda alla noia e ieri sera ho visto che hai la casella di posta piena di richieste di clienti e le hai tutte completamente ignorate…!” esclamò John con gli occhi lucidi “...Voglio che tu mi parli e mi dica cosa c’è che non va!... Per favore, non escludermi di nuovo dalla tua vita…permettimi di aiutarti, come ho sempre fatto!” aggiunse, mentre una lacrima gli rigava il viso.
Sherlock, colpito duramente da quelle parole, spostò lo sguardo verso il caminetto, mentre alcune lacrime scendevano senza controllo. Rimase, però, in silenzio, senza dare una risposta all’amico.
“Sherlock…guardami, ti prego!” lo chiamò di nuovo il medico con voce rotta.
“Io…non…” provò a dire, ma le parole non riuscivano a venire fuori “…mi dispiace…” aggiunse soltanto, alzandosi di scatto dalla poltrona e chiudendosi in camera sua.
John lo sentì poggiarsi pesantemente con la schiena alla porta, scivolare seduto a terra e iniziare a singhiozzare senza controllo. Era una situazione insopportabile. Se, stranamente, stava riuscendo a controllare il dolore per la perdita di Mary, vedere il suo migliore amico in quelle condizioni, lo stava distruggendo. Sopraffatto da tutte quelle sensazioni, si abbandonò completamente sulla poltrona e si portò le mani al viso, dando libero sfogo alla sua frustrazione.
In quel momento qualcuno entrò nell’appartamento. Il medico cercò di ricomporsi, ma era decisamente tardi per nascondere il suo crollo emotivo.
“Buongiorno, dottor Watson!” esclamò Mycroft entrando “…cos'è successo?” chiese poi allarmato, vedendo John decisamente sconvolto.
“È per Sherlock…non so più cosa fare per aiutarlo…” rispose il dottore con voce tremante. Poi raccontò al politico tutto ciò che era successo. Al termine del racconto, Mycroft si sedette rassegnato sulla poltrona del fratello e si passò le mani sul viso con disperazione. Pensava davvero che, dopo averlo ucciso, fossero riusciti a sconfiggere Sherrinford e, invece, era lui che, anche da morto, stava vincendo la partita: il suo obiettivo era quello di distruggere Sherlock e c’era riuscito fin troppo bene, era riuscito ad insediare dentro di lui pensieri e paranoie che lo stavano divorando dall’interno senza che loro riuscissero a fermarlo.

Erano passati alcuni giorni da quell’episodio e John e Mycroft, cercavano in tutti i modi di risollevare Sherlock dall’oscurità che lo stava avvolgendo. Chiesero aiuto anche a Greg, pregandolo di trovare un caso, anche irrilevante, da provare a proporgli. Quella mattina l’ispettore si recò a Baker Street con il suo solito tono d’urgenza per provare a smuoverlo.
“Sherlock! Per fortuna sei in casa!” esclamò, entrando nell’appartamento di corsa.
Il detective, dalla sua poltrona, gli fece un cenno con la mano in segno di saluto e non disse altro.
“Ho bisogno di te per un omicidio! Vieni con me?” gli chiese affannato.
“Questa volta dovrai cavartela da solo, Lestrade! Sono impegnato!” rispose prontamente Sherlock con lo sguardo basso.
John e Mycroft, intanto, si scambiavano occhiate confuse con l’ispettore.
“Sei impegnato ad osservare il pavimento?” provò Greg con sarcasmo.
Il consulente investigativo, continuando a non rispondere, si alzò lentamente dalla poltrona e si diresse, per l’ennesima volta, in camera sua, chiudendosi la porta alle spalle.
“Cristo Santo!” esclamò Lestrade “…è peggio di quello che pensassi!” aggiunse, sospirando rassegnato.
“Già…” riuscì a rispondere semplicemente John, scambiandosi uno sguardo disperato con Mycroft.


La mattina dopo il fallimentare tentativo di Greg, John decise, appena sveglio, che avrebbe lasciato Sherlyn dalla signora Hudson, trascinando Sherlock fuori di casa con una qualsiasi scusa. Era intenzionato a smuoverlo, anche se ciò voleva dire prenderlo letteralmente di peso e portarlo fuori.
Il detective, come ogni mattina, giaceva catatonico e sconvolto sulla sua poltrona. Il medico notò che, stranamente, era completamente vestito e non aveva la sua solita vestaglia da camera. Non gli diede molta importanza e andò con la figlia al piano di sotto. Mentre dava alla donna tutto l’occorrente necessario per la bambina, sentì degli strani rumori provenire dall’appartamento di sopra. Subito dopo, il consulente investigativo corse giù per le scale ed uscì fuori con una grande fretta.
John, sconvolto da quel comportamento, provò a seguirlo, ma nel momento in cui fece per raggiungerlo, si accorse che il suo amico era già scomparso in mezzo al caos cittadino. Preso da uno strano presentimento, andò di sopra per capire cosa lo avesse spinto a scappare in quel modo. Appena entrò nel soggiorno, il suo cuore perse un battito. I cassetti della scrivania erano stati completamente svuotati e, il doppio fondo del secondo cassetto era stato distrutto. Sherlock aveva trovato il nascondiglio in cui John aveva nascosto la sua maledetta scatolina: all’interno, non solo c’era tutto l’occorrente per drogarsi, ma c’erano così tante sostanze da indurre, a chiunque, un’overdose fatale. Iniziò a maledirsi per non averla buttata quel giorno. Non capiva perché avesse pensato solo a nasconderla invece di provvedere a farla sparire, in modo definitivo, da quella casa. Non sapeva cosa fare, così in preda al panico decise di chiamare Mycroft.
“Dottor Watson che succede?” chiese il politico, già allarmato per la chiamata di prima mattina.
“Mycroft…Sherlock è scappato…non so dove sia andato…ha trovato la scatolina che gli avevo nascosto…non so che intenzioni abbia…ho paura…dobbiamo trovarlo!” esclamò il medico, ansimando pesantemente.
“Dannazione!” rispose disperato Mycroft “…la passo subito a prendere…chiamo anche l’ispettore Lestrade…lo troveremo!” aggiunse, chiudendo velocemente la telefonata. Il politico, mentre correva verso la sua auto, pensò a tutte le volte in cui il fratello era scappato di casa diretto in qualche vicolo o bettola per strafarsi di chissà quali sostanze. Di solito, lo aveva sempre ritrovato vivo, ma in condizioni pessime. Questa volta, però, aveva un brutto presentimento. Sherlock gli parlava di “uso controllato”, ma da come era sconvolto non sapeva se, anche stavolta, sarebbe riuscito a mantenere il suo famoso controllo. Cercò di togliersi questi orribili pensieri dalla testa. Sembrava un incubo, ma doveva cercare di sperare che, di nuovo, tutto sarebbe andato per il meglio.

Dopo essersi incontrati davanti al 221B, i tre si misero alla disperata ricerca di Sherlock.
John aveva provato a chiamarlo e a mandargli un’infinità di messaggi senza riceve risposta. Dovevano assolutamente trovarlo. Nelle sue condizioni avrebbe potuto fare qualsiasi cosa e, il solo pensiero, lo inondava di puro terrore. “Sherlock, dove sei? Che diamine vuoi fare?” Si chiedeva disperato tra sé e sé. Qualunque fossero state le intenzioni dell’amico, sperava solo di arrivare in tempo per fermarlo.









Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il diciannovesimo capitolo. Avrei dovuto pubblicarlo domani, ma visto che era già pronto, ho deciso di anticipare! Beh, il nostro Sherlock non sta per niente bene...e credo si noti abbastanza! Il finale è un pò cattivello lasciato così, ma ormai un pò di suspense ci sta sempre. E' inutile chiedersi quali siano le intenzioni di Sherlock, in fondo alla fine del capitolo precedente lui stesso pensava che avrebbe tanto voluto riprovare un cocktail di droghe, andando in overdose e, magari, non risvegliarsi più. Riusciranno a trovarlo prima che lo faccia? Beh, non posso dirvi come andrà, ma io qualche fazzoletto lo preparerei per il prossimo capitolo. Per favore non me ne vogliate male!
Grazie per chi sta seguendo la storia e lasciate pure commenti, che sono sempre graditi ;)
Alla prossima ;)

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Capitolo 20
*** La lapide nera ***


                Ti brucerò il cuore





                                              La lapide nera



… John aveva provato a chiamarlo e a mandargli un’infinità di messaggi, senza riceve risposta. Doveva assolutamente trovarlo. Nelle sue condizioni avrebbe potuto fare qualsiasi cosa e, il solo pensiero, lo inondava di puro terrore. “Sherlock, dove sei? Che diamine vuoi fare?” Si chiedeva disperato tra sé e sé. Qualunque fossero le intenzioni dell’amico, sperava solo di arrivare in tempo per fermarlo.






Sherlock si era svegliato di soprassalto nel cuore della notte. Aveva il battito accelerato, era madido di sudore e sentiva il corpo tremare, ancora scosso, dall’incubo che aveva appena avuto. Questi bruschi risvegli, purtroppo, erano diventati una routine. Gli incubi erano ormai ingestibili ed insopportabili: passavano dalla Serbia alla caduta, da Sherrinford a Barbarossa, dai suoi genitori ad Irene, da Mycroft agonizzante a Mary morente; a volte anche tutti insieme. Si sentiva la testa scoppiare. Stava cercando di essere forte per John e per la promessa che aveva fatto a Mary, ma la verità era una sola: non ce la faceva davvero più. Quella notte, rimase a guardare il soffitto immerso in questi cupi pensieri, mentre alcune lacrime gli attraversavano il viso e cadevano sul suo cuscino. In fondo John aveva ragione: non riusciva più a suonare, non riusciva più a dedurre, non riusciva più a ritrovare l’entusiasmo per i suoi strani esperimenti, per le scene del crimine, per i casi, per il suo lavoro, non riusciva più ad essere sé stesso, non riusciva più ad essere Sherlock Holmes. Dentro di lui c’era solo un enorme e spaventoso vuoto. “Che senso ha vivere così?” si chiedeva tra sé e sé. Appena la luce del sole iniziò a penetrare nella sua stanza, si alzò stancamente dal letto, si vestì e si trascinò, come tutte le mattine, sulla sua poltrona. Aveva preso la sua decisione. Era una mossa codarda, ma in fondo, Sherrinford aveva vinto, era riuscito a distruggere tutto di lui: la sua mente, la sua identità, la sua vita. Ormai sapeva dove John aveva nascosto la sua amata scatolina, così aspettò che l’amico scendesse dalla signora Hudson e la recuperò di fretta, uscendo velocemente di casa, diretto verso la fine di quell’incubo.



John, Mycroft e Greg stavano girando da ore per la città. Avevano già ispezionato tutti i nascondigli segreti di Sherlock, compreso Leinster Gardens, ma con scarsi risultati. Il politico aveva anche fatto analizzare i video di sorveglianza della città, ma com’era prevedibile, era riuscito ad evitare tutte le telecamere. In fondo, lo sapeva: il fratello aveva la capacità di sparire nel nulla senza lasciare traccia di sé.
“Credo che la scelta migliore sia quella di dividerci…almeno possiamo controllare più posti in modo più veloce!” esclamò Lestrade pensieroso.
“Si, Greg ha ragione! Meno tempo sprechiamo e più possibilità abbiamo di trovarlo sano e salvo!” incalzò deciso John.
“Bene…allora…io andrò in quel covo dove il dottor Watson l’ha trovato un po' di tempo fa!” rispose Mycroft, convinto che quello fosse il posto più probabile dove trovare il fratello.
“Io andrò al Bart’s…proverò anche sul tetto, visto che l’ultima volta che è scappato, John l’ha ritrovato lì…!” disse Greg anch’egli convinto.
Il dottore parve pensare un momento prima di scegliere il posto dove cercarlo. Chiuse gli occhi per un secondo e cercò di immaginare cosa avesse potuto partorire la mente del suo migliore amico. Poi li riaprì di scatto colto improvvisamente da un’idea.
“Io andrò al cimitero! Potrebbe essere andato alla tomba di Mary…!” esclamò poi, un po' incerto. Non era molto convinto che quello fosse il posto giusto, ma non gli venivano idee migliori.
Fu così che i tre si divisero, sperando che almeno una di queste intuizioni fosse quella giusta.
Mycroft e Greg arrivarono rispettivamente nei posti stabiliti, ma non ebbero decisamente fortuna: di Sherlock non c’era alcuna traccia.
John, intanto, era arrivato in taxi al cimitero. Arrivò di corsa davanti alla tomba di Mary con la forte speranza di trovarlo lì, ma, con sua enorme delusione, il posto era completamente deserto. Preso da un senso di disperazione, si mise le mani nei capelli e si inginocchiò a terra decisamente esausto.
“Oh, Sherlock…. dove sei?... Dove diamine sei?” ripeteva come una cantilena, iniziando a piangere e a singhiozzare. Mentre si lasciava andare allo sconforto, la sua mente venne improvvisamente attraversata da un lampo di genio: la tomba di Sherlock era rimasta intatta in quel cimitero. Non sapeva perché dopo il suo ritorno non l’avessero fatta togliere, ma valeva la pena provare anche lì. Si alzò di scatto e corse verso il punto dove giaceva la lapide nera e fu allora che lo vide. Giaceva seduto e immobile a terra, con la schiena e la testa poggiate sul marmo dove era inciso il suo nome, gli occhi chiusi, la manica della camicia arrotolata per lasciare spazio al laccio emostatico e la siringa ancora in mano. Poco più in là c’erano il cappotto e la giacca, buttati a terra in malo modo e un bel po' di fialette vuote che contenevano chissà quali sostanze. Il medico nel vedere quella scena, rimase come pietrificato. Non aveva il coraggio di avvicinarsi, era troppo terrorizzato dall’idea di controllargli il polso e non sentire alcun battito come quel maledetto giorno dopo la sua caduta dal tetto. Prese un profondo respiro per farsi forza e corse verso di lui.
“Sherlock!” urlò, mentre si avvicinava, ma il detective non accennava a muoversi.
“Sherlock!?” lo chiamò di nuovo con una leggera incertezza nella voce, fermandosi davanti a lui.
Il consulente investigativo, allora, aprì lentamente gli occhi e lo osservò con uno sguardo stanco e sofferente. Il medico si accorse che, non solo stava piangendo, ma che la siringa, nella sua mano tremolante, era completamente piena. Si avvicinò a lui per osservargli il braccio scoperto e non c’era nessun segno che indicasse che si fosse iniettato qualcosa.
“Sherlock…Cristo Santo, che stai facendo?” chiese il medico in ginocchio davanti a lui, mentre alcune lacrime gli rigavano il volto.
Il detective continuava a fissarlo con il suo sguardo spento. Non riusciva a dire niente, fece solo un cenno di negazione con la testa.
“Per favore…parlami…” lo implorò il medico, scosso dai singhiozzi.
Fu allora che Sherlock, vedendo il dolore dell’amico, si decise a parlare.
“Non sto facendo niente…non sono in grado di fare niente…neanche questo…” rispose con voce tremante, indicando la siringa con gli occhi.
“Eri venuto qui per ucciderti... Perché?” chiese spaventato John.
“Perché?... Perché sono stanco, John! Avevi ragione l’altro giorno…non riesco più a suonare…non riesco più a lavorare…non sono più in grado di dedurre niente…è inutile negarlo…Sherrinford ha vinto!” rispose Sherlock tra le lacrime.
“No, non ha vinto…è riuscito solo a confonderti e ad offuscarti la mente…ma puoi ancora combatterlo…puoi ancora sconfiggerlo!” rispose il medico, mentre si avvicinava ulteriormente a lui, porgendogli la mano e indicando la siringa.
Il detective, illuminato da quelle parole, guardò la sua mano e gliela diede senza obiettare. Poi si slegò il laccio emostatico e lo lanciò con forza lontano da lui.
“È tutto così difficile, John…fa troppo male…non so se posso farcela…” disse improvvisamente Sherlock, continuando a piangere.
“Certo che puoi farcela…sei il grande Sherlock Holmes…puoi fare qualsiasi cosa!” rispose John con un mezzo sorriso.
Il consulente investigativo sorrise a sua volta per qualche secondo. Poi la sua espressione ritornò seria.
“Una volta lo ero…ma ora non ne sono più tanto sicuro…” disse tristemente.
“Non devi mai dubitare di te stesso…non devi mai dubitare di quello che sei…tu sei un uomo straordinario, Sherlock… e niente e nessuno potrà mai dire il contrario!” affermò il dottore con convinzione.
“Come fai a dire questo? Non hai visto cos’è successo in questi mesi per colpa mia?... Tutti muoiono e soffrono, John… e tutto a causa mia…” rispose il detective, alzando il tono di voce “…anche Mary è morta per colpa mia…dovresti odiarmi per questo…” aggiunse disperato.
“Odiarti!? Ma ti rendi conto delle cazzate che stai dicendo?” esclamò John incredulo “…Mary non è morta per causa tua…lei ha fatto una scelta non lo capisci?” aggiunse, lasciando l’amico confuso da quelle parole.
“Mary ha deciso di sacrificarsi per me! La colpa al massimo è mia, non tua…Lei ha visto quanto la tua perdita mi aveva devastato…ha visto che, dopo il matrimonio, nel mese in cui non avevo più tue notizie, erano ritornati gli incubi, il tremore alla mano e il dolore alla gamba…capisci questo cosa significa?... Significa che io ho bisogno di te, quanto tu ne hai di me!... Sul tetto del Bart’s, mi hai detto che tu sei migliore se ci sono io a guidarti…beh, la stessa cosa vale per me…io, John Watson, non sono niente senza Sherlock Holmes!” disse tutto d’un fiato, lasciando il consulente investigativo completamente senza parole.
“Devi lottare, Sherlock…devi farlo per me…” continuò John tra le lacrime “…ricordi il giorno in cui ci siamo incontrati per la prima volta? Io ero stanco di vivere…mi ero convinto che la mia vita non valesse niente…non avevo uno scopo…non avevo speranze per il futuro…e poi un bel giorno Mike mi ha portato da te al Bart’s…!... In quel caotico appartamento di Baker Street, per la prima volta, ho assaporato la sensazione di sentirmi a casa…la tua presenza, le scene del crimine, i litigi, le corse per Londra e tutto quello che abbiamo passato, mi hanno ridato la gioia di vivere…sai perché avevo tenuto la pistola d’ordinanza? Perché volevo farla finita…Quindi, non pensare alle morti e alle sofferenze, pensa, invece, a chi hai salvato la vita…pensa a me!” concluse, dando libero sfogo a tutti i pensieri che si erano affollati, nella sua testa, in tutti quegli anni.
Sherlock era senza parole. Sapeva di essere importante per John, ma non aveva mai osservato la sua vita e i suoi pensieri da questo punto di vista.
“John…io non pensavo che…tu…” il detective cercò di parlare, ma non riusciva a formulare una frase di senso compiuto. Aprì la bocca più volte, ma le parole non volevano saperne di uscire “…Grazie…!” riuscì soltanto ad aggiungere, mostrandogli finalmente un vero sorriso.
Il dottore sorrise a sua volta, asciugandosi con la manica le lacrime che avevano bagnato il suo viso. Poi si avvicinò al suo migliore amico.
“Vieni qui, idiota!” disse, abbracciandolo con tutta la forza di cui era capace. Sherlock ricambiò la stretta e rimasero lì, per un tempo che sembrò un’eternità, nel calore e nel conforto che l’uno riusciva a dare all’altro.
“Santo Cielo! Devo avvisare Mycroft e Greg! Ti staranno ancora cercando preoccupati!” esclamò all’improvviso John, staccandosi dall’amico “…tu, intanto, rivestiti o ti prenderai una polmonite…io torno subito…devo fare una cosa!” aggiunse, allontanandosi di fretta e lasciando il detective decisamente confuso.
Sherlock si era rimesso in piedi ed era completamente rivestito. Il medico, però, non era ancora tornato. Mentre lo aspettava, si voltò e si mise ad osservare nuovamente la sua lapide: quel pezzo nero di marmo lucido con il suo nome impresso, riusciva a mettergli una sensazione di irrequietezza e di disagio.
“Eccomi qui!” gridò John, alle spalle del detective. Aveva una pala in mano ed una strana espressione sul viso.
“Che diamine vuoi fare con quella pala?!” chiese Sherlock confuso.
“Qualcosa che avrei dovuto fare molto tempo fa!” esclamò determinato “…allontanati!” aggiunse, facendogli cenno di spostarsi.
Fu così che il dottore, sotto gli occhi sorpresi del suo migliore amico, iniziò a tirare colpi alla lapide con la pala. Si fermò soltanto quando riuscì a ridurla in un cumulo di pezzetti neri. Soddisfatto del lavoro che aveva eseguito, buttò la pala a terra e si voltò sorridente verso il detective.
“Ora va molto meglio, non trovi?” esclamò, iniziando a ridere.
“Si…decisamente meglio…” rispose Sherlock, ridendo di gusto a sua volta.



Da quel giorno al cimitero, le cose cominciarono ad andare sempre meglio. Sherlock, a piccoli passi, stava ritornando sé stesso. Gli incubi erano diminuiti e il suo umore era ritornato quello di sempre. Aveva iniziato a blaterare di nuovo per casa in preda alle sue crisi di noia, nel frigo c’erano di nuovo teste e dita mozzate e un giorno, per poco, non diede fuoco alla cucina, tendando uno strano esperimento con dei composti ed una fiamma ossidrica.
Mycroft e Greg erano davvero sollevati nel vederlo ritornare man mano il solito pazzo consulente investigativo.
John, invece, se da una parte era felicissimo, dall’altra iniziava ad essere irrequieto. Il fatto che adesso Sherlock stesse bene, significava per lui doversene ritornare di nuovo in quell’appartamento. Non era per niente contento di andarsene, anche perché per lui Baker Street era l’unico posto che si sentiva di definire “casa”. D’altro canto, non aveva il coraggio di chiedere al suo migliore amico di farlo restare: sapeva bene che, una bimba in giro per casa, avrebbe significato troppi cambiamenti nelle sue abitudini e nel suo stile di vita e questo non poteva pretenderlo.
Una mattina, allora, si alzò e iniziò a fare le valigie, intenzionato a malincuore ad andarsene da lì.
“Noi allora andiamo…” disse il medico con Sherlyn su un braccio ed un borsone nell’altro.
“Ce la fai? Vuoi che ti aiuti?” chiese prontamente Sherlock.
“No, no… ce la faccio tranquillo!... Passo domani, dopo aver finito di sistemare tutto a casa…” rispose John titubante e a disagio.
“Vieni pure quando vuoi…” disse il detective, anch’egli decisamente a disagio.
Restarono per qualche secondo ad osservarsi, ma nessuno dei due riuscì a dire altro. Il medico, allora, facendo un sorriso in segno di saluto, uscì dall’appartamento con uno sconforto che gli inondava il cuore.









Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il ventesimo capitolo...la storia è davvero quasi giunta al termine...il prossimo sarà l'ultimo capitolo, ma ho in mente qualcos'altro per voi...non vi libererete di me così facilmente! (sembra più una minaccia! Ahaahahahhah)
Comunque, lo so, sono stata un pò cattivella con il titolo nel far pensare che Sherlock si fosse davvero suicidato. Ma in fondo, come ha detto il nostro caro John in questo capitolo, John Watson non è niente senza Sherlock Holmes...quindi non potevo mica farlo morire!
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto... a me è piaciuto moltissimo scrivere il momento speciale John&Sherlock davanti alla lapide nera... in fondo sono così teneri insieme!
Grazie a chi sta continuando a leggere la storia...e grazie anche a chi, come sempre, decide di lasciare un commento.
Alla prossima ;)

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Capitolo 21
*** Finalmente a casa ***


                  Ti brucerò il cuore





                                                  Finalmente a casa



… Restarono per qualche secondo ad osservarsi, ma nessuno dei due riuscì a dire altro. Il medico, allora, facendo un sorriso in segno di saluto, uscì dall’appartamento con uno sconforto che gli inondava il cuore.






Sherlock era in cucina ad armeggiare con composti e provette mentre ascoltava attento degli strani rumori provenire dalla camera di John. Capì ben presto che stava facendo le valigie. In fondo era stato chiaro quando era ritornato a Baker Street, aveva tenuto a precisare, infatti, che sarebbe rimasto soltanto fino alla sua completa guarigione. Aveva sperato che, dopo la conversazione avuta al cimitero, il suo amico decidesse di rimanere lì per sempre. D’altronde lo aveva detto lui che entrambi avevano bisogno l’uno dell’altro, ma allora perché stava decidendo di andarsene? Perché ritornare alla sua vecchia vita, decisamente più lontana dalla sua? Non riusciva a trovare una risposta logica a quelle domande, ma sapeva soltanto che non voleva che se ne andasse di nuovo. Decise, comunque, di non dire niente. Se John era più felice nel tornare a vivere nella sua vecchia casa, che aveva condiviso con Mary, non si sarebbe opposto, ma avrebbe accettato la cosa nonostante facesse male.
Dopo essersi scambiati frasi e saluti decisamente sforzati, il medico se ne andò titubante da Baker Street. Sherlock rimase seduto sulla sua poltrona ad osservare la porta che il suo migliore amico aveva appena chiuso dietro di lui. Quella casa era ritornata di nuovo fredda e vuota e la cosa non gli piaceva per niente.
Mentre era immerso nei suoi profondi pensieri, qualcuno aprì la porta del suo appartamento. Per un piacevole istante di pura illusione, pensò fosse John che, pentitosi della sua decisione, si era convinto a restare di nuovo lì con lui. Purtroppo, però, non era il suo migliore amico, era Mycroft.
“Fratellino…come stai?” chiese il fratello maggiore.
“Bene…” rispose Sherlock con un’espressione decisamente delusa.
“Ho visto il dottor Watson andare via…ha deciso di ritornare nella sua vecchia casa allora?” domandò con un tono di chi sa più di quello che dice.
“Mi sembra evidente…” sputò il detective un po' acido.
“Pensavo gli chiedessi di restare!” disse Mycroft con uno sguardo indagatore.
“Lo sai che non avrei potuto chiederglielo! Con Sherlyn avrà di certo bisogno dei suoi spazi. Non potevo obbligarlo a restare qui controvoglia!” rispose Sherlock, infastidito dall’insistenza del fratello.
“Oh, Sherlock…a volte sei così ottuso!” esclamò il politico divertito.
“Si può sapere di che stai parlando?” sputò il detective, iniziando ad alzare il tono di voce.
“Non capisci che il dottor Watson aspettava che fossi tu a chiedergli di restare?” incalzò Mycroft.
“Non dire sciocchezze! John sa benissimo che questa resterà sempre casa sua! Sa che poteva rimanere senza il bisogno di un invito formale!” rispose Sherlock convinto.
“Oh, Santo Cielo! Allora ti ostini proprio a non capire, fratellino! Questa volta non è una questione tra te e lui, ma c’è di mezzo sua figlia! Conoscendo i tuoi stili di vita e le tue contestabili abitudini, credi davvero che ti avrebbe costretto a cambiare tutto, imponendoti la presenza di una bambina in giro per casa? Usa un po' quel maledetto cervello, Sherlock!” urlò il politico.
Il detective era senza parole. Pensò che, ultimamente, gli capitava troppo spesso di non sapere cosa dire e come comportarsi. “Tutta colpa di questi dannati sentimenti!” pensò tra sé e sé.
“Beh, io vado…ho un appuntamento importante al Diogenes Club. Passo domani…” disse all’improvviso Mycroft, andando via e lasciando il fratello immerso nei suoi pensieri.







Erano le due di notte e John non riusciva a chiudere occhio, al contrario di Sherlyn che dormiva beata nella sua culla. Aveva passato la giornata a mettere tutte le sue cose in ordine e, nonostante cercasse di convincersi di aver fatto la scelta giusta, non faceva altro che pensare a quanto desiderasse trovarsi a Baker Street. Fuori, intanto, si stava scatenando un forte temporale e il rumore della pioggia non faceva altro che incrementare il suo senso di irrequietezza. Poiché il sonno non si decideva ad arrivare, si alzò dal letto e si diresse in cucina con l’intenzione di prepararsi una tazza di tè. Mentre riempiva d’acqua il bollitore, però, qualcuno bussò con forza alla sua porta. Per un momento pensò di esserselo immaginato, in fondo chi poteva andare da lui alle due di notte? Poi, sentendo che i colpi venivano dati con maggiore forza e insistenza, decise di andare ad aprire. Appena aprì la porta, rimase sorpreso nel vedere chi aveva di fronte. Sherlock era sulla soglia di casa sua, bagnato fradicio, tremante e con il respiro affannato.
“Cristo Santo, Sherlock! Che diamine ci fai qui? Sei tutto bagnato! Entra o ti prenderai una polmonite!” urlò il medico preoccupato.
“Devo parlarti…” rispose il detective, mentre il suo corpo era attraversato da brividi di freddo.
“Santo cielo, sono le due di notte e fuori c’è il diluvio! Potevi chiamarmi!” esclamò John con rimprovero “…dai, togliti il cappotto e vai ad asciugarti davanti al camino…ti vado a prendere una coperta ed un asciugamano per la testa!” aggiunse rassegnato.
Il dottore andò in bagno a prendere ciò che poteva servire al suo amico e, appena rientrò nel soggiorno, si fermò con tutto l’occorrente in mano ad osservare Sherlock. Si era seduto a terra con le gambe incrociate davanti al camino. Aveva le mani tremanti distese leggermente verso le fiamme nel tentativo di riscaldarsi dopo l’evidente corsa notturna sotto la pioggia. A vederlo così sembrava un bambino smarrito e indifeso, tanto da fare quasi tenerezza.
“Ecco qui…” disse John, poggiandogli la coperta sulle spalle e iniziando ad asciugargli i capelli con l’asciugamano.
“Grazie…” disse Sherlock con un sorriso.
“Beh, si può sapere cosa devi dirmi di tanto importante da metterti a correre di notte sotto un diluvio?” chiese il medico con dolcezza.
Il detective inizialmente non rispose, continuando a fissare le fiamme nel camino. Poi, all’improvviso, si alzò di scatto da terra, facendo spaventare John e lasciando cadere la coperta a terra.
“Dobbiamo andare!” esclamò, dirigendosi nella camera da letto.
Il dottore era di nuovo sconvolto da quello strano comportamento. Un po' titubante seguì l’amico nella stanza e lo vide prendere tutti i vestiti suoi e di Sherlyn dall’armadio e metterli, in malo modo, nelle valigie che aveva finito di sistemare proprio quel pomeriggio.
“Sherlock…che stai facendo?” domandò John confuso.
“Mi sembra ovvio! Raccolgo le tue cose e quelle di Sherlyn…!” rispose il detective senza alzare lo sguardo.
“Si, questo lo vedo…ma non capisco il motivo…” disse pensieroso il medico.
“Semplice…tornate a casa!” rispose il consulente investigativo, sorridendo.
John sorrise a sua volta. Pensò che solo Sherlock potesse essere capace di sorprenderlo e di stravolgerlo in piena notte con i suoi soliti modi irruenti e teneri allo stesso tempo.
Quella notte John e Sherlyn fecero ritorno a Baker Street. Il medico, esausto, crollò sul suo letto,nella camera di sopra con l’intenzione di sistemare le sue cose il giorno dopo.
Si svegliò in tarda mattinata, ancora confuso per la strana notte passata. Era contentissimo di essere ritornato al 221B, ma, nonostante tutto, non era ancora convinto che quella fosse la giusta soluzione per entrambi. Si sentiva decisamente in colpa nell’imporre al suo migliore amico un cambiamento così radicale. Preso da tutti questi pensieri, si alzò e si avvicinò alla culla per prendere Sherlyn, ma della bimba non c’era traccia. Assalito da una forte preoccupazione, si mise qualcosa addosso e scese di corsa le scale diretto di sotto per avvisare Sherlock. Aprì di scatto la porta e rimase pietrificato sulla soglia. Il soggiorno era stato riordinato: non c’erano coltelli infilzati sul camino, non c’erano carte e fascicoli sparsi ovunque, non c’erano oggetti buttati a caso a terra, era tutto molto più ordinato e pulito di come lo avesse mai visto.
“Sherlock?” lo chiamò titubante, ma non ricevette risposta.
Ancora più confuso, si avvicinò lentamente verso la cucina e vide che anche quella stanza era stata decisamente ripulita. Il tavolo era ormai sgombro da tutte le provette, dal microscopio e dagli intrugli che, di solito, venivano fuori dopo strani esperimenti. Decise di controllare anche il frigo e vide che non c’erano resti di parti umane, ma solo del semplice e sano cibo.
“Sherlock!?” lo chiamò di nuovo, ma l’appartamento sembrava vuoto.
“Cu-cù!” disse la padrona di casa sbucando dalla porta.
“Signora Hudson! Dov’è Sherlock? Sherlyn è con lui?” chiese preoccupato e ancora sorpreso.
“Oh, sarà nell’appartamento di sotto. Ha visto com’è stato carino a mettere tutto in ordine per il vostro arrivo?” rispose contenta la donna.
“Si…ho visto…l’appartamento di sotto!?” chiese ancora più confuso.
“Si, quello che non sono mai riuscita ad affittare. Ha deciso di prenderlo lui e di spostare lì tutte le sue cose. Ha creato una sorta di laboratorio lì sotto! Che Dio ce la mandi buona con quei suoi strani esperimenti!” rispose la signora Hudson.
John non poteva credere ai suoi occhi e alle sue orecchie. Possibile che Sherlock avesse fatto tutto questo per lui e Sherlyn? Ancora confuso, scese di sotto diretto nell’altro appartamento. Si ricordò di averlo visto soltanto una volta, quando molti anni prima il dinamitardo, che poi si scoprì essere Moriarty, lasciò proprio lì le scarpe del ragazzo morto nella piscina: Carl Powers. Preso dai ricordi, si ritrovò davanti alla porta. Era leggermente socchiusa, perciò la spostò con la mano, giusto quel tanto che bastava per vedere all’interno. La signora Hudson aveva ragione: lì Sherlock aveva allestito un vero e proprio laboratorio chimico. Al centro c’era un tavolo enorme con sopra le provette, il microscopio e tutti i suoi intrugli; in fondo c’era una scrivania, piena di tutti i documenti e i fascicoli; a destra l’intera parete era stata tappezzata di foto, carte e foglietti; a sinistra, invece, c’era un grande frigorifero che, di sicuro, conteneva chissà quali resti umani su cui fare esperimenti. Sherlock in quel momento si trovava davanti a quello schema creato sul muro, aveva Sherlyn sul braccio destro e tre foto nella mano sinistra che osservava attentamente.
“Bene Sherlyn…abbiamo una donna trovata morta in casa sua. Nessun segno di lotta e di effrazione…e questi qui, sono i nostri tre principali sospettati: il marito, il cognato e il giardiniere…cosa ne pensi?” disse Sherlock, rivolgendosi alla bambina.
La piccola mosse la manina nel tentativo di afferrare una foto e il detective scoppiò a ridere.
“Oh, sei proprio come tuo padre! Sempre troppo sentimentale…credi davvero che sia stato il marito? No, troppo banale! Sai chi è stato invece? Il cognato! Aveva una relazione con la vittima e a quanto pare lui la usava per rubarle dei soldi di nascosto, ma nel momento in cui lei ha capito tutto, lui ha pensato bene di metterla a tacere. Più tardi avviseremo Lestrade…ma per ora divertiamoci ad immaginarlo brancolare ancora nel buio!” esclamò Sherlock, con tono decisamente divertito.
John, da dietro la porta, era davvero intenerito dalla scena che aveva di fronte. Non immaginava questo lato di Sherlock. Ma in fondo aveva scoperto più aspetti del suo carattere in questi mesi passati a combattere Sherrinford, che in tutti gli anni trascorsi a convivere.
Colpito ancora da quella scena, il medico entrò nell’appartamento, attirando l’attenzione del detective.
“Buongiorno, John! Perché hai quel sorriso da ebete in faccia?” chiese serio.
“Buongiorno! Io non…ho visto sopra che…sono proprio…” cercò di dire il medico, ma non riusciva a formare una frase decente.
“Riesci a formulare almeno una frase di senso compiuto entro mezzogiorno? Noi qui stiamo lavorando!” rispose Sherlock divertito.
“Un caso?” chiese John, non riuscendo a dire altro.
“Si, mi ha chiamato stamattina Lestrade. Decisamente noioso…l’ho risolto senza neanche muovermi da qui! Comunque devo ammetterlo: tua figlia ha un notevole talento…commette i tuoi stessi errori di valutazione, ma tutto sommato promette bene!” rispose il consulente investigativo, guardando Sherlyn.
“Sherlock…” iniziò il medico, intenzionato stavolta ad esprimere i suoi pensieri “…hai fatto tutto questo per me?... Per noi?” chiese poi semplicemente.
“Si…ho sbagliato qualcosa?” domandò il detective insicuro.
“No…è davvero la cosa più bella che potessi fare per noi!... Grazie!” rispose John sorridendo. Sherlock ricambiò il sorriso e poi, ritornando serio, si rimise al lavoro con Sherlyn.




Erano le tre di notte e il dottore, al contrario di sua figlia, non riusciva a dormire. Non faceva altro che pensare a tutto quello che il suo migliore amico avesse fatto per dimostrargli di volerlo davvero lì con la bambina. All’improvviso sentì dei rumori provenire dal soggiorno e si mise in ascolto per capire cosa stesse succedendo. Dopo alcuni minuti, Sherlock iniziò a suonare il suo violino. John allora si alzò e scese di sotto per godersi la meravigliosa melodia che echeggiava nell’appartamento. Entrò nel soggiorno e, come faceva sempre, si andò a sedere sulla sua poltrona. Il detective era voltato verso la finestra e suonava, con la sua solita grazia, un susseguirsi di note dolci e rilassanti. Mentre si trovava lì, nella calma che solo Baker Street riusciva a trasmettergli, pensò che, in fondo, nonostante la morte di Mary e tutte le cose brutte che erano successe, c’era ancora la speranza che tutto potesse andare per il meglio, c’era la speranza di poter essere di nuovo felice.
“Straordinario…” esclamò al termine della melodia, riferendosi come sempre al suo migliore amico.






Come ogni bel finale che si rispetti, anche questa storia prevede un lieto fine che, pieno di speranza e felicità, riesce a trasmetterci quel senso di tranquillità che tanto amiamo. Però si sa: proprio quando le cose sembrano andare per il verso giusto, c’è sempre qualcosa che, in agguato nell’ombra, è capace di sconvolgere, di nuovo, il sano equilibrio che si è raggiunto con tanta fatica…. Ma questa, è un’altra storia.







Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il ventunesimo e ultimo capitolo! Mi dispiace un po' che la storia sia finita, ma adesso posso svelarvi cosa ho in programma! Beh, avevo intenzione di fare una storia incentrata su una Johnlock e poi, mentre pensavo al finale di questa storia mi sono detta...Visto che Sherlock e John si trovano di nuovo a vivere insieme, perché non creare un seguito? Ed ecco qui l'idea...se questa era la "mia" quarta stagione...ora vi propongo la quinta stagione (puramente Johnlock), visto che in fondo c'è qualcuno che, non essendo morto, chissà se potrà ritornare a fare danni...Mah!
E, forse, se le troppe idee non mi faranno esplodere il cervello… ci sarà anche una terza storia (una sesta stagione) sempre Johnlock, che però sarà molto ma molto angst! Diciamo una sorta di trilogia...le raccoglierò tutte e tre in una serie, così potranno essere lette in successione e con il giusto ordine...!
Perciò non preoccupatevi...che come ho detto nell'altro capitolo...non vi libererete di me così facilmente! Ahahahaah...
Grazie a tutti quelli che hanno seguito la storia e l'hanno messa tra le preferite/seguite/ricordate. Grazie a tutte le recensioni che mi avete lasciato, grazie a chi mi ha inserito negli autori preferiti e grazie anche a chi vorrà seguire tutto ciò che ho in mente per la continuazione.
Alla prossima ;)

 

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