The Damned Matrioska

di Feathers
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Travel in time ***
Capitolo 2: *** Writers ***
Capitolo 3: *** Red Russia ***
Capitolo 4: *** This is a real kiss, honey ***
Capitolo 5: *** New Secrets ***
Capitolo 6: *** In vodka veritas ***
Capitolo 7: *** February 14th ***
Capitolo 8: *** When the problems started ***
Capitolo 9: *** Leningrad ***
Capitolo 10: *** Hope we come back ***
Capitolo 11: *** Afraid of losing you ***
Capitolo 12: *** I'm sorry ***
Capitolo 13: *** Sevvostlag ***
Capitolo 14: *** War ***
Capitolo 15: *** See you here ***
Capitolo 16: *** You have to let me go ***



Capitolo 1
*** Travel in time ***


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Sarandom



Note dell’autrice:
Salve a tutti Cockles shippers!
Eccomi con la mia seconda Cockles - un Au - a cui tengo moltissimo perché per scriverla mi ci sono volute talmente tante ricerche che ora conosco meglio la Russia dell’Italia (shame on me! XD)

…comunque sia... buona lettura! <3





                      The Damned Matrioska                                                                                                       




Travel in time



1 March 1983

/Flashback/

"In un antro oscuro, nel bel mezzo dell'innevata steppa russa, c'era una volta un mago che amava fare esperimenti di ogni sorta. Già da piccolo aveva dimostrato di essere un bambino prodigio, capace di creare con la sua mente geniale qualunque stramberia... in effetti, mio caro piccolo Jensen... sappi che fu proprio lui a creare la Matrioska maledetta. Sì! Quella a cui devi fare molta attenzione perché se la apri rischi di finire in un'altra epoca... "

"Aspetta, mamma, ma cos' è una Matrioska?" chiese il bambino, riducendo gli occhi a due fessure.

Jensen adorava farsi raccontare le fiabe dalla mamma, specialmente la sera, prima di andare a dormire col suo orsetto bruno preferito.
Aveva spesso paura del buio e di quello che poteva nascondersi in mezzo all'oscurità, ma quando la mamma gli narrava le storie di qualche eroe che affrontava con coraggio draghi e mostri, il piccolo si immedesimava in lui e riusciva a vincere ogni suo timore.

"Le Matrioske sono un souvenir tipico della Russia, una serie di bamboline messe una dentro l'altra... vedi?" disse la mamma, dolcemente, mostrando a Jensen la foto nel suo libro di storie.

"Oohh... e in questa fiaba... c'è un eroe, mamma?" domandò il bambino con un sorriso.

La donna gli rimboccò le coperte, divertita.

"Beh... a quanto pare sì Jensen. Sai... il mago era molto cattivo e desiderava spedire nel passato il suo più acerrimo nemico, un affascinante nobil'uomo americano. Lui conosceva fin troppo bene quel mago! Erano stati amici per un periodo... ma poi avevano litigato per un motivo misterioso e non si erano più parlati. La Matrioska era una trappola per lui."

"Oddio che brutta cosa! E lui ci è cascato?" chiese Jensen a bocca spalancata, sempre più rapito dalle parole della mamma.

"Staremo a vedere. Si dice che fosse un bell'uomo sui quarant'anni. Aveva degli intensi occhi blu e il suo nome era... "
"Tesorooo! Vieni qui un momento per piacere!" strillò il marito dall'altra stanza.

Jensen fece una smorfia delusa, mordendosi il labbro con fare infantile.

La madre sorrise.

"Non ti preoccupare: torno subito!" disse, scompigliandogli i capelli biondi. Lasciò il libro rosso ai piedi del lettino.

Appena la donna uscì, il bambino lo acchiappò prontamente e lo aprì per scoprire il nome del suo nuovo eroe.

Strinse le palpebre.

"Uffa che palle! Ma quant'è difficile! Sembra uno… scioglilingua!" esclamò, contrariato.

"Non dire parolacce, Jensen! " urlò la mamma dall'atrio.

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32 years later

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1 March 2015

/Present/

Accidenti a me, pensai.
Sempre in ritardo al lavoro.

Ci fosse una buona volta che la sveglia non mi facesse arrivare mezz'ora più tardi del dovuto.
Peccato che i giorni in cui mi sarei potuto prendere una vacanza fossero quasi scaduti e che mi sentissi tremendamente in colpa ad ogni assenza.
Avevo una voglia matta di restare a casa almeno per il mio compleanno.
Insomma, si è capito che non amavo da impazzire la mia professione.

Lavoravo in ufficio nonostante avessi voluto fare lo scrittore quasi da sempre. Mi era sempre piaciuto esprimere le mie emozioni e le mie riflessioni più profonde tramite la scrittura.
Peccato che mio padre avesse sempre avuto voglia di indirizzarmi dove gli pareva e piaceva.
Eravamo nel 2015, santo cielo! I figli non erano più costretti a fare il lavoro del padre.

Mi sistemai la cravatta e la camicia, diedi un'occhiata ai miei capelli dorati e ribelli e corsi fuori sbattendo la porta di casa mia, senza nemmeno prepararmi uno straccio di colazione.
Presi il primo autobus della giornata, e scesi alla solita fermata.
Affrettai il passo verso la strada, e da buon maldestro feci cadere la borsa.
Ovviamente, il contenuto finì sparso ovunque.

Mentre raccoglievo tutto, il secondo autobus mi passò sotto il naso, e lo persi.
Iniziamo davvero bene, pensai.
Mi misi una mano sulla fronte, pensando a quanto fossi imbranato.
Forse era per quel motivo che non mi ero sposato? O forse per la mia timidezza?

Ero sempre stato il più silenzioso ed insicuro di tutti, sia a scuola sia ai vari gruppi sportivi che avevo frequentato da giovane. Mi piaceva parecchio mantenermi in forma nonostante mi avvicinassi sempre di più ai quarant'anni e spesso mi capitava di fare un po' di jogging al Central Park, quando ne avevo voglia.

Eppure, quel giorno non mi sentivo particolarmente atletico...

Mi misi a camminare sul marciapiede bianco e deserto appena illuminato dall'alba.
I pioppi attorno al viale avevano un aspetto strano e giallastro.

Pazienza, pensai.
Se non altro avrei avuto una buona scusa per restare a casa.
Fra l'altro la mia auto era dal meccanico e chissà quando me l'avrebbe restituita...

Passeggiai per un po', senza avere una meta precisa in testa.
Volevo soltanto prendermi qualcosa da mangiare prima di rientrare, ma stranamente non avevo fame.
Non ne avevo da un po' in realtà.
Gli unici casi in cui non avevo appetito erano quando mi ero innamorato di qualcuno o ero nervoso per qualcosa.
Ma nessuna delle opzioni mi sembrava un minimo plausibile.
Non conoscevo nuova gente da almeno un anno, e dopo la rottura con la mia fidanzata storica non avevo più frequentato nessuno per un bel periodo.

Mentre quei pensieri mi affollavano la mente, un negozio rosso e giallo di fronte al cinema attirò la mia attenzione. Non l'avevo mai notato prima.
Pareva appena uscito da un libro di storie per ragazzini ed era decorato ovunque come se fosse ancora Natale.
Trasmetteva una certa allegria, come il proprietario, che mi osservava con la coda dell'occhio da qualche secondo.

"Salve! Sono Richard! Le serve qualcosa?" domandò quel tipo biondiccio, come se fossi già entrato in negozio.

"Emh... emh... in realtà io non... " balbettai nervosamente, indietreggiando.
Odiavo quel mio maledetto modo di fare. Mi faceva sembrare un perfetto idiota.

"Suvvia, mica ti mangio! Entra pure e dai un'occhiata qui attorno, amico mio!" disse quel tipo, sistemandosi il gilet rosso fuoco.

Mi chiesi cosa volesse da me quel tizio, ma feci lo stesso un passo incerto verso la porta.
Mi mossi con cautela fra quelle vetrine traboccanti di strambi oggetti e souvenir da tutti i paesi del mondo.
Gli scaffali erano pieni di allegria e colore, fra modellini, bandierine piccole e grandi, girandole e altre stramberie.

"Eeeh... lo so... ho messo su una strana attività... non fa molto successo... ma almeno mi piace! Bisogna fare ciò che si ama nella vita, giusto?" disse Richard sfregandosi le mani con aria allegra.

Io stavo ancora esplorando il negozio e annuii, pensando al mio di lavoro.

Ad un certo punto notai qualcosa di familiare accanto ad una vetrina.

Quella Matrioska rossa e gialla.

Dovevo averla già vista da qualche parte, ma non sapevo bene dove.

"Oooh e così le piace quella? Non costa praticamente nulla, sa?"

Io la osservai attentamente, mettendo a fuoco le date sotto. Anche quelle non mi erano affatto nuove.

Avevo sempre avuto una fissa per la Russia sin da bambino, anche se non ne ricordavo l'esatto motivo.
L'unica cosa che sapevo certamente era che quella strana Matrioska mi attraeva, come se mi fosse appartenuta in qualche modo.
Le rifiniture dorate luccicavano, e io mi sentivo quasi una gazza ladra pronta a prenderla.

"La compro, mi sa." mormorai quasi inconsciamente, seguitando a fissarla come se fossi stato incantato.

"Fantastico!" esclamò quel buffo omino "Funziona sempre questa strategia di vendita. Sono sei dollari, amico!" disse.

Io mi voltai verso il suo sorrisino soddisfatto, chiedendomi che cosa fosse quella strategia di vendita di cui parlava lui.

Pagai i sei dollari, e dopo aver ringraziato Richard, uscii con la Matrioska fra le mani.
Quel buffo souvenir sembrava quasi squadrarmi con quegli occhietti di porcellana nera luccicante.
Non capivo perché, ma ora che era mia mi inquietava un po'. La cosa era strana dato che avevo sempre saputo che le Matrioske erano simbolo di protezione della casa.

"Cos'hai da guardare?" le dissi scherzosamente.

Cercai un autobus che mi portasse finalmente a casa dopo le mie disavventure mattutine.
Appena arrivato, mi avvicinai al vialetto e aprii il cancello.
Che idiota.
Mi ero pure dimenticato di chiuderlo bene.

Fortuna che ero fuori solo da un'ora e mezza circa.

Entrai e notai il telefono sul tavolino del salotto illuminarsi. Premetti il pulsante per leggere i messaggi vocali.

"Salve vecchietto, stasera che ne diresti di una pizzata a casa mia alle otto e mezza? Dimmi chi posso invitare... buon compleanno fratellone."

Sorrisi.

Quel mattacchione di Jared era il mio migliore amico praticamente da sempre.

Non eravamo fratelli, ma era come se lo fossimo, ed avevamo continuato a frequentarci con assiduità nonostante lui si fosse sposato con una della nostra comitiva, Gen.

Qualche volta, ci capitava di riunirci con Felicia, Mark e qualche altro vecchio amico dell'adolescenza. Mi sentivo libero con loro, potevo dire tutto ciò che mi passava per la mente senza farmi problemi.
Registrai un messaggio a mia volta.

"Grazie mille, Jared. Invita tutti i nostri amici più stretti, e... ti andrebbe bene anche verso le nove?" domandai.

Inviai il messaggio e poi andai a fare una breve doccia, dopo aver sistemato la mia Matrioska accanto al telefono.

La giornata stava andando abbastanza bene nonostante le varie gaffe fatte di mattina.

Eppure avevo in testa un pensiero fisso, qualcosa che mi tormentava nel profondo.
Mi chiedevo se avesse a che fare con la bambola che avevo acquistato. Ero convinto al cento per cento che non potesse essere la prima volta che la vedevo.

Uscii dalla doccia strofinandomi la tovaglia sui capelli.
Mi rivestii in fretta e la presi fra le mani, sforzandomi di ricordare.

C’era perfino una data in basso, scritta in grande su dei quadratini bianchi.

1941.

Possibile che un oggetto tanto antico costasse così poco?
Magari quel Richard non era proprio un genio nel riconoscere il valore delle merci?

Toccai uno dei quadratini, forse con troppa forza, e notai che si spostava. 1955.
Erano date intercambiabili!
Esaminai il mio souvenir, capendoci sempre di meno.

A che diavolo servivano?

Decisi finalmente di aprirlo, per verificare se le date ci fossero anche sul seme.

Ma di colpo, il cuore mi finì in gola.
Cacciai un urlo, senza riuscire a capire cosa stesse accadendo.

La Matrioska cominciò ad illuminarsi e ad emettere uno strano suono acuto.
Io la lasciai cadere a terra, inorridito.

Oddio, pensai.

Mi guardai le mani tremanti dalla paura. Stavo scomparendo a vista d'occhio.

Una luce biancastra venne sprigionata dalla bambola i cui occhi lampeggiarono.
Le orecchie mi fischiavano talmente forte che dovetti tapparmele con le mani.
Peccato che il fischio provenisse dall'interno della mia testa.

"Aiutatemi per favore!" strillai come un forsennato con tutta la voce che avevo in corpo, senza nemmeno riuscire a sentire le mie stesse parole.

Di colpo, un lampo bianco mi ingoiò.

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Sentii ogni osso del mio corpo congelarsi completamente, come se improvvisamente fossi stato trasferito in un freezer.
Continuavo a tenere i palmi ai lati della testa, mentre l'acuto fischio alle orecchie stava cominciando a rarefarsi un po'.

Ascoltavo il cuore battermi velocemente in ogni singola parte del corpo, e dei botti nello stomaco, come quando stai a pochi metri dai fuochi artificiali e te li senti esplodere pure dentro.

Aprii gli occhi, sbattendo le palpebre per la troppa luce bianca come... la neve.

Sì.

C'era proprio della neve lì.

Mi guardai attorno con fare smarrito, gli occhi sbarrati e il fiato ormai perso.
Il freddo mi congelò completamente il volto.

Non credevo a nulla di ciò che stavo vedendo.

Non ero più a casa mia, quello era ovvio: non poteva mica nevicare nel mio salotto.

Mi trovavo in un luogo all'aperto, nel bel mezzo di una piazza che ero sicuro di conoscere.

La gente mi passava davanti, e mi fissava scioccata dalla mia giacchetta e dai miei pantaloni. Gente strana, vestita all'antica. Dovevano star pensando che ero pazzo.

Forse ero svenuto e stavo solo sognando?

Dove diavolo mi trovavo?

Mi diedi un pizzicotto, tremando come una foglia e battendo i denti per il freddo che mi impediva ogni movimento o quasi.

Ero sveglio, maledettamente sveglio e sentivo ogni cosa: il dolore al cranio, la neve candida e morbida sotto i miei piedi, il vento gelido che mi bruciava la pelle.
Sembrava tutto fin troppo reale.

Mi voltai dall'altra parte, stringendo gli occhi a fessura.

Ma quella là in fondo non era la cattedrale di San Basilio?!

Quelle cupole colorate, a strisce, che tante volte avevo visto in foto, non avrei potuto non riconoscerle.

Ma come poteva essere?

"M-mi scusi! Signora! Mi può dire d-dove mi trovo per favore... ?" chiesi ad una cinquantenne avvolta in uno scialle.

La donna mi guardò con aria confusa, sistemandosi gli occhiali tondi sul naso aquilino, e mormorò qualcosa in russo.

Non capii ovviamente cosa stesse dicendo, avevo fatto solo un breve corso da ragazzo del quale ricordavo poco e nulla, ma dalla sua espressione era chiaro il fatto che non capisse una parola della mia lingua.

Mi misi una mano sul petto, sentendomi totalmente impazzito.
Ero quasi sul punto di svenire sul serio.

Non potevo trovarmi improvvisamente a Mosca.

No.
Era un incubo.
Era solo un incubo.

Continuavo a ripetermi nella testa quelle parole come una mantra con l'intenzione di convincermi della completa assurdità della situazione.

Mi misi a ragionare, respirando lentamente.

Due secondi prima ero a casa mia, a New York, con quella stupida Matrioska fra le mani che...

"Salve!" fece una voce dietro di me.

Io mi girai, la bocca leggermente aperta, quasi sobbalzando.

Due occhi blu e maliziosi mi squadrarono dalla testa ai piedi, mentre io cercavo di non tremare, inutilmente.

"Che c'è? Hai perso la mamma percaso?" mi chiese quel tipo, ironicamente, con un accento spettacolare misto fra americano e russo.

Era un bell'uomo sulla quarantina, i capelli soffici e scuri erano in parte coperti da un cappello simile ad un colbacco.
Mi fissava con un sopracciglio alzato e un sorrisetto irritante stampato in viso.

Mi morsi le labbra per evitare di rispondergli male. Dopotutto capiva la mia lingua e mi conveniva tenermelo buono.

"T-tu capisci... inglese? " domandai, senza riuscire a staccare gli occhi da quello sguardo magnetico.

"A quanto pare... " disse lui, sorridendo e stringendosi nelle spalle ampie e avvolte nella pelliccia beige.

"Oh... D-dio sia ringraziato... " mormorai.

L'uomo ridusse gli occhi a due fessure.
"Stai bene? Voglio dire… non senti freddo?" mi chiese stupito.

Io scossi la testa.

"E-emh... io non credo d-di star bene... " dissi balbettando.

Lui si portò una mano sulla barbetta scura appena cresciuta, riflettendo.

"Mmm. Capisco bene... tieni qui dai... " disse togliendosi la pelliccia e mettendomela sulle spalle con un gesto rapido, come se volesse evitare di toccarmi a lungo.

"Ma... così senti freddo tu... " mormorai, rabbrividendo.

"Sono abituato ormai. Non mi pare che tu lo sia. Da quando sei qui? E poi perché indossavi solo una maglietta così leggera?" mi domandò finalmente serio.

"Io... " esitai. Non volevo che mi prendesse per pazzo. "Ecco, a dir la verità non so nemmeno come ci sono finito qui... " dissi stupidamente.

Lui mi guardò perplesso, con quegli occhi incredibili. Ci sarei potuto sprofondare in quel celeste. Il mio sguardo fu attratto dalle sue labbra, soffici e rosee.
Se le morse appena, riflettendo.

"Qual'è l'ultima cosa che ricordi?" chiese dopo una pausa, fissandomi e facendomi sentire in soggezione.

Io aggrottai la fronte.
La sua pelliccia mi pesava sulle spalle ed emanava un profumo particolare.

"Ero... nel mio salotto, pochi secondi fa, sul serio... sì insomma... e poi sono finito qui. Non ho idea di come io... s-siamo a Mosca?"

Man mano che parlavo notavo che mi fissava sempre più stranito.
Tacqui, e arrossii guardandolo negli occhi spalancati.

Improvvisamente lui scoppiò a ridere di gusto, una mano sull'ushanka che gli riparava le tempie dal gelo.

"Santo cielo... lo so che la vodka è ottima, ma credo che tu ieri sera ne abbia abusato un po'... o mi sbaglio?" scherzò, dandomi una pacca.

A quel punto mi incavolai sul serio.
Puntai lo sguardo su quell'espressione beffarda e dissi, tentando di apparire sicuro di me:
"Non è divertente. Io non ho bevuto vodka. Mai." dissi.

"Ah no? Non sai che ti perdi." rispose lui. "Suvvia... non ti scaldare troppo, stavo scherzando, amico. Il mio nome è Misha." disse, porgendomi la mano, o meglio, il guanto.

Io glielo strinsi, sorridendo a denti stretti.

"Jensen, e non sono tuo amico." dissi.

Lui abbassò il capo, continuando però a tenermi d'occhio.
"No... ma lo sarai presto, spero!" disse, sorridendo bonariamente.

Io mi portai una mano sui capelli, ancora tremando nonostante avessi almeno una tonnellata di piumoni addosso.

"Perfetto... va tutto bene Jensen." mi dissi, cercando di mantenere la calma. "Ora... mi dici dove ci troviamo... Misha, giusto?"

Lui mi rivolse un'occhiata divertita.
"L'hai detto prima tu: siamo a Mosca!" disse, aprendo le braccia in modo teatrale.

Io sospirai.

"Buon Dio del cielo, la smetti di prendermi in giro? Non siamo a Mosca... è fisicamente impossibile… esattamente cinque minuti fa mi trovavo a New York... "

"A New York?... " disse lui, facendo uno sforzo immane per non ridere.

Fece un passo verso di me.

"Guarda... " disse, indicando tutto ciò che nominava man mano, "Il Cremlino... appena aperto ai visitatori... la cattedrale di San Basilio... il monumento degli eroi nazionali Kuz'ma Minin e Dmitrij Požarskij... insomma... l'intera Piazza Rossa di Mosca di fronte ai tuoi occhi: che altra prova vuoi?" disse esasperato.

Io abbassai lo sguardo, sistemandomi la pelliccia.

Quel Misha aveva ragione.

Quella era veramente la Piazza Rossa, anche se aveva qualcosa di differente rispetto alle foto che avevo sempre visto nei miei libri di geografia.
Eppure era quella.

Un momento.

Aveva detto 'appena aperto ai visitatori ' riferendosi al Cremlino?
Qualcosa non quadrava.

"Ora sarà meglio che tu mi segua, Jensen. Casa mia non è così lontana da qui, te l'assicuro. Hai l'aria di chi ha bisogno di aiuto." disse serio, scuotendo il capo.
Si voltò e mi fece un cenno con due dita.

Analizzai le sue parole.
Mi conveniva fidarmi di quel tipo?
Ma direi di sì, pensai.

Sembrava un buon uomo, nonostante la sua ironia non mi andasse giù per nulla.

Mossi qualche passo, camminando dietro di lui e facendomi strada fra i vari centimetri di neve a terra.
Intanto io esploravo con gli occhi quel luogo meraviglioso, il fascino di quegli edifici, la neve candida che faceva pizzicare gli occhi, i colori sgargianti della cattedrale...

Sarei stato incredibilmente eccitato se la situazione non fosse stata tanto disperata.

Ad un certo punto passammo di fronte ad un giornalaio in mezzo alla piazza, ed io mi voltai a guardare le scritte sui quotidiani.
C'era scritto 'guerra fredda' a caratteri cubitali.

Guerra fredda?!

"Misha!" strillai. Lui fece qualche altro passo, poi finalmente si girò.

"Che succede?" chiese, confusamente, avvicinandosi.

"S-scusa ma... " mormorai, facendo correre lo sguardo sui giornali.

1955.

Come su quella cazzo di Matrioska!

"M-ma in che anno siamo?"

Lui sbuffò, fingendo noia.
"E poi non venirmi a dire che non hai tracannato una bottiglia intera di vodka!"



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Capitolo 2
*** Writers ***


~~                                        Writers

 

Seguii Mister Sarcasmo fino ad un alto edificio bianco non troppo lontano dalla Piazza Rossa, mentre le auto d'epoca e gli spazzaneve attraversavano la strada facendo un rumore pazzesco.

Quel Misha doveva essere un riccone per vivere da quelle parti, pensai.
Si muoveva con fare circospetto, dandomi le spalle e ogni tanto facendomi un breve segnale di seguirlo, come se temesse che mi scordassi di farlo da un momento all'altro, e me ne andassi a passeggio per Mosca da solo.
In pieno Inverno.
Non si era neppure degnato di spiegarmi il fatto della data sul giornale.

"Dunque mi hai detto che non ricordi nulla... giusto?" mi domandò atono, guardando di fronte a sé mentre passeggiava.

"No... cioè... io vivo a New York. Devo assolutamente tornare a casa. Non mi trovavo qui fino a... venti minuti fa." risposi nervosamente, lanciando un'occhiata frenetica al mio orologio da polso e arrancando dietro di lui.

Misha si girò.

"Mmm... non preoccuparti amico, credo che tu abbia solo passato una nottataccia ieri. Per caso anche tu il weekend vai al Red Russia?" mi domandò allegramente, come se nulla fosse.

"Non so neppure cosa è... " replicai, con un lungo sospiro.

"Beh... in effetti ti avrei notato. È il mio locale preferito... ottimo posto per un po' di svago." mi rispose lui.

Ad un certo punto interruppe quella marcia velocizzata da cosacco, e io riuscii finalmente a raggiungerlo.

"Benvenuto nella mia umile dimora... Jyensen." mi disse, sorridendo e facendo un piccolo inchino scherzoso.

Io lo fissai alzando il sopracciglio.

"Emh... Umile? Comunque Jensen. Pronuncialo bene il mio nome per favore... " puntualizzai, le mani sui fianchi.

Lui rise.

"Perdonami, tutta colpa del bagno di lingua russa. Sono qui da un bel po'... sai com'è." si giustificò.

Restai sorpreso.
"Ah... dunque non sei russo?" domandai.

Avrei giurato che lo fosse a giudicare da alcuni tratti del viso.

"Di origine, però sono nato negli USA." disse, aprendo lentamente il portone di casa sua.

Effettivamente pensai che sorrideva fin troppo spesso per essere russo. Mi chiesi perché mai se la sentisse di ospitare un perfetto sconosciuto, ma non che quello fosse proprio il momento adatto alle domande.
Mi trovavo in una situazione di emergenza, e avevo assoluto bisogno di quel Misha, per quanto strambo fosse.

Entrammo in un soggiorno color fuoco, leggermente più moderno rispetto all'esterno, e dall'arredamento sorprendentemente sgargiante.

"Uh... " sospirai di sollievo, rilassando finalmente i muscoli atrofizzati.

Fui invaso dal calore di quella stanza, lo sbalzo di temperatura era di almeno una ventina di gradi.
Un divano ricamato copriva quasi completamente una parete occupata da un largo quadro raffigurante sei tulipani lilla.

"Oh... Ti piace?" mi chiese lui, notando che lo stavo fissando attentamente "Devo averlo preso in Olanda." aggiunse, pensandoci su un momento, come se fosse normale passare da un paese all'altro.

"Sei stato anche in Olanda?" chiesi timidamente, calcando sulla parola anche.

Lui mi squadrò e si tolse la giacca.
"In realtà scherzavo. Ho sempre voluto viaggiare, ma... no possibility." disse con tono rassegnato.

Restai perplesso. Ebbi voglia di chiedergli perché mai avesse preso una casa al centro di Mosca se non aveva soldi, ma poi mi venne in mente che non lo conoscevo abbastanza per prenderlo per il culo, nonostante sapessi che lui lo faceva spudoratamente con me.

Invece di aprir bocca mi tolsi quell'ammasso di pecore beige che avevo addosso e lo restituii a Misha.

"Emh... spasibo." dissi a bassa voce, guardando a terra.

"Ah... dunque un po' di russo lo sai, eh?" esclamò lui con quella voce calda e soddisfatta.

Io mi sentii arrossire.
Decisi di convincere me stesso che fosse tutta colpa del camino.
Come no.

"Beh... s-so dire solo questo, se non ricordo male... " mormorai, cercando disperatamente un punto dove posare gli occhi.

Era normale che mi sentissi in imbarazzo di fronte ad uno sconosciuto, dopotutto faceva parte del mio carattere, ma quell'uomo mi faceva sentire piccolo piccolo, senza che riuscissi a capire il perché.
Non lo stavo guardando in quel momento, ma mi sentivo i suoi occhi indagatori addosso mentre cercavo di apparire più disinvolto possibile.

"Mmm, su... lascia che ti offra qualcosa. Vuoi dell'acqua, per esempio? Non mi sembri… proprio in gran forma." disse con tono stavolta comprensivo, fissandomi con gli occhi a fessura.

Io mi guardai attorno e la mia attenzione fu attirata dal mio riflesso pallido nello specchio ornamentale alla mia sinistra.
Mi accorsi di avere due occhiaie tremende.

"Emh... solo un goccio d'acqua... per favore... grazie." mormorai, deglutendo.

Appena rialzai gli occhi restai incantato a fissarlo mentre si levava il cappello e pettinava con le mani i capelli scuri e in disordine.
Oh merda.
Che cavolo mi prendeva?

"Ma va, tranquillo. Non essere così timido. Mettiti comodo e attendi un attimo... ti porto anche qualcosa da mettere sotto i denti... " mi disse, e trotterellò verso la cucina, mimando un finto brivido di freddo.
Fece dietrofront.

"A proposito... il riscaldamento ti va bene?" mi chiese.

"S-sì certo che mi va bene... " risposi annuendo e sedendomi meccanicamente sul divano.

Lui mi scoccò un sorriso smagliante e poi filò nell'altra stanza.

Io sospirai nuovamente e mi appoggiai allo schienale a peso morto, approfittando dell'assenza di Misha.

Chiusi gli occhi e mi coprii la testa con entrambe le mani, passandole sui capelli.
Il mio riflesso nello specchio li aveva tutti tirati all'indietro in maniera innaturale.

Non riuscivo ancora a capirci nulla di quella situazione.
Avevo visto migliaia di migliaia di serie TV in cui i personaggi si teletrasportavano o compievano dei viaggi nel tempo: Heroes, Doctor Who, Lost...
Jared era ossessionato da quelle trasmissioni e mi costringeva a guardarle insieme a lui, mentre mangiavamo dei pop corn come degli adolescenti troppo cresciuti.
Ad un certo punto avevo addirittura iniziato ad adorarle e a scaricarne io stesso nel mio pc.
Avevo immaginato e sognato varie volte di essere coinvolto in una di quelle situazioni, ma non mi era mai passato neppure per l'anticamera del cervello che potessero essere cose vere.
Non ricordavo di essere mai stato così confuso in vita mia.

"Eccomi qui." disse Misha, entrando con un piattino di porcellana in una mano e un bicchiere d'acqua nell'altra.

Me lo porse gentilmente.

Io bevvi l'acqua per fargli piacere, dato che avevo un blocco nello stomaco che mi impediva di mangiare.
Dopotutto dovevano essere le undici di mattina o qualcosa del genere.
Misha andò a sedersi accanto a me, evitando accuratamente di sfiorarmi con la coscia.
Non mi chiese ripetutamente di assaggiare i suoi biscotti al cioccolato, come credevo che avrebbe fatto. Sembravano fatti in casa ed avevano un aspetto piuttosto invitante.

"Dì un po'... che lavoro facevi a New York?" mi chiese, facendo tamburellare le dita sul legno del tavolino.

Un momento, dunque adesso lui mi credeva?!

"Impiegato commerciale. Non che mi piacesse molto... " mormorai.

Mi chiesi se fosse consigliabile parlare di quanto odiassi il mio lavoro. Non credevo che contribuisse a rendermi simpatico ai suoi occhi.
Non sapevo mai di cosa dovevo parlare per dare una buona impressione, e mi detestavo per quello.

"Perché? Chi avresti preferito essere?"

Mi girai per un secondo verso Misha, sbattendo le palpebre. Aveva uno sguardo più comprensivo e decisamente meno cinico di prima.

"Emh… uno scrittore... ho sempre avuto fin troppa fantasia." risposi, gli occhi fissi sul fuoco.
Lui fece una breve pausa.
"Mmm... La fantasia non è mai troppa. Perché non lo sei diventato?’’
‘’Mio padre voleva che facessi il suo stesso lavoro.’’ mormorai, sentendomi patetico.
‘’Ah… beh… anche a mio padre non è mai andato a genio il mio sogno. Eppure, adesso sono uno scrittore."

Mi voltai di nuovo. Non me lo sarei mai aspettato.

"Sul serio?"

"Sì... " disse. Appoggiò il gomito al bracciolo, reggendo il viso con la mano. Esitò: "È l'unico modo che ho di liberarmi."

Guardai il suo profilo e poi distolsi lo sguardo.

"Di cosa?" chiesi.

Sentii che si stava creando qualche tipo di strana sintonia fra noi che nessuno dei due voleva far notare.
Lui ci rifletté un momento su.

"Di tutto. Le mie emozioni nascoste, quello che mi fa star male... la rabbia, l'amore represso o proibito, i ricordi. Proprio tutto. Scrivere è il miglior modo di comunicare. Spesso dalle opere conosci l'autore meglio di quando lo frequenti. Sono lo specchio della sua anima."

Restai a guardare affascinato i suoi occhi blu che si velavano appena di fronte alla luce del fuoco. Pareva commosso.
Che gli avessi ricordato qualcuno?
Ad un certo punto si voltò e i nostri occhi luminosi si incrociarono.
Qualcosa di devastante scattò dentro di me, come se avessi preso la scossa.
Chimica.

Si creò un silenzio angoscioso e imbarazzante finché Misha non distolse lo sguardo a sua volta e cambiò argomento.

"Stai meglio adesso?" domandò, sforzandosi di suonare rassicurante.

Si mise a giocare con l'orlo della sua giacca, fingendo noncuranza con tutte le sue forze.

"Sì... ora va meglio... credo." mormorai e tentai di alzarmi in piedi, per poi pentirmene.

Un forte giramento di testa mi costrinse a sedermi immediatamente.
Di fronte a me, tutto era bianco.
Misha si girò di scatto, afferrandomi per il braccio.
Stavo svenendo.

"Jensen... che ti prende? Jensen?" sentii la voce di Misha diventare sempre più ovattata, fino a non sentire più nulla.




Note dell’autrice
Hey, miei cari lettori :P (lo so che questo capitolo è un po’ corto ihihih) volevo comunicarvi che da ora in poi aggiornerò ogni Giovedì, così vi passerete il tempo mentre aspettiamo i sottotitoli di Supernatural #AtteseInfinite hahahaha XD (e sarò puntualissima U.U)
 volevo ringraziare chi si è preso (o si prenderà ) la briga di lasciarmi un commentino giusto per farmi sapere come sto andando<3

Vi amo tanto U.U

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Capitolo 3
*** Red Russia ***


                                                      Red Russia

 

 

Stelle... vedevo solo stelle lucenti nel cielo. Alcune lo solcavano, altre volavano come comete in quel tappeto blu come... quegli occhi.

 Una voce sconosciuta mi apostrofò con un accento tutt'altro che russo, strappandomi al mio sogno.
 Eppure la frase era in russo, di quello ne ero più che sicuro.

 "No, no... Mark, sa dire solo spasiba, parlagli in inglese per piacere!" disse un'altra voce, ridacchiando in maniera talmente ironica che capii immediatamente a chi apparteneva.

 "I-in realtà so anche dire Da svidanya... " gracchiai stizzito, tentando di mettere a fuoco i loro visi che mi osservavano dall'alto.
 Alla destra di Misha, un uomo scuro e barbuto mi osservava, dubbioso.

 "Sono svenuto?" chiesi; le tempie mi pulsavano.

 "Da ore. Sono le otto. Cosa senti in questo momento?" mi chiese Misha, un po' più seriamente, posando una mano fra il materasso e il cuscino.

 "Fame. E dolore alle tempie... " risposi, riappoggiando la testa.

 "Ti credo. Non mangi da stamattina. Sai? Ti ho preparato qualcosa con le mie mani." disse Misha, sicuro di sé.

 Strinsi gli occhi. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo ad immaginarmelo trafficare ai fornelli.

 Notai che ero stato steso su un letto comodissimo e caldo.
 Che fosse quello di Misha?!
 Faceva lo stesso meraviglioso profumo della sua pelliccia - una di quelle acque di colonia iper costose per uomini. Alla cannella.

 Il signore bruno mi posò una mano ampia sulla fronte sudata. Aveva i capelli strambi e arruffati, e la barba nera sfatta.

 "Capperi! Scotta come una fornace! Deve aver preso un bel po' di freddo. Non si esce fuori con questo tempo, signore!" sentenziò con una punta di scherzo nel tono, indicando la finestra serrata.

 "E ci credo che ha la febbre! Quando l'ho incontrato indossava solo pantaloni di cotone e giacca... Se non si è preso un bell'accidente lui...!" esclamò Misha. "A proposito, Jensen... Ti presento il dottor Mark Sheppard, viene dall'Inghilterra e... indovina? Abita nel mio stesso appartamento."

 "Vedi come ti vizio, Misha? Dottore a domicilio" disse scherzosamente.

 Lui ammiccò e mi guardò.
 "Vuoi farti dare una breve occhiata da lui, Jensen?"

 Annuii appena, pur fissando entrambi, stranito.

 Mark mi controllò il polso, e constatò ad occhio che la mia temperatura corporea era abbastanza lontana dalla norma.

 "Mmm. Ha decisamente la febbre! Ma non è solo questo il problema, purtroppo. Prenditi cura di lui... è davvero messo male." disse a Misha, che scuoteva la testa e si mordeva le labbra, pensoso.

 "Che intendi dire con 'è davvero messo male '?" gli chiese, senza staccare quelle pozze celesti dai miei occhi.

 L'altro gli fece segno di allontanarsi per un secondo e sussurrò alcune frasi in russo, credendo che fossi ancora talmente stordito che non avrei potuto sentirlo.
 Mi innervosii.
 Ma che diavolo mi stavano nascondendo quei due?

 "Che succede?" domandai, rivolto a Misha.

 Misha si voltò immediatamente, appena sentì il suono della mia voce.

 "Non preoccuparti. Mark crede che tu abbia avuto qualche trauma nelle ultime ore e per questo credi di vivere in America... e tutto il resto." mi rispose, un sopracciglio sollevato.

 Si avvicinò nuovamente a me.
 Non pareva affatto convinto della scusa che mi aveva appena rifilato.

 "Ah... dunque mi stai dicendo che sono completamente impazzito?" domandai. Cercai di non far trapelare l'irritazione dal tono.

 "No, assolutamente no." si affrettò a rassicurarmi Misha, sfiorandomi la spalla nuda col palmo tiepido.

 Mi avevano tolto la maglietta. Ebbi un meraviglioso fremito che non seppi spiegarmi a quel contatto improvviso.

 "Dico solo che hai bisogno di assistenza per un po'." disse, con un tono suadente, fissandomi con uno sguardo che non riuscii a reggere.

 Chiusi gli occhi per un momento e sospirai.

 "Per quanto tempo ho dormito? E una volta per tutte... in che anno siamo?" domandai, atono.

 "Ancora nel 1955, non preoccuparti." rispose lui, con un sorriso che mise in mostra i suoi denti perfetti.

 "È proprio questo che mi preoccupa... " mormorai amaro fra me e me.

 Si creò un silenzio imbarazzante nella stanza. Mark si schiarì la gola, osservando sia me che Misha in modo strano.

 Non ero mai stato bravo a nascondere le mie emozioni.

 "Beh... sarebbe ora che io rientri adesso. La cena non si mangia da sola. Buonanotte." disse frettolosamente, facendo l'occhiolino a Misha e salutando me con la mano.

 "Da svidanya... " gli rispose Misha con disinvoltura.

 Io provai ad imitare il suo accento, ma non mi riuscì molto, e lo feci ridere.

 "Devi pronunciare la 'a' finale in modo differente... " mi spiegò dolcemente, come se fossi stato un bambino.

 "Hai intenzione di insegnarmi il russo?" domandai, intimidito.

 Lui alzò gli occhi al cielo, con un sorrisetto che gli sollevava l'angolo della bocca. "Direi che sarebbe utile. Gli americani non sono visti di buon occhio qui. Ah, già - il tuo accento è palese."

 Che bellezza, pensai.
 Ero finito nella Russia dei primi anni cinquanta - almeno questo era ciò che Misha mi aveva spiegato - in piena guerra fredda e per di più con meno dieci gradi centigradi al sole. Se c'era il sole.

 "Vuoi dirmi qualcosa per caso?" chiese Misha all'improvviso, interrompendo i miei pensieri.

 Mi girai di scatto verso la sua espressione vagamente intenerita.
 Dovevo proprio avere un aspetto di merda.

 "A dir la verità sì... tanto ormai mi reputi un matto da legare... " borbottai.

 Lui si sistemò su una poltroncina che non avevo notato prima, e ripiegò appena la testa da un lato.

 "Non credo che terrei un matto da legare a casa mia... giusto?" fece, con un sorriso insopportabilmente dolce.

 Sospirai e mi sentii le guance accaldate. "Mmm... ho visto un cielo blu... pieno di stelle... mentre ero svenuto."

 "Continua." mi disse lui, calmo. Pareva perfino interessato.

 Cercai di interpretare il suo tono.
 Non riuscii a capire se quel 'continua' fosse una battuta sarcastica o meno. Ne faceva fin troppe per sapere quando scherzava.

 "Non sapevo esattamente dove mi trovassi nel sogno, magari era un posto alto - come un tetto, per esempio. Alcune di quelle stelle cadevano... altre restavano dov'erano e formavano strane... costellazioni... " mormorai, non capendo perché avessi tanta voglia di raccontarglielo.

 Ad un certo punto, i suoi occhi si illuminarono appena, ed un ricordo mi balenò in mente come un lampo inaspettato: avevo visto perfino Misha nel sogno. Mi aveva sorriso, indicandomi la stella polare, come se avessimo avuto molta più confidenza. E mi aveva anche detto qualcosa.

 "Che ti prende? Ti sei imbambolato?" mi domandò nella realtà, schernendomi.

 "N-no." gli risposi, rimuginando sulla frase apparentemente insensata che mi aveva rivolto in sogno: 'Per favore... Jens, aiutami a tornare.'

 A tornare dove?!

 ----------------

 Verso sera, la mia temperatura doveva essere salita parecchio, dato che a stento riuscivo a tenere gli occhi aperti. Ascoltavo la voce ovattata - e stupenda - di Misha che mi raccontava qualcosa ogni tanto, e mormorava frasi confuse sul fatto che quella febbre innaturale mi sarebbe passata entro poco tempo. Peccato che fosse convincente quanto un bambino goloso che sosteneva di non aver finito la cioccolata.

 Io, intanto, ero terribilmente confuso ed avevo una gran voglia di piangere.
 Perché mi trovavo lì?
 Perché ero sparito dalla mia città e soprattutto dalla mia epoca?
 Pensai a Jared che doveva essere terribilmente preoccupato per il sottoscritto.

 Solo dopo un po' mi ero ricordato del fatto che mi aveva lasciato un messaggio vocale quella mattina stessa e che stava invitando mezza New York per una pizza a casa sua.
 Cosa doveva aver pensato quando non mi aveva visto arrivare?
 Lo immaginai impugnare il cellulare e telefonarmi più volte, l'ansia che gli cresceva dentro man mano che i suoi tentativi di rintracciarmi fallivano miseramente.
 Poi, doveva avermi cercato ovunque, chiedendo a tutti i miei vicini di casa dove mi avessero visto l'ultima volta, e chiaramente sarebbe stato tutto inutile.
 A quel pensiero mi si strinse il cuore.

 Misha era perfino arrivato a domandarmi se mi ricordavo il nome dei miei familiari. Chissà dove credeva che avessi sbattuto la testa.

 Io, nonostante sapessi che mi sarei guadagnato uno dei suoi stupidi sorrisini di assenso, gli spiegai che la mia famiglia non poteva essere più lontana da Mosca.
 Anzi, la mia famiglia non esisteva ancora, ma naturalmente ebbi l'intelligenza di non dirgli pure questo.
 Ero stato completamente tagliato fuori dalla mia realtà, dalla mia vita.
 Ero finito nel posto più diverso di casa mia che mi potesse capitare ed ero disperato.

 Come se non bastasse ero preoccupato per quello che avevo.
 Mi faceva tanto male la testa che avevo l'impressione che stesse per esplodermi da un momento all'altro.

 "M-Misha... " mormorai ad un certo punto, tentando di cambiare posizione sul materasso.

 Lui entrò nel mio raggio visivo, l'aria vagamente preoccupata. Aveva un maglione di lana blu che lo copriva fino al collo e lo rendeva straordinariamente tenero.

 "Che succede? Hai male da qualche parte?" chiese, premuroso.

 "No... " biascicai, una goccia di sudore che mi colava sulla fronte.

 Lui prese un fazzoletto dal comodino intagliato in legno e me l'asciugò in un baleno, facendo rumorini di disapprovazione con la bocca.

 "Che cosa ho veramente?" gli domandai.

 Misha si riscosse appena a quella domanda.

 "Mmm... "

 Nel suo bel viso comparve quella presunta espressione innocente che gli avevo visto assumere un milione di volte solo nel giro di dieci ore.

 "Hai la febbre. Ecco cos'hai. E adesso dormi che è tardi. Sono le undici e mezza." mi disse lentamente, con un tono agrodolce da padre apprensivo.

 Come se non avesse avuto meno di cinque anni più di me.

 "No. Questa non è febbre." protestai, secco.

 Misha si mise le mani sui fianchi, fissandomi con aria cinica.

 "Vorresti dire che Mark non è un buon medico, forse?" scherzò. "E poi perché non dovrebbe essere febbre? Sentiamo." mi sfidò.

 "Non lo è perché io non sono nato ieri. Tu sai qualcos'altro su questa storia dei viaggi nel tempo, non è vero? Non mi sembri abbastanza stupito dal fatto che sono arrivato qui." dissi, con una sfacciataggine che non conoscevo.

 Misha mi osservò attentamente, il volto concentrato. Poi scoppiò in una risata sguaiata che mi fece saltare i nervi. Mi sentii le guance calde come il fuoco.

 Ci fu una pausa di silenzio mentre io lo fulminavo con lo sguardo e mi mordevo le labbra.

 "Non sono stupito perché tu non hai viaggiato nel tempo, tesoro mio. E ora dormi." disse con fare autoritario, sorridendo.

 Che antipatico, pensai.

 "Non ho sonno... " mugugnai, facendomi scappare un maledetto sbadiglio.

 Lui sorrise soddisfatto.

 "Ne hai. E anche tanto, dunque riposati." ordinò.

 Si avvicinò, mi rimboccò le lenzuola fino al collo e mi sistemò i due cuscini dietro la testa con fare paterno.

 Provai a giocare la mia ultima carta.

 "Ma, ma questo è il tuo letto... dove dormi tu adesso?" gli chiesi, la fronte corrugata.

 Lui rise di nuovo.

 "Sul divano del salotto. Tranquillo. Sei tu il malato e sei tu l'ospite, di conseguenza il mio letto tocca a te, capito?" disse, con un tono che non ammetteva repliche.

 "Ma appunto perché sono io l'ospite dovrei occupare io il div... "

 Lui marciò verso la porta della stanza senza darmi un minimo di conto. Si girò con un sopracciglio alzato, facendomi un chiaro cenno per zittirmi.

 "Sshh. Niente ma. Buonanotte Jensen, e sogni d'oro." disse scuotendo la testa.

 Io sospirai, irritato. "Buonanotte... Misha." dissi a denti stretti, guadagnandomi un altro dei suoi sorrisetti beffardi.

 Mi rannicchiai di lato, come facevo praticamente da sempre. Un brivido di freddo mi attraversò la schiena. Sapevo che sarebbe stata una nottata lunghissima. Troppi pensieri, e sconvolgimenti emotivi.
 Ero certo di essere stato vittima del classico 'colpo di fulmine' quando avevo guardato Misha negli occhi.
 Era stato come un'ondata che mi aveva travolto, lasciandomi senza fiato.

 Eppure, allo stesso tempo non riuscivo a soffrire quell'uomo.

 "Hey... vuoi che ti lasci la luce accesa per caso?" scherzò Misha, affacciandosi per un momento.

 Mi scappò una risata mal trattenuta.

 "Scemo." mormorai a voce bassissima, convinto che non mi avrebbe sentito.

 E invece, prima di spegnere definitivamente la luce sibilò:
 "Scemo sarai tu. Buonanotte, Jensen. E... chiama se hai bisogno."

 Mi avvolsi nelle coperte profumate fino al collo, chiedendomi in quale girone dell'Inferno fossi finito e cercando di dormire.

 La mattina dopo mi svegliai di colpo, scattando a sedere sul letto così velocemente che la vista mi si appannò per un po'. Avevo fatto qualche incubo probabilmente, ma me ne ero dimenticato subito.
 Mi portai una mano alla testa gocciolante di sudore, fantasticando per due secondi che tutto il casino che era successo nelle ultime ventiquattr'ore fosse stato solo un incubo. Ovviamente non lo era e la stanza di Misha lo testimoniava: i mobili antichi intagliati, lo sfarzo delle lampade gialle ai lati dello specchio, i cuscini rossi sparsi sul divanetto e la piccola televisione sul comò nero.
 Erano secoli che non ne vedevo una così vecchia.
 Dovevo essere stato veramente male la notte precedente per non aver notato quanto fosse bella l'atmosfera lì dentro.

 Stentavo ancora a credere di trovarmi in Russia.

 Scesi dal letto, rischiando quasi di stramazzare a terra a causa delle vertigini. Posai lo sguardo sulla poltroncina di fronte a me, e vidi un foglio con una scritta in corsivo adagiato su una vestaglia celeste.
 Lo presi.

 "Indossala, se hai freddo. E non fare complimenti! Misha."

 Sorrisi spontaneamente per la prima da volta da quando ero lì.
 Ma poi mi venne in mente che quell'uomo era fin troppo cortese nei miei confronti, dunque non capivo se fosse proprio tipico della sua personalità o se ci fosse qualcosa sotto.

 Decisi che per il momento non era un problema e mi annodai tranquillamente la vestaglia alla vita, lasciandomi inebriare da una dolce ondata di cannella e melone. Avrei voluto tenerla addosso per sempre.

 Camminai verso la porta bianca e dorata della camera da letto in punta di piedi. La feci scricchiolare nel tentativo di non fare troppo rumore.

 La stanza dove avevo dormito stava al primo piano.
 Ne dedussi che qualcuno doveva avermi portato in braccio fino a lì.
 Perché Misha non mi aveva semplicemente sistemato nel divano?

 Delle scale assurdamente decorate dividevano la camera di Misha dal resto della casa. La ringhiera e il parapetto creavano milioni di spirali beige e dorate, e al posto del corrimano del lato sinistro c'erano addirittura delle mensole con vari soprammobili, orologi a forma di teiera e altre stramberie simili.

 Mi guardai attorno spaesato, ammirando la bellezza di quelle decorazioni, la moquette, i quadri astratti pieni di sprazzi di colori caldi al muro. Era tutto un miscuglio di stili totalmente differenti fra loro, ma ogni cosa era stata sistemata tanto sapientemente da creare un'atmosfera quasi fiabesca.
 Credevo che il posto fosse stravagante almeno quanto il proprietario.

 Scesi lentamente la scala, e attraversai l'enorme arco rossiccio che la separava dal salone di prima, aspettandomi di trovare Misha. Ma era deserto, e il divano era perfettamente in ordine. Restai deluso: avrei voluto vederlo mentre dormiva.

 "M-Misha?" chiamai timidamente.
 Il suo nome fece eco in quell'ampio spazio semivuoto.

 Nessuna risposta.

 Percorsi il salone e arrivai sul tappeto color rubino circondato dalle poltroncine, chiedendomi dove fosse finito quel tipo.

 I miei piedi mi trasportarono verso la cucina, vuota anch'essa. Diedi una scorsa veloce alle casse di frutta, le file di bottiglie di vodka - vuote - sulle mensole e le decorazioni a tema primaverile nella credenza.

 Decisi che quella casa mi intrigava da morire e che ci avrei dato una 'brevissima' occhiata durante l'assenza di Misha, anche se sapevo che era da maleducati farlo.
 Volevo solo sapere di più sull'uomo che mi aveva ospitato. Avevo come l'impressione di trovarmi in un hotel a cinque stelle ispirato all'antica Russia sovietica.

 Cambiai stanza di fretta, e mi ritrovai in un altro soggiorno che doveva decisamente essere il regno di Misha. La scrivania traboccava di oggetti svariati di ogni tipo e colore: dalle Matrioske alle piccole riproduzioni dei monumenti di Mosca. Al centro della stanza c'era perfino un tavolino sul quale i modellini erano stati disposti in modo tale da riprodurre la Piazza Rossa e il Cremlino in versione mini.

 "Che genio... " mormorai fra me e me, sorridendo.

 Ad un certo punto, l'occhio mi cadde sull'unica cosa che pareva stonare in quella stanza: una scatola in un angolo.

 Avevo sempre avuto un'ossessione per le scatole sin da quando ero piccolo: stuzzicavano decisamente la mia curiosità. Ridussi gli occhi a due fessure, indeciso se farlo o meno, ma alla fine cedetti, e la aprii pian piano. Carta?!
 Rimasi basito, e anche un po' deluso dal contenuto finché non guardai meglio di cosa si trattava.
 Era un enorme ammasso di lettere.
 Avevano delle scritte perlopiù in russo sul retro, raramente in inglese. Ne presi una a caso.

 "Misha Dmitrij Tippens... Krushnic." mormorai, tenendo la lettera fra le mani tremanti.

 Socchiusi gli occhi, spremendomi le meningi e ripetendomi quelle quattro parole in testa finché non persero il loro senso. Dove le avevo sentite? Mi arresi, e cominciai a leggere in silenzio.

 "Carissimo Misha,
 so bene in che situazione ti trovi adesso e spero che non mi prenderai per matto appena leggerai quel che ho da dirti - in fondo, ne hai viste molte tu, di cose assurde. Devi sapere che ieri ho fatto un sogno molto particolare nel quale tu incontravi... "

 "Complicato il mio nome completo, eh Jensen?"

 Sobbalzai e sbiancai, lasciando cadere la lettera dentro la scatola.
 Oh, merda.

 Mi voltai con la stessa lentezza di un bradipo, e mi ritrovai sotto quel paio di occhi blu che mi scrutava con attenzione dalla porta.
 Ma che diavolo era? Un fantasma?

 Osservai quella figura affascinante appoggiata all'arco con una mano mentre con l'altra si lisciava la pelliccia beige, sentendomi morire.

 Non riuscivo a capire se la sua espressione fosse nervosa, cinica o incavolata.

 "Emh... i-io... scusami non volevo esser-"

 "È tua abitudine frugare nella roba altrui o è semplicemente una maniera per conoscermi?" sbottò acidamente, un sopracciglio alzato.

 Io mi sentii avvampare violentemente. Avrei voluto che il pavimento mi ingoiasse all'istante.
 Oh maledizione, pensai.

 "Emh... e-ero curioso, scusami... " mormorai stupidamente, senza riuscire a guardarlo negli occhi. Feci finta di concentrarmi sui suoi stivali neri a punta.

 Ci fu una pausa di silenzio interminabile.

 Un ghigno risuonò appena nella stanza e mi fece risollevare il capo.
 Il viso apparentemente autoritario di Misha diventò un sorrisetto tirato.

 "Quanto sei buffo. Ti perdono, razza di ficcanaso. Ma solo perché mi piaci. Cioè... mi... mi sei simpatico." si affrettò a specificare.

 Io gli rivolsi un mezzo sorriso imbarazzato. "Uhm... grazie. Beh... tanto non capisco nulla di russo." dissi, stringendomi timidamente nelle spalle per sdrammatizzare.

 Tanto non era russo, pensai.

 Lui sorrise a sua volta e si avvicinò di qualche passo, fermandosi ad un metro di distanza da me.
 Io respirai faticosamente.
 'Dio santo, non guardarmi in quel modo... ', mi ripetevo nella testa, senza riuscire a staccare gli occhi dai suoi. Ero pateticamente ipnotizzato.

 "Ti piace casa mia, vero Jensen?" mi domandò ad un certo punto, atono.

 Sbattei le palpebre in cerca di una risposta da dargli.

 "S-sì, certo... è molto... " balbettai, senza trovare le parole giuste.

 Ci fu un'altra pausa.

 "Molto... ?" mi incoraggiò.

 "Stravagante." tirai fuori.

 Lui ridusse gli occhi a due fessure, come se al primo impatto non avesse capito cosa intendessi.
 "Oh, sì sì - ho dei gusti molto singolari." disse alla fine.

 Ebbi la forte tentazione di dirgli scherzosamente 'Illuminami, allora', ma poi mi resi conto che nel 1955 ancora non era nemmeno nata l'autrice di Cinquanta Sfumature di Grigio, e che di conseguenza la battuta non avrebbe fatto alcun effetto. Inoltre, ero fin troppo timido per una frase del genere.

 Mi sentii un completo idiota. Potevo evitare di girellare per casa sua dopo che specialmente era stato così cordiale nei miei confronti. Mi ricordai di avere la sua vestaglia addosso e arrossii, guardandolo.

 "Beh... Sembra che tu abbia ripreso un po' di colore da ieri sera, o mi sbaglio?" mi domandò Misha, ironico.

 Deglutii. "Emh... sì, sto meglio... credo," mormorai, gli occhi bassi, fingendo di non capire la sua battuta. "Scusami ancora."

 "E smettila di scusarti." disse lui, facendomi segno di seguirlo in cucina.

 "Ma... eri arrabbiato prima... " dissi io con fare innocente.

 Lui rise.

 "Ti prendevo in giro, non hai capito che tipo sono? A proposito... credi che io sia un buon attore?" mi chiese, allegramente.

 Io mi strinsi nelle spalle. "Beh, sinceramente sì," mormorai.

 Misha sorrise spontaneamente. "Io non mi arrabbio mai davvero. Quasi. Su, bando alle ciance e andiamo a fare colazione." disse, facendo dietrofront.

 "Hai bisogno di aiuto?"

 "No. Cucino da solo da anni... " disse Misha, dandomi le spalle. Si tolse la pelliccia in un secondo e accese il fornello.

 "Ed io che volevo farmi perdonare preparando qualcosa," brontolai.

 "Non ce n'è bisogno, ho detto. E non ero arrabbiato,"

 Mi morsi le labbra.

 "E così... ti sei trasferito qui dieci anni fa?" chiesi, tentando di indovinare con finta noncuranza, osservando Misha che preparava qualcosa per due in un angolo della cucina.

 Lui fissò me, e poi la caffettiera.

 "Quattordici anni. L' uno Marzo, per la precisione." rispose.

 Io ebbi un fremito a quella data, e lui se ne accorse. L'uno Marzo era lo stesso giorno in cui io ero arrivato in Russia, il giorno del mio compleanno, e in più quello in cui avevo conosciuto lui. Troppe cose assieme.

 Misha versò il caffellatte in due tazze gialle e me ne passò una.

 "Grazie... " mormorai.

 Si sedette proprio di fronte a me, su quel tavolino elegante al centro della sala da pranzo, e si mise ad inzuppare un biscottino.

 Mi ripetei in testa quello che dovevo dirgli.

 "Perché sei venuto qui?" chiesi ad un certo punto, tutto d'un fiato, sperando di non irritarlo davvero con tutte quelle domande.

 Lui alzò lo sguardo dalla sua tazza, tacendo momentaneamente.
 Io deglutii.

 "Non mangi?" mi chiese, secco.

 Mi ammutolii, mordendomi il labbro. Magari era davvero arrabbiato con me perché avevo curiosato nella sua stupida scatola delle lettere - a differenza di quel che affermava - o semplicemente, il motivo per cui si trovava a Mosca non era la prima cosa di cui si parlava con una nuova conoscenza.

 Non ero certo del perché non volesse dirmelo, per cui preferii tapparmi la bocca con un biscotto al cioccolato dei suoi.

 "S-sono buonissimi... " mormorai a mo di complimento, chiedendomi se li avesse fatti lui.

 Lui si limitò ad alzare un sopracciglio. "Beh sì... Ruth è proprio una maga in cucina." disse stringendosi nelle spalle.

 Lo guardai, senza azzardarmi a chiedergli chi fosse Ruth. La sua espressione al momento suggeriva solo di non fargli altre domande.
 Teneva gli occhi chini sulla sua colazione e taceva. Eppure non mi era sembrato un uomo riservato al primo impatto. Anzi, tutto il contrario.

 Pensai che mia madre mi aveva sempre detto di non fidarmi di coloro che sembravano avere fin troppi segreti, ma poi mi resi anche conto di avere la bellezza di trentasette anni, e di doverla smettere di fare tutto quello che diceva alla lettera.

 "Ruth è... " esitò. "una mia... carissima amica. Da quando sono qui è sempre stata al mio fianco, in ogni caso." disse, calmo.

 Pensai alle condizioni in cui era il mondo a quei tempi, durante e dopo la seconda guerra mondiale.

 "Ti chiederai perché mai un americano si trasferirebbe in Russia proprio nel 1941... " mi sorprese lui, mescolando il suo caffellatte con cucchiaino.

 Era esattamente quello che volevo sapere. Quindi, oltre ai viaggi nel tempo anche la telepatia era vera.
 Bene.

 "Ma sai che c'è?" riprese a dire ad un certo punto. "Ho imparato che purtroppo molte cose non hanno spiegazioni. Non ho idea del perché sono qui quasi quanto te, credimi, Jensen Ross Ackles." mi disse, atono, guardandomi intensamente negli occhi.

 Il mio nome suonava decisamente più figo pronunciato da lui, nonostante la cadenza russa lo storpiasse appena. Riflettei sulle sue parole.
 In effetti aveva ragione. Ma cosa intendeva esattamente?

 "Aspetta un momento. Come fai a sapere il mio nome completo?" chiesi, corrugando la fronte.

 "La tua carta d'identità." disse lui, tranquillissimo, come se fosse una cosa ovvia.

 "Oh... e adesso chi è che fruga nelle cose altrui, eh?" ironizzai, tamburellando sul tavolo con le dita.

 Lui mi fissò con un sorrisetto falso.

 "È scivolata a terra ieri sera, mentre ti spogliavo." disse con tono acido.

 Poi, rimuginò sulle parole che aveva pronunciato e per la prima volta arrossì visibilmente, sotto i miei occhi soddisfatti.

 "B-beh... mentre ti toglievo la giacca." disse, mordendosi le labbra. Quelle splendide labbra.

 Decisi di avere pietà dei suoi ormoni e della sua dignità e di parlare d'altro.

 "Mmm. Perché non sai il motivo per cui ti trovi qui? Hai perso la memoria?" domandai. Sperai di non sembrare cinico.

 Lui sorrise appena, sollevato dal cambio d'argomento.

 "No. Io ricordo sempre tutto. Tranne qualche dettaglio della guerra, o quel che combino il Sabato sera dopo una bottiglia di vodka." disse, sorridendo amaramente.

 Ricambiai il sorriso. "Allora... forse sei una spia americana?" chiesi, facendo un ultimo tentativo.

 Lui scoppiò a ridere.
 'Ottima mossa, Jensen', mi dissi.

 "Caspita, in quarantuno anni non ho mai conosciuto un tipo più curioso di te!" esclamò Misha. "Comunque sia... non sono una spia, anche se da bambino era uno dei miei giochi preferiti." spiegò, appoggiando il viso al palmo e fissandomi con un sorriso.

 "Anche il mio... " mormorai timidamente, prendendo il cucchiaino e ripescando il mio biscotto. Si era sbriciolato quasi del tutto.

 Iniziammo una buffa chiaccherata sui giochi che facevamo da piccoli, e lui mi raccontò del fatto che avesse sempre adorato recitare e inventare storie da mettere in scena con gli amici.

 Ecco, stava succedendo di nuovo.
 Il sarcasmo acido che diventava chimica e armonia mentre conversavamo del più e del meno. Non sapevo cosa fosse, ma pareva qualcosa di magico che scattava dentro di me. E ci conoscevamo da un solo giorno.

 "Ti va di andare a prendere una boccata d'aria stasera?" mi chiese ad un certo punto, un sorriso malizioso in viso.

 Mi riscossi, e lo guardai, sbattendo le palpebre ripetutamente.
 Uscire? Con lui?

 "Dove?" chiesi, timido.

 "Non troppo lontano. Sei stato male." rispose.

 "Come se fosse stata febbre... "

 "Ancora con quella storia? Era una febbre da cavallo passeggera. Ti ricordo che sei passato dai cinque gradi sotto zero ai ventitré di casa mia."

 Ruotai gli occhi con aria stufa, decidendo di non sottolineare il fatto che una febbre a quaranta non passa in due giorni per evitare discussioni.

 "Comunque non lo so esattamente dove. In giro. C'è un po' di gente che vorrei che conoscessi." spiegò Misha, facendomi l'occhiolino con aria complice.

 Annuii, poco convinto dalle sue parole. "Il dottor Sheppard, intendi?" chiesi.

 "Beh... lui lo conosci già. Ci è voluto un po' per portarti su per le scale. Pesi un bel po', lo sai?" disse.

 "Ha-ha-ha che spiritoso" ribattei, alzandomi dal tavolo con poca grazia e urtando l'altra sedia. "Dov'è il bagno?"

 "In fondo al corridoio principale, terza porta a sinistra, my lord." rispose scherzosamente.

 Mi girai a fissarlo, dopo aver sentito quel nomignolo assurdo. Lui mi scoccò un sorrisino idiota, e poi mi seguì con lo sguardo mentre salivo le scale.

 "Non al piano di sopra, imbranato: vedi che la mia presenza ti fa male?" disse lui, con una punta di seduzione nella voce. O me l'ero immaginata? Me l'ero decisamente immaginata...

 "De-devo prendere la mia giacca di sopra. L'ho lasciata in camera tua." risposi, facendo uno sforzo sovrumano per non ridere.

 In effetti quella della giacca era solo una scusa per non fargli notare quanto fossi imbarazzato e confuso.

 ----------------

 Dovevo ancora abituarmi al fatto che la tecnologia fosse pressoché inesistente a quei tempi.

 Verso sera mi ero accorto di avere ancora il telefonino nella tasca della giacca, oltre ai miei documenti. Inutile dire che non c'era campo. Il cellulare era completamente scarico e non dava alcun segno di vita. La batteria aveva sempre funzionato male e si azzerava facilmente, tanto che in due giorni non riuscii più neppure ad accenderlo. Dovetti tenerlo nascosto - già immaginavo quale sarebbe stata la reazione di Misha se mi avesse visto con un Samsung Galaxy Fame fra le mani.
 Roba da alieni.

 "Dunque, dunque dunque... " mormorò Misha, esaminando attentamente il mio abbigliamento e facendomi sentire a disagio.
 Avevo i soliti vestiti spiegazzati di prima addosso.

 "Mmm. Temo che manchi qualcosa," disse, gli occhi ridotti a due fessure.

 "Qualcosa tipo... dieci sciarpe, undici maglioni e un paio di stivali da eschimese?" domandai ironicamente, le braccia conserte.

 "Ci sei andato vicino," disse Misha, senza scomporsi, un dito sulle labbra.

 Fece dietrofront, e spalancò il suo armadio, alla ricerca di qualcosa di adatto a me. Iniziò a buttare in aria la sua roba che svolazzava sul letto o sul tappeto rosso come l'ottanta per cento degli oggetti della casa.

 "Sei molto ordinato, vedo... " lo presi in giro.

 "Vuoi farmi da casalingo per caso? Ti assumo per venti rubli all'ora... " scherzò, la voce neutra.

 Ma possibile che quell'uomo avesse sempre almeno una cazzo di risposta pronta?

 "Non so nemmeno quanto valga in dollari un rublo... " protestai fra me e me.

 "Asino... oh! Eccola qui, finalmente!" esclamò Misha, girandosi verso il sottoscritto con una pelliccia marrone fra le mani e un'espressione soddisfatta in viso.

 "Farai un figurone, fidati di me. Metti questa." ordinò, lanciandomela fra le mani e riprendendo a rovistare nel suo guardaroba.

 La indossai lentamente, e mi sistemai il cappuccio ampio sulle spalle.
 'Anche questa profuma meravigliosamente', pensai.
 Quando Misha si girò sorrise, contemplandomi segretamente.

 "Sei proprio uno schianto, lo sai?" disse, sogghignando.

 Arrossii fino al collo.

 "Uhm... "

 "No, sul serio. Non ti prenderei mica in giro." disse, con un tono mieloso.

 Mi procurò un paio di guanti e una sciarpa che mi mise lui stesso, e solo dopo cercò altri indumenti per sé.

 "Ottimo. Su, andiamo." mi incitò, una volta pronto.

 A quanto pareva, ero l'unico ad essere imbarazzato; lui era il ritratto della sicurezza in ogni momento: da quando mi aveva imbacuccato a dovere a quando mi aveva aperto il portone e mi aveva fatto cenno di precederlo.

 In un batter d'occhio, uscimmo da quella reggia color porpora, ritrovandoci sul marciapiede deserto. Fui invaso da un brivido di freddo, nonostante la pesantezza del mio abbigliamento.

 I lampioni coloravano le strade semi buie di giallo, bianco e rosso e ogni strada sembrava più imponente dell'altra. La neve spessa ricopriva gli angoli delle vie, e luccicava appena, creando un'atmosfera affascinante.

 "È... così bello qui," mormorai innocentemente, sentendomi come se fosse ritornato il Natale.

 "Sì, lo so. Per questo esco spesso di sera. E d'inverno, soprattutto." disse lui, guardando la strada.

 Si voltò a fissarmi con una certa tenerezza negli occhi, come se avesse voluto dirmi qualcosa che poi aveva preferito tenere per sé.

 "Tutto bene?" chiesi, esitante, sistemandomi la sciarpa al collo. Mi pizzicava un po' la pelle, ma andava bene. Era la sua sciarpa.

 Distolse gli occhi e diede un calcio ad un sassolino con lo stivale.

 "Certo. Beh... meglio sbrigarsi." sbottò ad un certo punto, incamminandosi frettolosamente.

 "Dove andiamo, allora?"

 "Al Red Russia, tesoro." rispose, sogghignando.

 "E dov'è?"

 "Siamo quasi arrivati."

 Arrancai dietro Misha per un minuto o due; poi, in un batter d'occhio ci ritrovammo di fronte ad un locale dalla scritta vistosa - ovviamente rossa. Da lì dentro proveniva della musica folk, e la falce ed il martello sopra la parola 'Russia' dicevano molto.

 "Uno dei pochi locali aperti." sussurrò Misha, inespressivo, gli occhi fissi sull'insegna. Si leccò le labbra secche.

 Mi girai.

 "Cosa?"

 "Hai capito bene. Non c'è molto tempo per il divertimento, per ora. Sai com'è, è il dopoguerra. Il primo obiettivo che si pongono i russi è di rimettere in sesto la nazione... ma un po' di svago ogni tanto ci sta." spiegò, sbirciandomi con la coda dell'occhio.

 Mi morsi il labbro, consolandomi col fatto che sarei potuto finire in un'epoca peggiore - in quel caso la situazione sarebbe stata davvero critica. Ero stato fortunato e sfortunato allo stesso tempo.

 Mi immaginai il povero Misha vestito da militare, ricoperto di sangue fra le trincee sporche e fredde, e mi vennero i brividi.
 Pensai che doveva aver visto le peggiori atrocità durante la guerra, per cui cambiai argomento per delicatezza.

 "Emh... devo... portarti a casa io nel caso ti ubriacassi?" chiesi.

 Misha si limitò a spingermi dolcemente dentro il Red Russia.

 "E se ti ubriacassi anche tu?" mi chiese, alzando un sopracciglio.
 "Su... facciamo che chi si ubriaca per primo perde, ti va?" chiese, facendomi l'occhiolino per sembrare sereno ai miei occhi. Ma io percepivo ancora una punta di malinconia nel suo tono.

 "Non è giusto però... voglio dire... tu sei abituato a bere!" protestai.

 Lui inclinò pacificamente la testa da un lato.

 "Ti ho lanciato una sfida, Ackles. E da vero uomo devi accettarla, e adesso entriamo." rispose Misha, alzando le sopracciglia.

 Appena misi piede là dentro, compresi che il colore rosso era il comune denominatore di quella città, senza contare le bandiere comuniste alle pareti che furono la prova schiacciante che eravamo nel passato. Il resto era composto da folla, alcolici, ballerine bionde stupende, divani in pelle e luci viola e blu elettrico.

 Misha sussurrò quello che doveva essere un buonasera alla ragazza del bancone, intenta a lucidare un bicchiere di cristallo. Lei rispose cordialmente, ma senza sorridere.
 Non era una leggenda, allora, quella dei russi sempre seri.

 Io sfiorai appena il braccio di Misha per attirare la sua attenzione.

 "Com'è che si dice?" domandai.

 "Che cosa?" chiese lui.

 "Buonasera in russo... non mi hai detto di volermelo insegnare?"

 Lui sorrise.
 "Ah... sì, sì... ma non credo che sarei granché a spiegarti le cose, ti avverto... e il russo è una lingua complessa quasi quanto te." disse, ironico.

 "Divertente,"

 "In ogni caso ci sto. Buonasera è 'Dobriy vyechyer'... "

 Spalancai gli occhi.
 "Dobr... che!?"

 Lui scoppiò a ridere.

 "Si pronuncia 'Dobriy vyechyer'... " ripeté più lentamente "Ma si scrive... "

 "Sì... conosco i caratteri cirillici... " lo interruppi.

 Lui piegò la testa da un lato in modo buffo, come prima.

 "Beh... è già un ottimo inizio. Comunque sia buona parte dei miei amici sa parlare un inglese perfetto, grazie a me, dunque non hai di che temere... "

 "Non dicevi di essere un pessimo insegnante?" domandai, accigliato.

 Il suo viso assunse un'espressione vagamente maliziosa. Misha si avvicinò, come se non volesse che gli altri sentissero quel che aveva da dirmi.

 "Per te sì. Tu... " fece una pausa, sospirando - io ero ipnotizzato dal blu intenso dei suoi occhi. "Tu mi togli tutta la concentrazione, Jensen... " mormorò, le labbra appena schiuse.

 "Emh... c-cosa intendi? Cioè... perché?" chiesi, balbettando.

 "Per lo stesso motivo per cui sei così nervoso adesso... " rispose lui, alzando le sopracciglia.

 Mi sentii tremare le ossa dopo quella frase. Stava flirtando.

 All'improvviso, i suoi occhi si illuminarono.

 "Oh! A proposito! Magari qualcuno dei miei amici ti conosce già, Jensen, e sa che fine ha fatto la tua famiglia." fece ad un certo punto.

 Sbuffai.
 "Dio santo... quante volte devo ripeterti... "

 "... che sei il nuovo Dottore e sei arrivato fin qui con il TARDIS che si è pure guastato, lo so. Stavo solo scherzando, come al solito." mi interruppe lui con un sorriso, stringendosi innocentemente nelle spalle.

 Io aggrottai la fronte. Ma quanto era lunatico? Mi confondeva le idee. Non riuscivo a capire se credesse alla storia dei viaggi nel tempo o se ci ironizzasse su tutto il tempo e basta.

 "Non mi pare una cosa su cui poter scherzare... " dissi, con lo stesso tono che aveva usato Misha quando avevo rovistato nella sua scatola. Sì, volevo prevalere su di lui.

 Ma Misha mi si avvicinò e mi mise una mano sulla spalla per un secondo, sorprendendomi.

 "Lo so molto bene." mi disse, gli occhi tristi.

 Io spalancai i miei.
 "In che senso? Non sarà che tu... " mormorai.

 Misha esitò.
 "Beh... in realtà... "

 "Buonasera Misha! Qual buon vento ti mena qui il Giovedì sera?" cinguettò qualcuno, prendendolo per le spalle, e facendogli fare due passi di valzer.

 Io sobbalzai in un primo momento.
 Poi, la misi a fuoco.

 Era una donna rossa dai tratti affascinanti e il portamento elegante.
 Indossava un abitino bianco ricamato e sorrideva a Misha come se avesse visto il sole.

 "Hey," le disse lui. Si mise a ridere e la prese per mano, facendole fare una rapida piroetta.

 "Sono qui perché oggi abbiamo un ospite speciale," le spiegò, alludendo a me.

 Io cercai di sorridere nel modo più naturale possibile.

 "Jensen, lei è Ruth, l'amica di cui ti parlavo. Sai, quella dei biscotti." spiegò.

 "Oh! Ed io per te sarei 'quella dei biscotti'?" disse lei, con civetteria, sbattendo ripetutamente le ciglia piene di mascara.

 Misha sorrise in maniera seducente nella sua direzione.

 "Certo che no, my lady." rispose.

 Lei rise, arrossendo. Non ci voleva un genio a capire che era cotta di lui.

 Li osservai, con fare timido.

 "Piacere di conoscerti, Jensen. Spero tu abbia apprezzato i miei cookies!" fece lei, rivolta verso di me.

 "Emh... s-salve... sì, erano ottimi, complimenti davvero." balbettai, facendo correre gli occhi su entrambi.

 "Sì... Ruth è la classica inglese che adora i biscotti col tè." disse Misha, spintonandola confidenzialmente.

 "Andiamo... finiscila con questi stereotipi, Misha... non vivo mica di tè! Cioè... non se intendi quello da bere... " disse, guardandolo languidamente dal basso.

 Mi venne quasi da vomitare dopo aver sentito quella battuta.

 Misha, dal canto suo, non pareva affatto imbarazzato. Sfoggiò il ghigno soddisfatto di una tigre che ha avvistato una possibile preda, e poi sbirciò la mia reazione. Probabilmente, prima mi stava solo prendendo in giro, pensai.

 "Hai visto Sebastian... o Julie, per caso?" domandò a Ruth.

 "Nell'altra stanza... la solita." mormorò lei.

 Misha mi fece cenno di seguirlo, e camminò verso una porta con una stella stampata sopra.

 Appena entrammo, la prima cosa che notai fu una ragazza dai capelli color fuoco evidentemente tinti che si rilassava su un divano.
 Un uomo dagli occhi di ghiaccio rideva al suo fianco, e reggeva un mazzetto di carte in una mano e un bicchiere pieno di una sostanza ambrata nell'altra.

 "Hey, Mrs Krushnic... " disse la ragazza con uno sguardo malizioso, rivolta verso Ruth che le sorrise raggiante.

 "Ma va... quando la smetterai di chiamarmi così, Julie?" le chiese, fingendo di vergognarsene, come se il soprannome non le provocasse un immenso piacere.

 "Beh... quando la smetterai di ronzare attorno a lui, cara!" rispose lei, alzandosi e guardando prima loro, poi facendo scorrere lo sguardo su di me.

 Io arrossii.

 "Sebastian... Julie... lui è Jensen, uno nuovo qui. Nemmeno lui è abituato a bere... quindi può fare compagnia a te, Julie." disse Misha, facendomi cenno di andare da lei.

 Poi si allontanò nella pista da ballo con Ruth. Lo seguii con lo sguardo, esterrefatto. No, ma sul serio?

 Mi sedetti lentamente sulla poltroncina accanto a quella di Julie, e notai subito quanto fosse attraente: i capelli luminosi le ricadevano in parte sul petto e la matita nera le risaltava gli occhi verdissimi.

 "Amico, non essere timido, su, prendi un po' di questo!" mi disse Sebastian, allegramente, passandomi la sua bottiglia.

 "Emh... grazie mille, ma non credo che sia il caso... " mormorai, incerto.

 Sebastian rise.
 "Oh santo cielo. La stessa risposta di Julie quando gliel'ho offerto la prima volta!" esclamò, dandole una gomitata leggera.

 "Beh, almeno lui non è un ubriacone, come te!" esclamò lei, facendogli una linguaccia a mio vantaggio e sorridendo a me.

 Io ricambiai, e mi sforzai di non guardare troppo la coppia che ballava alle spalle di Sebastian.
 Misha si girò, scoccandomi un sorrisetto abbagliante che congelò i miei pensieri per un nanosecondo.

 In realtà, il whisky era l'unica bevanda alcolica che bevevo regolarmente, e mi piaceva da matti, ma non volevo ubriacarmi nemmeno un po'.

 Misha, intanto, si stava distraendo alla perfezione ballando un lento con Ruth. Bella strategia. Decisi di inventarmene una anche io, e dato che non sapevo ballare chiesi a Sebastian di giocare a carte.
 Come immaginavo, accettò con gioia. Perfetto, pensai.

 "Anzi, rendiamo le cose più interessanti. Ad ogni round che perdiamo dobbiamo bere un bicchiere del mio whisky!" propose, rassettandosi il colletto della camicia.

 Mi riscossi.
 "No... " protestai.

 "Mezzo allora? Suvvia, non è mica detto che tu perda." disse, ammiccando.

 Sospirai, guardandolo negli occhi azzurri. Non ero mai stato bravo a convincere le persone.

 "Eh va bene... vada per mezzo bicchiere," dissi, sbirciando Misha che, in un secondo, aveva cambiato ballo a seconda della musica.

 Mi imposi di non pensarci e di iniziare la partita. Peccato che non fossi un genio a quel gioco, e che perdessi penosamente ad ogni giro.

 "Personalmente, io tifo per te." mi disse Julie con un sorrisetto, sbirciando la reazione di Sebastian.

 Lui, dal canto suo, ricambiò la linguaccia di prima come se avesse avuto appena sei anni.

 "E poi ti cercherai qualcun'altro che ti paghi il cocktail!" scherzò.

 Scoppiai a ridere sguaiatamente, ma forse fu solo colpa dell'alcool.
 Inoltre, Misha mi distraeva continuamente senza volerlo. Forse. Si era tolto quel cappotto scuro e lungo, e lui sì che faceva davvero un figurone con quello smoking elegante. Era semplicemente perfetto.
 Non riuscivo a staccare gli occhi dal suo corpo che si muoveva con grazia a ritmo di musica, e le sue mani che sfioravano quelle di lei e scivolavano sensualmente sui suoi fianchi, facendola tremare di piacere.
 Erano davvero una coppia meravigliosa, pensai, mordendomi il labbro.
 Non capivo perché mi sentissi in quel modo. Non mi era mai davvero accaduto di pensare così ad un uomo.

 Presi la bottiglia di whisky, con aria nervosa e trasognata, e me ne versai un goccio nel mio bicchiere.
 Ingurgitai il contenuto e poi me ne versai ancora, ignorando il fatto che mi fosse venuto il singhiozzo.
 Ormai non capivo più nulla.

 "Jensen, tutto bene?" mi domandò Julie, una mano candida sulla mia spalla. Chiusi gli occhi per un attimo.

 "Sì... certamente" dissi in un sibilo.
 Presi un altro po' di whisky.

 "Hey, credo tu stia esagerando, adesso... " mormorò Sebastian, ma la sua voce era tanto ingigantita che a stento capivo le sue parole.

 Cominciai a sentire le palpebre sempre più pesanti, fin quando non le chiusi definitivamente, accasciandomi sullo schienale della poltrona.

 Sentii la risata contagiosa di Misha risuonare nella stanza assieme alle note sulle quali si stava scatenando con Ruth. Lei lo abbracciò, passandogli le braccia attorno al collo.

 Io chiusi gli occhi, boccheggiando qualche frase senza senso su quanto mi sentissi strano in quel momento.
 Mi stavo addormentando.

 ----------------------

 Un raggio di luce mi svegliò lentamente, scendendo suoi miei occhi man mano che il sole si levava. Sollevai le palpebre, e misi a fuoco un largo pezzo di carta di fronte a me.

 Certo che quell'uomo ha la mania dei biglietti, pensai.
 Lo lessi, nonostante fossi ancora in dormiveglia.

 "Ovviamente, ho vinto io la scommessa, e ti ho trascinato dal locale al mio letto - a stento ti reggevi in piedi. E menomale che non volevi neanche bere!

 PS Come dicevo ieri mattina... pesi un bel po'. Misha "

 


 Note dell'autrice:
 Buonasera;) - o Buongiorno.. dipende da quando leggete :P - Perdonate la differenza di lunghezza fra i capitoli.
 Secondo i miei piani iniziali il primo e il secondo sarebbero dovuti essere un unico capitolo, ma c'è stato un errore di copia e incolla... fate finta di niente *si nasconde con un sacchetto del pane in testa* XD

PS per chi non sa nulla di russo: "spasiba" significa grazie mentre "Da svidanya" vuol dire "arrivederci" ;))) <3

 Comunque sia vi ringrazio ancora moltissimo per le recensioni e i follow, vi adoro tutti
 

 

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Capitolo 4
*** This is a real kiss, honey ***


            This is a real kiss, honey



 Un mese dopo la sera in cui eravamo andati al Red Russia, mi sembrò quasi che fossero passati solo pochi giorni da quando ero arrivato a Mosca.

 Inizialmente non fu affatto facile vivere lì, o forse lo pensavo solo perché venivo dal fottuto 2015, e non ero abituato a non avere Internet a disposizione, il frullatore moderno per prepararmi la colazione o roba simile.

 Misha aveva addirittura uno spazzolino di riserva per me, delle tovaglie nuove, e migliaia di altre cose in casa, come se si aspettasse che sarei sbucato fuori da un momento all'altro. Spesso, mi capitava di sospettare che lui c'entrasse col fatto che ero finito in Russia, ma poi mi davo del cretino da solo per averlo pensato.

 Misha era premuroso e - oserei dire - in qualche modo affettuoso con me, come se fossi stato uno dei suoi familiari. Non mi aveva mai neppure chiesto di andarmene, o di trovarmi un altro posto dove ripararmi; dovevo solo spiegare a chiunque me lo chiedesse che abitavo nel suo stesso appartamento - in un altro piano, chiaramente. Entrambi conoscevamo perfettamente i rischi che avremmo corso dicendo la verità.

 Io, dal canto mio, cominciavo quasi a sentire qualcosa di dolce e doloroso che cresceva dentro di me, e mi procurava non pochi sensi di colpa. Era doloroso perché non avrei dovuto provarlo. Non avrei mai nemmeno dovuto pensare ad una cosa del genere.

 Era una vita che scansavo di malavoglia tutti quelli del mio stesso sesso, mosso dall'insensato desiderio di rendere felice mio padre; ma dato che ormai avevo realizzato di essere bloccato nel 1955, ogni volta che la mia famiglia mi passava per la testa avevo sempre di più l'impressione che non fosse mai esistita. Non ancora. Di conseguenza, nemmeno mio padre era mai esistito, né la sua inguaribile omofobia.

 E poi, con Misha c'era qualcosa di diverso. Aveva un carattere sorprendentemente sensibile e comprensivo. Mi affascinava ogni singola cosa di lui; e mi sentivo così strano quando la sera lo osservavo mentre scriveva qualcuno dei suoi capitoli, il volto sognante ma concentrato. Mi faceva sentire speciale quando mi confessava che lo ispiravo per scrivere nuove storie. Spesso, notavo che introduceva alcuni dei nostri dialoghi fra le righe, come se io gli avessi lasciato nel cuore qualcosa di indimenticabile da tradurre su carta.

 Adoravo perfino la maniera dolcemente sfacciata con la quale mi prendeva per il culo mentre cucinavamo assieme. Io ero un totale imbranato in materia - a New York mangiavo pizza surgelata e porcherie simili quasi tutti i giorni.

 Man mano che stavo in sua compagnia, mi accorgevo sempre di più di quanto fosse altruista e creativo: cucinava i piatti più disparati, dipingeva e dava in beneficenza buona parte dei soldi che guadagnava con le storie.
 Scriveva quasi solo la sera tardi, perché diceva che l'oscurità teneva sveglia la sua fantasia. Effettivamente, Misha affermava di essere un nottambulo: aveva una fissa per il buio e per il pallore della luce lunare.

 Migliaia di volte Misha mi aveva portato in giro per la capitale dopo mezzanotte, per goderci la movida moscovita appena riaccesa. Nei visi della gente che vedevo passare per strada riuscivo a leggere la tranquillità da poco raggiunta del dopoguerra, il dolore delle perdite dei loro cari e la paura di un nuovo conflitto mondiale ancora viva negli occhi.

 Ovviamente, solo io sapevo che non ce ne sarebbe stato un altro, per fortuna.

 Tutto questo era infinitamente assurdo, ma iniziavo quasi ad abituarmi a quella vita, a quella città, a quella routine. Ma non a Misha Krushnic. Me ne innamoravo ogni giorno di più, per quanto mi sforzassi di non pensare a lui in quel modo. Mi piaceva da morire parlargli di qualunque sciocchezza mi passasse per la testa. Misha aveva la mente fin troppo aperta per quell'epoca - ci avevo fatto caso sin dal primo giorno in cui l'avevo conosciuto - per non menzionare il fatto che mi faceva morire dal ridere con le sue battute pungenti.

 Eppure, col passare del tempo mi accorsi anche di una cosa molto triste: Misha soffriva. Ogni giorno.
 Certe volte pareva che avesse un velo di tristezza in quegli occhi apparentemente sorridenti, come se qualcuno l'avesse ferito nel passato, e in un certo senso la cosa contribuiva ad intrigarmi ancora di più. Ovviamente, io non osai mica domandargli cosa avesse.
 Preferii di gran lunga girarci attorno, esattamente come facevo da una vita in ogni situazione.

 "Vivi solo da molto?" chiesi titubante, mentre tagliavo a fette una carota su un tagliere.

 Mi sforzavo di sembrare più veloce possibile a farlo.

 "Sì. Da quando è finita la guerra. Prima abitavo nello stesso appartamento di Ruth e compagnia bella." rispose, atono.

 "Ah," esalai. Guardai il suo profilo.

 "Non stiamo insieme, io e Ruth, a differenza di quello che potresti aver pensato." disse improvvisamente, con una risatina.

 Mi voltai verso di lui. Stava pelando le patate con addosso il grembiule da cucina - che gli donava parecchio.

 "Beh... avrei giurato di sì... " risposi, sforzandomi di suonare naturale e disinvolto come lui.

 Arrossii appena, pensando a Ruth che non faceva altro che fargli le fusa.

 Ma Misha sorrise genuinamente.
 "Le apparenze ingannano. Più che altro è lei ad essere ossessionata da me. Da quando sono qui. Deve avermi inviato... " si mise a contare sulle dita, "... circa venti lettere mentre ero in guerra... in una si è perfino dichiarata, temendo che morissi." raccontò, con tono quasi divertito, come se si trattasse di un bel ricordo.

 Forse era il suo unico ricordo piacevole di quegli anni tanto complicati.

 "Mmm, e tu... cosa le hai risposto?" domandai, tremante.

 Misha sospirò.
 "Beh... le ho... detto la verità, ovviamente con delicatezza. Le voglio bene come si vuol bene ad una sorella, ma non sono mai stato innamorato di lei - caratterialmente non è il mio tipo." ridacchiò, lavandosi le mani. "In sintesi, non hai motivo d'esser geloso, Jensen." disse, sbirciandomi con uno stupido ghigno.

 Arrossii di colpo, stupito da tanta sfacciataggine. Avrei voluto rispondergli male, ma non trovai le parole né la forza per farlo.

 Ci fu una lunga pausa di silenzio, ed io gli passai le fette di carota, sfiorandogli la mano di proposito.
 Cominciavo a preoccuparmi seriamente dei miei desideri sessuali.

 Misha aveva detto 'caratterialmente'. Ciò stava forse ad attestare che fisicamente invece gli piaceva Ruth? Mentre questo interrogativo mi frullava in testa mi sentivo uno stupido adolescente problematico. Lo guardai con la coda dell'occhio, ripetendomi in testa all'infinito la domanda che volevo fargli, in modo che sembrasse buttata lì per caso.

 "Su, domandamelo, Jensen. 'Sei single?', non ti mangio mica, eh!" sbottò ad un certo punto, ridendo maliziosamente.

 Lo sapevo che era telepatico. Sorrisi, timido, abbassando il capo.

 "Ma se mi hai accusato di essere un ficcanaso!" protestai, le mani sui fianchi.

 "Eri solo curioso quando hai rovistato nella mia scatola come un procione nell'immondizia." disse, inclinando la testa da un lato.

 "Ah! Adesso mi difendi pure? E mi paragoni ad un procione?"

 "Ne avevi l'aria. Un povero cucciolo spaventato dall'arrivo del suo padrone." disse, scuotendo la testa con aria fintamente intenerita.

 "Che spiritoso."

 "Comunque, se proprio ci tieni a saperlo, sì. Sono single." mi concesse.

 "Aha,"

 Misha sorrise, togliendosi il grembiule da cucina e piegandolo.

 "Single da un bel po'." aggiunse, secco.

 "Beh... non sei l'unico. Io ho rotto con la mia vecchia fiamma un anno fa, sai... nel presente... " mormorai, scrollandomi di dosso l'ondata di ricordi che mi aveva improvvisamente travolto.

 Io e Cindy Sampson.
 Non era stata una pessima storia d'amore, la nostra. Niente affatto. C'era molta affinità, avevamo un mucchio di cose in comune e di progetti per il futuro, ma soprattutto andavamo d'accordo. Forse fin troppo. Eppure mancava qualcosa - non sapevo e non mi ero mai sforzato di capire cosa.

 Misha mi posò gli occhi addosso, incuriosito.

 "Eri fidanzato, allora?" chiese.

 "Già," dissi.

 "Ma non ha funzionato... " disse.

 "No." dissi, asciutto.

 Ci fu un'altra pausa, disturbata solo dal bollore rassicurante della pentola. Mi piaceva cucinare in sua compagnia. A dir la verità, avevo la certezza che avrei adorato fare qualunque cosa con quell'uomo.
 Sbirciai l'espressione dei suoi occhi.

 "Ti fa male pensarci?" domandò, senza guardarmi.

 "A cosa?"

 Avevo perfino perso il filo del discorso.

 "Alla tua vecchia fiamma, Jens." disse, come se fosse la cosa più ovvia al mondo.

 Sorrisi mio malgrado. Mi accadeva ogni volta che usava versioni abbreviate del mio nome per chiamarmi. E pensare che avevo sempre tassativamente proibito ai miei amici di farlo. Perfino a Jared.

 "Non mi fa alcun effetto pensarci, in realtà." dissi, veritiero, sentendomi una merda nei confronti di Cindy.

 Lui si voltò, sorpreso. "Ah!" esalò, "Beh... allora o non era vero amore oppure ti sei preso una bella cotta per qualcun'altro... " disse, sorridendo compiaciuto.

 Io mi girai immediatamente, con la scusa di sistemare le posate in tavola, dandogli le spalle affinché non vedesse la mia faccia ormai paonazza.

 "Emh... e per quanto riguarda te? Cosa è successo... ? Cioè se... se vuoi dirlo... "

 Di colpo, calò di nuovo un silenzio preoccupante. Misha gemette appena e io feci dietrofront. Mi guardava, inespressivo, la pezza stretta in un pugno per puro sfogo. L'espressione che aveva dipinta in viso non prometteva nulla di buono.

 "È stato... molto tempo fa... " ringhiò. Si morse nervosamente il labbro inferiore e buttò in fretta gli ingredienti nella pentola, come se inconsciamente volesse simulare il fatto di liberarsi di qualcosa di fastidioso.

 Cercai di capire se avesse gli occhi lucidi, senza sembrare invadente.

 "Non sei costretto a parlarmene, se ti rende triste... " mormorai, poco deciso.

 "Mmm," fece lui, stringendo con più forza la pezza con la quale stava strofinando il piano da lavoro. "In realtà... parlare d'amore in generale mi rende malinconico. Anzi - diciamoci la verità - nemmeno ci credo, nell'amore." disse, asciutto.

 Rimasi un po' basito da quella risposta. Non sapevo assolutamente che cosa dirgli.

 "Secondo me l'amore vero c'è. Solo che... è così raro da sembrare inesistente." mormorai stupidamente, sperando di non sembrare il classico filosofo che al momento più inappropriato tirava fuori frasi da baci Perugina.

 Lui mi guardò, inarcando le sopracciglia verso il basso, l'aria malinconica.

 "Allora sono stato sfortunato io a non accorgermi della sua esistenza." disse, cercando di usare un tono acido, ma la voce gli si incrinò appena.

 Mi avvicinai, e gli misi timidamente una mano sulla spalla, sentendomi in dovere di aiutarlo in qualche modo, ma al contempo percependo un desiderio inarrestabile di stare a contatto col suo corpo, con la sua pelle calda.

 "Misha... tutto okay?" chiesi, usando il tono più comprensivo e meno compassionevole che conoscevo.

 Speravo ardentemente che mi abbracciasse, approfittando del mio palmo sul suo bicipite, ma non si azzardò. Invece, si scostò appena, irrigidito dalla mia carezza, e si passò le dita fra i capelli in segno di esasperazione.

 "Su, Jensen, lascia stare. Cuciniamo, che sono già le nove. Starai morendo di fame. No?" disse precipitosamente, girandosi per gettare le bucce nell'immondizia.

 Mi sorrise con fare rassicurante, per farmi capire che tutto andava infinitamente bene. Ma non era affatto così, ne ero certo.

 "Mmm." dissi.

 "Che c'è?"

 "Qualcosa non va, eh?"

 "Ma che dici?! Va tutto alla perfezione!" rispose Misha con forza nella voce. Cercava di essere convincente.

 Io scossi la testa.

 "No. Non mi sembra... puoi parlarne, Mish... d-dico davvero." dissi, arrossendo non appena realizzai di averlo chiamato con quel nome tanto intimo.

 Lui abbassò il capo, per poi incontrare nuovamente i miei occhi.

 "È complicato, Jensen. Credimi."

 "Ti credo, ti credo. Ma voglio che tu sia sincero. Se ti va di esserlo con uno sconosciuto... " specificai, con un sospiro.

 "Non sei uno sconosciuto," disse con veemenza, guardandomi. "Hai dato... colore alla mia vita... lo sai questo?"

 Lo fissai con le labbra appena aperte. Che aveva detto!?

 "Davvero?" mormorai, incredulo.

 Misha distolse gli occhi. "Sì... beh, non so come... ma c'è qualcosa in più con te... è tutto così... migliore. Non me lo spiego." disse, dolcemente.

 Avrei voluto dirgli 'io sì che me lo spiego', ma quella frase mi restò bloccata in gola, incapace di uscirne fuori. Mi limitai, invece, a ricambiare il sorriso.

 Misha mi fece l'occhiolino e mosse due passi verso il tavolo, ma si bloccò improvvisamente, gli occhi a fessura che osservavano il muro.

 "Che c'è?" chiesi.

 Lui rimase dov'era.

 Io aggrottai la fronte e mi avvicinai con fare circospetto.

 "Tutto bene?"

 "Sì," allungò un dito verso la parete leggermente macchiata in un punto. "E questa? Che diavolo è?" mormorò, sospettoso.

 Somigliava ad uno scarabocchio informe fatto con una penna o un pennarello scuro. Dava l'impressione di un disegno fatto da qualcuno che era stato interrotto a metà dell'opera e non era riuscito a completarlo.

 "Deve... essersi sporcato con qualcosa..." dissi.

 "Con che cosa?" mormorò Misha. Mi guardò dritto negli occhi, l'aria perplessa.

 Io mi strinsi nelle spalle.

 Andammo a preparare tranquillamente il resto della cena, fingendo di non farci più caso.
 Ma ogni tanto, l'occhio ci cadeva per un secondo su quella semplice macchia. Ero certo che ricordasse qualcosa anche a lui.
 E la cosa mi turbava abbastanza.

 --------------------

 Il divano letto di Misha era abbastanza comodo e grande da ospitarmi. Non mi piaceva come il suo letto, che tra l'altro profumava di lui, ma ci si poteva dormire benissimo, differentemente da quel che mi aspettavo io - torcicollo e roba simile.
 Eppure, quella notte mi girai e mi rigirai più volte, come se qualcosa mi tenesse irrimediabilmente sveglio. Mi addormentavo per pochi e brevi minuti, per poi risvegliarmi di soprassalto, come dopo un incubo orribile.

 Mi rassegnai per un po', e mi guardai attorno nel grande salone buio, sentendomi in un film di fantascienza.

 I mobili e gli oggetti apparivano oscurati a metà e conferivano al luogo un aspetto tetro ed inquietante, in contrasto con l'aria accogliente che aveva di giorno.

 Un'angoscia soffocante ed insopportabile mi invase al pensiero di Jared e di tutti i miei cari. Chissà come erano preoccupati per me in quel momento. Magari pensavano che un assassino mi avesse sorpreso e ucciso a sangue freddo in un vicolo di New York? Mi tornò in mente il fatto che mia madre sarebbe perfino potuta morire di crepacuore, dato che negli ultimi tempi era tremendamente sensibile, e mi si congelò il sangue nelle vene.

 Dopo la morte inaspettata di mio padre era come se tutta la mia famiglia si fosse irrimediabilmente spenta. Non organizzavano più feste da un bel periodo - nemmeno stupide riunioni occasionali - che di solito erano all'ordine del giorno a casa mia, ecco perché ero stato felice quando Jared aveva chiamato tutti per quel piccolo incontro da lui.

 Io ero stato il primo di tutti a reagire male, dopo l'incidente stradale di mio padre. Eppure io e lui avevamo sempre avuto un pessimo rapporto a causa del mio carattere introverso ed insicuro - mio padre voleva che fossi come lui in tutto e per tutto - e la mia sessualità incerta sin da quando ero un adolescente.

 Un giorno, a diciotto anni, gli avevo urlato in faccia che potevo fare a meno di lui, e che non me ne fregava nulla di quello che mi diceva; anche se poi decisi, molto incoerentemente, di diventare un impiegato come desiderava e di trascurare dolorosamente qualche parte di me per far piacere a lui - e per far smettere mia madre di disperarsi.

 Ma dopo quell'orribile giorno mi ero sentito come se tutte le volte in cui mi ero ribellato fossero servite a farlo morire. Non aveva alcun senso, e lo sapevo perfettamente, eppure piangevo ogni volta che mi veniva in mente il suo corpo che giaceva in mezzo alla strada, inerme in un lago di sangue.

 Mi scese una lacrima giù per la guancia, e io non provai neppure ad asciugarla. Continuai a tenere gli occhi fissi sul tetto per almeno un quarto d'ora, tentando di controllare i singhiozzi.

 Ad un certo punto, sentii un rumore che proveniva dal piano di sopra.
 Un gemito.

 Ingoiai un groppo di saliva, incerto.
 Un altro gemito. Poi un breve lamento. E un sospiro.

 Cacciai la testa sotto le coperte pesanti, con la scusa di voler dormire in silenzio.

 "Jensen Ross Ackles, te la stai facendo sotto, eh?", disse la mia coscienza, ma io la zittii prontamente.

 Non ero in vena di affrontare fantasmi o altro. Volevo solo stare sotto i piumoni a piangere e a demoralizzarmi inutilmente fino alle otto del mattino. Poi, vinto dal sonno, mi sarei addormentato fino alle undici, per poi sorbirmi le prese in giro di Misha che mi definiva un ghiro in letargo. E aveva ragione.

 A proposito di Misha. Come diavolo faceva a non sentire quel casino infernale? I singhiozzi si erano pure triplicati, intanto, e continuavano a risuonare nell'aria della casa come una musica stonata, inquietandomi. Avrei giurato perfino di sentirne l'eco.

 Mi leccai le labbra secche dalla paura, sentendomi un perfetto imbecille.

 Forse era davvero il caso di andare a dare un'occhiata là sopra?
 Ma no.

 "Jensen! Datti una mossa! Che razza di uomo sei? Tira fuori le palle!" mi urlò quella vocina stronza da dentro la mia testa.

 "Non è che mi senta poi così uomo in questo periodo!" le risposi mentalmente, con una sorta di autoironia amara.

 Ma poi mi sentii veramente in dovere di uscire dalla mia calda tana fatta di lenzuola e piume.

 Scesi lentamente dal divano, appoggiando i piedi per terra uno ad uno e quasi aspettandomi la classica scena da film horror in cui tirano giù i personaggi afferrandoli per le caviglie. "Accidenti a Jared che mi faceva guardare quella roba spaventosa" brontolai fra me e me.

 Mi alzai, e mossi qualche passo eroico verso la scala, notando che i gemiti provenivano proprio da lì.
 Una volta giunto al piano di sopra, però, non me la sentii di andare a controllare da solo, e feci la stupida mossa codarda di bussare lievemente alla porta di Misha.

 I suoni scomparvero di colpo e un silenzio tombale calò nella casa.

 Aggrottai la fronte e mi morsi le labbra, confuso e spiazzato.
 Tesi l'orecchio. Niente.
 Solo fruscii confusi.
 Nessun suono, nessun lamento.

 Spinsi pian piano la porta in avanti; i cardini emisero un suono strano e disarmonico. Camminai in punta di piedi fino al letto di Misha.

 Eccolo lì, avvolto in quel pigiama celeste che gli copriva tutto il petto e terminava con un colletto bianco.
 Pareva dormire serenamente, la testa rilassata sul cuscino, i capelli un po' sparsi su di esso.
 Era semplicemente bellissimo.

 La luce filtrava dalla persiana e illuminava appena le sue labbra soffici e semiaperte.
 Forse avrei potuto... no... ma ero pazzo?!

 Mi avvicinai, il cuore in tumulto.
 Ma che mi prendeva? Che cazzo mi prendeva?

 Continuai a contemplarlo, regolarizzando perfino il mio stesso respiro. Avevo il terrore di svegliarlo e spaventarlo.

 Ad un certo punto strinsi appena gli occhi. Avevo notato qualcosa di strano sulla sua pelle. Era una cicatrice lunga e profonda che partiva dall'orecchio e scendeva giù per il collo, probabilmente fino al petto.

 Avvertii un'ondata di tenerezza nei suoi confronti, intuendo che certamente risaliva alla guerra. Mi chiedevo quanto potesse essere stata terribile.

 Sospirai, cercando inutilmente di controllare i miei pensieri su quell'uomo. Maledizione.

 Purtroppo dovevo ammetterlo almeno a me stesso. Provavo una forte attrazione sessuale e mentale nei suoi confronti. Ma non era solo questo. Si trattava di qualcosa di molto più intenso, che mi incuteva quasi timore e mi travolgeva ogni volta che lo guardavo, che sentivo un'ondata del suo profumo o che ascoltavo la sua voce un po' rauca e sensuale. Il suo accento mi pareva così melodioso rispetto a quello degli altri russi. Era la prima volta che avevo paura di innamorarmi. Eppure stava accadendo.

 Mi avvicinai ancora di più. Desideravo le sue labbra, più di ogni altra cosa. Mi sentivo strano, eccitato, totalmente impazzito, come se fossi tornato ad essere un adolescente al suo primo appuntamento. Mi protesi un po', avvicinando il viso al suo e pensando all'assurdità della situazione: stavo per baciare un uomo per la prima volta nella mia vita - non avrei mai immaginato che sarebbe successo per davvero.

 Schiusi le labbra e sfiorai delicatamente l'angolo delle sue, trattenendo il respiro per l'emozione.

 La sua bocca era morbida, leggermente umida, stupenda, e il suo profumo fu la ciliegina sulla torta che mi fece impazzire. Temevo addirittura che potesse sentire il mio battito cardiaco uscire fuori dal petto. Gli accarezzai le labbra con le mie, e mi scostai dopo circa cinque secondi, i brividi che mi attraversavano la schiena.

 Fu un bacio tanto dolce ed innocente che non mi sentii neppure troppo in colpa per averglielo dato.

 Dopo averlo osservato con brama per un po', decisi a malincuore di tornare a letto e cercare di addormentarmi per almeno quattro ore - ormai dovevano essere le cinque del mattino - ma prima di fare definitivamente dietrofront, mi accorsi di un luccichio sulla guancia sinistra di Misha. Lo misi a fuoco, realizzando tutto e sentendomi morire dall'imbarazzo.

 Era una lacrima.

 "Oh, porca puttana... " pensai, gli occhi fuori dalle orbite. Volevo sprofondare. Volevo sparire. Come cacchio avevo fatto a non intuirlo? Era Misha che stava piangendo e - chiaramente - stava soltanto fingendo di dormire.

 Mi girai con l'agilità di un ladro colto in flagrante, e tentai di scappare di soppiatto, ma un suono sordo simile all'accensione di un interruttore mi fece salire il sangue alla testa. Inspirai di colpo, bloccato.

 "Hey,"

 Oh no, merda. No. No.
 Mi voltai, pian piano.

 Purtroppo, come immaginavo, Misha era perfettamente sveglio, e mi osservava dal letto, appoggiato su un gomito; il dito sulla sua abat-jour che illuminava appena il suo volto accigliato.

 "Oh... cazzo," mormorai e scossi la testa. "P-perdonami... oddio... esco subito... " farfugliai, un piede fuori dalla porta.

 "Hey! Dove credi di andare? Torna qui!" mi ordinò Misha, la voce autoritaria, ma per nulla arrabbiata.

 Io lo ignorai, procedendo verso la scala, ma dopo qualche secondo tornai lentamente indietro come un cane rimproverato.

 Mi passai una mano fra i capelli, incapace di guardare Misha. "Non succederà mai più, sul serio... ultimamente mi sento impazzito del tutto... " cominciai a scusarmi, la voce che mi si affievoliva man mano, " ...n-non devi pensare male di me... è solo che-"

 "Hey, hey! Datti una calmata. Non ti denuncio mica perché ti sei preso una sbandata!" disse con enfasi, gli occhi rassicuranti, gesticolando.

 Le guance mi andarono a fuoco dopo quella frase.

 "N-non ho... una sbandata." negai, con fare indignato, ma poco deciso.

 Misha alzò un sopracciglio, e rimase in silenzio contemplativo del mio maledetto rossore. Scoppiò a ridere, facendomi venire i nervi. "Non hai una sbandata, dici? Guarda che non sono nato ieri, mio caro Jensen." rispose, con tono di scherno.

 Roteai gli occhi, per poi guardare il tappeto e sospirare lungamente. "Non sapevo quel che facevo. Mi dispiace," mormorai, sforzandomi, con tono sommesso.

 Misha ridusse gli occhi a due fessure, senza togliersi quel ghigno maledettamente soddisfatto - e sexy - dal viso.

 "Uhm, ti dispiace per cosa, frocio?" chiese con un sorrisetto stronzo, sorprendendomi.

 Mi riscossi, scioccato, fissando la sua figura rilassata sul ciglio del materasso.

 "Non sono frocio! Hey, aspetta... ma tu non sei incazzat-"

 "No! Rilassati!" esclamò, e scosse la testa. Tirò fuori un braccio dalle lenzuola, e mi fece segno di venire vicino. "Su, avvicinati - non ti mordo." scherzò. Sorrideva dolcemente, e mi uccideva ogni volta che lo faceva.

 "E... se non mi andasse affatto?" chiesi, mordendomi le labbra.

 Misha mi guardò con sarcasmo, piegando la testa da un lato. "Oooh, sì che ti va, te lo leggo negli occhi." sussurrò.

 Sospirai, e andai a prendere posto accanto a lui, i gomiti sulle ginocchia e le dita di nuovo fra i capelli, frugando nel mio cervello alla ricerca disperata di una scusa plausibile. "Misha... davvero... non è come credi... io ho sentito quel pianto e poi... "

 "Jensen. Ho detto... rilassati," ripeté Misha, scandendo bene l'ultima parola. Mi circondò le spalle con un braccio, e mi sollevò il mento con due dita. Notai che i suoi occhi erano rossi e lucidi, e mi fecero venir voglia di stringerlo teneramente. Sì. Era lui che singhiozzava prima.

 "Che cos'hai, Mish? Perché piangevi?" chiesi, timido, nella speranza di riuscire a cambiare argomento. Sentii il nostro rapporto diventare più intimo nel giro di pochi secondi.

 Misha corrugò la fronte. "Eh?! Non piangevo." disse.

 "Credi che io sia nato ieri?" gli feci il verso.

 Misha alzò un sopracciglio.

 "Si vede che hai qualcosa che non va. Non ne vuoi parlare?" domandai, fremendo al suo contatto fisico.

 Lui alzò gli occhi.
 "Non posso, te l'ho già spiegato... mi dispiace."

 "Perché?" insistetti, sentendomi quasi capriccioso.

 " ...e poi è inutile che te lo dica." continuò, come se non avessi parlato.

 "Non la penso così; non hai dormito affatto. Si vede." dissi, determinato.

 Misha sospirò, ed io gli asciugai una lacrima col pollice, un gesto del tutto spontaneo che stupì entrambi.

 "Ti romperei le scatole." si giustificò.

 "È il minimo. Il primo a rompertele sono stato io, invadendo la tua privacy... " risposi, il capo chino.

 "...e anche le mie labbra." disse lui, con tono sensuale, guardandomi.

 "Piantala." gracchiai duramente, la bocca asciutta.

 "E dai... non far così." mi disse con voce scherzosamente effeminata.

 "Stupido... quanti anni hai? Quattordici?" dissi, senza riuscire a mantenere il tono serio.

 "Non cambiare discorso. Non te ne frega nulla dei miei problemi, questa è solo una tattica. Dimmi, invece - perché mi hai baciato?" mi sfidò, giocherellando col colletto del pigiama. Del mio pigiama, non del suo.

 "M-me ne frega invece... e comunque non avevo l'intenzione di baciarti... " balbettai.

 "Ah, no? E io l'altro giorno ho visto il fantasma di Stalin che faceva la pipì sotto casa nostra." disse lui, ammiccando.

 Scoppiai in una sonora risata. Mi sentii un po' sollevato dal fatto che la stesse prendendo con tanta gentilezza. Un momento. Aveva detto 'casa nostra'?

 Sospirai, smettendo pian piano di sghignazzare. Restammo per un po' in quella posizione, senza proferire parola, Misha che mi accarezzava inspiegabilmente il collo con le dita e io che arrossivo sotto il suo tocco delicato.

 Esitai.
 "Emh... "

 "Dimmi." mi incoraggiò Misha, le labbra vicine al mio collo. Il suo respiro mi accarezzava la pelle.

 Tremai.

 "Comunque... ti... ti è per caso piaciuto? Come baciavo... intendo." chiesi, arrossendo di più. Che stupida domanda da liceale, pensai.

 Misha sogghignò.
 "Perché? Quello lo chiameresti un bacio, forse?" mi chiese, con cinismo nella voce.

 Rimasi spiazzato dalla sua risposta. Non sapevo che cavolo dire. Mi girai finalmente verso Misha. Il suo sguardo era malizioso e tenero allo stesso tempo, e le sue dita ora mi stavano percorrendo il volto.

 I battiti del mio cuore andarono aumentando di frequenza, fino a fermarsi del tutto quando Misha mi afferrò per il fianco, e premette le labbra sulle mie. In un primo momento restai immobile, gli occhi spalancati, ma poi reagii, intrecciando la mia lingua con la sua e godendomi il suo sapore. Misha mi mordicchiò sensualmente le labbra, ci giocò e ansimò in maniera oscena. Da quel momento, non riuscii a pensare più a nulla. Solo alla sua bocca, al calore della sua stretta, e al mio istinto che mi fece afferrare i suoi capelli, spettinandoli un po' nella foga del bacio. Misha mi strinse ancora di più i fianchi, facendoli aderire ai suoi, e io salii sulle sue gambe, continuando a tormentargli il labbro inferiore. Sentii le labbra di Misha curvarsi in un sorriso divertito, mentre la sua mano finiva sulla mia coscia, e mi iniziava a fare meravigliosi massaggi lenti e circolari. Gemetti in modo imbarazzante.

 Nella mia testa c'era solo nebbia e vapore. Una sensazione di irrealtà mi ingoiò del tutto. Doveva trattarsi di un altro sogno. Non poteva star accadendo sul serio.

 Pian piano, io e Misha rallentammo la presa e iniziammo a baciarci con più dolcezza, lentamente, come una carezza affettuosa. Io afferrai il suo pigiama, ed introdussi la mano dentro il suo colletto, sfiorandogli una scapola.

 Misha si staccò per primo, il fiato assente e gli occhi sui miei, e io lo fissai scioccato e rosso in viso, cercando in tutti i modi di nascondere la semi erezione che avevo nei boxer.

 Misha ammiccò e mi fece l'occhiolino. "Questo sì che è un vero bacio, dolcezza."

 

 Note dell'autrice:
 Hello, guys... ;) duuunque eccomi col quarto capitolo... sappiate che da qui in poi l'atmosfera si fa mooolto calda (non in senso meteorologico, chiaramente... a Mosca fa freddo fino ad Aprile XD) comunque, se avete dei consigli o suggerimenti per quanto riguarda il mio stile di scrittura o se devo migliorare qualcosa, ditemelo pure ;) possono solo farmi bene! <3

 

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Capitolo 5
*** New Secrets ***


Note. sia i ricordi di Jensen e Misha sia i loro genitori sono puro frutto della mia mente malata u.u Buona lettura e preparate un po' di ghiaccio in una vasca *smiles* <3


~~Coming out

 

 Nascondere qualcosa come l'amore non è semplice, specialmente in un paese comunista, dove sembra che nulla passi inosservato alla gente che ti circonda. È un continuo non guardarsi, un fingere di non darsi retta, un cercare disperatamente di stare a debita distanza quando si è in pubblico. Fare attenzione era strettamente necessario, affinché io e Misha potessimo continuare quell'inaspettata - diciamo - relazione che si era instaurata fra noi a partire da quel bacio. L'enorme divario fra la freddezza con la quale ci trattavamo fuori di casa, e la passione focosa di quando eravamo da soli era sconcertante.

 La prima notte che avevamo passato assieme era stata la più bizzarra della mia vita, ma insieme la più meravigliosa: ci eravamo baciati fino a perdere il fiato, fino a sentire le labbra gonfie e dolcemente doloranti. Ci eravamo guardati negli occhi nell'oscurità, l'uno fra le braccia dell'altro, pensando a quanto ci sentissimo strani, a quanto tempo fosse passato da quando eravamo stati così bene l'ultima volta. Avevamo parlato di un milione di cose fino ad addormentarci, dalle stupidaggini divertenti ai nostri ricordi più assurdi; dalla prima volta in cui Misha aveva baciato qualcuno - era stata una ragazza, in primo superiore - al mio disastroso coming out.

 Era stato il Capodanno più schifoso ed umiliante della mia vita, quello dei miei diciassette anni. Non credevo di avere un ricordo peggiore di quello - a parte l'incidente di mio padre.

 In realtà, non era stato un vero e proprio coming out. Mia madre aveva letto alcuni messaggi - molto imbarazzanti - dal mio cellulare mentre io dormivo, ed aveva scoperto che provavo attrazione per gli uomini; così ero stato costretto a spiegarle come stavano le cose. Naturalmente, lei era scoppiata in un pianto disperato - demolendo così anche l'ultimo pezzo di autostima che mi era rimasto. Aveva reagito come se le avessi appena annunciato di avere un fottuto tumore. Per non parlare di mio padre, che mi aveva imposto di andare immediatamente da uno psichiatra. Per la prima volta nella mia vita, non avevo mangiato quasi nulla il primo di Gennaio, giorno nel quale solitamente mi abbuffavo di brutto. Avevo vomitato tutto, sotto gli occhi sospettosi dei miei parenti, ai quali i miei genitori avevano spiegato che avevo esagerato coi dolciumi.

 Da allora in poi, il rapporto con mia madre e mio padre era cambiato del tutto. E non servì a nulla promettere loro che avrei rinunciato a toccare quelli del mio stesso sesso.

 Misha mi aveva rassicurato, rivelandomi che pure il suo coming out aveva fatto abbastanza schifo - decisamente più del mio. Mi aveva raccontato che suo padre lo aveva picchiato, ordinandogli di togliersi dalla testa di essere bisessuale - come se queste cose si potessero controllare con la semplice volontà - e gli aveva urlato che era gravemente malato. All'inizio, Misha ci era rimasto malissimo, non tanto per le sberle, ma per la parola 'malato', che a suo avviso non si addiceva affatto ai sentimenti che provava per un coetaneo.

 Ma un giorno, spinto dalla voglia di superare tutto, si era fatto trovare comicamente steso sul suo letto con un biglietto addosso recante le parole: 'Misha Krushnic ha perso la sua lunga battaglia contro la bisessualità. RIP'. Non riusciva assolutamente a smettere di sghignazzare al solo pensiero, nonostante quella volta le avesse prese di nuovo.

 Forse - anzi, di sicuro - aveva visto cose tanto orrende durante la seconda guerra mondiale che ormai l'omofobia di suo padre non era altro che un ricordo poco piacevole, e nulla di più.

 Io amavo Misha dal profondo del cuore. Ammiravo il suo coraggio in ogni situazione, la sua furbizia, e quella comicità che lo contraddistingueva e che addolciva perfino i momenti peggiori. Parlargli del mio passato era la miglior terapia che avessi mai sperimentato: era come se ogni spina dolesse un poco meno ogni volta che mi sorrideva.

 Mi rilassai nel suo letto caldo, pensando a tutte queste cose assieme e sorridendo fra me e me, ancora per metà immerso nei sogni delle sette del mattino. Ero quasi certo dell'orario, nonostante la persiana non lasciasse trapelare neppure una linea di luce grazie alla tendina. Non sentivo la presenza né il respiro regolare di Misha accanto a me. Ormai sapevo a memoria che lui si svegliava sempre poco prima di quell'ora per fare qualche faccenda.

 Dopo qualche minuto passato a sonnecchiare, il materasso affondò un po' alla mia sinistra, emettendo un lieve cigolio. Qualcosa di soffice e bagnato si schiuse sulla mia tempia, poi scese fra lo zigomo e l'occhio, svegliandomi lentamente. Riconobbi subito il tocco estatico e bollente delle labbra di Misha che scivolarono sul mio collo e poi sul petto, facendomi un lieve succhiotto. Emisi un gemito.

 "Uhm... " mormorai, la voce impastata di sonno.

 Sentii la sua risatina soddisfatta solleticarmi un capezzolo.

 "Buongiorno, Jens... " sussurrò Misha al mio orecchio, lasciandoci scivolare la lingua sopra e mordicchiandolo.

 Aprii un occhio, e notai la sua spalla nuda un po' tesa a causa della posizione. Misha ridacchiò, portò una mano sul mio fianco e si intrufolò dentro la maglia del pigiama, tracciando dei cerchi con le dita. Poi, abbassò appena i miei boxer, il suo fiato ancora sul mio collo. Piegai la testa all'indietro, attaccandomi al cuscino e inspirando, tentando inutilmente di rilassarmi.

 La sua bocca perfetta mi succhiò il lobo dell'orecchio, ed io ingoiai un po' di saliva, ansimando di nuovo dal piacere. Ebbi la fortissima tentazione di toccarmi, e portai la mano sudata verso i boxer. Ma Misha mi afferrò prontamente per il polso, lasciandomi interdetto.

 "Che... che fai?" mormorai.

 Misha rise di nuovo in maniera adorabile, continuando a giocare con me a suo piacimento, tenendomi bloccato sotto il suo corpo splendido e umido di doccia. Strusciò il palmo della mano contro il mio membro, con molta lentezza. Sapevo che mi stava solo stuzzicando - lo faceva apposta. Ma io volevo assolutamente venire. Ansimai, incapace di parlare a causa della voce rauca, sperando che ricevesse il messaggio. Ma Misha ghignò, fingendo di non capire.

 "Non... non fare lo stronzo, Mish... " mi sforzai di dire, un sorriso nella voce strascicata.

 "Lo so, lo so che ti piace... " sussurrò come un soffio ammaliante. Aumentò un po' la stretta e la velocità con cui muoveva la mano, e io mi sentii la fronte imperlata di sudore. Avevo la pelle appiccicata al copriletto. Poco prima che riuscissi a venire, Misha tolse la mano e fece scendere le labbra fra i miei pettorali, e poi sempre più giù, mentre io gemevo.

 "T-toccami, ti prego... " dissi con un lamento quasi infantile.

 "Uhm... sei così tenero quando sei eccitato... " grugnì Misha.

 Sobbalzai non appena la sua bocca si chiuse in prossimità della mia coscia. Delle scosse elettriche mi attraversarono tutto il corpo mentre Misha scendeva a baciarmi l'interno coscia, facendomi morire dal desiderio.

 "... oddio santo... " mormorai, boccheggiando. "Mish... okay, per favore... fammi venire... oggi cucino io... " dissi, in tono di supplica. Le sue mani mi tenevano ancora inchiodato al letto, in balìa delle sue coccole.

 "Mmm. Okay, se proprio insisti," scherzò, ed io lo sentii sorridere da sotto le lenzuola.

 Misha afferrò il mio membro con la mano, muovendola dapprima con lentezza e poi sempre più velocemente; io tentavo di non divincolarmi. Raggiunsi l'orgasmo troppo in fretta, con un lungo sospiro trattenuto per l'imbarazzo.

 Misha avanzò lentamente verso di me, e si rilassò sul suo cuscino emettendo un sospiro soddisfatto. Io restai un minuto immobile a guardare il tetto, per metabolizzare la sensazione del mio corpo infuocato di prima mattina; poi, mi girai pigramente verso il lato sinistro del materasso, poggiando la testa sui pettorali di Misha, e lasciando che mi avvolgesse teneramente fra le braccia. Respirai quel profumo tanto amato alla cannella, e mi godetti il tepore della sua pelle e del termosifone acceso. Ero così felice che non pensavo quasi più alla mia tranquilla e noiosa vita a New York, pur sentendomi un po' in colpa. Mi ero ormai rassegnato all'idea di tornare a casa, ed avevo l'impressione di trovarmi in un'altra dimensione dove tutto poteva avverarsi.

 "Passato il mal di testa?" mi chiese Misha a voce bassa, ad un certo punto.

 "S-sì... " mormorai, la voce flebile.

 "Beh... allora... immagino che il rimedio di ieri sera abbia funzionato alla perfezione... " suggerì maliziosamente, giocando coi miei capelli.

 Io mi sentii le guance accaldate a quella risposta. La notte prima Misha mi aveva fatto sudare l'anima. Era bello - anzi, a dir poco splendido - fare sesso con lui. Inizialmente era stato parecchio doloroso; ma poi, fra una battuta salace e l'altra, eravamo riusciti ad avere un rapporto completo. Non avevo mai fatto assolutamente nulla con un uomo, e non avevo mai immaginato che mi sarebbe piaciuto più di tanto finché non avevo provato con Misha. Lui mi attraeva infinitamente di più di tutti gli altri uomini che avevo conosciuto.

 "Uhm... sono le sette?" grugnii, sbadigliando.

 "E mezza,"

 Misha fece scivolare le dita della mano sinistra lungo il mio fianco, e mi fece il solletico. Sobbalzai.

 "Ah! Scemo... " esclamai, ridacchiando.

 "Cercavo solo di svegliarti un po', dormiglione... " rispose affondando il naso fra i miei capelli.

 "Ma io sono sveglio," protestai.

 "Come no. Che ne dici di andare un po' fuori stamattina, eh?" propose.

 "Al Red?" dissi, richiudendo gli occhi e lasciando che mi coccolasse e mi accarezzasse la schiena. In realtà sarei voluto restare in quella posizione per tutta la giornata.

 Misha rise. "Vedi che non sei ancora sveglio? Il Red Russia è un locale notturno, sciocchino... "

 "Aaah... già... " biascicai, con uno sbadiglio.

 "Andremo a fare colazione fuori, invece. Voglio farti provare una cosa che io adoro. Ti va? Non so te ma... io sono leggermente stufo di uova strapazzate, caffè e biscotti... " disse, allegramente.

 "Anche io... " sussurrai.

 "Bene. Allora su, alzati... pigro che non sei altro... " mi prese in giro. "E vai a farti la barba, che mi hai graffiato le tette." scherzò.

 "Idiota. Ricevuto capo... " mormorai, liberandomi a malincuore delle sue braccia calde e delle lenzuola.

 "Menomale che sai che sono il tuo capo," ghignò Misha, osservandomi languido, le mani dietro la testa poggiata sul materasso.

 Io alzai un sopracciglio, e poi gli diedi un colpo di cuscino ben assestato. Misha mi fissò stupito, non aspettandosi di certo una reazione del genere da me; poi si alzò dalla sua posizione comoda e rispose altrettanto forte col suo cuscino.

 "Allora vuoi davvero la guerra, eh?" dissi, prendendone un altro che fungesse da scudo.

 "Ti ricordo che io ci sono stato in guerra, e ti posso battere senza problemi," rispose Misha, e si strinse nelle spalle ampie.

 Iniziammo una stupida e comica lotta di piume e stoffa, finché non mi decisi ad uscire dal letto e andare a darmi una sistemata. Erano anni ed anni che non facevo una cosa così infantile, ma con Misha riuscivo a fare la qualunque senza sentirmi ridicolo.

 Il bagno era ancora pieno di vapore, e profumava del sapone preferito di Misha. Io entrai cautamente nel piccolo box, cercando di non scivolare a causa dell'umidità, e lasciai scorrere l'acqua calda sulla pelle, rabbrividendo di piacere. Il freddo là fuori stava diminuendo, ma la temperatura primaverile russa non si poteva nemmeno paragonare a quella newyorkese. Pensai al fatto che io e Misha non avevamo ancora fatto una doccia assieme, ed arrossii al solo immaginare i nostri corpi avvinghiati e umidi. Cercai di distrarmi da quei pensieri poco casti cantando la prima canzone che mi venne in mente:

 "Take me to church, I'll worship like a dog at the shrine of your lies, I'll tell you my sins, so you can sharpen your knife.
 Offer me that deathless death,
 Good God, let me give you my life." iniziai ad intonare, insaponandomi il torace.

 Adoravo cantare sin da quando ero un bambino, e mi piaceva anche suonare la chitarra. A New York era l'unico passatempo che mi concedevo, a parte lo sport.

 "I was born sick, but I love it. Command me to be well. Amen. Amen. Amen," cantai, cercando di impegnarmi e di impostare la voce.

 "Ecco a voi il cantante di successo Jensen Ross Ackles, coi suoi brani del futuro contro l'omofobia! Applausi!" sentii Misha esclamare dall'altra stanza, la voce attutita dalle pareti spesse.

 Scoppiai in una risata fragorosa, immaginando Misha che impugnava un microfono e mi presentava ad un pubblico immaginario.

 "È una canzone del 2013, Misha," spiegai, ridendo.

 "Di quando?! Santo cielo, niente male la musica del futuro." commentò dall'altra stanza.

 Risi sotto i baffi e pensai alla stranezza della situazione. Stavo convivendo con un uomo nato a Boston ma di origine russa nella Mosca degli anni cinquanta. Di nascosto. Sembrava quasi l'inizio di una barzelletta.

 Quando uscii dalla doccia mi sentii congelare finché non trovai un minimo di sollievo nell'accappatoio morbido di Misha - che ormai era diventato il mio - e mi avviai verso l'altra stanza.

 In salotto, trovai Misha che si impegnava a fare un bozzetto su un foglio di carta, la lingua comicamente di fuori. Mi avvicinai, con fare circospetto.

 "Ma che stai facendo?" gli domandai, curioso, salendo sul tappeto coi piedi nudi.

 Misha mi guardò con quegli occhioni blu ansiosi, e poi indicò la parete con un rapido cenno del mento. La sua espressione era del tutto cambiata.

 Mi girai e vidi ciò che lo turbava. Dovevo essere davvero preso a guardare Misha per non averlo notato. Era un occhio esageratamente spalancato, disegnato proprio nel punto in cui due mesi prima avevamo trovato la macchia. Aveva le ciglia sbavate e protese verso l'alto, e incuteva quasi timore. Lo scrutai, incerto.

 "Come te lo spieghi questo?" mi chiese Misha, il tono teso ed innaturale.

 Io stavo ancora fissando l'occhio. Mi girai, scuotendo la testa.

 "Io... n-non ne ho idea,"

 Misha sbatté le ciglia, pensieroso. "Uhm,"

 Ci fu una pausa.

 "Non penserai mica che sono stato io, eh? Non so nemmeno disegnare un omino." sbottai, risentito, allargando le braccia.

 Misha aggrottò la fronte, senza dire nulla.

 "Sul serio?" mormorai.

 Misha si girò. "Eh? No, no assolutamente. Non preoccuparti - lo so che non lo faresti. Stavo solo riflettendo," mi rassicurò, e mi mise una mano sulla spalla.

 Sorrisi.

 "È strano, però... voglio dire... non è entrato nessuno. Non è tutto chiuso, forse?" chiesi, titubante.

 Lui si girò, assumendo un'espressione da cucciolo preoccupato a cui non potevo resistere. Ingoiò un groppo di saliva.

 "È tutto chiuso, Jens. Sai che da quando stiamo assieme questa casa è una cassaforte. Che roba inquietante - non mi convince per niente," commentò. Inspirò pesantemente. "Beh... in ogni caso, io una ricerchina su questo ce la farei qualche volta." disse, e si diresse verso l'appendiabiti, afferrando il suo cappotto blu.

 "Ricorda qualcosa anche a te?" chiesi, ancora fermo lì davanti al muro. Quella storia mi puzzava.

 "Non mi ricorda nulla in particolare. Ma non è un occhio comune, me lo sento. In ogni caso, non possiamo assolutamente chiamare le forze dell'ordine. Conosci i rischi." disse, un dito sulle labbra.

 "Sì, lo capisco bene,"

 Lo guardai mentre mi dava le spalle, gli occhi a fessura. Talvolta ero convinto che sapesse qualcosa che avrei dovuto sapere anche io e che non voleva dirmi; ma preferivo non arrovellarmici troppo su, perché non volevo pensare male di Misha nemmeno per un secondo.

 Lo sentii ghignare. "Mi stai fissando il culo, lo so."

 "Ma stai zitto," risposi a tono, lasciandomi scappare una risatina.

 Misha finì per mandarmi un bacetto scherzoso, fingendo di soffiare sulla mano, e per piegare il disegnino che aveva fatto. Lo sistemò in una tasca del cappotto e si mise quel cappello che tanto adoravo. Notò che lo stavo osservando.

 "Hey... vuoi provarlo?" chiese Misha con un sorrisetto. Non gli sfuggiva mai nulla.

 Io annuii timidamente, e lui se lo tolse e me lo sistemò in capo, indietreggiando di qualche passo ed ammirandomi.

 "Muolto biene, pure Jyensen essere russo adesso?" scherzò, marcando ancora di più il suo accento.

 Io risi di gusto, e gli poggiai la testa sulla spalla.

 "Prima della colazione facciamo un giretto, ti va?" sussurrò, attirandomi a sé. Mi prese delicatamente il viso fra le mani, e dopo aver controllato la finestra mi sfiorò le labbra con le sue, ed io sorrisi, ricambiando. Gli strinsi la mano, e tremai mentre lui mi circondava la vita col braccio libero. Smise di baciarmi poco dopo, e posò la bocca sul mio collo. Era bellissimo vederlo così affettuoso con me dopo quell'iniziale distaccamento incorniciato dal sarcasmo.

 "Allora? Dove andiamo di preciso?" chiesi, timido.

 "Vedrai," rispose Misha, sollevando le sopracciglia.

 "Okay," dissi, con un sorriso da orecchio a orecchio, come un bambino che attendeva una sorpresa.

 La fine di Maggio era ormai vicina, e la neve in strada si era già sciolta del tutto, lasciando spazio a qualche temporale.

 Di prima mattina, la capitale russa aveva tutto un altro aspetto rispetto alla sera. I palazzi rossi ed i monumenti multicolori sembravano quasi brillare di luce propria - come Misha, d'altronde. Io camminavo al suo fianco, strategicamente separato da lui da circa un metro di distanza. Peccato che i marciapiedi fossero così larghi al centro.

 Nonostante le varie misure di sicurezza, mi piaceva un mondo fare giri turistici in sua compagnia. Il primo giorno ero tanto agitato e confuso che non ero nemmeno riuscito a godermi appieno la bellezza delle mura del Cremlino, delle torri dai colori sgargianti e dei monumenti in stile russo moscovita.

 "Guarda lì, Jensen. Che te ne pare?" disse Misha ad un certo punto della gitarella, indicandomi una campana a dir poco mastodontica ai piedi del Cremlino.

 "Oddio. E questa?" chiesi, il naso all'insù.

 Non sapevo di cosa fosse fatta esattamente, ma di certo pesava un bel po'. Sbirciai di soppiatto Misha, sentendomi incantato dal suo bel profilo che guardava verso l'alto. Gli occhi blu sembravano più chiari alla luce, ed erano messi in risalto dal cappello grigio di pelliccia che gli copriva le tempie.

 "Ecco a voi una campana rivoluzionaria, delle giuste dimensioni per svegliare Jensen Ackles la mattina," cominciò a dire Misha in tono pubblicitario, ammiccando. Poi, abbassando il tono di voce: "Questa funzionerebbe più di una sega fatta da un professionista,"

 "Oh ah ah ah!" gli feci il verso, arrossendo.

 "Okay, seriamente. Sono 216 tonnellate, per essere esatti. Si chiama Royal Bell," mi spiegò Misha. "È stata costruita nel 1735."

 Strinsi gli occhi guardandolo.

 "Sei una guida turistica o eri solo un secchione a scuola?" scherzai, trattenendomi dallo spintonarlo.

 Lui rise. "Molto divertente. Nessuno dei due. Da quando sono qui ho imparato un bel po' di roba sulla Russia."

 "Sai tutta la storia della Russia!?" chiesi incredulo, pensando che io per imparare un capitolo ci avrei impiegato dei secoli.

 "Da," mi disse lui, atono.

 "Che hai detto?"

 "Tre mesi pieni di corso di russo e non sai che 'da' significa 'sì'?" disse, con un sorriso di scherno.

 "Aaah! Lo sapevo come si dice. Non avevo capito che stessi parlando in russo." mi giustificai, tenendo il mento in alto in difesa del mio orgoglio.

 Misha scoppiò a ridere. "Va bene, non ti scaldare, Jens. Se vuoi ti insegno qualche altra parola mentre siamo qui in giro. Okay?" mi chiese, con quell'espressione buffa.

 "Perché no?" dissi. "A proposito... ce l'ha un nome la... bandiera?" domandai, additando il primo drappo rosso che vidi.

 Lui ci pensò un attimo, l'indice ed il medio sulle labbra. "La... bandiera della Russia sovietica, semplicemente, immagino." rispose alla fine, stringendosi nelle spalle.

 Sorrisi, pensando a quella del futuro e sentendomi il protagonista di una serie TV.

 "Uhm. Scommettiamo che la cambiano?" dissi d'istinto, senza guardare Misha.

 "La bandiera, dici?" disse, illuminandosi tutto in viso.

 "Sì,"

 "Oh... e come diventerà? Tu vieni dal futuro... devi aver visto molte cose cambiare." disse con voce del tutto neutrale. Si tolse l'ushanka dalla testa, scompigliandosi i capelli scuri.

 "Saranno tre belle bande orizzontali. Bianca, blu e rossa partendo dall'alto." dissi, fiero.

 Misha si girò verso di me.

 "D'accordo profeta, lo vedremo." disse, sorridendo apertamente.

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 Il posto dove andammo a fare colazione verso le nove si addiceva proprio a Misha. Profumava di cannella, zenzero e di qualcos'altro di sensazionale, e l'arredamento somigliava in maniera impressionante a quello di casa sua.

 Seguii Misha fino al terrazzo esposto al sole debole, e mi sistemai su una delle sedie in legno con fare un po' rigido e impacciato. Mi godetti l'accento di Misha che ordinava chissà che cosa per entrambi alla cameriera biondissima. Lei, ovviamente, lo fissava, incantata dal suo fascino.

 "Gradirebbe un dolce al miele, signor Ackles?" mi chiese Misha ad un certo punto, come se passare da una lingua all'altra in un nanosecondo fosse la cosa più naturale al mondo.

 "Certo. Penso che divorerei qualunque dolce sulla Terra!" esclamai, credendo che stesse scherzando. Solo dopo mi resi conto che fingeva di fare il formale con me di fronte alla cameriera, e arrossii.

 "Magnifico, allora credo che questo ti farà venire l'acquolina in bocca," disse.

 Qualche minuto dopo, la ragazza arrivò con due bicchieri di succo al lampone e un dolce che non avevo mai visto prima: somigliava ad un gigantesco biscotto al miele caramellato. Lo esaminai con gli occhi.

 "Si chiama Medovik," spiegò Misha con un sorrisetto orgoglioso che gli sollevò l'angolo della bocca. "È tipicamente russo."

 "Ci avrei giurato," dissi, sorridendo.

 Ne tagliai un pezzetto, e me lo misi in bocca, facendo rumorini di piena approvazione e sforzandomi di non mangiare troppo in fretta. Mi si sciolse piacevolmente il miele sul palato.

 "Mmm. Come diavolo fa questo posto ad essere deserto? Il dolce è meraviglioso," dissi, alzando il pollice.

 "Non so. Credo che sia aperto da poco." spiegò Misha, atono.

 "Aha,"

 Finii quasi tutta la mia colazione in un batter d'occhio, ma lui no. Il suo piattino era ancora stranamente pieno. Fissai Misha negli occhi vitrei, preoccupato. Non mi ero accorto che improvvisamente era diventato bianco in volto ed inespressivo.

 "Misha... ma che ti prende?" chiesi, preoccupato, ricacciando indietro la voglia di stringergli la mano.

 Lui chiuse gli occhi e serrò le labbra in una linea dritta, sofferente.

 "Jensen... "

 Ridussi gli occhi a fessura, dubbioso.
 "Sì? Dimmi."

 Misha sospirò pesantemente; pareva molto agitato. Guardava prima me, poi il piatto, per poi tornare a me.

 "Hey... calma... va tutto bene... " lo rassicurai. "Hai male da qualche parte?"

 "N-no, no. Sto alla grande, davvero. Volevo... solo domandarti una cosa importante... " mi disse, deglutendo, la voce per niente ferma.

 Mi portai alla bocca l'ultimo pezzo di dolce, nervosamente.

 "Che... che cosa?" gli chiesi, il cuore che iniziava a battermi forte in petto.

 Misha esitò, e distolse di nuovo lo sguardo. "Aspetta... prima che io te lo dica... tu ti fidi di me?"

 "Ovvio," risposi subito, abbandonando il tovagliolo accanto al piattino.

 Ma Misha non pareva affatto convinto.

 " ...ciecamente?" mi chiese, la fronte aggrottata.

 "Oddio... certo che mi fido di te... che tipo di complessi ti stai facendo, Mish?" dissi con un sorriso aperto, per convincerlo.

 Lui si morse le labbra, per la prima volta senza ricambiare. "Okay, ascoltami." abbassò la voce, nonostante non ci fosse praticamente nessuno. "Hai mai... sentito parlare di una... Matrioska che... "

 Spalancai gli occhi di scatto, come se avessi preso la corrente.

 " ...sì, insomma... che ti permette di viaggiare nel tempo?" aggiunse, ogni parola gli usciva dalla bocca con fatica. Nemmeno si azzardava più a guardarmi.

 Il Medovik mi andò di traverso, e fui costretto a darmi vari colpetti ed a finire tutto il succo di frutta per riprendermi.

 "Che cosa... ?" gracchiai, sbattendo le palpebre nella sua direzione. Misha non si mosse.

 "Dio... lo sapevo... " mormorò, le dita fra i capelli.

 Accidenti; l'avevo sempre sospettato che lui c'entrava qualcosa. Ecco a chi si riferiva l'emittente in quella lettera. A me. Per quel motivo Misha si era tanto incavolato quando l'avevo letta. Sentii il sospetto correre nelle vene, e trasformarsi in cocente delusione. No. Non poteva essere colpa sua. Non poteva essere assolutamente. Non avrei mai potuto accettarlo.

 "Jensen... non è come credi... " mi disse, sfiorandomi per un momento il polso con le dita calde.

 Ebbi la tentazione di respingerlo, e di ricostruire l'originario muro di diffidenza che c'era fra noi, ma di fronte ai suoi occhi blu non ci riuscii. Avevo il respiro mozzo ed il cuore a un milione di battiti al minuto.

 "Come cavolo fai a saperlo?!" domandai a voce bassissima, ma acida abbastanza da fargli assumere un'espressione mortificata.

 "Co-cosa devo sapere?" disse lui, scuotendo la testa con aria innocente. Per una volta, vidi vacillare pericolosamente la sua infinita sicurezza. E se mi avesse preso in giro? E se avesse davvero saputo tutto sulla Matrioska? Questi dubbi mi attanagliarono lo stomaco, tanto che mi passò tutta la voglia di mangiare in pochi secondi.

 "Misha... se sai qualcosa... dì la verità, ti prego. Perché mi trovo qui?!" chiesi, il tono più seccato di quanto volessi.

 Lui si ritrasse, abbassando gli occhi un po' lucidi. Oh, no. Merda. Avevo sempre creduto che mi nascondesse qualcosa, e a quanto pareva i miei sospetti erano fondati.

 "L-lascia che ti spieghi... per favore... io credo che tu-" mormorò.

 Ma io sbottai: "Ma se non sai nemmeno perché ci sei tu qui! O almeno questo mi hai rifilato. Tutto torna." dissi, con una certa fierezza nella voce, sempre più sostenuto. Ma mi pizzicavano pericolosamente gli occhi. Quella rivelazione da parte sua era ciò che più temevo.

 Misha mi guardò, e poi si tirò l'orlo della giacca nera, come una sorta di tic nervoso.

 "Non è come credi." ripeté, con più enfasi.

 "E com'è... ?!"

 Misha respirò pesantemente, poi assunse un'espressione leggermente irritata.

 "Senti. È da un po' che voglio parlarti di questa storia, ma non sapevo come fare senza che mi attaccassi. Volevo che prima ti fidassi davvero di me. Ci sono... vari motivi per i quali ho deciso di non dirti subito che so di quel maledetto souvenir, e te li spiegherò, prima o poi. Mi credi, o no?" mi disse, gli occhi teneramente tristi.

 Io mi rilassai, un po' pentito di averlo trattato così male.
 Abbassai il capo e mi leccai le labbra secche. In fondo, che prove avevo per dargli la colpa di quello che mi era successo?

 Sollevai gli occhi e lo guardai nei suoi, indagatori ed attenti ad ogni mia mossa.

 "Non ti fidi? Beh... pazienza." disse, asciutto, le sopracciglia alzate.

 Mi riscossi subito.

 "Oddio, sì! Sì che mi fido, Mish!" mormorai, portandomi le dita sulla fronte. "Mi dispiace tanto. Cavolo... ma come ho fatto a prendermela con te? Perdonami... " dissi con un tono di scusa che non avevo mai usato con nessuno.

 I suoi occhi cambiarono bruscamente espressione e sorrise.

 "È comprensibile. Sei stato sballottato da un'epoca all'altra, e ti chiedi perché è toccata proprio a te una fine del genere. È normalissimo. Anche... io ero così... quando mi è successo." ammise.

 Il cuore mi salì in gola. Lo fissai, sgranando gli occhi. Fu come una secchiata di acqua in piena testa.
 "Tu... che cosa?!" chiesi, incredulo.

 Misha annuì sommessamente, giocando con lo zucchero fra le dita. "Sì, Jensen... "

 "Tu... tu vieni... dal futuro... ? Ma starai scherzando!" dissi, con un fil di voce strozzata, senza riuscire a distogliere lo sguardo dal suo.

 "Niente scherzi, stavolta." disse Misha, risoluto.

 "Oddio... " sibilai. "Non riesco a crederti... è assurdo. Aspetta, no. Chi è il presidente degli Stati Uniti nel 2015?"

 Lui roteò gli occhi, sorridendo appena.

 "Vacci piano! Vengo dal 2003." disse Misha.

 "Ma sul serio?!" esclamai. Ero scioccato.

 "Sì. Comunque... almeno fino ad allora il presidente era George Bush. Mi credi ora?!" domandò, cercando di non far trapelare l'arrabbiatura causata dal fatto che non mi fidavo di lui.

 "Sì... ma il nuovo presidente è... Barak Obama." spiegai, tremante. "Cavolo... ma come... come cazzo ti è successo? Hai preso la Matrioska da un certo... emh... Richard, giusto?... Si può sapere perché non me ne hai parlato?" iniziai a farfugliare confusamente, tempestandolo di domande senza neppure dargli il tempo di rispondere. Ero troppo sconvolto per ragionare.

 "Sshh!" si affrettò ad ordinarmi, zittendomi del tutto. Si guardò attorno. "Abbassa il tono di voce. Se sentono questi discorsi finiamo in manicomio, tesoro mio." ironizzò, anche se c'era davvero poco da ironizzare. "Sì. È stata quella stupida Matrioska a spedirmi qui, nel bel mezzo della Piazza Rossa. Esattamente come è successo a te, ma nel 1941. Comunque sia non conosco, né conoscevo nessun Richard. Era un regalo, la Matrioska." mi rivelò, pronunciando la parola 'regalo' come se invece avesse detto 'trappola'.

 Lo guardai stranito, domandandomi perché improvvisamente avessi l'impressione di aver già sentito una storia del genere. Una bambola magica regalata a qualcuno per vendetta. Forse era una favola russa che avevo letto da bambino. Sì, era decisamente una favola.

 "Un regalo... di chi?" chiesi.

 Misha si fece scuro in volto, e non rispose per vari secondi. "Un... un amico." mormorò alla fine, il tono poco convinto.

 Lo assecondai, per delicatezza, e sospirai. Tutto era irreale ed intricato come la trama di un film. Dunque anche Misha aveva compiuto un viaggio nel tempo, e si era sentito così confuso e spaesato quanto il sottoscritto? E perché aveva deciso di non informarmi di tutto questo? Avevo assoluto bisogno di sapere.

 "Ma perché mi riveli certe cose in un luogo pubblico?" domandai, curioso, ad un certo punto.

 "Beh, semplicissimo - così non puoi prendermi a cazzotti per averti nascosto tutto." spiegò, con un ghigno stupido.

 "Idiota... " sibilai, ma poi mimai una carezza nell'aria, desiderando ardentemente di sfiorargli la guancia. Era triste non potersi toccare in pubblico.

 Misha abbassò il capo ed appoggiò la schiena alla sedia, finalmente libero del peso che si portava addosso da chissà quanto.

 "Misha... scusami ancora, davvero... " mormorai.

 "Scusami tanto tu... Jens... " disse lui, sorridendo.

 "Ma io sono stato poco gentile," dissi, arrossendo fino al collo.

 Misha scosse la testa.

 "Poco gentile è... un eufemismo, direi." rispose, poggiando il mento sulla mano e guardandomi dolcemente.

 "Mi dispiace, ho detto." dissi, secco.

 "Nichyego," rispose.

 "Che?"

 "Significa 'nessun problema', Jensen. C'è gente molto peggiore di te."

 "Ah sì? Per esempio?" domandai, stranito a causa della sua risposta.

 Misha diede un'occhiata in un punto indistinto dietro di me, e poi, con voce flebile: "Ad esempio... il tizio che ci osserva con quell'aria da Adolf Hitler di fronte a due ebrei, ore cinque. Non farti notare, fammi il piacere."

 Sbirciai con la coda dell'occhio verso il punto che mi aveva fatto notare Misha, mentre lui faceva abilmente finta di nulla.

 Un uomo calvo e occhialuto dall'aria scura stava seduto su una panchina del terrazzino al coperto, e fumava una pipa, fissandomi in maniera inquietante. Dagli occhi grigi e severi trapelava un odio inspiegabile. Non riuscii a reggere quello sguardo.

 Tornai invece a guardare Misha, nei cui occhi balenò un lampo di malizia. Abbassò la voce, quasi annullandola: "Vedi? Ogni tanto evita di guardarmi con quello sguardo da 'ti scoperei ora e subito', Jensen."

 Io diventai automaticamente bordeaux, e ingoiai un groppo di saliva enorme, abbassando lo sguardo.

 Misha rise di gusto. "Tranquillo, stupido. Sto scherzando. Ti avvertivo soltanto... sai com'è... questo paese è a dir poco stupendo, ma ci sono più omofobi che persone."

 "Uhm... " mormorai, fingendo di concentrarmi sull'orologio da polso.

 "E comunque... " disse Misha, con una pausa ad effetto. "Devo ammettere che sei infinitamente attraente perfino da incazzato."




Note dell'autrice (di nuovo) = hey, un piccolo avviso per coloro che seguono la storia :3 lo so che è un po' lento l'aggiornamento una volta sola a settimana, ma il Giovedì è l'unico giorno in cui sono sola e posso scrivere (pesce pazienza abbocca alla mia lenza XD ) so, pardon <3

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Capitolo 6
*** In vodka veritas ***


In vodka veritas



 

 "E ve l'ho mai raccontata quella volta in cui dopo una sbronza mi sono quasi tolto le mutande in pubblico? Fortuna che Sebastian era con me e mi ha frenato in tempo!" esclamò Misha, i piedi sul tavolo del Red Russia, facendo esplodere una risata generale attorno a sé.

 Nessuno a parte me e Julie si accorgeva di quanto i suoi comportamenti fossero inadeguati, e ciò mi fece dedurre che tutti in quel locale dovevano essere ubriachi fradici, compresa la ragazza del bancone. Perfino il volume della musica folk era fin troppo alto per essere stato impostato da una persona sobria.

 Misha era irrimediabilmente brillo, ed i suoi presunti amici ne stavano approfittando per fargli vuotare il sacco. Chissà quante volte lo facevano, pensai fra me e me. Il Red Russia non mi sembrava il posto adatto per concludere quella settimana piena di novità allucinanti, ma non volli farci troppo caso. C'era una tensione assurda tra me e Misha dopo quella rivelazione.

 Intanto, io mi odiavo a morte per non riuscire ad impedire a quelli di prenderlo in giro. Ero solo un patetico e timido bamboccio che riusciva a stento a rimanere in piedi con due bicchierini, se paragonato agli altri che erano quasi tutti delle spugne.

 "Hey, Jensen... ci racconti qualcosa di carino anche tu?" biascicò Misha ad un certo punto, incrociando le braccia in segno di sfida.

 Alzai appena la testa. Mi girava quasi quanto il mio primo giorno a Mosca. Lo fissai con un sopracciglio alzato.

 "Eh?" mormorai, affondando nel mare dei suoi occhi velati. Erano ancora più belli del solito.

 "Il mio Misha vorrebbe che tu raccontassi qualche aneddoto eccitante, o perlomeno divertente su di te, James. Se ne hai, ovvio." disse Ruth, puntandomi addosso quegli occhi truccati da gatta.

 "Jensen." la corressi, secco. Avrei voluto spiattellarle in faccia la cosa più eccitante della mia vita, e cioè tutte le volte che il 'suo' Misha mi scopava alle tre di notte in tutti gli angoli della casa, ma inutile dire che non era il caso.

 "Non sono tuo... Ruth... " mormorò Misha, ridendo. Almeno l'ubriacatura gli aveva fatto passare la voglia di stare al suo maledetto gioco.

 "Che idiozie." commentò Julie, lisciandosi i capelli fluenti da sirena. "Sembriamo dei dodicenni immaturi ad un compleanno. Perché invece non vieni a ballare con me, eh Jensen?" mi propose allegramente, alzandosi.

 Misha mi fece un occhiolino che nel nostro linguaggio convenzionale significava: 'Tranquillo, tanto so che sei tutto mio. Vai a fingere di corteggiare le altre.' ma io non gli diedi retta. Desideravo con tutto il cuore di evadere da quel covo di maniaci dei segreti altrui, ma purtroppo ero seriamente convinto che se mi fossi azzardato ad alzarmi, sarei stramazzato a terra.

 "Emh... magari più tardi, Julie. Mi gira la testa per adesso." le dissi, toccandomela in maniera abbastanza credibile.

 Julie si afflosciò un po' dopo il mio rifiuto, e si morse il labbro, delusa. Credetti che se la fosse presa, ma poi sorrise e mi scompigliò i capelli biondi con fare materno: "D'accordo, mio caro, riprenditi. A dopo." disse, allontanandosi e facendo ondeggiare la gonna che le scendeva sulle ginocchia.

 Non potei fare a meno di osservarla da dietro.

 "Ti piace molto, Julie, eh?" chiese Sebastian, facendomi trasalire.

 Mi girai lentamente verso il suo sorriso malizioso.

 "Lei? Emh... sì... cioè... no... voglio dire... " balbettai, arrossendo.

 Lo sguardo mi cadde subito su Misha, perfettamente rilassato ed impassibile. Era incredibile il modo in cui fingeva indifferenza. Avrei voluto poter essere come lui.

 "Non vergognarti, compare. Lei piace praticamente a chiunque qua dentro. Io sono il primo." ammise Sebastian, trangugiando l'ennesimo bicchierino di vodka. "Ma purtroppo non sono mai riuscito a... sì, insomma, hai capito. Tu, in ogni caso, le piaci di sicuro. Invece Misha e Ruth sì che ce l'hanno fatta... uno splendido compleanno, lo chiamerei, giusto Misha?" disse, e scoppiò in una risata esagerata, piegando la testa all'indietro.

 A quel punto io trasalii davvero, e spalancai gli occhi.

 Ruth lanciò una stilettata a Sebastian e arrossì visibilmente, sbuffando.

 Misha sbirciò la mia reazione di sfuggita. "Ero più ubriaco di adesso, buon Dio!" si giustificò, e portò la mano fra i capelli folti e scuri.

 "Ma ti è piaciuto!" gli rispose a tono Sebastian.

 Ruth si alzò un po' goffamente. "Emh... io, io credo di avere bisogno di... d'aria fresca... " mormorò, perdendo un po' della sua consueta dignità da inglesina per bene. Si allontanò in fretta e furia. Molto probabilmente, la sua notte di fuoco con Misha sarebbe dovuta essere un segreto, pensai.

 "E... indovinate un po'? Io ho bisogno di consolare Ruth dalla sua brutta figura, se non mi prende a sberle per quel che ho detto." ironizzò Sebastian, alzandosi con poca grazia e lasciandomi solo con Misha.

 Si allontanò a sua volta dal tavolo.

 Io deglutii.
 "Beh... in vino veritas... " mormorai, il tono irritato, riferendomi a Sebastian.

 "In vodka, veritas... direi." puntualizzò Misha, facendomi l'occhiolino.

 "Che vuol dire 'vodka'?" chiesi, cercando di mascherare l'ondata di gelosia che si era impossessata di me.

 "È un eufemismo, Jensen. 'Voda' in russo vuol dire 'acqua'... e 'ka' è una sorta di vezzeggiativo. Acquetta. Chiaramente... è tutt'altro che acqua." spiegò Misha, un sorrisetto tirato dipinto in viso.

 "Ah... non me l'aspettavo." dissi, secco. Bevvi un piccolissimo sorso dalla sua bottiglia. "Ti... ti senti bene?" gli domandai, incerto.

 Misha mi osservò col sopracciglio alzato. Scese finalmente i piedi dal tavolo, e si sistemò sulla sedia, senza togliermi gli occhi di dosso.

 "Ma certo, Jens. Mi... gira solo... un po' la testa, tutto qua." rispose con un ghigno.

 Dovetti riconoscere che da ubriaco era tanto bizzarro quanto sexy. Lo sguardo mi cadde sulla goccia di sudore che gli percorreva il collo candido, e scendeva dentro la scollatura della camicia sbottonata a metà. In quel momento, realizzai come facevano i russi a non morire dal freddo. Vodka in quantità industriali.

 "Emh... dunque tu e Ruth non siete mai stati insieme, giusto?" dissi, sarcastico, senza sapere dove guardare.

 Lui si strinse nelle spalle.
 "Eravamo scopamici." sussurrò Misha, il tono calmo.

 Io lo fissai incredulo, tanto che lui scoppiò a ridere. "No. Sto scherzando, naturalmente." disse poi. Si protese verso di me, abbassando il tono di voce. "E... non fraintendermi, amo la tua gelosia, Jens... ma cerca di non darla troppo a vedere."

 Arrossii penosamente. "Non... non sono geloso... per niente." protestai, indignato, e mi versai dello scotch per distrarmi.

 "Ah, no?" fece lui, poco convinto. "Vuoi che ti racconti?" mi sfidò.

 "Piantala, scemo... non ci tengo." dissi, secco.

 "È stato... non saprei come definirlo. Avevo fatto una stupida gara con Mark a chi beveva di più... e poi... il resto è storia." disse, stringendosi nelle spalle.

 "Smettila, ho detto,"

 Trattenni il respiro. Pregai che non si accorgesse di quanto fossi maledettamente incazzato. Ma le mie preghiere furono vane.

 "Ogni cellula del tuo corpo in questo momento mi urla ad alta voce di continuare, non ho ragione forse, eh, delfino curioso?" disse, maliziosamente.

 Dunque era sveglio ed astuto pure in quelle condizioni. Bene.

 "Te l'ho detto. Non ci tengo a sapere come ti sei scopato quella." dissi, con un sorrisino falso.

 Misha ridacchiò.
 "E dai, non far così. Anche se sei adorabile quando fai il geloso... ma suvvia, è acqua passata con Ruth. E so che... in questi giorni hai ricevuto qualche mazzata psicologica dal sottoscritto... ma se vuoi stanotte ti faccio passare il nervoso, eh? Ti va?" disse, ammiccando in maniera seducente.

 Roteai gli occhi, sapendo alla perfezione cosa intendesse con quegli occhi maliziosi, ed iniziai a tamburellare le dita sul tavolo. Mi guardai attorno, improvvisamente euforico. Se solo fossimo stati a casa chiusi gli sarei saltato immediatamente addosso.

 Misha si accorse del mio stato d'animo. "Vuoi che stasera ti... sbatta al muro... e magari ti tenga così, bloccato... mentre ti faccio sesso orale?" mi chiese, la voce roca.

 Inspirai, sentendomi le guance bollenti al solo pensiero. Okay, era ubriaco fradicio. "Uhm... Misha... parliamone più tardi... " mormorai, guardando in basso.

 "Sì... mi sembra perfetto... io che ti stringo i polsi, e ti faccio ansimare finché non perdi il fiato... " disse, lentamente.

 Mentre parlava, muoveva sinuosamente la bocca, come se volesse mimare quello che mi avrebbe fatto più tardi. Avevo la ferma convinzione che me lo stesse facendo apposta.

 Socchiusi gli occhi, mentre delle immagini assurde mi piombarono in mente. Una fantasia che tentavo di respingere inutilmente si fece strada in me. Avevo l'impressione di sentire il piacere sessuale accendermi il corpo, e quella bocca perfetta e bagnata sulla mia pelle. Volevo toccarmi.

 La mia mano scivolò lentamente sulla gamba, da sotto il tavolo. Tenni d'occhio gli sguardi altrui. Tutti ubriachi. Tutti troppo lontani da noi. Tutti che ballavano, bevevano, o discutevano - probabilmente sulla guerra. Io e Misha eravamo gli unici seduti ad un tavolo. Io iniziai a sfiorarmi cautamente tra le gambe. Deglutii.

 "Se proprio devi, trattieni i gemiti... " mi ordinò Misha, facendomi l'occhiolino. Annuii frettolosamente, e cercai di rilassare il viso, fingendo che tutto quel caldo fosse dovuto alla sbronza. Accidenti a lui.

 "Sai che... ho una fissa per il sesso sotto la doccia? Scommetto che non ti dispiacerebbe." disse Misha, e sorrise, protendendosi sul tavolo, le mani che reggevano il viso.

 Dio santo, cominciavo a sentirmi davvero strano. Mi strofinai più in fretta, guardandomi attorno ogni cinque secondi. Ma poi, sentii qualcuno che mi afferrava per il braccio da dietro e, velocemente, mi costringeva ad alzarmi in piedi come una marionetta barcollante.

 Sobbalzai assieme a Misha, che smise immediatamente di parlare.

 Era arrivata Julie. Come cazzo avevo fatto a non vederla?!

 "Credo che tu ti sia riposato abbastanza, tesoro. Su Misha, finiscila di farlo arrossire così con questo stupido interrogatorio, e lascialo divertirsi!" esclamò, una mano sul fianco.

 Misha squadrò prima lei, poi me, ed emise un ghigno soddisfatto alla vista della mia faccia paonazza.

 "Julie... non ti provare ad usare quel tono di rimprovero con me." scherzò, fingendo indignazione. "D'accordo, ballate pure." disse, alzandosi dalla sedia.

 Julie si allontanò appena, sorridendo e facendomi segno di seguirla.

 "Arrivo!" gridai, cercando di sovrastare la musica alta.

 Mi girai verso Misha, sereno come non mai.

 "Stronzo... ti sembra questo il momento di... ?" dissi, con un sorriso affettuoso, ma mi morì la voce.

 "Sì, mio caro. Io intanto vado in bagno, sai com'è... ho certi bisogni... " mi disse, passandomi accanto con finta noncuranza.

 Io deglutii. "Mish... cazzo... ti odio." dissi, gli occhi che dicevano l'esatto contrario.

 "No... tu non mi odi affatto," rispose Misha, facendomi una linguaccia. Io ricambiai, prima che lui si voltasse e marciasse verso i servizi.

 Avrei tanto voluto seguirlo, e chiudermi in bagno pure io - possibilmente nel suo stesso - ma per il momento ero in balìa di Julie. Mi dissi di pazientare fino a sera. Da una parte, però, mi sentii immensamente sollevato. Avevo il terrore che qualcuno si accorgesse di tutto.

 Appena la raggiunsi, Julie mi trascinò con fare entusiasta fino alla pista da ballo. "Eccoti finalmente, cavolo! Si può sapere perché ti fai sempre sottomettere da Misha?!" esclamò. Esplosi in una risata contagiosa, pensando inevitabilmente al doppio senso della sua frase innocente.

 Julie si morse il labbro, timidamente - sembrava quasi incantata da me. Aveva un sorriso smagliante da orecchio a orecchio, e avrei giurato che aspettasse quel momento dalla prima volta in cui mi aveva incontrato.

 Intanto, il suono delle balalaikas era stato sostituito da qualcosa di più ballabile.

 Io non muovevo un passo di danza in pubblico dal promo dell'ultimo anno di scuole superiori, ma mi feci guidare dall'istinto. Sfiorai delicatamente Julie sui fianchi ed accennai qualche passo, mentre lei si lasciava prendere la mano per fare una giravolta.

 "E così tu eri quello che non sapeva ballare, eh?" mi disse, ridendo ironicamente.

 "E questo per te sarebbe un ballo? Mi sento un rinoceronte che cerca di camminare!" esclamai, la voce un po' attutita dalla musica.

 Lei rise, e mi sfuggì di mano, allontanandosi per un secondo e poi incontrando di nuovo il mio corpo.

 "Ma zitto! Te la cavi eccome, invece. Sei solo... tremendamente insicuro." disse. "Su tutto, deduco. Mi chiedo come tu possa esserlo anche lontanamente." rispose, sbattendo languidamente le ciglia, ed io deglutii.

 Julie spostò i capelli sulla spalla destra, e poi andò a sfiorare i miei con le dita, solleticandomi la nuca con le unghie lunghe. Mi sentii in imbarazzo.

 Esitò. "Sai? Mi piacciono un mondo, i tuoi capelli... " mi sussurrò all'orecchio. Arrossì subito dopo, seguita da me.

 "Emh... g-grazie... " mormorai, timido.

 "Adoro gli uomini che si curano così tanto come te... molti dicono che sono degli effeminati, ma io personalmente non sono di questo avviso." disse Julie, demolendo del tutto il mio sorriso finto. La parola 'effeminati' mi fece eco in testa e deglutii nuovamente.

 "Che c'è?" mi chiese lei.

 "Nulla," risposi di getto, e feci di tutto per allontanarci dalla pista da ballo. Cercavo Misha ovunque mentre Julie non guardava. Era sparito da vari minuti e temevo si fosse sentito male a causa dell'alcool. E se avesse vomitato e avesse avuto bisogno di me?

 Improvvisamente partì una musica lenta, e Julie mi si avvinghiò addosso, appoggiando il mento sulla mia spalla. Dopo un po' si ritrasse.

 "Ma... ma fai... lo stesso profumo di Misha... " mormorò, la voce stranita.

 Io mi riscossi. Prima di andare al Red Russia io e Misha ci eravamo scambiati qualche effusione sul suo divano. I miei vestiti dovevano essersi impregnati della sua acqua di colonia, pensai.

 "Uhm, me l'ha prestato lui, infatti... ehm, il profumo," spiegai, un po' spiazzato.

 Julie aggrottò le fini sopracciglia. "Misha ti presta le sue cose?!" chiese, staccandosi un po' per guardarmi negli occhi.

 "Emh... no... cioè sì... " farfugliai.

 Abbassai gli occhi, pregando fra me e me di non diventare viola, e lei sorrise, intenerita.

 "Tranquillo... mi piacciono anche gli uomini timidi... sono talmente dolci!" disse con tono lezioso, i nostri corpi uniti.

 Poi, Julie cambiò del tutto espressione e si scostò appena, arrossendo. Rimasi interdetto.

 "Che... che c'è?" chiesi.

 Poi, capii vergognosamente cosa non andava. Tutta colpa di Misha. Accidenti a lui e ai suoi maledetti discorsi erotici. Volevo sprofondare immediatamente.

 "Emh... c-credo che andrò... in bagno." balbettai, indietreggiando. Se non altro sarei potuto scappare e rifugiarmi lì.

 Ma Julie mi fermò, prendendomi per il braccio. "Ma no, no... non preoccuparti stupido. Sono c-cose che capitano." si affrettò a dirmi, sorridendo raggiante come non mai, pur diventando rossa. Si sentiva sicuramente fiera, dato che era convinta di essere stata lei ad avermi provocato certe reazioni.

 "Su, che ne dici di andare a prendere qualcosa al bancone, eh?" propose, per pura distrazione dall'imbarazzo, indicando le bibite in fondo alla stanza rossa e blu.

 "Uhm... le... prendo io. Tu aspettami un po' qui." dissi, le mani sulle sue spalle, sperando che offrirle qualcosa fosse una mossa adeguata per sembrare un gentiluomo.

 Julie sorrise, sorpresa quanto me dalla mia cortesia, e annuì.

 Io fuggii nervosamente verso il bancone con qualche rublo fra le mani, e feci del mio meglio far capire alla ragazza cosa desideravo. Sapevo di avere già esagerato con l'alcool, eppure continuavo a bere senza sosta da un'ora. Avevo dentro un nervosismo che non mi spiegavo. Mi tornava sempre in mente quell'inquietante occhio rosso. Avevo l'impressione che significasse 'fate attenzione' o qualcosa di simile.

 Inoltre, non riuscivo a vedere Misha da nessuna parte. Mi preoccupai, e mi chiesi se fosse opportuno raggiungerlo in bagno.

 Eppure, dovevo pur lasciare i cocktail da qualche parte. Avvistai solo Julie, che intanto si era messa a chiaccherare con Sebastian in un angolo non invaso da coppie ballerine. Li raggiunsi, facendomi difficoltosamente spazio fra la folla.

 "Sì, Jensen. Credo tu stia facendo un ottimo lavoro per conquistarla." mi disse Sebastian con un ghigno non appena mi avvicinai.

 Io tirai fuori un sorriso un po' falso, e cominciai a sorseggiare il mio cocktail. L'alcool mi bruciò il palato e la lingua.

 "Avete visto Misha?" domandai, facendo finta di nulla come meglio potevo.

 "No, Jensen. È scomparso da un quarto d'ora." disse un tizio bruno che avevamo conosciuto solo due o tre serate prima. Si portò due dita sui baffi, pensoso. "Uhm, lo cerchi un po' troppo... non sarai mica innamorato di lui, eh?" malignò, con tono dispregiativo.

 "Donald! Ma ti sembrano battute da fare?!" sbottò Julie, innervosita.

 Io mi sentii automaticamente andare il sangue alla testa. "C-cosa?! No... ma che dici? Starai scherzando?!" balbettai. Oh, merda.

 Donald si accese un sigaro, roteando gli occhi. "Mi pare ovvio che scherzavo. Qua gli omosessuali fanno la peggior fine. Beh, una fine meritata direi. Gli errori della natura vanno eliminati, giusto, Juliette?" disse.

 Julie lo fulminò con gli occhi ed arrossì inspiegabilmente.

 Io inspirai, distogliendo lo sguardo da entrambi. Avrei voluto fare domande più specifiche, saperne qualcosa, ma temevo che sospettassero ancora di più di me. Mi preoccupai per Misha, e mi resi conto di una cosa molto triste: da quando io ero lì in sua compagnia non avevo fatto altro che metterlo in serio pericolo. Misha rischiava per colpa mia, e l'unica cosa giusta da fare per il suo bene sarebbe stata dirci addio.

 Bevvi un altro paio di sorsi per tentare di distrarmi da quei brutti pensieri, ma cominciai a sentirmi male. Ogni cosa girò vorticosamente attorno a me: le luci, le stelle blu decorative in cima al soffitto, Julie, Donald e Sebastian. Ogni voce che ascoltavo mi pareva lontana di chilometri e chilometri. Ebbi un orribile conato di vomito, appoggiandomi al muro vicino. Non ci voleva, pensai.

 "Jensen... tutto okay?" domandò Julie, una mano sulla mia spalla. La sua voce rimbombò nelle mie orecchie.

 "Sì... sto a meraviglia... " gracchiai, barcollando visibilmente.

 Julie aggrottò la fronte. "No, no... non stai bene, Jensen... sei così pallido e... oddio!" gridò, afferrandomi un secondo prima che scivolassi penosamente a terra, in balìa dei giramenti di testa. Le stelle sopra di me si moltiplicavano, cambiavano colore, giravano e luccicavano. Mi pentii seriamente di aver bevuto così tanto. Mi veniva sempre più da rimettere.

 "Misha... dov'è Misha?" mormorai, dolorante per la caduta.

 Sentii qualcuno dire qualcosa come: "Lo chiamiamo?"

 Avrei voluto pregarli di non farlo - non volevo assolutamente che Misha mi vedesse in quelle condizioni - ma non avevo neppure la forza di pronunciare due parole.

 Di punto in bianco, due occhi blu ansiosi mi vennero puntati addosso, e sentii la pressione delle sue braccia forti che mettevano a sedere sul pavimento. Non capivo quasi più nulla.

 "Jensen... ma che hai combinato? Hai bevuto un'intera cassa?" mi chiese Misha, con tono ironico ma dolce allo stesso tempo.

 "M-Misha... no... " negai, il sudore che colava dalle tempie. Da una parte, fui sollevato dal fatto che lui non stesse male.

 Misha mi appoggiò il palmo sulla fronte e mi scrutò. Odiavo ammetterlo perfino a me stesso, eppure adoravo quei suoi modi di fare paterni nei miei confronti. Forse lo pensavo solo perché il mio vero padre mi detestava, ma quando Misha mi trattava in quel modo mi veniva solo voglia di piangere e di raggomitolarmi contro di lui.

 "Misha... le stelle... non fanno che muoversi in continuazione... " biascicai, coprendomi gli occhi con le mani.

 "Sta delirando... " mormorò qualcuno.

 "No. Io dico cose molto peggiori da ubriaco. Jensen... come ti senti?" mi chiese amorevolmente, una mano calda sulla mia spalla.

 Io esitai, aprendo e chiudendo ripetutamente gli occhi. "Lì sopra... girano... "

 "Okay, Jensen," si arrese Misha, comprensivo. "Vedi un cielo stellato, come l'altra volta, in sogno?" scherzò, con un sorriso mozzafiato.

 "No. In realtà vedo un cielo di giorno... " risposi.

 Lui ridusse gli occhi a due fessure, divertito. "Dove?"

 Incrociai le mie mie dita alle sue. "Nei tuoi occhi, Mish... " sussurrai.

 Misha mutò del tutto espressione, e respinse quasi subito la mia timida stretta, impallidendo.

 "Oh, Dio santo... " sibilò, guardandosi confusamente attorno.

 "Misha... " mormorai, ma lui mi zittì di scatto, un dito sulle mie labbra.

 Gli altri mi lanciarono occhiate inorridite; ed io avvertii uno strano senso di angoscia a quella reazione. Perché l'amore doveva per forza essere qualcosa di sbagliato? A causa della sbronza non riuscivo a controllare i miei pensieri, e mi veniva in mente la frase di Donald sugli omosessuali. Che fine facevano? Cosa intendeva dire esattamente?

 "Cosa... cos'è che ha detto?! Vede un cielo?" chiese la voce tesa di Donald. Non entrava nel mio raggio visivo, ma riuscivo perfettamente ad immaginare quale fosse la sua espressione facciale.

 Misha tremava, e respirava irregolarmente. Per la prima volta lo vidi così agitato da non riuscire quasi a mettere assieme due parole. "No, Donald. C-credo che... Jensen debba proprio vomitare... oddio... su andiamo, Jensen. Sbrigati." farfugliò, e mi sollevò con grazia da terra, come se nella vita non avesse fatto altro che sollevare pesi.

 Misha mi trascinò a forza verso il bagno degli uomini, imprecando sottovoce e cercando di sembrare meno affettuoso possibile agli occhi curiosi degli altri. Io avevo le gambe pesanti come il piombo, e le ginocchia che cedevano mentre entravo in bagno, sentendomi tre o quattro paia di occhi puntati addosso.

 Anziché farmi entrare in una delle cabine vuote, Misha mi strinse le spalle, mi portò dietro un muro della stanzetta quasi facendomi male, e mi guardò con aria ansiosa, scuotendo la testa: "Jensen... sei impazzito?! Evita certe frasi, per favore... sai com'è la situazione qui, no?" mi disse, la voce alterata, ansimando.

 Io lo fissavo, inespressivo e quasi incapace di proferire parola. "S-scusa... Mish... " sussurrai, appoggiando la tempia al muro e chiudendo gli occhi. Ormai non capivo quasi più nulla.

 Misha abbassò il capo e sospirò. "Stai tranquillo, sei ubriaco... Cavolo... sei proprio messo male." mi disse. Mi posò il palmo sulla fronte e me la asciugò dolcemente. "Ma non deve capitare più... sai che è pericoloso che si venga a sapere." mi disse alla fine, sorridendo tristemente, gli occhi nei miei.

 Io guardai la sua bocca con brama. La desideravo ardentemente. Ma non potevo baciarlo.

 "Mi dispiace... " ripetei, mortificato. Stavo ancora malissimo.

 "Di che cosa?" mi chiese lui.

 "Ecco... se ne sono già accorti... " dissi in un soffio, temendo la sua reazione.

 Misha sgranò gli occhi ed impallidì. "Di cosa?!" chiese, allontanandosi di un passo.

 "Di noi, Mish... Donald mi ha fatto una battuta... non lo so... "

 "Che ti ha detto?"

 "Che sembravo innamorato di te... perché ti cercavo ovunque... " mormorai. Ebbi un altro conato e mi agganciai alla parete, prima che Misha mi prendesse di nuovo fra le sue braccia. Lo respinsi delicatamente. Non volevo che qualcuno gli facesse del male.

 Misha sembrò calmarsi, e rilassò i tratti del volto. "Donald è fatto così. Era solo una stupida battuta, in fondo. Pare che ne faccia sempre... a tutti." spiegò, ma percepivo dal suo tono che non ci credeva neppure lui.

 "Ne sei sicuro?" chiesi.

 Misha esitò, gli occhi bassi.
 "Sì, stai calmo." disse. "E anche fosse, prima di toccarti dovranno passare sul mio corpo." grugnì, il tono duro e deciso, sorridendo impercettibilmente. Io ricambiai, preoccupato.

 "Non voglio che ti succeda qualcosa, Misha... io ti... " dissi, ma mi si ruppe la voce prima che potessi dirgli cosa provavo. Lui mi guardò, un po' interdetto.

 "Neanche io voglio che ti succeda qualcosa, Jens." mormorò, senza chiedermi di continuare la frase. Restai deluso, credendo che mi avrebbe costretto a dirlo.

 "È... colpa mia," dissi, il capo basso. "Sono troppo trasparente." ammisi.

 Traballai, e finii addosso a lui, che mi accolse fra le sue braccia calde e protettive. Affondai dolcemente il viso nell'incavo del suo collo, gli occhi mi si chiudevano da soli.

 "No, no, Jens. Su, meglio tornare a casa. Hai esagerato davvero stasera."

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 Barcollai verso la camera da letto; le gambe molli parevano cedermi ad ogni gradino che salivo. Il rumore del termosifone suonava quasi rassicurante. Appena arrivato a casa avevo bevuto come un cammello per tenere a bada gli effetti dell'alcool, ma mi girava ancora la testa ed avvertivo una sensazione assurda, come se fossi stato separato dal resto del mondo da un'enorme bolla.

 Il suono scrosciante dell'acqua risuonava nelle stanze della casa di Misha, permettendo alla mia mente di creare immagini e fantasie proibite. Mi sedetti di fronte allo specchio, sul bordo del letto di Misha, immaginandolo sotto la doccia, mentre si insaponava tutto il corpo. Pensai alla schiuma che scivolava lentamente sulle ossa del suo bacino, l'acqua che scorreva sul suo petto e gli inumidiva quei capelli da urlo, evidenziando gli occhi.

 Mi portai entrambe le mani sulla testa. Misha non mi aveva più detto nulla da quando eravamo usciti dal Red Russia. Avevamo salutato tutti rifilando loro la scusa che io mi stavo sentendo di merda e che avevo bisogno assoluto di riposarmi. Avevamo spiegato loro che Misha mi avrebbe accompagnato a casa mia - che poi era la sua - perché da solo non potevo girare in quelle condizioni. Per strada, Misha non mi aveva nemmeno posato gli occhi addosso, facendomi temere che ce l'avesse con me. Era evidente che era spaventato almeno quanto me. Si era limitato a camminare al mio fianco, acchiappandomi per il braccio nel caso in cui cadessi. Solo dopo aver chiuso bene il portone, mi aveva ordinato di bere più acqua che potevo dato che mi avrebbe aiutato, in qualche modo, a sentirmi meglio. Dopodiché era filato sotto la doccia, lasciandomi in tredici con una bottiglia in mano e il culo appiccicato alla sedia della cucina.

 Mi alzai, e varcai la porta del bagno al piano di sopra. Ero più agitato del solito.

 Misha era in accappatoio, e mi dava le spalle, le mani sui i capelli sparsi e umidicci che gli ricadevano sulla nuca. Si voltò non appena mi sentì emettere un "Emh... " mirato ad attirare la sua attenzione.

 Mi scoccò un sorriso complice, cercando di apparire calmo. "Eccoti, finalmente. Va meglio?" mi chiese asciutto, le braccia conserte.

 "Un po'... " dissi, sospirando e leccandomi le labbra. Il mio sguardo percorse tutto il suo corpo avvolto nell'accappatoio blu.

 "Hai... bisogno di una doccia?" mi chiese, una punta di malizia nel tono.

 Esitai. "Beh... sì... sono tutto sudato." risposi, guardando a terra. Misha ammiccò.

 "Uhm... già. Hai ragione." disse, socchiudendo gli occhi. Fece qualche passo lento verso di me, e protese le labbra verso il mio orecchio, sfiorandolo. Mi sentii tremare al suo caldo contatto fisico. Non mi ci sarei mai abituato, ne ero più che certo. "Eppure, sai... non mi sembri nelle condizioni di farti una doccia da solo... o sbaglio?" grugnì.

 Respirai pesantemente, nervoso. Lo ero sempre prima di fare qualcosa con Misha. Mi metteva in soggezione e allo stesso tempo mi eccitava tremendamente.

 "E... sai una cosa? Non mi dispiacerebbe farmi un'altra doccia," aggiunse Misha.

 Non riuscivo a non pensare alle parole provocanti che mi aveva detto al tavolo, e presi a spogliarmi freneticamente, scalciando via i pantaloni, lanciando la giacca e il resto delle cose dove capitava prima sotto i suoi occhi soddisfatti.

 Misha mi tolse pian piano la camicia, lasciandomi una scia di bacetti umidi sul collo e il petto man mano che liberava la mia pelle bianca dalla stoffa. Dio, quanto mi piaceva. Eccome se mi piaceva. Era come prendere la scossa ogni volta che mi baciava.

 "Su, rilassati," sussurrò.

 Le mie mani gli scesero istintivamente l'accappatoio, scoprendogli il collo, le spalle e i pettorali gonfi segnati in parte dalla guerra. In un batter d'occhio, Misha mi trascinò dentro il box doccia, i nostri corpi si unirono sotto il calore dell'acqua che scorreva sulla nostra pelle.

 Il suo profumo si fece più intenso con l'acqua, e mi fece venir voglia di mordicchiargli la clavicola.

 Misha non resistette a quel gesto avventato, e mi spinse contro la parete del box, stringendo i miei polsi. Mi intrappolò fra lui il muro, strusciandosi contro di me in una maniera meravigliosamente oscena. Emise un verso stupendo. Afferrai i suoi capelli e lo baciai passionalmente, succhiandogli il labbro inferiore mentre lui sorrideva contro la mia bocca. Era tutto stupendo, focoso, sensazionale. Era come se fossimo tornati ad essere adolescenti, a provare le vecchie emozioni forti, a sentirci fuori controllo.

 "Sei pronto a vedere le stelle di nuovo?" mi disse Misha appena mollai un po' la presa, un ghigno gli sollevava l'angolo della bocca.

 Io non risposi; serrai invece gli occhi ed appoggiai la schiena al muro. Misha mi strinse i fianchi con poca delicatezza, e avvicinò la bocca al mio addome, giocando con la lingua sulla mia pelle. Cercai di trattenere i gemiti mentre scendeva a farmi dei succhiotti lungo il fianco, la gamba e l'interno coscia, e sobbalzai non appena le sue labbra si chiusero sul mio membro. Da allora in poi, persi del tutto la ragione.

 Il battito cardiaco mi salì a mille, mentre ogni movimento bagnato della sua lingua mi provocava una scossa di piacere per tutto il corpo. Tentai di guardare in alto, di non emettere gemiti continui ed imbarazzanti, ma non ci riuscii. Lo sguardo mi cadeva sempre su quegli occhi blu ed innocenti che mi scoccavano occhiate ogni tanto. Le sue mani mi stringevano le natiche.

 L'acqua tiepida che scivolava sui nostri corpi diventò bollente, o forse ero io a sentirla così. Non sapevo se fosse la sbronza, le mani di Misha che mi tenevano ancorato a lui, o la sua bocca un po' appiccicosa che emetteva suoni osceni, ma improvvisamente mi sentii andare a fuoco. Non ricordavo di essermi mai sentito meglio in tutta la vita. Gli misi le mani sulle spalle, spalancai gli occhi, e sospirai. Mi girava la testa.

 "Mish... " mormorai, senza fiato, "... v-voglio... entrare dentro di te... " mormorai sottovoce, il sudore che si confondeva con le gocce di acqua che mi imperlavano la fronte.

 Misha alzò lo sguardo, puntandomi addosso quelle pozze celesti intrise di malizia. Liberò il mio glande dalla sua bocca e ritornò alla posizione iniziale, in piedi di fronte a me. "D'accordo, frocio." disse, sogghignando affettuosamente.

 Roteai gli occhi. "Che simpatico,"

 Misha ammiccò, e si girò, attaccandosi all'altra parete. Mi scoccò un'occhiata stupida, contraendo scherzosamente le labbra e mandandomi un bacetto.

 "Scemo," lo insultai, ma poi ricambiai. Aderii il mio corpo al suo, e tentai di lubrificarlo con l'acqua della doccia. Lo penetrai più delicatamente che potevo, e Misha emise un dolce lamento. Ondeggiai, godendomi i suoi sospiri soffocati che si mischiavano ai miei. Le sue mani mi afferrarono i fianchi, spingendomi ancora più dentro di lui. Gemetti, e gli baciai la nuca.

 "Oh... Jensen... " grugnì Misha, gli occhi socchiusi, facendomi sentire così strano. Adoravo quando mi chiamava con quel tono rauco e sensuale. Mi abbassai appena per riuscire a penetrarlo più a fondo, e dovetti sfiorargli la prostata dato che lui ansimò ancora più di prima. Si morse le labbra, cercando disperatamente di darsi un contegno mentre veniva, seguito da me. La consueta sensazione di irrealtà mi invase il corpo per sette lunghi secondi, mentre gli stringevo i fianchi e affondavo il naso fra i suoi capelli, respirando a fatica.

 "Mish... " biascicai, poggiando la testa sulla sua spalla. Le gambe già molli da un pezzo mi cedettero.

 Mi rilassai, il mio bacino ancora premuto contro il suo, e poi uscii lentamente.

 "S-sarà meglio chiudere l'acqua," disse Misha, pratico. Afferrò una tovaglia e mi coprì per farmi smettere di rabbrividire. Lo abbracciai istintivamente, con una tenerezza di cui non sapevo di essere capace.

 "Sai una cosa? Vorrei tanto poter restare sempre così," sussurrai.

 -----------------

 Mi misi comodo sul cuscino, il naso che solleticava quello di Misha, e mi morsi un labbro. Avevo ancora quel pessimo presentimento dentro.

 Esitai. Non volevo allarmarlo, ma allo stesso tempo ero troppo preoccupato per ignorare la situazione. Deglutii.

 "Mish... " mormorai, la voce un po' attutita.

 "Jensen... dimmi," mi domandò lui, il tono calmo.

 Lo guardai in quei due cieli paradisiaci, sospirando.

 "Ho paura," ammisi.

 Misha corrugò la fronte. "Di cosa hai paura?"

 Chiusi gli occhi, perché vedere la sua espressione ansiosa dopo quel che stavo per dirgli non mi avrebbe aiutato a sentirmi meglio. "Dei rischi che corri. Potresti... finire in galera. Potrebbero perfino... " dissi, ma mi morì la voce. Ingoiai un groppo di saliva che mi si era bloccato in gola.

 Misha non rispondeva, e non sapevo se fosse un buon segno. Tornai a guardarlo. Lui abbassò appena il viso, e mi guardò negli occhi. "Non accadrà... " disse.

 "E se accadesse? Potrebbe succederti la qualunque da quando stai con me... e quel simbolo che compare... mi turba in un modo che... "

 "Piantala. Ho detto che non accadrà." mi sfiorò la spalla, ricordandomi mio padre quando ero bambino, solo in modo più rassicurante. "Jensen, io e tu resteremo nascosti, mentiremo ogni volta che sarà necessario... e troveremo un modo per andar via da qui. Domani ti mostrerò una cosa importante... per ora sei troppo scosso. E in ogni caso... non ti abbandono. Puoi pregarmi di lasciarti andare, ma io non ti abbandonerò mai, capito?" sussurrò, gli occhi nei miei.

 Abbassai il capo, incapace di parlare, ma lui me lo sollevò con due dita. "Jensen... dico davvero."

 Sospirai, il cuore perse un battito, non essendo avvezzo a certe frasi.
 "Ed io mi fido di te... "

 "E allora?"

 "...ma non mi fido degli altri." continuai, facendo sparire il suo sorriso. Scossi la testa. "Ho paura, e non ho problemi ad ammetterlo... non voglio che tu subisca altri danni a causa mia... " mi si ruppe la voce. Mi sentii un perfetto idiota, ma non potei fare a meno di accoccolarmi contro il suo petto, tentando in tutti i modi di non singhiozzare. Non volevo piangere davanti a lui. L'avevo già sentito piangere una sera - mi chiedevo continuamente il perché - e non volevo risvegliare il suo dolore, da qualunque cosa esso scaturisse. Dovevo essere forte, più forte possibile.

 "Hey... " fece Misha debolmente. Afferrò il lenzuolo, e mi coprì fino alle spalle, accarezzandole con una dolcezza che non avevo mai conosciuto. "Non mi succederà nulla, Jensen... e non succederà nulla neppure a te." mormorò, e mi baciò sui capelli. "Faremo attenzione, davvero... ce la metteremo tutta... okay?"

 Lo strinsi a me. "Sì... " mormorai. Esitai un secondo, il viso premuto sull'incavo del suo collo. "Ti... ti amo, Misha... " sussurrai.

 Chiusi gli occhi, e sentii il suo battito cardiaco accelerare violentemente. Era la prima volta che glielo dicevo. Aspettai una sua qualunque risposta. Nulla. Misha continuava a tacere e a stringermi fra le sue braccia, ma aveva smesso di coccolarmi.

 Alzai lo sguardo, e rimasi interdetto. Aveva gli occhi lucidi. Li abbassò subito, nel tentativo di nascondersi.

 "Hey... Mish, che ti prende... ?" gli chiesi, accarezzandogli la guancia ruvida e al contempo morbida.

 "Oh, niente, niente... è solo che... " sbuffò, sorridendo, "È solo che era da molto tempo che qualcuno non me lo diceva... e poi così, con quel tono... " spiegò, e distolse lo sguardo.

 "Ti sei commosso?" chiesi, sorpreso. Non mi era mai sembrato il tipo che si commuoveva facilmente.

 "Non saprei come definire quel che provo... ma è la cosa che più ci si avvicina... " disse, giocando coi miei ciuffi ribelli e biondi. "Ora dormi, su... sono le tre di notte." disse, e mi baciò sull'angolo della bocca. Improvvisamente, mi riscossi, e corrugai la fronte, dubbioso. Ebbi un déjà vu a quel bacio tanto delicato che non seppi spiegarmi; era come se avessi già vissuto quel momento, ma non si trattava del primo bacio che gli avevo dato io. Decisi in qualche modo di ignorare la cosa.

 "Tutto okay?"

 "Sì, certo... buonanotte Mish... " risposi con uno sbadiglio. Avrei voluto domandargli cosa provava lui per me, ma le parole mi rimasero ancorate alla gola.

 "Buonanotte a te,"

 Mi raggomitolai fra le coperte, avvolgendo il suo corpo con le braccia. Non riuscii a chiudere subito occhio, e rimasi per più di mezz'ora immobile, ad ascoltare il suo battito calmo e il suo respiro che mi scaldava la pelle del viso. Finsi di dormire, sapendo che lui era ancora sveglio.

 Ad un certo punto, Misha mi baciò teneramente sulla fronte, ed una lacrima calda mi cadde sulla tempia.

 "Anche io ti amo, Jensen, moltissimo... e prima che arrivassi qui... credevo che il dolore mi avesse impedito di amare. Se... se solo potessi dirtelo... "

 

 

 Note dell'autrice: Salve, bellissimi miei lettori ;) volevo consigliarvi di tenere a mente la cosa del déjà vu di Jensen, perché verrà spiegata subito al prossimo capitolo :D a presto

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Capitolo 7
*** February 14th ***


14 Febbraio 1995

/Flashback/

 Jensen sgattaiolò fuori dal liceo, il suono della campanella gli assordava le orecchie, unito al fracasso dei suoi coetanei ammassati fra i portoni bianchi. Si mise una mano sui capelli dorati al sole, rassettandoli come meglio poteva, e volò verso il panificio, la borsa che gli penzolava da una spalla sola.

 Sapeva cosa sarebbe successo di lì a poco. Ci aveva rimuginato su per tutto il tempo durante le lezioni, mangiandosi le pellicine delle unghie mentre Marius e Carl lo fissavano di soppiatto, scambiandosi gomitate e commenti volgari sul suo conto. Tutti in classe erano a conoscenza di ciò che era accaduto a Jensen quel Capodanno, o almeno a lui pareva così. Era fin troppo danneggiato per non accorgersi che qualcosa dentro di lui era cambiato per sempre. Era dimagrito - indebolito sia fisicamente che mentalmente - e talvolta lacrimava a scuola, avvertendo il peso della non accettazione divorargli lo stomaco.

 Buttò a terra la cartella nervosamente, abbassandosi in cerca del suo portafogli sgualcito e sotterrato fra i libri di scuola. Doveva allontanarsi più in fretta che poteva da quel marciapiede; era troppo deserto per i suoi gusti.

 Ma subito dopo, qualcuno gli afferrò con forza le braccia e lo fece alzare con uno strattone violento. "Frocio di merda!"

 Un pugno lo colpì in pieno volto e lo fece cadere a terra con un tonfo, prima che potesse vedere il viso malvagiamente divertito di Carl.

 Jensen sentì la risata di Marius che rimbombava nelle sue orecchie mentre cercava di rialzarsi e si premeva il palmo insanguinato.

 "Guardalo! Povero finocchio! Mi auguro che non abbia messo dei cioccolatini sotto il banco di uno dei nostri compagni! Sai com'è... potrebbe scombussolare loro lo stomaco... " malignò Carl, sistemandosi il cappellino da rapper in testa.

 "Finiscila," disse Jensen, sommessamente, e tossì contro il terreno, contorcendosi. Gli veniva da rimettere.

 Carl lo guardò con disprezzo negli occhi grigi, si abbassò e lo prese per il colletto, costringendolo ad alzare il capo. "Una femminuccia come te non dovrebbe nemmeno azzardarsi a dirmi quel che devo o non devo fare." disse, minacciosamente.

 Jensen si ritrasse, ed aprì pian piano gli occhi. Lo guardò con tutto l'odio possibile, come se avesse potuto fulminarlo con il solo sguardo. "Vaffanculo, bastardo." ringhiò, le braccia penzolanti.

 Il sorriso cattivo di Carl si trasformò in un ghigno orribile. "Ah, è così allora? Mi costringe a finirlo... tu che ne pensi, Marius?" disse con una risatina, guardando oltre la testa di Jensen.

 Jensen cominciò a dimenarsi disperatamente per sfuggire alla sua presa, ma Marius lo tenne fermo da dietro, stringendogli le spalle. "È un'ottima idea, tanto se ne parla potremo sempre spargere la voce che è mezzo gay. Coraggio. Finiscilo." disse ridendo, come se nulla fosse.

 L'altro sorrise malignamente. "Bene, buon San Valentino, frocio..." disse, preparandosi per dargli il pugno finale, ma una voce lo interruppe.

 "Hey, voi!" gridò qualcuno energicamente, sbucando dal vicolo. Per un momento, ci fu un silenzio totale, come se quella voce avesse fermato il tempo, congelando i tre ragazzini.

 Marius si staccò da loro; Jensen si girò appena alla sua destra, e vide un ragazzo sulla ventina alto e ben messo che stava marciando con decisione verso di loro, il bel viso corrucciato.

 Marius e Carl si scambiarono un rapido sguardo preoccupato.

 "Mollatelo all'istante, razza di vigliacchi!" urlò il ragazzo, e prese Carl per la maglia, costringendolo a lasciare Jensen che cadde a terra di fianco, emettendo un lamento.

 "Hey! E tu chi cazzo ti credi di essere?" grugnì Carl, dando una spinta al ragazzo. Lui si riscosse, e gli rivolse un sorriso falso: "Sono quello che spaccherà la faccia ad entrambi se non lo lasciate in pace. Non so se mi spiego." disse.

 Marius e Carl si guardarono nuovamente, confusi. Erano più piccoli di lui, e decisamente meno forti. In fondo, non erano altro che due stupidi bulletti che se la prendevano coi coetanei più fragili.

 "Meglio andare... " suggerì Marius, le mani nelle tasche, e si allontanò, seguito da Carl che scoccò un'occhiata minacciosa a Jensen prima di voltarsi definitivamente. Imprecarono appena, uscendo da lì.

 Jensen alzò il capo, e mise lentamente a fuoco il ragazzo che l'aveva salvato. Aveva i capelli spettinati e tendenti al biondo, indossava una felpa blu e dei jeans, e lo stava fissando amichevolmente dall'alto.

 "Si vendicheranno, fai attenzione," lo avvertì, triste.

 Il ragazzo ridacchiò un po'. "No. Non potranno farlo. Sto per partire fra qualche ora; e comunque credo di aver spaventato abbastanza quelle due pecorelle." rispose allegramente, con un accento bellissimo che Jensen faticò a distinguere. "Vanno a scuola con te?"

 "Nella stessa classe,"

 "Oh, cazzo." L'altro ridusse gli occhi a due fessure. "Fossi in te... una lavagna in testa non gliela toglierebbe nessuno." ghignò, e gli tese la mano. "Sono Misha,"

 "Jensen," rispose il ragazzino, titubante.

 "Alzati, dai. Hai male da qualche parte?" chiese Misha, un po' più serio.

 "N-no, a parte... il palmo," balbettò Jensen, scuotendo la testa e mordendosi le labbra. Afferrò saldamente la sua mano, e riuscì a rimettersi in piedi a fatica.

 "Fa' vedere," disse il ragazzo, pratico, prendendo dolcemente il polso di Jensen fra le dita. "Uhm, solo un graffio superficiale. Ti darò il mio flacone di disinfettante - non credo di poterlo portare in aereo."

 "G-grazie... " balbettò Jensen, i timidi occhi color verde smeraldo che studiavano le pieghe del cemento ai loro piedi.

 "Di nulla," disse Misha con naturalezza, la mani nelle tasche. Jensen lo scrutò in quegli allegri e buffi occhi blu. In diciassette anni non ne aveva mai visti di più belli - ne era certo.

 "Perché ce l'avevano con te? Se posso immischiarmi, ovviamente... " chiese il ragazzo, sorridendo e ripiegando la testa da un lato.

 Jensen deglutì, il capo basso. "Emh... sì... sì che puoi... tanto... uno più, uno in meno... "

 "Beh, io sto per partire, come ti ho detto poco fa - a chi potrei dirlo?"

 Jensen sorrise, torcendosi le mani.

 "Ti hanno detto una parola, giusto?"

 "Sì... mi hanno... " esitò, "mi hanno chiamato... frocio," gli confidò Jensen tutto d'un fiato, e piegò appena le ginocchia, più per evitare il suo sguardo che per raccogliere la cartella da terra.

 "Uhm, ed è vero?" lo sentì chiedergli.

 Jensen alzò di scatto il viso, come se avesse preso la scossa. "Dov'è che vai di preciso?"

 Misha rise. "In Russia. Ai russi non importa se sei gay, a meno che non vivi lì. E in ogni caso, io non lo dico a nessuno. Sei gay?"

 "No! Le ragazze mi piacciono!" rispose Jensen.

 L'altro alzò le sopracciglia. "... e... anche i ragazzi?" chiese, ammiccando.

 Jensen si girò e roteò gli occhi. "Non ne sono certo." si incamminò verso l'uscita del vicolo. Si pentì immediatamente di averglielo detto. In fondo non era nulla di sicuro. Avrebbe voluto cancellare gli ultimi cinque minuti, e non pranzare - tanto non aveva fame per niente. Non sapeva nemmeno più che cazzo fosse, la fame. E poi quel ragazzo gli piaceva molto, e nessun ragazzo doveva piacergli, né poco né molto.

 "Hey, aspetta," lo sentì dire da dietro.

 Jensen si fermò suo malgrado, un piede in bilico sul cordolo del marciapiede. Si voltò pian piano. "Che c'è?"

 "Non ne sei sicuro? Vuoi dire che... non hai mai provato, dico bene?" chiese Misha, senza togliersi quel sorriso dalla faccia. Si sistemò un ciuffo ribelle sulla fronte.

 "Veramente no... " rispose Jensen, nervoso ed immobilizzato.

 "Uhm," Il ragazzo gli si avvicinò, arrivando a due passi di distanza da lui.

 Jensen si sentì la colonna vertebrale fremere. Voleva scappare, ma non lo fece.

 "Dovresti... baciare qualcuno, non credi?" disse l'altro con voce calda, magnetizzandolo con quegli occhi.

 "Uhm, già. Il problema è... chi?" chiese Jensen, quasi aspettandosi la risposta.

 L'altro si strinse nelle spalle. "Potresti baciare me, per esempio," disse ironicamente, e Jensen arrossì di colpo guardando le sue labbra increspate e rosee. Misha scoppiò a ridere. "Scherzo. Prova con qualche tuo amico gay, e poi vedi."

 "Non ho amici gay," rispose Jensen, secco.

 "Oh! Sei davvero così sfortunato? O semplicemente hai una gran voglia di provare con me?"

 Jensen sbuffò. "Divertente. Devo andare ora." disse, irritato, e fece per fuggire, ma l'altro gli sfiorò appena il braccio.

 "No, aspetta! Non prendertela, voglio solo aiutarti... " rispose, stringendosi spontaneamente nelle spalle. Jensen guardò il suo sorriso dolce e genuino. Era bello, esageratamente bello.

 "Non... non mi interessa,"

 "Scusa, a volte esagero davvero col sarcasmo. Non me lo merito un bacio? In fondo ti ho salvato," chiese Misha.

 Jensen lo squadrò - pareva in buona fede.

 "Chi mi dice che non è uno scherzo?"

 Misha ghignò, stringendosi nelle spalle e calciando un sassolino. "Sei troppo abituato alla gente cattiva per credere a quella buona, eh?"

 Jensen corrugò la fronte, e valutò le sue parole. In effetti era vero. Aveva smesso di credere alle persone - perfino alla sua stessa famiglia. Aveva perso la fiducia in sé stesso e negli altri dopo il coming out.

 Ci fu una lunga pausa di silenzio disturbato solo dalle auto fuori dal vicolo.

 "N-non posso," disse Jensen, incerto.

 "Oddio, e perché mai?" chiese l'altro.

 Jensen assunse un'espressione corrucciata. Aveva detto a suoi genitori che non avrebbe mai messo in atto quel che gli passava per la testa quando vedeva dei bei ragazzi. Eppure dovette riconoscere che la sua voglia di sperimentare era quasi più grande di quella di mantenere le sue promesse.

 "Uhm, forse non è... male come proposta... " mormorò Jensen, arrossendo e pentendosene quando vide il sorriso soddisfatto di Misha.

 "Ottimo. Su, vieni vicino. Non c'è nessuno qui."

 Jensen esitò, e poi obbedì meccanicamente, e si ritrovò a due passi da lui. Dio santo, quel tipo era maledettamente attraente. Il calore del suo corpo fuoriusciva quasi dalla felpa e si fondeva col respiro affannato di Jensen. Il ragazzo gli sorrise, e gli sfiorò sensualmente un fianco, facendolo irrigidire. "Hey, stai tranquillo," sussurrò.

 "S-sì..." disse Jensen, e avvicinò il viso a quello del ragazzo, gli occhi sulle sue labbra. Gli poggiò una mano sul petto muscoloso, impacciato.

 "Sei nervoso, eh?" mormorò il ragazzo, le labbra vicine alle sue.

 "Sono... curioso... " disse Jensen, dopo aver inspirato lungamente.

 L'altro sorrise. "Chi è curioso va all'inferno, lo sai?" scherzò.

 "Eh?"

 Il ragazzo rise un po' contro il petto di Jensen. "È solo una citazione. Non hai mai visto 'Nightmare before Christmas'? Vergognati!" disse.

 "In realtà no... " rispose Jensen, imbarazzato. Sentì il profumo di quel ragazzo stuzzicargli dolcemente le narici. Cannella.

 L'altro abbassò appena il viso. "Comunque sia devo concedermi un ultimo bacio in strada ad un ragazzo... prima di rimpatriare. E... anche io sono curioso... di sapere cosa si prova a baciare le tue labbra. Sono... così... vellutate," disse con voce roca.

 Jensen arrossì violentemente. "Emh... grazie ma io... "

 "Sshh," disse il ragazzo, e schiuse le labbra, avvicinandole sempre di più a quelle di Jensen. Jensen chiuse gli occhi, e sentì la bella bocca dell'altro sfiorargli piacevolmente il punto fra la mascella e le labbra, per poi salire su. Si sentì strano, male e bene allo stesso tempo, eccitato. E gli bastò.

 "Misha! Dove sei finito?!" strillò una voce, facendoli sobbalzare prima che potessero baciarsi davvero. Il ragazzo mollò di scatto il fianco di Jensen, guardandosi attorno. "Oh, merda... "

 Una signora elegante sbucò dal vicolo, agitando il foulard. "Misha, andiamo! Sbrigati, o perderemo l'aer-" esclamò, poi mise a fuoco i due ragazzi, e si portò una mano fra i capelli. "Oh, Signore aiutami tu... " disse, gli occhi teatralmente rivolti al cielo.

 Jensen guardò il ragazzo. "Che succede?"

 L'altro gli toccò la spalla. "Che devo andare... mi dispiace. Da svidanya." rispose, agitato, con un sorrisetto. Si separò da Jensen e corse nella direzione della madre, che già si stava allontanando facendo ticchettare gli stivaletti.

 "Ti rivedrò mai?" urlò Jensen.

 "Perché no? Il mondo è piccolo!" esclamò Misha, correndo fuori dal vicolo. Si voltò per un secondo a fargli l'occhiolino.

 Jensen lo fissò da dietro, mordendosi le labbra, finché non lo vide sparire dietro l'angolo.

 Gli batteva ancora forte il cuore. Quasi immediatamente, ripercorrendo tutto l'accaduto, avvertì un senso di colpa divorargli lo stomaco. E da lì in poi, pian piano precipitò.

 ------------------

 Giugno 1955


 Un urlo acuto mi svegliò all'improvviso nel cuore della notte, accompagnato da un movimento brusco del materasso.

 "Aiuto! Jensen, ti prego aiutami, per favore... non riesco a... " biascicò la versione strozzata della voce di Misha. Lo sentii tossire, come se non potesse più respirare.

 Dio, no. Sapevo che sarebbe successo prima o poi. Nel giro di due secondi, fui assolutamente certo di ciò che lo avrebbe ucciso per dieci indescrivibili minuti. E dovevo aiutarlo subito.

 Scattai a sedere, gli occhi sbarrati. Misha era piegato in avanti, raggomitolato, e si stava coprendo il viso con le mani. Gemeva e singhiozzava, respirando irregolarmente - era terrorizzato.

 "Oddio! Misha, amore mio... che ti succede?! Mish... " mormorai, la voce tesa e ansimante, mettendogli una mano sulla spalla sudata. La maglia del pigiama era del tutto appiccicata alla sua pelle, e Misha tremava in modo spaventoso.

 Mi tornarono in mente come uno tsunami i ricordi del mio primo attacco di panico. Non dovevo sprofondare. Non potevo.

 "No... no... no... " disse Misha, disperato, la voce rotta. "L'ho rivisto d-di nuovo... non mi lascerà mai in pace... lo so... " balbettò a fatica.

 Sentirlo parlare in quel modo mi strinse il cuore. Avevo paura che ogni mia parola aumentasse la sua paura. Gli sfiorai la coscia in modo rassicurante.

 "Amore mio, calmati, per favore... ci sono io qui con te e... sei a casa, al sicuro. Qualunque cosa tu veda ora... non esiste, okay? N-non c'è più... vuoi che accenda la luce?"

 "No! Non lo fare, ti prego... lascia stare... mi passerà fra qualche minuto... come ogni volta... " gli si ruppe del tutto la voce e scoppiò in singhiozzi convulsi, senza riuscire a trattenersi. Percepii il dolore nella sua voce, la disperazione, le urla strazianti, gli spari continui della guerra, le trincee insanguinate, il fumo. Pregai inconsciamente che gli passasse tutto, il battito che mi cresceva a dismisura nel petto.

 "Non lascio stare un bel niente... " dissi. Strisciai accanto a Misha, e provai a stringerlo appena, e a togliergli delicatamente le mani dal viso, ma lui si irrigidì, e continuò a tremare e piangere come non si era mai azzardato a fare di fronte al sottoscritto. Vederlo in quelle condizioni mi uccideva. Aveva il fiato mozzo e il battito cardiaco accelerato - nulla a che vedere con la calma della sera prima.

 Restai immobile a guardarlo per qualche secondo, indeciso, e poi lo baciai appena sulla tempia, tremando a mia volta.

 "Mish... dimmi se vuoi... cosa ti fa stare così male? Ti ho sentito piangere un altro paio di volte. Dovresti parlarne... " mormorai dolcemente.

 Misha in un primo momento non rispose. Gemette, e si asciugò una lacrima, la testa abbastanza abbassata da non farmi vedere il suo viso appiccicoso.

 "N-non ci riesco, Jens... è... è... tutto confuso... e rivivo un migliaio di cose assieme... non so mai gestirle... " disse, il viso basso e trasfigurato dal pianto. Due lacrime enormi mi caddero sul braccio. Era orribile vedere la persona più divertente e buffa che avessi mai conosciuto disperarsi in quel modo irreparabile. Misha pareva distrutto, annientato da ricordi dilaniatori, come se avesse passato un periodo della sua vita all'inferno. Ed io soffrivo con lui, perché lo amavo come non avevo mai amato nessuno, ma, come d'abitudine, ricacciai indietro le lacrime per dargli forza.

 "Amore... accendiamo la luce... così ti accorgerai che siamo qua... nella tua stanza, e non vedrai più quel che vedi. Era solo un incubo, credimi... "

 "Non trattarmi come se avessi cinque anni!" sbottò Misha con voce isterica, prendendomi alla sprovvista. Sapevo quanto si sentisse umiliato in quel momento. Ero probabilmente l'unica persona davanti alla quale voleva comportarsi in quel modo. "Lo so perfettamente che quella sparatoria era solo un incubo... sono impazzito e basta... mi succede sempre... stavolta sto per morire Jensen... " aggiunse, faticando a respirare.

 Mi si seccò la bocca per un momento, ma poi capii cosa intendesse. "M-misha... no... tu non stai per... è solo l'attacco di panico che te lo fa credere... nulla di più. Li ho avuti anche io da piccolo... so cosa si prova... " sussurrai.

 "No! Non sai un cavolo, Jensen! Non sei stato in guerra... " mormorò Misha.

 Lo guardai, mortificato, tacendo momentaneamente. "Oh, tesoro, lo so... volevo solo... che ti sentissi capito,"

 Misha si girò, fissandomi tristemente, ma con un velo di affetto misto a pentimento negli occhi.

 Chiusi i miei, rassicurato, e lo strinsi, cullandolo fra gemiti e sospiri finché non svanirono i terrificanti effetti del suo disturbo, le mie labbra sui suoi capelli scuri e arruffati.

 Calò il silenzio per un minuto, prima che Misha mormorasse: "Okay. Accendi la luce, Jens... "

 "Sì," gli diedi un bacetto sul collo.

 Riaprii gli occhi, sospirando, e poi mi separai da Misha per allungare il braccio verso la sua abat-jour ed accenderla.

 Scivolai di nuovo accanto a Misha, le lenzuola aggrovigliate attorno alle nostre gambe, e lo presi per mano, accarezzandogli il palmo col pollice. Notai una ferita da arma da fuoco in prossimità del braccio.

 Lui si girò verso di me, ed io gli scostai i capelli dalla fronte. Rabbrividii nel vedere quel bel viso trasfigurato dalla disperazione e rigato di lacrime, e quegli occhi arrossati. Misha deglutì, e si passò le mani sugli occhi, come a voler cancellare il dolore che sgorgava da essi.

 "Scusami... " sussurrò con un fil di voce spezzata.

 "Per cosa?" chiesi.

 Misha non rispose. Si limitò a lanciarmi un'occhiata con quello sguardo da cucciolo bastonato, e a togliersi la maglietta sudata, rimanendo a torso nudo. Scosse il capo. "Mi dispiace tanto Jensen... non volevo comportarmi in quel modo... non con te specialmente... è solo che-"

 "No no no." lo interruppi, "Va bene così... va tutto bene." gli circondai le spalle col braccio, i miei occhi nei suoi, blu come un mare in tempesta. "Tranquillo... " lo rassicurai, baciandolo teneramente sulle labbra bagnate. Misha rispose al mio bacio con dolcezza, come non aveva mai fatto fino a quel momento. Mi catturò un labbro fra i suoi, stuzzicandolo coi denti, mentre le lacrime sgorgavano ancora copiose. Amavo quando lo faceva. Poi si staccò, ed appoggiò la fronte alla mia, i nostri respiri si mischiarono.

 "Amore... ho... così tanta paura... " ammise.

 "Della guerra?"

 "Non solamente." fece una pausa, come per riprendere fiato. "Non ho solo visto un migliaio di proiettili attraversarmi il corpo, dallo stomaco in su," spiegò.

 "Allora cosa... cosa hai visto?" sussurrai, incerto, gli occhi socchiusi. Gli accarezzai l'addome, come per guarire ferite immaginarie.

 "Qualcuno che... ti picchiava... ma non come immagini tu... in un modo violento da far paura. Ti stava uccidendo, Jens... ed ho paura che sia... un avvertimento." disse.

 "Come fai a sapere che lo è?" chiesi, baciandogli delicatamente il collo candido.

 "Alla fine dell'incubo... c'era l'occhio rosso che appare nel muro... e sanguinava a fiotti... lacrimava sangue... non smetteva... una cosa orrenda,"

 Mi sentii rabbrividire al solo pensiero, e smisi di baciarlo per un secondo, guardandolo negli occhi blu.

 "Jens... hai mai avuto... il terrore di perdere qualcuno che ami?" mi chiese lui, quasi in modo impacciato. Sembrava che si vergognasse di parlare dei suoi sentimenti, e mi faceva tenerezza.

 Rimasi interdetto. "Prima di te, raramente."

 "Ho avuto tanti attacchi di panico nei mesi prima che venissi tu qui, e non sono più in guerra da anni. Credevo di averli sconfitti stando in tua compagnia... credevo mi avessi guarito... non so come." mi sorrise appena, come un barlume di speranza fra i pianti, "Ma ora ne ho avuto uno... un altro mostro che mi ha stretto la gola. E credo di sapere il perché... " disse, ingoiando a vuoto.

 "Perché?" chiesi, come se fosse stato necessario, le mie dita gli accarezzavano il volto.

 "Ho paura... di commettere lo stesso errore che ho commesso tanto tempo fa... e a causa del quale ora porto tutti i segni addosso... " mormorò, le dita sulle ferite profonde sul petto e sulle costole.

 Mi pietrificai. Non capivo assolutamente cosa intendesse. Aveva forse fatto una cazzata in passato per la quale era finito in guerra?

 "Misha... spiegati meglio... " dissi, una mano sul suo avambraccio rigido e umido.

 "Ci sono migliaia di cose che devi sapere, Jens... " rispose lui lentamente.

 Serrai le labbra, serio. "Dimmi, Mish... "

 Lui sospirò. "Bene... la Matrioska... era un regalo, sì... ma in realtà... era solo un modo per farmi finire qui, e basta. Una vendetta."

 "Oddio, ma cosa hai fatto per meritarlo?" dissi, sgranando gli occhi.

 Misha aprì i suoi, e mi tolse le mani dal viso, incrociando le dita con le mie. "Ho amato... "

 Rimasi impassibile.

 "Ho amato qualcuno... tanto intensamente da farlo uccidere, quando vivevo in Russia nell'anno 2002. Lui mi aveva regalato una piccola Matrioska rossa, sapendo che io ne facevo collezione. Io e lui stavamo insieme, quando io ero solo un ragazzo. Lui non voleva che si sapesse in giro, e presto ho capito il perché. Appena suo padre lo ha scoperto... " la voce gli si ruppe appena, ma fece uno sforzo immane per continuare. "Mi era sempre sembrato un brav'uomo, onesto e laborioso. Eppure lo ha distrutto, quel ragazzo. L'ha ucciso di botte proprio di fronte ai miei occhi - ed io non ci ho potuto far nulla. L'ha pestato a sangue come si fa con gli animali da macello - suo figlio! - e lui è finito in terapia intensiva... e tutto questo per cosa?!" concluse rabbiosamente, serrando i pugni.

 Non mi accorsi di essermi commosso finché non sentii il calore delle mie stesse lacrime sul mento.

 "Oh, buon Dio... " mormorai, la voce tesa. Non credevo alle mie orecchie.

 "Poi mi ha guardato... voleva picchiare anche me perché secondo lui avevo rovinato suo figlio... ma poi non mi ha fatto nulla quel giorno... mi ha solo sbattuto fuori di casa urlandomi che non sarebbe finita lì. Io tenni d'occhio Ivan per giorni all'ospedale, quando mi lasciavano entrare... gli leggevo le storie che scrivevo e che lui adorava, nonostante non fossi sicuro che le sentisse... gli tenevo la mano, e gli dicevo che non importava se i suoi non accettavano che fosse omosessuale, che avrebbe sempre avuto me, che avrei trovato un modo per farlo sorridere di nuovo... per farlo vivere di nuovo... " disse Misha, gli occhi bassi e vergognosi, come se stesse raccontando di un omicidio fatto con le sue stesse mani, "E poi... poi è morto... "

 Mi si rimescolò il sangue e sgranai gli occhi. Dio santo. Non avevo idea di come reagire a quell'orribile racconto. Respirai pesantemente, e Misha taceva.

 "M-mi dispiace, davvero. Non è stata affatto colpa tua... non devi pensarlo neanche lontanamente... " mormorai, la voce spezzata.

 "Sì invece... è stata una mia idea andare a casa sua... lì suo padre è arrivato in anticipo... e ci ha visto baciarci... e l'ha ucciso. Capisci, adesso, perché ho paura? Sono terrorizzato dall'omofobia di questo posto... non voglio che ti accada nulla di simile perché... perché mi sono innamorato di nuovo, ancora più intensamente di prima... "

 Cadde il silenzio. Mi sentii il cuore battere all'impazzata, in un misto fra euforia, rabbia e tensione.

 "Mi ami... ?" domandai, gli occhi lucidi nel buio.

 Misha annuì. "Sì, ti amo."

 "Ti amo anche io... Mish... non sai quanto... " sussurrai, tremando un po', "E ti assicuro che andrà tutto bene... s-so che ieri ero io quello ad avere paura - temo che sia colpa mia se ti è venuto l'attacco di panico - ma insieme... possiamo sconfiggere tutto questo. Dobbiamo solo fare attenzione, come abbiamo sempre fatto... " dissi, e posai le labbra sulle sue per un momento, il pollice che gli sfiorava il collo.

 "Non è colpa tua se ho avuto l'attacco di panico. Non dire stronzate," disse lui, secco, ma la voce gli divenne appena più dolce alla fine della frase. "Comunque non è finita. Un mese dopo la sua morte, il padre di Ivan era impazzito. Si ubriacava, picchiava la moglie e l'altro figlio... e faceva cose orribili per sfogo. Io intanto aspettavo la sua vendetta. Avevo paura, ma non troppa. Un giorno, notai che la Matrioska di Ivan aveva qualcosa di diverso dall'originale. Decisi di aprirla per controllare l'interno... poi l'ho vista illuminarsi... " non terminò - non ce n'era bisogno.

 "E... credi sia stato lui?" domandai.

 Misha annuì.

 Inspirai. Finalmente sapevo tutto. E mi aveva sconvolto nel profondo.

 "Se lo meritava lui di finire in guerra... lo sai,"

 "Lo so. Ma tanto non ho nemmeno avuto il tempo di pensarci che già ero immerso negli orrori dell'operazione Barbarossa, a Giugno. Quando mi hanno arruolato, ed ho iniziato a combattere a Leningrado non ho pensato più. Sentivo solo le fucilate, il fuoco, l'odore del fumo che mi bruciava le narici, i carrarmati... sono diventato un apatico impazzito in mezzo ad un inferno grigiastro."

 Chiusi gli occhi, cercando faticosamente di immaginarlo.

 "Devo mostrarti una cosa che avresti dovuto vedere prima... " disse Misha, e scese dal letto con un piccolo balzo. Atterrò sul tappeto. "Cioè... in teoria l'hai vista... ma non ti ho permesso di leggerla tutta," specificò alzando le sopracciglia, con un sorriso contenuto.

 Io lo osservai dal letto, pensando alla famosa lettera. "Okay. Fa vedere," dissi sommessamente.

 Lui annuì di nuovo, e si piegò a sedere sul pavimento; aprì un cassetto di legno facendolo cigolare, la luce giallastra della lampada gli illuminava il volto ed i capelli a metà. Guardò il contenuto con un dito sulle labbra, sospirando ansiosamente, e tirò fuori un pezzo di carta che mi porse subito.

 "Tieni, e leggi fino in fondo. E perdonami se non te ne ho parlato prima. È talmente folle che temevo te ne fossi andato reputandomi un malato mentale. E... io non volevo che te ne andassi," disse, la fronte corrugata, sorridendo.

 Io lo guardai, il foglio tra le mani, e poi abbassai lo sguardo, esponendo la lettera alla luce soffusa dell'abat-jour e sedendomi ad indiano sul ciglio del letto.

 "Carissimo Misha,
 so bene in che situazione ti trovi adesso e spero che non mi prenderai per matto appena leggerai quel che ho da dirti - in fondo, ne hai viste molte tu, di cose assurde." lanciai un'occhiata a Misha; era impassibile. "Devi sapere che ieri ho fatto un sogno molto particolare nel quale tu incontravi un uomo nel bel mezzo della Piazza Rossa, il primo di Marzo. Hai presente quei sogni in cui sei inspiegabilmente consapevole di certe cose? Bene. Io nel sogno avevo l'assoluta certezza che quell'uomo ti avrebbe salvato. Lui, Jensen Ross Ackles... " strabuzzai gli occhi, " ...ti avrebbe riportato avanti nel tempo." strinsi la carta scricchiolante fra le dita. "Qui c'è... veramente il mio nome... come cazz-"

 "Tu leggi, e basta," rispose Misha, fermo.

 Riabbassai gli occhi e seguitai a leggere meccanicamente, nonostante il groppo alla gola. " ...ora, non ti chiedo di recarti obbligatoriamente in Piazza quel giorno, né di fidarti ciecamente delle mie capacità di veggente, ma non credi di poter considerare questo come un segno divino? Saluti cordiali. Dal tuo affezionato amico... Robert Benedict." terminai, con un lungo sospiro sconvolto e tremolante.

 Mi tornò in mente quel sogno che avevo fatto il primo giorno a Mosca: le stelle, Misha che mi chiedeva di aiutarlo a tornare, e l'emozione forte che avevo provato nei suoi confronti pur conoscendolo da sole ventiquattro ore. Mi portai le mani alla testa, confuso come non mai.

 "Jensen... amore... " mormorò Misha, le ginocchia a terra, sfiorandomi le gambe con le dita. "Mi dispiace di non avertene parlato... sai che-"

Io scossi la testa. "No. Non c'è bisogno che ti scusi... non volevi sconvolgermi. Ti amo, e... non so ancora come, ma ti aiuterò a tornare... se questo è ciò che sono chiamato a fare." dissi, dolcemente, ma deciso, guardandolo negli occhi celesti.

 Misha sorrise, e si protese verso di me. Mi baciò, accarezzando le mie labbra con le sue, schiudendole e poi spostandosi per un'angolazione migliore. Introdusse la lingua nella mia bocca, giocando in un modo meraviglioso e toccandomi il viso con le mani. Io gli strinsi i fianchi, e gemetti, indietreggiando e facendogli spazio affinché potesse arrampicarsi sul materasso.

 Misha mi scompigliò giocosamente i capelli, e mi salì addosso, baciandomi ancora pian piano, come se fosse stato stanco per continuare, ma avesse avuto lo stesso voglia di coccolarmi. Mi fece stendere sotto di lui, mi sfilò lentamente la maglietta e mi passò le labbra sul collo, ancora lacrimando silenziosamente. Io gli sfiorai le spalle ed ansimai. Il mio collo non era mai stato così sensibile prima che le sue labbra lo baciassero.

 Dopo qualche minuto, Misha si sistemò accanto a me, i nostri corpi intrecciati. Prese il lenzuolo ed il piumone, e coprì entrambi, lasciando che solo le teste facessero capolino. Mi appoggiò la guancia al petto, ed io gli circondai la schiena con un braccio e lo baciai sui capelli, restando immobile. Mi sentivo così al sicuro in quella posizione, come se nulla e nessuno avrebbe mai potuto dividerci. Misha aveva ancora il viso bagnato - lo sentivo inumidirmi proprio sul cuore palpitante.

 "Non ti lascerò mai, lo prometto su... tutto quello che vuoi." sussurrai, la voce non proprio ferma; una paura insopportabile di perderlo mi opprimeva l'anima.

 "Nemmeno io... resterò per sempre," disse Misha.

 Mi lasciai scappare una risatina. "Promesso?"

 "Cielo, sembriamo quasi due sedicenni. Promesso, Jens... " rispose, e rilassò i muscoli contro i miei.

 "È tutto chiuso qui a casa, vero?" bisbigliai.

 "Certamente,"

 Sospirai di sollievo a quella risposta, anche se ogni sera controllavamo se ci fosse anche uno spiraglio di finestra aperto, prima di andare a letto. Io e Misha dormimmo così, avvinghiati, riscaldandoci l'uno col corpo dell'altro, e amandoci più di quanto ci credessimo capaci di fare. Lo stringevo forte al petto, e sentivo le sue cicatrici ruvide graffiarmi appena lo stomaco, ma non mi importava.

 Io lo amavo così, con le sue ferite, interne ed esterne, con ogni suo piccolo o grande difetto, con ogni suo male che tentava di distruggerlo.

 Rimasi lì, accarezzandolo come non avevo mai fatto con nessuno, piangendo lacrime amare e dolci allo stesso tempo e proteggendo il mio angelo dalle ali spezzate, finché non si addormentò serenamente fra le mie braccia.

 

~You deserve to be saved

 

 Note dell'autrice: ... Si, lo so che i flashback rallentano un po' la narrazione, ma servono a capire tante belle cose su questi due cuccioli innamorati <3 e vi assicuro che ce ne sarà solo uno ogni sette capitoli (amo il sette ed i suoi multipli, non so proprio perché u.u ).
 

 

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Capitolo 8
*** When the problems started ***


               When the problems started



Strinsi le labbra attorno alla sigaretta, rilassandomi sul divano e godendomi l'aria fresca del ventilatore a pale che mi scompigliava i capelli, e la voce dolce di Misha che canticchiava 'The sound of silence', girellando per il salotto. Mi piaceva quella canzone, Misha mi ci aveva fatto affezionare cantandola.

 Era ormai Agosto inoltrato, ed era iniziata la classica settimana di afa a Mosca, dopo un Luglio costellato da brevi temporali estivi.

 Osservai il bel profilo di Misha, intento ad esaminare l'ennesimo occhio rosso al muro e a sfiorarlo con le dita, perplesso. "Inquietante, eh?" mormorò con tono grave, voltandosi.

 "Sì," risposi, facendo ballare la sigaretta in bocca. "Beh... più che altro, chiunque l'abbia fatto ha rovinato l'intonaco del tuo bel castello... Sua Altezza Reale." mormorai, con un sorriso ironico nella voce.

 Misha alzò le sopracciglia, e mi rivolse un mezzo sorriso. "Posso benissimo farlo rifare. Ed il castello non è mio. Mi ha aiutato economicamente Mark." ribatté.

 "Lo so," dissi, con un sorriso. Sapevo che Mark era vagamente a conoscenza della nostra relazione poco amichevole, e che manteneva il segreto perché considerava Misha il suo migliore amico; l'enorme rischio che correva mi faceva capire quanto gli volesse bene.

 Buttai il fumo dall'altra parte, facendolo uscire pure dalle narici.
 Accidenti. Mi ero perfino tolto il vizio, prima di essere spedito lì a Mosca. La causa della mia ricaduta doveva essere stata l'enorme dose di nervosismo che mi tormentava nell'ultimo mese. Misha aveva avuto un attacco di panico dietro l'altro da quella notte in poi - ricordavo come funzionava; era un orribile, insopportabile circolo vizioso. Ogni sera che si svegliava urlando in preda al panico gli tenevo la mano, gli accarezzavo le ferite, e lo coccolavo finché non si calmava e finiva col sussurrarmi cose che non si sarebbe mai sognato di dirmi quando era in sé. Non mi dispiaceva affatto aiutarlo psicologicamente; mi sentivo utile, nonostante mi rendesse un po' malinconico vederlo in quel modo: mi rattristava da morire. Inoltre, mi odiavo per non essere in grado di farlo sentire abbastanza meglio. Avrei dato la vita per renderlo felice.

 Per fortuna, negli ultimi tre giorni sembrava star recuperando l'adorabile ironia pungente che lo caratterizzava, e il fatto che potesse essere merito mio mi riempiva di un certo orgoglio.

 Erano comparsi due nuovi occhi in giro per casa, più grossi e spaventosi dei precedenti; ormai era una specie di strana abitudine trovarne qualcuno. Avevamo pensato che doveva trattarsi di un simbolo, anche se non sapevamo cosa ce lo facesse intuire.

 Misha mi lanciò un'occhiata intimidatoria, alzando un sopracciglio in segno di scherno. "Hai... intenzione di fumare ancora come un turco o vuoi aiutarmi con le indagini, eh?" chiese, le mani sui fianchi nudi.

 Io sospirai, e feci un anello di fumo che sorvolò il tavolino di fronte a me. "Appena finisco questa," dissi, sollevandola a mezz'aria e sorridendo sfacciatamente.

 "Traduzione di quel che hai appena detto: 'appena finisco di farti arrapare apposta'," mi corresse a modo suo Misha, e mi mandò un bacetto soffiato.

 Chiusi gli occhi e risi come un matto, buttando la testa all'indietro. Non mi era mai capitato di instaurare un rapporto così confidenziale con qualcuno in meno di cinque mesi. Era contro il mio naturale DNA.

 Dopo vari minuti, ebbi quasi l'impressione di riaddormentarmi, il capo appoggiato alla testata del divano, quando sentii il rumore sordo dei piedi di Misha che attraversavano il tappeto, ed il calore del suo ventre piatto sul mio. Misha posizionò le braccia attorno a me, i suoi polsi mi sfioravano i fianchi. Aprii gli occhi, e me lo ritrovai vicino all'orecchio. "Ti amo, stupido che non sei altro." mi sussurrò con voce roca, facendomi perdere un battito. "E non voglio mica che... ti rovini la tua bella vocina, eh?" grugnì.

 Io roteai gli occhi. "Non ho... una bella vocina," protestai, buttando il fumo dall'altra parte.

 "Oh sì che ce l'hai - e mi piace il tuo accento." ribatté Misha, la sua lingua mi stuzzicava un capezzolo. Pregai che non sentisse il mio battito accelerare. "Da morire,"

 "M-meglio il tuo." risposi, balbettando.

 Misha ridacchiò. "L'accento russo? Ma scherzi?"

 "Il tuo è sexy... anche se... per me il russo è ancora arabo," risposi, sorridendo, e sobbalzando un po': le labbra di Misha mi avevano raggiunto la mascella.

 Misha mi guardò negli occhi, sfilandomi la quarta sigaretta del mattino dalle labbra e infilandola fra le sue.

 Io mi risvegliai, fissandolo esterrefatto, e mi trattenni dal dargli un'affettuosa sberla.

 Misha fece un tiro, calmo come non mai, ed assunse subito dopo un'espressione schifata. "Bleah, ma che ci trovi di divertente?" disse, piegando gli angoli della bocca.

 "Non è divertente. È calmante," puntualizzai, i miei occhi nei suoi.

 Misha sorrise. "Ce l'ho la camomilla, tesoro mio. E anche il tè verde, se lo preferisci."

 "Uhm," feci, "Nah... meglio questa," dissi, togliendogliela dalle dita.

 Misha mi fissò con uno sguardo di sfida. "Ah, sì? Beh... " portò le mani esperte sulle mie cosce, massaggiandole lentamente. Mi vennero i brividi, e sbattei le palpebre. "So io... cosa ti fa stare meglio," mi disse all'orecchio, con una risatina perversa.

 Io sorrisi, ed ebbi appena il tempo di allungarmi per schiacciare la sigaretta sul posacenere, prima di finire sotto Misha, lui che mi sbottonava i pantaloni ed io che mi sdraiavo a pancia in giù sul divano. Misha mi salì gentilmente di sopra, ed io sobbalzai al contatto con le sue labbra, e le sue mani sulla mia schiena che mi facevano un massaggio caldo e spettacolare, partendo dai fianchi fino a raggiungere le spalle ed il collo. Soffocai un gemito di piacere sul bracciolo del divano.

 "Cavolo... hai delle mani che... " biascicai, avvertendo la dolce pressione del suo bacino contro il mio. "... te... te l'hanno mai detto... ?"

 Misha abbassò il viso; mi pizzicò dolcemente la spalla con la barbetta, mordendomi la pelle umida. "In tanti," mi rispose, la voce beffarda. "Davvero in tanti."

 "Okay, mani d'oro, ora però non darti troppe arie." lo rimproverai, ma mi ammutolii del tutto non appena le sue dita mi sfilarono abilmente la cintura da dietro, si intrufolarono nei miei boxer e li scesero pian piano.

 "So bene che hai voglia, mio caro... " disse, aderendo il suo corpo al mio, tenendomi i fianchi ancorati alla stoffa del sofà.

 "Mish... " implorai quando mi allargò le gambe e mi penetrò, stringendomi le spalle e muovendosi dentro di me.

 Sospirai, ed emisi un piccolo lamento continuo. Mi aggrappai al bracciolo del divano, gli occhi quasi fuori dalle orbite. Mi faceva impazzire.

 Stavo quasi per raggiungere l'orgasmo, il sudore si era accumulato ovunque nel mio corpo, quando Misha diede la spinta finale, ansimando, e venne dentro di me, emettendo un verso. Pareva che si mettesse sempre d'impegno per farci venire contemporaneamente.

 Rimasi ad occhi chiusi, ansimando, quasi non sentendo Misha che mi liberava gradualmente del suo peso e mi scompigliava i capelli da dietro. Sorrisi al suo tocco, sereno.

 "Ti ho macchiato il divano... " dissi, gli occhi ancora chiusi.

 "Non importa. Colpa mia." lo sentii dire, la voce mielosa e tremante. Si alzò, e si riabbottonò i pantaloni scuri, passandosi una mano fra i capelli al vento.

 Mi sdraiai di fianco, appoggiandomi su un gomito con fare pigro ed osservandolo.

 "Comunque... " si schiarì la gola "...secondo me dovremmo fare qualcosa... " disse Misha, infilandosi una maglietta di cotone, gli occhi blu fissi sui miei.

 "Che cosa? Scopare di nuovo?" chiesi.

 "E com'è che non pensi mai ad altro?!" mi rispose scherzosamente, i capelli scuri che gli ricadevano in fronte. Sorrise, e fu come vedere un sole che risplendeva in mezzo alla stanza semi buia.

 "Tu guarda da che pulpito viene la predica... " ironizzai io, guardandolo languidamente dal divano.

 Lui rise. "Ma guardati. Vuoi... posare per un calendario di porno gay con me? Non sarebbe male come idea... " sussurrò maliziosamente, facendomi uno stupido cenno di venire da lui con la mano.

 "Ah! Come se una qualunque forma di porno gay fosse legale qui!" risposi, a voce bassissima.

 "Se mi riporti davvero nel ventunesimo secolo sarà legale. Almeno a New York... sì. In ogni caso prima intendevo... che dovevamo fare qualcosa per... " si avvicinò al muro, picchiettando l'unghia corta sull'occhio. "...per i simboli, Jensen. Una bella indagine."

 "Uhm," mormorai, incerto. "Che si fa, allora?"

 "Stasera non si dorme. Ci separiamo per la prima volta in cinque mesi, okay? Io controllo sopra... e tu controlli sotto. Che ne dici?" propose, allargando le braccia.

 Lo squadrai. "Cosa?!"

 "Non l'avevi capito? Questa robaccia appare solo di notte. Devo pur scoprire chi usa casa mia come... il suo cazzo di album da disegno, no?" domandò, un sorrisino beffardo in viso.

 Mi morsi le labbra. "Mmm."

 "Che ti prende? Hai paura?" mi chiese lui, gli occhi confusi.

 Esitai. "Perché non sospetti che sia io quello che disegna questi... occhi? Voglio dire... non hai neppure provato a chiedermelo. Dopotutto, sono io l'unico a stare qui a parte te."

 Lui si strinse nelle spalle, e si stiracchiò. "Non sospetto di te, caro mio, perché... se ho compiuto un viaggio nel tempo posso credere anche agli esseri intangibili pronti a dipingermi la casa. Sei tu che lo fai?"

 "No! Non so nemmeno che cavolo significhino... "

 "E allora?" mi domandò, divertito dal mio atteggiamento contraddittorio.

 "Nulla. Mi chiedevo solo perché non sospettassi di me. Non mi conosci poi così bene." dissi, gli occhi bassi e sorridenti.

 Lui sogghignò appena e si avvicinò, schiudendo le labbra e posandole sulle mie, baciandomi lentamente. Si staccò, con un piacevole suono bagnato ed appoggiò la fronte alla mia. "E se ti dicessi che ho l'impressione di conoscerti da sempre?"

 -----------------

 Mi coprii in parte la testa, facendo attenzione a mantenere l'orecchio teso e l'occhio vigile. Avevo bevuto tre tazze di caffè, ed immaginavo che ci sarebbero bastate per rimanere sveglio tutta la notte. Come no.

 Misha era andato a fingere di dormire nella sua stanza, ma aveva accuratamente lasciato uno spiraglio di porta aperto, per ascoltare ogni minuscolo fruscio della casa.

 Tenni gli occhi socchiusi per un'ora e più, domandandomi che cazzo di senso ci fosse in tutto quel casino. Era tutto folle, eccitante ed irreale.

 A quell'ora sarei dovuto essere a rompermi le palle a casa mia, a guardare una stronzata in TV fino a mezzanotte con un Saikebon fra le mani, le Haribo fra le lenzuola e i piedi sul tavolino.

 E invece, eccomi lì, a rigirarmi su quel dannato divano col cervello che alternava pensieri del tutto indecenti su Misha in versione detective e film mentali d'orrore su quel maledetto occhio sanguinante. Non sapevo definire quale delle due fosse l'opzione peggiore - una mi faceva credere di essere ritornato un adolescente dagli ormoni in fiamme, e l'altro un bamboccio fifone che si cagava addosso per ogni cosa.

 Intanto erano volate tre ore buone.
 Cominciavo seriamente a stufarmi di aspettare l'artista dei murales domestici, e dovevo anche fare la pipì. Mi alzai, la vescica che scoppiava, e sentii scricchiolare tutte le ossa della colonna vertebrale come delle foglie secche.

 Il bagno non era così lontano; lo raggiunsi forse un po' troppo velocemente, tanto che urtai violentemente un mobile in legno laccato all'entrata del corridoio, e per un attimo temetti di aver svegliato Misha. Poi, per fortuna, realizzai che restare a occhi aperti faceva proprio parte dei progetti di quella sera.

 Cercai di fare tutto in fretta. Chiunque fosse, l'artefice poteva arrivare da un momento all'altro, e io dovevo essere pronto a difendere la parete. Che cosa ridicola, pensai.

 Ma poi mi riscossi, le mani ancora artigliate alla tovaglia biancastra al lato dell'acquaio. Mi parve di udire dei passi pesanti fuori dal bagno. Trattenni il respiro, stando in ascolto.

 Nulla.

 Sapevo che non potevamo denunciare la comparsa di quegli stupidi simboli alla polizia e finirla lì - avremmo avuto la scusa della mia vecchia casa bruciata durante la guerra e dell'infinita gentilezza di Misha nell'ospitarmi, ma perché rischiare tanto?

 Sentii altri passi, sempre più vicini. Deglutii, voltandomi meccanicamente verso la porta del bagno. Afferrai la maniglia con la mano sudata, e sbirciai dal buco della serratura, quasi stando in apnea.

 Il corridoio era deserto, ma forse c'era davvero troppo buio per dirlo con certezza.

 Decisi che il rumore doveva essere stato una delle mie immaginazioni dettate dalla paura; aprii la porta, ed avanzai lentamente verso il salotto.

 'Tu non hai paura. Tu non hai affatto paura' continuavo a ripetermi in testa. Iniziai a pensare ad una sequela di parolacce creative per distrarmi mentre percorrevo il corridoio.

 Tenevo la bocca serrata, guardandomi attorno, finché il sangue non mi si congelò nelle vene.

 Una figura nera incurvata stava osservando il divano. Io rimasi immobile; volevo scappare, ma stranamente, non riuscivo a non guardarla. Si voltò di scatto nell'oscurità, e mi venne incontro, afferrandomi per un braccio, mentre io mi divincolavo per liberarmi dalla sua presa. La figura mi bloccò con un'abile mossa di karate, sbattendomi al muro.

 Cercai di lottare come potevo, ma quell'uomo era evidentemente più forte di me.

 "Misha, cazzo!" chiamai come un forsennato, la voce stridula ed innaturale, sperando in un suo rapido intervento.

 Caddi di schiena, atterrando fortunatamente sul tappeto, e lui mi finì addosso, il viso vicino al mio.

 Ad un certo punto, realizzai tutto, e anche lui doveva aver capito, se lo vidi strabuzzare gli occhi blu come il cielo notturno. "Jensen?!"

 "M-Misha?!" feci, incredulo, mettendo a fuoco il suo bel viso appena illuminato. Ma come diavolo avevo fatto a scambiarlo per qualcun'altro?

 "Oh... merda... Jensen?" sussurrò lui fra i denti. Rabbrividii.

 Misha si rialzò immediatamente, e con fare imbarazzato mi aiutò a rimettermi in piedi, toccandomi le spalle.

 "Ti... ti ho fatto male? Dimmi di no, ti prego... santo cielo... mi dispiace... non credevo che... " cominciò a farfugliare.

 "No no no... non scusarti... anche io credevo che fossi... cavolo! Ma hai studiato arti marziali?" balbettai.

 "Lo sapevo che ti avevo fatto male!" ripeté, con fare premuroso, tastandomi i fianchi.

 "No! Smettila di preoccuparti... non mi hai fatto nulla." mentii, scuotendo la testa per rassicurarlo.

 "Ma ti ho colpito forte!" protestò lui.

 "Misha... non ho nulla,"

 In realtà, mi pulsavano ancora la spalla e il braccio - dovevo avere un bel paio di ematomi. Ne aveva di forza quell'uomo, pensai fra me e me.

 Restammo immobili a fissarci nell'oscurità per qualche secondo, finché i nostri occhi non si abituarono al buio. A quel punto, Misha non riuscì più a trattenersi, ed esplose in una risata sguaiata, seguito da me. Non potevamo più smettere. Appena i nostri sguardi si incrociavano, riprendevamo a sghignazzare come due idioti, ed avrei potuto giurare che non ridevo in quel modo da anni.

 "Ma quanto siamo coglioni... no, ma sul serio... " disse Misha, una mano sullo stomaco per le troppe risate.

 "Amore, ti giuro... sono morto dalla paura... " dissi in risposta, senza vergogna.

 "Non sei l'unico! Ero convinto che fossi... avevo sentito un tale casino qua sotto, e poi sono sceso. Dopo che non ti ho nemmeno trovato sul divano non ci ho visto più... " disse lui, sorridendo genuinamente.

 "Avevo urtato un mobile," spiegai, lo sguardo basso.

 "Oh, ma stai tranquillo. Dai, andiamo in salotto a farci un tè o qualcos'altro. Dopo questo spavento mi è venuta una sete pazzesca." propose.

 "D'accordo," mormorai, e lo seguii.

 Il nostro piano era andato decisamente in fumo per quella sera, per cui decidemmo di prendercela comoda e rilassarci.

 Io mi buttai a peso morto sul divano inondato di coperte, e Misha entrò in stanza dopo cinque minuti con due tazze lilla fumanti. Sembrava quasi una di quelle sere in cui da adolescente piangevo la notte, e poi, sul tardi, finivo col prepararmi qualcosa di caldo. La grande differenza era che Misha era con me in quel momento, e ciò migliorava ogni cosa.

 "Mi stai facendo venire l'ispirazione per una nuova storia, agente speciale Ackles." mi disse, prendendo posto accanto a me.

 "Sul serio?" dissi con tono di scherno.

 "Sì! Io e tu... a combattere il male che c'è in casa mia. Immagina un po'," rispose con un ghigno.

 Mi saltò automaticamente in testa una comica versione di Scooby-Doo di me e Misha che viaggiavamo su un furgoncino con la Stars&Stripes.

 "Ma va!" lo spinsi, ridendo.

 Lui ricambiò la spinta, altrettanto forte, proprio sulla spalla che mi aveva colpito prima. Mi vide fare una smorfia di dolore. "Ah!"

 "Hey! Ma che cos'hai?" domandò, gli occhi a fessura.

 "Niente," dissi con un sorriso.

 Misha mi osservò con l'aria di chi non mi stava affatto prendendo sul serio. "Togliti la maglietta."

 "Eh?! No!" protestai, cercando di apparire deciso.

 Misha roteò gli occhi. "Jensen. Ho detto... togliti la maglietta." ripeté, con un sorrisino.

 Io alzai gli occhi al cielo. "Ma chi sei? Mio padre? Non è nulla." borbottai, stringendomi nelle spalle.

 Misha rifletté, le dita sul mento. "Allora dimostramelo," mi sfidò, una scintilla in quegli occhi color mare attirò la mia attenzione.

 Sbuffai. Presi cautamente l'orlo della maglia e me la sfilai, arrossendo in maniera penosa.

 "Oh, cazzo!" esclamò Misha, alla vista della mia spalla violacea. "Ma... perché non me l'hai detto?"

 "E che sarà mai?!" dissi, fingendo che non facesse un male pazzesco.

 "Oh! Aspettami qui." fece lui, spazientito, facendo per alzarsi.

 "Ma non ho bisogno di nien-"

 Misha corse in cucina, senza neppure darmi retta, e tornò in un lampo reggendo una borsa con del ghiaccio dentro. Si sedette, e me la appoggiò delicatamente dove mi aveva provocato l'ematoma.

 Lo guardai negli occhi bassi, le labbra appena schiuse. "Poteva anche diventare nero." borbottò, facendo uno sforzo immane per non fissarmi la semi erezione che avevo nei pantaloni.

 Io rabbrividii al contatto col ghiaccio e il calore delle sue dita sul collo.

 "È troppo freddo, mi dà fastidio." brontolai.

 Misha alzò il viso. "Non lamentarti e fai il bravo bambino."

 "Non sono il tuo bambino... " scherzai. Misha rise, e mi stampò un bacetto sullo zigomo che mi fece tremare in modo preoccupante. Ma perché mi faceva sempre un effetto simile?

 "Sì che lo sei, tesoro mio... stavi morendo di paura a star qui... tutto solo soletto, eh? Ammettilo, grand'uomo." mi disse all'orecchio, sogghignando.

 "Eh? Ma che cazzo dici?!" esclamai ridendo, imbarazzato.

 "Non avresti urtato il mobile se non avessi avuto paura." investigò Misha, le labbra si curvarono in uno stupido sorriso sarcastico.

 "Stronzo... " borbottai, roteando gli occhi.

 Misha scoppiò a ridere. "Dai, se vuoi puoi venire a dormire da me... fifone cacasotto," disse, e mi accarezzò sensualmente il ventre.

 Io sorrisi. "Non avevo paura. E comunque... okay."

 Misha chiuse gli occhi, togliendomi finalmente la borsa del ghiaccio dal bicipite, e poi si alzò. Lo seguii sulle scale, e mi domandai perché mi girasse tanto la testa. Vedevo tutto a puntini colorati.

 Mi sdraiai sul letto di Misha, accoccolandomi accanto alla sua spalla.

 Lui mi accarezzò il viso, e mi diede un bacio lungo e lento, per poi separare di un solo millimetro le nostre labbra: "Dormi, Jens... sono già le quattro... e tranquillo... ti proteggo io dai mostri cattivi." scherzò.

 ----------------

 Era tutto così distorto. Così buio e distorto, come in quei sogni in cui la realtà ed i luoghi a noi cari sono tanto alterati da inquietarci.

 Sapevo di star sognando - non mi capitava spesso di distinguere un incubo dalla realtà, ma quando succedeva non riuscivo ad uscirne. Non mi svegliavo. Continuavo a vagare silenziosamente in una versione spettrale della casa di Misha, una versione cambiata sotto ogni aspetto. Era quasi buio, ma i miei occhi vedevano ogni schizzo di sangue sul muro, ogni cuscino lacerato, ogni quadro rotto, ogni stranezza. E una data gigantesca al muro: 1955. Ma non vedevano mai Misha.

 Ad un certo punto, prendevo della tempera da un cassetto di Misha, e guardavo insistentemente il muro, preso da ciò che avrei fatto a breve.

 Mi macchiavo le dita di rosso e disegnavo. Disegnavo senza quasi rendermi conto di starlo facendo; il mio subconscio urlava per dare ad entrambi un segnale tramite quell'orribile occhio, ma non usciva mai allo scoperto quando ero sveglio. Dimenticavo ogni cosa.

 Eppure quel sogno fu diverso. Qualcuno mi aveva afferrato saldamente le spalle, costringendomi a smettere di imbrattare il muro. Due mani forti, possenti e rassicuranti mi avevano tirato indietro, ed io avevo finalmente spalancato gli occhi, terrorizzato a morte alla vista dell'occhio che avevo appena fatto io stesso. Io, l'artefice di tutto. Io, l'unico che aveva mai messo piede in quella casa a parte Misha.

 Con le mie mani.

 "Jensen... " sentii quella dolce voce chiamarmi alla realtà, mentre mi guardavo le dita con orrore, e pian piano smettevo di tremare.

 Ero un sonnambulo. Ero stato io, tutto il tempo, e l'idea mi faceva sentire male, incapace pure di controllare me stesso. Li avevo disegnati io quegli occhi, ed ero quasi certo di sapere cosa fossero. Ma allora avevo dei poteri, o cos'altro?

 "M-Misha... Misha... " mormorai, girandomi ed abbracciandolo di getto, gli occhi chiusi. Lui mi strinse, la mano sui miei capelli, ed io lacrimavo appena, le labbra secche per lo spavento. "Mi dispiace... io... "

 "Fa nulla. Fa nulla, sshh... "

 "Non lo sapevo... lo giuro... non avevo idea... "

 "Lo so,"

 "Io non capisco... ma... ma perché... ?" chiesi, senza sapere a chi.

 Restammo per un minuto così, io che serravo gli occhi, rifiutandomi di guardare il salotto buio, preoccupato di vederlo come in sogno, in quella dimensione alternativa in cui ogni cosa mi turbava l'anima. Avevo perfino sceso le scale ad occhi chiusi.

 Poi, mi abituai lentamente alla realtà, sentii il dolce profumo alla cannella di Misha, il calore della sua stretta affettuosa e il suo fiato sul collo, e il cuore riprese a battermi regolarmente.

 "Jensen... come ti senti?" mi sussurrò Misha, staccandosi da me, ma ancora tenendo i palmi sui miei bicipiti.

 Abbassai il volto. "Non lo so... "

 "Va bene," mi scostò un ciuffo di capelli dal volto e mi baciò sulla fronte. "Va tutto bene, okay?"

 Annuii, gli occhi di nuovo chiusi. "Non volevo. L'ho visto... ho visto casa tua... era tutto strano... e diverso." tremavo sotto le sue mani. Lo guardai, deglutendo. "Misha... quest'occhio... lo conosco, è un libro... è il retro... di un mio vecchio libro." dissi.

 "Un che...? Un... libro?" mormorò Misha, confusamente. Lo fissai, ed i miei occhi appesantiti dal sonno si abituarono nuovamente all'oscurità.

 "Sì. Un libro di fiabe del 1955... dovrebbe essere appena uscito o non so... una fiaba che la mamma mi leggeva da piccolo! Ma non ricordo il titolo... so solo che... l'ho visto lì, quand'ero piccolo... e non sapevo assolutamente di ricordarmene... " spiegai, scuotendo la testa.

 Misha sospirò, avvicinò le labbra alle mie e mi baciò a lungo, delicatamente, per calmarmi. "Perfetto, Jensen. Ci siamo. Credo che si stia avverando tutto." sussurrò.

 "Tutto cosa?" chiesi, incredulo.

 "Il sogno di Rob... si sta avverando. Torneremo nel presente, Jensen!" mi strinse le spalle, e sorrise, cercando di rassicurarmi, non capendo perché la mia faccia fosse tanto contratta dal turbamento. "Che c'è? Qualcosa non va?"

 Misha si accorgeva di ogni piccolo dettaglio delle mie espressioni facciali, meglio di quanto ci riuscissero i miei genitori stessi. Alzai il viso.

 "Ho un pessimo presentimento... " ammisi, deglutendo a mia volta.

 Misha mi fissò per alcuni secondi, valutando la mia frase e sbattendo le palpebre. "Anche io ne ho avuti. È normale, dopo un sogno inquietante, avere paura. Ma ti passerà tutto, come è passato a me... ora so che mi salverai, che ci salverai... che ce ne andremo di qui... e vivremo assieme. Andremo a passeggiare in riva al mare come due adolescenti, tenendoci sfacciatamente per mano sotto gli occhi di tutti... andremo al Luna Park, ai concerti... faremo un milione di cose pazze e stupide... tutto ciò che non abbiamo mai potuto fare prima... ci potremo amare sotto la luce del sole... " mi disse, e mi salirono le lacrime di gioia agli occhi al solo pensiero.

 Pensai al primo sogno che avevo fatto, quello in cui io e Misha guardavamo il cielo e sorridevamo alla vista delle stelle. Era tutto ciò che desideravo ardentemente. Misha era l'unica persona che avevo mai desiderato davvero.

 "Va bene... amore... mi fido di te," dissi.

 -----------------

 Il pomeriggio seguente, dopo aver dormito per tutta la mattinata per riprenderci da quella notte bianca, ci recammo in una libreria antica del centro.

 Misha percepiva che io ero ancora agitato, nonostante le parole che mi aveva detto lui, ma io cercavo di apparire più rilassato possibile.

 Salutammo il libraio; io avevo il cuore in gola mentre Misha gli domandava se esistesse un libro sul cui retro c'era disegnato il fatidico occhio - quello disegnato sul foglietto di carta di Misha.

 L'uomo si sistemò gli occhiali sul naso adunco, osservando il simbolo ad occhi socchiusi, e poi si illuminò in viso: "Ah... sì. È di Sobolev... dovrebbe essere lì in fondo... al reparto dell'infanzia,"

 Misha sorrise e lo ringraziò a dovere, facendomi segno di seguirlo verso un reparto particolarmente sgargiante che pareva un pezzo del negozio di quel Richard. Io scossi la testa con fare interrogativo.

 "Tranquillo," mormorò lui, entusiasta. "C'è proprio un libro così; sei davvero un mago, Jens... "

 "Davvero?! Mi sento così strano all'idea di rivedere quel libro... ero molto piccolo. Potevo avere cinque o sei anni... " dissi. "Caspita... non mi stupisco quasi più," sospirai, confuso.

 Misha esitò, sapendo di non potermi confortare tramite il contatto fisico in pubblico - anche se in quella libreria le uniche anime vive eravamo io e lui e il libraio.

 "Non lo so perché, Jensen... ma forse... forse sta davvero per finire tutto... tornerò a vivere normalmente... torneremo... a vivere normalmente, " disse, con un sorriso dolce.

 Si voltò, e passò un dito fra i dorsi dei piccoli libri a colori, estraendone uno vermiglio. Misha lo girò, ed ecco l'occhio spalancato sul retro. "Non sembra per bambini," scherzò, sbuffando. Io non capivo le scritte decorative in russo.

 "Che c'è scritto?" chiesi, osservando attentamente i caratteri cirillici dorati.

 "Significa... The Damned Matrioska... di Mikhail Sobolev... " lesse ad alta voce, con tono teatrale, sbirciandomi con la coda dell'occhio. Mi mise il libro fra le mani, "Immagino ti sia familiare."

 Lo presi fra le dita, le labbra appena aperte e lo sguardo assente. "È... lui," dissi piano, come se avessi riconosciuto un vecchio - vecchissimo - amico.

 "Aha!"

 Guardai la sovraccoperta rossa, le rifiniture dorate, la Matrioska apparentemente rassicurante stampata sul davanti, ed il nome dell'autore. "È... proprio lui," ripetei.

 "Già... ed ha un valore inestimabile," disse Misha, strofinandosi i palmi, soddisfatto. Girò i tacchi, e fuggì verso il banco del libraio. "Lo prendiamo... "

 Quello lo scrutò. "Beh... ne sono felice... non sta avendo moltissimo successo questo... The Damned come si chiama... fortuna che è uscito da poco, da Febbraio... e ha ricevuto recensioni positive... " borbottò il tizio, l'accento russo che storpiava il suo inglese. Mi prese cortesemente il libro dalle mani, infilandolo in una bustina bianca.

 Dopo aver pagato, uscimmo fuori; il sole ci accecava. Fui costretto a mettermi una mano appena sopra la fronte per riuscire a distinguere qualcosa in quella strada.

 "Bene bene... credo che abbiamo la vittoria in tasca ormai... " mormorò Misha, allontanandosi di un po'.

 Lo guardai con un sorriso. Mi faceva un enorme piacere vederlo così, dopo un mese di pianti e disturbi notturni che facevano del male non solo a lui, ma anche a me. Io non sapevo quanto potessi fidarmi di un libro, ma di certo ogni piccola speranza pareva riaccendere gli occhi di Misha.

 "Sei sicuro che funzionerà?" scherzai, vietandomi di dargli una pacca in mezzo al marciapiede.

 "Ma sì che funzionerà, vecchio mio... "

 "Vecchio mio!?" lo fissai stranito.

 Misha diede un'occhiata attorno, e poi sussurrò: "Amore mio, fingi!"

 Si incamminò, facendomi un freddo e strategico segno di seguirlo poco dopo di lui, ed io obbedii, un sorrisino sotto il naso.

 Passeggiammo per vari minuti sotto il sole di metà Agosto, senza fermarci un attimo, quando all'improvviso mi sentii sprofondare. Vidi anche Misha irrigidirsi, per poi riprendersi in tempo e seguitare a marciare come se nulla fosse, ma appena quell'uomo la cui faccia non mi era affatto nuova lo fermò, il cuore mi salì in gola.

 Era proprio lui. Quel tizio calvo del bar dove avevamo mangiato il Medovik mesi fa. Quello che ci osservava attentamente. L'avrei riconosciuto fra un milione di persone, con quello sguardo grigio e tagliente come il suo tono: "Salve, lei è l'illustre autore Misha Krushnic, mi pare corretto il nome, no?" disse sarcasticamente, con un inglese discreto.

 Feci due passi incerti verso di loro, arrivando alla distanza giusta per sentire chiaramente i discorsi. "S-salve... " dissi.

 "Emh, sì, signore... sono felice che mia abbia riconosciuto... " mormorò Misha, cordialmente.

 "Beh... sa, sono un appassionato di letteratura scadente," ghignò l'altro, più a me che a lui. Mi sciolse in un istante con quello sguardo di acido muriatico.

 Misha si trattenne la lingua, e gemette impercettibilmente. Sapevo che avrebbe voluto dire qualcos'altro, ma poi preferì serrare le labbra dato che il tipo in questione pareva - in qualche modo - sapere di noi.

 "Ad esempio... niente male quella testimonianza di guerra, signor Krushnic, immagino che l'abbia scritta sul momento... o mi sbaglio?"

 "No," si affrettò a dire Misha, "In realtà l'ho iniziata circa un anno fa," spiegò.

 L'altro gli rivolse un sorriso stitico, per poi osservarmi.

 "E lei... " disse, giocando con l'anello d'argento luccicante al dito, e squadrandomi dalla testa ai piedi. "Lei deve essere il suo affezionato amico del cuore... vi ho visti varie volte uscire insieme, mangiare insieme... e anche rientrare in appartamento... insieme." disse, marcando l'ultima parola.

 Misha gli rivolse il sorriso più falso che avessi mai visto, e si tirò nervosamente l'orlo della giacca nera. "Sì, beh. Abita nel mio stesso appartamento da un po'. Casa sua è rimasta bruciata... sa, dopo la guerra... " spiegò con disinvoltura, un sopracciglio alzato. Voleva farlo sentire stupido e troppo ossessionato dall'omofobia che lo infettava da capo a piedi. Ma non ci riuscì.

 "Ah... beh... fortuna che lei non ha alcun segno di ustioni o ferite da guerra in quel visino delicato... " rispose quel damerino, riferendosi a me. Sentii il cuore esplodermi in petto. Maledetto bastardo.

 "Già... molto fortunato," dissi, fingendo un sorriso aperto.

 Lui annuì, lisciandosi il giaccone marrone scuro. "Mi ha fatto piacere incontrarvi... signori Krushnic?" disse, cinico.

 "Krushnic e Dawson," disse Misha, secco, inventandosi un cognome per me sul momento. "Il piacere è nostro... signor... "

 "Vladimir. Potete chiamarmi così, se preferite," disse, congedandosi. Poi si girò di scatto.

 "Oh! Quel libro!" disse con un gran sorriso indecifrabile, guardando fra le mie mani, "Lo conosco! Si dice che la primissima edizione fosse una raccapricciante storia su due omosessuali che erano finiti indietro nel tempo... bah... che schifezza." disse, pronunciando la parola 'omosessuali ' velocemente, come se avesse potuto deturparlo. "Gli fa quasi invidia a quel Sobolev, Krushnic." malignò, e fece dietrofront.

 Sbirciai Misha di soppiatto, girandomi pian piano; avrei giurato di non averlo mai visto tanto bianco in viso in vita mia. Pareva uno straccio.

 "Misha...

 "Andiamo. Sbrigati." borbottò veementemente, e mi spinse verso la via di casa sua. "Dobbiamo allontanarci da questa zona, ora e subito. Cerca di non sembrare troppo frettoloso, o capiranno che c'è qualcosa che non va." balbettò.

 "Okay," dissi, e lo seguii, mordendomi le labbra con troppa forza. Me le sentii sanguinare appena, ma forse era solo un'impressione.

 Percorremmo le vie con la testa altrove; io che stringevo il libro fra le mani, imprecando. Entrammo in casa, sbattendoci il portone alle spalle e fissando il vuoto di fronte a noi.

 "Mish... "

 Non mi rispose. Era di nuovo inespressivo in modo spaventoso.

 "Jensen... " fece, la voce poco ferma.

 Io inspirai a fatica.

 Il pessimo presentimento che avevo mi corrose lo stomaco, mentre le lacrime lente mi bruciavano gli occhi.

 

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Capitolo 9
*** Leningrad ***


~~Leningrad

Discutemmo con Mark Sheppard dell'accaduto; gli parlammo dell'uomo che ci aveva fermati, di quello che aveva detto, delle occhiate che ci aveva lanciato, e lui impallidiva man mano che proseguivamo. Gli spiegammo ogni dettaglio una sera di fine Agosto al calar del sole, nella terrazza di Mark, fingendo di star giocando a carte per non dare nell'occhio. Il dottor Sheppard abbassò lo sguardo, serrando le labbra, e ci promise che ci avrebbe pensato lui a sedare l'animo di quello stronzo, se solo avesse sparso delle voci sul nostro conto o se si fosse avvicinato a casa sua - perché la casa era di Mark. Poi aggrottò le sottili sopracciglia nere, come faceva sempre anche nella mia immaginazione, e mormorò in tono grave che la situazione era peggiore di quanto pensassimo, e che forse ci conveniva allontanarci per un periodo.

 Se non altro avremmo avuto una valida scusa per partire e cercare quel Mikhail Sobolev. Avevamo letto d'un fiato tutta la favola, e milioni di piacevoli ricordi d'infanzia mi erano piombati in testa; eppure non eravamo riusciti a trovare fra le righe nulla che ci tornasse particolarmente utile.

 A giudicare da ciò che quel Vladimir aveva detto, avremmo giurato che fosse a un passo dal denunciarci. Non era accaduto più nulla per una settimana intera. Tranquillità totale. Almeno finché, il Sabato, non avevamo sentito Donald bisbigliare a qualcuno qualcosa su di noi dopo averci sbirciato con disgusto. Avevamo sentito solo dei frammenti di conversazione che includevano le parole 'omosessuali' e 'decisamente schifoso', ed avevamo dovuto fingere di non sentirci nominati per il resto della serata.

 Misha era consapevole del fatto che avremmo potuto fare la peggiore delle fini - i gulag erano ancora aperti, e Dio solo sa quante persone innocenti erano morte a causa del gelo, della fame e dei lavori forzati in Siberia. Pensai a quante volte avevo letto quelle testimonianze nei miei libri di storia, senza soffermarmici troppo su, senza rimuginare. Vivere esperienze orribili come quelle segna le persone per l'eternità, e molte erano anche state dimenticate, come se quegli orrori non fossero mai accaduti. Anche io ero a conoscenza di quei fatti, ma capivo che Misha aveva voluto rassicurarmi, mascherando in qualche modo il senso di angoscia che gli spegneva gli occhi.

 Quanto a Misha, dopo quel discorso di Donald non aveva avuto altri attacchi di panico come credevo. Era solo ansioso ed inespressivo, e la cosa mi spaventava ancora di più perché non esprimeva le sue emozioni, e non capivo di cosa avesse bisogno. Non sorrideva, parlava di rado ed era diventato molto paranoico. Le rare volte che mettevamo piede fuori di casa uscivamo separatamente.

 Misha non era quasi più in grado nemmeno di mangiare, e se lo pregavo di mettere almeno qualcosa in bocca mi urlava contro che non aveva mai fame a causa della preoccupazione, e crollava sul tavolo senza azzardarsi a piangere, la mano che gli copriva il viso. Come biasimarlo, in fondo? Aveva vissuto un grande trauma da ragazzo, ed era normale che ogni piccola forma di omofobia gli ricordasse che il suo ex era stato ucciso di fronte ai suoi occhi. Ero sicuro che temesse una fine del genere anche per me, e che la cosa lo annientasse.

 Non avevo più idea di cosa avrei potuto fare per riavere Misha indietro - il vero Misha. Cercavo di preparargli i suoi piatti preferiti, di prendermi cura di lui con tutta la dedizione e l'amore che avevo in serbo, di raccontargli stupidaggini - gaffe che avevo fatto da piccolo - e altri episodi divertenti mirati a risollevargli il morale.

 Eppure la situazione non pareva migliorare per niente. Misha si limitava solo ad annuire, guardandomi con occhi vuoti ma gentili. Faceva ogni piccola cosa quotidiana meccanicamente; preparava da mangiare, scriveva per sfogarsi, ma spesso si svegliava la notte in preda agli incubi. Non voleva quasi mai uscire di casa, e se lo faceva, mi ordinava di stare dentro e di chiudermi a chiave per sicurezza.

 Qualche volta fingeva di dormire sonni tranquilli per non farmi stare in pensiero per lui, ma io mi accorgevo che invece mi accarezzava dolcemente i capelli, il collo e la schiena, e lacrimava in silenzio, per non svegliarmi.

 "Non accadrà nulla," sussurrava, e mi baciava sulla fronte, stringendomi a sé, ed io dovevo trattenermi per non scoppiare in lacrime di fronte a lui che mi credeva addormentato, e mi cullava come un bimbo. "Faremo attenzione, amore mio... io... non ti perderò mai... te lo prometto. Non lascerò mai che ti - Mai, Jens."

 Cominciavo a sentirmi davvero male a causa di quell'aria triste e tempestosa che si era venuta a creare in casa, e un giorno, appena sveglio, sentii la forte necessità di sfogarmi anche io.

 Schizzai fuori dal letto in un battibaleno, preparai una frugale colazione a base di pane e marmellata al limone e fuggii in punta di piedi nella stanza in penombra dove Misha adorava scrivere.

 Non vedevo l'ora di farlo da una vita, di lasciar sciamare fuori il fiume di parole che avevo dentro e che volevo liberare da secoli. Solo qualche volta in ufficio mi ero permesso di scrivere un paio di poesie al computer. Mi sedetti al posto di Misha, afferrando carta e penna e sentendomi strano all'idea di utilizzarle. Sbirciai una scintilla d'alba dalla persiana chiusa, ed iniziai a comporre con un sospiro.

 'Le loro esigue speranze di vivere normalmente... morivano assieme al sole che tramontava, mentre l'amico, il dottor Sheppard, aggrottava le sopracciglia, e valutava... il problema... ' mi dettai lentamente, la voce flebile, alternando lo sguardo fra la luce della finestra e il foglio non proprio bianco. Deglutii, esitando.

 'Jensen guardò gli occhi lucidi di Misha con... la coda dell'occhio, ed abbassò il capo, pensieroso. Amava Misha con tutto sé stesso, e non avrebbe mai permesso a nessuno di portarglielo via. Senza di lui si era sempre sentito spento e per splendere aveva un disperato bisogno di lui, come la luna ne ha del... sole.'

 Ad un certo punto mi illuminai, alzando il capo; mi riscossi come se una grazia divina mi fosse scesa addosso, dandomi un'idea tanto semplice quanto efficace.

 "J-Jensen... ma che fai?" mi chiese la voce ancora impastata di sonno di Misha.

 Mi voltai, sorridendo da orecchio a orecchio a quella figura dai capelli meravigliosamente scompigliati e il petto nudo e sudato. Aveva un aspetto leggermente migliore.

 "Misha... amore mio, ho un'idea grandiosa!"

 Balzai subito giù dalla sua scrivania, e gli buttai le braccia al collo, abbracciandolo teneramente.

 Misha rimase immobile, e la sua rigidità mi diede la cattiva impressione di essere tornato a Marzo, quando lui evitava inutilmente di mostrarmi la sua attrazione sessuale nei miei confronti. Gli diedi un bacetto casto sulle labbra.

 "Che... che idea?" mi chiese Misha innocentemente, la mano sulla mia schiena.

 Mi scostai appena per guardarlo dritto negli occhi blu. "Dobbiamo emigrare... nel senso che... viaggeremo! Andremo in luoghi in cui nessuno ci conosce... e ci fingeremo fratelli! Tanto dobbiamo comunque cercare Sobolev!" dissi, a voce bassa ma allegra, sorridendo.

 "Fratelli?... " disse Misha, con un leggero tono di scherno.

 "Sì! Abbiamo poca distanza d'età e poi abbiamo entrambi una faccia da americani."

 Misha sorrise. "Sei un matto, lo sai? Ma è un'idea carina... "

 "Hey! Mica ho finito! Ho un'altra idea," annunciai, il mento alto per l'orgoglio.

 "E sarebbe?"

 Misha gemette, in attesa di una mia risposta, e un'ondata di di affetto nei suoi confronti mi travolse. Feci una pausa ad effetto.

 "Scriveremo insieme, Mish. Un diario di viaggio... e sarà bellissimo! Una pagina a testa... ti va? Il mio punto di vista ed il tuo... e poi li confronteremo man mano che componiamo... "

 Misha curvò le labbra in un sorriso, e ridacchiò per la prima volta in un mese. "Ma va, Jens... fosse per me un diario di viaggio durerebbe un'eternità!"

 "Beh... allora lo faremo durare un'eternità. Ma prima forse dovresti... istruirmi un po'... sono uno scrittore novellino!" dissi con tono complice, un indice in alto, "... E indovina un po'! Quando torneremo in America il diario sarà un successo! Una storia vera, ma che nessuno saprà essere vera... ci stai?"

 Misha mi guardò con quegli occhi angelici e confusi di quando era un po' malinconico, ma sorrise con dolcezza, cercando di pesare le parole. "Jens... non sappiamo se torneremo... " mormorò, con voce disillusa.

 Mi sentii tremare le ossa a quelle parole, e schiusi appena le labbra. "Ma... "

 Misha alzò le sopracciglia. "Ma... che cosa?"

 "Non... " sussurrai con un fil di voce, e scossi il capo. "Io credevo che tu... "

 Misha fece una pausa imbarazzata. "S-sì... lo so bene cosa ti ho detto... credevo anche io che ce l'avremmo fatta... ma... "

 "... abbiamo il libro... The Damned Ma-"

 "Lo so." sbottò Misha, duro, zittendomi. "Ma ci sono due versioni della storia... esattamente come ha detto quel bastardo... ho fatto delle ricerche approfondite... e a quanto pare la prima fottuta versione esiste davvero, solo che... è stata rimpiazzata dall'altra dopo che l'omosessualità è stata criminalizzata. L'originale era una storia drammatica su due omosessuali che alla fine... " gli morì la voce. "Mi sembra leggermente più vicina alla nostra rispetto ad un'allegra favoletta che la tua mamma ti leggeva ogni sera... " ringhiò, la fronte corrugata.

 Rimasi a guardarlo fisso, senza sapere assolutamente come reagire. Abbassai la testa, sentendo un dolore insopportabile al collo e alle tempie.

 "Mish... non è detto che-"

 "E poi non saprei proprio dove diavolo cercare quel Sobolev. Dicono che sia emigrato, probabilmente a Leningrado. Ci scommetto mille rubli che era gay, e che qualcuno lo perseguitava." aggiunse, con un sospiro.

 Io sospirai a mia volta, chiedendomi tristemente dove fosse finito il solito Misha ottimista e sarcastico. Tentai di convincerlo.

 "Amore... io... credo che valga la pena tentare... so che abbiamo poche possibilità... "

 "Pochissime... " mi corresse Misha. "Hai sentito quei discorsi. Quel maledetto ha davvero sparso la voce. Sapevo che l'avrebbe fatto... "

 "Sì, Mish... lo so. Ma perché non provarci? Restare qui... renderebbe tutto peggiore. È perdere in partenza, capisci?"

 Misha si morse il labbro, e le mie dita gli accarezzarono il collo, scendendo sul petto, disegnando cerchi invisibili. Lo baciai delicatamente sotto l'orecchio, sfiorandogli il lobo. Avvicinai la fronte alla sua, e lo baciai, gli mordicchiai il labbro e lo strinsi a me. Mi separai appena dal suo corpo.

 "Allora... ci stai?" chiesi; la speranza nella voce cresceva.

 Misha accennò un sorriso, e mi massaggiò i fianchi con le mani, facendomi venire i brividi. "O-okay... Jensen." sussurrò. Poi sbuffò appena, ed affondò il viso nell'incavo del mio collo. "Come faccio a dire di no a te con quegli occhioni verdi?"

 Risi di gusto, provando un senso di sollievo che mi percorse ogni vena, giungendo dritto al cuore. Lo abbracciai. "Partiremo più presto di quanto immagini, Mish... e ce la faremo... te l'assicuro."

 "Sì, sì... promettimi solo una cosa... "

 "Cosa, amore?"

 Misha rimase in silenzio per qualche secondo.

 "Che... saremo due pezzi di ghiaccio in giro. Freddi come due conoscenti... indifferenti... ma senza esagerare... " mormorò, e poi i suoi occhi incontrarono di nuovo i miei. "Promettimi, Jensen, che cercheremo di non far notare ciò che c'è fra di noi... non posso perdere te. Non posso."

 Annuii. "Sì. Saremo così, come il sole e la luna," dissi ridacchiando per nascondere la voce rotta, "Se vedono te... non vedranno me in giro, e viceversa."

 Ci fu una pausa.

 Misha sbuffò. "Quanto sei poetico," mi prese in giro, e poi mi baciò sul collo. "Okay, Jens... ti amo."

 "Anche io."

 ---------------

 La stazione era molto diversa da quella che immaginavo io. Un tremito dovuto all'aria settembrina mi percorse la schiena, mentre salivamo sul grande treno, trascinandoci le valigette marroni dietro.

 "Misha, ti prego, dimmi che ci rivedremo!" supplicò Ruth per la quarta volta, agitando un fazzoletto in aria, e regalandomi una leziosa scena da film romantico antico. Alzai gli occhi al cielo.

 Misha si voltò nella sua direzione per un'ultima volta, il berretto gli ricadde un po' sulla fronte rendendolo estremamente tenero. "Mi sembra ovvio, Ruth!" esclamò, ed agitò la mano. Sapevo che non era affatto vero.

 Non ricordavo esattamente quale scusa le avesse rifilato Misha - di certo non era abbastanza plausibile.

 Percepii un lieve accenno di sollievo negli occhi di Misha quando entrammo nella nostra cuccetta, e ci misimo comodi sui divani rossi uno di fronte all'altro, chiudendo la tendina giallo canarino. Misha si leccò le labbra screpolate in modo lascivo, lanciandomi un rapido sguardo.

 "Hai preso tutto, vero?" mi domandò, sorridendo e portandosi una mano alla barbetta scura. Gli stava davvero a meraviglia.

 "E me lo chiedi ora che siamo qui?" chiesi.

 "Che cacchio hai in testa? Una coppola? Sembri... un mafioso... " ironizzò, un sopracciglio sollevato.

 Risi. Quel buffo cappello l'avevo preso ad una fiera a Mosca.

 "Ma va! Mi sta benissimo, fai silenzio, Mister Colbacco!" risposi a voce bassa. Mi guardai attorno; la nostra cuccetta non accoglieva nessun altro a parte noi, e ciò ci permetteva di non limitarci troppo negli scherzi che ci facevamo d'abitudine - prima di quel fatto.

 Mi tolsi la giacca scura che iniziava ad appiccicarsi alla pelle, ed appoggiai la testa al finestrino, chiudendo gli occhi. Sentii addosso lo sguardo di Misha che mi sbirciava ogni tanto e diceva qualcosa alla ragazza che era passata a portarci qualcosa da sgranocchiare.

 Annusai lievemente l'aria che sapeva di vaniglia.

 "Vuoi... dei biscottini?" mi chiese Misha.

 Aprii un occhio solo, e sorrisi a quel viso sereno di fronte a me. Misha aveva gli occhi quasi lucidi, e la guancia poggiata al palmo della mano. "Io intanto ti leggo le favole, eh? Ci stai?"

 Risi. "D'accordo... "

 Intanto avvertii un leggero tremore della vettura che partì qualche minuto dopo. Pensai all'ultima volta che ero stato su un treno, ascoltando il crepitio assordante dei sassolini sulle rotaie. Ci ero stato alle scuole superiori, in gita con la scuola; e forse non ricordavo la sensazione, ma era stupendo essere lì con Misha. Se solo ci fossimo potuti scambiare qualche coccola sarebbe stato molto migliore.

 Lo guardai acciuffare il libro dal borsone canticchiando a voce bassa, ed aprirlo sulla prima pagina, con fare stupidamente solenne: "Dunque... In un antro oscuro, nel bel mezzo dell'innevata steppa russa... c'era una volta... un mago... " le parole gli uscivano naturali, come se avesse saputo già tutto a memoria. Alzò gli occhi dal libro e mi rivolse un sensuale mezzo sorriso. "Era la tua fiaba preferita, questa?"

 Arrossii un po', ridacchiando. "Uhm, beh... avevo... solo sette anni... " mormorai, togliendomi il cappello e protendendomi appena sul tavolo.

 Misha sbuffò. "Oh, so che ti piace la Russia Jensen... tanto tanto... " sussurrò.

 "Ma stai zitto... " ribattei, trattenendomi dal fargli una linguaccia. Poi pensai alla tenda chiusa, e tirai fuori la lingua nella direzione di Misha.

 Misha sogghignò: "Mi stai provocando o cosa?" sussurrò, talmente piano che a stento riuscii a sentirlo io.

 "Una specie... è per caso vietato?"

 "Sì, è vietato qui. E comunque... " riprese in mano The Damned Matrioska, "Ora è il momento della lettura, quindi sshh, tappati la bocca con questo... " mi passò un biscotto.

 Roteai gli occhi, fingendo noia e lo presi, sfiorandogli le dita. Avevo voglia di tenere la mano di Misha, di baciarlo, di farmi accarezzare da lui. Addentai il biscotto, e mi accorsi che aveva il sapore dolcemente vanigliato della sua pelle. Ne diventai subito dipendente, come se avesse potuto colmare il vuoto.

 Misha mi rivolse un'occhiata buffa.

 "Bene, inizio... ma renderò la storia un pochino più credibile." incrociò le gambe con quel fare disinvolto al quale ero abituato e rivolse gli occhi un po' cerchiati alle pagine, "C'era una volta un mago stronzo che non riusciva ad accettare che suo figlio fosse un frocio, e che un giorno decise di creare una merda di Matrioska maledetta per punire il suo presunto genero."

 Mi tappai automaticamente la bocca per evitare di scoppiare a ridere. "Idiota," sibilai, affettuoso. Cercai di distrarmi guardando fuori, e vidi gli alberi alti e verdi che tagliavano a metà la luce del sole pomeridiano di tanto in tanto. Mi venne lo stupido istinto di prendere il cellulare e scattare delle foto, ma poi tornai alla realtà. "Come cavolo hai fatto a resistere tutto questo tempo senza tecnologia?"

 Misha abbassò il viso, e si tolse il cappello, appendendolo da qualche parte. "Non ne ho idea, vengo dal 2003 e non è che ancora la tecnologia avesse preso il sopravvento." disse, "Mi è indifferente." scosse la testa, e morse un altro biscotto. "Sono squisiti, eh?"

 "Migliori di quelli di Ruth." dissi.

 Misha mi puntò l'indice addosso.
 "Ah ah! Geloso che non sei altro!"

 "Non... non sono geloso!" borbottai, arrossendo.

 "Ma vaffanculo, Jensen... ma se appena mi sfiora diventi di tutti i colori e comincia ad uscirti il fumo dalle orecchie!" disse, ironico, tamburellando le dita sul tavolo.

 Mi presi la libertà di ridere; il rumore del treno copriva quasi completamente le nostre voci e le nostre risate.

 "Vaffanculo tu, Mish... " dissi, ricevendo un rapidissimo bacio soffiato come risposta.

 Roteai gli occhi. "Allora? Che faremo appena arriveremo lì?"

 Misha si strinse nelle spalle. "Lo cerchiamo. Mi pare ovvio,"

 "Okay, ma... come? Intendo... dove? E a chi chiediamo?"

 "A chiunque. L'hai detto tu che non provare equivale a perdere in partenza, no?"

 "Hai ragione, ma dobbiamo chiedere a tutta San Pietroburgo?!" scherzai.

 "Leningrado." mi corresse Misha. "Ricorda che si chiamerà ancora così fino al 1991."

 "Cazzo. Mi pare così bizzarro... " risi. "Non ho mai visto San... emh, Leningrado nemmeno nel presente... be'... non vedo l'ora."

 "Io non molto ad essere onesto... ci sono già stato e... non è stato così piacevole," mormorò Misha, sorridendo in modo malinconico.

 Io sospirai, capendo ogni cosa al volo. La guerra. L'invasione dei nazisti. Lo guardai negli occhi blu e profondi con uno sguardo di comprensione, e feci un gesto con le dita, come a stringere la sua mano nell'aria.

 Misha si passò un palmo fra i capelli, disordinandoli leggermente, e si strinse nelle spalle, imitando il mio gesto con brama nello sguardo.

 Ci guardammo negli occhi per vari secondi, e riuscimmo a dirci con uno sguardo cose che non avremmo detto nemmeno in una vita intera. Volevo abbassare il capo, ma mi sentivo incantato da quegli occhi, da quei lineamenti rassicuranti, da quei capelli scuri e perfetti. Mi chiedevo se quell'effetto così magico sarebbe durato per sempre.

 "Procurati una ciotola qualche volta," sogghignò Misha, scalfendo appena l'incantesimo.

 "Eh?" chiesi confusamente.

 "Per sbavarci dentro quando mi fissi così,"

 "... stupido."

 Mi appoggiai allo schienale con un sospiro di sollievo e socchiusi le palpebre già pesanti, sentendomi improvvisamente spossato.

 "Dormi principessa... non ci vorrà molto... dormi pure," sussurrò Misha.

 -----------------

 Uscii dal treno barcollando, sentendomi quasi estraniato dal mondo, come quando avevo viaggiato nel tempo. Mi girava la testa, e per poco non scivolai a terra davanti a tutta la gente della stazione bianca di Leningrado. Era ampia, meravigliosa, imponente come le colonne ai lati del corridoio principale.

 Misha sbadigliò, reggendosi sulla sua stessa valigia.

 "C'è un hotel, o qualcosa del genere?" chiesi.

 "Tranquillo. Io ho sempre tutto sotto controllo." bofonchiò Misha, con un sorrisetto. "Mark ha anche una casa qui, ed è vuota. C'è perfino un paio di letti per gli ospiti."

 "Ma quante case ha?!"

 Sbattei le palpebre alla luce del sole che tramontava di fronte a noi, e colorava le case e gli edifici dorati. Come immaginavo, Leningrado era sensazionale nonostante i danni della guerra.

 "Ne ha a migliaia... è la persona più ricca che conosco," rispose Misha.

 Non ci volle molto per giungere a casa di Mark. Si trovava in un quartiere dai chiari toni pastello e profumava stranamente di lavanda, nonostante fosse stata chiusa per molto tempo. Sistemammo le nostre cose in un angolo della camera da letto, e dopo una breve doccia ci sdraiammo per una mezz'ora buona a baciarci e ad accarezzarci. Era come una droga di cui non riuscivamo a fare a meno. Avevo assoluto bisogno del contatto col suo corpo caldo, con le sue labbra umide e le sue mani che mi toccavano e mi stringevano le cosce, facendomi impazzire. Finimmo per spogliarci e fare l'amore lentamente, coccolandoci, guardandoci negli occhi semichiusi. Fu l'orgasmo più lungo della mia vita - non facevamo sesso da un paio di settimane.

 "Ti amo... " gli sussurrai all'orecchio, sfinito, e Misha si limitò ad uscire pian piano da me e ad ammiccare. Si sdraiò al mio fianco, avvicinandomi al suo petto. Io gli mordicchiai la pelle dolcemente, in attesa, ma Misha tacque. Forse dovevo ancora pazientare un po' prima che si riprendesse del tutto.

 Restammo a fissare il tetto bianco per un po', senza nemmeno dire una parola, e poi ci rivestimmo e uscimmo per andare in esplorazione dei dintorni.

 Mi accesi una sigaretta, e feci un lungo tiro. Mi piaceva da morire Leningrado, sembrava così pacifica. Forse era per questo che Sobolev l'aveva prediletta.

 "Ancora a fumare?" mi rimproverò blandamente Misha con un sorriso nella voce, camminando affianco a me.

 "Smettila di fare il 'fratello grande' apprensivo e cammina!" gli risposi, allungando il passo all'improvviso e scrutando di fronte. Avevo avvistato una chiazza scura in mezzo alla folla. Mi immobilizzai, lasciando cadere a terra la sigaretta. Ero talmente scioccato che non mi scomodai neppure a spegnerla. "Che cazzo... " mormorai, senza fiato.

 "Che ti prende?" mi chiese Misha, fermandosi di colpo.

 "Misha. Lo vedi quell'uomo? Quel biondo... occhi verdi, vestito di scuro... guardalo Mish, dimmi che non sono l'unico a vedere qualcosa del genere!" dissi, la voce tesa dallo stupore. Non potevo crederci. Era lui, lo sapevo, me lo sentivo.

 Misha mi fissò con un sopracciglio alzato. "Emh... chi sarebbe?"

 "Mio nonno!" esclamai, una mano in testa.

 "Tuo che?!" esclamò Misha.

 Era vero. Mio nonno abitava a Leningrado nel 1955. Si era lasciato con mia nonna ed aveva conosciuto una russa. Tale nonno, tale nipote. Era proprio lui, e stava camminando nella nostra direzione. Ero sempre più sicuro che mi stesse guardando. Ecco.

 "Scusate signori? Ci conosciamo?" ci chiese, più a me che a Misha.

 Io inspirai, incredulo. L'avevo visto alcune volte solo in foto - con la divisa militare, con mia nonna, con la mamma in braccio - perché era morto d'infarto quando avevo solo cinque anni. Era sconvolgente vedere quelle fossette, quelle iridi color smeraldo, quel sorriso familiare come il mio da vicino.

 "Che ti prende, ti sei imbambolato?" mi chiese mio nonno. Oddio santo.

 "Emh... io... no no... credo che non ci conosciamo ma lei... ecco... somiglia molto a mio nonno." farfugliai, tirandomi l'orlo della giacca.

 Lui mi fissò alzando un sopracciglio. "Suo... nonno?" ripeté, mettendomi in soggezione.

 "Da... da giovane, intendevo." mi corressi, e sentii Misha sghignazzare come un idiota. Che stronzo.

 "Aaah... " esalò lui. "Beh... avete bisogno di indicazioni?" disse.

 "Si vede così tanto? Non siamo del luogo infatti, quindi, immagino di sì," intervenne Misha. "Non stiamo cercando una via ma una persona. Il signor Mikhail Sobolev." gli chiese per puro scherzo, certo che mio nonno non ne sapesse un cavolo.

 Mio nonno sorrise un attimo, ma poi il suo viso si spense appena.

 "Aaah! Sì sì... il caro vecchio Mikhail." bofonchiò.

 Io e Misha ci scambiammo un'occhiata esterrefatta. Mio nonno conosceva Mikhail Sobolev?!

 "Lo conosco. O almeno lo conoscevo... avevo letto molti suoi libri... The Storyteller's, First World War, The Damned Matrioska... "

 Sentii le ossa cristallizzarsi, e corrugai la fronte. Stava succedendo. Non era un fottuto caso. Era tutto reale - ogni cosa si collegava all'altra, e non sapevo se esserne spaventato o rassicurato.

 "Ci può dire dove sta per favore?" chiese Misha, tremante.

 "Emh, non esattamente. Che io sappia si trova nel bosco a sud di Leningrado. Ha una casa lì in mezzo... ma vi assicuro che non è un fattucchiere o quel che credete. Ama solo il contatto con la natura più di quanto ami la gente - lo capisco. Vive lì con sua moglie."

 "Baba Jaga?" chiese Misha, scoppiando a ridere.

 Mio nonno rise. "Non posso negare che ci assomigli. In ogni caso Mikhail è davvero sensazionale come persona. Un po' stravagante, okay... ma è un'ottimo scrittore, nonostante le critiche... credo che prima o poi regalerò una delle sue fiabe a mio figlio, anzi... a mio nipote." disse.

 A Misha scappò un gemito, a me un risolino nervoso.

 "Uhm, fa bene... io le consiglio vivamente The Damned Matrioska... è bellissimo ed io lo trovo molto educativo." dissi con un ghigno, sentendomi svenire all'idea di starlo dicendo per davvero.

 Mio nonno mi guardò con ammirazione, e si abbottonò meglio la camicia.

 "Okay! Vada per quello! Sono d'accordo con te." sbirciò l'orologio, "In ogni caso... ora devo raggiungere Ludmilla, la mia ragazza... spero che ci rivedremo... il mio nome è James." disse.

 "Sono Jensen... e lui è mio fratello..." dissi, stringendo la mano liscia e ancora giovane di mio nonno.

 "... Misha," gli disse il mio uomo, facendo lo stesso.

 "Uhm, bei nomi. Mi ha fatto molto piacere conoscervi... da svidanya!" esclamò mio nonno, correndo dall'altro lato della strada.

 Io e Misha rimasimo bloccati, le braccia penzolanti ai fianchi e le labbra schiuse. Solo Misha spezzò il silenzio poco dopo.

 "Non riesco a credere ai miei occhi e alle mie orecchie. Cristo! Mi aspettavo che ti dicesse di essere un tuo sosia!" esclamò.

 "Lo credevo anche io," mormorai. Non avevo parole.

 "Dunque ha detto che il suo nome è James. Proprio come ti chiamava Ruth... " borbottò Misha, le dita sul mento.

 Roteai gli occhi e gli diedi una leggera gomitata. "La finisci di pensare a Ruth?!"

 Misha si girò lentamente, e scosse la testa, sorridendomi sarcastico. "Ahi ahi... che brutta bestia la gelosia, eh?"

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Capitolo 10
*** Hope we come back ***


                                                                     Hope we come back




Fui spinto contro il tronco dell'albero con poca delicatezza, e succhiato con passione sul collo finché non persi il respiro. Quel suo modo di fare era quasi vampiresco, e mi eccitava da morire - per non parlare del fatto che ci trovavamo in un bosco deserto, dove gli unici suoni distinguibili erano il canto degli uccellini e lo scricchiolio delle foglie sotto i nostri piedi.

 "Cazzo, Misha... " sibilai, abbandonandomi con la testa all'indietro, lasciando che mi toccasse sui fianchi nudi, sul sedere. Sentivo l'erezione premermi contro i pantaloni e farmi quasi male. Gli cinsi la vita con le braccia, avvicinandolo stretto a me, e provai un brivido nel sentire la sua pelle piacevolmente sudata e calda sulla mia. Adoravo da impazzire vedere le sue spalle scoperte e il suo collo candido disseminato di succhiotti.

 Misha ghignò, poggiò la mano sinistra all'albero e sollevò la gamba destra, intrappolandomi lì. Ero tutto suo. Ero sotto il suo controllo. Ingoiai un groppo di saliva mentre lui mi sbottonava i jeans con la mano libera.

 "Ti amo," riuscii a sussurrare, gli occhi socchiusi, strappandogli un meraviglioso e sensuale sorriso. Desideravo baciarlo su quelle labbra perfette, ma poi non lo feci - non volevo distrarlo da quel che stava facendo. Misha liberò il mio glande dalla stoffa leggera. Lo strinse appena fra le dita esperte senza muoverlo; si limitò a contrarre giocosamente le labbra per provocarmi, guardandomi negli occhi.

 "Che aspetti?! Fallo... " lo implorai. Stavo gocciolando vergognosamente - in tutti i sensi.

 Lui sorrise e aumentò la pressione sulla punta, facendomi sobbalzare. Avvicinò le labbra al mio orecchio: "Solo se lo fai anche tu, tesoro."

 Alzai le sopracciglia; mi sentivo il membro bruciare sotto il suo palmo bollente che si muoveva ritmicamente, con una lentezza insopportabile. Gemetti.

 Iniziai a sbottonare in fretta e furia i suoi pantaloni, e afferrai il suo membro, tremando. Misha mi baciò sulle labbra, introdusse la lingua nella mia bocca, e da lì ci baciammo vorticosamente, masturbandoci a vicenda, diventando una sola cosa fra piacere, profumo alla cannella e coccole poco innocenti. L'avrei baciato per tutto il resto della mia esistenza, mi sarei fatto toccare da lui per sempre. Mi aggrappai ai suoi capelli ed ansimai, permettendogli di aumentare la velocità con cui muoveva il palmo.

 Misha continuò a baciarmi finché non raggiunsimo l'orgasmo assieme, ansimando l'uno sulle labbra bagnate dell'altro. Cedemmo, stringendoci i corpi. I nostri petti si sollevavano e si abbassavano ritmicamente, e i nostri battiti lottavano fra di loro mentre il nostro bacio diventava più calmo e affettuoso, meno intenso.

 "Jensen... " mormorò Misha con voce inesistente.

 "Mish... " risposi, ed affondai il naso nell'incavo del suo collo. "Sei... sicuro che questo posto sia vuoto?"

 Lui ridacchiò col poco fiato che gli era rimasto in gola. "Sobolev non si incazza se vede i suoi personaggi del cuore farsi delle seghe nel suo boschetto."

 "Quanto sei volgare... "

 Misha sbuffò, solleticandomi sulla spalla col fiato. "E tu sei un idiota," ribatté, e si liberò a malincuore dal mio abbraccio, riabbottonandosi i pantaloni ed aiutando me a fare lo stesso. Lo guardai mentre mi rimetteva amorevolmente in ordine, e mi scoccava occhiate maliziose.

 "E ora?" sussurrai.

 Misha sollevò lo sguardo, e si grattò la barbetta. Afferrò la sua maglia spiegazzata dal fogliame marroncino sotto l'albero, e la indossò a metà.

 "Ora mia cara Gretel, cerchiamo dei sassolini e li lasciamo in giro per il bosco... Baba Jaga è vicina... " disse.

 "Chi cazzo è Baba Jaga?" chiesi, gli occhi a fessura.

 Misha spalancò stupidamente la bocca arrossata e un po' gonfia di baci. "Famosa leggenda russa! Mio Dio, sto per sposare un attraente ignorante!" esclamò, dandosi una teatrale manata in fronte.

 "Ma vaffanculo... " dissi ridendo, ma poi mi ripetei in testa la sua ultima frase, e mi morì la voce, " ...sposare?" domandai, il mio cuore che perdeva un colpo.

 Misha sorrise timidamente per la prima volta in sette mesi, ed abbassò il capo. "So che è... presto ma... non mi sposeresti... se, se potessi?" chiese, a fior di labbra. Le sue dita scivolarono sulla mia tempia, accarezzandola lentamente.

 Io sbattei le palpebre, arrossendo. Non avevo mai pensato di sposare nessuno. Mai. Mi era venuto in mente solo una volta, ad un compleanno di Cindy, di regalarle un anello, ma poi ci avevo rinunciato - e non era stata una questione di soldi.

 Mi sentii andare in iperventilazione, mentre fissavo quegli occhi blu e speranzosi e quelle fossette adorabili. Il suo sorriso scomparve per un attimo. "Uhm, scusami... forse sono inopportuno... " mormorò.

 "Cosa?! No no no!" mi affrettai a dire, scuotendo la testa. "Oddio... certo che ti sposerei." dissi, la voce non proprio ferma, grattandomi i capelli corti alla base.

 Misha riprese a respirare, e mi fece una tenerezza immensa. Certo che l'avrei sposato. L'avrei sposato mille volte, e non credevo che sarei mai arrivato a pensare una cosa del genere su qualcuno.

 "Davvero?" mi chiese; gli occhi celesti gli splendevano più di prima.

 Annuii. "Sì... davvero."

 "Ne... sono felice." sussurrò, e mi sorrise.

 Si voltò lentamente, e riprese a passeggiare per il bosco, canticchiando per la gioia qualcosa che non conoscevo di sicuro. La sua voce era tornata calda e disinvolta.

 Mi misi la maglietta

 "... I've been through deals such a long long time just trying to kill the pain... And it's hard to hold a candle... in the cold November rain..."

 "Mi piace come canti. Che canzone è?"

 "November Rain... to piace?"

 "Non la conosco... ma sembra orecchiabile."

 "Oh... è molto più di orecchiabile, io la adoro." disse, ridacchiando. Lo raggiunsi, e lo presi scherzosamente a braccetto, guardandomi attorno.

 "Frocetto, fai attenzione che i gufi ci denunciano," scherzò Misha.

 "Ma stai zitto, va!" esclamai, e scoppiai a ridere, immaginandomi un gufo che ci insultava da un albero, scrutandoci con gli occhietti gialli e luccicanti. Adoravo il fatto di riuscire a ridere delle cose più stupide in presenza di Misha. Mi faceva sentire normale, e sembrava tutto così dolce e naturale con lui.

 "Emh... hai dell'acqua? Ho finito la mia." dissi, la voce supplichevole.

 "Ovvio... tu sei quello che finisce sempre tutto per ultimo." ironizzò Misha, e mi fece l'occhiolino.

 "Taci, e passami l'acqua, maritino mio." dissi con sarcasmo.

 Misha rise, ed aprì la cerniera del suo zainetto nero. L'avevamo riempito di un mucchio di cose prima di entrare in bosco, peccato che ci fossimo scordati del preservativo.

 Dovevamo decisamente cercare Mikhail Sobolev, e quella mite sera del 5 Settembre ci era parsa adatta ad una missione simile.

 "Credi sia vicino?" domandai ad un certo punto, ed incrociai lentamente le dita alle sue, avvertendo una scarica elettrica percorrermi il braccio ed arrivare al cuore.

 "Vicinissimo. Sento il profumo di marzapane... "

 "Cretino... " Lo spinsi e scoppiai a ridere.

 Intanto il sole stava tramontando, e non riuscivamo a distinguere quasi nulla in mezzo ai fitti alberi ravvicinati. Ci imbattevamo soltanto in delle rare radure la cui erbetta dorata si ergeva dritta dritta e pareva dover prendere fuoco.

 Mi misi a canticchiare una canzoncina anche io, a voce bassa.

 "My house in Budapest, my, my hidden treasure chest, golden grand piano... my beautiful Castillo... You ooh, you... Ohh I'd leave it all... "

 "Uhm... carina questa." sussurrò Misha.

 "But for you, ooh, you... ooh, I'd leave it all... Oh, for you... Ooh, you
 Ooh, I'd leave it all... And give me one good reason why I should never make a change... Baby if you hold me then all of this will go away... "

 Già cantando qualche strofa ero diventato rosso come un peperone, e mi sforzavo di far finta di nulla guardando di fronte a me e concentrandomi sugli acuti di George Ezra. Ma non riuscii più a fingere indifferenza quando Misha esclamò: "Ma perché non canti più spesso? La tua voce è... oro ed io non me n'ero mai accorto!"

 Tacqui e lo fissai con un sorriso grato, abbassando gli occhi. I suoi erano leggermente lucidi, o forse era la luce soffusa a farmelo credere.

 "Me l'hai dedicata quella canzone, eh? Dimmi la verità... " chiese Misha.

 Sorrisi perché era proprio come lui aveva intuito.

 "Beh... sì. Ho... tanti amici cari nel posto dove abitavo a New York... Jared, Mark, Felicia... ed è un posto che amo nonostante la noia degli ultimi anni. Ma se per stare con te dovessi rinunciare a tutto questo... lo farei senza batter ciglio. Mi... mi basti tu e solo tu." dissi piano. Deglutii. Non vedevo l'espressione di Misha, e nemmeno volevo. Lui si fermò, e mi accarezzò il viso dolcemente.

 "Amore... è molto bello da parte tua... ma non devi rinunciare a nulla." disse dopo una lunga pausa.

 "Non vivevi in Russia nel 2003?"

 "Credi che ci voglia ritornare?" disse Misha sbuffando. "Dopo otto anni lì nel presente e un'altra dozzina nel passato voglio cambiare aria! E accento... "

 Alzai un sopracciglio, contrariato.

 "Ma se è bellissimo il tuo accento... "

 "Ma levati! Invece dimmi, com'è casa tua?"

 "Non come quella di sicuro... " dissi io, additando qualcosa di scuro in fondo al bosco. I rami coprivano quasi tutto il piccolo edificio, nascondendone in parte il tetto spiovente.

 Misha strinse gli occhi a fessura, deluso. "Meh... mi immaginavo qualcosa di più accogliente... non il classico casolare mezzo ristrutturato da film horror... "

 Risi. "Ti caghi addosso mio caro... questo è il problema... " lo presi in giro.

 "Taci," Misha sorrise e mi fece una linguaccia. "A quanto pare non era una leggenda metropolitana, quella di Sobolev. Su... andiamo e bussiamo alla porta dell'autore della nostra storia."

 "Della nostra storia... suona molto... da serie TV." dissi.

 "Ma noi ci siamo in una serie TV, secondo me... in un universo parallelo siamo due attori amanti che nascondono la propria bisessualità ai fan e si scopano nei camerini prima di girare le scene... "

 "Che fantasia,"

 Mi mossi con lentezza in mezzo alle foglie secche, scostandole con la punta dei piedi. Misha si separò dal mio braccio, e marciò più in fretta. Da vicino, la casa appariva decisamente meno minacciosa. Era solo una vecchia catapecchia di campagna con la staccionata in legno nero che la circondava quasi completamente.

 Salimmo sugli scalini che facevano un rumore di rotto di fronte alla porta, e bussammo due volte, dapprima pian piano, poi con più energia. Nessuno ci apriva.

 "Non c'è... " mormorai, aggrottando le sopracciglia.

 "Uhm... mai arrendersi. Dev'esserci... " rispose Misha, come se fosse ovvio, e si portò il dito sul labbro spaccato a causa del freddo.

 Bussò per la terza volta e tese l'orecchio. Non un fruscio, non un rumore: solo il bubolare del gufo sull'albero contorto alla nostra destra.

 "È vuota... che sfortuna... " Fece dietrofront, e mi chiese di seguirlo. Io deglutii, ma all'improvviso la porta si spalancò, facendoci sobbalzare entrambi.

 Una uomo pallidissimo e allampanato ci osservava attentamente dall'uscio, gli occhi verdognoli puntati soprattutto sui miei. "Che... che cosa cercate?"

 Mi schiarii la gola e Misha iniziò a tormentarsi il labbro inferiore. "Emh, salve... lei deve essere... " iniziai a mormorare.

 "Il signor Sobolev... giusto?" mi venne in aiuto Misha.

 L'uomo aggrottò le fini sopracciglia. Dimostrava circa quarantotto anni o giù di lì, e pareva nervoso. Inspirò pesantemente. "Cosa... volete da lui?"

 Misha esitò, ed infilò le dita in una tasca dello zainetto. "Ecco... si tratta di questo... " Tirò fuori The Damned Matrioska, con un sospiro. "Mikhail è... l'autore di questo libro. Avevamo bisogno di alcune informazioni su di esso, specie sulla versione originale."

 Osservai Misha con brama, in parte invidiando la sua sicurezza e disinvoltura.

 Il signore strinse gli occhi, e scosse la testa. "Non... non posso fornirvele," balbettò, e fece per chiuderci la porta stridente in faccia. Pareva che avesse qualche strana difficoltà di linguaggio.

 "No! Aspetti signor Sobolev... "

 Mikhail si fermò.

 " ...siamo degli amici, anche se siamo solo degli sconosciuti per favore si fidi... non siamo cattive persone." tentò di persuaderlo Misha.

 Mikhail rimase a studiare ogni nostro movimento dallo spiraglio della porta, le nocche bianche per lo sforzo di tenerla socchiusa. Capii al volo che le deduzioni di Misha sul suo passato di merda erano più che vere.

 "Non abbia paura... " ripeté Misha.

 "Chi siete?" mormorò quello, la voce bassa.

 "Siamo Misha... e Jensen... " disse Misha, indicando prima lui e poi me con un gesto della mano.

 Io inspirai, e infilai le mani in tasca. "Sì. Quei Misha e Jensen." dissi, sorridendo appena.

 Mikhail uscì un po' la testa, e strinse ancora di più lo spessore della porta con le dita. "C-cosa? No... che... che razza di scherzo è questo?" chiese, la voce voleva sembrare irritata, ma in realtà era solo spaventata.

 "Lo sappiamo che può sembrare assurdo... ma vede... The Damned Matrioska è una storia vera... noi abbiamo viaggiato nel tempo proprio come i protagonisti della sua favola... tutto è andato così finora. La Matrioska esiste. Noi due... esistiamo." dissi lentamente, col tono più sincero che potevo, gli occhi bassi.

 Prima di guardare la reazione di Mikhail, sbirciai quella di Misha.

 "Bravo," sussurrò lui con un fil di voce, e ghignò per un nanosecondo.

 Il signor Sobolev si massaggiò la fronte rugosa con due dita, spazientito. "Ma che... Dio buono... sogno ancora o son desto? In effetti... avete entrambi le caratteristiche dei miei personaggi. Tu, occhi smeraldini... timido e taciturno. E tu... capelli scuri un po' in disordine... con quell'ironia pungente. Venite dal futuro? Oh! Ma che dico?! È tardi... ed ho bisogno del letto... temo di star delirando. Devo ricordarmi di evitare il whisky la sera... " brontolò, e si girò un'altra volta.

 "No! Aspetti, cavolo! Abbiamo bisogno di lei, Sobolev... è questione di vita o di morte. Ci ascolti!" esclamò Misha, la voce decisa, facendolo immobilizzare all'istante.

 Mikhail sospirò, tirandosi nervosamente l'orlo della giacca di fustagno. "Bene. Ditemi subito cosa volete sapere e poi ve ne andate, Misha e Jensen!" urlò, abbastanza incazzato, marcando i nostri presunti nomi. Doveva di sicuro credere che lo stessimo prendendo spudoratamente per il culo.

 "Abbiamo bisogno di lei... " ripetei. "Ascolti. Sappiamo che c'era un'altra versione di questo libro. Un'altra versione drammatica su due omosessuali... ecco, stando alle ricerche... " Tirai fuori un taccuino, la carta bianca scricchiolò, "Stando alle ricerche... ci è accaduto finora tutto ciò che è successo a loro, che avevano perfino i nostri stessi nomi... e non sappiamo se lei è qualche tipo di profeta, o cos'altro..." mormorai piano.

 Ci fu una lunga pausa; il sole era ormai tramontato quasi del tutto, facendo scendere delle grosse ombre su di noi.

 "Entrate... " disse Mikhail, la voce flebile, dopo tutte quelle esitazioni, lasciando sia me che Misha a bocca aperta.

 Ubbidimmo, e varcammo l'ingresso, ritrovandoci in una cucina antica che odorava di cipolle e pane appena sfornato.

 "Su. Parlate."

 Non ci misimo più di cinque minuti a raccontargli la nostra storia, nonostante stessimo bevendo un caffè. Scoprimmo che Mikhail in fondo sapeva che saremmo venuti. L'aveva sognato un mese prima, al suo compleanno. Restò scioccato quando gli parlammo del simbolo, delle premonizioni, e di tutte le altre cose allucinanti che ci erano successe negli ultimi mesi. Ci pregò di parlargli della nostra vera epoca, di come il mondo era cambiato dopo una sessantina d'anni.

 "Vi giuro... credevo fosse uno stupido sogno il mio... uno scherzo della mia mente." disse Mikhail, "A - a quanto pare mi sbagliavo... tutto... ogni piccola cosa di voi, ogni vostro ricordo sembrano rispecchiare quelli dei miei personaggi. E ci sono cose... che avevo deciso di non scrivere - e che voi mi state raccontando! - per cui, mi vedo costretto a credervi." Sospirò, i gomiti poggiati pesantemente sul tavolo.

 Io e Misha ci consultammo con un rapido sguardo. Non ci servivano le parole per dirci qualcosa; bastava un luccichio negli occhi, o una semplice mossa delle sopracciglia.

 "Come finiva il libro originale?" domandò Misha, e si portò la tazzina alle labbra.

 Mikhail alzò lo sguardo, triste. "Il vecchio libro comprendeva due volumi. Non ho mai ultimato il secondo, né avuto la possibilità di farlo dopo. Sapete cosa è successo... "

 "Sì." disse subito Misha, annuendo per delicatezza. "Ma... ci dica... se tutto questo è vero... come possiamo tornare indietro?" chiese, scuotendo la testa.

 "Ci vuole la Matrioska... "

 "A parte quella," risposi, "Quella che ci era capitata fra le mani... ci è accidentalmente caduta per terra. È nel presente adesso, nel 2015."

 "Oh, maledizione. Mi dispiace. Resterete qui, allora." disse Mikhail, sospirando.

 "E non c'è assolutamente nulla che potremmo fare?" chiese Misha, senza perdere le speranze che io avevo già buttato. "Proprio nulla?" ripeté.

 Mikhail guardò entrambi negli occhi. "Forse... "

 "Cosa?"

 "Forse... c'è una sola soluzione... ma non sono sicuro se funzionerà o meno, non l'ho mai scritta perché mi faceva male pensarci, era solo un'idea... " mormorò Sobolev, il tono grave.

 "E sarebbe?" chiesimo io e Misha in coro.

 "In fondo... non aveva scritto neppure quando Misha da piccolo aveva fatto il bagno al mare in mutande, eppure l'ha davvero fatto." dissi, trattenendo un risolino.

 Mikhail sorrise per la prima volta, incrociando le braccia con fare infreddolito. "Bene. Magari è come dite voi. Lo spero tanto."

 Misha ridusse gli occhi a due fessure. "Qualunque cosa pur di uscire da quest'epoca. Ci sono stato abbastanza." disse, secco. Quando era arrabbiato era particolarmente affascinante.

 Sobolev si morse le labbra. "C'è una... data speciale in cui potete tornare. È una costante. È il mio sempre. Lo era... almeno credo. Nel senso che è... e sarebbe stata sempre l'unica scappatoia disponibile per chi finisce indietro nel tempo e non possiede più la Matrioska. C'è un modo per tornare, ma arriverete necessariamente il 15 Luglio dell'anno 2016."

 Calò il silenzio.

 Io rimasi basito, e sbattei le palpebre. "Il 15 Luglio?"

 "S-sì... " disse Mikhail, senza guardarci.

 "Uhm... è una data importante per lei?"

 Mikhail arrossì violentemente. "No no no... casuale... una data casuale... " farfugliò, senza riuscire a non sorridere appena.

 Misha annuì per educazione. "Bene. Provare per credere. Cosa dobbiamo fare?"

 "Dovete... sacrificare un oggetto a cui tenete." disse Mikhail precipitosamente, felice del cambio d'argomento. "Tutti e due. Bruciate il vostro oggetto... e nel frattempo pronunciate all'incontrario questa... formula... "

 Scese dalla sedia, andò in fretta a rovistare nella sua stanza e tornò con un mucchio di fogli legati con un'inelegante cordicella grigia.

 "Cos'è?" chiese Misha.

 "Un pezzo del secondo libro di The Damned Matrioska. Potete tenerlo... io non lo finirò mai." borbottò, atono. "Sul retro c'è la formula che il mago ha usato per maledire la Matrioska. Al contrario dovrebbe funzionare... e alla fine dovete dire la famosa... data." mormorò in fretta, come se parlare del 15 Luglio gli facesse bruciare la lingua.

 "Bene. La ringraziamo davvero tanto." disse Misha, e mi guardò.

 Mikhail si passò una mano fra i radi capelli scuri. "Ancora non posso credere a quel che hanno sentito le mie orecchie."

 Misha sorrise sommessamente. "Quasi nemmeno noi crediamo a tutto questo gran casino."

 -----------------

 Io e Misha uscimmo da casa sua, lanciandoci sguardi interrogativi. Avrebbe funzionato il suo metodo? E quale oggetto avremmo dovuto bruciare per salvarci?

 Camminammo con calma verso l'uscita del bosco, tenendoci per mano. Misha accarezzava il mio polso col pollice. Io tenni il capo basso, evitando di dire una parola e sentivo che qualcosa non andava.

 Misha si schiarì la gola.

 "Che ti succede?" mi domandò con voce roca.

 Deglutii. "Io... "

 "Cosa?" Misha si fermò.

 Strinsi le dita sul suo palmo, come per paura che mi lasciasse andare. Perdere lui era la mia peggiore fobia.

 "Sono spaventato. E ansioso." Odiavo doverglielo spiegare, perché adesso che stavamo a San Pietroburgo tutto si era sistemato, io avevo trovato un lavoretto in un locale e nessuno pareva sospettare di noi. E, soprattutto, Misha si era ripreso un po'.

 Eppure da giorni avevo una morsa allo stomaco che mi infastidiva, mi toglieva la fame, mi uccideva. Mi faceva star male e non capivo perché.

 Misha sorrise nell'oscurità, e mi circondò le spalle con un braccio, attirandomi a sé. "Amore mio, è solo suggestione: anche io sono stato male, ma dobbiamo solo essere cauti. Stai tranquillo."

 Respirai pesantemente.

 "Mi credi?"

 "C-certo che ti credo... "

 Misha si rasserenò, ed io presi una sigaretta e il mio accendino dalla tasca. Guardai la cenere accendersi con uno strano piacere - mi parve quasi di bruciare le mie preoccupazioni. Ma Misha mi sfiorò la mano: "No, aspetta. Fuma dopo."

 "Perché?" protestai.

 "... siamo vicini alla fine di questo pacifico posto buio ed isolato, quindi... baciami." mormorò sensualmente, fermandosi ed afferrandomi per il braccio. Aderì il suo corpo caldo al mio, e introdusse le mani nella mia maglietta, all'altezza dei fianchi, facendole scivolare con dolcezza. Nemmeno al liceo avevo mai provato brividi paragonabili a quelli. Schiuse le labbra morbide, sfiorò le mie, e mi diede uno dei baci più lenti e affettuosi di sempre.

 Appoggiai la fronte alla sua, e gli presi entrambi i polsi, intrecciando le sue dita alle mie, e sorrisi.

 "Cosa pensi che sia?"

 "Che cosa, Mish?" chiesi.

 "Il 15 Luglio... " Lo vidi curvare le labbra in un sorriso malizioso. "Secondo me è una data molto significativa per Sobolev."

 "Misha, ti prego... non fare il pettegolo! Sono affari suoi... " lo rimproverai, beccandomi una risata sguaiata da parte sua.

 Tornammo a casa, mantenendo le distanze per strada.

 Quella sera sarebbe toccato a me scrivere.

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 Note dell'autrice:
 E va beneee alla fine la fic non è andata in pausa, non per ora almeno... dato che con tutto lo studio da liceo che mi ritrovo è complicato concentrarsi, pazientate bimbi miei se faccio errori

Hey, lettori! *si nasconde* scusatemi, ho fatto un errore alla prima pubblicazione di questo capitolo... non sapevo che canzone far cantare a Misha ed all'inizio ho dimenticato lo spazio vuoto. Sorry! :( ora ho sistemato tutto

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Capitolo 11
*** Afraid of losing you ***


~~Afraid of losing you


 L'immagine di Misha in ginocchio che sorrideva e dava da mangiare ad un bimbo povero era la scena più dolce che avessi mai visto. A giudicare dal suo comportamento disinvolto, pareva quasi impossibile che Misha non avesse mai avuto dei figli. Sembrava quasi che la purezza dell'anima di Misha si stesse fondendo con quella del bambino.

 Il piccolo lo fissò per un po', allungò timidamente un braccio impolverato sbattendo le ciglia, e Misha racchiuse teneramente la manina nel suo grande palmo, sorridendogli. "Chiudi gli occhi." sussurrò, lo sguardo limpido e azzurro come il cielo sopra le nostre teste.

 Il bimbo obbedì, e Misha lasciò scivolare qualcosa di colorato fra le sue minuscole dita.

 "Puoi riaprirli, adesso."

 La risata divertita del bambino mi fece quasi commuovere. A stento riusciva a tenere in equilibrio le sette caramelle alla frutta che gli aveva regalato Misha.

 Intanto, la madre del ragazzino osservava la scena dalla porta malferma del loro vecchio palazzo grigiastro. Portava i capelli neri legati in una coda, ed era tanto giovane da assomigliare ad un'adolescente trascurata; aveva addosso solo dei cenci e ci osservava sommessamente, come se io e Misha fossimo stati dei reali. Con una mano sfiorava la spalla del figlio intento a gustarsi una prelibatezza alla fragola - che probabilmente non aveva mai assaggiato in vita sua.

 La madre mormorò al piccolo qualcosa in russo, e lui le puntò addosso due occhi scuri enormi. Poi rivolse il viso appiccicoso di zucchero verso l'espressione buffa di Misha. "G-grazie." balbettò a bassa voce, e Misha ridacchiò, e gli scompigliò i capelli color cenere. Gli rivelò qualcosa che all'inizio non capii, ma che poi interpretai come un 'anche io parlo russo'.

 Li osservai con un sorriso titubante, tirandomi l'orlo della giacca nera. Ogni giorno mi rendevo conto che non mi sarei mai stancato di amare Misha con tutte le mie forze. Non riuscivo a comprendere quale male ci potesse essere in un sentimento così meraviglioso come quello che provavo io per lui. Era come se da quando mi ero innamorato di Misha ci fosse una nuova luce in me, qualcosa di angelico, di divino che mi faceva star bene, e non avrei mai sopportato di perderlo. Mi sarei sentito spento - come non mi ero mai reso conto di essere prima di conoscerlo.

 "Direi che possiamo anche andare adesso, fratellone... " ghignò Misha facendomi l'occhiolino; si alzò dandosi delle pacche sui pantaloni per spolverarli, e si rassettò il cappotto grigio. Mi sentivo stranissimo quando mi chiamava in quel modo, anche se sapevo che lo faceva solo per dissimulare.

 "Da svidanya, Valentin." sussurrò Misha al bambino, che agitò allegramente la manina in risposta. La madre fece lo stesso e ci sorrise, abbassando il capo.

 Alle sette di sera tornammo a casa di Mark dopo il giretto nella periferia di Leningrado; ci preparammo una rapida cena e poi andammo a poltrire di fronte alla televisione, intrecciati sul divano. Fecimo un po' del consueto zapping serale, e dato che non trasmettevano nulla di interessante presimo a conversare su argomenti casuali, lasciando il ronzio del televisore come calmante sottofondo. Era meraviglioso stare in quel modo. Amavo da impazzire anche viaggiare con Misha - ci eravamo spostati un po' ovunque in quei due mesi, per poi tornare alla base - ma ciò non era paragonabile alle notti in cui coccolavamo sul letto o sul divano.

 Non mi ero mai sentito così al sicuro in vita mia: la stanza era spesso semi buia; le uniche fonti di luce erano la candela profumata sul comò ed il televisore acceso.

 Quella notte mi accoccolai pigramente sulla spalla di Misha, strofinando il naso contro la sua pelle e lui ammiccò. Sollevai le labbra, e gli diedi un lungo e umido bacio sul collo, godendomi il gemito roco che uscì dalla sua bocca. Misha si strofinò la barbetta, mi prese la mano, giocando con le mie dita, e poi intrufolò le sue all'interno della maglia del mio pigiama, accarezzandomi la schiena e scendendo giù sui glutei e le cosce. D'istinto lo baciai, giocai con la sua lingua calda, e poi staccai le mie labbra dalle sue con un suono bagnato, per andare a mordicchiargli il petto. Eravamo abbastanza sereni, questo era vero, eppure io avevo ancora un accenno di quei brutti pensieri in testa.

 "Amore... io ho... come l'impressione che... sia troppo facile." mormorai all'improvviso, baciandolo pian piano. Gli succhiai un capezzolo, e lo sentii eccitarsi sotto il mio tocco. Infilai una gamba fra le sue, e Misha grugnì.

 Abbassò il capo. "A c-cosa ti riferisci?" balbettò.

 Ansimai un po'.

 "Il metodo di Mikhail. È troppo semplice per essere vero." dissi, posizionando le labbra fra i suoi pettorali. Misha mi prese per le spalle, ed io sollevai gli occhi, sprofondando nei suoi.

 Misha aggrottò le sopracciglia e poi sorrise. "Uhm. Be', tanto vale la pena provare, no? Anche se a dirla tutta non voglio mica bruciare il tuo regalo!"

 Ridacchiai, e affondai affettuosamente le unghie sul suo bicipite nudo, tirandomi in avanti. Gli sfiorai le labbra con le mie e sussurrai. "Nemmeno io voglio ridurre in cenere il tuo. Non so neppure perché me l'hai fatto, quel regalo, anche se lo adoro. In fondo era il tuo compleanno, mica il mio."

 Misha rise, e si aggrappò ai miei capelli.

 "Ah! Taci e apprezza la mia infinita gentilezza, Ackles." mi rispose, il mento alto e orgoglioso. Chiuse e riaprì gli occhi con fare assonnato, e sbadigliò.

 "Ho capito... ho capito. Sei stanco." mormorai, con finto tono rassegnato.

 Misha sbuffò.

 "È una giornata che giriamo per Leningrado. E sono due mesi che passiamo da una città all'altra. A proposito. Domani tocca a me parlare del Triangolo di Malebka. Nel diario."

 Io alzai un sopracciglio, e gli lasciai una scia umida dal petto alla clavicola.

 "Be'... scriverai di quanto te la sei fatto addosso per la paura." risposi con un ghigno.

 Misha scoppiò in una buffa risata. "Ma sta zitto, fifone... non mi dimenticherò mai della sera in cui mi hai scambiato per qualcun'altro e mi sei saltato addosso nel buio."

 "Io salto sempre addosso," dissi con voce maliziosa.

 Lui roteò gli occhi. "Che scemo. A proposito... dovrei prenderli, i regali."

 "Quali regali?"

 "Quelli da bruciare, Jens." disse Misha, come un'ovvietà.

 Alzai le sopracciglia e spalancai gli occhi, manco mi avessero colpito sullo stomaco all'improvviso. "P-perché devi farlo tu? Mark può inviarceli."

 Misha sospirò e si leccò le labbra secche. "No, non può. Non è in città - ogni Novembre va a trovare i suoi figli." La sua voce suonava strana.

 Mi staccai lentamente da Misha e lo guardai negli occhi, speranzoso, sedendomi accanto a lui. "Ma... mi pare pericoloso per ora... " balbettai.

 Ci fu una pausa, mentre qualcuno in televisione parlava dei gulag, di quegli orrori, e delle povere persone alle quali era toccata quella fine penosa. Misha era impallidito, e stava facendo finta di non sentirlo, ma io riuscivo ad indovinare ogni suo pensiero.

 All'inizio credevo che si sarebbe comportato ragionevolmente, e invece si limitò ad ammettere: "Uhm, già. Forse è pericoloso." Allungò la mano verso il tavolino, prese un rapido sorso di tè, e si strinse nelle spalle, come se nulla fosse.

 Io corrugai la fronte; mi sentii le braccia formicolare e le guance accaldate. Non sopportavo quel suo atteggiamento sprezzante - rischiava di metterlo in seri guai.
 Si era improvvisamente creata una strana atmosfera in quella stanza tanto tranquilla, erano bastata una parola per farmi risentire il dolore e la paura quasi dimenticati di prima. Mosca.

 "Non lo farai." mi imposi per la prima volta, guardando in avanti verso un punto non distinto. Evitavo come la peste di far cadere lo sguardo sulla televisione - cambiai bruscamente canale.

 Misha mi toccò la spalla, in modo che rivolgessi gli occhi verso di lui. Mi irrigidii.

 "E invece io ci andrò, Jensen. Prima ce ne andiamo di qui... e meno rischiamo di finire in galera o ammazzati. Capisci?"

 "Potresti finirci sul serio per colpa di questa... cazzata di fiaba!" ringhiai, gli occhi già mi pizzicavano.

 Misha mi guardò esterrefatto, e si mise a sedere, puntandomi gli occhi blu addosso. Non era affatto un buon segno. "Da quando in qua credi che sia una cazzata?" sibilò, furioso.

 Io mi massaggiai la fronte, e mi morsi le labbra. "Non... non ne sono certo. Ma se ci fai caso... sembra tutta un'invenzione - una leggenda. L'oggetto da bruciare... la formula magica... pensandoci bene ho l'impressione che si tratti soltanto di un mucchio di balle."

 "Che ne sai se sono balle?" mi domandò lui. Avvertivo l'irritazione nel suo tono di voce.

 Sospirai.

 "Lo sono eccome. Dobbiamo essere realisti."

 Misha era scioccato. "Io sto cercando di essere ottimista... una volta tanto. Appoggiami almeno!"

 "Ti appoggerei eccome se tu non rischiassi di morire! E per cosa?! Anzi, mi chiedo come diavolo abbiamo fatto a bere le parole di quello lì. Chi lo conosce? E poi ma dai! l 15 Luglio... ma fammi il piacere! Sarà la fottuta data di nascita di qualcuno che-"

 "Jensen, ma cazzo!" sbottò Misha con voce alterata, ed io mi ammutolii. "Hai viaggiato nel tempo! Hai disegnato al muro un simbolo che nemmeno ricordavi esistesse! Non dirmi che non credi ancora a queste cose, eh!"

 "No che non ci credo! Quel Sobolev ci prendeva per i fondelli. Ti ripeto che a Mosca non ci devi mettere piede, e che non voglio che ti succeda qualcosa per una cazzata simile... " mormorai con voce tremante, due lacrime enormi mi caddero sulle mani. Odiavo a morte sembrare così debole e propenso al pianto, ma da nove mesi mi sentivo troppo diverso - Misha mi aveva cambiato radicalmente senza volerlo.

 Misha abbassò il capo, torcendosi nervosamente i polsi. "Potrebbe anche non essere una cazzata."

 "Ma io non voglio che... " mi si ruppe la voce, e mi sentii infinitamente ridicolo. Mi posai una mano sulla bocca e serrai gli occhi, senza riuscire a completare la frase.

 "Io devo partire, e lo farò. Punto." replicò Misha, deciso.

 Io rimasi mortificato, ed abbassai il capo alla ricerca di qualcosa da dire per farmi perdonare - non avrei voluto avere quella reazione. Mi passai il palmo sui capelli, tirandoli all'indietro.

 Misha deglutì, e si ammorbidì appena vedendomi in quello stato. "Jens... ci vuoi tornare a casa, sì o no?" mi chiese, il tono calmo.

 Io strinsi ancora di più le palpebre. Misha si era evidentemente pentito di essersi arrabbiato, ed ora era talmente tenero e dolce, come se fosse stato un padre che aveva esagerato a sgridare il suo bambino. Ed io volevo solo affondare in un suo abbraccio, sentire il suo battito; volevo solo dirgli che non ne era valsa la pena di litigare, ma la mia piccola parte orgogliosa mi fece scattare in piedi.

 "Non voglio tornare da nessuna parte Misha! E non voglio che decidi sempre tu quello che si deve o non si deve fare... come se io fossi un ragazzino immaturo che non sa prendere decisioni! Chi cazzo ti credi di essere!?" gli urlai contro, ma poi il cuore mi esplose in petto quando le mie parole mi rimbombarono in testa.

 Misha si ritrasse, fissandomi dal basso; i suoi occhi si velarono appena, ma lui riuscì comunque a mantenere un atteggiamento dignitoso - a differenza di me, che lacrimavo silenziosamente. Distolse lo sguardo. "Credo... di essere quello che ti ha ospitato a casa sua... e ti ha aiutato a sopravvivere qui... che farebbe di tutto per il tuo bene... e che ti ama davvero, davvero tanto... Jensen. Non azzardarti a pensare... che ho fatto tutto questo solo perché volevo usare i tuoi... poteri - se così posso definirli - per tornare nel presente." disse a fatica. "Ti amo come non credevo che sarei più riuscito a fare. Mi chiedi chi mi credo di essere? Credo di essere il tuo uomo... e... " Si asciugò una lacrima che gli era colata sul mento, riprendendo a guardarmi. "E se faccio qualcosa... è sempre e solo per te che la faccio... sappi solo questo."

 A quel punto non ce la feci quasi più a resistere. Trattenni i singhiozzi più che potei; non volevo assolutamente piangere a dirotto, anche se quelle parole me ne fecero venire una voglia immensa.

 "Oddio... lo so, lo so... " Scossi la testa, tornando in me. "Anche io ti-... scusami, Mish. Ma io non voglio davvero tornare... non se significa rischiare di perderti... " mugolai, le unghie conficcate nei palmi.

 "Hey," Misha si alzò e fece due passi, mi sciolse i pugni e avvolse le sue braccia attorno alla mia vita, in modo che appoggiassi la guancia umida sulla sua spalla. Mi accarezzò la schiena con le dita, pian piano. "Non preoccuparti. Lo so che hai paura. Amore mio, farò molta attenzione, lo sai che io in genere sono molto cauto. Lo farò per noi, e anche se fosse una cazzata... dobbiamo tentarle tutte. Nel caso in cui non funzionerà... be'... vorrà dire che ti regalerò un altro maglioncino." scherzò, la voce ancora malinconica.

 Io sorrisi, e poi deglutii, ma il groppo alla gola non se ne andò via. "Allora... almeno fammi venire con te... per favore."

 "No... non se ne parla. Ricordi la promessa che ci siamo fatti? Come il sole e la luna. A Mosca... se ci sono io, non ci sei tu e viceversa. Sarebbe ancora più pericoloso se venissi - fidati di me."

 Sospirai. Aveva ragione purtroppo. Stare insieme non avrebbe fatto altro che peggiorare ogni cosa.

 "Promettimi, allora... che starai in guardia." mormorai, respirando il profumo dolce della sua pelle.

 Misha si separò appena da me in modo che potessimo guardarci negli occhi, e mi sfiorò il mento con la mano, avvicinando la mia bocca alla sua.

 "Promettimelo." lo implorai, le lacrime mi avevano raggiunto il collo, raffreddandolo.

 Misha sorrise, asciugandole.

 "Lo prometto. Davvero." mi disse, e mi coprì tutto il viso di dolci bacetti, premendo più forte sulle mie labbra bagnate. "Davvero."

 -----------------

 Misha partì per Mosca la settimana seguente. Era una strana impressione dover rivedere di nuovo la stazione, sentire il rumore delle rotaie, dopo che credevo che non ci saremmo nemmeno passati per un bel po'. Avevamo deciso di aspettare per almeno quattro mesi prima di rimettere piede a Mosca, eppure Misha era riuscito a convincermi, ed io iniziavo a pentirmene amaramente man mano che ci avvicinavamo al treno.

 L'avevo accompagnato fino alla vettura portandogli la valigia e lasciandomi prendere dolcemente in giro per questo; e anche se fuori ci eravamo salutati freddamente, io avevo distinto una breve scintilla di amore nei suoi occhi. Li conoscevo a memoria ormai.

 Mi ero morso le labbra, ed ero stato assalito da una voglia insormontabile di stringergli la mano per un'ultima volta - avevo il terrore che sarebbe stata davvero l'ultima. Ma il sorriso di Misha mentre entrava in treno mi aveva rincuorato un poco.

 "Stai... stai attento... " gli avevo detto, dandogli una scusante per voltarsi di nuovo verso di me, e per un nanosecondo Misha mi aveva guardato con degli occhi che urlavano: 'Dio buono, come ti bacerei ora!'. Poi aveva annuito ed era entrato.

 Avevo seguito la sua ombra con lo sguardo, finché Misha non era sparito in una delle cuccette. Avevo aspettato per ore ed ore prima di andarmene, sperando che Misha cambiasse idea e facesse fermare il treno, che scendesse e mi raggiungesse alla stazione. Ma tutto ciò non era accaduto.

 Quando ero tornato a casa, ero rimasto per vari minuti sul letto a fissare il soffitto bianco, tentando di scacciare i film mentali che mi stavano già inondando la mente e corrodendo il cuore. Reggevo ancora il mazzetto tintinnante di chiavi in mano, e ricordo che mi era scivolato fuori dal bordo del materasso prima che potessi rendermi conto di starmi addormentando.

 'Starà via per poco.' mi ero detto.

 I giorni mi parevano spenti e spettralmente silenziosi senza Misha, senza le sue battute sarcastiche e la sua risata contagiosa, senza le sue prese in giro e la sua sensuale malizia di quando facevamo l'amore. Non mi ricordavo nemmeno più come fosse vivere da solo. Perfino cucinare senza di lui mi faceva sentire a disagio. Saltavo in aria ogni volta che il telefono squillava - accadeva raramente - e lo afferravo, il cuore al galoppo.

 Io e Misha ci telefonavamo ogni tanto, quando eravamo abbastanza sicuri che nessuno ci avrebbe sentito. Adoravamo quelle stupide conversazioni clandestine. Non ci dicevamo nulla di così importante - volevamo solo sentire l'uno la voce dell'altro per un minuto o due.

 I problemi sorsero solo all'inizio di Dicembre, quando Misha smise di chiamarmi. Preferivo evitare di farlo io, per non metterlo a rischio.

 Ormai era passata più di una settimana da quando Misha si era recato a Mosca. Credevo che non avrebbe tardato a tornare a Leningrado, eppure ogni giorno che passava faceva crescere smisuratamente l'angoscia che mi divorava.

 Un giorno, rovistando nella cassetta della posta trovai una busta bianca nel fondo. All'inizio pensai di non farci troppo caso - poteva anche trattarsi di una semplice bolletta, o qualcosa del genere. Ma poi, quando la poggiai sul tavolo da cucina in mezzo a tutte le altre rimasi perplesso. C'era scritto chiaramente: "Donald King". Aggrottai la fronte, sforzandomi di ricordare, e mi portai un dito sul labbro. Donald era quel tizio del Red Russia, quello che sparlava di me e Misha, quello che per primo aveva notato i miei sentimenti.

 Afferrai di scatto la busta, ed iniziai ad aprirla col coltello sporco di marmellata come meglio potevo. Constatai che era un telegramma - qualcosa di minuscolo. Cominciai a leggere nervosamente, le parole danzavano già sul foglio.

 "Salve Jensen, spero che tu stia abbastanza bene da leggere questa. Misha è nei guai fino al collo, e credo che qui ci sia bisogno di te. Vieni presto, perdonami ma per ora non posso dirti altro."

 Il sangue mi si rimescolò nelle vene e il cuore minacciò di uscirmi dal petto. Presi a sudare freddo, rilessi la lettera sebbene ad ogni volta fosse simile ad una coltellata, ebbi l'impulso di stracciarla, ma poi non lo feci.

 Lo sapevo. Lo sapevo che sarebbe accaduto, maledizione. Me lo sentivo dentro.

 Con le lacrime agli occhi mi rivestii freneticamente, afferrai due cose da mettere in uno striminzito borsone e tutti soldi che avevo risparmiato dal mio lavoretto.

 Schizzai verso la stazione nel giro di mezz'ora scarsa, e mi infilai nel primo treno che trovai.

 Durante il viaggio ero talmente pallido ed agitato che una signorina mi chiese se avevo bisogno che fermassero la vettura per un po'.

 "No, no... devo arrivare il prima possibile." mormorai precipitosamente, e presi a fare dei lunghi respiri per evitare di avere un attacco di panico. Temevo che gli avessero fatto del male, che l'avessero ucciso. I miei presentimenti peggioravano attimo dopo attimo.

 Le ore di viaggio mi parvero infinite, e quando uscii dal treno per poco non caddi di faccia. Mi fiondai in un bar non troppo lontano dalla stazione ed ordinai una birra fredda affinché mi calmasse almeno in parte - peccato che il mio stomaco non reggesse più nulla, e che vomitai tutto e subito.

 Corsi verso il centro di Mosca fino allo sfinimento - non avevo più soldi per un passaggio o cose del genere, e mi maledissi per aver comprato quella schifosa birra. Dovevo correre, correre e basta - correre più veloce che potevo.

 Ma ad un certo punto mi accasciai a terra in un vicolo abbandonato della periferia moscovita, e mi coprii con le mani la testa che mi pulsava tremendamente. Le lacrime mi rigavano le guance, passandomi attraverso i peli della barba che avevo trascurato per giorni.

 Avevo in testa una canzone lenta che Misha adorava, e che anziché calmarmi contribuiva a farmi innervosire. Cercai di rialzarmi, di spolverarmi la giacca e i pantaloni, e presi di nuovo a correre come un matto, la borsa che mi sbatteva su un fianco come al mio ultimo giorno di lavoro al quale non ero andato.

 'Se quella volta non fossi caduto... tutto questo non sarebbe successo,' pensai sfrecciando per strada, gli occhi che gocciolavano, la gente che mi seguiva con lo sguardo, credendomi un matto. 'Se io non fossi caduto... non avrei mai perso quel dannato autobus, non avrei comprato la Matrioska. Non mi sarei ritrovato in Russia e non mi sarei nemmeno innamorato alla follia di un uomo che rischio di trovare in una pozza di sangue. Eppure quella fottuta caduta la rifarei centomila volte pur di conoscere Misha. Per me, ormai, lui è l'unica cosa che conta.'

 Mi fermai un attimo, disorientato a causa del fiatone e delle lacrime agli occhi che mi offuscavano la vista. Feci altri lunghi respiri, la mano artigliata al petto. Ero finito in un vicolo ceco e grigio. Mi guardai attorno, ma vidi solo un mucchio di erbaccia velenosa per terra, e un'auto d'epoca parcheggiata al lato di una vecchia casa in fondo. Il luogo era quasi deserto.

 Sentii una goccia sul naso; stava iniziando a piovere. Chiusi gli occhi nel tentativo di rilassarmi, ma poi sentii un altro rumore e li spalancai. 'Stai in guardia. Stai tranquillo.' mi dissi.

 Un altro rumore - un fruscio in mezzo all'erba più alta di destra. Mi voltai e indietreggiai. I sassolini scricchiolarono sotto le mie spalle.

 Dovevo andarmene, me lo sentivo. Dovevo allontanarmi immediatamente, ma non sapevo dove. In quel vicolo abbandonato non avevo più via di scampo. Ero bloccato lì, ed avevo un orribile presentimento.

 Poi lo vidi sbucare. Un uomo scuro dall'età poco distinguibile, alto e ben messo si stava avvicinando a me in mezzo alla nebbia fitta. Lo misi a fuoco: la barba nera, la cicatrice sulla guancia, lo sguardo inquietante. Gli occhi verdi e in parte oscurati mi fulminarono. Mi stava fissando. Sì. Mi stava proprio fissando.

 "Salve... " mormorai con un fil di voce sorpresa. La sua faccia non mi piaceva. Non capivo che diavolo volesse da me - mi guardava come si guarda uno scarafaggio da schiacciare il prima possibile, un sopracciglio sollevato.

 "Salve un cazzo." ringhiò con un accento marcato, la voce da fumatore, avanzando verso di me. Capii di essere nei guai quando dietro di lui sbucarono altri due uomini altrettanto grossi, e mi squadrarono dalla testa ai piedi con disgusto.

 Aggrottai la fronte. "Ma chi... chi siete voi?"

 Tutti e tre scoppiarono in una risatina inquietante, scuotendo la testa. "Non fare il finto tonto. Sai? Ti abbiamo visto con quell'altro frocio di merda del tuo 'fratellone', come vi chiamate per coprire le schifezze che fate."

 Smisi di respirare e mi sentii morire. E così loro sapevano. Chi l'aveva detto loro? Chi si era azzardato a fare una cosa del genere?

 Tentai di apparire calmo, ma la voce balbettante mi tradì: "Io... io non capisco di che cosa state parlando... "

 "Oh, dicono tutti così. Sì che capisci... tesoro mio. Cosa provi per lui? Ti sei innamorato, eh?"

 Non osai rispondere. Deglutii.

 L'altro rise, posandosi il palmo sulla fronte ampia. "Non negarlo. Ne sei innamorato alla follia, Jensen Ross Ackles. E credi pure che il signor 'mi faccio qualunque cosa si muova' ti ami davvero? Povero ingenuo. Immagino che lui ti voglia solo scopare."

 "Non parlare così, bastardo!" sbottai, incazzato nero. "Lui non mi desidera in nessun modo. Non mi ama... sono solo io che-"

 "Ma finiscila di difenderlo, anima in pena! È vero che tu sei molto più trasparente, ma... anche Misha è evidentemente attratto da te." sbuffò. "Che orrore... i valori di una volta sono andati a finire nella merda - uomo e donna, questa è la vera famiglia. Degli errori della natura come voi non dovrebbero nemmeno esistere. Già direi che il tuo amico scrittore è sistemato; resti tu per ora." disse crudelmente, un ghigno sulle labbra.

 Avvertii un tremito lungo le ossa, e sbarrai gli occhi.

 "C-cosa? Cosa è successo a Misha?" domandai, tremando, il battito mi aumentava ad ogni parola che quel tizio diceva.

 "Davvero non lo sai?" chiese l'uomo alla sua sinistra.

 "Io non so proprio niente." sibilai, il tono furioso.

 Loro emisero una risata malvagia, e poi l'unico uomo che non aveva mai parlato disse: "È... morto, e la colpa è solo tua. Solo... tua, mio carissimo Jensen." scandì.

 Le gambe mi cedettero, e la vista mi si appannò del tutto, in modo che non riuscii nemmeno più a vederli. Non ci credevo; non volevo crederci. Non era successo sul serio.

 "No no no... non è vero... me lo fate apposta, Misha non... non è morto, lui sta benissimo... me lo state facendo apposta, figli di puttana!" urlai, la voce rotta, coprendomi il capo. Non poteva star accadendo a me.

 "Mi fa quasi pena," malignò falsamente il primo, incrociando le braccia.

 "Beh poco importa, finocchio, se è morto o meno... tanto non avrai nemmeno il tempo di constatarlo... " sibilò uno degli altri due uomini alle sue spalle. Non riuscii a capire chi, un fiume di lacrime mi accecava. Ma compresi di essere spacciato.

 Indietreggiai ancora, e la mia colonna vertebrale si scontrò contro il muro in pietra.

 Mi sentii afferrare per il bavero della giacca e spingere fino a farmi sbattere la testa. Prima che potessi perdere i sensi, qualcuno mi mollò un violento manrovescio che mi fece girare la testa e sanguinare le labbra. Caddi a terra con un tonfo; non riuscivo neppure ad urlare. Le lacrime e le gocce di pioggia si mischiarono col sangue che mi riempiva i lati della bocca. Sentivo quel sapore ferroso e insopportabile, avvertivo i colpi, i calci allo stomaco e alla schiena, sentivo che stavo morendo, ma il dolore peggiore era il pensiero legato a ciò che mi avevano detto su Misha prima di pestarmi.

 "Aiuto!" urlai finalmente al vuoto con la voce strozzata, divincolandomi nel buio, mentre uno di quelli mi teneva fermo e l'altro la cui faccia non distinguevo in mezzo alla nebbia si faceva spazio per assestarmi il colpo finale.

 Quello fu il peggiore; mi fece sussultare il corpo, e mi sentii le ossa a pezzi.

 Chiusi gli occhi bagnati e mi accasciai, smettendo quasi di respirare, il mio corpo inerme tremava per terra. Non urlavo più, non mi lamentavo più, e non gemevo. Ero confuso, dovevo certamente avere qualcosa di rotto. Non capivo né sentivo più nulla - solo i tuoni, il suono sincopato della pioggia, ed i passi ovattati di quei bastardi che si allontanavano. Credevano di avermi finito.

 Per la prima volta in vita mia capii che cos'era il vuoto, il non pensare a nulla a parte il dolore lancinante in ogni parte del mio corpo, il sapore del sangue in bocca, l'odore acre della terra bagnata.

 Poi, come una luce fioca nel buio, delle parole spontanee mi uscirono dalle labbra gonfie, come una preghiera ad un angelo:

 "Misha... torna da me ti prego, torna a prendermi, aiutami. Scusami se non ti ho mai dimostrato quanto ti amo." presi a singhiozzare parlando, "D-Dimmi che non è vero quello che mi hanno detto... che non ti è successo nulla. Dimmi che non ti hanno davvero... io ho bisogno di te per stare bene, solo di te... io... io ho bisogno di-"

 

 

Note dell'autrice:
 Ditemi la verità, quanto mi odiate in questo momento da 1 a 10? ;)

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Capitolo 12
*** I'm sorry ***


~~I'm sorry



La prima cosa che avvertii svegliandomi fu il bruciore sui palmi graffiati, e subito dopo la sensazione di umidità sui polsi fradici del sangue che si spargeva sul cemento sporco.

 Il mio corpo tremò leggermente. Freddo, faceva un freddo spaventoso - e pioveva ancora, più forte di prima. Cercai di sollevare il collo intorpidito e scricchiolante per poi pentirmene - mi fece un male che mi costrinse a tornare alla posizione originale. Gemetti stringendo gli occhi, e mi accasciai di nuovo, il corpo a pezzi. Il braccio mi faceva male, avevo l'impressione di star ricevendo tante coltellate sull'osso; le tempie mi pulsavano.

 Durante i primi secondi non capii molto, a stento ricordavo cosa diavolo potesse essermi accaduto - avevo sbattuto la testa, di questo ero certo - ma poi ebbi come una sorta di orribile flash, ed ogni cosa mi tornò in mente.

 Quei tre bastardi, il pestaggio, il dolore allo stomaco che mi opprimeva, la rabbia delle loro parole. Il loro odio infinito per l'amore che provavo io.

 E Misha. Il suo nome mi piombò in mente come un fulmine in piena testa. Dov'era finito? Avevo una paura immensa per quello che poteva essergli successo. E tremavo, tremavo come non avevo mai fatto in vita mia.

 Riprovai ad alzarmi, ed ottenni lo stesso penoso risultato di prima.

 Sentivo perfino la voce di Misha che mi chiamava in lontananza; dovevo star delirando seriamente. Magari avevo una commozione cerebrale, o qualcosa del genere - non ero esperto in materia e non conoscevo i sintomi.

 Eppure la sua voce c'era. Strozzata, lontana, confusa. Ma era la sua. Una versione lacerata della sua voce. E mi chiamava ancora, disperatamente. E se fossi morto?

 "Jensen!" sentii urlare; la pioggia era diminuita notevolmente. "Jensen!"

 Aprii l'occhio gonfio a fatica, sentendomi distrutto e sollevato allo stesso tempo. L'unica cosa che riuscii a distinguere fu un lampione dalla luce fioca e intermittente circondato da un alone di nebbia, e l'acqua che scrosciava e rimbalzava a terra insieme alla grandine, di fronte al mio naso.

 "Jensen!"

 Sorrisi mentalmente. Il mio Misha era vivo, e stava tornando da me. Finalmente vidi a fatica la sua familiare ombra che si avvicinava e si accovacciava accanto al mio corpo, esaminandolo ansiosamente.

 Era lui, non era una visione, quello era proprio Misha. Quelli erano i suoi meravigliosi occhi blu, anche se arrossati dal pianto. Misha rimase immobile per un attimo, la bocca aperta, come distrutto da ciò che stava vedendo. Mi accarezzò il viso sporco, le dita calde e bagnate tremavano come foglie sul mio zigomo.

 "Misha... " iniziai a mugolare, la voce inesistente, gli occhi semichiusi.

 Misha mi guardò, la sua mano ancora sul mio volto, i lineamenti del viso appena contratti, le labbra semiaperte. "Jensen... " disse come un lamento, e scoppiò in singhiozzi convulsi.

 Misi a fuoco i suoi capelli scuri inzuppati, il viso bagnato. Misha piangeva a dirotto, come se fino a quel momento avesse temuto che fossi morto. "Dio mio, c-che ti hanno fatto?" gracchiò, le dita poggiate sulla mia guancia.

 Io desideravo solo tirarmi su, buttargli dolcemente le braccia al collo, baciarlo come prima per fargli capire che andava tutto bene - non sopportavo di vederlo in quelle condizioni - ma non ne avevo la forza. Avevo l'impressione di star morendo. Mi mossi a stento, aggrappandomi al suo cappotto con una mano, stringendo le palpebre per lo sforzo.

 Ma Misha mi bloccò, premuroso. "No no no... stai fermo... stai fermo. Ci penso io, per l'amor del cielo! Potresti avere qualcosa di rotto." farfugliò, sfiorandomi la spalla. Prese delicatamente la mia testa fra le mani e la sollevò appena, sistemando qualcosa di morbido per terra e adagiandomi lì. Lacrimai contro quel piccolo pezzo di stoffa.

 Misha si abbassò, in modo da far incontrare i nostri occhi. Mi sfiorò il dorso della mano, accarezzandolo lievemente con il pollice. "Non temere... ti, ti prometto che si sistemerà tutto... okay?" sussurrò.

 "Io... "

 "Che cosa?" mi chiese Misha, precipitosamente. "Dì qualcosa."

 "Io credevo tu fossi... " mormorai, la voce spezzata. "Credevo che tu... " Le lacrime sgorgavano copiose dai miei occhi. Misha assunse un'espressione triste, e me le asciugò con due dita, scuotendo la testa. Mi baciò accanto all'occhio, schiudendo pian piano le labbra sulla mia pelle.

 "Immagino cosa ti hanno detto. Sono qui, amore - andrà tutto bene. Ti amo, Jensen... m-mi dispiace così tanto." sussurrò.

 Schiusi le labbra, e allungai la mano, cercando di raggiungere la sua. "Per... cosa ti dispiace?" dissi, ma poi il dolore alle tempie mi zittì.

 "Per tutto questo... è stata colpa mia... io... " Si bloccò per un attimo, portandosi una mano sulla bocca.

 Capii subito cosa intendesse. Si era ricordato di Ivan. Ivan era morto dopo essere stato pestato a sangue dal suo stesso padre, e Misha si sentiva colpevole come se fosse stato lui l'assassino. Forse, in quel preciso istante, stava addirittura vedendo la stessa traumatizzante immagine - con me al posto di Ivan.

 "N-non è affatto colpa tua... " dissi. "Non dirlo... non dirlo nemmeno per scherzo." mormorai, la voce roca. Allungai il braccio buono verso il suo viso umido, e percorsi teneramente la linea della sua guancia, senza guardarlo.

 "Sì che lo è... non avrei dovuto lasciarti da solo... avrebbero potuto ridurti molto peggio e... io non me lo sarei mai-"

 "L'hai fatto per me." risposi. "Hai fatto tutto per me... sono io che non sono stato capace di apprezzarlo." aggiunsi; cominciavo a vedere il suo viso come sfocato, e non sapevo se fosse colpa delle lacrime o del dolore alla testa.

 Misha distolse gli occhi, sospirando, e rifletté un momento. "Aspetta... conosco le regole del primo soccorso. So come aiutarti ad alzarti. Dobbiamo andarcene di qui, Jensen... "

 "... ma io non riesco a... "

 "Te l'ho detto. Ci sono io." disse Misha, tentando di mantenere una voce ferma. "Ti fidi di me?"

 "Oh, certo. Ne dubitavi?"

 Misha sorrise fra le lacrime, e si alzò. Si tolse in fretta il cappotto beige, avvolgendomelo addosso con delicatezza. Pian piano, mi aiutò a tirarmi su, tenendo il braccio rotto nella giusta posizione. "Ti fa male?"

 Roteai gli occhi, appoggiando la mano al suo petto, quasi cadendo. "Un male cane... "

 "Spero non sia grave. Non penso... " Misha si sistemò sotto il cappotto con me, in modo che la stoffa ci coprisse completamente le teste. La pioggia intanto era aumentata nuovamente.

 "Accidenti... " mormorò Misha.

 Camminammo per un tratto fra vicoli vuoti e scuri; il braccio mi mandava delle scosse di dolore. I muscoli delle nostre gambe erano come congelati dall'aria vetrosa e fredda.

 "Oddio... sei tutto fradicio... " sussurrai, sbirciando il suo profilo.

 Misha sorrise appena. "Lo so. Ti ho cercato per ore - Donald non mi ha potuto dare delle indicazioni così precise... "

 Strabuzzai gli occhi. "Cosa!? È stato Donald a dirti che ero qui?"

 Misha mi fissò da sotto il cappotto gocciolante, gli occhi ingenui a fessura. "Sì, mi ha detto che aveva avuto l'impressione di vedere uno che ti assomigliava, mentre era a bordo della metro, e mi ha avvertito subito. Se non fosse stato per lui... "

 Un tuono rimbombò nel cielo nero come la pece.

 Io mi rabbuiai. "A proposito di Donald... " feci, il tono nervoso. "Quando ero a Leningrado mi ha inviato una lettera in cui... mi diceva che tu eri in seri guai. Mi ha pregato lui di venire qui... "

 Misha si voltò di scatto, fissandomi con sgomento negli occhi. "Cosa?! Ma che cazzo gli passa per... " Si fermò, costringendo anche me a farlo. Ogni cosa adesso quadrava in modo preoccupante. I nostri occhi si spalancarono nello stesso istante.

 Un fulmine violaceo.

 Un altro tuono.

 "È una trappola... " sibilai con voce fioca, sentendomi morire. Il sangue mi andò alla testa.

 Misha scosse il capo. "Andiamocene. Andiamocene immediatamente."

 Non me lo feci ripetere più volte. Affrettammo il passo più che potemmo, incespicando ogni tanto su qualche pozzanghera, impegnandoci per non scivolare. Cercammo di scappare il più lontano possibile da quel quartiere periferico abbandonato, e ci ritrovammo in un luogo campagnolo e disseminato da alberi. C'era solo una casetta scura in lontananza.

 "Potremmo andare lì... non credo che le voci siano giunte anche in campagna... "

 "Quali voci?" chiesi; la lingua mi si era già attaccata al palato.

 Dal suo viso capii che a Mosca era cambiato qualcosa da quando eravamo partiti. "Che il poco celebre ed egregio autore Misha Krushnic ha una relazione con un uomo."

 Non osai dire una sola parola. Abbassai il capo, cercando di scrollarmi di dosso il senso di colpa che mi consumava, e proseguii verso quella casetta isolata.

 Arrivammo lì di fronte sfiniti, il fiato perso, le scarpe piene di fango. Ci chiesimo se chiunque abitasse lì dentro sarebbe stato tanto gentile da ospitarci in quelle condizioni. Misha bussò gentilmente. Nell'attesa, mi sistemò il cappotto sulla schiena, restando con la sola giacca addosso.

 "Tanto ora entriamo," mi rispose non appena lo guardai.

 Aspettammo un minuto. Non venne ad aprirci nessuno. Le luci erano anche spente, e le finestre parevano tutte chiuse.

 Bussai a mia volta. Niente.

 "Aspetta un momento." mi disse Misha. Tese l'orecchio, e lo appoggiò alla porta in legno. La spinse, ma non si apriva. "Accidenti."

 "Lascia stare Misha. Magari non vogliono... "

 "No... " Scosse la testa. "Non c'è nessuno qui dentro. Guarda l'erba attorno... è tutta cresciuta. E la serratura è arrugginita. Si aprirà... è questione di tempo - fidati di me."

 Misha fece qualche passo indietro, e si preparò per cercare di aprire la porta. Si riavvicinò di scatto, dandoci un'energica spallata e quasi sfondandola.

 "Wao... " mormorai con tono di approvazione, e Misha ridacchiò con un pizzico di orgoglio.

 "Entriamo su,"

 La prima cosa che notai fu la vecchia cucina abbandonata. Faceva freddo pure lì dentro; la temperatura ricordava quella di un igloo, ma era accettabile, e soprattutto confortevole se paragonata alla tempesta che infuriava là fuori.

 "Siediti qui." mi disse Misha, indicandomi una seggiola vicino al tavolo.

 Obbedii, e lo guardai affascinato mentre bloccava la porta meglio che poteva. Andò a cercare dei chiodi, delle assi abbandonate, e qualcos'altro che potesse tornargli utile.

 Appena finì di metterci al sicuro si asciugò il viso e mi guardò con un lievissimo sorriso. Prese un'altra sedia e la fece stridere vicino alla mia, mettendosi comodo lì e portandosi i capelli arruffati all'indietro. Anche conciato in quel modo, Misha era straordinariamente bello.

 Mi tolse parte dei vestiti che indossavo, con calma, e poi esaminò le mie ferite una per una.
 "Cerca di non urlare se senti dolore. Non è prudente." mi sussurrò, carezzandomi i capelli bagnati.

 "Okay... il braccio è rotto?"

 "Probabilmente. Ma credo si tratti di una frattura poco importante." disse, mesto. "Il resto sembrano tutti ematomi, a meno che tu non avverta qualche altro dolore o fastidio. Non preoccuparti."

 Chiusi gli occhi, sollevato. Lo stomaco aveva pure smesso di bruciarmi. Era rimasto solo il nervosismo e la paura che me lo scombussolavano. Gemetti appena, ed appoggiai il palmo sul petto di Misha, fissandolo negli occhi vuoti e spaventati che ancora conservavano una piccola scintilla di lui.

 'Non perdere quella scintilla, amore mio... non perderla mai, qualunque cosa accada.' pensai, senza avere il coraggio di dirglielo in faccia.

 Ebbi un sussulto.

 Un pensiero, un lontano - lontanissimo - ricordo mi travolse, prendendomi alla sprovvista, e mi fece spalancare gli occhi.

 Misha mi prese il viso fra le mani, preoccupato. "Che c'è?"

 Io guardai dentro le sue pupille dilatate, in quell'iride dai colori incredibili, e lo vidi. Mi ricordai di tutto, e fu come un uragano, una tempesta di immagini, parole, sguardi dentro di me.

 Io e Misha ci eravamo già incontrati in passato. Era lui quel ragazzo che mi aveva difeso dai miei bulli storici quando andavo al liceo. Era lui il primo che mi aveva chiesto cosa non andasse, sebbene fosse stato solo uno sconosciuto. Era proprio lui il ragazzo che aveva cercato di baciarmi, carezzandomi i fianchi, lasciando scivolare le labbra calde sulla mia mascella.

 Ed avevo la certezza che anche Misha in fondo se ne ricordasse.

 "Jensen... che ti prende?" mi domandò, scuotendomi dolcemente affinché tornassi in me.

 Mi ripresi.

 "N-noi due... " farfugliai, abbassando lo sguardo. "Noi due ci conoscevamo già... o almeno credo... io... "

 Misha all'inizio mi fissò perplesso, poi rise gentilmente. "Oh, no... stai dicendo cavolate... vieni qui." Mi strinse a sé, baciandomi sui capelli. "Dev'essere stato il trauma."

 Io mi staccai cocciutamente. Volevo che si ricordasse di me.

 "No no no... Misha, ascolta... tu... mi conoscevi... ti sei trasferito in Russia a ventuno anni, giusto?"

 Misha ridusse gli occhi a due fessure, confuso. "S-sì ma... che c'entra questo?"

 La pioggia aumentò nuovamente d'intensità fuori.

 "Prima di partire... hai incontrato un adolescente di circa diciassette anni, biondo, il viso delicato, molto insicuro... e l'hai quasi baciato... non ti dice nulla?" chiesi, speranzoso.

 Misha mi osservò bene, tentò di riflettere. Poi strabuzzò gli occhi per la sorpresa, ed il suo viso si illuminò del tutto. "Tu... f-forse... forse... sì! Dio mio... non dirmi che... "

 Io gli sorrisi, sollevato dal fatto che non se ne fosse dimenticato. "Sì... ero io quel povero piccolo sfigato." dissi in un sussurro, la voce quasi commossa.

 Misha scosse la testa, e sorrise a sua volta. "Roba da matti... io avevo solo ventuno anni. Non ho parole... sembra un segno del destino... "

 Risi. Gli appoggiai la testa alla spalla, facendomi guidare dalle sue coccole. Rimasimo per vari minuti in quella posizione, tremando un po' per il freddo, ma rilassati come se fossimo stati a casa di fronte ad un camino acceso, durante la notte di Natale. Non perché fossimo realmente tranquilli, ma perché eravamo stanchi di sentirci terrorizzati, e volevamo anche solo immaginare di essere al sicuro per un po'.

 Misha mi coprì la guancia sinistra col palmo, e mi posò le labbra sulla tempia destra, tenendomi attaccato a lui. Chiusi gli occhi.

 "Ora dobbiamo scappare. Una pausa qui - il tempo che smette di tuonare così - e poi ce ne andiamo immediatamente. Bisogna cambiare città... "

 "Già... " sussurrai piano sul suo collo, spostandomi. Intrecciai le dita alle sue.

 Ci fu un tuono vicinissimo. Altro rumore di pioggia intensa.

 "Hai mai avuto paura dei temporali?" mi domandò Misha, scherzando per distrarmi.

 Risi appena. "Non se mi trovo in una catapecchia di legno - è isolante."

 "Allora qualcosa la sai." rispose con un dolce ghigno.

 "Ti spingerei se non fossi a pezzi." dissi affettuosamente, e mi protesi di più verso di lui, facendo strofinare i nostri nasi e sfiorare le nostre bocche. Misha si avvicinò alle mie labbra insanguinate, le baciò pian piano, alleviando il bruciore ed appoggiò la fronte calda sulla mia. Sarei rimasto a farmi baciare in quel modo così dolce per sempre.

 Ad un certo punto sentimmo un rumore sordo, e riaprimmo gli occhi, separandoci bruscamente.

 "Cos'er-"

 Misha mi tappò la bocca in tempo. "Sshh,"

 Un altro rumore tremendo. I nostri sguardi puntarono verso la stessa direzione. Era stato un colpo alla porta.

 "Oh, merda... " sibilò Misha, e si alzò di scatto. "Andiamo via."

 "Dove?" chiesi, gli occhi enormi. Barcollai.

 "Sul retro... magari... oh Dio mio... " La voce di Misha si alterò nel giro di pochi secondi. Perfino lui era nel panico, e ciò contribuiva a farmi perdere le speranze. Misha aveva sempre mantenuto la calma in qualsiasi situazione. Correvo accanto a lui, mentre le stanze vuote parevano distorcersi ed ingrigirsi ancora di più.

 "Santo cielo, ma chi cazzo è così matto da andare in giro a cercarci con questi tuoni?" mormorò Misha, il tono disperato, mentre percorrevamo quell'antico corridoio scricchiolante.

 Non c'era nessuna porta sul retro.

 Guardammo il muro, inespressivi; gocce di sudore freddo ci colarono sulle tempie.

 Un altro colpo violento ci fece fremere. I nostri occhi lucidi si incontrarono.

 Era la fine, e lo sapevamo.

 Sentivamo i colpi alla porta che si confondevano coi tuoni. E ad entrambi venne in mente lo stesso pensiero.

 "Mi dispiace." mugolò Misha, il capo basso.

 Gli poggiai una mano tremante sulla spalla e lo abbracciai, scoppiando in singhiozzi. "Dispiace a me."

 Misha mi sfiorò il collo con le dita, e mi diede un ultimo meraviglioso bacio, stringendomi a sé.

 Mi coccolò per due secondi l'ultima volta, prima che quelli rompessero la porta e facessero irruzione lì dentro.

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Capitolo 13
*** Sevvostlag ***


Hello good people! Dopo questo capitolo mi odierete a morte... dunque sedetevi comodi e poi leggete!
In collaborazione con la mia prof di storia che mi fornisce le info... ecco a voi lo sfogo delle mie vecchie sofferenze. Vvb e buona lettura<3

 
                   Sevvostlag



Accadde tutto così in fretta che a stento riuscivo a ricostruire nella mia mente i fatti, le parole, le immagini in ordine cronologico.

Non ci volle molto tempo trascorso in quel piccolo treno per giungere al gulag, ma probabilmente fu una mia impressione causata dallo dallo sconvolgimento.

Io e Misha eravamo stati trovati, portati via dal nostro esiguo rifugio come degli animali senza dignità - trascinati a peso in un luogo che non avrei mai pensato di dover conoscere.

Non riuscivo assolutamente a capacitarmi dell'orrenda realtà della situazione, nemmeno sbirciando Misha sul sedile di fronte al mio. Teneva il capo basso, segno tipico di quando aveva paura, e gli occhi ormai spenti fissi sulle manette. Il suo trench beige era spiegazzato sui polsi, e gli copriva a stento le ginocchia. Non avevo idea di cosa gli stesse passando per la testa durante quella terribile attesa, ma l'unica cosa certa era che non sarebbe mai più stato lo stesso.

Io alternavo lo sguardo fra il paesaggio notturno che correva fuori dal finestrino e sembrava fuggisse, Misha, e quei visi freddi ed ostili che ci tenevano d'occhio e ci osservavano da un angolo della cuccetta. Percepivo da parte loro un astio, un odio infinito, inspiegabile. Un disgusto per ciò che eravamo, per i sentimenti che provavamo l'uno per l'altro. Mi chiedevo con quale scopo venissero a cercare gli omosessuali - in fondo a loro non sarebbe cambiato nulla se un uomo avesse fatto l'amore con un altro uomo. Da americano del ventunesimo secolo, non mi capacitavo quasi di essere stato arrestato per un motivo del genere, eppure era la cruda realtà.

Inoltre, non riuscivo a comprendere se il silenzio che aleggiava in quel treno avrebbe dovuto rassicurarmi o farmi stare ancora più in tensione.

Misha alzò appena il collo, cambiando posizione per la prima volta dopo tutte quelle ore ed attirando la mia attenzione, la fronte corrugata sotto i ciuffi di capelli scuri che gli ricadevano sul viso. Si morse nervosamente le labbra.

Notai che evitava il mio sguardo come la peste, anche se per un nanosecondo. Credeva di sicuro che ce l'avessi con lui.

Intanto, il dolore all'osso rotto ed alla testa mi impedivano in parte di ragionare con lucidità. Le manette non mi permettevano di tenere il braccio adeguatamente. Ero più o meno consapevole di cosa mi aspettasse, eppure mi sentivo quasi senza emozioni, come apatico.

Prima dell'arrivo, la mia fantasia sconfinata aveva disegnato una sorta di campo di concentramento grigio che odorava di polvere, un posto tetro e brulicante di minatori ridotti a degli scheletri.

Inutile dire che ciò che avrebbero visto i miei occhi era qualcosa di mille volte peggiore.

La vettura si fermò bruscamente. Guardai di sfuggita l'orologio da polso di uno di quei tizi. Le sei e mezzo del mattino.

Uscimmo dal treno - ci buttarono fuori da esso, spingendoci con violenza, trascinandoci per le manette che ci raschiavano i polsi. Trattenni dei gemiti di dolore acuto alla frattura.

Misha mi aveva sussurrato qualcosa - qualcosa che non ero riuscito a sentire, dato che l'aveva detta con voce fioca, guardandomi inespressivo e poi girandosi subito dopo uno strattone di quelli.

Li avrei uccisi, li avrei uccisi tutti con le mie mani se solo avessi avuto la possibilità di farlo. Era un istinto naturale che prendeva il sopravvento in me ogni volta che facevano qualcosa a Misha.

Ci condussero verso una stanzetta scura, e ci rivolsero varie domande - Misha rispose per me ogni volta.

Io lo fissavo addolorato, la schiena schiacciata al muro, mentre Misha pronunciava quelle frasi stentate, l'accento russo storpiato che i mille sospiri rendevano ancor meno comprensibile. Non capivo quasi nulla di quel che si dicevano, ma i toni e le espressioni facciali di quei bastardi in uniforme lasciavano intendere ogni cosa.

Ci fecero uscire, ci perquisirono dalla testa ai piedi, ci pesarono.

Occhi chiusi, come per scacciare tutto quell'orrore che stava per avvenire. Pugni serrati.

'È solo un sogno, Jensen... è solo un terribile incubo. Ora ti sveglierai. Ti sveglierai sudato e tremante, atterrito, ma poi vedrai la sua stanza, vedrai lui... sentirai il suo profumo, la sua voce soave e roca allo stesso tempo. E capirai che in realtà sei a casa, che Misha non si è mai allontanato da te, che hai fatto un lungo, terribile sogno. Ci riderai su. Ci riderete su, e Misha ti prenderà in giro perché 'sei sempre troppo pauroso ed ansioso', perché credi di vedere il futuro, mentre invece ti sbagli, perché lo ami talmente tanto che preferiresti morire piuttosto che perderlo. Vi alzerete dal letto, vi avvolgerete delle coperte addosso per attenuare i brividi e farete colazione al buio, nascosti, al sicuro e al caldo come sempre. A casa.'

Questi pensieri positivi affollarono la mia mente per non molto, per poi lasciare il posto ad una sensazione di angoscia e terrore.

Non mi svegliai mai.

Non vidi nulla di bello o di rassicurante dopo le ispezioni; solo sguardi schifati, solo sofferenza.

Non sentii la risata melodiosa di Misha; solo urla, frastuono, frasi in russo del nord, colpi di legna spaccata che venivano da fuori.

I gulag somigliavano decisamente ai campi nazisti; distinsi un piccolo gruppo di detenuti che erano appena stati arrestati, e si agitavano in un modo che faceva venire i brividi. Era più che evidente che erano nuovi - non erano pelle ed ossa come gli altri.

Guardai Misha di soppiatto,  battendo i denti per il freddo. Capii subito cosa pensava in quell'istante, e mi andò il sangue alla testa.

'Non pensarci. Non pensarci nemmeno. Peggiora le cose.' mi dissi mentre venivo strattonato via assieme a Misha.

Quando mi afferrarono per il polso buono - fu un caso che fosse quello buono, non gliene fregava più di tanto - e mi separarono da Misha non riuscii nemmeno a pensare a qualcosa di concreto.

Già non ero più io.

E Misha non era più lui, ancor prima di iniziare quel calvario. Lo vedevo nei suoi occhi blu spaventati che lo facevano sembrare un bambino, lo percepivo - e mi faceva male. Il terrore ed il senso di colpa l'avevano trasformato.

'Non perdere quella scintilla, amore mio... non perderla mai.' Pregai mentalmente, guardandolo da lontano. Le guardie mi stringevano le spalle, tenendomi fermo dov'ero.

Stavano portando Misha chissà dove, mentre io mi divincolavo per raggiungerlo e venivo automaticamente riportato indietro da uno di quelli. Mi sentii impazzire.

"Stai fermo, figlio di puttana!" mi urlò uno di quelli con quell'inglese stentato, mentre io cadevo a terra, il palmo che premeva sul braccio.

Strinsi le palpebre. Mi sentii prendere per il colletto e sollevare con poca grazia da terra. "Cammina, disgraziato. Hai un braccio rotto, non una gamba rotta." ruggì quello nel mio orecchio. Tenni gli occhi chiusi per un secondo e poi li spalancai. Volevo dargli un pugno in pieno volto, ma cambiai idea non appena mi ricordai del posto in cui ero. Non avevo alcun potere lì, ma nonostante ciò ringhiai con fare minaccioso: "Dov'è lui!?"

La guardia mi incenerì con quegli occhi color ghiaccio. "È proprio dove andrai tu dopo che ti sarà passato questo. Entra e basta." disse, deciso; il suo pallido viso arrossì inspiegabilmente. Mi indicò la porta di un lungo edificio color ruggine dal tetto basso.

Io rimasi rigido, gli occhi che vagavano disorientati per il campo, esploravano i dintorni, il palmo premuto sul braccio come se avesse potuto calmare il fastidio.

Vedendo che io non mi muovevo da dov'ero, la guardia mi prese per i fianchi facendosi aiutare dal suo collega, e mi spinse con violenza verso la porta, lasciandomi quasi scivolare dentro quel padiglione semivuoto. Io mi aggrappai al muro grigio. Un dolore indescrivibile dall'omero mi strappò un patetico gemito.

Fissai le celle luride, i detenuti poco vestiti ed accasciati su sé stessi sul pavimento, e quella specie di infermeria con poco riguardo per i pazienti. Dei feriti del lavoro. Queste erano le prime cose che avevo messo a fuoco, in quel modo offuscato e confuso in cui si vedono le cose quando si è agitati. Il cuore mi stava per esplodere in petto.

Osai voltarmi verso l'uscita per un ultima volta, ma gli occhi della guardia mi suggerirono di non provare nemmeno a varcarla, per cui preferii mettermi faticosamente in fila con gli altri.

Quando fu il mio turno, un uomo pelato mi fasciò frettolosamente il braccio, tenendomi fermo il bicipite; poi fui rinchiuso fra quelle sbarre d'acciaio.

Mi accartocciai su me stesso come una foglia secca, la mente ingombra di pensieri. Il freddo era l'unica compagnia in quella stanza stretta - se si poteva chiamare stanza. Non c'era assolutamente nulla all'interno. Io ero l'unico corpo che la riempiva. 

Sapevo che quando sarei guarito mi avrebbero costretto a tagliare la legna, esposto al gelo della Siberia. Non avevo quasi nulla di adatto a quel clima addosso, e tremavo violentemente di freddo già dentro quella schifo di cella, eppure avrei dato qualunque cosa pur di rivedere Misha, pur di sapere che stava bene, che non gli avevano fatto nulla.

Non riuscivo a non pensare a lui. Avevo in mente solo il mio uomo che doveva starne passando di tutti i colori, mentre io me me stavo lì con le mani in mano, e non potevo fare nulla per impedirlo. L'impotenza era la peggior sensazione che avessi mai provato, il non poter salvare la persona che amavo dalle grinfie di quei mostri.

Intanto, come se non bastasse la mia fervida immaginazione, ogni giorno vedevo continuamente passare detenuti in condizioni penose; alcuni non parlavano nemmeno più, tremavano tutto il tempo, traumatizzati o infreddoliti.

Uscivo di rado da quel posto - ero costantemente sotto osservazione - e mangiavo crusca o pane vecchio.

Una volta fui perfino costretto ad assistere ad una violenza sessuale nei confronti di un uomo gay. L'avevano sbattuto al muro, l'avevano spogliato e l'avevano stuprato senza un minimo di pietà, tenendolo fermo in tre come se già non fosse abbastanza scarnito da essere facilmente dominato da una sola persona. Mi veniva la pelle d'oca solo a sentire le sue urla strazianti, ed ero terrorizzato all'idea che potessero fare qualcosa del genere a Misha.

Così mi ero accovacciato al contrario nella cella, dando loro le spalle, con l'unico fine di risparmiarmi quella scena tremenda.

Mi passai le dita del braccio non fasciato sulla fronte.

Misha. Ormai era più di una settimana che non lo vedevo, ed avevo l'impressione di dover morire di crepacuore ogni volta che mi svegliavo - le rarissime volte che mi addormentavo per un paio di ore.

Non avevo idea di cosa gli stesse succedendo. Era stato lui a spiegare a quel bastardo che ci aveva portati lì che avevo il braccio rotto. L'aveva detto precipitosamente, le lacrime agli occhi. Era stata una delle poche frasi che avevo capito di quel discorso. Misha aveva cercato in tutti i modi salvare me innanzitutto, anziché sé stesso, e da quel momento mi ero davvero reso conto di quanto mi amasse.

Per la prima volta dopo nove giorni che ci trovavamo lì, delle lacrime bollenti mi rigarono il volto sporco e scesero a bagnare la sciarpa strappata di Misha. La strinsi.

Nel frattempo, un tizio stava per essere frustato nella cella di fronte alla mia. Chissà poi perché. Perché non aveva aderito al partito comunista, perché era omosessuale, perché secondo loro meritava di essere trattato in quel modo. Non importava perché. Un uomo, un figlio, forse un padre di qualcuno stava per essere torturato crudelmente. Nessun rimpianto, nessun dispiacere. Li facevano a pezzi brano a brano, sia i loro corpi sia le loro anime, finché non restava più nulla dei vecchi loro.

Spesso mi soffermavo a fissare la prima guardia che mi aveva fatto entrare là dentro, quel biondo dagli occhi cerulei di circa trent'anni che sembrava eseguire degli ordini meccanici; non diceva quasi mai una parola - l'unica volta che avevo sentito la sua voce era stato il primo giorno. Si muoveva come se fosse stato un robot telecomandato. Non era una persona. Non c'era alcuna umanità nel suo viso rigido, né in lui.

Fu proprio questa guardia a portare indietro Misha, un paio di giorni dopo. Lo trascinò vicino alla mia cella, e lui afferrò una sbarra col palmo, rivolgendomi uno sguardo disperato. Quasi non lo riconobbi. "Jensen... " mormorò piano, ansimando, gli occhi ingrigiti. Non aveva più voce.

Strabuzzai gli occhi, e mi alzai di scatto dalla mia posizione fetale, barcollando. Misha pareva già dimagrito.

"Misha?" Erano giorni che non pronunciavo quel nome.

La guardia ci fissò per un attimo, sbattendo gli occhi inespressivi, e poi disse solo un secco: "Tacete." senza quasi muovere la linea dritta che aveva al posto delle labbra.

"Che cos'hai?" chiesi a Misha, senza dare conto alla guardia. Gli sfiorai la mano, e provai la scossa elettrica della prima volta che aveva intrecciato le dita alle mie.

'Distruggerete tutto di me, ma mai quello che provo per lui.' pensai.

"Mi sono ferit-" tentò di dire Mish, ma la guardia sbuffò e lo portò via, in fondo al corridoio, in una delle ultime celle.

"Misha!" urlai con la poca voce che mi era rimasta in gola.

"Tappati la bocca!" mi gridò quello da lontano.

Mi zittii, e mi coprii la testa con i palmi graffiati. "Dio mio." mugolai. Ero nervoso, distrutto, rabbioso, ed avevo fame. Non avevo mangiato quasi nulla per una settimana.

Ma soprattutto avevo bisogno di Misha, un bisogno assoluto di sfiorare la sua pelle di nuovo. Mi aveva fatto sentire vivo.

Quella stessa notte mi affacciai tra le sbarre, mentre tutti dormivano; la guardia stava fumando qualcosa di fronte a me, una bottiglia di vodka mezza vuota in bilico sulla mano destra.

Tossii per attirare la sua attenzione. Lui si girò di colpo, e mi squadrò dall'alto in basso. Il suo viso non mutò per nulla.

"Hey... " sibilai.

"Niet." mi disse quello subito, e fece un tiro, contraendo le labbra sottili. Fece un anello di fumo e bevve un sorso di vodka.

Strisciai a terra, avvicinandomi un po' di più. "C-cosa?" chiesi.

Lui si girò di nuovo, pigramente, la sigaretta penzolava dalla sua bocca. Mi lanciò un'occhiataccia. "Ho detto... no." scandì.

Stetti ad osservarlo per vari minuti, tacendo, stringendo la sbarra fino a farmi venire le nocche bianche. Ero consapevole del fatto che si sentisse osservato e che prima o poi avrebbe reagito. Ma era talmente statuario da farmi incazzare a morte.

"No a cosa?" domandai, il tono neutro.

Lui roteò gli occhi. "A qualunque cosa tu stia per chiedermi, Jensen Ross Ackles. Non ti accontenterò mai. Non posso." sussurrò, freddamente.

Rabbrividii, ed abbassai il capo.

"Sta... sta male... " dissi, come un'affermazione che in realtà era una domanda.

Lui sospirò stancamente, e finì la bottiglia di vodka. Giocò con la brace della sigaretta.

"Chi? Krushnich, dici?" Si limitò a fare spallucce con fare superficiale.

Io deglutii, con l'espressione più supplichevole che conoscevo. "Ha q-qualcosa di rotto?"

La guardia schiacciò la cicca della sigaretta con la punta dello stivale, come per sfogo. "È probabile. È-" disse. La sua voce fece eco là dentro.

Ridussi gli occhi a fessura.

"È... cosa?"

Stava per dirmi qualcosa che alla fine aveva preferito tenersi per sé.

"È caduto da un burrone," rispose lui tutto d'un fiato.

Io chiusi gli occhi. Riuscivo a sentire il respiro ritmato dei detenuti che dormivano, agitandosi nel sonno, ogni tanto mugolando il nome di qualcuno.

"Sta... sta morendo... " mi uscì dalle labbra, come un suono sordo, scricchiolante. Mi bruciava la gola come se avessi urlato inutilmente per ore.

La guardia mi fissò. Forse non era così, ma mi parse di vedere quegli occhi così gelidi velarsi. Parevano due iceberg sciolti. "Da." Distolse immediatamente lo sguardo.

Rimasi immobile, la gamba che iniziava a formicolare sotto il peso del mio corpo.

No.

"...me lo faccia vedere, allora... " dissi, senza respirare.

Lui sbatté le palpebre. Tacque.

"Prima che lui muoia... devo dirgli una cosa estremamente importante... la prego... me lo faccia vedere... " mormorai. Stavo piangendo di nuovo. Ancora. "La... la prego... "

Odiavo comportarmi in quel modo, ma non potevo farne a meno. Aveva lui il coltello dalla parte del manico.

La guardia si alzò dalla seggiola malridotta. "Mi pare di essere stato abbastanza chiaro. Non posso fare nulla per te. Mi dispiace. Dobriy viecher." Mi lanciò qualcosa dentro la cella che all'inizio non distinsi nel buio, ed uscì.

Era un pezzo di pane di fronte a me. Lo afferrai di scatto, tastando la mollica tiepida, e feci per portarlo alla bocca. Ma poi un pensiero mi fulminò.

Mi affacciai attraverso le sbarre strette. Non riuscivo a vedere Misha. Doveva trovarsi in fondo.

Volevo dargli il mio pane - desideravo salvarlo a tutti i costi, fosse stata l'ultima cosa che facevo.

"Misha... " chiamai piano. Niente. "Misha... "

"J-Jensen... " mi parve di udire. Spalancai gli occhi e tesi l'orecchio.

"Sei sveglio... dove sei?"

"Due celle più avanti." mi disse la sua voce. "La mia gamba... io... "

"Cosa è successo? Dimmelo."

"Sono caduto. Sono troppo debole... ma sto bene, Jens. Sto bene."

"Non è vero... "

Silenzio.

"È vero. Mi riprenderò. Devo solo riposare." Sentii un fruscio di stoffa sul pavimento ruvido. Non era così lontano, constatai. Mi leccai le labbra e scrocchiai il collo.

"Misha... mi hanno detto che-"

"L'ho sentito; fingevo di dormire, come faccio d'abitudine. Cazzate."

"Mi dispiace... " mormorai. "Ascolta... devi rimetterti in forze... hai bisogno di mangiare... prendi."

"Che... che cosa devo prendere?"

"Il pane che mi hanno dato."

"No," disse secco Misha. "Nemmeno per scherzo. Mangialo tu e basta. L'hanno d-dato a te."

"E a me non me ne frega un cazzo." Mi sporsi di più. Uscii il braccio, stringendo forte la mollica biancastra. Stavo morendo di fame. Il mio stomaco urlava. Ma salvare Misha era la cosa che contava di più.

Guardai alla mia destra.

"Due celle più avanti." ripetei fra me e me, come per studiare la distanza.

"Jensen... n-non ti azzardare a-"

"Tu non ti azzardare a rifiutarlo." replicai, deciso. "Avvicinati alle sbarre, Misha." aggiunsi.

Un detenuto si rigirò sul suolo, grugnendo.

Altri fruscii confusi.

"Mangiane almeno metà." mi implorò Misha.

"No. Tu sei molto più grave di me. Io sono okay... a parte il braccio... e... ed il freddo."

Allungai le dita, pronto a lanciare il tozzo di pane. Tre metri all'incirca. Ce la dovevo fare per forza. Sospirai, presi la mira e feci scattare il polso. Il pane rotolò accanto alla sua cella, proprio di fronte alla prima sbarra. Aspettai, gli occhi fissi lì.

La sua mano lo prese e lo introdusse dentro la cella. Sorrisi di sollievo.

"Sei completamente pazzo, lo sai? Grazie." Questa fu la sua risposta, il tono di rimprovero, ma con una punta di dolcezza alla fine della frase.

"Ti amo." sussurrai, ma poi udii dei passi pesanti e mi ammutolii del tutto.

Tornai alla posizione di prima, tremando. Il freddo mi congelava le ossa, in particolare quello rotto. Trattenni il respiro ed appoggiai la testa alla parete.

Mi addormentai dopo un paio di ore, senza più pensare a nulla.

-------------------

Un rumore secco, metallico. Qualcuno che bussava. Non lo stavo sognando - era vero.

Aprii un occhio, e mi strofinai l'altro. "Chi... chi è?" Mi rigirai, ancora avvolto da una patina di sonno.

"Sbrigati."

"Chi-"

"Sshh! Sbrigati. Alzati." Non conoscevo quella voce autoritaria, non mi era familiare, ma poi lo misi lentamente a fuoco. Era la guardia.

Schiusi le labbra sanguinanti per il freddo. "C-cosa... ?"

Sentii delle chiavi tintinnare dalle sue dita. "Porca troia, muovi il culo. Vuoi vederlo sì o no?" mi domandò, sgarbato.

Aprii gli occhi e mi alzai di scatto tanto che mi girò la testa per vari secondi, lo stomaco contratto. "Sì," dissi stupito dal suo gesto, annuendo. "Certo."

La guardia mi fissò; introdusse cautamente la chiave nella serratura, guardandosi attorno.

"Non ti provare a fare rumore... altrimenti sono fottuto io, e poi lo sei anche tu."

Feci un frettoloso segno l'assenso, abbassando il capo, e fui liberato da quella piccola prigione.

Camminai al fianco di quel tizio fino a raggiungere la sua cella, finalmente entrando nel suo raggio visivo.

Eccolo lì.

Misha era magro, scarmigliato, coperto da poca stoffa; la barba gli era cresciuta. La gamba sinistra era evidentemente rotta, l'ematoma visibile attraverso gli strappi sui pantaloni.

Mi fece una tenerezza immensa in quelle condizioni.

"Amore... " sibilai.

Dovetti trattenermi dall'urlare di rabbia per quello che dovevano avergli fatto passare in mezzo mese.

La guardia si portò un indice sulla bocca, dicendomi così di tacere. Io strinsi le labbra rimanendo in apnea, come se un semplice sospiro avesse potuto svegliare tutti.

La guardia aprì la cella di Misha, e mi lasciò entrare lì.

Io mi gettai quasi a terra accanto alle sue ginocchia. Strisciai lì accanto, abbassando la testa, toccandogli il petto gonfio. Le sue labbra costantemente screpolate dal freddo ed il viso rilassato mi trasmisero calma, come se Misha stesse riposando a casa e non sul pavimento sporco di un carcere.

Avvolsi dolcemente la sua vita con un braccio, avvicinai il mio viso al suo in modo da sentire se respirava ancora.

Respirava.

"Oh, grazie a Dio." sussurrai a bassa voce. Gli scostai i capelli dal viso cosparso di fuliggine, e gli baciai l'angolo della bocca, circondandogli la mascella con le labbra, carezzandogli le ferite sul petto. Una mia lacrima gli bagnò il collo. Il suo profumo c'era ancora, ed era meraviglioso nonostante la punta di polvere da miniera e fumo.

"Mi dispiace... " dissi, la voce malferma, scuotendo la testa.

Misha mi sorprese muovendosi un po', ed emise un breve lamento. Si stava svegliando.

"Amore... " sibilai. Le mie dita gli percorsero il volto, giungendo sull'attaccatura dei capelli, e Misha aprì gli occhi blu. Erano diversi, proprio come avevo visto quel giorno - non era un'illusione. Mi si strinse il cuore.

"Hey... t-tu... "

"Sshh... " bisbigliai dolcemente, due dita sulle sue labbra. Le pulii dal sangue. "Non dire nulla, Mish... "

Mi scostai; mi tolsi a fatica la giacca che avevo addosso e la sistemai su di lui, in modo che gli proteggesse il capo e le spalle. L'aria era gelida perfino là dentro - era ormai Dicembre inoltrato. Aderii il mio corpo al suo con delicatezza, per scaldarlo col mio calore. Gli circondai le spalle col braccio buono ed affondai il viso sull'incavo del suo collo, trattenendo i singhiozzi. Ormai era una mia prerogativa cercare di non piangere.

"N-non puoi morire così... " Battevo i denti mentre parlavo. "T-tu starai bene... si risolverà tutto-"

"Non si risolverà un bel niente, Jensen... lo sai." mi interruppe Misha.

Io mi rabbuiai. "Ma... "

"Ho capito ormai come stanno le cose, non sono nato ieri. Ha ragione lui... " disse come un soffio, a fior di labbra, indicando la guardia con un breve cenno del mento.

Scossi di nuovo la testa, le lacrime mi avevano raggiunto il collo. "No, no... tutto questo finirà... te l'assicuro... e lo sai anche tu... piantala di dirlo... piantala, ti prego... "

La sua mano risalì la stoffa scura della mia giacca sulla schiena, e mi coccolò debolmente. Misha mi guardò con tristezza, facendomi commuovere ancora di più.

"Non te ne andare... " Le sue dita mi toccarono il viso, con quel fare paterno ed affettuoso che mi aveva fatto innamorare alla follia.

"Ti amo, Jensen... ma tu... devi imparare a... ad accettare la realtà... prima lo farai e meglio sarà... "

"No... "

"Anche io volevo vivere con te. Lo desideravo con tutto me stesso. A New York... io e tu... in una modesta casa di periferia... ovunque. Avremmo festeggiato assieme il Natale, guardato film stupidi." Le sue dita mi asciugarono il viso. "Ci saremmo sdraiati sul divano parlando del lavoro, di noi. Avremmo fatto la doccia assieme. Avremmo cucinato assieme. E tutti i ricordi qui...  s-sarebbero stati lontani, tanto lontani."

"Ma noi... lo faremo... faremo tutte queste cose... " protestai, senza crederci più nemmeno io. Spostai il viso, e lo fissai negli occhi umidi.

Non sapevo nemmeno quando avevamo iniziato a baciarci, pian piano, le mie labbra carezzavano le sue, lenendo le ferite.

"Mi manchi già, Mish... " sibilai, ad un millimetro dalla sua bocca.

Lui ripiegò la testa da un lato, e mi rivolse quello sguardo ingenuo che adoravo. "Ma... sono qui adesso."

"Dimmi che non te ne andrai... "

Misha sospirò lungamente. "Non posso fare promesse che non manterrò... "

Restai immobile. Era vero, non poteva promettermelo. Non avrebbe avuto senso.

"Illudimi allora. Sii credibile, fammelo immaginare per un secondo... " lo implorai.

Calò il silenzio.

Misha mi fissò, confuso, ma poi sorrise appena come illuminato, giocando coi miei capelli. "Non me ne andrò mai davvero. Non ti lascerò mai... lo prometto."

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Capitolo 14
*** War ***


War





FLASHBACK  1941 

 
"Avanti, sparate! Cosa aspettate?! Tu, figlio di puttana, resta giù! Ma che diavolo fate voi due?!" 
 
Quella voce squillante ed autoritaria rimbombava nell'aria tersa, confondendosi con le urla, il fischio delle pallottole, gli spari sempre più vicini. La barca dell'Armata Rossa non faceva che agitarsi in mezzo alle onde scure, ed un tuono proprio sopra le loro teste coprì il frastuono infernale per un secondo. 
 
Misha aveva sparato due colpi poco prima, gli occhi vigili ma vitrei per la paura, e dopo si era accovacciato in un angolo della barca, la fronte sudata. Non era la prima volta che partecipava ad un attacco militare - ormai era stato arruolato da parecchio tempo - eppure era convinto che non si sarebbe mai abituato a quella sensazione di panico crescente. 
 
"Krushnic!" 
 
Qualcuno aveva urlato il suo cognome dietro di lui, fendendo quella raffica di fischi e rumori sinistri della barca. 
 
Era stato Emmanuel Frank Parker, un ventenne biondo originario del Galles con cui Misha aveva fatto conoscenza quando era entrato nell'esercito. 
 
Misha si voltò di scatto verso il soldato che lo fissava con gli occhi azzurri spalancati. "Cosa c'è?!" urlò Misha a squarciagola, un lampo gli illuminò il volto sbiancato. 
 
Scivolò da una parte battendo i gomiti quando la barca vacillò pericolosamente. Non importava se ciò fosse dipeso dai buchi alla base provocati dai nemici o dalla tempesta che stava infuriando su di loro. Stavano rischiando di morire tutti - come sempre del resto. 
 
'Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie... ' 
 
Misha aveva questo verso di Ungaretti scritto sull'interno dell'avambraccio con una penna, come per ricordare a sé stesso cosa significasse combattere in guerra. Rischiava di morire ogni secondo in più che passava sul campo, così come tutti gli altri suoi compagni. Solo lui sapeva la traduzione di quella poesia italiana, e la diceva a chiunque gliela domandasse. Non ricordava di essere mai stato così spento ed apatico in vita sua.
 
"Stai con la testa giù! Sparano verso di te!" gridò Emmanuel a Misha, per poi girarsi di scatto e puntare il fucile verso la direzione opposta. Premette il grilletto liberando ben cinque proiettili uno dopo l'altro, quasi senza che il rinculo degli spari gli facesse perdere l'equilibrio. Pareva nato per farlo, pensò Misha mentre si alzava a fatica dalla sua posizione nonostante il consiglio di Emmanuel. Quella mattina si era sentito male ed il viaggio in barca in pieno temporale era stato la ciliegina sulla torta - a stento si reggeva in piedi. Aveva pregato per ore nella sua tenda, affinché non ci fosse nessun attacco nemico almeno per quel giorno, ma non aveva funzionato. Ovviamente. 
 
Gli girava ancora il capo quando si appoggiò al parapetto della nave dopo essere stato urtato con violenza da un militare. 
 
Alzò gli occhi verso il cielo nerastro e pieno di sprazzi grigi; sembrava il colore della sua anima frustrata. Era distrutto, arrabbiato, furioso con la persona che l'aveva fatto finire in mezzo a quel casino, che l'aveva privato della persona di cui era innamorato - il povero Ivan. 
 
Un ragazzo innocente che era dovuto morire fra le sue braccia. 
 
Lo vedeva spesso in sogno nelle notti passate in tenda, lo sentiva urlargli contro che era tutta colpa sua, che lui gli aveva rovinato la vita facendogli scoprire di essere omosessuale, che l'aveva messo nei guai, che l'aveva fatto uccidere.
 
E Misha non riusciva più a sopportare nulla di quella situazione. Aveva solo voglia di piangere, di urlare, di rompere qualcosa. Si sentiva un mostro.  
 
Era stato irrimediabilmente macchiato da quell'esperienza, e in quel momento un pensiero fulmineo gli guizzò in mente. 
 
Doveva pur sfogarsi in qualche modo. 
 
Senza ragionarci su nemmeno per un altro istante, Misha corse in avanti, sistemò il fucile fra le mani in una posizione più stabile e prese la mira verso la nave tedesca. Sparò tre proiettili, e vide qualcuno precipitare in mare, in mezzo alla nebbia densa. 
 
Aveva appena ammazzato un uomo - per la prima volta in vita sua. 
 
Non ebbe neppure il tempo di sentirsi un assassino che un altro proiettile sfrecciò nella sua direzione entrando nel suo braccio sinistro e facendolo barcollare. Misha cacciò un urlo acuto. 
 
Per fortuna, una mano salda lo prese prima che potesse cadere oltre il parapetto. 
 
"Krushnic, ma che cazzo fai?!" La voce di Emmanuel. Di nuovo. 
 
Misha era caduto a terra, ed il medico di bordo lo stava raggiungendo. Un rivolo di sangue scivolò sul legno fradicio; il dolore gli mozzò il fiato. Strinse i denti e gemette, l'odore del sangue era penetrante, forte. Sapeva di aver perso il controllo di se stesso. 
 
'Non... volevo diventare questo... non volevo... ' mormorò, non sentendo più nulla. 
 
Era svenuto. 
 
----------------
 
PRESENTE
 
'Non me ne andrò mai davvero. Non ti lascerò mai... lo prometto.' 
 
Lo prometto. 
 
Me l'aveva promesso, o almeno l'aveva detto. 
 
Le sue parole deboli avevano fatto eco nella mia testa, confondendosi con i miei pensieri. 
 
Ormai ero certo di star quasi dormendo, nonostante il vento gelido mi graffiasse violentemente la pelle, penetrando nella cella attraverso le sbarre e fischiando là fuori. Stava nevicando - lo percepivo, o forse era solo un'illusione. 
 
Mi ero addormentato fra le braccia dell'uomo che volevo salvare, l'uomo che volevo amare per il resto della mia vita. 
 
Non avevo più fiato per gemere, né per parlare. Il freddo mi aveva ghiacciato i muscoli, le ossa.  Semplicemente dormivo, la testa morbidamente poggiata sulla sua spalla sinistra un po' ossuta, il respiro pesante ed il braccio rotto che penzolava da una parte, abbandonato a sé stesso. 
 
Tenevo lievemente la mano di Misha. La sua bella mano grande e ruvida a causa dei lavori forzati. Non gli avevo ancora chiesto cosa gli avessero fatto fare, com'era precipitato, come si era sentito appena era arrivato a terra. Sentivo lo spessore delle croste di due piccole lesioni sotto i miei polpastrelli, mentre gli accarezzavo il dorso della mano col pollice. 
 
'Tienimi sempre stretto a te... non lasciarmi mai... ' 
 
Non c'era più nessun rumore. Solo i nostri respiri ritmati, il suo battito lento sotto il mio palmo - sembrava il ticchettare di un orologio sul punto di rompersi. Il freddo lo stava uccidendo e lo sapevo. Tremavo. 
 
Eppure, tutto ad un tratto, un tepore provenne dal corpo spossato di Misha e mi cullò dolcemente, dandomi sollievo, portandomi ad avvicinarmi ancora di più a lui. Era qualcosa di meraviglioso, una sensazione celestiale, ultraterrena, come se Misha fosse stato... 
 
Non riuscivo a realizzare cosa ci stesse accadendo; qualcosa stava cambiando in quel luogo orrendo come in quei sogni in cui i luoghi si alterano e si mischiano fra di loro, facendoci piombare nella confusione più totale. 
 
All'improvviso tutto era bianco, era soffice e candido, come una nuvola di quelle che disegnavo da bambino sui fogli di carta. 
 
Ogni elemento di quel sogno tanto realistico sembrava vero; riuscivo persino ad intravedere la luce attraverso le mie palpebre serrate. E sentivo il calore rassicurante della pelle di Misha, il profumo di bucato su... un lenzuolo. 
 
Pian piano aprii gli occhi e rimasi interdetto, il fiato interrotto per un istante. 
 
Avevo le labbra posate sulla spalla nuda di Misha; notai subito che sul suo collo non c'era alcuna ferita, neppure sul suo petto. E Misha aveva il respiro così regolare, gli occhi aperti pigramente a metà mi guardavano, con quel meraviglioso blu che mi ipnotizzava. 
 
La mia mano uscì automaticamente dal lenzuolo e gli sfiorò la pelle liscia e leggermente umida. Non era rimasto nulla, nemmeno una traccia della guerra. Ed io conoscevo a memoria le sue cicatrici, così come conoscevo i lineamenti del mio stesso viso. 
 
Intanto Misha mi fissava ancora, sorrideva; la luce del sole lo investiva da dietro. 
 
Dio, era un angelo. Era il mio angelo. 
 
'Amore mio... combatti la tua guerra interiore, per prima cosa... il resto del male sparirà.' mi aveva detto una volta. 
 
Ed il male pareva sparito. Eravamo solo io e Misha, su un letto matrimoniale, in una stanza azzurra e bianca che non distinguevo. 
 
In pace. 
 
Tutto era come ingoiato dalla luce del mattino; i suoi occhi più blu del cielo si schiudevano con calma e mi guardavano con un affetto infinito. "Buongiorno," mi sussurrò, senza quasi separare le labbra carnose. Mi accarezzò il viso e sorrise di nuovo, di uno di quei sorrisi che solo Misha sapeva tirar fuori. 
 
Sorrisi anche io spontaneamente, senza quasi accorgermene. 
 
"B-buongiorno... ma... cosa è successo?" chiesi, senza muovere la testa dal cuscino, lasciando che le sue dita mi sfiorassero la mascella, il collo, parte del petto. Brividi caldi.  
 
"Non è successo nulla, amore... siamo ancora lì... credo... questo posto... non so cos'è, te l'assicuro." rispose Misha, con una malinconica confusione dipinta in viso. 
 
Io sospirai, godendomi le sue carezze. 
 
"Che... che significherà mai tutto questo?" 
 
Mi guardai attorno. La stanza era di una semplicità disarmante; c'erano dei mobili in legno laccato in colori chiari, uno specchio, delle cornici con delle nostre foto mentre ci baciavamo, ci abbracciavamo. 
 
Erano foto a colori. Io e lui. Insieme all'aperto. 
 
"Che... che significa?" ripetei, fissando Misha negli occhi, come se rivolgendogli più volte la stessa domanda avesse potuto fargli trovare una risposta. 
 
Misha abbassò lo sguardo, tornando a massaggiarmi i pettorali. Avvicinai istintivamente il mio corpo al suo strisciando sul materasso. 
 
Il profumo di cannella mi solleticò le narici ed io emisi un risolino, affondando il naso nell'incavo del suo collo, aderendo il mio petto al suo. 
 
"Non saprei davvero dove siamo. Ma in fondo che importanza ha?" sussurrò Misha. Avvolse goffamente le braccia attorno alla mia vita. 
 
"S-sei... così calmo Mish... pare quasi che tu sappia tutto... " 
 
Misha rise. Mi baciò sul collo, con lentezza. "E invece no, non lo so. Cioè... forse ho capito dove siamo ma... preferisco che lo scopra tu." 
 
"Perché?" 
 
Misha districò di poco la stretta e mi lanciò un'occhiata furtiva e giocosa. 
 
"Perché è più divertente," rispose alla fine, le sopracciglia alzate e lo sguardo limpido da bambino. 
 
Roteai gli occhi, sentendomi leggero. 
 
"Va... va bene... come vuoi... " balbettai, socchiudendo gli occhi.
 
Li riaprii di scatto, ed il mio respiro fu mozzato da ciò che vidi - dal freddo che ci era di nuovo piombato addosso.
 
Mi ero svegliato. 
 
Ero di nuovo lì. La prigione, il tremore delle nostre membra congelate, il dolore all'osso. 
 
E Misha dormiva, il viso che di tanto in tanto si contraeva per la sofferenza. 
 
Tutto era tornato come prima, come prima di quel sogno. Eppure era fin troppo reale per essere un sogno. Lo sapevo, me lo sentivo dentro che non lo era. 
 
Quella sensazione non era normale, era qualcosa di inimmaginabile, di indescrivibile. 
 
Era semplicemente divina. 
 
Notai che avevamo addosso una pelliccia che non mi era nuova. La guardia. 
 
Sbirciai di fronte a noi con la coda dell'occhio, ma non c'era nessuno. 
 
Misha era ancora disteso sul pavimento polveroso, le braccia tese lungo i fianchi, i vestiti sporchi del suo stesso sangue. 
 
Mi girai su un fianco, dolorosamente, e portai la mano violacea sulla guancia livida di Misha. Era fredda, ma convinsi me stesso che doveva trattarsi della temperatura troppo bassa. Alzai il collo, e gli posai un bacio leggero sulle labbra. "Non devi morire... non così... non ci provare a lasciarmi... " Non sopportavo più di dover parlare con la voce rotta. 
 
Non volevo nemmeno controllare il suo respiro per timore di non sentirlo più. 
 
Misha mosse il capo, seppur non aprendo gli occhi. Grazie al cielo. 
 
"Jensen... " 
 
"S-sì?" 
 
Mi protesi. 
 
Le sue labbra erano diventate di un colore che mi faceva paura. Sbatteva le palpebre di tanto in tanto, come se non riuscisse a tenerle aperte. 
 
"Ascoltami... devo dirti una cosa importante... " mi disse Misha, lentamente, lo sguardo triste sotto la luce fioca. 
 
Sollevai il mento e tesi l'orecchio; parlava a bassissima voce. Gli accarezzai la spalla. 
 
"Dimmi," 
 
"Sono così stupido, ed egoista... avrei dovuto dirtelo prima. T-tu... puoi tornare a casa... a casa tua intendo... ho il... " La sua voce moriva di tanto in tanto. 
 
"Cos'è che hai, Misha?" gli chiesi, corrugando la fronte. Mi batteva forte il cuore in petto. 
 
"Ho un... pezzo del maglioncino che ti avevo regalato... l'ho... l'ho conservato per sicurezza... " 
 
Fissai Misha ad occhi spalancati. Un tremito dovuto non solo al freddo mi percorse la colonna vertebrale. 
 
"Come... come sarebbe a dire che... ?" 
 
Misha si dimenò dolcemente per liberarsi appena del mio peso. La sua mano percorse il trench strappato ed andò ad infilarsi nella tasca anteriore, una delle più rovinate. Misha frugò, intento a trovare quel che desiderava, e poi estrasse qualcosa che a prima vista sarebbe sembrata una pezza di lana. 
 
Fissai il suo viso enigmatico senza comprendere. 
 
"Eccolo. Salvati, Jens... giurami che tornerai a casa... " 
 
Io lo fissai come si fissa un matto da legare, le labbra schiuse. 
 
"Dov'è il tuo regalo?" 
 
"Mi è stato perquisito... e tanto non mi sarebbe servito a nulla... basta guardarmi... " 
 
"Non dirlo, per l'amor di Dio... " lo interruppi. "Ed io non me ne vado senza di te. Neanche morto." risposi piano, ma con forza. 
 
Misha strinse il pezzetto di maglione fra il mio palmo ed il suo, ed assunse un'espressione implorante. "Devi farlo... fallo per me... " Abbassò il capo, le sue lacrime amare mi scaldavano le mani. "Ti prego... " 
 
Lo fissai a lungo e deglutii. Tentai di giocare la mia ultima carta. "Non saprei proprio come bruciarlo." 
 
"Lo sai," 
 
Lo sguardo di Misha guizzò sulla guardia ciondolante appoggiata alla sbarra, sull'accendino che reggeva fra l'indice ed il pollice della mano destra. Non mi ero nemmeno accorto che ci stava osservando. 
 
"A-avete bisogno di qualcosa...?" ci domandò, cambiando bruscamente posizione e asciugandosi la coda dell'occhio. Era commosso. 
 
"Da," rispose Misha, protendendosi in avanti. Fece una smorfia di dolore ed impallidì, gemendo. Aveva delle gocce di sudore freddo sulla tempia, ed i capelli appiccicati alla fronte. "Lui... lui ha bisogno del suo accendino per un momento... non... non ci metterà molto... " biascicò. 
 
"No... " mormorai, toccandogli il bicipite. "Ho detto... no, e basta." 
 
"Può funzionare lo stesso, anche se non è intero... " rispose Misha debolmente, guardandomi senza vedermi. 
 
I miei occhi si riempirono di lacrime. "No... io non me ne andrò mai e poi mai... non ti lascerò qui a marcire da solo... come diavolo fai a chiedermelo? Tu non lo faresti mai al posto mio... " 
 
Misha si accasciò, sfinito. Non tremava nemmeno più. "Devi sbrigarti a bruciarlo... potrebbero arrivare da un momento all'altro... " La sua voce spariva man mano. 
 
Io scossi la testa, determinato. "Non me ne fotte un cazzo. Io resto con te, hai capito?" ringhiai, piangendo. Gli presi il viso fra le mani, i pollici percorrevano le sue guance congelate. 
 
Misha ridusse gli occhi a fessura, e mi fece tenerezza. Fece per sporgersi faticosamente in avanti. Voleva che io lo baciassi. 
 
Lo feci, ammorbidendo il contatto sull'angolo della sua bocca, avvicinandomi ancora di più a lui. Avvolsi le braccia attorno al suo corpo e lo tenni stretto a me. Dovevo riscaldarlo, dovevo impedirgli di morire a tutti i costi.  
 
"È... è il mio ultimo desiderio, Jens. Vattene via di qui... " mugolò Misha sulle mie labbra, gli occhi chiusi. "Torna alla tua vita originale: nessun problema, nessuna preoccupazione... " 
 
"... e nessuno che abbia mai amato più di te." conclusi io, la voce vibrante. Indurii il viso e corrugai la fronte per impedirmi di singhiozzare. 
 
Lo sguardo di Misha vagò sul mio petto, sulle ferite, sull'ematoma del braccio. "Guardati. Ti ho solo causato guai, come faccio sempre con chiunque io tocchi. Io... "  mormorò, inespressivo. 
 
"No." 
 
"Sì. Se solo non ti avessi avvicinato così tanto... da farti innamorare di me... ora non staresti così male, non staresti qui nei gulag a soffrire... ed ogni volta che ti ho baciato, che ti ho fatto una coccola... non ho fatto altro che metterti in pericolo, e basta..." sussurrò, piangendo in silenzio. "Mi dispiace... " 
 
Io deglutii, scioccato dalle sue parole. Scossi la testa. "No. Non azzardarti nemmeno a dirlo. Non è stata colpa tua. Io mi sono innamorato di te, e non posso farci nulla... non ci ho mai potuto far nulla... " 
 
Misha mi sfiorò il fianco con il palmo umido, e poi chiuse gli occhi, rilassando il corpo troppo bruscamente sotto il mio tocco. 
 
Smisi di parlare per un momento, interdetto. 
 
"Misha... che c'è?" chiesi. 
 
Attesi un secondo, due. Non mi arrivò nessuna risposta. 
 
No. 
 
Alzai il capo, gli occhi sbarrati. Lo scossi un poco, le mani sulle sue spalle. "Misha... Misha che ti prende? Misha... " 
 
Gli posai una mano sul petto. Aveva solo perso i sensi. Sospirai di sollievo. 
 
"... oddio maledizione... " 
 
"Mi ricordo di lui." 
 
Mi girai di scatto verso la guardia che aveva parlato. Aveva gli occhi gonfi e rossi e stringeva il pacco di sigarette con troppa forza fra le dita. Notai che non aveva più nulla di pesante addosso. Tutte le sue pellicce e le sue sciarpe erano sui nostri corpi. 
 
"Krushnic era nell'esercito con me. Gli avevo salvato la vita una volta, in barca... ed ora... " mormorò, tremando per il freddo, "ora gliela sto togliendo... "
 
-------------------
 
 
Note dell'autrice:
 
Salve lettori U.U 
Mi dispiace di starvi distruggendo il cuoricino... ma questo è uno degli ultimi capitoli T-T non posso credere di star QUASI finendo The Damned Matrioska... spero vi sia piaciuto perché è uno dei miei preferiti... 
 
A presto e... recensite U.U  I need some opinions :P
Con tanto amore <3

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Capitolo 15
*** See you here ***


Ciao a tutti, amati seguaci ;) eccomi col finale di The Damned Matrioska... alla prossima pubblicherò solo un epilogo che possa - spero - sedare la vostra voglia di uccidermi a sangue freddo per quel che state per leggere... <3 mi dispiace, ma vi conviene procurarvi dei kleenex... T-T vi amo mucho
 

See you here



'Cedemmo, stringendoci i corpi. I nostri petti si sollevavano e si abbassavano ritmicamente, e i nostri battiti lottavano fra loro...'

La mia testa era morbidamente poggiata sul suo petto, le mie dita fra i suoi capelli folti e umidicci, le gambe distese a terra. Con l'altro braccio gli cingevo la vita; lo avevo coperto pure coi miei vestiti fino al collo e lo stringevo a me, tremando, coccolandolo dolcemente.

Era come in quelle notti passate sotto le sue lenzuola, al buio, a raccontarci cose ed a fissarci affettuosamente negli occhi, le mani strette. Me ne ricordavo come se fosse stato ieri.

Era come in quelle sere in cui dormivamo avvinghiati nel suo letto dopo aver fatto l'amore, quando univamo i nostri corpi e sentivamo solo il respiro l'uno dell'altro, il fruscio delle lenzuola e qualche cane che abbaiava in lontananza.

E pure con tutta quell'ansia, quella paura di essere scoperti e la voglia di proteggerci a vicenda, ci sentivamo davvero a casa. Ci sentivamo a casa ogni volta che ci baciavamo, che ci confidavamo ogni cosa, che facevamo pace dopo una lite.

L'idea di perderlo e di non potermi più sentire a casa come quando stavo fra le sue braccia mi creava un senso d'angoscia insopportabile.

"Ti salverò... ti devo salvare assolutamente... " mormorai, il mio fiato gli accarezzava il collo. "Non morire, Misha... lotta per favore... non andartene... "


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"Guarda cos'hai combinato!" esclamai scherzosamente, indicando la schiuma a terra che Misha aveva fatto cadere mentre lottavamo con l'acqua del lavello.

Ovviamente, Misha sghignazzava come un matto, piegandosi teatralmente in due, appoggiandosi al piano da lavoro. Non faceva che ridere e prendermi in giro tutto il santo giorno da sempre.

E ricordo che all'inizio non lo sopportavo per questo. Lo trovavo fin troppo sarcastico e fastidioso, e perfino superbo. Mi aveva dato l'impressione di essere un tipo superficiale che guardava tutti dall'alto in basso.

Com'è vero che le apparenze ingannano...

Misha era l'esatto contrario di quello che mi era sembrato; era incredibile, non si stancava mai di essere sé stesso, di fare il deficiente a quarantuno anni suonati pur di divertirmi, di giocarmi scherzi affettuosi e di alleggerirmi il cuore con quella risata idiota.

Lo osservai ridere, sbattendo le ciglia e fingendo di essere arrabbiato, le mani sui fianchi. Roteai gli occhi, lasciandomi sfuggire un sorrisetto. "E va bene... per questa volta pulisco io... " dissi, mettendo in atto ciò che avevo imparato sulla psicologia al contrario.

Feci per abbassarmi in ginocchio senza perdere quello scemo di vista, sfiorando il pavimento con un dito, ma Misha si ricompose in fretta. "No no no... ci penso io." rispose con la voce attutita dagli schiamazzi, avvicinandosi e scostandomi dolcemente il braccio col suo. Notai che aveva un orologio al polso, uno di quelli moderni color argento.

"Ma davvero te ne occupi tu?"

Misha acchiappò il grembiule da un angolo del piano da lavoro, e lo straccio per pulire a terra dove la schiuma si era tramutata in una piccola pozzanghera color arcobaleno.

"Sì, anche se di solito sei tu il casalingo, qui." mi rispose con un ghigno eloquente.

"Taci."

Invece di pulire, Misha si mise a giocherellare con le bolle rimaste con fare fanciullesco, lanciandomi delle occhiate blu che mi folgoravano in mezzo a quella cucina luminosa.

Quella casa mi trasmetteva un senso di pace che non provavo nemmeno nel mio vecchio appartamento.

Senza che io me l'aspettassi, Misha si alzò di scatto, spalmandomi una ditata di schiuma sul naso.

Aprii la bocca come per dire qualcosa, ma poi tacqui, sorpreso.

Misha ridacchiò, mettendo in evidenza le fossette sulle guance lisce e bianche.

"Quanto sei adorabile così!" mi schernì.

Io scossi la testa. "Non maturerai mai... vero?"

Misha mi fece l'occhiolino, il mento alto, come se andasse fiero della cosa.

Poi, non so come, il suo sorriso scomparve, tramutandosi in qualcosa di più malinconico.

"Che... che c'è?"

Misha mosse due passi timidi nella mia direzione e mi posò le mani sulla vita, raggiungendo le reni e massaggiandomele affettuosamente. Il mio corpo sussultò sotto il suo contatto tanto familiare. Misha abbassò il capo, gli occhi fissi sul mio collo.

"T-tutto bene?" chiesi, facendo coincidere le nostre fronti.

Misha non disse nulla - entrambi conoscevamo già la risposta. Si limitò solo a stringermi a sé, premendo forte il petto contro il mio e baciandomi. Mi accarezzò le guance, i capelli, la nuca.

Ed io piegai la testa da un lato, approfondendo il bacio, avvinghiandomi a Misha come non facevo da fin troppo tempo. Avevo nostalgia di quel contatto, una nostalgia bruciante e angosciosa, e mentre lo baciavo in quel modo così tenero mi ero sentito così sollevato, come in un oasi nel deserto. Accarezzavo le sue labbra con le mie e intanto piangevo, perché sapevo che tutto questo sarebbe svanito nel nulla, che presto mi sarei ritrovato nel deserto.

Da solo.

'Saremo così, come il sole e la luna... se vedono te non vedranno me, e viceversa.' ci eravamo promessi.

Ma la luna senza il sole non avrebbe brillato più. Mi sarei spento per sempre e ne ero consapevole.

Eppure ancora mi drogavo del suo sapore, del suo profumo, di lui.

Me ne vergognavo, ma non ero capace di lasciarlo andare. Di accettare ciò che sarebbe successo di lì a poco, proprio sotto i miei occhi.

Misha smise di baciarmi, ma non cambiò posizione, continuando ad accarezzarmi la mascella con il palmo; il suo respiro malfermo mi sfiorava la pelle del collo.

'Non te ne andare... '

Misha tacque per molto tempo, ed io lo strinsi ancora più forte quando lo sentii sussultare, come se stesse singhiozzando.

Non ci saremmo mai più baciati con le finestre aperte, non avremmo mai avuto una casa nostra, non ci saremmo mai amati alla luce del sole perché lui stava morendo.

Ogni sogno che avevamo nutrito fino a quei momenti tanto disperati stava svanendo. E quelle visioni erano qualcosa che non potevo - o meglio, non volevo - cercare di capire sul serio.

Passai le dita sulla nuca di Misha scivolando sui capelli mori, ed avvertii qualcosa di umido sulla mia spalla.

"Mish... "

I miei occhi velati vagarono per la stanza fino a scorgere un elegante calendario color avorio: 15 Luglio 2016.

"Amore... c-cosa c'è che non va?"

Sentii Misha inspirare pesantemente e deglutire contro la mia clavicola. "Lo sai. Pensi... che questo posto sia... ?"

"Reale?" chiesi; gli posai le labbra sul collo per un momento, continuando a passargli le mani sulla schiena, lentamente.

"Sì," Si stava sforzando di mantenere un tono di voce fermo.

"Magari... magari lo è... che ne sai?"

"Credo che sia... la nostra vita." mi interruppe lui, staccandosi per guardarmi negli occhi.

"La... nostra vita?"

Misha annuì, ed una lacrima gli scese di colpo giù per la guancia. "È la vita che avremmo avuto se fossimo tornati nel presente... è la vita che volevamo... ce la stanno lasciando vedere anche se non so a che scopo... "

Corrugai la fronte - non capivo. Perché mai qualcuno avrebbe dovuto permetterci di visualizzare un sogno irrealizzabile? Che senso aveva farcelo conoscere? Era forse per farci soffrire?

Mi morsi le labbra, capendoci sempre di meno.

"Chi ce la sta facendo vedere?"

Misha scosse la testa.

"Mi piacerebbe sapere almeno questo."


--------------


Mi svegliai di soprassalto.

Lo sbalzo di temperatura fra sogno e realtà mi sconvolgeva sempre, facendomi tremare ogni cellula del corpo.

Restai sorpreso appena vidi che Misha era in dormiveglia, e le sue dita mi stavano accarezzando il contorno dell'occhio, inumidendosi.

"Misha... stai meglio?"

"Un po'. Ti... ti ricordi quando-" Misha si interruppe, gemendo a causa della gamba. Lo guardai. "quando eravamo solo dei conoscenti... e tu... eri così timido, e diffidente... eri così... " I suoi occhi si riempirono di lacrime per il dolore ed un verso indistinto venne liberato dalla sua gola.

"No no... non ti sforzare, per favore... stai tranquillo... " gli dissi, disperato, circondandogli le spalle con un braccio affinché Misha potesse appoggiarci sopra il capo; irrigidii l'altro che mi doleva. Lo sistemai più delicatamente che potevo, i suoi capelli arruffati mi solleticavano il bicipite.

Gli coprii una guancia con un palmo, spremendomi per capire cosa potesse avere di preciso a parte la gamba fratturata.

Gli occhi vitrei di Misha si aprirono pian piano e mi fissarono, ed io pensai alla differenza che avevano con quelli così luminosi del sogno. Il suo petto si alzava e si abbassava.

"Voglio che parliamo un po'... Jensen... per l'ultima volta... " Gli tremavano le labbra screpolate per il gelo pungente.

'L'ultima volta' mi rimbombò nelle orecchie. Ciò stava ad attestare che lo sapeva. Sapeva di star morendo. Se lo sentiva dentro.

Mi sentii affluire il sangue in testa.

Misha venne in mio aiuto, lasciando scivolare una mano leggera sulla mia schiena, attraendomi ancora di più a sé sotto la mia giacca sgualcita e la pelliccia di Emmanuel. "Vieni qui vicino, per favore..."

Distesi le gambe a terra, sistemandole in modo che sfiorassero a stento quelle di Misha, e lui avvicinò la testa alla mia, faticosamente.

'Mi sentivo così al sicuro in quella posizione, come se nulla e nessuno avrebbe mai potuto dividerci. Misha aveva ancora il viso bagnato - lo sentivo inumidirmi proprio sul cuore palpitante.
"Non ti lascerò mai, lo prometto su... tutto quello che vuoi." sussurrai, la voce non proprio ferma; una paura insopportabile di perderlo mi opprimeva l'anima.
"Nemmeno io... resterò per sempre," disse Misha.'

Strinsi i denti per il freddo. Pareva che nulla sarebbe mai stato utile abbastanza da riscaldarci un minimo. "Mi... mi ricordo bene di quando ci siamo conosciuti... Mish." gli diedi un lieve bacio sulla tempia. "Era il mio compleanno... e credo sia stato il peggiore... e anche il migliore di sempre..."

Misha mi strinse ancora di più la mano che vagava sul suo stomaco, come se temesse che mi avrebbero portato via da lui.

"... e tu, Misha... mi mettevi così tanto in soggezione, specie quando mi facevi certe battute... " dissi con un sorriso commosso, pensando che ora niente mi avrebbe rassicurato più delle sue prese in giro.

Misha emise una debole risata, e liberò le dita dalle mie, per andare ad accarezzarmi il collo. "Come fai a sentirti a disagio con uno come me? Voglio dire... s-sono... così buffo, e talvolta ridicolo. Dovresti... esserti innamorato a prima vista... per sentirti nervoso... in mia presenza... "

Per una volta, il rossore non servì ad alleviare il gelo sulle mie guance. Pensai che ormai fosse il caso di dirgli tutto quello che mi passava per la testa.

"Mi... mi hai sempre affascinato, Misha... " gli confessai, le dita si contraevano nervosamente sotto i vestiti e le stoffe, i suoi occhi plumbei indagavano sul mio sguardo e mi faceva tenerezza, "Non volevo ammetterlo neppure a me stesso prima... ma... mi sei s-sempre piaciuto. Magari ti potrà sembrare scontato, e non te l'ho mai detto ma... mi sento così diverso da quando ti conosco... così diverso... " conclusi, timido, con un respiro pesante.

Misha ridusse gli occhi lacrimosi a fessura, e poi gemette forte fra le mie braccia. Un'altra scossa di dolore gli aveva invaso il corpo. "Il primo amore omosessuale ti stravolge un po'... è... è normale... " cercò di dire. Abbassò il capo e mi baciò sul petto dove la maglia si era strappata, proprio sul cuore, e lasciò le labbra lì. Quel gesto mi sciolse del tutto.

Piegai la testa in giù, guardandolo con occhi gonfi.

Misha si stava sforzando in tutti i modi di non farmi capire quanto stesse male fisicamente. Voleva farmi star sereno fino all'ultimo istante in cui avremmo parlato, ma dimenticava di essere trasparente.

"Ti fa molto male, vero?"

Misha mi puntò addosso quello sguardo celeste. "È... è sopportabile." sussurrò, impacciato, con un'aria da bambino. "Ti amo... "

"Anche io... non voglio che tu-" Mi bloccai, inghiottendo un groppo alla gola.

"Ci sarò sempre." mi interruppe Misha, zittendomi con il pollice sulle mie labbra spaccate. Una goccia di sangue mi colò giù per la guancia, e Misha la pulì gentilmente.

"Sempre?"

Dio, era così bianco in viso. Sorrise.

"Certo. Davvero pensi di poterti liberare di me?" scherzò, ma io tremavo al solo pensiero di non vederlo più, e volevo solo piangere e disperarmi inutilmente. Deglutii di nuovo a fatica.

"Hey," Mi sfiorò il mento con due dita. "Te l'ho detto... non ti lascio da solo, eh?"

"Lo so... lo so... " dissi, contraendo la bocca. Feci un enorme sforzo su me stesso, ma non riuscii a non singhiozzare in silenzio per qualche minuto, mentre Misha continuava a lasciarmi una scia di deboli baci e carezze sul collo e sul petto.

Mi chiedevo perché. Perché dovessero capitargli sempre cose orribili, perché il destino dovesse essere tanto crudele nei confronti di una uomo come lui. Era ingiusto. Era maledettamente ingiusto.

"Jens... ascoltami... "

"Sì..."

Misha sospirò, incerto. L'aria pesante ci impediva di respirare bene, e ci faceva bruciare le narici.

"Prima... mentre dormivamo ho... visto una cosa e mi chiedevo se anche tu - no... non può essere. Forse sono pazzo, o è questo freddo che mi crea illusioni... io non so... "

Mi illuminai. "Cosa? Hai visto cosa?"

Il viso di Misha divenne sorpreso. "Anche tu?" Nei suoi occhi comparve una scintilla, un piccolo sole nella nebbia di due pupille svuotate dal dolore. Sorrise. "Quella casa, il letto bianco, la cucina... " La sua voce si incrinò, ma si fece anche carezzevole e morbida.

Io sorrisi fra le lacrime, per niente stupito, avvertendo un bruciore alle labbra. Sapevo che quelle visioni non potevano essere un semplice frutto della mia fantasia.

"Certo che l'ho visto, ho visto tutto... ed è... splendido... "


---------------


'Stelle... vedevo solo stelle lucenti nel cielo. Alcune lo solcavano, altre volavano come comete in quel tappeto blu come... quegli occhi.'

Ecco cos'era quel sogno che avevo fatto la sera in cui ero arrivato in Russia. Doveva andare tutto così, era il destino.

Era destino che ci saremmo innamorati, che ci saremmo persi di vista, che avremmo fatto quelle scelte tremende solo per tentare salvarci a vicenda.

Che saremmo finiti nei gulag.

Era destino che il nostro ultimo momento assieme sarebbe stato lì, su quel posto alto che non capivo, a fissare le stelle con gli occhi meravigliati di due bambini.

Era l'ultima visione; era la notte, la fine di quell'ultimo giorno, la fine della nostra storia.

Come nel sogno, Misha mi indicava le costellazioni, una per una, dicendone i nomi e ridendo. E come nel sogno mi aveva sorriso, additando la stella polare.

Ma non mi aveva detto quella frase. Quella frase che per troppo tempo mi ero sforzato di capire, e che forse avevo pure frainteso:

'Jensen... aiutami a tornare... '

Dopo qualche minuto era calato il silenzio - avevamo quasi esaurito le parole da dirci, ed eravamo stranamente esausti. Rimasimo sdraiati su quel prato umido di rugiada; si sentiva solo il suono delle cicale e del vento caldo e profumato di Luglio che ci smuoveva dolcemente i capelli. Perché sì - nelle visioni era Luglio.

Io e Misha avevamo chiuso gli occhi e ci eravamo rilassati; io avevo poggiato la guancia sul suo petto, come probabilmente stava accadendo anche nella realtà.

Il corpo di Misha era così caldo e morbido, e lui era vivo. E felice.

"Non... non hai paura?" gli domandai io ad un certo punto, misurando il tono. Non volevo rovinare quel momento.

Misha sospirò, giocherellando con uno stelo d'erba. La sua mano sinistra raggiunse i miei capelli, tirandoli con delicatezza, attorcigliandoli fra l'indice e il medio. Il mio viso si contorse.
'No... non piangere... sii forte.'

"Sì che ho paura... tanta, ma... non di morire... " rispose Misha, il tono neutro.

Io rimasi interdetto.

"Beh... meglio così... ovvio ma... non hai paura di morire?"

Lo sentii sbuffare e sorridere. Mi accarezzò la schiena, risalendo lungo la mia maglietta e toccandomi affettuosamente la spalla. La strinse fra le dita, spiegazzando la manica. Era così bello non dover sentire il dolore del braccio rotto.

"Perché, Jens? Credi... che io debba avere paura per avere amato te?"

Io non annuii - non ce n'era bisogno - e Misha ridacchiò piano; il suo torace tremolava sotto la mia testa.

"Jensen... guardami."

Sollevai lo sguardo verso Misha, e mi parve quasi di affondare in quegli oceani luccicanti che aveva per occhi.

"Guardami, amore." ripeté lentamente. Il suo tocco delicato sul mio viso mi fece venire i brividi. "È bello quello che provi in questo momento...?" mi chiese, malinconico.

Ebbi un tuffo al cuore a quella domanda e lo fissai con le labbra schiuse, confuso.

"Ma c-certo... è bellissimo... " dissi, spingendo la guancia verso il suo palmo e beandomi del calore della sua mano. "... Perché?"

"Vedi? Non posso sentirmi in colpa per questo. Per un sentimento così bello... tu mi hai fatto capire che nell'amore non c'è nulla di male... nulla di inumano... "

Misha mi attirò a sé con la mano sulla nuca, e mi baciò a piene labbra per vari secondi, le dita fra i miei capelli e l'altra mano che mi teneva attaccato al suo corpo. Si staccò di un millimetro per parlarmi ma senza smettere di sfiorarmi la bocca, come se non sapesse come passare meglio gli ultimi minuti assieme. "Non... non ho mai provato nulla di più intenso, credimi..."

"Nemmeno io... non... non so nemmeno come definirlo... "

Ansimai sulle sue labbra. Ricordo che, subito dopo gli occhi, furono la prima cosa che avevo notato di Misha quando l'avevo incontrato in Piazza Rossa. Gliele fissavo sempre con insistenza; mi permettevo di farlo anche se ancora non stavamo insieme e mi sorbivo i suoi sguardi maliziosi. "Non... so neppure come spiegarti cosa sento... Misha. È come se fossi sempre stato presente. Sei... sei sempre stato il mio eroe da quando ero bambino... l'eroe della mia... favola preferita... "

"Sei tu l'eroe di questa storia, Jensen... " mi interruppe lui, sorprendendomi.

"Ma... " Non capivo. "Io non... non ti ho aiutato a tornare... "

Misha sorrise.

"Sì che l'hai fatto. Mi hai aiutato a tornare quello di prima. Prima della guerra, di quegli orrori... mi hai risvegliato ed hai abbattuto i miei muri... ed io... te ne sarò per sempre grato, Jensen... "

Respirai irregolarmente, gli occhi serrati sotto la sua mano per non lasciar passare nessuna lacrima.

"M-ma allora... se non di morire... di cosa hai paura...?"

Misha sospirò.

"Ho paura che resterai in Russia anche dopo c-che me ne andrò... "

Trasalii, e spalancai gli occhi.

"Dio mio... no... ma perché dovrei?" mormorai, sentendomi quasi falso. Forse sarei davvero rimasto, e la cosa strana era che non sapevo nemmeno il perché esatto. Magari mi sentivo arrabbiato per non poter tornare a casa con lui - per non poter coronare il sogno più grande che avessi mai avuto.

Misha mi spinse dolcemente verso il suo petto, in modo che adagiassi la guancia sul suo cuore.

"Ascoltami... io ci sono... e ci sarò sempre... non possono separarci, capisci?"

'Non te ne andare... '

Lo ascoltavo battere sempre più lentamente.

'Ci sarò sempre', aveva detto.

"Misha... " bisbigliai con la voce inesistente. Intanto tutto intorno a noi iniziava a sbiadirsi.

Mi gelai.

No.

Alzai di nuovo il capo per guardarlo e corrugai la fronte.

"Io... cosa sta-"

Misha annuì, serio; il sorriso era già sparito da un po'. Mi baciò sull'angolo della bocca, piano. Come la prima volta. Ed io avevo solo diciassette anni.

"Va tutto bene amore - promettimi solo che... tornerai a casa anche senza di me... "

Fu una pugnalata.

"No no no... non dirmi che... "

Ormai non riuscivo quasi più a vederlo, le lacrime mi offuscavano la vista ed io le scacciavo come potevo, disperato. Volevo vedere il suo viso che mi guardava per l'ultima volta, ma piangevo a dirotto. Volevo morire anche io, andarmene via con lui.

"Mi dispiace... " mi sussurrò Misha, gli occhi lucidi, e mi toccò il viso.

Il paesaggio attorno a noi si mescolò; la luna si trasformò una candela fioca, l'erba fresca in quel pavimento ruvido, il suono delle cicale divenne il respiro dei detenuti - come nei sogni che pian piano si tramutavano nella realtà. La cruda realtà.

Io entrai nel panico, ma Misha aveva ancora gli occhi malinconici appena aperti, e mi coccolava.

"Promettimelo... "

"Lo prometto," dissi di getto, sentendomi impallidire. "... ma tu anche... promettimi che non mi lascerai mai... " dissi stupidamente, la bocca contorta, mentre Misha mi stringeva la mano.

"Te l'ho detto. Non ti dirò nemmeno addio. E non faccio mai promesse false... ci vediamo qui... "

"Qui?" chiesi, innocentemente.

Un'ultima carezza debole sul mio viso bagnato, un'ultima lacrima. L'ultima volta che vidi i suoi occhi guardarmi.

Poi, fui strappato con violenza da quel Paradiso, e tutto scomparve in un lampo.

-----------------

Mi svegliai di soprassalto, sentendo i suoi battiti accanto al mio orecchio.

Palpebre ancora serrate.

Avvertii un'ultima stretta impercettibile della sua mano fredda, poi un battito sotto il mio orecchio.

E poi più nulla. Gli altri rumori nel carcere erano tutti ovattati.

Alzai il collo per vedere il suo viso rilassato, calmo e pallido. Lo accarezzai, le dita mi tremavano violentemente.

Se n'era andato.

I palmi iniziarono a sudarmi, la testa a farmi male.

"Oh mio Dio... " dissi, la mia voce si era affievolita in modo spaventoso. Gli presi il viso fra le mani, e poi mi scostai da lui; poggiai una mano sul suo petto e pregai per vari secondi, gli occhi stretti. Ma non sentii più nulla.

Il silenzio non mi aveva mai fatto tanta paura prima. Ad un certo punto mi parve di essere paralizzato, poi, non so come presi conoscenza.

"No, cazzo... no... svegliati... oddio non è possibile... non- Misha... svegliati... " Le parole mi morirono in bocca. Non lo chiamavo più. Riuscivo solo a singhiozzare, le ginocchia che premevano sul pavimento e mi dolevano. Ero talmente agitato che non mi accorsi che i rumori là fuori stavano aumentando e si stavano moltiplicando.

"Ackles... "

Il mio cognome fece eco nella cella. Lo sentii così lontano, come in un'altra dimensione, e mi mozzò il fiato.

Mi voltai lentamente verso Emmanuel. Aveva gli occhi puntati su di me. Occhi vuoti e terrorizzati. L'accendino era ancora in mano.

"Sbrigati! Alzati! Stanno arrivando... " borbottò, la voce attutita dalle labbra tremanti.

"C-cosa... che vuoi dire?! Chi diavolo sta arrivando!?" domandai, il viso contratto.

"Le altre guardie... tieni... muoviti... va' via... per l'amor di Dio! Sbrigati!" disse, la voce bassa ma alterata.

Mi alzai in piedi barcollando, senza sentirmi più le ossa; mi facevano male. Mi faceva male tutto.

Afferrai l'accendino dalle sue mani; sentivo dei passi rumorosi che si avvicinavano e lanciavo occhiate verso Misha.

Andai a prendere il pezzo di stoffa dalla sua mano. Col cuore in gola appiccai il fuoco alla base di esso, pronunciando quella fottuta formula al contrario; gli occhi di Emmanuel mi guardavano, tristi.

Sperai con tutto il cuore che non funzionasse, che le guardie mi vedessero e mi fucilassero; sperai di non tornare a casa, e di avere una valida scusa per non mantenere la promessa fatta a Misha. Non avrei mai avuto il coraggio di non rispettarla di proposito.

Appena finii, avvertii quella vecchia sensazione prendere il sopravvento su di me. Il fischio alle orecchie, gli atomi del mio corpo in tensione.

Ecco. Le mie mani stavano sparendo lentamente. Il carcere si stava tramutando in un alone di nebbia bianca. Misha stava sparendo di fronte a me.

"Dimmi che ora farai qualcosa per questo!" gridai rabbioso in direzione di Emmanuel che mi fissò confuso.

Lasciai cadere a terra il suo accendino con un rumore metallico, prima di essere ingoiato dal consueto lampo bianco.

'Ci vediamo qui... '

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Angolo dell'autrice:

Spero che questa storia vi sia rimasta nel cuore, lo spero davvero tanto. Ci vediamo alla prossima per l'epilogo <3

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Capitolo 16
*** You have to let me go ***


You have to let me go





2018

"Caro Misha,

Il tempo qui è così bello qui.

C'è il sole delle sei di sera che picchia sul ferro delle panchine ed illumina l'erba; ricordo - ricordo che ti sarebbe piaciuto tanto... sentirlo forte sulla tua pelle, a riscaldarti. Me l'avevi detto, e ti avevo promesso di portarti in uno dei miei luoghi preferiti - Dio, mi dispiace, mi dispiace da morire.

Il posto in cui sto alloggiando adesso non è affatto male. Si trova più o meno nel Sud Italia; se solo mi ricordassi il nome del paesino - è qualcosa con la emme se non sbaglio, ma... dovrei chiederlo a Jared, per sicurezza.

Più tardi dovremmo andare al mare - che sta a qualche ora di strada da qui - ma abbiamo deciso di fare una breve sosta.

A proposito di Jared. In questo momento sta ridendo ai piedi di uno scivolo col suo bambino che scende fra le sue lunghe braccia, emettendo un sacco di urletti divertiti.

Genevieve ha preso Thom in grembo, e gli sta facendo il solletico sulla loro panchina. Io lancio loro un sorriso ogni tanto. Sono - sono semplicemente stupendi.

La mia altalena è un po' scomoda, ma è sempre meglio di sedersi a terra.

Non sono munito di foglio e penna, per cui non posso scriverti nulla - ti sto solo facendo una preghiera mentale, nella speranza che tu possa sentirla adesso.

Sai? Negli ultimi tempi ho scritto un bel po' di storie - non sono prolifico come te, ma me la cavo e mi aiuta a sentirmi meglio. Mi hai fatto venire un vero e proprio vizio con la scrittura, Misha. È decisamente più salutare del vizio del fumo - a proposito, ho smesso di fumare come mi hai detto tu, o quasi.

Ti ringrazio per avermi fatto ritornare l'ispirazione che mi mancava, e per avermi insegnato alcune cose - se non fosse per te non saprei nemmeno dove mettere le virgole, il bello è che il russo sei tu.

Sì, hai sentito bene. Ho detto 'sei', non 'eri'.

Non voglio usare nessun verbo al passato per parlare di te. Tu - tu non sei affatto morto.

Non per me.

Non ho idea di come funzioni con questi maledetti - stramaledetti - salti temporali. Sento solo dentro di me che in qualunque posto ti trovi adesso - che assomigli a quel prato illuminato dalle stelle, o una casa dalle lenzuola immacolate - esso non ha né spazio né tempo."

Jensen smise di pregare in silenzio per un paio di secondi.

La dolce risata del piccolo Thom aveva riempito l'aria del parco giochi, seguita dal suono di una bici gialla che passava in quel momento. Jensen contorse le labbra; si sforzò di non lacrimare, e di continuare.

"Spesso avverto la tua presenza, Mish. E so che non è dovuta al fatto che mi manchi. Ci sei in quelle notti strane in cui... in cui non dormo, e resto sveglio ad immaginarti accanto a me, e stringo forte i cuscini, bagnandoli tutti. Mi piacerebbe non comportarmi in questo modo ridicolo, mi piacerebbe davvero, ma... è mille volte più forte di me.

Mi andrebbe benissimo anche trovarmi nei gulag in quei momenti, col freddo che mi entra dentro le ossa, pur di averti ancora tra le mie braccia. Pur di mentire a me stesso e fingere anche solo per un secondo di poterti salvare."

Jensen serrò gli occhi, si sentiva tremare le membra dalla tensione generata dai suoi ricordi. Si alzò, si allontanò un po' dal parco, rifilando una rapida scusa a Jared e alla moglie - i quali annuirono sorridendo dopo essersi scambiati uno sguardo.

Jensen non sapeva quale forza lo stesse portando altrove, non capiva neanche perché, ma si mise a camminare senza meta per quelle vie.

"E so che ci sei anche adesso. Adesso che sto passeggiando in questo paesino, e fa un caldo pazzesco. Mi stai accanto, mi proteggi, mi guidi verso una direzione che non conosco - tanto so anche che mi farai ritrovare la strada dopo.

Hanno cercato di separarci per così tanto tempo; abbiamo pensato tante di quelle volte di rinunciare a ciò che c'era fra noi, eppure non ci siamo mai riusciti; in fondo, io sapevo che saremmo rimasti l'uno accanto all'altro... fino alla fine.

Durante i matrimoni dicono: 'Finché morte non vi separi', giusto?

Noi non ci siamo mai potuti sposare, è vero, Misha. Ma per me è come se fosse accaduto; anzi, è stato addirittura migliore perché... perché nemmeno la morte è riuscita a separarci.

Era - è - davvero troppo forte il mio sentimento nei tuoi confronti, credimi. È intenso in un modo che fa paura, non so nemmeno descriverlo con le parole adeguate, e so che il tuo era della stessa intensità.

Non è un qualcosa che può morire.
Non è un qualcosa che può... sparire nel nulla.

Credo che - credo che amare ci renda immortali in un certo senso.

Il mio amore per te non mi devasta ora, sul serio. Lo tengo sempre dentro di me, e mi protegge da me stesso, dal commettere sciocchezze. Ti ho promesso che sarei ritornato a casa sano e salvo, e lo sto facendo, anche se non potrò mai tornare davvero quello di prima.

Quando sono stato teletrasportato in America nell'anno 2016, sono stato depresso per circa un anno. Credo di aver - credo di aver perso una decina di chili o giù di lì. Mi sentivo perduto senza di te; pensavo di non farcela. Non volevo dimenticarmi il tuo viso; non sai cosa avrei dato per avere una sola foto insieme.

Solo una.

Quel giorno ho corso per la strada, gocciolando sangue da tutte le parti, ed ho suonato il campanello di Jared. Appena lui mi ha visto la prima volta dopo tanto tempo... è rimasto immobile, gli occhi enormi. È impallidito in un istante.

Non poteva credere a ciò che vedeva.

Quello non ero io, cazzo.

Non ero io.

Mi ha abbracciato, mi ha stretto a sé ed è scoppiato in un pianto disperato, tremando su di me, domandandomi dove diavolo fossi stato fino a quel momento.

Io tacevo.

Non mi aveva mai visto così malridotto, così conciato. Gen non era nemmeno a casa al momento.

Il mio migliore amico mi ha portato all'ospedale, mi sono fatto disinfettare le ferite e fasciare il braccio come si deve - sono rimasto lì per un po', più per riprendermi dallo shock che da altro. Non ero così grave dal punto di vista fisico.

In seguito, Jared mi ha ospitato da lui per un periodo. Non ha insistito nel voler sapere subito cosa non andasse; non che io collaborassi un minimo - ero muto. Mi sono tenuto dentro quell'uragano di orrori per un mese, rispondendo a monosillabi.

Dopo esserci occupati di ciò che dovevo spiegare alle forze dell'ordine - Dio, sono ricomparso dopo un fottuto anno e mezzo, come rapito dagli alieni - abbiamo fatto un sacco di cose normali.

Abbiamo... mangiato in un ristorante,  abbiamo fatto la spesa al solito supermercato che ai miei occhi appariva troppo luminoso, troppo bianco rispetto a come lo ricordavo. Siamo perfino andati in gita in un bosco, e mi sono messo a giocare a nascondino con Thom. È stato lì che ho sorriso per la prima volta.

Solo quando una sera sono rimasto a casa con Jared... non sono riuscito più a trattenermi e... sono scoppiato in lacrime. Ho portato le mani al petto, mi sentivo soffocare.

Jared è accorso immediatamente, convinto che stessi avendo una crisi di nervi dovuta a quel che era successo - ho perso pure il conto delle scuse che ho inventato. Ma io avevo solo un bisogno disperato di parlarne. A lui.

Gli ho raccontato tutta la verità seduto sul mio letto, le mani sulle tempie e i gomiti sulle ginocchia; Jared mi osservava dall'altro materasso con occhi spenti.

Gli ho detto di te, di me, del nostro legame, di ciò che ho nascosto e soffocato per anni e anni sulla mia sessualità a causa dei sensi di colpa. Gli ho parlato dei gulag, della guerra, dell'omofobia. Di tutto ciò che mi veniva in mente, come una pioggia di fatti confusi, di parole e di ricordi.

Non puoi immaginare l'espressione del volto di Jared alla fine, né per quanto tempo siamo rimasti abbracciati stretti. Mi ha ripetuto un milione di volte di essere un perfetto imbecille per non avergli detto tutto anni prima. Mi ha detto che era senza parole, che non si sarebbe mai aspettato una cosa del genere. Mi ha detto che per lui io ero suo fratello, e che mi amava così com'ero, nonostante tutto.

In quel momento gli ho voluto bene da morire, più di ogni altro momento passato insieme. Mi sono sentito accettato - parte di una famiglia a cui andavo bene con le mie diversità e le mie insicurezze.

La cosa più incredibile è che Jared mi ha creduto. Mi ha davvero creduto quando gli ho raccontato dei viaggi nel tempo e degli altri casini in cui ci siamo trovati tu ed io.

In un primo momento, ho pensato che mi credesse impazzito, e che stesse semplicemente fingendo di bere le mie storie per farmi un piacere. Ma poi ho compreso che non era affatto così.

Ad Agosto 2017, Jared mi ha detto che avevo bisogno di viaggiare, di perdermi un po', di distrarmi assieme a loro.

E così l'ho fatto, siamo partiti, ed il mio umore è effettivamente cambiato un po'.

Sono certo, però, che girare per il mondo non sia stato il vero motivo della mia ripresa - so che sei stato tu, Misha, quando mi hai accarezzato il viso mentre dormivo, una notte di Aprile. Ero certo che fossi tu - la tua mano era diversa, più morbida, ma io sapevo che eri tu. Come faccio a non riconoscere il tuo tocco? Mi hai svegliato con le tue coccole per mesi e mesi...

Il bello è che non ho avuto nessuna paura nel sentire il tuo palmo sulla mia guancia bagnata - l'ennesima prova che doveva trattarsi di te, amore mio.

Avrei giurato di sentire persino un fruscio d'ali poco dopo, ma probabilmente quella era solo un'illusione.

Sappi che te ne sono grato, perché fai di tutto per calmarmi, per farmi capire che ci sei.

Ultimamente ho persino pianificato di scrivere un finale per il nostro vecchio diario di viaggio, usando le parole che ti sto dicendo adesso. Ricordi che volevi durasse un'eternità?

Un po' come noi...

Ricordo che quando collaboravamo tu ci scrivevi sempre delle cose che non immaginavo si potessero aggiungere in un diario di viaggio, Misha.

Io descrivevo il concreto: i monumenti, la natura, quello che notavo attorno a me, come se fossi stato una fotocamera... ma tu - tu ti soffermavi sui particolari apparentemente insignificanti, sulle cose più semplici; ma era questo ciò che rendeva la nostra storia - emh, il nostro diario - sensazionale.

Ho imparato a farlo anche io; ho raccontato non ciò che vedevo con gli occhi, ma ciò che vedevo con l'anima. Le piccole cose speciali.

Quando sono stato in Olanda ho parlato della sensazione che mi ha trasmesso il campo di tulipani arancioni smossi dal vento caldo. Mi ha fatto venire in mente quel quadro che tu avevi in salotto e al quale eri tanto affezionato, e... devo confessare che mi sono dovuto allontanare per un attimo. Troppe emozioni assieme.

In Russia ho assistito ad una manifestazione LGBT, una sorta di gay pride. Ho percepito la gioia negli occhi di un biondino che aveva appena fatto coming out e si era dipinto dei buffi arcobaleni sulle guance pallide. I suoi genitori sorridevano, erano sereni. Orgogliosi del coraggio del loro ragazzo. Io scriverò che grazie a te adesso mi accetto per come sono, e ho imparato ad essere me stesso nonostante la cattiveria che c'è nel mondo...

A Roma, circa due mesi fa, ho visto due ragazze che passeggiavano mano nella mano, e ridevano come matte - chissà per quale motivo. Sembrava che non si vedessero da un secolo, e... sarà stata un'impressione mia, ma la più giovane fissava l'altra con gli stessi occhi con i quali ti guardavo io."

Jensen arrivò vicino ad una casa bianca e si fermò, osservando una bambina dai capelli scuri che trotterellava di fronte alla mamma e cercava di raggiungere il campanello stando sulla punta dei piedi. Jensen sorrise lievemente, e poi continuò per la sua strada, ingoiando il groppo alla gola che cresceva senza fermarsi.

"Ora... capisco che è stupido terminare una preghiera in questo modo, lo so, Misha. Il problema è - il problema è che mi manchi sempre di più.

Avevo pensato... che forse avrebbe fatto meno male se ti avessi visto anche solo una volta... una sola, non chiedo altro. E giuro che non avrò paura - non posso aver paura di te.

Mi sento infinitamente idiota a domandarti di fare una cosa del genere - adesso devi essere così felice, così sereno.

Non voglio turbare la tua pace, non voglio infastidirti dopo ciò che hai passato, ma vorrei vederti davvero. Mi manca il tuo sorriso, e mi fa un male indescrivibile pensarci.

The Damned Matrioska è stato lasciato incompleto da Sobolev, e credo che lo finirò io... ma... lo farò solo se ti mostrerai.

Lo farò solo se - solo se mi darai la certezza che sei con me, che esisti ancora."

Jensen giunse in una zona verde disseminata di alberi senza quasi essersene accorto. Non c'era gente lì; nessuno lo avrebbe visto piangere. Ormai il sole iniziava a tramontare, gli occhi di Jensen a pizzicare pericolosamente, le lacrime a cadere sul terreno inaridito sotto i suoi piedi.

Pugni stretti e rigidi, labbra serrate. Le pupille fisse a terra, su un fiore seccato.

"E se allieterai la mia nostalgia anche... anche per un solo secondo... nel finale racconterò che hai mantenuto la tua promessa," disse a voce alta.

Raccolse il piccolo fiore e gli fece fare due giravolte fra l'indice ed il pollice, delicatamente; le lacrime scorrevano come un fiume in piena sul suo volto.

"E racconterò il modo in cui ti ho perso, Misha. Anzi, il modo in cui non ti ho mai perso."

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Quella notte, Jensen si avvolse fra le lenzuola fino a metà del capo, affondando il corpo stremato sul materasso.

Il Zenit Hotel Salento era fin troppo silenzioso; non riusciva a dormire con quella quiete eccessiva.

Era abituato a sentire un altro respiro tranquillo, un altro battito regolare accanto a sé, quelle dita scivolare sulla sua schiena e farlo suo. Proteggerlo.

La sua mano tremò sotto il cuscino appena lavato, le dita contratte.

Jensen avrebbe dovuto dormire. Avrebbe dovuto dormire perché il giorno dopo lui e Jared e Gen sarebbero dovuti ripartire verso le sei e mezza con l'aereo.

Eppure non ci riusciva.

Non si trattava certamente dell'insonnia; quella l'aveva già sconfitta tempo fa, seppur con fatica evidente.

Era sicuro che una parte di lui stesse aspettando che la preghiera si avverasse, che Misha tornasse davvero da lui. Si sentiva stupido a credere a quelle fiabe da bambini, ma non poteva farne a meno.

Attese per tre lunghe ore, stringendo fra le dita il copriletto, stropicciandolo. Ormai stava per essere vinto dal sonno.

Un singhiozzo contro la stoffa.

'No. Devi essere forte.' diceva una voce nella sua testa. Una voce pura, dolce, rassicurante, quasi riconoscibile.

Una lacrima inumidì il suo cuscino bianco, e gli parve quasi di sentire Misha cantare 'The sound of silence' mentre lui riposava.

'No, devi essere forte. Sii forte, amore mio... sono con te.'

Un gesto dolce ed inaspettato gli asciugò la guancia.

Jensen schiuse le palpebre inondate, facendo frullare le ciglia, appiccicose, stupito.

Il calore del corpo di Misha - della sua anima - si irradiò sul suo e lo riscaldò, il tocco affettuoso e delicato che non sentiva sulla propria pelle da due anni lo fece quasi sentir male.

Quello sguardo di un profondo blu notte lo guardò con amore, mentre la sua mano lo coccolava da sotto il lenzuolo, percorrendo la linea del fianco, giungendo ad accarezzargli la schiena.

Dio, gli era mancato come l'aria.

D'istinto, Jensen lo baciò sulle labbra soffici, piano, con tenerezza, piangendo.

Fu un bacio diverso, meraviglioso, spirituale. Fu come se le loro anime si stessero accarezzando. Come se si stessero abbracciando ed unendo per sempre.

La mano di Misha gli raggiunse la guancia, risalendo sulla tempia, sfiorandogli i capelli biondi.

Jensen lo fissò incredulo, separando le loro labbra. "Sei - sei tornato." mormorò con voce rotta, tremando. "Grazie... "

"Te l'ho detto, amore." sussurrò Misha con quella voce che non era cambiata per niente, così come il suo profumo. "Non faccio mai promesse false."

Jensen lo fissò negli occhi per vari secondi, proprio come aveva fatto il primo giorno che l'aveva incontrato; affondò il viso nell'incavo del suo collo, nascondendosi, concedendosi completamente a lui. Gli si erano seccate le labbra per lo sconvolgimento. Strinse gli occhi e circondò la vita di Misha col braccio.

Misha fece aderire i loro corpi, lo coprì col lenzuolo fino ai capelli arruffati e lo baciò sulla fronte.

Jensen notò per un secondo qualcosa che assomigliava ad un paio d'ali angeliche, ma pensò di esserselo immaginato, o di averlo sognato.

"Resto con te per una notte... " sussurrò Misha al suo orecchio, e Jensen alzò appena il capo, guardandolo con occhi imploranti.

Misha era calmo, amorevole, il viso pallido incorniciato dai capelli neri, le labbra rosee, proprio come lo ricordava. "Non posso vederti così. Non posso davvero." Scosse il capo. "Per questo sono venuto da te... "

"Io - io ti... " Jensen non riusciva a parlare, solo affondava e si perdeva negli occhi blu del suo uomo, del suo angelo custode che gli sorrise malinconicamente.

"Anche io ti amo."

Jensen poggiò la fronte sul suo sterno, singhiozzando, sfogandosi fra le sue carezze sulle spalle, le sue coccole.

"Resta con me... " implorò, stampandogli un bacio umido di pianto sul petto.

"Non posso... " disse Misha a fatica, tristemente. "È già tanto che - che sono riuscito a -" Chiuse gli occhi, le dita fra i capelli di Jensen. "Ti prometto che arriverà il nostro momento... re-resterò con te stanotte... così saprai che - che sarò sempre al tuo fianco. Ma poi dovrai svegliarti e lasciarmi andare... ".

Jensen si strinse più a lui.

"... almeno per ora."

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THE END




"Let's all fight to stop homophobia... let's fight"


E niente, bimbi, ho finito e spero tanto che vi sia piaciuta <3 vi ringrazio tantissimo per le recensioni e per averla seguita <3 with love :') mi dispiace per la tristezza del finale *da loro dei fazzoletti*

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