Contromano

di Mirokia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Contromano








Prologo





Mio fratello è piegato sui cassetti della sua libreria da più di dieci minuti, in cerca di qualcosa che, a detta sua, dovrebbe sapermi aprire gli occhi.
«Era qui la settimana scorsa», dice come in una sorta di auto convincimento, «E’ per questo che ti ho fatto venire»
«Cioè, mi hai fatto fare due ore e passa di macchina solo per mostrarmi qualcosa? Non potevi mandarmi una foto?» gli chiedo decisamente innervosito, il mio carattere che non ha preso alcuna svolta positiva: se possibile è peggiorato.
«Una foto non è come averla tra le mani. E poi, dai, avrei fatto una foto alla foto? »
«E’ una foto? Senti, fai prima a dirmi che avevi una voglia matta di vedermi, me la prendo di meno»
«Lo sai che ho sempre voglia di vederti. Sono incompleto senza di te» Loris interrompe per un paio di secondi la sua ricerca, il tempo di inclinare il capo verso di me e rivolgermi uno dei suoi soliti sorrisi, quelli che ho sempre invidiato e che mi riportano nelle narici l’odore dell’erba su cui eravamo soliti giocare, inseparabili, o sulla lingua il sapore della torta panna e fragole, la preferita di entrambi, o sul cuore il doloretto che sole farsi sentire ogni qualvolta mi capiti di toccare coi pensieri il passato.
«Manchi anche ad Antonio», aggiunge tornando a trafficare con sempre meno pazienza. Ed è dura farla perdere a lui.
«Non ci credo neanche se lo vedo», incrocio le braccia convinto, poi perdo la pazienza anche io. «Ma vuoi una mano? »
«Trovata!» esclama finalmente tirando fuori dal cassetto un cartoncino neanche troppo piccolo che però faceva da pavimento a tutti gli altri documenti e aveva lo stesso color panna della base del cassetto. Loris si tira su dolorante e mi porge il cartoncino, che in realtà ho riconosciuto immediatamente. Sul fronte reca una scritta dorata, “Carminio calcio, annata 1990”, e so già bene cosa mi aspetterà non appena aprirò il cartoncino.
«Grazie», dico facendo per mettermelo sotto l’ascella.
«No, aprilo»
«So cosa c’è dentro»
Loris mi sfila il cartoncino dal braccio e me lo porge una seconda volta, scuotendo leggermente il capo alle mie mani che impercettibili tremano.
«Hai 25 anni. Un po’ troppi per fare ancora finta di niente, non pensi? Ma non ti sfinisce mentire dalla mattina alla sera? Non sarebbe ora che prendessi una decisione nella tua vita? »
«Lo sai che non lo farò» Dico rassegnato, occhi sulle mie mani. Mio fratello batte un piede per terra.
«Quanto vorrei prenderti a pugni»
«Mi servirebbero. Magari con una botta un po’ più forte entro in coma e mi sveglio che sono un altro»
Lui si schiarisce la gola, come a volermi dire di piantarla di parlare a vanvera, e allora io schiocco la lingua e mi lecco il lato della bocca in un sorriso sghembo e falso, poi apro il cartoncino rivelando la foto. La mia vecchia squadra di calcio. Undici diciassettenni o quasi, tutti pronti a spaccare il culo alle città avversarie in campionato, con l’idea che le amichevoli fossero solo delle grandi buffonate, e che l’importante era la competizione pura, gli sguardi d’odio tra i due attaccanti nemici, la vittoria schiacciante, la gloria sulla regione. Solo sulla regione, ancora non eravamo in grado di sperare di arrivare più in là. Oltre a noi undici, posavano con noi le due riserve di cui a malapena ricordavo il nome e il nostro allenatore, che poi sarebbe mio padre. Adesso fa l’arbitro, in giro per il Piemonte. Non si stanca mai del suo lavoro. Do un’occhiata ad ognuno dei miei ex compagni, come se non l’avessi già fatto fin troppe volte in passato. Ludovico, Antonio, Diego, Sandro, Michele, Abu, forse, e mio padre, i più alti, in piedi. Poi io, mio fratello, Nicola, Claudio, Marco, Nathan e Simone, forse, accovacciati davanti a loro. Probabilmente mi cade una ciglia nell’occhio, perché inizio a strofinarlo e sento che vuole lacrimare.
«Vai in camera da letto. Quando sei pronto vieni e ne riparliamo» Mi dice Loris con una pacca sulla spalla.
«Senti, non sono più un bamb-»
«Ma non sei ancora cresciuto. Vai»
Ci sarei comunque andato. Non ho voglia di inventarmi una scusa, dato il fatto che sono sull’orlo del pianto. E comunque, con Loris, non servirebbe nemmeno. Quando mi chiudo la porta alle spalle, quella d’entrata si apre e fa il suo ingresso qualcuno. Al che sento Loris dire: «C’è mio fratello in camera. Lascialo perdere. Vuoi un caffè?»






***




Ho tenuto in soffitta questa storia da un po’. La decisione di trascriverla, modificarla, allungarla e concluderla, per non parlare di quella di postarla, è stata sofferta. Avevo il timore che non incontrasse favori, perché molto diversa dalla mia prima long, che ha riscattato un discreto successo. Ma dopo un po’ che tergiverso, sento il bisogno fisico di far leggere quello che scarabocchio su un quaderno alle persone là fuori.
I personaggi sono di mia creazione. Ho nuovamente scelto i nomi sulla base di due caratteristiche: bruttezza e rarità. I nomi brutti e poco usati si ricordano più facilmente. Solo Abu è ripreso, perché ho pensato a un mio compagno delle medie. Lorenzo è un nome a cui sono affezionata, infatti compare in altri miei scritti.
I luoghi sono tutti reali, da me vissuti nella mia adolescenza. I nomi dei luoghi a volte sono inventati, ma più spesso no.
Questo è il prologo. Se vi può interessare, ho avuto io stessa il magone mentre scrivevo alcuni passaggi. Non del prologo, ma dei capitoli. La storia è già conclusa, per evitare di bloccare la pubblicazione a causa di mancanza di ispirazione.
Lasciate un segno del vostro passaggio se queste poche righe iniziali hanno stuzzicato la vostra curiosità!




***




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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***




Capitolo 1



 

 


Non so se considerare il 2007 l’anno più felice o più infelice della mia vita.
La mia adolescenza non aveva nulla di differente da quella di tutti gli altri ragazzi del quartiere, quelli della mia classe, i miei compagni di squadra, insomma, i coetanei che frequentavo. Andavo benino in poche materie prescelte, storia, chimica, educazione fisica. Mio fratello aveva voti migliori, ma certo non poteva essere considerato una cima. Era la condotta che ci distingueva: il mio un 6, il suo un 10: i miei genitori non mi sopportavano più. Ma anche questo sembrava essere normalissimo per uno della mia età. Allora mi chiedevo per quale motivo mi sentissi in realtà così lontano dagli altri ragazzi, così estraniato dal loro mondo, così diverso dall’esatta copia del diciassettenne medio che credevo di essere. Mi chiedevo la stessa cosa mentre mi trascinavo verso il pullmino che ci avrebbe portato su ad Ulzio per un torneo tra province. Il borsone pesava più del solito e mi sembrava più grosso di me e il cuore continuava a saltare i battiti senza un vero motivo. E anche allora fingevo di non vedere la palesissima realtà.
«Ohi, Lorenzo! E alza il passo!» mio padre mi faceva segni dall’entrata anteriore del pullman. «Lo sapevo che non avrei dovuto lasciarti dormire. La prossima volta, ti butto giù dal letto alle cinque, tu e le tue lamentele!»
Scossi il capo e aumentai la velocità. Non l’avrebbe mai fatto. Mio padre era un uomo troppo buono per permettersi di farsi malvolere dai figli. Sin da piccoli, ci tirava uno schiaffo e subito dopo si scusava: era quel tipo lì.
Avevo quasi raggiunto mio padre, quando:
«Loris!»
Riconosciuta la voce fin troppo allegra per quell’ora del mattino, mi voltai a guardare un Claudio che si affannava a raggiungermi. Alzai gli occhi al cielo e mi morsi il labbro, poi presi un gran bel respiro:
«Come cazzo fai a confonderci ancora?!» il tono che utilizzavo non era mai dei più gentili, ma a tutti passava inosservato il fatto che m’accanivo con più impegno con Claudio.
«Oh, certo. Dovresti essermi grato, ti ho dato un aspetto più intelligente oggi» Ribatté lui senza proprio battere ciglio, e fece per superarmi senza curarsi di me, ma ricevette una spintonata che rischiò di farlo finire col sedere a terra.
«Io questo l’ammazzo entro la fine della settimana» Annunciai, con mio padre che già chiedeva al Signore che male aveva fatto per meritarsi tutto quello. Dai finestrini s’erano affacciati Ludovico, Marco e Loris, i primi due che m’incitavano alla rissa, e mio fratello che mi lanciava sguardi omicidi. Stai già rovinando i piani, mi diceva con gli occhi. Tornai in me e lo stomaco si contorse, feci per chiedere scusa a Claudio ma non esisteva che l’avrei fatto, e, dopo aver lasciato il borsone all’autista, salii sul pullman con l’aiuto di una spinta decisa da parte di mio padre. Mi buttai sul sedile accanto ad Antonio, che se ne stava a guardare dal finestrino, fregandosene altamente di quello che gli accadeva intorno. Loris, seduto dietro Antonio, infilò la testa tra i due sedili e mi sentì sospirare.
«Non ce la fai proprio, eh?» mi chiese retorico, e io gli risposi espirando forte dal naso, come un toro in corrida pronto all’attacco. «Ricordati che entro questa settimana devi dichiarar-» in quel momento Claudio attraversò il corridoio e si accomodò ovviamente accanto a Loris, il migliore amico, esattamente dietro di me. Tappai la bocca a mio fratello veloce come la luce e con l’altra mano gli tirai i capelli.
«Giuro che se dici altro, stanotte ti raso i capelli»
Lui tentò di mordermi la mano per convincermi ad allontanarla dalla sua bocca.
«Uhh, che prospettiva spaventosa! Sei bravo con le minacce!»
«Torna a fare la checca col tuo amico» Questo lo dissi più forte, poi gli spinsi la faccia tra i sedili così da farlo tornare dov’era. Lo sapevo benissimo cos’è che mi faceva sentire così lontano dagli altri miei coetanei. Loro su Youporn scandagliavano la sezione “Milf”, “Big tits”, “Threesome”. La mia rotta era ben diversa. Le altre le avevo toccate un paio di volte, ma tornavo al punto di partenza. Eppure non ce la facevo, non volevo ammetterlo. Quei video me li guardavo per intero, venivo che era un piacere, e poi piangevo, dicendomi che no, non avevo guardato proprio niente quella sera. La cronologia era già stata ripulita, non c’era prova che io avessi passato la serata a masturbarmi su video di quel tipo. Loris l’aveva capito da sé, in fondo siamo gemelli e i pensieri in qualche modo convergono sempre. Ma non mi aveva detto granché, se non: «Sai che i gay le capiscono per primi queste cose? Qualcuno in squadra lo è, e potrebbe accorgersi domani stesso che lo guardi adorante appena si gira» E io, «Non dirmelo», e lui, «Sì, i tuoi sospiri sono abbastanza ovvi».
Che fossi pazzo di Claudio ora lo sapevamo in due. E Loris sembrava non voler tenere la bocca chiusa. La faceva facile lui, amichevole, avvenente, dalla retorica sciolta, fiducia in sé, autocontrollo e tante altre belle qualità che in me marcivano: scontroso, goffo, suppergiù analfabeta, sfiduciato e autocontrollo assolutamente inesistente. E dire che di fuori eravamo due gocce d’acqua, capelli castani che restavano su quasi ci mettessimo la lacca ogni mattina, occhio sul verde sporco e lo stesso neo sotto l’occhio destro. Non era una novità che anche quella mattina qualcuno della squadra ci avesse confusi. Forse è principalmente per questo motivo che ci siamo sforzati di assumere atteggiamenti tanto opposti. Eravamo i gemelli della quarta B, lui “quello a posto”, io “quello un po’ tocco in testa”. Pensavo che il bad boy andasse di moda, ma sembrava che le ragazze girassero solo attorno a Loris. O magari ero io ad allontanarle con la sola aura, dato che a quanto pareva ero frocio forte. Ma non avevo un vero motivo per odiare mio fratello, nessuno ce l’aveva, ed era così che lui andava d’accordo con tutti e io con pochi o nessuno.
«Vedo che anche tu stai ancora dormendo» Antonio mi distrasse dai miei soliti pensieri. Lui era uno dei pochi, ma anche quello con cui parlavo di meno: ce la intendevamo spesso con uno sguardo, un gesto, un’espressione facciale, un suono. Mi ero sempre chiesto perché non avrei potuto prendermi una sbandata per lui; era lo stereotipo che chiunque avrebbe voluto trovarsi nel letto: tanto alto da farmi vergognare – io ero un misero metro e 65 -, spalle e schiena da giocatore di pallanuoto, addominali che potevi lavarci il bucato, capello castano e riccio sistemato passandoci semplicemente la mano di mattina, occhio dall’aria malinconica e che mai avresti voluto che ti puntasse nei momenti in cui l’ira saliva di livello.
«Anche tu hai fatto fatica a svegliarti?» chiesi dopo essermi accorto di averlo fissato troppo a lungo.
«Io no», e poi fece segno col capo di guardare negli ultimi sedili del pullman: Sandro era praticamente svenuto sulla spalla di Nicola, che teneva gli occhi chiusi e le cuffiette nelle orecchi mentre, nel sedile dietro, Nathan s’era addormentato con la bocca aperta nonostante al suo fianco Ludovico fosse bello pimpante e adesso mi stesse chiedendo per quale motivo non avessi iniziato una rissa pre-torneo. Incrociai le braccia, appoggiai un ginocchio sul sedile davanti a me e chiusi gli occhi.
«Perché non ci risparmi le tue domande da babbeo e provi a riposare fino all’arrivo?» intervenne Michele, tra i primi posti sul pullmino, l’orecchio sempre attento e vigile, il tono da mamma chioccia che sgrida i figlioletti. Michele era quello con gli occhiali insieme a Nicola, quindi sembrava più che naturale per tutti gli altri prenderlo in giro per il suo essere “secchione”. In realtà Michele aveva una media normalissima, vicina a quella di Loris, ed era stato sempre presente agli allenamenti, il che suggeriva che non stava poi tanto spesso in casa a studiare. E se non era agli allenamenti lo si vedeva in giro a fumare una sigaretta dietro l’altra, che fosse in compagnia o da solo. Sicuramente non studiava. Marco diceva che secondo lui era uno di quei tipi che si credono troppo in gamba per stare ore con gli occhi sui libri a cercare di ficcarsi in testa nozioni che non gli sarebbero servite nella vita. Uno di quelli che aveva già calcolato scrupolosamente il suo futuro e sapeva bene cosa sarebbe stato meglio studiare e cosa ignorare del tutto. Era un asso in inglese, a quanto dicevano. Non avevamo un vero e proprio rapporto.
Ludovico invece era il tipico buffone senza riserve, quello che infilava due arance sotto la maglietta per farle sembrare un paio di tette, quello che faceva l’elicottero col pene fuori dalla doccia, quello che non sapeva mai quand’era l’ora di darci un taglio con le battute razziste.
«Ehi, ci sarà anche una squadra femminile, secondo voi?» Marco interruppe quello che sembrava un insulto pesante da parte di Ludovico. L’ultimo arrivato, una delle due riserve, finalmente salì sul pullman, che ebbe la possibilità di partire.
«Vedi di concentrarti a tirare dritte le palle, piuttosto» Fece il simpatico Diego accanto a lui.
«E tu impara a prenderle, le palle!»
«A quello ci pensa già Claudietto, mi pare» La frecciatina di Diego raggiunse dritta dritta Claudio, che lanciò un’occhiata a Loris e sorrise sotto i baffi.
«Fa quasi ridere, Diego, bravo!» esclamò sorridendo come se si stesse sinceramente divertendo. Diego si risistemò sul suo posto mormorando un: “Fa troppo il furbo per i miei gusti. Sarà bene che non si avvicini a me in questi giorni”.
«Hai da sperare che non ti ci mettano in camerata insieme» Disse Marco, occhi sul telefonino.
«Piuttosto dormo con le capre»
«Ti sentiresti a casa!» gli urlò Claudio, che aveva seguito la conversazione. Diego si alzò dal posto col pugno che si stringeva lungo il fianco e la voglia di spaccare qualche bel faccino, ma mio padre lo fermò prima che potesse fare qualunque cosa gridandogli di tornarsene a sedere. Non eravamo una squadra che andava esattamente d’accordo, ma almeno in campo sapevamo intendercela. E la mia speranza, forse quella di tutti, era che le prese in giro, le frecciatine, gli insulti e le minacce che volavano di tanto in tanto, non intaccassero la nostra prestazione in campo per quella settimana. Ma avevo il presentimento che non sarebbe andata proprio così.
Ludovico, capelli neri a spina e più gellati del solito, cercò di attirare nuovamente la mia attenzione lanciandomi una pallina di carta. E proprio quando stavo per restituirgliela pensandola spazzatura, lui: «Devi leggerlo, coglione!» mi intimò. Srotolai il pezzo di carta e vidi che si trattava di uno scontrino che elencava vari tipi di alcolici.
«Che è? La lista della spesa?» chiesi storcendo esageratamente la bocca. Ma mi passai subito il polso sulle labbra quasi a volerle pulire da quel gesto a mia detta molto gay. Antonio mi stava guardando, e io non riuscii a non far schizzare gli occhi in varie direzioni, come solevo fare quando mi prendeva il nervoso.
«Esatto, quella che abbiamo fatto ieri io, Marco e Nathan. Stasera si fa festa!»
«Ne dubito. Non avete tutti diciassette anni?» si intromise Michele col suo solito cipiglio.
«Ho la carta d’identità falsa, scemo» Ribatté Ludovico, come se fosse la roba più ovvia di questo mondo.
«Capito, scemo?» gli fece il verso Claudio.
«Trasgressivo. Ho la pelle d’oca» Commentò Michele, e Simone accanto a lui scosse la testa ridendo piano.
«Non vi conviene bere. Avete speso soldi per nulla» Disse Claudio, e Ludovico fece, più piano: «Non è un problema, ho provveduto anche alle pillole post-sbornia»
«Ottimo, ci mancava la droga» Ironizzò Claudio, e fu a quel punto che intervenni. Dovevo zittirlo, quella voce mi stava facendo tremare le cellule nervose.
«Senti, ma che te ne frega? Se non vuoi bere, non bevi, idem per il resto»
«Che poi, il solo a stramazzare sul campo è sempre lui» Lo punzecchiò Diego, uno di quelli in squadra che parlava poco, ma quando doveva fare qualche battuta era ben calcolata e modulata e aveva sempre un fondo di verità. Per questo suonavano come le più cattive. Diego era il “capitano cuore-di-pietra”, il bello e impossibile, uno che avrebbe avuto sicuramente una carriera più proficua in uno spot di Paco Rabanne. Pelle costantemente abbronzata, capelli scuri sistemati in un ciuffo preciso, e sopracciglio tagliato da una cicatrice in più punti, giusto perché non sembrava abbastanza stereotipato. Ah, aveva anche due occhi blu e giganti: la morte di ragazze, donne, vecchie, bambine. Diego andava a genio a tutto il genere femminile, ma tra gli uomini in pochi riuscivano a parlare di lui senza ficcare qualche insulto gratis nella descrizione.
Claudio, incredibilmente, non seppe come replicare, e Loris gli sfregò la mano sulla spalla bisbigliandogli che “Ha solo bisogno di attenzioni, lascialo fare”. Era vero che Claudio era quasi svenuto tre o quattro volte in campo e aveva proprio perso i sensi altre due volte. Era capitato anche a scuola, a quanto pareva, ma meno spesso. I medici l’avevano sempre preso come un calo di zuccheri o di pressione, soprattutto quando sudava o si sforzava più del dovuto. Il suo fisico era prestante, ma poteva avere quei picchi di benessere e subito dopo collassare, per uno sforzo muscolare a cui Claudio, impegnato sulla partita, non faceva mai caso. Non gli faceva mai piacere che le partite venissero interrotte a causa sua, e ancora meno che i compagni iniziassero a pensare che svenisse apposta per attirare l’attenzione. Era una grossa seccatura di cui avrebbe fatto volentieri a meno.
Nathan si svegliò e iniziò a bofonchiare qualcosa nel suo buffo accento americano, qualcosa come, “Se vi drogate troppo poi vi fate la cuoca”, così gli animi s’alleggerirono e non ci furono altre frecciatine sino al nostro arrivo ad Ulzio. Recuperammo ognuno il nostro borsone e seguimmo mio padre che, merito probabilmente del buon umore mattutino e delle gambe scattanti, era già quasi arrivato davanti alla pensione che ci avrebbe ospitato durante quella settimana. Era decisamente una casa di montagna: tutta su un piano, composta da due camerate e una sala pranzo stile mensa per i poveri, le fondamenta che sembravano voler smettere di reggere da un momento all’altro. Per lo meno, il paesaggio era mozzafiato: odore di pulito, verde brillante, alberi sporadici in quel punto ma che s’infittivano giù per la discesa creando un piccolo bosco, e le montagne tanto grandi e vicine da sembrare che s’affacciassero su di noi.
Mio padre aspettò che ci raggruppassimo, poi tirò fuori dalla tasca un foglietto e si schiarì la voce.
«Spero non abbiate sperato un solo secondo di potervi distribuire come vi pare nelle camerate» Iniziò, e già lì sentii Diego pregare con un: “Non con Ferrari, non con Ferrari”, che poi era il cognome di Claudio, a voce abbastanza alta da farsi sentire dall’interessato, giusto davanti a lui.
«Vi ho suddiviso in ordine alfabetico perché, come vi ho detto qualche giorno fa, qui godiamo di un servizio speciale…»
«Quello della cuoca?» tossicchiò Nathan e noi trattenemmo a fatica le risate.
«Alla fine della giornata vi basterà lasciare la roba, che spero abbiate etichettato, fuori dalla camerata, e delle gentilissime signore la laveranno per voi per poi lasciarvele ai piedi del letto la mattina dopo, probabilmente mentre starete ancora dormendo. Quindi vi pregherei di sistemarvi nei letti in ordine alfabetico, per non farle dannare, poverine»
«Eh, poverine» Gli fece eco Nathan. Mio padre lo ignorò e si apprestò a leggere la lista.
«Quindi, in poche parole, nella camerata a sinistra si apposteranno, in quest’ordine: Marco, Abu, Ludovico, Claudio, Lorenzo, Loris e Antonio. In quella a destra: Nathan, Diego, Nicola, Michele, Sandro, Simone ed io. Tutto chiaro?»
Quando concluse, calò uno strano silenzio, c’era chi si guardava intorno alzando le spalle, chi era sinceramente sollevato e chi si metteva una mano dietro il collo, insoddisfatto. Ma non era andata troppo male: l’accoppiata vincente, Ludovico e Marco, era intatta; i migliori amici per sempre, Nicola e Sandro, erano insieme, e anche a me era andata… un momento…
«Te ne sei reso conto, eh?» mi chiese Loris nel momento in cui sembrò che un fantasma mi fosse passato davanti. A quanto pare ero impallidito istantaneamente. Secondo la scaletta di mio padre, io avrei dovuto dormire accanto a Claudio? Dio no, sarebbe stato un suicidio! Ero ancora lì a boccheggiare quando Loris mi toccò il braccio:
«Vuoi che cambiamo posto, io e te? Tanto che differenza fa?» Annuii come un robot, senza neanche girarmi a guardarlo. «Anche se questa era la tua occasione…»
«No, non ce la faccio, lasciami perdere, ok? E giuro che ti sfondo a calci se non la pianti di parlare a sproposito» Gli bisbigliai, ripreso dallo shock.
«Va bene, tranquillizzati. Sei un nervo unico». Loris alzò gli occhi al cielo e mi fece cenno di muovermi, ché gli altri stavano già entrando.



«Cos’è sto schifo?»
Come da copione, Ludovico commentò le condizioni della stanza con un lato della bocca piegato all’ingiù.
«E’ solo una settimana, Ludo, abituatici» gli ricordò Loris gettando il borsone con noncuranza su un letto.
«Ah, avete fatto cambio?» domandò Claudio quando notò che avevo posizionato la mia roba lontano da lui.
«Per forza. Già mi dà fastidio respirare la tua stessa aria».
Loris si voltò di scatto a guardarmi quasi volesse uccidermi. L’avevo fatto di nuovo. La sola idea di potermi rammollire soltanto davanti a Claudio mi metteva i brividi. Non volevo cambiare per nessuno, figuriamoci per il mio biondo amore segreto, quello che nascondevo da quasi tre anni, che nessuno avrebbe accettato, lui per primo, io per secondo. Immagino che davanti ad ogni altra cosa, io fossi un codardo come pochi altri nel mondo. Col temperamento che avevo, avrei potuto tranquillamente gridare ai quattro venti quello che provavo senza pensarci due volte, ma no, avevo troppa paura, la fifa mi paralizzava. Paura di qualunque cosa, pregiudizi, reazioni, rifiuto, emarginazione, insulti, imboscate, discriminazione. Per un ragazzo di quell’età, il giudizio degli altri era ciò che di più importante potesse esistere. La reputazione, l’orgoglio, la dignità. Tutte cazzate che si scioglievano la notte nel mio letto mentre piangevo col cazzo moscio in mano.
Mi chiedevo come facesse, Claudio, a sopportare tutto quello senza battere ciglio.
«Come vuoi» disse, come se le mie parole gli fossero entrate da un orecchio e uscite dall’altro. La rabbia mi solleticò la nuca.
«Hai mica paura che ti assalga di notte? Abbassa un po’ la cresta, che a te manco i gay ti filano» mi sfotté Marco con la faccia dell’uomo di mondo. Lui era il pel di carota della squadra, aveva questi capelli rossicci arrangiati in una specie di orribile caschetto, e l’occhio verde e vispo. Non sembrava vero, eppure aveva orde di ragazze ai suoi piedi, quasi quante ne aveva Diego. Certo, Marco era decisamente più sopportabile, meno reginetta e più terra terra. Uno con cui è divertente uscire a bere una birra ed abbordare ragazze. Se io avessi potuto, almeno.
Al suo complimento gratuito risposi con un cuscino in faccia.
«Ah sì?» Marco prese il suo, di cuscino, e mi colpì dritto sullo stomaco.
«Fighissimo, anche io!» si esaltò Ludovico, diede una gomitata ad Abu, e tutte e due si infilarono nella mischia, mentre Claudio, Loris e Antonio guardavano da un angolo, chi con gli occhi rivolti al cielo, chi con la mano sulla fronte.
«Sembrano quattro amiche a un pigiama party» commentò Loris e Claudio annuì.
«Com’è che Lorenzo non è venuto fuori come te?» gli chiese Antonio sorridendo tra sé e sé, e l’altro si girò stupito a braccia conserte, soprattutto perché non era roba di tutti i giorni vederlo sorridere.
«E’ un complimento?»
«Guardate che vi ho sentito!» urlò Ludovico per poi fiondarsi sui tre nell’angolo e riuscendo a prendere solo Claudio, che poi era l’unico a non aver detto una parola. «Tieni, prendilo!» Ludovico passò letteralmente il povero Claudio ad Abu, che poi lo spinse verso Marco, che ovviamente me lo lanciò contro. Finimmo su di un letto, Claudio confuso su di me, ancora più confuso di lui. Eh, no, eravamo arrivati da mezz’ora, non potevo trovarmi già in quelle condizioni. Claudio tentò di ricomporsi, i capelli sottili che tremavano ad ogni movimento, la bocca screpolata contrassegnata da un neo sul labbro superiore che mi sfiorava il mento, e io che ero pietrificato è dir poco. Solo nel momento in cui Marco fece: “Ehi, piccioncini, vi volete muovere?”, riuscii a sbloccarmi e a spingere via Claudio con un “E lévati!” spompato. Il cuore mi batteva in testa.



«Ragazzi, prendete, una ciascuno!» a smorzare la tensione ci pensò Nathan, appena comparso magicamente nella stanza. Lanciò una pastiglia bianca ad ognuno col suo ghigno sghembo e gli occhi quasi del tutto chiusi. «E’ per festeggiare l’arrivo in un albergo lussuoso, accogliente e profumato come questo!» si giustificò mostrando i denti  giallognoli. Diamine, sembrava già strafatto.
«Ecco a cosa serve avere uno straniero in squadra! Ti procura tutta roba buona. Vero, Abu?» fece Ludovico per poi mandare giù la sua pillola.
«Che vuoi?»
«Sei straniero anche tu, eppure niente roba da parte tua»
«Sono più italiano di te» Ribatté quello senza troppa enfasi, e si intascò la pillola, probabilmente intenzionato a disfarsene il prima possibile senza che qualcuno lo mandasse al diavolo.
«Boom, preso!» esclamò Marco, che ricevette un’altra cuscinata in pieno volto.
«Quanto dura questa roba?» chiesi a Nathan prima che potesse squagliarsela.
«Che ne so, un paio d’ore?»
«Quanto?!» Ludovico tossì nella speranza di farsela tornare su dall’esofago. Geniale. «Ma non ci vorranno fare allenare adesso, vero?»
«No, credo che come riscaldamento andrà bene una briscola a undici» rispose Nathan, chiaramente ironico, ma Ludovico non colse ovviamente il senso. «Ti pare? Il capitano mi ha chiesto di dirvi di prepararvi, ché tra un po’ scendiamo ai campetti». E, riferito il messaggio, scappò via più euforico del solito.
«Dovevano mettere per forza quel buffone di Martini a fare il capitano?» si lamentò Ludovico riferendosi a Diego.
«E’ un ragazzo abbastanza responsabile» fece Loris dopo aver raccolto tutte le pillole e averle messe in un cassetto. Ovviamente aveva diretto una poco riconoscibile frecciatina a Ludovico, che s’era ingoiato la pastiglia senza neanche dare il tempo ai suoi due neuroni di mettersi d’accordo. Ma lui non afferrò nemmeno quella frecciatina.
«C’è di meglio. Come te o il buddhista».
Con “buddhista” intendeva Michele, che aveva passato un periodo mistico di un paio di settimane in cui credeva di aver cambiato religione. Loris mosse una mano come a voler scacciare una mosca e si piegò ad allacciare le scarpe. Claudio invece stava guardando Antonio, e la cosa non mi andava proprio a genio. L’avevo già notato in passato: gli lanciava occhiate insistenti quando lui guardava altrove, quasi fosse incantato su qualche particolare. E cosa peggiore di Claudio che si prendeva una sbandata per mio fratello era che se la prendesse per il mio migliore amico. Chiaramente più figo e attraente e risolutivo di me. E sembrò notarlo anche qualcun altro.
«Ehi, Cla, ti piacciono le tette di Antonio? Lo fissi da cinque minuti buoni» rise Marco, e Antonio lo guardò di sottecchi, come se davvero non potesse fregargliene di meno, o come se lo avesse interrotto nel mezzo di un lavoro urgente e di vitale importanza.
«Eh, vedi di non farci vergognare. Magari evita di fissare il centravanti avversario» aggiunsi senza riuscirmi a trattenere, e Marco mi allungò un cinque, che ricambiai con finto slancio. Vidi Claudio tornare mesto sulle proprie scarpe, Antonio puntare lo sguardo perforante su di me e Loris scuotere la testa prima di prendere il borsone e uscire all’aria aperta. Mi bruciavano occhi e gola, e le mani formicolavano, quasi a voler afferrare una redenzione che a ogni mia frase poco pensata sembrava allontanarsi e sparire nella nebbia che avevo in testa.



 

 



***

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2










Quel pomeriggio Ludovico aveva avuto un attacco di vomito ed era stato sostituito da Abu che, fosse stato per me, avrebbe sempre giocato al posto di quel buffone. La scusa che presentò a mio padre fu di aver risentito troppo del viaggio in pullman, ma a quello non suonava per niente bene. Sapeva bene cosa succedeva in squadra, ma voleva fingere ancora un po’ di non vedere e sentire nulla, almeno fino alla fine del campionato.
Il primo incontro si sarebbe tenuto il pomeriggio del giorno dopo, così avremmo avuto anche l’indomani mattina per ripassare gli schemi di gioco.
Mentre tornavamo dai campetti dopo esserci fatti la doccia, notammo un campo da beach volley pieno di gente, chi giocava, chi osservava la palla muoversi da una parte all’altra della rete e chi tifava.
«Figa! Figa ovunque!»
Dal commento di Marco, fu chiaro a tutti che giocatori, pubblico e tifosi fossero tutte donne. I pantaloncini raso culo e le canottiere aderenti non aiutavano per niente il povero Marco, che era già pronto a buttarsi sulla rete, occhi fuori dalle orbite. Sembrava non vedesse un essere di sesso femminile da millenni. Il resto della squadra seguì Marco a ruota ed iniziò a salutare le ragazze in panchina quasi come i bambini delle elementari che alla recita di fine anno salutano i genitori in decima fila. Quasi. Le intenzioni non erano proprio le stesse.
«Ma che ci fanno delle polle come queste in un posto come questo?» domandò Diego al vento, anche lui completamente stralunato. Altro che pasticche di Nathan, ecco cosa li faceva davvero partire per la tangente. Nicola aggrottò le sopracciglia e si staccò dalla rete dopo esserci stato due secondi, poi procedette per le camerate col sacco sulle spalle. Lui era il tipo da fedeltà verso una sola persona alla volta, non poteva permettersi distrazioni e sicuramente non aveva intenzione di concedersele.
«Così a prima vista sembra che siano in partita. Chissà, magari fra poco vedremo anche delle tenniste» ironizzò Claudio, sinceramente divertito dalla scena. E mentre tutti erano ormai rapiti dai sederi sodi delle pallavoliste, io m’ero incantato proprio su Claudio, coi suoi capelli ancora bagnati dalla doccia che lasciavano scivolare gocce brillanti lungo tutto il collo ricoperto da una leggera peluria bionda. Mi venne un brivido che mi passò la schiena per intero, come se quella goccia stesse tracciando il suo percorso anche su di me, poi dovetti distogliere lo sguardo. Mi bruciavano gli occhi.


Le tenniste non c’erano, ma era vero che si stava svolgendo anche un torneo di beach volley. E quella sera Marco si adoperò per scoprire dov’è che alloggiassero le pallavoliste, ma non ci voleva chissà quale genio, visto che l’unico albergo nelle vicinanze era quello dietro al nostro, dall’altra parte della strada.
«Bingo! Lo sapevo che le avrei trovate lì!» esclamò tutto preso dalla situazione, in piedi sul letto per vedere meglio fuori dalla finestra minuscola. Noi altri ci fiondammo su quel buco quadrato per assicurarci che il nostro compagno non avesse le allucinazioni. In effetti, dall’altra parte, le finestre illuminate e con le tende aperte lasciavano intravedere le ragazze di quel pomeriggio al primo piano, e ragazzi con la divisa degli stessi colori al piano terra, probabilmente la squadra maschile.
«Ehi, Cla, vieni a vedere. Qui c’è anche pan per i tuoi denti!» lo chiamò Marco, che aveva appena tirato fuori un binocolo da chissà dove.
«Quello lo hai portato per osservare il paesaggio?» domandò Loris di sottecchi.
«E che paesaggio!»
«Posso guardare anche io?» fece Claudio, e Marco gli diede volentieri il binocolo, ché voleva qualcuno con cui gioire, anche se non per la stessa causa. Ludovico era ancora mezzo KO sul letto a lamentarsi di non riuscire ad alzarsi e di voler vedere così tanto le pollastre che gli stava venendo fame; Diego era nell’altra stanza, ma sicuramente anche lui ben in piedi sul letto, con la faccia contro il vetro della finestra; io e Antonio c’eravamo stufati di quel casino e ci eravamo seduti per terra in un angolo a guardare torvi tutti quanti; Abu si stava girando una sigaretta, ché a quanto pareva aveva un appuntamento con Michele verso mezzanotte e mezza per fuggire per qualche minuto e fumare lontano da occhi indiscreti; Loris rideva, anche lui con gli occhi lunghi sulla finestra. Sentimmo gridolini piuttosto acuti venire dalla stanza accanto, e ci immaginammo Nathan e Diego litigare per chi doveva guardare dalla finestra.
«Ma questi si cambiano davanti alle finestre?» fece Claudio col binocolo puntato al piano terra.
«Mica noi uomini siamo vergognosi come le donne, Cla. E poi, mica immaginano di essere spiati da un finocchio in calore» intervenne Ludovico, pallido e con le mani strette sullo stomaco, ma ancora in vena di battute.
«Sì, grazie tante» rispose l’altro senza staccare gli occhi dal binocolo. «Riparliamone quando ti passa la diarrea».
Io intanto me ne stavo a braccia incrociate a muovere nervosamente le dita, uno sguardo che parlava di omicidio. Mi chiesi per quale motivo Antonio non sembrasse minimamente interessato e contemplasse il soffitto leggermente macchiato di muffa con occhi annoiati. Magari già si vedeva con qualcuno e io non lo sapevo. Eppure non lo vedevo mai con gli occhi sul cellulare intento a mandare messaggi a presunte fidanzate. Poi, miracolosamente, parlò.
«Ma perché invece di guardare e basta non le andate a trovare?»
Tutti si voltarono di scatto al suono della sua voce, più unico che raro, poi si dissero che non era affatto una cattiva idea.
«Ma stasera?» chiesi io stimolato da un fastidioso formicolio dietro la nuca.
«Stasera è un po’ tardi, facciamo che andare domani» propose Loris, e tutti accolsero l’idea.
«Piuttosto, fate venire Michele e gli altri» fece Abu impaziente, e io mi proposi di andare a chiamarli. Perché probabilmente se non l’avessi tranquillizzato io, mio padre avrebbe tirato giù una sfuriata.


Una volta tutti costretti in una camerata, Marco e Ludovico raccontarono di voler irrompere nell’albergo dietro il nostro, e Diego ovviamente disse di aver avuto la stessa idea.
«Ma tu non eri quello fidanzato?» osservò subito Loris.
«Ehi, siamo sperduti in montagna. Se voi chiudete la bocca, non verrà mica a saperlo» ribatté quello, freddo come il ghiaccio.
«Giusto! Spiriti liberi si nasce!» concordò Nathan abbracciando l’amico.
«Ehi, mi salutano!» esclamò Ludovico, ripresosi all’improvviso, ora detentore del binocolo. Tutti si fiondarono a vedere, come fecero parecchie altre volte in seguito.
«Ma non abbiamo nient’altro da fare?» chiese timidamente Nicola, seduto in un angolo del letto, quando si accorse che anche il suo fido compagno Sandro si stava interessando alle pallavoliste.
«Ecco, Nico. Prendi questa e scolatela». Marco saltò giù dal letto, andò a frugare nel borsone di Ludovico e tirò fuori una bottiglia piena di liquido rossastro, che poi stappò e ficcò tra le mani del compagno. Nicola lo guardò malissimo, ma lo stesso prese piccoli sorsi per poi strabuzzare gli occhi.
«Me ne passi un po’?» fece Claudio con la mano tesa, ma lo sguardo rivolto altrove.
«E’ un po’… forte, vacci piano» lo avvisò l’altro togliendosi gli occhiali quadrati e calandosi il cappellino nero sugli occhi. Claudio prese due sorsi distratti e poi mi porse la bottiglia guardandomi appena, magari pensando che fossi Loris. Gli strappai la bottiglia dalle mani senza indugi e, nel momento in cui poggiai le labbra, pensai con contentezza di aver appena ottenuto un bacio indiretto. Ero davvero disperato, mi dissi. Per tenere più a lungo il contatto, bevvi una quantità considerevole di liquore e se Antonio non me l’avesse tolta dalle mani probabilmente avrei continuato a mandare giù senza rendermene conto. Ma non bastava l’alcol, perché Diego si mise anche a fumare in camera, e Abu e Michele lo imitarono fregandosene dei segreti di stato. Riuscivo a sopportare tutto, ma non il fumo. E poi quella maledetta finestra si apriva solo per metà, ci sarebbero volute ore perché la puzza se ne andasse del tutto. Mi decisi a uscire dalla camera a gas, e così sembrò fare anche il mio biondo amore segreto.
Si socchiuse la porta alle spalle e venne accanto a me, poi s’appoggiò con le spalle alla struttura come avevo fatto anche io.
«Aria fresca, finalmente» commentò inspirando a fondo e lasciando perdere lo sguardo nella notte. Al buio non riuscivo a distinguere bene i lineamenti del suo volto, ma ero decisamente, indiscutibilmente fuori controllo. Il cuore e i denti battevano con eguale intensità, le mani nelle tasche sudavano furiosamente, il respiro era sconnesso e gli occhi schizzavano a destra e a sinistra. Ero chiaramente alticcio. E perdutamente fuori di me. Cos’era che mi aveva strizzato il cuore il momento in cui mi aveva rivolto la parola per la prima volta? Davvero mi aveva rapito a prima vista? Non è possibile, non m’era sembrato poi così di bell’aspetto. Insomma, aveva la faccia piena di nei, i padiglioni auricolari enormi e il naso costantemente rosso, quasi avesse un raffreddore che non voleva saperne di passare. C’era qualcosa nel carattere? Non è possibile, mi avevano parlato di lui come di un pazzo, uno dagli sbalzi d’umore non indifferenti, che un giorno ti adorava e l’altro ti scansava. Non m’aveva condizionato il fatto che fosse gay, ce l’aveva ammesso solo qualche mese prima e tutti gli avevano detto di saperlo già, perché “si vedeva”. Io non l’avevo visto. Avevo visto qualcos’altro, ma cosa? Forse non era qualcosa che si vedeva ad occhio nudo…eppure in quel momento potevo dire con certezza che qualunque cosa riguardasse lui mi faceva tremare tutto.
«Hai freddo?» mi chiese facendomi notare che, effettivamente, ero tutto un brivido. Non risposi, mi limitai a girarmi dall’altra parte come un bambino che rifiuta il cibo che la madre gli offre.
«Ehi, Cla, non me lo consumare, ché mi serve per l’assalto alle pallavoliste di domani!» Ludovico aveva fatto capolino dalla porta per un attimo facendoci prendere un coccolone e poi era rientrato lasciandoci sprofondare nuovamente nel nostro imbarazzante silenzio. Iniziavo a vedere doppio.
Claudio sospirò: «Io e te non andremo mai d’accordo, vero?»
Alzai le spalle, il respiro sempre più corto: «Non so» fu la mia risposta scarna.
«Ce l’hai con me per qualche motivo? Ho qualcosa che non va?»
«No, non hai niente che… lascia stare». L’alcol doveva un attimo acquietarsi adesso. Non era il momento di far venire tutto a galla. O forse sì?
«Perché? Voglio sapere. Se hai un buon motivo per detestarmi, cercherò di sistemare tutto. Allora?» incalzò, e non avevo idea del perché stesse insistendo con tale veemenza.
«Macché. Caso mai…, niente, lascia perdere». Di nuovo provai a divagare, anche se il danno era fatto. Non volevo dire una parola di più, quindi mi schiacciai una mano sugli occhi e rientrai in camera. Mi parve di sentire Claudio dietro di me sospirare, ma può darsi che fosse soltanto un altro sospiro nel mio petto.


L’atmosfera in camerata sembrava essere completamente cambiata, in quei dieci minuti che avevo passato fuori: Loris era già nel suo letto, Nicola e Sandro s’erano addormentati su un letto che non era il loro e gli altri giocavano a carte per terra. In effetti anche io sentivo il sonno che faceva pressione sulle mie palpebre, nonostante la conversazione del tutto eccitante che avevo appena avuto. I ragazzi mi invitarono a giocare ma dissi loro che ero sbronzo e che volevo dormire. Quelli mi insultarono per un po’, ma li sentii fino a un certo punto, perché sprofondai sul mio letto e mi addormentai con davanti agli occhi l’immagine di un Claudio che mi copriva con una giacca.


La mattina seguente mi svegliai prima di tutti gli altri: ci metto sempre un po’ ad abituarmi a dormire in un posto che non è casa mia. Dopo aver realizzato di essere l’unico ad essere sveglio, mi resi anche conto che quello della sera prima non era stato un sogno: avevo davvero addosso la mia giacca, e sicuramente non ero stato io ad usarla come coperta. Adesso avevo le orecchie in fiamme dall’imbarazzo. La terza cosa che notai fu che due donne trafficavano con cura ai piedi dei nostri letti: stavano posizionando le divise pulite in ordine alfabetico, proprio come ci aveva detto mio padre. Il quarto particolare che sarebbe dovuto saltarmi all’occhio immediatamente era che una delle due donne era uno schianto. Davvero sprecata per starsene in un posto come quello, isolato dal mondo. Anche lei s’accorse di me, e si portò in fretta un dito davanti alle labbra, intimandomi di fare silenzio, quindi evitai di svegliare Ludovico che ronfava in una posizione da contorsionista accanto a me e aspettai che le due donne uscissero per mettermi a sedere. Mi guardai attorno e notai che Loris e Antonio s’erano addormentati con la testa appoggiata all’addome di Claudio, che aveva le mani dietro la testa, e probabilmente era l’unico disteso dritto sul letto. Antonio si mosse un poco e finì con la testa contro Loris, che si limitò a fare un rumore con la bocca.
Rimasi a fissare, come sempre, un punto nel vuoto fino al passaggio della sveglia umana: mio padre. Notando quello che aveva tra le mani (un’enorme pentola probabilmente piena di acqua gelida), mi alzai di scatto dal letto scavalcando Ludovico e mi piazzai contro il muro. Un secondo dopo tutti stavano cacciando urli poco virili borbottando maledizioni tra i denti.
«Non dovevate tornare subito in camera ieri sera? Fannulloni! Vergognatevi!» rimproverò i ragazzi che avrebbero dovuto dormire in camera con lui. Il suo tono non era per nulla amichevole, e il fatto che fosse già così arrabbiato solo il secondo giorno di ritiro, non ci dava aspettative particolarmente rosee.
«Mister, basta!» urlò Nicola, che mai lo si era sentito urlare, e se ne andò filato a fare colazione così com’era, zuppo e in pigiama.

Quella mattina si ritrovarono tutti particolarmente carichi, nonostante le bottiglie bevute il giorno prima. Il più in forma sembrava essere Loris, che non riusciva a stare fermo sulla porta e alla prima occasione si lanciava per poi afferrare sicuro la palla, da qualunque angolo arrivasse. Mio padre fece una faccia da “Ah, però”. Nicola era di malumore, come sempre, e Claudio accusava un fastidioso mal di testa. Quasi mi andava di chiedergli se avesse bisogno di qualcosa, ma non ero mica così coraggioso. Avevo bisogno di un mese di ripensamenti prima di riuscire a fare una roba simile. Sembrò riprendersi all’ora di pranzo dopo essersi preso un’aspirina, ma comunque rimaneva bianco come un lenzuolo.
«Loris, vai a chiedergli che ha» bisbigliai al mio gemello mentre pranzavamo. Non cucinava per niente male, la cuoca.
«A chi?»
«A chi, secondo te?»
«E’ uno dei suoi mal di testa, lo sai che ne soffre. Fra un po’ si sentirà meglio. E se ci tieni tanto, vai tu a chiederglielo».
«Non lo farò di certo».
«E allora stattene lì fermo insieme alla tua frustrazione». Chiuse secco la conversazione, probabilmente troppo concentrato sulla partita che si sarebbe tenuta il pomeriggio per stare ad ascoltare le mie paturnie.
«Ehi, Ferrari, stai morendo?» esordì Diego ridacchiando. Quello, peggio stava Claudio e meglio stava lui. Colsi la palla al balzo e provai a dire qualcosa, anche se non era esattamente quello a cui avevo pensato.
 «Non adesso, eh, che ci servi».
«Spero per la partita e non per succhiartelo dopo» disse Diego alzando gli occhi blu e pregni di sarcasmo su di me. Automaticamente, feci strisciare la sedia e mi alzai, già col pugno stretto, completamente travolto dal fuoco dell’ira e della vergogna, ma Loris fu più veloce di me e si aggrappò al mio braccio. Lo stesso fece Sandro alla mia sinistra. Vidi Claudio riprendere colore e sorridere sotto i baffi, e fu questo a impedirmi di suonarle a quell’individuo. Mi risedetti lentamente, e il dito medio alzato di Diego non mi convinse ad alzarmi un’altra volta.
Prima di scendere in campo però, ce la feci a chiedergli qualcosa. Ero davvero preoccupato, quindi aspettai che finisse di infilarsi i tacchetti e,
«Sei a posto?»
Lui fece scricchiolare le ossa del collo e mi disse che sì, andava tutto bene.
«Sono pronto a spaccare culi», aggiunse, poi mi guardò di sottecchi, «Niente battute».
«Battute?»
«Sullo spaccare culi. Ormai devo fare attenzione a qualunque roba esca dalla mia bocca» specificò, e non aveva tutti i torti. Ma non avevo avuto la minima tentazione di buttarla sul ridere quella volta.
«Mi sono un po’ rotto di fare battute, in realtà» mi venne spontaneo dire con un’impercettibile alzata di spalle, e lui aggrottò le sopracciglia.
«E tu, tutto bene?» mi rigirò la domanda, braccia piegate sui fianchi. Mi innervosii tutt’a un tratto e irrigidii i muscoli facciali. Era troppo vicino per i miei gusti.
«Muoviti, siamo gli ultimi» e troncai lì, a denti stretti, mentre mi ripetevo in testa di piantarla di lasciarmi prendere in modo così repentino dalle emozioni. Le emozioni forti non portavano mai a nulla di buono. Da piccolo facevo arti marziali, e la prima cosa che m’avevano insegnato era che un combattente doveva assolutamente sbarazzarsi delle emozioni, o lo avrebbero ostacolato davanti al nemico e per il resto della sua vita. Non ero uno che assimilava molto, da piccolo. Non avevo imparato nulla.

Quel pomeriggio vincemmo la partita del primo girone senza troppa difficoltà.
«Erano mezze seghe» aveva commentato il capitano scuotendo i capelli pregni di sudore. Quando entrai nello spogliatoio, vidi che Marco e un giocatore della squadra avversaria stavano discutendo su un fuorigioco segnalato ingiustamente, mentre Claudio se ne stava in disparte a scambiare due parole col portiere avversario. La gelosia m’annebbiò cervello, vista, tutto. Non ero propriamente padrone del mio corpo quando mi mossi nella loro direzione e,
«Ehi, Claudio ha gusti raffinati in fatto di ragazzi. E a te stuzzica?» feci rivolto al portiere. Quello squadrò Claudio dall’alto in basso, che arrossì sulle orecchie, poi si allontanò senza dire una parola di più. Anzi, probabilmente borbottò qualcosa come “Ma per chi m’ha preso, quello?” e se ne andò a gambe strette. Claudio si voltò così lentamente verso di me e così scuro in volto che mi sembrò di vedere la scena di un film horror mandato al rallentatore. Non mi davo il tempo di fare progressi che di nuovo scivolavo e cadevo, come un povero idiota. Forse avrei dovuto cucirmi occhi e bocca e chiudermi in una camicia di forza.
«Si può sapere che cazzo di problemi hai? Non mi puoi lasciare in pace?» mi chiese, come m’aspettavo, e rabbrividii a quel tono così poco da lui. Perché se l’era presa tanto se tendeva ad ignorare qualunque frecciatina al suo orientamento sessuale?
«No» gli risposi mentre mi preparavo ad entrare in doccia.
«Perché no?!»
Mi voltai per rispondergli, ma non sapevo davvero come, quindi richiusi la bocca, e lo piantai lì per poi andarmene in doccia. Mentre mi lavavo i capelli con lentezza snervante, tentando di non pensare troppo a quanto fossi stato nuovamente stupido, e tentavo di ignorare le urla di Marco, qualcuno mi prese da una spalla e mi spinse con calcolata violenza contro le piastrelle fredde della doccia e poi mi tenne fermo da un braccio. Alzai lo sguardo impreparato a chi mi sarei trovato di fronte: un Claudio infastidito e ancora livido di rabbia, insaponato per metà, i capelli bagnati e piatti sulla faccia.
«Sei omofobo per finta?» esordì, e le gambe tremarono sotto il peso improvvisamente raddoppiato del mio corpo. «Pensi ti faccia onore deridermi di fronte a sconosciuti? O sei solo un adolescente confuso che nasconde le proprie pulsioni dietro a ridicole battutine?»
Parlava piano ma con la voce che vibrava, probabilmente per evitare che qualcuno credesse che si stesse attaccando con un compagno di squadra.
«Allora?»
Sperai che se mi fossi pisciato addosso non si sarebbe notato tanto sotto l’acqua corrente. Deglutii, incapace di guardarlo negli occhi: non avevo le palle di aprir bocca e, da codardo onorario, non potei fare altro che mordermi l’interno delle labbra e puntare lo sguardo al pavimento bagnato, sperando che se ne andasse senza farmi ulteriori pressioni. Ma lui era troppo vicino, eravamo entrambi nudi, e ancora aspettava una risposta. Strinse la presa sul mio braccio, io alzai per la prima volta lo sguardo nel suo, mi si spezzò il fiato, e a quel punto si presentò la situazione di cui avevo più paura. Mi s’alzò il cazzo. Senza che lo volessi, accorgendomene troppo tardi, e mi ero quasi deciso a scrollarmi Claudio di dosso e a intimargli di andarsene con in mezzo qualche minaccia, ma lo fece da sé, e dal suo sguardo schizzato per un istante sulla parte inferiore del mio corpo, notai come avesse, inevitabilmente, notato la mia mezza erezione prima di tornarsene sotto la sua doccia. L’aveva capito. Ero finito. Adesso aveva tutte le prove che gli sarebbero servite per rigirarmi le battute che gli avevo fatto durante quegli anni e umiliarmi davanti a tutta la squadra e a mio padre. Poteva ricattarmi, adesso. Ero un uomo finito. Ecco quale fu l’unico pensiero da codardo che mi passò per la testa picchiata dal getto d’acqua.







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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3











 

Quella sera chiedemmo a mio padre il permesso di andare a fare una visita veloce alle pallavoliste, usando come scusa la palese bugia che ne conoscevamo alcune. Lui, infatti, ce lo proibì, almeno per quella sera.
«Se vincerete anche la partita di domani, vi lascerò fare una capatina. Ma non aspettatevi che vi lascerò stare tutta la notte lì, ché non voglio mica vedervi morire in campo. Mi fareste solo pena» aveva detto, e io alzai le sopracciglia: wow, era quasi crudele ultimamente.
«Si fidi di noi!» esclamò Marco prendendo le veci del capitano, e fece per dare un cinque al mister, ma quello lo guardò di sottecchi e se ne tornò in camera schioccando la lingua quasi a voler dire: “Che pezzenti”.
«Che gli è successo?» bisbigliò Sandro non appena si fu assicurato della dipartita del mister.
«Da quant’è che vostra madre non gliela dà?» si azzardò Diego a voce più alta rivolto a me e Loris, come se gliene importasse qualcosa. Si buttò su un letto completamente a caso, tirò fuori dalla tasca dei larghi pantaloncini una sigaretta stropicciata e se l’accese con disinvoltura, dando inizio così alla seconda serata passata in casa tra umori non proprio positivi. Claudio evitava di incrociarmi da quel pomeriggio, addirittura si vergognava di alzare lo sguardo su di me, lui che era così sfrontato e diretto. E chi poteva dargli torto? Non che io riuscissi a guardarlo a mia volta, dopotutto, e di tanto in tanto mi rosicchiavo le nocche delle dita dal nervoso, visto che le unghie erano già bell’e che consumate. Loris venne a sedersi accanto a me, che come al solito me ne stavo in un angolo per terra, stranamente mancante della compagnia di Antonio. Forse era uscito, quello. Loris mi passò la bottiglia dal contenuto verdastro che brandiva da già un quarto d’ora buono, ma io la schifai con un movimento della mano non esattamente virile.
«Che è successo stavolta? Cla ti ignora peggio del solito» domandò prendendo un sorso e sciacquandosi la bocca quasi fosse colluttorio. Gli raccontai di aver parlato di nuovo a sproposito e di averlo fatto incazzare, il che era una bella novità. Ovviamente, mi sembrò più che cauto tagliare completamente la scena del mio cazzo sull’attenti davanti allo sguardo neutro di Claudio.
«Capisci che in questo modo non fai che peggiorare le cose?»
Gli feci il verso muovendo oscenamente la bocca, con le palle fracassate dai suoi commenti ovvi. Sembrava lo facesse apposta, quasi stesse continuando a gonfiare un palloncino già al limite, pronto a scoppiare da un momento all’altro.
«Mi spiace, ma se speri in un faccia a faccia, è chiaro che non ci sarà mai». Incrociai le braccia, e in quel momento avvertii gli occhi di Claudio su di me. Mi girai a guardarlo, ma quello aveva già distolto lo sguardo. Strappai la bottiglia dalle mani di Loris e buttai giù parte del liquido rimasto per poi strizzare la bocca quasi mi fossi spolpato un limone così a crudo. Faceva schifo quella roba. Loris si perse per un attimo nel fumo che iniziava ad addensarsi, poi prese a ridacchiare tra sé, come un pazzo che giura di essere sano e più lo giura più è chiaro che non lo è.
«Mi è venuta un’idea da telefilm» annunciò quindi da sé, visto che non avevo intenzione di chiedergli che diavolo avesse da ridacchiare. «Magari lo puoi evitare un faccia a faccia. Una cosa più indiretta… io e te siamo identici, giusto?»
«Aspetta, no» lo interruppi prima che potesse continuare, avevo già afferrato il concetto.
«Proviamoci! Sarà fico!»
«Fico? Fico?! Dammi quella bottiglia, inizi a dare i numeri».
Lui fece il broncio e allontanò la bottiglia, che però fu prontamente intercettata da Antonio, comparso da chissà dove. Grazie al cielo.
«Non sai che ti perdi» continuò Loris come se non fosse successo proprio niente. «La notte scorsa si è lasciato un po’ andare con me e mi ha parlato di un po’ di cosette, solo che io avevo troppo sonno per ascoltarlo. C’era anche Antonio vicino a noi, ma russava un pochetto, non credo abbia sentito granché. Se prendessi il mio posto…»
«Ma… che stai dicendo…»
«Senti, ti metti il mio pigiama e ti corichi nel mio letto, cercando di sembrare naturale. Hai fatto teatro! Questo è un gioco da ragazzi per te!»
Tappai la bocca di mio fratello guardandomi in giro, ché iniziava a parlare a voce troppo alta. Claudio se ne stava tranquillo sul suo letto a leggere qualcosa, Marco e Ludovico facevano troppo casino perché qualcuno potesse fare effettivamente caso a noi due che confabulavamo.
«Loris, ho fatto sei mesi scarsi di teatro, ed è stato un trauma».
«Allora, tutto chiaro?»
«Tutto chiaro cosa?»
Era chiaro che Loris fosse fuori come un balcone. Quel mio fratello si alzò in piedi barcollando un momento, poi si schiarì la voce.
«Io e Lorenzo dobbiamo fare due parole col mister, abbassate la voce!» fece col suo solito tono composto, quasi avesse digerito la sbornia rimettendosi in piedi. Era lui il vero attore, tra i due. Mi fece un cenno e a quel punto fui costretto a seguirlo. Nessuno ci filò di striscio, come c’era da aspettarsi. Uscimmo all’esterno e lui iniziò a spogliarsi, rischiando di prendersi un accidente, sudato com’era. Ma che gliene importava, l’alcol lo scaldava per bene. Io invece iniziai a sudare freddo e a fare respiri interrotti quando mi resi conto che mio fratello stava facendo sul serio. Non sapevo se lo stesso facendo per aiutarmi davvero o solo per provare il brivido di recitare qualche scena da film di serie B in cui due gemelli si scambiavano i ruoli. Prima che me ne rendessi conto, mi stavo spogliando anche io, accorgendomi che dopotutto non era una serata poi così fredda. Era estate, e solo l’arietta fresca della sera mi dava fastidio sulla schiena ora nuda. Lui mi passò il suo pigiama umido di sudore e io gli lanciai il mio sulla faccia. Mi infilai i due indumenti con una punta di disgusto, e lo stesso fece lui, ma con la faccia decisamente soddisfatta. Mi fece l’occhiolino, poi si modellò la faccia usando le mani quasi stesse lavorando un vaso di creta e, espressione accigliata e broncio, rientrò in camera. Tornai ad innervosirmi, sembrava che adesso dovessi per forza calarmi nei panni di mio fratello: avrei fatto uno sforzo immane, non sorridevo da chissà quanto. Provai a modellarmi la faccia, ma niente. Alla fine, optai per un Loris ubriaco, e mi finsi tale una volta rientrato in camera.


Con mia grande sorpresa, le cose sembrarono filare lisce. Loris era completamente a suo agio nei miei panni, e adesso era in un angolo a parlocchiare con Antonio, entrambi scuri in volto come se stessero pianificando un omicidio. Mi venne da sorridere e non mi trattenni, visto che adesso ero Loris, e quello di sorrisi ne dispendeva a destra e a manca. Mi misi a letto mentre gli altri ancora si lanciavano oggetti di ogni tipo colpendoli con la mano aperta quasi stessero giocando a tennis, e poco dopo Claudio mi imitò, infilandosi con una smorfia sotto le coperte.
«Ragazzi, aprite la porta? C’è puzza di fumo» provai a dire dopo essermi schiarito la gola, giusto per non pensare all’ansia che stava velocemente arrampicandosi nel cervello.
«Loris, hai rotto le palle!» mi apostrofò Ludovico, ma Michele scese dal letto non suo e andò a fare quel che avevo chiesto.
«No, ha ragione» disse, poi prese il suo pacchetto di sigarette e una bottiglia di birra vuota e annunciò di volersene andare a letto. Sandro, Simone e Nicola lo seguirono come cagnolini senza dire nulla, e finalmente si poté respirare un minimo. I due più rumorosi del gruppo si acquietarono senza però smettere di lanciarsi palline di carta da un letto all’altro. Diego stava per accendersi un’altra sigaretta, ma vidi Loris guardarlo torvo, esattamente come avrei fatto io, e quello sbuffò per poi andarsene anche lui nella camerata che gli era stata assegnata. Appoggiai la testa sul cuscino, e pensai che Claudio fosse già pronto ad abbracciare Morfeo, quindi mi tranquillizzai poco a poco.
«Loris?»
Mi sbagliavo. La sua voce la sentii solo io. Ma chiamava me, giusto?
«Ehm, dimmi». La voce mi tremava, decisamente.
«Sei ubriaco?»
«… Non direi, mi gira un po’ tutto, ma dopo una dormita starò meglio» tentai di stabilizzare la voce al mio meglio e il mio tono gentile sembrò convincere, miracolosamente, il ragazzo che mi dava la schiena steso accanto a me.
«Mmh» mugugnò qualcosa tra sé che non riuscii a decifrare, poi, «A tuo fratello piacciono le donne, giusto?»
Quasi mi soffocai con la mia stessa saliva. Mi proibii di tossire, quindi la mia voce uscì più stridula e trattenuta del solito.
«Perché questa domanda?»
«Oggi è successa una cosa strana, ma forse ci sto dando troppo peso». Le sue spalle ebbero un sussulto e io trattenni il respiro, tentato dal toccarlo per rassicurarlo. Forse avrei dovuto farlo? Ero Loris dopotutto. Ma Loris lo toccava? Era improbabile che lo facesse, e doveva solo provarci. «Mi fa così arrabbiare».
«Chi?»
«Di chi stiamo parlando?»
Pensai che sì, era vero, stavamo parlando di me. A pensarci a mente più lucida mi s’infiammarono le orecchie come un adolescente che origlia mentre i suoi genitori decidono se dargli o meno una punizione per i voti tremendi che porta a casa. Respirai forte col naso e lui con uno scatto si voltò dalla mia parte, una spalla scoperta dalla maglia troppo larga del pigiama.
«Nasconde qualcosa, mi manda in bestia. Tu lo sai, cosa nasconde?» mi bisbigliò lanciando occhiate a Loris che si stava vivendo il meglio della vita. Sentire il suo respiro così vicino mi sparò un brivido lungo la schiena che mi fece sussultare vistosamente.
«Non so di che parli» mi limitai a dire, e quello in tutta risposta si voltò nuovamente dandomi le spalle.
«Ma che te lo chiedo a fare, sei ubriaco».
Mi sudavano le mani.
«Ti sto ascoltando! Cosa vuoi sapere? Se nasconde qualcosa? Chiedilo a lui» buttai fuori a corto di respiro. «Con la faccia tosta che hai» aggiunsi più piano, ma quello mi sentì e si voltò di nuovo verso di me alzandosi su un gomito.
«Perché mi tratti così stasera?» chiese innervosito, e io avrei voluto sgusciare via dal letto, ma prima che lo facesse, «Ah, già, l’alcol» si rispose da solo e tornò col capo sul cuscino. Sembrava irrequieto, anche lui come me aveva il palmo delle mani sudaticcio. Respirò e fissò il soffitto, sembrava stesse ponderando se dire o no qualcosa, se continuare a parlare o starsene zitto. Le labbra s’aprivano e si chiudevano, indecise. «L’ho capito che è gay» sputò poi fuori, con una convinzione che non rendeva giustizia a tutta quell’indecisione che sembrava aver avuto. «Non oggi, non ieri. Lo so e basta. Però…»
Questa volta fui io a dargli le spalle, ché sudavo copiosamente, avevo la bocca impastata, gli occhi fuori dalle orbite e i colori che mi si mischiavano davanti agli occhi come se mi fossi fatto di acido.
«Però… cosa?»
Lui mi rispose con un grugnito frustrato, agitò i piedi disfacendo le lenzuola alla base del letto e ricevendo un pacchetto di fazzoletti addosso da parte di Ludovico, che lo credeva impazzito.
«Mi fa così incazzare!» ne risolse dopo qualche minuto di capricci in cui non sapeva che dire. Si arrotolò nelle lenzuola rimastegli addosso e con un “Buonanotte!” chiuse ufficialmente la conversazione. Fece anche finta di russare. Dio santo, che c’era in lui da farmi girare la testa a quel modo? Non avevo preso droghe quella sera, ne ero sicuro. La stanza davanti ai miei occhi vorticava quasi mi avessero preso a pugni e vedessi doppio. Nell’angolo in fondo riuscivo ancora a distinguere lo sguardo di Antonio rivolto nella mia direzione, come se stesse tentando di leggermi nel pensiero. Non lo sopportai e mi girai in posizione supina aspettando che Morfeo si impossessasse della mia coscienza. Il che avvenne dopo quasi due ore.


La mattina dopo mi svegliai con sudori freddi sulla fronte e una forte sensazione di soffocamento, quasi avessi appena avuto un incubo, che però, nel momento in cui spalancai gli occhi si rifugiò nel dimenticatoio del mio cervello. Quando avevo un sonno così agitato di solito capitava qualcosa di spiacevole, il che mi tenne in tensione per tutta la durata della colazione, e anche Loris, quando mi trascinò in bagno per riprendersi il suo pigiama, notò che non tutto quadrava. Ma non mi curai di lui, notava sempre tutto.
Ludovico quella mattina ci tartassò per tutta la durata della colazione. A quanto pareva, aveva scoperto che la donna che gli lavava i panni era proprio un bocconcino prelibato. Non se ne stava un attimo fermo e zitto, sputava pezzi di toast mentre parlava con la bocca piena, gesticolava, si alzava e si sedeva sulla sedia quasi si fosse fatto di cocaina e non stesse nella pelle di fare, beh, qualunque cosa.
«E dai, è grande» lo redarguì Michele con fare saccente, la marmellata che quasi colava dal coltello.
«Sempre meglio delle tue tredicenni. E poi, quanti anni vuoi che abbia?»
«Ne ha 26»
Dietro di lui era appena apparsa una donnona, che gli aveva appoggiato un braccio bello grosso sulla spalla. Ludovico quasi crollò sotto quel peso.
«Parlavate di mia figlia, vero?» chiese conferma sorridendo.
«Eh» feci io, e tutti mi guardarono male.
«Beh, siete fortunati! Di solito non fa caso alla gente che viene ad albergare qui, ma questa volta sembra interessata a qualcuno di voi!» esclamò quella gongolando. Ma che diavolo aveva per la testa? Voleva forse mettere la figlia all’asta?
«E a chi?!» domandò Ludovico, gli occhi fuori dalle orbite, il sedere che aveva abbandonato un’altra volta la sua sedia. S’era decisamente fatto di coca.
«Questo non ve lo dico. Ve ne renderete conto»
E, dopo aver dato l’inutilissimo consiglio e una pacca sulla spalla di Ludovico, la grande madre si congedò sculettando pure lei. Dio santo, l’avrei apostrofata in malo modo se non ci fosse costato un pasto e un letto caldo.
«Scommetto che è Diego. O Marco» ipotizzò Sandro con la bocca piena a metà di cereali.
«Ovviamente» fece Marco, e Ludovico gli diede una spallata per farlo stare zitto.
«Se è così, ve la soffio, statene certi» assicurò quello, tutto gasato, pronto a fare una corte spietata e puntualmente mai ricambiata. In quel momento, scherzo del destino, passò proprio la ragazza in questione per rifornirci di pane, e solo allora mi accorsi che i suoi occhi nero pece mi puntavano insistentemente. Dovevo aver visto male, per forza.
«…Non dirmi che è Lorenzo ad aver fatto colpo» borbottò Ludovico pensando che non lo sentissi. Era strafatto, aveva borbottato urlando.
«Sembra di sì» Fece Michele, e io spostai automaticamente lo sguardo su Claudio, che aveva già alzato il suo verso di me. Tossii piano, e m’asciugai le mani ancora sudate dalla tensione dovuta all’incubo di prima.
«Non è che si sta confondendo con Loris?» proposi strofinando i palmi sui pantaloni.
«Ma va. Avrà ben capito che lui è il portiere e ha la maglia diversa da tutti noi. E poi tu sei sempre torvo, è impossibile confondervi» disse Marco, e io pensai a come invece la sera scorsa ci fossero cascati tutti, nello scambio di ruoli.
«Dici che sono torvo?»
«Abbastanza» confermò Michele, ma fu quasi interrotto da Ludovico che per poco non strillava di essere convinto di piacere alla bella ragazza.
«Guarda, ho intenzione di dividerla con te, ma solo perché sei tu» disse rivolto a me, e mi lanciò una fetta biscottata. Senza senso, davvero.
«Ma… io non voglio farmela» dissi così di getto, e tutti smisero di fare casino con le posate e anche di masticare e mi guardarono stralunati, Ludovico per primo.
«Eh?! Ma sei finocchio o cosa?!»
Claudio ebbe un colpo di tosse, e io gli puntai gli occhi addosso, che se mi fossero partiti dei raggi inceneritori, adesso non starebbe più tossendo.
«Ma no, è solo che non voglio che mio padre scopra che me la faccio con la ragazza delle pulizie. Per lo stesso motivo non mi sto facendo di niente in questi giorni».
«Ah, non per la partita» mi punzecchiò Diego, calmissimo.
«E dai! E’ una roba di un attimo, non se ne accorgerà nessuno. Le diamo appuntamento in un posto isolato» tentò di convincermi Ludovico.
«Un posto adatto a uno stupro» intervenne Michele, ma nessuno gli diede retta.
«Senti, non lo so, vedremo. Dipende dal mio umore» dissi pur di farlo stare zitto, che lo avrebbero sentito pure le pallavoliste di lì a poco.
«Sesso, sesso, sesso. E calcio. Non sapete parlare d’altro» borbottò quasi tra sé Antonio, e intanto guardava tremolare la fiamma del suo accendino con fare annoiato. Non aveva che ragione.


Io e Loris avevamo deciso che ci saremmo scambiati i vestiti solo di notte, mentre il resto della giornata saremmo tornati nei nostri amati panni. Per me s’era rivelato davvero più complicato del solito, mentre a lui non dispiaceva del tutto fregarsene di tutto e tutti per qualche ora e mettersi a confabulare con Antonio.
A proposito di Antonio.
Quella sera erano tutti euforici grazie a una seconda vittoria in campo ed erano così distratti che quasi non parlarono delle pallavoliste. Prima di cena persi di vista Antonio, e lo trovai dopo qualche minuto di ricerca sul retro della casa, seduto sugli scalini di legno di una delle due uscite posteriori, quella della cucina.  Quando presi posto accanto a lui si era appena acceso una sigaretta, e gli altri erano usciti a giocare a biliardino. Il primo a parlare fu, con mia grande sorpresa, lui.
«Sembra che il campionato stia andando bene».
«Mh, sì…» risposi, presente fisicamente, altrove con la testa.
«Non sembri felice».
«Ma… certo che lo sono! Non avevamo mai vinto così tante partite» cercai di convincerlo che stavo seguendo il suo discorso e che ne ero anche interessato. Non funzionò più di tanto.
«Okay… Ma c’è qualcos’altro che ti preoccupa, o no?»
«Forse…»
Antonio aspettò un minuto prima di parlare ancora, e si dedicò alla sua sigaretta.
«Ti toglieresti un peso se me ne parlassi?» chiese poi, non proprio con tono comprensivo, quasi come una domanda di prassi, che per forza avrebbe dovuto fare, non tanto per il fatto che era mio amico, quanto per il fatto che gli veniva spontaneo. Perché era fatto così, e ben pochi l’avevano visto. Mi consideravo uno dei pochi fortunati.
«Io e te non parliamo mai molto» dissi invece, per fargli capire che forse non avevo intenzione di vuotare il sacco. Era una bugia: avevo così bisogno di parlarne a qualcuno che di lì a poco le parole sarebbero rotolate fuori dalle labbra da sole.
«E’ che ci capiamo con gli sguardi, o no?»
«La pianti con ‘sto ‘o no?’? Se mi capisci con uno sguardo, allora prova a indovinare cos’è che mi preoccupa». Mi voltai verso di lui e appoggiai il mento sul palmo della mano per poi legare lo sguardo al suo, aspettando, scettico, il suo responso. Lui si mise nella mia stessa posizione e s’avvicinò tanto che pensai potesse contarmi i peli sulle sopracciglia. Ma stette così per ben poco, poi fece schioccare la lingua, quasi leggermi nel pensiero fosse la roba più semplice e rapida di questo mondo.
«Troppo facile. Sei preso di Claudio e non sai come dirglielo?»
Per la seconda volta in poco tempo, rischiai di soffocarmi con la mia stessa saliva.
«Cos- co-co-come sai… Loris, lui ti ha detto tutto!» presi subito ad accusare mio fratello, ma Antonio mi toccò la spalla scuotendo la testa.
«Non sei uno difficile da capire, Lore. Gli altri non se ne sono accorti perché sono deficienti».
Stemmo un attimo in silenzio, io con lo sguardo sulle mani che si torturavano, Antonio che buttava la cicca spenta della sigaretta tra la sterpaglia accanto alla scaletta.
«…E’ così ovvio?» chiesi, la voce che tremava un poco, e Antonio mi guardò con le braccia sulle ginocchia. Sorrise, forse intenerito dalla mia reazione, un evento epocale.
«Ora è il tuo turno. Indovina cosa preoccupa a me». E si mise nella posizione di prima.
«Perché, ti preoccupa qualcosa?»
«Mi sa che coi soli sguardi, tu non mi capisci proprio» disse rammaricato, alzò le spalle e fece per accendersi un'altra sigaretta. Misi un attimo il broncio, e lui mi lanciò uno sguardo divertito. «Anche io ho il tuo stesso problema. Visto che siamo in vena di confessioni» si lasciò sfuggire, poi.
«Io non ho confessato proprio nien- aspetta, anche tu stai dietro a Claudio?!» lo stupore mi acchiappò la gola, più che per il fatto che Antonio mi avesse confessato di giocare nella mia stessa squadra in ogni senso, per il fatto che potesse tampinare Claudio pure lui.
«No, non si tratta di Claudio».
Tirai un sospiro di sollievo senza farmi vedere.
«E’ uno della squadra?»
«Eh».
«Non dirmi che hai messo gli occhi su Diego o Marco».
«Ma perché sono tutti fissati con quei due? Uno è un tamarro e l’altro è un cesso, lasciatelo dire».
«Allora Nathan, o Sandro? Michele?»
«Ma ti pare…»
Sbattei i piedi sullo scalino, frustrato.
«Dai, non farmi indovinare!»
«Eh, sei tu, coglione».
Stavo per ribattere qualcosa, quando rielaborai per bene quello che era appena venuto fuori dalle sue labbra. Lo guardai con le sopracciglia aggrottate, sicuro che stesse scherzando.
«Sono serissimo» aggiunse lui, leggendomi letteralmente nel pensiero.
«… Ah».
Avessi avuto un’altra persona davanti, probabilmente sarei scoppiato a ridere, le avrei sbattuto la mano sulla schiena chiedendole di piantarla di dire cazzate. Ma sapevo che tipo era Antonio: lui di scherzare non ne aveva mai troppa voglia. E se diceva che era serio, lo era veramente, senza mezzi termini. E questa volta non era solo serio, era “serissimo”. Mi girò la testa, il mondo sembrò sgretolarsi davanti ai miei occhi, come se avessi sempre vissuto una bugia, una vita effimera, senza significato. Egoisticamente, pensai a come avrei dovuto comportarmi da quel momento in poi, senza mettere in conto quello che frullava in testa al mio amico, quello che teneva nel petto, sotto la pelle, sulla punta delle dita, nel fondo degli occhi castani, tra le labbra semiaperte. E quel silenzio mi stava consumando, adesso, così come la nuova sigaretta che s’era appena acceso e aveva lasciato tra le dita, lì a morire.
«Sei sicuro che non ti piaccia Loris?» fu la prima minchiata che mi salì per la gola come acido prima del vomito. Lui si voltò a guardarmi lentamente, e io abbassai gli occhi, improvvisamente intimidito dal suo sguardo pungente. Buttò la sigaretta a malapena fumata e fece per alzarsi.
«Non farmi incazzare, ora» disse tra i denti, e risalì le scale per tornare in camerata.
«Cosa facciamo adesso?» lo chiesi con le mani tra i capelli e lo sguardo che non sapeva cosa puntare.
«Niente» disse lui, e lo immaginai mentre alzava le spalle. Poi, il rumore della porta che s’apriva e si chiudeva rimase per un po’ a rimbombarmi nelle orecchie.







***

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***



Capitolo 4







Dopo cena, come promesso, mio padre ci lasciò andare a fare praticamente irruzione nell’hotel in cui alloggiavano quelli di pallavolo, dandoci come orario per il coprifuoco mezzanotte.
«Sembra che abbiano pure una discoteca, quei bastardi» disse Diego mentre camminava a testa alta e con le mani in tasca, sempre così sicuro di sé.
«E tu come lo sai?» fece Nathan improvvisamente interessato, sicuramente già fumato a metà.
«Me l’ha detto Marco».
«E tu come lo sai?» ripeté la domanda al rosso, che si ravviò i capelli con una mano come i modelli prima di un book fotografico.
«Ho le mie fonti».
«Passa il tempo a spiarli col binocolo». Michele ovviamente era la bocca della verità, e Marco lo guardò un po’ storto per avergli rovinato l’attimo di gloria.
Arrivammo all’entrata dell’hotel, e ci fermammo tutti, a parte Ludovico che continuava a marciare.
«Non sarebbe meglio fare uscire loro? Non possiamo entrare così come vogliamo» si permise Nicola, e Loris subito gli diede ragione.
«E perché? Dai, entriamo, vediamo com’è».
E, senza sentir ragioni, Ludovico spinse le porte e la maggior parte di noi lo seguì piuttosto titubante. Antonio era accanto a me come al solito, non dava segno di cambiamento: sembrava che prima di cena non ci fosse stata alcuna conversazione tra noi due. Il che, dovetti ammetterlo, mi sollevò, e non sentii il bisogno di comportarmi diversamente dal solito.
La hall non era molto grande, ma per lo meno c’erano un paio di divanetti dall’aspetto confortevole, una piccola tv che trasmetteva le notizie della sera e, soprattutto, esisteva la reception. Sui divani bianco sporco erano seduti sette ragazzi: due di loro erano
iperattivi, non riuscivano a togliersi le mani di dosso, mentre gli altri sbadigliavano senza pudore.
«Sono loro i pallavolisti?» chiese Marco sottovoce a Claudio, e quello aggrottò le sopracciglia.
«E che ne so. Mica gli ho guardato la faccia» fece in tutta risposta e Marco, con un “Oho! Hai capito!” e una gomitata tra le costole di Claudio, attirò l’attenzione di alcuni di quelli seduti. Michele si sentì tenuto a dire qualcosa. Dopotutto eravamo piombati in 13 nella hall di un hotel in cui nemmeno soggiornavamo.
«Ciao, siamo dell’albergo qui dietro».
Uno di quelli che sbadigliava rumorosamente ci rivolse l’attenzione e passò lo sguardo su ognuno di noi, badando bene di squadrare da capo a piedi Diego e Claudio, che lo guardò di rimando a mo di sfida.
«Intendi la catapecchia?» chiese un altro per poi ridacchiare con l’amico.
«Già, e allora?» fece Ludovico, paonazzo in volto, i pugni che si stringevano pronti a volare sulla faccia di qualcuno. Loris lo trattenne dal gomito e chiese a Nathan che cosa gli avesse dato questa volta.
«Siete la squadra di calcio?»
«Sì. Abbiamo sentito che avete una discoteca qui».
«E’ più un vecchio bar adibito a discoteca. E’ piccolo e caotico, ma ci può stare. Stiamo aspettando la squadra femminile, per andare insieme. Sapete, quanto ci mettono a prepararsi, le ragazze…» il tono del ragazzo che ci aveva squadrati era amichevole per finta, il vocabolario ricercato come a voler fare bella figura, e di nuovo lo vidi portare lo sguardo su Claudio. Che problemi aveva?
I due iperattivi continuavano a tirarsi schiaffetti sulle braccia come due bambini dell’asilo, e sembravano divertirsi parecchio.
«Possiamo unirci a voi?» chiese Marco utilizzando tutto lo charme possibile. Quelli si guardarono perplessi, poi il tizio di prima: «Non credo sia possibile…» fece, ma neanche riuscì a finire la frase che Nathan mostrò loro un sacchetto pieno a metà di erba, badando bene a non farsi vedere dalla ragazza dietro al bancone della reception.
«Siete i benvenuti» si corresse, poi si alzò e ci propose di accomodarci sui divani. Quanta falsa cortesia. La sua faccia da schiaffi sembrava desiderare un pugno da parte nostra, dritto sul naso sbilenco, così da rimetterglielo a posto. «Piacere, io sono Adriano, il capitano della squadra. E questi sono Denis, Matteo…» e iniziò a presentarci tutti gli altri membri della banda. Dopo poco scese l’intera squadra femminile, tutta in tiro, e Ludovico e Marco emisero suoni gutturali, sicuramente non umani. Loro ci guardarono come se già ci conoscessero (probabilmente avevano visto Marco aggirarsi nei dintorni dei loro campetti e dell’hotel), ci salutarono senza chiedersi che diavolo facessimo lì, come se già se l’aspettassero, e si presentarono pure loro.



La piccola discoteca era in un vecchio  bar sotterraneo proprio accanto all’albergo. Scendemmo le scale ed intercettammo un neon rosso e un solo bodyguard mingherlino che ci fece subito passare, inconsapevole del carico di droga che Nathan aveva nascosto nelle mutande e nei calzini.
All’interno c’era più buio che luce, e da qualche parte puzza di muffa. Io e Antonio lo avvertimmo nello stesso momento e ci portammo simultaneamente una mano a tappare il naso, ma gli altri non sembrarono farci caso.
«Non male, eh?» fece mio fratello accennando dei passi di danza. «Sciogliti un po’, fratello» mi disse con una gomitata, poi si buttò tra la clientela dell’hotel.
«E’ diventato tamarro tutt’a un tratto?» chiese retoricamente Michele, sovrastando a fatica la musica assordante. Immaginavo che a una certa ora avrebbero abbassato il volume, come minimo. Dietro il bancone originale del vecchio bar, una sola ragazza preparava maldestramente dei cocktail ai ragazzi già alticci. Notai come ci fossero persone anche di una certa età, mischiati agli adolescenti. E mentre io ancora mi guardavo attorno sopportando a fatica l’odore di sudore e muffa, tutti i miei compagni erano già spariti chissà dove. A parte Antonio, che ero sicuro stesse ponderando se tornare indietro o meno. E anche Nicola, che aveva già perso Sandro e tentava di farsi largo tra la gente senza successo. Ma, più di tutti, mi importava di Claudio. Dov’era sparito con tanta fretta?
«Oh, io vado a cercare qualcuno dei nostri» avvisai Antonio e, dopo aver ricevuto il suo pollice in su, mi buttai nella calca molto poco delicatamente, pestando piedi a destra e a manca, pogando appena ne avessi l’occasione, urlando di farmi passare. Non soffrivo di claustrofobia, ma quasi. Mi dava fastidio non avere aria pulita da respirare. Trovai Nathan seduto sui divanetti intento a fumare uno spinello, con accanto un Nicola ancora più depresso del solito, il cappello a preservativo calato in ogni caso sulla fronte; Sandro me l’ero trovato di fronte che vagava senza meta, il codino biondo che mi finiva in faccia ogni volta che si muoveva; Marco aveva abbordato una ragazza dalla chioma rossa quasi quanto la sua ed era già lì che tentava di baciarla, mentre Michele, poco più avanti, ballava goffamente e intanto cercava di parlare alla ragazza che aveva di fronte accostandosi all’orecchio. Adesso avevo intravisto anche Ludovico, che s’era buttato sopra a Nathan, che dal canto suo tentava di scrollarselo di dosso con spintonate e anche con un bel calcio. Abu e Simone erano appoggiati al bancone con aria annoiata e aspettavano il loro drink. Ma in tutto questo, Claudio dove diavolo era finito? Ero arrivato praticamente davanti alle casse assordanti e al DJ sovrappeso, ma di lui neanche l’ombra. Vidi però Diego, che mi spostò con una spallata e si trascinò una ragazza coi capelli corti sino all’uscita, e subito dopo anche Nicola si diresse nella stessa direzione. Decisi di uscire anche io e di andare a cercare Claudio fuori, ma appena fuori della porta, mi trovai davanti a una scena piuttosto insolita: Nicola aveva appena inchiodato al muro un Diego impassibile come sempre e lo stava minacciando col pugno alzato, mentre la ragazza coi capelli corti di prima tentava di farlo ragionare.
«Che ci facevi con quella lì, eh?» domandò Nicola con la voce che tremava e gli occhiali mezzi storti sul naso. Non credevo ai miei occhi, temevo di aver respirato troppo fumo passivo.
«Nico, sei fumato. Datti una regolata» disse Diego tentando di tranquillizzarlo, e anche quello mi sembrava fin troppo strano. Nessuno di loro faceva caso a me, e nemmeno la sicurezza a quanto pare, che se ne stava in cima alle scale a parlare con un suo compare.
«Dimmi che ci facevi» ribatté Nicola semmai rafforzando la presa. Ma non c’era scommessa su chi dei due avrebbe vinto uno scontro corpo a corpo, nel caso Diego avesse reagito. Nicola era fuori di sé, aveva persino lasciato cadere per terra il cappello da cui mai si separava e adesso i capelli apparivano schiacciati e di un nero lucido.
«Secondo te che ci facevo?» Diego aveva adottato nuovamente il suo tono di sfida e il sorriso da chi ne sa più di tutti, e finalmente lo riconoscevo.
«Tradivi Veronica. Giusto? Quante volte l’hai già tradita?»
«Ehi, d’accordo, io me ne vado, ma finitela! Chiamo la sicurezza» si intromise la ragazza, ma nessuno dei due aveva la minima intenzione di dare retta a un terzo elemento.
«Ma cosa te ne frega a te?» Diego schioccò la lingua tenendo sempre lo sguardo dritto in quello di Nicola. «E stiamo insieme solo da un mese, non è che…» ma nemmeno riuscì a completare la frase, che gli arrivò un ceffone dritto in volto. Non credevo davvero ai miei occhi, ed ero pietrificato lì sul posto, francamente e leggermente divertito.
«Ma che problemi hai?! Sicurezza!» sbraitò la ragazza, che venne zittita dallo sguardo di fuoco di Nicola. Sapevamo tutti che “Berretto”, come eravamo soliti chiamarlo io e Loris, era innamorato perso da secoli della sua compagna di classe Veronica e, quando quest’ultima s’era messa assieme a Diego che già non poteva soffrire, era caduto in un limbo tale da isolarsi da tutto e tutti. Era già un miracolo che fosse salito in montagna a giocare, e un altro miracolo che mio padre non l’avesse ancora sostituito.
Il ceffone da parte di Nicola fu l’incentivo che fece reagire Diego. Una volta liberatosi dalla stretta di Nicola, gli mollò a sua volta un pugno, che lo fece istantaneamente cadere sulle ginocchia. A quel punto, continuò a dargli la sua lezione prendendolo a calci nello stomaco neanche fosse un pallone da calcio e continuando a ripetergli di farsi i cazzi suoi. Avevo la sensazione che, nel caso fossi intervenuto, mi sarei beccato un paio di calci anche io. Ma ci pensai solo dopo essermi frapposto tra Diego e la sua vittima. Inutile dire che ricevetti una testata che mi stordì e non poco.
Finalmente, il bodyguard mingherlino arrivò scendendo le scale di corsa, avvertito dalla ragazza di prima, più innervosita che spaventata o mortificata. Alla vista dell’uomo, Diego alzò le mani a sua difesa, quasi a dire che non aveva avuto altra scelta. A me girava ancora la testa, ma capii perfettamente quando l’uomo mi disse di andare a chiamare tutti i miei compagni, ché ci avrebbe portato lui personalmente al nostro albergo.




Senza sapere il perché e il percome, i miei compagni si trascinarono a testa bassa sino alla vecchia catapecchia, tutti chiaramente confusi e stralunati. Il bodyguard mingherlino spiegò l’accaduto a mio padre, e quello diede un’indimenticabile strigliata a Diego, Nicola, e anche a me, che ero capitato in mezzo alla zuffa con tutte le mie buone intenzioni. Ma non mi andò di contraddirlo, per il momento. Nathan e Ludovico avevano la faccia più nascosta di tutti quanti, ma a mio padre non sfuggirono i loro movimenti a scatti e la bocca impastata che si muoveva rumorosamente. Si chiese a voce alta chi glielo faceva fare di stare lì ad allenare dei perfetti idioti, visto che non erano in grado di comprendere la gravità delle loro azioni. Non solo sarebbero stati squalificati dal torneo, ma tutte le loro famiglie sarebbero state avvisate di tale condotta, e quest’ultima trovata la trovai bastarda da parte di mio padre, ma efficace, a quanto pareva. Ludovico stava per piangersi e pisciarsi addosso. Ordinò a tutti di andare a letto, ognuno nella propria camerata, e Diego e Nicola proseguirono a tentoni mentre digrignavano i denti, il primo con la guancia rossa e gonfia, il secondo che si stringeva una mano all’altezza dello stomaco. Quasi tutti avevano ormai capito che c’era stato uno scontro fisico tra i due. Claudio c’era e stava bene, ed entrò con noi nella nostra camerata con fare distratto, come non fosse affatto interessato alla zuffa avvenuta tra il capitano e Berretto e pensasse a tutt’altro.
«Lore, hai un segno rosso sulla fronte» mi fece notare Loris, e io rotolai gli occhi all’indietro.
«Le hai prese anche tu?» fece Marco divertito.
«Ehi, andiamo a letto senza fiatare. O ve le prendete tutti» mormorò Antonio, piatto e cattivo. Mi fece sinceramente paura.
Feci cenno a Loris di vederci in bagno e di scambiarci i pigiami. Dovevo assolutamente sapere dov’è che era stato Claudio per tutto quel tempo. Ci coricammo ognuno nel suo letto, a parte ovviamente io e Loris, e quando le luci furono spente Ludovico si rizzò a sedere e illuminò appena la stanza con lo schermo del suo cellulare.
«Ma che cazzo è successo?»
Gli rispose Marco sbadigliando.
«Il piccoletto si è svegliato, finalmente. S’è fatto valere».
«Dici che ha picchiato Diego per Veronica?»
«Sì, è così» confermai io senza un secondo pensiero.
«Loris, Ma non eri con noi quando è successo?» osservò Ludovico che, paradossalmente, da fumato faceva commenti più furbi. Furbi fino ad un certo punto, visto che io non ero Loris, e il solo cambio di letto l’aveva confuso e convinto che fossi un’altra persona.
«Beh, è stato mio fratello a dirmi tutto» diedi un’occhiata al mio gemello perché mi appoggiasse e lui annuì convinto.
«Ah… va beh, saranno cazzi loro. Tu, piuttosto, te la sei trovata la polla, eh?» Ludovico adesso s’era rivolto a Marco e giurai di vedere quest’ultimo sorridere compiaciuto, nonostante il buio.
«Già, da spennare per bene. Tu invece? Nulla?» chiese quello di rimando.
«Io non mi prendo la prima che capita. Me la scelgo bene. Ho adocchiato quella bionda capelli corti che…»
«Se la fa già Diego» intervenni prima che potesse dire altro.
«Non ci credo! Le migliori ce le ha sempre lui!»
«Adesso volete chiudere quel forno? Domani il mister ci farà a pezzi, non ho proprio voglia di crollare in campo!» protestò Loris in una fantastica interpretazione del sottoscritto. Credo che stesse approfittando dello scambio di ruoli per rispondere male a tutti senza sembrare scortese. Per uscire un po’ dalla sua forma, insomma.
«Giusto, quello è Claudio» Ludovico tirò la frecciatina in una pessima imitazione di Diego, ma nessuno gli diede retta e con un “Buona notte!” convincente da parte di Loris, nella camera tornò il buio e il silenzio.
Claudio era stato fin troppo silenzioso e temevo si fosse addormentato.
«Ohi, Cla…» chiamai in un sussurro quasi impercettibile.
«Dimmi, Lo»
Sembrava perfettamente sveglio, dal suo tono.
«Non ti ho visto per tutta la sera. Dov’eri?» parlavo talmente silenziosamente da non riuscirmi a sentire nemmeno io. Lui si voltò verso di me, probabilmente perché lo sentissi meglio. Mi si accorciò il respiro di colpo.
«In realtà sono sempre stato lì dentro. Neanche ho iniziato a ballare, che mi si è avvicinato uno dei pallavolisti, sai, quello che si è presentato per primo in albergo».
Mi s’infiammarono i bordi delle narici. Lo dicevo di aver avvertito un’aura negativa attorno a quel tizio, naso lungo e storto e capelli unti. Mi salì un brivido al solo pensiero.
«Ha ballato un po’ con me, poi ci siamo seduti ai divanetti e mi ha chiesto se sono gay. Io gli ho detto che non sono affari suoi, ma lui ha detto che invece lo erano, perché lui è bisex e gli interessavo».
Le ginocchia presero a farmi giacomo giacomo dal nervoso, lì sotto le lenzuola, e lo stomaco iniziò a bruciarmi quasi dovesse prepararsi a lanciarmi un conato di vomito su per l’esofago.
«Che problemi ha?!» sbottai, a voce leggermente più alta, e qualcuno mi intimò di stare zitto con uno “shh!” sommesso. «E che ha fatto altro?»
«Poi… mi ha chiesto perché ero triste. In effetti è da un po’ che mi sento strano».
«Come mai?»
«In realtà non c’è nulla che non va. Però a volte mi si crea un vuoto cosmico dentro, e il fatto di non riuscire a vederne la fine mi mette l’ansia».
«E tu gli hai detto così?»
«No, gli ho solo detto che sì, ero un po’ triste. Allora lui mi ha detto che mi avrebbe tirato su di morale, e mi ha portato in bagno, e…»
«Cosa?!» feci istintivamente, decisamente a voce più alta.
«Zitti, che Cristo!» gli altri mi rimproverarono, giustamente, e lo stesso fece Claudio.
«Calmo, cosa urli? Perché ti agiti?» il suo tono confuso mi ricordò che in teoria adesso ero Loris, che non si sarebbe mai, mai comportato a quel modo. «Se vuoi smetto di raccontare».
«No, dimmi. Che è successo dopo?»
Claudio sospirò e allungò la mano per grattarsi la nuca.
«Niente, ha cercato di… di baciarmi, e…»
«Ok, come non detto, lasciamo perdere» lo interruppi con la voce che tremava, probabilmente dalla paura che stesse per dirmi quello che immaginavo, e mi girai dal lato di mio fratello con gli occhi sbarrati. Volevo che la smettesse di parlare e allo stesso tempo volevo che continuasse. Ma che magari cambiasse argomento. O forse no? Volevo davvero sapere cos’era successo in quel bagno? No che non volevo.
«Ma che hai?» fece Claudio, giustamente, e allungò una mano sulla mia spalla, che sussultò visibilmente. Dovevo solo sperare che pensasse che Loris fosse ubriaco e per quel motivo si stava comportando in modo tanto inusuale. «Guarda che non è successo niente, alla fine. Non reagivo, ero altrove con la testa. Gli ho detto che ero troppo di malumore e me ne sono andato. Penso troppo e troppo poco, ultimamente. Faccio sempre quei sogni strani».
«Che sogni?» mi venne spontaneo chiedere, l’ansia di capire, l’ansia di sapere, che non sapevo se stesse aumentando o si stesse affievolendo.
«Te l’ho già detto. Tante volte. Eppure sembrava mi stessi ascoltando».
Strinsi le labbra e sperai che Loris fosse sveglio e ci stesse ascoltando, in modo da potermi dare un consiglio, suggerirmi qualche parola, dirmi come procedere. E fu mentre ero lì lì per decidere se tacere e far finta di essermi addormentato o porre qualche altra domanda, che Claudio parlò di nuovo.
«Pensi che esista qualcuno lassù che decide tutto al posto nostro? Che ci muove come fossimo burattini? Che ride di noi o ci suggerisce cosa è meglio per noi o ci punisce per non aver vissuto onestamente?»
Aggrottai le sopracciglia, chiedendomi cosa c’entrasse con quello di cui stavamo parlando fino a poco prima.
«Perché mi fai queste domande?»
«E’ che…è una mia ossessione, quella del destino già scritto. Non so se mi mette ansia perché non si può cambiare o se mi tranquillizza perché non dovrò fare nulla per permettere che il destino abbia il suo corso» lo sentii muoversi un poco, irrequieto. «Immagina che esista un destino già scritto. La volontà dell’uomo può cambiarlo? E se lo cambia, che succede? Si viene puniti?»
«Che stai dicendo?»
«Secondo te?»
«Secondo me non esiste ‘sta cosa. Si ha una certa volontà e poi la si maschera come destino. ‘Era destino che succedesse’, no, l’hai voluto tu»
«Quindi il destino è un’invenzione dell’uomo?»
Gli annuii piano, non esattamente sicuro del mio cenno, e lui fece come un sospiro di sollievo. «E’ che è da un po’ che penso a come io sia destinato a non essere felice. La cerco e la ricerco, questa felicità, ma sembra che qualcosa di più grande di me me la tolga all’ultimo momento. Adesso, per esempio: vorrei tanto avvicinarmi a una persona perché ho la sensazione di poterci star bene. Ma qualcosa continua ad allontanarla da me. Perché non posso starci insieme? Se forzo l’ordine delle cose verrò punito?»
Rimasi immobile e rigido come un pezzo di marmo, lui che era più serio della morte, quasi si facesse quelle domande ogni giorno e ogni giorno gli facessero male come se fosse stata la prima volta che pensava a un destino predestinato. Di chi stava parlando? E perché ne voleva parlare proprio con mio fratello? Mi si strinse un nodo allo stomaco e, col magone che a malapena mi lasciava respirare, sperai egoisticamente che si stesse riferendo a me. Perché avrebbe dovuto riferirsi a me? Ero fuori dal mondo? Cose del genere non succedono. Non esiste che una vittima possa anche solo pensare positivamente a uno dei suoi carnefici.
Finsi di essermi addormentato, lasciando le sue domande per sempre senza risposta. Fuggendo per l’ennesima volta.








***

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5






 

 

 

«Ora mi devi spiegare una cosa».
Loris era visibilmente scosso la mattina dopo e, senza lasciarmi riprendere dalla nottata per niente tranquilla, mi trascinò con lui in bagno e parlò mentre si toglieva la maglia del pigiama.
«Te la fai con Antonio?»
La sua domanda mi bloccò a metà uno sbadiglio.
«Cosa? No!» esclamai col tono da telefilm drammatico. «Perché dovrei?»
«Beh, ieri mi ha dato la buonanotte con un bacio sulla bocca!»
«Cosa?!» strillai di rimando, e quello mi fece segno di abbassare la voce. «Ma non l’avrà fatto apposta…»
«Ti assicuro che era fatto apposta».
Mi tornarono davanti agli occhi i flash del pomeriggio prima, adesso che ero decisamente sveglio. Possibile che Antonio non si fosse accorto dello scambio di persona e pensava che stesse dando un bacio a me? Antonio che non s’accorgeva di una roba tanto palese? Dovevo inventarmi qualcosa. Non potevo spiattellare così su due piedi i sentimenti di una persona.
«Beh… lui a volte per gioco mi dà la buonanotte con un bacio sulla guancia…»
«Ma ti ho detto che me l’ha dato sulla bocca!»
«Ho capito. Ma tu non dormi sempre e solo supino? Io invece sempre di lato, giusto? Neanche si sarà accorto di aver beccato la bocca piuttosto che la guancia. E magari era anche un po’ fumato anche lui. Non farci troppo caso!»
Quasi riuscivo a sentire il rumore delle unghie che strisciavano sugli specchi mentre cercavo di arrampicarmici.
«Sì, può essere…» fece Loris, che incredibilmente abboccò. «Però non me la stai raccontando tutta giusta».
«Almeno bacia bene?»
«Non abbiamo mica limonato».
«Era per sdrammatizzare» dissi alzando le spalle, poi consegnai a mio fratello il pigiama che m’ero appena tolto e mi ricordai di cos’è che dovevo chiedergli.
«Ah, senti… Claudio ti ha mai raccontato di sogni strani e ricorrenti che fa?»
Lui mi restituì il pigiama con una faccia stranita.
«Beh, sì… perché, ti ha detto qualcosa?»
«No, ovviamente ha dato per scontato che lo sapessi. Che sogna?» insistetti abbassando la voce, nel timore che Claudio dall’altra parte della porta potesse sentirci.
«Non credo di dovertelo dire io…» disse Loris, e sì che mi aspettavo una risposta del genere, conoscendo il mio pollo.
«Senti. Finiscila di fare il buon samaritano e l’amichetto del cuore! Sono tuo fratello e voglio saperlo. Dimmelo».
Agganciai il suo sguardo e non lo lasciai andare finché non fu costretto a vuotare il sacco. Alzò le spalle, come a voler dire che lui non ne capiva niente, di quelle cose.
«Sogna di morire. Non sogna la causa della sua morte, solo che si sta spegnendo. Ah, e c’è qualcuno che lo abbraccia, mentre muore, ma ha sempre una visione distorta di questo qualcuno. Non lo vede mai chiaramente perché è come se si stesse addormentando nel sonno» Loris alzò le sopracciglia e sospirò. «Un po’ inquietante».
Non seppi cosa rispondere, preso un po’ alla sprovvista. Che motivo aveva Claudio per pensare così spesso al sonno eterno? Non era semplicemente un adolescente con bizzarre idee per la testa: sembrava che qualcosa lo tormentasse nel profondo, come se un demone gli si agitasse nelle viscere e cercasse un modo per venire fuori. Non feci altre domande, improvvisamente avevo perso il mio già scarso senso dell’umorismo.


Durante gli allenamenti del quarto giorno sembravamo più disuniti che mai: Nicola e Diego neanche osavano guardarsi, Ludovico e Marco avevano avuto una discussione su questioni sconosciute ed evitavano di incrociarsi, Loris lanciava occhiate stranite ad Antonio ripensando a quel bacio, Nathan se ne stava per conto suo con la testa tra le nuvole e Claudio mi fissava con insistenza senza un apparente motivo, e io di conseguenza mi agitavo.
«Ehi, sembra che il biondo si sia improvvisamente invaghito di te» mi fece notare Michele dandomi una pacca sulla spalla.
«Ci manca solo questo!» scherzai per finta, e lo si vedeva lontano un miglio che invece mi tormentavo, e i sorrisi falsi, se possibile, erano ancora più forzati.
Mio padre ci aveva concesso una pausa di venti minuti, e la maggior parte dei miei compagni si fiondò sul campetto da beach volley.
«Oh, ti chiama Ludovico» mi informò Michele, e se ne andò anche lui. Ludovico era piazzato sull’entrata degli spogliatoi e mi faceva segno con la mano di raggiungerlo. Mi chiesi cosa diavolo volesse con tutta quell’insistenza, e mi trascinai svogliato sino alla sua posizione.
«Che vuoi?»
Lui mi sventolò davanti al naso due quadrati in plastica colorata e fece una risata da folle.
«E’ giunta l’ora, amico mio» mi disse col fiato già corto, e io pensai si fosse fatto di qualcosa, un’altra volta. «E’ qui dentro».
«Ma chi?»
«La ragazza delle pulizie! Andiamo, ho già fatto le presentazioni anche per te, quindi puoi saltare i convenevoli. Venti minuti ci bastano e avanzano» disse frettolosamente, e io diedi un’occhiata all’interno dello spogliatoio scarsamente illuminato.
«Tu sei malato. Ti ho già detto che non l’avrei fatto».
«Hai detto che dipendeva dal tuo umore!»
«Infatti non sono per niente di buon umore».
«E quand’è che lo sei, onestamente? Andiamo, non c’è bisogno del buon umore per farti un bel culetto. Cristo, che problemi hai? Vieni e basta!» detto questo, mi afferrò il braccio con una stretta per niente indifferente e mi trascinò a forza nello spogliatoio chiudendosi dietro la porta con un piede. La ragazza era seduta in modo composto su una delle panchine e guardava da un’altra parte, il profilo perfetto illuminato da una delle piccole finestre in alto sul muro.
«Ehi, Antonella! Ecco, questo è Lorenzo» fece Ludovico assolutamente a suo agio, e mi piazzò davanti alla ragazza, che mi rivolse un sorriso sincero e discreto. Non riuscivo ad immaginare che una donna come quella si sarebbe lasciata andare nel modo in cui intendeva Ludovico in così poco tempo e dopo presentazioni tanto insoddisfacenti. Ci fece segno di sederci accanto a lei, e così facemmo, uno da una parte e l’altro dall’altra.
«E’ raro che qualcuno venga a stare da noi» esordì con voce morbida e controllata. «Siamo sole per la maggior parte del tempo, io e mia madre. Quindi volevo sapere se aveste voglia di farmi un po’ di compagnia, quando avete tempo libero».
«Ma certo! Quando vuoi!» esclamò Ludovico, tutto rosso in faccia e col sorriso da ebete che partiva da un orecchio e finiva sull’altro. «Sei così bella, come può qualcuno sano di mente lasciarti sola?» e fece il suo primo approccio baciandola sulla guancia. Quella apprezzò la del tutto stereotipata gentilezza, e si girò verso di lui lasciandosi baciare sulla bocca. La sua mano era intanto scivolata sulla mia, ferma sulla mia gamba. Volevo andarmene. Ma forse avrei dovuto restare. Improvvisamente, capii l’antitesi di cui parlava Claudio la sera prima: volontà e destino. La volontà mi diceva di andarmene seduta stante, ma il destino sembrava volermi comunicare che la strada che dovevo percorrere per diventare il me del futuro era proprio quella. Che era scritto che dovessi fare un’esperienza del genere, che ormai l’età per fuggire era finita, o magari doveva ancora iniziare. Antonella smise di baciare Ludovico e si girò verso di me, cercando ad occhi socchiusi la mia bocca. Ma io la schivai e lasciai che mi respirasse sul collo e sulla guancia, fingendo di volerla lasciare in tensione, quando fondamentalmente non volevo che mi baciasse. Anche se ero destinato a doverlo fare.
Ma prima che potesse succedere, la porta dello spogliatoio si spalancò e Claudio entrò senza inizialmente notarci. Poi si accorse del trio sulla panchina, della ragazza col capo piegato sul mio collo e una sua mano sulla mia, e rimase rigido come un pezzo di marmo, lì sull’entrata.
«Scusate, io… torno più tardi» balbettò e fece dietrofront. E in quel momento la volontà e l’istinto si fecero spazio dentro di me e mi squarciarono il petto per uscire. Mi alzai dalla panchina di scatto rischiando di urtare la guancia di Antonella e corsi dietro a Claudio fino a raggiungerlo fuori, riuscii a prenderlo da una spalla e a farlo girare verso di me: aveva le punte delle orecchie porpora per l’imbarazzo e lo sguardo fisso sui piedi, tanto che potevo vedere solo i suoi capelli.
«Io…» mi uscì dalle labbra, ma sapevo che non sarei stato in grado di dire qualcosa di sensato. La forza di volontà che bruciava poco prima stava lentamente facendo la sua ritirata, sostituita dalla codardia. «Solo… per favore, non dirlo agli altri. E a mio padre, per favore». Avevo detto due volte “per favore”, non andava per niente bene. Non so se sembrassi più gentile o spaventato.
«No, tranquillo! E’ così che deve andare» disse sempre a testa bassa, e io non compresi appieno quelle parole, almeno non sul momento. Avevo come una barriera che oscurava tutto tranne quella smilza figura che m’appariva eterea. «Non lo dico a nessuno» mi assicurò poi quasi a labbra chiuse, e finalmente alzò gli occhi verso di me, che adesso lo tenevo da entrambe le spalle. Non aveva lo sguardo imbarazzato come avevo creduto, ma duro e deciso, che quasi mi faceva male come un taglio sulla pelle. «Io lo cambio, questo destino» sussurrò poi tra i denti, e io rimasi lì a guardarlo come uno stoccafisso, nelle iridi larghe e scure con riflessi dorati come pagliuzze sotto il sole, finché non sentimmo la voce di mio padre che ci richiamava ai campetti. Lo lasciai immediatamente, come se mi fossi accorto di essermi scottato a quel contatto, e lui corse via quasi inciampando nei suoi piedi.
Quando ripresi a giocare, non ero del tutto in me. Poco prima, io e Claudio ci eravamo comportati come una coppia in crisi, col marito beccato a tradire la moglie e costretto a dargli spiegazioni e con la moglie che decide di andarsene. Non capivo come diavolo fosse possibile, ma io e Claudio eravamo decisamente intimi, adesso. Non era un fatto, era una sensazione chiara sotto la pelle che mi percorreva tutto e si concentrava sul petto e nel cervello, facendoli pulsare a tal punto da sembrare stessero esplodendo. Ero connesso a lui, in qualche modo. Era l’unica grande verità, almeno fino a quel momento. E poi, Claudio aveva parlato di destino davanti a me. Quella frase era rivolta a me. Poteva benissimo non esserlo, ma io lo sentivo con ogni fibra del mio corpo e non penso di poter mai essere in grado di descrivere con esattezza quello che mi accadeva in quei giorni maledetti.
Per tutta la durata dell’allenamento pensai ad altro e non ne seppi fare una giusta, tanto che mio padre mi tirò una pallonata sulla coscia urlandomi che se non mi fossi ripreso, mi avrebbe fatto riprendere lui a forza di schiaffi. Ma la stessa ramanzina la fece a Nicola e a Claudio.
Dopo esserci fatti la doccia, riuscii a parlare con Antonio, nonostante il trambusto che avevo in testa mi avesse impedito di spiccicare parola con chiunque. Gli chiesi spiegazioni riguardo il bacio che aveva dato la sera prima a mio fratello.
«Tuo fratello? Ma nel letto accanto a me non ci dormi tu?» chiese lui sinceramente confuso.
«Mi stai dicendo che non ti sei per niente accorto dello scambio?»
«Vi siete scambiati? Io… non me ne sono reso conto…» fece con una mano tra i capelli, e sembrava davvero amareggiato. Pensavo mi conoscesse al 200%, come aveva potuto confondermi con mio fratello? Eravamo stati davvero così bravi a calarci l’uno nelle parti dell’altro? Oppure era Antonio a perdere colpi? «Ho baciato tuo fratello?»
Lo guardai con un’espressione eloquente, e lui si schiacciò una mano sulla bocca.
«Tranquillo, gli ho spiegato che è stato un errore».
«Non lo è stato per niente». Antonio era serio come la morte e mi guardava fisso negli occhi quasi volesse scandagliarmi l’anima. Evidentemente voleva farmi capire che quel bacio dopotutto era per me.
«Antonio… ti prego… non rendere le cose più difficili di quanto già non siano»
«Cosa c’è di difficile?» insistette lui, le mani adesso aperte all’altezza del petto. «Sei sicuro di essere destinato a stare accanto a Claudio?»
Adesso se ne usciva anche lui con quella storia del destino. Mi alzai dalla panchina dello spogliatoio su cui ci eravamo seduti dieci minuti prima, e scossi la testa.
«No, non credo» dissi con una mano a grattarmi la nuca. «Ma è quello che voglio. Per favore, devi perdonarmi». Non ebbi il coraggio di guardarlo negli occhi dopo aver parlato e me ne andai. Scappavo ancora. Sapevo bene come ci si potesse sentire a vivere un amore a senso unico e il senso di colpa s’aggiunse al dolore che sentivo di provare anche io, ora che lo provava lui. Le nostre strade erano parallele, probabilmente non si sarebbero mai incontrate in quel senso. Erano destinate a farlo, ma ero io a non volerlo, e mi sentivo adesso egoista sopra a tutto.



Quella sera, per una cosa o per l’altra, tra i miei compagni non scorreva esattamente buon sangue, e l’atmosfera era piuttosto cupa. Una delle ragazze della squadra di pallavolo scappò dal suo albergo per poter stare con Marco, e anche il famoso Adriano fece una capatina nella nostra camerata. Ero seduto sulle scale di legno fuori dalla porta, a cui erano appoggiati Loris e Claudio. Quando quest’ultimo vide arrivare il pallavolista, alzò gli occhi al cielo e rientrò in camerata, mentre Loris mi guardò divertito e alzò le spalle. Io non ci trovavo nulla di divertente.
«E’ vero che posso rimanere qui stanotte?» chiese con spavalderia tale Adriano quando entrò a suo piacimento nella stanza.
«Per me va bene» fece Ludovico distrattamente, gli occhi sul Nintendo DS di Marco.
«Anche per me» concordò Loris, e io lo guardai malissimo.
«Sapete, ho una questione in sospeso con lui» e indicò Claudio, che ebbe un brivido quasi avesse assaggiato qualcosa di piccante o aspro.
«Ma io non voglio che tu resti» disse questo senza vie di mezzo.
«E dai, non do alcun disturbo» insistette l’altro, che sotto la luce gialla della camerata era ancora più brutto.
«E invece sì. Mi disturbi» Claudio non sembrava volergliela dare vinta.
«Ma qual è il problema?»
Antonio mi diede una leggera gomitata e guardò l’intruso con le sopracciglia aggrottate.
«Ma chi è?» mi chiese, ma io non gli risposi, troppo impegnato a vedere cosa si sarebbe inventato il pallavolista adesso.
«Sei tu il problema» gli rispose Claudio a braccia conserte.
«Quindi mi stai cacciando?»
A quel punto non riuscii più a trattenermi e feci un passo in avanti.
«Ma hai sentito? Ha detto che non ti vuole qui, quindi te ne devi andare!» gli intimai col tono di voce incredibilmente controllato, tanto da stupirmi di me stesso. Lui si voltò nella mia direzione e mi guardò dall’alto in basso con la lingua che leccava un lato della bocca e uno sguardo da “E adesso chi abbiamo qui?”
«Beh, sei ancora qui?» ricalcai la voglia che avevo di vederlo fuori di lì in quel preciso istante. Mi aspettai di ricevere un pugno volante da quel tizio che di certo non portava buone novelle, ma:
«Non capisco tutto questo astio, ma comunque. Me ne vado. Buona serata». Detto ciò, fece dietrofront e se ne andò con le mani nelle tasche larghe dei pantaloncini, evitando di darmi una spallata al passaggio. Non aspettai le reazioni dei miei compagni che dissi a Loris di dovergli parlare e lo trascinai in bagno per poterci scambiare i pigiami. «Questa è l’ultima volta, lo giuro» lo informai mentre mi sfilavo velocemente la maglia.
«Stavo per dire la stessa cosa» sorrise lui. «Bella prova d’amore, comunque»
«E dai» mi scappò da ridere e mio fratello mi diede un colpetto su un orecchio per farmi capire quanto stessi arrossendo in quel momento. Fu lui ad uscire per primo dal bagno, e tutti gli fecero i complimenti per come io avevo mandato via il pallavolista.
«Sempre più tigre» commentò Ludovico e Loris fece un sorriso di circostanza per poi appostarsi inevitabilmente accanto ad Antonio. A quel punto la porta si aprì dall’esterno e fece capolino Nathan.
«Ehi, il mister ci ha dato il permesso di fare un bel pigiama party, quindi fate largo!» annunciò fiondandosi in camera e buttandosi a peso morto sul primo letto che gli capitò a tiro.
«Siamo sicuri che nessuno si farà male?» fece Marco lanciando frecciatine a Diego e Nicola che avevano appena fatto il loro ingresso con addosso una faccia da funerale.
«E siamo sicuri che nessuno rimarrà incinta?» ribatté Michele ironico lanciando un’occhiata alla ragazza che Marco teneva tra le braccia.
«Dai, ragazzi, cerchiamo di viverci questi altri tre giorni senza inutili discussioni» intervenne Loris come al solito.
«Ehi, Lore, da quando fai il moralista?» chiese Ludovico, e forse il buffone iniziava ad accorgersi che c’era qualcosa che non andava.  Era anche ora, che diavolo.
«E’ che mi innervosite» si giustificò subito Loris, dimentico del personaggio che doveva interpretare, e tornò a confabulare con Antonio.
In poco tempo nella stanza si venne a creare un odore insopportabile composto da puzza di piedi, sudore, fumo e cibo indefinito, nonostante la finestra fosse ben aperta. Avvertivo chiaramente gli occhi di Claudio su di me, anche se non m’ero ancora girato a guardarlo. Ma era chiaro, in qualche modo, come se stesse facendo un solco su di me ovunque stesse posando lo sguardo.
«Loris?» chiamò quindi, ed era chiaro fosse rivolto a me. «Andiamo fuori?»
Io annuii, non prima di aver schiarito la gola per sciogliere quel nodo che già s’era venuto a creare, e lo seguii fuori notando come gli occhi di Antonio mi seguissero senza errore.
Ci sedemmo sui soliti scalini di legno, il più lontano possibile dalla porta, tanto da non sentire neanche più le voci dei ragazzi. C’era silenzio, ma anche il fruscio delle piante colpite dal venticello, e il respiro profondo di Claudio, come se da tempo non respirasse aria pulita. Stemmo per un po’ così, lui che sembrava godersi l’aria fresca, io che mi torturavo le unghie, non avendo la più pallida idea di quello che avrei dovuto fare. Parlare, stare zitto? Muovermi, fare rumore? Stare, andarmene?
«Pensi che io sia strano?»
Ma fu lui a parlare per primo e a cavarmi da quell’impiccio.
«Er… No…»
«Parlami con la tua, di voce, non con quella di qualcun altro» fece lui, e io mi pietrificai sul posto. Smisi persino di respirare. Come se non mi aspettassi che potesse accadere da un momento all’altro. Ero solo una grandissima merda. «Non sei credibile» aggiunse, sorridendo da un lato della bocca. Prima di parlare probabilmente bestemmiai tutti i santi del calendario.
«Sei sveglio» mi venne da dire poi, riuscendo persino a tirare fuori il mio tono strafottente in un momento come quello. «Sei l’unico che l’ha capito».
«Non è un caso, secondo me» disse lui alzando le spalle e strofinandosi le mani. «Guarda che io ti capisco».
«E come fai a capirmi?»
«Non lo so. Come se ci fossimo conosciuti nella vita precedente» fece lui con naturalezza, e io avvertivo che sotto la pelle invece era particolarmente sulle spine.
Stavo per rifilargli un “Sembra che tu vada matto per il soprannaturale”, ma prima di quello mi uscì un “Già…” sospirato, come se un altro me stesso stesse parlando al posto mio. Un me stesso molto familiare, ma che lasciavo sempre accantonato da qualche parte nelle viscere, nel cervello, in qualche anfratto nascosto del mio essere, e mettevo sempre il Lorenzo che tutti conoscevano a proteggermi dalle malelingue, dagli sguardi indiscreti, dal diverso. Quello era il me stesso che ero destinato a interpretare, mentre colui che volevo essere non sembrava poter venire fuori tanto facilmente.
Claudio allungò un braccio ed arrivò a toccarmi la mano, che ebbe uno scatto piuttosto evidente. Lui mi rivolse uno sguardo rassicurante, e tanto dolce che giurai di vedere pupilla e iride sciogliersi come gelato sotto il sole. Gli concessi la mia mano neanche fossi una dama invitata a ballare, e lui strinse appena. I nostri corpi furono attraversati nello stesso momento da un brivido, come se il toccarci avesse provocato una leggera scossa. Si portò l’altra mano all’altezza del petto e batté in quel punto un paio di volte, continuando a guardarmi con gli occhi di chi è a digiuno da tempo e sta contemplando un tozzo di pane che non è sicuro riuscirà a raggiungere e mangiare. Avevo parlato così poche volte faccia a faccia con Claudio, e non raramente erano volate parole poco carine e insulti, eppure in quel momento io potevo dire di conoscerlo in ogni sua sfaccettatura, come se fossi adesso connesso alla sua anima. Direttamente. Non attraverso quelle mani, non attraverso gli occhi. Il mio intero essere apparteneva a lui, e ancora non ero in grado di spiegare come quella fosse una sensazione possibile. Non ero innamorato, era qualcosa di più grande. Tutto di lui era me, tutto di me era lui.
Ci stavamo guardando da parecchio tempo ormai, senza dire una parola, con le mani strette e lo sguardo che non osava distogliersi l’uno dal viso dell’altro, come se ci stessimo lentamente contemplando, in ogni nostro particolare fisico e psicologico, come se ci stessimo esplorando dentro, scandagliando ogni dettaglio del nostro essere. Dopo quel lasso di tempo che dall’esterno doveva sembrare così stupido e incomprensibile e interminabile, eliminammo lo spazio che ancora ci separava e unimmo le nostre bocche. Il cuore tornò ad avere un battito regolare, i movimenti non erano più impediti, le orecchie non più rosse e il respiro non più bloccato. Baciarlo era stata la soluzione. La soluzione a tutto. Un bacio lento ma che scorreva liscio, morbido nonostante le sue labbra particolarmente screpolate, dolce come la libertà, salato come le lacrime e dal retrogusto amaro della morte. Naturale, inevitabile, risanatore. Entrammo per sempre l’uno nell’altro.
Ci eravamo completamente persi e sembrava stessimo cercando noi stessi mentre incastravamo le bocche e urtavamo i denti, quasi a non volere che qualcun altro prendesse parte a quella conversazione. Ad un certo punto, non esisteva neanche più quel “qualcun altro”. Claudio appoggiò le mani sulle mie spalle e io lo presi dai gomiti, incapace di stare dietro ai suoi baci, già consumato dalla smania amorosa, gli occhi che si schiusero e trovarono i suoi ad aprirsi in quello stesso momento, e a guardarmi sorpreso. Si allontanò leggermente da me dopo un ultimo bacio a fior di labbra, più lento e intimo, ma con le mani sulle mie spalle che tremavano impercettibilmente, quasi avesse ancora qualche timore nascosto di cui non s’era ancora liberato. Spostò le sue mani sul mio volto, e col pollice andò ad asciugare la lacrima che, lenta e intima anche quella, si era fermata a metà guancia. Poi appoggiò la fronte alla mia e puntò gli occhi nei miei, li chiuse e li riaprì, poi li richiuse, e le sue mani erano racchiuse attorno alle mie. Non mi chiese per quale motivo stessi piangendo. Mi sorrise, sembrava lo sapesse già. Mi carezzò la nuca e anche a me scappò un sorriso da tredicenne innamorata del suo idolo e, non più padrone delle mie azioni, posai il capo sulla sua spalla, mentre lui continuava a tenermi le mani. Non ci rendevamo conto del tempo che passava, eravamo estraniati da tutto, e probabilmente ci assopimmo per un po’ in quella posizione. Quando ci decidemmo a tornare in camerata, senza ancora dirci una parola, l’orologio digitale sull’unico comodino segnava le due del mattino, e tutti dormivano in modo scomposto su letti che non erano loro. Il letto di Claudio era occupato per intero da Ludovico che dormiva con braccia e gambe spalancate, quello accanto era vuoto, e sui due successivi dormivano Antonio, dritto e lungo come sempre, e Loris, col capo appiccicato a quello di Antonio e il resto del corpo in diagonale. Ci infilammo sotto le lenzuola del letto vuoto, assicurandoci di non perdere neanche per un attimo il contatto l’uno dell’altro. Dormimmo con il mio braccio destro attaccato al suo sinistro quasi fossimo siamesi e due dita che cercarono di intrecciarsi fino a che il sonno non ci vinse e finimmo per rinunciare. Non sognai niente quella notte.








***


 

 




Eccoci a metà strada! Ho notato che la mia storia non sta riscuotendo molto successo e me ne dispiaccio perché ci sono davvero affezionata! Ogni personaggio parla un po’ della mia vita, della mia adolescenza, delle persone che ho avuto intorno o di quella che sono stata io. Penso che alla fine di questo capitolo ci si renda conto del perché ho inserito la storia tra le “Introspettive”. Spero che chi ha trovato qualcosa di speciale in questa lettura sia soddisfatto della piega che sta prendendo la storia (che, attenzione, potrebbe non essere la stessa fino alla fine). Vi ringrazio per esservi fermati a leggere.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***



Capitolo 6



 

 


 

 

Quando la mattina dopo io e Loris ci scambiammo i panni per l’ultima volta, ero totalmente assente, lo sguardo vacuo che non vedeva altro che flash della sera prima, come fosse stato il sogno che quella notte non avevo fatto.
«Antonio è assurdo… ieri sera siamo finiti a parlare di letteratura e cinema! Non mi hai mai detto che fosse tanto acculturato!»
Loris stava dicendo qualcosa del genere e la sua voce arrivava ovattata alle mie orecchie, quasi anche lui facesse parte di un sogno da cui non sapevo se mi sarei svegliato o meno.
«Mi stai ascoltando?»
Non gli risposi e mi tolsi i pantaloni con movimenti lenti ed estenuanti.
«A quanto pare no» si diede la risposta da solo, poi sorrise tra sé e mi trascinò dal polso sino ai lavandini, ordinandomi poi di sciacquarmi la faccia. «Vi siete baciati?» chiese mentre mi lavavo lanciando acqua un po’ ovunque.
«Mh… Sì…» dissi senza mezzi termini, nella beatitudine più totale. Lui mi indirizzò una potente pacca sulla schiena.
«Lo sapevo che ricambiava!»
«Sì, ma fa’ piano».
«Capisco la gioia, ma è ora che ti svegli, bello mio. Le partite non si vincono da sole. Lo sai che non siamo venuti qui per coronare il tuo sogno d’amore, no?» un’altra pacca sulle spalle e Loris uscì dal bagno lasciandomi solo col mio fiatone, probabilmente dovuto ai pensieri ancora legati alla sera prima. Asciugai l’acqua che gocciolava dal mento col polso e poi mi diedi uno schiaffo abbastanza forte da farmi riprendere. Non potevo lasciare che un bacio pilotasse tutta la mia vita. Ma non era stato un bacio, quello, era stato un viaggio negli abissi più profondi e nei cieli più alti, su deserti sconfinati e nell’oceano infinito. Non era normale, tutto quello. Non ero normale io, non era normale lui.
Provai a mettermi con la testa sul gioco di quel pomeriggio mentre Claudio, saggiamente, si comportava come sempre. O almeno, così tentava di far credere.
Durante la colazione del quinto giorno, Ludovico sembrava non sentirsi particolarmente bene: aveva il capo riverso sul tavolo in legno, un biscotto che gli scivolava dalle dita e un rivolo di saliva che colava lungo il mento. Le labbra tremavano impercettibilmente e gli occhi erano aperti e fissi davanti a sé, alla stregua di un cadavere. Marco andò a scuoterlo per le spalle, guardandosi intorno nel caso arrivasse il mister e trovasse uno dei suoi giocatori in quelle condizioni.
«Che diavolo ha?» fece Loris, che probabilmente la sera prima era crollato nel letto ben prima di tutti gli altri.
«Io gliel’ho detto di non tirare tutta quella roba!» Nathan mise subito le mani avanti, ché tanto non era mai colpa sua, e Marco gli rivolse uno sguardo decisamente preoccupato.
«Non hai ancora capito che non devi dargli più niente?»
«Fatelo riposare, dovrebbe riprendersi a momenti» ribatté Nathan, a quanto pare sicuro di quello che diceva. Ma si sentiva dal tono di voce che sotto sotto se la stava facendo addosso.
«Abbiamo una partita questo pomeriggio!» intervenne Diego, la fascia da capitano già ben stretta al braccio.
«Reputi più importante una partita della salute di un tuo compagno?» domandò retoricamente Loris, preoccupato e mortificato tanto quanto Marco.
«Sinceramente? Sì» fece l’altro senza pudore, e buttò giù il caffè amaro. «Non è un problema mio se al coglione piace farsi di coca!»
«Ma non hai capito che ne è dipendente?»
«Aveva solo da andare a disintossicarsi da qualche parte senza rompere le palle a noi». Espressione immutata, tono di voce neutro e cuore di pietra, Diego continuò la sua colazione come se tutta quella situazione non lo tangesse. Aveva la testa sulla partita, solo su quella. «Abu, ovviamente giochi tu al posto suo. Fino alla fine del campionato».
Nicola, cugino di secondo grado di Ludovico, si alzò strisciando la sedia, pronto a suonarle nuovamente a colui che aveva ancora il coraggio di farsi chiamare capitano, ma quello gli indirizzò uno sguardo pungente e moderatamente convincente.
«Non ci provare, che questa volta la faccia te la spacco sul serio» si limitò a dire, e Nicola allargò le narici e si morse le labbra, ma un Simone che scuoteva la testa e lo guardava implorante lo convinse a desistere.
«Non è morto, vero?» domandò Sandro, che sembrava essersi svegliato solo in quel momento. Toccò il collo di Ludovico, ma il cuore era ancora lì che batteva, certo, a un ritmo impressionante, ma il battito c’era, e fece tirare un sospiro di sollievo a tutti.
«Nico, Loris, aiutatemi a portarlo in camera». Marco fece un cenno ai due chiamati all’appello e tutti e tre sollevarono Ludovico che sì, si reggeva in piedi e muoveva testa e braccia, ma non sembrava capire quello che stava succedendo attorno a lui. Mi alzai anche io e andai ad aprire la porta della camerata.
«Chiedo alla proprietaria e a sua figlia se possono stargli accanto quando non ci siamo. A mio padre diremo che ha avuto un altro attacco di diarrea, come la scorsa volta. Spero se la beva» dissi, pur di rendermi in qualche modo utile.
«Secondo me non la beve» Nathan espresse il suo parere, ma a quanto pareva a nessuno importava.
«Non ti permettere a tirare fuori altra roba in questi ultimi tre giorni» lo avvertì Loris, ma quello alzò le spalle.
«Quale roba? Si è finito tutto lui. Non ho più nulla» ed era tanto rammaricato da sembrare sincero. Claudio era rimasto a guardare il tutto con occhi sbarrati e respiro corto.


Era completamente assente in campo, quella mattina. Sembrava essersi alzato di buona lena, ma adesso puntava il suo sguardo apprensivo da una parte all’altra del campo, quasi stesse seguendo una palla invisibile. Aveva fatto bestemmiare Diego almeno cinque volte.
«Sembrava morto…» mi disse una volta negli spogliatoi. Si tolse i vestiti tanto lentamente che sembrava fossero ricoperti di aculei e gli stessero graffiando la pelle ad ogni centimetro.
«Ti sei spaventato?» chiesi mentre entrava in doccia e apriva l’acqua. Vederlo nudo mi faceva molto meno effetto adesso: era come guardarmi allo specchio. Non sentivo l’impulso di distogliere o, al contrario, di fissare lo sguardo in punti particolari del suo corpo svestito. Non ne avrei mai dovuto avere ragione, date le costole che si intravedevano e le scapole che spuntavano aguzze. Mi chiesi se non fossi io quello drogato.
«Mi ha fatto impressione…» mi diede le spalle e si infilò sotto l’acqua per poi stare lì sotto immobile, i pensieri che vagavano chissà dove. Sembrava che la visione del suo amico riverso sul tavolo l’avesse scosso nel profondo. Ma quanto profondo? Più del dovuto, realizzai. Restai a guardarlo con una spalla appoggiata al muretto e le braccia incrociate, non sapendo cos’altro dire.
«Muovetevi a lavarvi, merde umane, qui abbiamo tutti finito!» ci urlò Diego, poi se ne andò sbattendo il borsone contro la porta. Allora mi tolsi anche io i vestiti, ma più in fretta, e li appallottolai per poi lanciarli sulla panchina. Non avrei fatto carriera neanche nel basket, visto che planarono per terra.
«Da fuori sembri forte, ma non lo sei poi molto, vero?» dissi allora, senza scherno nella mia voce. Una semplice constatazione. Lui si passò una mano tra i capelli e scosse la testa.
«In realtà ci sono alcune cose che mi fanno particolarmente paura» si sciacquò la faccia e di nuovo passò a guardare il pavimento. Seguii la linea del suo collo giù sulla spina dorsale in bella vista fino al sedere, e la mia vista si offuscò un’altra volta, come se stessi nuovamente perdendo il controllo di me stesso ed entrando in una bolla in cui esistevamo solo io e lui.
«Vorrei che quando sei con me tu non avessi paura di niente» mi uscì dalle labbra, naturale e liscio come l’olio, come una frase imparata a memoria da una soap opera, senza modificare di un centimetro la posizione in cui ero. Un brivido interno mi percorse le membra quando Claudio finalmente si voltò a guardarmi, gli occhi commossi, le gocce d’acqua che s’appendevano alle ciglia lunghe e alle ciocche di capelli. Uscì dal getto d’acqua e venne ad abbracciarmi: ogni parte del suo corpo venne a contatto col mio, che si bagnò e fu come essere marchiato a fuoco. Un fuoco che non sembrava volersi spegnere così in fretta. Mi trascinò con lui sotto la doccia e stemmo lì in quella posizione per lunghissimi minuti, ad abbracciarci e a lasciare che l’acqua lavasse via ogni pensiero negativo. Claudio si incastrava a me esattamente come un ingranaggio nel suo macchinario, e con quel contatto il mondo sembrava fermarsi e ripartire a velocità allucinante nello stesso momento. Era tutto così silenzioso, eppure il cuore mi batteva nelle orecchie assordandomi.
«Funziona. Non ho più paura» disse quindi contro il mio petto, e potei giurare di sentirlo sorridere. Non potevo vederlo, ma lo sentivo. Il suo intero essere stava sorridendo e un’altra volta si stava fondendo col mio. Ma stringendolo più forte avvertii sotto i polpastrelli un formicolio che mi dava la sensazione di volermi guidare più giù, all’interno, oltre la pelle di spalle e schiena. Lì nel profondo c’era qualcosa che m’attirava e spaventava allo stesso tempo, come un vortice scuro pronto ad ingoiarmi con la promessa di portarmi in un posto più luminoso. Ad un tratto mi separai da lui, spaventato da quell’oscurità che sembrava adesso attanagliarmi gli organi interni, come un tumore appena nato.




Quando Loris disse a mio padre che Ludovico probabilmente si era beccato un’influenza intestinale, quello non fece la faccia di uno che se la beve. Disse che voleva vederci più chiaramente, che voleva indagare approfonditamente su quello che stava davvero succedendo in squadra. Disse che non ce la faceva più a tenere insieme degli elementi incompatibili come noi, sia nella vita privata che in campo.
La partita di quel pomeriggio, infatti, la vincemmo per un soffio, ai rigori. Molto probabilmente perché la squadra avversaria aveva addirittura più problemi di noi, o perché il loro portiere era due spanne più in basso di Loris. I nostri, a parte Diego, Abu e Michele, erano tutti distratti: chi perché preoccupato per le condizioni di Ludovico, chi per la rabbia che l’accecava, chi per un amore non corrisposto, chi perché aveva semplicemente la testa tra le nuvole. Si dà il caso che io appartenessi a quest’ultimo sottogruppo.
Mio padre ce la fece passare liscia perché avevamo vinto, ma ci giurò che se ci fossimo comportati nuovamente in quel modo, ci avrebbe fatto vedere i sorci verdi.
«Vi giuro che vi faccio squalificare per doping» fu l’ultima frase che disse prima di andarsene dagli spogliatoi sbattendo la porta. Calò il silenzio nella stanza, ed era una fortuna che i giocatori della squadra avversaria se ne fossero già andati tutti.
«…Lo sa» mormorò Nathan, più a se stesso che ai compagni.
«Lo sa?» gli fece il verso Diego. «Certo che lo sa! Hai un minimo di cervello o ti sei fumato anche quello?» ruggì, livido in volto, il sudore che gli lasciava strisce marroni sulle guance. Allargò le narici, digrignò i denti e poi mollò un calcio alla prima panchina che si trovò davanti, facendo prendere un colpo a Simone, che ci era seduto sopra. «Adesso rischio la squalifica per un paio di tossici!» mollò un calcio anche alle scarpe coi tacchetti, che poi raccolse insieme al borsone e, borbottando ancora in prima persona, se ne andò senza neanche finire di cambiarsi, probabilmente per evitare di dare inizio a una zuffa che difficilmente avrebbe avuto una fine.

Nessuno osò rivolgere la parola a Diego quella sera, ma quando qualcuno sollevò la proposta di andare a fare un’altra capatina all’albergo delle pallavoliste, fu il primo ad infilarsi le scarpe e ad appostarsi fuori dalla porta. Ludovico ci aveva fatto tirare un sospiro di sollievo quando ci aveva salutato distratto, disteso su un letto che non era neanche il suo, gli occhi sul Nintendo di Marco, in bocca una gomma.
«Ludo!» aveva urlato Marco, e l’altro s’era quasi soffocato con la gomma.
«Non sto giocando a Kingdom Hearts, lo giuro, stavo calcolando l’età del mio cervello!» si era giustificato interrompendo immediatamente qualunque cosa stesse facendo.
«Ne ha quattro di anni, il tuo cervello!» aveva esclamato Marco, per niente arrabbiato, ma con addosso un sorriso che partiva da un orecchio e finiva sull’altro. Poi era saltato sul letto su cui era disteso l’amico e l’aveva abbracciato così forte da impedirgli di dire una parola di più. Non vedevo un abbraccio così spontaneo da tempo.
«Ehi, piccioncini» aveva commentato Claudio, e Marco si era sollevato sbuffando.
«Certo che pensi sempre e solo a quello, tu».
«Sto solo ricambiando il favore».
«Zitto, ciuccia piselli» era intervenuto Ludovico e, dopo aver appallottolato la gomma in un fazzoletto, l’aveva lanciata a Claudio colpendolo dritto in fronte. Era quindi scoppiato a ridere, e l’altro l’aveva seguito a ruota, non riuscendo più a trattenersi.
«Avresti avuto una carriera migliore nelle freccette, molto probabilmente» si era permesso Loris, ma quegli altri l’avevano completamente ignorato e adesso Ludovico e Claudio scherzavano come vecchi compagni di scuola.
«Non credere che questa confidenza che ti do ti farà arrivare al mio pisello» Lo aveva avvertito Ludovico, e Claudio aveva assunto un’espressione da “Ma non dirlo neanche per scherzo!”
«Giuro che la prossima volta che hai la diarrea ti faccio sparire la carta igienica».
E gli animi si erano alleggeriti grazie a qualche altra battuta e risata. E anche grazie al fatto che Diego era troppo impegnato a pensare alle pallavoliste per fare caso a noi.
Mio padre ci fece un’altra delle sue raccomandazioni che non finiscono più, visto com’era finita la volta scorsa, ma sembrava che non a tutti andasse a genio l’idea di tornare in quel posto: Nicola disse di non volerci più mettere piede e tornò in camerata ancor prima che il mister finisse di parlare; Sandro ci pensò più volte, ma poi decise di stare anche lui in casa a fare compagnia all’amico, così come anche Simone. Dopo il discorso del mister, mi voltai verso Claudio e lo vidi stringersi nelle spalle a braccia conserte e addosso un broncio non indifferente. Inoltre gli occhi erano lucidi e venati di rosso e fissi davanti a sé.
«Io non ho intenzione di andarci» mi disse secco, l’espressione capricciosa tipica dei bambini. Ludovico si mise a capo del gruppo come sempre (e come se non fosse stato affatto male) e invitò tutti ad andare all’attacco.
«A me è venuto un mal di pancia assurdo. Se mi passa vi raggiungo».
Le parole rotolarono sulla mia lingua e poi fuori dalle labbra da sé, e non feci assolutamente nulla per fermarle.
«Se è diarrea, rido io, stavolta!» fece Ludovico, credendomi immediatamente sulla parola. Era così semplice, spontaneo e genuino che non credevo potesse essere il più grande tra di noi. Fu Diego, invece, a guardarmi come se avessi appena rifiutato un assegno da un milione di euro, mentre Michele rise sotto i baffi come se già sapesse tutto quanto. O magari fingeva, di sapere tutto quanto, perché lui era quello onnisciente. Infine fu Antonio a rivolgermi uno sguardo, del tutto diverso da quello che usava per minacciare chiunque senza aprire bocca. Pensai che avesse gli occhi lucidi, ma sperai che fosse un effetto della luce del lampione lì sulla strada vicina. Loris se ne accorse e andò ad avvolgere, con grande fatica a causa della differenza di altezze, il braccio attorno alle spalle di Antonio per poi portarselo via, e pensai che avrei dovuto ringraziarlo.
Nicola, Simone e Sandro erano entrati da un pezzo in camerata, e lì in giardino rimanemmo io e Claudio, lui ancora con le braccia conserte, io che rilassavo la faccia contratta per finta dal dolore intestinale. Quando mi voltai verso di lui, quello era ancora con lo sguardo fisso davanti a sé, quasi avesse visto un fantasma, quasi non si fosse accorto che io ero rimasto lì con lui. Ma,
«Perché sei rimasto anche tu? » mi chiese all’improvviso, occhi da spiritato che non volevano staccarsi dal punto indefinito davanti a sé. «Cos’è, ti faccio pena?»
«No… Volevo solo…»
«Ti faccio pena?!» urlò senza lasciarmi finire di parlare, e fu tanto repentino da farmi saltare il cuore in gola. Che stava succedendo? Perché Claudio mi stava guardando con le lacrime agli occhi e le mani che nonostante fossero già chiuse a pugno continuavano a stringere fino a probabilmente conficcare le unghie nella carne? Ma un pensiero andò anche a mio padre e agli altri in camerata, perché se avesse urlato ancora li avrebbe praticamente chiamati in soccorso.
«Shh! Perché stai urlando? Che succede?» gli domandai, pronto a coprirgli la bocca con la mano se fosse stato necessario. Ma lui vide la mano allungarsi verso il suo volto e si allontanò con un’espressione facciale sinceramente terrorizzata.
«Che stai facendo?» urlò ancora, e sembrò davvero che un depravato lo stesse aggredendo.
«Claudio, che cazzo succede? Spiegami!»
«Devi andartene, capito? Voglio stare solo!»
E detto questo con tono tra il minaccioso e il terrorizzato, si girò nella direzione in cui aveva già indietreggiato e prese a scappare nel boschetto alla fine della stradina in pietra. Rimasi imbambolato nella posizione di uno che sta cercando di fermare qualcun altro, la bocca spalancata e le sopracciglia aggrottate. Tanta era la sorpresa che nessun tipo di suono osò abbandonare la mia gola.
Cosa era appena successo?









***

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***



Capitolo 7

 

 

 

 



Mi mossi dalla mia posizione dopo una manciata abbondante di secondi che m’erano serviti per rielaborare l’accaduto. Mi guardai i palmi delle mani, come se avessi potuto fargli del male senza sfiorarlo con un dito, ma mi dissi che non era affatto possibile. Doveva essere successo qualcosa a cena, perché fino a poco prima aveva scherzato con Ludovico, sembrava fin troppo felice, quasi iperattivo. Aveva anche minacciato di iniziare una guerra di cuscini, e lui non era proprio il tipo da giochi del genere. Decisi di andare a cercarlo, ché nel buio l’avevo già perso di vista. L’unica fonte di luce che potesse aiutarmi ad orientarmi era il faretto sul mio cellulare, e pensai di essere anche fortunato ad avere la batteria carica. Quando misi il primo piede nel bosco, sentii un rametto scricchiolare sotto il mio peso e un brivido scese giù per la schiena. Non ero il tipo da farmi spaventare da così poco, ma quel posto era davvero surreale, molto più di quanto potessi aspettarmi da un film dell’orrore. Non feci il nome di Claudio, perché avevo la certezza ormai che, per qualche motivo, volesse sfuggirmi, e in quel modo si sarebbe nascosto o allontanato ulteriormente. Ma allo stesso tempo non volevo spaventarlo, quindi cercai di muovermi il meno furtivamente possibile, per non fargli intendere che volevo tendergli un agguato. Mi chiesi quand’era stata l’ultima volta che m’ero preoccupato tanto della reazione di qualcuno. La sua di poco prima m’aveva sorpreso e persino ferito, come quando sai di avere qualcosa di buono da mangiare al tuo ritorno a casa e quando arrivi non lo trovi più. Nessuno lo ha mangiato, nessuno lo ha preso, semplicemente non c’è più, e inizi a pensare di aver solo creduto che quel qualcosa di buono esistesse e che sino a quel momento hai vissuto un sogno, un’illusione. Gli avrei chiesto spiegazioni, una volta ritrovato. O forse no, non volevo forzare niente.
Per mezz’ora girai per il bosco tenendomi sempre sul limitare, pensando che Claudio non si sarebbe permesso di inoltrarsi troppo senza una luce a guidarlo e a quell’ora della notte. Ma poi mi ricordai di come proprio al centro di quel bosco ci fosse uno spiazzo liberato dagli alberi perché una volta vi si ergeva una baita. Ne aveva parlato Sandro una sera, perché era già stato in quella località qualche anno prima con l’oratorio, e la baita non c’era più ma quel posto lo utilizzavano come punto di incontro quando facevano le cacce al tesoro o giocavano a nascondino. Qualcosa, come l’ago di una bussola interna che improvvisamente s’era bilanciato, mi disse che Claudio s’era appostato proprio lì. Calcolando che fossi già a metà strada tra l’inizio del bosco e la sua conclusione, mi addentrai tra i rami secchi lasciandomi alle spalle la stradina che costeggiava la fila di alberi. Davanti a me iniziai ad intravedere una luce, e spensi il cellulare quando si fece decisamente più vicina. Era proprio come aveva detto Sandro, e come aveva detto la mia bussola interna: uno spiazzo quasi perfettamente circolare bucava il bosco nel centro, e la luce della luna lo colpiva come un faretto sul palcoscenico. Sotto quella luce c’era un fagotto ripiegato su se stesso che mi dava le spalle; si era tolto le scarpe e le dita dei piedi avevano piccoli scatti. Ma nessun’altra parte del suo corpo si mosse quando feci il suo nome e gli dissi “Sono io”. Ero certo che mi avesse sentito, ma ancora non aveva fatto niente che suggerisse il rifiuto, e allora mi andai a sedere accanto a lui, badando a non stargli troppo vicino. Iniziò quindi un lungo periodo di silenzio in cui io di tanto in tanto sfregavo il terreno con la scarpa per fargli capire che non avevo intenzione di andarmene. Aspettai lì quasi mezz’ora prima di avere un segno di vita da parte sua.
«Sei ancora qui?» mi chiese, la voce roca di pianto.
«Mh Mh» annuii, e quello prese improvvisamente a respirare più forte con la gola, e pensai che la mia presenza lo mettesse effettivamente in agitazione. Ma,
«Scusa» fece senza riuscire a controllare la voce. «A volte mi capita».
«Hai avuto un… attacco di panico?» provai ad esternare quello che era stato il mio pensiero quando l’avevo visto raggomitolato per terra con le dita dei piedi che si muovevano a scatti e il respiro agitato. Lui ci mise un po’ a parlare, come se stesse elaborando la risposta o semplicemente non riuscisse a tirarla fuori in quel momento.
«Sì, penso di sì».
Stetti ancora qualche minuto in silenzio per lasciare che si tranquillizzasse del tutto, poi sospirai di sollievo quando si rilassò dalla sua posizione fetale e si distese supino, il respiro non più spezzato e gli occhi che si chiudevano e riaprivano lentamente. Cercò la mia mano senza staccare gli occhi dal cielo, e avrei voluto guardarlo anche io, ma davvero non riuscivo a distogliere un attimo lo sguardo da Claudio, lì disteso a gambe e braccia aperte. Trovò la mia mano e fu come se fossimo due macchine a cui era stato dato il carburante, con quel semplice contatto. Lui prese istantaneamente colore nei suoi soliti punti, su tutto il naso e sotto le basette. Poi finalmente mi guardò e mi sorrise accarezzandomi il dorso della mano.
«Scusa se ti ho fatto preoccupare. Avrei dovuto dirtelo che a volte mi capitano ‘ste cose. Mi vedi anche svenire di tanto in tanto, no?»
Annuii riportando alla memoria quelle pochissime ma indimenticabili volte in cui Claudio era crollato in campo nel bel mezzo della partita ed era stato necessario interrompere l’amichevole. Mi distesi accanto a lui e a quel punto alzai gli occhi al cielo, che in montagna era sempre così aperto e pulito. Le stelle si potevano contare una ad una.
«Ma i tuoi lo sanno?»
«Certo, sono morbosi con me, quei due. Vado dallo psicologo una volta ogni due settimane per capire quale parte remota del mio passato possa causare questi attacchi». Spiegò, ed era decisamente tornato ad essere il Claudio di prima. Dopo aver fatto dei centri concentrici col dito sul dorso della mia mano, fece scivolare la sua tra le mie dita per poi stringere un po’.
«Tu sospetti qualcosa?» gli chiesi, genuinamente curioso, e il che mi spaventò perché io ero solito farmi i fatti miei. Stavo cambiando o stavo tornando ad essere quello che ero in principio?
«A parte l’essere gay, aver avuto qualche bulletto alle calcagna, avere l’ossessione della predestinazione e della morte? Nah, quello sono strano io. Non sono mica traumi. Almeno credo!» e fece un sorriso per niente convincente. Mi resi conto che quella era stata la conversazione più lunga che avessimo mai avuto, e un dolce calore si impossessò del mio petto. Era la prima volta che mi parlava di sé, seppur vagamente, degli affari personali come le sedute dallo psicologo e del passato a scuola. E mi aveva parlato come se io sapessi tutto, come fosse scontato, come se mi stesse ripetendo sempre la solita storia. I nostri esseri erano di nuovo uniti attraverso quelle mani.
Ma ancora, il silenzio sembrava il modo migliore in cui riuscissimo a comunicare. Mi lasciò la mano e si girò con tutto il corpo di lato, cosa che feci subito anche io imitando i suoi movimenti. Mi spostò una ciocca più lunga di capelli dietro l’orecchio e mi guardò con un sorriso amaro che mi diceva un muto “Mi dispiace”, e ancora non comprendevo del perché dovesse dispiacersi per me. La distanza tra di noi s’accorciò e lui mi posò un bacio in fronte, poi scese sul naso e concluse sulle labbra. Era solo il secondo bacio che ci scambiavamo, eppure sembrava che chissà quante volte le nostre labbra s’erano toccate. Non si trattava solo delle mie fantasie: era una sensazione già provata, una consistenza e un sapore così familiare da farmi pensare che davvero potessimo esserci già conosciuti in una vita precedente. Appoggiai la fronte contro la sua e, mente occhi e anima collegati, volevamo che anche i corpi lo fossero. Ma non chiedevamo troppo: intrecciammo le gambe durante quel bacio che sembrava non volersi interrompere, lui infilò piano una mano sotto la mia maglia andando a fare disegni con le dita sulla mia schiena mentre io feci scendere la mia sul suo fondoschiena. Petto e stomaco entrarono in contatto nonostante i vestiti, ed eravamo tanto incastrati da sembrare una persona sola. Come conseguenza naturale iniziammo a sfregarci l’uno contro l’altro, avvertendo la nostra virilità attraverso i pantaloni. Non sentivamo vergogna o senso del pudore, solo un’enorme necessità di continuare a fare quello che stavamo facendo. Più velocemente, con più foga, tanto che finii per sollevarmi leggermente per sovrastarlo e spingere contro la sua gamba. Interrompemmo il bacio per permetterci di respirare e ansimare, i pantaloni di entrambi che stringevano e sfregavano e facevano male. Con uno sguardo d’intesa decidemmo di aprire la cerniera dei jeans e quindi abbassarli leggermente. Il suo naso rosso come un segnale d’allarme nella notte, i suoi occhi lucidi pieni dei miei e il suo mezzo sorriso eccitato mi rivelarono la verità: stavamo impazzendo. La nostra mente era quasi del tutto distaccata dalla realtà, i nostri movimenti erano morbidi e naturali come le parole di un pazzo quando dice di vedere la sua stanza piena di serpenti. Sarebbe stato differente il nostro destino, adesso?
Con pantaloni e mutande abbassate continuavamo i nostri movimenti, sempre più vicini all’orgasmo, che quando arrivò pensammo di aver visto il cielo aprirsi sopra di noi.



Non me l’ero mai immaginata così, la scena. Io avevo il capo adagiato sul suo petto e con un braccio gli avvolgevo il fianco, mentre lui aveva il suo, di braccio, che m’avvolgeva le spalle e l’altro piegato dietro la testa, quasi fosse in spiaggia a prendere il sole. M’ero sempre sognato di essere io quello a proteggerlo in un abbraccio, eppure non avvertivo alcun tipo di imbarazzo, niente che fosse fuori posto. Ce ne stavamo in quel modo, a contatto, ad assorbire ognuno il calore dell’altro, ad ascoltare ognuno il respiro dell’altro, come non ci fosse nulla di più naturale sulla Terra. Non parlavamo, non più, e lasciavamo vagare lo sguardo nel cielo notturno, con la stessa calma con cui s’aspetta la morte. Come se un meteorite di lì a poco potesse cadere e spazzarci via. Uno scenario che non faceva paura a nessuno dei due. Avevamo anche smesso da un po’ di baciarci, come se quelle poche ore fossero bastate per trasformare quell’amore in qualcosa di più del desiderio fisico, in qualcosa che avrebbe volentieri trasceso spazio e tempo. Ero nudo accanto a lui, senza essermi tolto i vestiti. Lui mi raccontava di vita e aldilà, sogni e incubi, senza dire una parola.
Solo dopo un arco di tempo indefinito proferii parola.
«Come ti senti?» chiesi, forse ancora in apprensione per il suo attacco di panico. Lui sospirò e attorcigliò una mia ciocca di capelli in un dito.
«Come se andassi contromano in autostrada perché voglio farmi fuori. Sono sereno, ma ho comunque il terrore dello schianto. E so che porterò qualcuno via con me».
Quella sua aria pessimista e romantica tornò a tenerci sulle spine. Gli stropicciai la polo all’altezza del petto.

«Io non guido la macchina con cui ti scontrerai. Sono nella tua, sul sedile del passeggero. Sì, siamo in contromano, ma non troveremo ostacoli»
«Dici?»
E poi ancora silenzio.
Correvamo sull'autostrada nella nostra testa da un po', finché la strada non si interruppe improvvisamente lasciando che la macchina cadesse nel vuoto. Avemmo entrambi un sussulto, ci guardammo e capimmo. Ma lo stesso prendemmo il coraggio di assopirci per qualche minuto stretti in un abbraccio.





Era già il sesto giorno di ritiro e quasi nessuno sembrava avere come priorità l’allenamento di quella mattina e la partita nel pomeriggio che avrebbe deciso la sorte della nostra squadra. Ludovico era già in astinenza e quella notte s’era svegliato ben tre volte di soprassalto e tutto sudato, senza che il suo vicino di letto potesse far nulla per tranquillizzarlo. E non erano stati i soli ad aver avuto una notte agitata: anche io ero stato destato dal mio vicino nel momento in cui staccò il suo braccio sudato dal mio. Fino a quel momento avevo dormito piuttosto profondamente, quindi ancora oggi non so dire se quello che vidi e sentii quella notte è effettivamente successo o se è stato solo un sogno o un’illusione creata dal dormiveglia. Faticavo ad aprire gli occhi e a muovermi ma giurai di aver sentito Claudio lamentarsi; era un silenzioso lamento che andò trasformandosi in un pianto con singhiozzi mal trattenuti. Dopodiché caddi nuovamente tra le braccia di Morfeo, incapace di stare attento e vigile. Mi svegliai un’altra volta dopo quelli che erano sembrati una decina di minuti, ma quando diedi un’occhiata all’orologio sul muro colpito dalla luce riflessa della luna, mi resi conto di aver dormito altre due ore buone. Con solo un occhio aperto, vidi Claudio adesso seduto sul letto, con le spalle che avevano minimi sussulti e la testa intrappolata tra le mani. Respirava forte e velocemente, e volevo davvero fare qualcosa, ma il corpo non rispondeva, come in tutti i più banali sogni in cui si vuole correre ma non ci si muove di un centimetro o si vuole gridare ma dalla gola non esce alcun suono. Mi riaddormentai senza neanche accorgermene. La terza e ultima volta che aprii gli occhi incollati dal sonno, pensai di vedere Claudio in ginocchio per terra a frugare forsennatamente nel suo zaino e ancora la luce del bagno quando ci entrò e ci si chiuse dentro. Mi dissi che era sicuramente un sogno o un’illusione, m’era già capitato. Non senza una spontanea apprensione e preoccupazione, ripresi sonno, che da quel momento in poi fu però piuttosto agitato.
Finì che quella mattina io, Marco e Ludovico avevamo due belle occhiaie che ci incorniciavano il viso smunto e non eravamo esattamente pronti e scattanti per un nuovo duro allenamento. Loris era insolitamente silenzioso, così come Antonio, ma quello silenzioso lo era sempre. Diego giurò che ci avrebbe riempiti di pugni, uno ad uno, se non ci fossimo dati una mossa: il pallone e la partita erano sempre stati al primo posto, per lui.
Successe che Claudio non volle venire a fare colazione. Era l’unico ancora sotto le lenzuola, coperto fino al collo, lo sguardo ancora fisso davanti a sé. Temevo che quello a cui avevo assistito quella notte fosse successo davvero e mi chiesi se quelli potessero essere gli effetti di un altro attacco di panico.
«Cla, sei sicuro di stare bene?» gli chiese Marco quando si piegò per guardarlo in faccia. «Hai due occhiaie peggio delle mie e gli occhi strani»
«Vattene» gli sibilò Claudio ed ebbi un déjà-vu della sera prima, forte e vivido.
«E’ successo qualcosa?» insistette Marco, ma l’altro non sembrava avere intenzione di rispondere alle sue domande.
«Te ne devi andare» disse invece, e allora Marco si girò verso Loris e gli fece segno di parlarci lui, altrimenti il mister ci avrebbe sgozzati, e fece il segno della mano sulla gola. Ma Loris sembrava indeciso se avvicinarsi o meno, stringeva le labbra e puntava sul suo amico uno sguardo piuttosto serio. Toccai il braccio del mio gemello e quello fu scosso momentaneamente dai suoi pensieri.
«Ti prego, fa’ qualcosa» gli sussurrai, ché dalla faccia che aveva fatto sembrava che una scena del genere l’avesse già vista, quindi magari sapeva come comportarsi. Ero nel completo panico, e temetti che da fuori si potesse vedere. Loris fece una smorfia da “Ci provo, ma non ti assicuro nulla”, glielo lessi in faccia. Si piegò piano sull’amico e,
«Cla…» provò a chiamarlo posandogli una mano sulla spalla. Ma a quel minimo contatto, Claudio reagì in modo inaspettatamente violento e gridò tanto da spingerci a proteggere le orecchie.
«Dovete andare via!» strillò, e non potemmo fare altro che fiondarci tutti in mensa per poi chiuderci la porta alle spalle.
«Che cazzo è successo, è posseduto?!» fece Ludovico stralunato, mentre Antonio mi gettò uno sguardo, come se pensasse che io sapessi qualcosa riguardo le stranezze accadute quella mattina. Ma io, davvero, non sapevo cosa pensare. Avevo il vuoto in testa, così come vuoto era anche il mio sguardo.
Durante la colazione, i ragazzi dell’altra camerata iniziarono a farci domande sull’urlo agghiacciante di poco prima, e Ludovico e Marco risposero alle domande in maniera concitata , mentre Loris seguitava a stare zitto e a bere il latte controvoglia. Antonio gli mise una mano sulla spalla e gli chiese se avesse bisogno di qualcosa, ché lo vedeva preoccupato, poi iniziarono a bisbigliare impedendomi di ascoltarli, e mi diede un po’ fastidio che Loris si confidasse col mio migliore amico piuttosto che con me.
Ovviamente, l’unico a pensare che quella di Claudio fosse tutta una commedia fu Diego, che si ingozzò con l’ultimo pezzo di brioche e andò svelto verso la nostra camerata senza guardare in faccia nessuno.
«Non può mica picchiarlo, vero?» chiese retoricamente Nathan, ma Michele, addentando tranquillamente il suo toast,
«Perché no?» disse, e aveva anche un che di divertito. Sentii distintamente pulsare le tempie dalla rabbia: che cazzo era quella, una squadra o un branco di animali? Certo gli animali avrebbero avuto più buon cuore. Mi ero già alzato per andare dietro a Diego, ma uno strillo simile a quello di poco prima attraversò la porta come se fosse aperta. Prima che potessi entrare, mio padre si presentò nella stanza, quando tutti credevano che fosse già giù ai campetti. Claudio continuava a urlare tanto da consumarsi la gola, e quando mio padre entrò nella camerata dopo avermi guardato interrogativo, riuscii a vedere Diego che tentava di buttar Claudio giù dal letto tirandolo per i piedi. In un’altra occasione, una scena come quella probabilmente mi avrebbe fatto sorridere, sarebbe stata comica per tutti. Ma, mentre il mister dentro tentava di fare il punto della situazione con un sottofondo di singhiozzi appartenenti a Claudio, sui volti dell’intera squadra non vi era ombra di sorriso. A parte su quello di Michele che, mentre si puliva la bocca, sembrava aver chiara la situazione.
«Secondo me è bipolare» disse con quel tono da saccente che uno schiaffo glielo davi volentieri.
«Ma vaffanculo» ribatté Marco, chiaro e tondo, e mi sarei aggregato anche io se non fossi stato ancora rivolto verso la porta semichiusa, le lacrime raggruppate sugli occhi, con la terribile consapevolezza di non sapermi spiegare in alcun modo cosa stesse succedendo così all’improvviso. Stava andando tutto troppo veloce ed ero sicuro che non sarei riuscito a tenere il passo.
Mio padre si affacciò dalla stanza e ordinò a coloro che ancora non avevano preso il borsone di farlo immediatamente e di dirigersi ai campetti, ché lui sarebbe arrivato di lì a poco. Lo stesso valeva per Diego che, cacciato dalla camera a spintonate da parte del mister, disse ad Abu di prepararsi mentalmente perché quel pomeriggio l’avrebbe giocata lui, la partita. Io e gli altri ospiti di quella camerata andammo a recuperare la nostra roba, con mio padre che ci incitava a “muovere il culo”. Non riuscii a non gettare un’occhiata a Claudio, ancora ben racchiuso dalle lenzuola e con le mani a coprirgli il viso che chissà in quale espressione era contrito. Non esisteva che me ne sarei andato ai campi come non fosse successo niente. Feci andare avanti i miei compagni e finsi di aver dimenticato qualcosa solo per poter ascoltare la conversazione al telefono che mio padre sembrava aver appena avviato. Provai a socchiudere la porta, ma era ben chiusa, e quelle diavolo di porte di legno scricchiolavano al minimo movimento. Mi limitai ad avvicinare l’orecchio alla parete fortunatamente per niente spessa. E dovetti ringraziare anche il tono di voce altisonante di mio padre.
«Pronto, parlo con la signora Ferrari? Sì, buongiorno, perdoni l’orario. La chiamo per via di vostro figlio. E’ da qualche ora che si comporta in modo strano: non vuole alzarsi per nessun motivo dal letto, non ha fame e continua a dire di voler essere lasciato solo. Ora…»
La voce di mio padre mi arrivò con più fatica, come se avesse deliberatamente abbassato la voce o si fosse allontanato verso il bagno in fondo o si fosse messo la mano davanti alla bocca.
«Non l’avrei chiamata senza pensarci due volte se non fosse già successo… sì… no, non nel contesto sportivo. Mio figlio lo ha invitato a casa qualche volta… no, una sola volta… Ha chiesto di essere lasciato solo ed è stato tutto il giorno seduto in un angolo con la testa tra le gambe. Solo la sera ha accettato di occupare il letto dell’altro mio figlio»
Quando… quando era successo tutto questo? Come potevo non essere a conoscenza anche solo del fatto che Claudio era stato a casa nostra e aveva dormito nel mio letto? L’unico periodo in cui ero mancato da casa era stato durante la gita scolastica di cinque giorni. Mio fratello era stato così stronzo da invitarlo in quel frangente?
«…Il giorno dopo sembrava come nuovo e si è scusato per il comportamento del giorno prima. Gli ho chiesto se fosse successo qualcosa e lui m’ha detto che erano cose private. Voi sapete se ha, non so… problemi a scuola, con gli amici, con parenti… o se il problema è nella squadra di calcio, cosa non così improbabile?» Mio padre concluse il suo monologo e aspettò che gli dessero una risposta, e da quanto stava in silenzio ad ascoltare sembrava che anche dall’altra parte avessero iniziato a parlare a ruota.
«Che vuol dire?» chiese spiegazioni su qualcosa che non potevo sentire, e il che mi fece spuntare sfoghi rossastri sotto le orecchie dal nervoso. «Ma avreste dovuto dirmelo! Se dovesse succedergli qualcosa, la responsabilità è mia. Questo va oltre le volontà di vostro figlio. Adesso torniamo giù, oppure venite a prenderlo»
«Se ne vada» mugolò Claudio con un tono da rassegnato e voce bassa, quasi stesse intimando ai propri pensieri di abbandonare il suo cervello.
«Come, non posso? E che devo fare?» la voce di mio padre vibrava, segno di evidente panico. Volevo spalancare la porta e sorpassare quella soglia, e l’avrei fatto se non fosse che non potevo. E non dovevo. Ma volevo. E avevo ancora troppa paura di oltrepassare il limite per sperare di essere quello sul posto del passeggero nella macchina di Claudio che andava in contromano. Allo stesso modo in cui la sera prima riuscivo a sentire distintamente quello che sentiva lui, pensavo a quello che pensava lui, toccavo ciò che toccava lui, in quel momento lo sentivo lontano anni luce, irraggiungibile, e mi sentivo incapace, impotente: non potevo fare alcunché per liberarlo da quell’oscurità che sembrava essersi presa possesso di lui. Rassegnato dalla mia impotenza e dalla mia incapacità di incomprensione, buttai le braccia lungo i fianchi, presi il borsone e scappai a gambe levate verso i campetti, con l’impressione che l’ombra di una mano tentasse di afferrarmi la testa e insinuarsi nel cervello.
Quando arrivai allo spogliatoio, gli altri erano già pronti e si stavano ancora scambiando opinioni su cosa potesse essere successo a Claudio.
«Lo sappiamo tutti che è una checca melodrammatica. Lo avrà scaricato qualcuno» Stava dicendo Diego, e avrei voluto essere arrivato qualche secondo dopo per non sentire quella sua supposizione.
«Io vi ho detto la mia» si azzardò Michele.
«Non ci interessa, la tua» lo zittì subito Marco, e Michele alzò le mani in segno di resa.
«Magari sta male proprio fisicamente. Tipo ha la nausea o la febbre e non vuole alzarsi per nessun motivo. Cioè, stanotte c’era un vento forte e fresco e invece stamattina c’è un’afa che non si respira. Magari il cambio improvviso di temperatura non gli ha fatto molto bene» propose Sandro, e sinceramente era una delle rarissime volte in cui faceva un discorso di senso più o meno compiuto senza mai farsi interrompere. Le sue parole, incredibilmente, riuscirono a convincere tutti gli altri, a parte Loris, che come prima a colazione se ne stava sulle sue, a mordicchiarsi le dita, gesto incondizionato che faceva quando qualcosa lo preoccupava. Ma non c’era bisogno del tic per cogliere la preoccupazione sul volto di mio fratello.
Quando mi videro entrare mi chiesero novità, ma io non avevo da dargliene. Anche avendo ascoltato parte della conversazione che mio padre aveva avuto con la sua famiglia, non potevo certo dire di aver capito qualcosa. Mi davo dello stupido, dell’incapace, dell’inutile, ed ero tanto frustrato da non riuscirmi a infilare i calzettoni.
Il mister ci raggiunse una decina di minuti dopo, senza aprire bocca sull’accaduto ma incitandoci invece, con tono piuttosto minaccioso, a pensare a vincere la partita. Ma una volta entrati in campo, notammo tutti come il ritmo della squadra fosse pacato e la voglia di mettersi in gioco fosse sfumata tutta d’un colpo. Mio padre non faceva che urlarci dietro con tono esageratamente aggressivo, a dirci di fare attenzione, di intercettare la palla, di muovere il culo, imbastiva frasi farcite di parolacce, ci chiedeva cos’è che non andava, dopodiché prese a calci la panchina e lasciò il campo imprecando. Quella partita la vinsero gli avversari. Per noi il torneo si concluse e il nostro posto in classifica divenne terribilmente incerto; quel che era sicuro era che non ci saremmo più potuti posizionare al primo o secondo posto. Diego era visibilmente furioso, ma non si osò a pronunciarsi, non finché non ci saremmo confrontati col mister. Al nostro rientro negli spogliatoi, mio padre si dichiarò deluso dalle nostre prestazioni in campo, ci disse di aver pensato a un attimo di smarrimento nei giorni scorsi e che magari ci saremmo ripresi, ma a quanto pareva il problema era interno alla squadra e legato ai nostri orrendi caratteri.
«Discutete in continuazione, vi prendete in giro, vi guardate con antipatia e talvolta scappa qualche pugno. Vi detestate. Mi spiegate cosa ci fate ancora qui?» ci rimproverò, e tutti tennero la testa bassa per l’umiliazione. «Avete fatto pena in campo, non vi ho mai visti tanto fiacchi, demotivati e distratti. Che fate, prendete droghe e le avete finite?» la frecciatina di mio padre era chiara e sicura, quasi ci avesse sentito parlare il giorno prima a colazione e avesse capito esattamente quale fosse stato il “malessere” di Ludovico. Nessuno ebbe il coraggio di alzare la testa e puntare lo sguardo su Nathan.
«Poi uno fa sgambetti gratis, l’altro non riesce a passare la palla al compagno che è a due metri di distanza! Sembrate principianti!»
A quel punto, l’unico ad alzare il capo fu Diego.
«Forse, se Marco non mandasse sempre le palle in fuori gioco…»
«E se il capitano non le spedisse fuori…» ribatté l’altro con un pizzico di sfida.
«Ricominciate?» fece mio padre alterato, ma Diego sembrava non volerla finire lì.
«Ma non parliamo delle figuracce che ci ha fatto fare Nicola. E’ dall’inizio che mi chiedo che diavolo ci faccia qui, e tutti se lo chiedono, ma nessuno ha mai avuto il coraggio di tagliarlo fuori»
Nicola si sentì chiamato in causa e alzò a sua volta il capo, non proprio sorpreso che adesso Diego se la stesse prendendo con lui.
«Nessuno ti voleva. Ti abbiamo preso solo perché sei il cugino di Ludovico, ma a confronto tu non sai neanche che forma abbia una palla. Allora mi chiedo, mister, che aspettiamo a sbarazzarcene?» concluse il capitano, braccia e mani aperte, in volto un’espressione quasi esasperata. Lui lo guardò più o meno con la stessa espressione, mordendosi il labbro per costringersi a non riempire di insulti un ragazzo che aveva un terzo della sua età.
«Se non la pianti di ribattere, sarai tu il primo ad essere cacciato. E’ chiaro?»
La fermezza di mio padre spaventò anche me e fece calare il silenzio nello spogliatoio, un silenzio che per Nicola fu come un insulto. Si infilò i capelli neri nel berretto e si mise in piedi, per poi filare via a passo così svelto che nessuno fece in tempo a rendersi conto di quello che stava succedendo. Quando chiuse la porta dietro di sé, Sandro s’alzò d’istinto per inseguirlo, ma mio padre gli fece segno di non muoversi e gli disse di lasciarlo sfogare e che in poco tempo sarebbe tornato. Ma non fu così, e fino a che non fece buio di lui non s’intravide l’ombra.








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