L'impressione di Mycroft di Dolores Haze (/viewuser.php?uid=903919)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cioccolato ***
Capitolo 2: *** Una corolla senza gambo ***
Capitolo 3: *** Quel che sorprende dell'ignoto ***
Capitolo 4: *** Corona di spine ***
Capitolo 5: *** Cuore di violino ***
Capitolo 1 *** Cioccolato ***
Disclaimer:
Questi
personaggi non mi appartengono, ma sono
proprietà di Sir Arthur Conan Doyle, Steven Moffat e Mark
Gatiss.
Riferimenti a
persone o avvenimenti reali o ad altre storie pubblicate su questo sito
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puramente casuali e involontari.
Questa
storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
Il
giorno grigiastro filtrava attraverso le imposte mal accomodate,
illuminando la
piccola stanza. Il pavimento era occupato da un tappeto logoro, una
pila di
grossi manuali di medicina e un calzino bianco, appallottolato con
malgarbo. Il
suo gemello giaceva a pochi centimetri di distanza, ma più
in alto, adagiato
per un quarto sul letto, pronto a scivolare al suolo alla minima
spinta. Il
comodino impolverato recava tracce di un recente passaggio,
lì dove le dita di
una mano avevano annaspato alla ricerca della sveglia, lasciando tracce
come
pennellate sul legno. La sveglia aveva trillato sino a spegnersi, un
suono
orribilmente deformato dal contatto con il suolo. Le lenzuola erano un
guazzabuglio, spiegazzate all’inverosimile e leggermente
umide di sudore, il
guanciale ripiegato come se fosse stato colpito da dei pugni chiusi.
Ferito
dalla luce incombente, l’uomo si trascinò con
lentezza insonnolita sino al
bagno, dove, abbandonato il lungo lenzuolo entro il quale era andato
avvolgendosi, si infilò malvolentieri sotto il getto
d’acqua fredda della
doccia. Chiuse gli occhi, ma non ne ricavò alcun tipo di
sollievo. Aveva la
bocca impastata, la testa dolente, gli arti intorpiditi. Si
lavò con poca
attenzione, sentendosi istupidito a tal punto da temere di dover
trascorrere la
giornata a letto, in una nube di malessere e incoscienza.
“A
giudicare dal tuo passo strascicato, fratellino caro, ho
l’impressione che tu
sia particolarmente a disagio per qualcosa”. La voce di
Mycroft sembrò
insinuarsi dalla fessura della porta chiusa con melliflua
rapidità.
“Considerando
che mi sono svegliato da poco, fratello”,
ribatté Sherlock, uscendo dalla doccia e avvolgendosi in un
asciugamano pulito
“la tua impressione circa
il mio
presunto disagio può considerarsi erronea solo per
metà.” Un secondo
asciugamano andò a ricoprirgli il capo. “A meno
che tu non conosca qualcuno che
al mattino, posati i piedi sul pavimento, si sollevi e vada a fare
colazione
levitando. Riconoscerai un insolito ottimismo nelle mie parole, dal
momento che
posso fare un rapido calcolo sull’effettivo numero di persone
che hai
conosciuto nella tua vita e tale stima non supera il totale dei
chilogrammi che
il medico ti ha prescritto di perdere. Impressione erronea,
dunque.”
Mycroft
non replicò subito. Stava ridendo. Sherlock
afferrò con malgarbo l’ennesimo
asciugamano e se lo pose sulle spalle bagnate. Chiuse gli occhi,
beandosi
dell’improvvisa, quanto fugace, quiete appena creatasi.
Ma
avrebbe avuto vita breve.
“Come
hai già lodevolmente rimarcato, fratellino” di
nuovo quella voce petulante “si
tratta di un’impressione erronea per
metà.
E il tuo impeccabile ottimismo la dice lunga sull’affetto che
provi nei miei
riguardi.”
“Prima
che ti risponda davvero male, Mycroft, sparisci.”
“Tu
sottovaluti i segnali del corpo, Sherlock, dovresti soffermarti sulla
natura profonda nascosta dietro
questa
febbricola improvvisa. Paracetamolo, dunque?”
Respiro.
“Il
disagio circa il quale deliravi
poc’anzi è meramente corporale, Mycroft. Dato che
mi stai tediando e che forse
questo servirà a levarti dai piedi, spezzerò una
lancia in tuo favore. Goditi
il momento, potrebbe non ripresentarsi prima della prossima
glaciazione.
Dunque. Prima impressione: corretta. Effettivamente non mi sento bene.
Febbricola, giusto. Molto probabile. La mia camminata ti ha suggerito
che
avessi qualcosa che non vada. Impressione ricavata, tuttavia, da una
deduzione
grossolana conseguente ad una mancata contestualizzazione. Il mio caro
fratellino si trascina, o che diavolo ne so, pertanto sta male,
fisicamente o
emotivamente. È mattina,
Mycroft. Se
consideri le tue premesse, chiunque appena sveglio potrebbe risultare
un
depresso cronico o un pericoloso terrorista, solo da come si avvicina
al bagno.
Non proprio l’ideale per uno che lavora per la Regina, non
trovi?”. Sorriso.
Silenzio.
“Paracetamolo,
dunque. Caso chiuso.” Riprese Sherlock, strofinandosi i
capelli e riponendo
l’asciugamano umido. Si guardò attorno alla
ricerca del phon.
“Davvero
sbalorditivo. Ma tu non cammini
così quando
sei sveglio, Sherlock”, fu la risposta, pronunciata con tono
incredibilmente
serio, dall’altra parte della porta chiusa.
“Evidentemente
cammino così quando
sono sveglio, ma
tu non puoi saperlo, per una serie
di
ragioni talmente ovvie che la sola idea di spiegartele mi
provoca…”
“O
forse posso saperlo, fratellino, per una serie di ragioni talmente
ovvie che
spiegartele equivarrebbe ad un vero e proprio insulto alla tua
monolitica
intelligenza.”
Taci.
Respira. Conta. Battito accelerato, occhi umidi. Pinne nasali
arrossate.
Paracetamolo, senza ombra di dubbio. O una pallottola, magari, sparata
dritta
attraverso la vecchia, cigolante porta del bagno, odiosamente azzurra.
Un foro
fumante. Un corpo accasciato sul pavimento del bagno o del corridoio,
gli occhi
vitrei. Sangue sulle pareti.
“Mycroft,
non ho intenzione di uscire da questo bagno finché non ti
leverai dai piedi.
Sono stato chiaro?”
“Non
ho intenzione di andarmene da qui finché non avremo
parlato.”
Un
ringhio. “Senti un po’, oggi non hai qualche
riunione super segreta? E che ne è
stato di quel conflitto atomico da causare in qualche remota regione
del globo?
Per quale ragione…” Sherlock sbiancò.
Accantonate le visioni di sangue e
schegge di legno, fece un balzo felino verso la porta e la
spalancò d’impulso.
Mycroft, appoggiato alla parete, non diede alcun segno di sorpresa o di
spavento. Impeccabile nel suo completo marrone, storse appena il naso
alla
vista del suo degenere fratello minore in tenuta da bagno.
Ciononostante,
sorrise educatamente.
“Per
quale ragione ti trovi in casa mia a quest’ora?”,
lo aggredì Sherlock. “Da
quanto tempo sei qui? E perché ti sei messo a
spiarmi?”
“Ma
Sherlock”, rispose Mycroft, senza perdere la compostezza,
“io ti spio sempre,
qualora non l’avessi ancora
afferrato.”
“Sì,
ma non a quest’ora del mattino!” sbraitò
Sherlock.
“Ho
soltanto pensato che, dopo i recenti
avvenimenti” Mycroft sembrò esitare, ma solo per
un attimo “tu potessi
commettere qualche sciocchezza e che necessitassi di un
sostegno.”
“Mycroft,
questo è davvero commovente”,
replicò
Sherlock con amara ironia. “Sfortunatamente per le tue ansie
da eroina, non ho
assolutamente nulla che non vada. Ho intenzione di continuare a stare
benissimo
per ancora lungo tempo. C’è solo un macroscopico
dettaglio che mi impedisce di
portare a termine i miei piani, e non ha a che fare con la
febbre.” Lo guardò
in cagnesco, mentre lo diceva.
Mycroft
fece un passo verso il fratello minore, con il fantasma di un sorriso
colmo di
tristezza sospeso sulla sua bocca serrata.
“Ricordo
che quando eravamo bambini avevi un’irritante tendenza a
entusiasmarti per
qualsiasi cosa ti si parasse davanti”, disse. Sherlock
sgranò gli occhi,
disgustato. “Per favore, Mycroft…”
Il
fratello lo interruppe. “Qualsiasi cosa”,
ripeté. “Il ronzio del frigorifero,
lo scorrere dell’acqua nel lavabo, i pulsanti del
telecomando. Eri sempre
pronto a chiedere perché.
Come. Passavi giorni interi in
giardino,
cercando di indovinare tutte le diramazioni possibili delle radici
delle piante
sotto il terreno. Ricordi che prendevi piccoli appunti su un quadernino
viola?
Un passatempo davvero affascinante.”
“Abominevole”,
ribatté Sherlock.
Mettergli
le mani al collo? Comprimere con particolare attenzione le arterie
carotidi?
Compiere una rotazione di approssimativamente novanta gradi e cercare
rifugio
in camera da letto? Attendere? Capire dove vuole arrivare?
“Sfortunatamente,
forse proprio a causa della tua natura volubile, la tua inesauribile
curiosità
non riusciva a restare concentrata per troppo tempo. Nel giro di
qualche giorno
eri annoiato e scontroso come se tutto quello che avevi esplorato e
scoperto
non avesse più alcun tipo di valore per te”,
Mycroft sorrise senza scoprire i
denti. “In un certo senso, un preludio a quella che sarebbe
stata la tua vita di
oggi.”
“Sono
profondamente toccato da questo felice ricordo d’infanzia.
Grazie del tuo
tempo, Mycroft, buona giornata”. Sherlock si volse e
rientrò nel bagno
sbattendo la porta. Attese qualche secondo, aspettando di udire un
rumore di
passi che si allontanavano lungo il corridoio.
“Sono
ancora qui”. Quasi avesse intuito i suoi pensieri. Sherlock
strinse
istintivamente i pugni. Se non se ne va entro cinque secondi lo
colpisco,
pensò.
“Ti
dirò, Sherlock, che questo tuo piacere di scoprire e
sperimentare quante più
cose possibile riguardava anche il cibo. Nostra madre ne era deliziata,
ricordi? Non appena qualcosa ti risultava particolarmente gradito, lei
provvedeva a prepararlo, o comprarlo, più spesso, in modo
che potessi gustarlo
quando più lo preferivi. Davvero un esempio di formidabile
amore materno. Ma la
tua volubilità viziava anche questo processo. Ricordo intere
scatole di
biscotti ancora chiuse per mesi in dispensa senza che tu le toccassi.
Senza che
ci pensassi.”
Oh.
Ecco dove vuole andare a parare.
“C’era
solo una cosa che sembrava
sfuggire a
questa legge implacabile. È buffo che abbia dei ricordi
talmente dettagliati in
merito.”
“Buffo
davvero”, rispose Sherlock, ma la sua voce si
affievolì mentre lo diceva.
“Il
cioccolato. Stecche intere scomparse nel giro di uno o due giorni. Ti
nascondevi in solaio e mangiavi con voracità impressionante.
Mamma non capiva,
faceva spallucce e nel giro di poco tempo tornava a casa con
quantità ancora
maggiori. Il più delle volte pensava addirittura che fossi
io il responsabile.”
“Ti
sbagli di grosso, Mycroft, perché non mangio più
cioccolato da anni. E prima
che tu possa elaborare qualche stupida teoria sulle mie gravi carenze
affettive, io…”
“Quello
che voglio dire, Sherlock, è questo: ho
l’impressione che negli ultimi anni tu
abbia trovato qualcosa o qualcuno
che
sfuggisse davvero, definitivamente e per sempre, a questa terribile
legge che
regola la tua vita.”
Ucciderlo.
Occultarne il cadavere. Potrei farlo prima che arrivi Mrs. Hudson con
il tè.
La
voce di Mycroft si fece più bassa e roca. “E che
ora questo qualcosa o qualcuno
sia, per un insieme di fattori, sfuggito a te, al tuo controllo. Per la
prima
volta. Una situazione oltremodo inedita.” E questo, Sherlock,
aggiunse Mycroft
silenziosamente, mi spaventa. Non puoi immaginare quanto.
Uno,
due, tre, quattro secondi. Poi Sherlock parlò con voce
neutra.
“Il
qualcosa o qualcuno cui fai riferimento con le tue
assurdità, Mycroft –
davvero, non ci sono altre parole per descriverle – se non ho
capito male, ha
soltanto cambiato abitazione. Non so se sai come funziona, ma il
matrimonio
implica il vivere sotto lo stesso tetto. Niente è sfuggito
al controllo di
nessuno. Ora sparisci.”
Un
sospiro. “Oh, Sherlock.”
“Vattene.”
Sherlock
rimase in attesa, fremente. Mycroft sembrò esitare solo per
qualche attimo, ma
poi alzò le spalle e si avviò a passi lenti lungo
il corridoio, facendo
picchiettare l’ombrello sul pavimento. Si fermò
sulla soglia dell’appartamento,
in attesa. L’orribile, grigio silenzio persistette per un
altro istante,
spezzato dal ronzio del phon azionato da Sherlock. Solo allora Mycroft
discese
le scale, già inghiottito dalle incombenze della giornata
crescente.
Dopo
essersi asciugato e vestito, Sherlock raggiunse il minuscolo soggiorno
e
sedette nella sua poltrona, congiungendo le punte delle dita. Fissava
ostinatamente la lampada della cucina, facendo correre lo sguardo sui
mobili
che aveva di fronte. Tutto gli sembrava orrendamente spoglio da quando
John
aveva raccolto le sue cose in alcuni scatoloni, in modo da renderne
più agevole
il trasporto verso la nuova casa che divideva con Mary.
È
sposato, si disse, da due giorni e diciannove ore. Paracetamolo, senza
dubbio.
Non ricordavo il dettaglio del cioccolato. È sposato.
Sessantasette ore. Sono
già sessantasette ore? Mycroft dev’essere
completamente impazzito. Paracetamolo
e cocaina non vanno molto d’accordo, non è vero? Oh, Sherlock. Oh, John, sparisci anche
tu. Forse il paracetamolo
può attendere, si disse.
Mycroft
si sbaglia, come sempre. È questa
l’unica cosa di cui non posso davvero fare a meno. John non
ha mai costituito
un qualcosa da cui dipendere. Perché mai avrebbe dovuto?
Cocaina e soluzione
acquosa, un ago sottile, la mia vena pulsante in evidenza. È
l’unica cosa cui
ambisco, l’unica cosa di cui ho bisogno per non marcire, per
non consumarmi.
Ricordo un giorno luminoso e un grosso pezzo di cioccolato che non
avevo ancora
finito di masticare. Ricordo quel sapore. Non mi ha mai abbandonato.
Mycroft ha
davvero un’immaginazione fervida. La febbre mi rende
sentimentale, oltre che
incredibilmente debole. Dove diavolo avrò messo la siringa? Oh, Sherlock. Oh, John, vattene,
sparisci.
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Capitolo 2 *** Una corolla senza gambo ***
La
sensazione era simile a quella che avrebbe provato se si fosse immerso
in un
oceano di miele, di melassa, di ambra. Sognò (o credette di
sognare) di nuotare
in quel mare quieto e silenzioso, osservò (o credette di
osservare) il proprio
corpo confondere i colori con quanto lo circondava. Lampi di azzurro,
di
bianco, di bruno, di oro pallido, entro i quali cominciavano ad
insinuarsi
subdolamente altre sfumature, ben più reali e concrete.
Sentì bruciore, umido,
si volse di scatto su un fianco, scalciò con disperazione,
già saturo di quel
languore obnubilante, del quale non riusciva a liberarsi.
Sgranò gli occhi
ciechi per un solo istante, subito dopo dovette richiuderli. Gemendo, o
credendo di gemere, annaspò alla ricerca del lenzuolo per
avvolgervisi
all’interno, in una sequenza di gesti noti alla parte muta e
inconscia del
proprio corpo, e pertanto non necessitanti di essere organizzati in
modo
razionale dall’intelletto piegato ad un’altra
volontà.
Un
colpetto di tosse lo sconvolse: il suo sogno, o quel che ne rimaneva
per
tormentarlo, era profondo a tal punto che qualsiasi suono sarebbe
giunto amplificato
in modo straziante alle sue orecchie. Così fu.
Aprì gli occhi, terrificato. Oltre
un velo di sudore e bruma di stanchezza, conseguenza di un sonno
agitato e
discontinuo, distinse nettamente una figura familiare sullo sfondo del
muro
crivellato da proiettili – colpa della sua accidia, del suo
tormento, della
dannata febbricola che lo insidiava da settimane. Il suo battito
cardiaco
accelerò senza preavviso.
Sulla
soglia dell’appartamento si stagliava una figura nota, ma
sconosciuta: ad un
primo sguardo, essa sembrava un assemblaggio di più parti,
ciascuna
appartenente ad un individuo diverso. Sherlock distinse nettamente le
piccole
scarpe di Mrs. Hudson, recanti piccoli sbaffi di farina sulle punte, le
quali
spuntavano al di sotto di un completo gessato che sembrava quello di
Mycroft,
ma non poteva trattarsi davvero di lui, perché le mani,
abbandonate lungo i
fianchi, erano troppo piccole e delicate, più probabile che
appartenessero a
una donna. L’orologio al polso della mano sinistra era di
Lestrade, poco ma
sicuro: cinturino vecchio, logoro, quadrante graffiato. Risalendo con
lo sguardo,
Sherlock credette di intravedere un ciuffo di capelli biondi, ma il
volto che
ne ricambiava lo sguardo era sdoppiato, dai confini sfocati,
impossibile da
localizzare o riconoscere in alcun modo.
La
razionalità prevalse
sull’irrazionalità. Sto sognando,
pensò. Guarda un po’
come funziona bene il mio meccanismo di censura onirica.
Udì
nuovamente quel colpetto di tosse. Sherlock si ritrasse istintivamente.
La
strana figura mosse qualche passo verso di lui, che giaceva riverso sul
pavimento accanto alla sua poltrona. Messa a fuoco con maggiore
chiarezza,
apparve per quel che era: grottesca, nauseante, terrifica. Una mano
recava un
lungo, lucente coltello.
“Non
puoi farlo”, credette di bisbigliare Sherlock con un filo di
voce. La figura,
apparentemente sorpresa, si fermò con il braccio levato.
“L’attività del mio
sistema reticolare attivatore ascendente sta per intensificarsi.
Ciò significa
che mi sveglierò da un momento all’altro, prima
che tu possa colpirmi.”
La
figura sembrò sorridere. “Dunque tu credi che
durante la tua veglia io svanisca,
come se esistessi soltanto nei tuoi sogni?”
Sherlock
si irrigidì. “Come dici?”
“Sono
sempre con te, Sherlock. Un abbozzo rudimentale di tutto ciò
cui tieni
maggiormente, senza che possa comprenderlo sino in fondo quando sei
cosciente.
È solo nel sogno che ti accorgi davvero di quanto sono
potente”.
“Credo
di capire. È per questo che mi mostri quel coltello?
Simboleggia il tuo
presunto potere su di me?”
“No”,
rispose la figura, con un’inflessione nel tono che a Sherlock
ricordò
orribilmente la voce di John. “Lo faccio perché tu
possa ricordartene sempre”.
Calò
di scatto il coltello su di lui, mirando al volto. Preso alla
sprovvista,
Sherlock non riuscì a ritrarsi in tempo, ma
sollevò d’istinto una mano per
proteggersi: la lama lo colpì sul palmo, tagliandolo appena,
senza trafiggerlo.
Con uno scatto colmo di rabbia selvaggia la figura impugnò
il coltello con entrambe
le mani, pronta ad assalirlo nuovamente…
Con
un sussulto, Sherlock spalancò gli occhi: fu costretto a
richiuderli quasi
subito, a causa della luce che inondava la stanza. Si mise a sedere tra
le
lenzuola spiegazzate, mentre gli ultimi palpiti di
irrazionalità, che lo
stavano via via abbandonando, lo spinsero a guardarsi le mani e a
toccarsi in
volto. Il palmo della mano sinistra bruciava appena: non senza
sorpresa,
Sherlock vi riconobbe un filo di sangue fresco appena combaciante con
la plica
centrale.
Il
telefonino posato sul comodino vibrò appena. Il suono
distolse Sherlock dalle
proprie cupe meditazioni: digitò il codice di sblocco e
lesse il messaggio che
Lestrade gli aveva appena inviato.
C’è
qualcosa di
interessante per te.
Meccanicamente,
Sherlock digitò in risposta:
Dove?
SH
“Sono
sorpreso che tu ci abbia raggiunto senza fare le tue solite
domande”.
“Sono
sorpreso che mi abbiate chiamato soltanto adesso. A giudicare dalla tua
faccia
e dai tuoi vestiti, ci stai lavorando almeno da ieri sera.”
“Sì”,
sospirò Lestrade, passandosi una mano sui capelli cortissimi
“ma non sono
ancora riuscito a ricavarne nulla. Un tuo parere accelererà
i tempi. Ben
tornato, a proposito. Anche tu sembri aver trascorso una notte
piuttosto
movimentata.”
Sherlock
fece una smorfia. “Non sai quanto.”
I
due uomini percorsero il vialetto che conduceva all’ingresso
principale del
vecchio edificio. Sherlock, nonostante il grigiore della giornata e
l’umidità
pressante, la mancanza di sonno e la linea di sangue che si era
ritrovato sulla
mano sinistra, avvertì un palpito di eccitazione quando
oltrepassarono il
nastro giallo e varcarono la soglia.
La
costruzione era decadente e indebolita dalla mancanza di cura e
dall’impetuosità con cui i fenomeni atmosferici
l’avevano funestata: volgendo
attorno lo sguardo, non era raro trovare i resti di finestre
frantumate,
calcinacci impolverati e lunghe crepe sui muri ingialliti, dalle quali
faceva
capolino vegetazione selvaggia. La luce era smorta e un senso di
desolazione ne
opprimeva le pareti. Un’antica dimora signorile. Costruita
probabilmente nei
primi anni dell’Ottocento e abbandonata da almeno dieci anni,
considerando gli
ultimi lavori di ristrutturazione operati in quella zona
dell’ingresso.
Sherlock non si rese conto di aver pensato ad alta voce.
“Apparteneva
ad una famiglia di ereditieri emigrata in Sudamerica da
decenni”, aggiunse
Lestrade, mentre salivano le scale che conducevano al piano superiore.
“Abbiamo
controllato la documentazione.”
“Lo
stato dell’immobile suggerisce che nessuno dei famigliari
rimasti se ne prenda
cura”, rispose Sherlock pensosamente.
“Perché dovrebbe interessarmi?”
“Non
ci sono famigliari rimasti a prendersene cura, Sherlock.
C’è solo un custode,
un uomo anziano che vive nei dintorni e periodicamente visita la casa
per
accertare che sia tutto a posto”, rispose Lestrade,
avviandosi verso il
corridoio.
“Cioè
per verificare che tutto continui a cadere a pezzi e a
danneggiarsi?”, replicò
Sherlock, pungente.
“Qualcosa
del genere”, fu la risposta di Lestrade. “In ogni
caso, nel tardo pomeriggio di
ieri il signor Hughes ha trovato una bella sorpresa durante la sua
ispezione.”
Riluttante,
Sherlock lo seguì. “Sta davvero arrivando Natale.
Più si avvicina il giorno del
tuo viaggio in Dorset, più diventi cinico.”
“Ah,
io?”, replicò l’ispettore.
La
stanza non era molto grande, polverosa e decadente al pari di quanto
già aveva
avuto modo di osservare. Alle pareti marciva una carta da parati che
doveva
essere stata elegante, beige con decorazioni floreali. Grosse macchie
di
umidità si allargavano agli angoli del soffitto. Non vi
erano quadri o arazzi
di alcun tipo, solo un lampadario imponente, dai lunghi bracci
affusolati color
oro, e un pianoforte, lucido, scoperchiato. Alla destra di Sherlock si
trovava
una toeletta in legno scuro, il cui specchio attraversato dalle crepe
restituì
il riflesso di un uomo lungo, pallido, smunto, terribilmente
rassomigliante
alla figura composita del sogno di quella mattina. Voltando il capo,
Sherlock
scacciò quel pensiero. A sinistra, accanto al pianoforte, si
trovava un pesante
tavolo nero, adagiato su un tappeto di color rosso, che contrastava
terribilmente con il pallore marmoreo del pavimento.
Era
una scena che Sherlock aveva osservato innumerevoli volte: gli uomini
della
Scientifica, intabarrati in quelle tute che li rendevano simili ad
astronauti
su un pianeta sconosciuto, si affaccendavano intorno a dettagli ed
elementi che
in un’altra circostanza sarebbero stati privi di interesse.
Questa è la
giustizia perversa dell’omicidio, si disse amaramente mentre
si dirigeva verso
il gruppo, infilandosi un guanto in lattice. Rende visibile
ciò che dovrebbe
restare occulto, che grida e che si dibatte per emergere alla
superficie.
È
morto da almeno dodici ore. Giovane, bruno, anonimo, sulla trentina.
“Nessun
segno di violenza? Di colluttazione?” No. Non è
ironico? Sembra quasi che
dorma. “Che ci faceva qui?”, chiese seccamente.
“È questo che ti sto chiedendo
di capire”, borbottò Lestrade in risposta, ma
Sherlock non lo udì. Carnagione
chiara. Due nei sul sopracciglio destro, setto nasale appena deviato.
Cianosi. Occhiali…
inseriti in una busta per i rilievi, lenti incrinate. Collo sano,
intatto. Segni
di strangolamento assenti. Passò un dito sulla camicia
scura, sfiorando i
bottoni, la piccola tasca. Che ci facevi qui? Sapevi che stavi andando
incontro
a qualcosa di ben più… “Oh.”
Un collarino ecclesiastico. Un collarino
ecclesiastico?
Lo
estrasse con delicatezza. Lestrade lo fissò come se fosse un
insetto. “E
questo?”
“E
questo?” gli fece eco Sherlock, sarcastico. “A
quanto pare la matassa è
parecchio ingarbugliata. Dunque. Uomo bianco sulla trentina.”
John. John saprebbe.
Lo capirebbe in pochi secondi. Dieci. Facciamo quindici. “O
forse dovrei dire sacerdote bianco
sulla trentina. Cianotico,
volto congestionato. Paralisi respiratoria e arresto cardiaco, ad
un’occhiata
superficiale. Aspetta”, alzò una mano,
interrompendo Lestrade, del quale aveva
percepito la lieve esitazione verbale. Il detective sospirò.
“So cosa stai per
dire”, proseguì Sherlock. “Non ci sono
segni di violenza o di colluttazione. Tutto
lascia presagire che quest’uomo sia giunto qui da solo, e che
da solo sia
morto. Niente di più sbagliato. Per due ragioni.”
Straordinario. Sta’
zitto, John.
“Sentiamo”,
mormorò Lestrade.
“Primo:
il collarino ecclesiastico male occultato in una tasca della camicia.
Quest’uomo
doveva incontrare qualcuno, qualcuno che probabilmente conosceva e di
cui si
fidava. Qualcuno”, proseguì Sherlock, scrutando
profondamente il volto
inespressivo dell’uomo disteso sul pavimento “con
cui a quanto pare aveva una
relazione. Di qualsiasi tipo. Forse complicata, forse no.”
Ironico, no? Cos’è
più ironico? Che lo stia pensando adesso o che lo stia
pensando per la seconda
volta in pochi minuti? “Ha rimosso il collarino, ma non lo ha
nascosto. Perché
farlo? Probabilmente anche chi era con lui sapeva che era un sacerdote.
Probabilmente
volevano dimenticarsene entrambi per qualche tempo.”
“Entrambi?
Cosa ti fa credere che ci fosse solo un’altra persona con
lui?”
“Guarda
questa stanza, Lestrade, e trai le tue conclusioni. Una decadente
toeletta, un
pianoforte scordato… non lo trovi romantico?
Direi che un simile scenario ammette un massimo di due individui, non
uno di
più.”
“Tu
credi che quest’uomo si sia incontrato qui con…
un’amante?”.
Lestrade abbassò la voce mentre parlava, lanciandosi
occhiate furtive intorno. Lo inchiodò con uno sguardo
cocente. Sherlock rimase
impassibile. “Ti rendi conto di quello che stai
dicendo?”
“Io
non credo proprio nulla, Lestrade,
deduco e basta”, rispose seccamente Sherlock.
Lestrade
strinse le labbra. “E la seconda ragione?”
“Molto
bene, Graham…”
“Greg!”
“Greg.
Considerando il modo in cui il cristianesimo fa del martirio il proprio
segno
di riconoscimento, per quale ragione quest’uomo avrebbe
dovuto morire nel
silenzio e nell’ombra, se avesse voluto suicidarsi? Ho
scritto un articolo sull’ipertrofia
che sembra caratterizzare l’ego di molti
ecclesiastici…”
“Questa”,
lo interruppe Lestrade “mi sembra, più che una
deduzione, una convinzione
personale gratuita…”
Sherlock
sorrise, visibilmente divertito. “Infatti. La vera ragione
è che questo è un
luogo perfetto per un omicidio. Fuori mano, isolato,
abbandonato.” Sentì un’eccitazione
crescente, mentre lo diceva. Il tedio nichilista è finito,
si disse, fremente. I
giochi si riaprono. “Guardalo e dimmi cosa vedi.”
Lestrade fece per parlare,
confuso. Sherlock lo interruppe. “Cianotico, congestionato,
l’ho già detto. E
sudato, anche se gran parte delle secrezioni sono evaporate.
Probabilmente avrà
dei segni di emorragie puntiformi a livello delle congiuntive. Tutto
lascia
presagire, Lestrade, che quest’uomo sia morto per
avvelenamento.”
Si
volse nuovamente a guardarlo. Morire per avvelenamento non
dev’essere affatto
facile, si disse. Eppure il suo volto ha un’espressione
talmente quieta… Le
mani. Non ho controllato le mani. Sherlock, fratellino, perdi colpi?
Sta’ zitto,
Mycroft, o ti ritroverai quell’odioso ombrello in zone
indesiderabili.
“Che
prove hai per dimostrarlo?”, stava chiedendo Lestrade. Ma
come in un lungo,
turbinoso sogno, Sherlock rimase folgorato dalla mano sinistra del
sacerdote,
la quale era serrata in un pugno apparentemente impossibile da
sciogliere, a
differenza della destra, che ricadeva invece inerme di lato. Con non
poca
difficoltà Sherlock vi riuscì, manovrando le dita
irrigidite con una
disinvoltura acquisita negli anni trascorsi a sperimentare sui cadaveri
del
Bart’s.
“Oh.”
Per la seconda volta. È davvero questo ciò per
cui vivi? È davvero così
emozionante? Oh, Mrs. Hudson, non
può sapere quanto. “Guarda un
po’.”
Lestrade
si chinò per guardare. “Cosa
diavolo…?”
“Non
c’è bisogno di una millenaria esperienza in
botanica per sapere che questo è un
fiore di aconito, Lestrade. Viola, forma conica, pochi petali. Tre
milligrammi
dell’alcaloide aconitina possono uccidere un uomo adulto. Un
omicidio elegante,
poetico. Quasi sadico, a dirla tutta. L’aconito non
è propriamente l’ideale per
una morte veloce e indolore.”
“Ma
perché l’assassino avrebbe dovuto darci
indicazioni riguardo l’arma del
delitto?”
“Interessante
domanda, Lestrade. Le ipotesi, a tal proposito, sono due. La prima ci
dice che questo
fiore costituisce una sorta di firma dell’assassino.
È il suo modo per dirci:
sono stato io. Sono proprio io. La seconda suggerisce che tutto questo
sia
frutto di una tragica fatalità. Considerando la
rapidità e la considerevole
diffusione di questo tipo di piante nelle campagne, probabilmente
quest’uomo ha
portato il fiore con sé… una sorta di galanteria
dell’ultimo minuto.” Sherlock
sorrise amaramente.
Lestrade
chiuse gli occhi, spossato. “Bene, direi che è
sufficiente, per ora. Ma questo
non ci dice nulla sull’identità
dell’assassino.”
“Interrogate
gli abitanti della zona, chiedete loro se hanno visto strani movimenti
nella
serata di ieri”, replicò Sherlock.
“Bussate a tutte le parrocchie e informatevi
sull’identità di quest’uomo. Qualcuno
starà sicuramente diffondendo la notizia
della sua scomparsa.” Sherlock si sfilò il guanto
in lattice, dopo aver riposto
il fiore in una bustina di plastica trasparente. La consegnò
ad un uomo della
Scientifica e si volse nuovamente verso Lestrade. “E non
siate tanto ottimisti:
qualcosa mi dice che colpirà ancora. Ma io posso stanarlo
prima che ciò accada
effettivamente.”
Lestrade
non replicò. Si limitò a scrutarlo con uno
sguardo indecifrabile. Fu solo un
istante, ma tanto bastò per innervosire Sherlock.
“Che
c’è?”, sbottò.
“Niente”,
replicò Lestrade con noncuranza. “Mi chiedevo se
stessi bene, tutto qui.”
Sherlock
ricambiò l’occhiata con rinnovata fierezza.
Nonostante la lunga, sottile ferita
che gli pulsava nella mano, non dissimile all’altrettanto
lunga, fastidiosa,
insostenibile ferita che da settimane lo tormentava e che tuttavia era
ben più
difficile da sanare… nonostante la febbre, la solitudine, la
tristezza, i
frequenti e incomprensibili incubi notturni, si sentiva forte, sicuro,
rinvigorito. Non sorrise, ma si limitò a dire con calma:
“Io sto
benissimo.”
Chiedo
scusa sin da ora se qualche particolare (soprattutto dal punto di vista
medico-legale) possa risultare inesatto o fuorviante. Ringrazio tutti
coloro
che hanno letto e recensito, in particolar modo Ayreon,
justanothermuggle ed
emerenziano. Le vostre parole mi hanno davvero riscaldato il cuore.
Spero di
non deludere le vostre aspettative. Amo moltissimo Sherlock e tutto ciò che desidero è
percorrere le vie più impervie della mia
stramba fantasia, senza sapere esattamente dove terminerà il
cammino, tenuta
per mano dai miei personaggi preferiti. Sarei felice se vorrete
intraprendere
questo percorso assieme a me.
Un
bacio e buone feste a tutti,
alla
prossima,
Denirose
|
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Capitolo 3 *** Quel che sorprende dell'ignoto ***
Dopo un paio di
giorni trascorsi a
meditare con le punte delle dita congiunte, sprofondato nella poltrona
del
salottino, insensibile ed indifferente a qualsiasi tipo di stimolo, il
mattino
soprese Sherlock con l’arrivo di Mrs. Hudson, la quale, a
giudicare dalle
sopracciglia corrucciate e dallo strano bagliore negli occhi miti,
sembrava più
determinata che mai. Il primo suono era un tintinnio argentino, sottile
e
difficilmente individuabile se non in condizioni di perfetto silenzio,
ma
l’udito di Sherlock, oltre a essere particolarmente
sensibile, era anche
notevolmente allenato. Il secondo suono, ben più vigoroso,
era lo scalpicciare
dei suoi passi da passerotto sulle scale, le quali sembravano
accogliere la
pressione dei piedi di Mrs. Hudson con un cigolio morbido in risposta.
Terzo
suono. Rumori benevoli, affettuosi, accettati, quasi attesi da
Sherlock,
nonostante il torpore delle sue meditazioni, le quali, a dispetto della
sua
postura inerme e dell’apatia dei suoi occhi, erano divenute
più frenetiche con
il passare delle ore.
Bruno. Aconito.
Villa abbandonata.
Rovine. Neanche una traccia, neanche un’impronta.
L’unico a detenere le chiavi
è il vecchio custode, Howard Hughes. Una casa circondata
dalle campagne a poca
distanza dalla villa dove è stato trovato il sacerdote.
Howard Hughes. Il nome
suggerisce grandezza, un passato munifico, un presente invidiabile.
È invece un
vecchio possidente caduto in disgrazia. Capelli grigi, occhi neri,
sottile e
nervoso. Le crosticine intorno alla bocca suggeriscono una dipendenza
da popper.
Aria ingenua, tremito impercettibile. Non aveva mai visto un cadavere
prima di
allora. Non divagare. Scusa, Mycroft. Un momento. Cosa ci fai tu nel mio palazzo mentale? È una
cosa insana,
Sherlock, lo sai bene. Sparisci. Subito, ma non prima di averti
ricordato che è
la vigilia di Natale e che trascorrerai quasi sicuramente una serata in
compagnia.
Una serata in
compagnia?
“Sherlock!”
Aconito. Cigolio
della porta.
Scricchiolare delle assi del pavimento. Farina, capelli raccolti, bocca
dipinta. Grembiule. Vassoio. Tazza di tè. Mani tremanti. Il
cucchiaino
sbatacchia appena contro la zuccheriera. Un tintinnio argentino
perenne,
nascosto, come un suono segreto, come un messaggio. Cosa diavolo ci
faceva lì
quell’uomo? Come ci è entrato?
“Caro,
non tocchi cibo da troppo tempo.
Ho pensato che un buon tè potesse farti tornare un
po’ di appetito.”
Un suono gutturale
in risposta.
“Come ti
senti, a proposito?”
Apparentemente
è l’omicidio perfetto.
Non riesco a individuare il movente. Ho troppi pochi dati a
disposizione. La
serratura della porta di ingresso è stata forzata una volta
sola, l’ultima.
L’unica stanza impiegata (per cosa, poi?) è stata
utilizzata una volta sola,
l’ultima. Potrebbe sembrare un suicidio.
“Ho
pensato che stasera potessimo
trascorrere un po’ di tempo tutti assieme. Sai, scambiarci i
regali,
chiacchierare, bere qualcosa…”
Ma io so per certo
che non lo è.
Si
schiarì la voce. “Non credo di poter
partecipare. Sto lavorando ad un caso.”
Mrs. Hudson
sembrò delusa. “Anche
stanotte, Sherlock? Non puoi proprio prendere una giornata di pausa per
stare
con i tuoi amici?”
“I
criminali non vanno mai in vacanza,
Mrs. Hudson”, replicò Sherlock.
“Ma i
consulenti investigativi possono
farlo per qualche ora”, lo rimbeccò lei con
determinazione, scrutandolo con
occhi duri.
Un sospiro.
“Per
quanto possa trovare
incredibilmente avvincente la sua
dedizione a certe incomprensibili tradizioni, Mrs. Hudson, non ho
nessunissima
ragione logicamente validata per sottostarvi”.
“E invece
ne hai a bizzeffe, caro,
perché i tuoi amici hanno un grande desiderio di stare in
tua compagnia. Non
puoi deluderli.” Mentre lo diceva, allungò una
mano esile per dargli un
buffetto sulla guancia. Sherlock rimase paralizzato da una sensazione
di
imbarazzo difficile da classificare. La sua mente, con strida di
ingranaggi
impazziti, riprese a lavorare freneticamente.
Tradizione. Compagnia. Champagne. Amici. Diamine.
Terrificante, noioso,
impensabile. Londra è piena di pericoli di ogni sorta,
c’è un pazzo
avvelenatore a piede libero e il mio destino è quello di
ritrovarmi imprigionato
in una situazione sociale talmente spinosa da farmi venir voglia di
strapparmi
i capelli a ciocche. Il mio battito cardiaco sta accelerando, ho le
mani
sudate. C’è un pensiero, uno solo, che preme per
uscire, si dibatte e scalcia
come in un incubo, ma non lo lascerò andare. Devo
trattenerlo.
“Non mi
interessa deludere o meno
chicchessia. E poi ho ancora un po’ di febbre”,
azzardò timidamente.
Smettila di
punzecchiarmi, smettila,
smettila, smettila…
Mrs. Hudson prese
un lungo, eloquente
respiro. Si alzò e si diresse verso il vassoio che aveva
deposto sul tavolo,
accanto al laptop e a una pila di libri di chimica e fisiologia.
“Sherlock…”
Oh, ti
prego…
“John.”
Espirò senza riuscire più a
trattenersi. Con un sobbalzo, riuscì a focalizzare
visivamente il proprio
muscolo cardiaco saltare un battito e riprendere a pompare sangue con
più
voluminosa audacia di prima. Arterie, capillari, vene. Scambi gassosi.
John. Tu
sai cosa mi sta accadendo. Tutto questo accade dentro di me, ora,
subito. Lo
sai bene, benissimo, eppure non ci sei.
Mrs. Hudson non
diede segno di sorpresa.
Era troppo impegnata a versare il tè nella tazza sbreccata,
a raccogliere i
granelli di zucchero sfuggiti al cucchiaino, a pianificare
l’orrenda serata che,
date le premesse, si preannunciava più cupa che mai. Il
soffitto non si è
sbriciolato sulle nostre teste, Mrs. Hudson non ha avuto nessun colpo
apoplettico, io non sono morto.
L’ho
detto. L’ho detto davvero. John. John ci sarà?
Lui, Mary, la famigliola felice?
“So
bene”, stava dicendo Mrs. Hudson,
porgendogli la tazza di tè con un sorriso felino
“che le circostanze siano
particolari e che tu non tenga particolarmente a queste feste, ma ci
incontriamo ogni anno assieme agli altri. Non interrompiamo questa
tradizione.”
Sherlock
sorbì il tè senza replicare.
Era caldo, gradevole, rinvigorente. Effettivamente, dopo qualche
istante si
sentì meglio. Ripose la tazzina e chiuse gli occhi,
massaggiandosi le tempie
indolenzite. Percepì un’esitazione infinitesima in
Mrs. Hudson, la quale aveva
prontamente messo in ordine il tavolino ed aveva cominciato ad avviarsi
verso
l’ingresso, sulla soglia del quale si era fermata, vagamente
a disagio.
Attraverso l’intercapedine delle palpebre chiuse, Sherlock ne
visualizzò gli
occhi inumiditi dalla stanchezza, l’anca dolorante, i denti
che rincorrevano le
labbra, affondando nella carne rosea e resa più accesa dal
rossetto. Tracce di
trucco, un sospiro strozzato, mani che si torcerebbero, se non avessero
l’impedimento del vassoio appena tremante. Tanto
bastò a metterlo in allerta.
Spalancò
gli occhi. “Che c’è?”,
sbottò.
Mrs. Hudson si
finse sorpresa con una
smorfia che qualunque altra persona avrebbe trovato graziosa, ma non
Sherlock,
il quale, dopo averla soppesata per un istante, inarcò le
sopracciglia e decretò:
“Ha
qualcosa da dirmi, Mrs. Hudson?”
La donna emise un
suono soffocato, a
metà tra un gemito e un risolino. “Oh, Sherlock,
niente di particolarmente
interessante. Ho pensato, però, che dovessi essere preparato.” All’udire
quelle parole, Sherlock si visualizzò nello
stesso modo in cui si trovava in quel momento: esile, semisdraiato in
poltrona,
il volto pallido, i grandi occhi chiari sgranati, le dita giunte, le
vene
improvvisamente pulsanti. La voce gli uscì sottile,
appuntita: “Preparato a
cosa, esattamente, Mrs. Hudson?”
Un respiro
voluminoso, concentrato,
saturo d’ossigeno. “Stasera…”
“Stasera?”
Ho un
presentimento. Ed è il più
terribile che possa mai essere concepito.
Mrs. Hudson si
corresse
precipitosamente. “Quel che voglio dire, Sherlock,
è che vorrei tu fossi
presente stasera per dare il benvenuto ad una
ospite…”
È peggio
di quanto credessi. Una ospite.
Sesso femminile. Ospite.
“Una ospite?”
“Per la
precisione, una sorta di… coinquilina”,
esalò Mrs. Hudson, bianca
come un lenzuolo.
Sherlock non
avrebbe potuto descrivere
in nessun modo il caos coagulato che gli esplose improvvisamente in
tutto il
corpo all’udire quelle parole. Era come se ogni suo organo si
fosse ribellato
alla decisione presa da Mrs. Hudson contro la propria
volontà e protestasse con
tutta la forza di cui era capace. Il cuore gli pulsava contro la gabbia
toracica con impetuosa disperazione. I suoi polmoni sembravano
necessitare
improvvisamente di un quantitativo maggiore di aria da inalare, e
ciononostante
ogni respiro gli bruciava curiosamente e dolorosamente la trachea. Il
tè
sembrava avergli incollato il cardias ed il piloro, un tappo zuccherino
aromatizzato al limone, sigillandogli, apparentemente per
l’eternità, lo
stomaco. Stille di sudore freddo gli imperlarono sgradevolmente la
fronte.
Di quella
deflagrazione lacerante Mrs.
Hudson captò un unico, impercettibile segnale: le labbra di
Sherlock, appena
impallidite, si mossero appena per congedarla. “Ci
sarò”, fu l’unica cosa che
disse.
Sherlock trascorse
le ore successive
profondamente immerso nell’oceano che aveva invaso il suo
palazzo mentale con
un fragore insopportabile in seguito allo scambio avuto con Mrs.
Hudson. Si era
aggirato per qualche tempo per le stanze ed i corridoi umidi,
muovendosi a
fatica a causa dell’acqua che ne intralciava il passaggio,
osservando con
tristezza lo sfacelo che lo circondava e chiedendosi con orrore quando
sarebbe
stato nuovamente agibile. Temeva che i danni potessero essere
permanenti, ma si
costrinse a focalizzarsi su un solo pensiero: se non poteva affrontare
tutta quell’acqua,
avrebbe lasciato che quest’ultima lo ghermisse e lo portasse
in qualsiasi
direzione. Solo così avrebbe avuto chiara tutta la
situazione e avrebbe potuto
collocare al loro posto le tessere mancanti del puzzle. Così
fece. Smise di
opporre resistenza all’acqua e le permise di trasportarlo,
muovendo appena le
braccia e le gambe per rimanere a galla. La sensazione non era
spiacevole: i
suoi vestiti si erano gonfiati e fluttuavano, i suoi movimenti erano
lenti e
cadenzati. L’abbraccio dell’oceano era quasi
confortante.
Quando Mrs. Hudson,
vestita di tutto
punto, si affacciò sulla soglia dell’appartamento,
carica di stuzzichini e
decorazioni natalizie, lo trovò nella stessa posizione in
cui l’aveva lasciato
più di sei ore prima, con gli stessi vestiti, lo stesso
respiro e lo sguardo
liquido e lontano. Per un istante la donna ebbe l’impulso di
correre al
telefono e annullare tutto, ma dopo pochi istanti prese un respiro
profondo e
si disse: Martha, non essere ridicola. Sarebbe peggio per lui se tutto
gli fosse
dovuto, se tutto gli fosse reso facile.
“Sherlock”,
ordinò “va’ a vestirti. Gli
altri saranno qui tra poco.”
Sherlock, pur non
avendo dato cenno di
averla vista o udita, si alzò lentamente e si diresse verso
la propria camera.
Passando nel piccolo corridoio diede un’occhiata
all’orologio che portava al
polso: tale gesto sembrò rinvigorirlo, perché
frugò con decisione nell’armadio
e scelse la camicia color bordeaux che aveva sempre indossato in
occasioni come
quella. Con altrettanta sicurezza passò nel bagno per
lavarsi, esile, rapido,
efficiente. In poco tempo fu pronto. Mrs. Hudson, nel frattempo, si
apprestò ad
allestire il piccolo salotto per la festa, senza perderlo
d’occhio un solo
istante. Dal canto suo, Sherlock non diede alcun segnale di averla
notata.
Terminò di vestirsi e rientrò in camera, mentre
Mrs. Hudson, dopo aver
sistemato le ghirlande e le lucine, pensava a quanto strana fosse
quella danza
inconsapevole che stavano entrambi compiendo, quasi stessero girando
intorno ad
un fantasma, senza toccarlo mai, senza affrontare mai il problema.
Com’è
possibile che un uomo tanto geniale e colto, così esperto
nelle sue deduzioni,
o quel che diavolo sono, possa essere tanto ingenuo e spaesato di
fronte ai
sentimenti? Qualunque altra persona avrebbe affrontato la cosa con una
leggerezza diversa rispetto a quella che lui sta ostentando.
Così si diceva
Mrs. Hudson, mentre Sherlock le passava accanto senza quasi vederla,
dirigendosi verso il violino posato sul tavolo polveroso e lasciando
dietro di
sé una lieve scia di acqua di colonia.
Le prime, esitanti
note di un valzer
riempirono la stanza. Mrs. Hudson si fermò sulla soglia,
accarezzando Sherlock
con occhi affettuosi. È così vulnerabile, si
disse. Come un bambino, come un
figlio. Vorrei poterlo aiutare in qualche modo.
Sherlock chiuse gli
occhi, e la melodia
che stava suonando divenne un sottofondo ovattato, distante. Si
ritrovò nel palazzo
mentale, percependo come le cose fossero cambiate in quel lasso di
tempo in cui
era rientrato nella quotidianità. Il flusso
d’acqua si era ingrossato ed aveva
aumentato la sua velocità, costringendolo a voltarsi sulla
pancia e a nuotare
con ampie e abili falcate. Nel farlo, lanciava sguardi angosciati
intorno,
appurando come l’acqua avesse corroso gli ambienti,
apparentemente in modo
irreversibile. Accadrà ancora? Si chiese. Tutto questo
deperirà senza che io
possa impedirlo? Tutto questo deperirà prima che possa
risolvere il caso del
sacerdote avvelenato?
I suoi pensieri
furono arrestati
bruscamente dall’arrivo di Lestrade e Molly Hooper, i quali
lo salutarono con
premura esitante. Sherlock offrì loro un sorriso tirato, poi
ripose il violino
e sedette, tamburellando le dita sul tavolo con manifesto nervosismo.
Mrs.
Hudson offrì del vino e salatini a tutti, i quali
accettarono, eccezion fatta
per Sherlock, che sedeva rigido e teso. “Allora,
Molly”, disse “hai esaminato
il corpo del sacerdote?”
Molly
arrossì, ma rispose con
compostezza. “Tutto lascia presagire che sia morto per
avvelenamento, come
avevi… insomma… già detto tu.
Aspettiamo i risultati del tossicologico per una
conferma definitiva.”
Sherlock
annuì seccamente. Mrs. Hudson
intervenne: “Non parliamo di queste cose tristi, caro.
È pur sempre la notte
della vigilia di Natale…”
“Un
vecchio trucco che con me non attacca”,
replicò Sherlock con fare apparentemente gioviale. Mrs.
Hudson scosse la testa
con fare rassegnato. Sherlock lanciò un’occhiata
nervosa verso la soglia
dell’appartamento. Arriverà? Si chiese.
Arriveranno?
Molly si rivolse a
Lestrade con un
sorriso imbarazzato. “Come sta tua moglie, Greg?”
Sherlock decise di
indirizzare la
propria attenzione su quello scambio banale solo ed esclusivamente per
contraddire qualsiasi risposta Lestrade avesse proferito, ma prima che
potesse selezionare
le affermazioni più deboli e gustose da attaccare, un suono
remoto lo fece
appena sobbalzare. Nessuno diede cenno di essersene accorto. Il suo
stomaco
sembrò rivoltarsi come un guanto, il cuore
cominciò a sbatacchiare in maniera
impensabile, come una finestra lasciata aperta in un giorno di vento.
Strofinò
nervosamente le mani sulle ginocchia, per nasconderne il sudore
crescente. Sono
disgustoso, si disse. E le mie metafore fanno schifo.
Sono arrivati. Lui
è qui.
Si era sbagliato,
ma non completamente.
I passi che aveva udito sulle scale si fecero più nitidi man
mano che i piedi
cui appartenevano si avvicinavano. Dopo un’iniziale attimo di
incredulità,
rivoli di amarezza si ingrossarono nelle sue viscere. Sherlock
roteò gli occhi,
visibilmente disgustato. Una sola persona. Camminata leggera, quasi
felpata.
Struttura corporea certamente minuta e poco pesante. Niente tacchi. A
giudicare
dal rumore è più probabile che siano anfibi.
Dànno volume al suono dei passi,
che altrimenti sarebbe indistinguibile e pertanto passerebbe
inosservato. Non
promette nulla di buono. Ci sarebbe molto da dire sulla psicologia
delle
calzature. Dovrei scrivere un saggio in merito. Riassumiamo.
È una donna,
minuta, magra, giovane. Detesto i
giovani.
“Ah,
Helvia!”, esclamò Mrs. Hudson non
appena quest’ultima si affacciò sulla soglia con
un sorriso impacciato.
Sherlock non riuscì a trattenersi e sbuffò
rumorosamente. Molly gli rivolse uno
sguardo interrogativo ed intenso, ma lui non se ne accorse. La sua
mente
riprese a lavorare con frenesia, passando al vaglio e demolendo quasi
simultaneamente i dettagli e le caratteristiche ricavate
dall’osservazione
della ragazza.
Noioso, noioso,
noioso. È stato davvero questo
a prostrarmi per un pomeriggio intero?
Una biondina con un anello al naso e i jeans strappati? Una sciocca che
cerca
di emergere dalla banalità della sua stessa vita
pasticciandosi i capelli e
forandosi le cartilagini? Impensabile.
“Buonasera
a tutti!”, esclamò
quest’ultima, rivolgendo un sorriso ai presenti.
Baciò Mrs. Hudson sulle guance
e si rivolse a Sherlock con un’espressione cordiale,
tendendogli la mano.
“Molto piacere, signor Holmes. Mi chiamo Helvia Haynes.
Martha mi ha parlato
molto bene di lei.” Sherlock la inchiodò con uno
sguardo gelido, ma la giovane
non diede mostra di essere rimasta impressionata. Ritrasse
elegantemente il
braccio e gli diede le spalle. Molly e Lestrade osservavano la scena a
bocca
aperta.
“Ti
stavamo aspettando!”, intervenne
Mrs. Hudson con voce appena stridula, spezzando il silenzio imbarazzato
che si
era improvvisamente impadronito dei presenti. “Accomodati
pure.”
“Sì,
accomodati, Helvia”, fece eco
Lestrade con voce arrochita. “Gradisci del vino?”
“Volentieri,
grazie!”, rispose la
ragazza, ravvivandosi i capelli con un gesto che Sherlock
soppesò per un
istante. Pratico, non affettato né vanitoso. Apparentemente
non egocentrica.
Accolse il calice tra le mani esili e bevve un sorso. Le sue guance si
tinsero
leggermente di rosa. Buono a sapersi, pensava Sherlock, sarà
più facile tenerla
alla larga. Lanciò un’altra occhiata
all’orologio e si sentì improvvisamente
meglio. Manca poco, si disse.
E John non
verrà.
Quel pensiero fu
talmente insostenibile
da spingere Sherlock ad alzarsi bruscamente, incupito. Le mani gli
tremavano
leggermente, ma i suoi movimenti erano secchi. Indossò il
cappotto e la sciarpa
e si guardò attorno alla ricerca dei guanti. Mrs. Hudson lo
guardava con
tristezza. Sherlock intercettò lo sguardo di Molly e
Lestrade, i quali
apparivano più rassegnati che sorpresi. La ragazza bionda
continuava a
sorseggiare il vino, ma le sue dita erano contratte. Sherlock
avvertì un
palpito di soddisfazione.
“Dove
stai andando, Sherlock?”, chiese
Lestrade.
“Ho un
improvviso e frenetico desiderio
di tranquillità”, rispose Sherlock con voce neutra.
Lestrade lo
scrutò con diffidenza. “Non
dirmi che ha a che fare con il sacerdote dell’altro
giorno.”
“Se te lo
dicessi non farebbe
differenza, dico bene?”
Mrs. Hudson fece
per aprire bocca, ma l’occhiata
che Sherlock le lanciò la ammutolì. “Ti
lascio qualcosa da mangiare”, disse con
voce flebile.
Sherlock rivolse un
ultimo sguardo agli
astanti. I suoi occhi si soffermarono sulla pelle opaca e sugli
anellini alle
orecchie di Helvia, la quale scrutava il fondo del suo calice. Coinquilina, pensò con vago
disgusto. Potrebbe
rivelarsi più arduo del previsto. Ma del resto potrebbe
rivelarsi anche più facile
e scontato del previsto.
Si volse e scese le
scale. Mrs. Hudson
si rivolse con un sorriso tirato a Helvia: “Ci farai
l’abitudine, cara. Sotto quella
corazza batte un cuore gentile.”
Lestrade fece una
smorfia. “Probabilmente
si sta confondendo con qualcun altro.” Molly gli
tirò una gomitata, senza
sorridere. Aveva gli occhi velati di lacrime.
Sherlock
uscì nella notte fredda e
immobile. Guardò un’altra volta
l’orologio e pensò che avrebbe potuto
facilmente raggiungere la chiesa di St Peter a piedi. Mancava ancora
qualche
ora alla veglia di mezzanotte. Sorridendo appena tra sé,
ripensò al pomeriggio
trascorso nell’incertezza e nello spavento
dell’ignoto che si era poi
materializzato sulla soglia dell’appartamento con un anello
al naso. Si figurò
la ragazza bionda, sbiadita come una vecchia immagine, e
pensò a quanto l’ignoto
potesse essere sorprendente nella sua banalità. Poi i suoi
pensieri si
soffermarono con amarezza su John, più lontano che mai, e
poi pensò a se
stesso, gonfio di tristezza, dolente e vulnerabile come mai si era
sentito
prima di allora.
Desidero
ringraziare sentitamente tutti coloro che hanno letto e recensito, in
particolare
emerenziano. Ti ringrazio davvero per tutti i complimenti (che non
merito), mi
riscaldano il cuore in un modo che davvero non so descrivere!
Un
abbraccio, a presto,
Denirose
|
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Capitolo 4 *** Corona di spine ***
Il disagio di
sentirsi circondato da
persone, le quali avevano cominciato da tempo ad affollare
l’ingresso della
chiesa, accompagnate dallo scalpiccio di passi e dal vociare, rumori
che creavano
una sorta di condensa, di alone tiepido intorno a Sherlock, il quale
attendeva
irrigidito e paziente accanto a uno dei due cancelli che cingeva la
scalinata,
era compensato dalla consapevolezza che nessuno degli individui che
attendeva
di prendere posto per la celebrazione della mezzanotte avesse la minima
idea di
chi fosse Sherlock Holmes. Sorrisi, volti arrossati dal freddo.
Scricchiolare
di scarponcini e stivali contro la neve, una miscellanea di parole in
inglese e
in italiano, lingua che Sherlock non conosceva, ma della quale riusciva
a
riconoscere i suoni.
Luci fioche,
sguardi fugaci. Cielo
d’inchiostro, stelle esili. Sherlock guardò
l’orologio una, due, tre volte.
Alla quarta, mentre
muoveva appena i
piedi nella neve per scaldarsi, intravide una figura fendere la folla
di fedeli
che si stava via via diradando man mano che tutti si dirigevano verso
l’entrata. Pur sentendosi ancora debole e istupidito dalla
delusione di non
aver incontrato John neanche quella sera, scrutò con
attenzione il volto e i
capelli della donna che gli si accostò con fare esitante e
domandò con un
sorriso: “Sherlock Holmes?”
Sherlock
annuì. “Laurine Gerthard, suppongo.” Indirizzo
email improponibile. Qualcosa che ha a che fare con i gatti, se non
ricordo male.
Lineamenti europei, ma non inglesi. Capelli tinti, aridi, occhi chiari.
Denti
regolari, sani. Pelle non troppo fresca, forse a causa
dell’abuso che questa
donna fa di prodotti cosmetici, come segnalano i residui di trucco
sulle
palpebre e sugli zigomi. Ha ritenuto opportuno struccarsi prima di
incontrare
me? Interessante. Incertezza come tratto caratteriale o eccessivo
egocentrismo?
Tu che ne dici, John? Cappotto e stivali di buona qualità.
Guanti morbidi,
trama fine, mani piccole e apparentemente ben curate. Per lavoro?
Probabile.
“Mi stava
aspettando da molto?”, chiese
la donna, scrutandolo in volto con sguardo limpido.
“Un tempo
sufficiente da indurmi ad
andare via. Ciononostante, lei è arrivata prima che potessi
mettere in atto i
miei propositi.”
La donna si
voltò verso l’ingresso della
chiesa, osservandolo per qualche istante. “Non va alla
funzione di
mezzanotte?”, chiese poi con un sorriso cordiale.
“Per
l’amor del cielo, certo che no”, fu
la risposta secca. “Vuole ora farmi la cortesia di spiegarmi
per quale ragione
ha inteso convocarmi qui in questo giorno, a quest’ora di
notte?”. Mentre lo
diceva, Sherlock provò un istintivo moto di gratitudine
verso la sconosciuta, a
dispetto del tono irritato e dell’occhiata severa che le
lanciò. Non credo che
avrei resistito un solo secondo in più, in quella maledetta
stanza. Laurine lo
osservava con gli occhi appena sgranati, un’espressione
colpevole a incurvarle
gli angoli della bocca.
“Ha
ragione, mi scusi”, replicò con voce
sottile. Gli occhi le si velarono, mentre proseguiva:
“Può immaginare il motivo
di questa convocazione, però. Desidero parlare con lei di
padre Jonathan.” Le
si incrinò appena la voce.
Sherlock la
osservò per qualche istante,
in silenzio. Poi affermò:
“C’è un bar nelle vicinanze. Andiamo
lì.”
Il locale in cui
presero posto qualche
minuto dopo era piccolo e riscaldato, con carta da parati giallo
canarino su
cui erano raffigurati fiori dai petali purpurei e tavoli in legno, con
vezzosi
centrini bianchi posati sugli stessi: tutti fattori che lasciavano
presagire un
certo senso di intimità in coloro che lo frequentavano. A
Sherlock, tuttavia,
l’illuminazione artificiale instillava una sensazione di
umida tristezza,
appiccicosa e annichilente. Scacciò quel pensiero e
osservò Laurine ordinare un
cappuccino.
“Ho un
paio di condizioni cui le chiedo
caldamente di sottostare”, esordì Sherlock dopo
qualche istante di silenzio.
Sedeva rigido, le mani affondate nelle tasche del cappotto, le gambe
incrociate
sotto il tavolo. La donna, perplessa, rispose: “Mi
dica.”
“Sia
rapida. Focalizzi gli elementi più
importanti per l’indagine e me li riferisca senza annoiarmi.
La avverto”,
proseguì Sherlock, implacabile “mi annoio molto
facilmente.”
Laurine
annuì, senza sorridere. Si sfilò
i guanti e incrociò le dita delle mani sul tavolo, premendo
con forza i palmi.
“Padre Jonathan era la persona migliore che
conoscessi”, bisbigliò con un filo
di voce. Sherlock osservò con attenzione la pelle screpolata
del dorso delle
mani della sua interlocutrice. “Aveva un grande cuore, era
umile, gentile.”
Sherlock la
interruppe. “Le suggerisco
di riservare questo genere di affermazioni per una commemorazione, non
per
un’indagine. C’è altro?”
Laurine lo
osservò, interdetta. “Volevo
solo… farle capire che tipo di uomo fosse padre Jonathan.
Conduceva una vita
molto riservata, ma la sua porta era sempre aperta per chiunque ne
avesse avuto
bisogno. Era una persona limpida, senza segreti…”
Sherlock
roteò gli occhi. “Ci risiamo.”
La donna gli
scoccò un’occhiata
rabbiosa. “Dovrebbe avere rispetto
del dolore altrui, signor Holmes.”
“Il
dolore di natura emotiva,
appartenendo alla sfera dei sentimenti e delle emozioni umane, non
costituisce
per me ambito di interesse alcuno.”
“Invece
dovrebbe, signor Holmes. Padre
Jonathan era il mio padre spirituale e ha significato molto per me.
Significa ancora
molto…” sussurrò Laurine,
estraendo un fazzoletto dalla tasca del cappotto. Nonostante tutto,
Sherlock ne
trovò il contegno estremamente ammirevole.
“Non
c’è bisogno di commemorazioni
strappalacrime, se mi ha consultato dovrebbe sapere che posso
comprendere in
pochissimo tempo ciò che lei intendeva dire.”
Laurine lo fissò come se avesse
visto un marziano. “Oh, no, non mi guardi così, lo
fate sempre tutti. Dunque. Quello
che lei vuole portare alla mia attenzione
è il fatto che il signor Jonathan fosse una sorta di santo,
o di creatura
angelica. Una persona pulita, destinata a morire comodamente nel
proprio letto
dopo una vita tranquilla.” Laurine, nonostante le lacrime
agli occhi, annuì con
rabbia. “Alla luce di ciò, la sua domanda
implicita, Laurine, è davvero
interessante: perché proprio lui?
Me
lo dica lei.”
“Io?”,
replicò, spiazzata, la donna.
“Perché pensa che io possa saperlo?”
“Lo ha
detto lei prima”, le labbra di
Sherlock si distesero in un vago sorriso. “Un uomo senza
segreti. Per fare
questa affermazione doveva conoscerlo davvero bene,
eppure…” il suo sguardo
incrociò per un attimo quello della sua interlocutrice,
soffermandosi per un
attimo sulle sue iridi bluastre, guardandola senza in realtà
vederla “c’è
qualcosa, ci dev’essere qualcosa
che
lei non si spiega. Dico bene?”
Laurine
sembrò illuminarsi in volto, ma
subito dopo la sua espressione tornò cupa. “Una
donna, signor Holmes.”
Sherlock congiunse
la punta delle dita.
“Ricorda quello che le ho appena detto?”
Con voce incolore,
Laurine replicò:
“Rapida, sintetica, essenziale.”
Il consulente
investigativo annuì. “La
ascolto.”
“A dire
la verità non so molto… padre
Jonathan non me ne ha mai parlato personalmente. Sono
soltanto… voci… sussurri…”,
esitò Laurine, torcendo il fazzoletto che aveva tra le mani.
“Una donna che lo
amava e che giurò di riprenderlo con sé, in un
modo o nell’altro…”
Sherlock
avvertì il fortissimo impulso
di sbuffare rumorosamente, ma riuscì a contenersi. Prima che
potesse
pronunciare una sola sillaba, Laurine alzò il volto rigato
di lacrime verso di
lui.
“La
trovi, signor Holmes”, boccheggiò,
scrutandolo con occhi supplichevoli. Sherlock avvertì una
sensazione sgradevole
alla bocca dello stomaco. “Io…”
“Ho
visto…” lo interruppe Laurine,
singhiozzando “io… ho…
letto… l’aconito… so cosa fa, come
riduce le persone… è
atroce… è perverso… e quella villa
abbandonata… lei voleva che non fosse mai
trovato, capisce? Voleva lasciarlo
lì… a marcire…”
Sherlock non
riuscì a parlare. Ecco cosa
significa, sussurrò Mycroft dalla sua poltrona accanto al
caminetto, mescolando
lo zucchero nella sua tazza di tè. Accavallò
appena le gambe e lo scrutò in
volto. Ecco cosa significa perdere qualcuno,
fratellino. Sta’ zitto, Mycroft. Il calore
dell’ufficio di Mycroft si dissolse,
e Sherlock si ritrovò scaraventato con violenza nel bar
anonimo del giorno di
Natale, mentre Laurine si preparava per fuggire, raccogliendo borsa e
guanti
con velocità sconnessa, ostacolata dal pianto. Evidentemente
non c’era più
nulla da dire, ma quel pensiero risultò curiosamente
insostenibile a Sherlock,
il quale, d’impulso, volle trattenerla: le afferrò
il polso piccolo e freddo,
meravigliandosene l’istante successivo. Laurine lo
scrutò con espressione
costernata, ma non tentò di divincolarsi.
“Era…”
la voce gli uscì in un soffio. Fece
una pausa, poi ritentò. “Era sereno.”
Laurine
sembrò comprendere, e nuove
lacrime le spuntarono agli angoli degli occhi gonfi. Sembrava avesse
esaurito
tutto ciò che avrebbe voluto o potuto dire.
“Io ho
visto il suo corpo, l’ho
esaminato…” proseguì Sherlock,
goffamente. “Sembrava dormisse. Come se non
avesse sofferto.”
Laurine
annuì, piangendo. Sherlock, sconfitto,
ritrasse la mano. La donna gli porse la sua, con un bagliore di
gratitudine
annidato nello sguardo.
“Grazie,
signor Holmes.”
Sherlock
ricambiò la stretta, volgendo
gli occhi verso l’ampia vetrata del locale che dava sulla
strada. Doveva essere
molto tardi. Iniziava a nevicare. Sorrise con tristezza remota.
“Buon
Natale, Laurine.”
Rientrò
dopo qualche ora. La notte era
profonda, scura, sbiancata dalla neve farinosa: entrò
nell’appartamento
pensando freneticamente, nonostante l’ora tarda, allo scambio
avuto con
Laurine, rimproverandosi aspramente per
l’irrazionalità sgradevolmente emotiva con
la quale aveva condotto il colloquio. Che mi sta succedendo? Si chiese.
Non ho
mai avuto in simpatia le festività, né le donne
che piangono. Ciononostante,
quanto mi ha suggerito potrebbe essere fondamentale. Avvelenamento,
molto
poetico, molto femminile. Movente passionale, il cerchio si
chiuderebbe. Per ora,
in ogni caso, questa donna ha le fattezze di un fantasma, considerando
che non
ha lasciato tracce di alcun tipo. Dovrò esaminare
personalmente tutti gli
effetti personali e i documenti di padre Jonathan…
“Signor
Holmes?”, la voce,
sgradevolmente familiare, alterò per un attimo il delicato
equilibrio dei suoi
pensieri.
“Cosa?”,
sbottò in risposta. Helvia,
orrendamente seduta nella poltrona di John, – la poltrona di
John! – si alzò
con aria colpevole, come se sapesse. Senza la felpa e i jeans
strappati, senza trucco
e piercing, infagottata in un anonimo pigiama di flanella, sembrava
ancora più
insignificante della prima volta in cui Sherlock l’aveva
vista.
“L’ho
aspettata per chiederle scusa”,
sussurrò la ragazza, torcendosi le mani. “Per
essere piombata in questo modo in
casa sua, senza preavviso… Sono a Londra solo da qualche
mese e avevo bisogno
di un posto dove stare per poter proseguire gli studi…
Martha è stata così
gentile da offrirmi questa soluzione per qualche mese, prima che io
trovi una
casa mia…”
Sherlock
sollevò una mano per
interromperla. “Potremmo andare avanti per tutta la notte in
questo modo, ed è
l’ultima cosa che desidero al mondo”, disse con
voce neutra. “La sua camera da
letto è al piano di sopra, come già sa,
considerando che durante la mia assenza
ha già sistemato le sue cose.” Si voltò
per andarsene.
“Mi
dispiace, signor Holmes”, rispose
Helvia in un bisbiglio triste che per un momento lo raggelò,
pur continuando a
dirigersi verso la sua stanza. “Mi dispiace per
tutto.”
Sherlock non
rispose. Continuò a
camminare come se nulla fosse e si chiuse la porta alle spalle,
chiudendo gli
occhi per un secondo. Il telefono, con un suono di cuore spezzato,
vibrò appena
nella tasca del cappotto. Un messaggio. Di John.
Sherlock dovette sedersi, il sistema
cardiocircolatorio in cortocircuito, le
mani sudate, la pelle sbiancata dalla paura, dall’emozione.
Io non ho emozioni,
si disse seccamente,
prima di ricadere nel deliquio. Il mio cuore, le mie vene. La notte
fuori dalla
finestra sembrava perfetta per accogliere il suo dolore, la sua
disperata
speranza, la sua vulnerabile, tenera dolcezza, la stessa che gli si
sprigionò
nelle viscere come un manto di velluto e seta dopo aver letto il testo
del
messaggio. Rimase a fissarlo per altro tempo, incalcolabile,
già dimentico di
qualsiasi cosa – Reichenbach, la rabbia, il matrimonio, la
solitudine, il
sacerdote, il palazzo mentale invaso d’acqua, dalle
fondamenta esili, debole,
il pianto di Laurine, il dolore di Laurine, così
insopportabilmente
rassomigliante al proprio.
Scusa
se non sono riuscito a passare.
Ho
avuto un po’ di problemi da risolvere.
Spero
tu stia bene.
Buon
Natale, Sherlock, a presto.
John
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Capitolo 5 *** Cuore di violino ***
Il campanello
suonò due volte. Sherlock
era già in piedi, vestito di tutto punto, lo sguardo puntato
sui documenti del
sacerdote che un riluttante Lestrade gli aveva fatto pervenire in
mattinata.
Due volte. Anomalo, insolito, improbabile. Sherlock lasciò
vagare
distrattamente lo sguardo sulle carte, sbuffando appena. Pensa, pensa.
Nessuna
citazione, nessun riferimento, se non qualche rigo ambiguo nel quaderno
personale, composto con una grafia talmente contorta da risultare quasi
indecifrabile. L’inibizione sessuale che trasudano questi
scritti è talmente
palese da farmi torcere lo stomaco dal disgusto. La banalità
di questa vita è
palpabile. Inibito e banale: un connubio insopportabile.
Fatture, carte di
poco conto. Davvero un
uomo pulito, anonimo, insignificante. Perché farlo fuori? E
in modo tanto
atroce, per giunta.
Con una smorfia di
disappunto, Sherlock
riprese il quaderno dalla copertina nera tra le mani. La chiave del
mistero, a
quanto pare, è tutta celata qui dentro. Dovrò
passare al vaglio racconti di
giornate interminabili, riflessioni sulle Scritture, brevi annotazioni
sui
membri del coro – un possibile cantore, ulteriori
connessioni? Noioso. Odioso.
Sconfortante. E Laurine Gerthard? Nemmeno un riferimento?
Che senso ha
annotare minuziosamente
tutto quello che succede? Perché non immagazzinare,
semplicemente, tutto nel
proprio database cerebrale? Ognuno di noi ne possiede uno, pressappoco
con
simili potenzialità: se solo tutti sapessero usarlo con la
mia stessa
efficienza, il mondo sarebbe un posto migliore.
Il cigolio remoto
della porta
d’ingresso. Un suono sospeso, infinitesimo.
In ogni caso,
quest’uomo non doveva
avere granché da fare nelle sue giornate. Il tedio della sua
esistenza è
talmente intenso da risultare osceno. Persino la sua fede –
ma del resto, cosa
posso saperne io? – appare opaca, viziata, come un vetro
cosparso di ditate.
La carta di questo
quaderno è di pessima
qualità. L’inchiostro della sua penna è
vago, sbiadente, contenuto in una
cartuccia da pochi penny. Castità, umiltà,
povertà… non è così?
– ma qui si
esagera un tantino.
Esclamazioni di
contentezza di Mrs.
Hudson.
Osceno.
È la parola giusta.
Cosa diavolo starnazza quell’impossibile
donna? E dov’è finito il mio tè?
“Come sei
dimagrito! Il matrimonio ti
dona, non è vero?”
Il muscolo cardiaco
non può cedere a suo
piacimento, a meno che non ci si trovi in particolari condizioni di
scompenso o
di patologia conclamata. Di per sé, è normalmente
trattenuto dalle sue sierose
e dai suoi stessi fremiti instabili. Non è vero, consulente
investigativo?
“Te lo
garantisco, invece!”, cinguettò
Mrs. Hudson in risposta a qualcosa che il proprio interlocutore
– un
interlocutore familiare, sposato da poco, evidentemente giovane a
giudicare dal
passo elastico, atletico, conosciuto, adorato – aveva
proferito e il cui suono
non aveva raggiunto l’appartamento situato al piano superiore.
Sherlock non aveva
mai prestato
particolare attenzione alle istanze del proprio corpo, avendolo sempre
reputato
una sorta di involucro vuoto, finalizzato esclusivamente alla custodia
e alla
protezione del proprio granitico intelletto. Senza rendersi conto di
come
potesse essere accaduto, si ritrovò in piedi, ansante,
fremendo, vagando come
impazzito per il salotto. Scendo, si disse. Scendo e lo ammazzo. No,
no, no,
no! Lo aspetto qui, acquattato. Un predatore in attesa della sua
vittima. Lo
circondo con le braccia, il tempo necessario per confonderlo, e poi lo
stordisco con un pugno. I suoi passi erano sempre più
concitati, i suoi occhi
saettavano follemente dal muro al tavolino, dal tavolino al pavimento,
dal pavimento
alla porta, dalla porta alla finestra, in modo talmente sconnesso da
lasciare
intuire il caos frenetico esploso nella sua testa.
Non puoi
pensare così, chiarì l’eco di una voce
inquisitoria, la quale giunse ovattata,
come da dietro una porta chiusa. Sherlock, ringhiando,
visualizzò lo studio del
fratello, illuminato dalla luce sterile che filtrava attraverso le
eleganti
tende, udì il frusciare detestabile di granelli di zucchero
fendenti la
superficie ambrata del tè contenuto in una fragile tazza di
porcellana bianca. Sentì con
dolore l’odioso, ovattato,
acquatico rimestare di un cucchiaino al suo interno. Il liquido era
troppo,
pensò, pur non vedendolo: avrebbe raggiunto facilmente il
bordo della tazza.
Taci, Mycroft, per l’amor del cielo. Fratellino, sei
scomparso per due anni
senza lasciare traccia, lasciando il tuo partner nel lutto e nella
sofferenza.
Lasciagli riprendere ciò che gli spetta di
diritto… Il tè traboccò. Rivoli
color paglierino si raccolsero nel cerchio del piattino dai bordi
dorati.
Non è il
mio partner, replicò Sherlock
con un sibilo. Sapevo che il tè sarebbe traboccato. Sei un
idiota, Mycroft. La
porta cigolò delicatamente. Il cuore di Sherlock ebbe un
sobbalzo. Salì sul
tavolino, calpestando le carte del sacerdote ammonticchiatevi sopra.
Non è il
mio partner, non è il mio partner, non è il mio
partner, non è…
“È
un brutto momento?”, chiese una voce
con gentilezza.
Sherlock
sbiancò in volto, sgranando gli
occhi. Attese un istante prima di volgersi verso l’uscio,
fingendo di esaminare
un post-it appiccicato sulla parete all’altezza del proprio
sguardo chissà
quanto tempo prima.
Inspirò
lentamente. “Pessimo”, dichiarò
freddamente. “Il peggiore tra i peggiori.” Era
ancora di profilo, lo sguardo
glaciale e disperato puntato sulla carta da parati.
Gli
sembrò di percepire un sorriso in
risposta. “Sono contento anche io di vederti,
Sherlock.”
Sherlock
sbuffò. “Contento”,
pronunciò con sprezzo. Discese adagio dal tavolino e
sogguardò John per un istante, prima di dargli le spalle e
dirigersi verso la
piccola scrivania. Finzione, finzione, pensò con disgusto.
Sono la grottesca
pantomima di me stesso.
Avvertì
John sospirare. “Se ti sto
disturbando, posso ripassare un altro giorno.”
“No.”
Temette di aver alzato troppo la
voce. L’espressione vacua di John glielo confermò.
Per l’amor del cielo, non
arrossire. “Resta pure.” Resta, John.
“Accomodati.”
John si
schiarì la voce. “Ti ringrazio.”
Sherlock aveva
fatto tutto ciò che gli
era stato possibile per rimandare il momento in cui avrebbe nuovamente
posato davvero gli occhi su John.
Il periodo di
lontananza prima di quell’incontro era stato esiguo,
– qualsiasi frangente di
tempo è minimo rispetto all’eternità
scintillante della solitudine –
ciononostante Sherlock temeva, nel cuore del suo cuore, che John
potesse essere
cambiato a tal punto da divenire irriconoscibile agli occhi di chi ne
conosceva
ogni più recondito ed impenetrabile segreto, esposto in
piena luce sulla pelle
chiara. Tuttavia, quando posò gli occhi sul suo volto, sulle
sue mani, sulle
pieghe della camicia, sul cavallo dei pantaloni, si rese conto con un
fremito di
disperato riconoscimento che John era sempre John, anzi, che era
più John che
mai, con i capelli tagliati corti, la barba di due giorni e le borse
sotto gli
occhi chiari, schietti, onesti; John con i lacci della scarpa destra
appena
allentati, con i jeans scuri e le unghie rotonde tagliate corte; John
appena
più magro, più smunto, apparentemente
più infelice – il matrimonio, davvero, non ha poi tutti questi benefici
–. John
con la fede al dito, più lontano, più
irraggiungibile che mai.
Sherlock, con
incuriosito dolore, si
rese conto di non essersi mai sentito così prima di allora.
John era di nuovo
lì, la sua fisicità affondata nella poltrona, lo
sguardo quieto e affettuoso
posato su di lui, somigliante in tutto e per tutto a una lieve farfalla
dalle
ali variopinte adagiata inconsapevolmente sul tronco di una vecchia,
dura
quercia secolare… Una bolla tumida, gonfia di appassionata
nostalgia, prese a crescere
nel petto di Sherlock. La sua mente, snello, filiforme segugio,
cominciò a
inseguire immagini impossibili. Le mani gli tremavano.
Fratellino… controllo.
Sta’ zitto, Mycroft. Afferrò il violino posato
accanto alla propria poltrona e
cominciò a pizzicarne con forza le corde. John sorrideva,
consapevole di tutto
e di niente.
“Un nuovo
caso?”
“Sì,
nuovo.”
Il violino gemeva,
offeso e rassegnato.
“Di cosa
si tratta?”
Vuoi davvero
parlare di questo, John?
“Sacerdote.
Atrocemente avvelenato.”
“Sacerdote?
Avvelenato?”
“Atrocemente,
John.”
“Caspita.”
“Tu?”
“Io,
cosa?”
“Come…”,
Sherlock incespicò mentre
parlava. Ho la bocca dannatamente asciutta, maledizione.
Osservò per un istante
la tastiera del violino, e la sua mano si allontanò dalle
corde. Sentì lo
strumento tirare, per un
istante, un sospiro di sollievo. Premette con forza un dito
sull’intarsio del
ricciolo. Dove diavolo è Mrs. Hudson quando serve?
“Come stai?”.
Un velo
andò a oscurare lo sguardo di
John. Sospirò impercettibilmente, ma quando levò
il viso verso di lui, la sua
espressione era forzatamente cordiale. “Sto bene”,
rispose. “La vita coniugale
è…”
Sherlock distese le
labbra in un sorriso
a trentadue denti. Sta bluffando, pensò. Posso farlo anche
io.
“Assai
appagante”, proseguiva John,
ignaro di tutto. “Mary è molto, molto
cara.” Diede un colpetto di tosse, tentò
di schiarirsi la voce arrochita. Riprovò con maggiore
successo. “Tutto sommato
noi… stiamo molto bene, sì.”
Si guardarono per
un istante. Sherlock
sollevò un sopracciglio.
“E
tu?”, chiese John con forzata
allegria, spezzando il silenzio. Sherlock si rese conto di non averne
realmente
soppesato la profondità e il volume sino a quando John non
lo aveva interrotto,
forse di proposito, forse perché era tanto squamoso,
invadente, colmo di
significati inespressi da risultare intollerabile. Quel pensiero lo
turbò.
“Io,
cosa?”, chiese con malgarbo.
“Anche tu
non te la passi tanto male,
vedo”, commentò John con un lieve sorriso.
“Mrs. Hudson mi ha detto che hai una
nuova amica.”
Sconcerto.
“Se Mrs. Hudson si riferisce
alla rifugiata in calzamaglia venuta ad occupare abusivamente il tuo
posto,
John, direi che potremmo attribuirle gli appellativi più
disparati, ma nessuno
tra questi sarebbe per me più offensivo quanto quello che
hai appena usato tu.”
Fu la gelida replica.
John
roteò gli occhi, divertito. “Ah,
già. Dimenticavo che tu sei Sherlock Holmes,
l’uomo senza amici. Neanche per
sbaglio.” Lo guardò con una strana, inesprimibile
dolcezza negli occhi.
“Dovresti
dire: l’uomo con un solo
amico…” cominciò Sherlock, la bocca
arida. Dovette fermarsi. Un solo, vero
compagno di vita.
John volse lo
sguardo attorno a sé,
schiarendosi la voce, ma Sherlock percepì che aveva capito,
che taceva solo per
impedire che accadesse l’inimmaginabile. John, tu non hai
idea di come sia, gli
disse silenziosamente, sentire tutto, vedere tutto, sapere tutto. Hai
cambiato
bagnoschiuma: questo ha delle note floreali vagamente disturbanti. Un
regalo di
Mary? E la barba? I baci ispidi ora sono più graditi? O
forse no? Forse dormi
sul divano? Per terra? O vieni da una nottata di sfrenati amplessi,
tanti e
tali da lasciarti quelle spaventose occhiaie? I miei pugni stretti in
grembo. Una
serpeggiante, strisciante paura, frammista a orgoglio, gelosia,
emozione,
passionalità. Nostalgia. Oh, John, non riesco più
a leggerti. Pochi mesi di
distanza, la tua destra unita alla destra di un’altra donna,
e ti ho perso per
sempre. Ma il tuo tatto, il tuo odore… sono così
sterili, così impersonali. Hai
cancellato ogni traccia? Per me? O, semplicemente, non ho tracce da
seguire?
Con orrore,
udì John dire: “Bene, sarà
meglio che vada. Devo andare in ambulatorio.”
Un’occhiata all’orologio, una
mano tesa a stirare le pieghe della camicia. Con un movimento fluido,
snello,
John si alzò. “È
stato…” si schiarì nuovamente la voce,
“è stato un piacere
rivederti, Sherlock. Se dovessi avere bisogno di qualcosa…
di qualsiasi cosa…
conta pure su di me.”
“Certo”,
bisbigliò Sherlock, intontito
dal dolore.
“Ah, e
tienimi aggiornato sul caso del
sacerdote. Sembra… promettente.”
“Puoi
venire ad aiutarmi quando vuoi. Questa
è casa tua, John”, mormorò Sherlock.
“Ricordalo.”
John lo
guardò. Sherlock temette di non
riuscire più a contenersi, ma non poté fare a
meno di soffermare i propri occhi
in quelli dell’uomo che aveva di fronte. Un uomo giovane,
sposato, un corpo di
carne, ossa e cartilagini, come il proprio. Un corpo colmo di segreti,
di
pensieri, di specchi d’acqua profonda, di cancelli dorati, di
giardini al
crepuscolo… Sherlock avvertì una fitta di
rimpianto.
Si osservarono a
lungo, intensamente.
John fece un passo.
Uno solo. Mosse con
delicatezza il piede sinistro, flettendo il ginocchio, il suo tronco
s’inclinò
appena, i suoi occhi vagamente velati saettarono dagli occhi alle
labbra di
Sherlock. Erano umidi, torbidi, colmi d’un tremito infinito,
sospeso,
indecifrabile. Nessuno mi ha mai guardato così,
pensò Sherlock per un luminoso
istante. Trattenne il respiro, temendo di tramutarsi in cenere.
Qualsiasi cosa
faccia, si disse, è la cosa giusta.
John si
fermò. Il suo sguardo opaco
sembrò schiarirsi d’incanto. Osservò
Sherlock con sguardo nuovo, lontano, lo
sguardo di un uomo sposato, poi distese le labbra in un sorriso timido,
di
scusa, e bisbigliò con voce arrochita, senza più
tentare di schiarirla: “Ci
vediamo.”
Sherlock non
rispose. Vide John
voltargli le spalle, raggiungere con ritrovato vigore la porta,
aprirla,
uscire, richiuderla con delicatezza, senza guardarlo, senza aggiungere
altro. Udì
i suoi passi giù per la scale, lenti, misurati, eppure
abitati da una certa
frenesia remota, insondabile, inesprimibile. Desiderò di
averlo accompagnato
sulla soglia, di avergli fatto sbattere la porta alle spalle tanto da
far
vibrare i cardini, e una nuova frustrazione, simile ad incendio
liquido, lo
pervase sino alle più delicate fibre del corpo. Si rese
conto, con l’illuminazione
selvaggia delle grandi idee e delle più triviali passioni,
che John aveva
concentrato la sua presenza particellare in un solo punto della stanza:
e che
quel luogo era tanto più prezioso da frugare quanto
più l’essenza di John
sbiadiva con il trascorrere dei minuti. Con un salto animalesco,
Sherlock si
annidò sulla poltrona dove, fino a pochi istanti prima, John
si era accomodato,
facendo dondolare la gamba destra, passandosi una mano tra i capelli,
schiarendosi senza successo la voce. Con furia cieca di avvoltoio,
completamente
umana, Sherlock aspirò con violenza l’aria
circostante, tentando di catturare
ogni molecola di anidride carbonica che John aveva espirato nel suo
breve
soggiorno in salotto. Le mani tremanti del consulente investigativo
tastarono
disperatamente il sedile della poltrona, come se il suo tatto
infallibile
potesse ghermire il calore delle natiche e delle cosce di John,
lì dove erano
affondate nel tessuto dozzinale a fiori del rivestimento. Furioso,
Sherlock si
tirò su. Accecato, prostrato, si diresse verso la propria
poltrona, afferrò il
violino, il quale tremava – ne era certo – di
disperata paura, e cadde in
ginocchio sul pavimento, distendendosi con lentezza, le dita
implacabili pronte
a maltrattare nuovamente il suo strumento, il suo cuore. Sono un
miserabile,
pensò. Non posso darti torto, fratellino,
commentò Mycroft serafico, versando
un altro cucchiaino di zucchero nella tazza di tè.
Mille
scuse per il prolungato silenzio! Come sempre desidero ringraziare dal
profondo
del cuore chi legge e recensisce, in particolare emerenziano e
comeseiqui. Presto
aggiornerò anche “Il corpo di chi ti
ama”.
A
prestissimo,
Denirose
(da oggi Dolores Haze)
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