Jiyu no tsubasa

di dimest
(/viewuser.php?uid=711924)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** Capitolo 01 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 02 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 03 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 04 ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


Introduzione

 
Viviamo in un’era in cui non esistono mostri, né Re o Regine, dove la democrazia e la Repubblica sono state spazzate via da un’economia liberista e la nostra quotidianità è stata posseduta dall’etica del lavoro: se non lavori, non puoi considerarti parte di questa società.
A scuola ci insegnano come amministrare il nostro futuro seguendo l’esempio dei più noti imprenditori. Non esiste, oramai, azienda che non sia stata “accolta” da qualche grande impresa o non abbia subito il suo influsso.
Lo Stato che ci governa e che abbiamo scelto, non appartiene né a se stesso né a noi cittadini da troppo tempo, l’economia l’ha inglobato e l’ha reso succube di quest’ondata di denaro. Per chi vive in questo Paese, non c’è via di fuga; le frontiere sono state chiuse per evitare uno scambio d’idee, informazioni o solo di persone. Siamo prigionieri della nostra nazione.
Non si sa come tutto ciò sia iniziato, ha preso piede pian piano e ci siamo ritrovati ben presto separati dal resto del mondo. Non c’è libertà di parola, non c’è libertà di stampa; ogni informazione è boicottata da questi Titani dello Stato e la gente ne ha paura. Una fottuta paura.
Su scala generale la nostra situazione assomiglia a quella medioevale: i Titani governano le città e, più ci si allontana dal fulcro di quest’ultime, più vi sono povertà e desolazione. Sembra di essere stati rinchiusi in grosse e spesse mura, dove, ognuna di queste, suddivide la popolazione in base alla loro classe sociale: i non lavoratori, o coloro che si ritrovano a dover lavorare come dipendenti, sono situati all’interno dell’ultimo anello di mura, quello di confine tra una città e l’altra; al secondo anello stanno i piccoli imprenditori, gli artigiani o chi comunque possiede ancora una piccola attività; al centro abitano i benestanti, chi non ha bisogno di lavorare perché vive del lavoro degli altri, da qui possono tenere sotto controllo l’intero sistema perché è lì che sorgono i più importanti centri pubblici.
Le autorità pubbliche sono ovviamente a disposizione di questi magnati, ed il mercato di esportazione è effettuato segretamente per evitare scambi clandestini.
Queste mura sono visibili grazie alla differente tipologia di abitazione ed ai diversi modi di vivere. Non tutti possono permettersi di acquistare una casa singola, i più hanno appartamenti o stanze in grossi condomini.
Abbiamo internet, acqua corrente, elettricità e un’efficiente rete di comunicazione, eppure ci sentiamo come se non avessimo nulla di nostro. La libertà che crediamo di possedere è solo un'illusione; viviamo nella mera convinzione che le nostre decisioni possano influenzare il nostro futuro, che sia ancora l’amore e l’onestà, la moneta della nostra esistenza, nonostante la corruzione e la disperazione ci camminino a fianco.
Da qualche tempo però la speranza si sta ridestando in tutti noi: sogniamo un domani migliore, di vedere la nostra attuale società cadere per ricostruirla più democraticamente, in cui i nostri diritti siano tutelati in maniera equa senza distinzione di classe. Questo è possibile solo grazie a chi non si è piegato di fronte alla terribile realtà di cui siamo vittime, loro che combattono contro questi Titani dell’economia, loro che sono comparati a Robin Hood della nostra epoca (e mi vien da sorridere ogni volta in cui lo leggo o lo odo); loro che si fanno chiamare “jiyu no tsubasa”, le “ali della libertà”.



 

Note autore:
Salve a tutti e grazie per essere arrivati fin qui a leggere le note.
Ho voluto iniziare la storia con questa introduzione per rendere più comprensibile lo svolgimento della trama.
Mi scuso per eventuali errori di distrazione e/o (spero proprio di no) grammatica.
Per il momento la storia non ha scene esplicite di lotta, ma solo vaghi riferimenti, e per questo ho messo ugualmente il genere "Dark" e "Contenuti forti" negli avvertimenti. Nel qual caso dovessero esserci problemi fatemelo sapere.
Vi ringrazio ancora per la lettura, spero di avervi incuriositi e che continuerete a leggere questa storia.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 01 ***


Capitolo 01

 
< Eren. >
Dal tono di voce assunto non deve essere la prima volta che mi chiama, tuttavia scelgo ugualmente di ignorarla. Non ho né la voglia né le forze sufficienti per sopportare un’altra splendida giornata, figuriamoci ascoltare rimproveri di cui non mi curo affatto, specialmente se la scorsa notte sono rimasto sveglio fino a tardi.
< Eren. > chiama nuovamente Mikasa, assestandomi una gomitata al braccio.
< Che vuoi Mikasa? > le domando con fare scocciato, stringendomi nell’abbraccio del mio caldo cappotto.
< Siamo quasi arrivati. > m’informa lei, guardandomi apprensiva.
Apro di malavoglia gli occhi, mettendoci qualche secondo ad abituarmi alla luce grigia del mattino mischiata a quella elettrica del treno e sbadigliando rumorosamente, lisciandomi i ciuffi ribelli sulla nuca ed ignorando totalmente di essere in un luogo pubblico ed affollato. La metro non è certo un posto salubre, e le persone a me intorno non sono certo più sveglie di me, ma rimane comunque maleducato mostrarsi così rilassati. Infatti, la signora di fronte a me schiocca la lingua, riservandomi un’occhiata di puro disappunto. Alzo le spalle: cavoli suoi.
< Sei rimasto nuovamente alzato fino a tardi? > domanda la mia amica, continuando a fissarmi.
Annuisco distrattamente, poi infilo l’i-pod nella tasca dello zaino e mi alzo, deciso a stroncare il discorso sul nascere. Non è una novità che rimanessi sveglio fino ad orari impossibili, talvolta facevo anche qualche nottata in bianco; succede da qualche anno a questa parte e Mikasa avrebbe dovuto farci l’abitudine…
< Sai che dovresti riposare di più o finirai per collassare, e non ti aiuta dormire durante le lezioni. >
… O quasi.
Grugnisco sollevando gli occhi al cielo e reprimendo la voglia di rigettarle in faccia tutto ciò che mi sta passando in testa, ma decido di ignorarla ancora una volta: non mi va di iniziare una discussione di mattina presto, finirei sicuramente per esagerare, poiché non sono abbastanza lucido da ponderare le parole; non che da “sveglio” riesca sempre a regolarmi.
La voce metallica risuona per tutto il vagone, annunciando l’immediata fermata ed avvertendoci dell’aprirsi delle porte alla nostra sinistra. Una moltitudine di gente, studenti ed operai seguiti da qualche sorvegliante, si riversa fuori sul pianerottolo ghiacciato, dove altri attendendo di salire. Il respiro mi si condensa ancora prima di poter mettere un piede fuori dal vagone, l’aria gelida m’investe il viso con una prepotenza tale da costringermi a rintanare il viso nel colletto del cappotto, scacciando gran parte della stanchezza. Non devo attendere molto prima di ricongiungermi con Mikasa, dopodiché ci avviamo verso il piazzale 104 dove, ad attenderci, c’è già la maggior parte della nostra compagnia. Pochi minuti dobbiamo aspettare affinché anche Ymir con Christa, Annie con Berthold e Reiner ci raggiungano.

Nel tragitto verso la scuola ascolto poco e nulla della conversazione: Armin si riferisce ad un compito in classe, Ymir, con un braccio a circondare le piccole spalle di Christa, sorride sorniona assicurandosi l’eterno aiuto della ragazza, Jean, invece, continua ad imprecare a denti stretti mentre Marco tenta inutilmente di calmarlo. Solita routine.
Poi, all’improvviso, urto qualcosa con il braccio e la botta è sufficiente a riportarmi alla realtà; mi volto con cipiglio stizzito, già pronto a rimproverare l’idiota che mi ha accidentalmente colpito, ma prima di poter aprire bocca, lo sguardo fermo del ragazzo mi paralizza sul posto. C’è qualcosa di brutalmente magnetico nei suoi occhi grigi e nell’espressione quasi assente; restiamo a fissarci pochi istanti, infine lui procede senza scusarsi o proferendo parola. Continuo ad osservarlo fin quando non lo vedo svoltare l’angolo, seguito da altri quattro ragazzi della sua (probabile) stessa età. Sembravano avere venti anni o poco meno, l’abbigliamento era simile a quello di qualsiasi altro studente eppure non avevano zaini con loro e non si stavano dirigendo verso alcun luogo che, solitamente, frequentavamo noi. Scarto subito l’idea dell’università giacché il campus si trova in tutt’altra prefettura e gli studenti alloggiano nei dintorni per evitare i mezzi di trasporto.

< Eren? > la voce di Mikasa mi distoglie da futili pensieri. Alla fine poco importa chi fossero e da dove venissero. Probabilmente li avrei incrociati ancora con indosso un cartellino da operaio, cosa comune di questi tempi.
Lascio andare un sospiro e mi affretto a raggiungere il mio gruppo, nel petto sento espandersi una strana ma piacevole eccitazione, come se mi trovassi di fronte ad una sorta di cambiamento nella mia monotona vita.

 

Alla fine la novità che avrebbe dovuto dare una svolta alla quotidianità si è rivelato essere il compito in classe di matematica che avevo totalmente rimosso; dunque stamattina Armin si riferiva a questo test, e meno male lo avevo come vicino di banco, almeno ora posso sperare di aver preso un cinque anziché un tre.
Sbatto la testa sul banco non appena la professoressa esce dall’aula e gli studenti si alzano dai loro posti cominciando a chiacchierare animatamente tra loro.
< Come vi è andata? > domanda Marco, spostandosi verso di noi.
< Al solito temo. > rispondo con una punta di frustrazione e nessuna voglia di alzare la testa. Armin si limita ad un abbreviativo “bene” prima di confrontarsi sulle varie risposte del compito.
Mi dissocio dalla discussione.
Ogni volta mi prometto di impegnarmi maggiormente nello studio, di fare qualche esercizio per conto mio, e puntualmente finisco per scordarmi l’effettiva data della verifica nonostante sapessi bene di averne fissata una al mese per tutto il periodo scolastico.
< In parole semplici ha risolto sì e no un esercizio. > ironizza Jean, appoggiandosi a Marco.
< Duole dirtelo ma ne ho completati correttamente quattro… Gli altri sono da verificare, ma ho sicuramente fatto meglio di te. > rimbecco con tono arrabbiato, alzando lo sguardo dal banco.
< E chi ti dice che io ne abbia risolto bene così pochi, Jeager? >
< Perc- >
Il frastuono di un’esplosione a pochi metri dalla scuola distoglie l’attenzione di tutti da qualsiasi attività stessero facendo. Dopo i primi attimi di smarrimento, ci accalchiamo ai vetri delle finestre per scorgere cosa realmente stia succedendo, ma gli alti edifici che si frappongono tra noi e le industrie, dove probabilmente si è scatenato l’incidente, ci impediscono di vedere. Il fumo si eleva alto e tutt’attorno si è addensata come una nuvola rossastra a coprire la zona circostante. Nell’aula alcune mie compagne squittiscono di paura, altri invece formulano varie ipotesi sull’accaduto mentre continuano a sollevarsi sulle punte dei piedi, tentando di intravedere tratti del paesaggio.
< È qui… La Ribellione. > sussurro, fremente di eccitazione.
Lo so… Non posso sbagliarmi. Tutti sanno quanto siano sicure le industrie, gli imprenditori vi danno un’eccessiva importanza perché questo possa essere classificato come un comune incidente; qualcuno deve per forza averle danneggiate.
Armin sgrana gli occhi, Mikasa invece mi afferra immediatamente il braccio intuendo le mie intenzioni. Mi conosce troppo bene.
< Eren? >
Non la sento: la sua voce, la sua stretta… nulla.
Non sento nessuno a parte il sangue ribollirmi nelle vene ed il cuore pompare più velocemente del solito.
Con un gesto veloce mi libero della sua presa e corro velocemente attraverso il corridoio, giù per le scale, fino al cancello della scuola. Attorno a me ci sono altri studenti che, presi dal panico, cercano di fuggire da una parte all’altra; gli insegnanti ed i supervisori tentano di calmarli e fermarne quanti più possibile, io però sono troppo veloce per loro. Scavalco la cancellata con un balzo ed appena tocco il marciapiede dall’altra parte, mi dirigo velocemente verso il fumo. Devo arrivare là prima della polizia, prima delle autopompe, prima di qualsiasi altro, ma soprattutto prima che se ne vadano.
Scatto veloce per le vie del centro, senza fermarmi né rallentare; sono inarrestabile, come un lupo affamato che caccia la sua preda. Mikasa e gli altri probabilmente mi stanno seguendo.  

Più mi avvicino alle fabbriche, più le strade s’intasano.
La gente si riversa fuori dagli edifici per avvicinarsi al luogo e prestare i primi soccorsi, ben sapendo che chiunque fosse stato trovato nei paraggi dell’accaduto sarebbe stato arrestato, ma si può fermare chi vuole solo assicurarsi che i propri cari stiano bene e non siano feriti?
Nella calca, mentre sento spingere e tirare avanti ed indietro, intravedo il ragazzo di questa mattina, quello contro cui avevo sbattuto; lui si scorge a malapena, l’espressione imperscrutabile sul volto mezzo coperto dal cappuccio della felpa, cammina facendosi trasportare dalla folla che si allontanava dalle industrie, ma senza farsi sballottare.
Fifone.
È l’unico giudizio che possa esprimere nei suoi riguardi, eppure il suo non è lo sguardo di chi fugge per paura.
Fifone!
Mi ripeto: poco importa l’espressione sul suo viso o il suo atteggiamento fiero, sta solo evitando di prendersi una multa quando ci sono persone in difficoltà a meno di un centinaio di metri da noi.
Distolgo gli occhi e riprendo a correre.
Quando finalmente riesco ad arrivare sul luogo dell’esplosione, la polizia è già qui assieme ai pompieri ed ai paramedici. Le fiamme sono altissime, l’aria terribilmente calda ed irrespirabile per via delle polveri che ti penetrano nei polmoni; gli operai scampati alla morte siedono sul marciapiede fissando il vuoto, il viso annerito dalla cenere. Il loro è lo sguardo di chi crede di trovarsi in un incubo.
A terra vi è qualche telo bianco a ricoprire chi, invece, non ce l’ha fatta. Non rimango a fissarne i cadaveri bruciati o mezzi mutilati, è una scena di cui non voglio rammentarmi.
I poliziotti cercano di documentare l’accaduto con le poche prove che riescono a raccogliere, mentre radunano coloro che non sono né vittime né addetti alla sicurezza. Come se in questo caos generale possano ripristinare un po’ d’ordine. Qualcuno grida, invoca il nome di chi lavorava nell’edificio, piange… tuttavia il suono di questo macabro spettacolo sembra solo un fastidioso ronzio alle mie orecchie.
< No… mi sbagliavo. > mi ripeto nella testa. Non possono essere state le Ali della libertà a ridurre questo posto un ammasso di macerie.
Sento una mano artigliarmi il braccio e la voce di Mikasa chiamarmi con urgenza; nemmeno il suo familiare tono di voce riesce a distogliere il mio sguardo dalle fiamme. L’adrenalina in corpo scema in un istante ed il vuoto è riempito dalla bellezza di queste brutali lingue di morte. Il loro calore attecchisce sulla pelle, mi penetra dentro: è una sensazione nuova dovuta al fatto di non aver mai dovuto fare i conti con un pericolo (con un evento) simile.
Poi tratti di una conversazione tra due poliziotti riporta ogni cosa alla normalità, e la causa di questa tragedia raggiunge le mie orecchie ovattate, la prova che testimonia il vero colpevole dell’attentato: un funzionario del Governo è stato coinvolto nell’incendio. È stato dichiarato morto.

Le ali della libertà sono state qui, il funzionario deceduto è il loro marchio.
La consapevolezza di ciò mi attanaglia il petto, forte come un pugno in viso.
Ora ogni fibra del mio essere è impegnata a dare un significato al perché abbiano coinvolto anche gli operai.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 02 ***


Capitolo 02

 

Alla fine fui arrestato assieme a Mikasa ed Armin. Nulla che valga la pena essere raccontato con particolare enfasi; gli agenti ci avevano portato in centrale per interrogarci e quando verificarono che (effettivamente) eravamo studenti cui sarebbe stato impossibile compiere qualsiasi atto di tale intensità, i quali si erano avvicinati al luogo dell’esplosione solo per mera curiosità, ci rilasciarono immediatamente dopo svariate parole di rimprovero.
La scuola, invece, fu più inflessibile: ci sospesero per una settimana circa da tutte le attività a causa della fuga dall’istituto senza permesso scritto, in un momento di panico generale. Si aspettavano che gli studenti rimanessero calmi e pronti a rincuorare chi si era fatto prendere dall’ansia. Ovviamente giocava a nostro svantaggio di non aver parenti stretti alle dipendenze della fabbrica, altrimenti la pena sarebbe stata poche ore di punizione. Gli insegnanti si fingevano in parte delusi, la regola imponeva loro di essere severi con chi non si atteneva alle leggi della società nonostante si fossero anch’essi lasciati vincere dalla curiosità o dalla vigliaccheria; erano pur sempre umani e come tali erano incapaci di distinguere totalmente la figura dell’insegnante da uomo comune.
Armin e Mikasa, tuttavia, non mi accusarono di niente sebbene fossi io l’unico colpevole dei loro guai. D’altronde nemmeno io mi scusai: non trovavo le parole adeguate e l’imbarazzo mi chiudeva la gola; se non fossi stato così esageratamente entusiasta all’idea di poter assistere all’azione degli Jiyu no Tsubasa, di certo non avremmo avuto tutti questi grattacapi. 
Non che a qualcuno potesse importare: l’unica persona a me rimasta, dopo la sparizione di mio padre, è Mikasa, Armin invece convive con il nonno, un uomo talmente fiero del nipote da tralasciare quella serie spiacevole di eventi.
In questi giorni di sospensione, in cui dovremmo meditare sulle nostre sconsiderate azioni, mi siedo di fronte al computer alla ricerca di quante più informazioni possibili inerenti all’attentato.
I notiziari non hanno fatto altro che trasmettere immagini di parenti in lacrime mentre abbracciano i resti dei propri cari dal giorno dell’accaduto. Ricordo di aver visto l’immagine di una donna stringere al petto il braccio mutilato del figlio, il viso rigato di lacrime e l’espressione furiosa rivolta alla telecamera; eppure, sebbene la notizia usasse il suo sguardo come propaganda di accusa alla Ribellione, io avevo avuto l’impressione che tutto il suo odio fosse indirizzato allo Stato in generale.
La stampa liquidava il tutto compiangendo la scomparsa dell’illustre funzionario, evidenziandola rispetto al problema dei disoccupati, dei morti e feriti dell’azienda, esagerando la tragedia e rendendola più grave di quello che in realtà fosse. Anche i giornali equiparavano l’attentato della Ribellione ad una strage di poveri ed innocenti cittadini per le ragioni più stupide: cercavano di attirare l’attenzione della gente su questioni che li riguardavano da vicino, ma le vicende in cui si supponevano essere svolti i fatti non erano coerenti con la verità.
Ma l’esagerazione della tragedia non fu l’unico fattore per il quale la gente non incominciò ad odiare la Ribellione: pochi giorni dopo era stato fatto circolare un volantino in cui era riportato che il funzionario era un uomo di politica corrotto che viveva nel lusso sfrenato e che aveva appena rilevato l’azienda per tornaconto di qualche importante economista; nessun cittadino fu felice nell’apprendere questo fatto. In allegato vi erano anche delle scuse per tutte le vittime ed il dolore causato seguite dalla una quanto vaga spiegazione: avevano appiccato l’esplosione nell’ufficio dove si era tenuta la compravendita, ma l’incendio scaturito aveva danneggiato importanti cavi elettrici che influivano sulla catena di montaggio; i macchinari si erano arrestati di colpo e i più sensibili avevano ceduto, esplodendo a loro volta e coinvolgendo la struttura.
Dalla scuola, dunque, potemmo solo sentire il rumore creato dallo scoppio dei macchinari; anche se avessi noleggiato una bicicletta, dubito sarei riuscito a vedere qualche membro della Ribellione. La cosa mi sollevava da una parte e mi demoralizzava dall’altra: ero contento che non fosse stata loro spontanea volontà appiccare l’incendio che aveva coinvolto degli innocenti, ma ero deluso di non essere riuscito a prendere parte all’atto e, finalmente, entrare a far parte del gruppo delle “Ali della libertà”.
Volevo combattere anch’io, il mio spirito di adolescente fremeva per questo, desideravo ardentemente l’ondata di rivoluzione che avrebbe sconvolto il nostro piccolo mondo, portandoci ad un futuro migliore.
< Eren è pronta la colazione. > m’informa Mikasa entrando nella camera senza premunirsi di bussare.
< Mikasa! Quante volte ti devo dire di bussare? > strillo, alzandomi in piedi ed afferrando il primo paio di pantaloni che mi capita sotto mano.
< Hai di nuovo fatto nottata? > domanda lei per nulla imbarazzata nel vedermi con indosso solo l’intimo.
Grugnisco di disappunto. Ci sono cose immagino non cambieranno mai, Rivoluzioni o no; la sua estenuante preoccupazione nei miei confronti temo non se ne andrà nemmeno nel caso mi sposassi. La mia risposta non deve esserle bastata perché continuo a sentire il suo sguardo addosso mentre inciampo nei vestiti sporchi e nei fogli sparsi a terra; che rimanga ferma sullo stipite della porta nell’attesa di una parola o per il semplice divertimento di vedermi alle prese con il mio disordine, non mi sarà mai ben chiaro, e non m’interessa saperlo.
Finalmente fuori dalla palude che comunemente è denominata stanza, supero Mikasa senza degnarla di uno sguardo e mi appresto a raggiungere le scale.
< Eren? >
Mi blocco al limitare della rampa, mi volto per fronteggiarla, nella voce c’è una tonalità d’irritazione che non riesco a nascondere. < Che c’è? >
Lei solleva la sciarpa sul ponte del naso – la indossa fin da quando gliela regalai alla tenera età di cinque anni, dopo la morte dei suoi genitori, ancora mi chiedo come possa quel vecchio straccetto rosso aver resistito a tutte le intemperie del tempo – evita il mio sguardo per qualche secondo, poi mi fissa nuovamente negli occhi, sulle gote una leggera sfumatura rosata.
< Puzzi un po’. >

 


L’espulsione è terminata oggi e siamo stati costretti a rientrare a scuola. Come mi aspettavo, ogni professore che incrociamo nei corridoi non perde occasione per rammentarci il nostro indecoroso comportamento, a me rifilano qualche commento in più a causa della mia testa calda. Non posso dare torto a nessuno di loro: hanno ragione e basta, fingo non m’importi, e dopo un po’ smetto di prestare loro attenzione, anche se è stata un’impresa trattenere Mikasa dal ribattere.
In classe i compagni ci chiedono se abbiamo assistito all’azione degli Jiyu no Tsubasa o se li abbiamo incrociati per strada nella loro fuga, cosa ci hanno detto i poliziotti e com’era la centrale in cui ci avevano scortati; ci fanno domande anche sull’espulsione. Grazie al cielo Jean se ne esce con una delle sue solite borbottate pungenti, così ho una valida scusa per litigare e scaricare una gran parte di questa insopportabile frustrazione.

Nel pomeriggio ci aspettano dei compiti di punizione. Motivo? “Migliorano la condotta” hanno detto.
Dannati adulti.
Decido di fregarmene, Mikasa non ne è contenta, ma non fa nulla per fermarmi quando mi vede uscire da casa. Sa che ho bisogno di fare una passeggiata in momenti come questi, e anche se vorrebbe accompagnarmi, questa volta sceglie di lasciarmi solo. Le sono grato di tale comprensione.

In stazione sono poche le persone ad attendere il treno, e sono solo io a scendere nella città più vicina, gli altri passeggeri sono perlopiù operai alcuni dei quali scenderanno dal treno solo domattina, quando riprenderanno il turno di lavoro. Di questi tempi è facile trovare senzatetto nelle strade: molti preferiscono risparmiare il loro poco salario per acquistare poi una vera casa. Gli affitti costano troppo.

Basta passeggiare un poco e mi ritrovo già fuori dalla cittadina. I prati tutt’attorno mi regalano una fastidiosa sensazione di nostalgia che mi riscalda l’animo. Mia madre adorava portarmi qui in estate: amava i fiori ed il mio sorriso quando gliene portavo un mazzo, così diceva. Di quell’infanzia spensierata mi è rimasto solo il triste ricordo, la realtà è talmente diversa da fare male.
Mi siedo nello stesso luogo in cui soleva sedersi lei, la visuale inizia ad annebbiarsi e mi lascio travolgere dalle immagini di quei giorni lontani. Il paesaggio invernale aiuta a fondersi nell’illusione, il terreno arido e freddo rispecchia il me di adesso, in estate mi è impossibile farlo perché ripenso mia madre. La vedo attendermi tra le spighe di grano, un sorriso dolce ad illuminarle il viso mentre mi chiama a sé con la mano; e l’illusione lascia una malinconia tale da non rendere possibile far chiarezza tra i miei affollati pensieri.
Il cielo plumbeo prospetta pioggia e non so cosa mi spinga ad urlare a pieni polmoni. Stanchezza, frustrazione, dolore… Penso sia un misto di tutto questo.
< Smettila di urlare moccioso. > borbotta una voce maschile alle mie spalle.
M’irrigidisco di colpo e il mio viso si fa paonazzo per la vergogna. Non avevo visto arrivare nessuno, da dove diavolo sarà spuntato fuori?
Mi volto, già pronto a lagnare una serie di giustificazioni e scuse, ma la voce mi muore in gola non appena riconosco l’uomo di fronte a me e tutto l’imbarazzo sparisce di colpo.
< Senti chi parla. > bisbiglio e mi siedo nuovamente sul terreno ghiacciato.
Qualcosa lo urta nel mio atteggiamento e me ne accorgo solo grazie al calcio che mi riserva al braccio.
< Porta rispetto alle persone più grandi di te, un giorno di questi potresti ritrovarti senza l’uso di un arto se rispondi in questa maniera alle persone sbagliate. > espira quello, per nulla risentito dal colpo mortale inflittomi.

Mi stringo forte il braccio al petto: il colpo è stato così violento da indolenzire tutto dalla spalla in giù. Prendo fiato, grugnisco, le ossa mi sembrano come se si fossero spezzate, ma è solo una sensazione data dai nervi lesi perché riesco a muovere la mano. Mi rimarrà sicuramente un livido e continuerò a sentire il braccio intorpidito ancore per qualche giorno. Lo vedo allontanarsi e la rabbia prevale sul dolore. Artiglio il terreno, mi rialzo in piedi a fatica, il pugno levato in aria pronto ad assestarglielo in pieno viso e… non so come mi ritrovo a terra. Ora mi fa male ovunque.
< Nessuno ti ha mai insegnato che colpire da dietro le spalle è segno di vigliaccheria? Inoltre, ti consiglio di scegliere con più attenzione il tuo avversario la prossima volta, moccioso. > pronuncia l’uomo con indifferenza, proseguendo poi per la sua strada, passandomi a fianco come se non fosse accaduto nulla.

Mi sento sconfitto e umiliato e la rabbia è l’unica cosa che mi infiamma le vene. Ogni movimento reca una scossa di fastidio e non riesco a fare nulla se non starmene sdraiato a pancia in su, ringhiando l’ennesimo insulto. Ho sete di rivincita e farò di tutto per ottenerla.

 

Nei giorni seguenti all’accaduto ha piovuto; sarebbe stato davvero sciocco da parte mia buscarmi il raffreddore, quindi ho deciso di allenarmi seguendo vari tutorial in giro per internet nell’attesa che il tempo migliori. Mikasa da quel giorno ha preso a seguirmi ovunque, preoccupata che fossi oggetto di bullismo. Quella sera, appena misi piede in casa, mi sommerse di domande ed evitate in ogni modo possibile: il mio ego si rifiutava di esplicarle i fatti nudi e crudi, così la sua mente ha elaborato una propria teoria.

Il primo giorno di sole, esco da casa in gran fretta, lasciando un biglietto a Mikasa (in quel momento fuori a fare commissioni) in cui le dico dove vado. Spero non le venga la brillante idea di venirmi a cercare, non la voglio tra i piedi mentre combatto. Nel tragitto penso ad una serie di frasi ad effetto da dire non appena l’avrò atterrato mentre un sorriso beffardo mi increspa le labbra.

Mi adagio nello stesso punto della volta scorsa ed aspetto ansiosamente il suo arrivo, ma dopo un’ora di attesa finisco per addormentarmi. Non è la prima volta che accade, succede abbastanza spesso in realtà, in più oggi il sole regala un piacevole tepore che, nonostante il clima rigido, ti rilassa. All’improvviso una botta alla spalla mi sveglia, scatto in piedi guardandomi attorno con sguardo perso.
< Se vuoi morire fallo dove nessuno può vederti almeno. Eviti di peggiorarmi la giornata. > conosco questa voce e il suo tono serioso.
Infatti mi basta un attimo per mettere a fuoco due iridi fredde poco lontane dal viso.
< Tu! > gli urlo puntandogli contro il dito. < Sei impazzito? Non lo sai che svegliare una persona in questo modo può esserle fatale? > gli domando irritato.
< E a te non hanno mai detto che dormire con questo freddo può essere di gran lunga peggiore dell’essere svegliato a calci in culo? > chiede lui, con lo stesso sguardo vacuo.
Tutto di lui mi irrita, non c’è una singola parte in lui che riesca a sopportare: dal tono serio e canzonatorio alla capigliatura rasata sulla nuca con ciuffi neri ad incorniciargli il volto austero, dall’atteggiamento arrogante e cinico fino alle splendide iridi di ghiaccio… Aspetta… Che?
Scuoto la testa energicamente al solo scopo di schiarirmi le idee. Infine gli sferro un pugno in pieno viso che… non va a segno. Il nanerottolo si è spostato abbastanza velocemente da riuscire ad evitarlo, ma non mi faccio scoraggiare. Cerco di assestargli altri colpi, nessuno dei quali sembra colpirlo. Lui para ogni mia mossa con una maestria tale da rendermi folle. Inizio a non pensare ai colpi, tiro a caso e la mia furia non fa altro che indebolirmi. È facile atterrarmi ora e non serve molto affinché io mi ritrovi con il sedere a terra. Ho il fiatone, sono arrabbiato e testardo; così mi rialzo e parto nuovamente alla carica. Ci vogliono altre tre poderose cadute per farmi desistere. Non mi è rimasto un briciolo di forza comunque.
< Non male, te lo concedo, ma sei fin troppo avventato e questo ti penalizza. >
Lo guardo di sbieco, lui mi fissa, credo di aver visto un bagliore di divertimento mentre lottavamo, non ne sono completamente certo, così mi do dello stupido ed accantono il pensiero. Lui si siede al mio fianco, faccio lo stesso dopo aver ripreso un minimo di fiato.
< Come ti chiami? > gli domando calcolando il battito del mio cuore.
< E il tuo? > chiede lui di rimando.
< Le persone non ti hanno mai detto che non si risponde ad una domanda con un’altra domanda? >
< Non fare il saccente ora, moccioso. >

Restiamo in silenzio per quella che mi pare un’eternità. Il sole è ormai basso all’orizzonte; Mikasa sarà di certo tornata e sarà sicuramente impazzita dopo aver letto quel biglietto.
Sospiro. Tenterò di farmi perdonare cucinandole il curry, il suo piatto preferito.
< … Levi. > pronuncia finalmente l’uomo alla mia destra.
< Levi. Tutto qui? > sono confuso; solitamente ad un nome segue un cognome o viceversa.
< Fattelo bastare ragazzino. >
Soppeso la risposta prima di rivelargli il mio nome. Gli chiedo se è disposto ad allenarmi e lui mi risponde con un “vedremo” talmente secco da irritarmi. Si alza improvvisamente, io con lui; il sole è tramontato e dopo il sonnellino di oggi pomeriggio, meglio non restare troppo al freddo. Tremo appena e lui se ne accorge di sicuro perché mi consiglia di andarmene a casa a farmi un bagno bollente. Come se già non lo sapessi.

Ci separiamo così, con quel “a domani” silenzioso sospeso in aria.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 03 ***


Capitolo 03

 

Nei giorni a seguire, appena il tempo e gli impegni me lo permettono (oltre all’evitare Mikasa che, non so davvero come, sono riuscito a fare finora), esco da casa in gran fretta e raggiungo Levi.
Miglioro nel corpo a corpo, non abbastanza da riuscire a batterlo, ma sufficientemente da vincere sempre più spesso i litigi con Jean; talvolta, però, riesco anche a colpire il mio-alquanto-scontento-istruttore pentendomene l’attimo successivo quando mi atterra con assoluta brutalità.
Ho cominciato a collezionare una serie infinita di lividi che m’impediscono di dormire bene la notte ed eseguire correttamente alcuni movimenti senza grugnire per il fastidio, destando così tutta la materna (nonché assillante) preoccupazione di Mikasa.
Non mi curo granché di tutto ciò: ogni mio miglioramento è un passo verso la Ribellione e, mentre m’immergo nell’acqua calda gemendo per il dolore delle varie botte infieritemi questo pomeriggio, sorrido come un idiota al pensiero che il mio obiettivo diviene via via raggiungibile.

 


< Ricordatevi che lunedì effettueremo la visita alla Capitale. Raccomando a tutti voi massima puntualità alla stazione di Shiganshina, educazione e rispetto, specialmente alla presenza delle guide che ci accompagneranno alla fabbrica e alla sede della Wall Rose Co. Detto questo, passiamo ai compiti per la prossima settimana. > annuncia l’insegnante allo squillare della campana mentre scrive sulla lavagna una serie infinita di numeri, ognuno dei quali corrisponde ad un esercizio del quale non mi preoccupo di prendere nota.
Ogni anno propongono quest’insulsa gita alle ultime classi per mostrare a noi giovani e plasmabili menti come gira l’economia ed indurci a fare scelte necessarie alla società; come se le varie storielle di “come viviamo bene nel nostro piccolo e benestante mondo”, inculcateci fin dalla scuola primaria, non fossero state pienamente sufficienti.
Un mucchio di stronzate ovviamente: non basta puntare in alto, essere il migliore e mostrare costante impegno, ci vuole anche molta fortuna, agganci validi e una piccola somma di denaro per sperare di lavorare alla Capitale. Solitamente noi “fecce della società” possiamo solo aspirare al ruolo di direttore in piccole fabbriche all’interno della nostra cerchia di mura.
A ben capirci, non sono critico, descrivo solamente i fatti nudi e crudi di questa patetica realtà.
Ci portano a vedere luoghi di prestigio sapendo perfettamente che noi non potremo mai farne parte, accrescendo a dismisura l’odio verso i benestanti e l’ingente depressione nell’età adulta in cui vedremo sfumare i nostri sogni. Ecco un altro dei motivi per cui combatto contro questo marcio sistema capitalistico.

Sbircio la lavagna con fare annoiato continuando a masticare la penna e sorreggendomi la testa con il pugno: non ho voglia di prendere appunti, men che meno andare alla gita di lunedì. Potrei inventarmi una serie infinita di scuse o cercare di prendermi appositamente il raffreddore, ma so bene che la mia assenza sarebbe presa come un insulto personale al sistema gerarchico ed avrei problemi con la sicurezza per qualche mese. Sarei catalogato, infatti, come possibile membro degli Jiyu no Tsubasa solo perché “mi sono permesso di mancare ad un evento simile cui molte persone hanno dedicato tempo prezioso”. Certo: come se poltrire dietro ad una scrivania e firmare qualche pezzo di carta di tanto in tanto (poiché sono gli altri a svolgere il più del lavoro) fosse questo gran impegno. La paranoia è diventata comune sentimento tra i ceti prestigiosi, ognuno deve salvaguardarsi come può e quest’assurda caccia alle streghe è riportata in tutti i servizi quotidiani: basta un solo passo falso, una parola, un gesto fuori dall’ordinario per essere prontamente inserito nella lista nera sociale. Se il tuo nome dovesse sfortunatamente comparire lì, le speranze di trovare un impiego o risollevarti da qualsiasi difficoltà risulterebbero pressoché nulle.
Tengo per me le mie idee, anche se la voglia di urlarle in faccia al corpo docenti è abbastanza forte.
Poi, un pugno alla spalla mi ridesta dai pensieri e non so come riesco a sputare la penna prima che questa mi finisca in gola.
< Allora Jeager, hai già scelto quale abitino metterti per il grande evento? > ironizza Jean, appoggiando un gomito sulla mia testa.
Una venetta inizia a pulsarmi pericolosamente, ma il mio tono è fin troppo tranquillo in confronto alla rabbia che mi ribolle dentro: < Perché? Vorresti vestirti come me così da essere decente per una volta? >
Da qui è un degenerare d’insulti e frecciatine che terminano solo con l’entrata dell’insegnante. L’ora prosegue con magistrali voli di palline di carta e pezzetti di gomma, i quaderni si aprono sulle teste dei compagni circostanti per ripararsi dalla “pioggia” e i rimproveri a riguardo non mancano ad arrivare, ma preferisco proseguire l’assurda battaglia piuttosto di pensare a cosa mi riservi il futuro.

All’ora di pranzo ci ritroviamo tutti intorno al nostro solito tavolo con un panino oppure con il piatto del giorno della mensa.
< Anche la vostra classe andrà in gita alla Capitale lunedì? > domanda Armin ad Annie appena questa occupa posto accanto a lui.
La ragazza annuisce distrattamente, lo sguardo fisso per nulla convinto sulla poltiglia che le hanno rifilato; meglio evitare domande a riguardo.
< Fantastico. > esordisce Connie. < Almeno avremo delle ragazze in gita con noi. Ci sarà da divertirsi. >
< Sarebbe bello potersi distrarre per una giornata, ma i professori hanno deciso di farci scrivere una relazione a riguardo con “particolare enfasi su cosa la visita ci ha trasmesso”. > ribatte Armin, accennando un sorriso.
Tutti restano in silenzio per un attimo, indecisi su cosa dire, poi cambiano argomento. Io grugnisco di disappunto. Trattenermi dal ribattere è uno sforzo immane, però non ho altra scelta: in un mondo in cui la libertà di parola è punibile con la morte, nessuno può permettersi di mettere in discussione il sistema, nemmeno un bambino.

 
Il lunedì arriva velocemente e davvero in pochi mancano all’appello. Qualcuno è venuto con la febbre alta e qualche altro con il raffreddore, tuttavia sono stati rimandati a casa per evitare di diffondere germi in un luogo di tale prestigio. Vorrei vomitare.
Il treno si svuota a mano a mano che ci si avvicina alla Capitale. I Titani viaggiano (ovviamente) su costose macchine, mentre i loro dipendenti si accontentano di ben riforniti autoveicoli; sono pochissimi i lavoratori che viaggiano su mezzi pubblici, per lo più a riempirli sono turisti e scolaresche.
Lo splendore dei palazzi, la ricchezza che si respira nell’aria (mista allo smog delle auto) e che si riflette nelle vetrine decorate con parsimoniosa artisticità, sembra volerci sbattere in faccia il grado di povertà nel quale viviamo quotidianamente.
Per terra non si scorge neppure un granello di sporco nonostante alcuni passanti in giacca e cravatta non si facciano scrupoli a gettare mozziconi di sigaretta davanti a noi; poi arrivano di gran lena gli spazzini e in poco tempo rimuovono il tutto.
Gli articoli sportivi e i vestiti lussuosi attirano i nostri sguardi, in esigui riescono a trattenersi dal premere il viso contro le vetrine, ma siamo comunque costretti a ritirarci in fretta a causa delle lamentele dei professori e delle occhiate torve e pregne di disgusto dei negozianti. Se non abiti in questa cerchia di mura, divieni un appestato ai loro occhi. Così dopo poco smettiamo di guardarci intorno.
Dieci minuti dopo l’ora prestabilita ecco che arrivano le nostre guide, tutte strette in cappotti costosi all’ultima moda, traballanti sui loro alti tacchi a spillo.  Assomigliano a delle galline con quel loro ancheggiare ridicolo.
< Scusate il ritardo, è sorto un problema all’ultimo secondo. Sapete: problemi in ufficio.> si giustificano queste sfoggiando un caloroso sorriso (con tanto di occhiatina complice), ma il forte aroma di caffè e il puzzo di nicotina mandano in frantumi in pochi attimi la loro improbabile facciata.
I professori annuiscono, impotenti di fronte a tale offesa.
“Voi valete meno di zero, siete nati per servirci e morirete assecondando i nostri capricci.” Credo sia ben chiaro a ciascuno di noi questo messaggio recondito mentre pieghiamo la testa e seguiamo diligentemente la visita.

Nell’ora e mezzo che segue, apprendiamo il generico funzionamento della Wall Rose Co.
La struttura è divisa per settori, ognuno dei quali corrisponde a un piano del grattacielo nel quale coesistono differenti funzioni, tutte subordinate allo scopo di produzione di quello specifico settore. L’edificio si eleva per un centinaio di metri, all’incirca si possono contare trenta piani, compresa la terrazza, dei quali possiamo accedere solo ai primi venti: gli altri sono stati resi inaccessibili per manutenzione.
Uffici su uffici traboccanti d’impiegati che ci guardano di sbieco quando passiamo loro accanto, pronti a zittirci al minimo rumore nonostante sia prodotto dal loro chiacchiericcio; questo è il riassunto della visita. Sinceramente non so cosa gli insegnanti si aspettino di leggere nelle nostre relazioni se l’esperienza più entusiasmante sia stata seguire la discussione tra moglie e marito in treno: lei continuava a chiedere dove fossero finiti, preoccupata di poter perdere la fermata in cui avrebbero dovuto prendere la coincidenza, lui invece tentava invano di calmarla intanto che leggeva il suo giornale. Quel pover’uomo sarà riuscito a leggere qualche breve riga durante il tragitto.
A visita finita, ci riuniamo tutti nella hall, attendendo che passi qualche altra ora per iniziare quella del pomeriggio alle industrie della compagnia. Le nostre guide ci hanno abbandonato immediatamente non appena poggiato piede sulla superficie in finto marmo del piano terra. Dobbiamo tornare alla stazione e scendere a Shiganshina, dove ad attenderci ci sarà il vice direttore che ci accompagnerà alla struttura, poi saremo finalmente liberi di tornarcene a casa. Si sarebbe potuto evitare il nostro ritorno anticipato se solo gli altri piani dell’edificio fossero stati preparati per tempo, ma a causa di questi lavori improvvisi non si sono potuti organizzare meglio.
Nessuno tra di noi può dirsi felice.
Lo si scorge perfettamente negli sguardi incendiati dalla rabbia, da qualche mano stretta a pugno e con le unghie infossate nei palmi e dai visi cupi, tuttavia le parole da rivolgere contro di loro sono sopperite dai denti che mordono le labbra. Provocarsi dolore annebbia la mente così da riuscire a mantenere ancora una volta il silenzio.
All’improvviso suona l’allarme: un suono acuto che si propaga per l’intero grattacielo in pochi istanti.
Le guardie (in numero maggiore rispetto al normale) accorrono da ogni dove sul pianerottolo, superandoci e spingendoci. Noi ci guardiamo attorno smarriti, i professori provano a chiedere spiegazioni agli impiegati, ma anche questi ci riservano lo stesso trattamento. Ci sputano contro parole offensive, si districano in malo modo dalla presa dei tutori. Molti ci passano accanto quasi come se noi non esistessimo.
Hanno occhi spauriti con il fiatone, fendono l’aria come se alle calcagna avessero il più terrificante dei mostri. L’agitazione inizia velocemente ad impossessarsi della mente di ciascuno, chiedendoci se non dobbiamo seguire l’esempio della gente e precipitarci sulla strada, fuori dalla folla. Gli ordini dei professori però sono tassativi: ci urlano di non muoverci finché non sarà ben chiara la situazione e di non farci prendere dal panico, cercando di restare in un gruppo compatto. Se la situazione fosse una regolare procedura di evacuazione, noi non saremmo preparati ad eseguirla correttamente, facendo cattiva pubblicità all’istituto; come se non bastasse non tutte le classi sono presenti all’appello.
Un rumore di spari ci sveglia da questo stato di torpore, così, presi dal panico, ci precipitiamo verso l’uscita in un accalcarci generale. Alcuni finiscono a terra, incapaci di rialzarsi per i calci e le pestate che ricevono. Siamo troppo spaventati per prestare qualsiasi tipo di soccorso. Potrei fare l’eroe e salvare qualcuno di loro, ma Mikasa continua a spingermi verso l’uscita ed è inutile continuare a remarle contro.
All’ingresso le persone gridano, piangono, chiedono aiuto, prendono a pugni le vetrate e solo quando ci avviciniamo, comprendiamo che le porte sono state sigillate (forse pochi minuti dopo lo squillare dell’allarme).
Siamo topi intrappolati in una gabbia d’acciaio e vetro troppo spesso da riuscire a romperlo. Gli spari si fanno via a via più vicini, tanto che ci accovacciamo a terra con le mani premute sulle orecchie per tentate di attutire i suoni. Ci sono feriti ed alcuni sono ancora rimasti a terra, immobili; guardandoli mi chiedo se riusciranno mai a risvegliarsi. Non è difficile entrare in stato comatoso dopo aver subito simili colpi.
Proprio quando le nostre speranze sembrano essere svanite e le schiene delle guardie in ritirata s’intravedono distintamente sullo sfondo, alle nostre spalle udiamo la serratura che si disinnesca.
Il fugace sentimento di gioia finisce l’attimo successivo lo schiudersi delle porte, quando ricomincia la corsa verso l’esterno del palazzo. Si riprende a spingersi per evadere, a subire colpi in viso, allo stomaco… ovunque le braccia riescano ad arrivare.
Mi volto un istante per osservare le guardie che imbracciano pistole, spazzate via nel raggio di qualche istante; li vedo tentare di afferrare la prima arma che trovano, ma è comunque troppo tardi: uno dopo l’altro cadono al suolo privi di vita, alcuni riportano gravi ferite da cui fuoriesce un fiotto inarrestabile di liquido e che li porta alla morte in poco tempo. È una scena da gelare il sangue, eppure non riesco a contenere un guizzo di soddisfazione nel vedere l’intera struttura cadere sotto la mano dei ribelli.
Mi faccio immobile.
Immediatamente comprendo la situazione e il sangue ricomincia a pulsarmi nelle vene: veloce, impazzito; il mio unico pensiero diviene la certezza di avere gli Jiyu no Tsubasa a pochi metri di distanza.
Sto per fare uno scatta in avanti, ma Mikasa mi artiglia il braccio prima che io possa anche solo fare un passo.
< Eren. > La sua voce è preoccupata, ha gli occhi sgranati e le sue unghie mi s’infossano nella pelle, tuttavia l’adrenalina è così forte da non sentire il bruciore delle striate che vi s’imprimono sopra quando sfuggo alla sua presa.
Corro in direzione degli spari.
Devo vederli. Chiedere loro di farmi divenire uno della squadra, perché lo desidero più di qualsiasi altra cosa al mondo.
Non penso alla mia incolumità, né a quella di Mikasa e di Armin che - sono certo - mi stanno inseguendo per portarmi indietro, là sul marciapiede dove ci attendono gli altri. Non sto ragionando, la mia mente è annebbiata dal battito forsennato del mio cuore. Sono il “bastardo suicida” che ama gettarsi nel pericolo per i suoi ideali, un soprannome affibbiatomi da Jean che mi ha seguito nel corso degli anni e che mi calza a pennello in una simile situazione.
Mi accovaccio vicino al tavolo della reception: le guardie sono troppo indaffarate nel rispondere al fuoco per prestarmi attenzione. Bene, almeno avrò dalla mia parte l’attacco a sorpresa.
Scatto in avanti e ne atterro una eseguendo una mossa imparata da Levi qualche giorno fa. Non ho il tempo di starmene a congratularmi con me stesso, devo pensare al prossimo passo prima di venire annientato dagli spari. Basterebbe anche solo vedere i visi della Ribellione, per poi cercarli ovunque nelle strade e convincerli a prendermi con loro; non sarà per nulla facile, ma è comunque una possibilità.
Balzo dall’altra parte della parete; una piccola rientranza - resa ancora più stretta dalla pianta ferma all’angolo - mi fornisce un ottimo riparo. Non ci penso due volte a gettare a terra il vaso: farà da ostacolo per chi arretra.
< Eren! > Mikasa è dall’altra parte, dallo stesso tavolo dietro di cui mi sono riparato in precedenza. Con lei, aggrappato al suo braccio, c’è anche Armin; i suoi occhi azzurri ispezionano la stanza. Conosco quello sguardo, sta pensando ad una via di fuga dopo che mi avranno raggiunto.
< State indietro! > grido loro proprio nello stesso istante in cui una guardia inciampa sul fusto della pianta.
L’uomo serra gli occhi come la testa impatta al suolo, ma è questione di pochi secondi perché li riapre immediatamente nella mia direzione. Le iridi sono azzurre e fredde, le pupille ristrette dal terrore e dall’agitazione, mi guardano attraverso e vedono un nemico. Temo mi voglia sparare contro, così, colto alla sprovvista, gli serro un calcio in pieno viso. L’uomo sviene ed io rabbrividisco di disgusto verso me stesso e per il suono che ha emesso le sue ossa. Gli ho di certo rotto il naso, ma non voglio accertarmi delle condizioni delle vertebre del collo.
Mikasa mi chiama, la voce terrorizzata e solo quando alzo lo sguardo in sua direzione comprendo il motivo. Troppo tardi mi accorgo di avere la canna di una pistola puntata contro; l’uomo che la impugna mi fissa con odio, probabilmente ha assistito in parte alla scena in cui ho steso il suo compagno. I peli mi rizzano dallo spavento, faccio fatica a deglutire e la bocca mi si riarsa quasi subito. Tento di arretrare, ma il muro alle mie spalle blocca qualsiasi movimento. Non posso fuggire, solo attendere il suono dello sparo, poi il peso del proiettile cui mi trapasserà il cranio.
Tremo. Trattengo le lacrime e le suppliche in un ultimo gesto d’orgoglio. Non voglio che i miei due migliori amici mi vedano piangere, non voglio lasciare loro una simile immagine di me.
Aspetto e l’attesa mi attanaglia il cuore e lo stomaco in una morsa ferrea; il mondo che mi circonda si restringe a ciò che mi trovo davanti e avverto i secondi come a rallentatore: una goccia di sudore scivola sul volto dell’uomo, faticando a cadere quando incontra lo strato di peluria all’altezza della mascella, gli occhi scuri mi fissano senza remore, un guizzo di follia li pervade. Non credo proverebbe pietà nemmeno se io fossi un bambino.
Non voglio morire e cerco di forzare me stesso nel tenere gli occhi aperti, pensare di imprimere nella mente di quest’uomo il mio sguardo mi dà abbastanza forza. Forse il mio fantasma continuerà a vivere in lui tanto da indurlo alla pazzia. Sorrido in un ultimo gesto di sfida.
Lui preme il grilletto e nemmeno ora mi permetto di serrare le palpebre.
Ed è grazie a questo che riesco a vederlo. Una ginocchiata al braccio della guardia fa deviare il colpo e il proiettile mi sfiora la tempia destra.
Il ragazzo indossa una felpa verde, il cappuccio tirato sul viso si sposta come il suo corpo fende l’aria. Capelli corti corvini si liberano dalla ristrettezza del tessuto, ma posso godere per pochi attimi dei successivi colpi mortali che assesta alla guardia perché tutta la tensione si libera in un unico istante, facendomi svenire.
Eppure mi sembra di riconoscere quella figura agile. Così mi scappa un sussurro prima di impattare al suolo.

 


 
Sento qualcuno chiamarmi, anche se il suono arriva ovattato. La testa è tutto un dolore. Muovermi mi sembra quasi impossibile, eppure con un po’ di sforzo riesco ad aprire gli occhi.
< Eren! > chiama di nuovo questa e finalmente riesco a mettere a fuoco il viso preoccupato di Mikasa a pochi centimetri dal mio e quello di Armin poco dietro di lei.
Non le rispondo, mi guardo intorno smarrito non riuscendo a riconoscere le pareti che mi circondano ed il soffitto di legno vecchio sulla testa. Rivolgo gli occhi sui miei amici ed Armin intende subito il dubbio che mi ronza per la mente.
< Non crederai mai a quello che sto per dirti, Eren. Ora ci troviamo- >
< Si è svegliato? > lo interrompe una voce alle loro spalle.
Mi alzo a sedere per poter vedere in viso il nuovo arrivato e tutto diviene chiaro. Riconosco il ragazzo che ho incrociato per strada alcune ore prima dell’incidente, lo stesso che mi ha salvato dalla guardia.
< Levi? >
Lui mi guarda senza rispondere. I fatti parlano da sé.
< Benvenuto Eren alla base della Ribellione. > annuncia Armin, sorridendomi affabile.
Mai nella mia vita ho desiderato prendermi a pugni tanto quanto lo voglio in questo momento.


------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Piccole note d'autore:
Innanzitutto ci terrei a scusarmi con chi mi segue per l'enorme ritardo che ho nel pubblicare.
Nom ho scusanti e non mi sento di cercarne inutilmente.
In secondo luogo vorrei ringraziare di cuore chi ancora legge quello che scrivo e ancora di più chi spende alcuni minuti del proprio tempo per recensire.
Siete davvero meravigliosi e spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento. Se avete anche solo qualche rimprovero, non fatevi scrupoli nel dirmelo.
Grazie nuovamente.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 04 ***


Capitolo 04


Sono seduto su uno dei pochi letti presenti nella stanza d’infermeria della Ribellione. Al mio fianco Mikasa non fa che guardarmi con preoccupazione, sicuramente perché, da quando mi sono svegliato, non faccio che accusare un gran mal di testa: tutto merito del bernoccolo sulla nuca e della fasciatura stretta che lo ricopre.
Almeno le tende tirate mi hanno evitato un brusco risveglio stamani, anche se, la quasi assenza di luce sembra far apparire la stanza più angusta di quanto in realtà non sia. Sulle pareti si può notare qualche segno di scrostamento e le travi di legno del soffitto sembrano ricoperte da enormi ragnatele scure, ma questo è solo un effetto ottico causato dalla poca luce.
Armin, seduto al fianco di Mikasa, mi spiega (in pochi minuti) cos’è accaduto in queste ultime ore: non si prolunga in futili dettagli, ciò che dice è sufficiente da darmi un chiaro quadro generale ed abbastanza diretto da farmi sprofondare nell’imbarazzo. Non posso credere che l’uomo appoggiato sullo stipite della porta sia uno dei capi degli Jiyu no Tsubasa e, soprattutto, non posso credere di aver condotto i miei più cari amici ad un incontro ravvicinato con la morte. Mi sorprende che Armin sia qui ora a parlarmi della vicenda senza starsene a fissare il vuoto. Da piccolo era sempre attorniato dai bulli e per questo se ne stava rintanato in un angolino, tanto che poi era difficile convincerlo ad uscire da casa per qualche pomeriggio. Crescendo ha sviluppato un’arguzia tale da riuscire ad evitare spiacevoli episodi, ma questo... questo inconveniente lui non poteva aggirarlo o superarlo in alcun modo; l’ho costretto a sbatterci il viso contro senza dargli la possibilità di fare o pensare ad alcunché.
So bene cosa comporterà la loro scelta di non abbandonarmi e non so se sentirmi felice per avere amici così fedeli o in colpa per averli condannati ad una vita di reclusione: che sia in prigione oppure in un qualche squallido buco al di fuori della società ha poca importanza.
D’altro canto io ho avuto tutta una vita per prendere atto delle conseguenze sulla mia decisione di ribellarmi al sistema, loro invece hanno solo agito d’impulso... e solo a causa mia.
Il senso di colpa e la rabbia verso me stesso prevale sul senso di apatia, a stento freno l’impulso di sbattere la testa contro il muro alle mie spalle, ma non posso impedire alle mani di chiudersi in una morsa ferrea sulle lenzuola di cotone bianco.
L’unica nota positiva in tutto ciò è di aver potuto incontrare la Ribellione; una piccola gioia, una nota quasi dolce che stona brutalmente con l’acidità di sentimenti contrastanti.
< Eren? > mi richiama Mikasa stringendomi una mano. Ha i palmi freddi e, solo ora che la guardo attentamente, mi accorgo dei piccoli cerchi scuri sotto gli occhi; non deve aver dormito molto, sicuramente sarà rimasta in pensiero fino al mio risveglio.
Dovrei mostrarmi comprensivo, rassicurarla sul mio stato, ma la sua preoccupazione non fa che alimentare la rabbia sorda che mi ribolle dentro e, quando alzo lo sguardo, l’indirizzo tutta verso Levi.
Un uomo del quale mi fidavo.
Lui che mi ha allenato tacendomi la sua reale identità.
Lui che mi ha salvato quando poteva evitare questi deprimenti risultati.
Lui… che ora regge perfettamente il mio sguardo senza batter ciglio.
< Devo parlare con lui. > sentenzio con tono serio continuando a fissare la sua figura composta. < Da solo. > ribatto, tacendo eventuali proteste.
Dopo qualche attimo sento Armin sospirare, probabilmente intuendo (in parte) la situazione; posa una mano sulla spalla di Mikasa e la convince a lasciarci soli.
Non vorrei essere così meschino con loro, però ora ho bisogno di sfogare questa rabbia, di capire qualcosa che solo Levi è in grado di dirmi. Più tardi li ringrazierò.
La porta si richiude e un silenzio greve cade nella stanza.
Ci studiamo l’un l’altro ed il tempo pare dilatarsi (storcersi quasi) mentre aspettiamo che qualcuno di noi parli. Il ticchettare dell’orologio mi esaspera, i secondi che passano sembrano appesantirmi le spalle ed il corpo, in un certo mondo perfino la mente pare diventata pesante.
< Perché? > gli domando incattivito.
È una piccola domanda in confronto alla moltitudine di risposte che voglio sentirmi dire.
Levi prende un respiro, chiudendo per un attimo gli occhi; non si decide a cambiare posizione né sguardo quando riporta l’attenzione su di me. < Sii più preciso, moccioso. >
Stringo i denti ed i pugni, combattendo contro l’istinto animale di saltare giù dal letto e prenderlo a pugni ed urlargli in faccia, ma non ne ricaverei nulla in una situazione simile; in aggiunta in una situazione simile gli basterebbe ben poco per atterrarmi, semplicemente rivoltandomi contro la mia stessa rabbia.
< Perché non mi hai detto nulla? Perché… Perché passare i pomeriggi ad allenarmi tacendomi una cosa simile? >
< Perché, invece, avrei dovuto informarti? >
< Sapevi benissimo quali erano i miei obiettivi, bastardo. > gli ringhio contro.
Lo sguardo di lui si fa tagliente, buio, prima di espirare con tono glaciale: < Non mancare di rispetto agli adulti, piccolo demente. >
Posso avvertire quanto anche lui si stia trattenendo dal prendermi a pugni, e credo lo faccia solo a causa delle mie condizioni.
< E tu rispondi alle mie domande. > gli urlo di rimando, stanco di quest’inutile conversazione.
Levi tace, fissandomi irritato. Sento brividi in tutto il corpo come i suoi occhi ripercorrono con lentezza il mio viso. La temperatura sembra abbassarsi nella stanza secondo dopo secondo. (Che sia intimorita anche lei?)
Solo ora percepisco il pericolo: se vado oltre questa volta Levi non si fermerà dal prendermi a pugni.
Tento di buttar giù il fiotto d’ansia rimasto fermo in gola, non voglio darmi per vinto, ma non voglio nemmeno morire in modo atroce.
Sto per aprire nuovamente bocca, quando, con una semplice occhiata, riesce a mettere un freno alle mie proteste.
< Questo mondo non è il tuo piccolo parco giochi, Eren. Qui noi rischiamo la vita per proteggere un ideale, non per compiere atti vandalici o azioni terroristiche - mettila come vuoi - nei confronti di un sistema che non ti va a genio. >
Lo so. Lo so bene, diamine.
Da quando sono nato, la gente non fa che ripetermelo e mi è stato ancor più chiaro quando è morta mia madre. Ho dovuto imparare a cavarmela da solo, a non pestare troppo i piedi, a non protestare di fronte alla vile realtà. Non ho mai sopportato quando gli adulti mi guardavano con sufficienza dicendo che ero solo un bambino, che non puoi capire, figuriamoci se riesco a sopportarlo ora.
Il suo rimprovero mi ferisce perché speravo avesse capito che, nonostante le mie azioni avventate, non sono uno stupido. Gli lancio uno sguardo offeso.
Sto per ribattere alle sue affermazioni quando riprende: < Malgrado ciò non siamo nemmeno i santi dipinti dalla gente. Siamo assassini a cui piace combattere per una giusta causa. >
I suoi occhi vagano un attimo sulla stanza, soffermandosi un poco sulla finestra.
< Ho visto come combatti: hai del potenziale… > a quelle parole il mio cuore perde un battito; è il primo complimento che mi fa dopo settimane di allenamento (e di insulti). <… tuttavia non è abbastanza. Puoi combattere, te lo concedo, ma non sei in grado di uccidere. Ti manca l’intenzione. >
Non è vero. Ho già ucciso in passato: era un pedofilo che aveva aggredito Mikasa, mi ero avventato su di lui trafiggendolo con il coltello che portava alla cinta; all’epoca avevo otto anni.
Il suo sguardo torna su di me: è severo e pungente. Che abbia intuito i miei pensieri? < Ho visto quando hai sferrato il calcio a quella guardia ed il modo in cui ti sei pisciato addosso nel dubbio di averla uccisa o meno. Qui non sono i Titani in prima persona a rimetterci la vita: è la gente comune che vive di ordini impartiti. >
Si concede una pausa ed io (ora) non riesco a trovare nulla su cui ribattere.
Non ho mai pensato ai soldati al servizio dei Titani come persone imprigionate nel proprio ruolo. In strada, quando le vedi passare, si atteggiano a grandi uomini, esibendo le loro armi scintillanti per ottenere ciò che vogliono.
Eppure non siamo nemmeno tutti uguali a questo mondo. La nostra malata società non è “lo strappo alla regola”… È difficile ricordarselo dopo la moltitudine di angherie a cui siamo costretti a subire.
Come ho potuto dimenticarmene? Io che ho come ideale la libertà d’espressione e la giustizia… come ho potuto?
Levi si avvicina lentamente alla porta mentre prendo coscienza di cosa vuol realmente dire combattere negli Jiyu no Tsubasa.
< Non tutti i sogni portano ad un futuro glorioso, Eren, alcuni sono pieni di dolore ed odio. Sei pronto a farti carico di un tale fardello? > mi domanda stancamente, dopodiché esce, lasciandomi solo con i miei pensieri.

Mikasa ed Armin rientrano quasi subito nella stanza, mi chiedono se sto bene e mi guardano apprensivi. Li ascolto a malapena; la mia mente è intrappolata lì, nell’attimo in cui Levi rende ogni mio obiettivo un ammasso di progetti idilliaci. Non c’è gloria per i cattivi, dovrei saperlo bene.
In ogni favola i cattivi muoiono tragicamente, e anche se questa è la realtà, la fine è la stessa: i malvagi vengono idolatrati per pochi anni prima di venire sommersi dalla furia repressa della folla.
La notte non riesco a prender sonno, i dubbi continuano a tormentarmi.

< Bene sei guarito. > esordisce Hanji sfoggiando un largo sorriso.
È la ricercatrice della Ribellione ed è stata lei a curarmi in questi pochi giorni di convalescenza. Nonostante il suo aspetto esuberante, possiede un fine intelletto sviluppato soprattutto in campo informatico e scientifico. Si perde in inutili discorsi e si fa prendere dall’entusiasmo, però è una brava persona, simpatica direi, quando non inizia a blaterare.
< Solo due giorni di ricovero e tutti i tuoi graffi… puf! Come se non ci fossero mai stati. Hai un’ottima capacità di guarigione – considerando anche il fatto che sei svenuto e hai sbattuto la testa – e una pelle davvero dura. Senti posso- >
< Hanji, basta così. Potrai interrogare Eren dopo, ora ho bisogno di parlare con lui e con i suoi amici. > la ferma Erwin appena mette piede nella stanza. Levi lo segue quasi subito. Mi fissa, mentre io non ci riesco: le sue parole ancora tormentano i miei pensieri.
Erwin è il capo degli Jiyu no Tsubasa. È un uomo alto e composto, con lo sguardo costantemente fisso su un obiettivo che non ci è dato conoscere. La prima volta che l’ho incontrato è stato al mio risveglio: voleva accertarsi delle mie condizioni, sia fisiche che mentali credo. Ha scambiato qualche parola con Hanji prima di andarsene.
Quella volta era in piedi, appoggiato contro il muro dell’infermeria, gli occhi azzurri rivolti verso la finestra alla sua sinistra. Ricordo che in quel momento mi era parso un uomo afflitto dal peso della vita, eppure, quando aveva posto l’attenzione su di me, di quell’immagine non rimaneva che un futile pensiero.
Mi sistemo meglio sulla brandina, le orecchie ben tese a carpire ogni suo movimento, ogni sua frase enunciata con serietà, la stessa che pare trasparire dalla sua figura.
I miei amici, rimasti sempre al mio fianco, si fanno rigidi sulle sedie.
< Come credo possiate ben immaginare, questo colloquio parlerà di cosa è successo quattro giorni fa, alla medesima ora, alla Wall Rose Co. >
Annuiamo in silenzio, un tacito consenso a proseguire.
< Eren, ti ringrazio per la fiducia accordataci, specialmente per l’impegno che hai messo nella nostra missione. Senza di te temo avremmo subito qualche perdita in più. >
Il mio cuore sobbalza nel sentire quelle parole. In vita mia mai un professore o conoscente adulto mi ha fatto un solo complimento; riceverlo dal capo della Ribellione è un’emozione unica.
< Armin, Mikasa… decidendo di seguire il vostro amico avete preso una decisione molto coraggiosa che ora io vi chiedo di esprimere verbalmente; Eren, lo stesso vale per te. Abbiamo bisogno di sapere quali sono i vostri obiettivi, quanto siete disposti a mettervi in gioco e quanto siete disposti a sacrificare. > ci lascia soppesare le sue il reale valore delle sue parole; hanno un significato importante cui comporteranno un’ondata di drastico cambiamento. < Non è una richiesta semplice la mia, ne sono consapevole. Sono sicuro che in cuor vostro capirete cosa ora vi sto chiedendo di fare. Non abbiate timore, nel caso decidiate di rifiutare, ci assumeremo la totale responsabilità dell’accaduto. Avrete qualche problema con la sicurezza per alcuni mesi, ma ci impegneremo affinché si risolva al più presto. >
< Io ci sto. > dico prontamente, trattenendo un guizzo d’isteria. < Non chiedo di meglio che annientare ogni singolo Titano esistente. >
Tento di mantenere la calma, una postura ridicolmente rigida nonostante il lieve tremore dovuto alla troppa agitazione in corpo; in fondo aspetto questo momento da tutta la vita.
< Oh, non male. > commenta Levi a bassa voce mentre una strana luce pervade i suoi occhi. Che sia orgoglioso della mia risposta?
< Eren. > esordisce subito Mikasa saltando dalla sedia, sovrastando il commento dell’uomo alle sue spalle.
Non è contenta della mia scelta. Mi ha sempre rimproverato questa ossessione verso la Ribellione, fin dalla tenera età, ciò nonostante ho avuto tutta una notte per riflettere sui pro ed i contro di questa mia decisione e, se non ho retroceduto dopo le parole di Levi, non credo me ne pentirò in futuro.
Guardo lei, poi gli occhioni azzurri di Armin ed infine ancora Erwin e Levi. Ora non riesco a decifrare i loro sguardi, sembrano indifferenti (quasi freddi) al contrario di quelli spaesati di Armin o di quelli apprensivi di Mikasa; che mi sia immaginato quel piccolo cambiamento negli occhi dell’uomo di fronte a me? Insomma, non dovrebbero essere contenti di aver trovato un nuovo membro per la causa o almeno mostrare qualche cenno di approvazione?
Mikasa mi stringe la mano e m’impongo di non strappare via la mia dalla sua morsa. La fisso, deciso a farle capire quanto sia disposto a rischiare, quanto io sia fermo sulle mie idee. Lei non replica e poco dopo lascia andare la presa.
< Se Eren rimane, allora lo farò anch’io. >
< Io anche. > risponde immediatamente Armin, accennando un piccolo sorriso quando ci voltiamo a guardarlo. < Siamo una squadra, qualsiasi cosa capiti resteremo uniti. >
Non riesco ad esprimere a parole la mia immensa gratitudine: ancora una volta li ho trascinati nelle mie convinzioni, in una vita che spero non mi rinfaccino mai.
< Benvenuti negli Jiyu no Tsubasa. > esordisce Erwin sfoggiando un sorriso tirato, freddo direi.
Per la prima volta nella mia vita mi sento come a casa.
 
 

Oh quanto è stato sciocco quel sentimento,
non mi sarei mai aspettato quanta polvere creata dalle illusioni di un ragazzino potesse mascherare la realtà.
Tutt’ora non mi pento della mia decisione, ma vorrei aver ponderato meglio il peso di quelle parole.
Forse il nostro futuro e quello delle persone a noi care sarebbe stato differente.



------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Piccole note d'autore:
Innanzitutto ci terrei a scusarmi con chi mi segue per l'enorme ritardo che ho nel pubblicare.
La montagna di studio mi sta uccidendo e non so come sono riuscita ad arrivare fino a qui.
Ringrazio immensamente coloro che ancora leggono.
Ora risponderò alle vostre recensioni.
Scusate ancora il ritardo.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2975127