One Month of Silence

di johnlockhell
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Numbness ***
Capitolo 2: *** Tension ***
Capitolo 3: *** Touch me ***
Capitolo 4: *** Itch ***
Capitolo 5: *** Take my whole life too ***
Capitolo 6: *** Blissful Oblivion ***
Capitolo 7: *** Lay down my heart ***
Capitolo 8: *** Wildest Dreams ***
Capitolo 9: *** Rage and Devotion ***



Capitolo 1
*** Numbness ***


One Month of Silence

 

 

Personaggi: Sherlock Holmes, John Watson, Mary Morstan, Greg Lestrade, Mrs. Hudson, Molly Hooper.
Genere: Malinconico, introspettivo, drammatico, angst, avventura, suspance, mistero, shonen-ai, slash, generale.
Pairing: Johnlock, John/Mary.
Trama: La scoperta del segreto di Mary è l'ennesimo trauma che la vita non ha risparmiato a John Watson. Anche dopo il ritorno a Baker Street, si trascina depresso nella routine quotidiana sotto il peso della consapevolezza che tutto quello in cui spera si distruggerà. Sherlock non può più sopportare di vedere l'amico, la luce dei suoi occhi, in questo stato afflitto. Nonostante le emozioni e interazioni umane non siano il suo forte, per farlo reagire e rimettere le cose a posto è pronto a ricorrere a qualsiasi espediente. Ma Londra non lascia mai un attimo di respiro, e c'è sempre un crimine da risolvere dietro l'angolo.
Parole: Capitolo 1 - 3800 parole circa, capitolo 2 - 3500 parole circa, capitolo 3 - 4500 parole circa, capitolo 4 - 3500 parole circa, capitolo 5 - 3100 parole circa, capitolo 6 - 3200 parole circa, capitolo 7 - 3400 parole circa, capitolo 8 - 4900 parole circa, capitolo 9 - 4200 parole circa.

 
***
 
Capitolo 1 – Numbness

John aprì gli occhi, la familiare vista offuscata dell'appartamento in Baker Street era ancora lì come l'aveva lasciata. Anche il formicolio del braccio addormentato era un abituale compagno del risveglio da quella posizione scomoda. Ormai erano giorni che John finiva per addormentarsi su quella poltrona, la sua poltrona. Era l'unico posto dove riusciva a prendere sonno e sfuggire agli incubi che nuovamente lo perseguitavano appena provava a mettersi a letto e spegneva le luci.

Stropicciando gli occhi assonnati e stiracchiando le braccia per riacquistare sensibilità, emise un sonoro sbadiglio e lentamente assunse una posizione più composta. Era davvero indecoroso e poco virile dormire così sulla poltrona, con le gambe rannicchiate contro il petto come un bambino spaventato, si rimproverava. Ma era l'unico modo per appisolarsi per qualche mezzora, tenere lontani gli incubi, e non cadere completamente a pezzi.

Il colpo che gli aveva inflitto Mary – se questo era il suo vero nome – aveva di nuovo mandato in frantumi la sua precaria stabilità e serenità tenute insieme con il nastro adesivo. La guerra, le indagini, il pericolo, l'adrenalina, le disavventure, gli attacchi, le minacce, la morte del suo migliore amico, la menzogna. Troppi traumi si erano accavallati l'uno sopra l'altro, senza neanche dargli il tempo di riprendere fiato. E rimanere con il fiato sospeso, il batticuore, il sangue che scorre furente nelle vene era sia veleno che farmaco per John. Ma ogni medicinale ha un dosaggio consigliato, e John aveva raggiunto il limite. Il tradimento di Mary, la bugia vivente che aveva reso la loro vita, era troppo. Soprattutto perché veniva da quella persona che l'aveva aiutato a rimettere insieme i pezzi, che l'aveva salvato l'ultima volta che era andato in frantumi, che era il suo pilastro solido e la stabile certezza a sostenerlo, appoggiarlo, accompagnarlo durante ogni avventura, e a cui tornare prima della successiva. La persona che gli aveva ridato speranza nel futuro e una ragione per vivere, solo per distruggerli nuovamente e mostrare la realtà dietro l'illusione: John Watson doveva avere qualcosa di sbagliato, perché tutto quello che entrava nella sua vita era rotto e storto.

Con un nuovo sbadiglio, John si alzò di un pezzo, pestando la coperta che era ricaduta ai suoi piedi, e rimanendo ancora ingessato e confuso a sfregarsi il braccio addormentato. Una disgustosa sensazione di malessere per il sonno disordinato gli avvolgeva lo stomaco, che ormai non era avvezzo ad un pasto decente da settimane. Fuori il sole era già calato, e il tipico chiarore grigiastro del tardo pomeriggio invernale dopo il tramonto illuminava il disordine della stanza. La mezza tazza di tè, ormai freddo, che Mrs. Hudson gli aveva gentilmente preparato al suo ritorno dall'ambulatorio, giaceva sul tavolino antistante che John urtò muovendo i primi passi nella stanza. Neanche oggi aveva rivolto parola a Mary, e definire la situazione pesante sul posto di lavoro era ridicolamente eufemistico.

“Buongiorno,” gli fece ironicamente uno Sherlock Holmes impegnato in qualche complesso esperimento chimico nella penombra della cucina, senza distogliere gli occhi dalla soluzione che stava prelevando con la pipetta.

“Accidenti, devo essermi appisolato sulla poltrona,” cercò di giustificarsi maldestramente, John senza neppure sforzarsi di provarci veramente, “non ti ho sentito rientrare.”

“Succede, quando non dormi di notte,” ribatté cinico Sherlock, che ormai da settimane doveva sopportare le precarie scuse di John al perché lo trovasse addormentato sulla poltrona a tutte le ore del giorno, in quella vulnerabile posizione infantile così spiacevolmente tenera, ma continuasse a sentirlo muoversi per tutta la notte.

Dopo la rivelazione della falsa identità di Mary, e il suo decorso in ospedale per la ferita al petto, Sherlock aveva riaccolto John nel loro appartamento da scapoli. In realtà era accaduto spontaneamente, John aveva ripreso a stare lì e a tornare lì senza bisogno di discutere nulla apertamente, come d'altronde loro non facevano mai. Era come se non se ne fosse mai andato, come se nessuno dei due se ne fosse mai andato e i due anni di vuoto non fossero mai successi, e in un certo senso era così. La tacita supplica dell'amico, che non riusciva neanche a guardare in faccia la moglie, di potersi rifugiare nella sua vecchia abitazione non era stata neppure necessaria; che John si trovasse in Baker Street era l'evento più naturale del mondo per Sherlock. Ma averlo lì in quello stato, depresso e trascurato, gli faceva ancora più male che pensarlo lontano ma appagato dalla sua nuova vita.

“Che ore sono?” chiese John, divagando.

“Abbastanza tardi perché abbia completamente perso la pazienza con questa dannata cosa,” rispose Sherlock, armeggiando con le provette e vetrini che coprivano il tavolo di cucina ed evidentemente lo stavano infastidendo molto.

“Come mai sei uscito?” continuò a chiedergli John, andando a raggiungere il frigorifero per abitudine, “stai lavorando ad un nuovo caso?”

“Non proprio.” Una risposta elusiva di Sherlock, che novità.

“Un caso con cui distrarmi è esattamente quello che mi serve in questo momento,” bofonchiò John mettendo in bocca un pezzo di formaggio, l'unica cosa che si trovava nel frigorifero, e l'unica che aveva toccato da quella mattina.

“È esattamente quello che non ti serve,” controbatté freddo Sherlock, gli occhi incollati al vetrino su cui stava attentamente facendo scendere un paio di gocce di liquido.

“Perché ovviamente tu sai sempre cos'è meglio per gli altri, giusto?” sputò sarcastico John a mezza bocca.

“Esatto!” esclamò Sherlock, lasciando cadere incurante la pipetta sul tavolo e attaccando il suo sguardo torvo su John. Il tono della sua voce era stato così fermo, incisivo e inaspettato che lo aveva fatto riscuotere, e anche John lo stava fissando negli occhi, duro e severo e in attesa di quello che Sherlock aveva da aggiungere.

“So esattamente,” continuò Sherlock con lo stesso tono perentorio, “che non puoi andare avanti per sempre senza dormire, senza mangiare, rimandando i problemi che non vuoi affrontare, ignorando la realtà per dedicarti a distrazioni potenzialmente letali. Non sei me e ti sconsiglio di cercare di diventarlo.” John alzò un sopracciglio di sdegno, ma prima che potesse aprir bocca Sherlock stava già procedendo. “Devi reagire e riprendere il controllo e smettere di essere questa versione patetica di te," disse indicandolo, “che ho di fronte da settimane!”

Un sorriso malevolo di stizza non poter fare a meno di dipingersi sul volto di John. “Sto esagerando secondo te, come sempre. Ho una reazione umana, quindi per te è inconcepibile.”

“Non c'è nulla da concepire, devi semplicemente decidere razionalmente. Cosa vuoi fare con le informazioni che sono a tua disposizione, come comportarti e come procedere. Rimettere le cose a posto e smettere di andare alla deriva.”

“Dipende sempre tutto da me, no? Rompo tutto quello che tocco, certo. Sono io che indirettamente provoco le cose e poi sono sempre io che dovrei sbrigarmele da solo”, soffiò stremato John.

“Non ho detto questo,” lo interruppe Sherlock.

“Cos'hai in mente, allora?” John era sinceramente curioso di sentire la risposta.

“Innanzitutto,” cominciò Sherlock, interrompendo il contatto visivo e lasciando la sua postazione davanti al microscopio per spostarsi sull'altro lato del tavolo e raccogliere da terra un sacchetto, che poggiò sul tavolo con un tonfo, “cinese. E mi assicurerò che tu faccia una cena completa.”

Entrambe le sopracciglia di John erano alzate in un misto di sorpresa e derisione.

“Poi,” Sherlock si chinò nuovamente a raccogliere un altro sacchetto posto sotto al tavolo, che portò sopra accanto all'altro con un tonfo ancora più sonoro, “mi sono documentato abbastanza per sapere cosa fanno le persone normali in queste situazioni per smaltire le fandonie, far sbollire tutta questa inutile emotività e cominciare a reagire.”

Dalla busta si intravedeva una nutrita collezione di bottiglie il cui tasso alcolico complessivo avrebbe fatto impallidire chiunque.

“Vuoi farmi ubriacare?” l'espressione di John era adesso di riso, incerto fra stupore e irritazione. “Sarebbe questo il tuo piano?”

“Non è forse quello che fanno gli amici normali?” ribatté Sherlock sardonico con un mezzo sorriso.

“Sei uscito di casa solo per questo, credevo servisse almeno un sette!” a questo punto John stava sorridendo apertamente, per la situazione improbabile in cui si trovava, ma anche per l'imbarazzante tentativo dell'amico di fare qualcosa di gentile per lui come nessuno faceva da tempo. E conoscendolo, sapeva quanto questo non fosse facile, banale o scontato per lui. E non conosceva le parole per spiegare quanto lo apprezzasse.

“Devi essere davvero preoccupato,” aggiunse.

“Lascia fare a me,” disse Sherlock più disteso adesso che la tensione si era alleggerita, con lo stesso tono pungente con cui affrontava le sfide investigative e i suoi puzzle da risolvere, “e vedrai che stasera non avrai problemi a dormire.”

“L'ultima volta che hai avuto una simile iniziativa alcolica, non è andata tanto bene,” ricordò John, ripensando alla rocambolesca nottata del suo addio al celibato. Era comunque un ricordo troppo piacevole, intrecciato alle emozioni del matrimonio, che adesso John non sapeva come gestire o dove mettere.

“Questa volta ho un piano a prova di manomissione.”

Per fuggire ogni possibilità che anche questa volta l'amico allungasse nel suo cilindro graduato alcolici fuori programma, il piano di Sherlock era di rimanere sobrio e far bere solo John. Ma le cose evolverono più rapidamente del previsto. Nonostante l'abbondante cena cinese, su cui John si fiondò senza fare troppi complimenti come fosse in astinenza da giorni, l'alcol a fiumi con cui la innaffiava iniziò presto ad avvampargli la faccia e fare effetto. Il clima iniziò a farsi caldo e tenue, la loro cucina si trasformò lentamente in un bar improbabile, e l'atmosfera era riempita dalle risate soffocate di John per ogni minima sciocchezza, dal cibo sfuggitogli dalle bacchette e finito sul prezioso materiale da laboratorio di Sherlock, alle sue stesse battute che l'alcol rendeva più divertenti di quanto effettivamente fossero.

“Se mi analizzasse le urine dopo questa cena Molly Hooper schiaffeggerebbe anche me!”

Sherlock stava a guardarlo e sentirlo senza prendere parte alla cena e alle bevute, ma godendo della compagnia del coinquilino con un leggero sorriso trattenuto. Era come se dopo giorni di ibernazione riconoscesse di nuovo l'amico che gli stava così a cuore, e l'appartamento fosse di nuovo illuminato dalle loro chiacchiere, discussioni e battibecchi domestici come era stato nel loro periodo d'oro. Ma più aumentavano i gradi alcolici assunti da John, più la situazione poteva diventare imprevedibile e incontrollabile anche per l'accurato calcolo predittivo del detective.

“Temo non sia l'unica donna che avrebbe voglia di schiaffeggiarti al momento,” fu la battuta di troppo che Sherlock formulò con la sua tipica noncuranza della sensibilità umana.

Il sottile riferimento a Mary fece divampare la collera e sofferenza immagazzinate dentro John, a cui l'alcol aveva tolto ogni freno.

“Come se ne avesse qualche diritto dopo quello che ha fatto!” sbottò John.

In men che non si dica, le risate e il clima divertito vennero sostituite dalle invettive e urla di John contro Mary, e contro lo stesso Sherlock.

“La mia vita è una menzogna, è tutta una menzogna per colpa vostra! Prima tu torni dalla morte,” lo indicò con occhi furenti che potevano trafiggere una pietra, “poi lei diventa una spia assassina a sangue freddo! Niente di tutto questo è reale!”

“John,” tentava invano di frenarlo Sherlock, “va bene tirare fuori la rabbia, ma non fartene dominare.”

“Smettetela di dirmi tutti cosa devo fare e come mi devo sentire!” urlava più forte John, gettando i resti della cena per terra con un energico scatto d'ira del braccio e alzandosi dalla sedia, “nessuno di voi ha questo diritto, nessuno!”

Presto ai resti della cena riversi sul pavimento si aggiunsero i frantumi delle provette e becher di Sherlock, vittime di altri sbotti di rabbia di John mentre si allontanava dal tavolo instabile sui piedi per l'influsso degli alcolici sull'equilibrio.

“Riprendi il controllo, John, sei un uomo adulto!” adesso anche Sherlock urlava severo.

“Eppure ho sempre a che fare con dei bambini troppo cresciuti che non capiscono il peso delle loro azioni!” continuava a gridare John, cominciando a prendersela con le sedie mentre procedeva verso il salotto.

Sentendo i passi per le scale, Sherlock chiuse la porta in faccia ad una Mrs. Hudson allarmata da tutta quella confusione prima che potesse irrompere nella stanza a peggiorare la situazione.

“Quello che avete fatto è imperdonabile!” sputò John, continuando a percorrere traballante la stanza avanti e indietro, “quello che ha fatto è imperdonabile! Non voglio sapere altro sul suo conto. Ho chiuso con Mary! Chiuso. Finito. Basta.”

“Non hai chiuso con nessuno finché riesce a farti arrabbiare in questo modo,” replicò Sherlock dall'alto della sua razionale saggezza.

John si fermò nel centro della stanza, gli occhi puntati al pavimento, e la mano che cercava qualcosa nella tasca.

“Adesso la chiamo e glielo dico. Abbiamo chiuso, non voglio più vederla,” il tono era meno alto ma non meno irato e sprezzante.

Sherlock accorse subito verso di lui a fermargli il braccio prima che potesse comporre il numero.

“La vedo dura, lavorando nello stesso posto,” tenendogli fermo il braccio, con l'altra mano gli sfilava il cellulare dalle mani, “mai fare telefonate impulsive sotto l'effetto dell'alcol, regola numero uno di ogni manuale per persone normali.”

“Allora andrò a dirglielo di persona!” soffiò John, liberandosi dalla presa dell'amico con uno scossone, rosso in volto per gli alcolici quanto per lo sforzo.

“Nessun taxi ti farà salire in queste condizioni,” replicò Sherlock beffardo.

“Prenderò la metro!” fece in tutta risposta John, inciampicando mentre si infilava il soprabito.

“Dubito tu sia in grado anche solo di trovare l'ingresso della metro al momento.”

“Allora accompagnami!” ribatté John, aperta la porta e mentre stava già iniziando a scendere la rampa di scale.

Un attimo di esitazione, poi Sherlock prese con una mano il cappotto al volo e lo seguì giù per le scale. 

“Inizio a temere che non sia stata una buona idea,” bofonchiò fra sé e sé.

Varcato il portone che l'amico si era lasciato aperto dietro le spalle, Sherlock si diresse verso destra lungo la strada, percorrendo i passi di John che lo precedeva di qualche falcata e, nonostante non riuscisse a tenere una traiettoria retta, sembrava deciso a non voler rallentare. Camminando a passo sostenuto, Sherlock riuscì a raggiungerlo prima della fine della via, al momento di attraversare la strada per arrivare all'ingresso secondario per la metropolitana nell'intersezione sulla sinistra.

“Pensi che la situazione migliorerà dopo che avrai fatto una scenata da ubriaco?” Sherlock chiese critico e sarcastico a John, aggiustandosi nel cappotto mentre scendevano le scale per il sottopassaggio della metro.

“Non ho bisogno di pensare,” gli sbatté in faccia John, svuotando la tasca della giacca per trovare la sua Oyster Card e passare i tornelli, “lo fai già tu abbastanza per tutti.”

La scala mobile li portava ancora più in basso al livello del binario, un ottima metafora per la fossa che si stavano scavando da soli, rifletteva Sherlock. Non dovettero attendere più di una manciata di secondi sulla banchina prima che il treno arrivasse e John salisse all'entrata più vicina, mentre Sherlock lo seguiva ancora titubante sul da farsi.

“Devo impedirti di fare un errore colossale,” disse all'amico mentre prendevano i primi posti disponibili fra gli ultimi turisti e pendolari decisi a raggiungere la loro destinazione prima che la serata si facesse troppo tarda.

“Hai già fatto abbastanza,” sibilò John, cercando di mantenere un decoro in pubblico anche se l'espressione alterata del suo volto svelava lo stato di collera e ubriachezza.

Ingenuamente, Sherlock aveva pensato che il confronto aperto con Mary, quando l'avevano analizzata come un qualsiasi cliente, fosse andato bene, in fondo. Stupidamente, aveva pensato che John avesse solo bisogno di una piccola spinta per reagire e fare la cosa giusta. Le sfumature e contraddizioni delle emozioni umane erano sempre la cosa più difficile da dedurre. Ma fuori da ogni dubbio, a prescindere da quello che poteva comportare per la loro amicizia e il loro rapporto e da quello che egoisticamente avrebbe preferito per sé, Sherlock sapeva che la cosa giusta per John era stare con Mary, e viceversa.

Senza che avessero modo di aggiungere altro, il treno aveva già raggiunto la loro destinazione e John, ancora più lucido di quanto Sherlock l'avesse pensato, fu subito pronto in piedi per scendere e avviarsi verso l'uscita. Forse Sherlock si era davvero intromesso troppo? Aveva il diritto di intervenire nelle vite di due delle persone più care a lui? Quanto rancore John provava ancora nei suoi confronti per aver finto la sua morte... Era questa una di quelle occasioni in cui la sua innata saccenteria gli aveva fatto stimare male la situazione?

Salite le scale e usciti dalla stazione, percorsero le strade che separavano John dal suo obbiettivo, sempre senza che l'uomo, carico di energia alcolica, accennasse un segno di esitazione. Finché non raggiunsero l'incrocio e la svolta da cui si intravedeva la sua casa. In quel momento si fermò, come se per la prima volta da quando era uscito, complice la gelida brezza invernale che non risparmiava un tremito e la maggior ossigenazione al cervello provocata dalla camminata spedita, riuscisse a pensare veramente.

John mosse qualche passo in avanti. Alla finestra del suo appartamento era visibile una sagoma. Qualche altro passo. Sherlock rimanse indietro, come per lasciargli un attimo di privacy. La sagoma era ovviamente Mary, rimasta sola nella casa, con la sola compagnia del bambino che portava in grembo, su cui la silhouette alla finestra teneva poggiata una mano. Non si potevano distinguere che i contorni dalla loro posizione, ma l'immobilità della sagoma, la sua staticità, davano a John l'impressione che fosse immersa in pensieri cupi, con lo sguardo vuoto fisso su qualcosa che nessuno a parte lei poteva vedere, e il cuore fermo in un'attesa che nessuno poteva spezzare. Forse ripensava alla mattina, in cui nuovamente il marito aveva a stento accennato a riconoscere la sua esistenza nella clinica senza rivolgerle uno sguardo diretto o una parola. Forse contava i giorni mancanti al congedo di maternità quando finalmente non avrebbe più dovuto sopportare il silenzio assordante in ambulatorio, e forse perdere anche quell'ultimo contatto con John era la cosa che più di tutte le trafiggeva l'anima. Forse era così assorta da non riuscire a pensare a nulla di preciso. Forse si sentiva come John.

“Andiamo via.”

Con lo sguardo basso, John fece dietrofront e prese a ripercorrere la strada da cui erano arrivati, sorpassando Sherlock ancora fermo.

“Cosa? Dopo tutto questo trambusto ce ne andiamo?” tenne il punto Sherlock, come faceva sempre.

“Andiamo via,” ripeté semplicemente l'amico.

Scesero nuovamente nella metropolitana. Il treno stava già arrivando, e ai piedi della scala John svoltò subito, prendendo il primo varco per accedere all'inizio del binario, salendo sul penultimo vagone appena in tempo prima che le porte si chiudessero, e Sherlock fece lo stesso dietro di lui. Il vagone era completamente vuoto, fatta eccezione per una giovane donna vestita in modo elegante e professionale appoggiata all'estremo sinistro del vagone contro la porta di intercomunicazione fra carrozze, di cui oscurava la finestra con la testa. Era troppo impegnata a trafficare sul suo tablet per rivolgere più di un mezzo sguardo di traverso ai due nuovi viaggiatori nella carrozza prima di tornare a premere qualcosa sullo schermo con la pennina che stringeva fra le dita. John si accasciò su un sedile vuoto a qualche metro da lei, e Sherlock si sistemò al suo fianco.

Le porte si richiusero e il treno partì con un sussulto. Dopo tutta la rabbia e lo scatto energetico, era come se John adesso avesse esaurito tutte le forze.

“È stato un utile spunto di ricerca, comunque,” iniziò a chiacchierare Sherlock, distaccato, cercando di recuperare la normalità e pensando che il peggio fosse ormai passato, “non credevo che un ubriaco potesse muoversi e orientarsi così velocemente, dovrò rivedere alcune delle mie stime abituali.”

Ma finalmente l'alcol fece l'ultimo e più spiacevole dei suoi effetti. Spentasi l'ira, vista l'immagine della moglie che gli aveva provocato questa sofferenza ad una così breve distanza incolmabile, ora era esploso lo sconforto. Con il capo chino, il corpo di John prese ad essere scosso da piccoli singhiozzi, che si fecero sempre più intensi, finché l'uomo non si portò le mani al volto per celare il pianto incontrollato che l'aveva sopraffatto.

Di tutte le reazioni umane, questa era la più aliena e sconvolgente per Sherlock, e quella per cui non aveva mai una risposta. Di sasso, guardava spaesato il volto dell'amico sprofondato nelle mani mentre i suoi singhiozzi e sussulti riempivano il silenzio del vagone quasi completamente vuoto. Sherlock cercava qualcosa da dire senza ottenere alcun risultato. Sapeva in teoria quello che si doveva fare, che non servono parole e che basta un contatto fisico di conforto e rassicurazione, glielo aveva insegnato qualcuno rimproverando i suoi deficit di comprensione delle interazioni basilari che le persone normali usano. Ma non riusciva a muovere un muscolo e creare quel contatto.

Sfarfallio delle luci del vagone, un sobbalzo del treno in corsa e il corpo di John già sconvolto dai tremiti perde l'equilibrio, andando a scontrarsi e ricadere su quello imponente dell'amico seduto accanto. John stava piangendo contro la spalla di Sherlock e sembrava aver perso ogni freno per smettere. Sherlock voleva davvero alzare il braccio e cingere la schiena di John in segno di supporto e consolazione, ma non ce la faceva. Era come paralizzato, assente. Aveva i biondi capelli brizzolati di John così vicini, quei fili argentei che li coloravano così graziosamente. Sherlock voleva quel contatto e anelava a quel contatto e probabilmente ne stava traendo più lui di quanto non facesse John, ma non riusciva a dargli riconoscimento. Non era una cosa difficile, eppure creare una simile connessione umana autentica, non preparata ed esercitata, era difficilissimo per lui, come se il software fosse assente dalla sua programmazione.

Un nuovo sfarfallio delle luci del vagone, e queste si spengono completamente, lasciandoli immersi nel buio più nero. Non particolarmente insolito per quanto spiacevole, viaggiare attraverso tunnel sotterranei completamene ciechi e in trappola chiusi in una gabbia sigillata senza nessuna possibilità di ingresso e via di fuga come topi, ma per un secondo Sherlock fu grato al buio per aver alleggerito l'imbarazzo della situazione. I singhiozzi di John rallentano e si attenuano. Nel nuovo silenzio creatosi nel vagone praticamente deserto, si avverte il rumore di un colpo. Poi sfrigolii, fruscii, suoni metallici, dei colpi soffusi, un tonfo sordo. La pressione di John contro la spalla di Sherlock è diminuita, forse l'uomo sta tornando in sé.

Il bagliore intermittente e incerto delle luci sfrigolanti riemerge, prima che la luminosità ritorni stabile e la luce funzionante nel vagone che imperterrito non ha per un momento rallentato la sua corsa. Gli occhi impiegano qualche momento di troppo a riabituarsi alla luce, e quello che li attende è una vista aberrante.

Distesa faccia a terra sul pavimento del treno a poca distanza dai piedi di Sherlock e John, l'unica altra anima viva che si trovava nel vagone, la giovane donna elegante, giace esanime al suolo in una pozza di sangue con un foro nella nuca.
 
***

Nel prossimo capitolo: Perché va a finire sempre così quando ti do retta, Sherlock!
 
***

Nota dell'autore: Sono cinque anni che non pubblico una storia su questo sito. Cinque anni. Wow. Ne sono successe di tutti i colori, e non pensavo affatto di tornare a scrivere qui. Ma se dovevo tornare, non poteva essere che per Sherlock. Ai tempi dell'ultima storia che ho pubblicato qui, Sherlock era solo alla prima stagione, il fandom italiano era appena agli inizi, avevamo solo 3 episodi e mesi di attesa davanti, e guardate invece quanta strada abbiamo fatto: adesso abbiamo ben altri sette episodi con cui tormentarci! Scorrere le mie vecchie fan fiction mi fa rabbrividire, non ho il coraggio di rileggerle, sono davvero imbarazzanti. Spererei che le mie doti di scrittura fossero un po' migliorate, ma non ci giurerei. Se, in ogni caso, in un modo o nell'altro, questo capitolo iniziale e il setting introdotto hanno stuzzicato un minimo il vostro interesse, spero che vorrete farmi sapere cosa ne pensate nei commenti e che tornerete nei prossimi giorni per il prossimo capitolo, in cui le cose inizieranno ad entrare nel vivo. The game is afoot!

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Capitolo 2
*** Tension ***


Capitolo 2 – Tension
 

“Cristo, Sherlock!” gridò John alla vista del cadavere, scattando in piedi.

Sherlock si era già alzato e chinato sul cadavere, per controllarne lo stato. Il foro nelle nuca le squarciava il collo da parte a parte, lacerando vertebre, faringe e carotide, e rilasciando il mare di sangue che stava impregnando il pavimento del vagone del treno.

“Cosa diavolo è successo, non c'era nessun altro nel vagone!” urlava John, sconvolto dall'accaduto.

“John, ho bisogno del tuo parere medico, controlla le sue condizioni!” lo intimò Sherlock, immediatamente preso dal caso. Estraendo la sua lente di ingrandimento portatile, iniziò a ispezionare la giacca scura e le vesti eleganti della donna alla ricerca di ogni minimo dettaglio utile alle sue deduzioni.

“È morta!” esclamò John senza avvicinarsi al corpo, ancora scosso per l'accaduto, stropicciandosi gli occhi per cancellare gli ultimi segni delle lacrime e schiarire le nubi del torpore dato dall'alcol.

“Grazie, Capitan Ovvio!” lo ammonì Sherlock, “controlla la ferita, descrivimi tutto quello che vedi, cosa può averla provocata, chi può averla inflitta, con quale intensità, tutto!”

Con la lente, si stava spostando ad analizzare la suola delle scarpe della donna, nere, con mezzo tacco e aperte sul davanti, perfette per un ambiente di lavoro distinto e professionale. Infatti, non trovò particolari tracce di terra o fango su di esse; la loro pulizia e precisione non denotavano soltanto la cura e attenzione della loro padrona, ma probabilmente anche che erano indossate unicamente in interni, sul posto di lavoro, sulla metro e lungo il breve tratto di strada pubblica che li collegava.

“Muoviti, John, svegliati!”

Riscuotendosi, John si riprese dallo shock della vista dell'omicidio, e si inginocchiò ad analizzare la ferita con l'occhio esperto di medico.

“È una lacerazione netta, pulita,” iniziò a spiegare John al collega, sbattendo ripetutamente le palpebre per risvegliare la lucidità offuscata dagli alcolici, “è stata fatta con un oggetto appuntito, una punta affilata e di lunghe dimensioni, il colpo è stato accompagnato fino all'uscita nella laringe.”

Terminata l'ispezione sulle scarpe, Sherlock ripercorse la lunghezza del corpo della donna e si avvicinò a John per tornare a osservare il capo della vittima riverso a terra, in cerca di segni fra i capelli, spille, forcine, orecchini, collane. La vista del crimine aveva spazzato via dalla sua mente tutti i pensieri di qualche minuto prima. Adesso il sipario si era alzato e il gioco era iniziato, l'adrenalina scorreva nelle vene e tutta la sua concentrazione era rivolta a risolvere il nuovo mistero, non c'era più tempo per riflessioni e banalità umane.

“Intendi che è stata colpita con una lama?” chiese delucidazioni al compagno, “un coltello?”

“No...” fece John continuando ad osservare la ferita, un po' di insicurezza nella sua voce, “non ci sono i segni di lacerazione interna che lascerebbe la lama sfilettata di un coltello...” Un attimo di esitazione, poi continuò, “solo la punta di ingresso dell'arma era affilata, e questa ha poi penetrato tutto il collo. Come una freccia, non so, o una lancia.”

“Una lancia?” ripeté Sherlock pensoso, alzandosi dal cadavere di cui ormai aveva analizzato ogni minimo particolare e partendo con l'analisi del vagone, iniziando con l'assicurarsi che tutti i finestrini sopra le sedute per i passeggeri fossero chiusi e illesi.

“Sì, lo so che sembra assurdo,” confermò John, tornando a stropicciarsi gli occhi per schiarirsi le idee. Anche la sua attenzione si stava spostando dal corpo all'ambiente circostante, e il suo sguardo si posò sugli accessori che la donna stringeva fra le mani prima di essere uccisa, e che nella caduta erano finiti a qualche passo da lei. “O anche come una penna,” continuò a ipotizzare, avvicinandosi al tablet e alla penna della donna caduti a terra, “tipo questa.”

L'ispezione di Sherlock si era spostata sotto ai sedili verso il condotto dell'aria condizionata, in cerca di qualche apertura o rottura anomala nelle grate. “Una penna?” gli fece di nuovo eco, perplesso.

“Stava tenendo in mano questa penna,” iniziò a proporre John, cauto, “prima che si spegnessero le luci... magari un sobbalzo del treno, ha perso l'equilibrio, è caduta e... e la penna le si è infilzata in gola!”

“La penna le si è infilzata in gola? John, ma sei ubriaco?!” lo canzonò Sherlock, muovendosi verso lo sportello dei cavi e controlli elettrici del vagone e verificando che fosse serrato, privo di fori, congegni o meccanismi come doveva essere. “Per quanto pungente potesse essere nella scrittura dei suoi proclami politici, una penna non sarebbe mai stata abbastanza affilata per fare una ferita del genere.”

“Proclami politici?” adesso era John ad essere perplesso e a fare il pappagallo.

“Era ovviamente una parlamentare,” spiegò Sherlock senza farsi desiderare, “guarda il modo distinto in cui è vestita, la sua acconciatura, le sue scarpe sono perfette e questa linea ha un cambio comodo con Westminster.”

Camminò verso il fondo del vagone, nel punto in cui si trovava la donna quando vi erano entrati, e iniziò a perlustrare la porta di intercomunicazione fra carrozze su cui si era appoggiata la donna prima del decesso. La porta era chiusa a chiave, e anche il finestrino era chiuso, ma non bloccato.

“Inoltre,” completò il ragionamento, “prima che si spegnesse ho notato sullo schermo del suo tablet il logo del parlamento in cima a una pagina web.”

“Il solito occhio brillante,” lo complimentò John, sorpreso come sempre da quanti elementi riuscisse a catturare ed elaborare l'amico con la sua vista aquilina.

Il vagone raggiunse la sua fermata, iniziò a rallentare nei pressi del binario, per arrivare a fermarsi completamente. Il tipico richiamo acuto avvertì dell'apertura delle porte.

“Blocca la porta!” ordinò Sherlock all'amico così che il treno non ripartisse, e con un balzo si gettò immediatamente fuori sul binario, correndo verso la sicurezza della metropolitana che, appostata sulla banchina, vigilava il transito.

“Fermate il treno!” urlò ai due uomini della sicurezza, mentre i pochi passeggeri usciti dai vagoni antecedenti al suo si fermavano per voltarsi a guardarlo confusi. “Fermate il treno, c'è stato un omicidio!”

Gli uomini del servizio di sicurezza metropolitana notarono l'aria genuinamente preoccupata di Sherlock e di John rimasto a fare il palo, e prendendo sul serio il grido d'allarme accorsero subito verso il penultimo vagone del treno per accertarsi di cosa stesse succedendo. Avvicinandosi, già dai finestrini poterono scorgere la vasta macchia di sangue che copriva il fondo di gran parte del vagone, e la schiena della vittima. Si affacciarono appena dentro al vagone, e uno dei due prese immediatamente la radio di servizio per lanciare un comunicato sul fermo del treno, l'altro fece poco dopo lo stesso per chiamare la squadra di polizia interna alla metro sulla scena del delitto.

“Cosa sta succedendo?!”

“Omicidio?!”

L'esiguo gruppo di passeggeri appena scesi dal treno, e di quelli che si accingevano a salirci, incominciò a farsi molto sonoro con domande e stupore, e la sicurezza fu costretta a occuparsi di farli restare calmi e lontani dalla scena del delitto, cercando di tenere d'occhio tutto in attesa dei rinforzi.

“Ma com'è possibile, c'eravamo solo noi sul vagone,” chiedeva perplesso John avvicinandosi a Sherlock e lasciando la sua posizione di fermaporta ormai superflua, ora che la corsa del treno era stata interrotta dalle autorità. Quella punta di eccitazione e curiosità che lo portava a cacciarsi sempre in situazione pericolose lo aveva risvegliato dalla nebbia alcolica. “Era tutto chiuso, e il treno era in corsa, non è che potesse entrare qualcuno!” aggiunse.

Sherlock aveva un mezzo sogghigno di sfida e concentrazione nel volto. Riconoscendo quella espressione, John sapeva che l'amico stava già calcolando tutte le possibilità e mettendo insieme i pezzi del puzzle. Se prima avevano notato l'aria preoccupata della coppia di detective, adesso che i due si erano riavvicinati e stavano parlando in modo concitato, gli uomini della sicurezza iniziarono a chiedersi chi fossero questi due, cosa stessero confabulando, e perché avessero quell'espressione elettrizzata di eccitazione nello sguardo.

“State calmi, la situazione è sotto controllo,” intimava la sicurezza ai viaggiatori, mentre continuavano a scambiarsi comunicazioni con gli altri agenti via radio.

Fra la calca formatasi, una giovane donna, vestita di tutto punto, con in mano una borsa portadocumenti scura altrettanto professionale, cercava di farsi largo per allontanarsi dal binario, apparentemente non interessata al tragico evento che stava trattenendo tutti gli altri. Sherlock la notò subito. Nell'altra mano, il dettaglio che più di tutti gli altri lo colpì: un cellulare con attaccato un gancio a morsetto per treppiede.

In pochi minuti, una squadra di polizia composta da una manciata di agenti raggiunse il binario. Vedendo che la donna che lo aveva insospettito si stava allontanando, Sherlock cercò di intervenire.

“Fermate quella donna!” tuonò con uno slancio.

“Ehi, ehi, stattene buono,” lo bloccò immediatamente uno dei poliziotti, spingendogli una mano contro il petto per tenerlo indietro, “chi saresti?”

“È il signore che ci ha comunicato del cadavere, era nel vagone,” precisò uno degli addetti alla sicurezza.

“Eravamo nel treno con la vittima, è saltata la corrente, l'abbiamo trovata morta per terra, siamo venuti a comunicarvelo, e adesso voi vi state facendo scappare una possibile colpevole!” rispose Sherlock, accalorato e infastidito dal contatto forzato.

“Ah quindi eravate con la vittima prima del decesso,” fece con aria insinuante un altro dei poliziotti.

“Decesso? Quale decesso?” intervenne John a supporto, “è stata chiaramente uccisa! Ha un buco nel collo!”

“Uccisa,” continuò con una sfumatura sarcastica il primo poliziotto, che dall'atteggiamento strafottente sembrava essere a capo della squadra, “dentro al treno in corsa in cui vi trovavate anche voi.”

L'elegante donna sospetta era ormai fuori dal campo visivo di Sherlock, probabilmente si era già defilata approfittando dell'occasione. Altri agenti di polizia si stavano introducendo dentro il vagone e stavano iniziando a perlustrare la scena del delitto.

“Poi l'abbiamo trovata morta per terra, siamo venuti a comunicarvelo, vi siete fatti scappare una possibile colpevole, e adesso state contaminando la scena del crimine!” riprese Sherlock, sempre più indignato. “Un ottimo lavoro come sempre, siete al livello di Scotland Yard.”

“Moderi subito questo atteggiamento, signore.”

Ignorando il rimprovero del poliziotto, con uno colpo forzoso del braccio Sherlock cercò di scollarsi di dosso la mano che lo stava tenendo a freno per spingersi verso la folla e seguire la donna misteriosa, ma il poliziotto lo blocco immediatamente, tornando a spingerlo indietro.

“Dove pensa di andare?!” gli urlò, “sta cercando di scappare!?”

“Non sono io che sto scappan-”

“Bloccate le uscite al binario!” intimò il poliziotto ai suoi colleghi, che subito raggiunsero la posizione per impedire l'uscita o ingresso di altre persone attraverso i varchi del sottopassaggio.

“Ormai è troppo tardi, stupido idiota, se n'è già andata!”

Dimenandosi più forte, con un nuovo scatto del braccio Sherlock si liberò dalla presa del poliziotto e cercò di muovere qualche passo, ma quest'ultimo gli fu di nuovo subito addosso. Il poliziotto afferrò Sherlock per il braccio con cui aveva cercato di liberarsi, glielo girò prepotentemente dietro la schiena facendolo girare, e con violenza lo spinse contro l'esterno del treno. Il torso di Sherlock colpì forte il fianco del treno con un tonfo sordo, sbattendo quasi la faccia contro al finestrine, e rimase incollato lì senza potersi spostare, sotto la continua pressione del poliziotto che adesso gli stava addosso per immobilizzarlo completamente.

“Come si permette!” tuonò John, acceso di rabbia dall'atto di inutile violenza contro Sherlock.

Istintivamente, anche lui si portò avanti contro i poliziotti per fronteggiarli e andare in aiuto all'amico.

“Non avete alcuna idea di chi io sia, brutti incompetenti?!” stava già inveendo Sherlock, tentando invano di scrollarsi il poliziotto di dosso. “Sono Sherlock Holmes, il detective più brillante di Londra!”

“Sì, e io ho le ruote!” lo canzonava il poliziotto, continuando a premerlo contro l'esterno del vagone.

“Lo lasci andare immediatamente!” imprecò duro John buttandosi contro i poliziotti, che facendo scudo umano contro il collega impegnato con Sherlock lo tenevano indietro. “Lo lasci andare!”

Sempre più alterato, complice il suo caratteraccio e il fuoco dell'alcol che ancora scorreva forte nelle sue vene, John iniziò a lanciare colpi contro le forze dell'ordine per farsi spazio fra loro, e preso finì anche lui circondato e immobilizzato dai un paio di poliziotti. Le guardie lo agguantavano in tutti i modi per braccia, torso, spalle per cercare di tenerlo a freno, ma non c'era verso di tener buono John, che quando vedeva Sherlock in pericolo non ci vedeva più.

“Mi lascia andare, sono Sherlock Holmes!” urlava uno.

“Lo lasci andare, è Sherlock Holmes!” gridava l'altro.

Facevano più trambusto della misera folla ferma lungo il binario, che li guardava con occhi di timore e condanna già pronta a designarli come i colpevoli del crimine. Presto, la situazione superò il limite, e il capo della squadra di polizia si trovò costretto a prendere provvedimenti per riprendere il controllo.

“Arrestate questi due!”

Con un tonfo metallico, in men che non si dica Sherlock e John si ritrovarono sbattuti in gattabuia.

“Perché va a finire sempre così quando ti do retta, Sherlock!” disse John dando un colpo alla parete, fra lo sconforto e l'irritazione ma ancora con l'adrenalina addosso.

Sherlock si stava ambientando nella cella, definendone lo spazio a piccoli passi, e andando a raggiungere il letto posto nel lato più estremo, a cui si appoggiò puntellandolo con un piede.

“Mi sembra che tu abbai fatto tutto di testa tua, sinceramente,” rispose il collega, beffardo anche in questa situazione compromettente.

“È sempre colpa mia, sempre,” ribatté John, sconfortato ma ribollente di eccitazione nella voce per l'accaduto in stazione.

“Almeno potresti ammettere che ti diverte,” lo punzecchiò Sherlock, fuori luogo.

Con uno scatto fulmineo, John gli si gettò addosso e lo afferrò per il bavero della camicia con entrambe le mani, come se stesse per dargli un pugno sul naso. Il suo corpo era contratto come se stesse caricando nelle braccia tutta la rabbia e dolore che aveva covato negli ultimi mesi e che la disavventura alcolica aveva fatto venire a galla. Le mani serrate in pugni stringevano così forte il colletto di Sherlock quasi da poterlo strappare, come se tutte le confuse emozioni del dottore si stessero concentrando nelle sue mani. La sua faccia, rigida in un'espressione torva, con le sopracciglia aggrottate che gettavano sugli occhi un'ombra minacciosa, si trovava a pochi centimetri da quella di Sherlock; gli occhi truci di John, con un'impassibile espressione raggelante che il detective aveva visto nella faccia dell'amico solo poche altre volte, perforavano i suoi. E nonostante il visibile stato emotivo alterato del compagno, Sherlock non poteva trattenersi dall'ironizzare.

“Non ci sarà bisogno di pregarti di darmi un pugno questa volta, eh?” sogghignò.

“Senti la musica nella tua testa quando dici queste stronzate?” gli soffiò in faccia John, carico di troppe emozioni.

Le sue mani strette come morse non volevano lasciare la presa, il suo sguardo fiammeggiante non voleva accennare a spostarsi dagli occhi di ghiaccio di Sherlock. La molla interiore di John sembrava ad un passo dallo scattare mentre la tensione fra i due montava a un livello insostenibile. Una tensione accumulata e covata per molto tempo, e che andava ben oltre gli eventi accaduti quella sera, o la rivelazione sull'identità di Mary. Una tensione tale che se ne potevano vedere le scintille ad occhio nudo, così pesante e così radicata nel loro rapporto ma che nessuno dei due uomini aveva mai avuto il coraggio di riconoscere o esternare, eppure sempre così costantemente presente. Una tensione che stava fremendo e strepitando e scalpitando.

Sotto la stretta del compagno, oppresso dalla presenza incalzante sul suo corpo e dal fuoco nei suoi occhi che sembravano volerlo distruggere col pensiero, Sherlock dovette distogliere lo sguardo, e farlo scendere su qualcosa di più sostenibile. Abbassando gli occhi sulla bocca di John, Sherlock poteva vedere vicina come non mai la linea della mascella del dottore, e la barbetta corta che la marcava. Poteva immaginare la sensazione ispida che avrebbe avuto al tatto. Riusciva quasi a sentire la sensazione pungente che avrebbe avuto al contatto con la sua pelle. Voleva provare quella sensazione di frizione contro la sua carne. Il respiro concitato di John soffiava nella faccia di Sherlock l'odore pesante del suo alito alcolico in una maniera terribilmente inebriante. Rilassando impercettibilmente la fronte e allentando lo sguardo, anche gli occhi di John stavano inesorabilmente calando fino a posarsi sulle labbra di Sherlock, scorrendo sull'onda definita del suo labbro superiore.

“Mi odio proprio allora,” sussurrò Sherlock. Tutti i dubbi e i pensieri sui torti che aveva commesso contro l'amico, sul dolore che gli aveva provocato, e sul rancore che l'altro doveva ancora provare contro di lui, tornarono a ronzare nella sua testa.

Di colpo, l'aggressività e frenesia di John fu spenta e cancellata di lampo. La morsa con cui imprigionava l'amico si sciolse, abbassò le mani ai fianchi, girò lo sguardo a terra, e voltandosi mosse qualche passo per allontanarsi verso la parete. Anche Sherlock riprese a respirare.

“Non ti odio,” disse John, dopo qualche infinito secondo di silenzio, “non potrei mai odiarti.”

Sherlock iniziò a ricomporsi, sistemando il suo colletto sgualcito e rimettendosi per bene in equilibrio sui piedi, mentre il compagno che adesso gli voltava le spalle continuava a parlare.

“A volte ho davvero creduto di odiarti per settimane,” aggiunse, “ma non potrei mai odiarti.”

“John...” accennò Sherlock, ma dire 'mi dispiace' era una delle cose più difficili per lui.

“Anzi,” esalò John con pesantezza, le parole che uscivano con difficoltà anche dalla sua bocca disavvezza dal parlare di questioni emotive e personali, “adesso, senza Mary, sei una delle poche cose che mi tiene in vita.”

Quelle parole presero Sherlock alla sprovvista. Erano troppo piene di significato per riuscire a incassarle, e lui non sapeva mai come gestire un segno di affetto. Ogni sentimento era così troppo forte per lui che lo lasciava semplicemente annientato.

La tensione fra i due si era tramutata in una ancora più opprimente, incolmabile e intoccabile. Meglio cambiare discorso.

Fu quello che fece John, staccando gli occhi dalla parete che stava fissando, per tornare a voltarsi nella direzione di Sherlock.

“Quindi? Come pensi di tirarci fuori da qui?” gli chiese. Alla fine, faceva sempre affidamento sul fatto che il compagno avesse una soluzione.

“Oh, non sarà un problema,” rispose Sherlock rincuorato, con un mezzo sorriso.

Coprendo la lunghezza della stanza con un paio di lunghe falcate, raggiunse la porta metallica e diede un paio di colpi decisi per richiamare l'attenzione della guardia appostata di sentinella nel corridoio antistante.

“Guardia! Guardia!” prese a chiamare, finché non vide dalla finestrella sbarrata della porta che questa si era avvicinata, “chiami Scotland Yard, Ispettore Greg Lestrade, così che possa chiarire questo malinteso!”

“Sono già qui,” di lontano, la voce di Lestrade gli fece eco. “Quindi,” aggiunse, raggiungendo la porta della cella di John e Sherlock e guardando quest'ultimo in facci attraverso le sbarre, “ti ricordi anche il mio nome quando ti fa comodo.”

“Salve Ispettore,” gli rispose Sherlock, simulando freddezza.

“Tirate fuori questi due fessi,” fece Lestrade alla guardia, che si affrettò subito a estrarre le chiavi, e aprire la porta della cella.

“Grazie, Greg,” lo accolse John.

“Dobbiamo smetterla di incontrarci così,” li salutò Greg, mentre Sherlock e John si apprestavano ad abbandonare dalla cella, e lo seguivano lungo il corridoio verso l'uscita, “e sarà meglio che nessuno di voi due abbia commesso un omicidio o ne andrà della mia reputazione, visto che vi ho liberato sulla parola.”

“E per sdebitarmi catturerò il colpevole, come sempre,” ribatté Sherlock.

“Hai già qualche idea?” gli chiese Greg, curioso.

“Ho già risolto il caso e so già chi è il colpevole,” replicò Sherlock come se niente fosse, mentre lasciavano l'edificio e si affacciavano nella rumorosa e trafficata strada londinese di fronte.

“Non guardatemi con quella faccia,” aggiunse in risposta alle espressioni equamente stupite di John e Greg, “è un caso così ovvio e banale che riusciresti a risolverlo anche tu, Scotland Yard.”

Con questo, prese ad incamminarsi verso sinistra, i due amici al seguito.

“Sono sicuro che stia esagerando,” scherzò John verso Greg, sarcastico.

“Mi serve solo che tu faccia il lavoro burocratico, Lestrade,” continuò Sherlock, camminando, “e che chiami l'assassina in commissariato.”

“Dovrai darmi qualche elemento prima di procedere ad un fermo, però,” lo ammonì Lestrade, trottando al suo seguito.

“Ho tutti gli elementi e le prove che vuoi,” lo rassicurò Sherlock, “mi serve soltanto una cosa.”

“Cosa?” gli chiese perplesso John, tenendogli il passo.

“Voglio sapere perché.”

***

Nel prossimo capitolo: La risoluzione del caso? … e la risoluzione della tensione fra Sherlock e John???

***

Nota dell'autore: Grazie a tutti quelli che hanno letto la storia, in particolare a chi è stato così gentile da decidere di seguirla e metterla fra i preferiti. Un ringraziamento speciale a dalia97 e Hotaru_Tomoe per le loro gentili recensioni, mi hanno fatto molto piacere. Spero che anche questo capitolo abbia colpito la vostra curiosità e sia stato di vostro gradimento, se vorrete lasciarmi dei commenti e considerazioni nelle recensioni sono davvero molto apprezzati. Grazie ancora per la lettura, ci vediamo la prossima settimana con il prossimo capitolo!

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Capitolo 3
*** Touch me ***


Capitolo 3 – Touch me


“Insomma, ho capito, vuoi farmi passare la notte in bianco,” si lamentò Greg, dando un'occhiata veloce all'orologio da polso che segnava mezzanotte meno dieci, mentre con l'altra mano apriva lo sportello della macchina della polizia con cui era arrivato, parcheggiata lungo la strada affollata di turisti e giovani londinesi fuori a divertirsi.

“Dobbiamo intervenire subito, prima che l'assassina faccia perdere le sue tracce,” rispose Sherlock, la voce fremente dall'emozione della caccia.

Mentre Greg si sedeva al volante e chiudeva la portiera, Sherlock e John si avvicinavano ai propri sportelli.

“Fortuna che avevi detto che mi avresti fatto dormire stanotte,” commentò sarcastico John andando ad aprire la portiera posteriore; non si poneva neanche il quesito di chi si sarebbe seduto davanti sul sedile accanto a Lestrade, l'enorme ego di Sherlock non entrava nel sedile posteriore. Inoltre, magari sedendosi dietro nessuno avrebbe notato se John riposava un attimo gli occhi e finiva di smaltire la sbornia.

“Hai ragione,” commentò piano Sherlock, soffermandosi con un piede dentro la vettura e l'altro ancora fuori, “avevo promesso di occuparmi di te come un vero amico, ma... che scelta avevamo, è morta sotto al nostro naso!”

“Ti conosco, non aspettavi altro,” rise John, con una punta di provocazione rimasta ancora nella sua voce dallo scontro di poco prima, ma l'ira era già sfumata. Come gli aveva detto, per quanto lo facesse sempre arrabbiare, non riusciva proprio a portare rancore a Sherlock. Non dopo tutto quello che avevano fatto e passato insieme.

“Neanche tu,” lo punzecchiò Sherlock, con un mezzo sorriso, “... e forse è proprio questo il problema,” mormorò fra sé e sé entrando completamente dentro l'auto e chiudendo lo sportello.

Ogni volta che John finiva in pericolo, veniva rapito o rischiava la vita, Sherlock si chiedeva se non avesse fatto male a coinvolgerlo nella sua sgangherata vita da detective. Il suo egoismo si intrecciava alla paura di perdere il compagno e alla consapevolezza che prima o poi sarebbe successo. Adesso sapeva per certo che quello che serviva all'amico era stabilità e tranquillità, per rimettere insieme i pezzi della propria vita e chiarire le questioni in sospeso, non distrazioni adrenaliniche e avventure potenzialmente letali. Ma allo stesso tempo lui più di tutti sapeva cosa voleva dire avere a che fare con una dipendenza, e quella che John aveva per i crimini e risolvere casi insieme a Sherlock era a pieno titolo una dipendenza, più allettante di qualsiasi droga, per questo si era fatto coinvolgere così facilmente in questo mondo. E in fondo, John e Sherlock erano dipendenti anche l'uno dall'altro; potevano stare qualche settimana, qualche mese, senza risolvere crimini insieme, ma non uno di troppo. Che tutto questo stesse facendo del male a John, e gli stesse rovinando la vita che Sherlock credeva che non avrebbe mai potuto avere per sé, era un pensiero sul fondo della sua testa che, conferma dopo conferma, era sempre più difficile mettere a tacere per il detective.

Ma in questo momento era quello che doveva fare. Il gioco era in corso, l'orologio stava ticchettando impaziente, e tutta la sua concentrazione doveva andare sul caso. Il resto dei pensieri potevano tornare per un po' sotto al tappeto dove era più facile lasciarli invece che affrontarli apertamente.

“Saremo da voi fra qualche minuto,” disse Lestrade, che intanto aveva iniziato una conversazione al telefono, e riattaccò. “Ho avvertito la polizia metropolitana che ci serviranno i loro video di sorveglianza, come mi hai chiesto,” fece in direzione di Sherlock, “ma dovremo andare a prenderceli di persona in stazione.”

“Che stiamo aspettando, allora?” lo incitò Sherlock, allacciandosi la cintura.

“Così magari avremo l'occasione di scambiare altre quattro chiacchiere con i simpatici poliziotti di prima,” commentò ironico John, assumendo una posizione comoda per il viaggio.

Greg mise in moto, e si gettarono nel traffico notturno. Mentre l'ispettore si destreggiava per le strade, le luci della notte sfrecciavano sui finestrini dell'auto, si riflettevano e si inseguivano in maniera ipnotica. Nelle ristrette dimensioni dell'abitacolo, i rumori e le voci provenienti dalla radio della polizia, su cui Lestrade doveva tenere un orecchio in caso di avvisi e aggiornamenti, rimbalzavano e riecheggiavano come un continuo e indistinto messaggio registrato, interrotto solo da qualche frase o commento sul caso da parte dei passeggeri. Greg cercava di carpire qualche dettaglio e deduzione da Sherlock, ma questo si lasciava scucire ben poco, per la sua avversione a fare ipotesi azzardate prima di essere certo del quadro completo, e per la sua passione per le grandi rivelazioni finali a sorpresa con cui poteva mettersi in mostra e dare spettacolo.

Non impiegarono molto per raggiungere la stazione che avevano lasciato qualche ora prima. Scesi dalla macchina e inforcate le scale per scendere nel piccolo atrio sotterraneo della stazione, avvicinandosi alla guardiola della polizia in prossimità dei tornelli, ritrovarono la faccia conosciuta del capo della polizia interna alla metropolitana che li aveva trattati così gentilmente poco prima.

“Ma guarda chi si rivede, il famoso Sherlock Holmes,” lo canzonò il poliziotto da dietro il vetro della portineria vedendoli arrivare, facendo riferimento alla colluttazione avuta al binario.

Innervosito dal commento irriverente, John assunse subito una posizione dritta e rigida con la schiena e il suo severo sguardo orgoglioso da soldato pronto a scattare all'attacco, non accettando la mancanza di rispetto verso il collega, ma Sherlock liquidò il poliziotto con uno sguardo torvo di sufficienza e superiorità, ormai troppo abituato a sentirsi chiamare in ogni modo denigratorio dagli agenti di polizia perché la cosa potesse minimamente scalfirlo.

“È tutto qui?” fece semplicemente il detective, afferrando i dischi con la copia dei nastri delle telecamere di sicurezza appoggiati sul bancone della guardiola e scavalcando Lestrade, che sarebbe stato responsabile di prendere in cura le registrazioni; anche lui ormai era troppo abituato a seguire Sherlock e lasciargli fare quello che voleva per esserne infastidito.

“Perdete tempo, li abbiamo già controllati noi, e non abbiamo notato nulla di sospetto,” rispose il poliziotto delle metropolitana, con fare saccente.

“Per questo ci siamo qui noi: voi non notate mai nulla,” ribatté Sherlock lapidario, infilando i dischi dentro la tasca interna del lungo cappotto e lasciando spiazzato il poliziotto, con grande soddisfazione di John che non si preoccupò di contenere un sorrisetto compiaciuto.

Voltandosi e tornando sui loro passi, Sherlock, John e Greg risalirono le scale dell'uscita e rimontarono nell'auto della polizia, direzione Scotland Yard. Arrivati alla sede, senza attendere di essere invitato e facendo come fosse a casa propria, Sherlock si fiondò nell'ufficio di Lestrade con i due amici al seguito e rovesciò i dischetti con le registrazioni delle telecamere di sorveglianza sulla scrivania. Urlò ad un inserviente che stava terminando di pulire gli altri locali ormai completamente deserti di portargli l'impianto video per visionare i filmati, e visto che questo tardava si preoccupò di andare a procurarsi lettore e monitor di persona, sbuffando che 'doveva fare tutto da solo' e che 'quel posto sarebbe finito in rovina se non ci fosse stato lui', mentre John e Greg si stavano ancora togliendo i soprabiti e meditavano di prendersi un caffè al distributore automatico in fondo al piano per prepararsi alla nottata.

“È questo il meglio che Scotland Yard può offrire?” sbuffò Sherlock, spingendo nell'ufficio di Lestrade un carrello con un vecchio televisore a tubo catodico collegato a un banale lettore DVD. “Alla faccia del progresso tecnologico,” continuò a lamentarsi, mettendolo in posizione e collegando i cavi della corrente alle prese elettriche.

Greg farfugliò distrattamente qualcosa sul taglio alle spese, sull'orario assurdo e la necessità di prenotare i dispositivi tecnologici in anticipo, ma era troppo scocciato all'idea di trascorrere anche quella notte al lavoro per prestargli attenzione. Nel frattempo, John rientrò nella stanza con due bicchieri di plastica pieni a metà di liquido scuro annacquato che voleva spacciarsi per caffè, e ne porse uno a Lestrade, andando a sedersi sulla scrivania e osservare Sherlock trafficare con i cavi.

Quando il vecchio televisore diede segni di vita, Sherlock inserì il primo dei dischi con i filmati di sorveglianza, e spinse il tasto 'play' sul telecomando.

“Fantastico, le registrazioni sono tutte mescolate,” sbottò Sherlock, alzando una mano al cielo in segno di stizza, “dovremo controllare tutti i dischi e verificare gli orari impressi sul filmato per essere certi di beccare la fascia oraria che ci interessa e non perderci nulla.”

“Ho la vaga sensazione che l'abbiano fatto di proposito,” biascicò John, leccando il cucchiaino del caffè, ancora troppo bollente.

“Cosa stiamo cercando, esattamente?” chiese Greg, che si stava rassegnando al fatto che questo sarebbe stato il programma per il resto della serata.

“Una giovane donna vestita in modo elegante, professionale, capelli castani, completo scuro, tacchi, con in mano una valigetta porta documenti e un cellulare,” rispose Sherlock velocemente, “che scende dal treno e abbandona il binario facendosi spazio fra la folla. John, tu l'hai vista, dovresti essere in grado di riconoscerla facilmente.”

“Non l'ho notata,” ammise John, mescolando il suo caffè.

“Strano, di solito hai sempre l'occhio attento per le belle donne, mi stupisce che ti sia sfuggita,” lo punzecchiò Sherlock, iniziando a mandare avanti il video.

“Mi stupisce invece che tu sappia riconoscere una bella donna,” ribatté John, ritorcendogli contro la frecciatina.

“Puro interesse professionale,” tagliò corto Sherlock, premendo troppi pulsanti tutti insieme sul telecomando.

“Sarebbe la nostra sospettata?” intervenne Lestrade, che ci stava capendo ben poco.

“Sì,” rispose Sherlock, “dall'abbigliamento e portamento simile alla vittima ritengo svolgessero la stessa professione, ovvero quella di membri del parlamento, se la mia deduzione sulla prima donna è corretta, è stata verificata la sua identità?”

Lestrade annuì. “La vittima si chiamava Catherine Reynolds, ed era una parlamentare del partito laburista.”

“Quindi, anche escludendo l'allontanamento sospetto dalla scena del crimine, c'è sicuramente una connessione professionale con la sospettata,” continuò Sherlock. “Devo verificare esattamente da quale vagone è uscita per confermare la mia ipotesi sullo svolgimento del delitto, e dobbiamo cogliere quanti più elementi possibili per scoprire la sua identità.”

Così iniziarono a scorrere i video della sorveglianza alla vecchia maniera, sperando di trovare la registrazione della fascia oraria in cui era accaduto il delitto il prima possibile. Ovviamente, la trovarono solo ore dopo sull'ultimo disco.

“Grazie al cielo, iniziavo a temere vi foste inventati tutto per farmi uno scherzo!” sbuffò stanco Lestrade, ormai al quarto 'caffè'.

“Rimanete concentrati, ho bisogno anche dei vostri occhi per scorgere ogni possibile indizio,” lo zittì Sherlock.

“I miei occhi non sono molto d'accordo,” commentò John, visibilmente assonnato.

Sherlock iniziò a mandare avanti il video piano, saltando circa una mezzora di registrazione ordinaria, fino al punto in cui si riconobbe mentre scendeva dal treno e andava ad avvisare la sicurezza dell'omicidio. A quel punto iniziò a riprodurre il filmato a velocità regolare, per non perdersi nulla.

Rividero tutta la scena dalla prospettiva del binario, gli uomini della sicurezza che correvano verso il treno, notificavano via radio la polizia metropolitana dell'avvenuto delitto, cercavano di tenere buona la folla che si accalcava e faceva domande. Ma gli occhi di Sherlock erano puntati sulla alta e longilinea donna con la borsa.

“Eccola, è lei!” la indicò toccando lo schermo con il dito. “È scesa dalla prima porta dell'ultimo vagone, quello adiacente al nostro, John, come pensavo. La pozione è esattamente quella che avevo previsto, tutto torna,” dichiarò con esaltazione nella voce.

“E quale sarebbe esattamente questa tua previsione?” tentò Lestrade.

“Shh,” lo ammutolì Sherlock, “dopo! Tenete gli occhi fissi sulla donna, non perdetela di vista!”

Fortunatamente, la visuale sulla donna era ottima grazie alla pozione della telecamera, attaccata sul soffitto nell'angolo estremo di fine binario, esattamente in prossimità della carrozza da cui era scesa, ma al momento la sospettata era ancora voltata di spalle. La donna stava esitando sul binario, avvicinandosi alla folla e apparentemente assistendo insieme agli altri viaggiatori alla scena con sorpresa. Ma, nel momento in cui stava per arrivare la polizia metropolitana, il suo atteggiamento cambiò. Iniziò a guardarsi in torno, poi a fissare il cellulare – “Avete visto? Avete visto cos'ha attaccato al cellulare?!” aveva esclamato Sherlock eccitato come un bambino ambizioso a cui la maestra dice che ha azzeccato tutte le risposte del compito – poi di nuovo a guardarsi in torno, e alla fine prese la sua decisione.

Mentre poco più in là Sherlock e John erano impegnati nella conversazione, la donna di scatto cercò di farsi spazio fra la folla per abbandonare il binario prima che fosse troppo tardi, e in quel momento lo Sherlock del video la notò e si voltò verso di lei, scansionandola con un'occhiata. Nel momento in cui Sherlock urlò di fermarla, forse presa dal panico, la donna si voltò verso di lui, poi dal lato opposto mostrando completamente la faccia alla telecamera, poi iniziò a spingere più forte fra la folla, e riuscendo a farsi largo uscì dal binario proprio mentre il poliziotto bloccava Sherlock. L'ultima apparizione della donna misteriosa la vedeva impegnata a cercare di staccare il gancio da monopiede attaccato al suo cellulare mentre risaliva il corridoio d'uscita e scompariva dalla visuale della telecamera. A quel punto iniziava la colluttazione vera e propria con gli agenti di polizia, e Sherlock finiva sbattuto contro il fianco del treno.

“Perbacco!” rise Lestrade, tutto compiaciuto alla vista di Sherlock immobilizzato col braccio dietro la schiena, “sono contento che questo momento sia stato catturato in video, così potrò rivederlo ogni volta che sono giù di morale e mostrarlo ai miei futuri nipoti per generazioni e generazioni,” lo prendeva in giro scherzosamente.

“Ok,” fece Sherlock interrompendo il video perché Greg non si divertisse troppo, e rimandandolo indietro, “ho le conferme che mi servivano, ma c'è un momento in cui la donna guarda in camera che sarà utile per l'identificazione.”

Sherlock scorre il video all'indietro, faticando a fermarlo al punto giusto e beccare il volto della sospettata. “Come diavolo funziona questo rudere,” si lamentava. “Eccola qua!” esclamò poi, quando riuscì finalmente a centrare il volto sullo schermo. “Ha lo zoom questo coso?” chiedeva, cercando di decifrare i pulsanti del telecomando e premendo tasti a caso, “può fare un fermo immagine? Ci serve per fare un controllo incrociato con i database della polizia. John!” lo rimproverò, come se fosse colpa sua se non riusciva a far fare al televisore quello che voleva.

“Credevo che tu sapessi tutto,” se la rideva di gusto invece il dottore, “vuoi che vado a cercarti il manuale di istruzioni?” Sonno a parte, assistere allo scontro fra Sherlock e tecnologia datata era uno spettacolo che non si sarebbe perso per nulla al mondo.

“Sta' zitto, John,” lo ammonì, “e passami il tuo cellulare. Farò una foto allo schermo e-”

“Aspetta un attimo,” lo bloccò Lestrade, alzandosi dalla sedia, “credo proprio di aver già visto questa faccia ora che la guardo con attenzione!”

“Conosci la sospettata e ce lo dici solo ora?” lo attaccò Sherlock, “fai pure con comodo, eh, non c'è fretta, abbiamo tutta la notte.”

“L'ho già vista da qualche parte,” continuò Lestrade, “ma non ricordo... ma certo! Quel volantino!”

Con uno scatto veloce, tornò alla sua scrivania e aprì il cassetto, e rimestando fra i fogli tirò fuori un volantino su cui troneggiava proprio la faccia della donna misteriosa della metropolitana. Sherlock, preso in contropiede, strappò immediatamente il foglio dalle mani dell'ispettore per guardarlo più attentamente.

“Harriet Borwick. Parlamentare di punta del partito conservatore. Faccia della nuova campagna per l'uscita dall'Unione Europea,” spiegò Lestrade

“Avevi la risposta nel cassetto da tutta la sera e ci hai fatto passare la nottata così?!” sbottò John, andando vicino a Sherlock a guardare anche lui il volantino.

“Come potevo saper-” tentò di giustificarsi Greg.

“Non importa,” lo liquidò Sherlock, “quel che conta è che sappiamo chi è. Falla venire subito in centrale,” ordinò a Lestrade, restituendogli il volantino.

“Sono le sei di mattina!” sbottò l'ispettore, “e sai che non è possibile, serve il via libera del procuratore prima di rilasciare il fermo e iniziare l'indagine, non se ne parla prima che faccia giorno.”

“Va bene,” sbuffò Sherlock, abituato a doversi districare fra l'inutile burocrazia, “fa' in modo di chiamare il procuratore appena si sveglia e farti rilasciare il mandato d'arresto subito. Per velocizzare le pratiche, andiamo a prenderla direttamente a casa prima che ci sfugga di nuovo, se non l'ha già fatto. Dimmi l'indirizzo.”

“Dovrò fare una ricerca nel database, ci vorrà un po'.”

“Ok, fallo,” accordò Sherlock, “e quando l'hai trovato mandami un messaggio con l'indirizzo, intanto io e John cerchiamo un taxi. Ci vediamo a casa della nostra parlamentare killer preferita!”

Infilando il cappotto, uscì dall'ufficio di Lestrade fulmineo così come ci era entrato ore prima, come se la stanchezza fosse qualcosa che non poteva affliggerlo. John lo seguì al trotto, congedando Lestrade con un cenno della mano.

Usciti in strada, Sherlock iniziò a camminare lungo la via alla ricerca di un taxi disponibile a quell'ora.

“Non ti stanchi proprio mai tu...” soffiava John, trascinandosi dietro di lui.

“Mi spiace per la nottata John, ma dormirai domani,” ribatté il detective, “tanto ci sei abituato ormai.”

Se John non avesse trovato l'irriverenza di Sherlock così divertente avrebbe anche potuto offendersi.

Arrivati alla fine delle via, dove intersecava la strada principale, riuscirono a beccare un taxi fermo in sosta, e ci montarono dentro.

“Procedi verso la zona sud di Londra,” indicò Sherlock all'autista in risposta alla sua domanda sulla destinazione, “ti daremo altre indicazioni lungo la strada.”

Dovendosi accontentare dell'indicazione vaga, l'autista avviò il tassametro, mise in moto e partì.

“Per ora è il massimo che posso dedurre,” Sherlock continuò a spiegare a John, seduto di fianco a lui, “basandomi sulla direzione della linea della metropolitana su cui si trovava, che ha capolinea appunto a sud, ammettendo che viva nella stessa area della parlamentare uccisa e che non si trovasse su quella linea solo per ammazzarla, il che è abbastanza probabile in effetti.”

“Rivalità politica?” bofonchiò John con la voce impastata e lo sguardo distante, proponendo un movente per l'omicidio.

“Possibile,” ammise Sherlock, “a giudicare dalla natura del delitto non si tratta solo di una divergenza di opinioni con successiva lite finita in tragedia, è stato sicuramente premeditato, e in vista della campagna che sta portando avanti la Borwick eliminare un possibile ostacolo potrebbe essere un buon movente, ma non escluderei anche che-”

Voltandosi verso John, Sherlock interruppe il suo monologo. Un po' per la comodità del sedile, un po' per il tepore del riscaldamento del taxi, un po' per la melodica voce del detective, John si era addormentato.

Sherlock stava lì a guardarlo nella penombra del sole sorgente, grazie all'inconsapevolezza dell'altro che gli permetteva di posare i suoi occhi su di lui in maniera più insolente di quanto avrebbe mai potuto osare altrimenti. Il profilo di John era un oggetto di studio affascinante; l'ampia fronte che spioveva sulla punta arrotondata del naso, le labbra strette leggermente protundenti, la ruga d'espressione che delimitava la bocca conducendo alla fossetta sul mento, la mascella colorata dalla barbetta corta – anche se lui la preferiva ben rasata – che risaliva alla basetta e all'orecchio graziosamente circolare. Sherlock lo fissava con lo stesso sguardo indagatore con cui cercava indizi per le sue deduzioni, ma adesso non c'era alcuna analisi dietro la sua osservazione se non la pura ammirazione estetica della composizione. Nonostante si sentisse in imbarazzo per la sfacciataggine del suo sguardo indagatore, non riusciva a distoglierlo. Sarebbe potuto stare ad osservare John per sempre. Non disse più una parola, per non svegliarlo.

Soltanto quando ricevette il messaggio di Lestrade sulla residenza della parlamentare Borwick, dal lato opposto della città rispetto a dove si stavano dirigendo, come temeva, ruppe il silenzio per comunicarlo al tassista. E solo un'altra volta quando gli chiese di fare una breve sosta, per scendere a comprare qualcosa. Ma ogni volta i suoi occhi tornavano immancabilmente a John, alle sue labbra che si schiudevano e schioccavano nel sonno, alla testa che si inclinava per il movimento della macchina svelando i tendini tirati e il pomo d'Adamo sul collo, al torace robusto che si alzava e abbassava dolcemente a ritmo col respiro rilassato. Quel breve viaggio insieme, da soli all'avventura come ai vecchi tempi, come se nulla fosse cambiato e tutto potesse succedere, era un tuffo in un passato così dolce per Sherlock, e parimenti così amaro perché non poteva più tornare e in realtà tutto era cambiato. Ma la realtà poteva rimanere fuori dal finestrino ancora per un po'. Qui, ora, c'erano solo Sherlock e John, da soli, all'avventura, come doveva essere.

“Siamo arrivati, signori,” gli comunicò l'autista facendo manovra per parcheggiare il taxi quando si trovarono di fronte alla villetta a schiera con giardino, identica a tutte le altre allineate nella strada residenziale, che era stata designata come la loro destinazione. Il sole si era ormai già alzato da un pezzo e aveva stirato i suoi raggi su una mattinata invernale particolarmente calda e soleggiata per la stagione.

“John...” tentò di chiamarlo piano Sherlock, ma questo non si svegliava. “John,” fece di nuovo, portando la sua mano a toccare leggermente la spalla del dottore. Un tocco lieve, una carezza delicata sopra il suo cappotto, per svegliarlo delicatamente.

Arcuando le sopracciglia e sbattendo le palpebre, John si svegliò.

“Accidenti, devo essermi addormentato,” si giustificò, stropicciandosi gli occhi.

“L'ho notato,” replico Sherlock ironico, porgendogli un pacchetto, “tieni.”

“Cos'è?” chiese John, ancora intontito.

“La colazione,” rispose Sherlock, estraendo dal sacchetto un cappuccino in un bicchiere di carta da asporto e un toast, e dandoli a John.

John li accettò, confuso. Le volte che Sherlock aveva fatto la spesa o si era interessato agli affari di casa si contavano sulle dita di una mano, e comprargli la colazione non era certamente un gesto che John si sarebbe aspettato dall'amico così proverbialmente, apparentemente, freddo. Ma lo gradì molto.

“Grazie,” mormorò, addentando il toast, non sapendo cos'altro dire.

“Non c'è di che,” minimizzò Sherlock, che stava ritornando alla sua normale facciata impassibile, “pensi sia meglio buttare giù la porta e assaltare la nostra assassina nel sonno, o aspettare che si svegli?” chiese, guardando fuori dal finestrino.

“No, Sherlock,” lo fermò John, ingoiando il boccone di toast, “intendo sul serio. Grazie.”

Sherlock si voltò noncurante verso l'amico, pronto a lanciare qualche battutina per cambiare discorso, ma in quel momento John gli appoggiò la mano sul ginocchio.

“Sherlock, amico mio...”

Le dita divaricate di John poggiavano sulla gamba di Sherlock, con i polpastrelli che si inclinavano verso l'incavo sotto al ginocchio. Un contatto cordiale, amichevole, ma che per Sherlock bruciava come il fuoco.

“Grazie per tutto quello che stai facendo per me,” continuò John, “un po' a modo tuo,” sorrise, “ma so che non è facile.”

Sherlock lo guardava negli occhi con un espressione completamente sconfitta, tutte le difese crollate. La pressione e il calore della mano di John sul suo ginocchio era l'unica cosa che riusciva a sentire, e voleva che non smettesse mai, ma allo stesso tempo non riusciva a sopportarla. Avrebbe voluto mettere la sua mano sopra quella di John, stringerla, accarezzarne le dita, spingere più forte il contatto contro la carne del ginocchio, ma era completamente inerme.

Forse per lo sbandamento dell'auto durante la manovra di parcheggio, forse per un gesto mal calcolato, la mano di John scivolò appena verso la coscia di Sherlock. Qualche millimetro appena, forse, ma che per Sherlock significava resa e distruzione. Distruzione di tutte le maschere che aveva costruito, di tutti i paletti che aveva infilzato nel suo animo, di tutte le menzogne che si era raccontato per fare quello che doveva, per rimanere al posto che sapeva spettargli. Il delicato contatto caldo della mano di John sulla sua gamba era un gesto di affettuosa intimità che lo stava uccidendo. Quel calore, quel contatto, cominciarono a generare un nuovo calore dentro Sherlock, una piacevole pressione crescente dentro ai suoi pantaloni che saliva e germogliava nonostante le proteste del detective. Non poteva assolutamente permetterlo, non qualcosa di così sconveniente, non poteva darlo a vedere. Il panico iniziò ad affluire nei suoi occhi. Doveva interrompere quel calore, quella pressione, quell'eccitazione.

Lo sguardo di John si fece più serio, perplesso per una frazione di secondo, mentre il suo busto andava ad irrigidirsi sull'attenti. Si era sbilanciato troppo, e adesso stava arretrando, un misto fra lo stupore per il suo stesso inusuale gesto di fraternalizzazione e l'imbarazzo per la posizione in cui si era messo da solo, amplificato dall'inesperienza emotiva di Sherlock, che rispondeva ad ogni segno d'affetto che lui gli porgeva con il vuoto. Forse John aveva intravisto qualcosa che non riusciva a decifrare negli occhi di Sherlock, forse era stato troppo avventato nel suo slancio di innocua intimità da ritrovarsi in prima persona a disagio. Velocemente, alzò e allontanò la mano dalla gamba di Sherlock così come ce l'aveva messa, interrompendo il contatto. Girando gli occhi verso lo schienale del sedile di fronte, si schiarì la voce, e ripeté flebile solo un altro 'Grazie'. Adesso sperava davvero che Sherlock cambiasse argomento.

Fortunatamente, fu il tassista ad intervenire. “Signori, siamo arrivati,” ripeté. E le barriere difensive di Sherlock furono magicamente di nuovo in posizione, le maschere al loro posto, la crisi sepolta di nuovo in qualche meandro del suo animo.

“Non ringraziarmi,” disse sorridendo a John, “ho finito i contanti e il tassista devi pagarlo tu.”

Uscì dalla macchina, e rimase lì fuori in piedi ad aspettare il compagno, fronteggiando la villetta della parlamentare.

“Non pensare di cavartela con la colazione,” fece divertito John richiudendosi alle spalle la portiera del taxi, “mi devi settanta sterline.”

Uno accanto all'altro, rimasero ancora qualche secondo ad aspettare sul marciapiede opposto alla villetta, mentre il taxi ripartiva. In quel momento, un uomo e un bambino, in età da elementari, uscirono dal portone di ingresso. Rimasta sulla porta a salutarli, invece, c'era proprio la donna colpevole dell'omicidio.

“Che bella famigliola, una di quelle apparentemente perfette che nascondono ogni tipo di nefandezza,” commentò Sherlock. “Andiamo, prima che se ne vadano,” partì.

“Aspetta,” lo fece esitare però John, che stava osservando la scena con un'altra sensibilità, “non stanno fuggendo. Aspetta almeno che il bambino sia andato via. Non c'è bisogno che sia presente.”

Sherlock ci mise qualche secondo, ma capì, e acconsentì. Rimasero ad attendere per qualche altro attimo, finché la macchina di famiglia con dentro il padre e il bambino diretto a scuola abbandonò il vialetto e scomparì dall'orizzonte. A quel punto, nessuno poteva risparmiare la criminale al giudizio di Sherlock.

Mentre i due entravano nel vialetto della casa, l'auto della polizia di Lestrade si fermò accanto al marciapiede, e l'ispettore ne uscì svelto per raggiungerli, con un cenno di saluto del capo. Saliti i gradini del porticato e arrivati tutti e tre sul ciglio della porta, Greg bussò, tirando il distintivo fuori dalla giacca.

La sospettata aprì subito la porta, come se si trovasse ancora lì dietro, ad aspettare.

“Buongiorno, signora,” le disse Lestrade, aprendo il distintivo e mostrandoglielo, “Scotland Yard.”

La donna, con lo sguardo sbarrato, si scostò dalla porta per lasciare ai tre il campo libero per entrare nella casa.

“Dobbiamo interrogarla per il sospettato omicidio di Catherine Reynolds.”


***

Nel prossimo capitolo: La soluzione del caso – questa volta per davvero!

***

Nota dell'autore: Questo capitolo è uscito molto più lungo di quanto pensassi e avessi calcolato nelle bozze, grazie se siete arrivati fino alla fine. Piuttosto che affrettarlo, ho preferito dividerlo in due, quindi qui trovate la rivelazione dell'identità dell'assassina, nel prossimo il resto della soluzione del caso. Intanto, la tensione elettrica fra Sherlock e John continua e peggiora, vedremo dove conduce e fino a che punto arriverà. Grazie a tutti per la lettura, la pazienza, il supporto e l'interesse. Un abbraccio speciale a Creepydoll, Hotaru_Tomoe, emerenziano, adlerlock e mikimac per le loro gentilissime recensioni allo scorso capitolo, e a tutti quelli che stanno seguendo la storia. Fatemi sapere cosa ne pensate anche di questo nuovo capitolo, ci riaggiorniamo presto! ;)

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Capitolo 4
*** Itch ***


Capitolo 4 – Itch
 

“Conoscevo appena la signorina Reynolds,” si giustificò la parlamentare Borwick, sospettata dell'omicidio della collega, “ci siamo incontrate qualche volte durante le sedute della Camera, e per impegni di routine, ma abbiamo sempre militato su fronti diversi, non abbiamo alcuna connessione.”

Nonostante l'iniziale sgomento, la donna aveva cercato di mantenersi il più possibile composta, e gestire la situazione. Sherlock si sfilò i guanti, ma non diede la mano alla donna; John, accaldato dal sole mattutino, si tolse il giubbotto, inondando di un aspro odore virile il compagno lì vicino che dovette fare uno sforzo per tenere lontani altri pensieri che minacciavano di distoglierlo dal caso. Ultimo ad entrare, John richiuse la porta alla sue spalle. Insieme a Greg, i quattro riempivano completamente il volume dell'ingresso della villetta.

“Abbiamo dei riscontri video sulla sua presenza nello stesso treno della vittima al momento dell'omicidio,” replicò Greg.

“Inoltre, ci ha visti chiaramente,” aggiunse Sherlock, includendo anche John nel discorso, “mentre si allontanava dal binario, non finga di non riconoscerci.”

“E con questo?!” si difese la Borwick, “due persone non possono trovarsi casualmente sulla stessa metro? Non sono salita insieme alla signorina Reynolds, né l'ho vista nel mio stesso vagone, o incrociata in nessun altro momento!”

“Due persone che vivono in parti completamente diverse della città?” rincarò la dose Sherlock. “Cosa ci faceva su quel treno, non stava di certo tornando a casa.”

“Stavo... andando ad incontrare alcuni elettori che avevano richiesto di vedermi,” rispose velocemente la donna, lasciando a John il sospetto che si fosse velocemente inventata una scusa. Sospetto che probabilmente Sherlock aveva già confermato osservando i movimenti involontari del volto della parlamentare, e notando i suoi occhi che avevano girato in basso a destra, evidenziando la menzogna.

“Mai visto un politico così sollecito!” esclamò Sherlock ironico.

“E chi siete voi due comunque?!” chiese la donna duramente, risentita, “se siete della polizia, dov'è il vostro distintivo?”

“Non siamo della polizia,” prese a rispondere Sherlock, precedendo Lestrade, che ormai se si trattava di spiegare la presenza di quei due in scene del crimine o interrogatori aveva il discorso preparato, “ma siamo degli efficienti collaboratori esterni. Io sono Sherlock Holmes, consulente investigativo, l'unico che troverà in giro.

“Questo, è il mio collega...” continuò, in direzione di John, che era rimasto un passo indietro a lui. Istintivamente, girò appena il busto e mise il braccio dietro la schiena di John per portarlo all'attenzione della sospettata, commettendo un grave errore di giudizio. “... John... Watson...” riuscì a fatica a completare la presentazione.

Il contatto con la schiena di John aveva riacceso il fremito che lo aveva sconvolto poco prima dentro al taxi. Il calore della camicia sgualcita indossata per tutta la notte, leggermente inumidita da un paio di gocce di sudore che imperlavano la parte bassa della schiena, la sensazione dei robusti muscoli lombari contro il palmo della sua mano. Doveva espellere questi pensieri e sensazioni dalla sua testa, non poteva, doveva concentrarsi sul caso, era impegnato.

Trovarsi di nuovo nel mezzo di un caso insieme a John. Presentarlo come il suo collega, il suo socio, il suo collaboratore. Il suo partner. Come ai vecchi tempi. La cosa più vicina a una relazione che potesse avere con John, trascorrere tutto il loro tempo insieme e fingere che fosse solo loro e che non sarebbe finito mai. L'atmosfera pregnante dei vecchi tempi d'oro mandava Shelock in tilt, anche se sapeva che era pura illusione: adesso tutto era cambiato, John aveva Mary e Sherlock doveva accettare il suo posto. Aveva aspettato troppo, e adesso era troppo tardi. Tanto non avrebbe mai avuto il coraggio di prendere John per sé in ogni caso.

Il contatto della mano di Sherlock sulla schiena di John stava durando qualche secondo di troppo, dannatamente troppo perché anche John non iniziasse a sentirlo. Prima non ci aveva fatto caso, poi era diventato leggermente strano e imbarazzante quel contatto inaspettato così prolungato, ma presto ne era stato completamente pervaso e penetrato. Quella mano sulla schiena era il contatto umano più significativo che avesse avuto da settimane. Quella mano grande, possente, le dita lunghe, i polpastrelli morbidi che sfioravano la sua pelle, solo un sottilissimo strato di stoffa a separarli. Era una carezza che alleviava le sofferenze che incancrenivano il suo animo, un solletico che andava a stuzzicare un prurito malcelato. Era un conforto così piacevole che non voleva più perdere. Nel suo cuore, era la risposta alla sua mano sul ginocchio di Sherlock, la connessione che finalmente Sherlock era riuscito a costruire e l'impulso che era riuscito a restituirgli. Un semplice gesto di affetto che poteva avere mille sfumature di significato e interpretazione, e nel loro caso le comprendeva tutte; tutti i molteplici sentimenti complessi che i due uomini provavano l'uno per l'altro racchiusi e condensati nel frammento di un istante così denso da farli implodere entrambi. Perché riuscivano a comunicare solo sull'onda dell'impulso, solo quando non pensavano e il filtro che celava le loro emozioni, razionalità o contegno che fosse, non aveva ancora fatto in tempo a scattare in posizione? Perché non riuscivano a comunicare apertamente?

La signora Borwick aveva già soprasseduto sulle loro presentazioni, la preoccupazione di inventarsi un alibi di innocenza era un tantino più pressante nella sua mente. Aveva fatto segno ai tre di accomodarsi nel salottino adiacente all'ingresso, esibendo una tranquillità che ogni parola del suo linguaggio del corpo contraddiceva. Greg si era già avviato. E con un sforzo enorme, come se dovesse sollevare un blocco di marmo, Sherlock spostò la mano via dalla bassa schiena di John e la infilò in tasca. Aveva infinitamente ragione, i sentimenti erano solo un tarlo che annebbiava la sua mente e lo confondeva, rendendolo inutile in quello che sapeva fare meglio. Non poteva permettere che questa cosa annebbiasse la lente del suo giudizio, era la sua vita, tutta la sua identità era basata su questo. Il lavoro era la cosa più importante per lui. Più importante anche di John? Poteva fingere con gli altri, ma non prendere in giro se stesso. Ma purtroppo John ormai scorreva su un binario parallelo. Però come fare per eliminare il virus, una volta che aveva già infettato l'hard disk?

“Ha incontrato la signorina Reynolds il giorno dell'omicidio?” stava chiedendo Lestrade alla parlamentare, entrambi seduti faccia a faccia su divani contrapposti, mentre Sherlock e John entravano nel soggiorno e si sistemavano trasversalmente ai divani, sempre uno accanto all'altro.

“No,” rispondeva la Borwick.

“Ho una domanda più importante,” li interruppe Sherlock, “come sta andando la sua campagna anti-europeista?”

La signora Borwick si irrigidì sulla schiena e assunse un atteggiamento più severo di orgoglio. “Molto bene, grazie,” rispose, “stiamo riscuotendo numerosi consensi e stiamo facendo sentire sempre più forte la nostra voce in parlamento contro le illegittime pressioni imposte dall'Unione-”

“Può saltare il comizio, non mi interessa,” la fermò Sherlock, “suppongo che la Reynolds fosse contraria alla sua campagna.”

“Ovviamente,” asseriva la donna.

“Ma svolgeva una carica minore, non abbastanza influente per rappresentare un ostacolo concreto ai suoi progetti,” rifletteva Sherlock, “allora perché l'ha uccisa?”

“Non ho ucciso nessuno!” gridò la Borwick, alzandosi in piedi dal divano.

“Si calmi, signora,” le intimò Lestrade, invitandola a risedersi, come fece, “ci racconti com'è andato il viaggio in metro dal suo punto di vista.”

“Non c'è bisogno di perdere tempo,” si intromise Sherlock prima che la donna cominciasse il racconto, “posso raccontare io cos'è successo, risparmiando la parte delle menzogne.”

“Sherlock,” lo ammonì Greg, “lasciala parlare.”

“Come dopo ogni seduta della Camera,” iniziò la donna, “finiti gli incarichi di lavoro, ho raccolto le mie cose e sono andata a prendere la metropolitana verso casa, ma per strada ho ricevuto una chiamata da uno dei principali gruppi di sostenitori della mia campagna in cui mi veniva richiesto di presenziare urgentemente, quindi ho cambiato linea, finendo sul vostro treno,” indicò Sherlock e John, “finché il treno non è stato bloccato, a quel punto ho cercato di cambiare treno il più velocemente possibile per non arrivare in ritardo al mio appuntamento. Tutto qui.”

“Può farmi vedere il suo telefono?” le chiese quindi Sherlock.

La Borwick esitò, spiazzata.

“Non si preoccupi, non voglio controllare la lista delle chiamate ricevute,” la rassicurò sarcasticamente Sherlock, “so già che non ha ricevuto nessuna telefonata da questi presunti sostenitori.

Il detective aveva già notato il cellulare appoggiato sul mobile dietro al divano, e senza fare troppi complimenti si mosse a prenderlo.

“Non può farlo,” tentò di fermarlo la donna, rialzandosi.

“L'ha tolto, ovviamente,” disse Sherlock rigirandosi il telefono fra le dita e ispezionandolo nei dettagli, “ma non poteva rimuovere tutto.”

Tornò nella sua posizione accanto a John. “Vedi?”, gli chiese, avvicinandogli il telefono, così che anche il compagno potesse guardarlo.

“Cosa?” John non notava nulla di strano.

“Questi,” esplicò Sherlock, indicandogli dei piccoli graffi paralleli su entrambi i lati del telefono, a bassa voce come se fosse una conversazione segreta scambiata in privato fra i due, “sono i segni che il gancio da monopiede che spesso tiene fissato al cellulare ha causato quando l'ha sfilato violentemente per sbarazzarsene al più presto. Presumo l'abbia gettato in un qualche cestino in stazione.”

La donna era ammutolita, già spiazzata. E lo show era appena cominciato.

“Ho dato un'occhiata al suo profilo Twitter venendo qua,” riprese Sherlock, liberandosi del cellulare della parlamentare e tirando fuori il proprio, “si fa foto continuamente a quanto pare, è pieno di selfie,” disse, scorrendo la pagina della sospettata e mostrando a Greg e John la notevole quantità di autoscatti che la popolavano. “Si fa selfie in parlamento, nel tempo libero, deve darle l'idea di sembrare molto moderna e al passo con i tempi. Si parla tanto di selfie come fossero il nuovo cancro della società, ma sinceramente neanche io mi aspettavo potessero provocare tali danni,” continuò Sherlock.

“Cosa c'entrano i selfie?” fece John, ormai completamente perso. Era tutto quello che serviva, il via libera dato dalla spalla del suo show, la curiosità già montata nel pubblico, per iniziare con il solito spettacolo di magia.

“Riepiloghiamo i fatti come sono accaduti veramente quella sera,” ripartì Sherlock, facendo un passo indietro, “facendo le dovute correzioni alla sua versione piuttosto scialba e piatta,” disse verso la Borwick, “poteva anche sforzarsi un po' se doveva mentire. Troppa precisione, solo le bugie sono precise, la realtà non è mai tagliata così di netto.”

Assumendo il centro della stanza, dominando il palcoscenico, Sherlock iniziò con i suoi giochi di prestigio.

“Uscita dalla seduta della Camera è salita sulla metro, quella che prendeva abitualmente il suo bersaglio, non quella giusta per lei. Sapeva già esattamente quale linea prendere, con un omicidio programmato così in anticipo sapeva a memoria tutti i dettagli, magari gliene aveva parlato la stessa vittima in principio. Ma in ogni caso l'avrà dovuta aspettare fuori dalla stazione, seguendola a breve distanza, vedendo su quale vagone saliva, sperando non ci fossero troppi testimoni. La parte del vagone era fondamentale, doveva sapere esattamente su quale sarebbe salita e se si fosse seduta. Deve aver avuto un'enorme pazienza e un rimarchevole sangue freddo, o un'enorme fortuna. L'aveva già fatto molte prove in precedenza, chissà quante volte il suo piano era saltato e aveva dovuto provare di nuovo, chissà quante volte l'aveva ripetuto ed esercitato, aspettando il momento più propizio, in cui tutte le coincidenze che le servivano si sarebbero incastrate. Sfortunatamente, ha beccato il giorno in cui c'ero io su quel treno.”

Una breve pausa strategica, per riprendere fiato e creare suspense nei suoi ascoltatori.

“Dentro la stazione, ha visto che la Reynolds è salita sul penultimo vagone; probabilmente il treno stava già arrivando ed era di fretta, quindi è salita su quello che era il più prossimo all'ingresso. Lei,” indicò la Borwick, “doveva salire su una carrozza adiacente, la terzultima o, ancora meglio, l'ultima, come abbiamo appurato dai video della sicurezza ripresi dalle telecamere in stazione, che la immortalano mentre esce da quello. L'ultimo vagone era perfetto, visto che è alla fine del binario, non immediatamente accessibile, e infatti rimane spesso vuoto tranne che nelle ore di punta. Le serviva che la Reynolds non si sedesse, ma rimanesse in piedi. Che si appoggiasse con la schiena contro la porta di intercomunicazione fra le carrozze. E così fece, è lì che l'abbiamo trovata io e John quando siamo saliti sul treno. Forse era una cosa che faceva sempre, una sua abitudine, per sgranchire le gambe dopo esser stata seduta a lungo durante il giorno, rimanere in piedi nella metro, e forse quello contro la porta di intercomunicazione era il suo posto preferito. Sicuramente lei l'aveva già notato, nei suoi innumerevoli pedinamenti della vittima, magari avevate preso anche il treno insieme qualche volta, per verificare meglio? Quanti soldi sprecati.”

Con un cenno della mano, indicò nella direzione del cestino sotto al mobile, nel quale, fra le cartacce, facevano capolino molti biglietti della metropolitana; a Sherlock era bastato uno sguardo prendendo il telefono della donna per verificare che erano tutti di tariffa superiore rispetto al chilometraggio che avrebbe richiesto la tratta fra Westminster e casa della Borwick. Questo confermava la sua deduzione che la parlamentare seguisse abitualmente la collega nella direzione opposta della metro finché questa non scendeva, cercando il momento propizio per ucciderla, per poi tornare indietro verso la sua abitazione, quindi percorrendo una distanza molto più ampia di quella che le sarebbe effettivamente servita per il tragitto diretto, che richiedeva l'acquisto di biglietti che comprendessero più aree metropolitane.

“Sicuramente suo marito non ci ha mai fatto caso,” completò il detective, “nessuno fa caso alla spazzatura, è solo spazzatura.”

“A questo punto,” continuò Sherlock, “lo scenario era ottimo, migliore delle molte altre volte in cui l'aveva provato. La Reynolds era appoggiata contro la porta che dava sul suo vagone – senza averla notata, perché chi mai sbircia nel vagone dietro al proprio? In più, il suo vagone era deserto. Le serviva solo che la terza e ultima coincidenza si ponesse in essere. La perdita di corrente durante il viaggio.”

“Ma cosa sta dicendo?” cercò di interromperlo la donna con tono di sufficienza per metterlo in ridicolo, “sono una marea di cavolate, non è vero nulla.” Questo suo atteggiamento confermava proprio che Sherlock ci stava prendendo in pieno, e si stava avvicinando sempre più alla conclusione che la Borwick temeva.

“È un fenomeno piuttosto casuale ma che accade spesso, come sanno bene i pendolari che frequentano spesso i treni, il fatto che salti la corrente e si spengano le luci del vagone per qualche istante. Un tempo brevissimo, ma abbastanza per uccidere una persona, evidentemente. Ha cronometrato la durata della perdita di potenza durante gli altri viaggi, ha fatto una stima della media dei secondi, o si è semplicemente allenata ad essere il più veloce possibile?”

“La smetta!” adesso la Borwick stava urlando apertamente, rendendo palese la sua colpevolezza, “fatelo stare zitto!”

“Continua, Sherlock,” lo spronò invece Lestrade, intimandole di rimanere buona con una mano, “cos'è successo poi?”

“Le luci hanno iniziato a sfrigolare, ecco il segnale che aspettava. Posso immaginare l'eccitazione, il fremito che provava, tutti i pezzi si stavano incastrando come aveva così a lungo sperato. Quando le luci si sono spente, è corsa alla porta di intercomunicazione, chiusa, solo la chiave del macchinista poteva aprirla. Ma a lei bastava il finestrino. Ho appurato durante la mia ispezione del vagone che il finestrino non era bloccato. Quello non è mai bloccato, anzi viene spesso lasciato aperto per far entrare un po' di ossigeno nel fetore del treno quando fa caldo ed è piano di persone. Così ha aperto il finestrino della porta dalla sua parte, poi si è sporta pericolosamente fuori, allungando il braccio sopra il fermo che unisce le carrozze e raggiungendo il finestrino della porta del vagone precedente, a cui si stava appoggiando la sua vittima. Ha aperto il finestrino dietro la testa della Reynolds, e ha alzato a mezz'aria l'arma del delitto, che aveva tenuto stretta in mano per tutto il tempo in cui era stata in treno, perfettamente mimetizzata in mezzo ai turisti senza destare alcun sospetto. Ormai è un oggetto che siamo abituati a vedere ovunque. Un'asta per selfie.”

“Cosa?!” esclamò John sorpreso dalla rivelazione, completamente immerso nella narrazione di Sherlock.

“È ridicolo,” cercò di obbiettare la Borwick, ma si vedeva che neanche lei credeva alle sue parole. Lestrade, da parte sua, aveva imparato a non dubitare delle deduzioni del detective.

“Esatto, ha ucciso la Reynolds con un asta per selfie, assolutamente ridicolo. Ha sganciato il morsetto a cui era fissato il telefono, lasciandolo attaccato al cellulare perché doveva essere svelta, a sbarazzarsi di quello avrebbe pensato dopo. Ha sfilato l'impugnatura del selfie stick, rivelando la piccola modifica che aveva fatto all'estremità dell'asta di metallo, il piccolo dettaglio che avrebbe allertato la sicurezza in stazione se fino all'ultimo non fosse stato coperto dalla plastica del manico: una punta affilata, probabilmente affilata da lei stessa in modo che diventasse abbastanza aguzza da ferire una persona, da lacerare un corpo. Come una freccia, o una lancia.”

Fece un sorriso a John, che gli aveva suggerito quel dettaglio con la sua iniziale osservazione del cadavere; l'amico aveva ancora gli occhi sgranati dallo stupore per la ricostruzione dei fatti.

“Ha esteso l'asta per tutta la sua lunghezza,” riprese a raccontare Sherlock, “coprendo perfettamente la distanza fra i due finestrini, e con un colpo secco, mettendoci tutta la forza che ha in corpo, l'ha infilzato nel collo della Reynolds. Ovviamente, il fatto che la punta fosse così affilata, e la velocità e spinta del treno in corsa, l'hanno aiutata, ma comunque complimenti per la forza e la precisione.

“A quel punto,” concluse Sherlock, “la vittima è caduta in avanti, lei si è sbarazzata del selfie stick, ha richiuso entrambi i finestrini e si è allontanata dalla porta, e quando le luci si sono riaccese io e John abbiamo trovato la donna stesa a terra, esangue. Sfortunatamente ero un po' distratto in quel momento,” confessò, ricordando John sconvolto dagli alcolici e dalla vista di Mary che piangeva contro la sua spalla, e riconfermandosi che tutte le emozioni e affetto erano un ostacolo alla sua prontezza di sensi e al suo intelletto, con una punta di senso di colpa e responsabilità, “quindi non ho notato i suoi movimenti al buoi mentre stava commettendo il crimine. Ma non la farà franca ugualmente.”

“Sono tutte idiozie!” inveì la Borwick, “fantasie della sua mente squilibrata!”

John, infastidito, serrava il pungo scosso dal tremito d'ansia che affliggeva la sua mano nei momenti di tensione.

“Non avete alcuna prova!” continuava a urlare la parlamentare.

“Oh, è proprio qui che si sbaglia,” sorrise Sherlock, che non aspettava altro, “se il video delle telecamere di sorveglianza che la ritrae allontanarsi nervosamente dalla banchina all'arrivo della polizia, più tutti i biglietti della metropolitana validi per il raggiungimento delle fermata di casa della vittima, e i segni del gancio da monopiede sul suo cellulare, non le bastano, sono sicuro che la polizia troverà fra i binari del treno un'asta da selfie aguzza e insanguinata ricoperta delle sue impronte digitali, e probabilmente perlustrando la sua casa anche gli attrezzi che ha usato per affilarla e appuntirla, magari nascosti fra gli utensili di suo marito.”

“Straordinario,” commentò John, guardando Sherlock con un sorrisetto ammirato. Quel sorriso che offuscava di gioia la mente di Sherlock e faceva saltare un battito al suo cuore. Mrs. Hudson aveva ragione: erano nel bel mezzo di un evento tragico, e si stavano divertendo in una maniera indecente.

“Non è vero,” tentò di rispondere all'accusa la Borwick, ricadendo seduta sul divano, sentendosi ormai stretta all'angolo, “non potete dimostrarlo... sono tutte illazioni...”

“Sono i fatti, è inutile negarlo ormai,” ribatteva Sherlock.

“Voglio un avvocato! Non potete trattarmi così!” cercava di difendersi la donna, sconfitta.

“Certamente,” rispose Sherlock, “ma neanche il migliore degli avvocati sarà capace di eliminare delle prove così schiaccianti.”

Il volto della donna cadeva verso il basso pesante, e si portò le mani alla fronte per sostenerlo.

“È un delitto molto ben congegnato, devo riconoscerglielo,” disse Sherlock, come se volesse consolarla col complimento di essere abbastanza scaltra da aver stuzzicato il suo intelletto, “probabilmente sarebbe passato inosservato a qualunque agente della polizia. Ma non a me.”

La faccia della donna era completamente sprofondata nelle mani, non sapendo più cosa fare o cosa rispondere nella disperazione.

“Signora,” le fece Lestrade, mite, “è meglio che confessi il delitto. Abbiamo già fatto emanare un mandato d'arresto nei suoi confronti, le merita confessare o peggiora soltanto la sua condizione.”

La parlamentare interruppe il silenzio dopo qualche secondo. “È vero,” sospirò, con la voce spezzata, “sono stata io, è andato tutto come ha detto quel... quel... geniale demonio.”

Lestrade si preparava a chiamare la centrale e prepararsi per l'arresto e la registrazione della confessione, ma c'era ancora un elemento che Sherlock doveva sapere.

“Solo una cosa che non sono stato in grado di dedurre rimane da chiarire,” riprese la parola Sherlock, “e quindi torniamo alla domanda iniziale: perché l'ha uccisa?”

La donna riprese fiato, espirò, poi inspirò profondamente di nuovo. Lentamente, sollevò il capo dalle mani, mostrando gli occhi rossi che si piantarono su Sherlock. Con la voce ancora rotta dai singhiozzi e dai tremiti che ne scuotevano il busto, rispose dopo qualche secondo.

“Perché la amavo.”

 

***

 

Nel prossimo capitolo: Nessuno dovrebbe essere costretto a nascondere la sua vera natura.

 

***

 

Nota dell'autore: Spero che la spiegazione tecnica di come si è svolto il delitto vi sia piaciuta e l'abbiate trovata convincente, ho cercato di rispettare la struttura dei vagoni della metro londinese. Non posso garantire che il tutto sia completamente attendibile, ma mi raccomando, state attenti ai vostri selfie stick e non usateli impropriamente! :P Nel prossimo capitolo verrà svelato anche il movente dell'omicidio. Nel frattempo, ogni volta che Sherlock e John si sfiorano una supernova esplode nelle profondità dell'universo :))) Grazie come sempre per la lettura e il gentile interesse, spero vorrete lasciarmi i vostri commenti e reazioni al capitolo nelle recensioni anche questa volta, mi fa molto piacere leggerli e sapere cosa pensate dello sviluppo della vicenda. Un saluto grande grande a CreepyDoll, emerenzianoHotaru_Tomoe che hanno fedelmente recensito anche lo scorso episodio, a chi segue e tiene la storia fra i preferiti, siete davvero speciali. A presto!

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Capitolo 5
*** Take my whole life too ***


Capitolo 5 – Take my whole life too

 

“Intende dire che lei e la vittima eravate amanti?” chiese Lestrade alla parlamentare, dopo qualche attimo di rispettosa esitazione.

“Io e Catherine Reynolds avevamo una relazione,” riuscì ad esternare la Borwick, sfregandosi le nocche della mano contro la guancia, e guardando lontano dai tre uomini che avevano invaso la sua casa. “Ci siamo conosciute in parlamento, dopo una lite furibonda durante una seduta per l'approvazione di qualcosa,” ricordò, con un mezzo sorriso amaro, “eravamo completamente diverse, non solo su fronti opposti, ma proprio caratteri opposti. Dev'essere stato uno di quei casi in cui gli opposti si attraggono, come si dice, perché non riuscivamo a stare lontane,” e le parole della donna sfumarono mentre si perdeva nei suoi pensieri.

Gli occhi di John si spostarono velocemente verso il basso, a guardare il pavimento, come fosse inspiegabilmente in imbarazzo; Sherlock invece osservava attentamente la donna, cercando di carpire dalle sue parole tutto quello che non era riuscito a dedurre. Suo fratello aveva ragione, i sentimenti erano davvero qualcosa di opaco per lui, dedurre un movente passionale era la cosa più difficile. Ma il legame impossibile fra due persone diametralmente opposte eppure così inspiegabilmente simili, questo sì che riusciva a capirlo.

“Ma lei era sposata,” suggerì Sherlock alla Borwick, per farla continuare.

“Certo che ero sposata,” rispose la donna, serrando le sopracciglia, “il mio matrimonio è stato accuratamente programmato anni fa come tappa della mia scalata politica. Un marito, un figlio, una bella famiglia, tutto quello in cui gli elettori del mio partito credono e hanno fiducia, fasi necessarie per la mia carriera.

“I sentimenti erano qualcosa di cui non mi ero mai preoccupata. Sono cose da libri e da film, non hanno posto nella vita reale,” disse la donna, come fosse un mantra che ripeteva a se stessa per convincersi, “l'unica cosa che conta è realizzare dei grandi progetti, fare una differenza nella società, lasciare un segno nel mondo.”

“Sarebbe tutto molto nobile,” intervenne Lestrade, “se non avesse appena ucciso una persona.”

“Crede che volessi farlo?!” sbottò la Borwick. “Crede che mi faccia piacere?! Che non mi laceri dentro sapere di non poter più vedere il suo viso, sfiorare le sue mani... io la amavo...”

“Perché l'ha fatto, allora?” chiese John alzando gli occhi dal pavimento, con un misto di ingenuità e rabbia di chi non comprende come si possa ferire una persona che si dice di amare, cercando di non pensare a tutte le volte che le persone che più avrebbero dovuto amarlo gli avevano fatto del male.

“Dovevo,” esalò la donna.

“Doveva?” rise John con sarcasmo sprezzante, “mi sembra di parlare con mia moglie.”

“Certo che doveva,” continuò per lei Sherlock, serio, “è stata solo un'altra tappa della sua scalata politica, un altro piccolo ostacolo da superare per raggiungere i suoi ambiziosi progetti. La disciplina con cui ha eseguito il delitto, tutta quella pazienza, quelle attese e tentativi e sangue freddo. Non c'è emotività in questo, solo calcolo. Non puoi farti coinvolgere. E a volte tocca sporcarsi le mani in prima persona, no?”

John lo guardava perplesso, le sopracciglia aggrottate. Non riusciva a capire il motivo dello sguardo serio e rassegnato di Sherlock.

“Non poteva permettere che la sua relazione clandestina diventasse di dominio pubblico se voleva mantenere il suo successo politico,” spiegò Sherlock, “quindi ha dovuto stroncarla. Stroncarla nel senso più definitivo del termine.”

“Ovvio che non potevo permetterlo,” annuì la donna, con le lacrime che le rigavano la faccia, “dopo tutti gli sforzi che avevo fatto, tutti i sacrifici, per raggiungere la mia posizione e iniziare a fare una differenza... non potevo lasciare che questa cosa compromettesse tutto.”

“Suo marito era venuto a conoscenza del suo segreto?” chiese piano John, riabbassando gli occhi verso il pavimento, forse pensando a tutti gli altri segreti che gli erano stati nascosti e poi rivelati brutalmente, forse meditando su tutti quelli che ancora dovevano essere svelati.

“Assolutamente no,” disse la Borwick dura, “ma stava per farlo, purtroppo. Per colpa sua, per colpa di Catherine. Voleva tradirmi, rompere il nostro patto. Non potevo lasciarla fare. Lei non vedeva le cose come me. Era un'idealista, non aveva mai avuto una vera ambizione concreta. Se lei voleva rovinarsi la carriera, che lo facesse, ma io non potevo,” diceva la donna, scuotendo la testa, come stesse ancora cercando di autoconvincersi di aver fatto la cosa giusta. “Ho dedicato tutta la mia vita al lavoro, il mio lavoro è il mio unico legame.”

“Il lavoro viene prima di tutto, no?” commentò Sherlock, con un'aria abbattuta che aveva perso tutto l'entusiasmo della caccia di poco prima.

“Ci spieghi esattamente come stavano le cose fra lei e la signora Reynolds,” intervenne Lestrade, per mettere un po' di ordine, “dal principio. Quanto tempo fa vi siete conosciute?”

“Sì,” acconsentì la Borwick, schiarendosi la voce, “il nostro primo incontro in parlamento è stato circa un anno fa, io avevo già diverse esperienze sulle spalle, Catherine era alla sua prima seduta. Quella grinta da novizia, quel fuoco che aveva negli occhi, lo stesso che avevo io. Mi ha subito colpita. Così le ho fatto i miei complimenti per il confronto dopo la seduta, siamo uscite a bere una cosa insieme, e da lì abbiamo iniziato a vederci altre volte, a frequentarci sempre più spesso.

“Una sera fra le altre cose mi disse di essere apertamente lesbica, e capì che non mi stavo immaginando quella attrazione che sentivo fra noi. Mio figlio era in gita scolastica, mio marito è sempre fuori per lavoro, avevo casa libera. E lei viveva da sola in un appartamento fin troppo grande. Non è stato difficile organizzare i nostri incontri. E nessuno sospettava nulla. Nessuno controlla mai i biglietti nella spazzatura, come ha correttamente sottolineato lei, signor Holmes.”

La donna fece una pausa, il peso di tutti i bei ricordi l'aveva travolta improvvisamente. “Circa tre mesi fa le cose sono cambiate,” disse poi semplicemente.

“Cos'era cambiato?” la spronò Lestrade.

“Ci innamorammo. Prima era attrazione, interesse, un colpo di fulmine. Ma a poco a poco ci innamorammo, e iniziarono i problemi. Ci trattenevamo dopo il lavoro a parlare, trascorrevamo tutte le pause insieme, prendevamo la metro insieme e l'accompagnavo fino a casa tutte le sera, ad un livello che iniziò ad infastidire i miei colleghi di partito. Iniziavano a fare domande, a chiedersi perché avessi una frequentazione così fissa con una rivale politica, a intimarmi di non farmi vedere in sua compagnia per non scoraggiare l'elettorato e salvaguardare gli interessi del partito. Io cominciavo a non avere più scuse. Così due mesi fa decisi che io e Catherine avremmo dovuto fare un accordo,” si interruppe.

“Che tipo di accordo?” chiese John dopo qualche secondo di silenzio, la voce resa roca da una strana sfumatura emozionale.

“Oh, un accordo di segretezza curato nei minimi dettagli, non faccio questo mestiere per caso,” sorrise amara la Borwick, “scritto e controfirmato da entrambe le parti. Può prenderlo, signor Holmes, nel cassettone?” gli chiese, sfilandosi la chiave di una serratura da cassetto, e porgendola a Sherlock.

Ma lo sguardo di Sherlock era vuoto, come se un'altra storia stesse contemporaneamente passando davanti ai suoi occhi. Impiegò qualche istante ad afferrare la chiave, e a muoversi verso la cassettiera al suo fianco. Infilata e girata la chiave per aprire il primo cassetto, sopra le altre carte c'era un foglio intestato e segnato da due firme dalla grafia femminile. Lo prese e richiuse il cassetto.

“Davvero molto dettagliato e preciso,” commentò con aria seria, scorrendolo con gli occhi mentre tornava al suo posto.

“Come le ho detto, nel mio mestiere non si può lasciare nulla al caso.”

John cercava di sbirciare il contenuto dell'accordo con la coda dell'occhio, alternando fra il foglio e la donna per non perdersi nulla. Chissà che non ci fosse qualcosa di piccante nel documento, a giudicare dall'espressione di Sherlock poteva essere. Ma finita l'attenta lettura, Sherlock lo piegò e consegnò velocemente a Lestrade, così che potesse essere successivamente depositato agli atti, lasciando John a bocca asciutta.

“Quand'è che l'accordo è saltato?” chiese Sherlock alla donna.

“All'inizio della mia nuova campagna politica, circa un mese fa. Io iniziavo ad essere sempre più impegnata, dovevo presenziare a molti incontri con mio marito, potevo trascorrere poco tempo con Catherine. E lei iniziò a diventare gelosa. Non importava quello che le dicessi, non voleva più tenere segreto il nostro rapporto, sosteneva che se davvero la amavo avrei dovuto farlo apertamente,” una lacrima riprese a scendere dalle sue palpebre, “non capiva gli altri fattori che erano in gioco, non voleva sentire ragioni. Aveva mantenuto il silenzio per un mese. Un mese di silenzio. Ma non sarebbe andata oltre, e stava per rivelare tutto pubblicamente, alla prima occasione.”

“Così nell'ultimo mese si è divertita a tenderle agguati mortali in attesa del momento più propizio,” la rimproverò duro Sherlock.

“Allora non ha capito nulla!” si alterò la donna, “sonno stata costretta a farlo, non avevo altra scelta!”

“No, aveva un'altra scelta!” le urlò contro Sherlock, facendo riscuotere sia John che Greg dallo stupore. “Poteva decidere di venire allo scoperto,” continuò il detective, “poteva decidere di rivedere le sue priorità e mettere in secondo piano la sua carriera, ma ha deliberatamente scelto di non farlo e diventare un'assassina!”

“Io non sono un'assassina!” ribatté la donna, spiazzata e in difficoltà, le proprie costruzioni mentali rase al suolo dalla fredda logica di Sherlock. “Sono stata costretta!”

“E se la pensa così,” continuò ad inveire Sherlock, “non ha più diritto di dire che l'amava, perché se davvero l'avesse amata non avrebbe mai fatto una cosa del genere!” John aveva gli occhi sgranati dalla sorpresa per l'inaspettata reazione dell'amico. “Le persone che ami ti proteggono” continuò Sherlock, rosso in faccia, con le vene del collo tese, “e sono pronte a fare di tutto per proteggerti, anche mettere in gioco la loro stessa vita!”

“Sherlock...” lo richiamò piano John, per evitare che esagerasse. Sherlock deglutì, e si interruppe. La donna riprese a piangere.

John sapeva che l'amico aveva un forte senso di moralità, non sempre canonico e con alcune zone grigie, ma indubbiamente forte, altrimenti avrebbe davvero potuto essere un criminale inafferrabile piuttosto che risolvere delitti e aiutare a catturarli. Sapeva anche quanto prendesse sul serio il suo impegno, la promessa che aveva fatto a lui e Mary il giorno del loro matrimonio, che non li avrebbe mai abbandonati, li avrebbe sempre protetti, e avrebbe dimostrato quanto teneva a loro ogni giorno per il resto della sua vita. Ma forse non sapeva fino in fondo quanto, una volta dette, le parole fossero scritte su pietra per Sherlock. Sicuramente, non si aspettava che reagisse in questo modo alle parole della Borwick. Era strano che mostrasse un tale coinvolgimento emotivo per un caso, doveva aver toccato qualche nervo scoperto.

“Ok...” interruppe il silenzio imbarazzante Lestrade, “allora dovremo registrare la sua confessione, signora Borwick, e poi potremo procedere verso il commissariato...”

“Sherlock, vieni un secondo,” John fece cenno al compagno di seguirlo nell'ingresso della villetta.

Mentre Lestrade procedeva a contattare chi di dovere e a iniziare le pratiche, Sherlock e John tornarono nella penombra dell'ingresso, da soli, per poter parlare lontano dagli altri.

“Che ti sta succedendo?” gli chiese John a bassa voce, così che la conversazione rimanesse privata.

“Succedendo? A me? Non sta succedendo nulla,” si lasciò scivolare di dosso Sherlock, minimizzando, riacquistata la sua proverbiale indifferenza.

“No, no, no, ascolta,” lo teneva sotto torchio John, determinato a non lasciar cadere la conversazione nel nulla, “cos'è stata la reazione di poco fa? Raramente ti ho visto farti prendere da un caso in questo modo.”

“Non c'è nulla di strano,” continuava a divagare Sherlock, “prendo sempre i casi sul serio.”

“Non intendo questo,” precisò John, “intendo prenderli sul personale. Sì, ti immergi nel gioco fino a midollo per risolvere il crimine, ma raramente ti ho visto prendere a cuore un caso in questo modo.”

“Non credo,” cercava di negare Sherlock, non riuscendo a guardarlo negli occhi, “capita, dev'essere capitato...”

“Con Magnussen, forse,” completava John per lui, “solo Magnussen riesce a farti ribollire così tanto. Perché attacca le persone diverse, ai margini. Quelle con dei segreti. Cosa di questo caso ti ha fatto accendere così tanto?”

“Niente, è un caso come un altro, non c'è niente che mi 'accenda'”, ribatté sarcasticamente Sherlock, che proprio non ce la faceva ad ammettere la verità, “è stato fin troppo noioso alla fine dei conti.”

“Non è vero,” replicò John, “non è vero e lo sai. Qualunque cosa sia, sai che con me puoi parlarne, no?”

Gli occhi di Sherlock cercavano di fuggire da qualsiasi parte che non fosse la faccia di John, incapaci di sostenere il suo sguardo dietro la rigidità, solidità e freddezza dei lineamenti e della postura.

“Sai che puoi dirmi tutto,” continuava John, “dopo tutto quello che abbiamo passato, credi ci sia ancora qualcosa che mi spaventi? Pensi che qualunque cosa tu abbia da dire possa fare qualche differenza sull'opinione che ho di te?”

Sherlock non poteva sopportare altro. “Grazie per il melenso intermezzo emozionale, John, ma siamo nel mezzo di un caso,” rispose, voltando le spalle e facendo per tornare nel soggiorno. Ma John lo fermò, prendendogli il braccio all'altezza del bicipite e avvicinandosi a lui.

“Questo non è mai stato un problema.”

Mentre Sherlock tornava a girarsi verso l'altro, piano, la mano di John lasciava lentamente andare la presa, e scorreva leggera sulla lunghezza del suo braccio, sfiorando quasi impercettibilmente la mano di Sherlock.

Sherlock non teneva più il conto di tutte le volte che aveva voluto prendere la mano di John, afferrarla e stringerla a se. Tutte le volte che camminavano accanto, e lui non riusciva a non gettare un'occhiata sulla mano del compagno, riposata contro il suo fianco, a pochi centimetri da lui. Aveva tante volte pensato di fare un atto di coraggio e stringere quella mano, e vedere cosa succedeva. Ma non era mai riuscito ad arrivare a tanto.

Quand'era l'ultima volta che Sherlock aveva stretto quella mano? Era stato per aiutarlo a rialzarsi nei laboratorio di Baskerville? Era stato per tirarlo fuori dal fuoco la sera di Guy Fawkes? No, forse era stato quando erano in fuga dalla polizia che credeva avesse rapito la bambina del piano di Moriarty. Quella volta che avevano corso insieme, mano nella mano, e John aveva scherzato su come sembrassero una coppia agli occhi dei curiosi.

Poche, timide volte. Invece Sherlock ricordava a memoria tutti i momenti in cui aveva visto John e Mary tenersi per mano.

“Ci sono sempre per te, Sherlock,” riprese a parlare John, “apprezzo tutto quello che stai facendo e che hai fatto, per me e anche per chi non se lo merita. Non sono bravo in queste cose,” sospirò, “ma anche io ci sono per te, qualunque cosa possa fare. La promessa che hai fatto, è reciproca. Vale anche per me.”

“Non preoccuparti,” riuscì finalmente a dire Sherlock, mosso nell'animo dalla vicinanza fisica ed emotiva del compagno, “non serve.”

“Vorrei soltanto,” esalò John, portando gli occhi a terra, scoraggiato che il suo tentativo di conversazione si fosse di nuovo infranto contro il muro di Sherlock, “che qualche volta mi dicessi cosa ti passa per la testa, così che possa fare qualcosa.”

Sherlock l'avrebbe abbracciato e baciato, se avesse saputo come fare. Ma ancora più importante, doveva riuscire a trattenere le lacrime.

“John...” mormorò, “alcune cose non possono essere dette. Per nessun motivo al mondo. Alcuni segreti ci proteggono, ci tengono al sicuro.”

Finalmente riuscì a guardare John dritto negli occhi. “È meglio così.”

Lestrade e la Borwick si stavano alzando dai divani, e iniziavano a muoversi verso l'ingresso.

“Ok, noi abbiamo finito qui con le pratiche preliminari,” annunciò Lestrade in direzione di Sherlock e John, distogliendoli dalla loro conversazione e facendoli tornare nella realtà della stanza. “Ho chiamato un'altra volante che ci scorti in commissariato, voi venite per la deposizione o...”

Sherlock e John si scambiarono un'occhiata d'intesa. Quelle erano le cose che riuscivano a dirsi facilmente, senza bisogno di parole. Certo che sarebbero andati, ormai l'avventura continuava fino alla fine.

Lestrade e la Borwick li raggiunsero nell'ingresso, quando Sherlock e John avevano già ripreso una distanza socialmente accettabile.

“Devo lamentarmi con qualcuno dello scarso impianto video di Scotland Yard,” disse Sherlock, con quel tono che non lasciava capire mai se stesse scherzando o fosse serio, “certo che veniamo.”

Spostandosi verso l'uscita, dischiuse la porta e un raggio di sole mattutino illuminò un po' l'esiguo spazio fra le quattro mura.

“Possiamo andare allora,” acconsentì Lestrade.

“Aspettate un attimo,” li pregò la Borwick, “fatemi lasciare almeno un biglietto di avvertimento a mio marito e mio figlio. Nonostante quello che potete pensare, mi sono affezionata e voglio molto bene anche a loro.”

“D'accordo...” le permise Lestrade, pensando fosse una richiesta ragionevole.

La Borwick fece qualche passo per raggiungere l'estremità opposta dell'ingresso, e mise le mani sul mobile su cui stavano poggiate le chiavi di casa e delle lettere. Piano, aprì il secondo cassetto. Esitò un attimo, voltandosi a guardare i tre uomini che la aspettavano. E in quel momento Sherlock la vide nei suoi occhi. Chiara, limpida, la sua vera intenzione.

“No! Fermala!” gridò, cercando di far intervenire Lestrade, davanti a lui e più vicino alla Borwick. Ma era troppo tardi.

La donna aveva già estratto la pistola dal cassetto e la stava puntando contro i tre.

“Metta giù quella pistola!” le urlò Lestrade.

“Come ho fatto a non capirlo!” si rimproverava Sherlock, “sono distratto!”

“Lasci andare quella pistola immediatamente!” le intimò di nuovo Lestrade.

“Ho fatto tanto per arrivare fino a qui,” proferì la Borwick, con un tono di voce annientato, “non posso perdere tutto.”

“Lestrade, fa' qualcosa!” lo rimproverò Sherlock, “non hai una pistola?!”

“L'ho lasciata in auto, non sembrava una persona pericolos-”

“Ha ucciso una donna con un'asta da selfie e non ti sembra pericolosa?!” lo sgridò Sherlock. “John?!” chiese poi, aspettandosi che avesse il suo revolver.

“Cosa? Ok che stavamo andando da Mary ma non porto sempre dietro la pistola!” ribatté lui, abituato a mantenere il suo controllo da soldato anche con un'arma da fuoco puntata in faccia.

“Mi lascerete andare o vi ammazzo!” li minacciò la donna.

“Non credo proprio, non sa neanche come usarla!” le urlò Sherlock, chino in avanti con le braccia leggermente alzate sull'attenti, notando quanto le mani della parlamentare tremassero.

“Credo di aver già dimostrato di avere un'ottima mira e mano ferma,” li minacciava la Borwick, cercando di mantenere una presa salda sull'arma.

“Metta giù la pistola!” le ripeteva di nuovo Lestrade, sapendo che sparare senza saper usare una pistola era ancora più pericoloso dell'alternativa.

“Allora non mi lasciate altra scelta,” disse la Borwick con aria decisa.

Tirò il grilletto. Il tonfo assordante della scoppio di pistola riempì la stanzetta e si infranse contro le pareti.

“ATTENTO SHERLOCK!” urlava John.

“JOHN, NO!” gridava Sherlock.

 

***

 

Nel prossimo capitolo: A quanto pare anche le armi da fuoco mettono in evidenza le nostre priorità.

 

***

 

Nota dell'autore: Il titolo è ovviamente tratto dalla famosissima e bellissima canzone “Can't help falling in love”, che è usata fino allo sfinimento in riferimento alla Johnlock, ma che trovo così perfetta e appropriata da riproporre ancora una volta. Delle mille versioni esistenti, la cover dei Twenty One Pilots è la mia preferita, potete ascoltarla durante la lettura del capitolo se volete renderlo ancora più triste. Per il resto, il tema del lavoro che viene prima di tutto è molto sensibile per me in questo momento, visto che ho iniziato un nuovo lavoro da copywriter da un paio di settimane e mi sta assorbendo completamente e risucchiando tutte le mie energie per la scrittura HELP! Spero che il mezzo confronto fra Sherlock e John vi sia piaciuto, anche nel loro dialogo c'è un piccolo riferimento e omaggio ad un'altra serie, vediamo se c'è qualcuno così sveglio da coglierlo ;) Spero che anche il movente del caso vi abbia colpito, grazie come sempre per la lettura e il sostegno, un bacio grande grande a CreepyDoll, Hotaru_Tomoe ed emerenziano che commentano sempre. Nel prossimo capitolo, la risoluzione del cliffhanger, e ci avviamo verso la conclusione della storia. Alla prossima, a presto! ;)

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Capitolo 6
*** Blissful Oblivion ***


Capitolo 6 – Blissful Oblivion

 

Sherlock e John sedevano sulle scale davanti al portone di ingresso della villetta. Poggiate sulle spalle di entrambi, due coperte isotermiche rimpiazzavano i loro soprabiti per tenerli al caldo più di quanto il debole tepore della tarda mattinata avrebbe potuto fare da solo. Chinati in mezzo ai due uomini, un paio di paramedici era intentamente impegnato a medicare le loro ferite, fortunatamente molto lievi.

“Com'è possibile che siate rimasti feriti entrambi?” continuavano a chiedere i soccorritori stupiti.

“Qualcuno qui è così stupido da non saper evitare una pallottola,” rispondeva John sarcastico, canzonando Sherlock e lanciando una vaga frecciatina agrodolce al proiettile che Mary gli aveva conficcato nel petto.

“Mi sembra che nonostante tutta la tua esperienza sul campo tu non abbia ancora imparato a fermare i proiettili,” controbatteva ironico Sherlock verso l'ex-soldato.

Sotto l'oro brillante delle coperte termiche ai raggi del sole, passato lo spavento del momento di crisi, i due stavano riprendendo fiato. E, come al solito, per quanto sconveniente e fuori luogo fosse, nonostante tutto si stavano quasi divertendo.

“Ahia!” si lamentava Sherlock.

“Per favore, signore, stia fermo,” protestava il paramedico cercando di disinfettare la ferita, mentre John rideva sommessamente della scena.

Entrambi avevano riportato una ferita superficiale alle braccia, Sherlock al destro e John al sinistro, perché colpiti di striscio dal proiettile sparato dalla Borwick. Al momento dello sparo, i due uomini erano corsi istintivamente l'uno verso l'altro, andando ad intercettare l'incerta traiettoria della pallottola proprio nel mezzo, prima che andasse a conficcarsi nel legno del portone semi aperto.

Approfittando del trambusto dello sparo, cogliendola sbilanciata per il rinculo della pistola e stordita dal frastuono che creava interferenza nelle orecchie, Lestrade si era scagliato sulla donna prima che potesse sparare ancora, gettandola al suolo e immobilizzandola a terra con il suo peso. Con forza, le aveva sfilato l'arma di mano e l'aveva gettata a qualche metro di distanza facendola strisciare sul pavimento. Continuando a tenerla ferma, aveva sfilato le manette dalla tasca del cappotto con una mano e aveva ammanettato la donna senza ulteriori indugi, togliendole il privilegio di essere trattata con il rispetto che aveva perso cercando di ucciderli. Era lì, ammanettata alla gambe del cassettone da cui aveva estratto l'arma, che l'avevano trovata gli altri uomini della polizia che Lestrade aveva chiamato mentre si accertava che gli amici stessero bene e non avessero riportato ferite gravi, lasciando in mano la situazione ai rinforzi.

John non si era neppure accorto della propria ferita inizialmente, l'istinto da medico aveva avuto il sopravvento, e la sua preoccupazione principale era andata allo squarcio sulla manica della giacca di Sherlock, da cui si poteva intravedere un taglio cremisi nella carne. Senza pensare più a cosa stesse facendo la donna, John aveva spinto Sherlock verso la parete a lato della stanza per avere una migliore illuminazione e controllare lo stato della ferita, con entrambe le mani aveva allargato lo strappo nei vestiti così da esporre tutta l'area lacerata.

“Non è nulla,” faceva Sherlock, che aveva già analizzato razionalmente i fatti e stava riprendendo il controllo mentale della situazione, “il proiettile si è conficcato nella porta, non hai sentito il tonfo? Non è rimasto nel braccio, non è nulla.”

Effettivamente non era nulla di grave, probabilmente non sarebbero neppure serviti dei punti di sutura per farla rimarginare, ma lo spavento che aveva provato John era stato troppo grande. Dopo aver rischiato di perdere il compagno qualche settimana prima per la ferita quasi mortale al petto, il trauma era ancora troppo fresco per non farsi prendere dal panico. Solo mentre lo stato d'allerta calava e riprendeva a respirare, John notò il bruciore al proprio braccio.

“John...” sussurrò Sherlock, sbiancando, puntando con gli occhi verso il bicipite di John, “il tuo braccio...”

Una macchia di sangue rosso vivido aveva preso a macchiare la camicia di John, scucita linearmente sotto la spalla, e si stava espandendo a macchia d'olio su tutto il suo braccio. John non ci aveva dato peso, lanciandogli appena un'occhiata prima di continuare a preoccuparsi della ferita di Sherlock, ma purtroppo il bruciore l'aveva costretto a riportare l'attenzione al suo braccio. Era uscito fuori nel pianerottolo, per cercare di guardare meglio la propria ferita alla luce del sole, in un mezzo tentativo di scappare dal problema.

“Fammi vedere, John!” lo aveva seguito a ruota Sherlock, mettendoglisi davanti e afferrandogli il braccio, senza nessuna possibilità di essere utile o di stimare l'esatta entità della ferita, scarno nelle abilità di medico a differenza dell'esperto collega, ma non meno preoccupato. L'abbondante quantità di sangue versato fa sempre temere qualcosa di grave, ma anche il taglio di John era superficiale, leggermente più profondo del suo, forse a lui sarebbero davvero serviti dei punti.

Terminata la chiamata con la centrale di polizia per allertare i rinforzi, Lestrade aveva subito chiamato i soccorsi per scrupolo, e nel giro di qualche decina di minuti l'ambulanza con i paramedici era accorsa ad assisterli, trovandoli lì, seduti sulle scale della villetta, fianco a fianco, entrambi con un braccio insanguinato, ma apparentemente tranquilli.

“Ahia!” continuava a lamentarsi con più vigore Sherlock, mentre il soccorritore strofinava la sua ferita con un antisettico per disinfettarla e aiutarne la cicatrizzazione.

“Mi raccomando, disinfetti a fondo,” rideva John.

Grazie all'esilarante spettacolo delle lagne di Sherlock, non aveva problemi a sopportare il pizzicore che gli provocava la medicazione alla sua di ferita.

“Le ferite sono leggere,” li tranquillizzavano i paramedici, “ma per sicurezza dovrete venire con noi in ospedale per finire la medicazione.”

Fra gli sbuffi di Sherlock, i due uomini salirono sul retro dell'ambulanza, mentre Lestrade, rassicurato sulle loro condizioni, li congedava e ripartiva verso Scotland Yard per finire di occuparsi del caso della parlamentare omicida. Mentre prendevano posto sull'ambulanza e i soccorritori chiudevano i portelloni del veicolo, le battute di John diventarono un po' più pungenti.

“Almeno, questo incidente è l'ennesima prova che smentisce la tua deduzione,” disse a Sherlock.

“Co- quale deduzione?” chiese perplesso il detective, sempre sensibile riguardo alle critiche alle proprie doti investigative in ogni situazione.

“La tua deduzione su tutte le cose misteriose che ti passano per la testa e non possono essere dette,” rispose John, guardandolo intensamente.

Sherlock rimase in silenzio, con aria corrucciata, a cercare di capire cosa il collega stesse implicando.

“Hai detto che ti tengono al sicuro,” completò John, “ma non mi sembra che ti mai abbiano protetto dal beccarti una pallottola. Non mi sembra che siamo al sicuro ora.”

L'autista dell'ambulanza mise in moto e abbandonarono il vialetto, diretti verso l'ospedale, mentre Sherlock stava in silenzioso raccoglimento a soppesare la portata di quelle parole.

Trascorsero il resto della mattinata e tutto il pomeriggio nel pronto soccorso dell'ospedale, mentre tutti i casi più urgenti avevano la precedenza sul loro. Ma a Sherlock, che solitamente non sapeva stare senza far nulla e aveva la pazienza di un bambino dell'asilo se si trattava di aspettare, questa volta sembrava non dispiacere. Lui e John trascorsero fin troppe ore stesi uno accanto a l'altro su due scomode brandine del pronto soccorso, ma il detective trovava qualcosa di estremamente dolce e intimo in questo. Ogni tanto John, sopraffatto dalla carenza di sonno, si appisolava per qualche minuto, finché un nuovo rumore e trambusto provocato da medici e pazienti lo ridestava, e in quei pochi istanti Sherlock poteva tornare a guardarlo. Non troppo apertamente, non così sfacciatamente come aveva fatto sul taxi, perché erano troppe le persone di passaggio che potevano sorprenderlo, ma comunque poteva catturare qualche altra preziosa occhiata del suo John da conservare nel cuore quando sarebbe stato lontano da lui e non avrebbe più potuto vederlo in ogni momento come adesso.

Alla fine, Sherlock se la cavò con una fasciatura stretta al braccio, e anche John riuscì ad evitare i punti, rimediandosi solo un paio di cerotti strip per suture da tenere per qualche giorno finché la ferita non si fosse rimarginata da sola. All'imbrunire erano già di ritorno a Baker Street, giusto in tempo per il tè.

“Voi due non sapete proprio stare lontano dai guai, ragazzi,” li bacchettò bonaria e materna Mrs. Hudson, entrando nel soggiorno del loro appartamento e poggiando nel tavolino fra le poltrone una brocca di tè caldo che nessuno aveva chiesto. “Mi farete prendere un accidente uno di questi giorni.”

“Non si preoccupi, Mrs. Hudson,” la tranquillizzava John, prendendo la tazzina che la padrona di casa gli stava porgendo, “stiamo bene, non è successo nulla.”

“Coinvolto in due sparatorie in così poco tempo, Sherlock,” lo ammonì Mrs. Hudson, “ti stai facendo influenzare dalle tue discutibili frequentazioni fra i piccoli criminali di strada?”

“Grazie per il tè, Mrs. Hudson,” ribattè Sherlock, sorseggiando dalla tazza che la proprietaria gli aveva preparato, “ma lo preferisco servito con latte e senza prediche.”

“Ricordo ancora la prima volta che siete entrati qui,” prese a dire la padrona di casa mentre li guardava bere il tè, con aria sognante, “ho ingenuamente sperato che John riuscisse a calmarti...”

“Siamo a posto così, Mrs. Hudson, può andare,” le intimò Sherlock.

“... e invece guarda adesso che genere di vita spericolata conducete!” continuava lei imperterrita, “Neanche Mary è riusc-”

“Se ne vada, Mrs. Hudson!” le fece più brusco Sherlock.

Riscuotendosi per il tono, con l'aria vagamente offesa di chi finge di essere risentito più di quanto non sia veramente, Mrs. Hudson uscì dalla stanza chiudendo la porta alle sue spalle, e lasciandoli soli.

“Finalmente un po' di pace,” sospirò Sherlock, aggiungendo un cucchiaino di zucchero al suo tè.

Lui e John cominciarono a chiacchierare amabilmente riguardo al caso appena risolto, ripercorrendo le brillanti deduzioni del detective, rivedendo tutti i dettagli del crimine. Era proprio una dipendenza per loro.

“Credi che potrò raccontare questo caso nel blog?” domandò John.

“Uhm,” rifletteva Sherlock, “meglio che aspetti. Quando la storia diventerà di dominio pubblicò ci sarà un po' di trambusto nel partito conservatore, meglio non attirare l'attenzione.”

“Potrebbe essere un sacco di pubblicità facile per il tuo lavoro,” propose Jonhn.

“Che, come sai benissimo, non ho mai voluto,” ribatté Sherlock.

“Giusto,” convenne il dottore, “lo fai solo per divertimento.”

“Ad ogni modo,” aggiunse Sherlock, “assicurati di cambiare i nomi e di non divulgare troppe informazioni private, quando scriverai la storia.”

“Certo. E quando credi che potrò farlo?” chiese John. “Non mi dispiacerebbe avere qualcosa con cui impegnare il tempo libero, sai. Fino al prossimo caso, almeno.” Sorrise.

“Al momento giusto,” fu la risposta del moro, sempre criptico.

“Va bene,” rise John, abituato all'alone di mistero, “tanto sono state giornate così 'impegnative', diciamo, che non so più neanche che giorno è.”

“Il tempo vola quando ti diverti,” rise Sherlock, asciugando il cucchiaino con la lingua.

Continuarono a parlare a lungo, dell'omicidio, di Scotland Yard, della metropolitana, di tutti gli altri casi precedenti che tornavano alla mente, svuotando la teiera e riempiendo continuamente le tazze.

“Ma è davvero tutto divertimento, per te?” gli chiese John ad un certo punto. La curiosità di scoprire qualcosa dell'animo dell'amico, di dare una sbirciatina attraverso una crepa della sua maschera, era sempre forte. “Non hai mai paura? Come quando la Borwick ci ha sparato.”

“Paura?” ripeté Sherlock perplesso, “paura di cosa?”

“Non so, di essere ucciso?” a John sembrava naturale.

“No,” Sherlock scosse la testa, fissando attentamente il contenuto della sua tazzina, “la morte non fa paura. È solo triste. È solo immensamente triste abbandonare le persone a cui vuoi bene.” E lui lo sapeva perfettamente, dopo aver dovuto lasciare le persone che amava per nascondersi per ben due anni. Ora le piccole onde sferiche sulla superficie del suo tè sembravano assorbire tutta la sua attenzione.

“C'è stato un altro momento, durante l'investigazione di oggi, in cui non mi sembrava ti stessi divertendo,” riprese John, riferendosi allo sbotto di rabbia contro la Borwick.

“A volte mi faccio prendere un po' la mano,” rispose Sherlock facendo spallucce, e annegando la faccia nella tazza di tè.

“Hai preso molto sul personale la questione della relazione extraconiugale della parlamentare,” continuava John, “cos'è, sei così all'antica? O è per il fatto che fosse lesbica?”

John rideva, ma non c'era nulla da scherzare. Sherlock non disse nulla.

“Non te la sei mai presa ogni volta che Mrs. Hudson insinuava cose strane su di noi,” aggiunse John, cercando di vedere lo sguardo di Sherlock, che con gli occhi bassi gli sfuggiva. Perché stava parlando di questo? Era solo ingenuo, o lo faceva di proposito? Forse solo l'inconscio di John lo sapeva.

Sherlock non avrebbe dato alcuna risposta, come al solito.

“Ad ogni modo,” completò John, “quello che ho detto rimane vero. Ti sono molto grato per ospitarmi, e per tutto quello che stai facendo. Se ti serve qualcosa, se vuoi parlare di qualsiasi cosa, sono qui.”

Forse era meglio passare ad un argomento più leggero. Ma quante altre occasioni avrebbe avuto Sherlock? Quanto tempo prima che John lo abbandonasse senza che gli avesse detto quello che provava? Poteva permettersi di rischiare? Lentamente, Sherlock si alzò. Posò la tazzina mezza vuota sul tavolino e si allontanò dalla poltrona, mentre stava ancora elaborando la sua decisione.

“Serve qualcosa di più forte di questo,” disse, mentre entrava in cucina, e sfilava una bottiglia dalla busta della spesa abbandonata sul tavolo dalla sera prima, quando aveva tentato un disperato esperimento alcolico per migliorare il morale di John. Adesso era lui ad averne bisogno.

“Cosa?” gli chiese John dall'altra stanza, voltando mezza faccia, “non starai suggerendo degli alcolici? Devo ricordarti com'è andata a finire ieri? Di nuovo, per giunta? Non succede nulla di buono quando mi fai bere.”

Sherlock mise sotto il braccio non ferito la bottiglia e afferrò con la stessa mano due spessi bicchieri di vetro. Rimase un attimo a fissare la vetreria e gli strumenti da laboratorio rimasti sul tavolo. Mrs. Hudson doveva aver pulito il trambusto che avevano causato la sera prima. Con la mano libera, raggiunse una piccola boccetta con una soluzione viscosa, semitrasparente. Era quella che stava analizzando prima di uscire con John. Un progetto svolto nel tempo libero, per tenersi occupato, pensando che sarebbe potuto tornargli utile per uno dei suoi casi o per qualche investigazione un giorno. Invece forse poteva essergli utile adesso. Se voleva davvero andare fino in fondo, aveva bisogno di una garanzia, gli serviva una via di fuga. Alla fin fine, aveva già fatto esperimenti su John; era la sua cavia preferita, nonché l'unica che aveva sempre avuto a disposizione. Non solo il caffè corretto a Baskerville per provare la sua fallimentare teoria. Pianificare come avvelenare qualcuno era un diversivo interessante contro la noia. Gli aveva già somministrato sostanze chimiche e composti in passato, niente di nocivo ovviamente, e John non se ne era neanche mai accorto. Una volta aveva perso un intero mercoledì. Questa volta almeno era per un buon motivo. Doveva farlo per sé stesso. Doveva togliersi un peso dal cuore e doveva assicurarsi che non ci fossero conseguenze. Decisione presa.

Velocemente, posò i bicchieri sul tavolo, versò qualche millilitro di soluzione sul fondo di uno, una dosa sicura, testata. Poi stappò la bottiglia e aggiunse un dito di scotch ad entrambi i bicchieri.

“Non pensarci neanche,” gli fece John, quando Sherlock tornò al tavolino in salotto con i due bicchieri in mano, appoggiando davanti a lui quello con l'ingrediente segreto extra.

“È solo un dito di scotch per festeggiare la risoluzione del caso,” si giustificò rimettendosi a sedere, “niente di pesante.” Tese il suo bicchiere verso John. “Cin cin.”

John si decise ad afferrare il suo bicchiere. La sua predisposizione a farsi un bicchierino di troppo giocava a favore. Fece incontrare il bicchiere con quello di Sherlock per il brindisi e lo portò alle labbra. Sherlock fece lo stesso, assaporò il liquore con la punta della lingua ma non bevve, studiando attentamente John di nascosto e aspettando che prima lo facesse lui. John prosciugò il drink tutto d'un fiato, ed esalando la vampata di calore generato in bocca posò sonoramente il bicchiere sul tavolo. Tutto a posto per il piano di Sherlock. Anche lui bevve, aveva bisogno di un po' di coraggio liquido.

“Quello a cui si riferisce Mrs. Hudson,” incominciò a dire Sherlock, riprendendo le fila del discorso precedente, “riguardo alla... natura... del nostro rapporto...” respirò intensamente per trovare le parole, “è colpa mia.” Sapeva che sarebbe andato tutto bene, ma il suo cuore non poteva fare a meno di balzargli in gola, preparandosi a quello che stava per dire.

“E in che modo?” John era completamente rilassato, la schiena appoggiata contro lo schienale della poltrona, smaltendo l'accaloramento provocato dall'alcol.

“Le sue insinuazioni sono dovute al fatto che fra noi due conosce meglio me,” tentò di spiegare delicatamente Sherlock, “mi conosce da più tempo, vede come mi comporto quando sono in tua presenza, capisce e trae le ovvie considerazioni...”

Adesso il discorso aveva preso la completa attenzione di John. Si drizzò sulla schiena un po' a fatica, ignorando la pesantezza sulle palpebre. La conversazione si stava facendo importante.

“Intendi dire che ha ragione? Che sei... gay?” cercò di chiedergli.

“Non è questo che intendo dire,” Sherlock non sapeva dove guardare e dove scappare, il cuore gli batteva così forte che poteva vederne la pulsazione nei suoi occhi. Così decise di guardare la cosa che gli creava tutto quel malessere: la faccia di John. Assecondando il ronzio che sentiva nelle orecchie e la pressione che gli faceva esplodere la testa, decise di procedere lo stesso. Non poteva tornare indietro questa volta.

“Quello che intendo dire,” ricominciò, sollevandosi appena dalla sua poltrona per avvicinarsi a John, chinandosi sul tavolino, “è che sei tu a farmi questo effetto.”

Facendo forza sulle gambe piegate a metà fra poltrona e tavolo, poggiò un avambraccio sul tavolino per sorreggersi e si spore completamente verso la poltrona di John. Aveva il volto dell'uomo ormai vicinissimo, e la visione gli dava il mal di mare. Cosa stava pensando John? Se i suoi occhi lasciavano intravedere qualcosa, era lo sgomento. Come avrebbe reagito?

“Sei sempre e solo tu, John.”

Alzò il braccio su cui non si stava sostenendo per portare una mano verso John. Lentamente, delicatamente, come se andasse a rallentatore, la posò sulla guancia irsuta di John. Il contatto lo stava facendo svenire. Avrebbe voluto accarezzarla per il resto dei suoi giorni. Non sapeva come continuare, non aveva la minima idea di come funzionasse questa cosa. Non era facile come quando fingeva con Janine, adesso che i sentimenti erano veri. Avvicinò il suo volto sempre più verso quello del biondo, cauto, dimenticando di chiudere gli occhi, poi velocemente, troppo in fretta, per terminare quell'agonia.

Le labbra di Sherlock andarono a scontrarsi contro quelle di John.

John si irrigidì sulla schiena e arretrò di qualche millimetro all'impatto. Era solo la sorpresa, o era il disgusto? Lo avrebbe respinto? Cosa sarebbe successo?

Le labbra di Sherlock erano posate storte sulla bocca di John, troppo all'esterno, come capita a chi è troppo nervoso, a chi bacia per la prima volta la persona che ama. Sentiva la barbetta pungente pizzicargli dolcemente la pelle sotto al naso. Un bacio casto, puro. Nonostante tutto, John non stava opponendo resistenza.

Dopo una frazione di secondo, Sherlock avvertì le labbra sotto le sue muoversi, incurvandosi leggermente. Era un sorriso? Era un buon segno? In fondo, John aveva subito tradimenti grossi recentemente, e quel bacio non era di certo il tradimento peggiore.

Le labbra di John si dischiusero appena appena, guidandolo. Sherlock chiuse gli occhi, e si lasciò sprofondare in quel dolce oblio.

 

***

 

Nel prossimo capitolo: Un giorno, quando mi lascerai, scommetto che questi ricordi ti perseguiteranno. Dimmi che mi ricorderai, anche se è solo per finta.

 

***

 

Nota dell'autore: Finalmente era arrivato il momento! :D Spero che la scena e la situazione del bacio vi piaccia e convinca, fatemi sapere nei commenti cosa ne pensate e cosa vi aspettate che succederà nel prossimo capitolo, mi incuriosisce molto sapere le vostre reazioni e teorie. Il titolo del capitolo è un riferimento ad un famoso bacio in Harry Potter, vediamo se ricordate quale ;) Grazie ancora infinitamente per seguire la storia e per l'affetto che le dedicate, in particolari alle dolcissime emerenziano, ilovehismusic, CreepyDoll, Hotaru_Tomoe, mikimac e Giulia96Nencetti che hanno recensito lo scorso capitolo così affettuosamente. Buona Pasqua a tutti quelli che la festeggiano, spero che questo capitolo sia stato un regalino gradito. A presto! ;)

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Capitolo 7
*** Lay down my heart ***


Capitolo 7 – Lay down my heart

 

Le labbra di Sherlock erano strette fra quelle di John. Con una leggera pressione, la bocca del biondo stringeva i morbidi lembi turgidi di quella del detective, assaporandoli. Schiudendo leggermente la presa, assorbiva il respiro dell'altro, prima di tornare ad avvicinare le labbra, facendole scorrere, godendo della loro frizione. Con un istintivo accenno della punta della lingua, John inumidì le labbra di Sherlock, arrossate dal tenero e dolce sfregamento su quelle del dottore. Le bocche si afferrarono di nuovo in quel delicato incontro, chiudendosi in un'ultima morsa di passione. Poi, lentamente, rimanendo legate fino alla fine come se non volessero più dividersi, si staccarono con un impercettibile schiocco e si allontanarono di qualche centimetro, per riprendere fiato. Respirare, che noioso inconveniente, Sherlock aveva proprio ragione.

I volti si distanziarono piano, e Sherlock riaprì gli occhi per primo, cogliendo le labbra ancora divaricate di John, la sua faccia rilassata con gli occhi socchiusi. Il dottore li riaprì lentamente, sbattendo le palpebre un paio di volte, come stesse uscendo da un sogno. Aveva gli occhi arrossati, appesantiti dal sonno, ma pieni di una fiamma di luce. Sherlock, da parte sua, aveva il cuore piantato così alto in gola che non riusciva a respirare neppure adesso che il bacio si era interrotto.

Delicatamente, allentò la presa della mano sul viso di John, facendola scorrere su tutta la lunghezza della guancia, gustando appieno il raro contatto, approfittando per solleticarsi i polpastrelli contro la corta peluria e descrivere il contorno della mascella virile. Aggiustandosi sulle gambe, Sherlock portò un ginocchio completamente sopra al tavolino in modo da assicurarsi in una posizione di maggiore equilibrio e raddrizzò la schiena in una postura più stabile. Lasciando la sua mano in preda della gravità la fece cadere dolcemente sulla spalla di John, che ancora lo stava guardando in volto, con gli occhi annebbiati.

“John...” bisbigliò Sherlock, riuscendo a trovare il fiato in fondo ai polmoni, e mantenendo il contatto che così duramente era riuscito a creare, “io... ti ho sempre amato...”

Il corpo di John si abbassò di qualche millimetro sotto il tocco della mano di Sherlock. Il suo volto si stava inclinando verso sinistra, mentre continuava a sbattere le palpebre, lentamente ma frequentemente, come se cercasse di svegliarsi.

“Sherlock...” sussurrò John, sprofondando sempre più nella poltrona.

La schiena di John stava inesorabilmente scendendo e ricadendo sulla spalliera, il suo viso era sempre più inclinato, ormai completamente pendente sul collo. Lo sguardo stordito, frastornato.

“Sherlock...” riuscì a ripetere di nuovo, mentre gli occhi si assottigliavano sempre di più, e neanche sbattendole poteva impedire al macigno sulle palpebre di farle chiudere.

Adesso anche il torso cedette completamente verso sinistra, gli occhi si serrarono e il corpo di John cominciò ad accasciarsi contro il bracciolo della poltrona. La soluzione che Sherlock aveva aggiunto al suo bicchiere di scotch stava facendo effetto.

“No, John!” esclamò Sherlock, il colpo d'adrenalina l'aveva fatto uscire dalla nebbia del bacio. Con uno scatto fulmineo, scavalcò il tavolino con entrambe le gambe, e si avvicinò al suo soldato, rafforzando la presa sulla spalla per sorreggerlo, visto che ormai John aveva abbandonato tutte le forze ed era completamente gettato a peso morto sul braccio di Sherlock.

“No, John, stai sveglio! Rimani con me!” gli intimò Sherlock di nuovo, portando la mano libera al suo volto, e colpendolo delicatamente un paio di volte, a metà fra uno schiaffo e una carezza, in un tentativo disperato di ridestarlo. “Dimmi qualcosa, John” lo supplicava, “ti prego.”

John riuscì ad aprire un'ultima volta gli occhi con un incredibile sforzo, ma non poteva trovare la forza per aprire anche la bocca e dar fiato alle corde vocali per far uscire le parole che Sherlock avrebbe voluto sentire.

“Rispondimi, John,” continuava a implorare Sherlock, stringendo con più voga la morsa sulla sua spalla e scuotendolo leggermente, “dimmi qualcosa... dimmi che anche tu mi ami.”

Gli occhi di John erano completamente appannati, assenti, e non sarebbero rimasti ancora per molto.

“Dimmi che mi ami, John,” pregava Sherlock, afferrandolo adesso con entrambe le mani e scuotendolo più forte, per tenerlo sveglio, “dillo! Dillo solo una volta, per favore. Dillo almeno una volta!”

Ma gli occhi di John si erano già richiusi, e il dottore era già caduto nel sonno chimico indotto dal sedativo corretto somministratogli da Sherlock.

“Ti scongiuro, dillo,” non riusciva a smettere di supplicare Sherlock, anche se completamente invano, con i dotti lacrimali che stavano per esplodere, “dimmelo, ti prego.”

Accettando che John era ormai completamente immerso in un sonno profondò, Sherlock smise di scuoterlo, e si chetò. Con cautela, lo appoggiò contro schienale e bracciolo della poltrona, e ce lo lasciò sprofondare. Delicatamente, gli girò il volto di qualche grado in avanti, in una posizione più confortevole per il collo, indugiando ancora una volta in quel contatto.

“Perdonami, John,” gli sussurrò a denti stretti, anche se non poteva sentirlo, “mi spiace per tutte le volte che ti ho fatto del male... Ma volevo solo avere un'occasione per buttare fuori tutto. Volevo solo buttare fuori tutto...” continuava, accarezzandogli l'orecchio, “sono un terribile egoista, lo so, ma spero che potrai perdonarmi ancora una volta.”

Si mise a sedere piano sul bracciolo libero, e rimase a guardarlo dormire per qualche minuto, ammirando quanto la sua idea fosse stata fallimentare, crocifiggendosi con il senso di colpa, e sentendosi peggio di prima. La gioia e il potere di tutto quello che aveva sempre desiderato erano state nelle sue mani solo per un istante, ma era stato abbastanza per una vita intera. Eppure non poteva pensare di dover tornare a celare e abbandonare i suoi sentimenti adesso che stavano esplodendo nel suo petto. Come avrebbe fatto? John l'avrebbe ricordato l'indomani? No, se tutto andava come previsto, e Sherlock non sbagliatava mai. Cercando un modo per rimediare al suo comportamento riprovevole che non poteva trovare, decise che almeno avrebbe fatto il possibile per non far passare a John una brutta nottata, e lo avrebbe fatto dormire comodamente.

Tornò ad afferrare il corpo di John, sollevandogli la schiena con una mano e passando l'altro braccio sotto la spalla, per fare da pernio e appoggio. Raccolse tutta la forza che aveva nelle braccia, e con uno scatto energico lo sollevò completamente dalla poltrona, e lo fece alzare in piedi in posizione eretta. Sorreggendolo con il proprio corpo, perché John era totalmente privo di sensi e non collaborava affatto, lo spostò dalla seduta e iniziò a trascinarlo per la stanza, verso il corridoio. Lentamente, faticando a mantenere il precario equilibrio nonostante fosse più alto e grosso di John, e stentando a sostenere il peso dell'uomo adulto completamente abbandonato sulla sua spalla ma determinato a non lasciarlo andare a costo della vita, Sherlock riuscì a mettere un passo dietro l'altro, portando se stesso e John lungo il corridoio verso la sua camera da letto. I piedi di John scorrevano inermi sul pavimento senza fornire alcun sostegno, la sua testa ricaduta sul petto sobbalzava ad ogni passo che Sherlock tracciava. Con estremo sforzo, Sherlock aprì la porta socchiusa della sua camera dandole un calcio con un piede, e giunto in prossimità del suo letto vi lasciò ricadere il corpo di John di botto, non sopportando più di sostenere il peso.

Non sarebbe mai riuscito a portare John fino alla camera al piano superiore, superare le scale in quelle condizioni era fuori discussione, doveva accontentarsi della camera più vicina. Quando John si fosse svegliato avrebbe trovato una scusa, come faceva sempre, gli sarebbe venuta in mente una spiegazione plausibile alla sua presenza nel suo letto. Ma non ora. Era troppo stremato ed emotivamente prosciugato per pensare.

Chiuse la porta della stanza. Con delicatezza, slacciò le scarpe di John e gliele sfilò. Sistemò le sue gambe e braccia nella posizione più confortevole possibile, sbottonò il colletto della camicia per evitare che stringesse sul collo, e gli inclinò la testa di lato sopra al cuscino, per fugare ogni possibilità che si strozzasse con la lingua mentre era privo di sensi. Poi afferrò la coperta e cercò di stendergliela sopra come meglio poteva, per quanto permesso dalla posizione, così che non prendesse troppo freddo durante la notte. A quel punto non aveva altro modo per redimersi e attenuare la sua colpa, quindi non gli rimase che togliersi le proprie scarpe e levarsi la giacca, per riprendere fiato. Che avrebbe fatto adesso? Non sembrava appropriato andare da nessun'altra parte. Dopo tutto, era meglio se rimaneva a controllare che le condizioni di John rimanessero stabili e che il sedativo artigianale che gli aveva somministrato non desse strani effetti collaterali. Sopprimendo con quella scusa il brivido che gli percorse la schiena per il suo comportamento così sfacciato e sconveniente, si mise a sedere a bordo del letto, e poi si stese completamente accanto a John, nello spazio lasciato libero dal compagno.

Si voltò sul fianco per fronteggiare la faccia addormentata del dottore, mettendo un braccio piegato sul cuscino sotto la testa. Sherlock si sentiva stanco morto, ma non sarebbe riuscito a dormire, non con John lì accanto. Però non era un problema: guardarlo dormire era la cosa più rilassante che conoscesse. Avvertire il minuscolo movimento del materasso al ritmo del respiro pesante di John, abbinato all'innalzamento del suo torace e alla dilatazione delle sue narici. Anche nella penombra della camera non riusciva a mettere a riposo il suo spirito analitico, che non smetteva mai di scansionare ogni dettaglio sotto i suoi occhi, e in particolare non poteva fare a meno di ispezionare il corpo di John, il suo soggetto preferito. Rimase lì a guardarlo per qualche minuto, o per qualche ora, non lo sapeva, il tempo era rimasto fuori dalla porta e non aveva più alcuna importanza.

Aveva fatto fin troppo quella notte, ma poteva permettersi un'ultima impertinenza? Ormai era passato ben oltre il limite, aggiungere una piccola carezza non avrebbe fatto differenza. Alzando la mano sotto la sua testa dal cuscino, la avvicinò al capo di John, e sfiorò delicatamente i capelli sulla sua fronte. Erano così morbidi al tatto, chissà come sarebbe stato passarci le dita nel mezzo. Ma si permise solo di carezzarglieli via dalla fronte, sperando che nel sonno fosse un tocco gradito anche a John e che potesse allietargli il riposo. Sembrava di sì, perché il respiro di John si fece più rilassato, più lento. Sembrava che stesse borbottando qualcosa sottovoce. Sherlock tese le orecchie, per cercare di capire se fossero parole nel sonno o solo il respiro.

“... ry...” gli sembrò di cogliere, ma la bocca di John era troppo impastata e le labbra troppo strette per distinguere il suono.

Sherlock si spostò di qualche centimetro sul cuscino per avvicinarsi e sentire meglio, continuando a carezzargli i capelli sulla fronte. John borbottò di nuovo, e purtroppo questa volta Sherlock riuscì a distinguere perfettamente la parola.

“Mary...” era quello che John aveva sospirato nel sonno.

Sherlock smise di accarezzargli i capelli. Ritirò la mano e la riportò sul cuscino. Si distanzio di un po' da John, con l'espressione vuota, spenta. Una lacrima stava crescendo all'estremità del suo occhio, ma la represse repentino, non permettendosi di farsi sopraffare dall'emotività.

“... Mary...” borbottò una terza volta John nel sonno, e Sherlock non poté più rimanere lì al suo fianco.

Si alzò di scatto in un movimento unico, troppo velocemente e scuotendo troppo il letto, ma John era così ottenebrato dal sedativo che non si sarebbe svegliato neanche se gli fosse saltato addosso. In piedi, Sherlock rimase a soppesare il profilo della stanza. Stanotte aveva un aspetto diverso, non sembrava più la camera in cui aveva dormito per tutti quegli anni. La presenza di John l'aveva resa diversa, ma adesso non sapeva dire se l'avesse resa più accogliente o più odiosa. Doveva uscire, non poteva tollerare di sentire un'altra parola che sarebbe potuta uscire incauta dalle labbra addormentate di John. Con un paio di ampie falcate raggiunse la porta, uscì, e la richiuse alle sue spalle, riemergendo nella luce artificiale del corridoio, che lo abbaglio, ma gli fece tirare anche un sospiro di sollievo.

Sconsolato, con il passo pesante, Sherlock camminò davanti alla porta del bagno e tornò nel salotto dell'appartamento, senza sentire cos'altro John aveva da dire nel sonno. Perdendosi il suo quarto, sottile sospiro. “Sherlock...”

Nel salotto, raggiunse l'interruttore e spense tutte le luci. Gli bruciavano troppo gli occhi per sopportarle. Si mise a sedere nella poltrona di John, respirando l'odore che vi era rimasto, e fronteggiando la finestra. Il buio della notte fonda penetrava gelido dal vetro, con solo qualche luce stradale a brillare nell'oscurità esterna, frammentata dai raggi dei fari delle automobili che a Londra non si fermavano mai.

Rimase lì a fissare il vetro con gli occhi vacui, cercando di spegnere anche tutte le voci contrastanti che urlavano nella sua testa pensieri discordanti. Doveva smettere di mentire a sé stesso e di alimentare false speranze. Doveva smettere di pensare a quello che il bacio poteva aver significato per John. Doveva smettere di cercare di capire se il fatto che non l'avesse apparentemente rifiutato fosse solo frutto dello stordimento del farmaco che gli aveva fatto assumere o potesse significare qualcosa di più. Perché, in ogni caso, quello che provava per John non sarebbe mai potuto diventare reale. John aveva scelto un'altra vita, aveva scelto Mary. Non pensava a lui, neppure nei suoi sogni, e l'ipotesi che ricambiasse i suoi sentimenti era così ridicola che non poteva più permettersi di contemplarla. Non avrebbe mai guardato nella sua direzione. Non poteva fargli provare qualcosa che non provava, per quanto lo desiderasse, e già poterlo avere al suo fianco come amico era un dono del cielo. Non poteva compromettere il loro rapporto e rovinare tutto.

Sherlock cercava di convincersi e di persuadersi ad abbandonare le emozioni che provava, anche se era la cosa più sbagliata e atroce che potesse concepire. Aveva tirato fuori i suoi sentimenti, ora doveva espellerli dal suo corpo e gettarli via. Non sapeva come fare, ma aveva ancora qualche ora. Avrebbe avuto fino alla mattina per sbarazzarsi di quelle inutili emozioni che gli stavano provocando solo sofferenza, e tornare ad avere delle sembianze presentabili prima che John si svegliasse. Sarebbe arrivata la mattina e avrebbe fatto quello che era giusto fare. Aveva ancora un po' di tempo per costringersi a rinunciare alla battaglia e ritirarsi.

Sherlock restò immobile sulla poltrona per tutta la notte, senza cambiare espressione, senza contrarre un singolo muscolo. Non dormì, rimase semplicemente ad aspettare il sorgere del sole, come segnale che avrebbe decretato la sua ritirata. La luce esterna passò dal buio al chiarore davanti ai suoi occhi, si fece sempre più luminosa, finché l'alba esplose nella stanza, ridonandole colore. Era il momento.

Sherlock si mise in piedi di colpo, inarcò indietro la schiena per sgranchirsi, e si allontanò dalla poltrona. Aveva la stessa confusione in testa, ma adesso aveva deciso che era finito il tempo per le emozioni. Raggiunse il tavolo principale, scostò la sedia, aprì il computer portatile e vi si sedette davanti. Si collegò ad Internet e aprì la pagina delle news, come rituale mattutino per controllare quello che stava succedendo nel mondo e tenere sott'occhio le novità. Ma quella mattina sembrava che non stesse accadendo nulla nel mondo di abbastanza interessante per fargli dimenticare i suoi pensieri. Cercava di leggere, ma nessuna delle frasi che scorreva gli rimaneva impressa nella mente. Poi a quel punto lo sentì, il fatidico scattare della maniglia della porta della sua camera che tanto stava aspettando e temendo.

John aprì piano la porta, confuso su dove si trovasse, sembrava ancora assonnato. Uscì nel corridoio, stordito, guardandosi intorno e stropicciandosi un occhio.

“... 'Giorno,” disse a Sherlock.

“Buongiorno,” rispose questo distrattamente, chino sul computer continuando a fissare lo schermo e fingendo disinteresse.

“Che... che è successo ieri notte?” chiese John, muovendo qualche altro passo incerto in avanti.

“Uhm?” grugnì Sherlock, cercando di apparire distratto e distaccato, troppo preso da quello che stava facendo, solo perché non sapeva come rispondere, e non era sicuro di riuscire a tenere in piedi la maschera.

“Non mi ricordo nulla, è tutto confuso,” continuò John, stropicciandosi anche l'altro occhio. Aveva i vestiti completamente sgualciti che gli conferivano un'aria così sbattuta e indifesa, Sherlock non poteva non notarlo anche con la sola coda dell'occhio.

“Non ti ricordi nulla?” gli chiese infine, voltandosi verso il dottore. Non che lo stupisse, era esattamente quello che si aspettava. La soluzione di sedativo modificato per dare anche una leggera amnesia a breve termine aveva funzionato perfettamente come previsto. E Sherlock non sapeva più se era una cosa di cui esser felice o meno.

“Ricordo che Mrs. Hudson ci ha portato il té,” rispose John, arrivato in prossimità del salotto e rimanendo sotto lo stipite della porta, “stavamo bevendo il tè e parlando, e poi è tutto annebbiato. Che è successo?”

“Niente,” disse Sherlock, riuscendo addirittura ad accennare un sorriso cordiale, “abbiamo brindato al caso con gli alcoli del giorno prima e hai alzato un po' il gomito.” Forse era meglio che non si ricordasse la sua scena penosa della sera prima, almeno era tutto tornato al suo posto. Macigno sul cuore compreso.

“E... perché ero nel tuo letto?” continuò a chiedere John, incerto, guardandolo perplesso. “Ho ancora addosso i vestiti di ieri quindi desumo che non abbiamo fatto niente di male,” rise ingenuamente per scherzare, anche se Sherlock non poteva trovare la battuta divertente.

Esitò un secondo a rispondere, poi disse: “Ti sei addormentato nella poltrona dopo un bicchiere, e ti ho portato nella camera più vicina.” Cercò di mantenere un tono neutro per farlo sembrare normale, naturale, casuale, niente di rilevante. “Non potevo farcela a portarti su per le scale.”

“Oh... ok,” esclamò John, improvvisamente imbarazzato al pensiero di quella che doveva esser stata la scena e la situazione di Sherlock che lo trascinava in camera, anche se non poteva averne memoria per il sedativo amnestico che offuscava le sue sinapsi, “ehm... grazie... non ricordo.”

“Sempre a disposizione,” sorrise Sherlock, tornando a girarsi verso al computer, soddisfatto di come era riuscito a gestire la situazione, nonostante tutto.

“Mi spiace di aver occupato la tua camera...” continuò a giustificarsi John, “hai dormito?”

“Non preoccuparti,” replicò Sherlock, cercando di continuare ad apparire gioviale, ma non riuscendo più a sostenere il sorriso, che si stava lentamente trasformando in un ghigno deforme sulla sua faccia.

John sbadigliò. “Ho fatto un sogno assurdo...” accennò, portandosi una mano al viso e stropicciandosi le guance per smaltire la sonnolenza. “Uh,” esclamò incontrando il pizzicore del filo di barba sulla sua mascella. “Devo proprio radermi,” annunciò, “... altrimenti poi non vi piaccio più,” ridacchio riferendosi alle preferenze di Sherlock e Mary riguardo alla sua barba, ma pentendosi subito di aver detto una cosa del genere. Assunse per un attimo un'espressione perplessa, domandandosi perché l'avesse detto, poi, con un momento di indecisione e un tentennio del braccio che doveva essere il segnale di congedo della sua uscita di scena, si girò indietro verso il corridoio ed entrò nel bagno.

Sherlock poté finalmente lasciar cadere le guance e rilassare in viso nell'espressione neutra e abbattuta che aveva dalla sera prima. Poteva farcela, doveva solo comportarsi normalmente. Doveva abbandonare le sue emozioni. Era quello che gli aveva sempre insegnato suo fratello, e mai come ora aveva ragione su quanto non fossero un vantaggio. Non c'era spazio per quel tipo di sentimenti nella sua vita, e a quanto pare purtroppo non ci sarebbe mai stato.

Sherlock tirò un sospiro profondo, e riprese fiato. Ma solo per un secondo.

Un veloce scalpitio su per le scale e un rapido colpo alla porta annunciò l'ingresso dell'ispettore Lestrade, affannato e arrancante, seguito a breve distanza da Mrs. Hudson, che dietro di lui ancora sulle scale aveva un'espressione preoccupata e mortificata per non aver potuto evitare l'arrivo dell'uomo.

“Sherlock,” tuonò Lestrade sulla porta, tenendo ancora nel pugno della mano la maniglia e respirando pesantemente.

“Lestrade?” lo accolse Sherlock perplesso, serrando le sopracciglia e girandosi sulla sedia.

“Lestrade?” gli fece eco John dal fondo del corridoio, sporgendo la testa fuori dalla porta del bagno per rivelare metà faccia insaponata con la schiuma da barba.

Greg si voltò verso di lui un attimo. “Oh, John... sei anche tu qui,” gli disse confuso, non aspettandosi di trovarlo nel suo vecchio appartamento con Sherlock, e non riuscendo a tenere a mente le loro contorte dinamiche relazionali con e senza Mary. “Buongiorno,” lo salutò, prima di tornare a guardare Sherlock.

“Qual buon vento ti porta qua di prima mattina?” gli chiese Sherlock, per spronarlo a spiegare il suo arrivo.

“Ne è successo... un altro, un altro caso per cui mi serve la tua consulenza,” disse Lestrade, riprendendo fiato. “Spero vi siate ripresi dall'avventura di ieri, perché c'è di nuovo bisogno di voi.”

 

***

 

Nel prossimo capitolo: Non sono solo i demoni a perseguitarci, ma anche i sogni possono essere un tormento.

 

***

 

Note dell'autore: Per la scrittura del capitolo mi è stata di grande ispirazione la tristissima e bellissima canzone “Can't make you love me”, che vi consiglio come colonna sonora per la lettura se siete masochisti. Spero non mi odierete troppo dopo questo capitolo e di non avervi rattristato troppo, ma un po' di drama fa bene allo spirito ;) Grazie mille come sempre per il grandissimo supporto e gentilezza che dimostrate nei confronti della storia. Un bacio grade di ringraziamento ad adlerlock, CreepyDoll, ilovehismusic, emerenziano, mikimac e Hotaru_Tomoe per le loro recensioni carinissime come sempre che mi motivano davvero tanto nella scrittura. Grazie grazie grazie a tutti, al prossimo capitolo, con l'inizio di un nuovo caso misterioso! :D

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Capitolo 8
*** Wildest Dreams ***


Capitolo 8 – Wildest Dreams

 

Durante il viaggio a bordo dell'automobile della polizia, Lestrade aggiornò Sherlock e John sulle dinamiche del nuovo caso che aveva scosso Scotland Yard, facendo il punto della situazione.

“Un rapimento?!” sbottò Sherlock dal sedile anteriore della vettura accanto a Lestrade, lasciando dietro John da solo anche questa volta. “Ci hai fatto scomodare solo per un banale rapimento?”

“Ma mi stai ascoltando?” gli rispose a tono Lestrade, “non sappiamo ancora se si tratti di un rapimento o meno.”

La situazione era infatti più complessa di come cercasse di banalizzarla Sherlock, scocciato e ancora scosso dagli eventi della nottata. Lestrade aveva riassunto velocemente i fatti accaduti il giorno prima: il figlio minore di una famiglia della media borghesia londinese era scomparso nel nord di Londra nel primo pomeriggio, o almeno quello era il momento in cui la madre si era accorta della sua assenza dal giardino della raffinata casa in stile vittoriano in cui vivevano in Wellington Street, nei pressi di Regent's Park. Ma non era ancora chiaro se il bambino si fosse allontanato volontariamente, se fosse rimasto vittima di un incidente, se fosse stato avvicinato da qualcuno. L'ultima ad averlo visto era la sorellina di qualche anno maggiore, che stava giocando col bambino fino al momento della sua scomparsa, e che adesso era completamente chiusa nel silenzio.

“Per favore,” ribatté Sherlock, “il figlio piccolo di una famiglia agiata scompare, è sempre un rapimento.”

“Cosa avete scoperto finora?” chiese John a Lestrade, facendo capolino fra i sedili.

“La madre è completamente sconvolta e di nessun aiuto, la sorellina è sotto shock,” spiegò l'ispettore, “in poche parole, nulla.”

“E quale sarebbe la novità?” bofonchiò sarcastico Sherlock.

“Abbiamo mandato i cani da soccorso fuori nel quartiere per cercare di fiutare il bambino,” riprese Lestrade, “ma per ora non ci sono stati risultati e, visto che la tempestività è vitale per ritrovare la persona scomparsa in questi casi, ho pensato di ricorrere anche ad un altro tipo di fiuto.”

“Idea comunque inutile,” controbatté Sherlock, alzando gli occhi al cielo e inclinando la testa verso il finestrino, “visto che è un rapimento.”

John stava sghignazzando nel sedile posteriore. “Vedi Lestrade,” disse sorridendo, “il problema di usare Sherlock come segugio è che non puoi tenerlo al guinzaglio.”

Con un leggero sobbalzo, arrivarono davanti alla palazzina privata a mattoncini e intonaco, e l'auto si fermò lungo il marciapiede. I tre uomini uscirono dalla macchina, sbattendo le portiere quasi all'unisono. Dentro la villetta, al di là del giardino all'inglese e delle basse siepi che lo circondavano, si potevano scorgere un paio di figure in movimento dietro le tende che offuscavano le tipiche vetrate esagonali in stile vittoriano. Sherlock, John e Lestrade varcarono la soglia del giardino e iniziarono a percorrere il vialetto. Alla sua fine, potevano scorgere che la porta era già aperta.

“Non mi stupisce che si siano persi un bambino, se si dimenticano anche la porta aperta,” commentò ironico Sherlock, lanciando un'occhiata di traverso a John.

John soffocò una risata sonora con difficoltà. Come Sherlock riuscisse ad avere quel tempismo perfetto per le battute sconvenienti era il vero mistero della sua personalità. John buttò una veloce occhiata di rimando verso Sherlock sorridendo, per inviargli telepaticamente qualcosa a metà fra un rimprovero e una pacca di approvazione. Ma quello che vide lo spiazzò.

La faccia di Sherlock non era affatto divertita. Il detective era pungente e sarcastico come al solito, non c'era nulla di strano nel suo comportamento e nelle sue frecciatine, ma i suoi occhi erano così tristi. John aveva colto per un secondo una tale desolazione negli occhi di Sherlock che contrastava completamente con il resto del suo atteggiamento, e non capiva da dove venisse. Sherlock era stato strano negli ultimi giorni a momenti, ma anche lui lo era stato, l'intera situazione lo era. E anche in questo momento c'era un pensiero fisso che attanagliava la mente di John fin dal risveglio, una strana immagine confusa. Come fare a capire se ci fosse qualcosa di serio che non andava in Sherlock? La stranezza non poteva essere un indicatore, perché, in tutta sincerità, quand'era che Sherlock non era strano?

La pozza di tristezza dagli occhi di Sherlock scomparì immediatamente appena notò lo sguardo del dottore, a cui rispose con un leggero sorriso. Anche John rialzò le estremità cadenti dalla sua bocca per ricambiare il sorriso, ancora confuso. Era davvero impressionante come cercasse di farlo ridere anche quando portava dentro di sé una tale pena, pensò John.

I tre uomini raggiunsero il portone di ingresso, ma prima di avvicinarsi Sherlock rallentò, facendoli esitare qualche passo indietro e studiando attentamente lo zerbino e lo spiazzo davanti alla porta. C'erano un paio di tracce di fango sul lastricato, e quelle che sembravano essere delle piccole impronte di scarpe sporche di terra sullo zerbino, mezze cancellate dalle suole delle altre persone che ci si erano strofinate contro entrando nella casa. Sherlock inarcò la schiena e si inchinò leggermente per osservarle con attenzione maniacale. Poi si rialzò e raddrizzò, e si voltò verso i due colleghi che lo stavano accompagnando. Il suo sguardo era completamente neutro adesso, notò John, anzi, c'era quella solita punta di determinazione e sfida che aveva sempre quando un caso iniziava a intrigarlo. Adesso la sua concentrazione era completamente sulla risoluzione del mistero.

“Non è un rapimento,” annunciò Sherlock ai compari.

Lestrade li superò e spinse la porta socchiusa, aprendola completamente. Quando misero piede nell'ingresso, il rumore dei tanti agenti di polizia che affollavano ogni angolo dell'abitazione, sebbene appena udibile da fuori, li investì. C'era personale di polizia in ogni dove, alcuni tecnici della scientifica stavano scendendo dalla scala che portava al piano di sopra, presumibilmente alla ricerca di indizi e tracce biologiche; a destra dell'ingresso, nel salotto che vi si affacciava, si vedevano altri agenti intenti a prendere appunti e a parlare con una donna magra dai capelli scompigliati seduta in modo precario su una sedia di legno, a poca distanza da una ragazzina altrettanto magra, e da una donna anziana che oscillava su una sedia a dondolo con aria assente.

“Come ti aspetti che possa trovare qualcosa,” si lamentò Sherlock con Lestrade, “adesso che tutti i possibili indizi sono già stati compromessi dai tuoi uomini?”

La donna scompigliata, evidentemente la madre del bambino scomparso, lanciò un'occhiata verso i nuovi arrivati, con un misto di speranza e profonda paura degli occhi. Lestrade, Sherlock e John raggiunsero il salotto ed entrarono nella stanza, dietro agli altri poliziotti che stavano perquisendo mobili e oggetti alla ricerca di qualche informazione in più sul bambino. Al loro ingresso, la donna si alzò dalla sedia di scatto.

“Ci sono novità?” chiese, con voce rotta e incerta, le labbra tremanti fra le rigature lasciate dalle lacrime. Si aspettava di sentire qualche tragica notizia dall'ispettore.

“No,” la rassicurò Lestrade, “ma ho portato qualcuno che può aiutare,” disse facendo segno verso Sherlock e John.

Sherlock stava già ispezionando tutta la stanza e registrandone ogni dettaglio, visibilmente infastidito dal via vai degli uomini della polizia e dagli sforzi che doveva fare per cancellarli dal suo campo visivo.

“Tutti questi uomini e non state facendo nulla di concreto,” esalò esasperata la donna, ricadendo sulla sedia, “che differenza possono fare altri due?”

“Noi non siamo come gli altri,” rispose Sherlock, avvicinandosi a lei senza guardarla in volto, con aria distratta perché impegnata a squadrarla da capo a piedi e catturare ogni possibile indizio su di lei. Ma sembrava semplicemente una normale madre sconvolta. “Sono il consulente investigativo Sherlock Holmes,” si presentò alla donna, “e questo è il mio... collega, John Watson.”

John sorrise leggermente alla donna, dal margine della stanza, dove era rimasto a fianco di Lestrade per lasciare Sherlock fare il proprio lavoro. Colse quella piccola esitazione nella voce di Sherlock, e se ne chiese il motivo. Dal punto di vista di Sherlock, non c'era nessuna parola che potesse riassumere il loro rapporto, e chiamarlo collega era davvero troppo riduttivo.

Sherlock tese la mano alla donna, studiandole per la prima volta gli occhi. “Lei è la signora...”

“Larson,” rispose la donna, accettando la mano. “Scusate ma non capisco come potreste essere d'aiuto. È già stata allertata la scuola, i cani sono fuori a cercarlo, e non sta servendo a niente...”

“Devo parlare con sua figlia,” la interruppe Sherlock, lasciandole la mano.

La signora Larson gettò un'occhiata dietro di sé alla ragazzina seduta in disparte, con gli occhi verso il pavimento, che non aveva accennato un minimo cambiamento all'ingresso dei nuovi ospiti.

“È sotto shock per la scomparsa di suo fratello,” spiegò al detective, “non ha detto una parola da ieri.”

“Non è un problema,” fece Sherlock, superandola e avvicinandosi alla bambina, “io parlo abbastanza per due persone.”

All'avvicinarsi di Sherlock, la bambina si alzò e scappò a nascondersi velocemente dietro la sedia a dondola con la donna anziana dallo sguardo vuoto, sua nonna.

“Non preoccuparti, devo solo farti un paio di domande,” cercò di tranquillizzarla Sherlock, che non si poteva proprio definire un esperto con i bambini, “non servirà neanche che tu risponda, posso capire anche senza parole.”

Sherlock segui la bambina e cercò di raggiungerla dietro la sedia a dondolo, tendendo una mano verso di lei. Ma un colpo brusco lo fermò.

La donna anziana sulla sedia aveva sferrato un colpo violento verso Sherlock con il braccio, alzandolo in aria e cercando di sbatterlo forte con il pugno chiuso contro la faccia del detective. Fortunatamente, con i suoi riflessi pronti e l'allerta alta, Sherlock era riuscito ad intercettare l'attacco e a portare una mano a difesa del volto, ma era rimasto non di meno sorpreso dal gesto inaspettato della vecchia, che fino ad un secondo prima sembrava completamente inerme. Adesso, invece, il suo viso era completamente trasfigurato in una maschera di odio, con gli occhi spiritati e tutti i muscoli contratti in un'espressione minacciosa. Non accennava a riabbassare il braccio stretto nella presa di Sherlock, anzi lo scuoteva e dimenava cercando di liberarsi e di scagliare un nuovo colpo, con una forza che il detective non aveva previsto potesse animare una donna così anziana.

“No, mamma,” la signora Larson corse subito in contro alla vecchia, “non fare così, va tutto bene.”

John era istintivamente scattato in avanti al gesto di attacco verso Sherlock, e adesso stava muovendo un passo indietro riassumendo la sua precedente posizione. Appena la signora Larson raggiunse l'anziana madre e le prese il braccio, sfilandolo dalla mano di Sherlock, questa si calmò, e torno allo stato inerme e vegetativo di prima. Il suo volto tornò vuoto e spento, il suo braccio divenne molle e ricadde al suo fianco. Era come se la signora Larson le avesse spento l'interruttore.

“Mi dispiace,” si scusò verso Sherlock, “mia madre ha l'Alzheimer, a volte ha degli scatti violenti, e la presenza di tutte queste persone la agita e disorienta. Non intendeva farle del male.”

“Ah,” pensò a voce alta Sherlock, “le malattie degenerative, difficile dedurre dei comportamenti così imprevedibili, interessante.”

La bambina uscì da dietro la sedia a dondolo, con l'aria ancora più bastonata di prima, come se si sentisse in colpa per l'episodio e uscisse allo scoperto per scusarsi. Sherlock abbassò lo sguardo per incontrare quello della ragazzina.

“Vogliamo ritrovare tuo fratello,” le disse piano, “non è quello che vuoi anche tu? Puoi aiutarci?”

La bambina non rispose, e Sherlock non era la persona adatta per farla aprire e parlare, la sua scarsa empatia umana era appena sufficiente per gli adulti. Quindi decise di aggirare il problema con le sue straordinarie doti di analisi.

“Ok,” convenne il detective, “dov'è che andate a giocare di solito tu e tuo fratello?” chiese alla bambina studiandone la reazione, “dov'è che stavate giocando prima che scomparisse?”

La bambina non rispose, ma volse velocemente gli occhi per guardare fuori dalla finestra, per un istante.

“Sì, in giardino, lo so,” Sherlock dedusse la muta risposta della bambina, “ma dovete giocare anche da altre parti,” disse, indicando le scarpe sporche della bambina, “non ti sei sicuramente sporcata di fango nel prato perfettamente curato di casa tua, quindi dove?”

La bambina aveva abbassato gli occhi alle scarpe, e non sembrava volerli rialzare né lasciar trasparire alcune emozione.

Sherlock si chinò ulteriormente e la afferrò per le spalle. “Dove?!” le chiese più veementemente, scuotendola leggermente.

“Sherlock!” lo ammonì John dall'altro lato della stanza, muovendosi velocemente verso di lui, “lasciala stare!”

Ma Sherlock aveva già ottenuto tutto quello che le serviva. Scossa, la bambina aveva gettato lo sguardo per un secondo verso alcuni fogli sparpagliati sopra il tavolino all'angolo della porta, abbastanza a lungo perché Sherlock intercettasse l'occhiata e capisse. Lasciò andare la bambina e si fiondò subito verso i fogli: dei disegni a pastelli, realizzati dall'incerta ma creativa mano della bambina.

“Ehi, stai bene?” domandò John alla bambina, che aveva raggiunto attraversando la stanza, e che adesso guardava negli occhi, inginocchiato di fronte a lei, “Non preoccuparti, è tutto a posto.” John le accarezzò i capelli con una mano.

Avere a che fare con quella bambina lo faceva pensare. Di lì a poco lui stesso sarebbe diventato padre, e non era interamente sicuro di come questo lo facesse sentire. La notizia lo aveva reso incredibilmente felice, e fare famiglia era sempre stato uno dei suoi desideri. Ma adesso le cose si erano così complicate. Che futuro avrebbe potuto avere suo figlio con una madre come Mary, e senza di lui? Non sapeva come comportarsi per riaggiustare la questione. Il rancore per Mary era acceso di una mancanza e nostalgia che gli corrodevano il fegato come gli era capitato solo un'altra volta nella vita. Doveva mettere davanti a tutto gli interessi del bambino, e garantirgli una famiglia unita e serena? Doveva cercare di costruire questa famiglia serena anche se le basi erano incerte e precarie? Doveva cercare di ritrovare quello che amava di Mary, anche se gran parte della sua persona gli sarebbe stata sempre sconosciuta, o avrebbe dovuto leggere la chiavetta USB e scoprire completamente chi aveva sposato, col rischio di non volerla più rivedere? Sicuramente non poteva fingere di non avere un figlio, e fargli pesare gli errori della madre e le vicende che erano accadute fra loro. Ma come poteva conciliare le cose? Doveva perdonare Mary? Sarebbe stato un buon padre? Non era sicuro di avere i requisiti necessari, con la sua dipendenza da adrenalina, lo stress postraumatico, e i suoi scatti d'ira. Non si sarebbe mai permesso che suo figlio soffrisse, però. Dopotutto, era sangue del suo sangue, era la cosa più importante.

Ma, anche in questo momento, con l'indifesa ragazzina che avrebbe dovuto attivare il suo istinto paterno, la sua mente cercava in ogni modo di divagare per non affrontare i conflitti interni che avrebbe dovuto risolvere, e al più presto. Fuggire dai problemi e dai pensieri scomodi era così facile. Doveva fare uno sforzo immane per riuscire a pensare da padre alla sua prossima, e sgangherata, famiglia, perché c'era un altro pensiero fisso, un'altra immagine che gli occupava la mente, e lo deconcentrava da qualsiasi altra cosa. Aveva fatto un sogno assurdo quella notte, e il vago ricordo del sogno, la sua immagine sfocata, non si cancellava dalla sua testa. Aveva sognato di baciare Sherlock.

Poteva ancora sentire le sensazioni di quel sogno, ma non era stato un sogno vivido, tutta la scena era offuscata, come se la sua memoria non potesse accedervi. Ricordava solo la dolcezza delle labbra di Sherlock, e non solo era estremamente sconveniente in quel momento: era esattamente quello che non gli serviva in mezzo a tutti i dilemmi mentali che già aveva da dipanare. Era solo un sogno strano come ne capitano tanti, non poteva significare nulla di particolare. Eppure non riusciva a smettere di pensarci, e non capiva perché. Era un chiodo fisso che lo tormentava da ore. Non era bizzarro che avesse sognato di baciare il suo migliore amico, e che non fosse la prima volta che capitava? Era da parecchio che non gli succedeva, però, doveva ammettere. Non ci aveva mai dato troppo peso, capita a tutti di sognare di fare cose strane con i propri amici di tanto in tanto, no? Soprattutto in alcuni momenti di solitudine e frustrazione. Era una cosa normale, non poteva dargli più importanza di quello che avesse, non era neppure reale. Ma continuava a pensarci, come non gli capitava mai, nemmeno con gli incubi. Di solito alzandosi tutto svaniva, ma non quel bacio. E continuava a pensarci nella maniera sbagliata. Come se volesse rivivere il sogno. Come se volesse provare di nuovo quel bacio.

“Quand'è che sua figlia ha fatto questo disegno?” chiese Sherlock alla signora Larson mostrandole un foglio colorato, e frantumando la scia di pensieri di John, che si rialzò e tornò concentrato sugli eventi del caso.

“Uhm... non saprei,” rifletteva la donna, “ieri? L'altro ieri? È solo un disegno, cosa importa?”

“Importa tantissimo,” la corresse Sherlock, avvicinandosi a lei e porgendole meglio il disegno. “Immagino che questa sia sua figlia,” indicò una piccola figura con le codine nel disegno, “e questa sia lei e sua madre” aggiunse puntando a due figure femminili più alte, una con capelli bianchi e bastone da passeggio, “e da quest'altro lato ci sono suo figlio scomparso e... suo marito?”

“Sì,” confermò la donna, “mio marito gestisce un'importante industria a Manchester, sta tornando proprio adesso, appena gli ho detto dell'accaduto. Lavora tutto il tempo per non farci mancare nulla,” sospirò, “da quando mia madre si è ammalata e io ho lasciato il lavoro per accudire lei e i bambini. Tutti quegli sforzi e nonostante tutto...” la sua voce iniziava a tremare.

“Sì sì ma non si distragga,” la bacchettò Sherlock, completamente preso dalla decodifica delle immagini, facendola tornare a guardare il disegno, “questo cosa rappresenta? Alberi, non avete alberi alti in giardino, quindi cos'è, un parco? Ovvio, Regent's Park è a dieci minuti da qui. Ci vanno spesso a giocare i bambini?”

“Qualche volta,” annuì la donna, “ce li porto nel fine settimana. Siete andati al parco da soli senza dirmi nulla?” chiese la signora Larson, senza riuscire a farlo suonare come un rimprovero, alla figlia, che anche questa volta non proferì parola.

“E questa curva cosa significa?” Sherlock proseguì con la sua analisi, “una piega, un dosso, una montagna... una collina!” esclamò alla fine, balzando per la stanza preso dall'eccitazione.

“Una collina?” chiese perplessa la signora Larson, “non ho mai portato i miei figli in collina.”

“Oh ma non è vero,” la contraddisse John, gli occhi accesi dalla stessa eccitazione di Sherlock, orgoglioso di riuscire a seguire il suo ragionamento, “c'è una collinetta proprio a fianco di Regent's Park!”

“Primrose Hill!” esclamò Sherlock, estatico. “Ecco dove si trova suo figlio, a Primrose Hill!”

La frenesia si trasmise immediatamente lungo tutta la stanza, e Sherlock, John e Lestrade furono subito in movimento. Lestrade sfilò il telefono di tasca, pronto a dare nuove direttive. “Dì ai tuoi uomini,” lo intimò Sherlock, “di portare i cani intorno a Primrose Hill per setacciare la zona!”

“È quello che sto facendo!” gli rispose Lestrade, già con l'orecchio al telefono, mentre si apprestava ad uscire dalla stanza.

“Con la volante della polizia,” rifletteva Sherlock ad alta voce con John, mentre seguivano Lestrade fuori dalla stanza verso l'uscita, “dovremmo essere lì in poco più di cinque minuti.”

“Aspettate, vengo con voi!” gli urlò dietro la signora Larson, congedando sua figlia con un bacio sulla fronte. “Fai la brava, sta' con i signori della polizia, e tieni d'occhio la nonna,” la salutò, “io torno presto, vado a riprendere tuo fratello!”

La signora Larson corse fuori dalla stanza e dalla casa dietro a Lestrade, Sherlock e John, per evitare che partissero senza di lei. I suoi occhi adesso erano accesi da una nuova speranza. Mentre quelli di sua figlia sembravano ancora più scuri.

I tre uomini e la donna si strizzarono dentro l'auto della polizia di Lestrade e partirono alla volta di Primrose Hill, con Sherlock sempre nel sedile anteriore che lanciava ragionamenti e considerazioni incauto dell'effetto che potessero avere sulla signora Larson seduta dietro di lui, la cui tremula speranza mista a paura era rivelata dalla vibrazione del piede contro il tappetino dell'automobile, che John colse dalla posizione accanto a lei; ma nonostante il momento di tensione, il primo pensiero di John era sempre puntato ai metodi non convenzionali con cui poteva far chiudere il becco a Sherlock usando la sua bocca.

Come predetto da Sherlock, raggiunsero l'entrata del parco che ospitava la collinetta nel giro di cinque minuti o poco più, fortunatamente il traffico di Londra era stato clemente. Mentre scendevano dalla macchina, i quattro poterono già notare dentro la recinzione del parco i cani della polizia che si trascinavano dietro altrettanti agenti arrivati qualche momento prima di loro. Entrarono anche loro dentro al parco, e procedettero per qualche secondo lungo a vialetti e stradine per arrivare all'accesso alla collinetta. Eccola che si ergeva imponente davanti ai loro occhi, il pendio di Primrose Hill, di fronte ad una lunga e rada distesa erbacea, a cui lati la vegetazione si infoltiva gradualmente, ospitando arbusti e vegetazione sempre più folta con l'allontanarsi dal centro della piana. John notò che il terreno era perfettamente compatibile con quello richiesto da Sherlock, perché fra l'erbetta selvatica e diradata c'erano ampie chiazze di terra e fango su cui la figlia della Larson poteva essersi sporcata le scarpe. Anche Sherlock stava guardando il fango con occhio più analitico, forse già confermando con il suo microscopio mentale che la composizione del fango era esattamente la stessa di quello trovato sullo zerbino.

Raggiunto il centro della distesa erbosa, gli agenti della polizia slegarono e rilasciarono i cani per mandarli ad eseguire la propria attività di ricerca, e questi partirono subito spediti verso la vegetazione e la boscaglia ai margini del prato della collinetta, annusando già qualcosa di sospetto. La signora Larson si gettò subito dietro di loro, non riuscendo più ad aspettare con la sua apprensione di madre. Lestrade la seguì di corsa, un po' per impedire che si cacciasse nei guai e un po' perché non fosse di intralcio alle indagini, andando a salutare i suoi colleghi della polizia. Anche John si stava subito lanciando verso i poliziotti per seguire da più vicino il centro dell'azione, ma Sherlock lo fermò.

“Vieni,” gli disse, prendendolo per la spalla e indicando la collina, “saliamo.”

Sherlock prese ad arrampicarsi su per la collina di buon passo e John, dopo un attimo di perplessa esitazione, lanciando un'altra occhiata verso la polizia e i cani, gli andò dietro. Sherlock saliva spedito come se non avvertisse neanche la pendenza, sempre lesto e prestante nonostante non sembrasse allenarsi, o riposarsi, mai; John invece era abbastanza fiaccato, forse aveva davvero accumulato qualche chilo di troppo dal matrimonio, e lo stile di vita sregolato delle ultime settimane non aiutava.

Raggiunsero la cima, e si trovarono davanti un piccolo spiazzo circolare popolato di persone, fra turisti intenti a fare picnic per terra e giovani seduti sulle panchine. Un ragazzo e una ragazza si stavano baciando su una di quelle e John ricordò in quel momento che Primrose Hill era il luogo prediletto dalle coppiette per gli appuntamenti romantici, e tutto questo non aiutava i suoi pensieri.

“Perché siamo saliti quassù,” chiese John a Sherlock, “quando i cani sono andati da tutt'altra parte?”

Sherlock si era girato e stava guardando lontano, ammirando il panorama. “Avevo bisogno di vedere qualcosa di bello,” rispose. Tutta Londra era davanti ai loro occhi, e le cime di edifici e grattaceli brillavano nel sole del mezzogiorno svettando sopra la vegetazione del parco. Era una vista incantevole.

“Perché?” chiese insistente John.

“Ho un brutto presentimento,” ammise Sherlock.

“Sei Sherlock Holmes, tu non hai presentimenti,” lo corresse John, “tu sai le cose e basta.”

Stavano l'uno accanto all'altro con il sole in faccia a guardare il paesaggio che si stendeva a perdita d'occhio, ma lo sguardo di John tornava sempre indietro. Nonostante la bellezza della città davanti a lui, i suoi occhi erano più interessati a cercare di spiare il volto dell'uomo che aveva di fianco. John finiva per girare impercettibilmente la testa e lanciare un'occhiata alle labbra di Sherlock, così carnose e definite.

Perché non riusciva a smettere di pensare a baciare Sherlock? Non andava bene. A John piacevano le donne. John ne era certo, questo non era in dubbio, per tutta la sua vita il gentil sesso era stato la sua spiccata preferenza. Questo non era mai stato in discussione, perché la sua passione per il fascino femminile era ovvia e palese, e fin troppo spesso ne era rimasto soggiogato prima di incontrare Mary, che per lui era la donna più bella che esistesse. Allora perché stava desiderando di baciare il suo migliore amico? John non si era mai identificato come niente che non fosse eterosessuale, lui era perfettamente normale. Anche tutte le volte che la sua mente aveva corso più di lui e gli aveva fatto immaginare scenari indecenti nei sogni o nelle fantasticherie ad occhi aperti, che coinvolgevano Sherlock o altri conoscenti, non aveva mai preso sul serio la cosa, sicuro nelle proprie certezze dal maggior numero di riscontri riguardanti l'attrazione verso il polo femminile, e certo che capitasse a tutti di fare pensieri piccanti che non avrebbero poi voluto mettere in pratica. Questa volta però era così difficile scacciare questo nuovo pensiero, e stava scuotendo le fondamenta delle sue convinzioni. Era possibile che esistessero delle eccezioni alla sua sessualità? Era possibile che fosse attratto dal genere femminile, e da Sherlock? Stava solo fraintendendo i profondi sentimenti di affetto che provava verso il compagno per qualcos'altro? Dov'era esattamente che si poteva tracciare il confine fra amicizia e qualcosa di più? Quello che lo legava a Sherlock era un sentimento così intenso che non aveva nulla di diverso dall'amore, ma John non aveva mai pensato che potesse prendere la sfumatura tipica di una relazione romantica, semplicemente perché non era il lato che a lui interessava, però adesso non ne era più così sicuro. Forse le cose potevano cambiare, evolversi nel tempo. D'altronde, anche la sua analista una volta aveva detto che la sessualità era qualcosa di fluido, che non era mai bianca o nera, che c'erano delle zone grige e delle eccezioni comunque valide. E chissà perché aveva deciso di parlargliene, poi.

John non era bravo con sentimenti ed emotività, e non era tipo da scavarsi dentro più di tanto per cercare di decodificarli, preferiva reprimerli in un angolo e lasciarli nell'oblio. La sua terapista sapeva benissimo quanto fosse difficile tirargli fuori di bocca qualsiasi ammissione, qualsiasi confessione, quando molti di quei quesiti non li aveva mai elaborati in prima persona. Ma questa volta, John doveva capirci di più. E per farlo, doveva investigare oltre. Doveva tentare la prova definitiva.

Girandosi qualche millimetro in più verso Sherlock, abbassò gli occhi lungo il suo colletto e la sua giacca. John cominciò ad immaginare di levargliela, di sbottonare la sua camicia e di sfilargliela di dosso. Si figurò il corpo nudo di Sherlock davanti agli occhi, pensando a come sarebbe stato scorrere le dita sulla sua pelle. Come lo faceva sentire questa visione? John non ne era completamente sicuro, ma era un'immagine mentale che non gli dispiaceva e che non lo infastidiva. Non sapeva se gli sarebbe piaciuto davvero abbracciare Sherlock in quel modo, forse era un passo troppo lungo, uno slancio troppo eccessivo per le sue pulsioni non ancora ben tarate, ma i suoi occhi tornarono alle labbra del detective. Adesso John sapeva che il suo sogno era venuto dal desiderio di provare.

Sherlock continuava a guardare il panorama imperterrito, inconsapevole delle elucubrazioni del compagno, e la vista della città sembrava renderlo molto malinconico. Cosa avrebbe fatto John con questa nuova consapevolezza? Dopotutto, era un uomo sposato, e di lì a poco sarebbe diventato padre di famiglia. Questo tassello non poteva integrarsi nel quadro della sua vita, però non voleva gettarlo al vento.

Dai piedi della collina iniziò a salire il rumore intenso dei latrati dei cani, seguito da un incomprensibile vociare, rotto da un prolungato e straziato urlo femminile.

“È il nostro segnale,” fece Sherlock a John, cominciando a correre giù per la collina.

Tornati sulla piana, Sherlock e John corsero verso la boscaglia, seguendo la scia delle voci per orientarsi, e arrivando finalmente alla temuta scena: fra un diradamento degli alberi, il corpo esanime di un bambino giaceva nella terra, circondato dai cani e dagli agenti di polizia, mentre la signora Larson soffocava le grida contro il cappotto di Lestrade, gli occhi sconvolti.

“John...” lo invitò Sherlock ad avvicinarsi al corpo e analizzarlo, “è stato un incidente, è stato ucciso?” gli chiese di confermare le risposte che già immaginava.

John si inginocchiò accanto al corpo del bambino. “A giudicare dall'ecchimosi digitale sulla pelle del collo, è stato strangolato,” rispose.

A quelle parole, la signora Larson lanciò un gemito ancora più forte, sprofondando la faccia nell'abbraccio di Lestrade. “I segni di strangolamento sono leggeri, però,” continuò John, guardando le tracce più da vicino, “non sono stati impressi con particolare forza.”

“Cosa intendi?” lo sollecitò Sherlock.

“Sembra sia stato strangolato con poca intensità,” chiarì John, “certo, abbastanza per soffocarlo, ma il trauma cutaneo è leggero e ridotto. Come se fosse stato strozzato da una persona debole o da una persona non nel pieno della propria forza, sicuramente non un adulto, magari proprio un altro bam-”

“Sono stata io!” urlò la signora Larson, liberandosi dalla presa di Lestrade e interrompendo la spiegazione di John.

“Cosa dice? Non ha senso,” la contraddisse Sherlock.

“Stia zitto, è così!” urlò di nuovo la donna, “Dio mio, sono stata io a uccidere mio figlio!”

 

***

 

Nel prossimo capitolo: Le cose che si è disposti a fare per amore.

 

***

 

Nota dell'autore: Capitolo più lungo del solito, spero non vi dispiaccia, ma volevo cercare di ispezionare per bene la psicologia di John e quello che gli sta passando per la testa, così da iniziare a conoscere anche il suo punto di vista, e allo stesso tempo dovevo incominciare il nuovo caso e delitto. Fra l'altro, il capitolo è stato scritto a più riprese fra i fumi della febbre, quindi spero che abbia senso, ma non ci giurerei. Grazie mille ai miei fedeli recensori CreepyDoll, mikimac, emerenziano, adlerlock, Hotaru_Tomoe e ilovehismusic che mi supportano sempre con i loro adorabili e acuti commenti, che sono davvero preziosi per me, e un abbraccio anche a tutti gli altri che seguono la storia. Fatemi sapere che ne pensate dei nuovi sviluppi e se l'intreccio del nuovo caso vi stuzzica. A presto! :)

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Capitolo 9
*** Rage and Devotion ***


Capitolo 9 – Rage and Devotion

 

Due giorni dopo il ritrovamento del corpo del bambino nel parco, Sherlock e John si trovavano di nuovo a bordo di un taxi in direzione dell'abitazione dei Larson. E non pianificavano una visita di piacere.

I due erano seduti sul sedile posteriore, a pochi centimetri di distanza, eppure così lontani. John aveva ancora solo un paio di labbra in mente, nonostante cercasse di costringersi a pensare a quelle di Mary e a mettere ordine fra le idee su come ricostruire la sua famiglia e la sua vita, anche se le vicissitudini del caso erano una distrazione così piacevole. Sherlock era stato iperattivo per entrambi i giorni. Non aveva smesso un attimo di ripercorrere i dettagli del caso, di lamentarsi che la dichiarazione di colpevolezza della madre del bambino non avesse senso, di cercare di incontrarla al commissariato anche se Lestrade l'aveva esplicitamente bandito per cercare di affrontare la situazione con la dovuta tranquillità, di compensare all'inattività facendo ancora più calcoli e ricerche sull'omicidio. Forse si era fermato solo per dormire qualche ora, ma a giudicare dalle occhiaie sempre più marcate John aveva qualche dubbio. Non che lui stesso riuscisse a dormire bene in quei giorni, stava lontano dai pisolini sulla poltrona solo per mantenere un certo decoro. Ma sembrava che Sherlock davvero non volesse fermarsi un secondo, come se cercasse di tenersi sempre occupato per distrarsi da qualcos'altro che gli ronzava in mente, proprio come John. Anche in quel momento, non smetteva di tamburellare con le dita sul bordo del sedile anteriore, impaziente per il traffico congestionato, e non smetteva di parlare.

“Non è possibile che ci voglia così tanto,” sbuffava, “per quando saremo arrivati la figlia della Larson sarà già diventata maggiorenne!”

Il principale soggetto della fissa di Sherlock nei due giorni era stata proprio la bambina. Fra il suo mutismo e il legame col fratello, anche John aveva pensato che fosse più coinvolta con la sparizione e morte del bambino di quanto sembrasse, ma Sherlock non aveva voluto fare nessun commento o ipotesi, come sempre, finché non fosse stato il momento giusto.

“Non esagerare, siamo arrivati,” John canzonò Sherlock, scorgendo all'orizzonte il profilo del quartiere in cui abitava la famiglia Larson.

Arrivati all'imbocco della strada, parcheggiarono, pagarono il tassista – o meglio John dovette pagare, al solito – e scesero dalla vettura. Raggiunsero la casa, e dovettero suonare due volte perché, anche se era ovvio dai movimenti dentro all'abitazione che ci fosse qualcuno, non sembravano intenzionati ad aprire. Alla fine, la signora Larson comparì alla porta e la aprì appena per guardare fuori, lasciando il chiavistello inserito.

“Smettetela di suonare,” fu così che salutò Sherlock e John, “o sveglierete mia madre, si è appena addormentata.”

“Sembra molto affezionata all'atmosfera della prigione, signora,” le rispose Sherlock, “visto che sta vivendo da reclusa in casa.”

“Per favore, abbiamo avuto i giornalisti qua fuori per tutta la mattina,” la signora Larson era stremata, “andate via, lasciateci stare.”

“Purtroppo non è possibile,” le negò Sherlock, “e lei sa che se c'è qualcuno che può aiutarla siamo proprio noi.”

La Larson, rassegnata, richiuse la porta, tolse il chiavistello, e li lasciò entrare.

Percorsero l'ingresso, entrarono nel soggiorno dove erano già stati due giorni prima, ma proseguirono oltre, sorpassando la figura addormentata della donna anziana stesa sul divano cercando di non fare rumore, ed entrando nella cucina adiacente. La figlia della Larson era seduta al tavolo, e la madre accostò la porta al loro passaggio, lasciando qualche dito di spazio per tenere d'occhio la vecchia sul divano.

“Ciao,” John salutò la bambina, che non accennò ad alzare gli occhi dal foglio su cui stava disegnando con delle matite colorate.

“Ancora non parla,” disse Sherlock alla signora Larson, che scosse la testa in segno di conferma.

I tre si sedettero al tavolo, la donna accanto alla bambina, Sherlock e John al lato opposto.

“Lestrade ci ha avvisato ieri sera che è stata rilasciata dall'arresto preventivo per inconsistenza delle prove,” continuò Sherlock, “ovviamente.”

La donna annuì. “Mi hanno rimandato a casa sicuri che non potessi scappare da nessuna parte in ogni caso in queste condizioni,” accennò alla figlia e alla madre che dipendevano completamente da lei, “e non hanno emanato nessuna accusa nei miei confronti, hanno solo ordinato una perizia psichiatrica per i prossimi giorni.”

“Certo che non possono accusarla, perché non è stata lei,” precisò Sherlock, “nonostante la sua falsa confessione.” La signora Larson rimase impassibile. “E non ha bisogno di nessuna perizia, lei è perfettamente sana di mente e sa esattamente cosa sta facendo. Sta proteggendo qualcuno.”

La signora Larson sorrise amara. “Non è così.”

“È quello che fa sempre,” intervenne John, a supportare l'argomentazione di Sherlock, “si occupa di tutti, si prende cura di sua madre e dei suoi figli praticamente da sola, e anche adesso non sta smettendo di proteggerli.”

“La mia protezione non è servita a nulla,” rispose dura la donna, “non ho mai potuto evitare che accadessero le cose peggiori, quindi che senso avrebbe continuare?”

“Perché non può smettere,” le rispose Sherlock, “anche adesso, non può evitare di cercare di contenere i danni, e proteggere sua figlia. La vera responsabile dell'omicidio.”

La bambina smise di colpo di disegnare, rimanendo paralizzata in una posizione statica.

“Ma cosa sta dicendo!” urlò la signora Larson, prima di rendersi conto del volume della sua voce. “Cosa sta dicendo?” ripeté a voce più bassa, lanciando un'occhiata verso il soggiorno per verificare che la madre non si fosse svegliata.

“La verità,” rispose Sherlock. “L'ho letto chiaramente nei suoi occhi sulla scena del delitto. Appena John ha menzionato la possibilità che i segni di strangolamenti fossero consistenti con la stretta delle mani di un bambino, è intervenuta dichiarando la sua colpevolezza per scagionare sua figlia,” spiegò il detective, mentre la donna abbassava gli occhi verso il tavolo, non sapendo come controbattere di fronte all'esplicazione spiazzante di quello che aveva fatto, “e d'altra parte come non sospettare di sua figlia, che ha mostrato un comportamento così alterato negli ultimi giorni.”

“Capisco perché l'ha fatto, è normale reagire istintivamente per proteggere le persone che amiamo,” continuò John, mentre le immagini di tutte le volte che si era cacciato nei guai per Sherlock gli punzecchiavano la memoria, “ma in questo modo fa del male a sua figlia. Se è davvero stata lei,” accennò rimanendo implicito, per non turbare la bambina che osservava con la coda dell'occhio, “ha bisogno di essere seguita da un esperto, della consulenza di uno psicologo, del supporto di assistenti sociali e di un centro specializzato.”

“Non mi farò portare via mia figlia da strizzacervelli e assistenti sociali!,” sbottò la Larson poggiando i pugni sul tavolo mentre le lacrime le riempivano gli occhi, gettando via la copertura con cui aveva cercato inutilmente di proteggere la figlia e rivelando la verità della deduzione di Sherlock. “Non posso permettere che la allontanino da me, che venga rinchiusa in chissà quale struttura di sostegno che la trasformi in una vera criminale.” La bambina, ancora pietrificata davanti al suo foglio, venne percorsa da un tremito all'udire le parole della madre e la possibilità di essere portata via. “Sappiamo tutti che il sistema non funziona,” aggiunse la donna, “ho già perso un figlio, non posso perdere anche l'altra.”

John fece un respiro profondo. Riusciva a capire la posizione della donna, ma allo stesso tempo era necessario intervenire per il bene della bambina stessa. La situazione era brutta e non c'era nessuna scelta facile, ma comunque dovevano prendere una decisione. E lui, che stava fuggendo dalla sua scelta personale sulla sua vita e famiglia, sapeva bene quanto rimandare e cercare di nascondere i problemi sotto al tappeto non fosse la soluzione giusta.

“Nessuno sta dicendo che sua figlia è una criminale,” disse alla fine, “ma se ha commesso davvero un gesto così grave non può fare finta di nulla. Devono essere approfondite le motivazioni. Se c'è un disturbo psichiatrico ha bisogno di aiuto. Deve essere supportata da dei professionisti per gestire il trauma ed essere rieducata anche se è stato solo un incidente. Magari è stato solo un litigio fra bambini finito male, eh, è andata così?” chiese John alla bambina, abbassando il capo per cercare di guardarla negli occhi che teneva bassi nascosti dietro ai capelli.

Provava una grandissima pena per la bambina e sua madre, e sentiva una forte empatica per la loro famiglia andata distrutta in un momento. Sarebbe stato il destino anche della sua di famiglia, con Mary? Sarebbe stato anche lui un padre assente che era sempre lontano, e ancora non aveva trovato il modo di tornare neanche per un fatto sconvolgente come la morte di un figlio?

“Come potrebbe continuare a vivere come niente con l'assassina di suo figlio?” fece Sherlock senza andare troppo per il sottile, severo e senza tatto. Perché la sensibilità emotiva non era il suo forte, ma anche perché sapeva che era il modo per ottenere una reazione. E infatti la Larson, sentendo la questione posta in questi termini, venne come trafitta da una fucilata.

Con gli occhi sgranati, si portò una mano alla bocca per soffocare un singhiozzo, cancellando una lacrima che si stava affacciando sulla guancia. “Non possono portarmi via anche lei,” ripeteva fra sé e sé, sconvolta, senza sapere cosa fare, “non possono.”

Anche la bambina era percorsa da tremiti che facevano trapelare il suo forte stato d'ansia, che un abbraccio e una carezza materna non sarebbero stati sufficienti per alleviare. Ma in quel momento gli occhi di Sherlock scesero sul foglio fra le mani della bambina, cogliendo i tratti di quello che stava disegnando.

“Oh!” esclamò stupefatto il detective, la faccia mossa dalla sorpresa, “oh!”

“Cosa?” fece perplesso John, irrigidendosi sulla schiena e guardandolo con la fronte corrucciata.

Con un gesto repentino, Sherlock allungò un braccio verso il disegno della bambina e glielo tolse dalle mani, facendolo scorrere sulla superficie del tavolo per portarlo dal suo lato, sotto i suoi occhi.

“Nessuno presta mai attenzione ai disegni dei bambini!” disse enfaticamente Sherlock, osservando il disegno che aveva di fronte nascosto fra le mani, e che pareva contenere tutte le risposte. “Sua figlia ha preso molto da lei, signora Larson,” le disse, guardandola con aria eccitata che non poteva riflettersi nel volto stanco e confuso della donna sconvolta, “avete lo stesso istinto di protezione verso le persone più deboli e indifese.”

“Di che si tratta, Sherlock?” fece John, che prima non aveva fatto caso a cosa stesse disegnando la bambina, e adesso non riusciva a vedere il disegno per le braccia di Sherlock che lo coprivano alla vista.

Istintivamente, John afferrò la mano di Sherlock, che sedeva al suo fianco, con la sua mano, per spostarla di qualche centimetro dal foglio e riuscire a vedere il disegno. Una mossa avventata, che gli si ritorse contro. Il contatto delle sue dita contro la mano di Sherlock era eccessivamente piacevole. La morbidezza del palmo della mano su cui affondò il pollice, le nocche ruvide contro cui sfiorò i polpastrelli. Una mano lunga, affusolata come quella di un pianista, con una nota femminile nella sua delicatezza, ma anche estremamente virile per la forza delle dita e le vene esposte. Per un attimo, John avrebbe voluto provare la carezza di quella mano sulla sua pelle, avrebbe voluto poter avvertire il tocco di quei polpastrelli sulle sue labbra, ospitarle nella sua bocca, assaggiarne il sapore con la lingua, prima di passare a baciare il loro proprietario a fondo, realizzando il sogno che aveva fatto su Sherlock giorni prima e che ancora minacciava di affiorare nella sua mente ogni volta che si distraeva.

John spostò la mano di Sherlock dal disegno e rimase a toccarla per qualche secondo di troppo, mentre la sua mente correva. Prima che qualcosa iniziasse a scaldarsi anche al di sotto del tavolo per colpa dei suoi pensieri impertinenti e fuori luogo, John si costrinse a lasciar andare la mano di Sherlock, e portò le proprie dita alla cintura, per ostacolare e celare il movimento che minacciava di animarsi nei suoi pantaloni. Con uno sforzo di concentrazione, spostò gli occhi sul foglio.

Il disegno ritraeva tre figure umanoidi dall'aspetto abbozzato e stilizzato come solo una bambina poteva realizzare, ma erano chiaramente distinguibili. Due personaggi piccoli, un maschio e una femmina, e una più alta, con i capelli grigi, anziana. Senza particolare sforzo deduttivo, era chiaro che il disegno ritraeva la giovane artista che l'aveva realizzato insieme al fratello e alla nonna. La configurazione della scena era curiosa, però. I due bambini si trovavano ai lati della donna anziana, e questa aveva le braccia alzate verso il maschio, e due sopracciglia aggrottate nella faccia arrabbiata. John alzò gli occhi sgranati verso Sherlock. Aveva capito bene? Poteva essere andata come mostrava il disegno? Le parole di Sherlock avrebbero confermato la sua deduzione.

“L'altro giorno ha detto,” fece Sherlock, rivolto alla Larson, “che sua madre ha sovente degli scatti d'ira quando qualcosa la infastidisce, a causa della sua malattia.”

“Cosa c'entra mia madre, adesso?” chiese la donna, sulla difensiva.

“Ho provato di persona quanto queste crisi di rabbia possono essere improvvise e violente,” continuò Sherlock, ricordando il momento in cui la donna si era risvegliata dal suo stato vegetativo per cercare di colpirlo con forza al viso con il braccio quando il detective le si era avvicinato per raggiungere la nipote nascosta dietro la sua sedia. “Abbiamo assistito anche al forte legame che esiste fra sua figlia e sua madre, a quanto pare, signora Larson,” aggiunse poi, “visto che la bambina è andata immediatamente a nascondersi dietro sua nonna appena si è sentita minacciata. Temo sia un'abitudine di sua figlia, quella di rifugiarsi dietro la nonna in cerca di protezione. Temo si accaduto almeno un'altra volta, con risultati ben più tragici.”

“Cosa intende?!” la Larson iniziava ad agitarsi, “a cosa si riferisce?!”

“Stavate giocando, avevate litigato?” adesso Sherlock si stava rivolgendo direttamente alla bambina, che aveva ancora il volto piegato sul tavolo, “tuo fratello deve averti fatti un dispetto, così sei andata a nasconderti dietro alla sedia di tua nonna, chiedendole aiuto. E nel delirio che solo una malattia crudele come l'Alzheimer può dare, tua nonna l'ha strangolato.”

“Ma cosa sta dicendo!” gridò la Larson, che adesso non si curava più di rischiare di svegliare la madre, “no, non è possibile!”

“Temo sia andata così invece,” confermò Sherlock, “abbiamo visto quello di cui è capace sua madre nei momenti di delirio. Anche se non era in sé, anche se non è stato intenzionale, reagendo male alla minaccia del fratello verso la nipote l'ha strangolato.”

“Corrisponderebbe con i segni sul collo del bambino,” rifletté John a voce alta, “l'ecchimosi lasciata dalla stretta di mani non molto forti, come quelle di una donna anziana e malata.”

“No...” ripeteva la Larson, sgomenta, cominciando a considerare l'idea, constatando quando fosse plausibile e quanto avesse senso.

“Era una verità troppo brutta da rivelare, vero?” Sherlock si piegò verso la bambina, per cercare di vederne gli occhi, “ma anche se non potevi parlare, dovevi farla uscire in qualche modo. Per questo ce l'hai detto attraverso il disegno.”

La bambina, che fino a quel momento era rimasta pietrificata, iniziò a essere scossa dai singhiozzi, sempre più forti, e scoppiò a piangere. Sommessamente, in silenzio, non come fanno i bambini quando vogliono attirare l'attenzione o fanno i capricci, ma come succede quando sono inconsolabili.

“Io non volevo...” soffiò alla fine fra le lacrime, pronunciando con voce rauca le prime parole dopo giorni di mutismo, “non pensavo che...”

“Ed ecco il senso di colpa,” fece Sherlock, “quello che ti ha portato a nascondere il corpo, così che non venisse incolpata tua nonna, perché ti sentivi responsabile.” Alzò gli occhi verso la signora Larson, “avete una carriola, qualcosa con cui ha potuto trasportare il corpo? Ci sono le tracce di ruote e strisce di fango fra le impronte delle scarpe di sua figlia sullo zerbino e sul vialetto.”

“Il carrellino che vi ho regalato per Natale...” bisbigliò la donna, attonita e sconvolta dalla rivelazione.

“È tutta colpa mia...” gemette la bambina, piangendo più forte, “sono comunque stata io...”

Sherlock si alzò in piedi, in uno scatto di altruismo inaspettato. Raggiunse l'altro lato del tavolo e si chinò appena sulla bambina, mettendole una mano sulle spalle per consolarla. “È stato un incidente, non è colpa tua,” le disse, “racconteremo com'è andata tutta la vicenda alla polizia e tornerà tutto a posto.”

Ed ecco la dolcezza di Sherlock, pensò John osservando la scena, non riuscendo a trattenere un delicato accenno di sorriso anche nella drammaticità del momento. Nonostante Sherlock fosse proverbialmente cinico, freddo, non provasse empatia e sembrasse estraneo a tutti i sentimenti umani, ecco che compariva una scintilla di tenerezza da dietro lo scudo che si era costruito intorno. Quella dolcezza che John aveva ricevuto e provato più volte in prima persona, ogni volta che era stato in pericolo e Sherlock era corso in suo aiuto, in tutti i piccoli gesti domestici che nascondevano dell'affetto anche se espresso in modo atipico e particolare tutto suo. Quella dolcezza che, al di là di tutto, rendeva Sherlock un brav'uomo, e non solo un bravo detective. Quella dolcezza dietro tutta l'intelligenza e l'arguzia e l'amoralità che era il motivo per cui John gli voleva così bene, a prescindere da quale fosse il nome di quello che provava, e che aveva reso Sherlock l'uomo più importante della sua vita. Una scintilla, un attimo, prima che si spegnesse di nuovo. Ma comunque abbagliante.

Sherlock si raddrizzò sulla schiena. “John, chiama Molly, a quest'ora sarà ancora in obitorio e potrà controllare il cadavere,” disse al compagno, “ho bisogno della sua opinione professionale sullo strangolamento, deve confermare che sia compatibile con le mani di una donna anziana.”

“Sì, la chiamo subito,” annuì John, alzandosi anche lui in piedi e allontanandosi di qualche passo dal tavolo mentre sfilava di tasca il cellulare e premeva il numero di Molly Hopper nella rubrica del telefono.

“Poi dovremo chiamare anche Lestrade così che avverta le autorità e l'assistenza sociale,” continuò Sherlock.

“Cosa?” la signora Larson si riscorre dall'intorpidimento dello shock, “ma è stato un incidente, mia madre non è capace di commettere un crimine volontariamente.”

“Ciao Molly, sono John. Ciao,” stava nel frattempo dicendo John al telefono mentre varcava la porta e usciva dalla stanza, “scusa il disturbo, ma avrei bisogno di un riscontro sul corpo del bambino dell'altro giorno.”

“Sua madre è un soggetto instabile con tendenze violente ed è un pericolo per la sua famiglia e per chiunque le stia vicino,” rispose Sherlock alla Larson senza giri di parole, “deve essere ricoverata in una struttura specializzata per malati psichiatrici violenti.”

“Assolutamente no!” sbottò la donna, “mia madre non farebbe male a una mosca, è stato solo un incidente!”

“Ha ucciso suo figlio, cerchi di capirlo,” ribatté Sherlock.

“Non posso permettervi di rovinare ulteriormente la mia famiglia!” gridava la Larson, ormai fuori di sé dallo sgomento per tutta la vicenda. “Dopo tutti gli sforzi e i sacrifici che ho fatto per assistere mia madre a casa, per tenerla con me, non ve la lascerò portare via. Non porterete via mia figlia, non porterete via mia madre, devo salvaguardare la mia famiglia!”

“Signora, deve calmarsi e cercare di ragionare,” le intimava il detective, spazientito.

“No, io ragiono perfettamente, siete voi che non volete capire!” urlò la donna, andando a raggiungere il mobile accanto al lavello della cucina sull'altra parete della stanza e aprendo il primo cassetto, “so io cosa è meglio per la mia famiglia e so io come gestire le questioni familiari.”

La donna rovistò fra scatole e blister di farmaci, per estrarre una siringa piena di liquido viscoso. Rapidamente, ruppe il sigillo della siringa e ne estrasse il cappuccio, provò lo stantuffo versando un paio di gocce, e puntò la siringa verso Sherlock.

“Cosa intende fare, abbassi quella-” tentò di dire il detective, ma la Larson gli era già addosso.

Sherlock cercò di allontanarla, ma la donna riuscì a schivare ed evitare le sue braccia e a fiondarsi verso il suo collo. Resistendo ai tentativi di Sherlock di dimenarsi, conficcò l'ago della siringa a lato del collo e vi spinse tutto il liquido contenuto. Sherlock gemette sonoramente per il bruciore dell'iniezione che gli incendiò le vene del collo e dette un ultimo strattone alla donna, con il quale riuscì finalmente a spingerla via e a farle cadere la siringa di mano, ma troppo tardi.

Il bruciore del farmaco iniettatogli si stava diffondendo lungo tutto il suo collo verso la testa, che stava diventando sempre più pesante. La vista offuscata non riusciva più a mettere a fuoco i profili delle figure che lo circondavano, il senso dell'equilibrio svanì completamente e tutta la stanza incominciò a girare. Lampi di luce e punti colorati gli annebbiavano gli occhi mentre tutto si faceva nero e il corpo non riusciva più a reggersi in piedi e sostenere il peso della testa che pendeva sul petto come un macigno. Sherlock mosse qualche passo traballando cercando di mantenersi in piedi, ma non riusciva più neanche a capire da qualche parte fossero i suoi piedi.

John, che si era perso la colluttazione, si riaffacciò dalla porta dentro la stanza, abbassando il cellulare dall'orecchio per comunicare il verdetto di Molly.

“Secondo Molly è plausibile che la debole forza dell'anziana abbia arrecato quei lividi,” iniziò a spiegare, non accorgendosi immediatamente dello stato di Sherlock, che gli dava le spalle, “e che sia comunque risultata letale per il- SHERLOCK!”

La vista completamente annerita, la testa piena di piombo, Sherlock mosse un altro passo, e cadde a terra di colpo a peso morto.

La mano di John venne colta da uno dei suoi spasmi d'ansia e non riuscì a trattenere il cellulare, che ricadde ai suoi piedi. Immediatamente, il dottore si gettò su Sherlock, accovacciandosi al fianco del compagno privo di sensi. Gli occhi di Sherlock erano completamente girati e si vedevano solo le pupille arrossate fra le palpebre aperte, dall'angolo della bocca dischiusa usciva un filo di saliva, e il corpo era sconvolto da leggeri tremiti. Sotto shock, John riuscì comunque a mantenere il controllo di soldato e scattare all'azione. Girò Sherlock sul fianco e gli aprì la bocca, verificando che non si stesse strozzando con la lingua. Poi portò due dita al collo di Sherlock per controllare il battito. Debole, lento, ma regolare. Un primo sollievo, almeno aveva margine d'azione. Notò subito dopo qualche millimetro sotto alle sue dita il segno della puntura, che aveva lasciato una piccola ferita circolare, e a qualche metro di distanza la siringa vuota sul pavimento. Fece due più due.

“Cosa gli ha fatto?!” urlò alla Larson che stava ancora riacquistando l'equilibrio dopo la spinta violenta, a poca distanza dall'altro lato della stanza. John aggrottò le sopracciglia e assunse lo sguardo più furente e indemoniato che fosse mai comparso sul suo volto. Infilò una mano dentro al cappotto ed estrasse la pistola. Questa volta era venuto preparato. La punto contro la Larson, per darle un piccolo incentivo nel rispondere. “Cosa gli ha fatto?!” ruggì di nuovo, “cosa gli ha iniettato?!”

La Larson sembrava altrettanto sgomenta e sconvolta, lo scatto folle che aveva avuto l'aveva prosciugata di ogni energia rimasta e dai suoi occhi assenti John capì che non avrebbe ricevuto risposta, e che non era più una minaccia. Abbassò di qualche centimetro la pistola e allungandosi raggiunse con l'altro braccio la siringa, cercando di ottenere qualche risposta da solo su quale fosse stato il contenuto con la sua esperienza di medico.

Dal cellulare gettato a terra a qualche passo da John stava uscendo la voce di Molly, ancora in linea e sonoramente preoccupata da quello che aveva sentito. Molly stava urlando il nome di John, quello di Sherlock, stava pregando di avere risposte ai suoni e parole allarmanti che aveva udito e che a distanza poteva capire solo a metà.

John era fuori di sé dalla rabbia e dal terrore. Rialzò la mira della pistola e irrigidì il dito sul grilletto. La tentazione di sparare alla Larson era forte e difficile da sopprimere, anche se era solo una donna distrutta e indifesa e non più un pericolo. Ma aveva fatto del male a una delle persone a cui John teneva più al mondo, e tutta la rabbia e il dolore che aveva represso in corpo stavano spingendo per uscire. Voleva vendicarsi, voleva spararle a sangue freddo e ucciderla perché aveva osato toccare Sherlock, il suo Sherlock, che adesso era riverso al suolo e forse non si sarebbe più rialzato. Spararle una pallottola in testa gli avrebbe permesso di espellere tutta la paura e l'impotenza e la collera che lo avevano impossessato. Ma poi John colse l'immagine della bambina, la figlia della Larson, rannicchiata sotto al tavolo, con le braccia sulla testa e gli occhi al suo livello, che gli riflettevano indietro il suo stesso terrore e avvilimento. Degli occhi così pesanti che avevano già visto troppo alla sua giovane età, e che spensero l'impulso primordiale che aveva preso il controllo di John, per far riaffiorare il suo lato umano.

Abbassò la pistola, mise la sicura e la rinfilò dentro alla tasca del cappotto. Il fuoco nei suoi occhi lasciò il posto ad una pozza di disperazione. Gettò le mani verso il suo cellulare che aveva gettato a terra, e da cui le grida di Molly arrivavano sempre più acute.

“Sherlock è stato avvelenato!” John gridò di rimando dentro al telefono, portandolo all'orecchio, “ho bisogno del tuo aiuto, Molly!”

 

***

 

Nel prossimo capitolo: La paura di perdere una persona amata rende tutto così sorprendentemente chiaro.

 

***

 

Nota dell'autore: Scusate per l'assenza delle scorse settimane, mi spiace che l'attesa per questo capitolo sia stata più lunga del solito, ma vari impegni e la scrittura di altre cose si sono messi nel mezzo >___< Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e sia valso l'attesa, fatemi sapere che ne pensate della soluzione del caso, degli sviluppi e del cliffhanger :) Un abbraccio alle gentilissime CreepyDoll, Hotaru_Tomoe e ilovehismusic per il continuo supporto, e in particolare a emerenziano che aveva già capito tutto nello scorso capitolo, complimenti per lo spirito deduttivo alla pari di Sherlock! ;) Grazie mille a tutti i lettori per la pazienza, la comprensione e il sostegno. Alla prossima!

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